LA TEORIA POLITICA DEL BOLSCEVISMO

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Lo spazio politico l j

Hans Kelsen

LA TEOR"IA POLITICA DEL BOLSCEVISMO

e altri saggi di teoria del diritto e dello Stato

a cura di Riccardo Guastini

il Saggiatore

© il Saggiatore, Milano 1 9 8 1 I edizione : marzo 1 9 8 1

I saggi contenuti nel presente volume sono stati tradotti per concessione dei seguenti editori, nell' ordine : U niversity of California Press, Tulane Law Review D. Reidel Publishing Company.

Sommario

Introduzione di Riccardo Guastini

7

La teoria politica del bolscevismo. Un'analisi critica I. Anarchismo o totalitarismo ? II. Democrazia o dittatura di partito ?

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Il diritto come specifica tecnica sociale I giudizi d i valore nella scienza giuridica Diritto, Stato, e giustizia nella teoria pura del diritto Perché obbedire al diritto ? Che cos'è la teoria pura del diritto ? La derogazione

94 122 1 48 1 68 l 78 l 89

Orientamenti bibliografici

2 07

I nlroduzione

di Riccardo Guastini

1.

La figura di Kelsen l non richiede presentazioni per i giuristi. Per i non giuristi, qui basterà dire che Kelsen è stato probabilmente il piu grande studioso di diritto del Novecento. La c( teoria pura del di­ ritto » - cioè le sue idee intorno alla natura del diritto, dello Stato, della scienza giuridica -, a settant'anni dalla prima formulazione, non ha perduto attualità. Ciò per diverse ragioni. Anzitutto, Kelsen ha inciso molto in profondità, e forse in modo irreversibile, sugli at­ teggiamenti culturali dei giuristi, specie degli studiosi di diritto pub­ blico e di teoria generale. D'altro canto, tale influenza si è potuta esercitare, proprio perché il kelsenismo costituisce, per tanti versi, una sorta di razionalizzazione e sistemazione delle concezioni e dei metodi di lavoro elaborati dal pensiero giuridico nel corso dell'Ot­ tocento, e oggi ancora largamente impiegati da tutti o quasi i giuri­ sti dell' Europa continentale. Questo volume raccoglie sette scritti finora ignoti al lettore ita­ liano: un lungo saggio (originariamente un volumetto) sulla teoria politica del bolscevismo, accompagnato da sei saggi brevi di teoria del diritto e dello Stato. Lo scritto sulla dottrina politica bolscevi­ ca, in particolare, si inserisce a pieno titolo nel dibattito sul marxi­ smo e sul cosiddetto c( socialismo reale », che è oggi all'ordine del giorno non solo in Italia. Gli altri scritti offrono un panorama certo incompleto, ma abbastanza articolato dei temi e problemi della c( teoria pura », fino ad alcuni suoi sviluppi recenti. Naturalmente, una collezione di saggi non costituisce un libro unitario. Ma il lega­ me teorico profondo tra i vari aspetti del pensiero di Kelsen risul­ terà - credo - evidente al lettore. Sotto diverse angolazioni, Kel7

sen ribatte sempre sullo stesso chiodo : la separazione tra discorso scientifico sul diritto e lo Stato cosi come sono, e discorso politico sul diritto e lo Stato come devono essete. Il rigore di questa separa­ zione fa giustizia dello hegelismo, del marxismo, delle varie specie di giusnaturalismo, e tende alla fondazione di un modello « norma­ tivo » ma avalutativo di scienza giuridica e politica. Scopo di questa introduzione è presentare uno a uno i saggi qui raccolti, metterne in rilievo alcuni motivi di interesse teorico, chia­ rirne e problematizzarne alcune delle tesi centrali. 2.

La teoria politica del bolscevismo contiene un'esposIzione succinta della dottrina marxista dello Stato, e altresl un compendio delle cri­ tiche kelseniane contro di essa. Converrà chiarire, anzitutto, che il saggio di Kelsen ha carattere scientifico, non politico. Non si tratta della contrapposizione di un'ideologia a un'altra ideologia, ma della critica scientifica - avalutativa - sopra una falsa scienza, sopra un'ideologia travestita. Nell'introduzione, Kelsen si domanda se sia possibile una collaborazione internazionale tra rURSS e le demo­ crazie occidentali. Siccome il saggio porta la data sospetta del 1 94 8, e si conclude denunciando la natura definitivamente autocra­ tica e illiberale del regime sovietico, il lettore malizioso farà presto a trarre le sue conclusioni : è evidente, - dirà - Kelsen ha voluto spendere un voto in favore della guerra fredda, contro una possibile distensione, argomentando a partire dalla inconciliabilità dell'auto­ crazia russa con la democrazia occidentale. Tuttavia, questo lettore malizioso sbaglierebbe. Certo le convinzioni liberaI-democratiche di Kelsen non sono mai state in discussione, e anche in questo saggio risultano evidenti. Sono però egualmente fuori discussione le con­ vinzioni pacifiste e internazionaliste di Kelsen ; e queste sono cosi radicate da escludere che, dietro la veste scientifica, egli potesse avere nascoste intenzioni guerrafondaie 2.

3.

Il filo conduttore dei lavori di Kelsen sul marxismo è altresl il filo conduttore di tutta l'opera teorica, giuridica e politica, kelseniana. Intendo : la rigorosa distinzione tra ciò che è, e ciò che deve essere ; tra discorsi intorno alla realtà, e discorsi intorno a valori ; tra la de­ scrizione della realtà, e la valutazione di essa ; tra la spiegazione causale del mondo com'è, e la progettazione (o, in senso lato, pre­ scrizione) di un mondo ideale a venire ; tra il futuro probabile, e il futuro desiderato. Tutti gli studiosi di logica e di epistemologia, almeno da David Hume in avanti, distinguono due fondamentali modi di usare il (o due funzioni del) linguaggio. Il linguaggio può essere impiegato per formulare e trasmettere conoscenze e informazioni ; e può, invece, essere impiegato per guidare, dirigere, insomma modificare il com­ portamento umano. N ell'un caso, il discorso esprime proposizioni assertive, suscettibili di essere sottoposte a procedimenti di verifica­ zione o falsificazione. N ell'altro caso, il "discorso esprime prescrizio­ ni, comandi, suggerimenti, istruzioni, consigli, direttive, precetti, avvertimenti, norme, valutazioni, program!?i : cioè, in senso lato, proposizioni normative, né vere né false 3. E pacifico, per il pensie­ ro scientifico e metascientifico contemporaneo, che il linguaggio della scienza sia - debba essere, non possa non essere - linguaggio conoscitivo, verificabile (o falsificabile), e non debba contenere va­ lutazioni o prescrizioni" di sorta, pena, appunto, la fuoriuscita dal dominio della scienza. E come dire : la scienza deve essere libera da valori, wertfrei. Questo postulato fondamentale della metascienza contempora­ nea - la cc grande divisione » tra proposizioni conoscitive e propo­ sizioni normative - ha un corollario non meno importante, noto come c( legge di H urne »: non è logicamente possibile inferire pro­ posizioni normative da premesse conoscitive, e viceversa. Ecco la fallacia del giusnaturalismo, cui Kelsen dedica tante critiche : la pre­ tesa infondata di inferire norme (il diritto naturale) da fatti o de­ scrizioni di fatti (la natura, la scienza naturale) 4. Secondo Kelsen, sia il postu1�to, sia il corollario sono sistematicamente violati dal marxismo. E difficile dargli torto. 9

Il marxismo, da sempre, si presenta come scienza. Se tale fosse, dovremmo interpretare ad esempio la profezia storica del comuni­ smo come un discorso predittivo, sul modello delle previsioni che si fanno nell'ambito delle scienze naturali : date certe leggi naturali l, date certe condizioni c, si verificherà l'evento e '. Ma la profezia marxista non può essere interpretata in questo modo per diverse ra­ gioni 6. In primo luogo, che vi siano cc leggi naturali » dell'evolu­ zione storica in generale, è àlmeno dubbio. In secondo luogo, quella marxista è una profezia incondizionata : non specifica le condizioni alle quali si verificherà l'evento profetizzato, e, rispettivamente, le condizioni alle quali esso non si verificherà affatto. Una contropro­ va di questo punto, la si può vedere nella non-falsificabilità della profezia stessa. Ogniqualvolta un evento contraddice la previsione, il marxismo riesce a partorire dal suo seno una spiegazione ad hoc, atta a mostrare che, nonostante le cc apparenze », la profezia è do­ potutto confermata. In terzo luogo, l'evento profetizzato in questio­ ne non è un nudo fatto, come la caduta di un grave, ma un evento al quale i marxisti annettono un valore (un forte valore) positivo. Il comunismo, cioè, non si presenta solo come effetto ineluttabile di certe cause, che peraltro occorrerebbe specificare ; si presenta altresl come mèta, come fine, come valore appunto. Siamo fuori, dunque, dal discorso scientifico. Quel che è peggio : abbiamo un ideale etico-politico non dichiarato come tale, bensi travestito da previsio­ ne scientifica. Il marxismo è tanto dissimile dal discorso degli scien­ ziati, quanto somiglia invece al discorso degli ideologi giusnaturali­ stio Il giusnaturalismo pretende di derivare valori dai fatti naturali (la natura dell'uomo, la natura delle cose, ecc.), il marxismo dai fat­ ti storici. Sotto il profilo logico ed epistemologico non vi è differen­ za. 4.

L'altra importante critica epistemologica, mossa da Kelsen al mar­ xismo e allo hegelismo insieme, concerne la dialettica. La dottrina dialettica cela una duplice fallacia. I n primo luogo, il pensiero dia­ lettico mostra di considerare i conflitti materiali - due forze fisiche opposte o divergenti, due classi sociali in lotta - come altrettante IO

contraddizioni logiche. In secondo luogo, proprio per questo, il pensiero dialettico ammette le contraddizioni logiche, come spec­ chio fedele della realtà, anziché espungerle dal discorso. In altre pa­ role, esso aspira alla fondazione di una nuova logica, nella quale non valga il principio di esclusione delle contraddizioni. Ora, senza tanto qui argomentare, è abbastanza evidente che i conflitti ad esempio sociali non hanno nulla di logico, e proprio per ciò posso­ no essere descritti senza contraddizione logica. L'enunciato cc La classe operaia e quella capitalistica si contendono il plusprodotto » descrive un conflitto, ma non esprime alcuna contraddizione logica tra proposizioni (anche perché, fra l'altro, può essere inteso come esprimente una sola proposizione). D'altro canto, la cc logica » del­ la contraddizione non è una logica : non è logica alcuna. Date per vere due proposizioni contraddittorie (in senso tecnico : cioè due proposizioni che non possono essere vere entrambe), dalla loro con­ giunzione si può inferire - letteralmente - qualsivoglia altra pro­ posizione. Che logica è questa ? 7 La critica di Kelsen è impeccabile. Nondimeno, chi conosca a fondo i testi politici marxisti, può avere il dubbio che tanta insisten­ za sulla dialettica sia poco giustificata. I ntendo suggerire che l'ade­ sione al metodo dialettico hegeliano, che pure resta deprecabile, ab­ bia forse esercitato un'influenza scarsa, superficiale, pili che altro lessicale e stilistica, sulla dottrina propriamente politica del marxi­ smo. Ciò nulla toglie alla opportunità di criticare la fùosofia dialet­ tica dovunque si presenti. Soltanto, siamo qui nel campo della fùo­ sofia della conoscenza, pili che in quello della filosofia politica. 5.

Poco sopra ho osservato che il marxismo non è una teoria scientifi­ ca, ma è un'ideologia o dottrina politica. B ene : quale dottrina poli­ tica è ? Qual è il suo contenuto progettuale ? I due capisaldi di que­ sta dottrina, ben messi in rilievo da Kelsen, sono : la tesi della ditta­ tura proletaria, e la tesi dell' estinzione dello Stato. Senonché, come osserva Kelsen, ciascuna di queste tesi è presentata dai marxisti in modo contraddittorio, o almeno sommamente ambiguo. La c c ditta­ tura » proletaria è presentata come conquista della « democrazia », II

cioè come il suo opposto. L'estinzione dello Stato, inopinatamente, dovrebbe passare attraverso il suo massimo rafforzamento 8 (Kel­ sen non mostra di conoscere, però, il passo in cui StaI in teorizza questo punto). La realizzazione dell'anarchia passa attraverso la fondazione di uno Stato totalitario. A questo riguardo, si può forse aggiungere qualche osservazione, atta a completare le pagine di Kelsen. I n Italia, il dibattito degli ul­ timi anni ha messo in luce che « non esiste una dottrina politica marxista » 9. In che senso ? Qualcuno ha notato che l'ideologia marxista non è una dottrina dello Stato, proprio perché è una dot­ trina della sua estinzione: sullo Stato, essa non ha nulla da dire, poiché è tutta occupata a preconizzarne l'esaurimento e poi la defi­ nitiva scomparsa. Ciò è vero, naturalmente. Ma si può ulteriormen­ te osservare che il marxismo - o, almeno, il marxismo volgare ha programmaticamente escluso dal suo orizzonte di studio le istitu­ zioni, il diritto, lo Stato, in quanto « sovrastrutture ». Concependo, a seconda dei casi, la « sovrastruttura » come inutile e ininteressan­ te superfetazione della « base economica », o come distorsione del­ la « base », o senz'altro come vuota « apparenza fenomenica ». Certo è difficile aspettarsi una teoria o una dottrina dello Stato da una filosofia sociale, secondo cui lo Stato è una cosa secondaria, etero-determinata, « senza una propria storia indipendente » lO. 6.

Oggi è abbastanza pacifico, per la cultura politologica laica, che il marxismo classico poco ha detto, e poco aveva da dire, sullo Stato moderno e contemporaneo, sulle sue articolazioni istituzionali e giu­ ridiche. E anche molti studiosi, che pure ancora si richiamano gene­ ricamente al marxismo, cercano ormai la teoria dello Stato nell'ana­ lisi empirica delle organizzazioni pol�tiche esistenti, piuttosto che nella filologia dei sacri testi di M arx Il. Se il marxismo ha in genere dedicato scarsa attenzione all' analisi dello Stato com' è, avrà almeno progettato in dettaglio lo Stato ideale : la dittatura proletaria. Ma non è cosI. I discorsi dei marxisti al riguardo sono oscuri, sfuggenti, contraddittori ; e Kelsen vi insi­ ste con ragione. E vi è di pili : la stessa espressione « dittatura del I2

proletariato » è usata in modo intrinsecamente vago. Nel lessico marxista, il vocabolo (C dittatura » ha almeno tre significati 12. In una prima accezione, significa dominio di classe ; denota la supre­ mazia sociale complessiva di una classe ; e, come tale, non dice nulla sulle forme di organizzazione politica di tale supremazia. In una se­ conda accezione, (C dittatura » denota il dominio specificamente politico di una class e ; ma non è· chiaro come possa una classe nel suo insieme esercitare dominio propri�mente politico, che, in ultima analisi, significa prendere decisioni. (E estranea al marxismo qualsi­ voglia teoria delle élites e dei gruppi di pressione, come anche qua­ lunque analisi del decision making process negli Stati contemporanei. ) I n una terza accezione, (C dittatura » designa un esercizio dispotico, illiberale, del pot�re ; ma, nuovamente, nulla dice sulle sue forme di organizzazione. E facile concludere che lo slogan della (C dittatura proletaria » non prefigura alcuna struttura statuale, istituzionale, determinata. Proprio per questo, d'altronde, si è prestato e si presta a giustificare qualunque potere totalitario purchessia. 7.

N eanche la dottrina della estinzione dello Stato è esente da vaghez­ za e ambiguità 1 3. Kelsen, sia pure per criticarla, la accredita come dottrina univoca, ma sbaglia. Il vocabolo « Stato », anche nella let­ teratura marxista, ha diverse accezioni . In una prima accezione, si­ gnifica dominio politico di una classe senz' altra aggiunta. In una se­ conda, significa organizzazione coercitiva della condotta umana. In una terza, significa centralizzazione delle funzioni o decisioni politi� che e monopolizzazione dell'uso della forza. In una quarta, significa le funzioni politiche come tali. Ebbene, di che cosa esattamente do­ vremmo aspettarci l'estinzione ? Del dominio di classe ? D'accordo : ma è triviale teorizzare che in una società senza classi, quale dovreb­ be essere la società comunista, non deve esservi dominio di classe. O dobbiamo forse sperare nella scomparsa di ogni funzione politi­ ca, di ogni processo �ecisionale che comporti valutazioni, scelte, prescrizioni generali ? E quanto vagamente prefigurava Engels, con la formula della (C amministrazione delle cose », che dovrebbe sosti­ tuire il (C governo degli uominI ». È quanto teorizzano altri, va-

gheggiando uno « Stato non-politico ». Queste formtÙe non sem­ brano avere alcun senso compiuto. Si tratti di « governare » o di « amministrare », si tratti di « cose » o di « uomini », ogni gruppo sociale organizzato non può evitare di prendere decisioni generali, e in tal senso politiche. Chi dovrà prenderle, con quali procedure, en­ tro che limiti ? Secondo Kelsen, il quale attribuisce al marxismo l'univoco con­ cetto di Stato suo proprio (kelseniano), la dottrina in esame preco­ nizza il venir meno di ogni « macchina coercitiva », cioè di ogni or­ dinamento coercitivo relativamente centralizzato. Dal canto suo, egli poi ribatte che questa è un'utopia, cioè un progetto irrealizzabi­ le. Egli ha ragione, s'intende. Ma anche qui si può aggiungere qual­ che osservazione. L'ideale di una società senza Stato, come è spesso configurato dai marxisti, involge alcune implicazioni, che si sareb­ bero potute esplicitare. Alludo, ad esempio, al fatto che la società senza Stato dovrebbe, per forza di cose, essere una società intera­ mente omogenea, integrata, aconflittuale. Non soltanto una società omogenea dal punto di vista sociale, ovvero senza classi ; ma omo­ genea anche dal punto di vista etico, ideologico, politico 14. Per l'appunto : una società senza conflitti di sorta. Ebbene, questi valori sono visibilmente in contrasto con tutti i valori oggi accettati in Occidente. Inoltre, questi valori si prestano a essere utilizzati quali apologie o giustificazioni non già dell'anarchia, ma, al contrario, proprio degli Stati totalitari. La soppressione delle libertà fonda­ mentali e dei diritti politici non è Wla « distorsione » del social�­ smo, un c;� tratto illiberale » nel suo seno, come taluni pensano. E un coerente precorrimento dell'ideale perseguito. Libertà fonda­ mentali e diritti politici sono intrinsecamente funzionali al conflitto politico, sociale, ideale (e certo anche al « conflitto economico » , ovvero alla concorrenza d i libere iniziative economiche private). I n una società omogenea, senza conflitti, sono superflui. I n conclusio­ ne, l'ideale genericamente anarchico è forse in sé apprezzabile e condivisibile, in quanto valore specificamente politico ; tra l'altro, stÙ terreno della politica costituzionale, l'ideale anarchico ha. spesso risvolti pratici semplicemente liberali l'. Ma non facilmente condi­ visibili. sono i valori propriamente sociali, che nella dottrina marxi­ st� sono giustapposti all'anarchismo politico ; questi valori sociali

sono organici, in realtà, al totalitarismo, piuttosto che all ' anarchi­ smo. 8.

Ho lasciato per ultime le questioni della democrazia e del liberali­ smo, che per Kelsen sono il punto di partenza. Mi limito a un cen­ no, perché entrare nel merito dei problemi aperti richiederebbe uno spazio eccessivo 16. Con il vocabolo « democrazia » , Kelsen intende niente pili che una particolare « forma » di Stato, ossia un p�rticolare modo, o metodo, o procedura di produzione del diritto. E democratico quel modo di produrre il diritto, che è caratterizzato da autonomia o au­ todeterminazione. I n altre parole, si ha democrazia, allorché il dirit­ to è creato da quegli stessi individui che gli sono soggetti ; allorché creatori e destinatari delle regole giuridiche coincidono. Va da sé che nelle organizzazioni politiche moderne, il principio - diciamo cOSI « puro » dell' autodeterminazione è stato realizzato a prezzo di un processo di adattamento, modificazione e limitazione. Le due principali modificazioni sono : la tecnica della rappresentanza, e la regola di maggioranza. La rappresentanza limita il principio demo­ cratico di autodeterminazione al solo procedimento di formazione degli organi, che saranno poi direttamente competenti a creare il di­ ritto. La regola della maggioranza limita l'autodeterminazione (la cui pili coerente applicazione condurrebbe all'anarchismo), renden­ dola compatibile con resistenza di un ordinamento sociale ; a fon­ damento del principio maggioritario sta l'idea che un ordinamento sociale debba comunque esservi, e, se l'ordinamento sociale non può essere in accordo con tutti i suoi soggetti, sia almeno in accor­ do con quanti pili soggetti è possibile. Se la democrazia è una forma di Stato, il liberalismo è invece uno dei possibili contenuti dell'ordinamento statuale. È tanto pili li­ berale uno Stato, quanto meno esso invade la sfera di libertà dei suoi cittadini, quanto meno ne disciplina la condotta, quanto meno li fa destinatari di obblighi e divieti. Il modo di produzione del di­ ritto, qui, non ha alcuna importanza: un ordinamento giuridico da­ to può· essere più o meno esteso, più o meno invadente e oppressivo, -

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qualunque sia la procedura di creazione delle sue regole. Per invitare a guardare con atteggiamento problematico a queste tesi kelseniane, mi limito a sollevare due domande. Secondo il senso comune e il modo comune di esprimersi, perché vi sia democrazia l'ordinamento statuale deve avere anche certe caratteristiche di con­ tenuto : deve concedere ai cittadini taluni diritti di libertà, e tutelarli convenientemente. In tal senso, può esservi democrazia senza un certo grado di liberalismo ? D'altra parte, setnpre secondo il lin­ guaggio comune, è liberale uno Stato che abbia anche talune carat­ teristiche di struttura : tecniche di tutela delle libertà fondamentali, procedure di controllo dei cittadini sul potere. In tal senso, il libera­ lismo è solo questione di contenuto della regolamentazione o è an­ che questione di forma organizzativa dello Stato ? 9.

U no dei punti centrali nel saggio del 1948, Diritto, Stato, e giusti­ zia nel/I! teoria pura del diritto, è la determinazione del concetto di Stato. E istruttivo, anzitutto, vedere che cosa lo Stato non è. Se­ condo Kelsen, lo Stato non è una comunità di individui aventi inte­ ressi comuni. È anzi mistificatorio rappresentare come interesse co­ mune il legame che intercorre tra i cittadini di uno Stato. Costoro, in realtà, hanno interessi diversi e contrapposti ; tale rappresentazio­ ne ideologica giova semplicemente agli interessi dei dominanti, alla loro realizzazione e giustificazione. Secondo Kelsen, inoltre, lo Sta­ to non è una sorta di cc persona invisibile l). La dottrina dello Stato come persona, ovvero la personificazione dello S tato, è la creatura di un pensiero giuridico ancora primitivo, ispirato da ingenuo ani­ mismo : nella realtà empirica, non vi sono altre c( persone » che gli individui, i quali agiscono in nome dello Stato. Lo Stato non è nep­ pure il potere o l'autorità che sta c( dietro » al diritto. Taluni atti di individui sono considerati atti dello Stato, solo perché sono cOSI qualificati dal diritto ; sono atti produttivi di diritto, in quanto il di­ ritto stesso li prevede come tali, disciplinando la sua propria produ­ zione. Lo Stato, dunque, non è nulla di tutto ciò. Che cos'è ? Secon­ do la definizione stipulativa di Kelsen, lo Stato è l'ordinamento giuridico stesso, allorché raggiunge un certo grado di centralizza-

zione. Non vi è dualismo tra Stato e diritto : ogni Stato è (e non cc ha ») un ordinamento giuridico. Si può anche dire : lo Stato è una comunità, intesa come ragnatela di relazioni tra individui. Ma que­ ste relazioni sono appunto relazioni giuridiche, ossia relazioni deter­ minate dal diritto. Un certo numero di individui costituisce una co­ munità, solo in quanto il loro mutuo comportamento è disciplinato da uno stesso ordinamento normativo. Questa equazione del diritto (purché relativamente centralizzato' con lo Stato, a prima vista, può essere apprezzata sotto il profilo della opportunità politica e sotto quello della utilità scientifica. Dal punto di vista politico, è stato osservato, ad esempio, che la concezione kelseniana è particolarmente idonea a occultare, sotto la veste formale di un'asettica struttura normativa, i rapporti sociali di dominio-subordinazione, che costituiscono il vero contenuto del­ l'ordinamento statuale. Dissolvendo in rapporti giuridici i fenomeni di potere, - si è detto - il kelsenismo gioca una carta in favore del­ la dottrina (borghese) dello Stato . come tutore neutrale di interessi generali. Mentre lo Stato è attraversato da battaglie pratiche e da fratture politiche, l'ordinamento giuridico è da Kelsen configurato come unitario, completo, e coerente : con il risultato che ogni con­ flitto politico viene cancellato dall'orizzonte teorico del giurista 1 7 . Altri ha osservato, invece, che il formalismo kelseniano si presta a impieghi politici di segno garantistico. Se lo Stato è concepito co­ me regno della violenza, della dialettica amico-nemico, e simili, il diritto scade a c( mistificante copertura ideologica » dei rapporti di potere ; ogni Stato purchessia è configurato come strumento di op­ pressione in mano a una minoranza; la forma di governo diviene ir­ rilevante. Se, viceversa, lo Stato è concepito come ordinamento giuridico, ecco balzare in primo piano, valorizzate, le procedure for­ mali c( di contenimento e di controllo » del potere 18. Il fatto che la teoria di Kelsen si presti ad apprezzamenti politici cosi contrastanti è forse la prova migliore in favore della sua neu­ tralità politica, e, in tal senso, della sua scientificità. Quanto meno, abbiamo un forte indizio che essa si collochi per davvero là dove pretende di collocarsi : sul terreno scientifico, non su quello delle ideologie politiche 19. È dunque a questa stregua che la teoria kelse­ niana va soppesata. Vediamo.

10.

Per cominciare, si può osservare che lo Stato è suscettibile di studio scientifico sotto due distinti profili, con due diversi approcci. Da un lato, vi è r approccio - diremo - giuridico normativo, caratteristico, ad esempio, degli studiosi di diritto costituzionale. Dall'altro lato, vi è l'approccio politologico empirico, caratteristico degli studiosi di scienza politica. Una caratterizzazione un po' rozza dei due ap­ procci potrebbe essere la seguente. I giuristi si domandano che cosa prescrivano le regole di organizzazione del potere. I politologi si domandano chi, di fatto, eserciti il potere, con quali mezzi, e COSI avanti. I giuristi, piu che altro, analizzano il significato di documen­ ti normativi costituzionali. Gli scienziati politici compiono indagini empiriche sugli effettivi processi decisionali, e simili 20. Significativamente, questi due diversi approcci muovono da due distinte nozioni di « potere ». Anche nel linguaggio ordinario, « potere » ha due sensi. In senso fattuale, denota l'effettiva capa­ cità, l'essere in grado di fare alcunché, di conseguire un risultato. I n senso normativo, denota i l permesso, l a facoltà, i l diritto, l a compe­ tenza, o l'autorità di fare alcun ché : insomma denota una posizione soggettiva favorevole, vantaggiosa, attribuita da una regola. Nel­ l'un caso, l'enunciato « A ha il potere di fare b » esprime una con­ statazione di fatto. Nell'altro caso, lo stesso enunciato esprime una regola ; non constata, ma ascrive un potere. Ecco, dunque, che - in sede di scienza politica - « potere » significa, grosso modo, la pos­ sibilità di determinare intenzionalmente la condotta altrui ; talché Tizio ha potere su Caio, se vi è un certo grado (elevato) di probabi­ lità che Tizio ottenga un dato comportamento da Caio. In sede di dottrina giuridica, « potere » denota una situazione giuridica sog­ gettiva : una posizione istituita, in capo a un soggetto, dal diritto ; talché Tizio ha potere se, e solo se, una regola di diritto glielo con­ ferisce, indipendentemente dalla probabilità che Tizio di fatto rie­ sca a modificare il comportamento altrui (ad esempio, le prescrizio­ ni, che Tizio ha il potere legale di emanare, possono risultare sem­ pre inefficaci). Ebbene, è palese che la teoria dello Stato di Kelsen nasce sul ter­ reno della dogmatica giuridica, e ad essa è finalizzata. Senza dub18

bio, tale teoria è radicalmente inadatta, però, a fondare un'analisi empirica della politica. c( Da un punto di vista empirico, lo Stato non è che un insieme di rapporti di forza » ; mentre, per il giurista, c( non può essere che l'insieme delle leggi vigenti », dunque « forza qualificata dal diritto » 2 1. Si noti che Kelsen non nega legittimità scientifica allo studio empirico dello Stato (e del diritto). Egli pen­ sa, però, che la scienza politica empirica presupponga il concetto giuridico normativa di Stato (e che la sociologia giuridica presup­ ponga il concetto normativa di diritto). c( Non vi è alcun concetto sociologico dello Stato al di fuori del concetto giuridico »22. Que­ sta idea di Kelsen, palesemente, in almeno una delle sue possibili applicazioni è inacc�ttabile dal punto di vista scientifico. Facciamo un esempio banale. E noto che, in diritto italiano, i partiti politici benché menzionati dalla costituzione, e finanziati dallo Stato - non sono soggetti pubblici, ma sono soggetti privati ; non sono organi dello Stato, ma sono associazioni private (non riconosciute). Lo stesso può dirsi dei sindacati. Ora, un kelseniano conseguente, poli­ tologo di mestiere, nel ritagliare il suo campo d'indagine - il siste­ ma politico italiano -, dovrebbe, a rigore, escludere i partiti politici e i sindacati dal suo orizzonte di ricerca. Ciò sarebbe palesemente insensato. « La sociologia dello Stato - e, pili in generale, lo studio empirico dello Stato e della politica - deve occuparsi, e si occupa, dei rapporti di potere che condizionano e influenzano l'azione di governo, sia quando tali rapporti sono previsti dall' ordinamento giuridico, sia quando non lo sono » 2 3. 11.

Il saggio del 194 1 su Il diritto come specifica tecnica sociale può esse­ re considerato, nel suo insieme, come un'unica, complessa, defini­ zione esplicativa di « diritto ». I tratti principali di tale definizione sono due : (a) il termine c( diritto » denota un'organizzazione della forza, ovvero un insieme di regole, che prescrivono l'uso della forza da parte di certe persone, contro altre persone determinate, in con­ dizioni date ; (b) il termine c( diritto », pertanto, denota niente di pili che una tecnica di per sé neutra, adiafora, di direzione del com­ portamento.

La concezione del diritto come organizzazione della forza - al­ tri lo hanno già sottolineato - è nuova nella storia della cultura giuridico-politica. Nell'Ottocento si pensava, in genere, che il dirit­ to disciplinasse la condotta mediante regole, dette primarie, o di primo grado : cc Non uccidere » ; e che, inoltre, il diritto rafforzasse tali regole primarie, mediante ulteriori regole, dette secondarie, o di secondo grado : cc Se uccidi, sarai punito » . In questa concezione ottocentesca, la regola principale, la genuina regola giuridica, è la prima : cc Non uccidere ». La seconda - cc Se uccidi, sarai punito » - è soltanto sussidiaria : stabilisce una sanzione, allo scopo di assi­ curare l'osservanza della regola primaria 24. Le idee di Kelsen risultano rivoluzionarie rispetto a questa con­ cezione. Non : il diritto è garantito dalla forza, o dalla minaccia del­ la forza. Ma : il diritto è proprio ciò che disciplina la forza. Le rego­ le giuridiche non hanno la forma sintattica di regole primarie : cc Non uccidere ». Genuine regole di diritto sono proprio quelle se­ condarie : cc Se uccidi, sarai punito » ; anzi meglio, cc Se A uccide, allora B deve punire A ». La regola primaria, propriamente, non è una regola giuridica, ma è solo un frammento di regola giuridica: quel frammento che stabilisce la condizione (l'illecito) perché la san­ zione venga erogata dagli organi competenti. Senza la regola secon­ daria - che, non per nulla, Kelsen chiama cc primaria », contro la terminologia tradizionale -, non vi è diritto. Le regole che deter­ minano l'illecito (cc Non uccidere »), di per sé, non hanno nulla di specificamente giuridico: potrebbero benissimo appartenere a un ordinamento o a una dottrina morale. Ciò che fa giuridica una re­ gola, è la sanzione che essa stessa prescrive. Entro un ordinamento giuridico, la regola primaria cc Non uccidere » - che Kelsen degra­ da a cc secondaria » - può anche non essere espressa. Per il diritto, è necessario e sufficiente istituire la sanzione ; non occorre espressa­ mente vietare l'illecito. Questo modo di pensare kelseniano è un tentativo di rispondere alla seguente domanda : come si può distinguere il diritto da altri ordinamenti della condotta, quali la morale, il costume, ecc. ? Si tratta di un problema classico di filosofia giuridica, che Kelsen ha risolto in maniera elegante e, secondo alcuni, definitiva. La conce­ zione di Kelsen, tuttavia, non può essere considerata una soluzione 20

soddisfacente per altri ordini di problemi, o comunque soddisfacen­ te sotto altri profili. In questa sede, basterà osservare quanto segue. La definizione kelseniana di cc diritto », manifestamente, è modella­ ta sul diritto penale, cui Kelsen assimila tutti gli altri settori del di­ ritto : specialmente il civile. È lecito dubitare che questa assimilazio­ ne sia opportuna e feconda dal punto di vista conoscitivo. Senza dubbio, il diritto civile, il costituzionale, r amministrativo appaiono diversamente strutturati e altrimenti funzionanti rispetto al penale. Per una conoscenza dettagliata dei sistemi giuridici moderni, sem­ bra piu utile indagare sulle differenze tra i vari rami del diritto, che non ricondurre forzatamente ogni distinzione all'unità. 12.

Perché obbedire al diritto ?, si domanda Kelsen, cOSI intitolando un saggio del 1957. A questa domanda il giusnaturalismo risponde : si deve obbedire al diritto perché il diritto è giusto (e soltanto se il di­ ritto è giusto). Kelsen è un critico feroce del giusnaturalismo ; non crede che ogni diritto positivo sia, in quanto tale, giusto ; e, comun­ que, crede che le questioni di diritto (il diritto cOSI com'è) siano al­ tra cosa dalle questioni di giustizia (il diritto ideale o giusto). N on­ dimeno, egli ritiene che al diritto positivo si debba obbedire, in quanto esso sia diritto « valido ». Siamo di fronte, qui, a un nodo pres�oché inestricabile della teoria kelseniana : la nozione di cc vali­ dità ». Purtroppo, negli scritti di Kelsen, questa nozione non è una, ma trina. Proverò a fare luce sulla questione, a prezzo di qualche semplificazione 2 J. (I) In un primo senso generico, « validità » significa appartenen­ za a un ordinamento. Una norma è valida in un ordinamento giuri­ dico, se appartiene a esso. Ma questa appartenenza è questione di fatto, o questione di valore ? Il giu'dizio di validità è giudizio di fat­ to (proposizione conoscitiva), o giudizio di valore (proposizione normativa) ? Ecco dunque che questo primo senso di cc validità » ne genera altri due. (II) In un secondo senso, « validità » significa esistenza. Se una norma esiste, è valida ; se è valida, esiste. Ora, si noti, però : se vali­ dità è appartenenza a un ordinamento, una norma può esistere, e 21

tuttavia essere invalida (appartenere a un ordinamento altro da quello in discussione). Se, invece, validità è esistenza, una norma o è valida, cioè esiste, o non è una norma affatto, poiché non esiste. In questa seconda accezione, dunque, la validità non è una specifica qualità, che una norma possa possedere, o non possedere. Talché cc norma valida ( o esistente)) è espressione pleonastica per cc nor­ ma » senz'altra aggiunta. Ebbene : che una norma sia, non è alcun argomento in favore della obbedienza a essa 26. Ma supponiamo che, dopotutto, l'esistenza sia un predicato ; supponiamo che altro sia una norma, altro una norma esistente. La esistenza sembrerebbe comunque cosa fattuale, accertabile ; una pro­ posizi�ne che asserisse la validità di una norma, sembrerebbe vera o falsa. E quanto Kelsen teorizza espressamente in pili punti, tra l'al­ tro nel saggio su I giudizi di valore nella scienza giuridica. Disgrazia­ tamente, però, non si vede come sia possibile, dalla constatazione che il diritto esiste, derivare la prescrizione per la quale al diritto (esistente, valido) si deve obbedire. Kelsen, da . questo punto di vista, commette fallacia naturalistica. (III) In un terzo senso, cc validità » significa obbligatorietà. Una norma, se valida, è obbligatoria, vincolante : deve essere os�ervata. Qui, il giudizio di validità è palesemente una prescrizione. E allora logicamente corretto inferire, dalla validità, la obbligatorietà di una norma : più che di inferenza, si tratta di tautologia. Il diritto deve essere osservato, perché (allorché) deve essere osservato. Si no!i che, per Kelsen, una norma è una proposizione della forma cc "E obbligatorio a" ». Il ,giudizio di validjtà sopra una norma avrebbe dunque la forma: cc E obbligatorio "E obbligatorio a" ». Da que­ sto punto di vista, la validità è un'inutile duplicazione, iterazione, dell'obbligo già statuito dalla norma 27. E il discorso di Kelsen è comunque inconcludente. Vogliamo sapere perché si debba obbedi­ re al diritto. Non ci si può rispondere : cc Perché SI » . 13.

