La storia della filosofia nell'aetas kantiana. Teorie e discussioni

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La storia della filosofia nell'aetas kantiana. Teorie e discussioni

Table of contents :
Introduzione - Di Bella, Santi
002#
il problema della storia della filosofia dal punto di vista kantiano - Di Bella, Santi
A ogni filosofia la sua storia della filosofia : il moltiplicarsi dei riformatori del criticismo - Di Bella, Santi
Alcune idee sulla rivoluzione portata nella filosofia da Immanuel Kant e in particolare circa il suo influsso sulla trattazione della storia della filosofia - Heydenreich, Karl Heinrich
Sul concetto di storia della filosofia : una lezione accademica - Reinhold, Karl Leonhard
Che cosa significa rappresentare lo spirito di una filosofia? - Fülleborn, Georg Gustav
008#
Sul concetto di storia della filosofia - Grohmann, Johann Christian August
Introduzione a Esame del quesito posto a concorso dall’Accademia della Scienze di Berlino : quali progressi ha fatto la metafisica da Leibniz e Wolff? - Hülsen, August Ludwig
Indice dei nomi - Di Bella, Santi

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La Cultura Storica 37 Collana di testi e studi diretta da Giuseppe Cacciatore e Fulvio Tessitore Segreteria di redazione Domenico Conte e Edoardo Massimilla

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Santi Di Bella

La SToria DELLa FiLoSoFia nELL’aetaS kantiana teorie e discussioni con appendice di testi

Liguori Editore

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Questo volume viene stampato con il contributo del MiUr e dell’Università degli Studi di Messina (CoFin) Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (Legge n. 633/1941: http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l633_41.html). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete internet sono riservati, anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla Legge ed è soggetta all’autorizzazione scritta dell’Editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile al seguente indirizzo: http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali e marchi registrati, anche se non specificamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi o regolamenti. Liguori Editore - i 80123 napoli http://www.liguori.it/ © 2008 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Dicembre 2008 Di Bella, Santi :

La storia della filosofia nell’Aetas Kantiana. Teorie e discussioni/Santi Di Bella napoli : Liguori, 2008 iSBn-13 978 - 88 - 207 - 4844 - 9

1. Criticismo 2. Storiografia filosofica

i. Titolo

aggiornamenti: ——————————————————————————————————————————————————————————————————————————————————————————— 15 14 13 12 11 10 09 08 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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a p. b.

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INDICE

introduzione i.

1

Elementi per una teoria della storia della filosofia nella Critica della ragion pura

7

il problema della storia della filosofia dal punto di vista “kantiano”

91

iii. a ogni filosofia la sua storia della filosofia. il moltiplicarsi dei riformatori del criticismo

167

appendice

227

Karl Heinrich Heydenreich alcune idee sulla rivoluzione portata nella filosofia da immanuel kant e in particolare circa il suo influsso sulla trattazione della storia della filosofia

229

1. Chiarezza del positivo e distinzione del possibile 7; 2. La storia della filosofia dentro un’impresa filosofica: Thomasius e Kant 30; 3. Metodo tipologico e atteggiamento dogmatico 46; 4. organo o canone 56; 5. Canone e organo come criteri per la storia della filosofia 67; 6. aggregato o sistema 79; 7. ontologia o analitica 86.

ii.

1. L’inquadramento storico-universale della Critica nelle Lettere sulla filosofia kantiana di reinhold 91; 2. Criteri ed effetti della storicizzazione della Critica nelle Lettere sulla filosofia kantiana 100; 3. il programma di Heydenreich per una “rifondazione” critica della storiografia filosofica 107; 4. La storiografia “aristotelico-garveana” di Fülleborn e il suo effetto su Kant 131; 5. Una storia che non racconta. La teoria di G.F.D. Göss 150.

1. reinhold: la rappresentazione come categoria per la storia della filosofia 167; 2. reinhold: la lezione Sul concetto di storia della filosofia nel contesto dei Contributi 179; 3. Una storiografia senza cronologia. Grohmann e l’influenza di Fichte 199; 4. La storia della filosofia come divenire a sé dello spirito. a.L. Hülsen 214.

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inDiCE

Karl Leonhard reinhold Sul concetto di storia della filosofia. Una lezione accademica

239

Georg Gustav Fülleborn Che cosa significa rappresentare lo spirito di una filosofia?

251

Georg Friedrich Daniel Göss Sul concetto di storia della filosofia. Una lezione accademica

257

Johann Christian august Grohmann Sul concetto di storia della filosofia

271

august Ludwig Hülsen introduzione a Esame del quesito posto a concorso dall’accademia della Scienze di Berlino: Quali progressi ha fatto la metafisica da Leibniz e Wolff?

303

indice dei nomi

319

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INTRODUZIONE Chi poi ha parlato dell’Oceano, poiché ha portato il discorso nel campo dell’ignoto, si sottrae a ogni confutazione. Erodoto

Come nel 1788 precisava Georg Will nelle sue Vorlesungen über die Kantische Philosophie, già abbozzandone la “storia”, «gli uomini più colti e i migliori filosofi si lamentavano dell’incomprensibilità del libro di Kant» 1. Quei pochi che si dicevano kantiani, lo facevano forse più per lodare la propria stessa intelligenza, che per autentica penetrazione. Altri ancora affermavano che non c’era niente di nuovo nella Critica «perché si basa sul principio già da molto tempo noto che si dà certezza soltanto nell’esperienza», sicché proprio non valeva la pena affaticarsi a comprendere una terminologia così difficile, per ritrovarsi nel solito empirismo “lockiano”. Anche le poche recensioni non erano state benevole e si sa che lo stesso Kant nei Prolegomeni replicò a una di esse, che gli era apparsa persino scortese nel tono con cui aveva indicato nel suo sistema la versione speculativa di un’idealismo assimilabile a quello berkeleyano2. La “storia della filosofia kantiana” era cominciata in 1 G. A. Will, Vorlesungen über die Kantische Philosophie, Monatliche Verlag, Altdorf 1788, p. 13 (anastatica in Aetas Kantiana, Culture et Civilisation, Bruxelles 1968, n. 305, d’ora in poi solo Aetas Kantiana). 2 I. Kant, Prolegomena zu jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, in Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften in Berlin, Berlin, 1900- (in seguito AA), IV, pp. 373-391, (tr. it., Prolegomeni ad ogni futura metafisica, traduzione di P. Carabellese, introduzione di H. Hohenegger, Laterza, RomaBari 2002, pp. 277-291; ma allusioni vi sono già alle pp. 20-22). Si tratta della recensione Garve-Feder, apparsa nelle “Gottingische Gelehrte Anzeige” nel gennaio 1782, pp. 40-48. Secondo K. G. Hausius, sono i Prolegomeni che cominciano ad attirare l’attenzione sul Kant della Critica, già noto per altri lavori ma non per quest’ultimo (Historische Einleitung zur Geschichte der Kantischen Philosophie in Materialien zur Geschichte der critischen Philosophie. Nebst einer historischen Einleitung zur Geschichte der Kantischen Philosophie. Erste Sammlung, Breitkopf und Comp, Leipzig 1793, p. CXLIX [Aetas Kantiana, 87/1]).

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2

INTRODUZIONE

senso vero e proprio, cioè con quel sommovimento teorico che avrebbe contraddistinto gli anni seguenti, soprattutto a partire dal libro di Johann Schultz del 1784, le Erlauterungen über des Herrn Prof. Kant Critik der reinen Vernunft, che per Will è il primo, indispensabile “epitomatore” del pensiero kantiano3. Ma dal silenzio si era presto passati alla “inquisizione”: La cosa più triste nella storia della nuova filosofia era che guadagnò visibilità, come se l’Inquisizione e la condanna dovessero toccare il signor Kant4.

