La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi
 9788822906366, 9788822912244

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Corrado Claverini La tradizione filosofica italiana

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Quattro paradigmi interpretativi

Quodlibet

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© 2021 Quodlibet s.r.l. Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 www.quodlibet.it isbn 978-88-229-0636-6 | e-ISBN 978-88-229-1224-4

Materiali IT Collana diretta da Dario Gentili e Elettra Stimilli.

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Comitato scientifico: P aolo B artoloni, G reg B ird, V ittoria B orsò, S ieglinde B orvitz, Daniela Calabrò, Timothy Campbell, Edgardo Castro, Felice Cimatti, Donatella Di Cesare, Gianfranco Ferraro, Simona Forti, Federica Giardini, Céline Jouin, Vanessa Lemm, Enrica Lisciani Petrini, Davide Luglio, Federico Luisetti, Pietro Maltese, Danilo Mariscalco, Claudio Minca, Mena Mitrano, Marcello Mustè, Elena Pulcini, Constanza Serratore, Giusi Strummiello, Davide Tarizzo, Miguel Vatter.

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Indice

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1.

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Introduzione Questioni preliminari



17 1.1 Il rapporto tra storia e filosofia

21 1.2 Il pericolo del nazionalismo

24 1.3 Stato, nazione, territorio

2. Bertrando Spaventa filosofo militante

31 2.1 Una filosofia per l’Italia 38 2.2 La teoria della circolazione 47 2.3 Filosofia e rivoluzione nazionale

3. Giovanni Gentile storico della filosofia italiana

53 3.1 Lo sguardo gentiliano sull’Umanesimo 66 3.2 La potenza del Rinascimento, la forza del Risorgimento 83 3.3 Oltre la lezione spaventiana

4. Eugenio Garin: il ritorno alla storia



87 4.1 Le critiche a Spaventa e Gentile

92 4.2 La Storia della filosofia italiana

98 4.3 La filosofia italiana fra vocazione etico-civile e pensiero tragico

5

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indice



5.

Roberto Esposito e l’Italian Thought

105 5.1 L’Italian Thought: un nuovo paradigma interpretativo 114 5.2 Italian Thought: questioni aperte 121 5.3 La filosofia italiana negli Stati Uniti 125



Conclusioni Note

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Riferimenti bibliografici

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Introduzione

Uno dei temi filosofici più discussi degli ultimi anni è senz’altro quello relativo alla specificità del pensiero italiano. In particolare, le domande al centro dei dibattiti sono di due tipi: a) è legittimo parlare di una filosofia italiana? Oppure la filosofia, in quanto tale, è apolide e non è determinata da fattori di tipo territoriale? b) Posto che sia ammissibile l’esistenza di una filosofia specificamente italiana, qual è la sua essenza? È possibile individuare caratteri peculiari che la contraddistinguano rispetto ad altri patrimoni di pensiero, come quello inglese, tedesco o francese? Oggi l’argomento è, appunto, al centro dell’interesse di molti studiosi. Ma occorre chiarire fin da subito che la questione riguardante la specificità del pensiero italiano non è nuova. Molti studi riconoscono che il primo a trattare in maniera consapevole questa tematica nell’ambito della storiografia filosofica è stato Bertrando Spaventa nella Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, 23 novembre-23 dicembre 18611, testo maggiormente noto con il titolo La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea2. E, dopo di lui, si sono occupati del problema Luciano Fabiani3, Guido De Ruggiero4, Valentino Piccoli5, Francesco Marcianò6, ma soprattutto Giovanni Gentile7 ed Eugenio Garin8, in opere assai articolate e decisive. È da notare inoltre che, da un certo momento del Novecento in poi, piuttosto che scrivere «storie della filosofia italiana» tese a offrire al lettore una visione d’insieme della tradizione nazionale, gli studiosi si interrogano sullo stato attuale della filosofia in Italia9. Infine, negli ultimi anni, sono uscite numerose pubblicazioni che forniscono diverse ricostruzioni della filosofia italiana: riviste10, 7

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la tradizione filosofica italiana

atti di convegni11, monografie in lingua inglese12. Ma non solo. Da una parte vi sono i continuatori dell’opera di Eugenio Garin, come Michele Ciliberto, che nel 2012 ha curato un volume dedicato al contributo italiano alla storia del pensiero filosofico13 in cui tenta di aggiornare il paradigma gariniano nell’epoca della globalizzazione e della crisi degli stati nazionali. Dall’altra vi sono studiosi, come Roberto Esposito, che parlano diffusamente di Italian Thought, Italian Theory, ma anche in altri casi di Italian Radical Thought e Italian Difference14. Sebbene la prospettiva interpretativa del primo autore citato sia molto diversa da quella del secondo, entrambi condividono l’esigenza di confrontarsi con la tradizione nazionale, facendo i conti con un mondo sempre più globalizzato. Nel presente saggio saranno analizzate le principali posizioni in merito al senso e alla produttività che può avere il costante raccordo del pensiero italiano con la propria tradizione e quanto questo raccordo possa oggi funzionare per riorientare lo sguardo filosofico liberandolo da talune «incrostazioni» moderne ormai esaurite o quantomeno divenute assai problematiche. Tale questione verrà affrontata soprattutto attraverso lo studio di un preciso vettore filosofico – quello della «storia della filosofia italiana» – il cui iniziatore è il già menzionato Spaventa. Infatti – prima dell’Italian Thought – è stato proprio tale vettore filosofico a interrogarsi costantemente e con molta forza sull’identità e il ruolo del pensiero italiano. Ma, prima di esaminare le principali prospettive interpretative, dovremo discutere e cercare di risolvere tutta una serie di questioni preliminari già anticipate in apertura. Innanzitutto, occorre chiedersi se sia possibile parlare di una filosofia declinata in senso nazionale o territoriale: infatti, la filosofia aspira per sua natura all’universalità; e l’essere eventualmente determinata da fattori di tipo geografico sembra contraddire questa sua vocazione costitutiva. In secondo luogo, bisogna chiarire, a proposito dell’espressione «filosofia italiana», il significato da dare all’aggettivo «italiana»: ci riferiamo alla nozione statuale o a quella nazionale o, ancora, a quella geofilosofica di territorio? In terzo luogo, è necessario ragionare anche sui pericoli che comporta una riflessione di questo tipo il cui rischio concreto è di trasformarsi in ideologia nazionalista. Un altro punto decisivo che dovremo affrontare è che cosa significa e che senso ha oggi parlare di una tradizione specificamente ita8

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introduzione

liana in un mondo sempre più globalizzato. Per esempio, sarà utile discutere il valore che può avere la riscoperta di tale patrimonio di pensiero nell’attuale contesto europeo e mondiale. Il che può essere anche un’occasione per riflettere sull’identità italiana e su quella europea. Del resto, che l’argomento preso in esame in questo saggio non sia qualcosa di anacronistico, è dimostrabile semplicemente guardando alle numerose pubblicazioni recenti già ricordate. La prima tappa del cammino che qui verrà percorso sarà quindi il confronto con l’opera di Spaventa La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea e con i successivi modelli interpretativi che si sono interrogati sul rapporto con la tradizione italiana e la sua specificità. La proposta del filosofo abruzzese è nota come la teoria della «circolazione europea del pensiero italiano». Rifiutando il mito del carattere nazionale del pensiero, Spaventa si contrappone a quanti – come Vincenzo Gioberti – si facevano portavoce di una filosofia italiana antichissima, quale quella che dà il titolo a una nota opera giovanile di Giambattista Vico, De antiquissima italorum sapientia. Viceversa, secondo la prospettiva avanzata da Spaventa, i grandi protagonisti del pensiero italiano rinascimentale e post-rinascimentale hanno precorso le più importanti conquiste del pensiero occidentale moderno: Bruno e Campanella anticipano rispettivamente Spinoza e Cartesio, così come Bacone e Locke sono preceduti da Telesio; mentre è un pensatore della statura di Vico che precorre Kant e, soprattutto, incentrando la sua riflessione sulla dimensione della concretezza storica, l’idealismo tedesco. Tuttavia, la tesi della «circolazione europea del pensiero italiano» non si limita a questo, poiché, secondo Spaventa, la filosofia – nata in Italia e sviluppatasi nelle altre nazioni europee e, in particolare, in Germania – ritorna nella Penisola con Galluppi, Rosmini e Gioberti, i quali invererebbero così Kant e l’idealismo tedesco. Tale paradigma interpretativo, come già si comincia a vedere, al di là della sua plausibilità storiografica, ha il merito di porre la questione ancora oggi attuale della specificità della tradizione filosofica italiana. Non a caso, l’opera in questione – La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea – fin dalla sua pubblicazione ha determinato in maniera massiccia il dibattito successivo. Solo per fare un esempio, nel 1897 Gentile si laurea con una tesi su Rosmini e Gioberti mostrando, in chiave spaventiana, come questi due 9

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autori risorgimentali siano coloro che hanno portato in Italia – inverandoli – Kant e l’idealismo tedesco. Appunto sulla scia del lavoro di Spaventa, prolungandolo, lavora Gentile – seconda tappa del nostro percorso. Questi infatti innanzitutto tributa un grande riconoscimento alla prospettiva spaventiana, come si legge in queste righe: «quel gran fatto della circolazione del pensiero europeo […] a noi pare il risultato più cospicuo, a cui sia pervenuta in Italia la critica della nostra storia filosofica, e che avrebbe dovuto fissare definitivamente, come un punto fermo, il valore che nello svolgimento della filosofia moderna devesi attribuire ai nostri, e fra essi specialmente al Rosmini»15. Ma inoltre – e soprattutto – dopo essersi occupato di Galluppi nell’opera Dal Genovesi al Galluppi (titolo che sarà mutato nella seconda edizione in: Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi), diede spazio anche a Genovesi e ad altri pensatori napoletani che non erano stati presi in considerazione nella formulazione della teoria della circolazione. In tal senso, egli si fa prosecutore e integratore dell’opera di Spaventa, del quale aveva curato nel 1900 per l’editore Morano di Napoli gli Scritti filosofici, preceduti da un’ampia prefazione, che poi, con il titolo Bertrando Spaventa, fu ripubblicata a parte con cospicue aggiunte dall’editore Vallecchi nel 1924. A questa curatela fecero seguito molte altre, tra cui, nel 1908, la qui più volte citata Filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea. Insomma, come ebbe a sintetizzare Gentile, con Spaventa «comincia in Italia lo studio serio della storia della filosofia. Prima non s’erano avuti se non informi tentativi, specie di cataloghi, storie esterne, compilazioni»16. Nell’esprimere il proprio severo giudizio nei confronti della storiografia filosofica italiana, Gentile continua così una battaglia cominciata da Spaventa allorché aveva affermato (riferendosi al Della istoria e della indole di ogni filosofia di Appiano Buonafede): «il tempo di frate Cromaziano deve finire»17. In breve, occorreva abbandonare gli atteggiamenti di mera erudizione e dossografia insieme alle più sfrontate operazioni ideologiche (infatti, come vedremo, l’opera spaventiana è innanzitutto un’alternativa all’ideologia neoguelfa propugnata da Gioberti, il quale riprende il mito dell’antica sapienza italica così come avevano fatto, tra gli altri, Vico e Cuoco18). Questo non significava che, per Gentile, la proposta storiografica di Spaventa fosse priva di difetti. Non a caso, 10

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introduzione

come mostreremo in dettaglio, il principale obiettivo di Gentile sarà quello di porre rimedio ad alcune lacune presenti nella teoria della circolazione. Quest’ultima, in effetti, postulava due «vuoti» di pensiero in Italia fra Campanella e Vico e fra Vico e Galluppi, che Gentile criticherà apertamente e cercherà di colmare, proponendosi di rendere «continua» quella circolazione del pensiero che, nell’originale versione spaventiana, era invece piena di momenti morti e interruzioni. Si capisce dunque perché le pagine gentiliane costituiscono, senza ombra di dubbio, il secondo dei principali paradigmi interpretativi a cui ci affidiamo. A questo proposito, occorre innanzitutto prendere in esame i fascicoli che uscirono dal 1904 al 1915 nella collana «Storia dei generi letterari italiani» dell’editore Vallardi. Il progetto dell’editore era quello di una completa storia della filosofia italiana scritta da Gentile. Ma nel 1915 i fascicoli si interrompono a Lorenzo Valla. In effetti, La Filosofia vallardiana è più nota con il titolo Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla. Secondo Garin, tuttavia, è possibile integrare questo progetto editoriale, rimasto incompiuto, dato che in quell’anno «Gentile aveva al suo attivo una serie di volumi capaci di costituire, se riuniti, quella storia completa della tradizione filosofica nazionale che era venuto vagheggiando da tempo»19. Il che ha reso possibile, nel 1969, la cura da parte di Garin, per l’editore Sansoni, di una completa Storia della filosofia italiana di Giovanni Gentile in due volumi, mettendo insieme in un’unica pubblicazione diverse opere: La Filosofia vallardiana, Dal Genovesi al Galluppi, Rosmini e Gioberti, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, nonché i saggi rinascimentali e vichiani. In questi scritti appare subito evidente la differenza d’impostazione rispetto a Spaventa: in Gentile si parte dal Medioevo, si analizza approfonditamente l’Umanesimo e vengono trattati alcuni pensatori napoletani vissuti tra Vico e Galluppi (in primis Genovesi). Le più evidenti lacune presenti nella teoria della circolazione sono così colmate – anche se occorre ricordare che la Storia della filosofia italiana di Gentile è stata, appunto, il frutto di una curatela successiva e che il progetto vallardiano originario non era stato portato a termine. Tuttavia, prima dell’uscita di questa curatela, era già possibile leggere un’importante storia della filosofia italiana. Infatti, nel 11

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la tradizione filosofica italiana

1947, il catalogo della collana «Storia dei generi letterari italiani» dell’editore Vallardi, dopo La Filosofia di Giovanni Gentile (19041915), fu arricchito con La Filosofia di Eugenio Garin. Era stato lo stesso Gentile a suggerire all’editore il nome dello studioso per il completamento dell’opera, che lui non era riuscito a ultimare. Ringraziando Gentile in una lettera, il giovane Garin afferma di essere orgoglioso di poter portare a termine un lavoro iniziato «tanto magistralmente»20, provando «grande piacere» e «vera gioia»21, ma sentendo al tempo stesso il peso della responsabilità. Quella di Garin è, ancora oggi, una delle più complete e filologicamente accurate opere di questo genere storico-filosofico. Essa ebbe altre due edizioni (ampliate e modificate in alcuni punti rispetto alla prima) pubblicate da Einaudi rispettivamente nel 1966 e nel 1978 con il titolo Storia della filosofia italiana. Le edizioni einaudiane hanno svolto un ruolo di primaria importanza negli studi storico-filosofici successivi. Ecco perché Garin rappresenta il terzo principale paradigma interpretativo, qui studiato. Diciamo subito in che cosa è consistita tale sua importanza. Garin – nell’analizzare il pensiero italiano dal Medioevo alla contemporaneità – ha abbandonato criticamente tutta una serie di categorie storiografiche utilizzate diffusamente da Spaventa e Gentile e ha adottato un’impostazione che si distingue innanzitutto nel metodo. Condividendo la medesima concezione della storiografia filosofica, i due pensatori idealisti facevano largo uso di categorie come «precorrimento», «superamento», «inveramento», «progresso», «unità», «trascendenza», «immanenza». Si è già rilevato come, in Spaventa, la modernità della filosofia italiana fosse tutta nell’«ingegno precursore»: il soggetto cartesiano è già in Campanella, il panteismo spinoziano in Bruno, la rivoluzione copernicana di Kant e la storicità idealistica in Vico. V’è di più: la valorizzazione di soggetto, natura e storia – avvenuta in Italia prima ancora che in Europa – implica il fatto che in Spaventa modernità non significhi soltanto precorrimento, ma anche immanenza. Il Rinascimento immanente è contrapposto al Medioevo trascendente e l’intera storia della filosofia è un processo di progressiva immanentizzazione dalla trascendenza medievale all’immanentismo assoluto costituito dallo stesso idealismo. In altre parole, la storia della filosofia è un processo unitario e teleologicamente orientato: essa è, in tal senso, filosofia della storia. 12

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introduzione

Tale concezione – tanto spaventiana quanto gentiliana – viene appunto abbandonata da Garin, il quale vuole innanzitutto restituire alla storia la sua storicità. Non vi è alcuna necessità o svolgimento logico nella storia. Essa è processo libero e non teleologicamente orientato dalla trascendenza all’immanenza. Lo stesso rapporto fra Medioevo e Rinascimento è più sfumato e non è interpretabile secondo lo schema netto della frattura fra trascendenza e immanenza (o secondo quello opposto della continuità), essendoci ora elementi di novità, ora elementi che permangono, stando alla nota tesi gariniana dell’«originalità nella continuità». Nonostante la diversità di approccio, anche Garin ammette l’esistenza di una specifica tradizione filosofica italiana, che tuttavia è troppo varia e complessa per fissare la sua «differenza» in una sola caratteristica peculiare. Ma vi è almeno un aspetto che, secondo lo studioso, contraddistingue la filosofia italiana nella sua pur irriducibile complessità. Essa non è mai stata una filosofia sistematica, ma piuttosto una filosofia mondana che presta molta attenzione alla dimensione umana e storica (in particolare alla filologia, alla politica, alla morale e alla religione). La Filosofia di Garin è stata per molto tempo l’ultima opera a offrire una visione d’insieme dell’intera vicenda del pensiero nazionale. Dal 1947, anno in cui fu pubblicata, gli studiosi hanno adottato uno scorcio prospettico più ravvicinato e concentrato sugli eventi recenti. A testimonianza di questo cambiamento è possibile menzionare le Cronache di filosofia italiana (1900-1943) pubblicate nel 1955 dallo stesso Garin, ma anche la raccolta di saggi, uscita nel corso degli anni Ottanta, La cultura filosofica italiana dal 1945 al 198022 e il recente volume collettaneo La filosofia italiana nel Novecento. Interpretazioni, bilanci, prospettive23. Accanto a tale tendenza, ancora oggi presente, è da segnalare un altro tentativo di interpretazione d’insieme che ha avuto, fra le altre cose, il merito di ridare una notevole risonanza alla tematica in questione anche fuori d’Italia. Stiamo parlando di Roberto Esposito che, come si accennava sopra, nel 2010 ha pubblicato Pensiero vivente, la cui tesi portante viene sviluppata anche in Da fuori, uscito nel 2016. Esposito elabora una peculiare ricostruzione del pensiero italiano, dall’Umanesimo fino all’odierno Italian Thought, proprio con l’intento di mettere tale pensiero in tensione dialettica e insieme contrastiva con altre due tradizioni di pensiero approdate negli Stati 13

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la tradizione filosofica italiana

Uniti nel corso del Novecento e che lì hanno riscosso un particolare successo: la German Philosophy e la French Theory. Dunque la dizione oggi prevalente di Italian Thought – va subito chiarito – fa riferimento a tale successo, dovuto alla diffusione delle opere di taluni filosofi italiani contemporanei (in particolare Negri, Agamben e lo stesso Esposito), così come la diffusione della German Philosophy e della French Theory in territorio statunitense ebbe inizio rispettivamente: con l’emigrazione forzata di Adorno, Horkheimer e Marcuse; e a partire dalla partecipazione di Derrida e altri intellettuali francesi ad una conferenza del 1966 alla John Hopkins University. In sintesi, lo scopo di questo nostro lavoro è quello di confrontarci con l’Italian Thought e – prima di questo – con le principali interpretazioni che ammettono l’esistenza di una tradizione filosofica italiana e ne cercano i tratti peculiari. I punti di forza e i limiti di tali interpretazioni verranno esaminati e valutati. Nel primo capitolo tratteremo le questioni preliminari comuni a tutti gli studiosi che si sono occupati di tale tematica. Nei capitoli centrali analizzeremo i paradigmi interpretativi che abbiamo già cominciato a introdurre nelle pagine precedenti e, in particolare, Bertrando Spaventa (nei suoi rapporti con il mito della sapienza italica, già presente, tra gli altri, in Vico, Cuoco e Gioberti), Giovanni Gentile, Eugenio Garin (con alcuni accenni agli studiosi che recentemente si sono richiamati alla sua opera) e, infine, Roberto Esposito (con particolare attenzione all’Italian Thought). Nel capitolo finale riassumeremo i risultati raggiunti nell’analisi delle diverse proposte interpretative ed elencheremo i principali caratteri che – secondo l’ottica qui adottata – dovrebbe avere una storia della filosofia italiana pensata all’altezza dei nostri tempi. In altri termini, chiunque voglia prendere in esame la specificità della filosofia italiana e quella dell’odierno Italian Thought, non solo dovrebbe affrontare tutta la serie di questioni preliminari che hanno tentato di risolvere gli autori sopra nominati sui quali si concentra il presente lavoro, ma dovrebbe anche tenere conto del contesto in cui oggi ci troviamo, ovvero di un panorama sempre più globalizzato, in cui i concetti di nazionalità e di tradizione vanno ripensati profondamente24. Ecco perché una ricerca di tal genere è necessaria e non anacronistica. Infatti è di fondamentale importanza oggi tentare di rispondere ad alcuni interrogativi di stringente attualità: che valore hanno le tradizioni nazionali (nel 14

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introduzione

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nostro caso filosofiche)? È opportuno continuare a usare il concetto di nazionalità? E in che modo? Anche perché è bene evitare che l’utopia illuministica della pace perpetua internazionale si trasformi nella distopia di un cosmopolitismo indifferenziato. La soluzione non risiede certo nella chiusura nazionalistica, da respingere tanto quanto la globalizzazione transnazionale. Rifiutando sia il globalismo, sia il nazionalismo, occorre quindi chiedersi: è pensabile una terza via alternativa tanto al nazionalismo quanto al globalismo? Ovvero, è possibile una salvaguardia delle culture nazionali senza nazionalismo? È concepibile un «internazionalismo»25 alternativo al paradigma «globalitario»? Sono queste le domande che ci accompagneranno lungo il tragitto che si dispiegherà nei prossimi capitoli e a cui si è cercato di rispondere. *** Ringraziamenti. Questo libro è il risultato di un lungo percorso segnato da molti incontri decisivi con persone verso le quali ho contratto un debito di riconoscenza perenne. Innanzitutto verso Andrea Tagliapietra, con lui ho svolto il mio dottorato di ricerca e lo ringrazio dunque non solo di avermi seguito nell’elaborazione della tesi – dal cui nucleo iniziale questo libro ha poi preso forma –, ma soprattutto di avermi insegnato la cosa più importante: il valore e il significato della ricerca scientifica. Ringrazio inoltre Dario Gentili ed Elettra Stimilli per aver accolto questo libro nella collana Materiali IT da loro diretta presso Quodlibet. Un profondo ringraziamento sento poi di dover esprimere a Enrica Lisciani-Petrini, che ha segnato in maniera indelebile il mio lavoro diventando per me un punto di riferimento e di stimolo al costante miglioramento. Ringrazio infine mia madre: per l’incoraggiamento, da sempre, a seguire la mia strada con costanza e determinazione. Nel lavoro come nella vita.

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1. Questioni preliminari

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1.1 Il rapporto tra storia e filosofia Allorché la filosofia si sporge sulla storia calandosi in essa e tenta di «pensarla» – come direbbe Hegel – c’è una questione preliminare da sollevare: la filosofia è determinata da fattori di tipo storico e/o geografico? Se la risposta a questa domanda è affermativa, come è possibile conciliare l’aspirazione universalistica della filosofia con il suo essere spazio-temporalmente determinata? Per rispondere a tali interrogativi si può citare un passaggio molto perspicuo di Eugenio Garin: Circa la prima difficoltà, derivante dalla pretesa antinomia fra «universalità» della filosofia e «particolarità» di un pensiero nazionale, essa ha perso molta della propria drammaticità via via che si è venuto chiarendo proprio il senso vario della ricerca filosofica, il suo legarsi essenzialmente a un tempo. Se, almeno fino a un certo punto, potrà dirsi che non c’è una matematica cinese, indiana, greca ma, semplicemente, la matematica, si è visto con sempre maggiore evidenza che le filosofie, ossia quel complesso di elaborazioni concettuali che così si denominano, hanno un preciso aggancio a situazioni storiche definite, a condizioni e a limiti di fatto determinati o determinabili. Se le idee non nascono, come non nascono, per partenogenesi, e il discorso filosofico è sempre, per usare un’espressione platonica, un discorso bastardo, la realtà storica del filosofare importerà sempre un riferimento a situazioni specifiche, entro dimensioni spazio-temporali1.

Non riconoscere il fatto che la filosofia sia spazio-temporalmente determinata significherebbe rimuovere il nesso innegabile che lega le idee alla storia, come se le idee nascessero per partenogenesi 17

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la tradizione filosofica italiana

le une dalle altre e fossero disincarnate rispetto al contesto nel quale sono pensate. In altre parole, escludere che la filosofia sia determinata dal contesto sociale e culturale equivarrebbe a riconoscere che i filosofi pensino a prescindere dal proprio tempo, su un piano situato al di là della dimensione storica. Inoltre, ammettere che la storia non influisca sulla genesi delle idee sarebbe come spogliare la storia della sua storicità, cioè ridurre la storia ad una mera linea temporale su cui sono disposti puri concetti pensati sub specie æternitatis. In questa linea temporale si disporrebbero idee che si succedono, si contrastano, si negano, ma che appunto procedono su un piano altro rispetto a quello della reale concretezza. Tale susseguirsi di idee si configurerebbe così come una vicenda puramente «mentale», in cui l’elemento storico si riduce a mero ordine del tempo utile a scandire la successione cronologica delle dottrine filosofiche. Una tale visione ideologica attecchisce, in vero, in diversi luoghi del nostro tempo. La celebre opera di Francis Fukuyama The End of History and the Last Man è soltanto uno dei possibili esempi a testimonianza del generale movimento di rimozione della storicità che si manifesta a ogni latitudine filosofica. Ma si veda anche certa filosofia analitica, caratterizzata, in generale, dal rifiuto totale o parziale della storia e di autori che fanno della storicità il fulcro del proprio pensiero. Un pericolo complementare e opposto alla rimozione dell’elemento storico è quello dello storicismo assoluto, ovvero il pensare che i concetti si risolvano interamente nella loro storia. Senza vedere che vi è un movimento di reciproca influenza tra essere e pensiero, realtà e idee, storia e filosofia. V’è di più: il rifiuto dell’elemento storico è la causa principale della genesi di ogni pensiero ideologico, cioè di visioni del mondo che concepiscono la realtà come intrasformabile e necessaria. Oggi – questo il ritornello che costantemente viene ripetuto – ogni passione utopica deve essere abbandonata, reprimendo quello che Gramsci chiamerebbe «spirito di scissione»2. Non a caso, come rileva acutamente Marc Augé3, la forma utopica che caratterizza l’odierna epoca della globalizzazione è quella dei «non luoghi» carichi di presente, ovvero stazioni, aeroporti, centri commerciali il cui tratto saliente è la rimozione postmoderna della storicità e l’esposizione assolutizzata della forma merce. L’utopia non è più concepita in 18

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1. questioni preliminari

termini spaziali come un luogo felice situato in un perenne altrove4, né come un «tempo altro» dal quale ci si attende più razionalità, illuminismo ed emancipazione5. Questo mutamento è dovuto al fatto che l’idea di utopia – così come qualsiasi altra idea filosofico-politica – non ha soltanto una funzione dinamica di trasformazione della realtà, ma è al tempo stesso determinata dalle metamorfosi sul piano sociale e politico6. Per esempio, le «utopie del tempo» – o «eucronie» – si diffondono nell’epoca dell’Illuminismo, poiché in questo periodo nasce l’idea del progresso; e di concerto – non a caso – la filosofia della storia. Nello stesso modo, i «non luoghi» odierni riflettono lo spirito del tempo presente, in cui la dimensione del futuro e dell’aspettativa ha perso la sua egemonia a favore di quella del presente e della rassegnazione, a seguito della rimozione della storicità come teatro della possibile trasformazione. Fra storia e filosofia vi è, dunque, un rapporto di mutua implicazione che – prima di qualsiasi discussione sul pensiero italiano – è necessario comprendere a fondo. Infatti, è proprio la natura di tale rapporto che permette di conciliare le due definizioni di filosofia che fornisce Hegel in maniera apparentemente contraddittoria: da un lato la filosofia «è il tempo di essa appreso in pensieri»7, dall’altro si occupa di «ciò che è ed è eterno»8. Detto altrimenti: se è vero che la filosofia è una e aspira a essere universale, è altrettanto vero che essa è storicamente e geograficamente determinata. Dunque, parlare di filosofia nazionale non vuol dire ridurre le pretese di universalità della filosofia, considerandola un mero fenomeno storico e geografico, ma significa essere consci che la verità, pur avendo sempre una genesi particolare, mantiene la sua validità universale. Proprio la vicenda di un pensatore italiano – quella di Cesare Beccaria – può chiarire bene questo concetto. Il fatto che il pensiero di Beccaria sulla necessità di abolire la pena di morte abbia avuto una genesi particolare non inficia la sua validità universale. In altri termini – come è stato sottolineato – «non si tratta qui di una rivalutazione patriottica delle filosofie nazionali a discapito di un modello universalistico di ragione e di argomentazione»9. Poiché «la filosofia – come l’arte e la religione, direbbe Hegel, e perché no la letteratura e la musica –, che lo si gradisca o meno, ha la capacità di essere espressione universale di principi e contenuti proprio 19

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la tradizione filosofica italiana

perché è insieme rivelazione di singolarità e circostanze sempre determinate»10. Ancora una volta, è Hegel che consente di pensare il nesso dialettico tra ontologia e temporalità, tra verità e storia, tra eternità e finitezza, tra validità universale e genesi particolare della filosofia. Discorrere di filosofie nazionali equivale ad ammettere il fatto che la filosofia è storicamente determinata. Il che non significa ridurre la filosofia a espressione particolare di una cultura nazionale, cioè la verità di un’idea alla sua storia particolare. In altre parole, «non si intende affermare che non esista una dinamica teoretica generale, ossia sovranazionale e sovralinguistica, dato che è innegabile la natura concettuale e intenzionale del pensiero, bensì che all’interno del dispiegamento della ragione e dello spirito non si possa comunque prescindere dall’elemento concreto, dalla situazione storica, dalla tradizione culturale e religiosa, dalla dimensione linguistica, dall’ambiente, in cui si radica una comunità e in cui una filosofia poi vi trova espressione»11. Insomma, occorre tenere insieme l’elemento storico (nella fattispecie nazionale) e quello veritativo (nella fattispecie internazionale): Se da una parte sembra evidente il carattere «universale» della riflessione filosofica, specialmente quando essa affronta i grandi temi della metafisica e dell’ontologia ad un livello tale di astrazione concettuale da escludere ogni commistione con le particolari caratteristiche della società in cui sorge, è altrettanto evidente che se si concepisce, invece, il sapere filosofico come un sapere storico, una serie di risposte che vengono date ai problemi che la vita individuale e sociale di volta in volta pone, diventa necessaria e inevitabile la distinzione da compiere fra le diverse storie della filosofia, ciascuna legata alle specifiche vicende attraversate dalle singole comunità nazionali. Non si tratta, in questo caso, di fare del facile sociologismo o di declassare la filosofia a ideologia, a semplice espressione di ben precisi fenomeni sociali, ma di cogliere piuttosto, attraverso l’esame dei singoli pensatori, i tratti almeno parzialmente originali di una determinata tradizione di pensiero12.

Lo stesso Alain Badiou, analizzando il pensiero francese contemporaneo, ha preso sul serio la questione della legittimità di un discorso sulla nazionalità della filosofia, elencando i numerosi rischi cui si va incontro. Infatti, il sintagma «“filosofia francese”» – egli scrive – «può sembrare contraddittorio (la filosofia o è universale, o non esiste), sciovinista (che cosa intendere, oggigiorno, con l’aggettivo “francese”?), e al contempo imperialista (il solito occidentalo-centrismo?) e antiame20

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1. questioni preliminari

ricanista (la french touch contro l’accademismo analitico dei dipartimenti di filosofia delle università anglosassoni)»13. E conclude significativamente: «senza rimettere in causa la vocazione universale della filosofia, da me sistematicamente difesa, bisogna comunque convenire del fatto che il suo svolgimento storico comporta delle discontinuità, sia temporali che spaziali»14. Insomma, «occorre pur riconoscere che esistono dei momenti della filosofia, delle localizzazioni singolari dell’invenzione a risonanza universale di cui essa è capace»15.

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1.2 Il pericolo del nazionalismo Se a livello filosofico – come si è visto nel precedente paragrafo – si può tenere insieme la validità universale della filosofia e la sua genesi particolare (ovvero l’elemento veritativo e quello storico), a livello politico è possibile risolvere la querelle fra cosmopoliti e patrioti mostrando la non contraddittorietà dei loro principi apparentemente opposti16. In tale direzione è necessario chiarire che parlare di nazione non significa essere nazionalisti e che il concetto di «filosofia nazionale» non ha nulla a che vedere con l’idea di «nazionalismo filosofico»17. Sin da subito va evitato qualsiasi fraintendimento in tal senso per non correre il rischio di trasformare il discorso qui proposto sulla filosofia italiana in ideologia nazionalista. Per mostrare la differenza fra nazione e nazionalismo è utile richiamarsi a Giuseppe Mazzini. Infatti il sentimento nazionale mazziniano non è in alcun modo interpretabile sciovinisticamente. Più volte il pensatore risorgimentale avverte che la missione italiana è di stampo universalistico-emancipativo. Pertanto, è possibile tenere insieme l’elemento nazionale e quello cosmopolita. Chi si appropriò del pensiero di Mazzini, dandone una lettura nazionalista, fu il fascismo18. Tuttavia tale lettura è difficilmente sostenibile se si tiene presente che lo scopo del pensatore genovese è quello della costruzione di una Terza Italia (uno stato unitario, repubblicano e democratico) e di una nuova civiltà prima in Europa e poi nel resto del mondo19. È per questo motivo che Mazzini non fondò solamente la Giovine Italia, ma anche la Giovine Germania, la Giovine Polonia e, da ultimo, la Giovine Europa. 21

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Il sentimento nazionale e il nazionalismo sono dunque due cose ben diverse. Il sentimento nazionale è la coscienza della peculiarità storica di un popolo, con i propri usi e costumi, la propria tradizione e la propria lingua. Viceversa, tale sentimento nazionale diventa nazionalismo quando un popolo, cosciente di avere delle caratteristiche particolari, proclama la propria superiorità rispetto ad altri popoli considerati inferiori. Il sentimento nazionale perciò non solo può portare un popolo a combattere per la propria indipendenza, ma – come dimostra bene appunto il caso di Mazzini – anche per quella degli altri popoli, considerati come fratelli, accomunati da una stessa missione per compiere la quale bisogna collaborare e lottare insieme. Insomma, come è stato giustamente rilevato, «i concetti di nazione e di nazionalità sono stati usati nella storia del pensiero politico anche per sostenere ideali di emancipazione e di solidarietà sociale»20. Ne sono una chiara dimostrazione John Stuart Mill, Carlo Pisacane e, appunto, Mazzini, nel quale l’elemento nazionale convive con quello cosmopolita. Egli è tutt’altro che nazionalista poiché pone «la nazione in connessione strettissima con l’umanità. La nazione non è fine a se stessa: anzi! È mezzo altissimo, nobilissimo, necessario, ma mezzo, per il compimento del fine supremo: l’Umanità, che è la Patria delle Patrie, la Patria di tutti»21. Quello mazziniano è, allora, un progetto di emancipazione universale mediato dal particolare nazionale: la Terza Italia è assunta come il tramite del progresso universale e non imporrà l’unità all’umanità, ma sarà accettata dal libero consenso dei popoli. In breve, ciò che Mazzini auspica è un «cosmopolitismo di nazioni»22. Anche Gramsci propone una mediazione tra il momento nazionale e quello internazionale, la cui relazione dialettica evita i due pericoli opposti ma complementari del nazionalismo e della globalizzazione. Secondo quanto egli scrive nei Quaderni del carcere «lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è “nazionale” ed è da questo punto di partenza che occorre prender le mosse»23. In questo processo che parte dal nazionale per giungere al sovranazionale, è assegnata dunque agli italiani la funzione di propulsori dell’universalizzazione: poiché gli intellettuali italiani hanno avuto da sempre una naturale tendenza al cosmopolitismo, soltanto essi potranno far coincidere l’interesse nazionale con quello univer22

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1. questioni preliminari

sale. L’internazionalismo pensato gramscianamente costituisce così un paradigma alternativo a quello globalizzante e omogeneizzante della forma merce. Le specificità culturali non vengono annullate, ma conservate nella relazione armonica inter nationes. Volgendo lo sguardo all’indietro – del resto – gli stessi Marx ed Engels, pur affermando che «l’unilateralità e l’angustia nazionali diventano sempre meno realizzabili e dalle molteplici letterature nazionali e locali prende a svilupparsi una letteratura globale»24, riconoscono apertamente la «sottile genialità italiana rintracciabile in Dante non meno che in Machiavelli»25. In quegli stessi anni, persino Gioberti aveva già ammesso una dialettica fra l’elemento nazionale e quello cosmopolitico: «né i partimenti nazionali offendono l’unione cosmopolitica, anzi ne fanno parte, perché l’universale non può stare senza il particolare e il conserto maggiore presuppone quelli di minor tenuta. Nei tempi antichi le nazionalità e le patrie erano contrarie alla cosmopolitia, perché la scarsa coltura fra loro le inimicava»26. E aggiungeva «che l’universalità è uno dei titoli più cospicui del genio italico; e che l’Italia fu sempre civilmente e religiosamente la più cosmopolitica delle nazioni»27. Alla luce di questi molteplici riferimenti, ora è più comprensibile in che senso particolare nazionale e universale filosofico possano conciliarsi e come il sentimento nazionale non sia sinonimo di nazionalismo. In altri termini, è necessario scongiurare fin da subito due pericoli che potrebbero sorgere quando si parla di pensiero italiano: a) non si vuole in alcun modo ridurre la filosofia a una moltitudine di filosofie locali e geograficamente collocate, pensate ciascuna entro coordinate spazio-temporali e, in quanto tali, prive di valore universale; b) tale discorso vuole essere estraneo a qualsiasi intento nazionalistico nella consapevolezza che – come rileva giustamente Schelling in Sull’opposizione nazionale in filosofia – «è impossibile che la filosofia veramente universale possa essere la proprietà di una singola nazione, e fino a quando una qualche filosofia non abbia superato i confini di un singolo popolo, si può ammettere con fiducia che essa non è ancora quella vera, anche se forse è sulla via giusta»28. Compreso questo, occorre anche tener ben presente il contesto in cui si va a riproporre un discorso sulla filosofia italiana, che certo non è quello di Spaventa all’indomani dell’unità, né quello di Garin 23

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la tradizione filosofica italiana

nel secondo dopoguerra. Attualmente è necessario fare i conti con una realtà globalizzata. In questa prospettiva, una tale tematica non costituisce un mero esercizio di ricostruzione storico-filosofica, ma, al contrario, un’occasione per riflettere sull’identità italiana e quella europea. Senza voler anticipare troppo le conclusioni, diciamo fin d’ora che la riscoperta delle varie tradizioni filosofiche nazionali – ribadiamo, in senso non nazionalistico – è uno dei passi fondamentali da compiere per rivelare uno degli aspetti più fecondi della ricchezza culturale dell’Europa. La diversità di tali tradizioni è infatti una risorsa, un mezzo utile per costruire una forte coscienza europea. Di conseguenza è fondamentale optare non per una politica di uniformazione culturale, ma per una di preservazione delle diverse culture – preziosissime in quanto differenti – presenti in Europa. Occorre difendere la dialettica interna tra unità e molteplicità senza commettere l’errore di pensare che la prima possa derivare solo da una omogeneità culturale. D’altro canto, però, valorizzare e difendere le peculiarità di ciascuna cultura non deve essere lo strumento per farne delle unità nazionali irrelate, tenute insieme soltanto da una moneta comune.

1.3 Stato, nazione, territorio A questo punto si pone l’altra questione preliminare, ovvero il significato da dare all’aggettivo «italiana» quando, appunto, parliamo di «filosofia italiana»: ci riferiamo alla nozione statuale, a quella nazionale, oppure a quella geofilosofica di «territorio»? Viene da sé, dopo quanto abbiamo detto finora, che non è la nozione di Stato quella a cui fa riferimento l’aggettivo «italiana». Infatti, lo Stato italiano ha una precisa data di nascita e, anche qualora in futuro venisse meno, si potrebbe ancora parlare di una tradizione filosofica nazionale. La quale è ben più antica del 1861 ed esisterà anche dopo – poniamo il caso – la fine degli Stati nazionali. Questa che abbiamo appena descritto è l’impostazione di Ciliberto29 che, aggiornando, come abbiamo già accennato, il paradigma di Garin nell’odierna epoca globalizzata, parla di una specifica tradizione filosofica italiana, dove per l’appunto l’aggettivo «italiana» non si riferisce allo Stato, bensì alla nazione. 24

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1. questioni preliminari

Ma questa non è l’unica impostazione possibile. Esposito, infatti, al posto del concetto scivoloso di nazione, utilizza la nozione geofilosofica di «territorio», prendendola in prestito da Qu’est-ce que la philosophie? di Deleuze e Guattari. Egli afferma che è «innegabile una qualche connessione tra filosofia e territorio»30, citando le famose parole dei due filosofi francesi: «pensare non è né un filo teso tra un soggetto e un oggetto, né una rivoluzione dell’uno intorno all’altro. Il pensare si realizza piuttosto nel rapporto fra il territorio e la terra»31. Il che – va sottolineato, come fanno Deleuze e Guattari – piuttosto che rimandare a qualcosa di fisso e immobile, implica una dialettica di territorializzazione e deterritorializzazione. Di qui l’estroflessione tipica della filosofia italiana, che – proprio in virtù della sua tendenza alla deterritorializzazione – è definita dai due autori francesi «ineguagliabile»: Così Nietzsche ha fondato la geo-filosofia, cercando di determinare i caratteri nazionali della filosofia francese, inglese, tedesca. Ma perché tre paesi soltanto furono collettivamente capaci di produrre filosofia nel mondo capitalista? Perché non la Spagna o l’Italia? L’Italia in particolare presentava un insieme di città deterritorializzate e una potenza marittima capaci di riprodurre le condizioni di un «miracolo» e segnò l’inizio di una filosofia ineguagliabile, che tuttavia abortì e la cui eredità passò piuttosto in Germania (con Leibniz e Schelling). Forse la Spagna era troppo sottomessa alla Chiesa e l’Italia troppo «vicina» al Soglio Pontificio; ciò che salvò spiritualmente l’Inghilterra e la Germania fu forse la rottura col cattolicesimo, e il gallicanesimo la Francia… All’Italia e alla Spagna mancava un «ambiente» per la filosofia, cosicché i loro pensatori restavano delle «comete», comete che entrambi i paesi erano pronti a bruciare32.

Insomma la filosofia italiana si deterritorializza per poi riterritorializzarsi in Germania, nella tradizione che va da Leibniz all’idealismo. Una tesi, questa di Deleuze e Guattari, che, come vedremo e come ammette lo stesso Esposito, ricorda molto quella della «circolazione europea del pensiero italiano» formulata da Spaventa. Per il momento, è importante evidenziare il fatto che, secondo Esposito, questa tendenza all’estroflessione della filosofia italiana è riscontrabile anche oggi, come dimostra l’interesse crescente che sta suscitando tale filosofia all’estero (in particolare nelle Università americane). Questo punto è fondamentale e costituisce uno dei nuclei centrali attorno a cui ruota Pensiero vivente dove l’autore tenta di elaborare 25

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la tradizione filosofica italiana

una «geofilosofia italiana» – così è intitolato significativamente uno dei primi paragrafi – e comincia la trattazione mostrando come, sin dalle sue origini rinascimentali, quello italiano si distingua per essere, appunto, un «pensiero vivente», ovvero una tradizione filosofica che ha nella categoria di vita il suo costante oggetto di indagine. Vedremo in un secondo momento i dettagli della proposta teorica di Esposito. Per ora, concludendo il presente capitolo, ciò che importa approfondire è il significato di tale movimento geofilosofico di deterritorializzazione e territorializzazione e insistere sul modo in cui pensiero e territorio si influenzano vicendevolmente. Ma domandiamoci: perché proprio nel territorio italiano e non altrove si sono verificate certe condizioni per le quali la filosofia di Machiavelli o di Bruno è stata – come direbbe Vico – «tale e non altra»33? In che modo il territorio ha costituito uno dei fattori determinanti nella formazione del loro pensiero filosofico? Se davvero è legittimo parlare di filosofia, declinandola in senso territoriale (piuttosto che statuale o nazionale), qual è concretamente il modo in cui il territorio ha una qualche influenza sulla genesi delle idee? In tale contesto può essere utile richiamare quella che – a nostro avviso – è una delle più belle e suggestive trattazioni geofilosofiche del pensiero rinascimentale italiano, tedesco e inglese. Il riferimento è alle lezioni sulla Filosofia del Rinascimento che il filosofo marxista Ernst Bloch tenne all’Università di Lipsia tra il 1952 e il 195634. L’argomento di queste lezioni è la complessa genesi della modernità; di conseguenza, secondo Bloch, confrontarsi con il periodo rinascimentale è di fondamentale importanza per venire a capo di tale questione. Ma non solo. Le lezioni blochiane tracciano le principali linee di sviluppo di quella che potrebbe essere definita una vera e propria «geofilosofia del Rinascimento» – il che, ci sembra, integri bene il percorso tracciato in Pensiero vivente. Nell’interpretazione di Bloch, il Rinascimento italiano, tedesco e inglese sono stati innanzitutto tre diversi possibili incipit della modernità. In primo luogo, viene analizzato il Rinascimento in Italia, il cui territorio è descritto dal filosofo tedesco come «il regno della luce solare e del cielo azzurro, dove perfino la pioggia invece di scrosciare batte argentina sulle foglie delle piante meridionali, dure e lucide per difendersi dalla siccità»35. Non a caso, questo territorio ha dato i natali a figure eroiche come l’autore della Città del Sole, 26

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1. questioni preliminari

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Tommaso Campanella, e Giordano Bruno. A partire dal Rinascimento italiano, la natura è indagata finalmente iuxta propria principia (Bernardino Telesio) e da questa natura non può che emergere un soggetto in grado di autodeterminarsi: la tematica della dignità dell’uomo (da Giannozzo Manetti fino a Marsilio Ficino e Pico della Mirandola) e l’elogio della vita attiva (si veda l’Umanesimo civile a partire da Coluccio Salutati) sono, non per caso, due «topoi» fondamentali della «antropologia» rinascimentale. In secondo luogo, Bloch passa alla trattazione del Rinascimento in Germania, il cui territorio è molto diverso da quello italiano: Spostiamoci in Germania. Qui regnano l’umidità, la nebbia, le nubi. Ci sono ancora i grandi boschi parzialmente conservati dal feudalesimo. La natura è completamente diversa dall’Italia, ha un carattere per così dire più ascoso; di qui l’esaltazione del chiaro di luna, del crepuscolo, della casa, del sentimento. «Andiamo? Il mondo già imbrunisce. L’aria si è fatta fresca, cade la nebbia! Verso sera si apprezza la casa», dice Wagner a Faust dopo la passeggiata pasquale. Il caldo, intimo, interno gotico, la bottega da ciabattino di Jakob Böhme, divengono la cornice di una interiorità speculativa che contrappone al mondo esterno il calore interiore, la profondità come rifugio e difesa dal cattivo tempo tedesco, almeno nel XVI secolo36.

Il Rinascimento tedesco è dunque differente da quello solare italiano. E tuttavia, al di là delle diversità, possono essere definiti entrambi – per usare un’espressione cara al filosofo marxista – parte di una «corrente calda» dell’epoca rinascimentale. La concezione della materia come possibilità, movimento e dinamicità, accomuna i pensatori italiani (Bruno e Campanella) e quelli tedeschi (Paracelso e Böhme), i quali, perciò, fanno parte di quella che Bloch definisce «sinistra aristotelica»37, ovvero di tutti quegli autori che, a partire da Avicenna, riprendono la categoria aristotelica della realtà come possibilità (to dynamei on), facendone il fulcro della loro filosofia. Se la realtà è possibilità, essa può essere diversa da come è effettivamente. Questo accende nell’essere umano la dimensione fondamentale della speranza che lo porta ad adoperarsi attivamente per trasformare la realtà in direzione del «non-ancora-essere». Bloch cita una frase di Campanella che potrebbe descrivere alla perfezione lo «spirito dell’utopia» che innerva questa corrente rinascimentale italo-tedesca: «homo non potest facere quod non credit posse facere»38. In altre parole, l’essere umano non può fare alcunché se non è convin27

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la tradizione filosofica italiana

to di poterlo fare. Ancora una volta l’ontologia della possibilità e la concezione della materia come possibilità implicano, tra le altre cose, una precisa antropologia. Al centro delle filosofie italiane e tedesche vi è l’«homo faber»: un uomo convinto che la realtà sia trasformabile e non vada accettata per quella che è. A tal proposito si ricordi come l’«homo faber» rinascimentale sia, non a caso, anche esperto di magia39: una delle più caratteristiche espressioni di un sapere che vuole incidere attivamente sulla realtà. Per usare le parole di Bruno, «considerato da filosofi e tra filosofi, mago allora significa uomo sapiente, in grado di operare [a philosophis ut sumitur inter philosophos, tunc magus significat hominem sapientem cum virtute agendi]»40. Fra l’altro, se ci soffermiamo sulla lingua tedesca, non è possibile non constatare la valenza immediatamente pratica del sapere magico. Che teoria e prassi siano intrinsecamente correlate è evidente se si fa attenzione al fatto che i termini conoscere (kennen) e potere (können) hanno la stessa radice. Se a questo rilievo si aggiunge che i tedeschi non usano soltanto la parola können per indicare il potere, ma anche mögen, nel quale risuonano i lemmi Macht (potenza) e Magie (magia), allora è chiaro come sia innanzitutto la magia il luogo in cui viene alla luce il nesso inscindibile fra teoria e prassi41. Nella lettura di Bloch vi è poi il Rinascimento inglese, che si distingue da quello italiano e da quello tedesco per la concezione che i filosofi anglosassoni hanno della materia. A tal riguardo è citato Hobbes, facendo valere un concetto molto esteso di Rinascimento. È nota la riduzione hobbesiana della materia a pura estensione quantitativa e del pensiero al calcolo. Vi è in nuce il pensiero tipico della modernità, che prevarrà rispetto a quello degli autori della «corrente calda» del Rinascimento italiano e tedesco. È dunque l’Inghilterra il luogo decisivo per la genesi della modernità capitalistica. Dal punto di vista geofilosofico, non è nelle cupe foreste tedesche o nel regno italiano della luce solare che le leggi della ragione calcolante cominceranno a permeare l’intero immaginario collettivo, ma in Inghilterra, cioè nel territorio dove sorgono i grandi centri portuali, luoghi privilegiati dello scambio capitalistico delle merci. Il filosofo marxista, dunque, mostra le differenze tra i pensatori inglesi, tedeschi e italiani, dovute anche ai vari contesti storico-geografici, nonché economici, in cui essi si trovano a vivere. Bloch prende due filosofi per ogni nazione e procede a questa analisi comparata 28

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1. questioni preliminari

delle diverse correnti nazionali rinascimentali. Così dalla coppia italiana Bruno-Campanella e quella tedesca Paracelso-Böhme si arriva infine a quella inglese Bacone-Hobbes. Un’altra possibile coppia che Bloch non menziona in Filosofia del Rinascimento, ma che avrebbe meritato un’analisi geofilosofica, è quella francese Montaigne-Cartesio. Comunque il quadro blochiano della genesi della modernità capitalistica è incisivo nonostante alcune mancanze, come quella appena sottolineata, e certe forzature cronologiche, come quella di includere Hobbes fra gli autori rinascimentali. Ma, come abbiamo già detto, l’importante è mettere in luce la reciproca influenza di pensiero e territorio, che Bloch – con acume eccezionale – evidenzia mostrando per l’appunto le diverse declinazioni che la filosofia del Rinascimento assume a seconda del contesto geografico. A completamento dell’analisi blochiana, val la pena concludere la trattazione della questione geofilosofica citando un passaggio delle Lettere sulla filosofia italiana di Theodor Sträter, dove l’autore, descrivendo i meravigliosi paesaggi napoletani, suggerisce l’influenza che essi debbono aver avuto sul pensiero di Giordano Bruno: Forse nella stessa Italia da nessun’altra parte la natura si manifesta così grande e maestosa, così amabile e incantevole come nei dintorni di Napoli! Nobili spiriti aleggiano su questi monti, su queste affascinanti coste, su queste isole meravigliose, sulle innumerevoli onde del golfo di Napoli, che qui giungono dal Mediterraneo e raccontano di tutti i lontani abitanti delle sue coste. Ah, le luminose mattine di qui! Queste serate fresche di mare, chiare di stelle! Queste magiche notti di luna trascorse sognando in solitarie barche! Una bellezza divina – come il sogno più felice dello spirito della terra – è stata riversata su questo paesaggio: e ben si comprende qui come il filosofo di Nola al cospetto di una simile natura potesse concepire il pensiero dell’infinità del mondo e della sua unità in Dio, come soprattutto qui potesse risvegliarsi nella sua piena possanza poetica l’intimo sentimento vitale per la natura, primogenita della divinità42.

Con le riflessioni di Bloch e Sträter sulla tematica del rapporto fra pensiero e territorio – senza implicare né la non universalità della filosofia né la sua chiusura localistica e nazionalistica – il quadro delle questioni preliminari può considerarsi completo. Dunque possiamo passare all’esame dei più importanti paradigmi interpretativi già introdotti nelle pagine precedenti. Come detto, ci confronteremo con le proposte teoriche di Spaventa, Gentile e Garin, per 29

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la tradizione filosofica italiana

concludere con l’Italian Thought, allo scopo di analizzare in dettaglio il modo in cui storicamente è stata affrontata la tematica della tradizione filosofica italiana e dei suoi caratteri peculiari. Inizieremo con Bertrando Spaventa, il primo vero storico della filosofia italiana: prima di lui, come si è già avuto modo di sottolineare nel capitolo introduttivo, erano stati compiuti solamente alcuni tentativi di scarso rilievo teorico. Le lezioni spaventiane sulla storia della filosofia italiana, tenute all’Università di Napoli nell’anno accademico 1861-1862, costituiscono l’imprescindibile punto di partenza con il quale ogni studioso dovrebbe fare i conti (e come, in effetti, hanno fatto sia Gentile, sia Garin, sia Esposito). Pertanto, anche in questa sede dedicheremo a Spaventa un capitolo nel quale analizzeremo in dettaglio la sua celebre teoria della «circolazione europea del pensiero italiano».

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2. Bertrando Spaventa filosofo militante

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2.1 Una filosofia per l’Italia Due date sono cruciali tanto nella biografia di Spaventa quanto nella storia d’Italia: il 1848 e il triennio 1860-1862. Il filosofo abruzzese, infatti, fu costretto all’esilio in seguito al fallimento della rivoluzione napoletana del 1848 e – dopo un breve soggiorno a Firenze (1850) – si rifugiò a Torino (1850-1858). Da Torino, si trasferì prima a Modena, poi a Bologna per fare infine ritorno a Napoli, dopo che l’allora consigliere della Pubblica Istruzione, Francesco De Sanctis, lo aveva nominato professore in filosofia teoretica presso l’università partenopea il 29 ottobre 1860. Qui, nell’anno accademico 1861-1862, Spaventa tenne il famoso ciclo di lezioni sulla storia del pensiero italiano. Questo corso suscitò reazioni incredibili nell’uditorio. Una delle tante è descritta nelle già menzionate Lettere sulla filosofia italiana di Sträter, un uditore tedesco, il quale riferisce di un prete che tenne una predica per aizzare il popolo contro Spaventa: «i lazzaroni con le loro mogli e figli e figlie, armati di pistole, coltelli, pugnali e asce, un bel giorno hanno fatto incursione a centinaia nell’Università, semplicemente per ucciderlo»1. Spaventa fu salvato dagli studenti e il prete fu punito dal governo regio. Ma questo è soltanto uno degli episodi che accompagnarono il ciclo di lezioni tenuto nell’ateneo napoletano. Le aule erano affollatissime e i contestatori erano soprattutto giobertiani, i quali non vedevano di buon occhio la diffusione del pensiero hegeliano in Italia, e altri che, come il suddetto prete, non apprezzavano le critiche rivolte da Spaventa alla Chiesa cattolica. Ma vi era anche chi, come il già citato Sträter, era tanto entusiasta da affermare che «nel professor Spaventa e nei suoi discepoli, la fi31

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la tradizione filosofica italiana

losofia è diventata veramente quello che dovrebbe essere dai tempi di Fichte: vita, azione, carattere personale, vorrei dire religione del cuore e non una semplice occupazione mentale fra le altre»2. Qual è il motivo di queste reazioni contrapposte? Per capirlo occorre innanzitutto ricordare l’idea fondamentale espressa da Spaventa in questo corso universitario. In breve, egli intendeva dimostrare come i grandi pensatori italiani del Rinascimento avessero precorso le più importanti acquisizioni filosofiche della modernità, per cui Campanella, Bruno e Vico anticipano rispettivamente Cartesio, Spinoza e Kant. Anzi, per la precisione, l’autore della Scienza nuova precorre anche l’idealismo tedesco. La tesi spaventiana, nota come la teoria della «circolazione europea del pensiero italiano», non si limita però solo a questo. Essa implica anche un ritorno in Italia delle più importanti conquiste della filosofia tedesca. In particolare, nel pensiero di Galluppi, Rosmini e Gioberti si invera la filosofia tedesca da Kant a Hegel. Sicché la specificità della filosofia italiana risiederebbe nell’ingegno «precursore» da un lato e in quello «inverante» dall’altro. A questo punto, rilevata tale specificità, la domanda sulla nazionalità della filosofia sorge spontanea ed effettivamente Spaventa la pone sin da subito: Sono possibili, dopo il medio evo e ne’ tempi moderni, tante filosofie nazionali, quanti sono i popoli civili di Europa? O invece quelle che si dicono filosofie nazionali non sono altro che momenti particolari dello sviluppo comune della filosofia moderna nelle diverse nazioni3?