Vediamo ora un altro lato della medesima questione : la teoria della norma fondamentale, che attraversa un po' tutti i saggi kelseniani qui raccolti. Secondo Kelsen, il diritto è un sistema dinamico gerar22

chicamente ordinato. I n esso, le norme sono oggetto di un processo continuo di produzione normativa, e si dispongono su diversi gra­ dini. Ogni norma è valida, se è prodotta in conformità a un' altra norma di grado superiore, cioè se è prodotta da un organo autoriz­ zato da un'altra norma. Cosi, ad esempio, la norma individuale espressa da una sentenza sarà valida in quanto conforme alla legge ; una norma generale di legge sarà valida in quanto conforme alla co­ stituzione. Ma nel diritto positivo non vi sono, in ipotesi, norme di rango superiore a quello costituzionale. La costituzione è dunque invalida, non avendo a sua volta una norma superiore che la convalidi ? Kel­ sen risponde : no. La costituzione è valida in quanto conforme a una norma non positiva, che Kelsen chiama « fondamentale ». Questa norma - che convalida la costituzione e, perciò, l'intero si­ stema giuridico - non è « posta » da una qualche .. autorità legitti­ ma, ma è « presupposta » nel pensiero dei giuristi. E una presuppo­ sizione necessaria, perché, senza di essa, non esisterebbe (non sareb­ be valido) alcun diritto, e quindi nemmeno sarebbe possibile una scienza giuridica. La norma fondamentale è condizione di validità del diritto, e altresi condizione di possibilità della scienza del diritto positivo. Questo punto è forse il pili controverso del pensiero di Kel­ sen 28. Davvero i giuristi presuppongono una norma fendamentale, come Kelsen vorrebbe ? Francamente, non sembra : è p iuttosto raro che i giuristi si interroghino sulla validità della costituzione. Vero è che i giuristi considerano - aproblematicamente - valida la costi­ tuzione : ma, cosi facendo, pili che presupporre una norma giuridi­ ca, professano un'ideologia politica. Palesemente, non i giuristi pre­ suppongono, ma secondo Kelsen dovrebbero presupporre questa norma. Ma a quale fine esattamente, visto che di solito essi ne fan­ no tranquillamente a meno ? E poi, per Kelsen, solo le norme positi­ ve valide sono norme. Ebbene, che norma è mai questa, che non è post� da chicchessia, e non è convalidata da alcuna norma superio­ re ? E davvero una norma, o non piuttosto la constatazione di un fatto : il fatto storico della instaurazione di un sistema giuridico­ politico, cui arbitrariamente si attribuisce valore ? E, se è una n�r­ ma, che cosa prescrive ? Prescrive l'obbedienza incondizionata alla

costituzione ? Oppure prescrive l'obbedienza alla costituzione solo in quanto questa sia (già) osservata, efficace ? Queste e mille altre obiezioni sono state mosse alla teoria kelse­ niana su questo punto : non è il caso, qui, di approfondirle. Si osser­ vi, però, quanto segue. Dice Kelsen : la norma fondamentale è (e presupposta » . In che senso ? Si noterà che « presupporre » ha due diverse sfumature di significato, a seconda che si parli di ipotesi scientifiche o, invece, di norme o valori. Altro è (( presupporre », nel senso di postulare, un'ipotesi teorica, per poi sottoporla a proce­ dimenti di verificazione o falsificazione. Altro è approvare (o accet­ tare) un valore ultimo, che, come tale, non è suscettibile di argo­ mentazione razionale, e in tal senso appunto può solo essere (e pre­ supposto ». È chiaro che l'accettazione di valori etico-politici non ha nulla a che vedere con l'assunzione di postulati scientifici. Se la scienza giuridica ha da essere una scienza, può benissimo procedere a postulare le ipotesi che meglio le convengono (e sempre che ne abbia necessità), salvo poi confermarle con l'osservazione e la speri­ mentazione. Ma tali ipotesi non sono norme. S e, diversamente, la scienza giuridica si fonda sulla accettazione o approvazione di nor­ me, allora cessa di comportarsi come scienza, e diviene una precetti­ stica morale. 14.

Le questioni di fondazione della scienza del diritto - specie della sua autonomia di oggetto e della sua avalutatività - sono presenti in tutti i saggi di Kelsen. Il diritto - egli dice - è insieme di nor­ me. Le norme sono altro dai fatti, e non sono riducibili a fatti. Dunque la scienza giuridica deve vertere su norme, non su fatti. A prima vista, la tesi è convincente. I n un certo senso, Kelsen ha ragione a insistere che le norme (giuridiche) non possono essere ri­ dotte a fatti. Il fatto (l'atto) di una decisione parlamentare produce norme, ma non è esso stesso una norma. I documenti legislativi esprimono norme, ma non sono norme. Le norme, insomma, non sono atti o documenti (linguistici), ma significati di atti e documen­ ti. Ma è proprio vero che i significati non sono fatti ? Si possono

configurare i significati come entità indipendenti dai fatti (atti o do­ cumenti) che li esprimono ? Di ciò è lecito dubitare. E, se i significa­ ti normativi non sono fatti, ma valori, sono tuttavia suscettibili di conoscenza ? Vi è qualcosa di conoscibile oltre i fatti, altro dai fat­ ti ? Si pensa di solito che i valori o norme possano essere oggetto non di esperienza e conoscenza, ma solo di adesione e fruizione emotiva. Questo, - sia chiaro - lo pensa anche Kelsen per quanto riguarda i valori morali e politici. Egli crede tuttavia che si possano conoscere i valori giuridici. La tesi, secondo la quale si possono co­ noscere valori o norme, implica il seguente corollario : la proposi­ zione per cui il comportamento a è obbligatorio, è una proposizione conoscitiva, vera o falsa. Questo modo di pensare si, chiama cogni­ tivismo e, nella cultura giuridica, giusnaturalismo. E una dottrina contro cui Kelsen ha combattuto tutta la vita. Su questo punto, dunque, egli è in contraddizione con se stesso. Perché mai i valori giuridici dovrebbero essere ( oggettivi », o almeno ( piu » oggetti­ vi dei valori morali ? 15.

La teoria di Kelsen è tutta tesa a configurare un modello ( normati­ vo » di giurisprudenza. Lo si è già visto a proposito della scienza dello Stato. La giurisprudenza, a suo avviso, dovrebbe domandarsi non che cosa effettivamente accada nel mondo, ma che cosa ( deb­ ba » accadere. È ovvio che la risposta a tale domanda non può non assumere la forma sintattica : ( Deve accadere a ». Questo enuncia­ to, però, inteso alla lettera, esprime una proposizione non conosciti­ va, bensl normativa, che, come tale, non ha titolo per entrare in un discorso scientifico. È questa la contraddizione insolubile del pen­ siero di Kelsen : egli ha insistentemente teorizzato la scientificità della giurisprudenza ; tuttavia non è mai riuscito a configurare la giurisprudenza altro che come discorso normativo, non conosciti­ vo 29. Si noti che, in tal modo, Kelsen non ha inventato un nuovo mo­ dello di giurisprudenza, ma semplicemente si è limitato a fornire una (dubbia) base filosofica alla giurisprudenza esistente, 'cioè alla

« scienza » giuridica COSI come è effettivamente praticata dai giuri­ sti moderni (specie europei continentali). Ora, a onor del vero, in questa pratica scientifica non vi è nulla di male. I giuristi fanno cer­ to un lavoro socialmente utile. Un lavoro non solo conoscitivo, ma anche conoscitivo : essi interpretano documenti normativi, specie le­ gislativi. Le leggi sono vaghe e ambigue, ammettono una pluralità di interpretazioni : i giuristi scelgono una interpretazione a preferen­ za di altre. Questa scelta è - in quanto scelta - cosa politica, non cosa strettamente scientifica. In tal senso, i discorsi dei giuristi non sono riducibili a pura conoscenza 30. Tuttavia, essi collaborano alla conoscenza delle leggi : il loro lavoro, dicevo, è anche conoscitivo. N ondimeno, anche dopo questo riconoscimento dovuto, occorre ammettere due cose. In primo luogo, occorre ammettere che la giu­ risprudenza, COSI intesa, non ha alcuna parentela con i modelli epi­ stemologici delle scienze empiriche, che molti considerano (non a torto) le scienze tout (ourt. In secondo luogo, occorre ammettere contro Kelsen - che quanto meno un altro tipo di giurisprudenza è possibile : una giurisprudenza empirica, anziché normativa 3 1. Una giurisprudenza che non prescriva - interpretando e riecheggiando le prescrizioni legislative - come gli uomini devono comportarsi, ma che si limiti a rilevare e constatare fatti : è stata approvata la tale legge, con il tale tenore letterale ; essa tende a risolvere il tale con­ flitto di interessi ; essa ha i tali e talaltri significati possibili ; di fatto è stata interpretata COSI e ·COSI dalla tale corte ; di fatto i cittadini si comportano nel tale modo ; e COSI avanti.

16.

È forse opportuno chiarire, per concludere su questo punto, che tut­ ta questa discussione sulla scienza giuridica, benché sia prevalente­ mente teorica (metascientifica), cela anche qualche aspetto politico. Che devono fare i giuristi ? Prendere conoscenza, descrivere im­ parzialmente fatti osservabili, quali : il comportamento (linguistico) dei legislatori, dei giudici, la condotta sociale dei cittadini, e simili ? O devono, invece, farsi altrettanti megafoni, propagandisti delle Erescrizioni di legge e, in generale, della obbligatorietà del diritto ? È chiaro che una scienza giuridica empirica, emettendo enunciati 26

fattuali, del tipo « Il legislatore prescrive questo e questo ; i cittadi­ ni si comportano cOSI e cOSI », non esercita alcuna influenza diretta sopra la condotta. Si limita a informare su ciò che accade nel mon­ do. Diversamente, la giurisprudenza teorizzata da Kelsen - ed ef­ fettivamente praticata da quasi tutti i giuristi - emette enunciati del tipo (( I cittadini devono comportarsi cOSI e cOSI ». Essa non infor­ ma, o non informa soltanto, ma itera e amplifica le prescrizioni legi­ slative, e tende cOSI a influire sul comportamento. Quest'ultimo tipo di giurisprudenza si astiene - SI - dal valuta­ re se il diritto vigente sia giusto o ingiusto, come vuole Kelsen, ma di fatto si atteggia come se considerasse obbligatoria qualunque norma vigente purchessia, indipendentemente dalla sua intrinseca giustizia. Beninteso, queste osservazioni valgono per un giurista kelsenia­ no, SI, ma disinteressato, accademico. Il lavoro dei giuristi pratici, al servizio di un cliente, sia esso un privato o la pubblica ammini­ strazione, in nèssun caso ha a che vedere con la scienza. 17.

L'ultimo saggio della racc?lta, La derogazione, merita qualche paro­ la di presentazione a sé. E un saggio molto tecnico, di non facile lettura, che discute alcuni sottili problemi di teoria del diritto, i qua­ li possono risultare oscuri, o sembrare futili, al lettore non speciali­ sta 32. I sistemi giuridici contemporanei - tutti, senza eccezioni, credo - sono frutto di una produzione normativa (per lo pili, ma non so­ lo, legislativa) molto diluita nel tempo. Cioè si sono venuti forman­ do in modo alluvionale, entro situazioni politiche ed istituzionali as­ sai mutevoli ; sono frutto non di una, ma di molte politiche del di­ ritto confliggenti, che si sono succedute e sovrapposte in tempi e contesti diversi. In ogni settore di relazioni sociali, a un dato momen­ to interviene una nuova disciplina normativa, che talora cancella esplicitamente la disciplina previgente, talora si aggiunge a essa, la­ sciandola in vita, o la integra, o vi apporta eccezioni e correzioni. In queste condizioni di crescita caotica dei sistemi giuridici, è inevi­ tabile che essi presentino al loro interno conflitti tra norme : secon-

do una norma il comportamento a è vietato, secondo un'altra lo stesso comportamento a è permesso ; una norma fissa a dieci anni di reclusione una certa pena, un' altra norma la riduce a cinque anni ; e cOSI avanti. Questa situazione tende a mettere in crisi uno dei dogmi su cui è fondato lo Stato di diritto. Si vuole che, nello Stato di diritto, il po­ tere di « fare » il diritto sia rigidamente distinto e separato dal po­ tere di « applicare » il diritto. Il potere di produrre norme è così ri­ servato a certi organi, detti legislativi, che sono elettivi e dunque soggetti a (blando) controllo politico di tipo democratico. I giudici, dal canto loro, non devono produrre norme, ma solo applicare mec­ canicamente il diritto preesistente, che si assume coerente, comple­ to, e quindi certo. L'attività dei giudici è pensata come « esecuti­ va » ; perciò essi sono organizzati come un ceto burocratico, cui si accede per concorso, e che non è soggetto a controllo politico 3 3 Ma : che dire se a una stessa controversia risultano applicabili con­ temporaneamente due norme confliggenti? Sembra chiaro che, in tali casi, il diritto non sia certo per nulla. Sembra chiaro che i giudi­ ci - non potendo applicare contemporaneamente le due norme debbano compiere una scelta, in senso lato politica, tra gli interessi in gioco : debbano, insomma, comportarsi come legislatori. Ebbene, nel saggio su La derogazione, Kelsen studia appunto i conflitti tra norme. Si noti che, per risolvere tali conflitti, la giuri­ sprudenza ha elaborato - in un lavoro pitl che secolare - alcuni cri­ teri standard : « la norma posteriore deroga a quella anteriore » , « l a norma speciale deroga a quella generale », « l a norma gerar­ chicamente superiore deroga a quella inferiore ». Nell'opinione dei giuristi, questi metodi di soluzione dei conflitti sarebbero principi logici : principi di una peculiare logica inerente al diritto 34. Anche per il diritto, in particolare, sarebbe valido il principio logico di non-contraddizione. Ora, per far valere dei principi logici, non oc­ corre che vi sia un legislatore a prescriverlo o a consentirlo. La logi­ ca vale sempre e comunque, e varrebbe anche se un legislatore stra­ vagante pretendesse di vietarne l'uso. Dunque, è compito della scienza giuridica, di volta in volta, chiarire quale, tra due norme confliggenti, sia la norma applicabile. Allo rché il legislatore « dero­ ga » a una norma previgente, anche senza abrogarla espressamente, •

è sufficiente fare uso della logica per sapere che la nuova norma de­ ve essere applicata, e la vecchia disapplicata. In tal modo, il conflit­ to tra norme scompare, la lacerazione è ricomposta. Il giudice deve solo impiegare la logic�, e può quindi risolvere la controversia sen­ za compiere alcuna scelta politica. Kelsen, per lungo tempo, ha condiviso l'opinione che la logica si applichi al diritto. Ancora nel saggio Che cos'è la teoria pura del di­ ritto ( 1 960), sostiene che due norme confliggenti sono logicamente contraddittorie, e quindi non possono essere entrambe valide. Nel saggio La dero gazione ( 1 962), egli muta decisamente avviso. I con­ flitti tra norme, lungi dall'essere logicamente impossibili, di fatto esistono, e sono anzi frequenti. La scienza giuridica, secondo lui, deve e può solo prenderne atto : non può, né deve, arrogarsi il com­ pito di risolverli,. almeno fino a che intenda comportarsi come scienza. Risolvere i conflitti è compito, che non può essere assolto in sede scientifica, mediante la logica ; è compito, che solo il legisla­ tore può e deve assolvere, mediante norme positive : atti di volontà, dunque, non di conoscenza. Ma - pensa Kelsen - una norma, la quale corregga o modifichi una norma precedente, non risolve il conflitto, anzi lo instaura. Perché il conflitto sia risolto, occorre una terza norma : una norma « derogatoria », ossia una norma che espressamente abroghi una delle due norme confliggenti (o entram­ be). N el lessico consueto dei giuristi, è c( derogatoria » una norma, che costituisca abrogazione parziale di un'altra norma, o che costi­ tuisca limitazione della sfera di validità di un' altra norma. Ma, per Kelsen, non può esistere una cosa come un' abrogazione cc parzia­ le ». Nel suo lessico, dunque, « derogazione » è sinonimo di « abrogazione », che significa annull a mento (totale) della validità di una norma. Ma, appunto, non si abroga una norma semplice­ mente emanando una nuova disciplina dello stesso rapporto. Cosi facendo, si istituisce un conflitto tra norme. Per abrogare la prima norma, occorre una norma ad hoc, la quale si riferisca non a quel dato rapporto, ma proprio alla norma che si intende abrogare.

Note

I Hans Kelsen nacque a Praga nel 1 8 8 1 . Insegnò nell'università di Vienna dal 1 9 1 1 al 1 9 3 0. Collaborò in modo decisivo alla redazione della costituzione austriaca. In seguito, divenne membro della Corte costituzionale austriaca. Dal 1 9 3 0 al 1 9 3 3 insegnò nell'università di Colonia. Dovette poi lasciare la Germa­ nia all'avvento del nazismo. Dopo una permanenza a Ginevra e a Praga, nel 1 940 si trasferi negli Stati Uniti. Qui, insegnò dapprima nella Harvard Law SchooI. e poi a Berkeley fino al 1 9 5 1 . In quell' anno si ritirò dall'insegnamento. Mori nel 1 97 3 . Devo avvertire che le note di questa introduzione sono ridotte all'essenziale. Per ulteriori approfondimenti si vedano però, infra, gli Orientamenti bibliografici. 2 Il pacifismo di Kelsen è evidente anche in sede propriamente teorica, nella sua concezione dei rapporti tra diritto statuale e diritto internazionale. Cfr. i ca­ pitoli sul diritto internazionale delle sue opere maggiori : ad es. La dol/rina pura del diril/o, Torino 1 966, cap. VII. � Nella vastissima letteratura su questo tema, cfr. ad es. R.M. H are, The Language of Morals, London 1 9 5 2 ; trad. it. Il linguaggio della morale, Roma 1 9 6 8; A. Ross, Directives and Norms, London 1 9 68 ; trad. it., Direttive e norme, Milano 1 9 7 8 . 4 Anche s u questo punto l a letteratura è sterminata. Cfr. a d es. W.D. Hud­ son, a cura di, The Is-0ught Question, London 1 9 69 ; La logica e il dovere eSJere, fascicolo monografico della c( Rivista di filosofia », 1 9 76, n. 4, a cura di U. Scarpelli. l Cfr. ad es. C.G. H empel, The Function of Generai LawJ in HiJtory, 1 942, ora in H . Feigl, W. Sellars, a cura di, Readings in Philosophical Ana/ysiJ, New York 1 949. 6 Cfr. K. R. Popper, The Open Society and 1ts EnemieJ, The High Tide ofPro­ phecy: Hegel, MatX, ani the Afiermath, London 1 945 ; trad. it., La società aperta e i suoi nemici, voI. Il, Hegel e Marx falsi profeti, Roma 1 97 4 ; Id., Conjectures and Refutations, London 1 969 ; trad. it . Congel/ure e confutazioni, Bologna 1 9 72, voI. Il; spec. il saggio c( Previsione e profezia nelle scienze sociali »; Id., The Po­ verty of HiJtoriciJm, London 1 9 44; trad. it., MiJeria dello storiciJmo, Milano 197 5. 7 Su tutto ciò, cfr. K. R. Popper, c( Che cos'è la dialettica ora in Congel/ure .

»,

30

Il ; R. Guasti ni. Sulla dialmica. Rivista di filosofia L. Colletti . IntervÌJta politico-filoJofica. Bari 1 97 4 : Id . . Tra marxi­ .1"1110 e no. Bari 1 97 9 : Id . . Tramonto dell 'ideologia. Bari 1 9 80 : R. Guasti ni. El1ge/J rÌJciacquato in Tamigi. Materiali per una storia della cultura giuridica 1 9 80. n. 1 . 8 Cfr. J.V. Stalin. Bilancio del primo piano quinquennale in QueJtioni del leninÌJmo. Roma 1 9 5 2 . I l ed . . spec. pp. 486-48 7 . Su ciò. cfr. R. Guasti ni. I due poteri. Bologna 1 97 8. spec. pp. 1 2 1 ss. 9 Cfr. spec. AA.VV .. II marxÌJmo e lo Stato. Quaderni di Mondo ope­ raio n. 6. Roma 1 97 6 . Ma anche R. Miliband. MarxÌJm and PoliticJ. Oxford 1 97 7 : trad. it. MarxÌJmo e democrazia borgheJe. Bari 1 9 7 8 . IO Alludo a due noti passi di Marx ed Engels. L 'ideologia tedeJca. in Opere complete. Roma 1 9 5 8 . voI . v. EP. 2 2 . 7 7- 7 8 . I l Cfr. ad es. R. Miliband. The State in Capitali.a Society. London 1 96 9 : trad. it. Lo Stato nella Jocietà capitalÌJtica. Bari . 1 97 0 : J. q·Connor. La cri.ri fi­ Jcale dello Stato. trad. it. Torino 1 9 7 7 : AA. VV. . Teorie Jullo Stato capitali.rtico. a cura di G. Gozzi e V. Romitelli, Trento 1 9 7 7 : C. Offe, Lo Stato nel capitali.rmo maturo, Milano 1 9 7 7 : AA. VV. , La democrazia vanificata, a cura di R. Guasti­ ni. Milano 1 979. 12 Cfr. R. Guastini. « Note sparse su M arx e il diritto da un punto di vista analitico n, in Problemi della Janzione - Società e dirillo in Marx, Atti del XII Congresso nazionale della società italiana di filosofia giuridica e politica ( Ferra­ ra. ottobre 1 9 7 8), a cura di R. Orecchia. I l vol.. Roma 1 9 79. spec. pp. 1 1 4 ss. I � Cfr. D. Zolo, La teoria comunista dell 'estinzione dello Stato. Bari 1 9 7 4 ; R. Guastini, Sulla estinzione dello Stato. Un approccio analitico, in « Politica del dirit­ to n. 1 97 7 , n. 1 -2 . 1 4 È estremamente significativa al riguardo l a dottrina gramsciana dell'ege­ monia. Cfr. L. Ferrajoli, D. Zolo. Democrazia autoritaria e capitali.rmo maturo. Milano 1 97 8 . spec. pp. 1 1 2 ss. I I Cfr. R. Guastini. Che cos 'è il garanti.rmo. in « Critica del diritto n. 1 9 80. n. 1 6- 1 7 . 16 I saggi piu im portanti di Kelsen in tema di democrazia sono raccolti nel voI. I fondamenti della democrazia e altri saggi. Bologna 1 970. I I I ed. 1 7 Cfr. la relazione e la replica di G. Tarello. e l'intervento di R. Guastini. in II dirillo come ordinamento - Informazione e verità nello Stato contemporaneo. Atti del X Congresso nazionale della società italiana di filosofia giuridica e politica ( Bari. ottobre 1 9 7 4). a cura di R. Orecchia. Milano 1 976. 1 8 Cfr. D. Zolo. Recensione di H. Kelsen. Socialismo e Stato, in « Quaderni fiorentini per la storia del pensiero gi uridico moderno » 1 9 79. n. 8, pp. 3 8 2 ss. 1 9 Cfr. H. Kelsen. Lineamenti di dOllrina pura del dirillo. Torino 1 9 5 2 . rist. 1 967, prefazione. 20 Sul versante del!' analisi giuridica dei sistemi politici. oltre la letteratura propriamente costituzionalistica. si p uò vedere M. Duverger. I sistemi politici. trad. it. Bari 1 97 8. Sul versante della politologia. oltre le classiche opere di A. F. Bentiey. H. D. Lasswell. D. Easton. e.cc.. cfr. ; A ntologia di scienza politica. a «

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cura di G. Sartori, Bologna 1 97 0 ; Teorie e metodi in scienza politica, a cura di J. e. Charlesworth, Bologna 1 9 7 1 ; G. Sartori, La politica, Milano 1 9 79. 2 1 A. Passerin d'Entrèves, La dottrina dello Stato, Torino 1 96 7 , I l ed., pp. 3 0, 8 . I O. 22 H . Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano 1 9 5 2 , p. 1 9 3 . B M . Stoppino, Potere politico e Stato, Milano 1 96 8 , p . 247. 24 Cfr. spec. N. Bobbio, Diritto e forza, 1 96 5 , ora in Id., Studi per una teoria generale del diritto. Torino 1 97 0, e la letteratura ivi citata. 2 ' In tema di validità, cfr., U. Scarpelli, Cos 'è il positivismo giuridico, Milano 1 96 5 ; A. G. Conte, « Validità », in Novissimo digesto italiano, voI. xx, Torino 1 9 7 5 ; R. Guastini, Introduzione alla parte quinta di Problemi di teoria del diritto, a cura di R. Guastini, Bologna 1 9 8 0 ; Id., « Convalidazione », in Dizionario critico del diritto, a cura di C. Donati. Roma 1 980. 2 6 Cfr. G. E. Moore, L 'esistenza è un predicato ?, trad. it. in I d., Saggi filosofi­ ci, Milano 1 97 0 ; inoltre i saggi di D. F. Pears e J. Thomson, in P. F. Strawson, a cura di, Philosophical Logic, London 1 96 7 . 2 7 Cfr. S. Munzer, Legai Validity, The H ague 1 97 2 . 2 8 Pressoché tutti gli studi s u Kelsen si occupano del problema. Cfr. infra, gli

Orientamenti bibliografici. 2 9 Cfr. N. Bobbio. Essere e dover essere nella scienza giuridica, 1 96 7 . ora in Id., Studi per una teoria generale del diritto, cit. ; anche Id., c c Scienza giuridica tra esse­ re e dover essere in Studi in onore di Francesco Santoro Passarelli. voI. V I , Na­ » ,

poli 1 97 2 . 30 Cfr. G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, Bologna 1 97 4 ; inoltre Pro�lemi di teoria del diritto, cito 31 A questo proposito vanno richiamate le tesi del cosiddetto realismo giuri­ dico : per una bibliografia, cfr. Problemi di teoria del diritto, cito 32 Sugli stessi temi. cfr. anche H . Kelsen, « Diritto e logica » . in Problemi di teoria del diritto. cito In proposito si vedano i lavori di A. G. Conte e M. G. Lo­ sano citati infra, negli Orientamenti bibliografici. B Cfr. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. 1. Assolutismo e co­ dificazione del diritto, Bologna. 1 97 6 ; Anche N. Bobbio. Il positivismo giuridico. a cura di N. Morra. Torino 1 97 9. Il ed. 34 Cfr. N. Bobbio. Sui criteri per risolvere le antinomie, 1 964. ora in Id .. Studi per una teoria generale del diritto, cit. ; G. Tarello. L 'interpretazione della legge. Mi­ lano 1 9 80.

La teoria pol itica del bolscevismo e altri ••ggi di teoria del dlriHo e dello Stato

La teoria pol itica del bolscevismo. U n'analisi c ritica·

I ntroduzione

La partecipazione congiunta alle Nazioni Unite dell'Unione Sovie­ tica e delle potenze occidentali - partecipazione imposta loro dalla Carta dell'ONU - ha creato il seguente problema : stante la diffe­ renza dei rispettivi sistemi politici, è possibile tra l'Unione Sovietica e le potenze occidentali una cooperazione all'interno di un'organiz­ zazione internazionale relativamente centralizzata? Coloro che giu­ stamente considerano tale cooperazione come condizione fonda­ mentale della pace mondiale, cercano talvolta di occultare la diffi­ coltà di fondo, affermando che la differenza in questione non è es­ senziale. Sia il sistema politico dell'Unione Sovietica, sia quelli delle potenze occidentali - essi dicono -, sono sistemi democratici ; sem­ plicemente, il sistema sovietico rappresenta una nuova forma di de­ mocrazia. Alcuni si spingono fino a sostenere che la forma di gover­ no sovietica sia un tipo di democrazia migliore, pili perfetta, dal momento che - a differenza delle democrazie capitalistiche - garan­ tisce la sicurezza sociale. Il regime sovietico, pili di ogni altro sistema politico, è legato a un'ideologia politica, che esso utilizza come strumento intellettuale per la sua giustificazione. E nessun altro regime ha tanto urgente bi­ sogno di giustificazione, quanto la dittatura totalitaria del bolscevi­ smo. La sua ideologia è la filosofia sociale di Marx ed Engels nel­ l'interpretazione di Lenin e Stalin. Al centro di questa fùosofia vi è una teoria politica, secondo la quale lo Stato, come ordinamento *

The Political Theory o[ Bolshevism. A Criticai Analysis, Berkeley and Los

Angeles, University of California Press, 1 948.

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CoerCItiVO, è necessario solo alla conservazione dello sfruttamento capitalistico, e quindi è destinato a scomparire con l'instaurazione del socialismo. Marx ed Engels predissero la scomparsa di ogni or­ dinamento coercitivo come effetto automatico dell'instaurazione del socialismo entro un singolo Stato. Poiché la predizione eviden­ temente non si avverò in U nione Sovietica, Lenin e Stalin furono costretti a modificare la dottrina originaria rinviando la scomparsa dello Stato al momento della realizzazione del socialismo su scala mondiale. Secondo la nuova dottrina, soltanto lo Stato socialista mondiale può scomparire, e di fatto scomparirà. Dal momento che questo evento non può essere atteso a breve scadenza, occorre tanto pili insistere sul carattere provvisorio della macchina coercitiva mantenuta in Unione Sovietica. Anche uno Stato totalitario può es­ sere tollerato dal popolo, come stadio transitorio sulla via di una soci � tà libera, specialmente se la dittatura è raffigurata come demo­ crazIa. Questo studio si propone di mostrare la contraddizione parados­ sale del bolscevismo, che si dibatte tra anarchismo teorico e totali­ tarismo pratico, e di difendere la vera idea di democrazia, contro il tentativo di metterla da parte e deformarla presentando una ditta­ tura di partito come libera autodeterminazione politica di un popo­ lo libero. Con particolarç enfasi, ho dimostrato che lo slogan delle due democrazie - una democrazia fo�male politica, e una democra­ zia sostanziale economica è falso. E in gioco qualcosa di pili che una disputa terminologica. Il tentativo russo di instaurare il sociali­ smo attraverso la rivoluzione e la dittatura di un partito comunista, ha trovato un rivale nell'impresa del popolo inglese di raggiungere lo stesso risultato per via di evoluzione ed entro una vera democra­ zia nel senso tradizionale della parola. La concezione della demo­ crazia, dunque, implica la scelta tra due processi radicalmente diver­ s}, dai quali forse dipenderà il destino dell'umanità. -

I. Anarchismo o tota litarismo?

1 . Il concetto di Stato

La teoria dello Stato involge due ordini di problemi, e perciò ri­ chiede due diverse discipline. Un primo approccio considera lo Sta­ to come fenomeno della realtà sociale : lo Stato come effettivamente è, lo Stato storico. L'altro approccio considera lo Stato come og­ getto di valutazione : lo Stato come dovrebbe o non dovrebbe esse­ re, lo Stato giusto o ingiusto. Dal punto di vista della prima disci­ plina menzionata, possiamo domandare : che cosa è lo Stato ? Qual è la sua essenza, la sua origine, la sua struttura, e quali sono le sue funzioni essenziali ? A queste domande si può rispondere sulla base di uno studio comparativo dei fenomeni sociali chiamati Stato, benché gli Stati siano molto diversi in differenti periodi storici ed aree geografiche. Alla fine di tale studio, lo Stato può essere definito come un or­ dinamento sociale, cioè un sistema di regole che disciplinano il mu­ tuo comportamento degli individui. Tale ordinamento risulta carat­ terizzato dal fatto che è un ordinamento coercitivo, ossia cerca di ottenere la condotta wnana desiderata, predisponendo atti coerciti­ vi come sanzioni per la condotta contraria. , Ciò significa che questo ordinamento è un ordinamento giuridico. E un ordinamento relati­ vamente centralizzato. Istituisce organi speciali per la creazione e r applicazione delle sue regole, specialmente un potere esecutivo centralizzato a disposizione di un organo che ha carattere di gover­ no. Questo governo deve essere indipendente, e r ordinamento coercitivo da esso applicato deve essere effettivo sopra un dato ter­ ritorio. È abituale caratterizzare lo Stato come una comunità, anziché 37

come un ordinamento. Ma lo Stato come comunità è costituito pro­ prio dal « suo » ordin�mento coercitivo, non è un' entità distinta da questo ordinamento. E anche abituale personificare la cOlnunità, o l'ordinamento che la costituisce, e parlare di essa come di una per­ sona che agisca. Ma lo Stato agisce solo attraverso quegli individui che sono suoi organi : gli individui autorizzati dall'ordinamento a creare e applicare le sue regole. 2. La restrizione della libertà

Poiché ogni ordinamento sociale che disciplini il mutuo comporta­ mento degli individui, e tanto pili un ordinamento coercitivo, inevi­ tabilmente costituisce una restrizione della libertà ; e poiché la li­ bertà è considerata un valore fondamentale nella vita sociale, abi­ tualmente si distinguono gli ordinamenti coercitivi chiamati Stati secondo il grado di restrizione della libertà, che essi impongono agli individui loro soggetti. La restrizione della libertà individuale può essere giudicata con due distinti criteri : da un lato, il modo in cui sono create e applicate le regole dell'ordinamento statuale ; dal­ l'altro, l'estensione dell'ordinamento statuale, ossia la misura in cui le regole dell'ordinamento disciplinano la vita umana. È minima la restrizione della libertà individuale, ed è massimo il grado della li­ bertà individuale stessa, allorché : primo, le regole dell'ordinamento coercitivo sono create e applicate dalle stesse persone, la cui con­ dotta è regolata (autonomia) ; secondo, l'estensione dell' ordinamen­ to coercitivo è limitata quanto pili è possibile, cosicché il mutuo comportamento degli individui è regolato soltanto fin dove ciò è necessario alla prot�ione di interessi vitali, come la vita e la pro­ prietà (liberalismo). E massima la restrizione della libertà individua­ le, ed è minimo il grado della libertà individuale stessa, allorché : primo, coloro che sono soggetti all'ordinamento sono esclusi dalla sua creazione e applicazione, e queste funzioni sono riservate a un singolo o a un gruppo relativamente piccolo di individui, che giuri­ dicamente o di fatto non sono soggetti all'ordinamento (eterono­ mia) ; secondo, l'estensione dell'ordinamento è in linea di principio illimitata, cosicché il mutuo comportamento degli individui è rego-

lato in ogni possibile aspetto della vita umana, specialmente della vita economica e culturale (statualismo o totalitarismo). La nazio­ nalizzazione della produzione economica - quintessenza del sociali­ smo di Stato - è un modo caratteristico di espandere la estensione dell'ordinamento statuale in direzione del totalitarismo. 3. I l concetto di democrazia

Non è indispensabile combinare i due criteri (il modo in cui l'ordi­ namento statuale è creato e applicato, e l'estensione dell' ordinamen­ to statuale). Il primo criterio si riferisce alla forma dello Stato, il se­ condo al suo contenuto ; e la differenziazione tra forma e contenuto serve anzitutto a esprimere la reciproca indipendenza dei due crite­ ri. Un ordinamento statuale può corrispondere al principio di auto­ nomia, e avere al tempo stesso carattere totalitario ; può avere carat­ tere eteronomo, e al tempo stesso la sua estensione può corrisponde­ re al principio del liberalismo. La distinzione tradizionale tra due forme fondamentali di governo - democrazia e autocrazia - si riferi­ sce (non solo, ma) principalmente al primo criterio : il modo in cui l'ordinamento statuale è creato e applicato, la forma dello Stato. I n una certa misura, l a distinzione si riferisce anche a l secondo criterio : l'estensione dell'ordinamento statuale, che riguarda il contenuto del­ lo Stato. Uno Stato è democratico, se i poteri legislativo ed esecuti­ vo sono esercitati dal popolo direttamente, in un'assemblea popola­ re, o indirettamente, per mezzo di organi eletti dal popolo a suffra­ gio universale ed eguale. Il piu alto grado di autonomia, il requisito dell'unanimità per la creazione e applicazione dell'ordinamento, equivale all'anarchia ; perciò, il principio di maggioranza negli orga­ ni collegiali rappresenta ..il massimo di autonomia possibile entro un ordinamento sociale. E questo un elemento essenziale della for­ ma di governo chiamata democrazia, che è la realizzazione politica del principio di autonomia o autodeterminazione. Questo principio è compatibile tanto con il liberalismo, quanto con lo statualismo : una democrazia può essere uno Stato liberale­ capitalistico, socialista, o anche totalitario, ed un' autocrazia può avere a sua volta carattere liberale o totalitario. Tuttavia, il concet39

to usuale di democrazia include, come elemento essenziale di questa forma di governo, certe limitazioni imposte ai poteri legislativo ed esecutivo. Inoltre, la costituzione deve garantire ai cittadini libertà di coscienza, di parola, di stampa, e soprattutto libertà di associa­ zione. La formazione di partiti politici e la loro partecipazione alla vita politica nazionale (soprattutto alle elezioni degli organi statua­ li) non deve essere impedita o limitata da atti legislativi od esecuti­ vi. La possibilità, giuridica e di fatto, che vi siano pitl partiti politici è una condizione cosi vitale per la democrazia, che uno Stato a par­ tito unico - anche se la sua costituzione dovesse rispondere a tutti gli altri requisiti della democrazia - sarebbe molto pitl remoto da questa forma di governo di uno Stato, la cui costituzione restringes­ se il diritto di voto a una minoranza della popolazione. Secondo il significato generalmente accettato della parola, una democrazia ri­ chiede che l'idea di libertà sia realizzata non solo positivamente, cioè con la partecipazione diretta o indiretta al governo di tutti i cittadini, ma anche negativamente, cioè assicurando le libertà essen­ ziali, la pitl importante delle quali è la libertà dei partiti politici. L'autocrazia, d'altro canto, è caratterizzata non solo dal fatto che la massa del popolo è esclusa da ogni partecipazione al governo, ma anche dall'assenza delle libertà essenziali, specialmente della libertà di formare partiti politici. Il tipo moderno di autocrazia - che in tempi passati prendeva la forma di tirannia, dispotismo, monarchia assoluta - è la dittatura di partito. 4. Teoria

cc

pol itica

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e teoria della politica

L'analisi delle varie forme di ordinamento statuale, specie delle for­ me di governo democratica e autocratica, e r esame del contenuto tipico dell'ordinamento statuale, specie dei principi del liberalismo e dello statualismo, sono il compito di una teoria politica come scien­ za dello Stato. N ella misura in cui tale disciplina si limita a descri­ vere, classificare, e spiegare i fenomeni menzionati, cosi come la scienza naturale fa con le piante e gli animali, essa ha carattere di scienza pura. Come lo scienziato naturale, anche lo scienziato politi­ co, il teorico dello Stato, guarda all'oggetto della sua scienza dall'e4°

sterno, e registra imparzialmente ciò che vede, come se non vi fosse personalmente coinvolto. Le sue affermazioni non implicano alcun giudizio di valore intorno alla democrazia e all'autocrazia, al libera­ lismo e allo statualismo. Non è compito di una teoria scientifica dello Stato determinare se una particolare forma di Stato, o una parti�olare estensione dell 'ordinamento statuale, sia buona o catti­ va. E invece funzione di una vera scienza dello Stato analizzare, comprendere, e spiegare la forma o l'estensione dell'ordinamento statuale. I giudizi di valore, in contrasto con le affermazioni intorno alla realtà, hanno carattere puramente soggettivo. Si basano sui no­ stri desideri e sulle nostre paure, cioè sull'elemento emotivo della nostra coscienza. S ono validi solo per il soggetto giudicante, poiché non sono verificabili nei fatti. In ciò, essi differiscono essenzialmen­ te dalle affermazioni oggettive, che descrivono e spiegano la realtà : affermazioni basate sull'elemento razionale della nostra coscienza. La valutazione è certo una condizione essenziale dell'azio n e. Nessu­ na azione è possibile senza una previa valutazione. Ma razione rap­ presenta un atteggiamento totalmente diverso dalla descrizione e spiegazione scientifica. L'azione è il nocciolo della politica. Ma, per preservare il suo carattere oggettivo, la scienza deve essere separata dalla politica ; e ciò è possibile, soltanto eliminando dalla scienza ogni giudizio di valore soggettivo. Ciò vale soprattutto per la scien­ za dello Stato inteso come fenomeno della vita politica. La scienza dello Stato è una teoria ( politica », solo in quanto ha come ogget­ to un fenomeno politico. Essa è possibile, senza usare (a sproposito) una pretesa teoria scientifica dello Stato come strumento di lotta politica. La teoria dello Stato rinuncia al suo carattere scientifico, e diviene parte di un'attività politica, se, invece di· descrivere e spie­ gare lo Stato come fenomeno della realtà sociale, esprime giudizi di valore intorno a esso. I problemi relativi al valore dello Stato come tale, delle sue varie forme, dei suoi vari contenuti, devono essere determinati da una disciplina a carattere non scientifico : una teoria politica nel senso specifico del termine.