Non appena infatti riesce ad attirare l’attenzione della cultura filosofica tedesca sul modo con cui propone di risolvere, o di trasformare, il problema della metafisica5, la Critica della ragion pura provoca un’immensa mole 3 J. Schultz, Erlauterungen über des Herrn Prof. Kant Critik der reinen Vernunft, C. G. Dengel, Königsberg 1784. È il primo testo di divulgazione della filosofia di Kant. Si tratta non di un manuale ma di una esposizione teorica, chiara e lineare, che Kant approva in parte. Schultz pone a Kant la domanda circa il nesso che connette le prime due categorie alla terza. Era già stato l’autore di una recensione a Kant, De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis, in “Könisbergische Gelehrte und Politische Zeitungen”, 22 e 25 novenbre 1771, che aveva ricevuto il plauso di Kant, testimoniato da quanto scritto nella lettera a Herz del 21 febbraio del 1772, (Kant’s Briefwechsel, AA, X, 1, p. 133; tr. it. I. Kant, Epistolario filosofico 1761-1800, a cura di O. Meo, il melangolo, Genova 1990, p. 70). Il nome di Schulz viene proposto da Kant con l’idea di suggerirgli una recensione a Betrachtungen aus der spekulativen Weltweissheit, (Könisberg 1771), libro in cui Herz sviluppava i temi della Dissertatio kantiana del 1770 e che era stato negativamente recensito nelle “Göttingische Gelehrte Anzeige”. Nella “Allgemeine Literaturzeitung” del 14 giugno 1797, rispondendo a una lettera aperta di Johann August Schlettwein sulla stessa rivista, Kant indica in Schultz l’unico tra gli allievi che dà un’interpretazione corretta della sua filosofia. Non considera alla stessa maniera Fichte, Reinhold e neanche Rink a cui pure aveva dato l’incarico di pubblicare testi inediti e corsi di lezione, cfr. L. E. Borowski, in La vita di Immanuel Kant narrata da tre contemporanei, con prefazione di E. Garin, Laterza, Bari 1969, p. 77. Su Schultz, C. Bonelli Munegato, Johann Schultz e la prima recezione del criticismo kantiano, “Prefazione” di P. Faggiotto, Trento 1992. Scrive Angelo Pupi, (La formazione della filosofia di K. L. Reinhold, Vita e Pensiero, Milano 1966, p. 60): «Il pensiero critico cominciava a far parlare di sé e certo il merito doveva risalire alle spiegazioni di Schultz, che aveva messo i lettori in condizione di capire quel tanto che era necessario per diventare almeno avversari». 4 G.A. Will, Vorlesungen über die Kantische Philosophie, cit., pp. 20-23. 5 Qualche tempo dopo, l’intero clima era ancora vivo nel ricordo di Reinhold: «Per alcuni anni sembrò che a malapena ci si fosse accorti della sua esistenza, e se adesso esso tiene occupata la generale attenzione del pubblico filosofico, questo onore gli è toccato solo a poco a poco e non tanto per suo merito quanto per i resoconti oltremodo elogiativi e diffamanti», in K.L. Reinhold, Über die bisherigen Schicksale der Kantischen Philosophie, in Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögen (d’ora in poi solo Versuch), Widtmann und Mauke, Prag und Jena 1789, p. 12, (tr. it. Sulle sorti della filosofia kantiana fino ai nostri giorni, in Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione, a cura di F. Fabbianelli, Le Lettere, Firenze 2006, p. 41). Si tratta di un testo apparso in “Theutscher Merkur” (II, 1789), e poi premesso al Versuch come “Prefazione”. Anche Born ricorda i Prolegomeni e il libro di Schultz

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INTRODUZIONE

3

di discussioni, riguardanti di fatto tutte le più importanti questioni filosofiche, dalla dimostrabilità dell’esistenza di Dio alla qualità della conoscenza matematica, che tutte ne venivano scosse6. Tra gli effetti meno noti della “rivoluzione” provocata dalla Critica, c’è anche il fatto di essere stata l’origine di un intenso dibattito circa il significato della storia della filosofia, della sua problematicità in merito al compimento della filosofia stessa e di conseguenza alla sua importanza per la formazione dei filosofi. Strumento di questa discussione sono stati soprattutto brevi saggi scritti da seguaci di Kant, come Heydenreich e Reinhold, e da critici come il giovane Schelling. Ad essa prendono parte anche pensatori resisi autonomi da un’iniziale adesione al criticismo e già avviati verso la “Dottrina della scienza” come Grohmann, Hülsen e in un certo senso anche Beck. Queste posizioni più innovative vengono a loro volta contrastate da pensatori accademici o da portavoce di atteggiamenti “pre-critici”, come il leibniziano Eberhard o lo humeano Schulze nel quadro di un’eterogenea opposizione alla nuova filosofia. Tra questi studiosi si sviluppa un vero e proprio dibattito, cioè una discussione che ha la caratteristica di poter essere ricondotta a uno specifico punto di partenza. Tutti coloro che vi partecipano, infatti, intervengono per suffragare, negare o integrare quanto nel 1791 aveva affermato Reinhold in “una lezione accademica”, sostenendo la tesi che soltanto per mezzo della Critica è possibile dare una rappresentazione scientifica della storia della filosofia e di conseguenza non confonderla ora con la storia dello spirito umano, ora con la storia delle scienze in generale, ora con la storia di singole scienze filosofiche, ora con la storia della vita e delle opinioni dei filosofi7.

come quelli che riuscirono a «rompere il profondo silenzio su questo capolavoro dello spirito umano o […] sul libro dei libri», in F. G. Born, Versuch über die ersten Gründe der Sinnenlehre, Klaubarth, Leipzig 1788, p. VIII, (Aetas Kantiana, 38). Lo stesso Born non intendeva con questo scritto che «spiegare e popolarizzare» l’estetica trascendentale, (ivi, p. XV). 6 I temi principali di queste discussioni, e i loro protagonisti, sono accessibili per il lettore italiano nell’antologia La “Critica della ragion pura” nell’Aetas Kantiana, a cura di R. Ciafardone, 2. voll., Japadre, L’Aquila 1987 con una importante “Introduzione” del curatore alle pp. V-XXII. Un’interpretazione dello specifico dibattito sul tema della conoscenza, in H.-J. de Vleeschauwer, L’evoluzione del pensiero di Kant, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 147-170. 7 K.L. Reinhold, Über den Begriff der Geschichte der Philosophie. Eine akademischer Vorlesung, in “Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, hrsg. von G. G. Fülleborn, 1791, Bd. I, 1, pp. 3-37, (poi in Auswahl Vermischten Schriften, Jena 1796, I, p. 227 da cui si cita); questo scritto renholdiano viene tradotto nell’appendice a questo volume, cfr. infra, Sul concetto di storia della filosofia. Una lezione accademica, pp. 239-249.

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INTRODUZIONE

Questa confusione, che Reinhold con una dettagliata rassegna dimostrava largamente diffusa nella storiografia filosofica coeva, può essere evitata soltanto se si dispone di un concetto rigoroso di filosofia, e la Critica è, – se non proprio questo concetto in senso assoluto – il punto di avvio per l’unica e vera: secondo la sua celebre espressione, una «filosofia senza appellativi» perché articolazione della ragione stessa. Da questo concetto Reinhold traeva poi la sola coerente definizione di storia della filosofia cui avrebbe dato seguito nello svolgimento del corso che in quell’occasione stava inaugurando: Questa è la rappresentazione in compendio [Inbegriff] dei cambiamenti che dalla sua origine sino ad oggi, ha sperimentato la scienza della connessione necessaria delle cose, ovvero il compendio dei destini [Schicksale] che ha sperimentato l’aspirazione verso una tale scienza8.

Con questo discorso, che si inseriva nella revisione cui già stava sottoponendo il pensiero di Kant allo scopo di condurlo a una necessaria essenzializzazione e deformalizzazione, Reinhold non era però del tutto originale. Un’idea simile era stata enunciata in quello stesso 1791 da Heydenreich, il quale per sua stessa ammissione l’aveva lasciata allo stato di semplice proposta, in un breve scritto posto in appendice alla traduzione della Storia critica delle rivoluzioni nella filosofia degli ultimi tre secoli di Agatopisto Cromaziano: Affermo che i lavori critici di Kant, così come dovevano provocare una completa rivoluzione della filosofia, rendono necessaria anche una trasformazione radicale del metodo con cui trattare la storia della filosofia, e che i migliori scritti sino ad oggi apparsi su di essa, non possono essere considerati nient’altro che raccolte di materiali in relazione alla storia della filosofia ancora da scrivere secondo principi critici9.