La risposta fornita è che la filosofia resta una e universale; mentre le varie declinazioni nazionali non sono altro che momenti particolari del cammino del pensiero nel suo sviluppo unitario. In altri termini, le varie filosofie moderne sono solo «stazioni» di un unico processo attraverso cui si sviluppa il pensiero «nel suo corso immortale»: Specialmente dopo il Risorgimento, quelle che appariscono come filosofie nazionali, il cartesianismo in Francia, il lockismo in Inghilterra, e così via via, non sono che tante stazioni per le quali passa il pensiero nel suo corso immortale. La filosofia moderna non è dunque né inglese, né francese, né italiana, né alemanna solamente, ma europea4.

Secondo il pensatore abruzzese, soltanto nell’antichità si poteva, a rigore, parlare di filosofia nazionale in contesti chiusi come quello 32

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indiano o greco: «in ambedue si riflette nettamente lo spirito nazionale»5. All’esclusione dell’altro, tipica di India e Grecia, si contrappone nettamente già Roma, che «assorbe, non esclude»6 le altre nazioni. In epoca moderna, ancor più, «nazionalità non significa più esclusione o assorbimento delle altre nazioni, ma l’autonomia d’un popolo nella vita comune de’ popoli»7. Ecco allora che, nonostante le declinazioni nazionali assunte di volta in volta («il cartesianismo in Francia, il lockismo in Inghilterra»8), la filosofia, secondo Spaventa, è totalmente europea. Il particolare è momento dell’universale e le nazioni sono soltanto punti in cui sosta temporaneamente il pensiero nel suo eterno cammino. In base a tale prospettiva, dunque, il concetto di filosofia nazionale è ammesso solo nella sua relazione dialettica con l’universalità del pensiero e, se si può parlare di una peculiarità della tradizione italiana, essa risiede – appunto – nel precorrere prima e nell’inverare poi i più importanti guadagni della speculazione moderna. Invero a tal proposito c’è da fare un rilievo. Se la «differenza italiana» sta nel precorrimento e nell’inveramento della filosofia europea, allora questo implica che tale differenza venga meno nel momento stesso in cui è posta. Tant’è che – come ammette lo stesso Spaventa – «la filosofia italiana è da per tutto; è in sé tutta la filosofia moderna. Ella non è un particolare indirizzo del pensiero, ma, direi quasi, il pensiero nella sua pienezza, la totalità di tutti gli indirizzi»9. Peraltro, proprio nell’essere «precursore», sta anche l’imperfezione dell’ingegno italiano, che aveva sì anticipato le grandi filosofie europee, ma allo stesso tempo aveva potuto svilupparsi a pieno soltanto all’estero, a causa di un contesto politico e sociale in Italia estremamente difficile per gli intellettuali. Questo ritardo è denunciato esplicitamente: Quando si considera che Bruno è in sé Spinoza, e Campanella Cartesio, e Telesio Bacone e Locke – quando si considera quel che è Vico, – si può dire che l’ingegno italiano sia ingegno precursore. È stato tale: e questa è la sua eccellenza, e insieme la sua imperfezione10.

La causa di un tale sviluppo filosofico soltanto fuori dall’Italia – che, come vedremo, sarà criticato da Gentile – è «da cercare nella mancanza di libertà degl’italiani, oppressi dalla chiesa cattolica che avevano in casa»11. Questo non vuol dire che la filosofia italiana 33

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scompaia con Telesio, Bruno, Campanella e Vico. Come leggiamo negli Studii sopra la filosofia di Hegel (pubblicati nel 1851, ovvero una decina di anni prima del ciclo di lezioni napoletane):

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Il pensiero filosofico italiano non fu spento sui roghi de’ nostri filosofi, ma mutò stanza, e si continuò in più libera terra e in menti più libere; talché il ricercarlo nella sua nuova patria non è una servile imitazione della nazionalità alemanna, ma la riconquista di ciò che era nostro, ed ora sotto altra forma è divenuto una proprietà dello spirito universale, e la condizione essenziale della civiltà nostra e di tutti i popoli12.

Nel 1851, cioè all’epoca dei citati Studii sopra la filosofia di Hegel, vi era già l’idea dell’ingegno precursore e quella dello sviluppo del pensiero italiano nelle altre nazioni europee, ma non vi era ancora il compimento della «circolazione» con Galluppi, Rosmini e Gioberti, ovvero la «riappropriazione» di quel patrimonio filosofico nato nell’Italia rinascimentale, ma sviluppatosi all’estero in epoca moderna. Alla teoria della circolazione Spaventa arrivò lentamente. All’inizio, infatti, durante il periodo dell’esilio torinese, non nutriva alcuna simpatia per la filosofia italiana dell’Ottocento. Egli sospendeva anche il giudizio su Vico, salvando soltanto il Rinascimento italiano e l’idealismo tedesco. È lui stesso a raccontarlo nella Prefazione a Logica e metafisica – questo il titolo con cui Gentile nel 1911 ripubblica con l’aggiunta di parti inedite l’opera spaventiana Principi di filosofia del 1867 – quando afferma: «ecco ora la mia confessione […]. Anch’io vedevo tutto buio in Italia, soprattutto dopo l’esodo del 1849»13. E ne spiega la ragione: Solo della presente filosofia italiana io non volea sentir parlare; erano droghe, che mi movevano lo stomaco; Rosmini era per me un abate; Gioberti peggio, un frate; e il buon Galluppi, sebbene cavaliere della Legion d’onore e amico del Cousin, un sensista. E addentrandomi un po’ nel secolo precedente, sapevo e avevo udito dire, come odo anche adesso, che Vico fu un altissimo intelletto, una meraviglia d’ingegno; ma non avrei saputo dare un giudizio sicuro e preciso, e avea in capo piuttosto una vaga impressione che un’idea. Così per me non c’era altro, che il Risorgimento e la filosofia tedesca14.

Insomma, non vi era ancora circolazione vera e propria, ma piuttosto «un andare senza ritorno: un movimento di fuga, di migrazione: un esodo»15. Soltanto verso la fine del suo esilio torinese, 34

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Spaventa muta il giudizio sul «presente della filosofia italiana». La scomparsa di Rosmini nel 1855 e la lettura delle Postume giobertiane nel 1858 influirono senz’altro nella formulazione della teoria della circolazione, come vedremo meglio più avanti. Avendo cominciato a delineare i contenuti fondamentali del corso che Spaventa tenne a Napoli, ora possiamo rispondere alla domanda dalla quale siamo partiti: qual era il motivo delle reazioni contrapposte – entusiasmo da una parte, aspre critiche dall’altra – provocate nell’uditorio dalle lezioni spaventiane? Per capirlo bisogna tener presente che nell’Università di Napoli era molto diffuso il mito dell’antiquissima italorum sapientia e vi erano numerosi giobertiani che di tale mito avevano fatto un vero e proprio culto. L’idea di una sapienza italica antichissima, perenne, autoctona, indipendente dalle filosofie straniere, era opposta alla teoria spaventiana. Uno dei giobertiani più agguerriti era Luigi Palmieri, una vecchia conoscenza di Spaventa, che già nel 1847 lo aveva costretto a chiudere una scuola privata di filosofia che egli aveva aperto a Napoli l’anno precedente. Quando Spaventa, dopo l’esilio torinese e i brevi soggiorni a Modena e Bologna, ritornò a Napoli, Palmieri professava ancora il vecchio mito della sapienza italica, iniziata con Pitagora, e rifiutava la diffusione di qualsiasi filosofia straniera, per cui non poteva vedere di buon occhio l’hegeliano Spaventa16. L’intento del filosofo abruzzese era, invece, proprio quello di far comprendere Hegel in Italia, ma sapeva bene che – per usare i termini del fratello Silvio – «gl’Italiani non intenderanno mai che cosa sia la filosofia moderna se non ricavandola dagli stessi loro filosofi»17. Insomma, da un lato Spaventa condivideva le parole di Pasquale Villari, secondo il quale «fare intendere Hegel all’Italia, vorrebbe dire rigenerar l’Italia»18; dall’altro pensava che – per dirla con Gentile – «il nucleo della filosofia hegeliana, per quanto vero in astratto, non potesse venire accolto in Italia come si importa una merce»19. Importare Hegel in Italia20 – questo era contemporaneamente il progetto storiografico, speculativo e ideologico-politico spaventiano – poteva avvenire, quindi, solo con l’elaborazione di una teoria che prevedesse la circolazione dei pensieri, italiano e tedesco, tra loro dialetticamente. Gentile lo chiarisce bene: [Sc. Spaventa] pensava che a un patto potesse sollevarsi la mente degl’Italiani fino a quel segno [sc. alla filosofia hegeliana]: acquistando cioè la co35

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scienza storica della propria filosofia, che infatti conteneva tutti i germi del nuovo idealismo, maturatosi da ultimo in Germania; e dimostrando poi come questo idealismo, per la forza stessa del vero, si fosse già infiltrato e covasse inavvertito nella filosofia de’ nostri più recenti pensatori; talché appigliarsi ad esso non significasse altro che continuare naturalmente la tradizione del pensiero nazionale21.

In breve, non era possibile far intendere Hegel in Italia se non attraverso un insieme di riferimenti ad autori come Galluppi, Rosmini e Gioberti. Gli italiani avrebbero potuto riconoscere se stessi soltanto dopo aver compreso di essere, dal punto di vista del pensiero speculativo, il precorrimento e l’inveramento di quella filosofia tedesca percepita come «nebbiosa e selvaggia»22, «astratta ed oscura»23, ma che invece è italiana nei suoi prodromi (il Rinascimento e, in particolare, Vico) e nei suoi successivi sviluppi (gli autori risorgimentali). L’importazione della filosofia tedesca in Italia, pertanto, non era l’imposizione di qualcosa di estraneo alla tradizione nazionale, bensì passava attraverso il riconoscimento di un processo iniziato in patria, continuato in Germania e, infine, conclusosi di nuovo nella Penisola. Di qui le affermazioni di Spaventa: Se la filosofia non è una vana esercitazione dell’intelletto, ma quella forma reale della vita umana, nella quale si compendiano e trovano il loro vero significato tutti i momenti anteriori dello spirito, è cosa naturale che un popolo libero si riconosca e abbia la vera coscienza di se stesso anche ne’ suoi filosofi. Dove manca questo riconoscimento, la importazione forestiera non giova; giacché la coscienza di sé non è una merce, che se non ci è, si acquista; ma è noi stessi, il vero noi24.

Dunque, nel 1861, troviamo da un lato Spaventa con la sua teoria della circolazione, dall’altro Palmieri e i giobertiani, ultimi sostenitori del mito dell’antica sapienza italica. Spaventa critica apertamente tale mito nelle sue lezioni e, in particolare, il De antiquissima italorum sapientia di Vico, opera del 1710, alla quale si erano richiamati, tra gli altri, Vincenzo Cuoco25 e Terenzio Mamiani26. Nel De antiquissima italorum sapientia (da leggere insieme alle due risposte dell’autore alle obiezioni sollevate dal Giornale de’ Letterati d’Italia)27, Vico, meditando su alcuni termini della lingua latina, sosteneva la tesi secondo la quale, dal momento che gli antichi Romani – nonostante che fossero stati un popolo dedito pre36

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valentemente all’agricoltura e alla guerra – parlavano un linguaggio ricco di locuzioni dotte, era necessario che essi «avessero ricavato quelle locuzioni da un’altra nazione evoluta, utilizzandole senza saperlo»28, ovvero dagli Ioni e dagli Etruschi. Insomma, dall’analisi della lingua latina era possibile individuare una sapienza italica anteriore, antica e autoctona, indipendente dagli influssi della filosofia greca. Ad esempio, Vico rilevava come in latino i termini verum e factum fossero sinonimi. Ecco perché il principio della conversione del vero e del fatto diventò uno dei nuclei necessari dell’antiquissima italorum sapientia29. Ora, Spaventa critica proprio quest’operazione vichiana – consistente nel rintracciare l’antica sapienza italica tramite un’indagine filologica – sostenendo che si tratta di un mero espediente per affermare la sua gnoseologia, ovvero il principio per cui il criterio del vero sta nell’averlo fatto. Inoltre, ricorda come fosse stato Vico stesso a sconfessare la propria opera giovanile, dal momento che «nella Scienza Nuova deride e non crede alla sapienza riposta delle origini»30. Per fare soltanto uno dei numerosi esempi possibili, si ricordi la famosa affermazione della Degnità LIII: «gli uomini prima sentono senz’avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato, e commosso; finalmente riflettono con mente pura»31. Per Vico, le popolazioni primitive erano tutt’altro che sapienti, al contrario, erano rozze. Ne segue che, per lui, non ha senso cercare nella lingua latina una qualche filosofia degli antichi, semplicemente perché non vi poteva essere alcun pensiero speculativo in popolazioni come gli Etruschi e gli Ioni. Nella filosofia della storia contenuta nella Scienza nuova, la ragione non appartiene più all’umanità nella sua infanzia come nel De antiquissima italorum sapientia, dove invece di tale sapienza restavano alcune tracce da riportare alla luce con l’analisi del linguaggio. Perciò Spaventa può concludere con queste parole su Vico, giustificando la propria intenzione di iniziare le lezioni dalla filosofia del «Risorgimento» – come si usava chiamare a quel tempo il Rinascimento: Ora conchiudo questa lezione già troppo lunga, e dico che nella esposizione del pensiero italiano io non posso cominciare dall’antiquissima italorum sapientia, per la semplicissima ragione che essa non ha mai esistito. La sapienza contenuta nel libro, di cui ho discorso, sarà la metafisica di Vico; ma tanto manca che sia quella degli etruschi e degli egizii, che non è né pure 37

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quella de’ Pitagorei. E io non comincio da’ Pitagorei, perché la loro filosofia è parte della greca. Non comincio dalla Scolastica, perché la Scolastica appartiene a tutte le nazioni europee. Non posso dunque cominciare che dalla filosofia del Risorgimento32.

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2.2 La teoria della circolazione Dunque, è nel Rinascimento che – secondo Spaventa – ha origine la tradizione filosofica italiana. Nasce, in particolare, con Campanella e Bruno e si sviluppa con Vico, trattati rispettivamente nelle lezioni quarta, quinta e sesta. Opponendosi alla storiografia cattolica di stampo giobertiano, egli afferma senza mezzi termini che «rinnovare oggi il pitagorismo o l’eleatismo sarebbe lo stesso che ritornare alla infanzia della filosofia»33. In altre parole, «rigettare come illegittimo e spurio tutto quel po’ di progresso che ha fatto lo spirito umano»34 equivarrebbe a tornare nel tempo in cui «l’acqua de’ ruscelli, e credo anche la filosofia, era latte e mele»35. Queste le parole che rivolge Spaventa ai giobertiani, chiamati ironicamente «i nostri bramani»36. Per destituire di ogni validità la storiografia cattolica, occorreva quindi innanzitutto fare i conti precisamente con l’opera giovanile di Vico sull’antiquissima italorum sapientia. Alla quale i «bramani» giobertiani si appellano, rivolgendo a chi dubita dell’originaria sapienza italica sempre la stessa frase retorica: «“l’ha detto Giambattista Vico; leggete il libro: De antiquissima Italorum sapientia. Voi dunque ne sapete più di Vico?”»37. Ecco perché Spaventa, per evitare che essi facessero ricorso all’ipse dixit vichiano, fu costretto a svalutare – come abbiamo visto – il testo sulla sapienza italica antichissima, valorizzando per contro la Scienza nuova. Dopo questo lungo ma necessario excursus sulla lettura spaventiana di Vico, possiamo ora tornare al filo principale del nostro discorso e passare ai dettagli della teoria della circolazione. Il circolo di precorrimento, sviluppo e inveramento viene fatto cominciare con Campanella, presentato come lo scopritore della soggettività e, in quanto tale, precursore di Cartesio. Da rilevare che Spaventa tratta Campanella prima di Bruno, disinteressandosi completamente della cronologia. Altra cosa da sottolineare è la mancanza di Galilei e della rivoluzione scientifica, così come di Genovesi e dell’Illuminismo italiano. Inoltre, Spaventa sostiene che «non meri38

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ta né anche il nome di semplice cronica»38 la brevissima esposizione da lui elaborata del pensiero di filosofi come Ficino e Pico, Pomponazzi e Telesio. Insomma, la proposta spaventiana è piuttosto semplificata. Una semplificazione, rispetto a certi passaggi cruciali della storia della filosofia italiana, che costituisce uno dei punti problematici della teoria della circolazione. Tuttavia, bisogna riconoscerle il grande merito di aver messo la parola fine a certa storiografia di stampo meramente erudito e dossografico (ad esempio, il già citato Appiano Buonafede)39, ma anche al mito vichiano dell’antica sapienza italica ideologicamente utilizzato (Cuoco, Gioberti e i giobertiani). Dunque, con Spaventa abbiamo una storiografia che da un lato non è più cronaca dossografica o racconto mitico e dall’altro non è – per dirla con Garin – quella «filosofia come sapere storico»40 che presta maggiore attenzione ai testi e alle fonti, ai dati biografici e al contesto storico e in cui perdono qualsiasi senso le categorie idealistiche di «unità», «precorrimento» e «superamento». D’altro canto, lo stesso Gentile afferma che talvolta si ha l’impressione che «in questo libro dello Spaventa, se si cancellassero i nomi de’ varii filosofi menzionati, e si considerassero le rispettive posizioni progressive come ipotetiche, si avrebbe, anche nella forma, un’opera filosofica libera d’ogni carattere storico»41. E subito dopo si domanda: «si dirà perciò che questa storia [...] non sia propriamente una storia, anzi una costruzione ideale»42? La verità è in mezzo, nel senso che l’impressione appena citata rimane, anche se Gentile precisa: «se lo Spaventa non ebbe mai occasione o voglia di scrivere una storia circostanziata della filosofia, fu sempre guidato da una cognizione profonda delle condizioni spirituali de’ varii periodi e da un acuto senso storico. Basti ricordare la sua critica del lavoro del D’Ancona sul Campanella»43. Proprio a proposito di Campanella, si diceva che questi è presentato prima di Bruno. Dunque, la cronologia non viene rispettata. Il senso di questa operazione spaventiana va ricercato proprio nell’interpretazione fornita dei due filosofi in questione. Mentre Campanella è un pensatore in cui convivono ancora medioevo e modernità, vecchio e nuovo, Bruno è già un filosofo pienamente moderno – almeno nella lettura che Spaventa dà della modernità come progressiva immanentizzazione. Nella lezione terza, egli deli39

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nea schematicamente quali sono le caratteristiche che differenziano la filosofia medievale da quella moderna, mescolate invece in un pensatore come Campanella: punto di transizione tra due epoche, al tempo stesso fine dell’una e inizio dell’altra. In particolare, il Rinascimento, rispetto al Medioevo, valorizza la soggettività in quanto fondamento primo di ogni conoscenza (cfr. la dottrina del sensus sui campanelliano che anticipa quella dell’ego cogito cartesiano) e nel suo essere assolutamente libera (cfr., ad esempio, la tematica della dignità dell’uomo così presente nell’epoca rinascimentale). In secondo luogo, il Rinascimento non concepisce Dio come totalmente altro, ma valorizza la natura vista come immagine di Dio o Dio stesso (si veda il panteismo bruniano precursore di Spinoza). La fine del Medioevo e l’inizio della modernità implica quindi il passaggio dalla teologia alla filosofia, dalla fede alla ragione: la natura è indagata «iuxta propria principia» e il soggetto ne esce valorizzato nella sua dimensione teoretica e pratica. Se volessimo aggiungere, rispetto a quelle già messe in rilievo, un’altra forzatura della prospettiva interpretativa che stiamo analizzando, dovremmo dire che la lettura di Spaventa del Rinascimento è abbastanza unilaterale, in quanto l’epoca in questione non è caratterizzata da un dominio incontrastato della razionalità e dalla fiducia illimitata nel soggetto. Il Rinascimento è un’epoca più sfumata e la cesura con il Medioevo non è così netta come vorrebbe Spaventa. In effetti – seguendo un vettore filosofico che da tempo ha abbandonato la retorica dell’Umanesimo e del Rinascimento come epoche eroiche e solari e ha introdotto i concetti di «controrinascimento»44, «antirinascimento»45 e «rinascimento inquieto»46 – oggi si tende piuttosto a sottolineare l’ambiguità e il carattere drammatico di tali periodi storici47. Tornando alle pagine spaventiane, proprio Campanella è il filosofo presentato con i contorni meno definiti, quale personalità in cui convivono due anime: una rinascimentale e una medievale, una rivolta al futuro e una gelosa custode del passato: Campanella è il filosofo della restaurazione cattolica. Si è dato questo nome a quel tentativo, più o meno serio e sincero, di conciliazione, iniziato e promosso dal clero in generale dopo la Riforma, tra il medio evo e la tendenza del nuovo tempo, tra la Scolastica e il pensiero libero. Campanella è come due uomini e due coscienze in una: l’uomo del medio evo – il discepolo 40

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di S. Tommaso –, e l’uomo nuovo, con nuovi istinti e tendenze, il quale teme sempre di contraddire al primo e quasi diffida di se stesso48.

In questa ottica, Campanella diventa il filosofo della Controriforma e della restaurazione cattolica, un pensatore scisso tra vecchio e nuovo, dove il vecchio è rappresentato dal suo teologismo e dalla sua concezione di Dio come assolutamente altro dal mondo, mentre il nuovo è nella concezione della natura da indagare telesianamente iuxta propria principia, nell’abbandono di ogni ipse dixit, anche se non ancora in un metodo di tipo quantitativo. Inoltre, sebbene il filosofo calabrese stimasse molto Galilei – come dimostra, tra le altre cose, la famosa Apologia pro Galileo scritta in carcere nel 1616, anno del primo processo ai danni del fisico pisano –, questo non vuol dire che fosse copernicano o abbracciasse il metodo scientifico49. Campanella rimase un naturalista telesiano e un riformatore sociale di stampo gioachimita, che, rifugiatosi a Parigi negli ultimi anni della sua vita (dal 1634 fino alla sua morte avvenuta nel 1639), non fu apprezzato dagli intellettuali francesi con cui entrò in contatto, i quali al massimo gli riconoscevano una memoria impressionante e una altrettanto grande fantasia, ma al tempo stesso lo ritenevano ignorante nelle scienze e poco pratico negli affari del mondo. Cartesio rifiutò addirittura un incontro con lui in Olanda, ringraziando Mersenne per averglielo proposto, ma scrivendogli che gli bastava quanto già conosceva di Campanella. Nonostante questo, nell’opera di Spaventa, come ormai sappiamo, Campanella è presentato quale precursore di Cartesio, in virtù dell’interpretazione della dottrina del sensus sui intesa come anticipazione di quella dell’ego cogito. A onor del vero, il sensus sui appartiene a tutti gli enti e non soltanto all’essere umano e, inoltre, non ha a che fare con la dimensione del pensiero, ma con quella del senso. L’originario senso di sé (sensus innatus, notitia indita) subisce modificazioni da parte di tutti gli altri enti che conosce (notitia addita) e tale conoscenza annebbia in qualche modo il senso di sé, del quale allora si ha soltanto una conoscenza oscura (notitia abdita). Insomma, il senso di sé campanelliano non è esattamente riconducibile all’ego cogito. In ogni caso, in questa sede il punto nodale è che, per Spaventa, Campanella è lo scopritore della soggettività e dunque precorre Cartesio – anche se permangono in lui elementi propri dell’epoca medievale. Fra questi, innanzitutto l’idea di un Dio assolutamente 41

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altro dalla natura, per cui – sottolinea Spaventa – «il mondo in generale è solo la statua di Dio, non un lato della vita di Dio»50. Ecco allora perché Bruno è più moderno di Campanella. E per questo – malgrado la cronologia – il pensiero bruniano viene trattato nella lezione successiva, in quanto è soltanto esso a voltare definitivamente le spalle al Medioevo. Del resto, in una storia della filosofia in cui l’immanenza costituisce la prospettiva e il criterio della narrazione, Bruno non può non rappresentare uno snodo fondamentale nella misura in cui per lui Dio si identifica con la natura. Qui la seconda grande «scoperta» della filosofia moderna. La prima abbiamo visto essere la soggettività, la seconda è l’identità di Dio e natura. Come abbiamo già accennato precedentemente e come vedremo meglio in seguito, la terza è la scienza nuova vichiana, ovvero la storia. Non può essere più chiara la prospettiva di Spaventa: la modernità è un processo di progressiva immanentizzazione dove in successione vengono valorizzati il soggetto, la natura e la storia. Quello da Campanella a Bruno, in questa storia ideale della filosofia italiana, è il passaggio definitivo all’epoca moderna, con l’abbandono della concezione di un Dio totalmente altro dal mondo. Il Nolano volta le spalle al Dio trascendente «dei teologi». Il suo è il «Dio dei filosofi», immanente nella natura (Deus insitus omnibus), un Dio infinito, principio di un universo infinito. In breve, val la pena di ripeterlo, Bruno precorre il panteismo di Spinoza. Tuttavia, come si è sottolineata la differenza tra la soggettività campanelliana e quella cartesiana, così occorre evidenziare la diversità fra il panteismo bruniano e quello spinoziano. Per Bruno Dio è sì principio dell’universo, ma ne è anche causa. Ora, posto che la causa rimane altra rispetto al suo effetto, mentre il principio resta nell’effetto prodotto, affermare che Dio è al tempo stesso causa e principio dell’universo significa ammettere che Dio non sia tutto e solo nel mondo, non si esaurisca nel mondo da egli stesso prodotto. Permane ancora una parziale alterità. E infatti il Nolano parla – oltre che di un Deus insitus omnibus – di un Deus super omnia, trascendente e inconoscibile. Certo, viene subito il sospetto che questo Dio super omnia sia soltanto un espediente per non negare il Dio delle Sacre Scritture. Tuttavia, che sia o meno un escamotage, la differenza rispetto al Deus sive natura spinoziano sussiste. Non a caso, tracciando la differenza tra Campanella e Bruno, Spaventa scrive: 42

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Per Campanella l’universo non è certo una cosa morta; tutte le cose vivono, anzi sentono, e l’anima universale le muove e alimenta. Ma questa vita è solo ombra della vita vera: la fonte di ogni vita è fuori di essa. A questa fonte non si perviene coll’intelletto, il quale è sempre condannato a cibarsi d’acqua e di fango: noi ne gustiamo appena qualche analogia mediante la fede. Anche Bruno lascia sussistere questo incomprensibile, o almeno non lo nega assolutamente; ma affermandolo lo riduce a un punto oscuro piccolissimo, il quale non reca alcun tormento all’animo umano, perché tutti i tesori che esso può nascondere egli li contempla vivi, reali ed esplicati nella natura, nell’universo, nel mondo51.

Ma l’autocoscienza e la viva natura espressione della divinità – rispettivamente al centro del pensiero campanelliano e bruniano – non sono gli unici contributi dell’Italia alla filosofia. Secondo Spaventa, è Vico il punto più alto della speculazione italiana che anticipa non solo Kant, ma «è il vero precursore di tutta l’Alemagna»52. In primo luogo, il filosofo napoletano compie già la rivoluzione copernicana più di settant’anni prima di Kant, formulando il principio del verum ipsum factum. In secondo luogo, quella vichiana è una filosofia della concretezza storica che precorre tutto l’idealismo tedesco. In particolare, il Vico del De antiquissima italorum sapientia anticipa Kant, mentre quello della Scienza nuova porta in sé, in nuce, l’idealismo tedesco. Nella sua opera giovanile, Vico intuisce già il carattere attivo della conoscenza con il principio della conversione del vero con il fatto. La mente non è più semplicemente concepita come uno specchio che riflette la realtà così com’è. Nel processo conoscitivo non è più il soggetto a essere modificato dall’oggetto in maniera totalmente passiva, come ad esempio in Campanella. Al contrario, è il soggetto a modificare l’oggetto, a «costruirlo». Solo una filosofia di questo tipo è una vera filosofia dell’esperienza, dove appunto l’esperienza non è subita, ma si fa. Per Vico possiamo conoscere solo ciò che abbiamo fatto. Per Kant, allo stesso modo, il conoscere è unità di concetto e intuizione, un prodotto del soggetto conoscente. Per entrambi conoscere è fare, creare, produrre. Da rilevare, a questo proposito, che per il filosofo abruzzese il trascendentale kantiano sarà pensato fino in fondo soltanto dall’idealismo eliminando il residuo dogmatico della cosa in sé. Non è difficile capire, dunque, per quale motivo, secondo Spaventa, il difetto di Kant «è di non essere veramente trascendentale, di essere poco trascendentale»53. Tuttavia, in questa sede, ciò che 43

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davvero interessa non è rilevare il rapporto di Kant con l’idealismo, bensì ribadire come – per Spaventa – Vico precorra non soltanto Kant, ma, con la Scienza nuova e la sua filosofia della concretezza storica, tutto l’idealismo. In tal senso, Vico – anticipando la filosofia idealistica – va oltre Kant e lo supera. Si conclude così il primo movimento – quello dell’esodo nelle altre nazioni d’Europa – della filosofia italiana. Ora è necessario analizzare il secondo, che completa la teoria della circolazione, ovvero quello del ritorno in Italia della filosofia intuita all’inizio della modernità da Campanella, Bruno e Vico, sviluppatasi poi con Cartesio, Spinoza, Kant e l’idealismo tedesco, e che infine si invera nel pensiero di Galluppi, Rosmini e Gioberti – affrontati rispettivamente nelle lezioni settima, ottava e nona del corso a Napoli. Spaventa mette in relazione in particolar modo il pensiero gnoseologico dell’«ultima filosofia italiana» – segnatamente di Galluppi e di Rosmini – con quello di Kant: Galluppi è Kant non inteso bene, inteso a metà; è, dirò così, Kant visto coll’occhio di Locke. Rosmini è, generalmente, Kant inteso bene: non il vero Kant, il Kant quale si compie ne’ filosofi posteriori, ma il Kant come ha inteso o franteso se stesso. Dico generalmente: perché, come si vedrà, vi ha qualcosa in Rosmini, che è da meno di Kant, dello stesso Kant imperfetto54.

Proprio il pensiero di Kant è il punto di partenza critico della filosofia di Galluppi, alla cui opera questi ebbe accesso, tuttavia, soltanto attraverso traduzioni francesi, dal momento che non conosceva il tedesco e non era disponibile ancora un’edizione italiana. Secondo Galluppi, l’esito della filosofia kantiana è lo scetticismo, se è vero che il soggetto può conoscere soltanto la realtà fenomenica e non quella noumenica. Questa critica si basa però su un equivoco, dal momento che – come noto – fenomeno e noumeno non costituiscono due realtà distinte, ma un’unica realtà. In ogni caso, il punto nevralgico, qui, non è tanto il dichiarato anti-kantismo di Galluppi, quanto piuttosto il fatto che – secondo Spaventa – Galluppi sarebbe «kantista quasi senza saperlo, quasi suo malgrado, per una forza superiore alla sua volontà»55. Un discorso al quale tra l’altro si aggiunge poi anche la figura di Fichte in quanto Galluppi distingue sensibilità interna e sensibilità esterna, ma queste «due sensibilità rivelatrici dell’Io e del non Io, che devono avere assicurato al G. [sc. 44

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Galluppi] la fama di filosofo sperimentale e modesto, sono sotto altro nome i primi principii della Dottrina della scienza, e sotto la veste comune dell’empirista si scopre il moderno idealista»56. Insomma, il «me» e il «fuor di me» di cui parla Galluppi sono già l’Io e il non-Io fichtiani. Ma appunto, Spaventa richiama l’attenzione sul fatto che nella filosofia galluppiana la sensibilità interna, ovvero la coscienza, è tutt’altro che sensibilità perché è intelletto; di conseguenza essa non si fonda sull’unità originaria di due sensibilità (interna ed esterna), ma kantianamente su quella di intelletto e sensibilità. L’intelletto, peraltro, lungi dall’essere vuoto – Locke direbbe una tabula rasa – trae «dal suo proprio fondo alcune idee»57: il riferimento è alle idee semplici di identità e differenza, che sarebbero a loro volta un riflesso della dottrina delle categorie di Kant. Diversa la posizione di Spaventa quando affronta il pensiero di Rosmini. Come abbiamo già accennato, questi sarebbe «Kant inteso bene». Sicché, in lui cessano tutte quelle problematiche che caratterizzavano la filosofia galluppiana. Per Rosmini, il conoscere è kantianamente unità di concetto e intuizione, anche se egli critica il pensatore di Königsberg per aver eccessivamente complicato l’apparato delle forme del conoscere. Non c’è bisogno di individuare due forme pure della sensibilità, dodici categorie e tre idee della ragione per un totale di diciassette elementi. Rosmini semplifica tale apparato, sostenendo che soltanto l’idea dell’essere è davvero a priori e innata. La conoscenza non è altro che l’unità sintetica di tale forma della mente con la materia offertaci dai sensi. Dunque, Rosmini non è ancora «il vero Kant, il Kant quale si compie ne’ filosofi posteriori» (come, invece, sarà Gioberti), ma è, appunto, il «Kant inteso bene», anche se – precisa subito Spaventa nel passaggio che abbiamo già citato per intero poco sopra – «è da meno di Kant». Per quale motivo? Perché – afferma Spaventa riferendosi alla rosminiana idea dell’essere – «porta in giro quella – la sua unica forma – e l’applica a tutta la materia»58. L’unica e indeterminatissima forma pura a priori è applicata direttamente al ricco e vario materiale sensibile. Il che è problematico, dato che «tra il concetto puro, e la intuizione sensibile manca, come si suol dire, il ponte di passo»59. Se Rosmini è «il Kant come ha inteso o franteso se stesso», Gioberti è il «vero Kant», «quale si compie ne’ filosofi posteriori» (in particolar modo in Hegel). In tal senso, «Gioberti compendia in sé i 45

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la tradizione filosofica italiana

momenti anteriori, cioè Galluppi e Rosmini, come Hegel compendia Kant, Fichte e Schelling»60. Ma come è possibile interpretare Gioberti in questo modo? Spaventa può condurre questa operazione in seguito alla lettura delle Postume giobertiane, che gli consente di distinguere un «primo Gioberti» da un «secondo Gioberti». Il «primo Gioberti» è il filosofo dell’ontologismo che, ponendo come fondamento della verità la trascendenza di Dio, critica lo psicologismo che ha caratterizzato la filosofia da Cartesio a Kant e al quale non era sfuggito nemmeno Rosmini. Per Gioberti il problema centrale non era la risposta alla domanda «come conosciamo» di stampo kantiano (ma, a suo avviso, anche rosminiano), bensì quello del fondamento della verità, ovvero della garanzia oggettiva del conoscere, che egli trova in Dio, il quale «è necessariamente» e «crea l’esistente» – così le prime due parti della cosiddetta «formula ideale». Un Dio assolutamente trascendente. Ma il «secondo Gioberti» – del quale Spaventa legge le Postume – passa dall’«ontologismo» allo «psicologismo trascendente», dalla trascendenza all’immanenza. Ora a rivestire maggiore importanza è l’ultima parte della «formula ideale», per la quale «l’esistente ritorna all’Ente». Così commenta Garin: Nella ricostruzione spaventiana, dunque, Gioberti si incontra con Hegel, almeno in quell’aspetto in cui l’ontologismo si fa filosofia della mente, in cui la formula ideale significa coincidenza dell’uomo e di Dio nell’atto puro creatore. Se spezziamo il ciclo che congiunge Ente ed esistente, se poniamo il processo divino come compiuto al di fuori della partecipazione umana, l’Ente chiuso in sé è assolutamente impervio all’uomo, senza sviluppo, senza effettiva attività creante in rapporto col mondo. Se invece il ritmo fra divino e umano è ritmo di partecipazione, se veramente – come Gioberti pur afferma – «discende dall’Ente all’Esistente e risale dall’Esistente all’Ente», allora l’umano rifluisce nel divino e la circolazione dell’essere illuminata dalla formula ideale viene a significare il processo spirituale, la riflessione, la realtà come pulsazione della Mentalità assoluta61.

Oltre il «falso psicologismo» e il «falso ontologismo», il «vero ontologismo» è lo «psicologismo trascendente». In altri termini, Gioberti perviene all’identificazione idealistica di soggetto e oggetto. Così, difatti, termina Spaventa le sue lezioni sulla filosofia italiana: «il Principio assoluto è l’assoluto Spirito o la Mente assoluta; i cui momenti sono l’oggettività (natura) e la soggettività (spirito) infinita: il creare e il ricreare: i due cicli. La loro unità è l’Idea vera giober46

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tiana»62. In conclusione «tale è il grado, a cui è salito in Gioberti il pensiero italiano. È lo stesso grado del pensiero tedesco in Hegel»63. Dunque, ricapitolando, potremmo dire che Galluppi, Rosmini e Gioberti sono trattati nel loro rapporto con il problema della conoscenza come è declinato nella filosofia kantiana, che il primo ha avuto il merito di introdurre in Italia (e, pensando di essere anti-kantiano, in realtà è kantiano senza saperlo), il secondo di continuarla e il terzo di inverarla. Ecco perché – per citare le parole precise di Spaventa – «Gioberti compie Rosmini, come Fichte, Schelling ed Hegel compiono Kant»64.

2.3 Filosofia e rivoluzione nazionale Esposta la teoria della «circolazione europea del pensiero italiano» nei suoi tratti fondamentali, occorre ora fare alcune riflessioni su di essa. In primo luogo, è necessario sottolineare come l’intento di Spaventa non sia meramente storiografico. Pertanto, non bisogna evidenziare più del dovuto le forzature della sua prospettiva interpretativa perché scopo primario della teoria della circolazione non era la ricostruzione precisa del pensiero italiano. Non per caso, sono molti gli studiosi che hanno rilevato come quella spaventiana sia, in primis, «un’opera di pedagogia politica»65. Nella Filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea «l’istanza politica»66 prevale su quella storiografica. Siamo in pieno Risorgimento e tale istanza, implicita nel recupero della tradizione filosofica italiana, accomuna pensatori fra loro diversissimi come Mamiani, Gioberti e Spaventa. A tal riguardo, ebbe a dire Fazio-Allmayer: Mamiani empirista voleva una filosofia italiana, e Gioberti idealista la disegnava fra l’aspettazione generale. L’uno la trovava nel Rinascimento, l’altro nei Pelasgi, nei Pitagorici, nella rivelazione cattolica. Si trattava di vedere che cosa doveva essere questa nuova Italia che si voleva creare. Non bastava dire Italia, Italia. Occorreva mostrarla, questa nuova Italia, e mostrarla intera e vivente, che nessun ministro d’Austria potesse ripetere ch’era una semplice espressione geografica67.

Per Spaventa, come egli stesso afferma nella prolusione alle lezioni di storia della filosofia nell’Università di Bologna (1860), 47

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«comprendere questa circolazione del pensiero italiano»68 significa – in ultima analisi – sapere «che cosa noi fummo, che cosa siamo e che cosa dobbiamo essere»69. Lo studio e la comprensione della tradizione filosofica italiana del passato non sono fini a loro stessi, ma sono di fondamentale importanza per costruire «un’Italia che duri»70, «un’Italia storica: un’Italia che abbia il suo degno posto nella vita comune delle moderne nazioni»71. Ecco perché la filosofia «non è una sterile e astratta occupazione di pochi individui»72. Essa – come è stato giustamente rilevato – doveva essere «uno strumento efficace al risorgimento nazionale»73. Spaventa è distante anni luce da tutti coloro che considerano la filosofia un mero «lusso ed ornamento della vita intellettuale»74 o «una semplice ricreazione dell’intelligenza e senza utilità alcuna nelle cose della vita»75. Perciò la domanda ineludibile che lui pone di fronte al ruolo svolto dal pensiero filosofico nell’Unità d’Italia è: «quando un popolo non è libero o non è costituito a nazione, a che possono valere la filosofia e i filosofi per acquistare la libertà e la nazionalità?»76. La risposta è che la forza delle armi è necessaria ma non sufficiente alla riuscita della rivoluzione nazionale. Agli archibugi e ai cannoni occorre affiancare la forza delle idee, la filosofia, lo spirito, la mente: Io non sono così fuori di questo mondo da credere che l’Italia debba cacciare gli austriaci, il papa, il re di Napoli, il granduca e i duchi, e divenire veramente libera, con gli esorcismi delle formule speculative, né che la guerra futura sarà combattuta da una schiera di filosofi. Io credo, quanti altri mai, nella potenza degli archibugi, del cannone e della mitraglia, e non ho bisogno di dire che i nostri nemici, di qualunque abito e natura, hanno la pelle così dura, che occorrono più i colpi di bastoni che le conclusioni sillogistiche. Ma non perché le armi sono necessarie e potentissime, è da affermare che le idee siano affatto inefficaci ed oziose. Se le braccia sono qualche cosa in una rivoluzione nazionale, lo spirito e la mente non sono certo una inezia77.

Qui risiede uno dei messaggi imperituri che Spaventa ci ha lasciato. In tal senso, se volessimo individuare crocianamente «ciò che è vivo e ciò che è morto» del suo pensiero, proprio questo non si dovrebbe dimenticare: il ruolo che egli assegna alla filosofia congiuntamente alla storia. La filosofia «è necessaria alla vita dello spirito, più che non è il pane alla vita del corpo»78 e «l’umanità non può esistere senza filosofia»79. In particolare, essa – «in un popolo 48

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che non è libero ed indipendente»80 – «può giovare all’acquisto della nazionalità e della libertà»81. Fornisce al genere umano coscienza della sua libertà. E per questo, spesso è stata all’origine di grandi rivoluzioni. In particolare, Spaventa ha ben chiaro il legame «antico» fra filosofia e rivoluzione; e muovendo lungo questa prospettiva, anche lui intende risvegliare le coscienze degli italiani: Se grandissima è l’efficacia delle armi in una rivoluzione nazionale, si fa manifesto ad ognuno che quelle non valgono troppo nella costituzione organica della libertà e dell’indipendenza. Se le armi sono buone a distruggere, e, secondo alcuni, anche a mantenere gli Stati, l’unità vera d’una nazione, la libertà e la grandezza d’un popolo non si ottengono che con le grandi idee. E tra queste io non credo che sia ultima la filosofia, particolarmente in Italia, dove, ogni legame puramente esteriore essendo inefficace rispetto all’immensa opera dell’unità nazionale, è necessario innanzi tutto un legame interiore per risuscitare l’antico genio della nazione, attenuato nello smembramento. Questo legame interiore consiste principalmente nella filosofia e nella religione82.

Anche da queste parole è evidente come il compito della filosofia nel Risorgimento italiano sia di vitale importanza: non è possibile Risorgimento che non sia insieme politico e filosofico. Solo su questa base si può valutare correttamente la portata della proposta storiografica di Spaventa. Che è, a tutti gli effetti, una «storiografia militante», in cui la finalità etico-politica prevale su quella storico-erudita. Sicché la storia della filosofia italiana – vista nella sua relazione con la filosofia europea – deve mirare a rendere coscienti gli italiani di quello che furono, sono e devono essere. In questa prospettiva si spiega l’insistenza sul primato italiano, sul fatto che quello italiano è ingegno precursore (Campanella, Bruno e Vico) e inverante (Galluppi, Rosmini e Gioberti), e sul «privilegio»83 – «anzi il doppio privilegio»84 della filosofia italiana – di «aver precorso due volte i due principali periodi della filosofia moderna: cioè il cartesiano ne’ filosofi del Risorgimento e specialmente in Bruno e Campanella, e il kantiano in Vico»85. In definitiva, allora, a cosa può e deve aspirare il pensiero filosofico italiano futuro? Ecco le parole di Spaventa: Se noi vogliamo ancora e possiamo avere un privilegio, questo è quello di precorrere ed effettuare un nuovo e più largo indirizzo, una nuova e più ampia soluzione del problema dello spirito. Ma ciò ad un patto; e questo 49

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è di non rigettare tutto quel che si è fatto da un gran pezzo fuori d’Italia o meglio che in Italia, ma studiarlo, comprenderlo, appropriarcelo; e solo così, entrati in più largo orizzonte, conosciuto meglio noi medesimi, e ritemperata la nostra vita nella perpetua corrente della vita universale, fare un gran passo innanzi non nel vuoto, ma colla piena coscienza delle nostre forze, del nostro compito, del compito comune86.

Questo «gran passo in avanti» è possibile soltanto tenendosi a distanza di sicurezza dai nazionalismi dei giobertiani à la Palmieri, che non vedevano di buon occhio la diffusione di filosofie straniere nella Penisola, e abbracciando la visione che ammette il concetto di filosofia nazionale nella sua relazione dialettica con l’universalità del pensiero. In altre parole, solamente concependo l’universalità nella sua concretezza filosofica, in quanto non astrattamente contrapposta alle singole particolarità in cui consistono le varie tradizioni di pensiero. Spaventa – «alienissimo dall’ideale del filosofo che, messosi al di sopra della vita, della società, della storia, la contempla apaticamente dal cielo delle idee, dove muore ogni senso del concreto e del particolare»87 – dunque fu un grande pensatore italiano, un patriota distante da qualsiasi tipo di nazionalismo. A conclusione di questo capitolo possiamo allora chiederci: qual è il lascito del suo pensiero? Che cosa – oggi – al di là di ogni analisi storiografica, sta a dirci? Quali parole risuonano fin dentro il nostro presente e possiamo farle nostre, in un dialogo a distanza che scavalca le differenze dei contesti storici? Uno degli aspetti più attuali della filosofia di Spaventa è senza alcun dubbio il suo pensiero dialettico. Esso consente di tenere insieme universalità e particolarità così come – mutatis mutandis – cosmopolitismo e patriottismo. È proprio la teoria della circolazione che – «oltre ad essere di per sé transnazionale in quanto pone immediatamente in una relazione attiva ed originale il pensiero italiano con la filosofia europea»88 – permette di ripensare l’universalità secondo una logica del tutto differente da quella dominante nell’odierna epoca della globalizzazione. Oggi che nessun termine medio sembra essere ammesso fra il globalismo imperante e i nazionalismi rinascenti, occorre affermare con forza un «universalismo delle differenze» e – insieme – contrastare il processo di reductio ad unum delle molteplici culture. Ponendo la questione della naziona50

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2. bertrando spaventa filosofo militante

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lità della filosofia e mettendo in relazione la tradizione italiana con il pensiero europeo, Spaventa è un autore fondamentale con cui – non a caso – l’Italian Thought dialoga fecondamente. Ma di tale confronto ci occuperemo in seguito. Ora è necessario fare i conti con Gentile, un altro grande esponente della filosofia italiana che – prima dell’Italian Thought – ha meditato profondamente e assai acutamente sulla sua specificità.

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3. Giovanni Gentile storico della filosofia italiana

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3.1 Lo sguardo gentiliano sull’Umanesimo Giovanni Gentile, allorché si volge allo studio della tradizione filosofica italiana, prende le mosse da quello che lui stesso definisce nella tesi di laurea «quel gran fatto della circolazione del pensiero europeo»1, teorizzata nella maniera in cui si è visto da Bertrando Spaventa. Quest’ultimo fu il maestro ideale di Gentile. Già soltanto se si considerano la tesi di laurea e quella di perfezionamento, rispettivamente intitolate Rosmini e Gioberti (1898) e Dal Genovesi al Galluppi (1903), si capisce come il filosofo siciliano riprenda e sviluppi le tematiche di Spaventa. Ancora una volta sono Galluppi, Rosmini e Gioberti i pensatori presi in esame per mostrare come la speculazione filosofica in Italia abbia raggiunto i livelli di quella europea. Quello che Gentile si preoccupa di fare è di rimpolpare la storiografia spaventiana, rendendola più composita e meno unilaterale. Infatti, abbiamo già rilevato come il filosofo abruzzese analizzi il pensiero di Campanella, Bruno, Vico, Galluppi, Rosmini e Gioberti, ma non si occupi di alcuni momenti fondamentali della tradizione intellettuale italiana: Galilei, la rivoluzione scientifica, Genovesi e l’Illuminismo italiano. Inoltre, è Spaventa stesso ad affermare che la trattazione di filosofi come Ficino e Pico, Pomponazzi e Telesio «non merita né anche il nome di semplice cronica»2. Infine, è da sottolineare ancora una volta il fatto che, se è vero che Spaventa pone fine alla storiografia filosofica come mera filastrocca di opinioni3 – come Gentile stesso aveva rilevato contrapponendo la storiografia speculativa del filosofo abruzzese a quella dossografica di Appiano 53

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la tradizione filosofica italiana

Buonafede –, appare altrettanto evidente che egli non presta molta attenzione al dato filologico, al contesto storico e alla componente biografica dei vari pensatori attraversati. Cionondimeno, se teniamo ferma la teoria gentiliana dell’identità di storia e filosofia, cioè se è vero che nel pensiero dei filosofi si raccoglie e si fonde tutta la realtà storica della loro epoca, allora Spaventa – così scrive Gentile in sua difesa – «fu sempre guidato da una cognizione profonda delle condizioni spirituali de’ varii periodi e da un acuto senso storico»4. Resta il fatto che, in Spaventa, lo schema speculativo ha sempre la priorità su quello storico (o anche, come si è visto, meramente cronologico). Per quanto riguarda Gentile, egli eredita la grande attenzione filologica dell’indagine storiografica da Fiorentino, Tocco e D’Ancona (al quale dedica l’opera Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo XIX)5, ma a prevalere sono appunto gli insegnamenti di Spaventa. Al pari di questi, Gentile dà una forte impronta speculativa alla propria storia della filosofia ancora teleologicamente orientata, nel senso di un processo di progressiva immanentizzazione verso la vera filosofia che è l’idealismo stesso. Dunque, le loro storie filosofiche della filosofia possono esser viste come una sorta di percorso unitario fatto di precorrimenti e inveramenti, nel quale i singoli pensatori hanno di volta in volta un significato particolare, che spesso consiste nell’aver accelerato il percorso storico progressivo della filosofia grazie ad alcuni e ben precisi guadagni speculativi. Abbiamo già sottolineato come una delle cifre caratteristiche della storiografia spaventiana sia la contrapposizione fra trascendenza medievale e progressiva immanentizzazione rinascimentale. Il significato storico dei pensatori di volta in volta analizzati si riduce alla loro «modernità» – dove «moderno», appunto, coincide con il superamento della trascendenza medievale. In Gentile il criterio e la prospettiva rimangono gli stessi. Anche qui le tenebre del Medioevo sono contrapposte alla modernità. Una antitesi che viene ripresa dalle Lezioni sulla storia della filosofia di Hegel, dove però la modernità coincide con la Riforma protestante e non con il Rinascimento italiano. Tuttavia Gentile non eredita da Spaventa soltanto questa impostazione storiografica (in parte di stampo hegeliano), ma anche la tematica che a noi più interessa analizzare in questa sede, ovvero quella della nazionalità della filosofia. Come si è visto, 54

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3. giovanni gentile storico della filosofia italiana

fin dai tempi della tesi di laurea, egli tiene in grandissima considerazione la teoria della «circolazione europea del pensiero italiano». Di conseguenza ne vaglia la tenuta trattando autori che in essa non erano stati presi in considerazione, ma anche cercando di capire se sia legittimo parlare di nazionalità della filosofia e – posto che sia legittimo – di un «carattere storico della filosofia italiana»6. Tali tematiche sono analizzate nei fascicoli sulla storia della filosofia italiana pubblicati dal 1904 al 1915 con il titolo La Filosofia per l’editore Vallardi e nelle quattro letture sui Problemi della Scolastica e il pensiero italiano, tenute nella Biblioteca filosofica di Firenze nel 1911. Cominceremo confrontandoci con queste letture e, in particolare, con la prima. Qui, infatti, la legittimità di un discorso sulla nazionalità della filosofia non è presupposta come nei fascicoli vallardiani, ma è motivata. In quelle letture si parte dalla consapevolezza che – se si muove da un punto di vista non dialettico e, dunque, dalla contrapposizione fra universalità e particolarità, filosofia e storia, internazionalità e nazionalità – «questo stesso concetto di una filosofia italiana è discutibile e può dar luogo a fraintendimenti non lievi»7. Infatti, la mente dialettica di Gentile vede in quella contrapposizione un modo di pensare astratto che compromette l’universalità cui tende per sua natura la filosofia. La genesi storica e particolare del pensiero non inficia la sua validità universale. Inoltre, non si può capire a fondo un filosofo se lo si considera a prescindere dal contesto storico in cui pensa e agisce. Chiaramente tutto questo non vale solo per i pensatori italiani: In generale si vuol osservare che quegli stessi filosofi, cui nessuno storico pensa di negare un largo posto in una storia universale, Platone, per esempio, Aristotele, Cartesio, Kant, Hegel, se vanno intesi puntualmente nel loro pensiero, pure, studiati nella loro mentalità che è la loro cultura, per via di questa si riallacciano tutti alla storia della cultura dei rispettivi paesi a cui appartengono8.

Un discorso, questo, valido non soltanto per la filosofia, ma anche per le altre due grandi figure hegeliane dello spirito assoluto, ovvero arte e religione. Tuttavia, anche in questi ambiti, è prassi diffusa separare astrattamente il momento genetico e storico da quello di valore universale e atemporale: 55

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la tradizione filosofica italiana

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Altrettanto, mutatis mutandis, accade nella storia dell’arte e nella storia della religione: in cui pare egualmente che ora si guardi alla forma, ora al contenuto; ora allo spirito come si attacca e quasi si abbarbica al suo momento storico, alla cultura del paese e dell’uomo, ora allo spirito che si celebra nella sua vita immortale, in cui gli animi di ogni tempo e ogni luogo possono raccogliersi in uno, trionfando dei limiti della storia empirica9.

Anche nella già citata prolusione del 1918, Gentile insiste sul senso che può avere un discorso sulla filosofia italiana. Ribadendo che la filosofia «è universale e internazionale in quanto è filosofia, e che filosofia non è in quanto è nazionale»10, puntualizza tuttavia che è innegabile che «in ogni filosofia sia ravvisabile un carattere nazionale»11 e che «ogni filosofia, la quale sia cosa viva, debba averne uno»12. Insomma, «è un assioma logico che l’universalità non è annullamento, anzi inveramento di tutte le determinazioni particolari»13 e «non c’è inno di poeta che suoni eterno, senza esprimere una situazione determinata, avvinta a circostanze affatto singolari, e quindi a un attimo eternamente fuggito»14. Quali parole potrebbero meglio esprimere la legittimità e però anche la complessità e la intrinseca estroflessione del concetto di «filosofia nazionale», nonché il valore anche culturale che il pensiero di un autore ha, in quanto nato in un determinato contesto storico? In sintesi, è vero che «né la filosofia, né la scienza, né l’arte, né la religione hanno, a rigore, aspetto nazionale»15; ma è altrettanto vero che «né il problema del filosofo si risolve in concetto di valore immortale senza nascere dalla personalità storica dell’uomo, determinata secondo il tempo e il luogo, e però secondo una corrente spirituale di cultura, che è sempre quella d’un popolo»16. Dunque, «non soltanto nazionale, ma la filosofia è, e dev’essere, personale»17. Anche il momento personale, così come quello nazionale, non inficia la validità universale della filosofia che è «vita dell’anima, che è sempre anima individuale, piantata con radici profonde nel suolo della storia determinata come storia d’un uomo, e in quell’uomo di un popolo, e in quel popolo d’una civiltà, e infine di questa umanità che trasforma il nostro pianeta in regno sempre più trasparente dello spirito»18. Si può capire ancora meglio la posizione gentiliana se confrontata con quella, differente, di Croce. Questi – sebbene sostenga che a Vico «bisognerà sempre far capo per sentire italianamente la moderna filosofia, pur pensandola cosmopoliticamente»19 – non condivide 56

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3. giovanni gentile storico della filosofia italiana

il discorso di Gentile. Lo dimostra tale affermazione crociana: «in filosofia, è noto il rapporto dialettico di universale e individuale, infinito e finito, e simili; ma non si sa nulla del rapporto dell’universale con la diade individuale + nazionale»20. Ma non solo. Per Croce, la diffusione della tematica della nazionalità della filosofia è dovuta al «bisogno di provocare un sospiro d’intenerimento e un èmpito di orgoglio negli uditori, che converrebbe concepire come disposti soltanto ad ascoltare parole di critica e di verità, e si ama invece immaginare come pile sovraccariche di elettricità nazionalistica, e l’insegnante come colui che debba provvedere ad accrescere la forza della carica e della scarica»21. Insomma, Croce riduce ogni discorso sulle filosofie nazionali a retorica nazionalistica e si chiede: «siamo veramente, in Italia, ridotti a queste condizioni morbose e pietose? No, ma così vogliono i retori»22. In altri termini, occorre distinguere l’utilità (ma anche il rischio) che il discorso sulla nazionalità della filosofia può avere a livello retorico dalla sua legittimità teorica: Il concetto di filosofia «nazionale» o di «nazionalità» della filosofia è (per dir la cosa in modo reciso) di quelli che bisognerebbe sbandire una buona volta dal campo della scienza. Intendo che quel falso concetto possa rendere servigi come mezzo oratorio a scuotere e ravvivare gli animi rammentando le glorie e le alte prove dei maggiori, come fu fatto talvolta nell’età del Risorgimento. Ma «nazione» designa nient’altro che una configurazione politica o, tutt’al più, culturale ed etica, ed è concetto del tutto disparato rispetto a quello di filosofia. Sta bene che la filosofia sorga dalla storia; ma dalla storia nella sua concreta universalità, e non da quella mutila ed arbitraria storia che si raccoglie sotto il nome di «storia nazionale»23.