5. Il valore dello Stato

Poiché tali problemi comportano giudizi di valore (che, per loro na­ tura, hanno carattere soggettivo), non fa meraviglia che non vi sia accordo tra i pensatori politici al riguardo : accordo non vi è mai stato e non vi sarà mai. Vi sono e sempre vi sono stati pensatori, se­ condo i quali lo Stato è il bene supremo ed è un'esigenza assoluta di civiltà. E vi sono altri che dichiarano lo Stato un male, il male so­ ciale par exce//ence ; costoro, di conseguenza, pretendono che lo Sta­ to sia abolito e sostituito da una società libera, cioè priva di Stato. Quest'ultima è la dottrina dell'anarchismo. 5 . 1 . Lo statua/ismo : He ge/ Tipico protagonista della dottrina che difende uno statualismo radicale, fu il filosofo tedesco Hegel. La sua interpretazione della storia si risolve in una deificazione dello Stato. Secondo la sua filosofia l , tutto ciò che esiste è razionale, ( Tutto il Reale è razionale », ma lo Stato è ( assolutamente razio­ nale ». È la ( realizzazione dell'idea etica o dello spirito etico » . Deriva dalla natura dello Stato che ( esso abbia il pili alto diritto sopra l'individuo, il cui pili alto dovere è di essere, a sua volta, membro dello Stato ». La qualità di membro dello Stato implica obbedienza incondizionata verso l'autorità statuale stabilita. L'indi­ viduo, dice Hegel, esiste solo attraverso lo Stato : ( ha la sua vera, reale esistenza ed eticità solo in quanto membro dello Stato». Se­ condo una concezione religiosa del mondo, la natura è una manife­ stazione di Dio ; ma, secondo H egel, lo Stato è la manifestazione consapevole di Dio. La natura è solo una manifestazione inconscia, e quindi incompleta, di Dio. ( Lo Stato è lo spirito che vive nel mondo e in esso si realizza consapevolmente ; mentre nella natura è realizzato solo come altro da sé o come spirito dormiente. Solo quando [ lo spirito divino ] è presente nella coscienza, e conosce se stesso come oggetto esistente, allora esso è lo Stato 2 ». Da un pun­ to di vista razionalistico, lo Stato esiste solo nella mente degli indi­ vidui che adeguano la loro condotta all'ordinamento sociale chia­ mato Stato, e non è un'entità reale al pari delle cose fisiche. S econ­ do H egel, invece, lo Stato ha una realtà persino pili oggettiva di quella della natura fisica, poiché è la realizzazione dello spirito asso-

luto nel regno della coscienza. Dice Hegel : ( Lo Stato è l'ingresso di Dio nel mondo ; il suo fondamento o causa è il potere della ra­ gione che realizza se stessa come volontà ». Ogni Stato, quale che sia, partecipa della divina essenza dell'idea : l'I dea, ( questo Dio vi­ vente ». « Lo Stato non è prodotto d'artificio » ; solo la ragione di­ vina poteva produrlo. ( La nazione come Stato è lo spirito [ divi­ no ] sostanzialmente attuato e direttamente reale. Dunque è la po­ tenza assoluta sulla terra 3 ». Ciò significa : lo Stato è Dio in terra. 5 . 2 . L'anarchismo : Marx ed Eng,els Altri pensatori, ad esempio il francese Pierre Joseph Proudhon, i russi Michail Aleksandrovic Ba­ kunin e Petr Alekseevic Kropotkin, il grande Lev Tolstoj rispon­ dono alla questione del valore dello Stato in senso negativo. Sono esponenti dell'anarchismo teorico, il quale proclama che l'ordina­ mento coercitivo dello Stato è la fonte di tutti o quasi tutti i mali sociali, e che una società libera, ossia priva di Stato, è possibile e desiderabile. È molto significativo che la piu importante delle dot­ trine anarchiche sia stata sviluppata su una base filosofica che è solo una lieve variante della filosofia hegeliana della storia, proprio da un allievo di Hegel, Karl Marx. Secondo la dottrina di M arx e del suo amico Engels 4, lo Stato è per sua propria natura una macchina coercitiva, la cui funzione è conservare il dominio di un gruppo (il gruppo degli individui che posseggono i mezzi di produzione, la classe capitalistica) sopra un altro gruppo (costituito da coloro che non partecipano alla proprietà dei beni chiamati capitale, la classe proletaria sfruttata). Lo Stato è un'organizzazione coercitiva intesa a conservare l'oppressione di una classe da parte di un'altra. Il siste­ ma capitalistico, e con esso lo Stato come istituzione sociale, scom­ parirà con l'instaurazione rivoluzionaria del socialismo, cioè con l'a­ bolizione della proprietà privata e la socializzazione dei mezzi di produzione. Lo Stato ( si estinguerà ». La futura società socialista sarà priva di Stato, sarà una società, il cui ordinamento verrà pre­ servato senza impiegare la forza. Ciò sarà possibile, poiché l'ordina­ mento sociale soddisferà naturalmente gli interessi di tutti, cosicché nessuno sarà indotto a violare l'ordinamento. Ma questa condizio­ ne ideale dell'umanità non può essere instaurata immediatamente dopo che la rivoluzione sociale abbia abolito il capitalismo. Tra lo 43

Stato capitalistico e la società comunista senza Stato vi sarà una fa­ se intermedia, la dittatura del proletariato, che è il risultato della ri­ voluzione proletaria. La dittatura del proletariato sarà uno Stato con un vero governo, e differirà dallo Stato capitalistico solo in quanto lo scopo di tale macchina coercitiva sarà non conservare, ma distruggere lo sfruttamento di una classe su un' altra. N el suo libro L 'origine della famiglia, della proprietà privata, e dello Stato, Engels dice : Dunque lo Stato non è affatto un potere imposto sulla società dall'esterno : tanto meno è cc la realtà dell'idea etica, l'immagine e la realtà della ragione », co­ me sostiene H egel. Esso è piuttosto un prodotto della società a un particolare stadio di sviluppo : è la confessione che questa società si è avviluppata in una con­ traddizione insolubile. ed è dilaniata da antagonismi inconciliabili, che è impo­ tente a esorcizzare. Ma, affinché questi antagonismi, queste classi con interessi economici confliggenti non dissolvano se stesse e la società in una sterile lotta, è divenuto necessario un potere, apparentemente al di sopra della società. che mo­ deri il conflitto, e lo riconduca nei limiti dell'« ordine » : e questo potere, nato dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e si estrania sempre piu da essa, è lo Stato [ . , . ] . Lo Stato. poiché è sorto dal bisogno di controllare l'antagonismo di classe, ma è anche sorto dal cuore della lotta fra le classi, è normalmente lo Stato della classe economicamente dominante, che per mezzo di esso diviene an­ che politicamente dominante, e acquisisce cosi nuovi mezzi per soggiogare e sfruttare la classe oppressa ' .

Ne l suo libro Anti-Duhring, Engels descrive il modo in cui lo Stat.o scomparirà : Il proletariato si impadronisce del potere statuale, e trasforma i mezzi di pro­ duzione in proprietà di Stato. Ma, cosi facendo. sopprime se stesso in quanto proletariato : sopprime tutte le differenze e tutti gli antagonismi di classe ; soppri­ me altresi lo Stato in quanto Stato. La società precedente, poiché si muoveva nell'antagonismo di classe, aveva bisogno dello Stato, cioè di un'organizzazione della classe sfruttatrice che, in ogni periodo, conservasse le condizioni esterne della produzione. [ . . . ] Non appena non vi sia piu alcuna classe sociale da tenere in soggezione : non appena siano stati aboliti, insieme con il dominio di classe e la lotta per resistenza individuale fondata sulla precedente anarchia della produ­ zione, anche gli eccessi e le collisioni che nascono da essa, non vi sarà piu nulla da reprimere, e non sarà piu necessaria una forza speciale di repressione. Il primo atto, con cui lo Stato realmente si atteggia a rappresentante dell'intera società appropriandosi dei mezzi di produzione in nome della società -, è al tempo stesso il suo ultimo atto indipendente in quanto Stato. L'ingerenza di un potere statuale nelle relazioni sociali diviene superflua in una sfera dopo l'altra, e poi si assopi­ sce. Il governo sulle persone è sostituito dall'amministrazione delle cose e dalla

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direzione dei processi produttivi. Lo Stato non è « abolito », si estingue. È da questo punto di vista che dobbiamo valutare la locuzione « libero Stato popola­ re [ uno slogan del partito socialdemocratico tedesco l tanto la sua occasio­ nale giustificazione a sco p o agitatorio, quanto la sua definitiva inadeguatezza scientifica - e altresl la richiesta dei cosiddetti anarchici che lo Stato sia abolito dal giorno alla notte 6. )

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La differenza tra i teorici politici marxisti e i cosiddetti anarchici è tutta qui : questi richiedono l'abolizione dello Stato per mezzo del­ l'azione rivoluzionaria, mentre quelli predicono una scomparsa au­ tomatica dello Stato, dopo che la dittatura del proletariato (lo Sta­ to proletario) sia stata instaurata dalla rivoluzione socialista. Dal punto di vista dell'ideologia sociale,. marxismo e anarchismo coincidono. Infine, ne L 'origine della famiglia, della proprietà privata, e dello Stato di Engels, compare l'affermazione spesso citata : Lo Stato dunque non è esistito dall'eternità. Vi sono state società che ne han­ no fatto a meno, che non avevano alcuna nozione dello Stato o del potere statua­ le. A uno stadio definito dello svilupp o economico, che necessariamente compor­ ta la divisione della società in classi, lo Stato diviene necessario a causa di tale di­ visione. Ora ci stiamo rapidamente avvicinando a uno stadio nello sviluppo della produzione, in cui l'esistenza di queste classi non solo cessa di essere una neces­ sità, ma diviene positivamente un ostacolo alla produzione. Esse scompariranno inevitabilmente cosi come sono nate. Lo Stato inevitabilmente scompare con es­ se. La società, che organizzerà la produzione in modo nuovo, sulla base dell'asso­ ciazione libera ed eguale tra i produttori. metterà l'intera macchina dello Stato nel posto che le spetta : nel museo delle antichità. vicino al filatoio e all'ascia di bronzo 7 .

5. 3 Il bolscevismo : Lenin Questa dottrina è l'ideologia politica uf­ ficiale del bolscevismo. N ella letteratura socialista della fine del se­ colo XIX e dell'inizio del xx, la teoria marxista dello Stato - specie la sua tendenza rivoluzionaria e il suo obiettivo finale di una società anarchica - fu piu o meno ignorata o dimenticata. Il piu importante partito socialdemocratico del continente europeo, il partito social­ democratico tedesco, pur accettando la dottrina marxista, aderiva ad una politica evoluzionista, piuttosto che rivoluzionaria. Proprio contro questa « deformazione del marxismo » , V. 1. Lenin pub­ blicò nel 1 9 1 7 il suo famoso pamphlet, Stato e rivoluzione. Egli ac­ cusò gli c( opportunisti in seno al movimento operaio » di tentare di 45

affossare e distorcere il lato rivoluzionario dell'insegnamento di Marx, la sua anima rivoluzionaria n. Lo scopo del suo pamfhlet era « resuscitare i reali insegnamenti di M arx sullo Stato » . La dottrina marxista dello Stato, restaurata nell'interpretazione di Le­ nin, è stata incorporata nel Programma dell 'Internazionale comuni­ sta 9 : un'organizzazione, questa, la quale fu poco piu che uno stru­ mento del partito bolscevico russo, e fu attiva sino al suo sciogli­ mento formale, nel 194 3 . Il suo programma rifletteva la dottrina bolscevica dello Stato. Esso contiene le seguenti affermazioni : « Lo Stato, essendo l'incarnazione del dominio di classe, verrà meno con il venir meno delle classi, e con esso scomparirà ogni tipo di misura coercitiva n . Ma « fra la società capitalistica e quella comunista in­ tercorre un periodo di trasformazione rivoluzionaria, durante il quale l'una si trasforma nell'altra. Ad esso corrisponde un periodo intermedio di transizione politica, nel quale la forma di Stato è es­ senzialmente la dittatura rivoluzionaria del proletariato n . « Il trat­ to caratteristico del periodo di transizione nel suo complesso è la spietata repressione di ogni resistenza da parte degli sfruttatori, l'organizzazione della costruZione socialista, l'educazione in l1}assa di uomini e donne allo spirito del socialismo, e la graduale scompar­ sa delle classi. » « La conquista del potere da parte del proletariato è il rovesciamento violento del potere borghese, la distruzione del­ l'apparato statuale capitalistico (esercito, polizia, gerarchia burocra­ tica, giudici, parlamenti, ecc. della borghesia), e la sostituzione di esso con nuovi organi di potere proletario, che devono servire � rin­ cipalmente quali strumenti per la repressione degli sfruttatori 0 . n «

8. I l metodo dialettico

6. 1 Il metodo dialettico e la teologia della storia di Hegel La base intellettuale della dottrina dello Stato di Marx, come si è già detto, è la filosofia della storia di H egel, caratterizzata dal suo metodo dialettico. L'idea fondamentale di questa filosofia della storia è che la Ragione governi il mondo e, perciò, la storia mondiale I l . La « Ragione n, qui, implica la morale, le cui leggi « sono l'essenza del razionale n 1 2. La stessa idea è espressa dall'affermazione che la sto-

ria del mondo è c( il corso razionale necessario dello Spirito del mondo » l �. Lo Sp irito del mondo non è che la personificazione della Ragione. Tale personificazione è essenziale, poiché la storia del mondo è altresl la realizzazione della volontà dello Spirito del mondo. Le azioni degli individui e degli Stati, di cui consiste la sto­ ria, sono c( i mezzi e gli strumenti dello Spirito del mondo per con­ seguire il suo oggetto » 14 . E tutti gli uomini storici, nel perseguire i loro fini particolari, semplicemente eseg�iscono, senza saperlo, « la volontà dello Spirito del mondo » 1 1. E pressoché impossibile di­ stinguere la volontà dello Spirito del mondo dalla volontà di Dio. Come sottolinea H egel, l'idea che la Ragione governi il mondo è un' applicazione della c( verità religiosa » che il mondo non sia ab­ bandonato al caso, ma controllato dalla c( Divina Provvidenza », dalla c( Provvidenza di Dio ». Tale Provvidenza è c( Saggezza in­ vestita di Wl infinito Potere, che realizza i suoi fini, cioè il disegno razionale assoluto del mondo » 1 6. Come indagine sul corso dello Spirito del mondo nella storia, la filosofia hegeliana costituisce un deliberato tentativo di c( conoscere Dio », ed espressamente si pre­ senta come tale 17. Molto significativo è il motto dell'opera : c( La storia del mondo non è intelligibile prescindendo da un Governo del mondo ». La cosiddetta filosofia della storia di H egel è il mito dello Spirito del mondo ; non è una filosofia, è una teolo gia della storia. Questo fatto non può non influire sul carattere di tutto il si­ stema fùosofico e politico, fondato appunto sopra tale teologia del­ la storia. Elemento essenziale di una interpretazione teologica dei fenome­ ni è l'assunzione che Dio sia non solo trascendente, ma al tempo stesso anche immanente al mondo, che è manifestazione della Sua volontà. Poiché la Sua volontà è buona, è il valore assoluto, la realtà deve essere considerata perfetta. Il dualismo di realtà e valo­ re, la distinzione tra affermazioni intorno alla realtà e giudizi di va­ lore - COSI caratteristica del razionalismo scientifico - non può essere riconosciuta dalla teologia, la quale è costretta ad assumere che i valori siano inerenti alla realtà, e quindi a identificare ciò che c( è » con ciò che c( deve essere » . Questa opinione è il nocciolo della filosofia di H egel, per l a qua­ le la storia mondiale è la realizzazione della Ragione, che rappresen47

ta sia il valore logico sia il valore etico assoluti. Se questa assunzio­ ne è vera, allora ogni evento storico deve essere considerato opera dello Spirito del mondo, e come tale deve essere considerato razio­ nale e buono. Infatti, Hegel conclude la sua opera, affermando : « Ciò che è accaduto e accade quotidianamente non solo non è in­ dipendente da Dio, ma è essenzialmente opera Sua » 1 8 . Questa non è che un'altra e piu sincera formulazione della sua tesi piu cita­ ta : tutto il Reale è razionale, e tutto il Razionale è reale. Se Dio è immanente nel mondo, se il valore assoluto inerisce alla realtà, non vi è alcuna possibilità di giudicare un evento reale o uno stadio sto­ rico come migliore o peggiore di un altro ; e, se ogni cosa è per sua natura necessariamente buona, i giudizi di valore hanno perso qua­ lunque significato. Tuttavia, distinguere tra bene e male è il compi­ to principale della teologia, nella sua veste di etica ; ed è funzione specifica di una filosofia della storia distinguere, con giudizi di va­ lore, un evento O stadio storico da un altro. Senza tale distinzione, una fùosofia della storia è priva di significato. La teologia soddisfa il suo bisogno di distinguere bene e male, introducendo nella inter­ pretazione del mondo - a prezzo di incoerenza - il demonio, come antagonista di Dio. La fùosofia della storia di H egel consegue lo stesso risultato, assumendo che la realtà, cosi come si manifesta nel­ la storia mondiale, sia non perfetta, ma tuttavia sulla strada della perfezione. La storia mondiale è la progressiva realizzazione della Ragione. Tale progresso, che è il corso dello Spirito del mondo, è necessario, poiché la Ragione, come ( sovrano » del mondo, è in­ vestita di un ( potere infinito » 1 9. Dal momento che H egel presenta Dio come Ragione, e ciascuno può intendere per ragione ciò che egli ritiene giusto e desiderabile, la teologia della storia di H egel è piu flessibile della teologia cristia­ na ufficiale. Il suo carattere profondamente ottimistico, la sua tesi che la progressiva realizzazione di una condizione ideale per l'uma­ nità sia il risultato necessario dello sviluppo storico, deve essere la benvenuta per le credenze (fondate su desideri, piu che su fatti) di qualunque ideologia � olitica. Vi è conflitto tra l idea che Dio sia immanente alla realtà (e l'i­ dea conseguente che i valori siano immanenti alla realtà), da una parte, e la necessità di distinguere nella realtà il bene dal male, dal-

l'altra parte . Tale conflitto si presenta nella teologia come il proble­ ma della teodicea : il problema di come Dio, creatore onnipotente e assolutamente buono del mondo, possa com�ndare o permettere che vi sia il male nella natura e nella società. E questo il problema centrale della teologia. La filosofia della storia di H egel dimostra di essere una vera teologia della storia, pretendendo di offrire una soluzione a questo problema. H egel afferma : « Il nostro modo di trattare il soggetto [ la storia del mondo ] è, sotto �uesto aspetto, una teodicea : una giustificazione delle vie di Dio » o. E alla fine della sua opera, dove formula il risultato della sua fùosofia, con l'af­ fermazione già citata che tutti gli accadimenti sono opera di Dio, H egel, a proposito della sua tesi principale che la storia mondiale sia la realizzazione dello Spirito del mondo, dice : « Questa è la ve­ ra teodicea, la giustificazione di Dio nella storia » 2 1 . L'essenza del problema della teodicea è la contraddizione logica tra due proposi­ zioni, egualmente importanti per la teologia. L'una è la proposizio­ ne che Dio è assolutamente buono ; l'altra è la proposizione che la volontà di Dio è onnipotente, che nulla può accadere se non per vo­ lontà divina, e che quindi, se vi è il male nel mondo, cosi deve esse­ re per volontà di Dio. Fino a che si ritenga valida la legge logica di esclusione delle contraddizioni (fondamentale per una scienza su ba­ se razionalistica), una delle due proposizioni deve essere falsa. Per conciliare la sua metafisica religiosa, specie la sua teologia della storia, con la razionalità scientifica (cui egli non nega il diritto d'esistenza, assegnandole però nel suo sistema filosofico solo una posizione comparativamente subordinata rispetto alla teologia), H egel deve inventare una nuova logica. Si tratta della logica sinte­ tica, in contrapposizione alla logica analitica. L'elemento pili caratteristico della nuova logica dialettica è l'eliminazione della legge di non-contraddizione, secondo la quale due proposizioni contraddittorie non possono essere entrambe vere. Hegel cerca di farci credere che la vecchia logica, escludendo la contraddizione, commetta un errore fondamentale. Non solo la contraddizione non è un vizio del pensiero, ma anzi « il pensiero speculativo consiste proprio nel fondarsi sulla contraddizione e nel contraddirsi esso stesso 2 2 » . « Se in una cosa può mostrarsi una contraddizione, ciò di per sé non è, per cosi dire, una mancanza, una colpa, o una ver49

gogna. Al contrario, ogni determinazione, ogni concreto, ogni con­ cetto è una unione di . . . momenti contraddittori... Le cose finite . . . sono i n s é contraddittorie 2 3 » . Interpretando come contraddizione la relazione tra due forze che operano in direzione opposta, Hegel proietta la contraddizione dal pensiero alla realtà. N ella natura e nella società esistono due forze che in uno stesso momento determi­ nano movimenti in direzioni opposte, e il loro riswtato è un terzo movimento in una nuova direzione. Allo stesso modo, nel pensiero, due proposizioni contraddittorie non si escludono a vicenda, ma come tesi e antitesi - producono, a un piu alto livello, la sintesi : os­ sia r u�ità, in cui la contraddizione è risolta, cioè superata e conser­ vata. E la contraddizione che mette in movimento sia le cose, sia il pensiero. « Il movimento è la contraddizione in sé es!stente 24. » La contraddizione è il principio dell'automovimento. E una legge del pensiero e, al tempo stesso, una legge degli eventi. L'assunzione che una legge del pensiero possa, a un tempo, esse­ re anche una legge degli eventi è fondata, in wtima analisi, sul pre­ supposto che i valori etici e i valori logici ineriscano alla realtà, che lo Spirito operi negli eventi storici, che il Reale sia razionale. L'ipo­ tesi metafisica alla base della fallacia fondamentale della dialettica hegeliana è questa : r identificazione del rapporto tra forze opposte nella realtà esterna con il rapporto tra proposizioni contraddittorie nel pensiero. N ella natura e nella società, il rapporto tra due forze opposte, la cui riswtante è un movimento determinato, non ha nulla a che fare con una contraddizione logica. I fenomeni in questione possono, e devono, essere descritti da affermazioni non contraddit­ torie, in piena conformità ai principi della vecchia logica. Ma è pre­ cisamente questa fallacia della dialettica hegeliana, che anche Marx ha adottato nella sua dialettica. È vero che Marx dichiara : cc Il mio metodo dialettico è non solo differente da quello hegeliano, ma diametralmente opposto a esso. Per H egel, il processo vitale del cervello umano, cioè il processo del pensiero, che egli - sotto il no­ me di " Idea " - trasforma addirittura in soggetto indipendente, è il demiurgo del mondo reale, e quest'wtimo è solo la forma esterna, fenomenica, dell'" I dea ". Secondo me, al contrario, l'idea non è altro che il mondo materiale riflesso dalla mente wnana, e tradotto in forme di pensiero . . . In lui [ Hegel ] , essa [ la dialettica ] sta a te�o

sta in giu. Occorre ribaltarla, per scoprire il nocciolo razionale nella scorza mistica 2 � ». H egel è idealista, Marx materialista. Ma anche Marx, come Hegel, intende per dialettica l'evoluzione per via di contraddizione ; contraddizione, che anche Marx, come H egel, ri­ tiene inerente alla realtà sociale. L'assunzione che vi sia un c( carat­ tere contraddittorio » nell'evoluzione, e soprattutto nella società ca­ pitalistica, è un elemento essenziale del materialismo strico e dia­ lettico fondato da Marx 26 . Anche Marx, come Hegel, interpreta il conflitto nella lotta per la vita, l'antagonismo tra gruppi che hanno interessi opposti, e soprattutto la discrepanza tra forze produttive e modo di produzione, come altrettante contraddizioni logiche. An­ che Marx, come H egel, considera i valori inerenti alla realtà ; ma, a differenza di H egel, e con meno coerenza di Hegel, egli non identi­ fica essere e pensiero. Secondo Marx, la dialettica, come metodo di pensiero, « riflette » soltanto il processo dialettico che si svolge nel­ la realtà. Occorre usare il metodo dialettico, per afferrare la dialet­ tica della società. Ma, respingendo l'identificazione compiuta da H egel fra essere e pensiero, Marx 'si priva della sola possibilità di giustificare - almeno fino ad un certo punto - la fallacia consistente nell'identificare il rapporto tra opposte forze naturali e sociali con una contraddizione logica. Nulla può mostrare piu chiaramente la futilità del metodo dialet­ tico, quanto il fatto che esso rende capace H egel di valutare lo Sta­ to come un dio, e Marx di maledirlo come un demonio. Applican­ do questo metodo, l'uno afferma che la progressiva realizzazione della ragione, per mezzo della guerra, conduce necessariamente alla dominazione mondiale della nazione tedesca ; mentre l'altro predi­ ce, come risultato inevitabile dell'evoluzione storica, l'instaurazione per via rivoluzionaria della libera società del comunismo mondiale. Tali interpretazioni contraddittorie sono possibili, poiché questa fi­ losofia, ignorando il dualismo insormontabile di realtà � valore, di c( essere » (is) e c( dover essere » (ought), presenta quello che è un mero 'postulato politico come il risultato necessario dell' evoluzione, determinato da leggi oggettive, che necessariamente conducono da un livello culturale inferiore a uno superiore. Se la realtà effettiva non corrisponde al valore postulato (che si pretende inerente alla realtà), la realizzazione inesorabile di questo valore è trasferita nel

futuro. Qualunque situazione storica può essere interpretata COSI da farle rappresentare la tesi, o l'antitesi, o la sintesi, in conformità alle valutazioni politiche dell'interprete. COSI il metodo dial�ttico può soddisfare qualsivoglia credo politico.

6. 2 L'interpretazione staliniana del metodo dialettico Il fatto che il metodo dialettico possa essere utilizzato in vista di qualunque scopo politico spiega la sua straordinaria attrattività, la sua diffusione mondiale, paragonabile solo a quella della dottrina giusnaturalistica nel secolo X VI I I . Come il giusnaturalismo pretendeva di dedurre dal­ la natura i principi della giustizia, il metodo dialettico pretende di dedurre dalla storia la corretta azione politica. Hegel perveniva alla conclusione conservatrice che è dovere di ciascuno la sottomissione incondizionata all' autorità politica costituita. Condannava la dot­ trina di Rousseau, secondo cui l'autorità dello Stato è fondata su un contratto, cioè sul consenso degli individui. La condannava, perché essa conduceva alla rivoluzione, e cioè alla cc distruzione dell'assolu­ 7 to divino e della sua assoluta autorità e maestà 2 ». I marxisti cre­ dono invece che la storia ci imponga di fare la rivoluzione allo sco­ po di distruggere lo Stato. Nulla è pili caratteristico dei seguenti passaggi del saggio Il ma­ terialismo storico e dialettico di Stalin 2 8 . [ ] L a dialettica considera il processo d i sviluppo non come u n semplice processo di crescita, nel quale i mutamenti quantitativi non conducono a muta­ menti q ualitativi, ma come uno sviluppo che, a partire da mutamenti quantitativi insignificanti e impercettibili, apre la strada a mutamenti qualitativi, a mutamenti fondamentali. I n questo sviluppo, i mutamenti qualitativi intervengono non gra­ dualmente, ma rapidamente e improvvisamente, assumendo la forma di salti da uno stadio all'altro ; essi accadono non incidentalmente, ma come risultati natura­ li dell'accumularsi di mutamenti quantitativi graduali e impercettibili. Secondo il metodo dialettico, dunque, il processo di sviluppo deve essere inte­ so non come movimento circolare, non come ripetizione di quanto già è accadu­ to, ma come movimento in avanti e verso l'alto, come transizione da un vecchio stadio qualitativo ad un nuovo stadio qualitativo, come sviluppo dal semplice al complesso, dall'inferiore al superiore. [ . ] Secondo la dialettica, le contraddi­ zioni interne sono inerenti a tutte le cose e a tutti i fenomeni naturali, poiché essi tutti hanno i loro lati positivi e negativi, un passato e un futuro, qualcosa che muore e qualcosa che si sviluppa. E la lotta tra questi opposti, la lotta tra il vec­ chio e il nuovo, tra ciò che muore e ciò che nasce, tra ciò che deperisce e ciò che ...

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si sviluppa, costituisce il contenuto interno del processo di sviluppo, il contenuto interno della trasformazione dei mutamenti quantitativi in mutamenti qualitativi. Secondo il metodo dialettico, dunque, il processo di sviluppo dal basso verso l'alto ha luogo non come un armonico dispiegarsi di fenomeni, ma come un aprirsi delle contraddizioni inerenti alle cose e ai fenomeni, come una « lotta » tra opposte tendenze, operanti sulla base di tali contraddizioni 29.

Da queste leggi di sviluppo, Stalin deduce le seguenti conseguen­ ze pratiche : [ . ] Se il passaggio da lenti mutamenti quantitativi a rapidi e improvvisi mu­ tamenti qualitativi è una legge di sviluppo, allora è chiaro che le rivoluzioni com­ piute dalle classi oppresse sono un fenomeno del tutto naturale e inevitabile. Quindi la transizione dal capitalismo al socialismo e la liberazione della classe operaia dal giogo del capitalismo non può essere attuata per via di mutamenti lenti, per via di riforme, ma solo per mezzo di un mutamento qualitativo del si­ stema capitalistico, solo per via rivoluzionaria. Quindi, per non sbagliare in politica, bisogna essere rivoluzionari, non rifor­ misti. Inoltre, se lo sviluppo procede con l'aprirsi di contraddizioni interne. per via di collisioni tra forze opposte fondate su queste contraddizioni. e in modo tale da superare tali contraddizioni, allora è chiaro che la lotta di classe del proletariato è un fenomeno del tutto naturale e inevitabile. Quindi non dobbiamo nascondere le contraddizioni del sistema capitalistico. ma svelarle e dischiuderle ; dobbiamo cercare non di controllare la lotta di classe. ma di condurla alla sua conclusione. Quindi. per non sbagliare in politica. si deve perseguire senza compromessi una politica di classe proletaria, non una politica riformista tendente ad armoniz­ zare gli interessi del proletariato e quelli della borghesia. non una politica oppor­ tunistica di « lenta trasformazione del capitalismo in socialismo » . Questo è il metodo dialettico marxista applicato alla vita sociale. alla storia della società 30. ..

7. Contraddizioni nella dottrina bolscevica dello Stato

7 . 1. Evoluzione e rivoluzione ( Per non sbagliare in politica », bi­ sogna essere bolscevichi, rivoluzionari conseguenti. Nonostante il fatto che il comunismo, nella loro interpretazione dottrinale, sia il risultato necessario e inevitabile della legge dell' evoluzione, i bol­ scevichi postulano la via rivoluzionaria. Ma COSI non si evita l'erro­ re, cioè un atteggiamento riformista, non bolscevico : altrimenti, la soppressione terroristica di tutti questi ( errori » non sarebbe neces53

saria. Questa è una contraddizione evidente. E tale contraddizione è la conseguenza del sincretismo tra scienza e politica, proprio del metodo dialettico. Il materialismo dialettico è un sistema conçettua­ le, che presuntuosamente si presenta come una scienza, capace di predire eventi futuri determinati da leggi inflessibili. Si presenta co­ me socialismo « scientifico », sebbene sia una mera dottrina politica, nel senso specifico di ideologia politica usata come strumento di lotta per il potere. Le contraddizioni derivanti dalla confusione tra una spiegazione scientifica della realtà sociale e un programma politico non sono le sole, che si possano trovare nella dottrina marxista dello Stato. I propugnatori di questa dottrina non si sentono disturbati.. dal fatto che essa porti in sé delle contraddizioni fondamentali. E precisa­ mente la funzione della sua dialettica fare virtù di questa neces­ sità. Una logica che elimini la legge di non-contraddizione corri­ sponde perfettamente ai bisogni di un'ideologia, il cui scopo princi­ pale non è spiegare i fenomeni sociali in modo razionale e obiettivo, ma piuttosto giustificare o respingere - sulla base di giudizi di va­ lore soggettivi ed emotivi - un ordinamento sociale dato. Tale ideologia, infatti, per sua propria natura, è insensibile alle contrad­ dizioni logiche, e quindi vi resta continuamente impigliata.