Da ciò traeva quindi la conclusione che: Soltanto elaborata secondo principi critici la storia della filosofia può avere un’utilità del tutto innegabile per l’umanità, ed essere chiamata con verità una scuola dello spirito umano10. Ivi, p. 244, (ted., p. 226). K.H. Heydenreich, Einige Ideen über die Revolution in der Philosophie, bewirkt durch Immanuel Kant, und besonders über den Einfluss derselben auf die Behandlung der Geschichte der Philosophie, in appendice a Agatopisto Cromaziano, Kritische Geschichte der Revolutionen in der Philosophie in den drey letzten Jahrhundert, 2. Bde., Leipzig 1791, II, (Aetas Kantiana, 95), p. 230; il testo viene tradotto nell’appendice a questo volume, cfr. infra, Alcune idee sulla rivoluzione portata nella filosofia da Immanuel Kant e in particolare sul suo influsso sulla trattazione della storia della filosofia, pp. 229-238. 10 Ivi, p. 237, (ted., p. 232). 8 9

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INTRODUZIONE

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Sia Heydenreich che Reinhold focalizzavano così l’attenzione della cultura filosofica tedesca su uno dei possibili utilizzi in chiave sistematica della nuova filosofia, cioè su uno dei compiti costruttivi che Kant stesso aveva indicato nella prima Critica, in parte assumendosene l’onere nelle opere successive e in parte lasciandolo in eredità ai suoi allievi. E come si accese la discussione sull’idealità o la realtà del tempo e dello spazio, altrettanto vivace divenne nel giro di pochi anni anche il confronto sulla possibilità di svolgere una storia della filosofia secondo l’insegnamento kantiano. Risultato delle reazioni al saggio di Reinhold fu quindi un dibattito, tutto incentrato su un problema che da allora in poi ha continuato a interessare la riflessione filosofica, e che si può considerare l’atto di nascita della questione e dei suoi principali concetti. Nonostante il carattere marginale che esso presenta, non è difficile vedervi il riflesso dei principali punti di vista da cui la Critica venne giudicata e l’eco degli argomenti di fondo con cui essa si trovò accolta o respinta. Non si tratta quindi soltanto di un frammento di quell’universo solo in parte esplorato dell’Aetas Kantiana, ma anche di una via d’accesso, più “stretta” ma anche più chiara di altre, per comprendere posizioni e “partiti” filosofici del tempo, prima che il cammino grandioso dell’idealismo classico iniziasse a lasciar cadere un’ombra su autori e concetti da esso, a torto o a ragione, ritenuti quasi subito “unilaterali” e “soggettivi”11. Nell’appendice di questo libro, ho tradotto alcuni dei testi più significativi del dibattito in questione che per la prima volta è possibile leggere insieme12. L’idea di farne un tutto non fa che seguire il filo storico del loro apparire, il quale si svolse in un rapido articolarsi di interventi, diretti a precisare sempre meglio, tramite integrazioni e nuove definizioni, il concetto di storia della filosofia quale era stato formulato da Reinhold. Quest’antologia è preceduta da una serie di saggi allo scopo di chiarire con riferimenti storici quella parte di intenzioni e concetti che l’oblio parziale sceso su alcuni dei personaggi coinvolti ha reso non immediatamente riconoscibili.

Sulle ragioni di questo giudizio, specificamente connesse alla rappresentazione della storia della filosofia, cfr. G. F. W. Hegel, Differenz des Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie in Beziehung auf Reinhold’s Beiträge zur leichtern Übersicht des Zustands der Philosophie zu Anfang des neuenzehnten Jahrhundert, [1801], ora in Werke in sechs Bände, Meiner, Hamburg 1999, Bd. 1, “Jenaer kritische Schriften”, pp. 5-16. Cfr. anche R. Bodei, Introduzione a G. W. F. Hegel, Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971, pp. XVI-XVII. 12 Ove non diversamente specificato, tutte le traduzioni presenti nel testo sono dell’autore. 11

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Desidero ringraziare il prof. Fulvio Tessitore per i molti suggerimenti, e in generale per un coinvolgimento culturale ed etico che mi ha molto sostenuto in questo periodo, oltre che per l’onore di vedere un mio lavoro accolto in questa collana, dove sono apparsi studi che amo molto. Ringrazio anche il prof. Edoardo Massimilla per la generosa e paziente attenzione con cui ha accompagnato la “vicenda” di questo volume. Sono grato alla prof.ssa Francesca Rizzo, per la fiducia e la cura con cui ha seguito lo svolgimento di questa ricerca. Alla prof.ssa Giusi Furnari devo l’aiuto di una libera discussione sempre possibile. Ringrazio la prof.ssa Giuliana Gregorio per la disponibilità ad aiutarmi con la sua competenza. Questo lavoro si inserisce negli interessi che ho sviluppato lavorando con il prof. Girolamo Cotroneo, al quale va il mio ringraziamento. Un grazie ai miei cari amici Giorgio Capecchi e Massimo Magnani, compagni di molte avventure tedesche. Tra le persone incontrate durante questo lavoro, ne vorrei ricordare infine qualcuna che non ho veramente conosciuto. Concluso un periodo di studio in Germania, ho preso un treno per arrivare dall’aeroporto a casa. Era uno di quelli che alla fine dell’estate riportano tantissimi siciliani ai loro luoghi di lavoro, spesso molto lontani. Le immagini di fatica, dignità e sacrificio di quella sera le conservo dentro di me, come la conferma della mia “fortuna” e la sintesi di una più vasta amarezza.

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1 ELEmENTI pEr uNA TEorIA DELLA STorIA DELLA fILoSofIA NELLA CrITICA DELLA rAgIoN purA

1. Chiarezza del positivo e distinzione del possibile Per comprendere la polemica a più voci che è nota come “querelle des definitions”1, occorre considerare perché la Critica sembrò fornire quella sicurezza ermeneutica, la cui mancanza aveva reso incerti i confini della storia della filosofia rispetto a quelli della storia della metafisica e della cultura. in gioco non era soltanto la possibilità di una rappresentazione, rigorosa nei contenuti e organica nello sviluppo, della storia della filosofia2; ma la messa a punto del suo esercizio senza incertezza riguardo alla scelta dei materiali e ai criteri di esposizione: un’incertezza sempre più evidente anche nell’impostazione bruckeriana. ottenere questo risultato era necessario, ormai, soprattutto per la “difesa” della filosofia speculativa, perché potesse collocarsi nella cultura del tempo vedendosi riconosciuta, come disciplina portatrice di motivazioni proprie e di procedure specifiche, la dignità di cui un passato apparentemente ricco di contraddizioni e di rovesciamenti sembrava piuttosto costituire una prova a sfavore, quel «campo di battaglia per interminabili duelli di Cfr. L. Braun, Histoire de l’historie de la Philosophie, Editions ophrys, Paris 1973, p. 225. Cfr. D. Tiedemann, Geist der speculativen Philosophie von thales bis Socrates, 6. Bde., Marburg in der akademische Buchhandlung, 1791-1797; sulla strategia adottata dalla storiografia di Tiedemann per ovviare all’assenza di una definizione forte di filosofia, assenza legata all’idea che la storia della filosofia debba essere soprattutto storia del progresso della scienza in generale, cfr. L. Braun, Histoire de l’Histoire de la Philosophie, cit., pp. 187-191. Soprattutto però, cfr. M. Longo, “Scuola di Gottinga e «Popularphilosophie»”, in Storia delle storie generali della filosofia, 3/ii, il secondo illuminismo e l’età kantiana, a cura di G. Santinello, antenore, Padova 1988, pp. 813-863. 1