A ciò va aggiunto che «ogni schietto animo di filosofo sente la sua comunione coi filosofi di qualsiasi tempo e popolo: ora più con alcuni, ora più con altri, ma senza che il ritmo di questo variante interessamento sia in alcun rapporto col maggiore o minore carattere nazionale che avrebbero i filosofi»24. In altre parole, «non c’è né la filosofia tedesca né quella italiana, ma solo la filosofia senza aggettivi, nel cui nome unicamente giova parlare a italiani, a tedeschi e a ogni altro popolo e individuo»25. Non a caso del resto, in polemica con un discorso pronunciato da Gentile il 15 aprile 1936 a Firenze26, Croce sostiene che la sola tradizione che occorre riprendere e ripensare non è quella italiana, ma quella umana27 e – nella consapevolezza che «“nazionalità” e “filosofia” sono termini in57

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la tradizione filosofica italiana

congruenti, politico l’uno, teoretico l’altro»28 – conclude con queste parole: «io non provo nessun entusiasmo per la “filosofia nazionale”, e pei raccomandati “ricollegamenti” allo Spaventa e, magari, al Gioberti e al Rosmini. Anche di questi scrittori, com’è naturale, fo molta stima; ma il tempio filosofico è immensamente più largo di quello dedicato a questi santi: è il Pantheon, e non una chiesa di Sant’Ambrogio o di San Gennaro»29. Completamente diversa è la prospettiva avanzata da Gentile, per il quale il concetto di nazionalità non contraddice quello di universalità del pensiero e la storia della filosofia italiana – della quale possiamo ora analizzare i momenti fondamentali – è ancora spaventianamente orientata dalla trascendenza medievale all’immanentismo assoluto30. In generale, per lui, ogni filosofia nazionale europea nasce dalle ceneri della Scolastica: «una filosofia scolastica italiana è un errore storico; perché è risaputo […] che questa filosofia non ha accento personale, né peculiarità nazionali»31. I pensatori medievali non erano «tedeschi, o italiani o francesi o inglesi, ma scholastici»32. Per questo motivo egli fa cominciare le varie filosofie nazionali europee nel momento in cui ognuna di esse si emancipa dalla Scolastica: Affinché, adunque, si vegga sorgere qualche carattere nazionale nella storia della filosofia cristiana bisogna aspettare la dissoluzione della scolastica. In Francia e in Inghilterra bisogna aspettare il tramonto del sec. XVI, quando sorgono Cartesio e Bacone, che cominciano a scrivere in francese e in inglese, e, nudriti, specialmente il primo, nella filosofia scolastica, rompono con essa, trovando impulsi speculativi radicalmente nuovi. In Germania la dissoluzione incomincia fin dal sec. XIII con Meister Eckhart, che nelle sue Prediche scritte in tedesco inizia non solo una letteratura filosofica nazionale, ma una filosofia che, sebbene si sforzi di rivestirsi della comune forma scolastica, s’inspira a un principio direttamente opposto a quello che governa la filosofia delle scuole. E alla mistica del sec. XIV si riattacca tutta la più schietta tradizione germanica della filosofia moderna33.

Lungo questo angolo di visuale Gentile individua così l’inizio delle tradizioni di pensiero europee fra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna. Come Meister Eckhart e Bacone costituiscono l’inizio rispettivamente della filosofia tedesca e di quella inglese, altrettanto vale per la coppia Cartesio-Montaigne in Francia e per Dante in Italia. Questo cominciamento è tale in quanto negazione – va ribadito – dell’astratto universalismo medievale: 58

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3. giovanni gentile storico della filosofia italiana

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I francesi amano ricordare che gl’inizi della loro prosa nazionale sono dovuti a scrittori filosofici come Montaigne e Descartes. Ma l’Italia non aspettò il XVII né il XVI secolo per produrre grandi opere filosofiche nella lingua nuova. E per questo rispetto è singolarmente importante l’opera di Dante. Tommaso e Bonaventura scrissero latino: il loro pensiero, l’anima del loro pensiero supera i limiti della nazione, è scolastica, europea, cattolica, cristiana: è italiana solo in quanto è alimento sostanziale di un moto di pensiero senza di cui la civiltà italiana sarebbe inconcepibile, e a capo di cui sta Dante. Questi italianizza, appunto, e conchiude, rispetto alla storia del pensiero vivo d’Italia, la scolastica34.

I primi quattro capitoli della Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla sono dedicati proprio agli inizi di tale filosofia: Federico II e l’averroismo; Tommaso d’Aquino; I francescani e S. Bonaventura; Dante Alighieri. La narrazione della tradizione nazionale si apre con Federico II di Sicilia a proposito del quale si possono leggere queste parole incisive: «nella sua corte si può dire che abbia avuto pure la culla la filosofia italiana»35. Nei Problemi della Scolastica e il pensiero italiano si era espresso negli stessi termini: «la corte di Federico non va solo considerata con Dante quasi la culla della poesia italiana […]; bensì anche come il primo focolare di una filosofia, che possa dirsi italiana, e da cui possa prender le mosse lo storico della filosofia italiana»36. Il re svevo e la sua dinastia contribuirono molto alla diffusione della cultura filosofica ma, soprattutto, al superamento della scolastica e della trascendenza medievale: «la ribellione della coscienza […] era cominciata nelle lotte tra Gregorio IX e Innocenzo IV con Federico II, quando questi, vero iniziatore […] di quella dissoluzione della scolastica, da cui sorgerà la moderna filosofia italiana, risolutamente si oppose alle smodate pretese del papato, contrapponendo alle sue dottrine teocratiche il principio dell’assoluta autonomia dello Stato»37. Il principio dell’autonomia dello Stato dalla Chiesa è uno dei modi in cui si esemplifica quel criterio di progressiva immanentizzazione e, insieme, di emancipazione del pensiero da ogni residuo di trascendenza che Gentile assume nell’esposizione della propria storia della filosofia. Con Federico II si produce una prima affermazione di tale principio, ma con Tommaso d’Aquino abbiamo, al contrario, la teoria della supremazia della Chiesa sullo Stato, dal momento che, se la prima riceve direttamente da Dio l’autorità, il secondo – in quanto semplice istituzione umana – non può riceverla 59

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la tradizione filosofica italiana

se non «di seconda mano per mezzo di lei»38. Anche se nel pensiero di Tommaso d’Aquino è la Chiesa che fonda l’autorità statale, è suo «merito grandissimo […] l’avere nettamente separato il dominio della ragione da quello della fede»39. Insomma, se con Federico II comincia ad affermarsi l’autonomia dello Stato, con Tommaso comincia a essere circoscritto il dominio della ragione. Proseguendo lungo l’iter avviato, Gentile liquida quindi il misticismo francescano come astratta negazione del valore della ragione, mentre a Dante riserva un posto centrale. Il Convivio – egli scrive – è «opera letteraria nazionale»40 in quanto si tratta del «primo libro di filosofia scritto in italiano»41 e la scelta della lingua volgare, invece di quella latina, ha precise ragioni: «la filosofia doveva così uscire dal chiuso della scolastica»42 e rivolgersi al popolo colto, ma che non conosceva il latino. La luce nuova e il sole nuovo di cui parla Dante nel Convivio è la nuova scienza «fatta italiana»43, un sapere «che fin allora era stato patrimonio esclusivo di quei sapienti senza patria, che erano gli scolastici»44. Il valore storico di Dante è dunque incommensurabile: egli è il «padre spirituale della nazione»45. A conferma della sua importanza, anche in lui Gentile rintraccia un tassello fondamentale di quel percorso di progressiva immanentizzazione che, figura dopo figura, si va concretizzando nella storia della filosofia italiana. Nel grande poeta, egli trova infatti riaffermati sia il principio dell’autonomia dello Stato – già anticipato da Federico II – sia la netta separazione del dominio della ragione da quello della fede – già presente nel pensiero di Tommaso d’Aquino. È proprio la ripresa dell’istanza federiciana che consente a Dante di andare oltre l’Aquinate nella teoria politica: «lo Stato, secondo S. Tommaso, […] dipende dalla Chiesa: ossia, per sé, come istituzione umana, non ha valore. È questa la naturale intuizione scolastica. Dante rivendica la libertà dell’impero di fronte alla Chiesa, affermando risolutamente l’indipendenza della ragione dalla fede, nei limiti delle cose terrene»46. Insomma, «il De Monarchia è il primo atto della ribellione alla trascendenza scolastica»47 e «l’indipendenza dell’imperatore, o in altri termini l’assolutezza dello Stato è la stessa indipendenza della ragione verso la rivelazione, è l’assolutezza della ragione»48. E tuttavia, nonostante questi meriti innegabili, Dante mantiene «la Chiesa in certo modo al di sopra dello Stato»49 e i principi tedeschi, che eleggono l’imperatore, non possono essere 60

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3. giovanni gentile storico della filosofia italiana

chiamati propriamente elettori perché sono «strumenti della Provvidenza (denunciatores divinae providentiae); e tra essi un dissidio è possibile solo in quanto tutti o alcuni di loro possono essere ottenebrati dalla nebbia delle passioni»50. Secondo Gentile, il Defensor pacis di Marsilio da Padova costituisce un progresso rispetto al De Monarchia di Dante. Infatti, Marsilio «s’avvia al concetto nuovo dello spirito umano, che sarà appunto elaborato nell’età dell’Umanesimo»51. Gli elettori non sono più strumenti della Provvidenza. Il potere legislativo appartiene al popolo, elettore del principe, che esercita il potere esecutivo. Per Marsilio «la Chiesa non ha nessun valore politico e civile di fronte allo Stato»52 e, pertanto, non può infliggere nessuna pena temporale a eretici o infedeli. Essi saranno giudicati nell’aldilà. Nell’aldiquà solo lo Stato può eventualmente vietare la professione di una fede. Con Marsilio l’uomo diventa «l’artefice divino che crea lo Stato»53. Tuttavia, «il vero dissolvitore della scolastica ed iniziatore dello spirito moderno»54 è Francesco Petrarca. «Scetticismo e posizione di problemi; non ascetismo e rinunzia»55: in questo modo Gentile riassume il pensiero del poeta. Quello dell’uomo è il problema nuovo posto da Petrarca. Egli «vuole porre a centro della scienza l’uomo, e il significato del mondo indagare studiando la natura umana. È un interesse terreno, che gli scolastici non sentivano»56. Ecco la rivoluzione petrarchesca che chiude definitivamente l’epoca medievale e apre la modernità umanista: «quest’uomo misura del mondo è un concetto nel Medio Evo assolutamente dimenticato, e ora risorgente»57. Certo, «il Petrarca è scettico: ha la fede religiosa, ma ha perduto la fede nella scienza»58. Cionondimeno la negazione petrarchesca della scienza è «implicitamente l’affermazione della necessità di una scienza superiore […] che avesse per suo principio il concetto dell’uomo»59. Per questo motivo la posizione dell’uomo come nuovo problema della filosofia e lo scetticismo non sfociano nell’ascetismo e nella rinuncia tipicamente medievali. Anzi – sottolinea e ribadisce Gentile – «quanti han parlato dell’ascetismo petrarchesco non han fatto questa avvertenza: che in tutti i suoi scritti ascetici egli non ricerca il modo di riunirsi a Dio, ma guarda sempre all’uomo, e l’uomo mira a sottrarre ai dolori, che l’ascetismo medievale glorificava»60. Insomma, Petrarca segna l’inizio della nuova epoca moderna e lo fa anche considerando Platone superiore ad 61

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la tradizione filosofica italiana

Aristotele «perché la sua dottrina è più vicina ai dommi del cristianesimo»61. Mentre, per quanto riguarda Aristotele, Petrarca sentiva chiaramente il bisogno di rivedere le scabrose traduzioni medievali che – lungi dal restituire il suo vero pensiero – lo avevano corrotto. Sicché i continuatori dell’opera filosofica cominciata da Petrarca si concentreranno sull’apprendimento del greco e proprio sulle traduzioni di Platone e di Aristotele. Si capisce allora perché – come Gentile non manca di rilevare – «la nuova scienza doveva essere anzi tutto filologia; e la filologia, com’è naturale, cominciare dalla grammatica, dallo studio della lingua»62. Ma ecco che subentra a questo punto un’altra figura nel teatro storico-concettuale che Gentile va plasticamente delineando: il «letterato». Tale figura gli consente di fare un ulteriore passo avanti nel suo percorso e di addentrarsi ancora più a fondo nell’Umanesimo e nei suoi effetti. Per Gentile il «letterato» italiano è «l’uomo dell’erudizione, della coltura, della raffinatezza intellettuale, ma senza una fede, senza un contenuto morale, senza un orientamento nel mondo»63. I continuatori di Petrarca sono definiti, non a caso, «letterati». Per loro, infatti, «molto raramente la filosofia sarà fede e vita piena dello spirito»64. Con queste parole viene chiarito ulteriormente il concetto: Il letterato italiano e il letterato, in generale, del Rinascimento, nato dall’Umanesimo, si potrebbe definire: uno spirito che è mera forma senza contenuto. Il suo contenuto infatti non è contenuto suo: l’ispirazione poetica è l’eco dell’antica poesia: la dottrina filosofica è il pensiero di Platone o di Aristotile; e l’umanista non ci mette di suo se non la filologia onde ravviva in sé ed intende quelle voci che per lungo silenzio pareano fioche: e da questa filologica consuetudine con un mondo che non è più, gli viene una sapiente conoscenza e padronanza della forma, che, staccata dallo spirito che la produsse, diventa in mano all’umanista strumento atto a trattare indifferentemente qualunque soggetto, interessi di un qualunque Stato, che meglio compensi l’umanista, lodi di amici, vituperii d’avversarii, amori di donne, che nella comune fisionomia d’accatto smarriscono i lineamenti individuali e reali, e si confondono in un mondo ondeggiante d’animi insinceri e rettorici. Ogni serietà spirituale sparisce. La stessa filosofia per un secolo è mera filologia65.

Insomma, «l’Umanismo crea il letterato italiano»66 che, senza interesse per la vita concreta, è assorto soltanto nella riscoperta filologicamente corretta dei classici del pensiero antico67. E tuttavia 62

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3. giovanni gentile storico della filosofia italiana

non bisogna credere che Gentile avesse una concezione meramente negativa dell’Umanesimo. Infatti, «quest’Umanesimo, che crea il vuoto negli spiriti, e smorza la fede religiosa, e fa della filosofia una filologia, e dà all’Italia la malattia secolare del letterato, non rappresenta esso la decadenza italiana, che dà in mano la penisola ai francesi e agli spagnuoli e le infliggerà l’onta, il danno e l’esperienza del lungo servaggio»68. La decadenza è piuttosto rappresentata da tutto quello «che sotto i colpi dell’Umanesimo è destinato a cadere: dal mondo medievale con le sue istituzioni e le sue ideologie»69. In altre parole, la positività dell’Umanesimo consiste nel fatto di preparare «la libertà dello spirito moderno»70 e – a poco a poco – spiantare «dagli animi quel concetto del trascendente, che era stato il fulcro d’ogni filosofia medievale»71. Ecco perché, allora, «tutti i pensatori di questa età hanno due facce, e ci presentano contraddizioni, che paiono spiantare i principii stessi del loro filosofare; e chi guarda a una sola faccia, non riesce più a rendersi conto dell’altra»72. Tale contraddizione è evidente già in «Francesco Petrarca, iniziatore dell’Umanesimo»73, posto a metà strada fra una filosofia «solo virtualmente superata»74 (la Scolastica) e una solo virtualmente affermata (l’esigenza sentita, ma non soddisfatta di una nuova scienza e, dunque, l’esito scettico del pensiero petrarchesco). Insomma, per Gentile, l’Umanesimo «ha un doppio valore storico, negativo e positivo»75. Da una parte «è guerra alla scienza del Medio Evo»76. Dall’altra gli umanisti, tutti assorti nei loro studi filologici, rimangono totalmente estranei al loro mondo storico, rinchiusi in una torre d’avorio che porta l’Italia degli intellettuali cosmopoliti alla perdita dell’indipendenza nel 1494: L’Umanesimo è filologia; ma filologia seria, che rivive il mondo umano che vuol conoscere: lo rivive nella fantasia e nel pensiero, ma con una fantasia e con un pensiero, che s’estraniano dal mondo circostante e si chiudono in se stessi. […] Tutta la vita reale e storica non tocca l’animo loro: è qualcosa di indifferente, che si può quindi accettare qual è, senza critica di sorta. L’uomo, ora per la prima volta, si spezza in due, con una scissura, che, quando sarà passato questo periodo necessario di liberazione dal Medio Evo, non si colmerà a un tratto; e in Italia, che fu la patria degli umanisti, ossia dei primi maestri, dei primi risvegliatori dell’Europa moderna, resterà tristo legato di quell’epoca gloriosa, piaga secolare del nostro carattere spirituale, e forse il simbolo più significativo di quel che sarà la nostra decadenza77. 63

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la tradizione filosofica italiana

Si comprende, allora, perché lo stesso Bernardino Telesio incarni, per Gentile, «il tipo del filosofo letterato, continuatore della tradizione filologica dell’Umanesimo: del filosofo, il cui mondo vero è quello del pensiero, e l’altro non lo tocca; che si chiude nella sua filosofia e si estrania alla realtà, che egli più non vede, e che diventa pertanto inafferrabile alla sua filosofia, cui pure, come a scienza del tutto, nulla dovrebbe sfuggire»78. Tant’è che Bacone – ricorda lo stesso Gentile – pur considerando Telesio il primo degli uomini moderni, definì la sua filosofia una «filosofia pastorale, senza cioè interessi umani, sociali, storici, politici»79. Ma tutto il discorso di Gentile sul «letterato», a cavallo fra storia e filosofia, consente di mettere in luce un altro aspetto, più squisitamente connesso alla celebrazione della potenza dello spirito umano in lui ricorrente. A comprova – se ce ne fosse bisogno – che la sua lettura del passato è sempre filosoficamente orientata: da denkender Geschichtsforscher80. Vediamo la cosa più da vicino. L’umanista in effetti – ben più dello scolastico o del mistico – è il vero interprete del messaggio cristiano. Ma, secondo Gentile, in cosa consiste questo grande messaggio? Ecco la risposta: Il Cristianesimo voleva essere, al contrario, la redenzione, la rivendicazione del valore dell’uomo; voleva sollevare l’uomo a Dio, facendo scendere Dio nell’uomo, e rendendo questo partecipe della natura divina. Giacché in Gesù, che è l’uomo stesso nella sua idealità, quale esso dev’essere concepito, Dio era uomo: con tutte le miserie umane, soggetto all’estrema delle miserie, la morte; ed era Dio (quel dio, che redimeva) in quanto questo uomo, che eroicamente affrontava la morte, in questa otteneva il premio della missione della sua vita tutta spesa umanamente in un’opera d’amore81.

Insomma, nel vero spirito del Cristianesimo, Gentile vede – seguendo la lezione hegeliana – quel processo di immanentizzazione dello spirito che è al cuore della sua filosofia. E in questa chiave legge l’Umanesimo italiano. Ecco perché, se l’essenza del Cristianesimo è la rivendicazione del valore dell’essere umano, allora non sono i filosofi medievali i veri cristiani, ma i letterati umanisti. «Il letterato […] ristaurava, come poteva, la libertà dello spirito […]. E per questa sua ristaurazione […], egli, il malvisto della Chiesa, il perseguitato nei libri che saranno proibiti, nell’insegnamento che sarà vietato, nella persona che sarà gettata nei ceppi, messa alla 64

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3. giovanni gentile storico della filosofia italiana

tortura, e perfino bruciata, egli è più cristiano dei suoi persecutori. Egli è il continuatore dello spirito vero del cristianesimo»82. Al contrario, il filosofo cristiano del Medioevo, «quando volle pensare il suo Dio, pensò più a Dio padre che a Dio figlio; e s’impigliò nella rete della metafisica aristotelica che il principio della realtà, come motore immobile, il quale è solo pensiero di se stesso, e non d’altro, faceva estraneo alla realtà»83. In altri termini, per Gentile, è l’antichità ad aver generato la filosofia trascendente tipica dell’epoca medievale e non il cristianesimo, dal momento che nella fede cristiana è incluso «il concetto dell’immanenza di Dio nel mondo, nell’uomo, nello spirito»84. In tal senso, a differenza dei filosofi cristiani del Medioevo, Ficino e Pico sono umanisti in senso esemplare, in quanto veri continuatori dello spirito del cristianesimo. «Platonici, eppure profondamente cristiani»85, Ficino e Pico, «più della trascendenza, che non possono negare, accentuano l’immanenza del divino nella realtà naturale e aspirante a ritornare all’Uno da cui trae sua origine. E aprono la via a Leone Ebreo e a Giordano Bruno»86. Il segreto per comprendere la novità del pensiero umanistico-rinascimentale è questo: «la filosofia greca riapparisce trasfigurata e come ricreata dal soffio del Cristianesimo, inteso come affermazione dell’autonomia e del valore assoluto della natura e dell’uomo. La nuova filosofia infatti dicesi platonica e aristotelica; ed è cristiana, ancorché mal veduta e condannata dai rappresentanti ufficiali del cristianesimo»87. Inoltre sia i filosofi medievali, sia quelli del periodo umanistico-rinascimentale guardano ad Aristotele, ma soltanto i secondi apprendono dallo Stagirita e dagli altri pensatori dell’antichità la libertas philosophandi, ovvero la necessità dell’osservazione diretta, libera dall’ipse dixit di qualsiasi autorità. La realtà effettuale (Machiavelli) e la natura (Telesio) dovevano essere indagate iuxta propria principia: da tale libera indagine, come abbiamo ampiamente visto nelle pagine precedenti, non poteva che emergere un soggetto umano in grado di autodeterminarsi. Tuttavia, non passò molto tempo prima che gli umanisti, acquisita consapevolezza del proprio valore e della propria autonomia, si ribellassero ai filosofi antichi, in nome del principio da essi stessi appreso. Già in Lorenzo Valla vi è un «atteggiamento di ribellione violenta a tutta la cultura tradizionale»88. In particolare, è il suo antiaristotelismo che lo rende – agli 65

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la tradizione filosofica italiana

occhi di Gentile – «il precursore di quegli antiaristotelici, del Rinascimento, come Telesio, Patrizi, Ramo, Bruno e Campanella»89. In breve: con Valla comincia a essere scosso il principio di autorità e la filosofia di Aristotele non è più indiscutibile, non vi è più nei suoi riguardi passiva venerazione. Valla «è il primo assertore della moderna concezione della libertà di pensiero»90 e, pertanto, conclude icasticamente Gentile: «siamo all’alba del Rinascimento»91.

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3.2 La potenza del Rinascimento, la forza del Risorgimento Il leitmotiv teorico che guida tutta la ricostruzione della tradizione italiana da parte di Gentile, ossia l’idea che in essa sia all’opera un processo di progressiva immanentizzazione, trova una ulteriore e ancora più efficace conferma nel confronto col periodo successivo all’Umanesimo: il Rinascimento. Qui, infatti, agli occhi del filosofo, non solo è ormai pienamente acquisita la rivendicazione dell’«autonomia dell’uomo di fronte alla natura inferiore»92, ma «la natura tutta, compreso l’uomo, si spiega iuxta propria principia, senza ricorso a nulla di trascendente»93. La frase si riferisce a Campanella, ma è questo in generale il concetto dell’uomo nel Rinascimento, epoca in cui talvolta la stessa immortalità dell’anima viene messa in dubbio da pensatori come Pomponazzi. Sicché, anche chi, come Campanella, tiene ferma tale immortalità, lo fa argomentando che l’uomo è un «secondo Dio». Una visione presente non soltanto in Campanella, ma nel platonismo fiorentino e, in particolare, in Pico della Mirandola, così come in Leonardo da Vinci e persino in Galilei, là dove questi afferma che la conoscenza umana è, sì, inferiore in estensione a quella divina, ma la eguaglia in intensità. In generale, la tematica della divinità dell’intelligenza umana è ricorrente nel Rinascimento, integralmente attraversato da «uno spirito nuovo, derivante dalla riscossa dell’uomo, che ripiglia l’antico tema della sua preminenza nel mondo per contrapporsi a questo, nella sua autonomia»94. Emerge da qui l’idea dell’homo faber fortunae suae. Sicché la tematica della dignità dell’uomo diventa un vero e proprio topos della letteratura filosofica. Prima della celebre Oratio de hominis dignitate (1486) di Pico della Mirandola, già Ficino – nella sua Teo66

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3. giovanni gentile storico della filosofia italiana

logia platonica (1482) – aveva sostenuto che l’essere umano è superiore agli altri animali poiché, a differenza di questi, egli è inventore di numerose arti e migliora continuamente, esercitandosi con esse, grazie alla pratica costante. Sembra quasi che l’uomo, lungi dall’essere servo della natura, sia un suo acerrimo rivale dal momento che, per Ficino, «l’uomo non solo imita le opere della natura, ne’ suoi dipinti, per es., e in tutte le opere d’arte che paion vive e naturali; ma invade il campo della stessa natura con le sue costruzioni magnifiche, e con le sue officine di metalli e di vetri»95. A riprova della natura sublime dell’essere umano vi è anche l’immane potenza morale di cui è dotato e che si esprime nel dominare se stesso, così come nel fatto che egli solo – fra tutti gli esseri viventi – è capace di sacrificare la propria vita per il bene pubblico. A non parlare del fatto che egli pratica le scienze pure e disinteressate e non mira soltanto alla soddisfazione di bisogni materiali e terreni. Insomma, al pari di Campanella, anche Ficino ritiene che l’uomo sia un «secondo Dio». Si tratta di riflessioni intorno al valore dell’essere umano che sono presenti non soltanto in Pico e Ficino, ma anche nel Giannozzo Manetti del De dignitate et excellentia hominis (1452)96, nel Giambattista Gelli della Circe (1549)97 e nel Giordano Bruno dello Spaccio della bestia trionfante (1584)98. In particolare, Bruno – rivendicando la superiorità dell’epoca presente rispetto a una fantomatica età dell’oro e sostenendo che l’essere umano si approssima sempre più all’essere divino – intuisce il concetto di progresso. Gentile connette tali tematiche – così diffuse in questo periodo – a quella della natura della nobiltà umana, presente in numerose figure dell’epoca: da Leonardo Bruni a Poggio Bracciolini, da Enea Silvio Piccolomini a Bartolomeo Sacchi detto il Platina, senza dimenticare Francesco Filelfo, Cristoforo Landino e lo stesso Marsilio Ficino. Tutti «dicono a una voce – egli sottolinea – che nobili non si nasce, ma si diventa con le proprie opere»99. E non solo. Altro motivo ricorrente, che riguarda il generale elogio dell’essere umano e della sua dignità, è quello dell’autonomia della volontà in grado di arginare il potere della fortuna. La prima figura evocata in tal senso è Leon Battista Alberti: «uomo così rappresentativo dello spirito del Rinascimento»100. Tutte le sue opere «sono una rivendicazione della libertà dell’uomo dalla cieca forza della natura esterna e del caso, e un continuo incitamento all’uomo perché vegga nella sua vita l’effetto delle 67

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proprie azioni»101. Come in Machiavelli e in Guicciardini, anche in lui l’uomo virtuoso è in grado di sottomettere la fortuna. Non a caso, nel Principe di Machiavelli, Gentile sente risuonare un’«eco dell’Alberti»102: là dove il Segretario fiorentino sostiene che la potenza della fortuna può essere arginata grazie a quella della virtù. Insomma, la tematica della dignità dell’uomo, della sua autonomia, del suo essere un «secondo Dio», della sua virtù che può arginare l’immane potenza della fortuna è sviluppata in molteplici modi. L’impostazione gentiliana non potrebbe essere più chiara: la contrapposizione Medioevo-Rinascimento è nettissima e il percorso progressivo dalla trascendenza all’immanenza è evidente. Come Spaventa, così Gentile insiste molto su questo aspetto: per entrambi la filosofia italiana è pensiero concreto, cioè un pensiero che ha sempre concepito l’essere umano come artefice della propria fortuna e che si è costantemente interessato al mondo della vita storica e politica. Come poi farà l’odierno Italian Thought, prolungandone le feconde sollecitazioni, Spaventa e Gentile hanno sottolineato con forza queste caratteristiche fondamentali della nostra tradizione intellettuale. Ma non solo. Il vettore speculativo che va da Dante a Machiavelli, da Bruno a Galilei, fino a Campanella, spesso ha criticato il potere costituito. Le vite di questi filosofi italiani sono interamente orientate all’«esser contro»103. In tal senso si profila una linea che potremmo definire – usando un termine caro agli esponenti dell’Italian Thought – maledetta104. Già Spaventa, non a caso, si era interrogato sulla causa della «circolazione» – oggi diremmo estroflessione – del pensiero italiano, domandandosi in maniera significativa: «dov’è dunque la filosofia italiana, ne’ libri delle vittime o in quelli de’ persecutori?»105. Un interrogativo cui – secondo Spaventa – è facile rispondere perché, «si sa, che di libertà filosofica in Italia ce n’è stata sempre poca o niente, e chi se l’ha presa, gli è costato assai caro»106. Analogamente, per Croce, è «tema d’importanza precipuamente morale […] la storia della filosofia in Italia dal cinque all’ottocento, che fu chiamata la storia del martirio della filosofia italiana, tutta piena di roghi, carceri, esili e persecuzioni d’ogni sorta, eroicamente affrontati per servire alla verità, in contrasto con quella che fiorì in Germania, la quale non solo si dimostrò docile e timida verso i poteri mondani, ma talora fornì a questi artificiose teorie giustificatrici delle loro pratiche operazioni e dei loro politici 68

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3. giovanni gentile storico della filosofia italiana

metodi o sistemi»107. Si capisce, allora, come l’insistenza gentiliana sul «concetto dell’uomo nel Rinascimento» attraverso il pensiero di grandi protagonisti – dall’Alberti a Machiavelli, da Pico a Ficino, da Bruno a Galilei e Campanella – si inserisca all’interno di un vettore interpretativo di lungo percorso che arriva fino ai nostri giorni. In questo quadro – per dimostrare quanto sia radicata nella vicenda italiana la tematica della hominis dignitate – viene perciò inserito anche Leonardo da Vinci. Questi sostiene che l’opera d’arte non è «la copia della natura sensibile, ma l’effige dell’idea»108 perché l’artista «non imita, ma crea»109. Ne segue che «questa potenza creatrice del pittore è quella divinità dell’uomo, che il platonismo additava nell’anima umana e quella per cui esso insegnò a tutto il Rinascimento ad esaltare la dignità e grandezza dell’uomo nel mondo, di cui anche Leonardo ha detto l’uomo modello»110. In altre parole, è la pittura «l’apice dell’umana eccellenza»111 e l’uomo è «centro e riassunto dell’universo e signore della natura»112. Ma paradigmatica è anche la valorizzazione dell’esperienza sensibile, alla quale Leonardo «si appella combattendo, come altri aveva fatto nel Quattrocento italiano, il principio d’autorità ancora dominante nella scolastica contemporanea»113. Ponendo a fondamento della scienza l’esperienza e la matematica, il grande artista precorre non soltanto Galilei, ma anche Bacone e Cartesio. In generale – riprendendo la lectio spaventiana – Gentile sostiene che, «in tutti i filosofi, dal Ficino, anzi dal Valla, al Bruno e al Campanella»114, le «intuizioni innovatrici»115, presenti nei loro sistemi di pensiero, li rendono «i precursori dei più grandi filosofi moderni»116. Certo – da Leonardo a Galilei passando per Bruno e Campanella – il rilievo dato all’esperienza e la libera osservazione della natura non mancò di provocare una discussione molto accesa sulla concordanza o meno del libro della natura con la Bibbia, libro rivelato da Dio. Gentile, a ragione, non trascura questa polemica, trovando in essa un’ulteriore occasione per ribadire la propria linea conduttrice immanentista. E lo fa aprendo un esplicito dissenso rispetto a Bruno. In generale, Bruno – come Galilei e Campanella – è convinto del «principio dell’assoluta incommensurabilità della verità religiosa con la verità della scienza»117. Ma il punto che Gentile sottolinea con forza in queste pagine è che il Nolano – pur avendo il merito di precorrere spaventianamente «quel grande mistico della filosofia intellettualistica, 69

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la tradizione filosofica italiana

che fu nel secolo successivo Benedetto Spinoza»118 – distingue, a differenza del pensatore olandese, un Deus insitus omnibus, il «Dio dei filosofi» immanente alla natura, e un Deus super omnia, il «Dio dei teologi» trascendente, inconoscibile e totalmente altro dal mondo. Il che rende – agli occhi di Gentile – la posizione speculativa di Bruno intrinsecamente contraddittoria, non avendo la forza di andare fino in fondo e negare un Dio fuori dal mondo: «la filosofia del Bruno presupponeva e svolgeva il concetto dell’immanenza del divino nella natura e nell’uomo; e intanto non negava il principio speculativo della teologia cristiana, della trascendenza di Dio»119. In sintesi, «egli non ha coscienza della contraddizione tra il suo assunto d’un sistema che afferma l’infinità reale della natura, e il concetto di un Dio, ente realissimo, fuori della natura: non si avvede che la filosofia che egli professa, distrugge la vecchia fede»120. Vi può essere qualcosa al di fuori di una natura infinita? Se vi fosse non sarebbe infinita. A voler essere coerenti, Bruno avrebbe dunque dovuto negare il «Dio dei teologi» – trascendente e inconoscibile – e mantenere soltanto il «Dio dei filosofi», immanente e conoscibile. Sotto questa luce il suo martirio si rivela necessario per il progresso della filosofia e della scienza: «se Bruno non fosse stato bruciato, una conciliazione poteva parere possibile»121, una conciliazione fra la nuova e l’antica intuizione del mondo, fra un Dio immanente e un Dio trascendente, fra ragione e fede. Anche se – aggiunge Gentile – l’esito tragico in cui incorse il grande filosofo cinquecentesco non fu causato solo dalle sue contraddizioni teoriche ma anche dalle sue incapacità pratiche122, per cui – quando alla fine si imbatte nel «mondo di uomini, di leggi, d’istituti e di forze»123 – lo fa «con l’ingenuo candore d’un fanciullo ignaro»124. Bruno «visse nell’ingenua convinzione, chiaramente manifestata nell’interrogatorio di Venezia, che quel mondo non lo riguardasse, e che ei potesse liberamente filosofare dentro la sfera chiusa del suo pensiero»125. Beninteso, non che questo giudizio su Bruno porti Gentile ad approvare l’atteggiamento, come si sa opposto, di Galilei – nei cui riguardi riecheggiano le critiche formulate a proposito dei «letterati». Egli, «uomo e pensatore, è il modello perfetto del letterato»126. Lo dimostrano i suoi «libri, che, concernendo fatti celesti e schemi e formule matematiche, non possono riferirsi a cose umane, e tanto meno a rapporti sociali e civili»127. Ma non solo: «in tutto il suo carteggio 70

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e in tutta la biografia non si sorprende uno scatto, un accenno, un accento che mostri, di là dal letterato, l’uomo»128. Lo scienziato pisano è «pronto a concedervi tutto, se gli lasciate la gioia di fabbricarsi il suo cannocchiale e di guardarvi dentro, e poi di ragionar liberamente sulle sue scoperte, e di applicare all’esperienza sensata la geometria; e insomma se lo lasciate senza molestie a leggere il gran libro della natura, che è tutto il suo mondo»129. La vicenda di Galilei, perciò, non ha nulla a che fare col martirio di Bruno e il fisico pisano «abiurò, non un’eresia, ma la sua fede scientifica»130. Gentile arriva a dire che «più che la minacciata tortura […], offende il nostro sentimento della dignità umana la genuflessione e l’abiura, a cui si costrinse, contro le sue più ferme convinzioni, il grande intelletto, poiché gli venne meno, nell’estremo cimento, la forza di tener fede alla verità che gli splendeva dinanzi»131. Al contrario, «Bruno fu saldo invece a sostenere la libertà suprema della scienza e a protestare che una filosofia non potesse essere eretica, né esser giudicata dalla Chiesa»132. I rilievi critici su Bruno e Galilei spingono perciò Gentile a preferire lo scaltro Campanella – sempre lungo la linea del primato dell’immanenza, e dunque dell’agire concreto, su qualsiasi atteggiamento di distacco dal mondo. Bruno e Galilei appaiono, in definitiva, uomini non pratici. Essi sono tutti raccolti nella sfera chiusa del loro pensiero, così come lo erano i letterati umanisti, che si imbattono nel mondo umano, sociale, storico e politico loro malgrado. «In Campanella, invece, c’è Machiavelli e c’è Savonarola: la costruzione dell’intelletto congiunta con l’ardore della volontà; la politica, che è poi tutta una filosofia, s’è fatta uomo, fiera d’una sua coscienza eroica, che affronta in pieno la realtà tutta, naturale ed umana, e intende con fede indomabile a trasformarla, armata del pensiero»133. Insomma, Campanella «non pensa soltanto, ma agisce»134 per la realizzazione della sua grande utopia: La Città del Sole. Proprio per questo, quella campanelliana è un’«utopia militante» e non un’«utopia di evasione»135. Gentile lo sottolinea con decisione: Né questi ideali rimangono per lui utopie astratte di mente speculativa e solitaria. Sono la sua fede d’uomo d’azione che ha una smisurata fiducia nelle proprie forze […]; e cerca un piccolo angolo, un punto, ove egli possa inserirsi e far leva, e muovere gli animi, e attrarli a sé, e seco trascinarli a iniziar l’opera, a gettare le basi di questa universale repubblica, che sia tutta una città del sole136. 71

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Così facendo, «Tommaso Campanella redime l’uomo dell’età, pur gloriosa, ch’egli conchiude, da tutte le debolezze dell’individualismo, e del letterato fa una persona, un uomo, conscio della sua dignità e della sua missione sacra nella storia»137. Insomma, Campanella redime la sua epoca, facendo del mero «letterato» un «uomo intero». Teoria e prassi sono di nuovo riunite in un’unica coscienza. «Uomo dalla volontà inespugnabile»138 e dal «carattere di ferro»139 – scrive Gentile con parole intense – «sostenne ogni tormento, senza arrendersi, senza piegare»140. Basta soltanto ricordare come Campanella – dopo aver subito quattro processi, dei quali il terzo si concluse con una sua abiura e il quarto con l’imposizione di tornare nella natia Calabria – progetti una rivolta per l’instaurazione di una repubblica calabrese, liberando la regione dal dominio spagnolo. Nei suoi intenti, gli abitanti di questa repubblica avrebbero vissuto secondo i principi della religione naturale (che per Campanella coincide con il cristianesimo), il comunismo dei beni e quello delle donne. Come si sa, il progetto di rivolta fu denunciato alle autorità spagnole, la repressione fu violenta e Campanella venne arrestato. Ma – nonostante il fallimento della rivolta, il quinto processo a suo carico e le atroci torture a cui fu sottoposto – non si perse mai d’animo, come testimonia il fatto che scrisse La Città del Sole proprio in carcere. Scampò alla pena di morte soltanto simulando la pazzia (infatti, secondo le leggi dell’epoca, i pazzi non potevano essere condannati a morte in quanto non avrebbero avuto la possibilità di pentirsi prima dell’esecuzione). Fu l’unico che ebbe il coraggio di difendere Galilei scrivendo nel 1616, quando era ancora in carcere, l’Apologia pro Galileo. Come giustamente afferma Gentile, Campanella può essere accostato soltanto a «Niccolò Machiavelli, che, a differenza degli stessi scrittori politici del suo tempo e posteriori, ha gli occhi bene aperti sul presente, sulla realtà effettuale, com’ei dice, delle cose e degli uomini; ed ha pure un’accesa idealità in fondo all’anima, un suo programma, una sua passione veemente. E infatti Campanella non si scorda mai di lui, e lo combatte accanitamente»141. Machiavelli rientra tuttavia nella schiera dei «letterati» perché – a differenza di Campanella – «fa del suo programma d’azione una costruzione teorica, al servizio della quale infatti non pone la sua vita»142. Il cammino gentiliano lungo la tradizione italiana subisce a questo punto una svolta significativa. Dopo il martirio di Bruno e la 72

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morte di Campanella inizia infatti – secondo la lettura di Gentile – la decadenza della cultura italiana. Nei secoli XVII e XVIII domina «la letteratura fatta professione, tralignante nella rettorica e nell’accademia»143; si assiste inoltre alla «degenerazione della grande politica del Machiavelli nel machiavellismo, ossia nell’arte per l’arte del governare, senz’anima, senz’ideali, senza i fini del vero governo, senza la fede entusiastica dell’ultima pagina del Principe, non più letta»144; spadroneggia infine «quella filosofia di professione, la filosofia dei seminari gesuitici e delle università peripatetiche, che dimenticheranno Bruno e Campanella, e non s’accorgeranno di Vico»145. In tale contesto Gentile salva soltanto Vico – un’oasi nel deserto, un miracolo, un’eccezione – che, negli Studi vichiani, è presentato, spaventianamente, come il precursore di Kant e dell’idealismo tedesco: La filosofia vichiana, superata la sua prima fase di preparazione e di orientamento, in cui rimane sotto l’influsso del neoplatonismo e si sforza di conquistare il proprio punto di vista, e affermatasi quindi nella sua autonomia, si svolge per due principali gradi, nettamente distinti, quantunque il secondo sia evidentemente lo svolgimento del primo. L’uno è rappresentato dall’Orazione De nostri temporis studiorum ratione (1708) e dal De antiquissima (1710); l’altro dal Diritto Universale (1720-21) e dalla Scienza nuova. In quello si hanno i lineamenti di una filosofia kantiana insieme con taluni dei motivi fondamentali della filosofia, da cui Kant prese le mosse; in questo sono affermati i principii stessi della filosofia postkantiana, cioè dell’idealismo tedesco. Dall’uno all’altro c’è infatti un passaggio analogo a quello per cui l’idealismo soggettivo della Critica della Ragion pura diventa in Hegel un idealismo assoluto146.

Ma qui è subito evidente come Gentile non ripeta pedissequamente l’interpretazione spaventiana. Infatti, è vero che Vico anticipa «le più valide conquiste dell’avvenire»147, ma è anche vero che raccoglie «la più ricca eredità del passato»148 ricollegandosi alla tradizione neoplatonica del Rinascimento italiano. In altri termini, Vico è sì il precursore della filosofia tedesca successiva, ma è anche un filosofo vòlto al patrimonio culturale italiano che lo precede. Anzi, secondo Gentile, proprio il fatto che l’autore della Scienza Nuova guardi al passato rende il suo pensiero filosofico «una delle forme più eminenti dello schietto spirito italiano e una delle maggiori forze autoctone sviluppatesi dalla storia particolare d’Italia»149. Da que73

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sto punto di vista, «uno dei caratteri più appariscenti della italianità del Vico è il suo atteggiamento negativo e polemico verso la cultura del suo tempo, quando lo spirito italiano era tributario della cultura straniera, e accoglieva passivo le idee dominanti oltre Alpi, sopra tutto in Francia: in filosofia, nelle due forme dell’atomismo gassendista e del matematicismo cartesiano»150. Ed anzi «contro questa cultura in voga, di cui notava accortamente le origini forestiere, il Vico si vantava di essere “autodidascalo” e di far parte per se stesso riannodandosi alla tradizione italiana dei filosofi del Quattro e del Cinquecento: ai Ficino, ai Pico, ai Patrizzi, ai Mazzoni, agli Steuco. E in realtà la mentalità del Vico si spiega meglio nel suo svolgimento se si ricollega col pensiero italiano del Rinascimento, anzi che con quello de’ suoi contemporanei»151. Insomma, Vico è «il massimo erede del nostro Rinascimento e insieme l’oscuro profeta d’ogni più alto concetto filosofico dei tempi nostri»152. E proprio questo ne fa un ulteriore tassello lungo il percorso di progressiva immanentizzazione in cui consiste la storia della filosofia italiana. Infatti la sua filosofia è «spiritualmente immanentistica […]. Ciò non toglie tuttavia che anche nel Vico riappaia il trascendente»153, dal momento che, per il filosofo napoletano, «la realtà è naturale, ed ha un principio metafisico a sé, diverso da quello onde si genera la storia, e ad esso irreducibile»154. Insomma, l’immanenza è ancora soltanto parziale, così come si è visto nella filosofia di Bruno. A questo punto – volendo continuare a seguire Gentile nel percorso che dalla trascendenza medievale porta all’immanentismo assoluto costituito dal suo stesso idealismo attualistico – è necessario fare i conti con tutta una serie di autori trattati nell’opera Dal Genovesi al Galluppi. Qui il tentativo svolto è quello di porre rimedio al «vuoto speculativo» che Spaventa aveva postulato fra Vico (precursore di Kant) e Galluppi (kantiano senza saperlo). Rimedio che viene ravvisato in Genovesi, nel quale Gentile scorge qualche suggestione kantiana: Con tutte le sue idee innate, egli [sc. Genovesi], infine, è uno schietto empirista, il quale si è accorto bensì, a differenza dei sensisti, che l’esperienza presuppone sempre come sua condizione necessaria qualche cosa di apriori, che, come tale, si può quindi anche dire «innato». Questi sensi interni, questi sentimenti che non si possono dire notizie, non sono certamente ancora le 74

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categorie di Kant; ma vi assomigliano molto, in quanto esprimono la costituzione della coscienza, e quasi la funzionalità della mente155.

In questo passo è evidente il non «piccolo merito del Genovesi»156. Anche se «quelle sue idee innate potevano facilmente sfuggire all’attenzione di chi allora in Napoli si volgeva alla ricca letteratura che si spandeva ogni giorno dalla Francia»157, tant’è che i numerosi suoi allievi sono per «la maggior parte discepoli del Genovesi economista, non del Genovesi filosofo nel senso proprio della parola»158. Di questi ultimi – come vedremo – Gentile prende in considerazione soltanto Melchiorre Delfico. Tuttavia, l’importanza dei seguaci di Genovesi verrà riconosciuta nella prolusione romana del 1918, proprio perché le questioni da essi poste, sul piano più dell’«esperienza» che della «speculazione», rendono i loro discorsi particolarmente «a contatto con la vita». È questo legame fra il pensiero e la storia concreta, ovvero la vita, che ancora una volta appare essere il nucleo nevralgico del pensiero gentiliano in particolare, ma in genere di tutti questi pensatori italiani. Ne è riprova questo passaggio inequivoco: Il Genovesi non ebbe mente per intuire i grandi problemi vichiani; a petto dell’autore della Scienza Nuova, non par né anche meritare nome di filosofo. E pure nel Genovesi e nella numerosa sua scuola e in tutti gli scrittori affini d’ogni regione italiana, l’Italia nella seconda metà del Settecento affronta problemi non sospettati dal Vico: in apparenza molto modesti, dal rispetto speculativo, ma in realtà di grande portata storica, e perciò filosofica. Giacché la filosofia ora si fa piccola per affiatarsi col mondo dell’esperienza e mettersi a contatto della vita: e volgesi all’economia e alle questioni sociali e pedagogiche recandovi il suo spirito illuminato e concreto, per tentare anche in Italia una cultura che sottragga gli spiriti ai frati e agli accademici e ai letterati, stretti in alleanza per opposti interessi concorrenti nel concetto di una vita senza riflessione scientifica e senza libertà spirituale, e di una scienza e di un’arte senza vita159.

Ma perché, allora, nel delineare tale percorso, Gentile non si occupa di altre rilevanti figure dell’epoca come Cesare Beccaria, Pietro Verri e Gian Domenico Romagnosi? Nella prefazione alla seconda edizione della sua Storia della filosofia dal Genovesi al Galluppi, egli risponde con queste parole: L’Italia infatti, nello stesso periodo di tempo a cui queste mie ricerche si riferiscono, non era certo racchiusa nei confini del vecchio Regno di Napoli, dove nacquero e vissero tutti gli scrittori qui studiati. Ma si legga pure tutto 75

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quello che si è detto dei filosofi del tempo appartenenti ad altre regioni italiane […], e si converrà facilmente che le altre regioni, nel secolo che tramezza tra il Vico e il Rosmini, non ebbero pensatori di polso, da potersi considerare portatori del pensiero speculativo nel suo movimento storico160.

Gentile mira a «colmare diligentemente a ritroso i vuoti del mosaico spaventiano»161, ma la sua «non è né la storia del pensiero italiano tra illuminismo e restaurazione, ché vi mancano troppe cose e troppe province (persino le principali, come la Lombardia); né la storia di una cultura regionale, quella napoletana»162 poiché non viene trattato né il pensiero di Giuseppe Galanti, né quello dei più noti Mario Pagano e Gaetano Filangieri. Quello gentiliano è piuttosto «lo schema di una storia della gnoseologia a Napoli, prima di sopravvissuti idéologues, poi di un risveglio che prelude all’idealismo: il completamento regionale insomma della circolazione spaventiana e del lungo sonno che essa postulava tra Vico e Galluppi»163. In tale schema, il punto di svolta è costituito da Galluppi. Questi è presentato spaventianamente come un kantiano suo malgrado: «in epistemologia il Galluppi è un kantiano puro. Checché egli ne dica, tale è la sua dottrina»164, perché egli sa bene quanti e quali siano i limiti dello spirito umano. Pertanto, citando vari passaggi del Saggio filosofico sulla critica della conoscenza di Galluppi, Gentile non fa che confermare quanto aveva già dimostrato, prima di lui, Spaventa: Conclusione: «la nostra scienza è perciò molto limitata sotto tutti i riguardi». Ed è la conclusione del Saggio intero, vale a dire di tutta la filosofia sperimentale del Galluppi. Questo mi pare criticismo schietto, sufficiente di certo per chi voglia ascrivere il Galluppi alla direzione kantiana nonostante tutte le sue invettive, più o meno ragionevoli contro il soggettivismo del Kant165.

Così, anche per Gentile, Galluppi «inizia in Italia un nuovo periodo speculativo. Nel quale il nostro pensiero, continuando a tenersi a contatto col pensiero moderno europeo, si solleva col Rosmini e col Gioberti a un’altezza non più toccata dopo i grandi pensatori del Rinascimento, e dopo Vico»166. Nel Rosmini e Gioberti ritroviamo gli stessi termini. Ma non solo. Qui viene esplicitamente ripresa la teoria spaventiana della circolazione: Il Galluppi svegliò gl’Italiani dal loro sonno dommatico, e, invitandoli agli ardui problemi della critica della conoscenza, sfatò in Italia l’autorità del 76

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sensismo come quella dell’antico innatismo. Era il nostro pensiero medesimo, il quale, secondo il geniale concetto storico di B. Spaventa, dopo la sua secolare circolazione per l’Europa, ci ritornava sviluppato e maturo. Non si lasciava bensì riconoscere nelle sue native fattezze; di guisa che bisogna pur dire che Kant, proprio lui, ci trasse fuori dalle secche d’una filosofia dommatica, empirica o aprioristica e mistica che fosse, e avviò per la libera navigazione del criticismo e dell’idealismo moderno167.

Non a caso proprio nella prefazione al Rosmini e Gioberti viene sottolineato come «quel gran fatto della circolazione del pensiero europeo»168 sia «il risultato più cospicuo, a cui sia pervenuta in Italia la critica della nostra storia filosofica»169. Teoria che – e sono parole significative – «avrebbe dovuto fissare definitivamente, come un punto fermo, il valore che nello svolgimento della filosofia moderna devesi attribuire ai nostri, e fra essi specialmente al Rosmini»170. V’è di più: riprendendo quanto già Spaventa aveva messo in luce, Gentile non manca di rilevare come lo studio di Kant sia stato fecondo per la filosofia italiana e, in particolare, per Galluppi e Rosmini: Con lo studio di Kant, riprende novelle forze e risorge la filosofia italiana; ed è degno di nota come Kant sia rimasto o sconosciuto o incompreso da quanti continuavano, in quel tempo, a proseguire le tradizioni del secolo decimottavo. Altri con diligenza ha descritto gl’inizi di questa applicazione degl’ingegni italiani al nuovo criticismo; ma fino al Galluppi e al Rosmini non ha trovato se non conoscenze indirette e incomplete, e soprattutto un manchevole concetto della riforma della filosofia operata della critica kantiana […]. Talché ben a ragione possiamo dire che il kantismo è il gran lievito della nostra filosofia171.

Insomma, se «nel Galluppi, si può veder quasi la prova dell’efficacia fecondatrice del criticismo sulla storia della nostra filosofia»172, a proposito di Rosmini viene sottolineato il fatto che «il “Prete di Rovereto” è pure il Kant d’Italia»173. Ma qual è la relazione fra Galluppi e Rosmini? Secondo Gentile, «questo è il punto che interessa allo storico, che voglia rendersi conto dell’azione effettivamente esercitata sulla filosofia italiana dagli scritti del Galluppi»174. Per capirlo, occorre comprendere quale sia il concetto fondamentale espresso rispettivamente nel Saggio galluppiano e nel Nuovo Saggio rosminiano. In entrambe le opere è il problema gnoseologico a rivestire la massima importanza:

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Orbene, qual è il concetto fondamentale delle due opere? Il Galluppi lo dichiara esplicitamente sul principio del lib. IV, dove dice: «l’oggetto di quest’opera è di risponder adeguatamente a queste due questioni: Primo: posso io sapere qualche cosa? Secondo: che cosa posso io sapere? Ciò è lo stesso che esaminare la realtà, la certezza, ed i limiti delle nostre conoscenze». Di guisa che la «critica della conoscenza», pel Galluppi, come già per Kant, deve ricercare le condizioni, onde si rende possibile la conoscenza, o l’esperienza […]. Nel Rosmini vedremo quanta consapevolezza acquistasse il problema gnoseologico; ma bisogna intanto convenire che questo problema egli lo prende dal Galluppi: e che in questo rapporto tra i due scrittori si fa manifesta tutta l’importanza storica del filosofo meridionale, se si considera che dalla esatta posizione di questo problema deriva per gran parte il valore e la fecondità storica della dottrina rosminiana175.

Proprio qui viene alla luce il metodo adottato da Gentile nell’interpretare il pensiero dei filosofi e che consiste nel far funzionare un dispositivo non «storico» ma «speculativo», tale per cui in un autore può essere rintracciato un «impensato» inconsapevolmente celato. Questo metodo è descritto esplicitamente nel Rosmini e Gioberti: «altro è il pensiero di un filosofo, altro il giudizio che egli stesso ne fa e i rapporti storici che vede tra il suo pensiero e quello degli altri»176. Sicché, circa il pensiero rosminiano, «non si vuol dire certo che la polemica antikantiana del Rosmini non sia in assoluta buona fede: bensì soltanto che sia più voluta che logicamente connessa al centro speculativo del pensiero rosminiano»177. In altre parole, non importa se Galluppi e Rosmini intesero essere critici della dottrina speculativa del filosofo di Königsberg: entrambi furono kantiani loro malgrado – per usare un’espressione spaventiana. Tant’è che, come si è visto, Rosmini può essere definito il «Kant d’Italia». Definizione possibile perché il suo antikantismo «più che da motivi teoretici, sarebbe derivato dall’esigenza di assicurare basi metafisiche alla restaurazione religiosa di quegli anni, esigenza che contrastava appunto con la critica kantiana della metafisica; viceversa il contenuto teoretico, la logica interna del sistema rosminiano, nonostante le intenzioni dell’autore, sarebbe strettamente kantiana»178. Di conseguenza, per Gentile, l’antikantismo di Rosmini fu «imposto da motivi estrinseci al processo logico del sistema»179. Perciò – secondo il metodo poc’anzi descritto volto a cogliere l’«impensato» di un pensiero – occorre «distinguere nel Rosmini e sceverare il contenuto speculativo dalla forma contingente di cui quel contenuto si rive78

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stì per conformarsi e adeguarsi al carattere morale del tempo»180. Insomma, è necessario «distinguere il pensiero che è eterno, dalle forme storiche transeunti»181. Questo consente a Gentile di dire:

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Il Rosmini concilia, come aveva fatto già Kant, le opposte sentenze empiriche e idealistiche, accettando dal filosofo tedesco il principio che pensare è giudicare, e che ogni giudizio è una sintesi a priori di materia offerta dall’esperienza sensibile e di forma innata nell’intelletto, grazie all’unità originaria dello spirito che si sviluppa per la funzione sintetica della ragione182.