7 . 2 . Lo scopo dello Stato : conservazione o soppressione dello sfruttamen­ to ? Un'altra contraddizione inerente alla dottrina marxista risie­ de nel modo in cui essa definisce lo Stato, e nel modo in cui applica tale definizione alla dittatura del proletariato. La definizione dello Stato è il tipico esempio di quale influenza discutibile i giudizi di valore possano esercitare sulla pretesa determinazione scientifica di un concetto. Secondo la teoria marxista, la vera essenza dello Stato è la sua macchina coercitiva al servizio dello sfruttamento di una classe da parte di un'altra ; è la sua funzione di specifico strumento politico del capitalismo. Lo Stato è responsabile della « schiavitu capitalistica », degli « indicibili orrori, crudeltà, infamie dello sfrut­ tamento capitalistico » 3 1 , per usare le parole di Lenin. Solo per questo, la distruzione dello Stato da parte della rivoluzione sociali­ sta è giustificata ; solo per questo, la sostituzione di esso con una so­ cietà priva di Stato deve considerarsi un progresso. La princi p ale 54

obiezione, avanzata dalla dottrina marxista contro la teoria ( bor­ ghese » dello Stato, è che questa ignora la funzione specifica della macchina coercitiva chiamata Stato. Tale funzione è rendere possi­ bile lo sfruttamento del proletariato da parte dei capitalisti. Ma la dittatura del proletariato, instaurata dopo la distruzione dello Stato borghese, è ancora un vero Stato (lo Stato ( proletario »), e la sua essenza è esattamente opposta a quella dello Stato borghese : è la definitiva abolizione di ogni sfruttamento di una classe da parte di un'altra. Lo Stato borghese e lo Stato proletario sono, entrambi, ordinamenti coercitivi centralizzati, ovvero - nella terminologia marxista - macchine coercitive. Questa è precisamente la definizio­ ne di Stato che i marxisti cercano di ridicolizzare come ( formalisti­ ca », poiché trascura lo scopo sostanziale di questa macchina coerci­ tiva, il contenuto di questo ordinamento coercitivo. Ma la dottrina marxista, per il suo stesso uso del concetto di Stato, mostra che l' or­ dinamento coercitivo chiamato Stato può servire scopi molto diver­ si e anche opposti fra loro. Se è COSI, vuoI dire che lo scopo non de­ ve essere incluso in una definizione scientifica di questo fenomeno, a meno che, nel descrivere la dittatura del proletariato, si debbano sostenere due affermazioni contraddittorie : che essa è uno Stato, e che essa non è uno Stato. Appoggiandosi alla nuova logica di H e­ gel, un marxista può dire che tale contraddizione semplicemente mostra il carattere dialettico dei fenomeni in questione. Ma quanto sia imbarazzante ammettere che la dittatura del proletariato è uno Stato, anche se non dovrebbe esserlo, lo si vede dal fatto che Lenin parla: talora di essa come di un ( semi-Stato » 32. Di regola, però, egli caratterizza la dittatura del proletariato come ( Stato proleta­ rio », e la dottrina bolscevica ufficiale non ha mai negato che l'U­ nione Sovietica, la prima dittatura proletaria riuscita, sia uno ( Sta­ to ». Il Pro gramma dell 'Internazionale comunista afferma espressa­ mente che ( la forma piu appropriata di Stato proletario è lo Stato sovietico, uno Stato di tipo nuovo, che differisce in linea di princi­ pio dallo Stato borghese non solo nel suo contenuto di classe, ma anche nella sua interna struttura » 3 3 •

8. Lo Stato proletario

8. 1 . Secondo Enge/s Vi è contraddizione tra l'affermazione fonda­ mentale della dottrina marxista che lo Stato sia per sua propria na­ tura un ordinamento coercitivo per lo sfruttamento del proletariato da parte della borghesia, e l'ammissione che esista qualcosa come uno Stato proletario. Questa contraddizione poté essere ignorata da Engels (che sviluppò tale dottrina), poiché egli considerava la ditta­ tura del proletariato come uno stadio transitorio di breve durata. Questa nozione deriva chiaramente dal passo citato sopra, dove egli descrive l'instaurazione dello Stato proletario come un atto, che automaticamente implica la sua auto-abolizione. Non appena siano nazionalizzati i mezzi di produzione, e siano cOSI abolite tutte le dif­ ferenze di classe - risultato che può ottenersi in un tempo relativa­ mente breve -, la macchina coercitiva dello Stato proletario (ossia lo Stato stesso) perde qualsiasi giustificazione, e, secondo la pro­ gnosi di Engels, scompare. Che poi gli uomini, che di fatto control­ lano la macchina coercitiva, e sono in condizioni di usarla per fini diversi dall'instaurazione del socialismo, abbandonino volontaria­ mente il potere che possiedono : questo è il grande miracolo della credenza marxista. 8 . 2 . Secondo Sta/in In ogni modo, il primo Stato proletario, l'U­ nione Sovietica, non si conforma alla prognosi di Engels. Secondo la piu competente autorità, esso ha ormai conseguito lo scopo per il quale fu allestita la sua macchina coercitiva, cioè l'instaurazione del socialismo. N ella sua relazione sul Progetto di Costituzione del­ l' URSS, Stalin caratterizzò come segue la situazione del l 9 3 6 : Ma la cosa piu importante è che il capitalismo è stato completamente bandito dalla nostra industria, mentre la forma socialista di produzione è ormai il sistema dominante nella nostra industria. [ . . ] In agricoltura, invece dell'oceano di picco­ le aziende contadine individuali, povere di attrezzature tecniche e fortemente in­ fluenzate dai kulaki, abbiamo ora una produzione meccanizzata, condotta su sca­ la piu larga che in ogni altro paese del mondo, dotata di attrezzature moderne, e organizzata nella forma di un sistema di aziende collettive e aziende di Stato, che abbraccia tutto il paese. [ . . . ] COSI è ormai un fatto compiuto la vittoria completa del sistema socialista in tutte le sfere dell' economia nazionale. E questo che cosa significa ? Significa che lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo è stato abolito, eli.

minato, mentre la proprietà socialista deg li strumenti e mezzi di produzione è sta­ ta stabilita come fondamento inamovibile della nostra società sovietica. Come ri­ sultato di questi mutamenti nella sfera dell'economia nazionale dell'URSS, ab­ biamo ora una nuova economia socialista, che non conosce crisi né disoccupazio­ ne, che non conosce miseria né rovina, e che offre ai cittadini ogni opportunità di condurre una vita prospera e culturalmente ricca. r . . . ] In conformità a questi mu­ tamenti nella sfera economica dell'URSS, è anche cambiata la struttura di classe della nostra società. [ ... ] Tutte le classi sfruttatrici sono state eliminate. r . 1 Il proletariato è una classe sfruttata dai capitalisti. Ma nel nostro paese, come sape­ te, la classe capitalistica è già stata eliminata, e gli strumenti e i mezzi di produ­ zione sono stati sottratti ai capitalisti e trasferiti allo Stato, la cui forza dirigente è la classe operaia. Di conseguenza, non vi è piu una classe capitalistica che possa sfruttare la classe operaia. Di conseguenza, la nostra classe operaia. invece di es­ sere priva di strumenti e mezzi di produzione, al contrario li possiede in comune con tutto il popolo. E, poiché li p ossiede, e la classe capitalistica è stata eliminata, è esclusa ogni possibilità che la classe operaia sia sfruttata. r . . . 1 Può la nostra classe operaia essere chiamata proletariato ? Chiaramente no. r . . 1 Il proletariato dell'URSS è stato trasformato in una classe completamente nuova : la classe ope­ raia dell'URSS, che ha abolito il sistema economico capitalistico, ha instaurato la proprietà socialista degli strumenti e mezzi di produzione, e dirige la società so­ vietica sulla strada del comunismo. [ E infine Stalin riassume : l La nostra società sovietica, in linea generale. è già riuscita a raggiungere il socialismo ; ha creato un sistema socialista, cioè ha edificato ciò che i marxisti, con altre parole, chiamano la prima fase (o fase inferiore) del comunismo. Quindi, in generale, abbiamo già raggiunto il socialismo, o prima fase del comunismo '4. ..

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9. La

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e.tlnzlone dello Stato

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9. 1 . Secondo Engels La realizzazione del socialismo, secondo En­ gelso è il momento in cui lo Stato proletario scompare. Trasforman­ do i mezzi di produzione in proprietà dello Stato . dice Engels . il proletariato « sopprime se stesso in quanto proletariato ; sopprime le differenze e gli antagonismi di classe ; sopprime altresf lo Stato in quanto Stato )l. « Il primo atto . con cui lo Stato realmente si atteg­ gia a rappresentante dell'intera società - appropriandosi dei mezzi di produzione in nome della società -, è al tempo stesso il suo ulti­ mo atto in quanto Stato � � . » Quando « gli strumenti e i mezzi di produzione » - secondo quanto assicura Stalin « sono stati sot­ tratti ai capitalisti e trasferiti allo Stato » ; quando « sono state eli­ minate tutte le classi sfruttatrici » ; quando « il proletariato si è tra-

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sformato in classe operaia » di una società socialista, allora la mac­ china coercitiva dello Stato deve automaticamente estinguersi.

9 . 2 . Secondo Stalin N on può esservi dubbio che la Russia Sovieti­ ca, benché abbia cessato di essere una dittatura del proletariato, non ha però cessato di essere una dittatura, né vi sono i pili lievi sin­ tomi che questo Stato sia sulla via dell'estinzione. La nazionali7.z a­ zione dei mezzi di produzione certamente non è « l'ultimo atto in­ dipendente » dello Stato « in quanto Stato » . Secondo Stalin, la società sovietica è libera dallo sfruttamento, è una società senza classi, nel senso che ignora ogni antagonismo di classe. Ma la so­ cietà sovietica non ha ancora raggiunto la fase superiore del comu­ nismo, allorché principio dominante sarà quello espresso dalla for­ mula : ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. N ella fase attuale del comunismo russo, il principio domi­ nante è ancora : ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secon­ do il suo lavoro. Ma il progresso da una fase all' altra - secondo l'originaria dottrina di Engels - n?n è una funzione della macchina coercitiva dello Stato come tale. E vero che Lenin, nel suo Stato e rivoluzione, dichiara : « Lo Stato potrà estinguersi completamente, quando la società avrà realizzato il principio : ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni » �6. Questa affer­ mazione può essere o non essere corretta, ma certo non è fondata sulla teoria engelsiana dell' estinzione dello Stato. Secondo tale teo­ ria, la macchina coercitiva dello Stato proletario è necessaria soltan­ to per sopprimere lo sfruttamento e l'antagonismo di classe, e non anche per sviluppare la produzione dell'economia socialista al pili alto grado possibile. Dal momento che l'economia socialista do­ vrebbe prosperare al meglio in una società senza Stato, è difficile comprendere perché sia necessario conservare la macchina coerciti­ va dello Stato dopo « la vittoria completa del socialismo in tutte le sfere dell'economia nazionale ». Dal momento che non vi è pili al­ cuna classe da reprimere, né vi sono pili differenze e antagonismi di classe, non vi è ragione che continui a esistere la macchina coerciti­ va dello Stato.

1 0. L'accerchiamento capitalistico

Se la situazione interna, qual era nel 1 9 3 6, è stata correttamente descritta da Stalin, non vi è posto per un governo, e certo non vi è posto per una polizia segreta, nella Russia Sovietica. Ma né l'uno né l'altra mostrano alcuna intenzione di scomparire. E ciò è del tut­ to comprensibile. La macchina coercitiva, infatti, è necessaria non solo (come insegnava Engels) per nazionalizzare i mezzi di produ­ zione, per liquidare la classe sfruttatrice, per abolire tutte le diffe­ renze e tutti gli antagonismi di classe, per instaurare una società so­ cialista, ma altresl per conservarla e difenderla contro le azioni di disturbo dall'interno e gli attacchi dall'esterno. La dottrina, per cui lo Stato si estinguerà, quando sia instaurato il socialismo, è fondata sull' assunto utopistico che in una società socialista non vi saranno piu ragioni di violare l'ordinamento sociale, poiché tale ordinamen­ to garantirà a ciascuno il piu alto grado possibile di felicità. Nella sua relazione sulla Costituzione, Stalin dichiarò che, dopo l'instaura­ zione del socialismo, « una costituzione » - e cioè una macchina statuale coercitiva - ( è necessaria allo scopo di consolidare un or­ dinamento sociale desiderato dai lavoratori e favorevole a essi » . Se tale ( consolidamento » (e quindi uno ( Stato ») è ancora necessa­ rio, dopo che il socialismo ( è stato stabilito come fondamento ina­ movibile della società sovietica », allora non vi è alcuna fase del co­ munismo in cui lo ( Stato » sarà. superfluo e ( si estinguerà ». In un colloquio con alcune delegazioni di operai stranieri, che domanda­ vano perché la GPU non fosse ancora stata sciolta, Stai in disse : Dal punto di vista della situazione interna. la rivoluzione è tanto ferma e ina­ movibile. che potremmo fare a meno della GPU. Ma il guaio è che i nemici in­ terni non sono individui isolati. Sono legati in mille modi con i capitalisti di tutti i paesi. che li sostengono in ogni modo e con tutti i mezzi. Siamo un paese cir­ condato da Stati capitalistici. I nemici interni della nostra rivoluzione sono agen­ ti dei capitalisti di tutti i paesi. Gli Stati capitalistici sono il retroterra e la base dei nemici interni della nostra rivoluzione. Lottando contro i nemici interni. noi combattiamo gli elementi controrivoluzionari di tutti i paesi. Giudicate voi stessi se. in tali condizioni. possiamo fare a meno di organi repressi vi come la GPU H .

Nella sua Relazione al XVIII Congresso del PCUS, pronunciata il

I O marzo 1 9 3 9 3 8 , Stalin si occupò direttamente ed estesamente

del problema della ( estinzione dello Stato » . Dal momento che le

sue affermazioni rappresentano la dottrina bolscevica ufficiale sul punto pili importante della teoria marxista dello Stato, è necessario qui citarle per esteso. Tali affermazioni sono contenute nella sezione quarta della Relazione, sotto il titolo ( Alcune questioni di teoria ». Staiin dice : ( Un altro difetto del nostro lavoro ideologico e di propaganda sta nel non aver fatto piena chiarezza tra i nostri com­ pagni intorno a certe questioni teoriche, che hanno un'importanza pratica vitale ; sta nell' esistenza di un certo grado di confusione al riguardo. Mi riferisco alla questione dello Stato in generale, e del nostro Stato socialista i n particolare, e alla questione dei nostri in­ tellettuali sovietici ». E molto significativo che le ( questioni di teoria » siano trattate dall'angolo visuale del « lavoro ideologico e di propaganda » del partito comunista. Si dà per scontato cosi che la ( teoria » in generale, e la teoria dello Stato in particolare, debba essere usata come strumento di lotta politica. Dice Stalin : ( Ci si domanda talvolta : " Abbiamo abolito le classi sfruttatrici ; non vi sono pili classi ostili nel nostro paese ; non vi è pili nessuno da repri­ mere ; quindi non vi è pili bisogno dello Stato ; esso deve estinguer­ si. Perché dunque non aiutiamo il nostro Stato socialista ti. estin­ guersi ? Perché non ci sforziamo di farla finita con lo Stato ? Non è ora di gettare via tutta questa immondizia di Stato ? " . O ancora : " Le classi sfruttatrici sono già state abolite nel nostro paese ; il so­ cialismo è già stato costruito per r essenziale ; stiamo avanzando verso il comunismo. Ora, la dottrina marxista dello Stato dice che non vi sarà pili Stato alcuno sotto il comunismo. Perché dunque non aiutiamo il nostro Stato socialista a estinguersi ? Non è ora di relegare lo Stato nel museo delle antichità ? .. ». Questi interrogati­ vi sono del tutto naturali, poiché risultano da tutto ciò che Marx ed Engels hanno insegnato intorno alla natura dello Stato. Ma, secon­ do Stalin, porre tali interrogativi rivela una totale incomprensione della teoria marxista dello Stato. Queste domande dimostrano che quanti le pongono hanno coscienzio�amente memorizzato alcune proposizioni appartenenti alla dottrina di Marx ed Eng els sullo Stato. Ma mostrano anche che questi compagni non hanno compreso il si­ gnificato essenziale di tale dottrina ; non hanno capito in quali condizioni stori­ che sono state elaborate le varie proposizioni di q uesta dottrina ; e soprattutto non comprendono l'odierna situazione internazionale. hanno dimenticato l'accer-

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chiamento capitalistico e i pericoli che esso comporta per il paese del socialismo. Queste domande non solo tradiscono una sottovalutazione dell'accerchiamento capitalistico, ma anche una sottovalutazione del ruolo e dell'importanza degli Stati borghesi e dei loro organi, che mandano nel nostro paese spie, assassini, e sabotatori, e attendono un'opportunità favorevole per attaccarci militarmente. Tradiscono altresl una sottovalutazi(,ne del ruolo e dell'importanza del nostro Stato socialista e dei suoi or g ani militari, punitivi, e di controspionaggio, che so­ no essenziali per difendere il paese del socialismo dall'aggressione esterna. Biso­ gna riconoscere che i compagni in questione non sono i soli colpevoli di questa sottovalutazione. Tutti i bolscevichi, tutti noi senza eccezione siamo in una certa misura colpevoli di ciò. Non è sorprendente che solo recentemente, nel 1 9 3 7 e 1 9 3 8, siamo venuti a conoscenza delle attività spionistiche e cospirative dei diri­ genti trockijsti e bukharinisti, benché, come è provato, questi personaggi fossero agenti di organizzazioni spionistiche straniere, e cospirassero fin dai primi giorni della Rivoluzione d'ottobre ? Come possiamo esserci lasciati sfuggire un fatto cOSI grave ? Come possiamo spiegare questo errore grossolano ? La risposta abi­ tuale a questa domanda è : non potevamo supporre che questa gente potesse ca­ dere cOSI in basso. Ma questa non è una spiegazione, e tanto meno una giustifica­ zione, perché lo sbag lio resta. Come si spieg a questo sbaglio ? Si spiega con una sottovalutazione della forza e importanza del meccanismo degli Stati borghesi, che ci circondano, e dei loro organi spionistici, che cercano di approfittare della debolezza, vanità, mancanza di volontà degli uomini, per catturarli nelle loro reti. di spionaggio e usarli nell'accerchiamento degli organi statuali sovietici. Si spiega con una sottovalutazione del ruolo e dell'importanza del meccanismo del nostro Stato socialista e del suo servizio di controspionaggio, con una sottovalutazione di tale servizio, e con le chiacchiere per cui questo servizio, in uno Stato sovieti­ co, sarebbe un'inezia senza importanza, e il servizio segreto sovietico e lo Stato sovietico stesso dovranno presto essere relegati nel museo delle antichità 39.

Anche dopo l'instaurazione del socialismo in Unione Sovietica, non si può permettere che la macchina coercitiva dello Stato si estingua, a causa della situazione internazionale di cc accerchiamen­ to capitalistico » . Per evitare di ammettere che la macchina coerci­ tiva è necessaria anche a causa della situazione interna - necessaria per sopprimere l'opposizione nel partito bolscevico -, il movimen­ to guidato da Trockij e Bukharin è presentato come un'attività cc al servizio delle organizzazioni spionistiche straniere l) . Secondo Sta­ lin, è fuori questione la possibilità che vi sia un'opposizione alla po­ litica del partito bolscevico senza alcuna connessione con gli Stati capitalistici nemici, un'opposizione che desideri instaurare e conser­ vare il vero socialismo in una forma diversa da quella del partito bolscevico.

1 1 . Una modificazione deciaiva della dottrina di Marx ed En­ gela

È evidente che Engels, avanzando la dottrina dell'estinzione dello Stato, non prendeva in considerazione la situazione internazionale di uno Stato che sia il solo ad avere instaurato il socialismo. Riguar­ do a ciò, Stalin sostiene che ( alcune proposizioni generali della dottrina marxista dello Stato erano inadeguate e non comp letamen­ te elaborate. Essa [ la sottovalutazione di cui sopra (N.d. T. ) 1 si è diffusa a causa della nostra imperdonabile negligenza in materia di teoria dello Stato, nonostante il fatto che abbiamo venti anni di esperienza pratica di attività statuale, che ci forniscono un ricco ma­ teriale per generalizzazioni teoriche, e nonostante il fatto che, vo­ lendo, abbiamo tutte le opportunità di colmare q uesta lacuna nella teoria ». Richiede ulteriore sviluppo soprattutto la proposizione di Engels che lo Stato cc si estinguerà ». ( È corretta - si domanda Stalin - questa proposizione di Engels ? » Ecco la risposta : Si, è corretta, ma solo a una di queste due condizioni : ( l ) se studiamo lo Stato socialista solo dal punto di vista dello sviluppo interno del p aese, astraendo in p artenza dal fattore internazionale, isolando, per comodità d indag ine, il paese e lo Stato dalla situazione internazionale ; oppure ( 2 ) se assumiamo che il potere so­ cialista sia già vittorioso in tutti i paesi, o nella maggioranza dei paesi, che vi sia un accerchiamento socialista invece di quello capitalistico, che non vi sia piu peri­ colo di aggressioni straniere, e che non vi sia piu bisogno di rafforzare l'esercito e lo Stato. Bene, ma se il socialismo ha trionfato in un solo paese, preso singolarmente, e se quindi è del tutto impossibile fare astrazione dalle condizioni internazionali : allora che fare ? La formula di En gels non fornisce risposta a questa domanda. Di fatto, Engels neppure si pose tale domanda, e perciò non poteva risponderle. Engels muove dall'assunzione che il socialismo abbia trionfato in tutti i paesi o nella maggioranza di essi, piu o meno simultaneamente. Di conseguenza, egli esa­ mina qui non uno specifico Stato socialista di un qualche paese, ma lo sviluppo dello Stato socialista in generale, assumendo che il socialismo abbia trionfato nel­ la maggioranza dei paesi, secondo la formula seguente : « posto che il socialismo abbia trionfato nella maggioranza dei paesi, quali mutamenti deve subire lo Stato socialista proletario ? l) . Solo questo carattere di generalità e astrattezza del pro­ blema può spiegare perché, esaminando la questione dello Stato socialista, En­ gels abbia fatto completa astrazione da un fattore come le condizioni internazio­ nali, la situazione internazionale. Ma segue da ciò che la formula di Engels, intorno al destino dello Stato so­ cialista in generale, non può essere estesa al caso specifico e parziale della vittoria

del socialismo in un solo paes� : un paese accerchiato dal mondo capitalistico è soggetto alla minaccia di aggressioni militari esterne, non può perciò astrarre dal­ la situazione internazionale, e deve disporre di un esercito bene addestrato, di or­ gani punitivi bene organizzati, e di un forte servizio segreto : di conseguenza, es­ so deve avere un proprio Stato, forte abbastanza da difendere le conquiste del socialismo da aggressioni esterne 40.

La c( lacuna » nella teoria marxista dello Stato è questa : i fonda­ tori del socialismo scientifico ignorano la necessità di conservare la macchina coercitiva dello Stato anche dopo l'instaurazione del so­ cialismo, laddove tale obiettivo sia raggiunto solo entro un singolo Stato. Tale lacuna non fu colmata da Lenin, il quale neppure inter­ pretò il dogma dell' estinzione dello Stato nel senso di escluderne l'applicazione ad uno Stato socialista isolato. Di conseguenza, Sta­ lin deve correggere non solo Marx ed Engels, ma anche - compito alquanto delicato per un bolscevico - Lenin. Egli dice : Lenin scrisse il suo libro famoso, Stato e rivoluzione, nell'agosto del 1 9 1 7 , cioè pochi mesi prima della Rivoluzione d'ottobre e dell'instaurazione dello Stato so­ vietico. Lenin considerava compito principale di tale libro difendere la dottrina dello Stato di Marx ed Engels dalle distorsioni e volgarizzazioni degli opportu­ nisti. Lenin si preparava a scrivere una seconda parte di Stato e rivoluzione, nella quale intendeva trarre le conclusioni dalle principali esperienze rivoluzionarie rus­ se del l 90 5 e del I 9 1 7. Non può esservi dubbio che, nella seconda parte di que­ sto libro, Lenin intendesse elaborare e sviluppare la teoria dello Stato sulla base dell'esperienza acquisita durante resistenza del potere sovietico nel nostro paese. Tuttavia la morte gli impedl di compiere questo lavoro. Ma ciò che Lenin non riuscl a fare deve essere fatto dai suoi discepoli 4 1 .

Protetto dal fantasma d i Lenin, Stalin .presenta l a nuova, perfe­ zionata dottrina marxista dello Stato : Lo Stato sorse a causa delle divisioni in classi della società ; sorse per tenere a freno la mag�ioranza sfruttata nell'interesse della minoranza sfruttatrice. Gli strumenti dell autorità statuale sono stati concentrati soprattutto nell'esercito, ne­ gli organi punitivi, nel servizio di sp ionaggio, nelle prigioni. Due funzioni fonda­ mentali caratterizzano l'attività dello Stato : all'interno (funzione principale), te­ nere a freno la maggioranza sfruttata ; all'esterno (funzione non principale), estenderç il territorio della propria classe dominante a spese del territorio di altri Stati, o difendere il proprio territorio dall'aggressione di altri Stati. COSI fu nella società schiavistica e feudale. COSI è nel capitalismo. Per rovesciare il capitalismo, era necessario non solo rimuovere la borghesia dal potere, non solo espropriare i capitalisti, ma anche distruggere interamente la macchina statuale borghese, con il suo vecchio esercito, il suo apparato burocrati-

co. la sua forza di polizia, e sostituirla con una forma di Stato nuova, proletaria, socialista. E ciò, come sappiamo, è esattamente quanto hanno fatto i bolscevichi. Ma non se g ue da ciò che il nuovo Stato proletario non possa conservare alcune funzioni del vecchio Stato. mutate per assecondare le esigenze dello Stato prole­ tario. Tanto meno da ciò segue che le forme del nostro Stato socialista debbano rimanere immutate, che tutte le funzioni originarie dello Stato debbano essere pienamente conservate in futuro. Di fatto, le forme del nostro Stato stanno mu­ tando. e continueranno a mutare in linea con lo sviluppo del nostro paese e con i mutamenti della situazione internazionale 4 2 .

Sin qui, la nuova dottrina è identica alla vecchia. Piu interessan­ te è il modo in cui Stai in caratterizza lo sviluppo dello Stato sociali­ sta russo. Dalla rivoluzione socialista in poi, il nostro Stato socialista ha attraversato due fasi di sviluppo principali. La prima fase fu il periodo che va dalla Rivoluzione d'ottobre alla eliminazio­ ne delle classi sfruttatrici. Il compito principale, in quel periodo, era reprimere la resistenza delle classi rovesciate, organizzare la difesa del paese contro l'aggres­ sione degli invasori, ricostruire l'industria e l'agricoltura, e preparare le condizio­ ni per eliminare gli elementi capitalistici. Conformemente, in questo periodo, il nostro Stato adempi due funzioni principali. La prima era reprimere all�interno del paese le classi rovesciate. Sotto questo profilo, il nostro Stato mostrava una superficiale rassomiglianza con gli Stati precedenti (i quali pure avevano la fun­ zione di reprimere i recalcitranti), con la fondamentale differenza tuttavia che il nostro Stato reprimeva la minoranza sfruttatrice nell'interesse della maggioranza lavoratrice, mentre gli Stati precedenti avevano represso la maggioranza sfrutta­ ta nell'interesse della minoranza sfruttatrice. La seconda funzione era difendere il paese dall'aggressione esterna. Anche sotto questo profilo, il nostro Stato mo­ strava una superficiale rassomiglianza con gli Stati precedenti (i quali pure si oc­ cupavano della difesa armata dei loro paesi), con la fondamentale differenza tut­ tavia che il nostro Stato difendeva dall'aggressione esterna le conquiste della maggioranza lavoratrice. mentre gli Stati precedenti. in tali casi. difendevano la ricchezza e i privilegi della minoranza sfruttatrice. Il nostro Stato aveva ancora una terza funzione : il lavoro di organizzazione economica e di educazione cultu­ rale, compiuto dal nostro Stato, ha lo scopo di sviluppare i giovani germogli del nuovo sistema econoinico socialista, e di rieducare il popolo allo spirito del socia­ lismo. Ma questa nuova funzione non raggiunse, in quel periodo, alcuno svilup­ po notevole. La seconda fase fu il periodo dell'eliminazione degli elementi capitalistici nelle città e nelle campagne, fino alla vittoria completa del sistema economico sociali­ sta e all'adozione della nuova costituzione. Il compito principale, in questo perio­ do, era instaurare il sistema economico socialista in tutto il paese, eliminare gli ul­ timi residui di elementi capitalistici, realizzare una rivoluzione culturale, e forma­ re un esercito interamente moderno per la difesa del paese. Le funzioni del no-

stro Stato socialista sono mutate conformemente. È cessata, è venuta meno la funzione di repressione militare all'interno del paese : lo sfruttamento infatti era abolito, non vi erano piu sfruttatori, e dunlue non vi era piu alcuno da reprime­ re. In luogo di questa funzione repressiva, o Stato ha acquistato la funzione di proteggere la proprietà socialista da ladri e dissipatori della proprietà del popolo. Si è conservata pienamente la funzione di difendere il paese dall'aggressione esterna. Di conseguenza, l'esercito rosso e la marina rossa si sono pure pienamen­ te conservati, COSI come gli organi punitivi e il servizio segreto, che sono indi­ spensabili per scoprire e punire le spie, gli assassini, e i sabotatori mandati nel no­ stro paese dai servizi spionistici stranieri. La funzione di organizzazione econo­ mica e di educazione culturale, propria degli organi statuali, si è conservata, e si è sviluppata a pieno. Ora, il compito principale del nostro Stato all'interno del paese è il lavoro pacifico di organizzazione economica ed educazione culturale. Per quanto riguarda l'esercito, gli organi punitivi, ed il servizio segreto, la loro spada non è piu rivolta all'interno del paese, ma all'esterno, contro i nemici ester­ ni 4 ' .

L'affermazione che « è cessata, è venuta meno la funzione di re­ pressione militare all'interno del paese » è alquanto problematica, dal momento che « l'esercito rosso e la marina rossa si sono piena­ mente conservati ». E non è molto coerente sostenere che « gli or­ gani punitivi ed il servizio segreto » devono rimanere solo « per scoprire e punire le spie, gli assassini, e i sabotatori mandati nel no­ stro paese dai servizi spionistici stranieri », quando si ammette che lo Stato ha ancora « la funzione di proteggere la proprietà sociali­ sta da ladri e dissipatori della proprietà del popolo » ; ladri e dissi­ patori, che non sono mandati dai servizi spionistici stranieri, e che possono minacciare il sistema economico sociali�ta anche dopo la sparizione dell' « accerchiamento capitalistico ». E possibile proteg­ gersi da questi criminali senza « organi punitivi », e cioè senza una macchina coercitiva ? Ma, riassumendo i risultati della nuova teoria dello Stato, Stalin sostiene la tesi che la macchina coercitiva dello Stato deve essere conservata solo per la difesa da aggressioni ester­ ne. Egli dice : « Si conserverà il nostro Stato anche nel periodo del comunismo ? ». E risponde : « SI, si conserverà, a meno che l'accer­ chiamento capitalistico sia liquidato e il pericolo di aggressioni mili­ tari esterne sia scomparso. Va da sé, naturalmente, che le forme del nostro Stato muteranno ancora, in conformità ai mutamenti della situazione interna ed esterna. N o, non si conserverà, ma si atrofiz­ zerà, se l'accerchiamento capitalistico sarà liquidato e sostituito da un accerchiamento socialista » 44.

1 2. Lo Stato socialista mondiale come ultimo Stato

Lo Stato socialista, finché sarà accerchiato da Stati capitalistici, ri­ marrà un vero Stato. L'ultima fase del comunismo - la società sen­ za Stato - non può essere raggiunta, fino a che la rivoluzione mon­ diale non abbia distrutto almeno la maggior parte degli Stati capi­ talistici. Ma, anche se tutti gli Stati del mondo fossero socialisti, al­ lo cc Stato » come istituzione difficilmente si potrebbe permettere di estinguersi. Fino a che esista una pluralità di Stati nazionali, la riva­ lità tra di essi, e perciò la guerra, non può essere esclusa. Se un tale violento antagonismo è possibile all'interno di un solo e medesimo partito socialista - ed è effettivamente accaduto entro il partito bolscevico -, perché dovrebbe escludersi la guerra tra Stati sociali­ sti, specialmente se il socialismo è diversamente organizzato nei di­ versi Stati ? Solo uno Stato socialista mondiale renderà possibile un disarmo, che può essere interpretato, da quanti credono nella profe­ zia engelsiana, come il primo passo verso restinzione dello Stato. Questa idea è precisamente quanto proclama il Programma dell 'In­ ternazionale comunista. La dittatura del proletariato mondiale è una condizione essenziale e vitale per la transizione dall'economia capitalistica mondiale all'economia socialista mon­ diale. Questa dittatura mondiale potrà essere instaurata solo quando il socialismo avrà trionfato in certi paesi o grup p i di paesi, quando le nuove repubbliche prole­ tarie entreranno in unioni federali con le repubbliche proletarie già esistenti, quando il numero di queste federazioni sarà cresciuto e si sarà esteso anche alle colonie autoemancipatesi dal giogo dell'imperialismo, quando infine queste fede­ razioni di repubbliche si saranno sviluppate fino a costituire una unione mondiale delle repubbliche socialiste sovietiche, che unifichi l'intera umanità sotto l'egemo­ nia del proletariato internazionale organizzato in Stato 4 � .

L'Internazionale comunista s i sciolse formalmente nella primave­ ra del 1 94 3 . Ma era vero allora, come è ancora vero oggi, che non ci si può sbarazzare della macchina coercitiva dello Stato socialista, finché il capitalismo sopravviva ancora nella maggior parte degli al­ tri Stati, e che, di conseguenza, è solo uno Stato mondiale che può estinguersi 46. COSI, il fine wtimo del comunismo sembra rinviato a un futuro COSI lontano, che davvero non vale la pena di esaminare seriamente la questione se sia realmente possibile una società senza 66

Stato, e soprattutto se la sostituzione dell'anarchia economica, pro­ pria del sistema capitalistico, con un'economia strettamente pianifi­ cata sia compatibile con l'anarchia politica dell'ultima fase del co­ munismo 47 ,

Note

I G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 1 9 64, paragrafi 2 5 7 ,2 5 8. 2 Op. cit. , par. 2 5 8. J Op. cit. , par. 3 3 1 . 4 H . Kelsen, SozialÌJmus und Staat. Eine Untersuchung der politÌJchen Theorie des MarxÌJmus, Leipzig 1 9 2 3 , I l ed. ; trad. it. , Socialismo e stat�, a cura di R. Ra­ cinaro, Bari l 979. ! F. E ngels, L 'origine della famiglia, della proprietà privata, e dello Stato, Ro­ ma, 1 96 3 , p p . 2 00 ss. 6 F. Engels, Anti-Vuhring, Roma 1 9 5 0, p. 3 0 5 . 7 F . Engels, L 'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, cit., pp. 2 0 3 -2 04. 8 V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, con lo studio preparatorio Il marxÌJmo sullo Stato, Roma 1 9 7 2 , Il ed. , p. 8. 9 I passaggi citati nel testo sono presi dal programma adottato il primo set­ tembre 1 9 2 8 dal VI Cong resso mondiale dell'I nternazionale comunista, tenuto­ si a Mosca. Cfr. Storia dell 'Internazionale comunÌJta attraverso i documenti ufficia­ li, a cura di J. Degras, Milano 1 9 7 5 , I l , pp. 5 08 ss. IO

I l

Ibid.

G.W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia del14 storia, 4 volI., Firenze 1 9471 96 3 , l , pp. 1 7- 1 8 . 1 2 Op. cit. , l, p. 1 0 5 . I J Op. cit., l , p . 1 9. 14 Op. cit. , l, p. 7 6. l! Op. cit., l, p. 86. 1 6 Op. cit., l , p. 1 9. 1 7 Op. cit. , l, p. 2 1 . 18 Op. cit. , I V , p. 2 2 0. 1 9 Op. cit. , l, pp. 1 7- 1 9. 20 Op. cit. , l, p. 30. 21 Op. cit. , I V , p . 2 2 0. 22 G.W. F. Hegel, La scienZA della logica, 3 voll. , Bari 1 92 5 Il, p. 7 1 . H Op. Cit. , l l , p. 7 3 .

6H

24 Op. cit., I l , p . 7 0. 2 ' K. Marx, Il capitale, Roma 1 964, v ed., l, p. 44. 26 Cfr. F. Engels, A nti-Diihring, cit. , pp. 1 3 2 ss. N. Bukharin, Teoria del materialismo storico, Firenze 1 9 7 7 . La fallacia fondamentale della dialettica he­

geliana - ossia l'interpretazione dell'antagonismo tra forze opposte come con­ traddizione logica, e il tentativo di eliminare la legge logica di non­ contraddizione - è stata stigmatizzata come « apice dell'assurdità n da E. Diih­ ring, nel suo Cursus der Philosophie ( 1 8 7 5 ), e nella sua Kri"tische Geschichte der Nationalolconomie und Sozialismus ( 1 8 8 7 ). Nell'ultima o�era citata, Diihring cri­ ticò severamente la teoria sociale di Marx. Contro quest op era, app unto, Engels pubblicò il suo Anti-Diihring, il cui scopo principale era difendere la dialettica di H e�el, quale era stata adottata da M arx. n G. W. F. H egel, Lineamtnli di filosofia del diritto, cit., par. 2 5 8 . 2 8 J. V. Stalin, Questioni dtl lwinismo, Roma 1 9 5 2 , Il ed. 29 Op. cit. , pp. 647 -648. )0 Op. cit. , pp. 6 5 1 -6 5 2 . )J V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit. , pp. 1 00 ss. )2 Op. cit., p� . 1 8 ss. H 5toria dell Internazionale comunista, loc. cito )4 J. V. Stalin, Questioni del leninismo, cit. , pp. 6 1 6 sS. )' Cfr. supra, par. 5 . 2 . ) 6 V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p . 1 1 1 . H Il colloquio ebbe luogo il 5 novembre 1 9 2 7 ; cfr. Stalin, Leninism, voI. I l , N ew York 1 9 3 3 , p. 9 9 [ di questo colloquio non vi è trad. it. l . ) 8 J . V. Stalin, Questioni del leninismo, cit. , pp. 6 7 6 SS. )9 Op. cit. , pp. 7 1 9-7 2 0. 40 Op. cit. , p. 7 2 1 . 4 1 Op. cit. , p. 7 2 2 . 42 Op. cit. , pp. 7 2 2-7 2 3 .

4) 44 4' 46

Ihid. Op. cit. , p. 7 2 5 . Storia dell 'Internazionale comunista, loc. cito Nel suo Questioni del leninismo, cit. , pp. 1 66 sS., Stalin esamina la

« que­ stione della vittoria del socialismo in un solo paese n. Egli dice che tale questione implica altre due diverse questioni. In primo luogo, vi è ( la questione della pos­ sibilità di costruire il socialismo con gli sforzi di un solo paese ; e ad esse si deve rispondere affermativamente n. Vi è poi la questione « se un paese, nel quale è stata i nstaurata la dittatura del proletariato, possa ritenersi pienamente garantito contro interventi stranieri , e perciò contro la restaurazione del vecchio ordina­ mento, senza una rivoluzione vittoriosa in un certo numero di altri paesi ; a tale questione si deve rispondere negativamente » . Da queste affermazioni consegue che la ( estinzione dello Stato » può avvenire solo dopo la vittoria della rivolu­ zione socialista almeno in un certo numero di altri paesi. 47 Né M arx né Engels hanno discusso in modo sistematico il problema se­ guente : come sia possibile una società organizzata sotto un sistema economico al-

tamente centralizzato. senza un ordinamento che predisponga � tti coercitivi co­ me sanzioni da infliggere a coloro che violano l'ordinamento. E vero che Lenin tratta questo problema. nel suo Stato e rivoluzione. pp. 1 00 ss. ; ma egli dice sol­ tanto questo : « Non siamo utopisti. e non neghiamo la possibilità e l'inevitabilità di eccessi da parte di singoli individui. né neghiamo la necessità di reprimere tali eccessi. Ma. in primo luogo. per far ciò non occorre una macchina speciale. un apparato speciale di repressione ; ciò può esser fatto dallo stesso popolo in armi. con la stessa semplicità e prontezza con cui qualsiasi folla di persone civili anche nella società moderna. separa due litiganti. o impedisce che si faccia violenza ad una donna. E. in secondo luogo. sappiamo che la causa sociale fondamentale de­ gli eccessi. che consistono nel violare le regole della vita sociale. è lo sfruttamen­ to delle masse. il loro bisogno e la loro miseria. Eliminando questa causa princi­ pale. gli eccessi cominceranno inevitabilmente ad estinguersi. Non sappiamo quanto rapidamente e in quale successione. ma sappiamo che si ..estingueranno. Con l'estinzione di questi eccessi. anche lo Stato .. si estinguerà ». Lo Stato si estinguerà grazie al sem plice fatto che « liberato dalla schiavitu capitalistica. da­ gli orrori indicibili. dalla crudeltà. dalle assurdità e dalle infamie dello sfrutta­ me nto capitalistico. il popolo ac q uisterà gradualmente l'abitudine a osservare le regole elementari della vita sociale. che sono note da secoli e sono state ripetute per mille anni in tutti i libri di scuola. Il popolo si abituerà a osservare queste re­ gole senza impiego della forza. senza costrizione. senza subordinazione. senza uno speciale apparato di costrizione chiamato Stato l) . Quali sono « le regole ele­ mentari della vita sociale. note da secoli ». che Lenin ha in mente ? I principi del­ la morale capitalistica ? E davvero l'ordinamento sociale di una società comuni­ sta. con il suo piano molto complesso di produzione e distribuzione economica. sarà COSI « elementare che non sarà necessario un apparato giuridico per garal'!.­ ti re la p iu stretta obbedienza. dalla 'luale dipende il funzionamento del piano ? E possibile instaurare e conservare un economia pianificata « senza subordinazio­ ne di coloro che sono obbligati ad eseguire il piano a coloro che hanno il pote­ re di progettarlo. emanarlo. e renderlo obbligatorio ? Il punto decisivo è che le cause principali delle violazioni dell'ordinamento sociale derivano dallo sfrutta­ mento capitalistico. e. di conseguenza. non vi saranno piu violazioni siffatte in una società socialista ; il popolo acquisterà l'abitudine a obbedire alle regole del­ l'ordinamento sociale senza impiego della forza. Questa è un' affermazione indi­ mostrata e indimostrabile. »

»

I l . Democrazia o dittatu ra di pa rtito?