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

sette contrapposte»3 di cui scriveva Heydenreich usando un’immagine anche kantiana. Dimostrare che la filosofia possedeva una sua storia, distinta da quella di tutte le altre scienze, costituiva perciò un obbiettivo, il cui valore andava oltre le mere questioni metodologiche della ricerca storiografica, avendo ripercussioni più vaste in merito alle giustificazioni stesse del fare filosofia. Mancare di una storia riconoscibile sembrava testimoniare l’assenza di scopo delle sue vicende, e fornire alla “filosofia popolare” la dimostrazione, comprovata dall’esperienza, dell’inconcludenza insanabile degli sforzi della ragione in questo campo, giustificandone quindi l’abbandono. Kant è sensibile al giudizio che la filosofia “popolare” avanzava sulla filosofia speculativa a partire dalle evidenze “negative” della storia della metafisica, ma ne trasforma il rifiuto in dubbio4. Si tratta di un atteggiamento originario della sua personalità filosofica. Già nel 1765 riteneva che dalla contraddittorietà della storia della metafisica si potesse dedurre la prova della sua dispersività; ma non allo scopo di eliminarla, perché avvertiva che tale condizione andasse piuttosto interpretata positivamente come «l’eutanasia della falsa filosofia»5. Ma Kant allora era soltanto all’inizio dell’itinerario che lo avrebbe portato a comprendere i motivi generatori della “falsa filosofia”, cioè della metafisica che ritiene di essere scienza di oggetti. Prima di giungere a questo esito, il suo itinerario passa per una fase di scetticismo, di cui 3 C. H. Heydenreich, Alcune idee sulla rivoluzione portata nella storia della filosofia da Immanuel Kant e in particolare sul suo influsso sulla trattazione della storia della filosofia, infra, p. 235, (ted., p. 227). È la conclusione cui giunge la “filosofia popolare”. Kant paragona la storia della filosofia alla “torre di Babele”, in Kritik der reinen Vernuft, AA, III, p. 465, A707-B735, (tr. it., Critica della ragion pura, traduzione di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riv. da V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 443) Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 5: «Nella storia della filosofia si suol cercare la prova della nullità di questa scienza». 4 Cfr. J. G. Buhle, Entwurf der Transscendentalphilosophie, Schröder, Göttingen 1798, p. 18 (Aetas Kantiana, 51): «Il contrasto tra i sistemi della speculazione filosofica e le convinzioni del sano e comune intelletto, osservato dall’inizio della storia della filosofia e reso evidente dal recente trionfo dello scetticismo […], lasciava presagire un segreto errore radicale di tutta l’attività filosofica sino ad allora». È Kant che con la Critica della ragion pura “svela” tale errore radicale. 5 Lettera a Lambert del 31 dicembre 1765, in Briefwechsel 1747-1788, cit., pp. 56-57, (tr. it., pp. 44-45). Scrive Kant: «Affinché la vera filosofia risorga, è necessario che la vecchia distrugga se stessa, e come la putrefazione è il più completo disfacimento che precede sempre l’inizio di una nuova generazione, così la crisi della cultura in un’epoca che pure non manca di buone menti mi fa bene sperare che la grande rivoluzione delle scienze, da tanto tempo auspicata, non sia molto lontana», (p. 57; tr. it., p. 45). Fichant pone in questa considerazione la remota origine della “filosofia della storia della filosofia” che si trova nella prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura, cfr. M. Fichant, L’idée critique et l’histoire de la raison. Les Lumières et la réflexion, “Revue de Metaphysique et de Morale”, 1999, 4, p. 526.

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testimonianza importante è lo scritto del 1765 Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica. Si tratta tuttavia di uno scetticismo costruttivo, più vicino all’insegnamento di Sesto Empirico che di Pirrone, perché volto a porre il problema della verità e della sua conoscenza, e che in questo senso ha il valore di una “sospensione” provvisoria entro un atteggiamento che è del tutto indisponibile all’ipotesi di un dissolvimento della possibilità stessa di conoscere la verità6. Considerata dal punto di vista del suo confronto con l’incoerenza sistematica dell’esperienza metafisica, la cifra peculiare dell’atteggiamento kantiano consiste nell’impostare una strategia per fondare la metafisica in modo nuovo, ossia come orizzonte senza cui non c’è garanzia né di conoscenza né di azione razionale7. Mentre, perciò, i “filosofi popolari” 6 In questo scritto, Kant contesta le metafisiche tradizionali (quella soprattutto di Wolff) in quanto costruzioni “surrettizie” simili a sogni perché scarse di contenuti tratti dall’esperienza. Il contestuale avvicinamento all’empirismo inglese permette a Kant di riformulare la questione della metafisica in termini che ex post si lasciano interpretare come i primi passi verso il problema critico; cfr. I. Kant, Träume eines Geisstessehers, erlautert durch Träume der Metaphysik [1766], in Vorkritischen Schriften 1757-1777, AA, II, pp. 348-352, (tr. it., Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, in I. Kant, Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, ric. da R. Assunto e R. Hohenemser, ampl. da A. Pupi, con pref. di R. Assunto, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 380-383). Sul significato di questo scritto nell’evoluzione kantiana, cfr. E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, presentazione di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 97; N. Hinske, La via Kantiana alla filosofia trascendentale. Kant trentenne, a cura di R. Ciafardone, Japadre, Roma-L’Aquila 1987, p. 69. Per i kantiani lo scetticismo deve essere considerato la «preparazione alla critica della ragione», cfr. J. S. Beck, Erlautender Auszug aus den critischen Schriften des Herrn Prof. Kant auf Anrathen desselben. Erste Band, welcher die Kritik der speculativen und praktischen Vernunft enthält, Hartknock, Riga 1793, p. 332, (Aetas Kantiana, 20/1). Beck si chiede (ivi, p. 333): «L’uso scettico della ragione pura si indica nell’affermazione che ogni sapere della ragion pura è impossibile. Ora questo stesso è il risultato della Critica. Allora che cosa distingue questa critica della ragione da quello scetticismo?». La differenza è che lo scetticismo è soltanto «una censura della ragione» (p. 334) che senza uno sviluppo in senso critico non può costruire nulla e anzi si fissa anch’esso in un atteggiamento dogmatico, come la metafisica che contesta: lo scettico «quando è giunto a rendere dubbioso il dogmatico circa le proprie affermazioni, ha raggiunto il suo risultato. Ma mancherebbe tale scopo, trasformandosi anch’esso in un dogmatico, se volesse affermare senza una completa critica della ragione che sia assolutamente impossibile raggiungere quelle conoscenze che il primo presume di possedere», (ivi, p. 337). Cfr. anche K. L. Reinhold, Von welchem Skepticismus läßt sich eine Reformation der Philosophie hoffen?, in “Berlinische Monatsschrift”, 8 luglio 1789, pp. 49-72 (poi anche in Versuch, cit., pp. 121-141, tr. it., pp. 89-99). 7 Sullo “scetticismo” di questa fase della formazione kantiana, cfr. la lettera di Kant a Mendelssohn dell’8 aprile 1766, in Briefwechsel 1747-1788, cit., pp. 69-73, (tr. it., pp. 46-52). Interessante da questo punto di vista Schulze, quando afferma che lo scetticismo, così come ha provocato sinora tutte le maggiori rivoluzioni nella storia della filosofia, doveva essere all’origine di quella determinata da Kant il quale è l’unico appartenente al campo del dogmatismo ad avere saputo prendere sul serio gli argomenti scettici, cfr. Aenesidemus oder über die Fundamente der von dem Herrn Reinhold in Jena gelieferten Elementar-Philosophie, s. l., 1792, p.