Quella che Rosmini chiama «idea» dell’essere ha la stessa funzione della «categoria» kantiana, non essendo conoscenza, ma condizione della conoscenza. Certo, come già ricordato nel capitolo precedente, le categorie kantiane sono molteplici e Rosmini le riduce criticamente ad una sola, ovvero alla già menzionata idea dell’essere. Cionondimeno, per Gentile, la critica rosminiana al filosofo tedesco – secondo la quale le molteplici categorie kantiane, essendo soggettive, conducevano allo scetticismo, mentre solo l’idea dell’essere è «oggettiva, e dà quindi valore oggettivo a tutta la conoscenza che se ne informa»183 – è «fondamentalmente sbagliata»184. Secondo Gentile, tale critica non ha alcun valore, dal momento che «dopo Kant non si può più parlare di scetticismo»185. Per quale motivo? In primo luogo, la dottrina kantiana della sintesi a priori (unità di forma e contenuto, categoria e intuizione, soggetto e oggetto) «distrugge l’antica concezione di oggetto separato dal soggetto, poiché il nuovo oggetto non esiste per sé, fuor della sintesi, essenzialmente soggettiva, co’ dati offerti dal senso»186. Ma poi occorre tener presente che lo scetticismo «presupponeva l’oggetto estrinseco al soggetto e la dualità assoluta; altrettanto presupponeva il dommatismo, questo e quello consistendo nella correlazione, o giustificata arbitrariamente (dommatismo) o non saputa giustificare (scetticismo), fra i due termini sempre opposti. Sfatato da Kant il falso presupposto, il sistema suo non potevasi più impugnare di scetticismo, perché lo scetticismo era per sempre caduto col suo fratel germano, il dommatismo»187. È evidente l’interpretazione antidualistica della filosofia kantiana da parte di Gentile che si intravede nella controluce della diagnosi condotta su Rosmini. Nel pensatore tedesco vi è, certo, il dualismo fra fenomeno e noumeno. Tuttavia, tale dualismo entra in contrad79

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dizione con la dottrina della sintesi a priori correttamente intesa. In definitiva, Kant non ha compreso se stesso fino in fondo e finisce con il contraddirsi. Sicché come bisogna distinguere il Rosmini storico dal vero pensiero rosminiano, così è necessario differenziare il Kant storico dalla vera filosofia kantiana, al punto tale che – per Gentile – «il kantismo vero contiene esso la critica definitiva della cosa in sé kantiana»188. Quest’ultima è soltanto un residuo dogmatico che contraddice la dottrina della sintesi a priori, ovvero l’unità originaria di soggetto e oggetto. Insomma, per dir così, siamo alla vista di Hegel. Come si vede, qui, di nuovo, Gentile fa funzionare la sua macchina concettuale, volta a vedere l’intera storia della filosofia, Kant compreso, come un processo teleologicamente orientato verso l’idealismo, punto d’approdo risolutore di ogni dualismo moderno. Ma proseguiamo, accompagnando Gentile nel suo iter all’interno della tradizione italiana. Se Rosmini è definito il «Kant d’Italia», qual è l’interpretazione gentiliana di Gioberti? Secondo Gentile – è necessario sottolinearlo sin da ora – la filosofia giobertiana muove proprio dall’ideologia rosminiana: «qualche accenno, sparso qua e là, basta a dimostrarci che, sebbene l’autore [sc. Gioberti] sia del parere che la psicologia, per dirla con la parola sua, non debba essere fondamento né propedeutica alla ontologia, della quale egli intende specialmente trattare, tuttavia l’ideologia rosminiana è alla base del suo pensiero»189. Con un progresso, però, rispetto a questa, che consiste essenzialmente nella tesi dell’identità dello psicologico con l’ontologico: Immedesimato il primo ontologico e lo psicologico nel filosofico, restano evidentemente immedesimati tutto il reale e tutto lo scibile. Pronunziato importantissimo, che si può dire anzi il supremo risultato e la conseguenza somma e definitiva della filosofia moderna, chi voglia studiarla ed intenderla tutta ne’ suoi momenti essenziali190.

In sintesi, «questo pronunziato è pure l’ultima parola della filosofia italiana»191 e rappresenta non una negazione della precedente dottrina rosminiana, bensì un suo inveramento. In che senso? Nel senso che quello fra Rosmini e Gioberti «non è contrasto tra due filosofie affatto diverse e moventi da opposti principii, ma il travaglio interno a una medesima filosofia e quindi lo svolgimento, attraverso un’aspra polemica, dell’originaria dottrina rosminiana»192. Dun80

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que, Gioberti è un «rosminiano che vuole andare oltre Rosmini»193 e la sua filosofia «uno svolgimento interiore»194, «una integrazione logica dello stesso rosminianesimo»195. Stando così le cose, è facile trarre le dovute conseguenze: per Gentile, fra Rosmini e Gioberti vi è lo stesso rapporto che c’è fra Kant ed Hegel, fra criticismo e idealismo. Il che, in sostanza, non fa altro che sviluppare ulteriormente la tesi già sostenuta da Spaventa. Se Rosmini è il «Kant d’Italia», Gioberti è idealista. Se in Rosmini e Kant vi è ancora un residuo dogmatico, in Gioberti ed Hegel non vi è più separazione fra essere e pensiero e vengono «immedesimati tutto il reale e tutto lo scibile»196. Rispetto a Rosmini, in Gioberti «il soggetto e l’oggetto, ciascuno per sé e opposto all’altro, non esistono più: siamo innanzi al vero soggetto che è anche oggetto e al vero oggetto che è anche soggetto; cioè a quel soggetto-oggetto che è il vero Primo, da cui si deve partire, e che il Gioberti ha chiamato anche, con nome speciale, filosofico»197. Insomma, l’essere reale di cui parla Gioberti non è altro che l’essere ideale di Rosmini bene inteso. Nell’identificazione di soggetto e oggetto consiste il progresso della filosofia idealista di Gioberti ed Hegel rispetto a quella di Rosmini e Kant. Gentile ha così raggiunto il suo obiettivo: dimostrare che l’intero svolgimento del pensiero italiano aveva in sé, in nuce, la potente visione dell’idealismo in cui tutto è portato a grande sintesi. Sicché, l’identificazione giobertiana di soggetto e oggetto gli appare come il risultato più cospicuo del pensiero filosofico italiano qui ripercorso. Con Gioberti si arriva infatti alla fine del percorso di immanentizzazione assoluta del pensiero, all’eliminazione di ogni residuo dogmatico e trascendente. Ma non solo. Le parole della prolusione romana del 1918 sono il segno preciso dell’importanza dell’esito raggiunto: «il Rinascimento era chiuso; ed era cominciato il Risorgimento»198. Il pensiero risorgimentale abbandona le «spoglie della vecchia coscienza, che distingueva e distingueva, e uccideva nell’uomo l’uomo, tarpando le ali al pensiero, estraniando l’arte dalla vita e cacciando la filosofia tra le morte ombre dell’intelletto»199. Con il Risorgimento «la vita diventa una milizia»200. La filosofia si trasforma in «virtù riformatrice e ristoratrice delle forze spirituali, per cui essa si differenzia dal puro sapere scientifico»201 ed è molto più simile alla religione. Qui sta il punto fondamentale e la novità rispetto alla teoria spaventiana: «Gioberti, il grande Gioberti»202 non è soltanto il filosofo 81

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la tradizione filosofica italiana

idealista grazie al quale la filosofia italiana è tornata al passo con i tempi. Egli è colui che chiude definitivamente l’ambivalente periodo umanistico-rinascimentale, che – nella visione gentiliana – è contemporaneamente un’epoca positiva, in quanto il pensiero trascendente medievale comincia a immanentizzarsi, e negativa, in quanto fa la sua comparsa la figura del «letterato» che separa teoria e prassi. Ma, appunto, con Gioberti, «l’Italia dei letterati crollò»203. Ed ora si dischiude uno squarcio di ben più ampia portata: infatti, per Gentile, il programma giobertiano «non è esaurito»204 e il letterato «dev’essere morto non solo nel concetto e nel gusto degl’Italiani, sì anche nella vita, nel carattere, nella volontà»205. È ora di operare affinché «l’Arcadia e la rettorica, l’accademia e la filosofia da eruditi»206 siano «davvero un passato irrevocabile»207. Qui emerge in tutta evidenza come, in Gentile, lo studio della tradizione nazionale non sia mera analisi erudita del passato, ma presupposto teorico per un rinnovamento del presente. Ne fa fede la già citata prolusione romana del 1918. Essa non riguardava semplicemente la filosofia italiana del passato, ma piuttosto il presente di una nazione che – in seguito alla disfatta di Caporetto – si trovava ancora in piena guerra mondiale. Gentile – che era stato sempre favorevole all’entrata dell’Italia in guerra, perché vedeva in essa (e persino nella sconfitta di Caporetto) un’occasione per forgiare la coscienza nazionale – a chiare lettere dice, nella prolusione, che proprio in quel momento di profonda crisi era di fondamentale importanza occuparsi filosoficamente della tradizione italiana: Volgiamoci dunque al nostro passato, non per sigillarlo sotto l’esatta nozione di quel che fummo e pensammo: che sarebbe curiosità vana, o culto superstizioso e mortificante d’una nostra eredità nazionale, morta e infeconda; ma per fare di questa nostra italianità, quale si venne realizzando lungo la nostra storia particolare, il nostro problema presente ed urgente, il segreto della nostra vita spirituale208.

Il «programma» gentiliano acquista qui una luce e una forza lampanti: «la tradizione degna d’un popolo di vivi […] è rinnovamento continuo nello slancio tenace e coerente verso l’avvenire»209. È questo l’unico modo di rivolgersi alla tradizione. Si tratta di riprendere e riaffermare nel presente il pensiero di coloro che Gentile definisce «uomini interi» – ovvero Gioberti e, prima ancora, Dante 82

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3. giovanni gentile storico della filosofia italiana

e Campanella – in cui «arte e dottrina, religione e politica, fede e filosofia, tutto è fuso in uno spirito solo, compatto»210. L’uomo intero «non distingue tra teoria e pratica, tra dire e fare, tra scienza e fede; ed è insomma quel che l’uomo dev’essere: una coscienza!»211. Dunque, è necessario che «uomini interi» à la Dante e à la Gioberti risorgano «nel profondo dell’anima italiana»212. Per Gentile, «questa è l’ora di rifare qui l’uomo intero, che senta come pensa, e operi come parla, uno, saldo»213. E conclude: «è tempo che si riprenda la grande tradizione giobertiana […], instaurando nella filosofia […] quella pienezza, che fa del pensiero fucina ardente, non di semplici sistemi speculativi, ma di sistemi della vita»214. La sintesi fra vita e pensiero, idea e politica, ha ora raggiunto – attraverso la tradizione – il suo approdo.

3.3 Oltre la lezione spaventiana A partire da questo quadro speculativo, dispiegato nei suoi cardini principali, si capiscono alcune critiche di Gentile alla teoria della circolazione di Spaventa e al modo di questi di intendere il concetto di nazione. Se nel Rosmini e Gioberti la teoria della circolazione è – come abbiamo più volte evidenziato – «il risultato più cospicuo, a cui sia pervenuta in Italia la critica della nostra storia filosofica»215, nelle Origini della filosofia contemporanea in Italia è presentata invece come un concetto «alquanto fantastico»216. Spaventa avrebbe concepito la nazionalità «come una sfera chiusa di vita spirituale: che, a sua volta, è concetto non sostenibile né storicamente, né filosoficamente, fondato su una rappresentazione fantastica della nazione, come qualche cosa di esistente in sé, in conseguenza di certi dati naturali»217. Al contrario – sostiene Gentile – «la nazione è spiritualità, ed è, com’ogni fatto spirituale, in quanto si realizza: perciò non presupposto dell’individuo, anzi creazione dello stesso individuo»218. Pertanto, «intesa nella sua spiritualità, la nazione non può più chiudersi in se stessa: perché dire spirito è lo stesso che dire universale. E se la concretezza dell’universale importa le differenze, queste non cancellano mai quello; e la varietà della storia non è che l’eterna variazione dell’uno e l’eterna unificazione del vario»219. 83

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Insomma, non «è possibile concepire né pur la Cina ristretta in se medesima, e spiegarne la storia prescindendo dal movimento universale dello spirito»220. In realtà, alcune affermazioni di Spaventa sembrerebbero scagionarlo dalla critica gentiliana di avere una concezione naturalistica della nazione: La nazionalità non ha più lo stesso significato di prima. Non apparisce più come qualcosa che è dato naturalmente e immediatamente e dirò quasi ciecamente da un inesorabile destino; ma come un prodotto assolutamente spirituale, come il posto che ciascun popolo piglia da sé, per sua propria e conscia energia, nello splendido banchetto della nuova vita. D’ora innanzi nazionalità non significa più esclusione o assorbimento delle altre nazioni, ma l’autonomia d’un popolo nella vita comune de’ popoli; come la personalità dell’individuo consiste nel conservare la propria autonomia nella comunità dello Stato221.

Frasi di questo tipo sembrerebbero dar torto a Gentile, dal momento che, anche per Spaventa, la nazionalità è spiritualità222. Ma ciò che il primo criticava era la concezione spaventiana delle nazioni come «stazioni» dove di volta in volta sosta il pensiero «nel suo corso immortale». Concezione che rendeva il processo storico «spezzato, impedito e dommatico»223 sì che lo spirito «saltava» da una «stazione» all’altra senza che se ne capissero i passaggi e il senso stesso di tale «passare». In tal modo alcune «stazioni», lasciate «vuote», non erano partecipi del generale movimento dello spirito. Ecco perché alla teoria spaventiana egli oppone una circolazione «continua»224. In base a questa, non solo non vi è alcun «vuoto» nel pensiero italiano225, ma viene superata la spiegazione – per Gentile «troppo semplicistica e antifilosofica»226 – che Spaventa aveva fornito di tale «vuoto». Ecco le parole gentiliane: In un solo punto […] non s’appone, secondo me, alla verità: dove ritiene che la ragione del «vuoto» rimasto nella filosofia italiana tra Campanella e Vico, e poi tra Vico e Galluppi, – vuoto da riempire con la storia della filosofia europea, – sia da cercare nella mancanza di libertà degl’italiani, oppressi dalla chiesa cattolica che avevano in casa. «Non ci hanno lasciato fare», egli dice. Ragione inesatta o, almeno, insufficiente; perché la condanna di Galileo non impedì che questi si lasciasse dietro anche in Italia, nella scienza naturale, una scuola fiorente lungo il sec. XVII e il seguente. E la paura della chiesa, di cui si hanno indubbie prove, non impedì d’altra parte a Descartes di iniziare 84

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3. giovanni gentile storico della filosofia italiana

quell’intrepido naturalismo, che doveva produrre Spinoza; né le preoccupazioni religiose, sincere e profonde, valsero ad arrestare il divino intelletto di Vico sulla via di quella ispirata speculazione, che con la quasi incoscienza e sicurezza dello spirito fanciullesco uccise – per dirla con lo Spaventa – in un sol colpo, il Dio del vecchio teismo, e il naturalismo, il materialismo e l’ateismo. E Rosmini, filosofo della restaurazione, che finisce nel kantismo, e nella Teosofia s’accosta all’Hegel aborrito? E Gioberti, il neoguelfo Gioberti, che comincia assoggettando la filosofia alla religione, e finisce anche lui nell’assoluto razionalismo?227.

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Insomma, non solo non è imputabile alla Chiesa alcun «vuoto» di pensiero, ma – per Gentile – tale «vuoto» non è mai esistito: La verità è che il movimento internazionale della cultura nei secoli XVII e XVIII deviò la maggior parte degli ingegni italiani dai problemi filosofici. Furono le scienze naturali, furono le matematiche, furono gli studi storici, che attrassero le maggiori intelligenze. Per la filosofia della cultura generale e dei professori e dei piccoli scrittori bastavano, ed eran d’avanzo, le celebrate novità oltremontane o le onorate tradizioni scolastiche non mai interrotte nelle nostre università lungo tutti interi quei secoli228.

In conclusione, proseguendo e oltrepassando la lezione spaventiana, Gentile ripensa la tradizione italiana in una chiave squisitamente speculativa. Espressione paradigmatica del denkender Geschichtsforscher, egli è consapevole – per dirla con Hegel – che «la tradizione non è solo una massaia che si limita a custodire con fedeltà quanto ha ricevuto tramandandolo immodificato ai posteri, essa non è un’immobile statua di pietra, bensì vive e si gonfia come un potente fiume, che s’ingrossa tanto più, quanto più s’allontana dalla sua sorgente»229. Del resto – citando ancora Hegel – «ereditare è qui in pari tempo un ricevere ed un prender possesso di quanto viene lasciato ed è anche la riduzione dell’eredità ad una materia che lo spirito trasforma. In questo modo quel che viene ricevuto viene modificato, arricchito ed in pari tempo conservato»230. Animato da una forte istanza etica, politica e pedagogica, Gentile mette dunque in pratica l’insegnamento hegeliano: egli non intende ripetere pedissequamente gli autori del passato, ricostruendo «oggettivamente» la vicenda del pensiero italiano dalle origini alla contemporaneità. Tutt’altro. La tradizione italiana è, per lui, «condizione e principio di nuova vita speculativa»231. Essa – scrive Gentile con parole inten85

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se – «non è un passato ancorché glorioso ma tramontato, bensì un vivo presente, operante nell’attualità dello spirito consapevole di sé, della sua forza, del suo destino. Non musei, ma sentimenti, forze animatrici che premono da dentro sul pensiero e sulla volontà»232. Ponendo in questi termini la questione della tradizione, Gentile è un autore fondamentale con cui – ancora oggi – è necessario confrontarsi. Ma non è l’unico. Prima dell’Italian Thought, occorre fare i conti con Eugenio Garin che – avendo insistito sulla vocazione civile quale tratto peculiare della filosofia italiana – rappresenta il terzo importante paradigma interpretativo di cui ora ci occuperemo.

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4. Eugenio Garin: il ritorno alla storia

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4.1 Le critiche a Spaventa e Gentile Rispetto a Spaventa e Gentile, il confronto di Garin con la tradizione di pensiero italiana si inscrive sotto tutt’altro segno: sia nel merito, che – di conseguenza – nel metodo. Mentre i primi due, da filosofi della storia, partivano da una visione del mondo che orientava la storia, Garin capovolge questa impostazione di base: in lui è la storia stessa che viene portata in primo piano, con le sue discontinuità e i suoi mutamenti, senza che vi sia una «logica» sotterranea a guidarne il movimento. Garin stesso – criticando Spaventa e Gentile – rivendica tale impostazione: nell’idealismo – egli afferma nella Filosofia come sapere storico – «la storicità diventa una semplice “figura” per indicare lo scandirsi del processo logico; il tempo di cui si parla, ben lungi dall’essere la sostanza stessa del reale, è la parvenza dell’eterno»1. Talché, «la tanto celebrata storia della filosofia si riduce a una sorta di esposizione “illustrata” della logica – e, se si vuole, di una logica che è teologia camuffata»2. V’è di più: La temporalità è bruciata: ridotto il rapporto fra prima e poi a legame di premessa e conseguenza, il futuro è tutto precostituito e perde ogni imprevedibilità, mentre il presente è svuotato di molteplicità, scelta e libertà […]. E la storia della filosofia, rovesciata in filosofia della storia, riduce alla fine la storia a logica, anzi a logica divina, al di là di ogni svolgimento temporale3.

Se il giudizio di Garin sul modo di guardare alla storia dei suoi predecessori è – come si è appena visto – del tutto negativo, altrettanto dure sono le sue critiche nei confronti delle interpretazioni che Spaventa e Gentile danno della tradizione nazionale. Quella spaventiana, secondo Garin, è «rigidamente connessa con una im87

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postazione teorica che serve di misura e di limite ad ogni giudizio»4, per cui «invano nei suoi saggi su Bruno o Campanella si cerca Bruno o Campanella; dovunque si ritrova Spaventa, e il suo tormento e i suoi problemi»5. Garin riconosce essere le pagine spaventiane al tempo stesso «tutte lampi di geniali intuizioni, e tutte belle infedeli»6. In altri termini, Spaventa «era troppo robusto filosofo per non penetrare a fondo là dove incontrava pensatori congeniali; ma entrava dovunque con prepotenza; e la voce sua soverchiava spesso quella dell’autore che doveva ascoltare; e parlava troppo lui, e l’altro o taceva, o era come frastornato dalla parola soverchiante dell’espositore»7. A essere criticata, inoltre, è soprattutto la categoria di precorrimento, «onde un pensatore nostrano valeva non tanto per quello che aveva detto di proprio, di storicamente individuato in una situazione nazionale, ma per quello che aveva imperfettamente anticipato, volta a volta, di Cartesio, di Locke, di Spinoza, di Kant, di Hegel»8. In tal modo «la filosofia italiana fu banalizzata in una uniformità malinconica; i pensatori singoli fatti in pezzi, senza preoccupazione alcuna della loro concreta situazione storica, del loro valore di personalità complete»9. Inammissibili sono, infine, i vuoti, «le zone buie, i periodi sordi e muti del pensiero italiano»10 che Spaventa colloca nel Seicento e nel Settecento. Più articolato e meno critico il giudizio di Garin su Gentile, del quale egli rileva innanzitutto questo aspetto: Alla tradizione dello Spaventa si collegò direttamente lo storico maggiore che il pensiero italiano abbia avuto in questo secolo: Giovanni Gentile, che dal Duecento all’inizio del Novecento non ha lasciato senza indagine momento alcuno del pensiero italiano, anche se non riuscì mai a condurre a termine quell’opera d’insieme che venne a lungo disegnando. […] Non c’è aspetto del pensiero italiano che il Gentile non abbia affrontato, e non solo in sintesi originali, ma in lavori di analisi erudita, in edizioni e commenti di testi inediti o poco diffusi11.

Gentile fu al tempo stesso grandissimo teoreta e altrettanto grande storico. Tuttavia – sebbene in maniera meno accentuata rispetto a Spaventa – anche in lui la teoresi prevale sulla trattazione storica: «partito da Spaventa, Gentile coglieva bene il nesso fra storicità e nazionalità della filosofia, anche se poi quella storicità andava dissolvendo per la convinzione che il punto d’approdo della filosofia italiana fosse costituito dall’attualismo, e il suo carattere distintivo, 88

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4. eugenio garin: il ritorno alla storia

lungo tutto il suo corso, la progressiva realizzazione di quella sorta di religione dell’immanenza che è, appunto, la filosofia dell’atto»12. Di qui «la tendenza a ridurre il significato di ogni pensatore alla tensione fra una concezione dell’assoluto estraniato dall’uomo e trascendente, e la consapevolezza operante della presenza dell’assoluto nell’io (atto in atto): ove quella “trascendenza” significa poi il pensiero passato, le posizioni superate, e questa immanenza indica, piuttosto che il presente, l’eterno. Quando, nella storia d’Italia, osserva Gentile, si è smarrito il senso di quella presenza; quando la religione dell’immanenza si è affievolita, allora hanno trionfato i “letterati”»13. In breve, per Garin, non è possibile leggere una tradizione complessa e variegata come quella italiana, usando criteri troppo unilaterali: «molti, troppi, hanno voluto interpretare la filosofia italiana nel senso di uno sviluppo univoco, alla luce di un solo problema, di un orientamento unico, ritrovato volta a volta nell’immanenza o nella trascendenza, nell’oggettivismo o nel soggettivismo, nella religiosità o nella eresia. Fissato il canone, coloro che non vi si adattavano venivano espulsi dalla tradizione italica, e non di rado un autore medesimo, diviso in parti, veniva per metà accolto e per metà respinto»14. Ne segue che, da una parte, Garin intende valorizzare ogni sfumatura della complessa tradizione italiana, mettendone in luce l’innegabile – sebbene non esclusiva – vocazione etico-civile; e, dall’altra, vuole restituire storicità alla storia «non storica» degli idealisti, prendendo congedo dalle categorie di unità, precorrimento e superamento (Spaventa e Gentile)15, ma anche da quella di sopravvivenza (Croce)16. Leggere tuttavia il pensiero gariniano univocamente in senso anti-idealistico sarebbe riduttivo. Vi sono, in esso, «elementi significativi dell’eredità di Croce (la filosofia come metodologia della storia) e di Gentile (la filosofia come “prassi”)»17. Ma non solo. Come è stato giustamente rilevato, Garin fu «una sorta di mentore del gramscismo italiano, vicino a Togliatti e al suo progetto di preparare il rinnovamento della società italiana attraverso un riconoscimento della continuità con la cultura passata del nostro paese. Ora, un tale proposito, sia pure spinto all’estremo di vedere nel pensiero italiano dell’Ottocento (Rosmini, Gioberti) una anticipazione dell’idealismo hegeliano, era stato proprio uno dei punti fondamentali del 89

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programma filosofico di Gentile»18. Si può dunque scorgere, nell’opera gariniana, «l’attuazione, potremmo dire secolarizzata e spogliata delle sue implicazioni metafisiche, di questo programma “gentiliano”»19 – ma anche gramsciano e togliattiano – di ricollegarsi «alla tradizione del pensiero italiano, dall’umanesimo a Vico a De Sanctis, Labriola, Croce e allo stesso Gentile»20. Ma anche a Bruno e Galilei, come lo stesso Togliatti – che non a caso definì Spaventa il più grande filosofo italiano dell’Ottocento – ebbe a dire significativamente: «nella tradizione nazionale e popolare dobbiamo saper scavare, dunque, per scoprire gli elementi italiani di una cultura socialista nostra. Per una cultura socialista italiana, Giordano Bruno e Galileo Galilei hanno una importanza ben più grande che per altri paesi, per ciò che sono stati e per la traccia profonda che hanno lasciato»21. Inoltre, tornando a Garin, è bene sottolineare come egli – nel ripensare la tradizione italiana – intenda ridimensionare il ruolo di primo piano che hanno assunto Rosmini e Gioberti grazie all’idealismo. Significativa, in tal senso, è questa sua affermazione: «senza dubbio, una storia della cultura filosofica italiana dell’Ottocento meno fedele a una visione tradizionale della filosofia, più attenta a sollecitazioni e a fermenti rimasti quasi senza eco, almeno fra i contemporanei, anche se validi nel tempo, riserverà molto minor posto ai Rosmini e ai Gioberti nei confronti dei Romagnosi e dei Cattaneo»22. Il medesimo rilievo critico è contenuto nell’Introduzione di Garin alla Storia della filosofia italiana di Gentile: «la ricostruzione gentiliana della tradizione intellettuale italiana dalle origini fu condotta attraverso una serie di scelte consapevoli e precise […], fra cui, forse, la più vistosa è la condanna dell’illuminismo a favore del romanticismo, il sì a Rosmini e il no a Cattaneo»23. Il sì di Garin a Cattaneo ricorda le famose parole di Gobetti: «se ci richiedono dei simboli: Cattaneo invece di Gioberti, Marx invece di Mazzini»24. Ma non solo. Garin, in questo, è molto vicino a Norberto Bobbio25, il quale, infatti, ritorna spesso su Cattaneo e lo ricorda come colui che lo ha «liberato definitivamente dalla prigione delle sterili astrazioni filosofiche nelle quali è impigliata di solito la mente giovanile»26. Cattaneo è, per Bobbio, «il viatico che lo accompagna verso l’approdo del neoilluminismo»27 e uno dei «maestri e compagni»28 in nome dei quali ricostruire l’Italia del dopoguerra. Secondo le parole che egli scrive nel 1945, «in lui [sc. 90

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4. eugenio garin: il ritorno alla storia

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Cattaneo] oggi ritroviamo una posizione di pensiero che possiamo definire utile al lavoro, che dobbiamo intraprendere, di adeguamento della cultura alla vita, della scienza all’azione, di liberazione dai miti vecchi e nuovi di una cultura corrotta»29. Dunque, ripartire da Cattaneo – «la cui voce fu soffocata tra giobertismo e hegelismo»30 – significava battersi per un’«Italia civile»31 e combattere quella che Bobbio ha definito «ideologia italiana»32. Ecco le parole che chiariscono che cosa intenda il filosofo torinese con questo concetto: Se intendiamo per ideologia un orientamento dominante, egemone, quasi ufficiale che non appena scosso da tendenze contrarie riprende il sopravvento, e fa apparire eretico, non genuino, non nazionale, ogni altro pensiero che non vi si adegua, ebbene questo orientamento è sempre esistito, ed è un certo spiritualismo di maniera, ora speculativo, ora soltanto retorico e pedagogico, che scomunica, dovunque appaiano, positivismo, empirismo, materialismo, utilitarismo, come filosofie volgari, anguste, mercantili, impure33.

Non fu una battaglia vincente per varie ragioni. Una di queste è chiarita dallo stesso Bobbio in un intervento del 1982: L’idea di una filosofia nazionale ha accompagnato la formazione della unità nazionale da Gioberti a Gentile, per non parlare della «Italorum antiquissima sapientia» di Vico. Gentile ebbe ancora fortissimo il senso del compito pedagogico e civile della filosofia; del filosofo come mentore della nazione. […] Il problema dell’educazione nazionale non è più un problema che interessi la filosofia italiana. Anche per una ragione più profonda, di cui parlo con l’animo perturbato e commosso, nonostante la mia vocazione illuministica e cosmopolitica: l’Italia non è più una nazione, nel senso che per lo meno nelle nuove generazioni non esiste più il sentimento nazionale, quello che una volta si diceva solennemente amor di patria. L’Italia è ridiventata poco più che una espressione geografica, e gli italiani sono ridiventati, lo dico con forza, «un volgo disperso che nome non ha». Mi domando spesso perché. Ma non ho mai trovato una risposta soddisfacente. Eppure è proprio così: ho domandato spesso a giovani della generazione dei miei figli che cosa voglia dire per loro essere italiani. Ma non è una domanda che li interessi. Il problema li lascia totalmente indifferenti34.

Insomma – rileva Bobbio con rammarico – quello dell’educazione nazionale non è più un problema che riguarda la filosofia italiana. Già Garin del resto portò a compimento la sua Storia della filosofia italiana «senza molta convinzione»35, «con grande esitazione e 91

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per le sollecitazioni dell’Editore»36. Uscita con il titolo La Filosofia nel 1947, essa – con il passare degli anni – gli appariva sempre più come un’opera appartenente «a un altro tempo»37. I motivi sono spiegati da Garin in un saggio del 1989: Avendo accettato di compilare io tutta l’opera, una parte almeno della problematica tradizionale sulla «nazionalità» della filosofia mi sembrò sfocata. Se infatti apparivano nitide certe linee unitarie di interessi e di ricerche, di linguaggi e di tradizioni, emergevano nello stesso tempo con tutta chiarezza le difficoltà di supporre unità di problemi e di sviluppo, o nessi fra soluzioni, attraverso secoli lontani. Mentre i legami culturali fra discipline e campi diversi in un determinato periodo si imponevano, l’identità delle discipline nei lunghi periodi si presentava come assai problematica. Caduto il comodo rifugio delle sorti necessariamente progressive, ossia di un processo lineare e omogeneo de claritate in claritatem, anche nel campo limitato della «filosofia italiana» unità e continuità si facevano spesso evanescenti, mentre diventava via via evidente l’opportunità di cercare la «filosofia» nella letteratura, nelle scienze della natura, nel diritto, nelle scienze morali38.

Eppure questa Storia della filosofia italiana «ebbe una qualche circolazione»39, tanto che uscirono altre due edizioni nel 1966 e nel 1978. Peraltro, non sono pochi gli studiosi che oggi – affrontando la questione della specificità del pensiero italiano – si richiamano a questo testo gariniano, pubblicato anche in traduzione inglese nel 200840. Nel prossimo paragrafo conviene dunque occuparsi specificamente di tale opera. 4.2 La Storia della filosofia italiana Quali erano, per cominciare, gli intenti di fondo che guidavano Garin? Essenzialmente due e fra loro connessi: innanzitutto tornare a indagare la storia nella sua concretezza, concependola dunque come processo libero e non teleologicamente orientato dalla trascendenza all’immanenza. Quindi, e soprattutto, mostrare nella vicenda culturale italiana la prevalenza di una vocazione etico-civile che sa incidere nella vita effettuale più di qualsiasi astrattezza teorica. Nasce da questo diverso angolo di visuale la centralità – nella Storia gariniana – del discorso sulla nazionalità della filosofia. Discorso, questo, pienamente ammissibile perché le idee non nascono 92

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per partenogenesi le une dalle altre, ma entro coordinate storiche e geografiche ben precise, come del resto la stessa espressione «filosofia italiana» sta a significare41. Ma – precisa subito l’autore – è «privo di senso parlare di una filosofia nazionale al di fuori di una consapevolezza precisa, concreta»42. In altre parole, «perché si possa parlare di una comunità spirituale, di un discorso comune distinto dagli altri, è necessario che le persone che entrano in tale discorso si pongano come coscientemente autonome nel rapporto con gli altri»43. Si capisce, dunque, come non abbia senso né «il mito della filosofia pelasgica di giobertiana memoria»44 né «la pretesa di attribuire una “italianità” al pensiero della Magna Grecia, del mondo romano, di Plotino»45, pur avendo tale pensiero influito su «tanta filosofia incontestabilmente italiana»46. Per Garin l’inizio cosciente della filosofia italiana è, senza ombra di dubbio, l’Umanesimo: «la consapevolezza di una unità di cultura che, com’è naturale, appena costituita cerca nel passato i titoli della propria nobiltà, difficilmente potrebbe rintracciarsi prima dell’Umanesimo, quando si venne fissando una direzione che si volle giustificare anche nelle origini»47. Pertanto, «se non si vorrà concepire un pensiero italiano come deterministicamente derivante dalla razza, ma come costruito col costruirsi cosciente di una cultura nazionale, non si potrà cominciare un’esposizione della filosofia italiana che dalle origini più lontane della rinascita umanistica, considerando l’eredità medievale “italiana”, con tutte le limitazioni che già vanno recate al termine applicato a quell’epoca, come una mera introduzione»48. In tal senso, filosofi come san Pier Damiani, Pietro Lombardo, san Bonaventura e san Tommaso «hanno, con altri, creato le basi di una unità culturale che, tuttavia, in essi non prendeva ancora consapevolezza piena»49. Garin critica, dunque, chi – parlando di filosofia italiana – volesse riferirsi al mero fatto geografico, «guardando i certificati di nascita e di residenza dei vari filosofi»50. Tale operazione sarebbe «impresa di una ingenuità quasi assurda»51 perché, «a meno che non si voglia giungere a un determinismo di tipo razzistico, il fatto fisico nudo non costituisce alcun legame unitario; sempre che, ben inteso, proprio una situazione geografica non sia consapevolmente assunta, per una ragione qualsiasi, a determinante di un pensiero»52. 93

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la tradizione filosofica italiana

Ma poi – nel costruire il canone filosofico italiano a partire dall’Umanesimo – egli sottolinea le ragioni per cui è necessario dedicare comunque alcune pagine introduttive al pensiero medievale, nonostante il suo evidente carattere non-nazionale: «l’esame della cultura medievale in Italia è utile a intendere il primo Rinascimento, formatosi indiscutibilmente nella sua orbita anche se spesso in antitesi con essa»53. Allontanandosi tanto dalle teorie della continuità fra Medioevo e Rinascimento, quanto da quelle della frattura fra queste due epoche, Garin sostiene dunque la tesi dell’«originalità nella continuità», che trova nel Rinascimento elementi nuovi, ma anche innegabili nessi con l’epoca medievale. Su tale punto egli è molto chiaro: «che le esasperate posizioni della tarda Scolastica, gli abusi di un arido tecnicismo, contribuissero a una vivace rivolta, è indiscutibile. Eppure a questa rivolta si giunse attraverso le tappe segnate dalla più matura riflessione medievale»54. E ancora: «quando si notano i molti tramiti che congiungono l’antico al nuovo, ci si rende conto che il nuovo è nuova e originale risposta a problemi lentamente maturati e lungamente meditati, risoluzione magari rivoluzionaria, ma di questioni storicamente imposte»55. Tuttavia, ciò non toglie il fatto che «si potrà discutere ancora a lungo intorno agli astrattissimi termini di Medioevo e Rinascimento, ma nessuno confonderà mai una pagina di Petrarca, di Salutati o di Valla con quelle dei tardi scolastici contemporanei»56. Proponendo di studiare il rapporto Medioevo-Rinascimento cercando l’«originalità nella continuità» e non semplicemente o la continuità o la frattura, quella gariniana si pone così in contrasto con molte celebri interpretazioni di tale rapporto, da Burdach a Burckhardt, fino a Gentile. Dalla tesi gentiliana – che a noi maggiormente interessa in questa sede – Garin prende le distanze con queste parole: Per intendere a pieno questo delicato rapporto bisogna, forse, abbandonare lo schema della frattura come antitesi e salto brusco (immanenza-trascendenza; libertà-necessità; natura-spirito), ed esplorare insieme le nascoste parentele fra l’ultima Scolastica e il primo Umanesimo, in cui la polemica è, spesso, come ogni polemica, lotta dei figli contro i padri, degli scolari contro i maestri. Quanto la nuova filologia, su cui con tanta efficacia e verità batte il Gentile, sia parente della logica terministica; quanto il riaffermato valore della persona dipenda dal volontarismo; quanto la nuova scienza sia debitrice dell’ultimo 94

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4. eugenio garin: il ritorno alla storia

occamismo, non è stato ancora a pieno mostrato. Il che non significa negare la novità dell’Umanismo, ma anzi riaffermarne la fecondità, perché è fecondo solo quel nuovo che accoglie in sé quanto resta di valido del passato57.

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Appurata l’importanza del pensiero medievale per intendere quello umanistico-rinascimentale, Garin si esprime sui «grandi maestri del Medioevo, fino al Duecento»58 in questi termini: Educati non di rado fuori d’Italia o da maestri non italiani, operosi fuori d’Italia, inseriti in un’organizzazione scolastica e culturale non nazionale, l’unità linguistica sopranazionale non consiste per loro solo nell’uso comune del latino, ma nella lettura degli stessi libri, nell’uso delle stesse formule, degli stessi procedimenti didattici. Non diversi sono gl’intenti, le preoccupazioni, i bisogni. Né si deve dimenticare che la cultura filosofica è per lo più monastica, fiorente nei grandi monasteri, in ambienti cioè che per la loro medesima struttura attenuavano ogni distinzione d’origine. Costruttori della città di Dio, cittadini della stessa chiesa, questi pensatori non paiono legati a mondi culturali nazionalmente differenziati. Raccolgono le loro biblioteche nei monasteri ove spendono gli anni fecondi della loro vita, spesso lontani dalla patria; non sono in genere nazionali i loro interessi politici, non le loro aspirazioni59.

E anche se fu in epoca medievale che sorsero i primi centri universitari, essi – malgrado la loro innegabile importanza – sono ancora «troppo frazionati […], privi di una comunicazione “italiana”, talora ben poco influenti sulla formazione dei maggiori filosofi»60. Il centro culturale di importanza internazionale è Parigi: La civiltà comunale, il nascere delle università, vengono determinando e facilitando un fiorire di più precise individualità culturali. Eppure ancora nel secolo XIII, e fin nel principio del Trecento, una consapevole caratterizzazione di pensiero nazionale non troviamo. Il gran centro culturale è Parigi; a Parigi ci si forma alla scuola di dottori là convenuti d’ogni parte; a Parigi si diventa dottori e s’insegna. In questa «internazionale» del pensiero i «geni» nazionali, e le vie nazionali, si indovinano; ancora non si fissano61.

Chiarito questo punto, occorre ancora chiedersi: vi sono dei «caratteri costanti»62 che attraversano l’intera tradizione filosofica italiana dal suo inizio umanistico-rinascimentale fino alla contemporaneità? Esistono degli «indirizzi salienti»63 storicamente prevalenti rispetto ad altri? Per Garin, non è possibile ridurre l’intera tradizio95

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la tradizione filosofica italiana

ne nazionale ad un’unica caratteristica. Essendo molto complessa e variegata, è difficile ricondurre tale tradizione ad unità. E, d’altra parte, nemmeno il pensiero di un singolo autore è unitario:

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Ora, se si guardi ad altri paesi di lontana e illustre tradizione filosofica, nell’antichità e nell’età moderna, e non ci si adatti a classificazioni frettolose e arbitrarie, si vedrà la complessità delle loro posizioni. Nel pensiero inglese all’istanza empiristica si è congiunta fino dai tempi più antichi quella platonica; nel pensiero francese al rigido razionalismo puntualizzato in Cartesio si è congiunto il motivo pascaliano. Né i due aspetti sono sempre rimasti separati negli uomini, e antitetici nelle dottrine. Spesso hanno convissuto nella tensione dialettica del medesimo sistema. Berkeley è platonico e empirista; in Pascal convivono esprit de géometrie ed esprit de finesse64.

Per Garin non vi è unità né nel «sistema del singolo filosofo»65, né «nella storia della filosofia nella complessità totale del suo sviluppo»66. Non a caso del resto alcune affermazioni gentiliane – «Cuvier da un osso ricostruiva idealmente l’animale»67; «la filosofia è organismo, unità che è tutta in ciascuna parte sua»68; «il sistema è un’unità»69 – sono inammissibili per Garin che, al contrario, sostiene «la molteplicità delle concezioni filosofiche»70, «la varietà irriducibile delle visioni della realtà»71. Non vi è posto per l’unità gentiliana. Non vi sono «massimi problemi», assoluti, eterni, invariabili e sempre ritornanti, indifferenti al mutare delle epoche storiche (ad esempio la filosofia come sviluppo del pensiero autocosciente da Platone a Hegel; oppure la filosofia come risposta alla domanda sull’Essere: «perché vi è qualcosa piuttosto che niente?» – come recita la famosa domanda formulata da Leibniz nei Principi razionali della natura e della grazia del 1714). Vi sono «particolari, precisi problemi»72 che nascono da concrete situazioni storiche. Dunque, secondo Garin, «la filosofia – una filosofia oggi fatta sul serio – tratta, e deve trattare proprio i problemi “minimi”»73. E questo è vero soprattutto per una storia del pensiero italiano, sempre così attento a quella che Machiavelli chiamerebbe la «verità effettuale della cosa». Infatti, anche se non è possibile utilizzare la categoria di unità né nell’interpretazione dei sistemi dei singoli autori, né in quella della storia della filosofia (sia essa generale o nazionale), è innegabile che vi siano certe costanti, certi indirizzi prevalenti, che contraddistinguono l’intera tradizione italiana:

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4. eugenio garin: il ritorno alla storia

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Quasi sempre, alle grandi costruzioni sistematiche si preferisce una scienza dell’uomo e delle sue attività, una filosofia mondana e terrena, che lascia alla religione il compito di risolvere i massimi problemi. La ricchezza della produzione artistico-letteraria da un lato, dall’altro i problemi derivanti dalla presenza in Italia del centro della Chiesa cattolica e dalle crisi politiche, hanno costituito i due tipi fondamentali d’esperienza su cui si è venuta esercitando la riflessione filosofica italiana: filologia in senso vichiano, come scienza della comunicazione umana; politica e morale, come urgenza del problema dello Stato e della Chiesa-stato. E quindi religione, ma soprattutto come bisogno di chiarire la funzione terrena della Chiesa. I grandi problemi, il problema stesso del rapporto fra mondo e Dio, sono stati vissuti nei limiti di esperienze politiche o di meditazioni personali, morali e religiose, piuttosto che affrontati sul terreno metafisico74.

Tuttavia, un’indubbia continuità e costanza nella storia del pensiero italiano è sottolineata tanto quanto la discontinuità e l’irriducibile molteplicità di visioni filosofiche presenti in essa: Se ci si rifaccia alle origini del Rinascimento si vedrà che, a una filosofia legata alle esperienze dell’arte, della vita civile e della moralità, qual è quella di Petrarca, di Salutati, di Bruni, di Manetti, di Valla, corrisponde un’indagine logica e fisica nella tradizione padovana e poi in Telesio, un’esigenza profondamente religiosa in Ficino, nei due Pico, in Bruno, in Campanella. Sperimentalismo ed esigenze platoniche si connettono in Galileo; le scienze mondane traversano l’età del Barocco; umanismo e religione vivono in Vico; la filosofia civile anima e caratterizza la seconda metà del Settecento e gran parte dell’Ottocento; le istanze della pace filosofica fra aristotelismo e platonismo venano le costruzioni di Rosmini e Gioberti; l’Umanesimo nelle sue classiche esigenze ritorna in forme contrastanti nel positivismo come nella fioritura dell’idealismo75.

Dunque Garin – nel tracciare un quadro d’insieme del patrimonio filosofico che ci precede – evidenzia tanto i caratteri ricorrenti, quanto le irriducibili differenze che contraddistinguono i principali movimenti di pensiero in varie epoche storiche. Per cui, da una parte, avremo «quasi sempre» una filosofia «dell’uomo e delle sue attività», un pensiero mondano e terreno; dall’altra, una tradizione policromatica, la cui varietà emerge già dagli albori umanistico-rinascimentali: si va da una filosofia attenta a questioni civili, morali ed estetiche ad una in cui prevale l’indagine logica e fisica ad un’altra in cui l’istanza religiosa è predominante. 97

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la tradizione filosofica italiana

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4.3 La filosofia italiana fra vocazione etico-civile e pensiero tragico Insomma, nella Storia gariniana vi è un’attenzione particolare per i «piccoli problemi» – filosofici, morali, politici, civili – che sorgono dalla concreta situazione storica in cui i pensatori di volta in volta sono immersi. E non a caso: quella italiana è, per Garin, una filosofia a costante vocazione etico-civile. Un aspetto, questo, su cui molti studiosi si sono soffermati nel corso degli anni e ancora oggi attuale. Per Giuseppe Cacciatore, ad esempio, «la filosofia italiana si è quasi sempre ispirata a un paradigma etico-civile come suo tratto predominante, anche se, naturalmente, non unico ed esaustivo»76. Analogamente, Carlo Augusto Viano ha sostenuto che «l’impegno civile ha sempre prevalso sull’accumulazione concettuale»77. Lo stesso Mario Perniola ha affermato che l’impegno civile è uno dei quattro caratteri peculiari della cultura filosofica italiana insieme alla filologia, all’eclettismo e alla militanza78. Il medesimo concetto è espresso da Remo Bodei: «sullo sfondo di tempi lunghi e pur nell’ambito della sua irriducibile complessità, essa [sc. la filosofia italiana] rimane infatti una filosofia a costante vocazione civile»79. Poche righe avanti, Bodei usa un’espressione che rimane una delle più felici per descrivere la «differenza italiana»: «le filosofie italiane sono pertanto più filosofie della “ragione impura”, che tiene conto cioè dei condizionamenti, delle imperfezioni e delle possibilità del mondo, che non della ragion pura rivolta alla conoscenza dell’assoluto, dell’immutabile o del rigidamente normativo»80. Bodei poi aggiunge alcuni importanti rilievi sull’inesistenza parziale o totale di alcune tematiche che invece sono prevalenti in altre tradizioni filosofiche (nella fattispecie filosofia della scienza e logica da una parte; filosofia dell’interiorità e del dialogo con se stessi dall’altra): Curiosamente poi, malgrado il fondamentale contributo offerto dall’Italia agli studi scientifici – da Leonardo a Galilei, da Volta a Pacinotti, da Marconi a Fermi – negli ultimi secoli e sino a pochi decenni fa non è mai esistita in pratica una riflessione autoctona sulla filosofia della scienza o sulla logica (se si escludono lo stesso Galilei e le figure, rimaste a lungo solitarie, di Peano, Vailati o Enriques e più tardi, nell’ambito della storia della scienza, Ludovico Geymonat e Paolo Rossi). E malgrado l’importanza della Chiesa e l’ampia diffusione delle pratiche religiose, o forse proprio grazie a esse, è poi essen98

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4. eugenio garin: il ritorno alla storia

zialmente mancata una filosofia dell’interiorità, del drammatico dialogo con se stessi (del tipo che si è avuto in Francia da Pascal a Maine de Biran)81.

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Per Giuseppe Galasso, al contrario, non «è accettabile una caratterizzazione di dominante estroversione del pensiero italiano e di una sua riluttanza all’interrogazione della coscienza e al dialogo interiore, nonché alla costituzione e all’analisi della soggettività, in una tradizione di pensiero che, dal Secretum petrarchesco al Soliloquio e all’invigilare se stesso del Croce, passando per esperienze quali quelle di un Tasso o di un Leopardi o di un Manzoni, ha pure avuto una sua eletta e profonda dimensione di interiorità»82. Ma – seppure presente – non è questa la dimensione che, secondo Galasso, meglio caratterizza il pensiero italiano: La filosofia italiana […] merita un’attenzione e una considerazione maggiori di quanto di solito si usa, senza minimamente cadere, per questo, […] nell’inaccettabile e, certamente, infondata presunzione di un’antichissima sapienza italica o di un’eccellenza o primato filosofico italiano, che, come si sa, è ricorsa e ricorre insistente in Italia in tutta l’età moderna […]. Premesso, peraltro, che, se lo storicismo ne rappresenta, a nostro avviso, la nota più caratterizzante e più comunemente o generalmente ammessa, neppure questa nota ne esaurisce una varietà ben lontana dal potersi sintetizzare e fissare nell’antinomia umanistico-scientifico o laico-cattolico o in altre antinomie che in secoli e secoli di storia italiana sarebbe assurdamente prodigioso che non si ritrovassero83.

Dunque, ferma restando l’irriducibile molteplicità di visioni filosofiche presenti nella tradizione italiana, già sostenuta a suo tempo da Garin e riaffermata da Galasso, «lo storicismo – come filosofia e come cultura […] – ha continuato a costituire un asse centrale e un carattere, a veder bene, e tutto sommato, originale, specifico e individuante, se non prevalente»84. Ma il principale continuatore della lezione gariniana è Michele Ciliberto per il quale vi è un’«Italia “laica”, “civile”»85; un’«Italia che ha partecipato da protagonista alla costruzione delle libertà dei moderni»86. E cosa intende Ciliberto con il termine «laico»? Intanto – come egli stesso scrive – è bene sottolineare che «la “laicità” è qualcosa di molto più vasto di una polemica, per quanto aspra, nei confronti della Chiesa di Roma (e di qualsiasi altra Chiesa). Nella “laicità” […] si è espressa una vera e propria concezione della sapienza – quella mondana, civile»87 – tipicamente italiana: 99

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la tradizione filosofica italiana

Quando uso questo termine – «laico» – intendo una concezione i cui semi essenziali sono stati gettati, nel nostro paese, nel Rinascimento con l’opera di pensatori come Alberti, Machiavelli, Pomponazzi, Bruno, Galileo; e potenziati, e sviluppati, nel Settecento, con l’Illuminismo. Per essere ancora più chiaro mi riferisco al principio della libertas philosophandi proclamato da Bruno, Campanella, Galileo; all’analisi «scientifica» della religione svolta da Pomponazzi e alla individuazione del suo ruolo civile operata da Machiavelli; alla critica storica di Giannone al «primato» del vescovo di Roma; alla affermazione della libertà di opinione e al diritto all’educazione sostenute da Filangieri; alle critiche sociali di Genovesi, titolare della prima cattedra, in Europa, di Economia politica; al rifiuto della tortura e della pena di morte compiuto in termini definitivi nel 1764 da Beccaria… In breve: con quel termine intendo una «sapienza civile» – imperniata sul primato del sapere critico e scientifico in tutte le sue forme e, in questo quadro, su un’etica di carattere rigorosamente intramondano – che si è espressa in modo esemplare in quegli autori e che l’Italia ha consegnato alla cultura e alla civiltà degli europei88.

Insomma, per Ciliberto, vi è «una sapienza mondana, civile, che in Italia ha trovato uno dei suoi luoghi di nascita e di maggior sviluppo»89. E ancora: «a differenza di quanto accade in Francia – dove diventa centrale il tema del “fondo del cuore” –, l’ispirazione pratica e “civile”, imperniata sul primato dell’“esteriorità”, è costitutiva»90 della cultura italiana, «così come, in generale, è teorizzato il rapporto con la politica: tra filosofia e politica, come avviene in Bruno e Campanella; oppure fra storiografia e politica, come appare chiaro dalle opere di Machiavelli e Guicciardini»91. Come si vede, la lezione gariniana ha influito su diversi studiosi. In particolare, in Ciliberto riecheggia la «filosofia mondana e terrena»92 di cui ha parlato Garin per definire la specificità del pensiero italiano, legato – sin dalle origini umanistico-rinascimentali – «alle esperienze dell’arte, della vita civile e della moralità»93. La vocazione civile è, dunque, il tratto specifico dell’Italia sul piano filosofico (ma – per alcuni – anche su quello economico94). Non è questo l’unico aspetto, messo in luce da Garin, ancora attuale. Oggi, infatti, non sono pochi coloro che – richiamandosi al Garin di Rinascite e rivoluzioni95 – evidenziano la drammaticità dell’epoca umanistico-rinascimentale. È ancora Ciliberto, ad esempio, a sottolineare la costante dialettica di «disincanto» e «utopia»96. E Cacciari, sempre su questa linea, parla esplicitamente di 100

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4. eugenio garin: il ritorno alla storia

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«Umanesimo tragico»97. Dal rogo di Girolamo da Praga (1416) a quello di Savonarola (1498), dalla Caduta di Costantinopoli (1453) alla discesa in Italia di Carlo VIII (1494), l’Umanesimo è un periodo di crisi, un’età turbolenta, segnata da una tensione che non può non riflettersi – almeno in parte – sul pensiero di autori come Leon Battista Alberti e Machiavelli. È l’inquietudine, dunque, «il carattere, se ve n’è uno, del genus italicum del filosofare»98 – a partire da Petrarca99. Significative, in tal senso, le parole di Garin: Non si è capito che la poesia può fiorire più alta fra le rovine; e così la solitudine dolorosa di Petrarca, e la sua fuga nei campi, è diventata segno di «spirito reazionario», di politica feudale, di conservazione. Non si è compreso che proprio una profonda tensione, il senso di una tragedia incombente, sono le radici profonde che segnano in modo inconfondibile artisti, pensatori e poeti: che il disperato appello alla «renovatio» è l’altra faccia di un senso di morte, e che la ricerca di una misura suprema non è che il tentativo di arginare la follia. Non a caso è la Malinconia, e Saturno, il segno dell’intellettuale100.

Accanto al tema «civile», vi è allora una componente «tragica» che attraversa l’intera storia della filosofia italiana da Petrarca a Machiavelli, da Leon Battista Alberti a Leopardi, fino a Rensi, Tilgher e Michelstaedter101. Un filone «maledetto» che – sulla scia di Garin e, ora, di Ciliberto e Cacciari – è possibile riprendere in quanto paradigma alternativo a quello idealistico. Una linea in cui «prevale un timbro tragico»102 e che «è incentrata, fin dall’inizio, sulla consapevolezza del limite costitutivo, e insuperabile, della “condizione umana”, colto, e sottolineato, con occhio disincantatissimo e con toni spesso affini, da pensatori di prima grandezza quali Alberti, Machiavelli, Sarpi, o lo stesso Leopardi»103. Ma come conciliare allora la dimensione «civile» con quella «tragica» del pensiero italiano? Ecco le parole di Ciliberto: L’insistenza di questa cultura sul «limite» dell’uomo – sul «buio» nel quale egli è sommerso, e dal quale non può uscire – non si risolve mai in un atteggiamento rassegnato, passivo o inerte. È vero precisamente il contrario. Essa, fin dall’inizio, individua nell’agire il carattere proprio dell’uomo, a tutti i livelli – compreso il sogno, l’illusione, l’utopia –, cui non rinuncia mai, pur nella consapevolezza della potenza inesorabile della «fortuna» (nella varia, e complessa, serie di significati che assume nelle pagine di questi autori). Perciò questa cultura si batte con forza ed intransigenza sulla libertas philosophandi intesa come predicato specifico e irrinunciabile dell’indagine umana104. 101

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la tradizione filosofica italiana

Insomma, come ebbe a riconoscere lo stesso Garin, «ha dato tanto l’Italia all’Europa e al mondo»105: dalla filosofia civile al pensiero tragico. Eppure, per usare le parole di Ciliberto, «l’Italia – e questa è una delle sue “miserie” più grandi – ha avuto spesso una autorappresentazione inferiore alla sua “grandezza”, a quello che essa effettivamente è stata e ha significato, anche fuori dei nostri confini»106. Se, per alcuni, a contraddistinguere «la cultura filosofica italiana è la tendenza a sopravvalutare certi autori stranieri»107, tanto che se «il fascismo ci aveva costretto all’astinenza […] ora rischiamo di morire d’indigestione»108, per altri, tale tendenza ha «interessato solo una parte della filosofia italiana degli ultimi cinquant’anni, cioè proprio la parte più “laica”, che vedeva nelle filosofie nate all’estero (soprattutto il neopositivismo, ma anche lo strutturalismo e poi il neomarxismo) dei salutari antidoti alla tradizione specificamente italiana, identificata nello spiritualismo e nella metafisica (anche nella formulazione datane da Giovanni Gentile)»109. La propensione degli italiani alla sopravvalutazione della cultura altrui110 e alla svalutazione della propria111 è comunque molto diffusa fra gli intellettuali e in particolare – per usare le parole di Gramsci – in quella «corrente generale degli “intellettuali” italiani “moralizzatori” che era portata a ritenere che all’“estero” la gente era più “onesta” che in Italia, oltre che più “capace”, più “intelligente”»112. Secondo il filosofo sardo, «questa “esteromania” assumeva forme noiose [e talvolta rivoltanti]»113. Tuttavia, tale venerazione per l’estero «era abbastanza generalizzata e dava luogo a una “posa” snobistica»114. Insomma, fra gli esaltatori dell’italianità (arcitaliani) e i critici dell’italianità (antitaliani) non sembra esserci mai stata una via di mezzo, come rilevava criticamente Cesare Lombroso già all’inizio del Novecento: Da noi si discorre molto, e meglio, molto si declama di patriottismo italiano, di gloria italiana; e peggio ancor che declamare, si spende e si spande in oro e in sangue fino a gettar milioni di lire e migliaia di vite su sterili lande lontane per tener alta, si bestemmia, la bandiera italiana. Ma tutto questo è un ben triste giuoco che copre pur troppo o una enorme ignoranza, o peggio malsani e vili interessi. Ben inteso, io, come dispregio profondamente l’antisemitismo, così altrettanto avverso quell’eccesso di nazionalismo, quel chauvinisme che da noi non ha nemmeno il nome, che pretende un dovere l’odio, o l’oppressione dei popoli vicini più deboli. Ma vi è anche qui un limite a tutto; e quando si giunge a disprezzare una merce od un’opera solo perché 102

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4. eugenio garin: il ritorno alla storia

sono del nostro paese, si passa davvero la misura. Ora, se ci guardiamo bene d’attorno, questo appunto si ripete ogni momento115.