1. L'atteggiamento di Marx ed Engels verso la democrazia

Gli scritti di Marx ed Engels rispondono in modo relativamente chiaro alla questione : quale forma di governo debba essere istituita nello Stato proletario. Il Manifesto comunista afferma : cc Il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia è l'ascesa del proletaria­ to alla posizione di classe dominante e la conquista della democra­ zia». Ed Engels, nel suo Per la critica del progetto di programma del Partito socialdemocratico deI 1 8!J l 1 , scrive : cc Se una cosa è certa, è che il nostro partito e la classe operaia possono conquistare il potere solo nella forma della repubblica democratica. Questa invero è la forma specifica della dittatura del proletariato, come già ha dimo­ strato la grande Rivoluzione francese . . . ». Non vi è ragione di supporre che i suggerimenti di Marx ed En­ gels, circa l'organizzazione dello Stato proletario in forma demo­ cratica, debbano essere intesi nel senso che la democrazia istituita nello Stato proletario sarebbe concettualmente diversa dalla demo­ crazia istituita nello Stato capitalistico. Il concetto di democrazia usato da Marx ed Engels è quello tradizionale, secondo cui uno Stato è democratico se risponde a certe esigenze di libertà politica in senso sia positivo, sia negativo. N egli scritti di Marx ed Engels, nulla sorregge la supposizione che la democrazia (quale essi si atten­ devano venisse istituita dalla dittatura proletaria) sia compatibile con la dittatura di un partito politico unico, tale da escludere tutti gli altri partiti, specie quelli socialisti che combattono per l'emanci­ pazione della classe operaia. N ella loro dottrina della dittatura pro­ letaria, Marx ed Engels davano per scontato che il proletariato, al

momento della rivoluzione, costituisse la schiacciante maggioranza del popolo, e fosse unito da una coscienza di classe abbastanza forte da rende�e possibile la leadership indiscussa di un partito socialista. Tra la democrazia dello Stato capitalistico e quella dello Stato pro­ letario, Marx ed Engels ritenevano vi fosse questa sola differenza : che la costituzione dello Stato proletario sarebbe stata pili democra­ tica di quella dello Stato capitalistico. Ai loro occhi, la Comune di Parigi del 1 8 7 l era una sorta di esperimento di rivoluzione prole­ taria. Ciò che essi approvavano in tale esperimento era il fatto che la Comune fosse eletta a suffragio universale, che i funzionari fosse­ ro elettivi, responsabili, e revocabili 2. Questi sono elementi tipici della democrazia, quale è realizzata anche negli Stati capitalistici. 2. Democrazia e rivoluzione

2 . 1 . L' instaurazione pacifica del socialismo. Il riconoscimento del­ la democrazia come forma di governo dello Stato proletario non è affatto coerente con la dottrina, secondo la quale il solo modo per instaurare tale Stato è l'impiego della violenza rivoluzionaria, che certo non è un metodo democratico. N eppure ciò è coerente con la caratterizzazione dello Stato proletario come « dittatura » , che è il contrario della democrazia. Se, in una repubblica democratica a economia capitalistica, si verifica una siu:lazione politica tale da mettere in grado la rivoluzione proletaria di instaurare lo Stato pro­ letario in forma democratica - posto che il proletariato costituisca la maggioranza del popolo, e sia pronto a sostituire il capitalismo con il socialismo -, non vi è ragione di impiegare la violenza. La nazionalizzazione dei mezzi di produzione e tutte le altre misure ne­ cessarie ad abolire lo sfruttamento, le differenze di classe, e gli anta­ gonismi di classe, possono essere adottate mediante atti legislativi ed esecutivi in modo pacifico e costituzionalmente legittimo. Ciò è precisamente quanto sta accadendo in Inghilterra, con il governo del Labour Party. Persino Marx, occasionalmente, ammise questa possibilità. Nel 1 8 7 1 , al tempo della Comune, in una lettera a Ku­ gelmann, Marx scrisse che « il prossimo sforzo della Rivoluzione francese deve essere diretto non, come in passato, a trasferire la

macchina burocratica e militare da una mano all'altra, ma a distrug­ gerla. E questa è la condizione preliminare di qualunque vera rivo­ luzione popolare sul continente » 3. Qui Marx restringe la necessità della rivoluzione al continente europeo. Egli supponeva che una vittoria pacifica del socialismo non fosse da escludersi in Gran Bre­ tagna e negli Stati Uniti. Nel 1 8 7 2 , in un discorso pronunciato do­ po la chiusura del Congresso dell'Internazionale (tenutosi all'Aia), egli disse : « Gli operai dovranno un giorno conquistare il potere politico, per fondare la nuova organizzazione del lavoro. Dovranno rovesciare la vecchia politica, connessa alle vecchie costituzioni, a meno che non vogliano rinunciare alle cose di questo mondo, come gli antichi cristiani che le disprezzavano e disdegnavano. Ma noi non affermiamo che il modo per raggiungere questo obiettivo sia il medesimo in ogni luogo. Sappiamo che si deve tener conto delle istituzioni, abitudini, e consuetudini dei vari paesi, e non neghiamo che vi siano paesi, come l'Inghilterra e l'America (e potrei aggiun­ gere anche l'Olanda, se conoscessi meglio il vostro ordinamento), nei quali gli operai possono ottenere i loro scopi con mezzi pacifici. Ma non in tutti i paesi le cose stanno cosÌ 4 ». Qui, Marx ammette che anche nel continente europeo il socialismo possa essere instaura­ to senza rivoluzione. Queste affermazioni devono essere prese mol­ to sul serio da qualunque interpretazione di Marx che accetti since­ ramente la sua dottrina, secondo la quale lo Stato proletario avrà carattere democratico.

2 . 2 . L 'instaurazione rivoluzionaria del socialismo Lenin, solita­ mente incline a credere in Marx come in un'autorità infallibile, cer­ ca di dimostrare che il suo maestro si sbagliava, quando ammetteva la possibilità di una trasformazione pacifica del capitalismo in de­ mocrazia proletaria. Egli dice, in Stato e rivoluzione : « Oggi, nel 1 9 1 7, questa eccezione fatta da Marx [ nella lettera a Kugel­ mann ] non è piu valida. Sia l'Inghilterra, sia l'America, le maggio­ ri e le ultime rappresentanti della " libertà .. anglosassone, nel senso della assenza di militarismo e burocrazia, sono oggi precipitate nel pantano lurido e sanguinoso, comune a tutta l'Europa, di istituzioni militari burocratiche, cui tutto è subordinato e che tutto calpestano. 7)

Oggi, in Inghilterra come in America, la .. condizione preliminare di qualunque vera rivoluzione popolare " è l'abbattimento, la di­ struzione della " macchina statuale bell'e pronta " (che in quei pae­ si, tra il 1 9 1 4 e il 1 9 1 7 , è stata portata a quella perfezione imperia­ listica, generalizzata in Europa) » J. L'affermazione che in Gran Bretagna e negli Stati Uniti predominano delle « istituzioni militari burocratiche, cui tutto è subordinato e che tutto calpestano », anche nel l 9 1 7, durante la prima guerra mondiale, era una grossolana esagerazione. Se questa vuoI essere una descrizione della situazione nei due paesi in tempo di pace, è certo priva di fondamento. Non vi è costituzione democratica che in tempo di guerra possa funzionare senza restrizioni. Ma, in tempo di pace, può esservi imperialismo, militarismo, burocrazia, e tuttavia può essere in vigore una costitu­ zione democratica, la quale renderebbe possibile a una maggioranza socialista portare pacificamente al potere un governo socialista.

3. Democrazia e capitalismo

Può essere che in uno Stato capitalistico con una costituzione piena­ mente democratica il proletariato non costituisca la maggioranza del popolo, o che, pur essendo maggioranza, non sia una maggio­ ranza socialista ; o, ancora, può essere che vi siano due o piu partiti socialisti contrapposti fra loro. Non può esservi il minimo dubbio che le cose spesso stiano cosi, e forse ciò spiega il fatto che una vera democrazia è possibile in uno Stato capitalistico. In tali circostanze politiche, è ovviamente una finzione parlare di una maggioranza (il proletariato) soggiogata dalla minoranza (la borghesia). In tali cir­ costanze, un movimento rivoluzionario per la realizzazione del so­ cialismo può solo condurre a una vera dittatura, la dittatura di una minoranza sulla maggioranza, e in particolare la dittatura di un par­ tito socialista . Può darsi che in molti paesi, e anche in quelli a costi­ tuzione democratica, la situazione politica sia proprio di questo ti­ po. Solo in tal caso la rivoluzione è necessaria, per realizzare il so­ cialismo ; e in tal caso il socialismo è incompatibile con la democra­ zia. Pare che queste fossero le circostanze, nelle quali il socialismo fu instaurato nella Russia Sovietica. 74

4. L'instaurazione del social ismo in Russia

Il primo settembre 1 9 1 7 , proclamata la repubblica, la Russia stava per diventare una democrazia. Il governo provvisorio, poi rovescia­ to dalla Rivoluzione bolscevica, non era certo responsabile di alcun tentativo di reprimere politicamente il proletariato ; e certo il prole­ tariato non era la maggioranza del popolo russo. Questo fatto fu ammesso anche da membri del partito bolscevico. Radek, ad esem­ pio, immediatamente dopo che il partito bolscevico aveva preso il potere, dichiarò : (c Certamente in Russia il proletariato costituisce solo una minoranza della popolazione » 6. Ciò forse spiega perché Lenin insista con tanta forza sulla tesi che il solo modo per instaura­ re la dittatura del proletariato è la « rivoluzione violenta ». Stalin, che segue Lenin su questo punto, alla domanda se il socialismo pos­ sa essere instaurato senza « rivoluzione violenta », risponde : (C Ov­ viamente no. Pensare che tale rivoluzione possa essere compiuta pa­ cificamente nell'ambito della democrazia borghese, che è adatta al dominio della borghesia, significa una di queste due cose. O signifi­ ca esser pazzi, e aver perduto la normale intelligenza di un uomo, oppure significa un aperto e grossolano ripudio della rivoluzione proletaria » 7. Per dimostrare questo punto egli cita Lenin : Lasciate che la maggioranza della popolazione si dichiari a favore del partito del proletariato. mentre ancora vige la proprietà privata. cioè mentre ancora vige il potere oppressivo del capitale. Solo allora questo partito può e deve prendere il potere. Ecco quanto dicono i democratici piccolo-borghesi. che si chiamano « socialisti ». ma sono in realtà i servi della borghesia . . . Ma noi diciamo : lasciate che il proletariato rivoluzionario prima rovesci la borghesia. rompa il giogo del capitale. e distrugga la macchina dello Stato borghese ; allora il proletariato vit­ torioso sarà capace di guadagnarsi rapidamente la simpatia e il sostegno della maggioranza delle masse lavoratrici non proletarie. soddisfacendo i loro bisogni a spese degli sfruttatori 8 . . Per conquistare la maggioranza della popolazione. il proletariato deve. in primo luogo. rovesciare la borghesia e impadronirsi del po­ tere statuale; in secondo luogo. deve istituire un governo sovietico. e fare a pezzi la vecchia macchina statuale. scalzando cOSI immediatamente il dominio. l'auto­ rità. e l'influenza della borghesia e degli opportunisti piccolo-borghesi sulle masse lavoratrici non proletarie ; in terzo luogo. deve distruggere completamente l'in­ fluenza della borghesia e degli opportunisti piccolo-borghesi sulla maggioranza delle masse lavoratrici non proletarie. soddisfacendo in modo rivoluzionario i lo­ ro bisogni economici a spese degli sfruttatori 9. .

7�

5. L'abbandono del poatulato della democrazia

In Russia, la dittatura del proletariato poté essere instaurata da una minoranza, e difficilmente sarebbe stata possibile la democrazia nel senso ordinario della parola, quale forma politica di tale dittatura. Questi fatti forse spiegano anche perché siano cOSI ambigue e con:­ traddittorie le affermazioni di Lenin intorno alla democrazia come forma di governo dello Stato proletario. Altri teorici del bolscevi­ smo furono piu sinceri a questo riguardo, e ammisero apertamente che la rivoluzione del 1 9 1 7 non instaurò, né poteva instaurare, la democrazia. Bukharin, ad esempio, non si sforza affatto di presen­ tare come democrazia il governo instaurato dalla Rivoluzione bol­ scevica. Egli si oppone alla costituzione sovietica, con la sua « anti­ quata forma di repubblica borghese parlamentare (chiamata talora .. democratica ) ». Ma, nel ripudiare la « repubblica parlamentare borghese », egli respinge !'idea di democrazia in generale. Dice in­ fatti : « Qual è la differenza essen�iale tra una repubblica parlamen­ tare e una repubblica sovietica ? E che in una repubblica sovietica gli elementi non lavoratori sono privati di ogni privilegio, e sono esclusi dagli affari di governo. . . La borghesia, gli ex proprietari ter­ rieri, i banchieri, gli speculatori, i commercianti, i negozianti, gli usurai, gli intellettuali sostenitori di Korniloff, i preti e i vescovi, in breve tutta la nera schiera non ha diritto di voto, non ha alcuno dei diritti politici fondamentali » I O. Era precisamente questa la diffe­ renza tra i bolscevichi, ala sinistra del partito socialdemocratico rus­ so, e i menscevichi, ala destra : questi erano per la democrazia, e quelli no. Nel suo famoso pamphlet Dall 'Ottobre a Brest-Litowsk., Trockij scrive : « Piu d'una volta i filistei hanno richiamato la no­ stra attenzione sul fatto che i nuovi organi parlamentari eletti a suf­ fragio universale erano incomparabilmente piu democratici dei so­ viet, e piu adatti a rappresentare la popolazione. Ma questo criterio democratico formale, in un'epoca rivoluzionaria, è privo di serio contenuto » I l . La democrazia « formale » è i dentica alla democra­ zia, poiché questa è per sua natura appunto una forma di governo. Dice Trockij « Come marxisti, non siamo mai stati fanatici della democrazia formale n. M� nel passo seguente, egli dichiara aperta­ mente che la democrazia - e non solo quella « formale » - non è "

un elemento essenziale del socialismo marxista. In una società classista, le istituzioni democratiche non solo non eliminano la lot­ ta di classe, ma esprimono in modo totalmente imperfetto gli interessi di classe . . . E l e istituzioni democratiche divengono u n mezzo ancora meno perfetto per esprimere la lotta di classe in circostanze rivoluzionarie . . . La possente macchina delle istituzioni democratiche resta tanto pili indietro a questo sviluppo [ rivolu­ zionario ], quanto pili grande è il paese e meno perfetto il suo apparato tecni­ co 1 2 .

Contro Kautsky, Trockij scrive : Egli cerca di dimostrare che per la classe operaia è sempre vantaggioso, nel lun­ go periodo, conservare gli elementi essenziali dell'ordinamento democratico. Ciò, naturalmente, è vero, come regola generale. Ma Kautsky ha ridotto questa verità storica a una banalità accademica. Se, in ultima analisi, è vantaggioso per il proletariato insinuare la sua lotta di classe e anche la sua dittatura attraverso i canali delle istituzioni democratiche, da ciò non segue affatto che la storia gli of­ fra sempre l'opportunità di conseguire questo felice risultato. Nulla, nella teoria marxista, conferma la deduzione che la storia crei sempre tali condizioni come le pili cc favorevoli » al proletariato 1 3.

Trockij afferma che «( i socialisti rivoluzionari di destra » otten­ nero «( una maggioranza nell'Assemblea costituente », «( grazie alla goffa macchina elettorale democratica » . Applicando il metodo dia­ lettico, egli interpreta la situazione come una «( contraddizione ». «( Il risultato fu una contraddizione assolutamente irriducibile nei li­ miti della democrazia formale. E solo i pedanti della politica, che non considerano la logica rivoluzionaria dei rapporti di classe, pos­ sono, di fronte alla situazione del dopo-Ottobre, impartire al prole­ tariato futili lezioni sui benefici e i vantaggi della democrazia per la causa della lotta di classe. » La «( logica rivoluzionaria » significa che la logica dialettica richiede la rivoluzione di una minoranza contro la maggioranza . In termini di logica non dialettica, una mi­ noranza non può giungere al potere in modo democratico. E ciò è precisamente quanto Trockij ammette, quando dichiara : «( Il vero nocciolo della rivoluzione di classe è entrato in un conflitto inconci­ liabile con il suo guscio democratico » 1 4. Ancor pili direttamente, Radek dichiara : «( Il governo sovietico non è una democrazia, è la forma di governo degli operai ». «( La democrazia è il dominio del capitale . . . , uno scenario del dominio capitalistico » l ' 77

6. La reinterpretazione del concetto di democrazia

6 . 1 . Democrazia in ' una società capitalistica ? A differenza di questi autori. Lenin, che aspirava a essere non solo un leader politico, ma anche un marxista ortodosso, intendeva conservare la dottrina del suo maestro, per cui la trasformazione del proletariato in classe do­ minante si identifica con l'instaurazione della democrazia. Tuttavia, poiché questo dogma era in aperta contraddizione con i fatti, egli fu costretto a reinterpretare il concetto di democrazia. In un punto, la sua interpretazione della dottrina di Marx intorno alla democrazia è certamente corretta : allorché egli dice che cc anche la democrazia è uno Stato, e di conseguenza anch'essa scomparirà, quando scom­ parirà lo Stato » 1 6. La democrazia può essere la forma dello Stato proletario, non però la forma della società senza Stato nell'ultima fase del comunismo. Ma, per quanto riguarda lo Stato instaurato dalla dittatura proletaria, Lenin apparentemente si tiene al postula­ to marxiano della democrazia come esigenza autoevidente. Egli di­ ce : cc Sappiamo tutti che la forma politica dello " Stato " [ dopo la rivoluzione ] è la democrazia completa » 1 7 . Vi sono tuttavia altre affermazioni, le quali mostrano che la sua professione di fede nella democrazia come forma di governo per lo Stato proletario non è af­ fatto incondizionata. CosI, dice Lenin : cc Una repubblica democra­ tica è il guscio politico migliore per il capitalismo, e quindi, una vol­ ta che abbia acquisito il controllo . . . di questo guscio, il capitale sta­ bilisce il suo potere in modo cOSI fermo, cOSI sicuro, che nessun cambiamento - di persone, istituzioni, o p,artiti - nell'ambito della repubblica borghese può scuoterlo » 1 8 . E questa la c( repubblica democratica », che, secondo Engels, era la sola forma di governo sotto la quale la classe operaia potesse pervenire al potere e, al te�­ po stesso, c( la forma specifica della dittatura del proletariato » ? E questa la c( repubblica democratica », di cui Lenin dice, ad altro proposito, che è c( di grande importanza per la classe operaia nella sua lotta per la liberazione contro i capitalisti » 1 9 ? Questa c( repub­ blica democratica » è evidentemente la forma politica specifica del capitalismo, e non della dittatura proletaria : come Radek, Bukha­ rin, e Trockij hanno ammesso pili sinceramente. Se, stando alle pa­ role dei profeti, la dittatura proletaria deve essere interpretata come

democrazia, allora lo Stato capitalistico - per il quale la repubblica democratica è ( il miglior guscio politico possibile » - non può es­ sere una democrazia. Per dimostrare ciò, Lenin dapprima ammette ancora che anche in una società capitalistica è possibile una « demo­ crazia completa ». « N ella società capitalistica, nelle condizioni piu favorevoli al suo sviluppo, abbiamo una democrazia piu o meno completa sotto forma di repubblica democratica » 20 . Questa ( de­ mocrazia piu o meno completa » non è, in realtà, alcuna democra­ zia affatto. ( Ma questa democrazia è sempre limitata dalla cornice ristetta dello sfruttamento capitalistico, e perciò resta sempre, in realtà, una democrazia per la minoranza, solo per le classi possiden­ ti, solo per i ricchi. N ella società capitalistica, la libertà rimane sem­ pre pressappoco quella stessa delle antiche repubbliche greche : li­ bertà per i proprietari di schiavi. I moderni schiavi salariati, a causa delle condizioni dello sfruttamento capitalistico, sono talmente schiacciati dal bisogno e dalla miseria che " la democrazia non con­ ta nulla per .loro ", " la politica non conta nulla per loro " ; sicché, nel corso ordinario, pacifico, degli eventi, la maggioranza della po­ polazione è esclusa dalla partecipazione alla vita politica e socia­ le » 2 1 . Questa affermazione è evidentemente scorretta. Ma la sua correttezza o non, qui, è priva di importanza. È interessante solo che Lenin, a questo proposito, neghi che la democrazia esista in uno Stato capitalistico, poiché in esso la maggioranza della popolazione è esclusa dalla partecipazione alla vita politica. Tale esclusione è certamente incompatibile con la democrazia. 6 . 2 . L 'identificazione di democrazia e soCialismo Lenin giustifica la sua affermazione con due argomenti. Il primo è il fatto, già menzio­ nato, dello ( sfruttamento capitalistico » . Questo fatto deve essere ammesso. Esso concerne il contenuto economico dell'ordinamento statuale, non la sua forma politica. E, come si è visto, la democrazia è in primo luogo una specifica forma di Stato, non uno specifico contenuto dell'ordinamento statuale. Che il sistema economico capi­ talistico possa coesistere con il piu alto grado possibile di democra­ zia è un fatto che non si può negare, benché la sua spiegazione pos­ sa risultare poco piacevole ai marxisti. Si potrebbe dire che la de­ mocrazia è inutile se non conduce necessariamente al socialismo. 79

Ma negare a uno Stato, la cui costituzione soddisfi tutte le esigenze della democrazia come forma di governo, il carattere di Stato de­ mocratico, perché il suo sistema economico - nonostante la sua for­ ma democratica di governo - è il capitalismo, e non il socialismo : questa è una inammissibile confusione concettuale. Inoltre, se il principio fondamentale della democrazia è la li­ bertà, non solo la libertà positiva come attiva partecipazione dei cit­ tadini al governo, ma anche la libertà negativa come insieme di re­ strizioni al potere dello Stato sopra gli individui (libertà di coscien­ za, di parola, di stampa, di associazione) ; se, cioè, consideriamo il liberalismo politico un elemento essenziale della democrazia, allora il sistema economico capitalistico è assai piu connesso al sistema po­ litico democratico di quanto non lo sia il sistema economico sociali­ sta. Il principio fondamentale del capitalismo, infatti, è la libertà nella vita economica, è il liberalismo economico ; mentre il sociali­ smo, in quanto sistema di economia strettamente pianificata, opera secondo un principio direttamente opposto al liberalismo economi­ co. Tenendo presenti le idee che sono alla base dei rispettivi sistemi, supporre che solo uno Stato capitalistico possa essere una vera de­ mocrazia sarebbe piu plausibile che dire : nessuno Stato capitalisti­ co, ma solo uno Stato socialista, può essere una vera democrazia. Tuttavia, nessuna di queste due affermazioni è corretta. La forma politica della democrazia può avere come contenuto tanto un siste­ ma economico capitalistico, quanto uno socialista. E la stessa cosa è vera anche per la forma politica dell'autocrazia. Se un dittatore, per questa o quell'altra ragione, instaura o mantiene un sistema econo­ mico socialista, il suo governo resta tuttavia un' autocrazia, e non assume perciò carattere democratico. Ma questa è precisamente una delle tendenze nascoste dell' argomentazione di Lenin : far passare la dittatura proletaria come democrazia, non perché essa risponda ai requisiti di tale sistema politico come forma di governo, ma perché instaura il socialismo. L'identificazione di socialismo e democrazia non è che un tentativo di sostituire l'uno all'altra.

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7. L'importanza della democrazia capital istica nella lotta per

il socialismo

Sembra che lo stesso Lenin non abbia considerato molto convin­ cente l'argomento, per cui uno Stato non sarebbe democratico se il suo sistema economico non fosse socialista. Egli infatti adduce un altro argomento per dimostrare che gli Stati capitalistici - per i quali (( la repubblica democratica è il miglior guscio politico possi­ bile » - non sono affatto democrazie. Invero, questo argomento si riferisce alla forma di governo. Democrazia per una minoranza insignificante, democrazia per i ricchi : ecco la democrazia della società capitalistica. Se guardiamo pili da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, sempre e dovunque troveremo una restrizione do­ po r altra alla democrazia : sia nei « piccoli » (cosiddetti piccoli) dettagli del di­ ritto di voto (restrizione del diritto ai soli residenti, esclusione delle donne, ecc.), sia nella tecnica delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli che di fatto si frappongono all'esercizio del diritto di riunione ( cc gli edifici pubblici non sono fatti per i mendicanti » !), sia nell'organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc., ecc. Questi ostacoli, restrizioni, eccezioni, esclusioni per i poveri sembrano poca cosa, specie agli occhi di chi non ha mai conosciuto il bi­ sogno, e non ha mai avuto rapporti diretti con le classi oppresse, con la vita delle masse (e questa categoria di persone include i nove decimi, se non i novantanove centesimi, dei pubblicisti e dei politici borghesi). Ma, nel loro insieme, queste re­ strizioni escludono e allontanano i poveri dalla politica e dalla partecipazione at­ tiva alla democrazia 2 2 .

Queste affermazioni in parte sono in aperta contraddizione con i fatti, in parte sono grossolane esagerazioni. N ella gran parte delle democrazie capitalistiche, le donne non sono escluse dal diritto di voto, e la (( restrizione del d iritto ai soli residenti » di regola non ha alcun effetto decisivo sul risultato delle elezioni. L'affermazione che (( gli edifici pubblici non sono fatti per i mendicanti » difficilmente può essere presa come una critica seria alle democrazie esistenti. Ed è certo impossibile parlare di una or­ ganizzazione (( puramente » capitalistica della stampa, visto il fatto innegabile che in tutte le democrazie capitalistiche - grazie alla li­ bertà di stampa - esistono giornali socialisti, che hanno talvolta una influenza politica notevole. Se la diffusione di tali giornali talo­ ra non è cOSI vasta come quella dei giornali borghesi, ciò non dipen81

de certamente da alcuna « oppressione ». È tuttavia superfluo con­ futare tutte queste affermazioni, perché le confuta lo stesso Lenin, quando ammette che la democrazia - la democrazia degli Stati ca­ pitalistici - « è di grande importanza per la classe operaia nella sua lotta per la liberazione contro i capitalisti ». Ciò non sarebbe vero, se all'interno di questa pseudodemocrazia la maggioranza del popolo fosse « esclusa dalla partecipazione alla vita politica », se le restrizioni operanti nel meccanismo della demo­ crazia capitalistica potessero « escludere e allontanare i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia ». 8. La dittatura del proletariato: u n a vera democrazia?

Secondo Lenin, lo Stato capitalistico non è una vera democrazia, a causa di certe restrizioni (che, in verità, non esistono o non hanno importanza decisiva) ; ma la dittatura proletaria è una democrazia vera, completa, nonostante restrizioni assai piu incisive, ammesse apertamente da Lenin come necessarie ed essenziali per tale dittatu­ ra. Lenin dichiara che dalla democrazia capitalistica, « inevitabil­ mente ristretta, che respinge sottilmente i poveri, e quindi profon­ damente falsa e ipocrita, il progresso verso una " sempre maggiore democrazia " non avviene semplicemente, direttamente, in modo piano, come vogliono farci credere i professori liberali e gli oppor­ tunisti piccolo-borghesi » 2 3. Per instaurare la dittatura del proleta­ riato, occorre una rivoluzione. « Ma la dittatura del proletariato cioè l'organizzazione in classe dominante dell' avanguardia degli op­ pressi, allo scopo di annientare gli oppressori - non può semplice­ mente produrre un'espansione della democrazia ». Tale espansione della democrazia è l'effetto della dittatura proletaria. D'altra parte, ci sono però delle « restrizioni ». « Insieme con un'immensa espan­ sione della democrazia, che diviene per la prima volta una democra­ zia per i poveri, per il popolo, e non per i ricchi, la dittatura proleta­ ria produce una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori, de­ gli sfruttatori, dei capitalisti. Noi dobbiamo annientare costoro, per liberare l'umanità dalla schiavitu salariata ; la loro resistenza deve essere spezzata con la forza ». Queste idee difficilmente sono com-

patibili con la democrazia, specie con « una immensa espansione della democrazia ». E a questo riguardo, in aperta contraddizione con la sua affermazione che la forma politica dello Stato instaurato dalla rivoluzione proletaria è, « la pili completa democrazia », Le­ nin ammette francamente : « E chiaro che, dove c'è repressione, vi è anche violenza, e quindi non c'è libertà, non c'è democrazia » 24 . Da un lato, vi è la « immensa espansione della democrazia », ma, dall'altro lato, non vi è democrazÌa affatto, perché vi è « repressio­ ne violenta di un gruppo da parte di un altro ». Ma altrove Lenin dice : « La democrazia è uno Stato che riconosce la subordinazione della minoranza alla maggioranza, cioè un'organizzazione per l'im­ piego sistematico della violenza di una classe contro un'altra, di una parte della popolazione contro un'altra » 2 �. In accordo con questa definizione, la dittatura proletaria è una vera democrazia, proprio perché è l'impiego sistematico della violenza di una classe per la re.: pressione di un'altra, ossia è - nel senso della dottrina marxista uno « Stato ». Ma, dice Lenin, nel primo capitolo di Stato e rivolu­ zione, nessuno Stato può essere una vera democrazia, poiché « ogni Stato è una .. speciale forza repressiva " per tenere a freno la classe oppressa. Di conseguenza, nessuno Stato è .. libero " o .. popola­ re » 26. Il « libero Stato popolare » era la rivendicazione contenuta nel programma dei socialdemocratici tedeschi. « Questo slogan » - dice Lenin - non è altro che « una pomposa perifrasi piccolo­ borghese dell'idea di democrazia 27 ». La dottrina per cui nessuno Stato può essere una democrazia è difesa da Lenin in contraddizio­ ne con l'altra dottrina, pure da lui difesa, per cui un solo Stato può essere una democrazia, e tale democrazia è per la classe operaia la migliore forma di governo entro uno Stato capitalistico, ed è, al tempo stesso, la forma di governo dello stato proletario. In conse­ guenza di tale dottrina, Lenin dichiara : « Solo in una società comu­ nista, quando è stata spezzata la resistenza dei capitalisti, quando i capitalisti sono scomparsi, quando non vi sono pili classi (ossia non vi è pili distinzione tra i membri della società secondo i loro rappor­ ti con i mezzi sociali di produzione), solo allora .. lo Stato cessa di esistere ", e .. diviene possibile parlare di libertà ". Solo allora di­ verrà possibile, e sarà realizzata, una democrazia veramente piena, senza eccezioni » 28 . Prima, la « pili completa democrazia » era lo

Stato proletario, e la democrazia era possibile solo nell'ambito di uno Stato. Ora, una « democrazia piena » è possibile solo quando lo Stato abbia cessato di esistere. Ma questa « democrazia piena » « sarà realizzata » solo in vista della sua sparizione. Lenin conti­ nua : « Solo allora la democrazia stessa comincia a estinguersi » . Dopo che l o S tato abbia cessato d i esistere, l a democrazia soltanto (C comincerà » a estinguersi, sicché vi sarà un periodo durante il quale la società comunista non sarà uno Stato, ma sarà una demo­ crazi;I. nonostante il fatto - su cui Lenin ha insistito ad altro pro­ posito - che « la democrazia è pur sempre uno Stato », e « di con­ seguenza anche la democrazia scomparirà quando scomparirà lo Stato » . Tutte queste assurde contraddizioni sono conseguenza i"nevitabi­ le del fatto che la dittatura proletaria è proprio ciò che dice il no­ me : una dittatura, non una democrazia, e deve essere concepita co­ me democrazia perché cOSI è stata chiamata da Marx ed Engels. Il termine (C democrazia », sottoposto a questo uso e abuso, non può non perdere qualunque significato specifico. Un'affermazione di Lenin. nel discorso sulla Edificazione economica ( 3 1 marzo 1 9 2 0), mostra fino a che punto tale abuso sia possibile : « Ora si ripropone una questione, sulla quale già molto tempo fa, con chiarezza e con l'approvazione del comitato centrale esecutivo, abbiamo preso una decisione : la democrazia socialista sovietica non è affatto incompa­ tibile con il governo e la dittatura di una sola persona ; a volte, la volontà di una classe è attuata nel modo migliore da un dittatore, che talora può essere pili efficiente, e che frequentemente è necessa­ rio » 2 9 . 9. L a dittatura proletaria come d ittatura del partito comunista

Se alla domanda, quale sia la forma di governo dello Stato sovieti­ co, vogliamo rispondere sulla base della sua vera costituzione, inve­ ce che secondo le sacre scritture del comunismo, diviene ancora pili evidente che il primo Stato instaurato da una rivoluzione socialista rappresenta un tipico esempio di dittatura di un partito politico. La qual cosa fa SI che la Russia" bolscevica appartenga alla stessa cate�4

goria della Germania nazista e dell'Italia fascista. È difficile negare che in Russia la cosiddetta dittatura proletaria sia stata, fin dall'ini­ zio, la dittatura del partito bolscevico. Durante la discussione al se­ condo congresso dell'Internazionale comunista, Lenin fece la se­ guente affermazione : Tanner dice di stare dalla parte della dittatura proletaria, ma rappresenta la dittatura proletaria in modo diverso da noi. Dice che per dittatura del proletaria­ to noi intendiamo essenzialmente la dittatura della sua minoranza organizzata e dotata di coscienza di classe. E di fatto, nell'epoca del capitalismo, quando le masse dei lavoratori sono soggette a uno sfruttamento costante, e non possono sviluppare le loro facoltà umane, l'aspetto pili caratteristico dei partiti politici della classe operaia è che essi possono abbracciare solo una minoranza della loro classe. Un partito politico può organizzare solo una minoranza della classe ; allo stesso modo, in ogni società capitalistica, gli operai veramente dotati di coscien­ za di classe costituiscono solo una minoranza di tutti gli operai. Ecco perché dobbiamo ammettere che solo questa minoranza dotata di coscienza di classe possa guidare e dirigere le grandi masse operaie. E se il compagno Tanner dice di essere contrario ai partiti, e al tempo stesso favorevole a una minoranza, che rappresenti gli operai meglio organizzati e pili rivoluzionari, e indichi al proleta­ riato intero la via da seguire, allora io dico che in realtà non vi sono differenze tra noi 30.

La c c minoranza che rappresenta gli operai meglio organizzati e piu rivoluzionari » è il partito comunista. La dittatura di questa mi­ noranza è la dittatura del partito comunista. L'esistenza di una dit­ tatura di partito è qui ammessa da Lenin. 1 0. La

cc

dittatura

••

secondo l'interpretazione di Stalin

Stalin cerca di cancellare questa ammissione di Lenin che nella Rus­ sia sovietica vi sia una dittatura di partito. La sua interpretazione di Lenin è depositata nelle seguenti affermazioni. (a) Lenin non riteneva irreprensibile ed esatta la formula cc dittatura del parti­ to » ; per questa ragione, essa è usata molto raramente nelle opere di Lenin, e tal­ volta è usata tra virgolette. (b) Nelle poche occasioni, in cui Lenin, in polemica con gli avversari, fu costretto a parlare di dittatura del partito, egli si rifed di so­ lito alla « dittatura di un solo partito », cioè al fatto che il nostro partito detiene da solo il potere, non condivide il potere con altri partiti. I noltre, egli chiari sem­ pre che la dittatura del partito nei confronti della classe operaia significa la leader-

ship del partito. il suo ruolo dirigente. (c) In tutti i casi (e furono parecchi). in cui ritenne necessario definire scientificamente il ruolo del partito nel sistema della dittatura proletaria. Lenin parlò esclusivamente del ruolo dirigente del partito nei confronti della classe operaia. (d) Ecco perché c( non è mai venuto in mente » a Lenin di includere la formula c( dittatura del partito » nella risoluzione fonda­ mentale sul ruolo del partito (alludo alla risoluzione adottata al secondo congres­ so dell'Internazionale comunista). (e) Dal punto di vista del leninismo. hanno torto. e sono politicamente miopi. quei compagni che identificano o cercano di identificare la c( dittatura » del partito - e quindi la cc dittatura dei dirigenti » con la dittatura del proletariato ; in tal modo. essi violano le condizioni del giusto rapporto tra avanguardia e classe � I .