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dalla constatazione del caos delle metafisiche giungevano all’esclusione della filosofia speculativa da ogni genuino e sano interesse culturale ed umano, Kant procede dal medesimo punto di partenza ma va in direzione contraria mirando a spiegare perché, accadendo questa contraddizione, la filosofia come scienza non ha avuto luogo. I pensatori “popolari” che prediligevano una filosofia del “sano intelletto umano”, e quindi fondata sul senso comune, pratica e anti-speculativa, reagivano con questo atteggiamento alla metafisica cartesiana, che a loro giudizio rinnovava sotto vesti apparentemente più razionali contenuti e persino modi della Scolastica8. Ma se questi scrittori potevano raccontare la storia della filosofia come un insieme di contraddizioni, era perché quel cartesianismo da essi contestato aveva diffuso, mettendo in dubbio tradizioni ed autorità, una mentalità critica, della quale anche essi si servivano. Portatore di una tale mentalità, in parte assorbita dal pietismo, quel “ribelle dimenticato” che è stato Christian Thomasius riconosceva infatti il ruolo basilare del metodo cartesiano: Il dubbio è o scettico o eclettico […]. Con il primo si dubita per abbandonare la verità e rimanere in un perpetuo stato di incertezza e di indecisione; con il secondo per conseguire la verità e la certezza e per poter almeno distinguere i pregiudizi erronei dai giudizi retti9.

21, (Aetas Kantiana, 240). Cfr. anche K. L. Reinhold, Über den philosophischen Skeptizismus, in D. Hume’s Untersuchung über den menschlichen Verstand, hrsg. von G. Tennemann, Jena 1793, p. XLVII: lo scetticismo filosofico è «l’attuale fondatore della filosofia critica». 8 Parla ancora, almeno per questo aspetto, da un punto di vista kantiano, Reinhold quando nel 1796 afferma che «le pretese esagerate e l’intollerabile aridità della sistematologia» rendevano comprensibile il rifiuto “popolare” della metafisica nella forma leibniziana, (cfr. K. L. Reinhold, Versuch einer Beantwortung der von der erlauchten Königl. Ak. der Wissenschaf. zu Berlin aufgestellten Frage: “Was hat die Metaphysik seit Wolff und Leibniz gewonnen?”, in K. L. Reinhold, J. Ch. Schwab, J. H. Abicht, Preisschriften über die Frage: Welche Fortschritte hat die Metaphysik seit Leibnizens und Wolffs Zeiten in Deutschland gemacht?, hrsg. von der Königl. Preuss. Akademie der Wissenschaften, Berlin 1796, p. 182). 9 Ch. Thomasius, Introductio ad philosophiam aulicam sue primae lineae libri de prudentia cogitandi atque ratiocinandi, Lipsiae 1688, cap. XVI, “De praejudiciis veritatis inquisitionem impedientibus, eorumque extirpatione et primis cognoscendi principiis”, p. 119, (tr. it. in L’altra estetica, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Einaudi, Torino 2001, p. 228). E continua: «Se si investiga la comune natura umana nel suo stato presente, è necessario che dati tali presupposti gli esseri umani raccolgano molti pregiudizi, dalla gioventù sino all’età adulta. E poiché i pregiudizi impediscono di conseguire la verità, del che poi subito discende il postulato di Cartesio, è necessario che almeno una volta o di quando in quando gli esseri umani nella loro vita dubitino della verità dei propri concetti».

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Ma, nel giudizio di Thomasius, la contestazione cartesiana della cultura scolastica che giustamente esigeva il dubbio, era poi diretta a rifondare speculativamente la conoscenza con il negare ogni valore ai sensi, e soprattutto di nuovo dogmatizzandola tramite i criteri di necessità ed evidenza di un sapere matematizzato10, un sapere diventato il modello o il punto di riferimento per la metafisica moderna di Spinoza, ma soprattutto di Leibniz e di Wolff. A parere dei “filosofi popolari” tedeschi, che a Thomasius si rifacevano, la prevalenza del mos geometricus aveva aggiornato ambizioni di esaustività e sistematizzazione integrale che erano di (infelice) memoria medievale, con esiti quindi simili a quelli della stessa cultura contro la quale in un primo momento si era diretto l’elemento corrosivo della critica cartesiana11. Come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, Thomasius ritiene che, per il limite dell’intelligenza umana, la ricerca dell’unica e sola verità richieda quella libera disposizione che è consentita soltanto dal rifiuto metodico del settarismo, cioè dell’adesione cieca e cultuale alla filosofia di un caposcuola. Quest’esigenza prendeva in Thomasius il nome di filosofia “eclettica” o “elettiva”. Lontano dal senso negativo che il termine avrebbe poi spesso assunto, “eclettico” è, secondo Thomasius e la cultura “popolare”, il modo della vera creatività filosofica, che prende frammenti di verità ovunque ne trovi (dato che alle deboli forze dell’uomo questa si offre soltanto in modo imperfetto) con spirito di autentica onestà e libertà, per farne un’intero che sia per un verso coerente e per l’altro progressivo, cioè aperto e autocorrettivo; un intero che è qualcosa di diverso dal sistema, ma anche dall’aggregato che invece è il prodotto di un altro atteggiamento soltanto in apparenza simile: il sincretismo12. 10 Cfr. sul ruolo di Cartesio «trionfatore della scetticismo» e «scettico suo malgrado», R. Popkin, Storia dello scetticismo, Mondadori, Milano 2000, pp. 199-243. Sia Thomasius che Rüdiger rifiutano l’estensione metodica del mos geometricus a favore di una logica di ispirazione baconiana, (per Rüdiger, lockiana) cioè più pratica e meno tecnica. Ne deriva in questi autori una rivalutazione del sapere probabile, che invece Cartesio rifiuta perché favorevole, con la sua connaturata incertezza, allo scetticismo; cfr. a tal proposito, M. Capozzi, Kant e la logica, vol. I, Bibliopolis, Napoli 2002, pp. 25-37. Interessante anche quanto si riferisce al tema del probabile in Wolff, ivi, pp. 47-48. 11 Per una rappresentazione di tali caratteri di esaustività gnoseologica e di completezza sistematica, cfr. ad esempio Ch. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica methodo scientifica pertractata. Praemittitur Discursus preaeliminaris de philosophia in genere, “De triplici cognitione humana, historica, philosophica & mathematica”, [1728] terza ed. 1740, in Gesammelte Werke, a cura di J. Ècole et al., Olms, Hildesheim-Zürich-New York 1983, p. 17: «Est utique philosophia e numero eorum, quae impossibilia non sunt»; gli enti che non possono essere “impossibili”, sono indicati alle pp. 28-29: «Entia, quae cognoscimus, sunt Deus, animae humanae ac corpora seu res materiales […] tres hinc enascuntur philosophiae partes, quarum una de Deo, altera de anima humana, tertia de corporibus seu rebus materialibus agit». 12 Cfr. Ch. Thomasius, Introductio ad philosophiam aulicam, cit., p. 42.