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Tornando a Ciliberto, egli tenta dunque di aggiornare il paradigma gariniano, contrastando la diffusa tendenza alla svalutazione della cultura filosofica italiana e valorizzando «la “parte” dell’Italia laica nella costruzione della civiltà europea, dal XIV secolo ai giorni nostri»116. Tutto questo per due ordini di motivi fra loro connessi: L’Europa, se vuole continuare ad avere un ruolo nel mondo, deve valorizzare le «differenze» di cui la sua storia è sostanziata, e trasformarle in un principio di forza e di energia. L’Italia, se vuole continuare a svolgere un ruolo di primo piano nella prospettiva della costruzione di una nuova identità culturale e ideale europea, deve saper proporre con massima energia i caratteri originari della propria storia, senza disperderli in una generica e indifferenziata «unità» europea, in cui – come direbbe il filosofo – «tutte le vacche sono nere». Deve saperli valorizzare e proiettare in un nuovo orizzonte e, se necessario, anche al di là dei confini dello Stato nazionale moderno. Stato e Nazione non sono termini convertibili l’uno nell’altro senza residui, come proprio la storia italiana testimonia in modo esemplare117.

Come si vede, la lezione gariniana è ancora viva e operante. Pensare la tradizione italiana – con e oltre Garin – non significa allora soltanto valorizzarne la spiccata vocazione civile e la componente tragica, ma anche e soprattutto la sua pluralità costitutiva, la sua irriducibile complessità, nella consapevolezza che non vi è un’unica Italia118, bensì «tante Italie»119, «mille Italie»120, le quali – d’altronde – non fanno altro che rispecchiare le molteplici tradizioni presenti in Europa. A tale ricchezza e varietà occorre richiamarsi per contrastare le «vecchie geremiadi sulla marginalità italiana»121 e la diffusa tendenza alla svalutazione di una cultura che peraltro – negli ultimi anni – è sempre più apprezzata all’estero e, in particolare, in Nord America. Proprio qui è nato il quarto e ultimo paradigma – quello dell’Italian Thought – con cui ora è necessario confrontarsi.

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5. Roberto Esposito e l’Italian Thought

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5.1 L’Italian Thought: un nuovo paradigma interpretativo Se le tre prospettive precedenti ci hanno già offerto tre modelli per pensare la filosofia italiana, l’Italian Thought ci consente ora di analizzare un diverso modo di guardare ad essa. Ma che cos’è, innanzitutto, l’Italian Thought e come è nato questo vettore che, negli ultimi anni, sta riscuotendo un crescente successo? Va subito detto che – sebbene in Italia sia diventata oggetto di costante analisi da parte degli studiosi soprattutto a partire dal 2010 con la pubblicazione di Pensiero vivente di Roberto Esposito – questa impostazione complessiva storico-teoretica ha visto la luce in Nord America (di qui il nome inglese Italian Thought). In particolare, il pensiero italiano si è imposto negli Stati Uniti in seguito alla traduzione e alla diffusione delle opere dello stesso Esposito e di diversi altri autori, fra i quali Giorgio Agamben, Toni Negri, Paolo Virno e Mario Tronti, senza dimenticare Gianni Vattimo, che, da questo punto di vista, ha avuto una valenza quasi pionieristica. Ma come si spiega tale diffusione? La risposta può essere data con le parole di Gentili: «la filosofia ha bisogno, oggi più che mai, di categorie nuove, all’altezza dei tempi. E la filosofia italiana è stata in grado di produrle o quantomeno di individuarle all’interno del patrimonio concettuale del Novecento e di svilupparle nell’orizzonte della globalizzazione: biopolitica, impero, nuda vita, comune»1. Ma ciò che più interessa in questa sede è che Esposito, in Pensiero vivente, porta avanti un’interpretazione diacronica dell’Italian Thought e, rileggendo la nostra tradizione filosofica, rintraccia le caratteristiche peculiari del pensiero italiano contemporaneo nelle sue origini umanistiche. È dall’epoca di Machiavelli, infatti, che la 105

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la tradizione filosofica italiana

nostra tradizione ha assunto a costante oggetto di indagine la categoria di vita, intrecciata a quella di politica, pensando il senso della comunità e della convivenza civile fra gli uomini. Si capisce, dunque, per quale motivo – pur non appartenendo al genere della «storia della filosofia italiana» – non è possibile non confrontarsi con l’opera di Esposito là dove ci si voglia interrogare sul rapporto con la nostra tradizione. Non solo perché in Pensiero vivente è contenuta una proposta che si contrappone esplicitamente a quelle, qui analizzate, di Spaventa, Gentile e Garin. Ma soprattutto perché l’Italian Thought è uno dei filoni filosofici che gode di maggiore vitalità nell’attuale panorama intellettuale, e proprio in virtù di una peculiarità che contraddistingue da sempre la nostra modalità di pensare. Ma, appunto, in cosa consiste, più nello specifico, tale peculiarità? La risposta è contenuta nelle pagine iniziali di Pensiero vivente: «fin dal suo esordio – tra l’inizio del secolo XVI e la prima metà del XVIII – vita, politica e storia costituiscono gli assi di scorrimento di un pensiero in buona parte esterno alla piega trascendentale in cui resta, invece, impigliata la sezione più cospicua e influente della filosofia moderna»2. Si spiega in tal senso l’uso ricorrente da parte degli esponenti dell’Italian Thought di espressioni come «un’altra modernità»3, «altermodernità»4 o «non-moderna modernità»5. E, su questo differente accesso del pensiero italiano all’epoca moderna, così si esprime Esposito: «diversamente dalla tradizione che, tra Descartes e Kant, si istituisce nella costituzione della soggettività o nella teoria della conoscenza, la riflessione italiana si presenta rovesciata, e come estroflessa, nel mondo della vita storica e politica»6. Proprio richiamando questo movimento verso il «fuori» della filosofia italiana, Esposito sottolinea che tale carattere peculiare è «stato da tempo individuato dagli interpreti come il tratto più consistente della nostra tradizione filosofica»7. In particolare, lo si è visto, già Garin e Ciliberto hanno insistito sulla dimensione etico-civile del patrimonio di pensiero che ci precede. Pertanto, Esposito – nel sottolineare la «singolare propensione, da parte della filosofia italiana, nei confronti del non filosofico»8 – si rifà esplicitamente a questo aspetto e in tal senso colloca il proprio lavoro all’interno della letteratura critica che si interroga sulla specificità della tradizione filosofica italiana. Ma, benché conscio dell’incontestabile dimen106

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5. roberto esposito e l’italian thought

sione etico-civile del pensiero italiano, Esposito differenzia subito nettamente il proprio discorso da quello, in particolare, gariniano, così come da quelli di Spaventa e di Gentile. Il punto di divergenza consiste nella possibilità di un discorso sulla filosofia italiana in termini non nazionali ma territoriali. La domanda di partenza è sempre la stessa:

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Esiste qualcosa come una «filosofia italiana»? E, prima ancora, è legittimo considerare la filosofia in termini di appartenenza nazionale o quantomeno territoriale? Oppure la filosofia – come del resto la matematica, la medicina o la musica – non ha connotazioni locali perché trova l’elemento irrinunciabile della propria prestazione in una misura universale?9.

Nel rispondere a tali questioni, Esposito riprende Deleuze e – senza utilizzare il concetto di nazione – ammette una connessione fra filosofia e territorio, intendendo per territorio «non tanto uno spazio geograficamente determinato, compreso all’interno di confini stabili, ma piuttosto un insieme di caratteristiche ambientali, linguistiche, tonali che rimandano a una modalità specifica e inconfondibile rispetto ad altri stili di pensiero»10. Insistendo sull’intreccio di geografia e filosofia – ovvero sulla «geofilosofia» che in Pensiero vivente è definita «la caratterizzazione territorializzante, e dunque anche sempre deterritorializzata, del pensiero»11 – l’autore intende fornire una ricostruzione che non rimanda soltanto alla mera «successione storica», ma appunto alla dialettica di «territorializzazione» e «deterritorializzazione». L’utilizzo del concetto di territorio, piuttosto che quello di nazione, consente così di differenziare in maniera netta questo paradigma interpretativo da quello dei predecessori e di evitare altresì la critica di «nazionalismo» a cui è sempre esposto un discorso sulla nazionalità della filosofia. Sottolineando la costante tendenza alla «deterritorializzazione» del pensiero, Esposito evidenzia l’universalità della filosofia, la quale, piuttosto che chiudersi entro confini particolari, fuoriesce continuamente da sé. Infine, proprio la propensione alla «deterritorializzazione» è presentata come uno dei caratteri più originali della tradizione intellettuale italiana. Una propensione dovuta al cosmopolitismo e al carattere non nazionale che ha contraddistinto la filosofia italiana sin dalla Scolastica e dal Rinascimento. In Pensiero vivente non vengono negate le numerose invocazioni patriottiche di pensatori che vanno da Petrar107

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la tradizione filosofica italiana

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ca a Foscolo e da Machiavelli a Gioberti, ma ne viene sottolineato «il carattere generalmente retorico e letterario»12. Insomma, utilizzare il concetto di nazione in riferimento a una cultura filosofica cosmopolita e non nazionale è improprio. Al contrario, la nozione di territorio permette di evidenziare la costante inclinazione di tale cultura alla «deterritorializzazione» che è considerata il suo punto di forza e non – come piuttosto sottolinea chi preferisce adoperare il concetto di nazione – la sua debolezza: È proprio l’assenza di una profonda vocazione nazionale e, fino alla metà dell’Ottocento, dello stesso Stato unitario, a conferire alla filosofia italiana qualcosa in più, o almeno di diverso, rispetto ad altre tradizioni filosofiche che hanno sperimentato un’identificazione più diretta tra territorio e nazione. Non situandosi nel perimetro della forma nazionale, ponendosi anzi ai suoi margini esterni, fin dall’inizio il pensiero italiano ha percorso una strada differente da quella delle altre filosofie europee. Per ciò, nel momento in cui il tempo della nazione sembra, se non esaurito, quantomeno posto in discussione nei suoi presupposti e fini, esso può affacciarsi al futuro con una maggiore carica innovativa. Anche per questo passa la differenza italiana13.

Forse anche per tale motivo, «quella italiana è stata meno una filosofia del potere che della resistenza»14. A dimostrazione di questa tesi, vengono citati l’esilio di Dante e Machiavelli, il rogo di Bruno e Vanini, la lunga permanenza in carcere di Campanella così come l’abiura di Galilei. Anche nel Novecento non sono mancati esempi significativi: infatti, «se Gentile intende il proprio ruolo filosofico all’interno dello Stato, Croce e Gramsci si pongono, almeno nel periodo fascista, diversamente, contro di esso»15. In ogni caso, alla fine, anche Gentile fu assassinato per le sue idee. Tutti questi elementi possono spiegare, secondo l’autore di Pensiero vivente, il fatto che «l’Italia ha pensato, e in un certo senso continua a pensare, il politico fuori dallo Stato, nella dialettica ininterrotta di ordine e conflitto, potere e resistenza»16. Lo stesso Negri ha evidenziato questi aspetti, parlando di una linea – quella «dei Machiavelli, degli Ariosto, dei Giordano Bruno, dei Galileo»17 – «sempre minoritaria, non per potenza poetica e civile ma per efficacia politica, eppure sempre presente – e sempre antagonista ad un’altra linea, incarnata dai fasti storici del platonismo, del petrarchismo, del manierismo, dell’idealismo»18. Il medesimo concetto è espresso da Negri anche in un contributo dal titolo Italy, Exile Country: 108

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5. roberto esposito e l’italian thought

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Both literary history and social history in Italy are continually marked, in fact, by the presence of exile. From Dante to Machiavelli, from Tasso to Leopardi, from Giordano Bruno to Gramsci, from the anti-Trinitarian Socinians in the sixteenth century to the autonomous workers’ movements, one always finds that exile is a fundamental element in the constitution of the real identity – the identity of the struggle – of the greatest Italian literature and philosophy. There is not a single episode of any large-scale Italian identity that is not marked by exile. Why? Perhaps it is because Italy is actually a country where all the modern revolutions have taken place and none of them has succeeded. Perhaps it is because the very most admirable aspects of Italian identity are found in all that marks Italian society as a laboratory of utopianism, hope, and rupture, with, therefore, the necessary consequence of exile. Italy, after all, is the country that invented the liberty of the moderns. Instead of enjoying that liberty, however, it has been enslaved19.

Resistenza, esilio, assenza di vocazione nazionale: è questa la galassia concettuale che meglio definisce il pensiero italiano. Ma il punto fondamentale, sottolineato da Esposito, è il fatto che tale pensiero è nato e si è sviluppato «fuori dalla nazione e dallo Stato – e dunque senza la risorsa di una capitale che, come Parigi, Londra o Madrid, faccia da collettore geopolitico di una serie di esperienze intellettuali raccogliendole in un luogo comune di produzione e diffusione del sapere nazionale»20. Si capisce, dunque, per quale motivo la tesi contenuta in Pensiero vivente «prende di contropelo l’intera storiografia idealistica»21: Non soltanto la filosofia italiana non è riducibile al proprio ruolo nazionale, ma trova la sua ragione più autentica precisamente nella distanza da esso. Come già si diceva a proposito della dialettica tra territorializzazione e deterritorializzazione, il carattere più intensamente geofilosofico della cultura italiana sta in una terra che non coincide con la nazione e che anzi si costituisce, per una lunghissima fase, nella sua assenza22.

È evidente, allora, come tale proposta teorica non possa non contrapporsi a quelle di Spaventa e di Gentile23. Per quanto riguarda il primo, è possibile affermare in via preliminare come sia il filosofo abruzzese che l’autore di Pensiero vivente si chiedano in cosa consista la «differenza italiana» e come la trovino rispettivamente nell’«ingegno precursore» e nel «pensiero vivente». Tuttavia – rileva Esposito – vi sarebbe nella teoria spaventiana una «contraddizione che svuota dall’interno il tentativo di identificare un carattere pecu109

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liare della filosofia italiana»24. Infatti, basando la sua tesi sul duplice criterio del «precorrimento» e dell’«inveramento», Spaventa, «pur riconoscendo la qualità specifica delle varie filosofie moderne, le ridimensiona al ruolo subordinato di tappe di un unico processo»25, per cui «ogni forma di pensiero assume valore non in base al proprio contenuto originale, quanto al rapporto verticale, di preludio o di verificazione, che la stringe a quella che la precede oppure la segue»26. Sicché, in virtù della «prevalenza della progressione storica sulla spazialità geografica»27, ogni «singola espressione di pensiero trascorre in un’altra – o la precorre – nella linearità di un flusso orientato in una sola direzione»28. V’è di più: La teoria del trasferimento, o della «circolazione», in qualsiasi modo formulata, inevitabilmente riconduce i diversi impulsi teoretici a un unico alveo di scorrimento che simultaneamente li incorpora e li dissolve in quanto tali. Da questo punto di vista, evidentemente, il ruolo di ogni cultura filosofica consiste, più che nella propria originalità, nel contributo che riesce a fornire allo sviluppo di un pensiero universalmente valido proprio perché capace di includere, amalgamandole in un’unica miscela, grammatiche di provenienza diversa29.

Quanto a Gentile, il giudizio di Esposito è ancora più critico. Il filosofo siciliano, infatti, se da una parte libera «la teoria spaventiana dei suoi elementi più estrinseci e schematici»30, dall’altra la rende «ancora più vincolante e pervasiva»31. Analizzando in particolare la prolusione romana del 1918 – Il carattere storico della filosofia italiana –, Esposito afferma che, in Gentile, «l’epicentro categoriale […] è costituito appunto dall’idea di nazione, trasferita dal piano astratto, e per certi versi ancora naturalistico, su cui la tratteneva Spaventa, a una dimensione prettamente spiritualistica»32. Tant’è che, «se la nazione non è ancorata a un elemento definito nella sua radice etnica, ma tesa in uno slancio progettuale mai esaurito, può ben vivere oltre, ma anche prima, della sua effettuazione storica»33. Per questo motivo, la prolusione di Gentile può chiudersi sui nomi di Dante e di Gioberti. Fatto sta che, secondo Esposito, la filosofia italiana non è riducibile al suo ruolo nazionale. Essa si è piuttosto costituita nella distanza da tale ruolo. Di qui si spiega non solo l’«estroflessione» – come la chiama il filosofo napoletano – tipica del pensiero italiano, ma anche l’interesse che esso ha suscitato e continua a suscitare all’estero. Ecco 110

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5. roberto esposito e l’italian thought

perché la proposta teorica di Esposito non si scrive in italiano bensì in inglese e si chiama Italian Thought. A tal proposito, Dario Gentili ed Elettra Stimilli, nella premessa al volume Differenze italiane, precisano: «si tratta, certo, di un’espressione “provvisoria” e probabilmente resterà tale, coniata – non senza ironia – sul calco di quella French Theory con cui si è ormai soliti etichettare l’influenza e la ricezione del pensiero francese del Secondo dopoguerra negli Stati Uniti o, comunque, al di fuori dei suoi confini nazionali»34. Da rilevare come, poche righe dopo, i curatori del volume appena citato sembrano suggerirci che l’Italian Thought non è riducibile né all’«italianità» né alla «teoria»: non alla teoria perché «sono proprio le differenze e i conflitti a mapparne e delinearne il territorio»35; non all’italianità perché tale territorio «è costantemente segnato da “sconfinamenti” o, direbbe Deleuze, percorso da vettori di “deterritorializzazione”»36. Su tale punto Gentili e Stimilli sono molto chiari: «se dunque quello del “fuori” vuole rappresentare un punto di vista privilegiato, non è allora per resa, piaggeria od opportunismo nei confronti dell’“inglese accademico” che Italian Theory non si scrive in italiano»37. Con il nome Italian Thought – che ricalca quello della French Theory, ma anche quello della German Philosophy – si vuole sottolineare il fatto che la filosofia italiana, francese e tedesca hanno qualcosa in comune. Il nome inglese allude, in tutti e tre i casi, a una «riterritorializzazione» di queste filosofie negli Stati Uniti. Infatti con il termine German Philosophy si intende un particolare momento della filosofia tedesca, ovvero quello in cui pensatori della statura di Adorno, Horkheimer e Marcuse furono costretti a emigrare in America a causa dell’avvento del nazismo in Germania. Anche la French Theory si riferisce all’emigrazione di alcuni notissimi filosofi in America. Tuttavia – a differenza di quanto verificatosi per i tedeschi – si trattò di un movimento spontaneo e non determinato da eventi storici tragici. Tale movimento ebbe inizio nel 1966, anno in cui la John Hopkins University organizzò una conferenza su The languages of criticism and the science of man, nell’ambito della quale, oltre a Derrida, intervennero molti altri intellettuali francesi. In seguito, durante gli anni Settanta, questi pensatori – diventati famosi non solo nel loro paese, ma in tutta Europa – furono chiamati a insegnare nelle università americane. 111

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la tradizione filosofica italiana

Questo determinò un forte interesse per il loro pensiero non solo in America e in Europa, ma in tutto il mondo38. Per quanto riguarda l’Italian Thought, a differenza del pensiero francese e tedesco, «non si può parlare certo di egemonia e neanche di una dislocazione materiale – ma del fatto che il successo, in qualche caso clamoroso, di alcuni filosofi italiani è avvenuto in America prima che in Italia e di lì, ancora una volta, si è trasmesso in altri paesi»39. Tuttavia l’Italian Thought, come ammette lo stesso Esposito, è «per ora meno identificabile di quelli che l’hanno preceduto, anche per la diversità, a volte marcata, dei cantieri di ricerca aperti dai filosofi italiani più conosciuti all’estero»40. Come vedremo, questo della poca omogeneità dei contributi è uno dei fattori che destano più perplessità e che fanno concludere ad alcuni studiosi che non è possibile parlare di Italian Thought. Ma, tralasciando per il momento le possibili critiche a tale paradigma e seguendo il filo conduttore tracciato da Esposito, la diffusione dell’eterogeneo pensiero italiano all’estero è dimostrata dalla pubblicazione di tre importanti antologie in lingua inglese, citate in Pensiero vivente, ovvero: Recoding Metaphysics. The New Italian Philosophy, a cura di Giovanna Borradori (1988), Radical Thought in Italy. A Potential Politics, a cura di Michael Hardt e Paolo Virno (1996) e The Italian Difference between Nihilism and Biopolitics, a cura di Lorenzo Chiesa e Alberto Toscano (2009). Per quanto riguarda l’antologia più recente, sulla quale Esposito concentra maggiormente la sua attenzione, già dal titolo è evidente come, per Chiesa e Toscano, la specificità del pensiero italiano contemporaneo sia la costante riflessione sulle categorie di nichilismo e di biopolitica. Nonostante si tratti di concetti nati rispettivamente in Germania e in Francia, viene sottolineata l’originalità dell’elaborazione italiana non solo della categoria di nichilismo, ma soprattutto di quella di biopolitica. Si potrebbe sostenere che l’Italian Thought nasca proprio dalla rielaborazione in chiave innovativa di categorie filosofiche tedesche e francesi. Si veda, ad esempio, non solo la già citata biopolitica (Negri, Agamben e lo stesso Esposito), ma anche la teologia politica (Tronti e Cacciari) e la secolarizzazione (Vattimo e Marramao)41. Che cos’è, più nello specifico, l’Italian Thought? Una risposta molto semplice ce la forniscono i già menzionati Gentili e Stimilli affermando che si tratta di un «orizzonte entro cui riflettere su auto112

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5. roberto esposito e l’italian thought

ri e categorie che caratterizzano il pensiero filosofico e politico italiano (in particolare quello elaborato a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, sempre più tradotto e discusso in altre lingue)»42. Insomma, con l’unica eccezione di Esposito, gli esponenti dell’Italian Thought si riferiscono solo agli ultimi decenni della filosofia italiana (dall’operaismo degli anni Sessanta alla biopolitica contemporanea) e non alla nostra intera tradizione di pensiero. Anzi, talvolta, una delle critiche più frequenti alla prospettiva teorica di Esposito riguarda proprio lo scavo genealogico condotto in Pensiero vivente e l’individuazione di un filo conduttore che lega i filosofi italiani dal periodo umanistico-rinascimentale a oggi. Tale approccio non è condiviso da un certo numero di studiosi per i quali non vi è un tratto comune riscontrabile né considerando il pensiero filosofico dalla prima modernità alla contemporaneità, né limitandosi al solo panorama odierno. Non è un caso se una delle ultime pubblicazioni degli stessi esponenti dell’Italian Thought si intitoli Differenze italiane, laddove appunto la differenza viene declinata al plurale. Se tale eterogeneità comprometta la plausibilità della proposta teorica di Esposito oppure costituisca il suo punto di forza è ancora oggetto di dibattito. Va riconosciuto, tuttavia, il fatto che la diffusione di questo vettore ha favorito il rilancio a livello internazionale della filosofia italiana, sia essa intesa come soggetto di produzione culturale, sia essa intesa come oggetto degno di essere discusso e approfondito. Considerata in quest’ultimo senso, la tradizione filosofica che ci precede è un vero e proprio problema – insieme storico e teorico – che, come abbiamo già rilevato, non veniva affrontato sistematicamente dal secondo dopoguerra e sul quale oggi, invece, si concentra l’interesse di numerosi studiosi, le cui prospettive interpretative possono essere anche molto diverse (si veda, ad esempio, la differenza fra quella di Esposito – che insiste sulla categoria di vita – e quella di Ciliberto che, sulla scia di Garin, evidenzia soprattutto la dimensione etico-civile). A tal proposito, occorre sottolineare come, trattando il tema della tradizione filosofica italiana, Esposito condivida con Ciliberto il fatto di parlarne in un’epoca segnata dalla globalizzazione, dovendo quindi affrontare problematiche differenti rispetto a quelle degli autori analizzati nei capitoli precedenti. L’intento di entrambi 113

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la tradizione filosofica italiana

è, infatti, quello di proporre un discorso sulla filosofia italiana che sia all’altezza di un’epoca globalizzata.

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5.2 Italian Thought: questioni aperte Non è possibile analizzare il valore e i limiti dell’Italian Thought43 senza prima chiarire l’intento di fondo di questa impostazione complessiva storico-teoretica. Certe critiche nei confronti di tale vettore filosofico vengono ridimensionate drasticamente se si tiene presente che – per gli esponenti dell’Italian Thought – il pensiero italiano è meritevole di attenzione soprattutto perché esso è capace di fornire categorie utili a interpretare l’attualità. La filosofia italiana – da Machiavelli a Gramsci – è oggi di grande interesse per la sua fecondità in relazione a un discorso sul presente. Non è perciò con un intento storico-ricostruttivo che, ad esempio, Toni Negri definisce Machiavelli un «profeta della democrazia»44 capace di affermare – in maniera rivoluzionaria per la sua epoca – che «li popoli […] benché siano ignoranti sono capaci della verità»45 e «la moltitudine è più savia e più costante che uno principe»46. Ed Esposito – con spirito analogo – non si accosta al pensiero di Machiavelli per delinearne filologicamente i contorni e le mille sfaccettature, ma perché nella sua opera vi sono elementi ancora attuali come, ad esempio, la teoria del conflitto come forma dell’ordine47. «Principio generativo della democrazia», il conflitto pensato machiavellianamente gioca un ruolo «affermativamente negativo, perché produttivo di unità sociale»48. Questo è uno dei motivi per cui oggi – secondo Esposito – occorre ripartire dal paradigma ontologico-politico che lui stesso ha definito «neo-machiavelliano o conflittualista»49. Ma il Segretario fiorentino non è l’unico autore ripreso dagli esponenti dell’Italian Thought. Negri si occupa anche di Leopardi, definendolo, non a caso, «Machiavelli lirico»50 ed esprimendo l’esigenza di togliere la sua poesia dal museo in cui giace neutralizzata e riportarla «al progetto etico che la anima»: L’attualità di Leopardi consiste dunque in questo: nel fatto di aver per primo percepito, a livello della poesia e sul ritmo delle strutturali gradazioni del gioco metafisico, il passaggio alla sottomissione della società da parte dell’artificialità capitalistica. […] Noi ora viviamo la realtà di questa sottomissione, 114

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5. roberto esposito e l’italian thought

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[…] perciò, tanto più, sentiamo la forza dell’approccio leopardiano. […] Ora Leopardi è attuale perché assieme alla comprensione iniziale del processo ci offre la critica di esso. […] È così che l’attualità della poesia di Leopardi si presenta a noi. Dobbiamo provare a toglierla da quella vetrina di museo nella quale giace, catalogata in maniera compiaciuta, al termine di un lungo lavoro di neutralizzazione. Dobbiamo riportarla all’evento critico, all’azione, al progetto etico che la anima, dobbiamo riconoscere in essa quella grandezza filosofica che ne fa un’alternativa radicale alla cultura borghese e dialettica dell’ultimo secolo51.

Si capisce, allora, che una corretta valutazione dell’Italian Thought non può non tenere ferma la distinzione fra «uso» e «interpretazione» di un testo, altrimenti si rischia «di ritenere illegittime interpretazioni che, in effetti, sono usi e come tali vanno compresi e discussi»52. Ma non solo. L’Italian Thought è una modalità – diversa da quelle fin qui discusse – di ripensare la tradizione italiana in una chiave squisitamente speculativa. Su tale punto Enrica Lisciani-Petrini è molto chiara: La rivisitazione della tradizione messa in atto non è anodinamente storiografica (ammesso che la vera storiografia sia mai davvero tale), ossia volta al semplice recupero o alla banale custodia «museale» di un patrimonio di pensiero ereditato. Non si tratta insomma di lavorare con operazioni di cesello su questo o quel concetto, su questo o quell’autore del passato, indifferenziatamente accolti. Ciò che peraltro, come ebbe a dire Foucault con la consueta, icastica lucidità, è «il più commovente dei tradimenti» rispetto alla tradizione che pur si vuole gelosamente custodire. Si tratta di ben altro. E cioè di guardare al passato partendo da una precisa visione delle cose, che nasce dal nostro presente ed è impiantata sugli assi categoriali prima ricordati [sc. la vita, la politica, la genealogia e il linguaggio]. Nella chiave di quella «ontologia dell’attualità» verso la quale Foucault per primo ci ha insegnato a guardare53.

Ma – precisato l’intento di fondo dell’Italian Thought54 – per quale motivo vi è chi lo ha definito criticamente «una buona strategia di marketing»55 o chi ha parlato ironicamente di «Eatalian Theory»56? E perché, secondo Negri, l’Italian Thought «si presenta come l’ennesimo schema storiografico “debole”»57? Uno dei motivi – che non si è mancato di evidenziare – è la già accennata poca omogeneità dei suoi contributi che sembrerebbero spaziare «dagli angeli all’immunizzazione, dall’ermeneutica alla rivoluzione, dalla lotta di classe alla contemplazione del tramonto, 115

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la tradizione filosofica italiana

dal potere costituente all’inoperosità»58 per cui, alla fine, si potrebbe concludere che l’Italian Thought «non esiste. O meglio esiste, ma solo in quanto dispositivo che neutralizza la differenza italiana»59. Peraltro, i critici sottolineano come non ci sia accordo nemmeno sul nome Italian Thought. Si parla, infatti, spesso di Italian Theory, Italian Radical Thought e Italian Difference. Esposito, ad esempio, dichiara di preferire l’espressione Italian Thought rispetto a Italian Theory60, anche perché il pensiero italiano «piuttosto che in seguito a teorizzazioni preliminari, è come se esso si costituisse nel suo stesso farsi»61. Essendo nato nel momento di massima esplosione delle dinamiche politiche all’inizio degli anni Sessanta, in questo caso la prassi ha preceduto la teoria. Insomma, usare l’espressione Italian Thought – invece di Italian Theory – permette di evidenziare meglio la differenza che intercorre fra tale pensiero, la German Philosophy e la French Theory. Infatti, il lemma «pensiero» (thought), rispetto a «filosofia» (philosophy) e «teoria» (theory), fa risaltare l’elemento della «prassi» che caratterizza la filosofia italiana contemporanea (in particolare l’operaismo), ma anche – in base a quanto visto nei capitoli precedenti – quella dei secoli scorsi. È in questo senso che «“pensiero” […] va interpretato come qualcosa che, anziché precedere la prassi, nasce da essa in una forma che oltrepassa sia l’autonomia della filosofia sia la neutralità della teoria. A differenza della filosofia, e della teoria, il pensiero è in quanto tale sempre “in atto”, attivo e attuale, così come ogni atto porta dentro di sé una traccia di pensiero. A definire quello italiano è spesso il rapporto, storicamente pregnante, con un processo collettivo che sfonda i limiti del filosofico e del teorico, per calarsi nelle dinamiche e nei conflitti politici»62. Altri studiosi, piuttosto che nutrire dubbi sulla «Theory»63, avanzano più di una riserva sull’aggettivo «Italian». Judith Revel, ad esempio, si interroga in maniera provocatoria proprio su tale questione: Quanto conta il fatto che autori così diversi come – cito volontariamente nomi alla rinfusa – Mario Tronti, Giorgio Agamben, Luisa Muraro, Massimo Cacciari, Franco Fortini, Alberto Asor Rosa, Lea Melandri o Roberto Esposito siano italiani? […] E poi: siamo sicuri che, quando i lavori di Roberto Esposito vengono letti all’estero, o quando Toni Negri scrive, dall’esilio francese, Il potere costituente, questi testi siano immediatamente identificati come italiani? O, per dirla diversamente: quant’è francese Nancy e quant’è italiano Agamben?64. 116

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5. roberto esposito e l’italian thought

Per Revel, i problemi causati dall’adozione del criterio nazionale sono sostanzialmente due:

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Il principio dell’identificazione «nazionale», se non viene ulteriormente specificato da determinazioni storiche, sociali, culturali, economiche e politiche, è di una pericolosità estrema: non solo perché è in sé ambiguo (diffidiamo dei nazionalismi, fossero anche solo filosofici: questa, purtroppo, la grande lezione del Novecento), ma perché rischia di cancellare, in nome di una presunta identità, la ricchezza che un certo contesto (e un certo «momento») hanno realmente prodotto65.

Secondo Revel, oltre al pericolo del nazionalismo, vi è anche quello di «unificare forzatamente un paesaggio complesso – mentre andrebbero invece restituite le differenze quanto le somiglianze»66. Insomma, anche in questo caso, il problema è sempre quello della grande eterogeneità dei contributi degli esponenti dell’Italian Thought. Inoltre, occorre sottolineare il fatto che una delle differenze più evidenti è quella riscontrabile tra chi dà una lettura diacronica dell’Italian Thought e chi, al contrario, ne dà una lettura sincronica, ovvero tra chi prende in considerazione gli ultimi cinque secoli (Esposito) e chi, invece, gli ultimi cinquant’anni (la maggior parte degli studiosi)67. Anche su questo punto Revel è molto chiara nel sottolineare tale questione problematica: Roberto Esposito ha caratterizzato il pensiero italiano, fin dal Cinquecento, come una configurazione il cui «monogramma», sempre riscontrabile, consisterebbe in una sorta di triangolazione tra la vita, la storia e la politica. Un modo per definire l’Italian Theory in una maniera diversa da quella che ho adoperata finora: facendola emergere non negli ultimi cinquant’anni ma negli ultimi cinque secoli68.

Come abbiamo già rilevato, infatti, Esposito compie uno scavo genealogico per dimostrare che la filosofia italiana contemporanea, in realtà, è l’esito di una tendenza da sempre presente nella nostra tradizione di pensiero. Tuttavia, l’operazione compiuta dal filosofo napoletano non ha convinto alcuni studiosi per i quali quella descritta in Pensiero vivente è «una periodizzazione anti-filologica e genuinamente politica»69. Da questo punto di vista, l’Italian Thought non sarebbe altro che «una filosofia liberale di sinistra»70 – la sinistra che Roberta De Monticelli critica per il recupero di autori di marca sofistica come 117

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la tradizione filosofica italiana

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Heidegger, Schmitt e Foucault71. In altre parole, la genealogia costruita da Esposito sarebbe un classico esempio di ideologia. A tal proposito, anche Carlo Augusto Viano avanza queste perplessità: Nata anche dalle laudatio degli oratori, la storiografia è una disciplina servizievole, disposta a tessere elogi, specialmente quando si tratta di storiografia filosofica: qui gli storici, nella maggior parte dei casi, celebrano personaggi o costruiscono genealogie che danno prestigio a dottrine, attribuendo nobili ascendenze a chi le sostiene. Il libro di Esposito appartiene a questo genere di letteratura filosofica: il suo autore ha scelto di costruire una illustre ascendenza, tutta italiana, per se stesso, oltre a, un po’ alla rinfusa, Vattimo, Tronti, Agamben, Rella, Negri, narrando una storia della filosofia italiana in cui costoro discendono da Bruno, Vico, Cuoco ecc. Il costo di questa operazione consiste nel mettere insieme personaggi che insieme non stanno, tanto per collocarli, in piedi, sullo sfondo del ritratto di famiglia, dietro agli avanguardisti italiani, seduti in prima fila72.

E, conclude Viano, «con le modeste vanterie delle genealogie di famiglia si deve essere indulgenti, come con quelli che credono nella reincarnazione e sono convinti di essere stati Leonardo»73. Dal canto suo, Giuseppe Cacciatore sostiene che «si scorgono a più riprese, nella trama del discorso di Esposito, espliciti tentativi di ricondurre quasi tutti i momenti topici del pensiero italiano vivente all’obbligato esito della biopolitica»74. La medesima critica è avanzata da Biagio De Giovanni: «il punto chiave del mio dissenso sta […] nel precipitare di tutto questo apparato interpretativo, di tutti quegli autori così fra loro lontani, e di questa lettura per alternative del moderno, nell’imbuto stretto e spesso poco accogliente della biopolitica»75. Insomma, il libro di Esposito – che Gianni Vattimo ha descritto come «una rivisitazione di tutta la storia del pensiero italiano “sub specie bios”»76 – è stato criticato soprattutto perché la ricostruzione genealogica condotta dall’autore sarebbe ideologica invece che essere rigorosamente filologica. In altri termini – sostengono i critici – l’unico scopo dell’opera del filosofo napoletano sarebbe quello di presentare se stesso e la biopolitica italiana come l’inveramento di tutta la tradizione filosofica nazionale. Secondo il già citato Cacciatore, ad esempio, è un grave errore ritenere la categoria di vita «come unica o come prevalente rispetto ad almeno altre due possibili connotazioni del pensiero italiano: la costante ricerca del rapporto tra storia e filosofia e la sua dimensione etico-civile»77. 118

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5. roberto esposito e l’italian thought

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Per quanto riguarda l’interpretazione che indica nella dimensione etico-civile la specificità della tradizione filosofica italiana, occorre evidenziare il fatto che essa – a partire dall’opera di Garin – ha goduto di una grandissima fortuna storiografica, al punto da diventare un paradigma con il quale non è possibile non confrontarsi e che oggi, di fatto, concorre con quello dell’Italian Thought. Non a caso, la critica principale rivolta a Esposito sembra riprendere la polemica di Garin nei confronti di certa storiografia – in particolare idealistica – che aveva fornito una lettura univoca della variegata e complessa tradizione filosofica italiana: Si viene così ormai ponendo l’ultimo dei problemi preliminari d’uso per una storia della filosofia in Italia: se esistano dei caratteri costanti che, in qualche modo, ne individuino gl’indirizzi salienti. Anche qui giova intendersi subito: molti, troppi, hanno voluto interpretare la filosofia italiana nel senso di uno sviluppo univoco, alla luce di un solo problema, di un orientamento unico, ritrovato volta a volta nell’immanenza o nella trascendenza, nell’oggettivismo o nel soggettivismo, nella religiosità o nella eresia. Fissato il canone, coloro che non vi si adattavano venivano espulsi dalla tradizione italica, e non di rado un autore medesimo, diviso in parti, veniva per metà accolto e per metà respinto78.

Il problema qui sollevato è fondamentale, anche se la critica espressa nel passaggio gariniano appena citato è ineludibile. Lo stesso Garin non può sfuggire a tale critica. Basta ricordare qui il suo sì a Romagnosi e Cattaneo e il suo no a Rosmini e Gioberti per capire la preferenza accordata da Garin alla tradizione civile. Dunque, come ogni storico della filosofia, anche lui tende inevitabilmente a identificare la «differenza italiana» nel suo stesso pensiero e a dare particolare risalto a certi autori piuttosto che ad altri79. Stando così le cose, si può concludere che, in tale ambito, l’atteggiamento più trasparente è quello riassunto in una battuta di Louis Althusser: «poiché però non c’è mai lettura innocente, diciamo di che lettura siamo colpevoli»80. Consapevole di ciò, lo stesso Esposito – in un’intervista del 2013 – ammette che la tesi espressa in Pensiero vivente non può sottrarsi alla critica gariniana. Ecco, intanto, la domanda che gli viene rivolta: Pensiero vivente si sottrae a tale critica [sc. sollevata da Garin]? Oppure, tu ritieni che sia impossibile parlare di filosofia italiana senza per questo entrare in conflitto con chi intende valorizzare del patrimonio di questa altri 119

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la tradizione filosofica italiana

temi e altri filosofi? Insomma: è costitutivo alla stessa storia della filosofia italiana il conflitto con le prospettive alternative a quella che si privilegia?81.

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La risposta di Esposito potrebbe essere considerata una replica alle critiche di Viano e Cacciatore che abbiamo menzionato: Non solo Pensiero vivente non si sottrae alla critica di Garin, ma, aggiungerei, essa è ineludibile. Quando si vuole descrivere in termini storiografici un evento, di fatto, come ben sanno gli storici, se ne dà un’interpretazione. Ciò vale tanto più nel caso di un libro come il mio, la cui impostazione è più teoretica che storica. Io non ho inteso ricostruire l’intero sviluppo della filosofia italiana, né le sue linee più importanti. Ho, ad es., escluso la tradizione illuministica nell’ambito del ’700. Per quanto riguarda la filosofia contemporanea, ho privilegiato una certa linea a scapito di quella analitica, o di quella teologico-metafisica. Il mio è un discorso «a tesi», che porta nella direzione di quelle che sono state le mie categorie. Insomma, non solo accetto questa critica, ma la considero inevitabile, per tutti, e tanto più nel caso mio82.

Insomma, Esposito accetta la critica espressa a suo tempo da Garin e, di conseguenza, quelle più recenti di chi, recensendo Pensiero vivente, ne evidenzia le distorsioni o le omissioni83. Ad esempio, Cacciatore rileva come alcuni importanti pensatori siano trattati in maniera parziale (in primo luogo Machiavelli, arruolato «nello schieramento dei filosofi biopolitici avant la lettre»84, ma poi anche Vincenzo Cuoco, filosofo che mal si presta a essere ingabbiato nel paradigma del pensiero vivente), mentre altri non vengono proprio presi in considerazione: Cuoco rappresenta il punto forse più consapevole di individuazione e argomentazione dell’altro carattere fondante del pensiero italiano. Mi riferisco alla dimensione etico-civile e storico-esistenziale che, pur segnalata e analizzata in diversi punti del libro, resta, per così dire, soverchiata da quella vitale e bio-politica. Il che spiegherebbe forse l’assenza, nella ricostruzione di Esposito, non solo di quel consistente filone di filosofia civile che, da Romagnosi a Cattaneo e Ferrari, giunge, da un lato al neoilluminismo di Nicola Abbagnano e, dall’altro, al pensiero giuridico-politico di Norberto Bobbio; non solo di quell’indirizzo di storia critica delle idee e di storicismo etico e problematico che elaborò Pietro Piovani, tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, ma anche e soprattutto di quell’originale tentativo di filosofia della vita, tra esistenzialismo e fenomenologia, che Enzo Paci ripensò proprio a partire da Vico85.

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5. roberto esposito e l’italian thought

Ma, di nuovo, l’assenza di certi autori si spiega se si tiene presente che – per gli esponenti dell’Italian Thought – «si tratta di attivare uno scandaglio genealogico: che miri cioè a reperire quanto, non dietro di noi, ma sotto di noi, in un passato che non cessa di avanzare con noi, può essere funzionale ad un pensiero del presente. Di qui le scelte e le preferenze ben determinate – ma anche e di conseguenza le inevitabili esclusioni – che impediscono ogni ecumenismo storiografico. Magari anche a costo di qualche salutare forzatura. Ma si potrebbe aggiungere che forse non c’è stato un solo filosofo, vero, che non sia stato un tramandatore/traditore del passato, e perciò spesso inviso ai gelosi detentori del già acquisito, comodo e confortante. Un gesto che, certo, non rispetta in modo devoto e commosso il passato, ma proprio così facendo, proprio nel profanarne il profilo canonico, tanto più lo mantiene vivo nel saperci dire qualcosa che ci riguarda da vicino – oggi e proprio oggi»86. Qui non è dunque possibile alcun «ecumenismo storiografico». Nel caso di Esposito – come anche nelle pur diverse prospettive interpretative di Spaventa e di Gentile – le omissioni e le forzature non vanno lette in una chiave meramente storiografica. Infatti, l’autore di Pensiero vivente non intende fornire una precisa ricostruzione della storia del pensiero italiano. Come già detto, gli esponenti dell’Italian Thought ripensano la tradizione italiana in modo non storicistico. Ed è su tale piano che vanno valutate le numerose questioni aperte da questo fecondo vettore filosofico. Peraltro, il crescente successo dell’Italian Thought si spiega proprio in virtù di questa sua natura teorica. Un successo che – come subito vedremo – ha interessato in maniera particolare il Nord America.

5.3 La filosofia italiana negli Stati Uniti Per Esposito, dunque, «si può dire che tutto il pensiero italiano sia stato un pensiero della vita nella sua tensione con la politica e la storia. La nostra non è stata né una filosofia della coscienza, come quella classica francese, né una elaborazione metafisica come la tedesca. Ma non è stata neanche una filosofia della logica e del linguaggio, come nei Paesi anglosassoni. Non è stata un’analitica dell’interiorità, della trascendenza, delle strutture logico-linguistiche, 121

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la tradizione filosofica italiana

ma un sapere della vita, del corpo e del mondo»87. Esposito – dando una lettura diacronica dell’Italian Thought – cita Machiavelli88, Leonardo e Bruno per dimostrare come le caratteristiche della filosofia italiana siano tali sin dalle sue origini rinascimentali89. Non tutti però concordano con questa tesi e, come si è appena visto, fra sostenitori e critici, il dibattito sull’Italian Thought è molto acceso. Fatto sta che tale dibattito non fa altro che aumentare ulteriormente l’interesse per la filosofia italiana, dimostrato – fra le altre cose – dalle numerose pubblicazioni e i molti convegni nazionali e internazionali degli ultimi anni. A tal riguardo, non sarebbe improprio riproporre oggi la domanda al centro di un libro che Jader Jacobelli curò ormai trent’anni fa: «dove va – se va – la filosofia italiana?»90. Era il 1986 e a tale interrogativo risposero numerosi intellettuali. Alla luce del radicale mutamento del panorama storico, politico e filosofico, chiedersi oggi se la filosofia italiana vada da qualche parte ed eventualmente dove è di fondamentale importanza. Per gli esponenti dell’Italian Thought la risposta alla domanda di Jacobelli è molto semplice. La filosofia italiana va all’estero e, in particolare, in Nord America (per questo motivo – lo ribadiamo – l’Italian Thought si dice in inglese). Negli Stati Uniti e nel Canada, l’interesse nei confronti della nostra cultura filosofica è aumentato costantemente dal Novecento a oggi ed è, dunque, del tutto giustificato parlare di Italian Thought. Come ha rilevato lo stesso Esposito, «mentre si lamenta ritualmente l’arretratezza dei nostri studi, i filosofi italiani sfondano in America – non tanto nei dipartimenti di filosofia, ancora dominati dalla linea analitica, ma nell’ambito degli studi politici e sociali, dell’arte e della letteratura, postcoloniali e di genere»91. Non bisogna pensare tuttavia che l’attenzione dei Paesi anglosassoni per il pensiero italiano sia una novità92: basti ricordare soltanto la forte incidenza che ebbero tre illuministi italiani – Filippo Mazzei, Cesare Beccaria e Gaetano Filangieri – sulla storia americana. È noto il fatto che Thomas Jefferson fu influenzato da Mazzei e Beccaria. In particolare, Mazzei – vicino di casa e amico intimo di Jefferson – suggerì al futuro Presidente degli Stati Uniti la frase più famosa della Dichiarazione di Indipendenza del 1776: «all men are created equal»93. Per quanto riguarda Beccaria, invece, Jefferson riportò nel suo Commonplace Book un passaggio di Dei delitti e delle pene – tradotto in inglese nel 1767 con il titolo On Crimes and 122

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5. roberto esposito e l’italian thought

Punishments – contro le leggi che vietano il diritto al porto d’armi94. Infine, Filangieri influenzò Benjamin Franklin, il quale lesse con entusiasmo La scienza della legislazione del filosofo napoletano. I due intrattennero uno scambio epistolare e alcune idee di Filangieri in materia di procedura penale furono riprese da Franklin e inserite nel VI emendamento alla Costituzione americana. Senza mescolare qui troppi riferimenti nella storia dei fitti rapporti che – sin dall’inizio della sua storia – politici e pensatori statunitensi ebbero con la filosofia italiana, possiamo affermare che, ancora oggi, tali rapporti sono più intensi che mai. Per quanto riguarda la prima metà del Novecento – oltre gli scambi epistolari tra Peirce, James, Vailati e Papini – non è possibile non menzionare Benedetto Croce95, invitato nel 1912 dal rettore del Rice Institute di Houston a pronunciare l’orazione inaugurale e a tenere un corso introduttivo all’estetica. Croce rifiutò l’invito, ma – su proposta del rettore – compose un testo che sarebbe stato tradotto e letto al Rice Institute in sua assenza. Tale testo entrerà poi a far parte del Breviario di estetica, ancora oggi pubblicato in edizione inglese negli Stati Uniti. Anche la letteratura critica in lingua inglese sul pensiero di Croce comprende numerosi titoli96. Tuttavia, se non sono assenti studi anglo-americani su Gentile97, il pensatore italiano del Novecento più diffuso – non solo negli Stati Uniti, ma a livello mondiale – è senza alcun dubbio Antonio Gramsci98. Ma come si è giunti all’Italian Thought? È noto che ciò non è dovuto soltanto alla divulgazione dei grandi classici italiani (da Machiavelli a Bruno, da Vico a Leopardi, fino a Croce e Gramsci), ma al successo di Umberto Eco negli anni Sessanta-Settanta e soprattutto a quello di Gianni Vattimo negli anni Ottanta-Novanta. In seguito alla diffusione del pensiero di Vattimo99, negli anni Novanta le traduzioni inglesi di opere di filosofi italiani si sono moltiplicate in maniera considerevole100, finché Toni Negri e Michael Hardt pubblicano in inglese Empire (2000), Multitude (2004) e Commonwealth (2009)101. Con questa trilogia Negri102 ha raggiunto il successo mondiale e – insieme ad Agamben103 ed Esposito104 – resta oggi uno dei filosofi che più di tutti hanno contribuito «a costituire la massa critica indispensabile al riconoscimento dell’Italian Philosophy o New Italian Thought come soggetto di produzione culturale e oggetto degno di discussione»105. 123

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la tradizione filosofica italiana

Insomma, è innegabile che oggi vi sia un particolare interesse verso il pensiero italiano – in particolare negli Stati Uniti – che fino a qualche decennio fa era inimmaginabile. Se non bastasse quanto detto fin qui, è possibile ricordare in conclusione le numerose conferenze nazionali e internazionali dedicate all’Italian Thought (delle quali spesso – come abbiamo già rilevato nel capitolo introduttivo – sono stati pubblicati gli atti). A tal riguardo, «c’è forse da chiedersi se la recente conquista di spazi accademici rilevanti e addirittura internazionalmente collegati da parte della “French Theory” dapprima e poi dell’“Italian Thought” vada inteso come un segnale del persistente bisogno che tutti sentiamo per una filosofia che non sia soltanto metateoria delle scienze e storia di se stessa, o piuttosto come un sintomo dell’esaurimento e quindi della cristallizzazione accademica di queste due tradizioni nel momento in cui la loro specifica matrice sociale – la concezione dell’intellettuale come coscienza della nazione alla Zola in Francia, la lunga scia di virulenti conflitti socio-politici che ha caratterizzato l’Italia – sembra ormai un dato del passato»106. Sulla risposta da dare a tale questione, Bodei non ha dubbi: il fatto che oggi la filosofia italiana stia assumendo «un certo peso a livello internazionale»107 è dovuto «a un diffuso bisogno di concretezza e di realtà dopo le minuziose indagini dei filosofi analitici e le (apparenti) acrobazie concettuali degli esponenti della French Theory»108. Alla luce di quanto detto fin qui, fra critici e sostenitori, numerose sono le domande che continuano a sorgere: è giustificato l’ottimismo degli esponenti dell’Italian Thought? Ha ancora senso parlare di tradizioni filosofiche nazionali in un mondo sempre più globalizzato? E che dire della questione più generale riguardante l’identità italiana? Che cosa significa oggi «italianità»? Nella parte conclusiva cercheremo di ricapitolare quanto abbiamo detto fin qui relativamente all’Italian Thought e agli altri paradigmi interpretativi e soprattutto tenteremo di prendere in esame gli interrogativi appena enunciati, consci della loro complessità. Lungi dal fornire risposte definitive e conclusive, le prossime pagine indicheranno le possibili vie per uno sviluppo e un approfondimento di tali questioni. Il fondamentale sbocco interdisciplinare, necessario a una ricerca di tale complessità, rende il lavoro svolto fin qui soltanto un primo passo verso una maggiore comprensione della controversa identità italiana.