Secondo Stalin, l'argomento decisivo contro la correttezza del termine ( dittatura del partito » è che tale espressione (( scorretta­ mente attribuisce al partito la funzione di iIl}piegare la violenza con­ tro la classe operaia nel suo insieme » H. E certamente vero che il partito comunista non impiega la violenza contro la classe operaia nel suo insieme. Ma ciò non esclude il fatto innegabile che il partito comunista impieghi la violenza individualmente contro tutti i mem­ bri della classe operaia che non seguono la sua linea. Questo fatto, insieme con l'esclusione di tutti gli altri partiti, giustifica perfetta­ mente l'uso del termine ( dittatura del partito » . 1 1 . L a Costituzione del 1 936

Il fatto della dittatura di partito non può essere occultato neppure dalla nuova Costituzione del 1 9 3 6, la cosiddetta Costituzione di Stalin, la quale ha accantonato la maggior parte delle restrizioni ai diritti politici dei cittadini, stabilite dalle precedenti costituzioni del 1 9 1 8 e del 1 92 4. L'abolizione di queste restrizioni è giustificata dal fatto che la Costituzione - secondo la testimonianza di Stalin medesimo - muove dal presupposto che ( non vi sono pili classi antagonistiche nella società ; la società è costituita da due classi ami­ che, gli operai e i contadini, e sono queste classi - le classi lavora­ trici - che detengono il potere ; la direzione della società da parte dello Stato (la dittatura) è nelle mani della classe operaia, la classe pili avanzata della società ; la Costituzione è necessaria allo scopo di consolidare l'ordinamento sociale desiderato dai lavoratori e van86

taggioso per essi » 3 3. Queste affermazioni significano che lo Stato sovietico non è pili cc uno strumento nelle mani della classe domi­ nante per reprimere la resistenza delle classi nemiche », non è pili una dittatura proletaria, poiché non vi è pili alcun proletariato che possa esercitare tale dittatura, e non vi è pili alcuna borghesia da re­ primere. Simile Stato, certamente, non ha alcuna ragione per non essere pienamente democratico. E sembra, a prima vista, che la Co: stituzione del 1 9 3 6 fosse intesa a stabilire siffatta democrazia. E perfettamente vero, come dice Stalin, che la costituzione è cc libera da quei limiti e riserve », che altre costituzioni conservano ; è vero che, per la nuova Costituzione sovietica, cc non esistono cittadini at­ tivi e cittadini passivi : tutti i cittadini sono attivi. r Il Progetto di Costituzione] non riconosce alcuna differenza di diritti tra donne e uomini, residenti " e non residenti ", possidenti e non possiden­ ti, istruiti e non istruiti. Per esso, tutti i cittadini hanno eguali dirit­ ti. La posizione di ogni cittadino nella società non è determinata dal censo, dall'origine nazionale, dal sesso, o dalla carica pubblica, ma dall'abilità personale e dal lavoro prestato ». Gli organi legisla­ tivi ed esecutivi dello Stato sovietico sono eletti dal popolo in base a un sistema elettorale perfettamente democratico. Una Carta dei diritti garantisce ai cittadini libertà di parola, libertà di stampa, li­ bertà di assemblee e riunioni, libertà di cortei e manifestazioni nelle vie, nonché il cc diritto di associarsi in organizzazioni sociali, sinda­ cati, organizzazioni cooperative, organizzazioni giovanili, sportive, e di difesa, società culturali, tecniche, e scientifiche » ; inoltre, sono garantite l'inviolabilità della persona e del domicilio, e la segretezza della corrispondenza. La -Costituzione sovietica risponde a tutti i requisiti di una de­ mocrazia radicale, fuorché uno : non vi è libertà di costituirsi e di agire per i partiti politici. Solo un partito politico, quello comunista, è giuridicamente permesso, e non può essere eletto alcun candidato che non sia da esso approvato. La costituzione scritta, è vero, non proibisce gli altri partiti. Del partito comunista, dice solo questo : cc I cittadini pili attivi e coscienti in seno alla classe operaia e agli strati di lavoratori si uniscono nel partito comunista (bolscevico) dell'Unione, che è l'avanguardia dei lavoratori nella loro lotta per il rafforzamento e lo sviluppo dell'ordinamento socialista, e rappreU

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senta il nucleo dirigente di tutte le organizzazioni di lavoratori, sia sociali sia di Stato » (art. 1 2 6). L'ultima affermazione può essere interpretata nel senso che tutte le organizzazioni siano poste sotto il controllo politico del partito comunista. Questa, certo, è proprio la situazione esistente nella Russia sovietica. Alla luce di ciò deve esse­ re intesa la disposizione della Costituzione, per la quale « il diritto di nominare candidati [ alle elezioni ] è assicurato alle associazioni e organizzazioni sociali dei lavoratori : organizzazioni del partito comunista, sindacati, cooperative, organizzazioni della gioventu, società culturali » (art. 1 4 1 ). 1 2. La realtà pol itica della Russia Sovietica

In realtà, il partito comunista ha un controllo esclusivo e assoluto sull a nomina dei candidati. Di regola, in ogni circoscrizione eletto­ rale, si presenta agli elettori un solo candidato, sicché di fatto non si verifica alcuna pubblica contesa, e gli elettori hanno solo la scelta tra approvare o disapprovare (mediante scheda bianca) il candidato presentato - direttamente o indirettamente - dal partito dominan­ te. Nelle elezioni del 1 9 3 7 e del 1 9 3 8, il 9 8,6% degli elettori vota­ rono a favore dei candidati. Anche nelle elezioni generali del 1 946, gli elettori potevano votare un solo candidato (nominato in prece­ denza) per ogni seggio. È significativo che, nella campagna eletto­ rale di quell'anno, N . I . Kalinin, presidente dell'Unione Sovietica, ritenesse necessario giustificare questo sistema elettorale, per il qua­ le è esclusa qualsivoglia competizione tra candidati portatori di di­ versi programmi politici. Egli disse che nelle democrazie borghesi le elezioni sono contese per il potere fra partiti, « calcolate non per elevare e sviluppare la coscienza politica delle masse, ma per asso­ pirle, accecarle, e spegnere in loro ogni piu piccolo segno di pensie­ ro politico indipendente ». Secondo il presidente Kalinin, in Unio­ ne Sovietica le elezioni somigliano piuttosto a ricognizioni sopra lo Stato della nazione. « Si discutono le qualità pubbliche e il valore politico dei candidati, e si valutano le loro attività precedenti. Co­ me risultato, per il giorno delle votazioni gli elettori hanno scelto all'unanimità una persona determinata, che risponda alle esigenze, e

per la quale essi esprimono unanimemente i loro voti » 3 4 . N elle elezioni del 1 946, la maggior parte dei candidati erano membri del partito comunista, ma furono presentati anche taluni candidati che non erano membri del partito. Nel suo discorso, alla vigilia di que­ ste elezioni (9 febbraio 1 946), Stalin, dopo una relazione sull'atti­ vità del partito comunista, disse : « lo ritengo che la campagna elet­ torale costituisca il giudizio degli elettori sul partito comunista in quanto partito di governo. Il risultato elettorale sarà il verdetto de­ gli elettori. Il nostro partito non varrebbe molto, se avesse paura di affrontare questo verdetto. Il partito comunista non ha paura del verdetto degli elettori » 3 5 . Dato che gli elettori non avevano reale possibilità di scelta, non poteva esservi dubbio sopra questo « ver­ detto ». Di fatto, il 99, 1 8% del numero complessivo degli elettori che si presentò alle urne votò per i candidati del blocco dei comuni­ sti e dei senza-partito ; soltanto lo 0, 8 1 % si oppose ai candidati pro­ posti 36. In quello stesso discorso, Stalin giustificò anche il fatto che il partito comunista si presentasse alle elezioni insieme con candida­ ti che non erano suoi membri. « In passato, i comunisti avevano un certo atteggiamento di sfiducia verso i senza-partito » ; ma « ora i tempi sono cambiati. I senza-partito sono adesso separati dalla bor­ ghesia da una barriera che si chiama sistema sociale sovietico. Que­ sta stessa barriera unisce i senza-partito e i comunisti in un tutto unico col popolo sovietico . . . La sola differenza tra loro è questa : al­ cuni sono �embri del partito e altri no. Ma è una differenza solo formale ». E tanto piu « formale », in quanto i senza-partito non possono essere nominati candidati contro la volontà del partito. I deputati - membri del partito o no -, eletti a far parte del So­ viet supremo dell'URSS, adottano tutte le decisioni all'unanimità. N ulla indica piu chiaramente che, nella Russia sovietica, la vita po­ litica è soggetta totalmente alla dittatura del partito comunista. La Costiruzione sovietica del 1 9 3 6 è una splendida facciata democrati­ ca, dietro la quale un piccolo gruppo di persone esercita un control­ lo illimitato sopra una delle piu grandi nazioni del mondo. N ella sua relazione sul Progetto di Costituzione, Stalin ammette francamente che questa Costituzione non concede « libertà ai parti­ ti politici », ma « conserva inalterata l'attuale posizione dirigente del partito comunista dell'URSS ». Egli fa anche un tentativo di

giustificare il sistema a partito UnICO come sistema democratico. Un partito è il partito di una classe, la sua parte pili avanzata. Diversi partiti, e quindi libertà per i partiti, possono esistere solo in una società, nella quale vi siano classi antagonistiche con interessi contrapposti e inconciliabili : nella quale vi siano, ad esempio, capitalisti e operai, proprietari fondiari e contadini, kulaki e contadini poveri, ecc. Ma in URSS non vi sono pili classi come capitalisti, pro­ prietari fondiari, kulaki, ecc. In URSS vi sono due classi soltanto, operai e con­ tadini, i cui interessi - lungi dall'essere contrapposti - sono anzi comuni. Per questo, in URSS non c'è fondamento all'esistenza di diversi partiti, né quindi al­ la libertà per i partiti. In URSS c'è fondamento solo per un partito, il partito co­ munista. In URSS può esistere solo un partito, il partito comunista, che difende coraggiosamente e fino in fondo gli interessi degli operai e dei contadin i p .

Se davvero un partito politico fosse solo « parte di una classe » , e s e pili partiti potessero esistere solo i n presenza d i classi antagoni­ stiche, non vi sarebbe ragione di non concedere piena libertà ai par­ titi politici nella Russia Sovietica. Poiché là non esistono classi anta­ gonistiche, non potrebbe costituirsi che un solo partito. Tuttavia, la storia della Russia Sovietica mostra chiaranlente che : primo, anche quando ancora esistevano classi antagonistiche ( cc capitalisti e ope­ rai, proprietari fondiari e contadini, kulaki e contadini poveri »), un solo partito era permesso, quello comunista ; e, secondo, due partiti politici aI)tagonistici possono formarsi anche a1l' interno di un'unica classe. Se lo Stato sovietico non cc si estingue » (nonostante il fatto che non vi sia pili una classe borghese da reprimere), ciò sicuramen­ te accade perché possono esservi partiti politici (antagonistici a quello comunista) da reprimere. Benché non vi siano pili classi anta­ gonistiche nella Russia sovietica, vi è nondimeno un grande perico­ lo che appaiano partiti politici ostili a quello dominante. E, poiché la formazione e l'attività di tali partiti deve essere prevenuta, ecco che lo Stato sovietico non è una democrazia. Ma ciò non impedisce a Stalin, dopo aver ammesso la cc leadership del partito comuni­ sta » e l'esclusione di tutti gli altri partiti politici - il che significa : dittatura del partito comunista -, di dichiarare : cc la Costituzione dell' URSS è la sola costituzione al mondo compiutamente demo­ cratica ». La teoria bolscevica è !'ideologia di un movimento rivoluziona­ rio reale, che apertamente confessa l'intenzione di distruggere tutti i valori - i falsi valori - del passato, al fine di costruire un mondo

nuovo e migliore. È strano che siffatta dottrina, cOSI come è presen­ tata dalla sua pili eminente autorità, pretenda tuttavia - in aperta contraddizione con i fatti, e a prezzo di discutibili distorsioni - di conservare un valore della civiltà condannata : l'ideale della demo­ crazia. Questo sacrificium intellectus può essere spiegato col fatto che anche la filosofia pili rivoluzionaria non può ignorare l'indistruttibi­ le desiderio umano di libertà ; desiderio che, se non può essere sod­ disfatto con le azioni, deve esserlo almeno con le parole. La dottri­ na bolscevica cerca di farci credere che la democrazia sia il solo va­ lore della vecchia società capitalistica, che la nuova società comuni­ sta deve fare proprio. E ciò può a sua volta essere spiegato anche meglio con il vantaggio straordinario, di cui gode la terminologia democratica in una lotta politica, che - non primariamente, né esclusivamente - è tuttavia diretta proprio contro la democrazia.

Note

I

F. Engels. Per la critica del progel/o di programma del Partito socialdemocrati­ 1 8.') 1. in cc Critica marxista ». 1 96 3 . n. 3 . p. 1 2 9. l F. Engels. Introduzione a K. Marx. La guerra civile in Francia. in K. Marx e F. Engels. Il Partito e l 'Internazionale. Roma 1 948. � K. Marx. LeI/ere a Kugelmann. Roma 1 9 5 0. p. 1 3 9. 4 Citato da K. Kautsky. La dil/atura del proletariato. Milano 1 9 7 7 . pp. 3031. l V. I. Lenin. Stato e rivoluzione. cit p. 46. Stalin. nel suo cc Pri ncipi del leni­ nismo » . in Questioni del leninismo. cit p. 4 3 . aderisce incondizionatamente a questa opinione di Lenin. Egli dice che cc la riserva di Marx .. sul continente " è ormai obsoleta. e ciò che egli diceva dell'Europa continentale si applica con egual forza alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti ». Marx ammetteva la possibi­ lità di uno sviluppo pacifico della democrazia borghese in democrazia proletaria anche per il continente europeo ; ma ciò viene ignorato. 6 K. Radek. Lo sviluppo del socialismo dalla scienza all 'azione. ed. tedesca. Vienna 1 9 1 8. p. 1 8 . 7 J.V. Stalin Questioni del leninismo. cit pp. 1 3 8- 1 39. 8 V. I. Lenin. Opere scelte. ed. russa. voI. VI. pp. 48 2-48 3 . 9 Op. cit . . p . 47 5 . I O N . Bukharin. Il programma dei comunisti (bolscevichi). Milano 1 920. I l L. Trockij. Dalla Rivoluzione d' ollobre alla pace di Brest-Litows(. Roma 1 945. p. 45.

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Ibid. Op. cit p. 80. 1 4 Op. cit . . p. 8 2 . 1 5 Radek. op.cit pp. 2 9. 2 6. 16 V. I . Lenin. Stato e rivoluzione. cit pp. 1 8 17 Op. cit . p. 2 I . 1 8 Op. cit. . p. 1 6. 1 9 Op. cit p. 1 1 4. lO Op. cit pp. 1 00 SS. lI Ibid. ZZ Op. cit . . pp. 1 0 1 - 1 02 . I �

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H Op. cit., p. 1 02 . 24 Ivid. 2 � Op. cit. , p. 9 5 . 26 Op. cit. , pp. 1 4 ss. 27 Op. cit., p. 2 4. 2 8 Op. cit. , p. 1 0 5 . 2 9 V. 1. Lenin, Opere scelte, ed. russa, voI. X V I I , p . 8 9 ; citato d a J . Martov, The State and the Socialist Retlolution, New York 1 9 3 8 , p. 3 1 . 30 V. I ., Lenin, Opere scelte, ed. russa, voI. x , p. 2 1 4 ; citato da Stalin, Questioni del leninismo, cit. , pp. 1 48- 1 49. " l V. , Stalin, op. cit. , pp. 1 64- 1 6 5 . 3 2 Op. cit. , p . 1 5 2 . H Op. cit., p . 6 2 4. 34 c( N ew York Times )), 8 febbraio 1 946, p. 4. 3 � c( New York Times n, l O febbraio 1 946, p. 30. 36 cc Information Bulletin of the Embassy of the USSR )), Washington, voI. VI,

1 946, n. 2 4, p. 5 . lV. Stalin, Questioni del leninismo, cit. , p . 6 3 2 .

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93

I l di ritto come specifica tecnica socia le *

1 . L'essenza della tecnica giuridica

1 . 1 . Tecniche sociali di motivazione diretta e indiretta La conviven­ za degli esseri umani è caratterizzata dal fatto che il loro mutuo comportamento è soggetto a regole. La convivenza degli individui (fenomeno, di per sé, biologico) diviene fenomeno sociale proprio per il fatto di essere soggetta a regole. La società è convivenza ordi­ nata, o, pili precisamente, la società è un ordinamento della convi­ venza tra gli individui. La funzione di ogni ordinamento sociale è ottenere dagli indivi­ dui un certo mutuo comportamento : indurii a tenere un certo com­ portamento, positivo e negativo, a compiere una certa azione o ad astenersene. Agli individui l'ordinamento appare come un comples­ so di regole, che determinano il modo in cui essi devono reciproca­ mente comportarsi. Tali regole sono dette norme. Diversi tipi di ordinamenti sociali possono distinguersi a secon­ da del modo in cui è ottenuto il comportamento socialmente desi­ derato. Questi tipi - si tratta, qui, di tipi ideali - sono caratterizza­ ti dalla specifica motivazione cui l'ordinamento ricorre per indurre gli individui a comportarsi come desiderato. La motivazione può essere diretta o indiretta. L'ordinamento può connettere certi van­ taggi alla sua osservanza, e certi svantaggi alla sua inosservanza ; cosicché il desiderio per il vantaggio promesso o il timore per lo *

The Law as a Specific Social Technique. in « University of Chicago Law Re­ view )). 1 94 1 . ora in H. Kelsen. What is Justice ? Justice, Law, and Politics in the Mirror o[ Science. Berkeley and Los Angeles 1 9 5 7 . pp. 2 3 1 -2 5 6. 94

svantaggio minacciato divengano motivi per il comportamento. Il comportamento conforme all'ordinamento è seguito da una sanzio­ ne, predisposta dall'ordinamento stesso. Il principio della pena e del premio (ossia il principio di retribuzione), fondamentale per il vivere sociale, consiste nell' associare la condotta conforme all'ordi­ namento e la condotta contraria ad esso, rispettivamente, con un v � ntaggio promesso o con uno svantaggio minacciato, quali sanzio­ nl. Tuttavia, l'ordinamento può richiedere una condotta che attrag­ ga gli individui come vantaggiosa, anche senza promettere premi per l'obbedienza e senza minacciare svantaggi per la disobbedienza, cioè senza stabilire sanzioni. In questi casi, la semplice idea della norma che impone un dato comportamento è motivo sufficiente per agire in conformità alla norma stessa. Nella realtà sociale, è raro trovare in forma pura questo tipo di motivazione diretta. In primo luogo, difficilmente vi sono norme il cui scopo attragga direttamente gli individui, dei quali regolano la condotta, cosicché la semplice idea della norma costituisca motivazione sufficiente. Inoltre, il comportamento sociale degli individui è sempre accom­ pagnato da un giudizio di valore, cioè dall'idea che la condotta conforme all'ordinamento sia « buona » e la condotta contraria « cattiva ». Perciò, l'obbedienza all'ordinamento è di solito .connes­ sa all'approvazione dei propri simili, e la disobbedienza è èonnessa alla loro disapprovazione. Questa reazione del gruppo alla condotta degli individui (conforme, o non, all'ordinamento) ha lo stesso ef­ fetto di una sanzione predisposta dall'ordinamento. Da un punto di vista realistico, la differenza decisiva non corre tra gli ordinamenti sociali la cui efficacia riposa su sanzioni, e quelli la cui efficacia non riposa su sanzioni. Ogni ordinamento sociale è in qualche modo « sanzionato » dalla specifica reazione della comunità alla condotta (conforme, o non, all'ordinamento) dei suoi membri. Ciò è vero an­ che per i sistemi morali altamente sviluppati, che pili si avvicinano al modello della motivazione diretta per mezzo di norme non san­ zionate. La sola differenza è che certi ordinamenti sociali predi­ spongono essi stessi sanzioni determinate, mentre in altri le sanzioni consistono in una reazione automatica della comunità, non espressa­ mente predisposta dall'ordinamento. 95

Le sanzioni predisposte dall'ordinamento stesso possono avere carattere trascendente (cioè religioso), oppure sociale-immanente. N el primo caso, le sanzioni predisposte dall'ordinamento consi­ stono in vantaggi o svantaggi, che devono essere applicati agli indi­ vidui da un'autorità sovrumana, un essere pili o meno caratterizzato come un Dio. Secondo l'idea che gli individui ne hanno, agli inizi dello sviluppo religioso, gli esseri sovrumani esistono non in un al­ dilà distinto dall'aldiquà, ma nella natura che circonda l'uomo e in stretto legame con l'uomo. Il dualismo fra aldiquà e aldilà è ancora sconosciuto all'uomo primitivo. I suoi primi dèi sono probabilmen­ te le anime dei morti, specie degli antenati, che vivono negli alberi, nei fiumi, nelle rocce, e soprattutto negli animali. Sono esse a ga­ rantire la conservazione dell'ordinamento sociale primitivo, punen­ done le violazioni con la morte, la malattia, la cattiva fortuna nella caccia, e cOSI via ; e, similmente, premiandone l'osservanza con la lunga vita, la salute, e la buona fortuna nella caccia. La retribuzione emana SI dalla divinità, ma si realizza nell'aldiquà. La natura è spie­ gata dall'uomo primitivo secondo il principio di retribuzione. Pos­ siamo congetturare che il primo ordinamento sociale avesse caratte­ re religioso : originariamente, esso conosce solo le sanzioni religiose, quelle cioè emananti da un'autorità sovrumana. Solo pili tardi, al­ meno all'interno di un gruppo ristretto, accanto alle sanzioni tra­ scendenti appaiono sanzioni socialmente immanenti, ossia social­ mente organizzate, che devono essere applicate dagli individui in conformità alle prescrizioni dell'ordinamento sociale. Nelle relazio­ ni tra i gruppi, la vendetta di sangue appare molto presto come reazione contro un'offesa considerata ingiustificata e dovuta a un membro di un gruppo straniero. Il gruppo, da cui proviene questa reazione, è una comunità fon­ data su relazioni di sangue. La reazione è provocata dalla paura per l'anima della persona assassinata. L'anima del morto non può ven­ dicarsi da sé sopra l'assassino, se questi appartiene a un gruppo stra­ niero ; quindi essa spinge i parenti a compiere la vendetta. La san­ zione, cOSI organizzata socialmente, è essa stessa garantita da una sanzione trascendente. Coloro che .omettono di vendicare la morte del parente, contro l'assassino straniero e il suo gruppo, sono mi­ nacciati di malattia e morte dall'assassinato. Sembra che la vendetta

di sangue sia la sanzione socialmente organizzata più antica. Vale la pena di osservare che essa aveva originariamente carattere inter­ tribale. Solo quando la comunità sociale incluse diversi gruppi basa­ ti su relazioni di sangue, la vendetta di sangue divenne istituzione intratribale. N el successivo sviluppo religioso, la divinità è concepita come appartenente a un regno molto diverso e molto lontano dall'aldi­ quà, e la realizzazione della retribuzione divina è sospinta nell'al­ dilà. Assai spesso l'aldilà - in corrispondenza con le due facce della retribuzione - è suddiviso in un paradiso e in un inferno. A questo stadio, l'ordinamento sociale ha perduto il suo carattere puramente religioso. L'ordinamento religioso funziona solo come supplemento e supporto dell'ordinamento sociale. Le sanzioni di quest'ultimo so­ no esclusivamente atti di individui wnani, disciplinati dall'ordina­ mento stesso. Delle due sanzioni qui presentate come tipiche - lo svantaggio minacciato a chi disobbedisca (la pena, nel senso pili lato del termi­ ne), e il vantaggio promesso a chi obbedisca (il premio) - la prima gioca nella realtà sociale un ruolo di gran lunga pili importante del­ la seconda. La tecnica della punizione è preferita a quella della ri­ compensa : ciò si può vedere chiaramente laddove l'ordinamento sociale ha ancora un carattere nettamente religioso, ossia è garanti­ to da sanzioni trascendenti. Il comportamento conforme all'ordina­ mento sociale dei popoli primitivi - specie l'osservanza dei nume­ rosi divieti, detti (( tabli » - è determinato principalmente dalla paura, che domina la vita di tali popoli : la paura di un male terri­ bile, con il quale l'autorità sovrumana reagisce a ogni violazione delle tradizioni. Se le violazioni di norme sociali sono assai meno frequenti nelle società primitive che nelle società civili, come riferi­ scono gli etnologi, è soprattutto questa paura per la vendetta degli spiriti - paura di una punizione di origine divina, ma che ha luogo nell'aldiquà - che è responsabile di questo effetto di conservazione dell'ordinamento sociale. La speranza del premio ha solo un'impor­ tanza secondaria. E anche nelle religioni pili altamente sviluppate in cui la retribuzione divina si realizza non pili o non solo in questo mondo, ma nell'aldilà - l'idea della punizione dopo la morte gioca il ruolo principale. Nelle reali credenze dell'umanità, la paura del97

l'inferno è assai piil viva, e l'immagine di un luogo di punizione è assai piil concreta, che non la speranza, per lo piil solo molto vaga, di un premio in paradiso e l' idea affatto incolore di una futura bea­ titudine. Anche quando la fantasia gratificante degli individui non è limitata da alcuna restrizione, essa immagina un ordinamento tra­ scendente, la cui tecnica è non del tutto diversa da quella della so­ cietà empirica. Ciò dipende forse dal fatto che l'ideologia religiosa rispecchia sempre, piil o meno accuratamente, la realtà sociale. E in questa, per quanto riguarda l'organizzazione del gruppo, essenzialmente un solo metodo per ottenere il comportamento socialmente desiderato è preso in considerazione : la minaccia e l'inflizione di un male per il comportamento contrario, insomma la tecnica della punizione. La tecnica della ricompensa gioca un ruolo significativo solo nei rap­ porti privati degli individui . Quando la sanzione è socialmente or­ ganizzata, il male inflitto a chi violi l'ordinamento consiste nella privazione di un bene posseduto : la vita, la salute, la libertà, o la proprietà. Poiché questi beni vengono sottratti contro la volontà dell'interessato, la sanzione ha carattere di misura coercitiva. Ciò non significa che, nell'applicare la sanzione, si debba usare la forza fisica : questa è necessaria solo ove si incontri resistenza. Ma la resi­ stenza è rara, quando l'autorità che applica la sanzione possiede un potere adeguato. Un ordinamento sociale, che cerca di ottenere da­ gli individui il comportamento desiderato mediante simili misure coercitive, è detto (C ordinamento coercitivo ». Come tale, esso si contrappone a tutti gli altri possibili ordinamenti sociali : quelli che comminano, come sanzioni, premi piuttosto che pene ; e specialmen­ te quelli che non impongono sanzioni per nulla, affidandosi alla tec­ nica della motivazione diretta. In contrasto con gli ordinamenti che impongono, come sanzioni, delle misure coercitive, l'efficacia degli ordinamenti di altro tipo riposa non sulla coercizione, ma sull' obbe­ dienza volontaria . Tuttavia, questo contrasto non è cOSI netto come a prima vista potrebbe apparire. Ciò risulta dal fatto che la ricompensa, come tecnica di motivazione indiretta, si colloca tra la motivazione indi­ retta mediante punizione (come tecnica coercitiva) e la motivazione diretta (tecnica dell'obbedienza volontaria). La stessa obbedienza

volontaria è una forma di motivazione, ossia di coercizione, e quin­ di è altro dalla libertà : si tratta di coercizione in senso psicologico. L'elemento della coercizione psichica non può servir� da criterio per distinguere fra diversi tipi di ordinamenti sociali : r efficacia di ogni ordinamento sociale riposa sulla coercizione psichica, poiché riposa sulla motivazione. Se si vogliono contrapporre gli ordina­ menti coercitivi a quelli non coercitivi, che riposano sull'obbedienza volontaria, ciò si può fare solo nel senso che gli uni impongono mi­ sure coercitive come sanzioni, e gli altri no. E tali sanzioni sono so­ lo misure coercitive, nel senso che certi beni sono sottratti agli indi­ vidui in questione contro la loro volontà. In questo senso il diritto è un ordinamento coercitivo. l . 2. Il diritto come ordinamento coercitivo che monopo/i2:Yl l 'uso della forYl 11 fatto che ordinamenti sociali di tenore cOSI straordinaria­ mente diverso, in vigore in tempi differenti e tra i pili diversi popo­ li, siano tutti chiamati (C ordinamenti giuridici » può far supporre che questo termine sia pressoché privo di significato. Che può avere in comune il « diritto » dei babilonesi con il « diritto » oggi vigen­ te negli Stati Uniti ? Che può avere in comune l'ordinamento socia­ le di una tribli di negri dominati da un capo dispotico, con la costi­ tuzione della repubblica svizzera ? Tuttavia, c'è un elemento comu­ ne, che giustifica questa terminologia, e consente al vocabolo « di­ ritto » di esprimere un concetto di grande significato sociale. Il vo­ cabolo si riferisce alla specifica tecnica sociale di un ordinamento coercitivo, che è essenzialmente la stessa per tutti questi popoli cOSI diversi nel tempo, nello spazio, e nella cultura : gli antichi babilonesi e gli Stati Uniti dei giorni nostri, gli Ashanti dell'Africa occidentale e la Svizzera in Europa. Si tratta di quella tecnica, che consiste nel­ l'ottenere dagli uomini la condotta sociale desiderata mediante la minaccia di una misura coercitiva per chi tenga la condotta contra­ na. Se riconosciamo che il diritto è la specifica tecnica sociale del­ l'ordinamento coercitivo, possiamo contrapporlo ad altri ordina­ menti sociali, che perseguono in parte gli stessi scopi del diritto, ma con mezzi diversi. Il diritto è uno specifico mezzo sociale, non un fi­ ne. Diritto, morale, e religione : tutti e tre proibiscono l'omicidio. 99

Ma il diritto fa ciò, disponendo : se un uomo commetterà omicidio, allora un altro uomo, designato dall'ordinamento giuridico, appli­ cherà contro l'omicida una certa misura coercitiva prescritta dall'or­ dinamento giuridico. La morale si limita a chiedere : non uccidere. E, se l'omicida è moralmente emargi nato dai suoi simili, - e molti si astengono dall'uccidere non tanto per evitare le pene giuridiche, quanto per evitare la disapprovazione morale dei loro simili - resta tuttavia questa grande distinzione : la reazione giuridica consiste in una misura di coercizione imposta dall'ordinamento e socialmente organizzata, mentre la reazione morale contro la condotta immora­ le non è prevista dall'ordinamento morale né (se prevista) social­ mente organizzata. Sotto questo profilo, le norme religiose sono pili vicine alle norme giuri diche di quanto lo siano le norme morali. Le norme religiose, infatti, minacciano l'omicida di punizione da p·arte di un'autorità sovrumana. Ma le sanzioni poste dall'ordinamento religioso non sono sanzioni socialmente organizzate. Probabilmente esse sono pili efficaci delle sanzioni giuridiche. La loro efficacia, tuttavia, presuppone la credenza nell'esistenza e nel potere di un'au­ torità sovrumana. N on è però in questione qui l'efficacia delle san­ zioni ; qui interessa se, e come, esse siano comminate dall'ordina­ mento sociale. La sanzione socialmente organizzata è un atto di coercizione, che una persona determinata dall'ordinamento applica, in un modo esso pure determinato dall'ordinamento, contro la per­ sona responsabile della condotta contraria all'ordinamento. La san­ zione è la reazione dell'ordinamento - ovvero della comunità costi­ tuita dall'ordinamento - contro i trasgressori. L'individuo che ap­ plica la sanzione agisce come agente della comunità sociale. CosI la sanzione giuridica appare come atto della comunità giuridica ; la sanzione trascendente - la malattia o la morte del peccatore - è un atto dell'autorità sovrumana dei defunti antenati, di D io. Tra i paradossi della tecnica sociale qui caratterizzata come ordi­ namento coercitivo, vi è il fatto che il suo specifico strumento (l'at­ to coercitivo) ha esattamente la stessa natura dell'atto che esso cer­ ca di prevenire nei rapporti interindividuali : la sanzione contro un comportamento socialmente dannoso è essa stessa un comporta­ mento di questo tipo. Ciò che si cerca di ottenere - minacciando la privazione forzata della vita, della salute, della libertà, o della pro1 00

prietà - è precisamente che gli uomini, nella loro condotta recipro­ ca, si astengano dal privare altri con la forza della vita, della salute, della libertà, o della proprietà. La forza è impiegata per impedire l'impiego della forza. N ondimeno, questa contraddizione è solo apparente. Il diritto, in verità, mira a promuovere la pace, poiché proibisce l'uso della forza nelle relazioni tra i membri della comunità. Tuttavia, esso non preclude l'uso della forza in modo assoluto. Diritto e forza non de­ vono essere intesi come assolutamente contrapposti. Il diritto è un'organizzazione della forza. Esso infatti sottopone l'uso della for­ za nei rapporti interumani a certe condizioni, autorizzandolo solo da parte di individui dati in circostanze date. Il diritto permette una condotta che, in ogni altra circostanza, deve considerarsi vieta­ ta : tale divieto è proprio la condizione di un atto coercitivo come sanzione. L'individuo che, autorizzato dall'ordinamento giuridico, applica la misura coercitiva (la sanzione), agisce come organo di questo ordinamento, ovvero della comunità costituita da esso. Quindi si può dire che il diritto renda l'uso della forza un monopo­ lio della comunità. E proprio in questo modo il diritto garantisce la pace alla comunità. La pace si ha quando la forza non è usata. In questo senso della parola, il diritto assicura solo una pace relativa, non assoluta ; esso toglie all'individuo il diritto di impiegare la forza, ma lo riserva alla comunità. La pace del diritto non è una condizione di assoluta mancanza di forza, uno stato di anarchia ; è una condizione di mo­ nopolizzazione della forza da parte della comunità. Sul lungo periodo, una comunità è possibile solo se ciascun indi­ viduo rispetta certi interessi - la vita, la salute, la libertà, e la pro­ prietà di tutti gli altri -, cioè se ciascuno si astiene dall'interferire con la forza in sfere di interessi altrui. La tecnica sociale che chia­ miamo « diritto » consiste nell'indurre gli individui, in un modo specifico, ad astenersi dall'interferire con la forza in sfere di interes­ si altrui : quando tale interferenza si verifica, la comunità stessa rea­ gisce con un'interferenza analoga nella sfera di interessi dell'indivi­ duo responsabile. L'interferire con la forza nella sfera di interessi al­ trui - ossia la coercizione - funziona sia come illecito, sia come sanzione. Il diritto è un ordinamento che vieta l'uso della forza solo 101

come illecito, ma lo permette come sanzione : lo vieta come condi­ zione, lo permette come conseguenza. Determinate sfere di interessi dell'individuo risultano protette, proprio perché l'interferenza coattiva nelle sfere di interessi dell'in­ dividuo è consentita solo come reazione della comunità contro una condotta vietata da parte dell'individuo, proprio perché siffatta in­ terferenza è resa monopolio della comunità. Non vi sono sfere di interessi individuali protette dall'ordinamento sociale, fino a che non esista un monopolio in tal senso, ossia finché l'ordinamento so­ ciale non stabilisca che si può interferire coattivamente nelle sfere di interessi individuali solo a condizioni determinate : e precisamente come reazione, da parte di individui autorizzati, contro un'interfe­ renza socialmente dannosa nelle sfere di interessi individuali. In al­ tre parole, non vi è alcuna situazione di diritto che, nel senso svilup­ pato qui, sia essenzialmente una situazione di pace.

' 1 . 3 . L 'idea di una comunitd che faccia a meno della forw La no­ stra indagine fin qui ha stabilito che la specifica tecnica sociale chia­ mata « diritto » consiste nella istituzione di un ordinamento coerci­ tivo, per mezzo del quale la comunità acquisisce un monopolio nella applicazione delle misure coercitive prescritte dall'ordinamento giu­ ridico. Sorge ora la questione se tale tecnica sociale il diritto co­ me tecnica sociale - possa essere evitata. Forse, solo il peculiare contenuto di un ordinamento sociale rende necessario che questo ordinamento sia coercitivo. Forse, è possibile dare all' ordinamento sociale un contenuto tale, prescrivere agli individui condotte tali, che non sia piu necessario predisporre misure coercitive quali san­ zioni per la condotta contraria, perché nessuno sarebbe piu indotto a simili conùotte contrarie. Forse, vi è un ordinamento sociale, tale da consentire di sostituire la specifica tecnica del diritto con la mo­ tivazione diretta od obbedienza volontaria. La questione se sia ne­ cessario il diritto, è identica alla questione se sia necessario lo Stato. Lo Stato, infatti, è un ordinamento coercitivo, un ordinamento giu­ ridico relativamente centralizzato, relativamente sovrano, ovvero è la comunità costituita da tale ordinamento giuridico. Se definiamo lo Stato come organizzazione politica, ciò significa che esso è un or­ dinamento coercitivo. L'elemento specificamente « politico » non è -

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altro che l'elemento della coerClZlOne. La storia non presenta alcuna situazione sociale, in cui una vasta comunità non sia costituita da un ordinamento coercitivo. Anche le comunità sociali dei popoli pili primitivi riposano su ordinamenti coercitivi religiosi, che gradualmente si secolarizzano. Anch' esse so­ no comunità giuridiche. La sola ragione, per cui non le chiamiamo Stati, è che manca ancora il grado necessario di centralizzazione. La storia conferma il detto : ubi .wcie/as, ibi jU.L Tuttavia, l'uomo non si è mai accontentato di questo fatto storico. Ha sempre desi­ derato una situazione, in cui la forza - sia pure come sanzione non fosse pili esercitata dall'uomo contro l'uomo. Perciò vi sono sempre stati ottimisti che ritengono possibile una simile situazione, e sognatori politici che credono in uno sviluppo tale da condurre a una società « libera » , libera cioè da ogni coercizione : una società pri � a di qualsiasi diritto o Stato. E questa la dottrina dell'anarchismo teorico. Essa presuppone un ordinamento sociale immanente nella natura, una sorta di diritto naturale, che differisce dal diritto positivo per il fatto che non ri­ chiede sanzioni sociali organizzate, e non è perciò un diritto nel sen­ so in cui noi chiamiamo « diritto » gli ordinamenti coercitivi storici reali. Chi crede nell'esistenza di un simile ordinamento sociale, cre­ de nell'esistenza di un ordinamento il cui carattere vincolante deri­ va direttamente dal suo contenuto : tale ordinamento disciplina il comportamento umano in un modo che corrisponde alla natura de­ gli uomini e alla natura dei loro rapporti, e quindi in un modo che soddisfa tutti gli individui la cui condotta è disciplinata. Proprio per questa ragione, non occorre alcuna misura coercitiva come san­ zione per i comportamenti contrari all'ordinamento naturale. Que­ sta possibilità è esclusa. L'ordinamento naturale è giusto, cioè rende tutti gli uomini felici. Non vi è alcun bisogno di costringere gli uo­ mini alla loro propria felicità. Quindi non occorre alcuno Stato, né alcun diritto ( il che è lo stesso). L'efficacia dell'ordinamento natura­ le riposa sull'obbedienza volontaria. L'idea di un ordinamento so­ ciale naturale è, in ultima analisi, l'idea anarchica dell' Età dell'oro, raffigurata da Ovidio nei classici versi : Aurea prima sata est aetas, quae vindice nullo,

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sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat. Poena metusque aberant, nec verba minantia fixo aere legebantur, nec supplex turba timebat judicis ora sui, sed erant sine judice tuti I .