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Anche se solo da questi pochi cenni, si comprende che la filosofia eclettica ha uno speciale interesse per la storia della filosofia, nascendo l’eclettismo dalla premessa del rifiuto dell’orizzonte speculativo come luogo del filosofare, sia che questo fosse razionalistico, secondo l’esempio cartesiano; o che fosse invece immaginativo e misticizzante, come il neoplatonismo di Cambridge, e segnatamente nella versione di More, contro il quale interviene Thomasius. La vera filosofia per questo pensatore è sapienza, e la sapienza implica un sapere della vita e dell’agire; non è un’architettura di pensieri, – qualunque ne sia l’orientamento – che facilmente genera dogmatismi e chiusure pregiudiziali, e che quindi è il modello all’origine delle “guerre di posizione” tra pensieri contraddittori di cui testimonia la storia della filosofia. Da questa loro sfiducia nella metafisica, che è quindi anti-scolastica quanto anti-cartesiana, anti-leibniziana quanto anti-platonica, i “filosofi popolari” traggono però, secondo Kant, una conclusione sbagliata, e cadono vittime dell’errore che sempre si verifica quando una questione di fatto non venga esaminata anzitutto nel suo diritto13. Ai “filosofi popolari” manca la domanda sul fenomeno, che per loro – interessati più al rinnovamento pratico-politico che al chiarimento teorico – vale già quale dimostrazione dell’insignificanza e impossibilità del pensare speculativo che si allontana dall’esperienza. Per Kant la riflessione “popolare” rappresenta il segnale di un vero problema, che è però il problema del non poter fare a meno della metafisica anche quando diventa forte il dubbio circa la sua possibilità14. Sicché la storia della filosofia che a Kant interessa è proprio quella che gli si presenta in negativo15, come somma dei fallimenti della ragione; i 13 Nel bisogno di sottoporre il “fatto” alla questione di diritto, emerge la profondità dell’influenza wolffiana su Kant. Wolff infatti stabilisce tra conoscenza storica e conoscenza filosofica il rapporto per cui la prima rimane un sapere elementare, finché non ci si rivolga ad essa come alla testimonianza di una “possibilità”, comprendere la quale, nella sua estensione pre-fenomenica e quindi universale, permette il passaggio dall’opinione alla scienza. L’interrogazione sull’empirico-storico alla luce ontologica del suo “possibile” si ripresenta in Kant nel rapporto, da cui si forma la filosofia, tra questione di fatto e questione di diritto; cfr. Ch. Wolff, Discursus Praeliminaris de Philosophia in genere. Caput I. “De triplici cognitione humana, historica, philosophica et mathematica”, cit., ad esempio p. 4: «Si per experientiam stabiliuntur ea, ex quibus aliorum, quae sunt atque fiunt, vel fieri posunt, ratio deberi potest, cognitio historica philosophicae fundamentum praebet. Quae per experentiam stabiliuntur, eorum nonnisi historica est cognitio (§ 3). Quodsi ergo ex iis rationem reddis aliorum, quae sunt atque fiunt, cognitionem philosophicam iisdem superstruis (§ 6). Fundamentum itaque cognitionis philosophicae est historica». 14 Che forma la conclusione cui giunge nei Träume eines Geistessehers, erlautert durch Träume der Metaphysik, cit., pp. 369-370 (tr. it., pp. 401-402). 15 Almeno da quando comincia a prendere forma il disegno critico, non certo nella prima fase di attività del Kant docente, il cui interesse per la storia della filosofia, derivatogli dal

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quali, non potendo la ragione essere incapace di verità, devono significare deviazioni dal suo retto uso e violazioni del suo proprio ambito. Quello kantiano per la storia della filosofia sarà allora un interesse continuo, ma essenzialmente teorico. Per Kant non è importante disporre le filosofie secondo un’adeguata cronologia, o ricondurle alle esigenze del più ampio contesto dell’epoca e della società. Il passato della filosofia rappresenta un problema immediatamente filosofico che fa da sfondo a tutte le diverse fasi in cui matura il progetto critico perché, come illustra l’evidenza su cui si fermano i “popolari”, questo passato è segnato dalla contraddizione dei sistemi, e dal ripresentarsi, attraverso i differenti sistemi, delle stesse modalità di pensiero che si alternano in un generale esito inconcludente, senza che un’impostazione razionalistica riesca a prevalere su una empiristica, nel continuo sforzo di fondazione di una metafisica «che finora è rimasta celata a se stessa»16. Già in un breve appunto manoscritto sulla “storia della filosofia greca” che viene fatto risalire al periodo che precede i chiarimenti ottenuti nel 1770, vediamo Kant possedere una visione sistematica delle “sette” greche, che divide in scettiche e dogmatiche; i filosofi dogmatici lo sono o «ex principiis sensitivis» o «ex principiis razionalibus»17. Questo schema si ripresenterà, arricchito e aggiornato, nei diversi testi storiografici che Kant spesso per motivi occasionali è indotto a comporre. Da un punto di vista di principio, anche nella sua storia moderna la filosofia appare chiusa nell’alternativa «ex principiis sensitivis» o «ex principiis razionalibus», una chiusura che si ripropone in continue evoluzioni, ad esempio nel contrasto tardo secentesco tra “popolari”, “cartesiani” e “platonici” di cui abbiamo parlato, e che ai tempi della formazione di Kant si riproponeva nella polarità tra Locke e Leibniz18. Nella storia della filosofia si assiste a un continuo “passaggio di consegne” quando la scoperta dell’aporia di una posizione “razionalista” segue alla scoperta dell’aporia intrinseca a quella opposta di stampo “empirista”. Dopo la Critica della ragion pura, l’alternativa in cui si consuma la storia della filosofia trova la sua soluzione nella filosofia critica suo maestro Knutzen, rimane nel solco di un wolffismo riformato o comunque aperto ad istanze sensibili al pensiero dei “popolari”, cfr. G. Micheli, “Filosofia e storiografia: la svolta kantiana”, in Storia delle storie generali della filosofia, 3, Il secondo illuminismo e l’età kantiana, cit., II, pp. 885-886, al quale si rimanda anche per l’analisi dei materiali storiografici kantiani dei primi anni di insegnamento. 16 Kant a M. Herz, 21 febbraio 1772, in Briefwechsel, cit., p. 130, (tr. it., p. 65). 17 I. Kant, Reflexion 1636, in Handschriftlicher Nachlass. Logik, AA, XVI, 3, pp. 60-61, (tr. it. in G. Micheli, Kant storico della filosofia, Antenore, Padova 1980, pp. 269-270). 18 Cfr. ad esempio la “Historia philosophiae” presente nella Logik Philippi [1770], in I. Kant, Kant’s Vorlesungen. Vorlesungen über Logik, AA, XXIV, 1, pp. 323-335, (tr. it. in G. Micheli, Kant storico della filosofia, cit., pp. 271-285).

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stessa, la quale fa comprendere che questo elidersi permanente e reciproco si origina dall’unilateralità delle opposizioni, sicché – come vedremo – sarà la Critica a interrompere con il suo gesto di chiarimento la lunghissima e ripetitiva fase della filosofia dogmatica. La prospettiva che vorremmo proporre intende quindi mostrare che per Kant la speculazione che precede la Critica forma una sorta di “ante-storia” della filosofia, perché questa inizia soltanto con il chiarimento di principio circa la possibilità della metafisica e i limiti del sapere, che il criticismo ha consentito. La nozione di “ante-storia” è preferita a quella di “preistoria” per sottolineare il fatto che questo passato non “prepara” l’esercizio della vera e propria filosofia resa possibile dalla Critica, come se questa scaturisse svolgendosi da esso. Piuttosto, quel passato ha con la filosofia resa possibile dalla Critica il rapporto più indeterminato di un qualcosa che “esaurisce”, nel senso che dispone in continue riprese gli stessi modelli speculativi eccedenti il conoscibile, in sostanza riducendosi non tanto a una storia di pensieri e pensatori, quanto a una sequenza ripetuta e sincronica di modalità unilaterali di pensiero19. Il rilievo che il collegamento tra storicizzazione e scientificità, o verità tout court 20, presenta per la cultura del tempo si evince anche dalla risonanza del quesito, posto a concorso dall’Accademia Reale delle Scienze di Berlino nel 1791, sui “progressi compiuti dalla metafisica in Germania dai tempi di Leibniz e di Wolff”, un problema di filosofia “contemporanea”. Il quesito venne riproposto dall’Accademia fino al 1796, quando il premio fu assegnato al wolffiano Schwab con menzioni anche per Abicht e Reinhold, il primo presentando una soluzione anti-kantiana, il secondo kantiana, e l’ultimo una già post-kantiana21. Sebbene Kant decida alla fine di non parteciparvi, elabora 19 Con tale differenza, mi servo in questa distinzione dell’ordine che Raffaello Franchini ha usato per il suo Le origini della dialettica, (a cura di F. Rizzo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006) che ricostruisce l’emergenza delle possibilità del pensiero dialettico dai presocratici sino a Hegel, collocando però soltanto nel pensiero di Croce la piena realtà di esso. Di conseguenza, Croce è tanto un punto di arrivo, quanto anche il vero inizio della dialettica filosofica. 20 Per un esempio di questa connessione nel decisivo campo teologico, cfr. R. Bordoli, L’Illuminismo di Dio: alle origini della mentalità liberale. Religione teologia filosofia e storia in Johann Salomon Semler (1725-1791). Contributo per lo studio delle fonti teologiche, cartesiane e spinoziane dell’Aufklärung, Olschki, Firenze 2004. Per una ricognizione dell’argomento, cfr. Th. Ziolkowski, Clio. The Romantic Muse. Historicizing the Faculties in Germany, Cornell University Press, Ithaca and London 2004. 21 J. Ch. Schwab, J. H. Abicht, K. L. Reinhold, Preisschriften über di Frage: Welche Fortschritte hat die Metaphysik seit Leibnizens und Wolffs Zeiten in Deutschland gemacht?, cit. Un riconoscimento ebbe anche D. Jenisch, Über Grund und Werth der Entdeckungen des Herrn Professor Kant in der Metaphysik, Moral una Aestetik. Ein Accessit der Königl. Preuss. Akademie der Wissenschaften