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Conclusioni

Analizzati i quattro principali paradigmi interpretativi che hanno posto al centro delle proprie riflessioni la questione dell’esistenza di una specifica filosofia italiana, si è visto come – dall’ingegno precursore alla vocazione etico-civile fino al pensiero vivente – numerose siano le possibili risposte su ciò che contraddistingue la nostra tradizione intellettuale. La persistente domanda sulla propria identità e le risposte inevitabilmente orientate che hanno fornito di volta in volta gli autori qui studiati testimoniano il fatto che ogni identità culturale è solo per metà scoperta, mentre per l’altra metà è innegabilmente costruita. Infatti, l’interrogativo in questione non è mai stato soltanto «chi siamo?», ma ne ha sempre sottinteso un altro: «chi vogliamo essere?». Ecco allora che la domanda di cui stiamo parlando non riguarda soltanto l’essenza della filosofia italiana, ma anche il suo futuro. Non a caso, i filosofi qui esaminati se la pongono in date cruciali della storia italiana: nell’anno accademico 18611862, cioè in pieno Risorgimento, Spaventa tiene all’Università di Napoli il famoso ciclo di lezioni sulla storia del pensiero italiano; nel 1918 – in seguito alla disfatta di Caporetto – Gentile pronuncia la prolusione romana su cui abbiamo tanto insistito; nell’immediato dopoguerra e, precisamente, nel 1947 viene pubblicata La Filosofia di Garin; infine, in un periodo in cui l’euroscetticismo è sempre più diffuso, Esposito riflette su Italian Thought, French Theory e German Philosophy. Insomma, l’analisi del passato in momenti cruciali della storia presente è sempre condotta con un occhio rivolto al futuro. E perché questi studiosi – ci si potrebbe chiedere – guardano al passato, se la loro priorità è innanzitutto il futuro? Ma perché – usando le parole di Massimo Cacciari – «nessun Adveniens potreb125

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la tradizione filosofica italiana

be sopraggiungere se non provenisse da un passato, se non come “esistentificazione” di un possibile germinante nel passato. Il passato non è serbatoio, ma fonte – e nulla potremmo dire, se non nel linguaggio che da esso apprendiamo, per trasformarlo»1. In questo caso, la domanda rivolta all’essenza della tradizione filosofica italiana ha a che fare tanto con il nostro passato – non è un caso che nella lingua greca, latina e tedesca l’essenza è sempre designata al passato (rispettivamente to ti en einai; quod quid erat esse; Wesen) –, quanto con il nostro futuro. Pertanto, tale essenza non va obliata, ma riaffermata affinché una nuova rinascita sia possibile. La coscienza dell’identità della filosofia italiana rappresenta senz’altro il primo passo per il rilancio di una cultura che la recente diffusione dell’Italian Thought ha solo cominciato a rivitalizzare. Volgendosi dunque al suo passato, ridiventando e riaffermando ciò che già è, il pensiero italiano – la cui specificità, come abbiamo visto, è stata trovata ora nell’immanenza (Spaventa e Gentile), ora nella mondanità, nella vocazione etico-civile, nella «ragione impura», nello storicismo (Garin, Ciliberto, Bodei, Galasso ecc.), ora nella vita concreta (Esposito e gli esponenti dell’Italian Thought2) – può costituire un modello nell’odierna epoca della globalizzazione, epoca che richiede, sempre più, nuove categorie per essere compresa. In tal senso, l’Italian Thought – nell’occuparsi delle sfide del presente e di quella che Machiavelli chiamerebbe «verità effettuale» – è uno dei vettori filosofici più fecondi dell’attuale panorama intellettuale e, insieme, una diversa modalità di pensare la tradizione che consente – per usare le parole di Merleau-Ponty – «di dare al passato non una sopravvivenza che è la forma ipocrita dell’oblio, ma l’efficacia della ripresa o della “ripetizione”, che è la forma nobile della memoria»3. Dalla tematica della specificità del pensiero italiano emerge poi un’altra importante questione. Oggi è più che mai necessario salvaguardare la pluralità delle tradizioni filosofiche e le loro rispettive peculiarità per arginare quello che sembra un processo inarrestabile: la riduzione delle culture e la loro uniformazione mondiale. Una sorta di «filosofia comparata» può essere utile a evitare il pericolo di un «pensiero unico». Lo studio qui condotto dovrebbe essere svolto anche per le principali tradizioni filosofiche europee e non europee4 ed esteso a molteplici discipline, andando al di là di ciò che comunemente si intende per filosofia e oltrepassando le barriere diparti126

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conclusioni

mentali che spesso ostacolano la reale ricerca interdisciplinare nelle Università. Solo per fare un esempio – che in questa sede è uno dei più calzanti – il dialogo fra italianisti e studiosi di filosofia italiana è fondamentale e andrebbe di gran lunga potenziato. A tal proposito, occorre notare come gli autori qui analizzati prendano in considerazione quasi esclusivamente la filosofia. Tuttavia, sarebbe il caso di estendere l’analisi in primis alla letteratura per intendere meglio la storia dell’Italia e della sua cultura. V’è di più: come noto, uno degli aspetti più caratteristici della riduzione delle culture nazionali ad un’unica cultura mondiale è la costante diminuzione della diversità linguistica5. Uno studio sulle tradizioni filosofiche nazionali dovrebbe essere ampliato verso questa direzione perché uno degli aspetti principali che definiscono una cultura è innanzitutto la lingua. Non è possibile capire la cultura di un popolo se non si studia il modo in cui tale popolo si esprime. Tra l’altro, tutto ciò non è estraneo alla filosofia. Infatti, la lingua non è mai soltanto mero mezzo di espressione. Essa ha a che fare con il pensiero e diverse lingue possono esprimere e comprendere diverse realtà. Nessuna lingua è perfettamente traducibile in un’altra6 e questo dato di fatto – lungi dall’essere un limite – testimonia quanto possa essere fondamentale la salvaguardia della diversità linguistica per comprendere meglio certi aspetti della realtà e determinate esperienze che, se vi fosse un’unica lingua mondiale, ci sarebbero precluse. Ecco perché lo studio della lingua è intrinsecamente filosofico. Non a caso vi sono studiosi che analizzano da questo punto di vista la «differenza italiana»7. Vi è chi, ad esempio, sostiene che la tradizione italiana «è – fra le posizioni moderne sul linguaggio – quella che più di ogni altra esalta l’intreccio inestricabile fra lingua, vita, conflitto, società»8. Ma non solo. Vi è anche chi sottolinea con forza che una delle caratteristiche principali del nostro patrimonio di pensiero è sempre stata quella di esprimersi in uno stile peculiare9. Infatti, in Italia, l’intreccio fra filosofia e letteratura è una costante, per cui grandi filosofi sono anche grandi letterati e viceversa: «sembra essere tipico della filosofia italiana che le sue espressioni più alte abbiano anche un alto valore letterario, o vadano addirittura cercate in un ambito che ufficialmente si definisce letterario»10. In particolare, «l’intera filosofia italiana può essere vista come una nota a piè pagina della Commedia. Ogni grande filosofo italiano, infatti, è un esule; e in quanto esule 127

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la tradizione filosofica italiana

deve parlare a molti. Il suo pensiero non può rimanere chiuso nella sua aula o nel suo studio; deve aprirsi al mondo, materializzarsi in un discorso chiaro e comprensibile, forte o tenero a seconda delle circostanze, ma comunque capace di farsi ascoltare, di lasciare un segno, di predicare una buona novella»11. Dunque, filosofia e letteratura, pensiero e lingua, non possono non essere considerati insieme in uno studio completo sull’identità della nostra cultura. Ma – se la filosofia italiana è da sempre un pensiero della vita storica e politica – in che cosa consiste invece la specificità della nostra tradizione letteraria? Detto altrimenti: quali sono le categorie italiane?12 Per rispondere a tali domande, Giorgio Agamben, Italo Calvino e Claudio Rugafiori – durante i loro incontri parigini fra il 1974 e il 1976 – elaborarono il programma di una rivista che, nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto essere pubblicata da Einaudi. Una delle sezioni della rivista avrebbe dovuto essere dedicata all’identificazione, «attraverso una serie di concetti polarmente coniugati», delle «strutture categoriali della cultura italiana»13, come, ad esempio, «architettura/vaghezza» (coppia suggerita da Rugafiori), «velocità/leggerezza» (coordinate proposte da Calvino) e «le opposizioni tragedia/commedia, diritto/creatura, biografia/favola»14 (che avrebbe analizzato Agamben). La rivista non vide mai la luce, ma il progetto non fallì del tutto, in quanto Agamben nel 1996 pubblicò la prima edizione di Categorie italiane. Ripubblicato nel 2010 in una edizione ampliata, il libro si propone «di cogliere le strutture portanti della cultura letteraria italiana»15. Agamben precisa poi come gli studi su tali strutture siano «opera di un filosofo, cui non sono estranei interessi filologici in senso tecnico»16, a ulteriore conferma del fatto che la filosofia richiama la letteratura e viceversa, così come il pensiero ha a che fare con la dimensione linguistica. Pertanto – nella consapevolezza che, lungi dal costituire un limite e un difetto, l’impossibilità di tradurre perfettamente una lingua nell’altra è una grande risorsa – è necessario salvaguardare la diversità linguistica e arginare il sempre crescente impoverimento stilistico, poiché un’unica lingua e un unico stile non possono che esprimere un unico pensiero. Il tanto decantato pluralismo dovrebbe fare i conti innanzitutto con questo dato di fatto, ovvero con il processo di omologazione culturale e riduzione della diversità linguistica oggi in corso. 128

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conclusioni

La ricerca qui svolta ha dunque in sé tutta una serie di possibili sviluppi che vanno dalla filosofia alla letteratura, dalla dimensione del pensiero a quella della lingua, dalla questione della diversità culturale alla globalizzazione. Ma vi è un altro fenomeno che caratterizza il nostro tempo e che va quindi tenuto presente, ovvero quello della «fine della storia». Una delle manifestazioni tipiche di tale fenomeno è l’adozione, da parte della filosofia, di atteggiamenti che sono tipici della scienza. Ci riferiamo, solo per fare qualche esempio, allo «sguardo da nessun luogo», alla concezione della verità come progresso e al falsificazionismo. La carica ideologica sottesa a tali atteggiamenti è evidente. Lo sguardo filosofico è tutt’altro che from nowhere. Esso è sempre situato in un determinato contesto culturale e storico. Se così non fosse, ogni discorso sulla nazionalità della filosofia sarebbe infondato a priori. Per questo, nell’epoca della globalizzazione e della «fine della storia», l’approccio nazionale alla filosofia è considerato – se non già obsoleto17 – comunque destinato a essere superato nel prossimo futuro18. In un periodo storico in cui la rimozione della storia è programmatica, ogni discorso che tende a storicizzare la pratica filosofica è criticato a prescindere. Tuttavia, occorre ricordare che è la storicità a rendere la filosofia pensiero critico. In effetti, la critica è resa impossibile dalla naturalizzazione dell’elemento storico e sociale. Soltanto ciò che è storico può essere criticato. La natura, al contrario, può essere solo descritta. Ma come riportare la filosofia alla sua dimensione storica e culturale? Intanto ammettendo l’esistenza di diverse tradizioni nazionali e, poi, abbandonando il mito di uno sguardo sul mondo finalmente oggettivo, non condizionato, da nessun luogo. Senza – con ciò – cadere nello storicismo. Come già spiegato nel primo capitolo, riconoscere il fatto che la filosofia sia storicamente determinata non significa ridurla alla sua storia. La verità della filosofia non è compromessa dalla sua innegabile genesi storica. D’altro canto, la storia non è da considerarsi un percorso di progressiva scoperta della verità, un processo fatto di popperiane congetture e confutazioni. La filosofia ha dietro di sé una ricca tradizione e non un cumulo di macerie. La concezione della storia del pensiero come storia degli errori che hanno portato e porteranno alla scoperta progressiva della verità è un retaggio scientifico da abbandonare. Solo per fare un esempio concre129

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la tradizione filosofica italiana

to, Hegel non è superiore a Giordano Bruno soltanto perché la sua filosofia è più recente. La verità della filosofia, a differenza di quella della scienza, non ha a che vedere con il progresso19. Per questo motivo è di fondamentale importanza abbandonare gli atteggiamenti scientisti più estremi che oggi contraddistinguono certa filosofia. Dunque, tornare a insistere sulla dimensione nazionale o territoriale della filosofia, ovvero sulla sua storicità, senza compromettere la sua validità universale, è un primo passo da compiere verso un nuovo rinascimento. Anche in questo, la tradizione italiana è particolarmente attrezzata se si pensa che le due esperienze più significative della storia d’Italia – il Rinascimento e il Risorgimento – hanno a che fare con le idee di rinascita e di concretezza storica. In tal senso, molte celebri affermazioni di Machiavelli sono paradigmatiche. Si legga, ad esempio, ciò che scrive a proposito dell’Italia: «questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura»20. Altrettanto significativa è la tesi machiavelliana secondo cui non è possibile riforma profonda né vera e propria rinascita senza un ritorno ai princìpi fondativi21. La «differenza italiana» ha quindi a che fare con l’idea di rinascita22, ma anche – come si accennava sopra – con quella di concretezza storica. Si pensi, ancora una volta, a Machiavelli quando afferma di «andare dreto alla verità effettuale della cosa»23. O quando, nel 1513, scrive Il Principe, un vero e proprio «manifesto politico»24 (Gramsci), avente lo scopo di «di innalzare l’Italia ad uno stato»25 (Hegel), un’Italia che perse l’indipendenza nel 1494 in seguito all’invasione del re di Francia Carlo VIII. Come noto, nell’ultimo capitolo di quest’opera – l’Esortazione a pigliar la difesa di Italia e liberarla dalle mani de’ barbari – Machiavelli invoca un principe che liberi l’Italia dallo straniero, imitando l’esempio degli antichi redentori (Mosè, Ciro, Romolo e Teseo). E, questo, senza che la sua fede repubblicana venga meno. Nel rivolgersi al principe, infatti, il Segretario fiorentino rivela al popolo i segreti dell’arte del governo. Tale interpretazione, sostenuta da Spinoza26 e Rousseau27, è stata fatta propria anche da Alfieri28 e Foscolo29, due simboli del Risorgimento italiano. Non a caso, proprio nel Risorgimento viene ripreso il progetto machiavelliano di «redenzione dell’Italia»30. A dimostrazione di questo, basti ricordare il fatto che Alfieri scrisse una Esortazione a 130

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conclusioni

liberar la Italia dai barbari31 e, nel 1849, Ferrari affermò: «quel politico risorgimento che egli [sc. Machiavelli] desiderava per l’Italia del secolo XVI, non è altro che il risorgimento dell’89, che l’Europa intera si sforza di attuare in ogni Stato. Noi lavoriamo tutti sul disegno da lui concepito»32. Dal canto suo, De Sanctis vide nel Segretario fiorentino un profeta dell’Unità d’Italia, un pensatore che «ha precorso di tre secoli il suo paese, quando ha avuto un’idea di una situazione che appena pochi anni or sono ha potuto penetrare ne’ sentimenti del popolo italiano»33. Dunque, ricapitolando, la «differenza italiana» sta assumendo una fisionomia sempre più chiara e precisa. Innanzitutto vi è un costante intreccio di filosofia e letteratura che contraddistingue la nostra tradizione. Non solo. L’idea di concretezza storica e di rinascita sempre possibile è ciò che caratterizza il nostro patrimonio culturale dal periodo umanistico-rinascimentale a quello risorgimentale. Non è difficile comprendere allora per quale motivo, nell’odierna epoca della ragion cinica, in cui nessun «nuovo rinascimento» sembra essere concepibile, la filosofia italiana può svolgere un ruolo fondamentale34. Infine, è possibile indicare un ulteriore carattere distintivo guardando specificamente ai quattro paradigmi analizzati in questo volume. Infatti, se si presta la dovuta attenzione, appare evidente come le principali tesi sulla «differenza italiana» – pur nella loro innegabile diversità – abbiano qualcosa in comune: il pensiero italiano è stato descritto come una filosofia dell’immanenza (Spaventa e Gentile), una filosofia mondana e terrena (Garin), una filosofia della vita concreta (Esposito). Da una parte si è insistito sul rapporto teso e agitato del pensiero italiano con il potere (Spaventa ed Esposito), dall’altra sulla sua vocazione etico-civile (Garin e Ciliberto) e sul suo essere più una filosofia della «ragione impura» che della «ragion pura» (Bodei). In breve – sebbene mossi da diverse esigenze teoriche e intenti programmatici – gli interpreti della tradizione filosofica italiana hanno insistito tutti sull’effettualità di un pensiero che proclama esplicitamente il primato della ragion pratica su quella teoretica. La filosofia italiana è stata sempre una filosofia dell’immanenza, della critica dei poteri e dei saperi, della concretezza storica e politica: da Telesio (con l’indagine della natura «iuxta propria principia») a Leonardo e Galilei (con rilievo dato all’esperienza e la libera os131

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la tradizione filosofica italiana

servazione della natura), da Bruno (con il panteismo) a Campanella (con la valorizzazione della soggettività e la sua utopia, la Città del Sole, progetto di riforma da attuarsi in questa terra e non – direbbero i medievali – da rimandarsi nell’aldilà), dall’Umanesimo civile a Machiavelli (con la «verità effettuale»), da Gioacchino da Fiore a Vico e dal neoidealismo al marxismo italiano (con le loro filosofie della concretezza storica), dalla filosofia civile (da Romagnosi a Cattaneo e Ferrari fino al neoilluminismo di Abbagnano e Bobbio) all’odierno Italian Thought. La costante interrogazione della filosofia italiana su se stessa ha dato dunque luogo a risposte simili nei contenuti: a differire sono la forma (ovvero il modo di concepire la storiografia filosofica) e i diversi intenti (ora politico, ora teoretico, ora storico e così via). In conclusione, è possibile muovere da tale constatazione per allargare la prospettiva offerta dai quattro modelli interpretativi analizzati nei precedenti capitoli. Infatti, concepire la storia del pensiero italiano nei limiti di una mera «storia della filosofia italiana» è riduttivo. Per una tradizione come quella italiana, in cui «i temi della filosofia sono immediatamente declinati verso l’esterno, ibridati dai discorsi non filosofici della letteratura, dell’arte, della retorica, della politica, ma anche delle stesse scienze naturali»35, un’impostazione interdisciplinare è fondamentale. In altri termini, occorre dare risalto ai molteplici aspetti di quella che abbiamo più volte chiamato la «differenza italiana». Troppo spesso si è cercato di ridurla ad un’unica caratteristica, ma l’adozione di una prospettiva interdisciplinare può aiutare a non cadere in tale errore. Tuttavia l’interdisciplinarità, da sola, non basta. È necessario utilizzare anche un approccio comparatistico per comprendere in cosa differiscano le varie tradizioni nazionali. Infatti, l’identità di qualcosa emerge sempre per contrapposizione e non è possibile definire il pensiero italiano se non operando un confronto con le altre tradizioni europee e non europee. Ma non solo. «Il futuro sta nella creazione di un modello italiano alla storia della filosofia […] che abbia come perno il bisogno di dare conto di come la cultura nella quale siamo cresciuti sia stata influenzata da quelle dei vicini [...]. Un modello specificamente italiano per la storia della filosofia, dunque, muove dal riconoscimento della translatio studiorum»36. Definito il metodo (interdisciplinare e comparativo) da seguire, bisogna fare una riflessione conclusiva sugli intenti, ovvero sullo 132

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conclusioni

scopo e il significato che può avere oggi uno sviluppo dei paradigmi che abbiamo fin qui analizzato. L’intento non è né meramente storico-descrittivo né grettamente nazionalistico. A debita distanza da storicismo e sciovinismo, imperialismo ed etnocentrismo, la riflessione sulle tradizioni filosofiche nazionali e sull’odierno Italian Thought non ha nulla a che vedere con la riscoperta di tematiche inattuali che interessano ad una ristretta cerchia di accademici. Nell’odierna epoca della globalizzazione, l’intento è semmai quello di promuovere la salvaguardia della diversità culturale, contrastando tanto il nazionalismo quanto la concezione dell’universalità come annullamento di ogni differenza particolare. Solo cominciando seriamente a riflettere sul valore della diversità culturale e sul pericolo dell’uniformazione e omologazione delle culture, delle lingue, degli stili, dei pensieri, è possibile arginare il processo di globalizzazione (intesa nel senso della riduzione delle molteplici culture nazionali ad un’unica «cultura-mondo»). In tale contesto, è di fondamentale importanza essere consapevoli che quella attuale è «una crisi che gli ontologi chiamano nichilismo, ma che in realtà si manifesta nella forma di una drammatica asimbolìa, per cui tutto, indifferentemente, aspira ad essere ricondotto sul piano di un’oggettività aprospettica»37. In altre parole, si tratta di una crisi causata – fra le altre cose – dal «monoculturalismo della globalizzazione supportato da un certo riduzionismo naturalistico della scienza basato sul monoteismo della ragione strumentale»38. Circoscrivendo tale discorso al contesto europeo, una riflessione di questo tipo può costituire un primo passo verso la riscoperta della varietà culturale presente in Europa e, allo stesso tempo, verso la comprensione dell’estrema ricchezza che è custodita in tale varietà39. In un momento storico in cui l’euroscetticismo è sempre più diffuso, la sfida più grande consiste proprio nel capire come la diversità culturale sia una grande risorsa, piuttosto che un insormontabile ostacolo. In altri termini, occorre tener ferme le rispettive differenze nazionali, non per innalzare muri e barriere, ma per promuovere il dialogo interculturale e riaffermare una solida unità che non può venire se non dalla cultura. In conclusione, si tratta di salvaguardare le identità e le culture nazionali non a scapito del cosmopolitismo, ma in nome della sua vera natura, a distanza di sicurezza da ogni forma di identitarismo e di nazionalismo. Oggi più che mai bisogna ripartire da qui. 133

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Introduzione 1   Bertrando Spaventa, Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, 23 novembre-23 dicembre 1861, Vitale, Napoli 1862. 2  Id., La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea (18611862), a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1908. Fu Gentile a mutare il titolo originale dell’opera spaventiana perché ritenuto «troppo generico». 3   Luciano Fabiani, Il pensiero filosofico italiano da Dante ai tempi nostri, Tipografia di C. Zirardini, Ravenna 1890. 4  Guido De Ruggiero, Sommario di storia della filosofia italiana, Principato, Roma-Messina 1924. 5   Valentino Piccoli, Storia della filosofia italiana, Paravia, Torino 1925. 6  Francesco E. Marcianò, Storia della filosofia italiana, Edizioni Cremonese, Roma 1959. 7   Tra il 1904 e il 1915, nella collana Storia dei generi letterari italiani dell’editore Vallardi, esce a fascicoli La Filosofia di Giovanni Gentile. L’autore stesso citava il proprio lavoro con il titolo Storia della filosofia italiana, che tuttavia si interrompe a Lorenzo Valla (in effetti, i fascicoli pubblicati con il titolo La Filosofia per l’editore Vallardi diverranno la Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla, volume XI delle Opere complete, Sansoni, Firenze 1962). In seguito, nel 1969, Eugenio Garin curerà sempre per la Sansoni la Storia della filosofia italiana (2 voll.) di Giovanni Gentile: infatti, se il progetto vallardiano è rimasto incompiuto, Garin ha potuto comunque ricavare una storia abbastanza completa della tradizione filosofica nazionale riordinando gli scritti storico-filosofici di Gentile. Sulla curatela gariniana e sul pensiero storiografico di Gentile cfr. Antimo Negri, Giovanni Gentile storico della filosofia italiana, «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 3, 1970, pp. 390-405. Si veda, inoltre, il capitolo La «Storia della filosofia italiana» contenuto in Andrea Scazzola, Giovanni Gentile e il Rinascimento, Vivarium, Napoli 2002, pp. 123-234. 8  Nel 1947 Eugenio Garin pubblica la prima edizione della sua storia della tradizione filosofica nazionale, uscita nella collana Storia dei generi letterari italiani dell’editore Vallardi con il titolo La Filosofia. Tale opera ebbe altre due edizioni

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(ampliate e modificate in diversi punti rispetto alla prima) pubblicate nel 1966 e nel 1978 da Einaudi con il titolo Storia della filosofia italiana. Sulle differenze fra la prima e la seconda edizione cfr. Massimo Ferrari, La «Storia della filosofia italiana» di Eugenio Garin, «Storiografia», 20, 2016, pp. 169-185. Si veda anche Id., Eugenio Garin e Giovanni Gentile: la storia della filosofia italiana, «Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria”», 82, 2017, pp. 189206. Sulla vita e il pensiero di Garin cfr. Michele Ciliberto, Eugenio Garin. Un intellettuale nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 2011; Giuseppe Vacca e Saverio Ricci (a cura di), Il Novecento di Eugenio Garin. Atti del Convegno di studi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2011; Felicita Audisio e Alessandro Savorelli (a cura di), Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, Le Lettere, Firenze 2003; Stefania Zanardi, Umanesimo e umanesimi. Saggio introduttivo alla storiografia di Eugenio Garin, Franco Angeli, Milano 2019. 9   Cfr. ad esempio, Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Laterza, Bari 1955; Franco Lombardi, La filosofia italiana negli ultimi cento anni, Arethusa, Asti 1958; AA.VV., Parlano i filosofi italiani, in Valerio Verra (a cura di), La filosofia dal ’45 ad oggi, ERI, Torino 1976, pp. 445-540; Fulvio Tessitore (a cura di), La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980, Guida, Napoli 1982; Bruno Maiorca (a cura di), Filosofi italiani contemporanei. Parlano i protagonisti, Dedalo, Bari 1984; AA.VV., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 1985; Carlo Augusto Viano, Va’ pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, Einaudi, Torino 1985; Jader Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma-Bari 1986; Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano (a cura di), Filosofia italiana e filosofie straniere nel dopoguerra, Il Mulino, Bologna 1991; AA.VV., I progressi della filosofia nell’Italia del Novecento, Morano, Napoli 1992; Mario Dal Pra e Fabio Minazzi, Ragione e storia. Mezzo secolo di filosofia italiana, Rusconi, Milano 1992; Giuseppe Cantarano, Immagini del nulla. La filosofia italiana contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 1998; Francesco Paolo Firrao (a cura di), La filosofia italiana in discussione, Bruno Mondadori, Milano 2001; Carlo Augusto Viano, La filosofia italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna 2006; Luca Grecchi, Il presente della filosofia italiana, Petite Plaisance, Pistoia 2007; Mauro Di Giandomenico e Carla Guetti (a cura di), Centenario 1906-2006 della società filosofica italiana. La filosofia italiana oggi, Armando Editore, Roma 2011; Massimo Marassi e Onorato Grassi (a cura di), La filosofia italiana nel Novecento. Interpretazioni, bilanci, prospettive, Mimesis, Milano-Udine 2015; Massimo Ferrari, Mezzo secolo di filosofia italiana. Dal secondo dopoguerra al nuovo millennio, Il Mulino, Bologna 2016; Gaspare Polizzi (a cura di), La filosofia italiana del Novecento. Autori e metodi, ETS, Pisa 2019; Federica Pazzelli e Francesco Verde (a cura di), Momenti di filosofia italiana, Edizioni Efesto, Roma 2020. 10   Cfr., ad esempio, la rivista «Il pensiero italiano» (https://cab.unime.it/journals/index.php/PI) e l’omonima collana dell’editore Aracne, dirette entrambe da Rosella Faraone e Francesca Rizzo. Cfr., inoltre, la rivista «Filosofia italiana» (www. filosofiaitaliana.net) e quanto scrive su di essa Massimiliano Biscuso in «Filosofia Italiana», una rivista che si interroga sul proprio oggetto, in Piero Di Giovanni (a

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note

cura di), Le riviste italiane di filosofia nei secoli XX e XXI, Franco Angeli, Milano 2018, pp. 300-314. Per utili sintesi del dibattito sulla filosofia italiana inaugurato da Bertrando Spaventa e proseguito nelle forme più diverse fino a oggi cfr. Pietro Rossi, Il mito della tradizione filosofica italiana e la sua dissoluzione, in Giovanni Papuli (a cura di), Antonio Corsano e la storiografia filosofica del Novecento. Atti del convegno di studi Lecce-Taurisano 24-25 settembre 1999, Congedo Editore, Galatina 1999, pp. 19-41; Pietro Rossi, Filosofia italiana e filosofia europea: uno scambio ineguale, «Rivista di Filosofia», 2, 2004, pp. 189-214; Marcello Mustè, La filosofia italiana come problema, «Filosofia italiana», 1, 2015; Luca Bianchi, «Lettura Martinetti». La «specificità italiana»: note sulla filosofia in Italia fra Medioevo e Rinascimento, «Rivista di filosofia», 1, 2020, pp. 3-31. Ci permettiamo, in aggiunta, di rimandare ai nostri La filosofia italiana come problema. Da Bertrando Spaventa all’Italian Theory, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 15/16, 2016, pp. 179-188; The Italian «Difference». Philosophy between Old and New Tendencies in Contemporary Italy, «Phenomenology and Mind», 12, 2017, pp. 256-262; Dove va la filosofia italiana. Riflessioni sull’Italian Thought, «Phenomenology and Mind», 15, 2018, pp. 210-216. Si veda, inoltre, il numero 1/2019 della rivista «Giornale Critico di Storia delle Idee» (www.giornalecritico.it/01-2019-italian-thuoght), dedicato a L’Italian Thought fra globalizzazione e tradizione. Cfr., in aggiunta, il numero 3, 1980 della rivista «Semiotext(e)» (www.libcom.org/library/autonomia-post-political-politics) Italy: Autonomia. Post-Political Politics; il numero 452-453, 1985 della rivista «Critique» (www.regine-detambel.com/f/index.php?sp=liv&livre_id=1695) Les philosophes italiens par eux-mêmes; il numero 53, 1987 della rivista «SubStance» (www.jstor.org/stable/i287878) Contemporary Italian Thought; il volume 39, 3/2009 e 4/2009 della rivista «Diacritics» (https://muse.jhu.edu/journal/46) Contemporary Italian Thought; il numero 29, 2011 della rivista «Annali d’Italianistica» (www.jstor.org/stable/i24016408) Italian Critical Theory; il volume 16, 3/2011 della rivista «Angelaki» (www.tandfonline.com/toc/cang20/16/3?nav=tocList) Italian Thought Today. Bio-economy, Human Nature, Christianity; il numero 82-83, 2012 della rivista «Phainomena» (www.phainomena.com/en/archive/) Selected Essays in Contemporary Italian Philosophy; il numero 12, 2/2013 della rivista «Pléyade» (www.revistapleyade.cl/pleyade/ediciones/numero-12/) La «vida» y la «política»: Una genealogía del pensamiento político italiano contemporáneo; il numero 15, 2014 (II) della rivista «Lo Sguardo» (www.losguardo.net/it/archivio/) La differenza italiana. Filosofi(e) nell’Italia di oggi; il numero XII, 1/2015 della rivista «Cosmopolis» (www.cosmopolisonline.it/archivio.php) Sulla filosofia italiana; il numero 87, 2015/4 della rivista «Rue Descartes» (www.ruedescartes.org/numero/?numero=RDES_087) Philosopher en Italie aujourd’hui; il numero 49, 2015-2016 della rivista «Pasajes» (https://puv.uv.es/pasajes-49.html) Cambio de paradigma en la filosofía política contemporánea: la Italian Theory; il volume 39, 1/2016 della rivista «Paragraph» (www.euppublishing.com/toc/para/39/1) Italian Biopolitical Theory and Beyond: Genealogy, Psychoanalysis, and Biology; il numero 14, 2018 della «Revista Diálogos Mediterrânicos» (www.dialogosmediterranicos.com.br/index. php/RevistaDM/issue/archive) Estética, filosofia e política no pensamento italiano

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la tradizione filosofica italiana

contemporâneo: potências para além da península; il numero 57, 2/2018 della rivista «Il Pensiero» (www.inschibbolethedizioni.com/single-post/9788885716827) Da Dante a Vico. Ripensare la tradizione italiana; il numero 1, 2019 della rivista «Filosofia italiana» (www.filosofiaitaliana.net/xiv-2019-1/) La filosofia italiana in questione; il numero 38, 2019 della rivista «Ágalma» (http://mimesisedizioni.it/riviste/agalma/agalma-38-il-linguaggio-e-i-corpi-italian-thought.html) Il linguaggio e i corpi. Italian Thought; il numero 1, 2019 della rivista «Trópos» (www.aracneeditrice.it/index.php/pubblicazione.html?item=9788825528008) Italian Philosophy from Abroad; il numero 14, 2020 della rivista «Quaderni di Inschibboleth» (www. inschibbolethedizioni.com/single-post/9788855291330) Lineamenti del pensiero italiano. Una menzione particolare meritano, infine, la rivista «Differentia: Review of Italian Thought» (1986-1999) fondata e diretta da Peter Carravetta (www.petercarravetta.com/differentia/) e il «Journal of Italian Philosophy» (https://research. ncl.ac.uk/italianphilosophy/). 11   Cfr. Silvia Contarini e Davide Luglio (a cura di), L’Italian Theory existe-t-elle?, Mimésis, Paris 2015; Dario Gentili e Elettra Stimilli (a cura di), Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, Derive Approdi, Roma 2015; Pietro Maltese e Danilo Mariscalco (a cura di), Vita, politica, rappresentazione. A partire dall’Italian Theory, Ombre Corte, Verona 2016; Enrica Lisciani-Petrini e Giusi Strummiello (a cura di), Effetto Italian Thought, Quodlibet, Macerata 2017. Nei quattro libri appena citati sono pubblicati alcuni interventi di quattro convegni sulla filosofia italiana tenuti rispettivamente a Parigi (L’Italian Theory existe-t-elle?/ Does Italian Theory Exist?, Université Paris Ouest Nanterre La Défense/Université Paris-Sorbonne, 24-25 gennaio 2014), a Napoli (Italian Theory. Categorie e problemi della filosofia italiana contemporanea, Istituto Italiano di Scienze Umane [Sum]/ Istituto Italiano per gli Studi Filosofici/Scuola Normale Superiore di Pisa, Napoli 15-17 maggio 2014), a Palermo (Italian Theory. Vita, politica, rappresentazione, Università di Palermo, 19-20 gennaio 2015) e a Salerno (Italian Thought, questioni aperte, Università di Salerno, 6-8 ottobre 2015). Ma, ancora prima, si veda il convegno – organizzato da Timothy Campbell – Commonalities: Theorizing the Common in Contemporary Italian Thought (Cornell University, 24-25 settembre 2010) le cui relazioni sono raccolte nel già citato volume 39, 3/2009 e 4/2009 della rivista «Diacritics» (cfr. supra nota 10). 12   A tal proposito vanno segnalati: Giovanna Borradori (a cura di), Recoding Metaphysics. The New Italian Philosophy, Northwestern University Press, Evanston 1988; Michael Hardt e Paolo Virno (a cura di), Radical Thought in Italy. A Potential Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 1996; Lorenzo Chiesa e Alberto Toscano (a cura di), The Italian Difference between Nihilism and Biopolitics, re.press, Melbourne 2009; Lorenzo Chiesa (a cura di), Italian Thought Today. Bio-economy, Human Nature, Christianity, Routledge, London 2014. Va inoltre ricordata la collana «Suny Series in Contemporary Italian Philosophy» dell’editore SUNY Press. Fra le pubblicazioni della collana cfr. Silvia Benso e Brian Schroeder (a cura di), Contemporary Italian Philosophy: Crossing the Borders of Ethics, Politics, and Religion, SUNY Press, Albany 2007; Antonio Calcagno (a cura di),

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Contemporary Italian Political Philosophy, SUNY Press, Albany 2015; Silvia Benso, Viva Voce: Conversations with Italian Philosophers, SUNY Press, Albany 2017. Da rilevare, infine, la recente fondazione da parte di Silvia Benso della SIP (Society for Italian Philosophy – www.societyforitalianphilosophy.org/) inaugurata durante la conferenza New Italian Thought: Challenges and Responses tenutasi a London (Ontario, Canada) presso il King’s University College dal 24 al 26 marzo 2017. 13   Michele Ciliberto (a cura di), Filosofia. Il contributo italiano alla storia del pensiero. Ottava appendice, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012. Sul volume della Treccani curato da Ciliberto cfr. Mattia Luigi Pozzi, Esiste una tradizione filosofica italiana?, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 2, 2013, pp. 359-376. Di chiara ispirazione gariniana è anche l’opera di Giuseppe Galasso, Storicismo, filosofia e identità italiana, Quaderni di Biogem, Ariano Irpino 2012. Su questo scritto di Galasso cfr. Giovanni Carosotti, Le soluzioni dello storicismo italiano: una lettura controcorrente, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 2, 2013, pp. 341-357. Cfr., infine, Giuseppe Cacciatore e Maurizio Martirano (a cura di), Momenti della filosofia civile italiana, La Città del Sole, Reggio Calabria 2008; Maurizio Martirano, Aspetti della filosofia civile italiana, in Francesca Bonicalzi e Gianfranco Dalmasso (a cura di), Etica e ontologia. Fatto, valore, soggetto, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 65-80. 14   Roberto Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010; Id., Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, Torino 2016. Sull’Italian Thought cfr. anche Davide Tarizzo, Soggetto, moltitudine, popolo. A proposito dell’«Italian Theory», «Filosofia politica», 25, 3, 2011, pp. 431-446; Dario Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, Il Mulino, Bologna 2012; Davide Luglio, Il posto della letteratura nell’Italian Theory. Genesi e prospettive, in Ilona Fried (a cura di), Cultura e costruzione del culturale. Fabbriche dei pensieri in Italia nel Novecento e verso il terzo Millennio, Ponte Alapítvány, Budapest 2014, pp. 143-155; Riccardo Campa, Biopolitica e biopotere. Da Foucault all’Italian Theory e oltre, «Orbis Idearum», 2, 1, 2015, pp. 125-170; Contarini e Luglio (a cura di), L’Italian Theory existe-t-elle?, cit.; Gentili e Stimilli (a cura di), Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, cit.; Dario Gentili, L’Italian Theory nella crisi della globalizzazione, in Daniele Balicco (a cura di), Made in Italy e cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea, Palumbo editore, Palermo 2016, pp. 243-247; Maltese e Mariscalco (a cura di), Vita, politica, rappresentazione. A partire dall’Italian Theory, cit.; Francesco Marchesi, Italian Thought. Ámbito filosófico y problemática historiográfica, «Tiempo Devorado. Revista de Historia Actual», 3, 2017, pp. 509-530; Dario Gentili, Italian Theory: crisi e conflitto, in Giulia Gamba, Giuseppe Molinari, Matteo Settura e Massimo Coccorese (a cura di), Transizioni e cesure di una modernità incompiuta. Tracce di senso in tempo di crisi: studi su Badiou, Florenskij, Hegel, Italian Theory, Laclau, Marx, Nietzsche, Sloterdijk, Mimesis, Milano-Udine 2017, pp. 71-84; Antonio Lucci, Esther Schomacher e Jan Söffner (a cura di), Italian Theory, Merve, Berlin 2020. Si segnala inoltre la collana «Materiali IT» dell’editore Quodlibet (www.quodlibet.it/catalogo/collana/81) che – come suggerisce l’acronimo IT – ospita volumi

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sull’Italian Thought: cfr. Lisciani-Petrini e Strummiello (a cura di), Effetto Italian Thought, cit.; Elettra Stimilli (a cura di), Decostruzione o biopolitica?, Quodlibet, Macerata 2017; Francesco Marchesi, Riscontro. Pratica politica e congiuntura storica in Niccolò Machiavelli, Quodlibet, Macerata 2017; Dario Gentili, Crisi come arte di governo, Quodlibet, Macerata 2018; Elettra Stimilli (a cura di), Teologie e politica. Genealogie e attualità, Quodlibet, Macerata 2019; Marco Assennato, Progetto e metropoli. Saggio su operaismo e architettura, Quodlibet, Macerata 2019; Antonio Montefusco (a cura di), Italia senza nazione. Lingue, culture, conflitti tra Medioevo ed età contemporanea, Quodlibet, Macerata 2019; Carla Benedetti, Manuele Gragnolati e Davide Luglio (a cura di), Petrolio 25 anni dopo. (Bio)politica, eros e verità nell’ultimo romanzo di Pier Paolo Pasolini, Quodlibet, Macerata 2020; Giacomo-Maria Salerno, Per una critica dell’economia turistica. Venezia tra museificazione e mercificazione, Quodlibet, Macerata 2020. Sempre per quanto riguarda l’Italian Thought una menzione particolare merita l’ITN (Italian Thought Network – www.italianthoughtnetwork.com/), fondato il 10 marzo 2016 presso l’Università di Bari. 15  Giovanni Gentile, Rosmini e Gioberti (1898), in Id., Storia della filosofia italiana, 2 voll., a cura di E. Garin, Sansoni, Firenze 1969, vol. I, p. 696. 16   Giovanni Gentile, Bertrando Spaventa (1900), Le Lettere, Firenze 2001, p. 64. A dimostrazione di questa affermazione, Gentile fa i nomi di Appiano Buonafede (noto anche come Agatopisto Cromaziano, nome che assunse dopo essere entrato nell’Accademia dell’Arcadia), Baldassarre Poli, Davide Winspeare, Enrico Pessina e Michele Baldacchini. Prima di Spaventa, soltanto questi e pochi altri non citati da Gentile (Leonardo Cozzando, Giuseppe Valletta, Giambattista Capasso) si erano cimentati nella storia della filosofia in Italia. Per una ricerca approfondita sulla storia delle storie della filosofia (non solo quelle italiane) cfr. Storia delle storie generali della filosofia, 5 voll., a cura di G. Santaniello (poi a cura di G. Santaniello e G. Piaia), 1979-2004. Vol. I: Dalle origini rinascimentali alla «historia philosophica», La Scuola, Brescia 1981; Vol. II: Dall’età cartesiana a Brucker, La Scuola, Brescia 1979; Vol. III: Il secondo illuminismo e l’età kantiana, Antenore, Padova 1988, tomi 2; Vol. IV: L’età hegeliana, I: La storiografia filosofica nell’area tedesca, Antenore, Padova 1995; II: La storiografia filosofica nell’area neolatina, danubiana e russa, Antenore, Roma-Padova 2004; Vol. V: Il secondo Ottocento, Antenore, Roma-Padova 2004. 17  Gentile, Bertrando Spaventa, cit., p. 65. 18   Sul mito dell’antica sapienza italica cfr. Paolo Casini, L’antica sapienza italica. Cronistoria di un mito, Il Mulino, Bologna 1998; Ilario Tolomio, Italorum sapientia. L’idea di esperienza nella storiografia filosofica italiana dell’età moderna, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999. Sull’idea di «tradizione nazionale» e di «primato italiano» cfr. rispettivamente Luciano Malusa, L’idea di tradizione nazionale nella storiografia filosofica italiana dell’Ottocento, Tilgher, Genova 1989; Giuliano Albarani, Il mito del primato italiano nella storiografia risorgimentale, Unicopli, Milano 2008. 19   Eugenio Garin, Avvertenza, in Gentile, Storia della filosofia italiana, cit., p. IX.

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note

  Eugenio Garin, lettera a Gentile del 1 giugno 1941; in Simonetta Bassi, Immagini del Rinascimento. Garin, Gentile, Papini, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2013, p. 74. 21   Ibidem. 22   Sulle numerose questioni emerse in tale raccolta di saggi si veda Guido Traversa, Il recente dibattito sulla filosofia italiana, «Cultura e scuola», 110, 1989, pp. 108-112. 23   Su questo volume cfr. le interessanti considerazioni di Riccardo Pozzo in Da Peano a oggi. E le donne?, «Il Sole 24 Ore», 19 giugno 2016 (https://st.ilsole24ore. com/art/cultura/2016-06-17/da-peano-oggi-e-donne-155704.shtml?uuid=ADctjvZ). 24   Per una analisi storico-filosofica del concetto di tradizione cfr. Massimiliano Biscuso, La tradizione come problema. Questioni di teoria e storia della storiografia filosofica, Morcelliana, Brescia 2013; Marcello Veneziani, Di padre in figlio. Elogio della tradizione, Laterza, Roma-Bari 2001; Elisa Grimi (a cura di), Tradition as the Future of Innovation, Cambridge Scholars Publishing, Cambridge 2015. 25   Su questo si veda Richard Shusterman, Internationalism in Philosophy: Models, Motives, and Problems, «Metaphilosophy», 28, 4, 1997, pp. 289-301.

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1. Questioni preliminari   Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana (1947), 3 voll., Einaudi, Torino 19783, vol. I, p. 22. 2   Antonio Gramsci, Quaderni del carcere (1929-1935), 4 voll., edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 20073, vol. I, 3, 49, p. 333. 3   Marc Augé, Où est passé l’avenir?, 2008; trad. it. Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, a cura di G. Lagomarsino, Elèuthera, Milano 2009. Su utopia e globalizzazione si veda Andrea Tagliapietra, Altrove e altrimenti. Ripensare l’utopia, in AA.VV., Ringiovanire il mondo. Utopia e nostalgia del futuro, Il Prato, Saonara 2015, pp. 5-30. 4   Cfr. Tommaso Moro, Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia, 1516; trad. it. L’Utopia o la migliore forma di repubblica, a cura di T. Fiore, Laterza, Roma-Bari 201017. 5   Cfr. Louis-Sébastien Mercier, L’An 2440, 1771; trad. it. L’anno 2440, a cura di L. Tundo, Dedalo, Bari 1993. Su questo testo di Mercier si veda Reinhart Koselleck, Zur Begriffsgeschichte der Zeitutopie, in Id., Begriffsgeschichten. Studien zur Semantik und Pragmatik der politischen und sozialen Sprache, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2006, pp. 252-273; trad. it. L’utopia del tempo, in Reinhart Koselleck, Il vocabolario della modernità. Progresso, crisi, utopia e altre storie di concetti, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 133-154. In realtà, Koselleck non menziona alcuni anticipatori di quel modo di pensare l’utopia in termini temporali che si diffonde pienamente a partire dal 1771 con l’opera di Mercier: ad esempio Épigone, 1

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histoire du siècle futur (1659) di Jacques Guttin e La Città del Sole (1601-1602) di Tommaso Campanella. Sull’interpretazione dell’utopia campanelliana come eucronia cfr. Vittorio Frajese, Profezia e machiavellismo. Il giovane Campanella, Carocci, Roma 2002, p. 137. Ci permettiamo, in merito, di rimandare ai nostri Utopia concreta. Pensiero utopico e ideologia in Niccolò Machiavelli e Tommaso Campanella (Il Prato, Saonara 2015); Per un reincantamento del mondo. L’utopia militante di Tommaso Campanella (in AA.VV., Ringiovanire il mondo. Utopia e nostalgia del futuro, cit., pp. 77-95) e Tommaso Campanella e Gioacchino da Fiore. «Riaprire il conflitto» a partire dal pensiero utopico e apocalittico («Giornale Critico di Storia delle Idee», 11, 2014, pp. 23-34). Sulla concezione del tempo nelle comunità ideali della modernità si veda, infine, l’interessante saggio di Maurizio Cambi, I tempi delle città ideali. Saggi su storia e utopia nella modernità, La Città del Sole, Napoli 2006. 6  A tal proposito Koselleck avrebbe detto che le idee sono, al tempo stesso, «fattori» e «indicatori» del mutamento storico. Cfr. Reinhart Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, 1979; trad. it. Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, a cura di A. Marietti Solmi, CLUEB, Bologna 2007, p. 102: «risulta chiaro come i concetti comprendano bensì contenuti sociali e politici, ma come la loro funzione semantica, la loro efficacia, non possa essere derivata solo dai dati sociali e politici cui si riferiscono. Un concetto non è solo un indicatore dei complessi di relazioni che comprende: è anche un loro fattore. Con ogni concetto vengono posti determinati orizzonti, ma anche i limiti di un’esperienza possibile e di una teoria pensabile». 7  Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1820); trad. it Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 201911, p. 15. 8   Id., Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte (1822-1823); trad. it. Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Bonacina e L. Sichirollo, Laterza, Roma-Bari 20177, p. 76. 9   Massimo Marassi, Filosofia italiana e identità nazionale, in Angelo Bianchi (a cura di), Storia, civiltà e religione in Italia. Studi in occasione del 150° anniversario dell’unità nazionale, Vita e Pensiero, Milano 2014, p. 228. 10   Ibidem. 11   Ibidem. 12   Paolo Bonetti, Il filo rosso della filosofia italiana, «Nuova antologia», 617, 2280, 4, 2016, p. 244. Sulla dialettica fra universalità e nazionalità della filosofia cfr., fra gli altri, Riccardo Pozzo e Gregorio Piaia (a cura di), Identità nazionale e valori universali nella moderna storiografia filosofica, CLEUP, Padova 2008. 13   Alain Badiou, L’aventure de la philosophie française, 2012; trad. it. L’avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta, Derive Approdi, Roma 2013, p. 6. 14   Ibidem. 15   Ibidem. 16  Cfr., ad esempio, Martha C. Nussbaum, Gian Enrico Rusconi e Maurizio Viroli, Piccole patrie, grande mondo, Donzelli, Milano 1995.

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note

  Su questo tema si veda, ad esempio, il ciclo di seminari di Jacques Derrida, Nationalité et nationalisme philosophiques (1984-1985: Le Fantôme de l’autre; 1985-1986: Littérature et philosophie comparées: Mythos, logos, topos; 1986-1987: Théologie - Politique; 1987-1988: Kant, le Juif, l’Allemand). Da tale ciclo di seminari muove diversa letteratura critica: Dana Hollander, Exemplarity and Chosenness. Rosenzweig and Derrida on the Nation of Philosophy, Stanford University Press, Stanford 2008; Oisín Keohane, Cosmo-nationalism. American, French and German Philosophy, Edinburgh University Press, Edinburgh 2018; Michael Lewis, Philosophical Nationality and Nationalism, «The Philosopher», 107, 4, 2019, pp. 43-49. 18   Su questo cfr. Massimo Baioni, Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista, Carocci, Torino 2006. Il fascismo raccolse l’interpretazione revisionistica mazziniana del Risorgimento come «rivoluzione nazionale incompiuta» e proclamò se stesso come il compimento di tale rivoluzione. In questa ottica, il fascismo era la realizzazione di quella rigenerazione morale del popolo italiano predicata da Mazzini. Infatti, il pensatore genovese, criticava il nuovo Stato liberale soprattutto per il fatto che, in esso, mancava quell’unità morale che Mazzini andava da sempre predicando. Si era realizzata un’unità meramente politica, ma non quella morale. Cfr., a tal proposito, le parole rammaricate del rivoluzionario genovese, all’indomani dell’unità, riportate in Denis Mack Smith, Mazzini. L’uomo, il pensatore, il rivoluzionario, Rizzoli, Milano 1993, p. 286: «non c’è chi possa comprendere quanto io mi senta infelice quando vedo aumentare di anno in anno, sotto un governo materialista e immorale, la corruzione, lo scetticismo sui vantaggi dell’unità, il dissesto finanziario; e svanire tutto l’avvenire dell’Italia, tutta l’Italia ideale, il sogno a cui si è ispirata tutta la mia vita, l’anima di tutta la mia fede». 19   Quando Mazzini scrive a proposito della Terza Italia bisogna tenere presente che il riferimento è all’Età dello Spirito Santo di cui parla Gioacchino da Fiore, un periodo di pacificazione universale, l’ultima delle tre età in cui si divide la storia (Età del Padre, Età del Figlio e, appunto, Età dello Spirito Santo). La presenza di Gioacchino nell’opera mazziniana è testimoniata, oltre che dalle numerose citazioni e riferimenti impliciti all’abate calabrese, anche da certi appunti che erano la base per la realizzazione (mai compiuta) di un trattato dal titolo Joachimo, appunti per uno studio storico sull’abate Gioacchino. Su Mazzini e Gioacchino da Fiore cfr. Fulvio De Giorgi, Millenarismo educatore. Mito gioachimita e pedagogia civile in Italia dal Risorgimento al fascismo, Viella, Roma 2010, pp. 53-74; Marjorie Reeves e Warwick Gould, Gioacchino da Fiore e il mito dell’Evangelo eterno nella cultura europea, Viella, Roma 2000, pp. 93-121; Carmelo Ciccia, Giuseppe Mazzini e Gioacchino da Fiore, in Id., Saggi su Dante e altri scrittori, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2007, pp. 141-146; Sofia Alunni, Secolarizzazione gioachimita e teologia politica. Il messianismo di Giuseppe Mazzini, Studium, Roma 2019. 20  Maurizio Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia (1995), Laterza, Roma-Bari 2001, p. X. Cfr. anche Id., Nazionalisti e patrioti, Laterza, Roma-Bari 2019. 21   Federico Chabod, L’idea di nazione (1943-1944), Laterza, Roma-Bari 201118, p. 80.

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  Cfr., in particolare, gli scritti contenuti in Giuseppe Mazzini, Cosmopolitismo e nazione. Scritti sulla democrazia, l’autodeterminazione dei popoli e le relazioni internazionali (1831-1871), a cura di S. Recchia e N. Urbinati, Castelvecchi, Roma 2016. 23  Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. III, 14, 68, p. 1729. 24   Karl Marx e Friedrich Engels, Manifest der Kommunistischen Partei, 1848; trad. it. Manifesto del Partito Comunista, in Iid., Manifesto e princìpi del comunismo, Bompiani, Milano 2009, p. 241. 25  Iid., Sull’Italia. Scritti e lettere (1848-1895), Edizioni Progress, Mosca 1976, p. 199. 26   Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento civile d’Italia (1851), 3 voll., a cura di F. Nicolini, Laterza, Bari 1968, vol. II, pp. 182-183. 27  Id., Del primato morale e civile degli italiani (1843), 3 voll., a cura di G. Balsamo-Crivelli, UTET, Torino 1925, vol. I, p. 87. 28   Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Zur Geschichte der neueren Philosophie [Münchener Vorlesungen] et alia, 1861; trad. it. Lezioni monachesi e altri scritti, a cura di C. Tatasciore, Orthotes, Napoli-Salerno 2019, p. 230. 29   Ciliberto (a cura di), Filosofia. Il contributo italiano alla storia del pensiero. Ottava appendice, cit. 30  Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, cit., p. 14. 31   Gilles Deleuze e Félix Guattari, Qu’est-ce que la philosophie, 1991; trad. it. Che cos’è la filosofia, a cura di C. Arcuri, Einaudi, Torino 20023, p. 77. 32   Ivi, p. 96, corsivo mio. Nietzsche – considerato da Deleuze e Guattari il fondatore della geofilosofia – ha così determinato i caratteri filosofici nazionali: «per una caratterizzazione del genio nazionale, relativamente a ciò che è straniero e tolto a prestito: il genio inglese rende grossolano e naturale tutto ciò che riceve; il genio francese diluisce, semplifica, logicizza, orna; il genio tedesco mescola, media, imbroglia, moralizza; il genio italiano ha usato nel modo di gran lunga più libero e fine ciò che ha preso a prestito e ci ha messo dentro molto di più di quello che ne ha ricavato, essendo il genio più ricco, che più poteva donare» (Friedrich Nietzsche, Der Wille zur Macht (1906); trad. it. La volontà di potenza, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 2018, § 831, pp. 450-451). 33   Su tale interrogativo cfr. Rocco Rubini, The Other Renaissance: Italian Humanism between Hegel and Heidegger, The University of Chicago Press, Chicago 2014; Id., L’umanesimo è un esistenzialismo: la filosofia peninsulare italiana, in Marco Russo (a cura di), Umanesimo. Storia, critica, attualità, Le Lettere, Firenze 2015, pp. 137-158. 34   Cfr. Ernst Bloch, Vorlesungen zur Philosophie der Renaissance, 1977; trad. it. Filosofia del Rinascimento, a cura di R. Bodei, Il Mulino, Bologna 1981. 35  Bloch, Filosofia del Rinascimento, cit., p. 73. 36   Ibidem. 37   Cfr. Ernst Bloch, Avicenna und die Aristotelische Linke (1952); trad. it. Avicenna e la sinistra aristotelica, a cura di N. Alessandrini, Mimesis, Milano-Udine 2018.

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note

 Id., Filosofia del Rinascimento, cit., p. 79. Per la versione italiana di questa citazione cfr. Tommaso Campanella, Del senso delle cose e della magia (1604), a cura di G. Ernst, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 218: «[sc. l’uomo] non può far poi quello che non crede di poter fare». 39   Cfr. Eugenio Garin, Il filosofo e il mago, in Id. (a cura di), L’uomo del Rinascimento (1988), Laterza, Roma-Bari 20139, pp. 169-202; Id., Magia ed astrologia nella cultura del Rinascimento, in Id., Medioevo e Rinascimento (1954), Laterza, Roma-Bari 20072, pp. 141-157; Id., Considerazioni sulla magia, in Id., Medioevo e Rinascimento, cit., pp. 159-178. Oltre a questi saggi di Garin che costituiscono ormai dei classici sulla tematica della magia nel Rinascimento, cfr. anche pubblicazioni più recenti: Germana Ernst e Guido Giglioni (a cura di), I vincoli della natura. Magia e stregoneria nel Rinascimento, Carocci, Roma 2012; Guido Giglioni, Magia e filosofia naturale, in Germana Ernst (a cura di), La filosofia del Rinascimento, Carocci, Roma 2003, pp. 159-177. 40   Giordano Bruno, De Magia (1589); trad. it. La magia, in Id., La magia e le ligature, a cura di L. Parinetto, Mimesis, Milano 2000, p. 39. Per la citazione in latino cfr. ivi, p. 36. Sulla tematica – ampiamente studiata – della magia in Giordano Bruno si veda da ultimo, per esempio, Maurizio Cambi, Giordano Bruno, la magia e i limiti della ragione, in Id., Raffaele Carbone, Antonio Carrano e Edoardo Massimilla (a cura di), Ragione, razionalità e razionalizzazione in età moderna e contemporanea, FedOAPress, Napoli 2020, pp. 37-49. 41   In tal senso cfr. Schelling, Lezioni monachesi e altri scritti, cit., p. 287: «alla parola magia, che com’è noto deriva dal persiano, ma in questa lingua non ha alcun verbo dal quale potrebbe essere derivata, è conservata questa radice nella parola tedesca Mögen […]; magia è quindi esattamente lo stesso del tedesco Macht; il tedesco Mögen in molte locuzioni e in alcuni dialetti della Germania equivale quasi del tutto tanto a Können quanto a Wollen (volere), così come infatti, una volta fatte queste osservazioni linguistiche, non voglio tralasciare di richiamare l’attenzione sulla identità dei concetti di Können e di Wissen (sapere). Kennen (nosse) è stato comunque separato da Können solo con la successiva differenziazione nella pronuncia. “Etwas können” si dice anche per “etwas wissen, vestehen” (sapere, capire qualcosa)». 42   Theodor Sträter, Briefe über die italienische Philosophie (1864-1865); trad. it. Lettere sulla filosofia italiana, La scuola di Pitagora, Napoli 2014, p. 80.

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2. Bertrando Spaventa filosofo militante   Sträter, Lettere sulla filosofia italiana, cit., p. 30.   Ivi, p. 17. 3  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 1. Sul tema, ampiamente trattato, si veda da ultimo, ad esempio, Sevgi Doğan, Can We Talk about National Philosophies? An Overview through Bertrando Spaventa’s Thought, in Sophia Catalano e Fabrizio Meroi (a cura di), La filosofia italiana. Tradizioni, confronti, interpretazioni, Olschki, Firenze 2019. 1 2

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 Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 21. 5   Ivi, p. 11. 6   Ivi, p. 16. 7   Ivi, pp. 10-11. 8   Ivi, p. 21. 9   Ivi, p. 30. 10   Ivi, p. 138. 11   Giovanni Gentile, Prefazione alla presente edizione, in Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. XIX. 12   Bertrando Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel (1851), in Id., Unificazione nazionale ed egemonia culturale, a cura di G. Vacca, Laterza, Bari 1969, p. 18. 13   Bertrando Spaventa, Logica e metafisica (1911), in Id., Opere, a cura di F. Valagussa, Bompiani, Milano 2009, p. 1775. Di questa edizione delle Opere di Spaventa si raccomanda la lettura del Saggio Introduttivo in cui l’autore, Francesco Valagussa, svolge importanti considerazioni sul pensiero del filosofo abruzzese. 14   Ivi, p. 1776. 15   Francesca Rizzo, Bertrando Spaventa. Le «Lezioni» sulla storia della filosofia italiana nell’anno accademico 1861-1862, Armando Siciliano Editore, Messina 2001, p. 36. Di Francesca Rizzo cfr. anche Sei studi sulla filosofia italiana del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007. 16   Cfr., in particolare, Luigi Palmieri, Prolusione alle Lezioni di Logica e Metafisica nella cattedra della Regia Università degli studi recitata nel dì 13 novembre del 1847, Nobile, Napoli 1848. 17   Silvio Spaventa, Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti pubblicati da Benedetto Croce, Laterza, Bari 19232, p. 313. 18   Ivi, p. 78. 19  Gentile, Bertrando Spaventa, cit., p. 61. 20   Sulla ricezione di Hegel in Italia si veda l’importante monografia di Vincenzo Vitiello, Hegel in Italia. Dalla storia alla logica, Guerini e Associati, Milano 2003. Cfr. anche Fernanda Gallo (a cura di), Gli hegeliani di Napoli: il Risorgimento e la ricezione di Hegel in Italia. Scritti in onore di Gerardo Marotta, La Scuola di Pitagora, Napoli 2020. 21  Gentile, Bertrando Spaventa, cit., p. 61. 22  Bertrando Spaventa, Scritti inediti e rari (1840-1880), CEDAM, Padova 1966, p. 506. 23  Id., Studi sopra la filosofia di Hegel, cit., p.16. 24  Id., La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 8. 25   Cfr. Vincenzo Cuoco, Platone in Italia (1806), a cura di A. De Francesco e A. Andreoni, Laterza, Roma-Bari 20132. 26  Cfr. Terenzio Mamiani, Del Rinnovamento della filosofia antica italiana, Delaforest, Paris 1834. Per una critica di quest’opera si veda Antonio Rosmini, Il rinnovamento della filosofia in Italia (1836), 2 voll., a cura di G. Messina, Città Nuova, Roma 2007-2008.