Per il pessimismo sociale, l'Età dell'oro è il paradiso passato, perduto per sempre. L'ottimismo sociale la colloca nel futuro. Si tratta comunque di un'illusione, una cosa creduta vera sol perché desiderata. Se fosse possibile alla mente umana determinare il contenuto di un ordinamento sociale che potesse contare sull'obbedienza volon­ taria di tutti i cittadini - in quanto corrispondente alla natura del­ l'uomo e delle sue relazioni sociali, cOSI da richiedere agli uomini solo ciò che essi stessi desiderano -, un ordinamento che rendesse tutti felici e fosse perciò un ordinamento giusto, difficilmente si ca­ pirebbe allora perché siffatto ordinamento non sia ancora stato rea­ lizzato. Da che gli uomini hanno cominciato a pensare, le menti piu illustri si sono sforzate di progettare un simile ordinamento, di ri­ solvere la questione della giustizia. Tuttavia, tale questione è ancora oggi, come sempre, lungi dall'essere risolta. Nessuno dei numerosi tentativi di risolvere i problemi di tecnica sociale può dirsi general­ mente soddisfacente, cOSI come è soddisfacente la soluzione di uno qualsiasi fra gli innumerevoli problemi tecnici della scienza natura­ le. Ciò di per sé prova che non si può dar vita al tanto sospirato or­ dinamento naturale o giusto (ammesso che si possa scoprirlo), co­ sicché ciascuno immeditatamente lo riconosca come giusto, e sia quindi pronto a obbedirgli. Sulla base della nostra conoscenza della natura umana, si deve considerare assai improbabile che qualunque ordinamento sociale - anche quello che, nell'opinione dei suoi crea­ tori, assicurasse agli individui tutti i vantaggi desiderati - possa sfuggire al rischio di essere violato, talché non occorra prevedere, a titolo di precauzione, delle misure coercitive contro i violatori at­ tuali o potenziali. Dovrebbe essere un ordinamento che permettesse a ciascuno di fare o non fare ciò che vuole. Ma in realtà un simile ordinamento è la sospensione di ogni ordinamento sociale : è la re­ sta�razione dello stato di natura, che significa stato di anarchia. E questo forse il significato piu profondo di questa idea autocon­ traddittoria di un ordinamento sociale naturale : la negazione della 1 °4

società. L'illusione che sia possibile « tornare alla natura » è fonda­ ta sull'idea che l'uomo, « per natura », sia buono. Essa ignora l'im­ pulso all'aggressione, che è innato nell'uomo. Ignora il fatto che la felicità di un uomo è spesso incompatibile con la felicità di un altro, e che quindi un ordinamento naturale giusto, che garantisca felicità a tutti, e dunque non debba reagire alle violazioni con misure coer­ citive, è incompatibile - per quanto ne sappiamo - con la « natu­ ra » dell'uomo. La « natura » di un ordinamento sociale naturale non è la stessa natura che ris'!lta dalla nostra esperienza scientifica, ma è un postulato morale. E utopia fare conto su di una natura umana diversa da quella che conosciamo. Ciò non vuoI dire che la natura umana sia immutabile, ma solo che non possiamo prevedere come muterà al mutare delle circostanze. L'idea di una situazione sociale non regolata da alcun ordina­ mento coercitivo - una società futura, priva di diritto e di Stato ha carattere utopistico. Ciò risulta chiaramente nella dottrina che, finora, ha rappresentato politicamente questa idea con maggiore successo : la dottrina socialista di Marx 2. Questa dottrina spiega la necessità dello Stato e di quello che essa chiama diritto « borghe­ se » con la divisione della società in classi : alcuni possidenti, e altri nullatenenti sfruttati dai primi. Secondo essa, la sola funzione del­ l'apparato coercitivo, rappresenta.to dallo Stato e dal suo diritto, è conservare questa situazione. Appena il conflitto di classe venga meno, grazie all'abolizione della proprietà privata, alla socializza­ zione dei mezzi di produzione, e grazie altresl al controllo pianifica­ to dei processi produttivi ; appena si realizzi una società senza classi, l'apparato coercitivo diviene superfluo. In tale situazione sociale, lo Stato « muore », e, con esso, scompare il diritto. « Al governo de­ gli uomini si sostituisce l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi » 3. L'instaurazione di questa situazione se­ gna « il salto dell'umanità dal regno della necessità a quello della li­ bertà » 4. La dittatura del proletariato (lo Stato di classe del prole­ tariato) è solo una fase transitoria necessaria lungo questa strada verso l'anarchia. La teoria politica del socialismo marxista è puro anarchismo. Si può distinguere dalla dottrina direttamente chiama­ ta « anarchismo », per esempio quella di Bakunin, ma non per il suo scopo : scopo di entrambe le dottrine è una comunità senza IO�

coercizione, fondata sull'obbedienza volontaria, una comunità sen­ za classi, e perciò senza Stato. I cosiddetti « an.archici ») credono si possa fare a meno dello Stato subito, mentre i marxisti insegnano che, dopo che lo Stato socialista (la cosiddetta dittatura del proleta­ riato) avrà preso il posto dello Stato capitalistico, lo Stato gradual­ mente si estinguerà da sé. Chi crede che siffatta società senza Stato sia possibile, chiude gli occhi di fronte al fatto che un 'organizzazione economica come quel­ la auspicata dal socialismo deve necessariamente avere carattere coercitivo. Un'economia pianificata di cOSI immensa portata - tale da abbracciare la terra intera, se possibile - può solo essere gestita da un corpo amministrativo gigantesco, organizzato gerarchica­ mente, al cui interno ogni individuo, come organo della comunità, avrà da svolgere un compito definito, regolato con precisione da un ordinamento normativo. La produttività dell'intero sistema dipen­ de dall'osservanza coscienziosa di queste norme, e, secondo i suoi sostenitori, proprio il piu alto livello di produttività conferisce all'e­ conomia pianificata un vantaggio sulla produzione capitalistica. Si parla, in riferimento a quest'ultima, di « anarchia ») della produzio­ ne, proprio per fare risaltare il contrasto con l'economia socialista, che è l'opposto dell'anarchia. Le norme dell'ordinamento socialista della vita economica non possono essere altro che comandi di indi­ vidui, diretti ad altri individui : si tratta di un « governo sugli indi­ vidui ») . La « direzione dei processi produttivi ») non può mai sosti­ tuire il « governo sugli individui »), come pretende la teoria marxi­ sta. I processi produttivi sono insiemi di relazioni umane, che si svolgono secondo lo schema del comando e dell'obbedienza. Un ordinamento sociale, che disciplini completamente il sistema econo­ mico produttivo, nonché la distribuzione dei prodotti, e che sia or­ ganizzato da organi della comunità, deve necessariamente estendere la sua competenza fuori del campo economico. Un ordinamento so­ ciale siffatto, piu di ogni altro, ha la tendenza a divenire totalitario, a disciplinare l'intera vita culturale e - cosa non meno importante - sessuale degli individui. Tale ordinamento, piu di ogni altro, avrà bisogno di giustificazione ideologica, e quindi si intrometterà nella sfera metafisico-religiosa. Esso deve necessariamente limitare la libertà degli individui con severità assai maggiore di ogni altro 1 06

Stato. Per questa sola ragione, esso deve aspettarsi violazioni da parte dei cittadini non meno degli ordinamenti borghesi. Tralasciamo qui il fatto che pigrizia e stupidità non spariranno neppure nella comunità socialista, e che anzi devono risultare in es­ sa molto piu pericolose per la sopravvivenza dell'ordinamento di quanto non siano nello Stato capitalistico. Assumiamo che in que­ st'ultimo si verifichino violazioni dell'ordinamento giuridico soprat­ tutto per ragioni economiche, e che tali ragioni siano completamen­ te assenti nello Stato socialista. Tuttavia, dobbiamo supporre che qui giocheranno il ruolo principale altre cause di comportamento non conforme all'ordinamento. Se non sono i bisogni economici in­ soddisfatti dell'individuo che possono condurre a violazioni dell'or­ dinamento, devono essere altri bisogni : bisogni derivanti dal desi­ derio di prestigio, dalla libido, e - non ultimo - dal sentimento re­ ligioso. Si può discutere se questi bisogni siano giustificati, e in che misura se ne debba consentire il soddisfacimento, ma non se ne può negare l'esistenza. E inoltre non si può negare che questi bisogni sa­ ranno sentiti tanto piu fortemente, quanto piu saranno soddisfatti i bisogni economici. Dall'idea del socialismo economico non ci si può aspettare alcuna soluzione a questo genere di problemi. Il desi­ derio di prestigio, la libido, e il sentimento religioso sono fattori ri­ voluzionari non meno della fame e della sete. Solo chi identifichi la società con l'economia può non vedere i grandi pericoli che minac­ ciano un ordinamento sociale da questa direzione. Si deve ammettere che un ordinamento socialista non può conta­ re in tutte le direzioni sull'obbedienza volontaria dei cittadini ; come la società borghese, esso deve prevedere comportamenti non con­ formi all'ordinamento. Pertanto, si deve pure ammettere che anche questo ordinamento non può evitare di agire contro i trasgressori con misure coercitive, ossia con misure che, se necessario, devono essere applicate contro la volontà delle persone che agiscono in mo­ do socialmente dannoso. In una comunità socialista, in misura maggiore che nella comu­ nità giuridica di uno Stato capitalistico, possono essere usate misure coercitive allo scopo di prevenire i delitti. Tuttavia, per quanto sap­ piamo dell'uso passato di metodi siffatti, non possiamo aspettarci ché le misure preventive siano tanto efficaci da rendere interamente 1 °7

superflue le misure repressive. Finché restiamo nel campo dell'espe­ rienza, dobbiamo supporre che anche un ordinamento socialista per forza di cose sia un ordinamento coercitivo, e che lo Stato non si estingua, ma il suo ordinamento acquisti un diverso contenuto. N eppure il socialismo può fare a meno della tecnica sociale chiama­ ta « diritto ». Anche per la società socialista è vero che ubi societas, ibi jus. 2. L'evoluzione della tecnica giurid ica

2 . 1 . Il differenziarsi della relazione dinamica tra creazione ed applica­ zione del diritto Se la coercizione è un elemento essenziale del di­ ritto nel senso qui sostenuto, allora ogni ordinamento giuridico, dal punto di vista tecnico, deve essere raffigurato come un complesso di norme, nel quale delle misure coercitive sono stabilite come san­ zioni. Tutti gli altri fatti, cui si applica l'ordinamento giuridico, en­ trano in considerazione solo come condizioni della sanzione. La tecnica specifica del diritto - la tecnica della motivazione indiretta - consiste appunto nel fatto che esso annette come conseguenze a certe condizioni delle misure coercitive. La morale, la cui tecnica è la motivazione diretta, dice : non rubare. Il diritto dice : se qualcuno ruba, deve essere punito. La norma morale disciplina il comporta­ mento di un individuo ; la norma giuridica disciplina sempre il com­ portamento di almeno due individui : il comportamento dell'uno (il cittadino) è condizione della sanzione, la funzione dell' altro (l'orga­ no) è applicare la sanzione. La condizione decisiva (anche se non l'unica) per la sanzione è che il cittadino tenga quella condotta che, secondo l'intenzione dell'ordinamento giuridico, deve essere evita­ ta : ossia l'illecito. L'ordinamento giuridico, annettendo una sanzio­ ne a tale condotta, e dunque caratterizzandola come illecito, cerca di indurre alla condotta opposta : quella che non richiede una san­ zione. Dire che una persona ha un dovere giuridico di comportarsi in un dato modo, significa che essa è minacciata da una sanzione per il comportamento contrario, cioè l'illecito. La relazione, stabili­ ta dalla norma giuridica, tra illecito e sanzione è la relazione fonda­ mentale del diritto, se lo guardiamo in stato di quiete. È la relazio-

ne fondamentale della statica del diritto. Se guardiamo ora al diritto nel suo specifico movimento, se prendiamo in considerazione il processo di creazione del diritto, os­ serviamo un fatto particolarmente significativo per la tecnica del di­ ritto : il fatto che esso regola la sua propria creazione. Una norma appartiene a un dato ordinamento giuridico, soltanto se è stata sta­ bilita in un modo determinato, ossia in un modo prescritto da quel­ lo stesso ordinamento. E questa l'essenza del diritto positivo. Vi sono due metodi di creazione del diritto : la consuetudine, una . stessa condotta ripetuta da parte dei cittadini ; e la legislazione (nel senso pili lato della parola), ratto consapevole di un organo istitui­ to allo scopo di creare il diritto. Tutto il diritto è creato per via di consuetudine o per via di legislazione, secondo le prescrizioni del­ l'ordinamento giuridico. In ciò, esso si distingue dal diritto natura­ le, che non ha bisogno di essere creato dall'atto dell'uomo, poiché deriva direttamente dalla natura umana o dalla natura dei rapporti interumani, e come tale ha solo bisogno di essere riconosciuto dal­ l'uomo. Il diritto positivo non solo deve essere creato, ma deve essere ap­ plicato. Nel passaggio dalla creazion� del diritto alla sua applicazio­ ne sta la tipica dinamica del diritto. E anche caratteristica della tec­ nica giuridica che questa dinamica si svolga in almeno due fasi. Dapprima il diritto è creato come norma generale. L' applicazione della norma generale a un caso concreto consiste nel determinare se la condizione stabilita in astratto dalla norma sia presenté, cosicché una sanzione, determinata in astratto dalla norma, possa essere or­ dinata o applicata in concreto. Se l'applicazione della sanzione con­ creta è preceduta dall'ordine che la sanzione sia applicata, allora vi sono tre fasi nel processo dinamico del diritto : la creazione della norma generale, la creazione della norma individuale che ordina la sanzione, e l'esecuzione della norma individuale. Il processo di crea­ zione della norma generale, tuttavia, può esso stesso svolgersi in di­ verse fasi. Un esempio di ciò è il rapporto tra una costituzione e le leggi emanate dal corpo legislativo sulla base di quella costituzione. Gli organi esecutivi emanano ordinanze o regolamenti sulla base di queste leggi. Le ordinanze e i regolamenti sono poi applicati al caso concreto dagli organi giudiziari o amministrativi. Ogni ordinamen1 °9

to giuridico forma una gerarchia di norme generali e individuali, il cui gradino inferiore è l'esecuzione di una misura concreta. I gradi di questa dinamica giuridica tendono ad aumentare. La dinamica di un or�inamento giuridico primitivo ha solo due fasi : l'elaborazione della norma generale attraverso la .consuetudine, e la sua applicazione da parte del soggetto i cui interessi, protetti da questa norma, siano stati violati. Questo soggetto è autorizzato dal­ l'ordinamento giuridico a reagire contro chi abbia violato il diritto mediante la sanzione prescritta dal diritto. Il diritto primitivo è ca­ ratterizzato dalla tecnica dell'autodifesa. La vendetta di sangue è un esempio tipico : non una persona speciale, ma lo stesso soggetto i cui interessi sono stati violati, deve determinare se sia o non sia sta­ to commesso un illecito. Il soggetto stesso deve irrogare la sanzio­ ne ; questa non è ordinata da Wla norma individuale, emanata ed ese­ guita da un organo diverso dalla persona offesa. Il diritto primitivo dell'autodifesa è caratterizzato dal fatto che la norma generale è ap­ plicata direttamente al caso concreto senza una norma individuale. S olo dopo che si siano sviluppati dei tribunali, si inserisce una nor­ ma individuale tra la norma generale e la sua applicazione al caso concreto (cioè l'esecuzione della sanzione). Questa norma indivi­ duale è l'ordine, deciso da un tribunale, che la sanzione sia applica­ ta. D'altro canto, anche il processo di creazione di norme generali muta nel corso dello sviluppo, cosicché alla fine il processo dinami­ co del diritto si svolge in una serie complicata di numerose fasi. 2 . 2 . Il diffe renziarsi della relazione statica tra illecito e sanzione 2 . 2 . l . Il differenziarsi della sanzione : diritto penale e diritto civile N on solo la relazione dinamica tra creazione e applicazione del diritto, ma anche la relazione statica tra illecito e sanzione è sogget­ ta a un tipico cambiamento. In origine, vi era un solo tipo di misura coercitiva : la pena, nd senso stretto della parola, che colpiva la vi­ ta, la salute, la libertà, o la proprietà. Il diritto pili antico era solo diritto penale. Pili tardi, intervenne una differenziazione nella san­ zione. In aggiunta alla pena, apparve l'esecuzione civile, la privazio­ ne forzata della proprietà per compensare un danno provocato ille­ citamente. Si sviluppò cioè un diritto civile a fianco del diritto pe­ nale. Ma il diritto civile, che disciplina le relazioni economiche tra I IO

gli individui, garantisce in questo campo il comportamento deside­ rato in un modo non essenzialmente diverso da quello usato in di­ ritto penale. Infatti, esso stabilisce, in ultima analisi, talora indiret­ tamente, una misura coercitiva per la condotta contraria : stabilisce la SU(1. specifica misura coercitiva, l'esecuzione civile. Il diritto pena­ le si distingue dal civile principalmente per il fatto che la sua sanzio­ ne ha un carattere differente. La differenza non sta tanto nelle cir­ costanze esteriori della sanzione. In entrambi i casi, la sanzione è una misura coercit.va, per mezzo della quale un individuo è spoglia­ to dei suoi possedimenti. L'esecuzione civile colpisce solo la pro­ prietà. Ma ciò vale anche per le multe. La differenza tra sanzione civile e penale sta piuttosto nel rispettivo scopo. La sanzione civile è intesa a riparare il danno causato dalla condotta socialmente dan­ nosa ; la sanzione penale ha carattere retributivo, o - secondo il punto di vista moderno - preventivo. Ma questa differenza è solo relativa. Difficilmente si può negare che la sanzione civile abbia an­ che una funzione preventiva, sia pure secondaria. La differenza relativa tra sanzione civile e penale si esprime nel contenuto dell'ordinamento giuridico. Esso contiene specifiche pre­ scrizioni per l'uso della proprietà espropriata con la forza. Nel caso della sanzione civile, tale proprietà è devoluta al soggetto illecita­ mente danneggiato ; nel caso della sanzione penale, è devoluta alla comunità giuridica. Una differenza ulteriore sta nella procedura che conduce alle due sanzioni, cOSI come si è sviluppata nei vari ordinamenti giuridici. Il processo giudiziario rivolto all'esecuzione civile è attivato solo dalla domanda di uno specifico soggetto interessato all'esecuzione ; il processo giudiziario rivolto all'applicazione di una pena è attivato ex officio, dalla domanda di un organo della comunità. Un processo civile ha la forma di una lite fra due parti, l'attore ed il convenuto ; un illecito civile è la violazione di un diritto soggettivo. Colui che può agire in giudizio per attivare la procedura che conduce alla san­ zione civile, è il titolare di un diritto. L'attribuzione di diritti a un soggetto e la possibilità di farli va­ lere in giudizio caratterizzano la tecnica di un ordinamento giuridi­ co che disciplini la vita economica secondo il principio della pro­ prietà privata. I beni economici esistenti sono a disposizione esclusiIII

va dei privati, e il godimento della proprietà privata si realizza, es­ senzialmente, mediante liberi contratti tra individui. Il « diritto », che spetta a un soggetto nei confronti di una cosa, consiste nel pote­ re, a lui attribuito dall'ordinamento giuridico, di impedire a qualun­ que altro soggetto di interferire nel suo godimento di quella cosa. Il metodo specifico per impedire tale interferenza è la possibilità, ac­ cordata dall'ordinamento giuridico, di attivare il processo coerciti­ vo contro chiunque disturbi il, o interferisca nel, godimento di quel­ l'oggetto. Questo potere del soggetto è un potere politico, una funzione pubblica par excellence. Ma in questo sistema esso è ideologicamente considerato come una sfera di interesse « privato » ; le norme che assicurano tale potere sono dette diritto « privato » ; il potere stesso è chiamato diritto soggettivo « privato ». Una cOQseguenza di que­ sta tecnica del diritto soggettivo « privato » è la seguente : il pro­ cesso di applicazione della norma generale al caso concreto (la san­ zione civile ordinata ed eseguita contro il trasgressore) ha carattere di procedura contenziosa. Solo a imitazione della procedura civile, anche la procedura penale (nella quale è ordinata e applicata la san­ zione penale) ha il carattere esteriore di una disputa, sebbene qui, abitualmente, non esista piu alcun diritto soggettivo. Quando appare come attore un organo della comunità, in luogo del soggetto i cui interessi sono stati danneggiati dall'illecito pena­ le, allora si può parlare, solo in senso figurato, di un « diritto » del­ la comunità alla cessazione dell'illecito. Ma, anche a prescindere dal fatto che l'applicazione della norma giuridica prende la forma di una procedura contenziosa sia in diritto civile sia in diritto penale, l!:J tecnica sociale è in entrambi i casi essenzialmente la stessa : la rea­ ziont. contro un illecito, nella forma di un atto coercitivo come san­ zione. 2 . 2 . 2 . Il differenziarsi della sanzione : responsabilità collettiva e respon­ sabilità individuale L' illecito è una condizione della sanzione. Si è dimostrato che una persona è giuridicamente obbligata a un certo comportamento allorché il comportamento contrario è minacciato da una sanzione. La sanzione specifica del diritto è un atto di coer­ cizione : la privazione forzata della vita, della salute, della libertà, o I

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della proprietà. Contro chi è diretta questa sanzione ? A chi può es­ sere forzatamente sottratta la vita, la salute, la libertà, o la pro­ prietà ? La risposta a questa domanda distingue l'ordinamento giu­ ridico tecnicamente primitivo da quello tecnicamente evoluto. Cor­ risponde a un pili affinato senso di giustizia dirigere "la sanzione so­ lo contro coloro il cui comportamento costituisce un dovere giuridi­ co, e quindi contro coloro il cui comportamento non doveroso co­ stituisce l'illecito come condizione della sanzione. Se un ordinamen­ to giuridico vieta l'omicidio, ossia commina una pena a chi com­ metta omicidio, allora la pena deve essere diretta contro l'omicida, e solo contro di lui ; in altre parole, contro l'individuo che, avendo l'obbligo di astenersi dall'uccidere, ha commesso omicidio in viola­ zione del suo dovere. Se diciamo che l'individuo contro cui la san­ zione è diretta è il responsabile dell'illecito, allora il requisito della tecnica giuridica pili affinata suona cOSI : solo colui che commette l'illecito, solo c�lui che agisce illecitamente, deve essere responsabi­ le dell'illecito. E questo il principio della responsabilità individuale. Gli ordinamenti giuridici primitivi, tuttavia, non soddisfano questo requisito. Non contrasta con un primitivo senso di giustizia dirigere la sanzione non solo contro l'omicida, ma anche contro i suoi congiunti, contro tutti gli appartenenti alla sua famiglia o alla sua tribli : in altre parole, contro i membri del gruppo circoscritto al quale l'omicida appartiene. Non solo è responsabile chi effettiva­ mente ha commesso l'illecito, ma anche altri lo sono. Persino nella Bibbia è considerato ovvio che, per i peccati del padre, siano puniti i figli e i loro figli �. La cerchia dei responsabili è determinata dal­ l' appa�tenenza a un dato gruppo sociale, alla stessa comunità giuri­ dica. E questo il principio della responsabilità collettiva. Questo principio può essere ricondotto al fatto che, secondo la concezione primitiva, esiste uno stretto legame tra l'individuo e gli altri membri del suo gruppo. L'uomo primitivo identifica l'indivi­ duo con il suo gruppo, con tutti gli altri membri di esso. Egli non considera se stesso come individuo autosufficiente, distinto e indi­ pendente dal suo gruppo, ma come parte integrante di esso. È ov­ vio per lui che ciascun membro del gruppo sia responsabile per tutti gli altri membri. Come il gesto eroico di un membro del gruppo st>llecita soddisfazione e apprezzamento da tutti gli altri, cOSI è anII3

che ritenuto giusto che l'illecito di un membro del gruppo sia vendi­ cato su tutti i suoi membri. La responsabilità collettiva è un tipico elemento di uno stato di giustizia nel quale ancora sussiste il princi­ pio dell'autodìfesa. La vendetta di sangue, tipica forma di autodi­ fesa, non è affatto diretta contro la sola persona che ha commesso ratto da vendicare, bensl contro l'intera sua famiglia. Si tratta della reazione di un gruppo contro un altro gruppo. Il progresso tecnico del diritto è caratterizzato dal passaggio dal­ la responsabilità collettiva a quella individuale. 2 . 2 . 3 . Il differenziarsi dell 'illecito : responsabilità oggettiva e responsa­ bilità per colpa Un' altra distinzione è strettamente connessa con la differenza tra responsabilità collettiva e individuale, e anch'essa concerne la soluzione del problema della responsabilità. Secondo il punto di vista etico moderno, per essere responsabili di un risultato socialmente dannoso o utile, non è sufficiente aver provocato quel risultato con la propria condotta. Il risultato deve essere stato otte­ nuto in un modo determinato. Se una persona commette un atto dannoso per la società (un ille­ cito), deve esistere, tra la condotta e il risultato, una specifica con­ nessione mentale chiamata c( intenzione » o c( negligenza », devono essere presenti certi elementi psichici chiamati c( culpa ». Per esem­ pio, tagliando un albero qualcuno uccide un uomo. Se il tagliatore è considerato responsabile per la morte della persona senza riguardo al fatto che abbia agito con intenzione o negligenza, allora è un ca­ so di responsabilità oggettiva. Se, invece, il tagliatore è punito sol­ tanto ove abbia inteso con le sue azioni provocare la morte dell' uo­ mo, oppure abbia mancato di prestare attenzione al pericolo esisten­ te, allora è un caso di responsabilità per colpa. Questo principio è sconosciuto agli ordinamenti giuridici primitivi, in cui prevale il principio della responsabilità oggettiva. Chiunque provochi, non importa come, un risultato considerato dannoso dall'ordinamento giuridico, è punibile. Dove esiste il principio della responsabilità collettiva, la responsabilità oggettiva è pressoché inevitabile, poiché la sanzione in tal caso si estende a persone che non hanno, esse stes­ se, provocato il risultato, ma semplicemente appartengono alla stes­ sa comunità sociale dell'autore. Se il principio della responsabilità I 14

collettiva è soppiantato da quello della responsabilità individuale, si apre anche la strada per sostituire il principio della responsabilità per colpa a quello della responsabilità oggettiva. Il progresso tecni­ co del diritto è caratterizzato dal passaggio non solo dalla responsa­ bilità collettiva a quella individuale, ma anche dalla responsabilità oggettiva alla responsabilità per colpa. Ma occorre notare che que­ sta è solo la formulazione di una regola generale, che mostra impor­ tanti eccezioni. Perfino negli ordinamenti giuridici moderni il prin­ cipio della responsabilità collettiva e quello della responsabilità og­ gettiva non sono per nulla stati superati. Il primo è presente nel di­ ritto delle cosiddette persone giuridiche ; il secondo in molte sfere del diritto civile. La responsabilità che dipende da « negligenza » non è molto lontana dalla responsabilità oggettiva. Soprattutto nel diritto internazionale i due principi sono ancora considerati domi­ nanti. 2 . 3 . La centraliVJlzione Importante per lo sviluppo tecnico del diritto è il processo di centralizzazione. Il diritto primitivo non è centralizzato. N on conosce ancora organi funzionanti secondo il principio della divisione del lav:oro. Tutte le funzioni, di creazione e di applicazione delle norme giuridiche, sono adempiute da tutti i cittadini. Solo gradualmente si sviluppano organi speciali per le di­ verse funzioni. Avviene, nel campo del diritto, lo stesso processo che investe la produzione economica, la quale diviene pili centraliz­ zata a misura che si - sviluppa. Nel campo giuridico, questo processo è caratterizzato dal fatto sorprendente che la centralizzazione della funzione di applicazione del diritto precede la centralizzazione della funzione di creazione del diritto. Molto prima che vengano ad esistenza speciali organi legislativi, vengono istituiti tribunali per applicare il diritto a casi concreti. Il diritto cOSI applicato è consuetudinario, è diritto creato in un modo specifico. La peculiarità di questo modo è la seguente : norme giuridiche generali sono create con la collaborazione di tutti gli individui sottoposti all'ordinamento giuridico. È un modo non centralizzato di creazione del diritto. È stato, per migliaia di anni, il solo modo di creare norme giuridiche generali. L'applicazione del diritto, invece, divenne, molto tempo fa, funzione esclusiva di orgaI I �

ni speciali : fu centralizzata. Non è piu autorizzato ciascun individuo

decidere se i suoi diritti siano stati violati, o no ; a decidere se rea­ gire, o no, mediante una sanzione, contro l'individuo responsabile di aver violato il diritto. Tali decisioni da tempo sono state affidate a giudici : organi speciali, diversi e indipendenti dalle parti in con­ flitto. Non sempre, però, le norme generali, sulla cui , base i giudici decidono tali conflitti, sono create da un organo centrale ; hanno ancora carattere consuetudinario. Il diritto consuetudinario costitui­ sce una parte importante dell'ordinamento giuridico anche in comu­ nità giuridiche tecnicamente assai evolute. La procedura di applicazione delle norme giuridiche generali a casi concreti, come si è visto, comporta tre fasi : in primo luogo, si devono accertare i fatti condizionanti, in particolare l'illecito ; in se­ condo luogo, si deve ordinare che sia applicata al caso concreto la sanzione prescritta dalla norma generale ; in terzo luogo, si deve eseguire questa sanzione contro la persona responsabile dell'illecito. Le tre fasi di tale procedura non necessariamente divengono centra­ lizzate nello stesso tempo. Storicamente, la centralizzazione delle prime due , fasi probabilmente ha preceduto quella della terza. È probabile che, in un primo momento, solo l'accertamento della av­ venuta violazione concreta del diritto fosse affidato a un'alttorità oggettiva, a un tribunale. Questo passaggio è importante. Infatti, la possibilità di applicare a un caso concreto la norma generale, che annette una sanzione a un illecito, dipende dalla decisione se in quel caso concreto quell'illeci­ to sia stato commesso o no. Se un ordinamento giuridico annette a un certo fatto, come condizione, una certa conseguenza, allora esso deve determinare in qual modo, e soprattutto da pa�te di chi, debba essere accertata resistenza del fatto condizionante. E fondamentale, benché spesso trascurato, il principio di tecnica giuridica, per il qua­ le non vi sono, in diritto, fatti assolutamente e direttamente eviden­ ti, non vi sono ( fatti in sé », ma solo fatti accertati dalla compe­ tente autorità nel corso di una procedura prescritta dall'ordinamen­ to giuridico. Non è al furto, in quanto fatto in se stesso, che l'ordi­ namento giuridico annette una certa pena. Solo un profano formula cOSI la regola di diritto. Il giurista sa che l'ordinamento giuridico annette una certa pena solo a un fatto accertato dalla competente a

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autorità seguendo una procedura prescritta. Dire che A ha commes­ so un furto, può esprimere solo un 'opi nione soggettiva. In diritto, è decisiva soltanto l'opinione autentica, cioè quella dell'autorità isti­ tuita dall'ordinamento giuridico per accertare il fatto. Ogni altra opinione, circa resistenza del fatto cOSI come è determinato dall'or­ dinamento giuridico, è irrilevante dal punto di vista giuridico. Se l'ordinamento giuridico non istituisce alcun organo speciale per determinare i fatti condizionanti (specie gli illeciti), allora le parti stesse sono chiamate dall'ordinamento giuri dico ad accertare resistenza di questi fatti nel caso concreto. Tale è la situazione di un ordinamento giuridico primitivo non centralizzato. Se, in tali circo­ stanze, un cittadino pretende di essere stato danneggiato dal com­ portamento di un altro, e quest'ultimo nega, la questione centrale resta indecisa. Può essere decisa, in un ordinamento giuridic � non centralizzato, solo mediante raccordo delle parti in conflitto. E ov­ vio che raramente può raggiungersi tale accordo. Se un cittadino, senza tale accordo, attua una misura coercitiva contro un altro, re­ sta incerto se il suo atto, secondo l'ordinamento giuridico, costitui­ sca una sanzione o un illecito, cioè se l'ordinamento giuridico, in questo caso, sia stato applicato o violato. Perciò nessun altro pas­ saggio fu tanto importante, per lo sviluppo tecnico del diritto, quanto l'istituzione di tribunali. Solo centralizzando questa fase del­ l'applicazione del diritto, divenne possibile l'applicazione del diritto in tutti i casi. La centralizzazione delle altre due fasi (l'ordine di comminare una sanzione, e l'esecuzione di questa) è d'importanza minore. Sem­ bra essere l'ultimo gradino : con esso, lo stato giuridico di autodife­ sa è sostituito ; al suo posto, appare la esecuzione della sanzione da parte di un organo speciale della comunità. Sembra tuttavia che lo stato di autodifesa sia stato eliminato so­ lo gradualmente. Nei primi tempi, le corti furono poco pili che tri­ bunali di arbitrato. Dovevano decidere se un illecito fosse, o no, stato commesso, come pretendeva una parte, e se quella parte fosse, o no, autorizzata a eseguire una sanzione contro l'altra, ove il con­ flitto non potesse essere appianato dall'accordo pacifico tra le parti. Ottenere tale accordo pacifico, sostituendo alla vendetta un risarci­ mento, fu probabilmente il primo compito del tribunale. Solo in 1 1 7

una fase successiva diviene possibile abolire completamente la pro­ cedura dell'autodife,s a. L'esecuzione della sanzione da parte di un organo centrale della comunità giuridica, autorizzato a punire l'in­ dividuo colpevole, presuppone una concentrazione degli strumenti di potere e l'esistenza di un organo centrale con tutti questi stru­ menti a sua disposizione. Per centralizzare l'esecuzione delle sanzio­ ni previste dall'ordinamento giuridico, la comunità giuridica ha bi­ sogno non solo di tribunali, ma anche di una amministrazione dota­ ta di potere. Una comunità giuridica, che abbia un'amministrazione e dei tri­ bunali, è uno Stato. Lo Stato, come si è detto, è un ordinamento giuridico centralizzato : una comunità costituita da un ordinamento giuridico centralizzato. Dal punto di vista tecnico, è interessante notare che �n organo legislativo non è un requisito essenziale di uno Stato. E la centralizzazione delle funzioni giudiziaria e ammini­ strativa, non di quella legislativa, che fa di una comunità primitiva uno Stato. La giurisdizione dei tribunali di Stato è piu antica della legislazione. Il tribunale, benché abbia preceduto l'organo legislativo, non fu il primo organo centrale. Il primo organo centrale fu probabilmente il capo tribu, nella sua posizione di leader militare del suo gruppo in guerra contro un altro gruppo. Come la prima sanzione socialmente organizzata (la vendetta di sangue) appare nel rapporto fra un gruppo e un altro, COSI anche la centralizzazione fu dapprima appli­ cata nelle relazioni intertribali. All'inizio, tuttavia, la posizione del capo tribu non ha alcuna importanza per la formazione di un diritto intertribale. Appena la sua posizione diviene un'istituzione perma­ nente, ed è coinvolta in questioni giuridiche intertribali, il capo ap­ pare come giudice, non come legislatore. A prescindere dalla guerra e dalle altre relazioni con Stati esteri, che sono regolate dal diritto internazionale, all'inizio dello sviluppo stanno in primo piano le funzioni giudiziaria e legislativa ; in secon­ do piano sta quella amministrativa. I n tempi recenti, questa relazio­ ne è cambiata in favore della funzione amministrativa : lo Stato giu­ diziario è divenuto uno Stato amministrativo. Ciò soprattutto nel senso che non sono piu chiamati ad applicare le leggi solo i tribuna­ li, ma, in modo crescente, anche le autorità amministrative ; le leggi

penali e amministrative crescono di numero accanto a quelle civili. Queste wtime possono realizzare gli scopi dell' amministrazione, cercando - mediante minaccia di sanzioni - di ottenere dai cittadi­ ni una condotta considerata desiderabile dall' amministrazione. Per esempio, una legge obbliga i cittadini ad aprire una pubblica strada, costruire una scuola, e assumere insegnanti che istruiscano i loro fi­ gli. Se non fanno ciò, hsi sono puniti da lill a speciale autorità am­ ministrativa. In tal caso, la tecnica dell'amministrazione nazionale è quella stessa" della giurisdizione. È un'amministrazione di tipo indi­ retto. Si ha un'amministrazione di tipo diretto, quando gli organi pubblici - anziché le persone private - aprono strade, costruiscono scuole, e provvedono all'istruzione. Questa attività, chiamata am­ ministrazione diretta, è alquanto diversa da quella giudiziaria. Rien­ tra non fra i doveri dei cittadini privati, ma tra i doveri degli organi pubblici. Questi wtimi sono individui caratterizzati in un modo spe­ cificamente determinato dall'ordinamento giuridico. Poiché lo sco­ po dell'amministrazione, anche nell'amministrazione diretta, è per­ seguito da individui a ciò giuridicamente obbligati (talché la reazio­ ne alla loro condotta contraria è una misura coercitiva), anche l'am­ ministrazione diretta rimane entro il modello della tecnica specifica del diritto : la motivazione indiretta. L'evoluzione dello Stato procede chiaramente verso un aumento accelerato dell'amministrazione diretta. La tecnica giuridica del­ l'amministrazione diretta è quella dello Stato socialista in contrap­ posizione a quella dello Stato capitalistico-liberale, il quale, nella misura in cui sviluppa l'attività amministrativa, preferisce la tecnica dell'amministrazione indiretta. La tendenza dall'amministrazione statuale indiretta a quella diretta è la tendenza della centralizzazio­ ne crescente. La distinzione fra centralizzazione e non-centralizzazione, infine, è decisiva anche per le relazioni tra Stati. Il diritto internazionale è un ordinamento giuridico radicalmente non centralizzato. La sua tecnica rivela tutte le tipiche caratteristiche di un diritto primitivo : la creazione di norme valide per l'intera comunità giuridica avviene mediante consuetudine ; non vi sono organi speciali per l'applicazio­ ne di norme giuridiche generali al caso concreto, ma vi è invece au­ todifesa da parte del soggetto i cui diritti siano stati violati ; vi è reT r l)

sponsabilità collettiva e oggettiva. Una speciale peculiarità della tecnica del diritto internazionale è che i soggetti sono persone giuri­ diche, Stati . Una persona giuri dica è la personificazione di un ordi­ namento giuridico (o di una sua parte). Dire che un ordinamento giuridico obbliga e autorizza una persona giuridica, non significa che esso non obblighi e autorizzi individui. Significa solo che l'ordi­ namento giuridico obbliga gli individui non direttamente, ma indi­ rettamente, attraverso la mediazione di un altro ordinamento giuri­ dico : quello, la cui personificazione è considerata come soggetto dell'ordinamento giuridico che obbliga e autorizza. Dire che il dirit­ to internazionale obbliga e autorizza Stati, significa che esso obbli­ ga e autorizza individui nella loro capacità in quanto organi statua­ li, individui designati da un ordinamento giuridico nazionale quali organi di tale ordinamento e della comunità da esso costituita. Ciò significa che le norme dell'ordinamento giuridico internazionale so­ no norme non com plete : per essere applicate, esse devono tutte es­ sere completate dalle norme degli ordinamenti giuridici nazionali. Questo completamento consiste nella designazione degli individui che, nella loro capacità di organi statuali, devono adempiere i dove­ ri internazionali ed esercitare i diritti internazionali degli Stati. Questa è la regola. Eccezionalmente vi sono anche norme di diritto internazionale, che determinano direttamente gli individui la cui condotta forma la sostanza dei diritti e doveri internazionali degli Stati. Si può supporre che l'evoluzione tecnica del diritto internaziona­ le progredisca lungo la stessa linea di tendenza degli ordinamenti giuridici statuali . E assai suggestivo il fatto che, in diritto interna­ zionale, la centralizzazione sia cominciata con l'istituzione di tribu­ nali. Sono essi i primi organi relativamente centralizzati del diritto internazionale. Nella misura in cui crescono, in diritto internaziona­ le, obblighi e autorizzazioni in capo direttamente a individui, e nel­ la misura in cui cresce la centralizzazione, i confini tra diritto inter­ nazionale e nazionale tendono a scomparire, e l'organizzazione giu­ ridica del genere umano si avvicina all'idea di uno Stato mondiale.