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in risposta ad esso un saggio, I progressi della metafisica, pubblicato soltanto nel 1804, in cui comincia proprio con il notare la differenza tra le altre scienze e la metafisica, chiedendosi perché se le ultime scoperte della chimica e dell’astronomia hanno già avuto i loro storici, come presto ci sarebbero stati anche di quelle della matematica e della meccanica pura, è invece difficile scrivere la storia recente della metafisica22. Anche se non sono ancora state in grado di avere una storiografia dei loro risultati ultimi, la matematica e la meccanica pura si avviano a possederla, mentre questo obbiettivo sembra ancora problematico per la metafisica. Sebbene abbia mutato il concetto filosofico della matematica, illustrandone la sinteticità su base intuitiva, Kant sembra non ritenere che la presa di consapevolezza filosofica sia indispensabile alla storicizzazione delle discipline matematiche dell’aritmetica e della meccanica pura. È ipotizzabile una storia della matematica anche senza la chiara visione del suo carattere sintetico, così come una storia della meccanica pura senza che se ne sia compreso il procedimento costruttivo basato sulla necessità dell’intuizione del tempo23. Sembra quindi che la storiografia non sia sottoposta in modo determinante allo stato di maturità filosofica in cui si trova la disciplina di cui essa tratta: le scienze empiriche sono facilmente storicizzabili perché possono mutuare dalla forma ordinaria del racconto i loro criteri; alcune discipline razionali possono esserlo, anche in assenza di una chiara consapevolezza della loro natura, sebbene questa sia ovviamente di un qualche giovamento, sicché la storia della matematica prima della Critica ha una forza minore di quella fatta alla luce di essa24. C’è quindi da chiedersi perché soltanto la metafisica per avere anche una storiografia sembra richiedere invece la piena auto-comprensione della sua possibilità. Diversi anni prima, mentre preparava la seconda edizione della Critica, Kant aveva descritto lo statuto della storicità umana nei termini problematici della sua autonomia: dell’umanità è difficile fare una storia, al punto che si in Berlin. Nebst einem Sendschreiben des Verfassers an Herrn Prof. Kant über die bisherigen und ungünstigen Einflüsse der kritischen Philosophie, Wirweg, Berlin 1796. 22 I. Kant, Welches sind die wirklichen Fortschritte, die die Metaphysik seit Leibnitzens und Wolf’s Zeiten in Deutschland gemacht hat?, in AA, XX, Handschriftlicher Nachlass, VII, p. 259, (tr. it., I progressi della metafisica, a cura di P. Manganaro, Bibliopolis, Napoli 1977, p. 65). Sul carattere “sistemico” dei Progressi, cfr. H.-J. de Vleeschauwer, La Cinderella dans l’oeuvre kantienne, “Kant-Studien”, Akten des 4. Internationalen Kant-Kongresses, Teil I, pp. 297 e seg. 23 Cfr. l’eco di questo tema nella “Vorrede” di Jäsche alla Logik kantiana, in Logik. Physische Geographie. Pädagogik, AA, IX, p. 8. 24 Cfr. M. Capozzi, Kant e la logica, cit., p. 322.

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può dubitare ne possegga una; questo perché, essendo l’uomo l’unico ente chiamato a compiersi, vive nella continua transizione verso ciò che deve essere e che non è detto riesca a diventare. Le api e i castori invece hanno una “storia” nel senso linneano del termine, perché nella loro esperienza si realizza quella chiusura tra mezzi e scopo, che nell’uomo non è assicurata25. Per “storia” si deve allora intendere la congruità del risultato rispetto alla possibilità originaria, il suo soddisfacimento che procura significato ed esclude l’inconcludenza, il rimanere a mezza strada di una possibilità. Non si può allora fare storia in senso forte, come conoscenza razionale del fattuale, rispetto a ciò che è incompiuto perché ontologicamente in transizione, come è il caso in questione del genere umano, nella sua sperabile ascesa dalla “barbarie naturale” alla “dignità razionale”, la quale non è affatto secondo Kant garantita, nonostante la saggezza della natura, o della “provvidenza”. Data la qualità del “materiale” rappresentato dalla storia umana, Kant adotta già in questo straordinario quadro di Universalgeschichte una strategia “analogica”, che avrà tanta di quell’influenza da attirargli la critica di quegli storici illuministi che addebitano al suo esempio di «un filo conduttore a priori», e non a Herder, la responsabilità di aver diffuso il morbo della filosoficizzazione come tecnica per colmare i vuoti di senso che la storia inevitabilmente presenta26. Ma lasciamo da parte queste conseguenze storico-culturali, peraltro importanti, e soffermiamoci soltanto sull’aspetto relativo al metodo, che si può trarre sia dal saggio su I progressi, che dalle diverse prove di “filosofia della storia” degli anni tra le due edizioni della Critica. La storia degli uomini e quella della metafisica sono infatti simili nel differenziarsi da quella dei castori e da quella della matematica. Queste ultime sono infatti esperienze che possono essere conosciute in modo “storico” secondo l’accezione “baumgarteniana”, tradizionale sino a Kant, per cui storico equivale ad empirico, come

I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht [1784], Abhandlungen nach 1781, AA, VIII, pp. 17-18 (tr. it., Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici e di filosofia del diritto, a cura di G. Solari, UTET, Torino 1995, p. 124. Cfr. anche I. Kant, Muthmäßlicher Anfang der Menschengeschichte, [1786], pp. 115-116, (tr. it., Congetture sull’origine della storia, ivi, p. 202). Per un collegamento sistematico tra gli scritti sulla storia e la prima Critica, cfr. L. Landgrebe, Die Geschichte im Denken Kants, “Studium Generale”, 1954, 9, p. 539. Cfr. L. Bianco, Analogia e storia in Kant, Guida, Napoli 2003, pp. 63-93. Cfr. anche M. Riedel, Gerschichtstheologie, Geschichtsideologie, Geschichtsphilosophie, in “Philosophischen Perspektiven,”, 5, 1973, pp. 200-213. 26 Sulla reazione filologica e storicistica avversa, in particolare tramite Heeren, alle prime manifestazioni di filosofia della storia, cfr. G. D’Alessandro, Dalla causa alla vita. Il pensiero storico tedesco tra fine dell’illuminismo e inizi dell’idealismo, Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, Napoli 2008, pp. 30-84. 25