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note

  Cfr. Giambattista Vico, Polemiche relative al De antiquissima italorum sapientia (1711-1712), in Id., Le orazioni inaugurali, il De italorum sapientia e le polemiche, a cura di G. Gentile e F. Nicolini, Laterza, Bari 1968, pp. 195-294. 28  Id., De antiquissima italorum sapientia, 1710; trad. it. L’antichissima sapienza degli italici, in Id., De Antiquissima italorum sapientia, a cura di M. Sanna, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2005, p. 5. 29   Cfr. ivi, pp. 14-19. 30  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 56. 31   Giambattista Vico, La scienza nuova (1744), in Id., La scienza nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, a cura di M. Sanna e V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, pp. 873-874. 32  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 66. 33   Ivi, p. 52. 34   Ivi, p. 53. 35   Ibidem. 36   Ibidem. 37   Ibidem. 38   Ivi, p. 71. 39   Cfr. Rizzo, Bertrando Spaventa. Le «Lezioni» sulla storia della filosofia italiana nell’anno accademico 1861-1862, cit., p. 113: «il punto e, a nostro avviso, il pregio consistevano nel fatto che per la prima volta in Italia [...] si dava una storiografia filosofica che non era “filastrocca di opinioni”, ma racconto costruito nella prospettiva dell’immanenza come verità e via della filosofia moderna». 40  Cfr. Eugenio Garin, La filosofia come sapere storico (1959), Laterza, Roma-Bari, 19902. 41  Gentile, Prefazione alla presente edizione, cit., p. XVI. 42   Ivi, p. XVII. 43   Ivi, p. XVIII. 44   Cfr. Hiram Haydn, The Counter-Renaissance, 1950; trad. it. Il Controrinascimento, Il Mulino, Bologna 1967. 45   Cfr. Eugenio Battisti, L’antirinascimento, Feltrinelli, Milano 1962. 46   Cfr. Ezio Raimondi, Rinascimento inquieto, Einaudi, Torino 1965. 47   Si leggano, ad esempio, queste parole di Eugenio Garin: «il Rinascimento non fu solo una sorta di età dell’oro. Il mondo che si riflette nelle grandi opere e nelle grandi figure del Rinascimento italiano è molto spesso tragico, più che lieto, crudele piuttosto che pacificato, inquieto ed enigmatico piuttosto che limpido e armonioso. La vita e la storia sono tragiche e insanguinate da congiure, in quel Quattrocento tanto segnato dalla grandezza dell’uomo. Ma il Rinascimento e l’Umanesimo restano davvero un evento rivoluzionario che per secoli ha illuminato l’Italia, l’Europa, il mondo» (cfr. Renzo Cassigoli (a cura di), Colloqui con Eugenio Garin. Un intellettuale del Novecento, Le Lettere, Firenze 2000, p. 52). 48  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., pp. 87-88.

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  Ci permettiamo, in merito, di rimandare al nostro Tommaso Campanella in difesa di Galileo Galilei: «libertas philosophandi» e concordanza dei libri di Dio, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 12/13, 2014-2015, pp. 177-185. 50  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 93. 51   Ivi, pp. 101-102. 52   Ivi, p. 31. 53   Ivi, p. 144. 54   Ivi, p. 157. 55   Ivi, p. 144. 56   La citazione di Spaventa è riportata da Gentile in Gentile, Bertrando Spaventa, cit., p. 93. 57  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 145. 58   Ivi, p. 160. 59   Ivi, p. 161. 60   Ivi, p. 165. 61  Garin, Storia della filosofia italiana, cit., vol. III, pp. 1234-1235. 62  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., pp. 200-201. 63   Ivi, p. 201. 64   Ivi, p. 163. 65   Alessandro Savorelli, Introduzione, in Bertrando Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea (1861-1862), a cura di A. Savorelli, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2003, p. XIV. 66   Eugenio Garin, Filosofia e politica in Bertrando Spaventa (1983), in Id., Bertrando Spaventa, Bibliopolis, Napoli 2007, p. 39. 67   Vito Fazio-Allmayer, Il problema della nazionalità nella filosofia di B. Spaventa (1920), in Id., Il problema morale come problema della costituzione del soggetto e altri saggi, Le Monnier, Firenze 1942, p. 142. 68   Bertrando Spaventa, Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI sino al nostro tempo (1860), in Id., Opere, cit., p. 255. 69   Ibidem. 70  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 202. 71   Ivi, pp. 202-203. 72  Id., Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI sino al nostro tempo, cit., p. 256. 73   Fernanda Gallo, Dalla patria allo Stato. Bertrando Spaventa, una biografia intellettuale, Laterza, Roma-Bari 2012, p. XIX. 74   Bertrando Spaventa, False accuse contro l’hegelismo (1851), in Id., Opere, cit., p. 2383. 75   Ibidem. 76   Ibidem.

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note

  Ivi, p. 2391.   Ivi, p. 2385. 79   Ibidem. 80   Ivi, p. 2391. 81   Ibidem. 82   Ivi, p. 2392. 83  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 2. 84   Giovanni Rota, La «circolazione del pensiero» secondo Bertrando Spaventa, «Rivista di storia della filosofia», 60, 4, 2005, p. 658. 85  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 2. 86   Ibidem. 87   Giovanni Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia (19031914), in Id., Storia della filosofia italiana, cit., vol. II, p. 673. 88   Fernanda Gallo, Gli hegeliani di Napoli e il Risorgimento. Bertrando Spaventa e Francesco De Sanctis a confronto (1848-1862), «LEA - Lingue e letterature d’Oriente e d’Occidente», 6, 2017, p. 659. 77

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3. Giovanni Gentile storico della filosofia italiana  Gentile, Rosmini e Gioberti, cit., p. 696.  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 71. 3   Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie (1825-1826); trad. it. Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 562. 4  Gentile, Prefazione alla presente edizione, cit., p. XVIII. 5   Su questo si veda quanto rilevato giustamente da Pietro Piovani: «tra Spaventa e Gentile si sono beneficamente inseriti insegnamenti della scienza storica che un ricercatore modernamente esperto non deve trascurare: insegnamenti che possono riassumersi, in senso lato, nel nome della filologia, della nuova filologia alleatasi definitivamente alla storia. Quella fedeltà ai suoi doveri critici che, come si è prima notato, salva la storiografia gentiliana consentendole di sopravvivere alle sue preformate tesi è, infatti, prima di tutto ubbidienza agli obblighi che la filologia impone ad una moderna ricerca storica. […] Le accuse agli “storici filologisti” della filosofia, pur quando non riconoscono a Francesco Fiorentino e, peggio, a Felice Tocco tutto ciò che va loro riconosciuto, sono sempre, in ultima analisi, le critiche di un alunno e di un continuatore, provengono sempre dal discepolo, mai immemore, del D’Ancona, dallo studioso debitore all’erudizione “filologica” e “positiva” di elementi essenziali della sua formazione. L’opposizione al “filologismo”, pur quando si risolve in diseducatrice impazienza, non è negazione dei meriti della filologia, ma lotta contro una storia “senza idee”, contro l’insensibilità storica propria di 1 2

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certe tendenze del positivismo (di ogni positivismo), contro una storia tutta erudita, analizzante la filosofia come un “arnese da museo”, secondo la protesta elevata da Gentile nella prolusione romana sul Carattere della filosofia italiana» (cfr. Pietro Piovani, Indagini di storia della filosofia. Incontri e confronti, a cura di G. Giannini con una nota di F. Tessitore, Liguori, Napoli 2006, pp. 178-179). A questo si aggiunga il fatto che anche Fiorentino e Tocco si sono occupati – come Spaventa e Gentile – dell’identità della filosofia italiana (cfr., a tal proposito, Santina Manieri, Francesco Fiorentino, Felice Tocco e l’identità della filosofia italiana dell’Ottocento, ilTestoEditor, Davoli 2017). 6   Giovanni Gentile, Il carattere storico della filosofia italiana (1918), in Id., I problemi della Scolastica e il pensiero italiano. 3° edizione riveduta, Sansoni, Firenze 1963, pp. 209-236. 7   Ivi, p. 5. 8   Ivi, p. 7. 9   Ivi, p. 5. 10  Id., Il carattere storico della filosofia italiana, cit., p. 212. 11   Ibidem. 12   Ibidem. 13   Ibidem. 14   Ibidem. 15   Ivi, p. 210. 16   Ivi, p. 212. 17   Ibidem. 18   Ibidem. 19   Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista Vico (1911), a cura di F. Audisio, Bibliopolis, Napoli 1997, p. 10. 20  Benedetto Croce, Nazionalità e individualità (1920), in Id., Conversazioni critiche. Serie quarta. Seconda edizione riveduta, Laterza, Bari 1951, pp. 8-9. 21   Ivi, p. 9. 22   Ibidem. Il bersaglio polemico di Croce è Antonio Aliotta che, nell’articolo L’individualità nazionale del pensiero («Politica», II, IV, I, 1920, pp. 19-23), ha sostenuto il carattere nazionale della filosofia. In una versione ampliata di tale articolo Aliotta precisa che «la condanna dell’astratto internazionalismo del pensiero non ci deve condurre all’opposto eccesso di quelli che pretenderebbero cingere l’Italia d’una muraglia cinese per conservarla così artificialmente da ogni estraneo influsso. […] E con tutto il rispetto dovuto a pensatori, come il Rosmini, il Gioberti, il Mamiani, il loro proposito di rinnovare l’antica filosofia italiana, che ognuno di essi naturalmente concepiva con caratteri diversi, proiettando nel passato le proprie tendenze speculative, mi ha fatto sempre sorridere. C’è stato poi qualcuno che ha voluto risalire perfino alla scuola pitagorica e all’eleatica, che rappresenterebbero l’antica filosofia italica, la nostra originale tradizione perché Crotone ed Elea erano nell’Italia meridionale!» (Cfr. Antonio Aliotta, Il carattere nazionale del pensiero e la collaborazione internazionale, «Logos: rivista internazionale di filosofia», III, I, 1920, p. 9).

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note

  Benedetto Croce, La nazionalità e la filosofia (1919), in Id., Conversazioni critiche. Serie quarta. Seconda edizione riveduta, cit., pp. 5-6. 24   Ivi, p. 6. 25  Id., Problemi filosofici, in Id., Pagine sparse. Postille - Osservazioni su libri nuovi, vol. III, Ricciardi, Napoli 1943, p. 313. Questa tesi è criticata da Pantaleo Carabellese in L’idealismo italiano. Saggio storico-critico (1938), Edizioni italiane, Roma 19462, p. 86: «se i popoli hanno una loro, sia pure empirica, personalità, per la quale ciascuno si distingue dall’altro, non si capisce perché debba ritenersi delitto di lesa scienza parlare di un carattere proprio della filosofia di un popolo. [...] Per escludere il pregiudizio del nazionalismo non bisogna cadere nel pregiudizio dell’antinazionalismo». Contro la posizione crociana si è espresso anche Ernesto Grassi in La filosofia tedesca e la tradizione speculativa italiana, «Giornale Critico della Filosofia Italiana», XXI, 8, 1940, pp. 398-399: «è lecito, anzi è necessario parlare oggi di una tradizione speculativa italiana di fronte alla filosofia tedesca idealistica, oppure, come ha affermato ancora recentemente il Croce, non esiste né filosofia italiana, né tedesca, ma solo “la filosofia”? […] In che senso si può, anzi si deve parlare oggi di filosofia italiana? È più che naturale che considerando il fiorire di filosofie nazionalistiche etnicamente condizionate, geograficamente suffragate, circoscritte in limiti di tempo e di luogo, la prima reazione di fronte al tentativo di parlare di filosofia italiana e tedesca, o del rapporto fra di esse, sia di affermare che non esiste che “la filosofia”. Ma con questa reazione si risolve il problema? Affermo che oggi è necessario parlare di filosofia italiana e che questa tesi si ricollega intimamente con il problema dell’inizio del pensiero moderno. […] Questo vien solitamente fatto risalire a Cartesio che pone il problema della verità e del fondamento del sapere al centro degli interessi speculativi». La medesima questione è affrontata – mutatis mutandis – anche da Luigi Scaravelli in un ciclo di sei lezioni sulla Storia del pensiero filosofico italiano tenuto nel 1938 a Bruxelles: «come mai si dice filosofia cristiana e non filosofia e basta senza aggettivi? Se la filosofia è una scienza, e la scienza è universale, non è illegittimo aggiungere alla parola filosofia, la parola cristiana che pare la limiti? Si dice “matematica” in generale; e non si | dice matematica cristiana, matematica musulmana, matematica buddista. Come mai per la filosofia, che pur pretende di essere una scienza, ossia una dottrina razionale che coordina fra loro tutti i principi e tutte le cause dell’universo fisico e del mondo morale umano, come mai per la filosofia si usa invece aggiunger un vocabolo che la qualifichi? Il fatto sta che la filosofia è sì una scienza, cioè una dottrina universale, che cerca di formare una catena rigorosa di concetti e di ragionamenti puri; | ma è una scienza che ha una base nell’esperienza umana, in quella coscienza interna dell’uomo che è la vita che l’uomo vive, la sua passione più intima e più profonda, quello che i tedeschi chiamano Erlebnis. La filosofia è la trasformazione in concetti di una esperienza interiore, è la spiegazione razionale di ciò che l’uomo vive nella parte più profonda del proprio essere. Per mezzo di questo riferimento alla passione umana, la filosofia – per quanto sia scienza intellettuale – rimane | attaccata, radicata nella vita che gli uomini vivono, ha le sue radici proprio in ciò che forma la vita profonda degli uomini. E da questo interesse centrale la filosofia riceve la sua sostanza vitale, e il nome che la definisce» (per la citazione e ulteriori approfondimenti sul corso – ancora inedito – di

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Scaravelli si rimanda a Massimiliano Biscuso, Luigi Scaravelli negli Istituti di Cultura Italiana all’estero. I corsi sulla storia del pensiero italiano, «La Cultura», 1, 2016, pp. 77-138). Da citare infine la tesi di Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini secondo cui non vi sono aggettivi per descrivere il carattere della filosofia italiana: «per quanto l’Italia abbia avuto dei professori di filosofia ed anche dei filosofi, manca di una filosofia nazionale, di razza, e manca d’una creazione metafisica che porti l’impronta della sua fisionomia. In Inghilterra, in Germania, in Francia, come una volta nell’India c’è stata una filosofia nazionale. I filosofi di quelle nazioni si riconoscono all’idea centrale dei loro sistemi, specie di braccio intorno a cui girano tutte le discussioni. In Inghilterra è l’idealismo chiaro e pratico, il problema della conoscenza e della realtà del mondo esterno [...]. In Germania è l’idea dello sviluppo (die Entwickelung) che si trova già in Leibniz, nascosta sotto la teoria degli indiscernibili. In Francia è il razionalismo secco e matematico, caro al genio logico del popolo francese. In India il Karma la dottrina della metempsicosi, e l’idealismo pessimista. Vi sono certo eccezioni, e più d’un filosofo inglese potrebbe appartenere al genio francese, e più d’un tedesco al genio indiano; ma il colorito generale delle loro filosofie non si può mutare [...]. Se cerchiamo di trovare un colore e un aggettivo per la filosofia italiana non ne troviamo. Il carattere filosofico dell’Italia è di non avere un’idea nazionale filosofica; e siccome in filosofia non avere un’idea è già fare della filosofia, e non volere occuparsi di filosofia è già filosofare, si può dire che l’Italia sia vissuta filosoficamente come avversaria della filosofia. [...] Il filosofo italiano, inoltre, è sempre stato a servizio degli stranieri. Una scuola nazionalista pretende, è vero, trovare nel Campanella, nel Vico, nel Bruno di che farli quasi precursori di tutto l’idealismo nordico, ma a me pare che questa interpretazione non abbia altra ragione che di nascondere certi antenati stranieri e sostituirli con antenati indigeni più perdonabili» (Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, La coltura italiana, Francesco Lumachi, Firenze 1906, pp. 131-133). 26   Cfr. Giovanni Gentile, La tradizione italiana, Sansoni, Firenze 1936. 27  Cfr. Benedetto Croce, La «tradizione italiana» (1937), in Id., Pagine sparse. Postille - Osservazioni su libri nuovi, cit., p. 130: «secondo la semplice verità, l’uomo che ha coscienza e dignità d’uomo, italiano o di qualsiasi altro paese, non conosce e non prosegue se non un’unica integrale tradizione: la tradizione umana, dell’umana civiltà, della storia umana, che comprende bensì, come sue parti cospicue, Roma e l’Italia, ma insieme le oltrepassa, integrandole. Quanto poi a quello Hegel […] come mai non si è inteso che ciò che lo rende vicino a noi è appunto l’aver concepito (vedere la sua Storia della filosofia) la tradizione filosofica come quella di tutto il pensiero umano, di tutti i tempi e di tutti i popoli, tutti attori partecipi di un unico dramma, tutti confluenti in un unico processo mentale?». A sua volta Gentile risponde rivolgendosi contro «questi filosofi storicisti che […] vengono avanti impettiti con aria di sopracciò che la sa molto molto lunga a farci la loro lezioncina, non tollerabile più neanche in una prima liceale: per insegnarci che l’italiano che ha coscienza e dignità d’uomo deve sentirsi uomo, non italiano. Via, questo cosmopolitismo non è hegelismo, non è storicismo; sarà Goethe, ma un Goethe inteso male» (Giovanni Gentile, Della tradizione italiana (1937), in Id., Frammenti di filosofia, Le Lettere, Firenze 1994, p. 331).

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note

  Benedetto Croce, Un discorso ai Lincei (1923), in Id., Pagine sparse. Biografie - Storia napoletana - Schermaglie per varia occasione - Ricordi di vita ministeriale questioni del giorno - Documenti storici, vol. II, Ricciardi, Napoli 1943, p. 145. 29  Croce, La nazionalità e la filosofia, cit., p. 8. Fra l’altro, lo stesso Carlo Antoni – allievo di Croce – sostiene che «parlare di filosofie nazionali è assurdo, perché i problemi e gli indirizzi filosofici trascendono le frontiere nazionali e le nazioni non sono monadi chiuse in una loro formola» (cfr. Carlo Antoni, Commento a Croce, Neri Pozza Editore, Venezia 1955, p. 12). 30   Anche su questo punto Croce esprime numerose riserve, essendo fortemente contrario a una storia della filosofia concepita come una «sorta d’immaginata corsa al palio – la distruzione definitiva della trascendenza» – e al «concetto di un “problema centrale” della filosofia, e di un criterio generale del progresso filosofico, che consisterebbe nella successiva riduzione e nella finale e compiuta negazione della trascendenza» (cfr. Croce, La nazionalità e la filosofia, cit., pp. 6-7). Per Croce, la fine della trascendenza è l’utopia teoretica irrealizzabile per definizione: «la “trascendenza” si ripresenta e si ripresenterà sempre. Che cosa è, infatti, nell’intrinseco suo, la trascendenza? È ciò che trascende il pensiero; dunque, il non pensato, il non compreso, il contrastante al pensiero pensante: che è poi quel che rinasce sempre a piè del vero, offrendo la materia a nuovi problemi filosofici e stimolando il processo e l’accrescimento della mente umana. Se si riuscisse una volta per sempre a distruggere ogni forma di trascendenza, si otterrebbe la filosofia definitiva, cioè si attuerebbe la fine della filosofia. È cotesta l’utopia dei filosofi (perché anche i filosofi hanno le loro utopie): espressa ingenuamente e classicamente da David Hume quando scriveva, in fronte alle sue Ricerche sull’intelletto, che bisognava risolvere una volta per sempre quelle questioni per non pensarci più e vivere poi comodamente» (cfr. ibidem). 31  Id., I problemi della Scolastica e il pensiero italiano, cit., p. 8. Questa tesi è fortemente criticata da Michele Federico Sciacca: «non si comprende perché anche la nostra filosofia non debba cominciare col sorgere del Comune, nell’epoca in cui l’Italia si affaccia sul teatro della storia con una sua fisionomia inconfondibile. Né ci si venga a dire che la filosofia medioevale o Scolastica è universale e non italiana; lo è ogni filosofia e non vi sono filosofie nazionali in senso geografico; ma ogni filosofia, d’altra parte, ha un’impronta di nazionalità. Perché negarla alla Scolastica? È universale, ma ve n’è una francese e un’altra inglese, come vi è una Scolastica italiana o almeno degli italiani. Anzi, ha origine con un italiano: Anselmo d’Aosta, e non con un francese, Abelardo, come sostengono alcuni storici di oltr’Alpe; italiano, Tommaso d’Aquino, il più grande degli scolastici» (cfr. Michele Federico Sciacca, Per una storia della filosofia italiana, in Id., Studi sulla filosofia moderna (1935), Marzorati, Milano 19684, pp. 315-316). Anche Antonio Banfi ha affrontato la questione dell’inizio della tradizione filosofica italiana e dei suoi caratteri peculiari: «in che senso si può ora parlare di una tradizione filosofica italiana? Come se ne deve definire la natura? Da ciò che si è detto risulta che vano sarebbe – e vano effettivamente è stato – volerla definire in funzione di caratteri tipici, costanti, obbiettivi, come sarebbero una tipica visione del mondo, un determinato metodo di

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ricerca, una relazione invariabile a particolari contenuti o forme di cultura. Una definizione di tal genere è necessariamente arbitraria ed astratta: ché può cogliere indifferentemente questo o quell’aspetto o momento della tradizione filosofica, ed è ad ogni modo incapace di porre in luce la continuità speculativa di quest’ultima e quindi il suo significato storico-culturale. È piuttosto, dunque, la linea del suo sviluppo storico che noi dobbiamo considerare, partendo dall’inizio dell’età moderna, quando veramente si può rilevare il differenziarsi delle culture nazionali dalla cultura universalistica dell’età di mezzo» (cfr. Antonio Banfi, Lineamenti della tradizione speculativa italiana, «Archivio di storia della filosofia», 2, 1932, pp. 104-105). 32   Ivi, p. 12. 33   Ivi, p. 13. 34  Id., Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla (1904-1915), cit., vol. I, p. 90. 35   Ivi, p. 13. 36  Id., I problemi della Scolastica e il pensiero italiano, cit., p. 4. 37  Id., Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla, cit., p. 52. 38   Ibidem. 39   Ivi, p. 36. 40   Ivi, p. 90. 41   Ibidem. 42   Ivi, p. 91. 43   Ivi, p. 92. 44   Ibidem. 45   Ibidem. 46   Ivi, p. 108. 47   Ivi, p. 109. 48   Ibidem. 49   Ivi, p. 118. 50   Ivi, p. 109. 51   Ivi, p. 118. 52   Ivi, p. 123. 53   Ivi, p. 119. 54   Ivi, p. 132. 55   Ivi, p. 146. 56   Ivi, p. 130. 57   Ibidem. 58   Ivi, p. 132. 59   Ibidem. 60   Ivi, p. 142. 61   Ivi, p. 137. 62   Ivi, p. 154. 63   Ivi, p. 158. 64   Ibidem. 65   Ivi, pp. 158-159.

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note

  Ivi, p. 158.   Tale tematica era presente anche nella Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, il quale descrive l’atteggiamento disinteressato degli intellettuali durante la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII nel 1494, evento che segnò la fine dell’indipendenza e l’inizio dell’occupazione straniera (rispettivamente di Francia, Spagna e Impero austriaco) che durerà fino alla proclamazione dell’Unità: «le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozii idillici e letterarii, erano cosmopolite, animate dagl’interessi generali dell’arte e della scienza, che non hanno patria. Quell’Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene» (cfr. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana (1870), Rizzoli, Milano 20134, p. 618). Anche Antonio Gramsci riprende questa tematica e afferma che la cultura italiana «non era in Italia. Questa “cultura” italiana è la continuazione del “cosmopolitismo” medioevale legato alla Chiesa e all’Impero, concepiti universali. […] Gli intellettuali italiani sono “cosmopoliti”, non nazionali» (cfr. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. I, 1, 150, p. 133). 68  Gentile, Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla, cit., p. 159. 69   Ibidem. 70   Ibidem. 71   Ibidem. 72  Id., Il pensiero italiano del Rinascimento (1920), in Id., Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 279. 73   Ivi, p. 283. 74   Ivi, p. 279. 75   Ivi, p. 283. 76   Ibidem. 77   Ivi, pp. 283-284. 78   Ivi, p. 288. 79   Ivi, p. 349. 80   Sulla figura hegeliana del denkender Geschichtsforscher (“storico pensante”) cfr. Leo Lugarini, La figura hegeliana dello “storico pensante”, in Vincenzo Vitiello e Roberto Racinaro (a cura di), Logica e storia in Hegel, ESI, Napoli 1985, pp. 7-18. 81   Ivi, p. 281. 82   Ivi, p. 284. 83   Ivi, p. 282. 84   Ibidem. 85   Ivi, p. 285. 86   Ibidem. 87   Ibidem. 88  Id., Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla, cit., p. 199. 89   Ibidem. 90   Ivi, p. 201. 91   Ibidem. 66

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 Id., Il pensiero italiano del Rinascimento, cit., p. 229.   Ivi, p. 230. 94   Ivi, p. 241. 95   Ivi, p. 243. 96   Gentile dedica allo scritto di Manetti sulla dignità dell’uomo una trattazione specifica (cfr. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, cit., pp. 249-261), essendo «presso che dimenticato dagli storici dell’Umanesimo, quantunque di questo sia una delle espressioni più caratteristiche» (ivi, p. 250). La tematica era la stessa del trattato De excellentia ac praestantia hominis di Bartolomeo Fazio del 1448, ma l’opera del Manetti la sviluppa in maniera diversissima. «La superiorità dell’uomo, secondo il Fazio, consiste tutta nella sua destinazione alla beatitudine celeste» e dunque – per Gentile – «non ha importanza notevole per la storia delle idee del Rinascimento» (ivi, pp. 250-251). 97  Cfr. Giambattista Gelli, La Circe (1549), Sansoni, Firenze 1978, p. 139: «quei primi sapienti di Egitto […] lo [sc. l’uomo] chiamaron solamente per questo il gran Miracolo de la natura. […] Perché tutte l’altre creature hanno avuto una certa legge, per la quale elle non possono conseguire altro fine che quello che è stato ordinato loro da la natura; né possono uscire in modo alcuno di que’ termini che ella ha assegnato loro. E l’uomo, per avere questa volontà libera, può acquistarne uno più degno e uno manco degno, come pare a lui, o inchinandosi inverso quelle cose che sono inferiori a lui, o rivolgendosi inverso quelle che gli sono superiori. Imperocché, se egli si darà tutto al ventre, tenendo sempre la bocca e la faccia fitta ne la terra, egli diventerà stupido e simile a le piante; e se egli s’immergerà troppo ne la dilettazione sensitiva, diverrà simile a i bruti. Ma se egli, voltando la faccia al cielo, considererà filosofando la bellezza de i cieli e il maraviglioso ordine de la natura, egli si muterà di terreno in animale celeste; e se egli, sprezzati tutti gl’impedimenti del corpo, attenderà a contemplare le cose divine, si farà quasi uno Iddio. […] Egli può farsi tutto quello che egli vuole» (questa citazione di Giambattista Gelli è riportata e commentata in Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, cit., pp. 245-246). 98   Cfr. Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante (1584), Rizzoli, Milano 201710, pp. 227-228: «ne l’età dunque de l’oro per l’Ocio gli uomini non erano più virtuosi che sin al presente le bestie son virtuose, e forse erano più stupidi che molte di queste. Or […] sono acuiti gl’ingegni, inventate le industrie, scoperte le arti; e sempre di giorno in giorno […] si eccitano nove e maravigliose invenzioni. Onde […] allontanandosi dall’esser bestiale, più altamente s’approssimano a l’esser divino» (questa citazione di Giordano Bruno è riportata e commentata in Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, cit., p. 246). 99   Ivi, p. 247. 100   Ibidem. 101   Ibidem. 102   Ivi, p. 248. 103   Sull’«esser contro» cfr. Andrea Tagliapietra, Il dono del filosofo. Sul gesto originario della filosofia, Einaudi, Torino 2009, pp. 36-39. 92

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  Cfr. Toni Negri, L’anomalia selvaggia. Potere e potenza in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 288-292. Qui Negri individua nella «linea maledetta» Machiavelli-Spinoza-Marx una tradizione rivoluzionaria che si oppone all’ideologia borghese. 105  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 2. 106   Ibidem. 107  Croce, Problemi filosofici, cit., p. 315. 108  Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, cit., p. 277. 109   Ibidem. 110   Ibidem. 111   Ibidem. 112   Ivi, p. 278. 113   Ivi, p. 268. 114   Ivi, p. 279. 115   Ibidem. 116   Ibidem. 117   Ivi, p. 322. 118   Ivi, p. 308. 119   Ivi, p. 328. 120   Ivi, p. 330. 121   Ivi, p. 332. 122   Cfr. ivi, pp. 308-309. 123   Ivi, p. 350. 124   Ibidem. 125   Ibidem. 126   Ibidem. 127   Ibidem. 128   Ivi, p. 351. 129   Ibidem. 130   Ivi, p. 332. 131   Ivi, p. 343. 132   Ivi, p. 332. 133  Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, cit., p. 352. 134   Ivi, p. 362. 135   Su questo cfr. i nostri Utopia concreta. Pensiero utopico e ideologia in Niccolò Machiavelli e Tommaso Campanella, cit. e Per un reincantamento del mondo. L’utopia militante di Tommaso Campanella, cit. 136  Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, cit., p. 362. 137   Ivi, p. 363. 138   Ibidem. 139   Ibidem. 140   Ibidem. 141   Ivi, pp. 351-352, corsivo mio.

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  Ivi, p. 352.   Ivi, p. 328. 144   Ibidem. 145   Ibidem. 146  Id., Studi vichiani (1915), in Id., Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 421. 147   Ibidem. 148   Ibidem. 149   Ivi, p. 416. 150   Ivi, p. 417. 151   Ibidem. 152  Id., Il carattere storico della filosofia italiana, cit., p. 228. 153   Ivi, pp. 228-229. 154   Ivi, p. 229. 155  Id., Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi (1903, 19302), in Id., Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 464. 156   Ibidem. 157   Ivi, p. 466. 158   Ibidem. 159  Id., Il carattere storico della filosofia italiana, cit., p. 231, corsivo mio. 160  Id., Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, cit., p. 456. 161   Alessandro Savorelli, Gentile storico della filosofia italiana (1999), in Id., L’aurea catena. Saggi sulla storiografia filosofica dell’idealismo italiano, Le Lettere, Firenze 2003, p. 207. 162   Ibidem. 163   Ibidem. 164  Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, cit., p. 612. 165   Ivi, p. 617. 166  Ivi, p. 632. Cfr. anche Id., Il carattere storico della filosofia italiana, cit., p. 232: «dopo Galluppi, la filosofia italiana, già in possesso del nuovo punto di vista raggiunto dalla speculazione europea col Kant, può col Rosmini e poi meglio col Gioberti tornare alla metafisica. Può inaugurare una filosofia, degna di questo nome, senza limiti, e senza rinunzie: concetto del mondo e dell’uomo nel mondo». 167  Id., Rosmini e Gioberti, cit., p. 734. 168   Ivi, p. 696. 169   Ibidem. 170   Ibidem. 171   Ivi, pp. 732-733. 172   Ivi, p. 734. 173   Ivi, p. 696. 174   Ivi, p. 736. 175   Ibidem. 176   Ivi, p. 741. 177   Ivi, p. 739. 142

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  Marco Berlanda, Gentile e l’ipoteca kantiana. Linee di formazione del primo attualismo (1893-1912), Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 60-61. 179  Gentile, Rosmini e Gioberti, cit., p. 739. 180   Ivi, p. 738. 181   Ivi, p. 726. 182   Ivi, p. 837. 183   Ivi, p. 797. 184   Ivi, p. 798. 185   Ivi, p. 813. 186   Ivi, p. 844. 187   Ivi, p. 813. 188   Ivi, p. 882. 189   Ivi, p. 844. 190   Ivi, p. 856. 191   Ibidem. 192   Ivi, p. 765. 193   Ivi, p. 766. 194   Ivi, p. 698. 195   Ibidem. 196   Ivi, p. 856. 197   Ivi, p. 873. 198  Id., Il carattere storico della filosofia italiana, cit., p. 232. 199   Ivi, p. 235. 200   Ivi, p. 233. 201   Ivi, p. 217. 202   Ivi, p. 234. 203   Ivi, p. 235. 204   Ivi, p. 234. 205   Ivi, p. 235. 206   Ibidem. 207   Ibidem. 208   Ivi, pp. 213-214. 209   Ivi, p. 213. 210   Ivi, p. 218. 211   Ivi, p. 219. 212   Ivi, p. 235. 213   Ibidem. 214   Ivi, p. 236, corsivo mio. 215  Id., Rosmini e Gioberti, cit., p. 696. 216  Id., Le origini della filosofia contemporanea in Italia, cit., p. 698. 217   Ibidem. 218   Ibidem. 219   Ibidem. 220   Ibidem.

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 Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., pp. 10-11. 222  A tal riguardo, non possiamo che condividere le conclusioni di Giovanni Rota: «evidentemente, queste frasi non soddisfacevano l’antinaturalismo assoluto del filosofo attualista, che con gli anni vedeva aprirsi nel quadro spaventiano delle smagliature che poco potevano armonizzarsi con l’idea di spirito in atto» (cfr. Rota, La «circolazione del pensiero» secondo Bertrando Spaventa, cit., p. 677). 223  Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, cit., p. 202. 224  Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, cit., p. 699. 225   Su questo cfr. Savorelli, Gentile storico della filosofia italiana, cit., p. 212: «Gentile opera una critica distruttiva alla circolazione di Spaventa […]: il presunto “vuoto” nel pensiero italiano, da Campanella a Vico e da Vico a Galluppi è pure un’idea falsa, poiché lo scambio continua ininterrotto, dai galileiani e cartesiani del tardo Seicento, poi attraverso Locke e il sensismo». 226  Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, cit., p. 699. 227  Id., Prefazione alla presente edizione, cit., pp. XVIII-XIX. 228   Ivi, p. XX. 229  Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., p. 610. Su Hegel e la tradizione si veda Livio Sichirollo, Hegel e la tradizione. Scritti hegeliani, Guerini e Associati, Milano 2002. 230  Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., p. 611. 231  Gentile, Rosmini e Gioberti, cit., p. 697. 232  Id., La tradizione italiana, cit., p. 14.

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4. Eugenio Garin: il ritorno alla storia  Garin, La filosofia come sapere storico, cit., p. 50.   Ibidem. 3   Ivi, pp. 50-51. 4  Id., Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 10. 5   Ivi, p. 13. 6   Ibidem. 7   Ibidem. 8   Ivi, pp. 12-13. 9   Ivi, p. 13. 10   Ibidem. 11   Ivi, pp. 17-18. 12   Ivi, p. 18. 13   Ivi, pp. 18-19. 14   Ivi, p. 27. 15   Cfr. Eugenio Garin, L’«unità» nella storiografia filosofica, «Rivista critica di storia della filosofia», 11, 2, 1956, pp. 206-217 (ora in Id., La filosofia come sapere 1

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storico, cit., pp. 3-17); Mario Dal Pra, Del «superamento» nella storiografia filosofica, «Rivista critica di storia della filosofia», 11, 2, 1956, pp. 218-226; Enzo Paci, Sul concetto di «precorrimento» in storia della filosofia, «Rivista critica di storia della filosofia», 11, 2, 1956, pp. 227-234. La medesima rivista aveva già ospitato e ospiterà ulteriori contributi a tale dibattito: cfr. Paolo Rossi, Sulla storiografia filosofica italiana, «Rivista critica di storia della filosofia», 11, 1, 1956, pp. 68-99 (ora in Id., Storia e filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica (1969), Einaudi, Torino 2002, pp. 1769); Giulio Preti, Continuità ed «essenze» nella storia della filosofia, «Rivista critica di storia della filosofia», 11, 3/4, 1956, pp. 359-373; Norberto Bobbio, Storiografia descrittiva o storiografia valutante?, «Rivista critica di storia della filosofia», 11, 3/4, 1956, pp. 374-380; Andrea Vasa, L’unità nella storia della filosofia, «Rivista critica di storia della filosofia», 12, 1, 1957, pp. 64-74; Pietro Rossi, La fallacia del «superamento» come categoria storiografica, «Rivista critica di storia della filosofia», 12, 4, 1957, pp. 460-467; Carlo Augusto Viano, Presupposti e limiti della categoria di precorrimento, «Rivista critica di storia della filosofia», 13, 1, 1958, pp. 72-81. 16   Cfr. Garin, Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, pp. 20-21: «Benedetto Croce, così fedele a una veduta integralmente umana e mondana del filosofare, non può dirsi che si sapesse sottrarre alla tentazione di staccare, nei pensatori da lui studiati, il vivo dal morto, amputando, lui storicista, il temporale dall’eterno. Ché se è certo lecito distinguere, nel contesto di un’opera, aspetti attivi nelle epoche successive ed aspetti rimasti senza eco, è pur necessario, prima ancora che contrapporli, mostrarne i nessi, il generarsi e collegarsi nel complesso travaglio di un’età, di una società, di una realtà effettuale, “storicizzando” davvero nel suo insieme l’attività di un pensatore». Cfr. anche Id., La filosofia come sapere storico, cit., p. 54: «le varie espressioni metaforiche di cui tutta una storiografia si compiace, quali sopravvivenze o precorrimenti [...], vedute anacronistiche e rami secchi, uomini vivi o morti al proprio tempo, non sono altro che tentativi di insinuare nella dimensione temporale possibilità di discriminazione di valori che le sono estranee. In che modo distinguere in un tempo il vivo dal morto? e il morto, abbracciando e paralizzando il vivo, non rischia di essere, nel processo della storia, più vivo del vivo?». 17   Cfr. Gianni Vattimo, Garin: il filosofo italiano, «La Stampa», 30 dicembre 2004. 18   Ibidem. 19   Ibidem. 20   Ibidem. 21  Palmiro Togliatti, La politica nel pensiero e nell’azione: scritti e discorsi 1917-1964, a cura di M. Ciliberto e G. Vacca, Bompiani, Milano 2014, p. 1322. 22  Garin, Storia della filosofia italiana, cit., p. 1112. 23  Id., Introduzione, in Gentile, Storia della filosofia italiana, cit., p. LI. 24   Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia (1924), Einaudi, Torino 2008, p. 4. 25   Di particolare interesse è il dialogo epistolare tra Bobbio e Garin pubblicato in Della stessa leva. Lettere (1942-1999), a cura di T. Provvidera e O. Trabucco, Aragno, Torino 2011.

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  Norberto Bobbio, De senectute e altri scritti autobiografici (1996), Einaudi, Torino 2006, p. 84. 27   Pier Paolo Portinaro, Introduzione a Bobbio, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 33-34. 28   Cfr. Norberto Bobbio, Maestri e compagni (1984), Passigli, Firenze 1994. 29  Id., Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1971, p. 4. 30  Id., Profilo ideologico del Novecento italiano (1969), Einaudi, Torino 1986, p. 4. 31   Cfr. Id., Italia civile. Ritratti e testimonianze (1964), Passigli, Firenze 1986. 32   Cfr. Id., Profilo ideologico del Novecento italiano, cit., pp. 3-6. 33   Ivi, pp. 3-4. 34   Norberto Bobbio, Bilancio di un convegno, in Tessitore (a cura di), La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980, cit., pp. 309-310. Su Bobbio e l’identità italiana cfr. Marco Revelli, L’identità culturale italiana in Bobbio, in Id. (a cura di), Norberto Bobbio maestro di democrazia e di libertà, Cittadella, Assisi 2005, pp. 31-60. 35  Garin, La filosofia come sapere storico, cit., p. 144. 36   Ibidem. 37   Id., Der italienische Humanismus (1947); trad. it. L’umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento (1952), Laterza, Roma-Bari 20084, p. X. 38  Id., La filosofia come sapere storico, cit., p. 144. 39   Ivi, p. 145. 40   Cfr. Id., History of Italian Philosophy, 2 voll., Rodopi, Amsterdam-New York 2008. Tradotto da Giorgio Pinton, il libro contiene una lunga introduzione di Leon Pompa e un saggio conclusivo – intitolato With Garin, On Italian Thought from 1943 to 2004 – di Paolo Fabiani e Giorgio Pinton. 41   Commentando la Storia della filosofia italiana di Garin, Nicola Abbagnano trae conclusioni diametralmente opposte: «una filosofia nazionale dovrebbe esprimere i caratteri propri, individuali, incomunicabili di una “nazione”, cioè di un’entità storica perfettamente individuata e unica. Si può dubitare che esista una entità di questo genere; certamente, anche se esiste, la filosofia è incapace di esprimerla perché ogni filosofia procede per generalizzazioni, cioè per concetti, e il concetto non può partecipare a nessuno di quei caratteri. Il livello di generalizzazione in cui si muove il discorso filosofico lo rende completamente alieno da specificazioni individuali o etniche. I problemi molteplici che nascono dal rapporto dell’uomo con gli altri uomini, con la natura e con Dio, non possono essere neppure posti se per “uomo” s’intende l’italiano o l’inglese, e se per natura s’intende il paesaggio mediterraneo o quello nordico. La diversità delle filosofie deriva piuttosto dalla diversità degli interessi umani (cioè universali) che stimolano e orientano la ricerca filosofica: l’interesse per l’uomo e il suo mondo storico-politico, l’interesse per la natura, l’interesse per il trascendente e per Dio. Nessuno di questi interessi rimane chiuso nei confini di una nazione determinata. […] La prevalenza storica di una filosofia, il suo successo in un periodo determinato, la sua accentuazione in un senso o nell’altro, la sua trasformazione in ideologia cioè in strumento di lotta sociale o politica, sono certamente condizionati dalle situazioni in cui il lavoro dei filosofi si svolge. Esisto-

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no indubbiamente condizioni locali che limitano le scelte filosofiche, come tutte le altre. L’intolleranza religiosa o politica, la prevalenza di certi interessi o pregiudizi, l’abitudine al conformismo, le preoccupazioni conservatrici o rivoluzionarie, possono influire su quelle scelte e accordare a una filosofia determinata il privilegio di una diffusione maggiore. Ma non perciò questa filosofia diventa “nazionale”. Né lo diventa quando serve invece a sbloccare le situazioni esistenti, a vincere l’intolleranza e a mettere in moto la libera indagine» (cfr. Nicola Abbagnano, La filosofia è nazionale? (1966), in Id., Per o contro l’uomo, Rizzoli, Milano 1968, pp. 98-99). 42  Garin, Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 23. 43   Ibidem. 44   Ibidem. 45   Ibidem. 46   Ibidem. Sull’influenza del pensiero latino su quello italiano ha insistito recentemente Federico Leonardi in Pensiero latino e pensiero italiano: una continuità misconosciuta, in Alessandro Campi, Stefano De Luca e Francesco Tuccari (a cura di), Nazione e nazionalismi. Teorie, interpretazioni, sfide attuali, 2 voll., Historica, Roma 2018, vol. I, pp. 215-232. 47  Garin, Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 26. 48   Ivi, pp. 26-27. 49   Ivi, p. 26. 50   Ivi, p. 24. 51   Ibidem. 52   Ibidem. 53   Ivi, p. 27. 54   Ivi, p. 232. 55   Ivi, pp. 232-233. 56   Ivi, p. 236. 57  Id., Giovanni Gentile interprete del Rinascimento, in Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici (a cura di), Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, Sansoni, Firenze 1948, p. 213. 58  Garin, Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 24. 59   Ivi, pp. 24-25. 60   Ivi, p. 25. 61   Ibidem. 62   Ivi, p. 27. 63   Ibidem. 64   Ivi, pp. 27-28. 65  Id., La filosofia come sapere storico, cit., p. 4. 66   Ibidem. 67   Giovanni Gentile, Il concetto della storia della filosofia (1907), a cura di P. Di Giovanni, Le Lettere, Firenze 2006, p. 50. Su questo tema si veda Giovanni Bonacina, Filosofia e storia della filosofia in Gentile, in Michele Ciliberto (a cura di), Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2016, pp. 255-262.

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 Gentile, Il concetto della storia della filosofia, cit., p. 51.   Ivi, p. 69. 70  Garin, La filosofia come sapere storico, cit., p. 54. 71   Ibidem. 72   Ivi, p. 28. 73  Id., Intervista sull’intellettuale, a cura di M. Ajello, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 125. Cfr. anche Id., La filosofia come sapere storico, cit., pp. 54-56: «la tesi delle eterne domande, della permanenza dei massimi problemi nel variare delle risposte, è delle più fragili, viziata com’è dal presupposto che il filosofare si alimenti in modo autonomo, e trovi le proprie domande in una dialettica interna e non sul terreno della mobile realtà umana che, mutata profondamente magari proprio da quelle risposte, avanza via via domande del tutto nuove in nuovi orizzonti. E se è vero che lo storico mette in chiaro il nesso del nuovo col vecchio (risposta nuova a vecchia domanda), ciò non significa affatto una vanificazione della imprevedibile originalità delle concezioni via via elaborate, proprio perché la storia, allo stesso modo che è necessità di condizioni, è libertà di scelte, ossia novità. E proprio questo rappresentano le filosofie: tentativi di visioni d’insieme pronte a rovesciarsi in programmi, o sforzi di consapevolezza critica della realtà [...]. Perciò, appunto, sempre legate a una situazione, di cui tentano di intendere il significato e di esprimere le aspirazioni. [...] E poiché in ogni momento del processo il presente concreto è plurale e policentrico, le idee che ne esprimeranno le aspirazioni, i sistemi che ne struttureranno le articolazioni culturali, non potranno non essere molteplici, e tra loro in urto o in pacifica coesistenza». 74  Id., Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 28. 75   Ibidem. 76   Giuseppe Cacciatore, Genesi, crisi e trasformazioni della filosofia civile italiana, in Id. e Martirano (a cura di), Momenti della filosofia civile italiana, cit., p. 9. Cfr. anche Giuseppe Cacciatore, Esiste una filosofia italiana?, «Palomar», 1, 2000, pp. 80-86; Id., La filosofia italiana tra storia europea e tradizione nazionale, in Nestore Pirillo (a cura di), I filosofi e la città, Editrice Università degli Studi di Trento, Trento 2002, pp. 293-310. Oltre alla tradizione filosofica italiana, si segnala l’interesse di Giuseppe Cacciatore per la filosofia spagnola: cfr. Giuseppe Cacciatore, Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Il Mulino, Bologna 2013. 77  Viano, Va’ pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, cit., pp. 103-104. 78   Cfr. Mario Perniola, The Difference of the Italian Philosophical Culture, «Graduate Faculty Philosophy Journal», 10, 1, 1984, pp. 103-116; trad. it. in Id., Transiti. Filosofia e perversione (1985), Castelvecchi, Roma 1998, pp. 120-131. Di Mario Perniola cfr. anche La differenza italiana, «L’Erba Voglio», 27, 1976, pp. 10-15; La differenza europea, «Ágalma», 1, 2000; Sul neonaturalismo italiano, «Ágalma», 4, 2003; La filosofia italiana e i non filosofi, «Ágalma», 11, 2006. Si vedano, infine, i capitoli Italia enigmatica ed Enigmi del sentire italiano contenuti in Id., Enigmi. Il momento egizio nella società e nell’arte, Costa & Nolan, Genova 1990, pp. 141-171. Sull’interpretazione che Perniola ha fornito della «differenza 68

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italiana» si vedano le interessanti considerazioni di Gianni Vattimo: «è intuitivo come queste premesse permettano a Perniola di rivalutare alcuni tratti considerati generalmente come vizi di quella che egli chiama la “differenza italiana”: una certa tendenza all’eclettismo, una certa arte del compromesso che, almeno a partire dal Guicciardini, dal Barocco, dalla Controriforma, caratterizzano, secondo i più negativamente, la nostra cultura. Dal punto di vista della tarda modernità come transito, questi elementi del carattere italiano diventano preziose anticipazioni della spiritualità postmoderna, che si è liberata dalla passione per il significato originale, per l’autentico, e comincia ad apprezzare un’arte del vivere in cui è decisiva la prudenza e la capacità di adattarsi alle circostanze» (cfr. Gianni Vattimo, Differenza italiana, differenza europea, in Id., Le mezze verità (1988), Orthotes, Napoli-Salerno 2015, p. 153). Vattimo ha evidenziato anche altri aspetti apparentemente contraddittori della cultura italiana: da un lato essa sarebbe caratterizzata da una diffusa tendenza al «parrocchialismo» (cfr. Id., Parrocchia, in Giorgio Calcagno (a cura di), L’identità degli italiani, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 164-166), dall’altro avrebbe «una capacità non sopita di appassionarsi agli aspetti universali dei problemi, secondo la linea di una tradizione umanistica che risale almeno a Vico, De Sanctis, Croce e Gramsci, e che può forse farci sperare che la democrazia nel nostro paese rimanga ancorata a un dialogo sociale ricco e complesso, non a un puro calcolo utilitaristico di costi e benefici misurati dal punto di vista di interessi settoriali» (cfr. Gianni Vattimo, Filosofia al presente, Garzanti, Milano 1990, p. 7). 79  Remo Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1998, p. 63. 80   Ivi, p. 64. 81   Ivi, pp. 64-65. Altrove Bodei ribadisce lo stesso concetto: «la filosofia italiana ha dato il meglio in quelle zone in cui non domina una logica rigorosa di tipo cartesiano, dove non si segue il modello di esattezza delle scienze fisico-naturali. E, quindi, nella concezione della politica, con Machiavelli o Gramsci, della storia, con Vico o Cuoco, dell’estetica, con De Sanctis o Croce, ossia in tutti quei campi in cui vi è una collisione tra due tipi di logica. In sostanza, la filosofia italiana è una filosofia della ragione impura, ma anche una filosofia civile che non sempre ha avuto il coraggio dello scontro frontale con le autorità religiose e politiche. Certo, c’è Giordano Bruno, ma non abbiamo avuto l’analogo del Pascal delle Provinciali e non abbiamo avuto un Voltaire. Abbiamo certo avuto, a Milano, Beccaria e i fratelli Verri, e a Napoli giacobini come Pagano, ma è stata una breve stagione. Il conformismo, il compromesso e la “rivoluzione passiva” sono stati spesso vincenti» (cfr. Remo Bodei, A un altro me stesso, in Giuseppe Riconda e Claudio Ciancio (a cura di), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, Milano 2013, p. 89). 82  Galasso, Storicismo, filosofia e identità italiana, cit., p. 26. 83   Ivi, pp. 85-86. 84   Ivi, pp. 72-73. 85   Michele Ciliberto, Italia laica. La costruzione della libertà dei moderni, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2012, p. XXI. 86   Ibidem.

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  Id. (a cura di), Biblioteca laica. Il pensiero libero dell’Italia moderna (2008), Laterza, Roma-Bari 2012, p. XI. 88  Id., Italia laica. La costruzione della libertà dei moderni, cit., p. XXI. 89   Id. (a cura di), Biblioteca laica. Il pensiero libero dell’Italia moderna, cit., p. XI. 90  Id., Italia laica. La costruzione della libertà dei moderni, cit., p. 10. 91   Ivi, p. XXII. 92  Garin, Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 28. 93   Ibidem. 94   Cfr., in particolare, Vera Negri Zamagni e Pier Luigi Porta (a cura di), Economia. Il contributo italiano alla storia del pensiero. Ottava appendice, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012; Luigino Bruni, La tradizione civile italiana, in Id., L’impresa civile. Una via italiana all’economia di mercato, Università Bocconi Editore, Milano 2009; Luigino Bruni e Stefano Zamagni, A ogni buon conto. Lezioni di economia civile, Editoriale Vita, Milano 2003. 95   Cfr. Eugenio Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo (1975), a cura di M. Ciliberto, Laterza, Roma-Bari 2007. 96   Cfr. Michele Ciliberto, Pensare per contrari. Disincanto e utopia nel Rinascimento, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2005. Sul «pensare per contrari» quale cifra caratteristica della cultura italiana cfr. anche Id. e Vannino Chiti, Un’idea dell’Italia. Dialogo fra un politico e un filosofo, a cura di S. Bassi, Edizioni Polistampa, Firenze 2005, pp. 164-165: «varrebbe la pena di insistere su un altro tratto, tipico della nostra storia: in Italia i “contrari”, il “pensare per contrari” ha poca fortuna… Dopo Machiavelli e Bruno – che ne sono forti fautori – i “contrari” in Italia perdono peso, si affievoliscono, e con i “contrari” si affievolisce – anzi è respinta – l’idea del “conflitto”, che ne è un frutto diretto e sul quale Machiavelli nei Discorsi scrive pagine tanto rivoluzionarie quanto destinate all’insuccesso, senza futuro… Davvero è una lunga storia. In Italia, al massimo, si teorizza il “pensare per distinti”, come fa Croce, il quale da questo punto di vista è davvero il punto più alto dell’autobiografia intellettuale, civile e morale della nazione». 97   Cfr. Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, Torino 2019. Si veda anche Raphael Ebgi (a cura di), Umanisti italiani, Einaudi, Torino 2016. 98   Massimo Cacciari, Labirinto filosofico, Adelphi, Milano 2014, p. 132. Di Massimo Cacciari si leggano anche le seguenti parole: «i grandi disegni provvidenzialistici, le volontà egemoniche volte ad “interrare” le differenze, la boria intellettuale di chi pretenderebbe di porre la storia sotto il segno esclusivo della Ragione, sono tratti alieni all’“umile Italia”. I suoi grandi dipingono l’effettuale; per quanto doloroso cercano di dire il vero, e il loro dire ha l’aspro suono dell’esperienza vissuta, del mestiere di vivere. Da Dante all’umanesimo tragico dell’Alberti, a Machiavelli, e forse ancor più a Guicciardini, al Leopardi, ma anche al Manzoni, è tutta una lezione di disincanto, di spes contra spem, di disprezzo feroce contro ogni retorica, ogni chiacchiera vana su quei “valori” universali e eterni, che mai vengono lucidamente analizzati e tantomeno realizzati. Il genus italicum è una formidabile

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lezione sulla ipocrisia di politici e clerici, pur senza alcuna concessione al culto del “popolo” e della sua naturale “bontà” (la storia manzoniana della “colonna infame”!). Esso sa disilludere e demistificare ma sa anche immaginare. Senza questa doppia virtù, senza questa Italia, l’Europa potrà sopravvivere soltanto nel segno della sua unica moneta ma in hoc signo non vincerà su nessun campo»: cfr. Id., Ma il nostro destino è essere umili, «L’Espresso», 14 agosto 2016 (www.espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2016/08/11/news/ma-il-nostro-destino-e-essere-umili-1.280129). 99   Cfr. Francesco Petrarca, Lettere dell’inquietudine, a cura di L. Chines, Carocci, Roma 2004. 100  Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, cit., pp. XXVI-XXVII. 101  Sul «pensiero tragico» di Leopardi, Rensi e Michelstaedter si veda Laura Sanò, Il pensiero tragico nella filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Città Aperta, Troina 2005. 102  Ciliberto, Italia laica. La costruzione della libertà dei moderni, cit., p. 6. 103   Id. (a cura di), Biblioteca laica. Il pensiero libero dell’Italia moderna, cit., p. IX. 104   Ibidem. 105   Cassigoli (a cura di), Colloqui con Eugenio Garin. Un intellettuale del Novecento, cit., p. 44. 106   Ciliberto (a cura di), Biblioteca laica. Il pensiero libero dell’Italia moderna, cit., pp. XI-XII. 107   Rossi e Viano, Introduzione, in Iid. (a cura di), Filosofia italiana e filosofie straniere nel dopoguerra, cit., p. 12. 108  Bobbio, Bilancio di un convegno, cit., p. 307. Altrove Bobbio ribadisce lo stesso concetto: «mentre la cultura italiana attuale è una cultura debole, dipendente, tanto affascinata da tutto quello che si produce altrove quanto poco incline a ripensare al proprio passato, ai tempi di Gramsci, dominata dall’idealismo, era o si riteneva una cultura forte, che si attribuiva, a torto o a ragione, il merito di aver segnato indelebilmente alcuni momenti fondamentali nella storia del pensiero moderno: Machiavelli, Guicciardini, la filosofia del Rinascimento, con Bruno e Campanella, i teorici della ragion di Stato, Vico, precursore nientemeno di Hegel, Rosmini e Gioberti, riscoperti da Gentile come il Kant e lo Hegel italiani, Mazzini, il teorico della nazionalità e l’ispiratore delle rivoluzioni nazionali dell’Ottocento, tanto che Spaventa aveva potuto affermare in una celebre prolusione che il pensiero moderno stava ritornando, dopo due secoli di trasmigrazione europea, nella sua patria d’origine che era per l’appunto l’Italia» (Id., Saggi su Gramsci, Feltrinelli, Milano 1990, p. 82). 109   Enrico Berti, La filosofia italiana, «Humanitas», 5, 2000, p. 720. 110   Umberto Eco ha fornito una spiegazione di tale sopravvalutazione: «nella nostra cultura esiste una tradizione cosmopolita che è sconosciuta in Francia o in Inghilterra. Questo cosmopolitismo, che talvolta diventa persino eccessivo, è spiegabile storicamente. La Roma del primo secolo ad esempio assomigliava a New York, vi si traducevano gli autori greci, si era affascinati dalla cultura egiziana e dai

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misteri dei druidi celtici. D’altronde, una civiltà che ha portato al trono un imperatore africano non poteva non essere che cosmopolita. Questo atteggiamento è continuato nei secoli: prima nel medioevo con gli imperatori tedeschi, in seguito con la frantumazione delle corti e dei principati, legati ognuno a una diversa potenza straniera. Il fatto che l’Italia non sia riuscita a diventare nazione prima della seconda metà del XIX secolo, sul piano politico, l’ha condotta allo sfacelo, mentre sul piano culturale l’ha resa continuamente attenta all’importazione. Ciò naturalmente non ha impedito l’esportazione, giacché gli artisti italiani viaggiavano spesso all’estero nelle corti europee. Il cosmopolitismo è diventato così un tratto essenziale della nostra cultura, al punto che talvolta dà luogo a una forma di ridicola xenofilia che considera a priori più interessante uno scrittore o un artista straniero. Tuttavia, pur con questi limiti, l’apertura alle culture straniere ha diverse conseguenze positive: ad esempio, il nostro è uno dei Paesi dove si traduce di più. Inoltre, un intellettuale italiano non affronterebbe mai un qualsiasi problema senza aver prima verificato le bibliografie inglese, tedesca e francese sull’argomento. Una cosa del genere non accade mai negli Stati Uniti» (cfr. Umberto Eco, L’identità culturale italiana. Intervista di Fabio Gambaro, in Vittorio Spinazzola (a cura di), Tirature ’94, Baldini&Castoldi, Milano 1994, pp. 351-352). 111   A tal riguardo, Franco Cassano ha parlato degli italiani come del «popolo più propenso a parlar male di sé con gli altri» (cfr. Franco Cassano, Paeninsula. L’Italia da ritrovare, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 6) e dell’autodenigrazione come del «gioco più diffuso e popolare» fra di essi (cfr. Id., La differenza italiana ovvero dell’altra faccia della luna, «il Mulino», 2, 1999, p. 221). 112  Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. I, 1, 42, p. 30. 113   Ibidem. 114   Ibidem. 115   Cesare Lombroso, Sull’antitalianismo degli italiani, «Nuova Antologia», 16 gennaio 1901, p. 319. 116  Ciliberto, Italia laica. La costruzione della libertà dei moderni, cit., p. XXV. 117   Ibidem. 118   Su questo si veda Norberto Bobbio e Maurizio Viroli, Dialogo intorno alla repubblica, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 19. Cfr. anche Norberto Bobbio, Quale Italia?, «Reset», gennaio 1995, pp. 16-18; Id., L’anomalia nazionale, «Reset», dicembre 1993, pp. 25-27. 119   Cfr. Ernesto Galli Della Loggia, L’identità italiana, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 161-164. 120   Cfr. Fulvio Tessitore, Stato e nazione. L’anomalia italiana, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2013, pp. 5-8. 121   Carlo Borghero, Interpretazioni, categorie, finzioni. Narrare la storia della filosofia, Le Lettere, Firenze 2017, p. XXIX.