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Note

I Ovidio. Metamorfosi. I. 89-9 3 . 2 Cfr. i miei : L a teoria politica del bolscevismo rsupra in questo volume] ; The Communist Theory 01 La"". New York 1 9 5 5 ; trad. it La teoria comunista del di­ rillo. a cura di G. Treves. Milano 1 9 5 6. � F. Engels. L 'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienZA. Roma 1 9 70. 4 Ivi. p. 2 6. , Esodo. XX. 5 . .•

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I giud izi di valore nella scienza giurid ica *

I.

Nella teoria del diritto si incontrano due tipi di giudizi, ed entrambi sono di solito considerati giudizi di valore, benché siano essenzial­ mente differenti tra loro. Riferendoci al comportamento dei cittadi­ ni, qualifichiamo tale comportamento come lecito (legittimo, con­ forme al diritto) o illecito (illegittimo, non conforme al diritto). Concetti come quelli di « diritto soggettivo », « dovere giuridi­ co », e « delitto » traggono il loro significato da giudizi di questo tipo. I giudizi del secondo tipo si riferiscono al diritto stesso, o al­ l'attività delle persone che creano diritto. Asseriscono che l'attività del legislatore, o il suo prodotto (il diritto), sono giusti o ingiusti. Invero, anche l'attività del giudice può essere considerata giusta o ingiusta, ma solo nella misura in cui egli opera come organo creato­ re di diritto. N ella misura in cui egli applica semplicemente il dirit­ to, il suo comportamento può essere qualificato come lecito o illeci­ to, allo stesso modo dei comportamenti di quanti sono soggetti al diritto. Questi due tipi di giudizi possono essere raffrontati a quei giudi­ zi che asseriscono la tale cosa essere buona o cattiva, bella o brutta. Essi implicano che un certo oggetto abbia un certo valore positivo o negativo, sia « valevole » (valuable) in senso positivo o negativo. Può essere oggetto di simili valutazioni un comportamento umano, o un ordinamento giuridico, o una regola giuridica, o un'istituzione *

Value Judgments in the Science 01 Law, in

c( Journal of Science, Philosophy, 1 942, ora in H. Kelsen, TN'hat is Justice ? Justice, Law and Politics in the Mirror 01 Science, Berkeley and Los Angeles 1 9 5}_, pp. 209-2 30.

and Jurisprudence

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giuridica. I valori che entrano in gioco nei giudizi di liceità o illi­ ceità, li chiamerò c( valori di diritto » ; i valori che entrano in gioco n ei giudizi di giustizia o ingiustizia, li chiamerò c( valori di giusti­ . zIa » . Qual è il significato d i questi giudizi ? Che cosa asseriscono ? S i può rispondere a questa domanda solo analizzando che cosa d i fat­ to intendano dire, mediante tali giudizi, coloro che hanno a che fare con il diritto : legislatori, giudici, giuristi, parti processuali, e giuristi teorici. Per cominciare, prendiamo in considerazione i giudizi che quali­ ficano c( lecito » o c( illecito » un comportamento wnano : giudizi, dunque, che asseriscono un valore di diritto. Si possono anche chia­ mare c( giudizi di valore giuridici (dei giuristi) » (juristic value jud­ gments) nel senso proprio del termine. Essi sono veri o falsi, e la lo­ ro verità o falsità può essere provata. Il loro significato può essere accertato, analizzando in che modo un giurista dia prova della ve­ rità o falsità di giudizi del tipo « Il comportamento B è lecito » o « Il comportamento B è illecito ». Poiché il diritto si manifesta sempre sotto forma di un ordina­ mento giuridico positivo determinato - il diritto francese, svizzero, americano, internazionale -, un giudizio di valore giuridico è sem­ pre vero o falso in relazione a tale ordinamento giuridico positivo. Uno stesso comportamento può essere lecito in relazione a un ordi­ namento, e illecito in relazione a un altro. Qual è dunque il metodo per provare che, in relazione a un ordinamento giuridico dato, il furto è illecito, mentre il pagamento del debito è lecito ? Ciò è pro­ vato, col mostrare che vi è una regola generale che proibisce il fur­ to, e una regola generale che prescrive il pagamento del debito. Il nostro dubbio intorno alla liceità o illiceità di un comportamento è risolto, quando possiamo indicare una regola giuridica che si riferi­ sca, positivamente o negativamente, al comportamento in questio­ ne. Una regola che prescriva o proibisca un dato comportamento, la chiamiamo c( norma ». Il significato specifico di una norma è espresso dal concetto di « dover essere » (ought). Una norma impli­ ca che un individuo debba comportarsi in un certo modo, che un in­ dividuo debba fare od omettere alcunché. Gli enunciati che espri1 23

mono norme sono enunciati in termini di c( dovere ». Un compor­ tamento è lecito. se c( corrisponde » a una norma giuridica ; è illeci­ to. se la c( contraddice ». Esso c( contraddice » una norma giuridi­ ca. se sta in rapporto di opposizione polare verso il comportamento lecito. Possiamo anche dire : un individuo si comporta lecitamente. allorché si comporta come deve comportarsi in conformità all'ordi­ namento giuridico. Si comporta illecitamente. allorché non si com­ porta come deve. Il giudizio di valore giuridico sulla liceità o illi­ ceità di un comportamento asserisce una relazione. positiva o nega­ tiva. tra que] comportamento e una norma. la cui esistenza è presup­ posta da colui che compie tale giudizio. Un giudizio di valore giuri­ dico presuppone dunque resistenza di una norma. di un « dover es­ sere » . Il significato di questo giudizio di valore. quindi. dipende dal significato dell'asserzione che una norma « esiste » . Il.

Secondo una teoria largamente accettata \ . ogni valore è funzione di un interesse. nel senso di atteggiamento emotivo. Desideri e voli­ zioni. in particolare. sono esempi di interesse in questo senso gene­ rale. Secondo questa teoria. il giudizio che un oggetto è valevole. in senso positivo o negativo. significa che qualcuno ha un interesse. positivo o negativo. verso tale oggetto. che qualcuno ha una dispo­ sizione favorevole o sfavorevole verso di esso. Esiste un valore. quando esiste un interesse. cioè un fatto psichico ; il valore cessa di esistere. quando tale fatto psichico muta o viene meno. Se l'oggetto corrisponde all'interesse. esso ha un valore positivo ; se contraddice l'interesse. il suo valore è negativo. Un oggetto A contraddice un interesse. se questo è un interesse a non-A. Può trattarsi di un inte­ resse della persona che compie il giudizio. o di un interesse altrui. Secondo questa opinione. l'oggetto di un giudizio di valore è. co­ munque. sempre costituito da un reale interesse di qualcuno. Il giu­ dizio è un enunciato in termini di « essere » (is). non di « dovere » (ought). In questa interpretazione. un giudizio di valore non è esso stesso un atto di valutazione. Valutazione è la reazione emotiva di qualcu­ no verso un oggetto. è un atto di desiderio o di volontà. Il giudizio 1 24

di valore asserisce che qualcuno valuta un oggetto : si riferisce a un atto di valutazione, ma non è esso stesso un atto del genere. La va­ lutazione è un atto emotivo, mentre il giudizio di valore è un atto cognitivo. Se il valore di un oggetto è la sua relazione con un interesse, è fuorviante parlare di cc giudizi di valore » come di una specie parti­ colare di giudizi. Questa terminologia crea l'impressione che tali giudizi asseriscano qualcosa di non appartenente alla realtà (ai fat­ ti). Ma i c( valori », che essi asseriscono, sono, secondo questa in­ terpretazione, fatti reali (esistenti). Stando a questa teoria, non vi è opposizione tra valori e realtà (esistenza). Tuttavia, l'opposizione vi è, se il giudizio di valore asserisce una relazione tra l'oggetto valutato e una norma, un c ( dover essere », la cui esistenza è assunta da colui che giudica. Entro questa teoria nor­ mativa, il giudizio che qualcuno si comporta lecitamente o illecita­ mente significa che costui si comporta o non si comporta in confor­ mità alla norma, la cui esistenza è presupposta dal soggetto giudi­ cante. Tale giudizio di valore è al tempo stesso un atto di valutazio­ ne. Il valore in questione è un c( dover essere » e, come tale, è qual­ cosa di radicalmente diverso da ogni sorta di fatti 2 . Solo se conce­ piamo il valore come relazione tra un oggetto e una norma, è sensa­ to �istinguere nettamente fra giudizi di valore e giudizi di fatto. E possibile mostrare che un giudizio, il quale asserisca resistenza di una norma giuridica, equivale a un giudizio, il quale asserisca re­ sistenza di un interesse ? Se cOSI fosse, la teoria normativa del valo­ re, ora suggerita , sarebbe insostenibile. Il c( dover essere », median­ te il quale abbiamo espresso il significato delle norme, sarebbe ri­ dotto a un fatto naturale ; e lo stesso varrebbe anche per i valori di diritto. Tentativi di elaborare siffatta teoria psicologica del diritto, di fatto, vi sono stati spesso. La norma giuridica è stata descritta come espressione di una c( volontà » : la cc volontà » dello Stato, o del popolo, o del legislatore. Tuttavia, a un esame ravvicinato, risulta evidente il carattere fittizio di questa c( volontà ». Il significato dell'affermazione che una norma esiste è determina­ to dal metodo, tramite il quale tale esistenza è dimostrata. Suppo­ niamo di volere stabilire se, secondo l'ordinamento giuridico di un I 2



certo Stato, sia illecito non adempiere una promessa di matrimonio. Secondo alcuni ordinamenti giuridici, tale promessa è vincolante ; secondo altri, non lo è. Supponiamo inoltre che l'ordinamento giu­ ridico, di cui ci interessiamo, sia di tipo democratico. È provato che è illecito rompere una promessa di matrimonio, se possiamo esibire una norma che renda tale promessa vincolante. L'esistenza di siffat­ ta norma è stabilita dal fatto che una legge valida, appartenente al­ l'ordinamento giuridico in questione. contenga una prescrizione in tal senso. Questa legge è valida, se è stata approvata dal parlamen­ to di quello Stato. La decisione del parlamento è un evento naturale, un fatto ap­ partenente alla realtà naturale, che accade in un certo momento e in un certo luogo nel mondo. Di solito lo si considera un atto di (C vo­ lontà collettiva ». Con questa espressione, intendiamo dire che di­ versi individui hanno la stessa volontà riguardo a un dato oggetto, che le volontà di diversi individui sono dirette a uno stesso fine. Nel caso presente, si suppone che l'oggetto comune delle volontà dei membri del parlamento sia il contenuto della legge che rende vincolante la promessa di matrimonio. Lasciamo per ora indeciso se sia o non sia corretta questa interpretazione psicologica di una deci­ sione parlamentare. In ogni modo, la decisione parlamentare è un evento naturale. Descrivere il processo chiamato « decisione parla­ mentare » è descrivere una parte della realtà. Se resistenza di una norma giuridica può essere provata, mostrando che un parlamento ha preso una decisione cOSI e cosI. allora il « dover essere » (ought) di una norma giuridica sembra un « essere » (is), un fatto. E l'affer­ mazione che qualcuno « deve » giuridicamente comportarsi in un certo modo significherebbe, allora, che certi individui hanno statui­ to che ci si deve comportare in quel modo. Se supponiamo che una decisione parlamentare sia un atto di volontà collettiva, allora l'af­ fermazione in questione significa che certi individui vogliono la tale cosa. Se ciò fosse corretto, allora il giudizio di valore sulla « li­ ceità » (o « illiceità ») di un certo comportamento asserirebbe che tale comportamento corrisponde (o non corrisponde) alla volontà di certi individui. La teoria dell'interesse, dunque, sarebbe applica­ bile anche ai giudizi di valore giuridici e ai valori di diritto. Vedre­ mo che siffatta interpretazione dei valori di diritto è insostenibile. 1 20

III.

L'applicazione della teoria dell'interesse ai valori d i diritto è il risw­ tato di una fallace identificazione della norma giuridica e dell'atto con cui è creata. La norma e ratto creativo di essa sono due entità, che dobbiamo tenere chiaramente distinte. La mancata distinzione rende impossibile pervenire a una descrizione soddisfacente del fe­ nomeno giuridico. I seguenti esempi lo dimostreranno. Una norma giuridica, che deve la sua esistenza a una decisione parlamentare, ovviamente comincia a esistere allorché la decisione è già stata presa, e - supposto che la decisione sia espressione di una volontà - allorché non vi è piu volontà alcuna. Approvata la legge, i membri del parlamento si rivolgono ad altre questioni, e cessano di volere il contenuto della legge (posto che l'abbiano voluto mai). Dal momento che la norma giuridica viene costituita dopo il com­ pimento della procedura legislativa, la sua c( esistenza » non può consistere nella volontà dei componenti il corpo legislativo. Un giu­ rista, che voglia stabilire l' c( esistenza » di una norma giuridica, in nessun caso cerca di provare resistenza di un qualche fenomeno psi­ cologico. L'cc esistenza » di una norma giuridica non è affatto un fenomeno psicologico. Un giurista considera c( esistente » una leg­ ge, anche quando gli individui che l'hanno creata non vogliono piu il contenuto, della legge : invero, anche se nessuno vuole piu il suo contenuto. E possibile, e spesso accade, che una legge c( esista » in un momento in cui sono morti tutti coloro che l'hanno creata. Poiché il diritto comincia a c( esistere » dopo che la procedura legislativa è stata completata, il diritto deve essere qualcosa di di­ stinto da questa procedura. Per questo, la terminologia dei giuristi designa la c( esistenza » della norma giuridica con un termine, che non può essere applicato all'esistenza dell'atto creativo di norme. Per dire che una norma c( esiste », i giuristi dicono ch� essa è c( vali­ da ». L' c( esistenza » di una norma è la sua validità. E a questa va­ lidità che si riferisce il concetto di c( dover essere ». Che una norma possiede validità significa che gli individui devono comportarsi cOSI come la norma prescrive. Un atto creativo di norme, che è un atto di volontà, non può dirsi c( valido ». Esso c'è, o non c'è ; la sua esi­ stenza è il suo c( essere » . 1 27

Dire che un atto « crea » una norma è fare uso di un discorso fi­ gurato. Quel che propriamente può intendersi, con ciò, è solo una specifica relazione tra un atto, che « è », e una norma giuridica, se­ condo cui qualcosa « deve essere ». Si tratta della relazione tra un atto ed il suo significato. Una norma giuridica è il significato speci­ fico di un atto che, a causa del suo significato, è chiamato atto crea­ tivo di norme. L'esistenza di una norma giuridica può essere asseri­ ta, solo se sia stato compiuto un atto, il cui significato è una norma giuridica. In ciò consiste la « positività » del diritto. L'espressione « diritto positivo » significa che il diritto è un complesso di norme « poste », ossia create da certi atti. Il diritto, per la sua positività, differisce dal cosiddetto diritto naturale. Si suppone che le norme del diritto naturale, a differenza di quelle del diritto positivo, non siano state deliberatamente create da qualcuno. Si assume che esse esistano nella natura, indipendente·mente dai desideri e dalla volontà dell'uomo ; e si suppone che pos­ sano essere scoperte tramite un esame della natura. Il cosiddetto di­ ritto naturale è una delle forme in cui si manifesta l'idea di giustizia. Ma qui a noi interessa solo il diritto positivo. Assumiamo che l'atto creativo di norme si� un atto di volontà. L'affermazione che una norma valida è stata creata da tale atto significa che gli uomini de­ vono comportarsi in un certo modo, se certi individui hanno espres­ so una volontà diretta a questo comportamento. Tra l'atto creativo di norme e il suo significato (cioè la norma creata da questo atto) vi è una sorta di parallelismo, analogo a quello che vi è tra i processi fisiologici cerebrali e i fenomeni psicologici, come ad esempio pen­ sieri e sentimenti. Nessuna norma è possibile senza un atto che la crei ; ma questo e quella sono entità 1010 genere differenti. L'atto creativo è la condi/io sine qua non della norma, ma non è la sua con­ ditio per quam. Se si designa come volontà (dello Stato, del popolo, del legisla­ tore) la norma giuridica stessa, il termine « volontà » è usato in un senso diverso rispetto a quando è riferito al fenomeno psicologico rappresentato dall' atto creativo di norme. Dire : è « volontà » della norma giuridica che gli uomini si comportino in un certo modo, è dare un'espressione figurata all'idea che gli uomini debbano com­ portarsi in quel modo. In effetti, vi è una certa somiglianza tra l'afJ 2�

fermazione che qualcuno vuole che gli uomini si comportino in un dato modo, e l'affermazione che gli uomini devono comportarsi in quel modo. Il ( dover essere » è, per cOSI dire, una volontà depsico­ logizzata. Una norma giuridica creata da un atto può essere abolita da una norma creata da un altro atto (un actus contrarius). Qui, di nuovo, risulta chiara la differenza tra la norma e l'atto che la crea. Non è ratto precedente che è abolito dall'atto successivo ; un atto, che ab­ bia già avuto luogo nello spazio e nel tempo, non può essere abolito da un altro atto. Abolita è la norma, creata dall' atto precedente : abolita o ( annullata » significa non pili valida. Non è l'atto succes­ sivo ad abolire la norma ; è la norma creata da questo atto ad avere tale effetto. Ciò si esprime nella ben nota formula lex posterior dero­ gat priori. Che una norma è abrogata o annullata, che non è pili va­ lida, significa che non si può pili sostenere che gli uomini debbano comportarsi in conformità a quella norma. Nuovamente, è chiaro che il fenomeno giuridico non può essere adeguatamente descritto senza la categoria del ( dover essere ». Una norma giuridica può cessare di ( esistere », ossia perdere l� sua validità, anche senza che vi sia un qualche atto contrario. E quanto avviene allorché, in conformità al suo stesso significato, una norma deve essere valida solo per un tempo limitato. Un documen-. to legislativo può contenere, nella sua formulazione testuale, il ter­ mine finale della sua stessa validità. Il momento in cui 1'( esisten­ za » della norma è interrotta è, in questo esempio, non il momento in cui il legislatore cessa di volere il contenuto della norma, ma un momento determinato dalla norma stessa. Un giurista, che voglia scoprire questo momento, non indagherà sullo stato mentale di co­ loro che crearono la norma, ma analizzerà il contenuto della norma che costoro crearono. IV.

Assumendo che l'atto creativo di norme sia un atto di volontà, il cui oggetto è il contenuto della norma, la teoria che spiega il valore in termini di interesse sembra trovare un'applicazione almeno indi­ retta ai valori di diritto. Per la precisione, l'affermazione che un 1 29

comportamento è lecito (o illecito) non può, neppure sulla base di tale assunto, essere interpretata nel senso che un comportamento (o il suo opposto) sia realmente desiderato da certe persone. Ma, for­ se, può essere interpretata nel senso che quel comportamento corri­ sponde a (o contraddice) una norma, creata da un atto di volontà il cui oggetto è il contenuto della norma. Tuttavia, anche in questa forma modificata, la teoria dell'interesse non può essere applicata ai giudizi di valore giuridici. L'atto, dal quale una norma giuridica è creata, non è necessariamente un atto di volontà, il cui oggetto è il contenuto della norma. Un'analisi della procedura legislativa entro una democrazia parlamentare lo renderà evidente. La decisione parlamentare, per mezzo della quale, secondo la co­ stituzione, una legge è emanata, non è in alcun modo una cc volontà collettiva », il cui oggetto sia il contenuto della legge. Sarebbe cOSI, solo se una legge non potesse essere costituzionalmente emanata a meno che ogni ' membro del parlamento effettivamente volesse le prescrizioni della legge, ed esprimesse tale volontà in un modo per­ cettibile. Ma non è questo il caso. Per l'emanazione di una legge, la costituzione richiede semplicemente che la maggioranza dei membri la approvi. La validità della legge non è toccata dal fatto ·che una minoranza d'opposizione non voglia la legge. Se� il contenuto della legge è A, i membri della minoranza vogliono non-A. I voti della minoranza, tuttavia, sono parte essenziale del processo legislativo. L'atto, attraverso il quale una norma giuridica A è creata, si com­ pone di atti di volontà : solo una parte di questi (la maggioranza) ha per oggetto A, mentre un'altra parte (la minoranza) ha per oggetto non-A. Abbiamo assunto qui, provvisoriamente, che i membri della maggioranza vogliano il contenuto della legge. Un' analisi piu rav­ vicinata mostrerà che questa assunzione non nasce dai fatti. Chiun­ que abbia familiarità con la procedura parlamentare sa che i rappre­ sentanti spesso votano un progetto senza �ssere a conoscenza del suo contenuto o delle sue parti essenziali. E impossibile volere al­ cunché di cui non si abbia conoscenza. Che cosa un rappresentante realmente voglia, mentre vota un progetto, di cui ignora il contenu­ to, è un'altra questione. Qui è sufficiente stabilire che egli non vuole il contenuto del progetto. Del resto, la costituzione non richiede 1 30

che tutti coloro, i quali votano per un progetto, conoscano e voglia­ no il suo contenuto. Basta che votino per esso. Se una legge è estesa e complicata, di solito il suo contenuto è noto solo a pochissimi rap­ presentanti. La gran parte di quanti votano per un progetto lo fa non perché conosca e voglia le sue prescrizioni, ma perché ha fidu­ cia nei proponenti, oppure perché si sente obbligata a seguire le di­ rettive del suo capo-partito. Si potrebbe obietta�e che, dopo tutto, qualcuno deve volere il contenuto della legge. E vero. Ma quanti conoscono e vogliono il contenuto della legge, spesso, non fanno parte di quelli, la cui volontà è decisiva secondo la costituzione. Infine, occorre ricordare che una legge è espressa in parole � esse sono spesso ambigue, e possono essere interpretate dagli organi del­ l'applicazione in un modo non voluto dal legislatore. L'idea che una norma sia sempre creata da un atto di volontà, avente a ogget­ to il contenuto della norma, è ovviamente una finzione. Il fatto creativo di norme, non è detto che sia un simile atto di volontà. Ma, perché possiamo asserire che una norma cc esiste », deve sem­ pre esservi qualche fatto che cc crei » la norma. v.

Che il fatto creativo di norme non debba necessariamente essere un atto di volontà (il cui oggetto sia il contenuto della norma) risulta evidente, quando una norma giuridica sia creata non da un organo speciale, ma per via consuetudinaria. Una norma di diritto consue­ tudinario prescrive che gli uomini si comportino COSI come consue­ tudinariamente fanno. Quando i membri di un gruppo sociale han­ no seguito un dato modello di comportamento per un certo tempo, nasce entro il gruppo la convinzione che ci si debba conformare a questo modello. In questo caso, gli atti che danno origine a una norma giuridica non hanno come oggetto il contenuto di questa norma. Qui non vi è alcun legislatore, cui la norma possa essere at­ tribuita. I n questo caso, il giudizio di valore giuridico che un certo comportamento è lecito (o illecito) neppure indirettamente può con­ siderarsi un'affermazione intorno a una volontà avente come ogget­ to questo comportamento (o il suo opposto). Può sembrare, tuttavia, che il giudizio di valore giuridico sia qui I3I

identico a un'altra affermazione su questioni di fatto. Può sembrare che l'affermazione, secondo cui qualcuno si comporta lecitamente, in questo caso significhi solo che costui si comporta cOSI come con­ suetudinariamente fanno gli altri membri del suo gruppo. Questo tentativo di ridurre i giudizi di valore a giudizi concernenti questio­ ni di fatto è, anch'esso, dovuto alla fallace identificazione della nor­ ma con il fatto creativo di norme. Il fatto che la gente consuetudi­ nariamente si comporti in un certo modo è una condizione per asse­ rire la norma che la gente deve comportarsi in quel modo. Ma il fatto qui non è identico alla norma, come il fatto che il parlamento approvi un progetto è diverso dalla norma corrispondente, cui dà origine. La regolarità fattuale, l'effettivo comportarsi in un certo modo da parte della gente, non è lo stesso che il cc dovere » - po­ sto da una norma - di comportarsi in quel modo. La norma non può neppure essere logicamente dedotta dalla de­ scrizione di ciò che regolarmente c( è ». Dal fatto che qualcosa è o accade non consegue logicamente che 'quell4 cosa (o qualunque altra cosa) debba essere o debba accadere. Un fatto naturale, in partico­ lare un atto di volontà, può considerarsi causa dell' cc esistenza » di una norma, solo se un'altra norma (superiore) contiene una prescri­ zione in tal senso. Solo se presupponiamo la norma che ci si debba comportare come i membri della comunità regolarmente fanno, il fatto che il debitore abitualmente restituisca al creditore il suo dena­ ro aumentato di un 5% d'interesse crea una norma giuridica, che prescrive il 5% d'interesse. La norma presupposta rende la consue­ tudine un fatto creativo di norme, cOSI come la costituzione conferi­ sce potere legislativo al parlamento. Questa norma deve appartene­ re alla costituzione (scritta o non scritta che sia), cioè al complesso di norme che disciplinano la creazione del diritto. Questa norma è la ragione della validità di tutte le norme giuridiche consuetudinarie particolari. Essa è alla base di tutti i giudizi di valore giuridici entro un sistema di diritto consuetudinario. VI.

La ragione della validità di una norma risponde alla domanda : perché ci si deve comportare come la norma prescrive ? Poiché la

cc validità » di una norma è il suo specifico modo di esistenza, la ra­ gione della validità di una norma è altresl il fondamento della sua esistenza. La ragione della validità di una norma è sempre un' altra norma, mai un fatto. I fatti che condizionano l'esistenza di una nor­ ma giuridica - la presenza di un fatto che crei la norma, e l'assenza di un fatto che l'annulli - non sono dunque il fondamento dell' esi­ stenza della norma. Essi sono una condi/io sine qua non, ma non una condi/io per quam. Un fatto implica l'esistenza di una data norma giuridica, solo se vi è una norma superiore la quale faccia dipendere l'esistenza della norma da questo fatto. La norma giuridica inferio­ re possiede validità, perché è stata creata in accordo con le prescri­ zioni della norma superiore. Se domandiamo perché una data nor­ ma giuridica sia valida, la risposta è sempre in termini di un' altra norma (superiore), la quale disciplina la creazione della prima nor­ ma (inferiore), ossia determina i fatti che ne condizionano l'esisten­ za. Se continuiamo a cercare le ragioni di validità delle norme giuri­ diche, giungeremo alla fine a una norma ultima, la cui creazione non è stata determinata da alcuna norma superiore. La serie delle ragioni di validità di una norma non è infinita come la serie delle cause rispetto a un effetto. Deve esistere una ragione ultima, una norma fondamentale, che sia fonte di validità per tutte le norme ap­ partenenti a un dato ordinamento giuridico. Sebbene l'esistenza di ogni norma sia condizionata da un certo fatto, non è però un fatto, bensl una norma, la ragione per cui tutte le norme del sistema esi­ stono, ossia sono valide. Ciò mostra chiaramente che una norma non è identica al fatto che la condiziona.

VII.

L a stessa conclusione è obbligata, se applichiamo l'analisi dei giudi­ zi di valore giuridici a quel campo del diritto, in cui le norme devo­ no la loro esistenza non alla consuetudine, ma ad atti legislativi. Supponiamo che dei gangsters decidano che tutti i proprietari di night dubs di una data città debbano pagare loro una certa c( tas­ sa ». Anche se, con le minacce, essi riuscissero a rendere operante la loro decisione, questa non costituirebbe tuttavia alcuna norma giu-

ridica, e conseguentemente non potrebbe essere la base di un giudi­ zio di valore giuridico. I giudizi di valore giuridici presuppongono una norma giuridica come modello, e una norma giuridica può esse­ re creata solo da persone che siano considerate autorità legali. Ecco la differenza tra i membri di un corpo legislativo ed i membri di una banda criminale. I primi posseggono la qualità di autorità lega­ li ; hanno la capacità di creare norme giuridiche, perché una norma giuri dica (precisamente la costituzione) ha conferito loro tale qua­ lità. Le leggi approvate dal parlamento sono valide, perché sono state create nel modo prescritto dalla costituzione. Questa norma costituzionale è la ragione per cui le leggi sono norme valide. E, in questo senso, la costituzione è una norma o un insieme di norme di livello superiore rispetto alle norme della legge ordinaria. Il diritto legislativo e quello consuetudinario sono fondati sulla costituzione, cOSI come le decisioni giudiziali, cioè le norme individuali stabilite dai tribunali, sono fondate sulle leggi. Che una norma giuridica sia « fondata » su di un'altra significa che quest'ultima è la ragione di validità ( ( esistenza ») della prima. La funzione legislativa del parlamento è fondata sulla costituzio­ ne ; non cosI la decisione di una banda criminale. Perciò, quando il parlamento approva una legge fiscale, questa è un atto legittimo ; mentre l'analoga decisione della banda criminale è un atto illegitti­ mo.. La nurma giuridica creata dal legislatore presuppone le norme della costituzione, e allo stesso modo il giudizio di valore che un comportamento è lecito o illecito - in quanto conforme, o non, a una legge - presuppone un giudizio di valore, per il quale la funzio­ ne del legislatore è una funzione legittima. Quest'ultimo giudizio di valore è un'affermazione intorno alla relazione tra la funzione legislativa e la costituzione. La costituzio­ ne, come una legge o una norma di diritto consuetudinario, è opera di esseri umani. Trae origine o dalla consuetudine, o da un atto de­ liberato di certi individui : i « padri della costituzione ». La relazio­ ne tra la norma costituzionale e il fatto creativo di essa è la stessa che intercorre tra le norme stabilite in base alla costituzione e i fatti creativi di esse. L'atto creativo della costituzione, analogamente, deve essere qualificato come atto creativo di norme da una norma superiore. Le leggi sono valide in quanto create da persone autoriz-

zate dalla costituzione. La costituzione, come si è visto, è la ragione per cui le leggi posseggono validità o esistenza normativa. Perché possiede validità la costituzione ? Perché consideriamo vincolanti le norme deliberate dai ( padri della costituzione » ? Da quale fonte la costituzione deriva la sua validità, la sua esistenza normativa ? La esistenza o validità della costituzione stessa deve essere fondata su una norma. Una norma non può ricevere validità se non da un' altra norma. Un ( dovere » deve sempre essere dedotto da un altro cc dovere » : non consegue mai da un semplice ( essere » . L a norma che conferisce validità alla costituzione può essere una costituzione precedente (allorché la nuova costituzione è stata deli­ berata in conformità con le prescrizioni di questa). Entro una serie siffatta di costituzioni, una di esse deve essere storicamente la pri­ ma. E la norma, che conferi ai ( padri » di questa prima costituzio­ ne la loro autorità, - ossia la norma per cui ci si deve comportare in conformità alle loro decisioni - non può essere, essa stessa, una norma giuridica positiva, creata da un qualche atto legislativo. Si tratta invece di una norma presupposta da quanti considerano atti creativi di diritto l'emanazione della prima costituzione nonché gli atti compiuti in conformità a essa. La scienza del diritto, analizzan­ do il pensiero dei giuristi, rivela questa norma presupposta. Il risul­ ta to dell'analisi è la seguente affermazione : se la prima costituzione storica e le norme adottate sulla sua base devono essere considerate norme giuridicamente vincolanti, allora occorre presupporre una norma, per la quale ci si deve comportare in conformità alla prima costituzione storica. Tale norma è la norma fondamentale di un or­ dinamento giuridico nazionale. La si può chiamare ipotetica, poiché non è una norma di diritto positivo, e possiamo parlare di un ordi­ namento giuridico vincolante solo se la presupponiamo. Questa norma fondamentale è il fondamento di tutti i giudizi di valore giu­ ridici possibili entro l'ordinamento giuridico di un dato Stato. VIII.

L'ordinamento giuridico d i uno Stato è dunque u n sistema gerar­ chico di norme giuridiche. In modo grossolanamente semplificato, il quadro si presenta cOSI : il livello piu basso è costituito dalle nor-

me individuali create dagli organi dell' applicazione del diritto, spe­ cialmente dai tribunali. Queste norme individuali dipendono dalle leggi (ossia le norme generali create dal legislatore ) e dalle regole di diritto consuetudinario, che formano il livello immediatamente su­ periore dell'ordinamento giuridico. Leggi e regole di diritto consue­ tudinario, a loro volta, dipendono dalla costituzione, che forma il livello pili alto dell'ordinamento giuridico considerato come un si­ stema di norme positive. c( Positive » sono quelle norme create da atti di esseri umani. Le norme di un livello inferiore derivano la lo­ ro validità dalle norme del livello superiore. Se non consideriamo il diritto internazionale come un ordinamento giuridico superiore al diritto nazionale, la costituzione di uno Stato rappresenta il livello pili alto all'interno di un ordinamento giuridico nazionale. Dunque, le norme della costituzione ricevono validità non da una norma giu­ ridica positiva, ma da una norma che il pensiero dei giuristi presup­ pone : la norma fondamentale ipotetica. I giudizi di valore giuridici mostrano una stratificazione corri­ spondente a quella delle norme giuridiche. Ognuno di essi asserisce una relazione tra un comportamento umano e una norma giuridica ; essi formano perciò un sistema, che ha la stessa struttura del sistema delle norme giuridiche. I giudizi di valore giuridici possono riferirsi al comportamento dei cittadini, oppure al comportamento degli or­ gani che creano e applicano il diritto. Il comportamento dei cittadi­ ni può essere giudicato conforme alle norme individuali statuite dai tribunali (e dagli altri organi dell'applicazione del diritto), oppure direttamente conforme alle norme contenute nelle leggi, sulla cui base i tribunali (e gli altri organi dell' applicazione) prendono le loro decisioni. Di conseguenza, l'affermazione che il comportamento di un cittadino è lecito (o illecito) può significare che esso corrisponde a (o contraddice) la decisione di un tribunale, oppure che corrispon­ de a (o contraddice) una legge o una regola di diritto consuetudina­ rio, still a cui base è presa la decisione giudiziale. Il giudizio di valore che una decisione giudiziale è conforme (o non conforme) al diritto concerne la relazione tra questa decisione e una legge o una regola di diritto consuetudinario. Asserisce che la decisione giudiziale è (o non è) in accordo con la legge o con la re­ gola di diritto consuetudinario. Come si è già accennato. anche un

giudizio di valore, che asserisca la liceità del comportamento di un soggetto, può avere questo significato. Il giudizio di valore che un atto legislativo o una consuetudine sono conformi al diritto (legitti­ mi) significa che essi sono in accordo con la costituzione, la quale conferisce all' organo legislativo o alla consuetudine il potere di creare diritto. Infine, sorge la questione s e la costituzione (o, piu esattamente, ratto di emanazione di essa) sia legittima : se, dunque, la costituzione �ia una norma ( o un insieme di norme) giuridicamen­ te vincolante. E evidente che un giudizio di valore in tal senso è possibile, ove la costituzione non sia la prima costituzione storica dello Stato in questione. All ora quel giudizio significa che r emana­ zione della costituzione è, o non è, conforme alle prescrizioni della costituzione precedente in materia di revisione costituzionale. È però possibile un tale giudizio di val