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5. Roberto Esposito e l’Italian Thought 1 2

 Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, cit., p. 9.  Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, cit., p.

12.   Ivi, pp. 23-33.   Toni Negri e Michael Hardt, Commonwealth, 2009; trad. it. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, pp. 107-124. 5   Carlo Galli, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 34. 6  Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, cit., p. 12. 7   Ibidem. 8   Ibidem. 9   Ivi, p. 13. 10   Ivi, p. 14. Riferendosi a queste parole appena citate di Esposito, Ernesto Galli Della Loggia si è domandato: «ma che cos’è, mi chiedo, l’insieme di tali caratteristiche (ambiente e dunque storia, lingua, forme espressive) se non per l’appunto la nazione italiana comunemente intesa? E perché allora tanta cautela dissociativa? Perché questa paura perfino della semplice evocazione identitaria?» (cfr. Ernesto Galli Della Loggia, L’irriducibile diversità del pensiero italiano, «Corriere della Sera», 3 ottobre 2010). Su questo punto si è espresso anche Biagio De Giovanni: «raccoglierei, almeno in parte, una osservazione di Galli Della Loggia, sull’opportunità che, in questo quadro, fosse rivendicato con maggior nettezza il carattere “nazionale” della filosofia italiana, in una chiave, se così posso dire, neospaventiana, adeguata ai tempi nostri, in modo che la tesi potesse essere anche un contributo per tornare su nazionalità e circolarità della filosofia» (cfr. Biagio De Giovanni, Pensiero vivente e filosofia italiana, «L’Acropoli», 1, gennaio 2011, p. 81). 11   Ivi, p. 16. 12   Ivi, p. 21. 13   Ivi, pp. 22-23. 14  Id., Problemi del Novecento filosofico italiano, in Grassi e Marassi (a cura di), La filosofia italiana nel Novecento. Interpretazioni, bilanci, prospettive, cit., p. 17. 15  Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, cit., p. 22. 16  Id., Problemi del Novecento filosofico italiano, cit., p. 17. 17  Toni Negri, Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi (1987), Mimesis, Milano-Udine, 20152, p. 101. 18   Ivi, pp. 101-102. 19   Toni Negri, Italy, Exile Country, in Beverly Allen e Mary Russo (a cura di), Revisioning Italy: National Identity and Global Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis 1997, p. 43. 20  Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, cit., p. 20. 21   Ibidem. 22   Ibidem. 3

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  Cfr. anche quanto afferma l’autore di Pensiero vivente in Roberto Ciccarelli, Un’intervista con Roberto Esposito, «il manifesto», 14 ottobre 2010 (www.micciacorta.it/2010/10/pensiero-italiano/): «ho proposto nel mio libro un “anticanone”, opposto a quello usato dalla storiografia idealistica da Bertrando Spaventa in poi, basato sulla contaminazione tra lessici diversi. Quello italiano non è un pensiero dell’identità, ma della deterritorializzazione». Va inoltre sottolineata un’altra differenza fra Spaventa ed Esposito: se il primo fa ampio uso della categoria di «precorrimento», il secondo preferisce adoperare quella di «anacronismo». Secondo Esposito, infatti, «la riabilitazione dell’anacronismo, nella ricerca storica, non si inscrive in una logica del precorrimento, non invita a rintracciare nel passato antecedenti del tempo successivo, ma, al contrario, a cercare nel presente tracce originarie, riaffioranti come sopravvivenze» (cfr. Roberto Esposito, Anacronismi, in Massimo Adinolfi e Massimo Donà (a cura di), Trovarsi accanto. Per gli ottant’anni di Vincenzo Vitiello, Inschibboleth, Roma 2017, p. 313). 24  Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, cit., p. 18. 25   Ivi, pp. 17-18. 26   Ivi, p. 18. 27   Ivi, p. 17. 28   Ibidem. 29   Ibidem. 30   Ivi, p. 19. 31   Ibidem. 32   Ibidem. 33   Ibidem. 34   Dario Gentili e Elettra Stimilli, Premessa, in Iid. (a cura di), Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, cit., p. 5. 35   Ivi, p. 6. 36   Ibidem. 37   Ibidem. Secondo alcuni studiosi, un discorso per certi versi analogo vale per l’espressione «Made in Italy»: «come tutte le etichette identitarie anche quella di Made in Italy riflette, sin dalla sua formulazione in una lingua straniera, la prospettiva di uno sguardo esterno che coglie e coagula alcuni tratti paradigmatici» (cfr. Malvina Borgherini, Sara Marini, Angela Mengoni, Annalisa Sacchi e Alessandra Vaccari (a cura di), Laboratorio Italia. Canoni e contraddizioni del Made in Italy, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 12). 38   Sulla French Theory cfr. François Cusset, French Theory: Foucault, Derrida, Deleuze, & Cie et les mutations de la vie intellectuelle aux États-Unis, 2003; trad. it. French Theory. Foucault, Derrida, Deleuze & Co. all’assalto dell’America, Il Saggiatore, Milano 2012; Badiou, L’avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta, cit. 39   Roberto Esposito, German Philosophy, French Theory, Italian Thought, in Gentili e Stimilli (a cura di), Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, cit., p. 11. 40   Ivi, p. 12.

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note

 Sulla rielaborazione italiana di categorie filosofiche tedesche (in particolare nietzscheane) cfr., ad esempio, Emilio Carlo Corriero, Il Nietzsche italiano. La «morte di Dio» e la filosofia italiana del secondo Novecento, Nino Aragno, Torino 2016. 42   Gentili e Stimilli, Premessa, cit., p. 5. 43   Si vedano i capitoli Valore e limiti dell’Italian Theory e Il pensiero liberale come momento particolare dell’Italian Theory contenuti in Corrado Ocone, La chiave del secolo. Interpretazioni del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, pp. 137-145. 44   Toni Negri, Virtù e fortuna. Il paradigma machiavelliano, in Id., Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno (1992), manifestolibri, Roma 2002, p. 84. 45  Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (15131519), Rizzoli, Milano 20118, I, 4, p. 72. 46   Ivi, I, 58, p. 179. 47   Cfr. Roberto Esposito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Liguori, Napoli 1984. Recentemente Esposito ha ripreso l’argomento in Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, Einaudi, Torino 2018 (cfr., in particolare, il capitolo 3.3.1, pp. 166-171). 48  Id., Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, in Mattia Di Pierro e Francesco Marchesi (a cura di), Almanacco di Filosofia e Politica 1. Crisi dell’immanenza: Potere, conflitto, istituzione, Quodlibet, Macerata 2019, p. 38. 49  Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020, p. X. Ma il forte interesse per Machiavelli è trasversale come dimostrano le più recenti pubblicazioni che, da diverse angolazioni, mettono in luce molteplici aspetti del suo pensiero. Cfr., fra le altre, Michele Ciliberto, Niccolò Machiavelli. Ragione e pazzia, Laterza, Roma-Bari 2019; Alberto Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta, Einaudi, Torino 2019; Attilio Scuderi, Il libertino in fuga. Machiavelli e la genealogia di un modello culturale, Donzelli, Roma 2018; Id. (a cura di), La libertà ostinata. Machiavelli e i confini del potere, Mimesis, Milano-Udine 2018; Francesco Marchesi, Cartografia politica. Spazi e soggetti del conflitto in Niccolò Machiavelli, Olschki, Firenze 2018; Id., Riscontro. Pratica politica e congiuntura storica in Niccolò Machiavelli, cit. 50  Negri, Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi, cit., p. 19. 51   Ivi, pp. 20-23. 52   Massimiliano Biscuso, Gli usi di Leopardi. Figure del leopardismo filosofico italiano, manifestolibri, Roma 2019, p. 10 (nota). 53  Enrica Lisciani-Petrini, L’Italian Thought fra tradizione e globalizzazione, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 1, 2019, pp. 16-17. 54   Su questo cfr. anche Pietro Garofalo, Roberto Esposito e il problema dell’Altro nell’«Italian Thought», «InCircolo - Rivista di Filosofia e Culture», 3, 2017. 55   Sandro Chignola, Italian Theory? Elementi per una genealogia, in Gentili e Stimilli (a cura di), Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, cit., p. 31. Di Sandro Chignola cfr. anche Da dentro. Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory, Derive Approdi, Roma 2018. Si precisa che in questa sede verranno prese in considerazione solo le critiche serie e ragionate, lasciando da parte alcuni

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scritti o interventi polemici che hanno piuttosto un tratto pamphlettistico e su cui lo stesso Esposito così si è espresso: «come ha spiegato Nietzsche nella Genealogia della morale, il mondo è governato dalla grande macchina del risentimento. È più facile criticare, in maniera quasi sempre non argomentata, qualcosa che fanno gli altri che chiedersi le ragioni della mancata recezione all’estero delle proprie opere». Circa poi l’aspetto relativo al fatto che l’Italian Thought non sia altro che uno dei molti brand circolanti nell’odierno mercato delle idee: «chiunque abbia letto una pagina di Baudelaire o di Benjamin sa che le opere moderne, e tanto più contemporanee del pensiero, come dell’arte, hanno un rapporto ineliminabile con il modo di produzione e anche con le forme del mercato editoriale. L’intera avanguardia novecentesca nasce da questa consapevolezza. O forse dobbiamo recuperare l’aura di autenticità da contrapporre all’arte e al pensiero “degenerati”?» (Corrado Claverini, In dialogo con Roberto Esposito, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 1, 2019, p. 111). 56   Augusto Illuminati, Eatalian Theory, «DinamoPress», 30 marzo 2015 (www. dinamopress.it/news/eatalian-theory). 57   Toni Negri, A proposito di Italian Theory, in Gentili e Stimilli (a cura di), Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, cit., p. 27. Di Toni Negri cfr. anche La differenza italiana, Nottetempo, Roma 2005. 58   Illuminati, Eatalian Theory, cit. 59   Nicolas Martino, Italian Theory, «alfabeta2», 28, 2013 (www.alfabeta2. it/2013/03/29/italian-theory/). 60   Cfr. F. Buongiorno e A. Lucci (a cura di), Che cos’è Italian Theory? Tavola rotonda con Roberto Esposito, Dario Gentili, Giacomo Marramao, «Lo Sguardo», 15, 2014 (II), p. 17. 61   Esposito, German Philosophy, French Theory, Italian Thought, cit., p. 12. 62  Id., Da fuori. Una filosofia per l’Europa, cit., pp. 158-159. Sulle espressioni Italian Theory e Italian Thought cfr. Timothy C. Campbell, «Italian Theory», i rischi di un nome, «il manifesto», 15 marzo 2012 (www.dirittiglobali.it/2012/03/ litalian-theoryr-i-rischi-di-un-nome/). 63   Oltre alle critiche già citate, cfr. Barbara Carnevali, Contro la Theory. Una provocazione, «Le parole e le cose», 19 settembre 2016 (www.leparoleelecose. it/?p=24320). 64   Judith Revel, L’Italian Theory e le sue differenze. Soggettivazione, storicizzazione, conflitto, in Gentili e Stimilli (a cura di), Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, cit., pp. 48-49. Su questo cfr. anche le affermazioni di Franco Berardi in Italian Something. Intervista di Tommaso Megale, «Lo Sguardo», 15, 2014 (II). 65  Revel, L’Italian Theory e le sue differenze. Soggettivazione, storicizzazione, conflitto, cit., p. 48. 66   Ibidem. 67   Su questo si veda Federico Di Blasio, Le strategie del pensiero italiano. Un approccio genealogico all’Italian Thought, «Epekeina», 11, 1, 2020, pp. 1-20. 68  Revel, L’Italian Theory e le sue differenze. Soggettivazione, storicizzazione, conflitto, cit., p. 53.

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note

  Michele Spanò, L’etichetta fantasma di una teoria possibile, «il manifesto», 22 aprile 2015 (https://ilmanifesto.it/letichetta-fantasma-di-una-teoria-possibile/). 70   Martino, Italian Theory, cit. 71   Cfr. Roberta De Monticelli, Heidegger, la questione dei «Quaderni neri» e l’«Italian Thought». In margine a un libro di Donatella Di Cesare, «Rivista di filosofia», 3, 2017, pp. 403-434; Ead., Al di qua del bene e del male, Einaudi, Torino 2015. Su quest’ultimo libro, cfr. anche la recensione di Mario Ricciardi, Platone è meglio dell’«Italian Theory», «Il Sole 24 Ore», 8 novembre 2015 (www.iniziativalaica.it/?p=28385). 72   Carlo Augusto Viano, La filosofia italiana è un problema nazionale?, «Iride», 65, anno XXV, aprile 2012, p. 152. 73   Ivi, p. 153. 74   Giuseppe Cacciatore, «Pensiero vivente» e pensiero storico. Un paradigma possibile per ripensare la tradizione filosofica italiana, «Iride», 65, anno XXV, aprile 2012, p. 141. 75   De Giovanni, Pensiero vivente e filosofia italiana, cit., p. 81. 76   Gianni Vattimo, La Vita pensa più della Storia, «Tuttolibri», 16 ottobre 2010 (www.giannivattimo.blogspot.com/2010/10/la-vita-pensa-piu-della-storia.html). 77  Cacciatore, «Pensiero vivente» e pensiero storico. Un paradigma possibile per ripensare la tradizione filosofica italiana, cit., p. 141. 78  Garin, Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 27. 79   Su questo si veda Antonio Allegra, Filosofia come pedagogia. Note su un’ideologia nazionale, in Michele Dantini (a cura di), L’entre-deux-guerres in Italia. Storia dell’arte, storia della critica, storia politica, Aguaplano, Perugia 2019, pp. 227-238. 80   L. Althusser, E. Balibar, R. Establet, P. Macherey, J. Rancière, Lire le Capital (1964-1965); trad. it. Leggere il Capitale, Mimesis, Milano 2006, p. 17. 81   Stefania Pietroforte, Massimiliano Biscuso e Federica Buongiorno (a cura di), Una discussione con Roberto Esposito, «Filosofia italiana», II, 2013, p. 1. 82   Ibidem, corsivo mio. Cfr. anche Roberto Esposito, Il ritorno della filosofia italiana, in Paolo Frascani (a cura di), Nello specchio del mondo: l’immagine dell’Italia nella realtà internazionale, Università degli studi di Napoli «L’Orientale», Napoli 2012, p. 158: «naturalmente quella che ho tracciato è una mappa, o meglio una genealogia, parziale ed orientata da un preciso punto di vista, come sempre accade in filosofia. Certo, la cultura filosofica italiana ha al suo interno altri temi, altri concetti, altri volti. Io ho messo in risalto quelli che considero più peculiari e innovativi. Come ogni discorso, questo mio ha anche un intento performativo. Nel descrivere una realtà in movimento, tende ad orientarne la direzione, a ridefinirne i confini, a spingerla oltre se stessa. Anche in questa dialettica tra pensiero ed azione si gioca il ruolo e il destino della filosofia italiana». 83   Si veda Fabio Vander, In principio era il conflitto. Ancora sulla filosofia italiana contemporanea, «λeússein», 3, 2010, p. 30: «alla pur articolata ricostruzione di Esposito manca ogni trattazione adeguata del pensiero di Cacciari, di Sasso, di Emo, di Severino». Cfr. anche Marco Berlanda, Verso una nuova egemonia della

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filosofia italiana?, «Per la filosofia – filosofia e insegnamento», 83, 2011, p. 96: «Esposito esclude determinati autori (e non pochi, per es. Telesio, Galileo, Campanella, Galluppi, Rosmini, Gioberti, Manzoni, Bontadini e Severino)». Analogamente Francesca Fidelibus rileva come l’Italian Thought sia «costruito su una serie scelta e parziale di autori che non rappresentano in modo esaustivo tutto lo spettro di autori “italiani”. Basti pensare all’assenza, in quello che si configura come pensiero dell’immanenza, della tradizione cattolica, ma anche della filosofia dialettica (sia del materialismo che dello storicismo), o dell’elitismo che recupera quel Machiavelli da cui parte la genealogia del “pensiero italiano”. Ciò vale anche per l’ambito letterario: se Pasolini si presta bene ad essere autore dell’Italian Thought, non vale lo stesso per altri che con gli elementi individuati per delineare l’asse di scorrimento del pensiero italiano – vita, politica e storia – hanno poco a che fare» (cfr. Francesca Fidelibus, Ambiziosi progetti targati IT, «Dianoia», 28, 1, 2019, p. 293). 84  Cacciatore, «Pensiero vivente» e pensiero storico. Un paradigma possibile per ripensare la tradizione filosofica italiana, cit., p. 138. 85   Ivi, p. 139. 86  Lisciani-Petrini, L’Italian Thought fra tradizione e globalizzazione, cit., p. 17. 87   Esposito, German Philosophy, French Theory, Italian Thought, cit., pp. 1314. 88   Sin dai suoi primi scritti, Esposito ha prestato molta attenzione alla figura di Machiavelli (cfr. Roberto Esposito, La politica e la storia. Machiavelli e Vico, Liguori, Napoli 1980; Id., Politica e tecnica nel ’600: l’antimachiavellismo fino a Vico, in Id., Biagio De Giovanni e Giuseppe Zarone, Divenire della ragione moderna. Cartesio, Spinoza, Vico, Liguori, Napoli 1981, pp. 167-235; Esposito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, cit.). 89   A tal riguardo cfr., in aggiunta, Id., Fortuna e politica all’origine della filosofia italiana, in Marcello Montanari, Franca Papa e Giuseppe Vacca (a cura di), Le forme e la storia. Scritti in onore di Biagio De Giovanni, Bibliopolis, Napoli 2011, pp. 185-195. 90   Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, cit., p. VI. 91  Roberto Esposito, Il made in Italy della filosofia, «la Repubblica», 24 febbraio 2012 (https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/02/24/ il-made-in-italy-della-filosofia.html). Riferendosi a questo articolo di Esposito, Ernesto Galli Della Loggia rileva come «il mondo accademico degli Stati Uniti, in modo specialissimo quello delle humanities, sia bulimicamente affamato di “teorie” generali che gli permettano di leggere il mondo in modo per così dire “critico” e “antagonistico”. Da Marcuse a Foucault, a Gramsci, a Derrida, a Lacan, a Toni Negri, nei campus americani è una caccia vorticosa e continua a sempre nuovi testi e ad autori esemplari, capaci di garantire che il mondo non è come appare, che esso nasconde chiavi di lettura ignote o non visibili ai più; che possedendo tali chiavi è magari possibile rovesciarne le regole; e insieme, e soprattutto, che chi ha il potere lo esercita, se non contro i più reali interessi delle maggioranze, comunque contraffacendo costantemente la verità. […] E allora ben venga anche l’Italian Theory, se serve a fornire nuovo combustibile al radicalismo dell’Ivy League»: cfr. Ernesto Galli Della Loggia,

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L’anticapitalismo all’italiana, «Corriere della Sera», 29 febbraio 2012 (www.materialismostorico.blogspot.com/2012/02/italian-theory-della-loggia-polemizza.html). 92   Sulla reciproca influenza fra la cultura italiana e quella dei Paesi anglosassoni si veda, ad esempio, Guido Bonsaver, Alessandro Carlucci e Matthew Reza (a cura di), Italy and the USA: Cultural Change Through Language and Narrative, Legenda, Cambridge 2019; Iid., The Dynamics of Cultural Change: a Theoretical Frame with Reference to Italy-USA Relations, «Novecento transnazionale», 3, 1, 2019, pp. 107-130; Stefano Jossa e Giuliana Pieri (a cura di), Chivalry, Academy, and Cultural Dialogues: The Italian Contribution to European Culture, Legenda, Cambridge 2016. 93   Cfr. l’articolo di Mazzei, scritto un anno prima per la «Virginia Gazette» e tradotto da Jefferson: «per ottenere il nostro intento bisogna, miei cari concittadini, ragionar su i diritti naturali dell’uomo e sulle basi di un governo libero. Questa discussione ci dimostrerà chiaramente, che il britanno non è mai stato tale nel suo maggior grado di perfezione, e che il nostro non era altro che una cattiva copia di quello, […] ma è finalmente venuto il tempo di cambiar costume […]. Tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi e indipendenti. Quest’eguaglianza è necessaria per costituire un governo libero. Bisogna che ognuno sia uguale all’altro nel diritto naturale» (Filippo Mazzei, Frammenti di scritti pubblicati nelle gazzette al principio della rivoluzione americana da un cittadino di Virginia (1775), in Id., Memorie della vita e delle peregrinazioni del fiorentino Filippo Mazzei (1810-1813), 2 voll., a cura di A. Aquarone, Marzorati, Milano 1970, vol. II, pp. 496-497). 94   Per il passaggio riportato da Jefferson cfr. Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), Feltrinelli, Milano 201418, § XL, pp. 106-107: «falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di poca conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portar le armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i non inclinati né determinati ai delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravenzioni, e l’esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all’uomo, carissima all’illuminato legislatore, e sottopone gl’innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei? Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell’assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiaman leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degl’inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale». Sull’influenza di Beccaria sui Padri fondatori degli Stati Uniti d’America cfr. John D. Bessler, The Birth of American Law: An Italian Philosopher and the American Revolution, Carolina Academic Press, Durham 2014. 95   Su questo cfr. Alessandro Carrera, Benedetto Croce in Texas. Storie di filosofia italiana in Nord America, Moretti & Vitali, Bergamo 2017.

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  Herbert Wildon Carr, The Philosophy of Benedetto Croce: The Problem of Art and History, Macmillan, London 1917; A. Robert Caponigri, History and Liberty: The Historical Writings of Benedetto Croce, Routledge & Kegan Paul, London 1955; Gian Napoleone Giordano Orsini, Benedetto Croce: Philosophy of Art and Literary Critic, Southern Illinois University Press, Carbondale 1961; Lucia M. Palmer e Henry Silton Harris (a cura di), Thought, Action, and Intuition: A Symposium on the Philosophy of Benedetto Croce, Olms, Hildesheim 1975; Myra E. Moss, Benedetto Croce Reconsidered: Truth and Error in Theories of Art, Literature, and History, University of New England Press, London 1987; David D. Roberts, Benedetto Croce and the Uses of Historicism, University of California Press, Berkeley 1987; Jack D’Amico, Dain A. Trafton e Massimo Verdicchio (a cura di), The Legacy of Benedetto Croce: Contemporary Critical Views, University of Toronto Press, Toronto 1999; Massimo Verdicchio, Naming Things: Aesthetics, Philosophy, and History in Benedetto Croce, La Città del Sole, Napoli 2000; Brian P. Copenhaver e Rebecca Copenhaver (a cura di), From Kant to Croce: Modern Philosophy in Italy, 1800-1950, University of Toronto Press, Toronto 2011. 97   Roger W. Holmes, The Idealism of Giovanni Gentile, Macmillan, New York 1937; Patrick Romanell, The Philosophy of Giovanni Gentile: An Inquiry Into Gentile’s Conception of Experience, Vanni, New York 1937; Henry Silton Harris, The Social Philosophy of Giovanni Gentile, University of Illinois Press, Urbana 1960; William A. Smith, Giovanni Gentile on the Existence of God, Editions Nauwelaerts, Louvain 1970; A. James Gregor, Giovanni Gentile: Philosopher of Fascism, Transaction Publishers, New Brunswick 2001; Myra E. Moss, Mussolini’s Fascist Philosopher: Giovanni Gentile Reconsidered, Lang, New York 2004. Per un confronto fra Croce e Gentile si veda Patrick Romanell, Croce Versus Gentile, Vanni, New York 1946; Merle Elliott Brown, Neo-Idealistic Aesthetics: Croce, Gentile, Collingwood, Wayne State University Press, Detroit 1966; Rik Peters, History as Thought and Action: The Philosophies of Croce, Gentile, de Ruggiero and Collingwood, Imprint Academic, Exeter 2011. 98   Fra le opere in lingua inglese dedicate al pensiero gramsciano – giusto per citare, nella sterminata bibliografia, qualche titolo – cfr. Harold Entwistle, Antonio Gramsci: Conservative Schooling for Radical Politics, Routledge & Kegan Paul, London 1979; Robert S. Dombrowski, Antonio Gramsci, Twayne, Boston 1989; Renate Holub, Antonio Gramsci: Beyond Marxism and Postmodernism, Routledge, London 1992; Stephen Gill (a cura di), Gramsci, Historical Materialism and International Relations, Cambridge University Press, Cambridge 1993; Anne Showstack Sassoon, Gramsci and Contemporary Politics: Beyond Pessimism of the Intellect, Routledge, London 2000; Kate Crehan, Gramsci: Culture and Anthropology, University of California Press, Berkeley 2002; Peter Ives, Language and Hegemony in Gramsci, Pluto Press, London 2004; Steve Jones, Antonio Gramsci, Routledge, London 2006; Adam David Morton, Unravelling Gramsci: Hegemony and Passive Revolution in the Global Economy, Pluto Press, London 2007; Joseph Francese (a cura di), Perspectives on Gramsci: Politics, Culture, and Social Theory, Routledge, New York 2009; Mark McNally e John Schwarzmantel (a cura di),

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Gramsci and Global Politics: Hegemony and Resistance, Routledge, London 2009; Peter D. Thomas, The Gramscian Moment: Philosophy, Hegemony, and Marxism, Brill, Leiden 2009; Marcus E. Green (a cura di), Rethinking Gramsci, Routledge, London 2011. 99   La letteratura in inglese su Vattimo conta numerosi titoli: cfr., fra gli altri, Walter Moser, Gianni Vattimo’s «Pensiero debole», or, Avoiding the Traps of Modernity?, Center for Humanistic Studies, University of Minnesota, Minneapolis 1987; Marta Frascati-Lochhead, Kenosis and Feminist Theology: The Challenge of Gianni Vattimo, SUNY Press, Albany 1998; Santiago Zabala (a cura di), Weakening Philosophy: Essays in Honour of Gianni Vattimo, McGill-Queen’s University Press, Montreal 2007; Thomas G. Guarino, Vattimo and Theology, T&T Clark International, London 2009; Silvia Benso e Brian Schroeder (a cura di), Between Nihilism and Politics: The Hermeneutics of Gianni Vattimo, SUNY Press, Albany 2010. 100   Cfr., fra le altre, le seguenti opere italiane uscite in traduzione inglese in un breve arco di tempo (dal 1988 al 1996): Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985; Giorgio Agamben, La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990; Carlo Sini, Immagini di verità: dal segno al simbolo, Spirali, Milano 1985; Massimo Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986; Franco Rella, Il mito dell’altro, Feltrinelli, Milano 1978; Adriana Cavarero, Nonostante Platone, Editori Riuniti, Roma 1990; Perniola, Enigmi. Il momento egizio nella società e nell’arte, cit.; Maurizio Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988. 101   Cfr. Toni Negri e Michael Hardt, Empire, 2000; trad. it. Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2003; Iid., Multitude, 2004; trad. it Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004; Iid., Comune. Oltre il privato e il pubblico, cit. 102   Fra le opere in inglese sul pensiero di Toni Negri cfr. Atilio A. Borón, Empire and Imperialism: a Critical Reading of Michael Hardt and Antonio Negri (2002), Zed Books, London 2005; Paul A. Passavant e Jodi Dean (a cura di), Empire’s New Clothes: Reading Hardt and Negri, Routledge, London 2004; Timothy S. Murphy e Abdul-Karim Mustapha (a cura di), The Philosophy of Antonio Negri, Volume One: Resistance in Practice, Pluto, London 2005; Timothy S. Murphy e Abdul-Karim Mustapha (a cura di), The Philosophy of Antonio Negri, Volume Two: Revolution in Theory, Pluto, London 2007; Pierre Lamarche, David Sherman e Max Rosenkrantz (a cura di), Reading Negri: Marxism in the Age of Empire, Open Court, Chicago 2011; Timothy S. Murphy, Antonio Negri: Modernity and the Multitude, Polity Press, Cambridge 2012. Cfr. anche Andrea Righi, Biopolitics and Social Change in Italy: From Gramsci to Pasolini to Negri, Palgrave Macmillan, New York 2011. Si veda inoltre il numero 46, 2/2013 della rivista «Genre: Forms of Discourse and Culture» (https://read.dukeupress.edu/genre/issue/46/2) Homo Liber: Essays in Honor of Antonio Negri. 103  La letteratura critica in inglese sul pensiero di Giorgio Agamben è in rapida crescita: cfr., fra gli altri, Andrew Norris (a cura di), Politics, Metaphysics, and Death: Essays on Giorgio Agamben’s «Homo sacer», Duke University Press,

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Durham 2005; Matthew Calarco e Steven DeCaroli (a cura di), Giorgio Agamben: Sovereignty and Life, Stanford University Press, Stanford 2007; Justin Clemens, Nicholas Heron e Alex Murray (a cura di), The Work of Giorgio Agamben: Law, Literature, Life, Edinburgh University Press, Edinburgh 2008; Catherine Mills, The Philosophy of Agamben, Acumen, Stocksfield 2008; Alison Ross, The Agamben Effect, Duke University Press, Durham 2008; Leland De La Durantaye, Giorgio Agamben: A Critical Introduction, Stanford University Press, Stanford 2009; Alex Murray, Giorgio Agamben, Routledge, London 2010; William Watkin, The Literary Agamben: Adventures in Logopoiesis, Continuum, London 2010; Timothy C. Campbell, Improper Life: Technology and Biopolitics from Heidegger to Agamben, University of Minnesota Press, Minneapolis 2011; Paul Colilli, Agamben and the Signature of Astrology: Spheres of Potentiality, Lexington Books, Lanham 2015. 104   Sulle analisi in inglese del pensiero di Roberto Esposito cfr. il volume 36, 2/2006 della rivista «Diacritics» (https://muse.jhu.edu/journal/46) Bios, Immunity, Life: The Thought of Roberto Esposito. Cfr. anche Alexej Ulbricht, Multicultural Immunisation: Liberalism and Esposito, Edinburgh University Press, Edinburgh 2014; Peter Langford, Roberto Esposito: Law, Community and the Political, Routledge, London 2015; Greg Bird e Jon Short (a cura di), Community, Immunity and the Proper: Roberto Esposito, Routledge, London 2015; Greg Bird, Containing Community: From Political Economy to Ontology in Agamben, Esposito, and Nancy, SUNY Press, Albany 2016; Inna Viriasova e Antonio Calcagno (a cura di), Roberto Esposito: Biopolitics and Philosophy, SUNY Press, Albany 2018. 105  Carrera, Benedetto Croce in Texas. Storie di filosofia italiana in Nord America, cit., p. 24. 106   Francesco Piro, Che ne sarà della filosofia nel XXI secolo?, «P.O.I. (Points of Interest). Rivista di indagine filosofica e di nuove pratiche della conoscenza», 1, 1, 2017, p. 14. 107   Remo Bodei, La filosofia nel Novecento (e oltre), Feltrinelli, Milano 20163, p. 210. 108   Ibidem.

Conclusioni 1  Massimo Cacciari, L’arcipelago (1997), Adelphi, Milano 20053, p. 35. Sul pensiero di Cacciari si veda il recente saggio di Giuseppe Cantarano, Crocevia italiano. Nel labirinto filosofico di Massimo Cacciari e in altri labirinti dell’Italian Theory, Diogene Multimedia, Bologna 2018. 2   Oltre alla riflessione biopolitica di Agamben, Negri ed Esposito cui si è già fatto riferimento nel corso del volume, si veda – a comprova della pervasività della tematica della vita e delle modalità radicalmente differenti in cui essa viene trattata – Davide Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010; Enrica Lisciani-Petrini, Vita quotidiana. Dall’esperienza artistica al pensiero in atto, Bollati Boringhieri, Torino 2015; Paolo Godani, La vita comune. Per una filosofia

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e una politica oltre l’individuo, DeriveApprodi, Roma 2016. Cfr. anche il recente contributo di Andrea Tagliapietra, Al prezzo della vita. Verità, veridicità e sincerità, «Alvearium», 11, 11, 2018, pp. 113-130. Qui l’autore analizza il tema della sincerità tenendo in considerazione i più recenti sviluppi del pensiero italiano e, in particolare, l’approccio biopolitico dell’Italian Thought. 3   Maurice Merleau-Ponty, La prose du monde (1952); trad. it. La prosa del mondo, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 105. 4   A tal riguardo si segnala il progetto quinquennale (2019-2024) «Histories of Philosophy in a Global Perspective» condotto sotto la direzione scientifica di Rolf Elberfeld presso l’University of Hildesheim (www.uni-hildesheim.de/en/histories-of-philosophy/). Cfr., in aggiunta, Rolf Elberfeld (a cura di), Philosophiegeschichtsschreibung in globaler Perspektive, Meiner, Hamburg 2017. Si vedano anche le più recenti «storie della filosofia in prospettiva globale»: Elmar Holenstein, Philosophie-Atlas. Orte und Wege des Denkens, 2004; trad. it. Atlante di filosofia: luoghi e percorsi del pensiero, Einaudi, Torino 2009; Virgilio Melchiorre (a cura di), Filosofie nel mondo, Bompiani, Milano 2014; Yves-Marie Adeline, Histoire mondiale de la philosophie, Ellipses, Paris 2015; Julian Baggini, How the World Thinks: A Global History of Philosophy, Granta, London 2018. Una menzione particolare meritano, inoltre, l’International Federation of Philosophical Societies (FISP – www.fisp.org/) – che organizza ogni cinque anni un World Congress of Philosophy – e l’Institut International de Philosophie (IIP – www.i-i-p. org/) di cui è stato Presidente, dal 1966 al 1969, Raymond Klibansky, studioso del pensiero filosofico in rapporto alle diverse aree culturali nei seguenti testi: Raymond Klibansky (a cura di), Philosophy in the Mid-Century. A Survey / La philosophie au milieu du XXe siècle. Chroniques, 4 voll., La Nuova Italia, Firenze 1958-1959; Id. (a cura di), Contemporary Philosophy. A Survey / La philosophie contemporaine. Chroniques, 4 voll., La Nuova Italia, Firenze 1968-1971; Id. e David Pears (a cura di), La Philosophie en Europe, Gallimard, Paris 1993. Infine, per un approfondimento in senso comparatistico della ricerca qui svolta sull’identità del pensiero italiano, si rimanda ai numerosi studi già esistenti sulla specificità delle altre tradizioni filosofiche (europee e non europee): cfr., per la Germania, Eduard Zeller, Geschichte der deutschen Philosophie seit Leibniz, Oldenburg, München 1873; Hermann Lotze, Geschichte der deutschen Philosophie seit Kant, Hirzel, Leipzig 1882 e, nell’ambito della letteratura critica più recente, Gösta Gantner, Das Ende der «Deutschen Philosophie». Zäsuren und Spuren eines Neubeginns bei Karl Jaspers, Martin Heidegger und Theodor W. Adorno, in Hans Braun, Uta Gerhardt e Everhard Holtmann (a cura di), Die lange Stunde Null. Gelenkter sozialer Wandel in Westdeutschland nach 1945, Nomos, Baden-Baden 2007, pp. 175-202. Si veda, per la Francia, Félix Ravaisson, La philosophie en France au XIXe siècle, Imprimerie impériale, Paris 1868; Émile Boutroux, La Philosophie en France depuis 1867, «Revue de métaphysique et de morale», 16, 1908, pp. 683-716; Henri Bergson, La philosophie française (1915); trad. it. La filosofia francese, Orthotes, Napoli-Salerno 2013; Victor Delbos, La philosophie française, Plon, Paris 1919; Jean Wahl, Tableau de la philosophie française, Fon-

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taine, Paris 1946; Vincent Descombes, Le Même et l’Autre. Quarante-cinq ans de philosophie française (1933-1978), Minuit, Paris 1979; Henri Gouhier, Peut-on parler d’une philosophie française?, «Revue des Sciences philosophiques et théologiques», 74, 1, 1990, pp. 3-6; Pierre Macherey, La philosophie à la française, «Revue des Sciences philosophiques et théologiques», 74, 1, 1990, pp. 7-14; Jean-François Mattéi (a cura di), Philosopher en français: Langue de la philosophie et langue nationale, PUF, Paris 2001; Denis Huisman, Histoire de la philosophie française, Perrin, Paris 2002; Frédéric Worms, La philosophie en France au XXe siècle: moments, Gallimard, Paris 2009; Frédéric Fruteau de Laclos, Pour une histoire souterraine de la pensée française, «Philosophie», 109, 2011, pp. 6-20; Badiou, L’avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta, cit. Infine, per l’Inghilterra, cfr. James Seth, English Philosophers and Schools of Philosophy, Dent, London 1912; William Ritchie Sorley, A History of English Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1920; Meyrick Heath Carré, Phases of Thought in England, Clarendon, Oxford 1949; Duncan Wu, Hazlitt’s Unpublished History of English Philosophy: The Larger Context, «The Library», 7, 1, 2006, pp. 25-64. Si vedano inoltre i seguenti studi: Jacques Chevalier, Y a-t-il une philosophie espagnole?, in Jacinto Benavente (a cura di), Estudios eruditos in memoriam de Adolfo Bonilla y San Martín (1875-1926), 2 voll., Ratés, Madrid 1927-1930, vol. I, pp. 1-4; José Ferrater Mora, Is There a Spanish Philosophy?, «Hispanic Review», 19, 1, 1951, pp. 1-10; Rudolf Haller, Gibt es eine österreichische Philosophie?, «Wissenschaft und Weltbild», 31, 3, 1979, pp. 173-181; Richard Kearney (a cura di), The Irish Mind: Exploring Intellectual Traditions, Wolfhound Press, Dublin 1985; Franjo Zenko, O ideji (hrvatske) nacionalne filozofije u Alberta Bazale, «Prilozi za istraživanje hrvatske filozofske baštine», 14, 1-2, 27-28, 1988, pp. 109-126; Onésimo Teotónio Almeida, On the Diversity of Brazilian Philosophical Expression, in Jorge J.E. Gracia e ‎Mireya Camurati (a cura di), Philosophy and Literature in Latin America: A Critical Assessment of the Current Situation, SUNY Press, Albany 1989, pp. 18-24; Bhikhu Parekh, Nehru and the National Philosophy of India, «Economic and Political Weekly», 26, 1/2, 5-12 gennaio 1991, pp. 35-48; John Passmore, Australian Philosophy or Philosophy in Australia?, in Jan T.J. Srzednicki e David Wood (a cura di), Essays on Philosophy in Australia, Kluwer, Dordrecht 1992, pp. 1-18; Gérard Deledalle, La philosophie peut-elle être américaine? Nationalité et universalité, Jacques Grancher, Paris 1995; Alexander Broadie, Why Scottish Philosophy Matters, The Saltire Society, Edinburgh 2000; Gary Brent Madison, Paul Fairfield e Ingrid Harris (a cura di), Is There a Canadian Philosophy? Reflections on the Canadian Identity, University of Ottawa Press, Ottawa 2000; Thomas Duddy, A History of Irish Thought, Routledge, London-New York 2002; Evert Van Der Zweerde, What is Russian About Russian Philosophy?, in Thorsten Botz-Bornstein e Jürgen Hengelbrock (a cura di), Re-ethnicizing the Minds? Cultural Revival in Contemporary Thought, Rodopi, Amsterdam-New York 2006, pp. 165-184; Riccardo Pozzo, Fra identità elvetica e apertura cosmopolitica: l’essenza della «filosofia svizzera», in Pozzo e Piaia (a cura di), Identità nazionale e valori universali nella moderna

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storiografia filosofica, cit., pp. 179-188; Rolando M. Gripaldo, Is there a Filipino Philosophy?, in Id. (a cura di), The Making of a Filipino Philosopher, National Book Store, Mandaluyong City 2009; Evert Van Der Zweerde, The Place of Russian Philosophy in World Philosophical History - A Perspective, «Diogenes», 56, 2/3, 2009, pp. 170-186; Béla Mester, A Comparative Historiography of the Hungarian and Slovakian National Philosophies: a Central European Case, «LIMES: Cultural Regionalistics», 1, 2010, pp. 6-14; Mark Montebello, Malta’s Philosophy & Philosophers, PIN, Pietà 2011; Angela Botez, Filosofia românească în dispunere universală, Pro Universitaria, București 2012; Nejat Bozkurt, Bir Türk Felsefesi Var mı?, in Id., Felsefe Işığıyla Arayışlar, Ayrıntı Yayınları, 2012; Pedro Martins, O problema das filosofias nacionais e da filosofia como saber universal: o caso português, «Diacrítica», 26, 2, 2012, pp. 63-87; Henrique Jales Ribeiro, Towards a General Theory on the Existence of Typically National Philosophies. The Portuguese, the Austrian, the Italian, and Other Cases Reviewed, «Revista Filosófica de Coimbra», 21, 41, 2012, pp. 199-246; Caterina Zanfi, National Philosophy and Human Genius. An Introduction to Bergson’s Essay on French Philosophy, «Philosophical Inquiries», 1, 2014, pp. 191-198; Tudor Petcu, On Hungarian Philosophy: Its European Past and European Future. An Interview with Béla Mester, «Studia Humana», 4, 4, 2015, pp. 47-52; Gordon Graham, The Integrity of Scottish Philosophy and the Idea of a National Tradition, in Id. (a cura di), Scottish Philosophy in the Nineteenth and Twentieth Centuries, Oxford University Press, Oxford 2015, pp. 303-322; Tomasz Mróz, «Polish Philosophy» or «Philosophy in Poland», in Id., Selected Issues in the History of Polish Philosophy, Vilnius University Publishing House, Vilnius 2016, pp. 13-38; Carlo Sunnen, La philosophie luxembourgeoise: Une «production» culturelle «nationale» au service du «Nation Branding», «d’Lëtzebuerger Land», 22 dicembre 2017 (www.land.lu/page/article/712/333712/FRE/index.html); Henrique Jales Ribeiro, Filosofias nacionais, transnacionais e tradições filosóficas no século XXI, Edições Esgotadas, Lisboa 2018; Sergii Rudenko e Serhii Yosypenko, National Philosophy as a Subject of Comparative Research, «Sententiae», 37, 1, 2018, pp. 120-129; Ali Abasov e Abulhasan Abbasov (a cura di), The National Philosophy, Azərbaycan nəşriyyatı, Baku 2019; Marek Tamm e Kalevi Kull, Estonian theory, in Anu Kannike, Katre Pärn e Monika Tasa (a cura di), Interdisciplinary Approaches to Culture Theory, University of Tartu Press, Tartu 2020, pp. 30-67. 5   La ventiduesima edizione di Ethnologue: Languages of the World (2019) mostra l’entità di tale processo con i dati. Le lingue conosciute oggi nel mondo sono 7111 e, di queste, numerose sono a rischio di estinzione: il 27% (ovvero 1909 lingue) sono minacciate o instabili (livelli 6b e 7 dell’EGIDS ovvero l’Expanded Graded Intergenerational Disruption Scale); il 14% (ovvero 986 lingue) sono moribonde, quasi estinte o inattive (livelli 8a, 8b e 9 dell’EGIDS); mentre quelle recentemente estinte (livello 10 dell’EGIDS) sono 348. Per fare alcuni esempi concreti, la lingua ubykh e la lingua eyak in Alaska sono state dichiarate estinte rispettivamente in seguito alla morte di Tevfik Esenç (1992) e delle sorelle Marie Smith Jones e Sophie Borodkin (2008). Queste erano ormai le uniche persone ad usare le due lin-

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gue suddette, la cui scomparsa costituisce un grave danno per la cultura, così come l’estinzione di certe specie di piante e di animali rappresenta un grande pericolo per la natura: cfr. David M. Eberhard, Gary F. Simons e Charles D. Fennig (a cura di), Endangered Languages, in Iid., Ethnologue: Languages of the World, SIL International, Dallas 201922 (www.ethnologue.com/endangered-languages). 6   Su questo cfr. Barbara Cassin (a cura di), Vocabulaire européen des philosophies: Dictionnaire des intraduisibles, Seuil, Paris 2004. 7   Cfr. Pietro Garofalo, Linguaggio e bio-politica nel dibattito italiano contemporaneo, «Rivista italiana di filosofia del linguaggio», 1, 2015, pp. 122-145. 8   Felice Cimatti, La tradizione italiana, in Id. e Francesca Piazza (a cura di), Filosofie del linguaggio. Storie, autori, concetti, Carocci, Roma 2016, p. 163. Di Felice Cimatti cfr. anche Italian Philosophy of Language, «Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», 1, 2015, pp. 14-36. 9   Cfr. Ermanno Bencivenga, Il pensiero come stile. Protagonisti della filosofia italiana, Bruno Mondadori, Milano 2008. 10  Id., Filosofia all’italiana, «Lettera internazionale», 101, 2009, p. 53. 11   Ivi, p. 54. 12  Cfr. Giorgio Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura (1996), Laterza, Roma-Bari 2010. Su Agamben e le categorie italiane si veda Antonio Lucci, Categorie italiane della filosofia. Sul posizionamento teoretico di Giorgio Agamben nel canone del pensiero italiano contemporaneo, «Lessico di Etica Pubblica», 1, 2019, pp. 40-50. 13  Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, cit., p. VII. 14   Ibidem. 15   Ivi, p. V. Secondo quanto si legge nel Programma per una rivista contenuto in Infanzia e storia di Agamben, «le strutture categoriche della cultura italiana» sono: «la scelta della commedia e il rifiuto della tragedia, il dominio dell’elemento architettonico e una sensibilità così inerme di fronte alla bellezza che non riesce ad afferrarla se non come “vaghezza”, la preminenza del Diritto insieme a una concezione creaturale dell’innocenza umana, la precoce attenzione alla fiaba come mondo stregato della colpa e il riscatto cristiano di questo mondo nella miniatura “storica” del presepe, l’interesse per la storiografia accanto a una concezione della vita umana come “favola”, sono solo alcune delle categorie sulla cui tensione antinomica si sostiene il fenomeno italiano» (Id., Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia (1978), Einaudi, Torino 2001, pp. 145-146). 16  Id., Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, cit., p. V. 17  Cfr. John Rogers Searle, The Globalization Of Philosophy, in Bo Mou (a cura di), Searle’s Philosophy and Chinese Philosophy: Constructive Engagement, Brill, Leiden 2008, pp. 17-29. 18   Maurizio Ferraris, Filosofia globalizzata, «Iride», 2, 2012, pp. 403-412. 19   Su questo si veda Karl Jaspers, Der philosophische Glaube (1947); trad. it. La fede filosofica, Cortina, Milano 2005. 20   Niccolò Machiavelli, Dell’arte della guerra (1519-1520), in Id., Il principe-Dell’arte della guerra, a cura di A. Capata, Newton Compton, Roma 20113, VII, p. 244.

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note

  Cfr. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, cit., III, 1, p. 461: «e perché io parlo de’ corpi misti, come sono le republiche e le sètte, dico che quelle alterazioni sono a salute che le riducano inverso i principii loro». 22   Su questo si veda Nicola Gardini, Rinascere. Storie e maestri di un’idea italiana, Garzanti, Milano 2019. 23   Niccolò Machiavelli, Il Principe (1513), a cura di G. Inglese, Einaudi, Torino 20063, XV, p. 102. 24  Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. III, 13, 1, p. 1556. 25   Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Die Verfassung Deutschlands (1799-1802); trad. it. La costituzione della Germania, in Id., Scritti Politici (1798-1831), a cura di C. Cesa, Einaudi, Torino 19742, p. 104. 26   Cfr. Baruch Spinoza, Tractatus politicus (1676); trad. it. Trattato politico, in Id., Tutte le opere, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 20112, p. 1671: «invece, di quali mezzi un principe spinto dal solo desiderio di dominio debba servirsi per poter istituire e mantenere il potere, lo ha mostrato ampiamente l’acutissimo Machiavelli […]. Inoltre volle forse mostrare quanta attenzione una moltitudine libera debba fare a non affidare la propria salvezza ad un solo individuo […]. Ritengo che si debba considerare questa la tesi di quell’uomo così avveduto, giacché è noto che egli fu un difensore della libertà, per tutelare la quale fornì anche ottimi consigli». 27   Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Du contrat social ou Principes du droit politique (1762); trad. it. Del contratto sociale o Principi del diritto politico, in Id., Discorso sull’origine della disuguaglianza-Contratto sociale, a cura di D. Giordano, Bompiani, Milano 2012, p. 483: «è naturale che i principi diano sempre la preferenza alla massima che è loro più immediatamente utile. È ciò che Samuele esponeva vigorosamente agli ebrei e che Machiavelli ha fatto vedere con chiarezza. Fingendo di dare lezioni ai re, ne ha date di grandi ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani. Machiavelli era un uomo onesto e un buon cittadino; ma, legato alla casa dei Medici, era costretto, nell’oppressione della sua patria, a mascherare il suo amore per la libertà». 28   Cfr. Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere (1786), in Id., Della tirannide-Del principe e delle lettere-La virtù sconosciuta, Rizzoli, Milano 20115, pp. 277278: «e circa a quest’autore mi conviene qui di passo osservare una strana bizzarria dell’ingegno umano; ed è, che dal solo suo libro del principe si potrebbero qua e là ricavare alcune massime immorali e tiranniche; e queste dall’autore sono messe in luce (a chi ben riflette) molto più per disvelare ai popoli le ambiziose e avvedute crudeltà dei principi, che non certamente per insegnare ai principi a praticarle; poiché essi più o meno sempre le adoprano, le hanno adoprate, e le adopreranno, secondo il loro bisogno ingegno e destrezza. All’incontro, il Machiavello nelle storie, e nei discorsi sopra Tito Livio, ad ogni sua parola e pensiero, respira libertà, giustizia, acume, verità, ed altezza di animo somma: onde chiunque ben legge, e molto sente, e nell’autore s’immedesima, non può riuscire se non un focoso entusiasta di libertà, e un illuminatissimo amatore d’ogni politica virtù. Eppure, il Machiavello, proscritto dai principi per mera vergogna di se stessi, e dai popoli poco letto e niente

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meditato, volgarmente viene da tutti creduto un vile precettore di tirannia, di vizj, e di viltà. Né sarà questa una delle minori prove in favore di quanto asserisco; che i filosofi non possono essere mai pianta di servitù; poiché la moderna Italia, in ogni servire maestra, il solo vero filosofo politico ch’ella abbia avuto finora, non lo conosce, né stima». 29   Cfr. Ugo Foscolo, Dei Sepolcri (1807), vv. 154-158: «Io quando il monumento/Vidi ove posa il corpo di quel grande/Che temprando lo scettro a’ regnatori/Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela/Di che lagrime grondi e di che sangue». 30   Su questo si veda Maurizio Viroli, La redenzione dell’Italia. Saggio sul «Principe» di Machiavelli, Laterza, Roma-Bari 2013. 31   Cfr. Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., pp. 356-359. 32  Giuseppe Ferrari, Machiavelli. Giudice delle rivoluzioni dei nostri tempi (1849), Vallecchi, Firenze 1921, p. 4. 33  Francesco De Sanctis, Machiavelli (1869), a cura di A. D’Orto, Mephite, Atripalda 2003, pp. 93-94. 34   Cfr., ad esempio, Giacomo Marramao, Per un nuovo Rinascimento, Castelvecchi, Roma 2020. 35   Andrea Tagliapietra, L’esperienza del terremoto. Filosofia della catastrofe e pensiero italiano, «Scenari», 12, 2020, p. 131. 36   Riccardo Pozzo, Storia storica e storia filosofica della filosofia nel XX e nel XXI secolo, «Archivio di Storia della Cultura», 27, 2014, pp. 333-336. Sulla translatio studiorum si veda Tullio Gregory, Origini della terminologia filosofica moderna, Olschki, Firenze 2006; Id., Translatio linguarum. Traduzioni e storia della cultura, Olschki, Firenze 2016. Cfr. inoltre Marco Sgarbi (a cura di), Translatio Studiorum: Ancient, Medieval and Modern Bearers of Intellectual History, Brill, Leiden 2012. 37   Andrea Tagliapietra, Gli altri che io sono. Per una filosofia del personaggio, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 9, 2013, pp. 8-9. 38   Ivi, p. 8. 39  Sulla pluralità delle culture presenti in Europa cfr. Paul Michael Lützeler, Europäische Identität und Multikultur, 1997; trad. it. Identità europea e pluralità delle culture, Marsilio, Venezia 1999.

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Riferimenti bibliografici

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Watkin William, The Literary Agamben: Adventures in Logopoiesis, Continuum, London 2010. Worms Frédéric, La philosophie en France au XXe siècle: moments, Gallimard, Paris 2009. Wu Duncan, Hazlitt’s Unpublished History of English Philosophy: The Larger Context, «The Library», 7, 1, 2006, pp. 25-64. Zabala Santiago (a cura di), Weakening Philosophy: Essays in Honour of Gianni Vattimo, McGill-Queen’s University Press, Montreal 2007. Zanardi Stefania, Umanesimo e umanesimi. Saggio introduttivo alla storiografia di Eugenio Garin, Franco Angeli, Milano 2019.

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Zanfi Caterina, National Philosophy and Human Genius. An Introduction to Bergson’s Essay on French Philosophy, «Philosophical Inquiries», 1, 2014, pp. 191-198. Zeller Eduard, Geschichte der deutschen Philosophie seit Leibniz, Oldenburg, München 1873. Zenko Franjo, O ideji (hrvatske) nacionalne filozofije u Alberta Bazale, «Prilozi za istraživanje hrvatske filozofske baštine», 14, 1-2, 27-28, 1988, pp. 109-126.

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Materiali IT

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Francesco Marchesi, Riscontro. Pratica politica e congiuntura storica in Niccolò Machiavelli Enrica Lisciani-Petrini e Giusi Strummiello (a cura di), Effetto Italian Thought Elettra Stimilli (a cura di), Decostruzione o biopolitica? Dario Gentili, Crisi come arte di governo Elettra Stimilli (a cura di), Teologie e politica. Genealogie e attualità Marco Assennato, Progetto e metropoli. Saggio su operaismo e architettura Antonio Montefusco (a cura di), Italia senza nazione. Lingue, culture, conflitti tra Medioevo ed età contemporanea Carla Benedetti, Manuele Gragnolati e Davide Luglio (a cura di), Petrolio 25 anni dopo. (Bio)politica, eros e verità nell’ultimo romanzo di Pier Paolo Pasolini Giacomo-Maria Salerno, Per una critica dell’economia turistica. Venezia tra museificazione e mercificazione Corrado Claverini, La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi

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Finito di stampare nel mese di maggio 2021 presso Print on web srl, Isola del Liri (fr) per conto delle edizioni Quodlibet

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