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fatto e ragione del fatto immediatamente manifesta nel fatto medesimo27. Una conoscenza significativa è possibile già soltanto a questo livello per così dire “determinante”. In tal modo, storicizzabili risultano quelle esperienze che – essendosi la loro possibilità riversata in realtà – presentano come tali una certa chiarezza, la quale può non esigere comprensioni di principio: non conosciamo, se è lecito dire in questo modo, il “fine” (o la ragion sufficiente) dell’esistenza dei castori, ma possiamo farne la storia in senso naturalistico; anche senza sapere bene quale tipo di razionalità opera nella matematica, è possibile farne la storia28. I Prolegomeni chiariscono che una situazione molto diversa riguarda la metafisica: In questo caso alla ragione umana le cose non sono andate così bene. Non si può indicare un solo libro, così come si presenta un Euclide, e dire: Questa è la metafisica, qui voi trovate, provato da principi di pura ragione, il fine nobilissimo di questa scienza29. 27 Cfr. ad es. I. Kant, Logik Blomberg, AA, XXIV, 1, p. 20. Cfr. L. Geldsetzer, Die Philosohie der Philosophiegeschichte im 19. Jahrhundert. Zur Wissenschaftstheorie der Philosophiegeschichtsschreibung und -betrachtung, Verlag Anton Hain, Meisenhein am Glan 1968, p. 126. 28 Non c’è bisogno di sapere cosa è la matematica a livello di comprensione trascendentale per farne la storia, per lo stesso motivo per cui la matematica secondo Kant, per svolgersi sul suo terreno autentico non ha bisogno di una critica, così come invece è indispensabile alla metafisica, e più in genere ai saperi che procedono per razionalità discorsiva, cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 467, A711/B739, (tr. it., p. 445). Ovviamente però quando una disciplina ha raggiunto la definizione del proprio statuto, come ad esempio la scienza della natura dopo la rivoluzione galileana, entra secondo Kant in una condizione di stabilità quanto a principi e orizzonte, come spiega la stessa Kritik der reinen Vernunft (ivi, pp. 9-10, B X), (tr. it., pp. 14-15): «La matematica, dai tempi più remoti a cui giunge la storia della ragione umana, è entrata, col meraviglioso popolo dei Greci, sulla via sicura della scienza»; «La fisica giunse ben più lentamente a trovare la via maestra della scienza». Queste scienze hanno superato la loro fase “pionieristica” giungendo alla definizione del loro ambito più facilmente di quanto avvenuto alla metafisica. Questo avviene a causa del loro prevalente carattere intuitivo. Dal nostro punto di vista interessa osservare che da questo elemento di ordine trascendentale deriva che esse, la logica, la matematica e infine la fisica, non hanno avuto prima delle rispettive “rivoluzioni” decisive, un passato di lacerazioni così forti come la metafisica. La loro storia è cumulativa e non dialettica, al contrario di quella di quest’ultima. Utilizzando un ambito metaforico politico cui spesso Kant ricorre (significativo perché attinto al linguaggio della storia), si può dire che quando esse escono dalla rispettiva fase rivoluzionario-anarchica, e assumono un aspetto di ordine repubblicano, il passato delle loro “scoperte” fa parte in modo integrante dello statuto definitivo che esse assumono. Non così invece per la metafisica. Cfr. l’importante saggio di H. Lübbe, Philosophiegeschichte als Philosophie. Zu Kants Philosophiegeschichtsphilosophie, in Einsichten. Gerhard Krüger zum 60. Geburstag, Klostermann, Frankfurt am Main 1962, p. 212; cfr. anche p. 215: «La storia della filosofia diventa un argomento contro se stessa. Tale è l’esperienza che Kant formula come problema filosofico». 29 I. Kant, Prolegomena zu jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., p. 271, (tr. it., p. 43).

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Secondo una lunga tradizione, a cui Kant dimostra, almeno in parte, di appartenere, per “istorico” si intende il fatto concluso, il dato, quel possibile che è diventato reale, e la cui sola realtà, (senza cioè che se ne colga astrattamente il possibile), basta a che vi si dia significato30. Questa tradizione si era consolidata nel modello wolffiano: La conoscenza delle cose che sono o divengono, sia nel mondo materiale sia di quelle che accadono nelle sostanze immateriali, la chiamiamo istorica31.

Ora, se qualcosa è dato, questo qualcosa deve essere possibile; possibile significa non contraddittorio; ma se è dato, oltre che non contraddittorio, al reale nel senso di “istorico”, deve inerire anche una ragione sufficiente, cioè un motivo per cui il mero possibile è anche diventato reale. In Wolff il gioco aristotelico di questi due principi32 dà luogo all’assunto (che è il “Fundamentum cognitionis philosophicae”) per cui Le cose che sono o divengono, non mancano di una ragione propria grazie a cui si intende perché sono o divengono33.

Di conseguenza, la filosofia consiste nel passaggio dal fatto, che è “cognitio oscura”, – rivelazione del possibile immediata e indistinta, altrimenti detta “nuda notizia del fatto” – alla definizione della sua ragion d’essere, cioè all’individuazione della possibilità nel posto che ad essa compete all’interno Cfr. G. Baumgarten, Estetica, a cura di E. Piselli, Vita e Pensiero, Milano 1992, § 24, p. 22, e § 427, p. 184. Cfr. anche, ivi, § 580, p. 242. È già un’accezione cartesiana e spinoziana, cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino 1980, p. 134. Una conseguenza di questa definizione di sapere storico, si ha in Wolff, Logica tedesca, cit., p. 145: «Poiché gli scritti di storia narrano soltanto ciò che è accaduto (cap. 10, § 1) non si ha bisogno di molto intelletto e riflessione per leggerli, ma si può prestare attenzione solo a ciò che si legge». 31 Ch. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica methodo scientifica pertractata. Pars I. Praemittitur Discursus preaeliminaris de philosophia in genere, cit., § 3, p. 2 (tr. it., L’altra estetica, cit., p. 235). Prosegue Wolff: «Historica ejus est cognitio, qui expertus novit, Solem mane oriri, vespere autem occidere; initio veris gemmas affrondescere arborum; animalia propagari per generationem; nos nil appetere nisi sub ratione boni». 32 Cfr. Aristotele, Metafisica, libro IV, 3, 1005b, 20. Cfr. G. W. Leibniz, Sui principi di contraddizione e di ragion sufficiente, in Scritti filosofici, a cura di D. O. Bianca, 2 voll., II, UTET, Torino 1988, p. 699. 33 Ch. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica methodo scientifica pertractata. Pars I. Praemittitur Discursus preaeliminaris de philosophia in genere, cit., § 4, p. 3, (tr. it., L’altra estetica, cit., p. 235). Ivi: «È istorica la conoscenza di chi ha esperito che il sole sorge al mattino e tramonta la sera; che all’inizio della primavera gli alberi mettono le gemme; che gli animali si riproducono mediante la generazione; che noi non desideriamo nulla se non a motivo di un bene». 30

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del sistema dei possibili-necessari34, il quale forma la struttura del reale e quindi l’esposizione stessa della verità: Un filosofo deve sapere non soltanto che qualcosa è possibile o accade, ma anche deve poter indicare la ragione per cui esso è possibile o accade35.

In questo senso quindi, Wolff e i wolffiani, come Baumgarten, ritengono che la filosofia si compia nel passaggio dall’esperienza, la “cognitio historica”, che in quanto reale è possibile, e in quanto possibile già razionale (e quindi già conoscenza) alla metafisica36, che ne è l’esplicitazione “trascendentale”, attraverso la necessaria chiarificazione portata dai principi logici di contraddizione e ragion sufficiente, i quali, essendo determinazioni della possibilità e svolgimenti dell’identità, sono anche i principi che analiticamente conducono nell’esplorazione ontologica del reale37. Per la cultura filosofica di tipo razionalistico, nella quale Kant ha le sue radici, “estetico” e “istorico” sono quindi sinonimi e la scienza va dallo “storico” all’ontologico, in modo tale che si postula tra i due ambiti una linea di continuità, progrediente nell’acquisto di una sempre maggiore chiarezza sino al massimo grado rappresentato dalla distinzione: La conoscenza filosofica differisce da quella istorica. Questa, infatti, consiste nella nuda notizia di un fatto (§ 3), e quella, andando più in là, mostra la ragione che fa intendere perché qualcosa può accadere in un certo modo38. 34 Cfr. ivi, § 7, p. 3. La “cognitio volgaris” o “historica”, in quanto oscura, incompleta o confusa, è sempre esposta al rischio del “vitium subreptionis”, per cui un effetto viene spiegato mettendolo in rapporto con una causa, cui non appartiene; cfr. Ch. Wolff, Ratio Praelectionum, cit., p. 113. 35 Ch. Wolff, Metafisica tedesca. Pensieri razionali attorno a Dio, al mondo, all’anima dell’uomo e anche a tutti gli enti in generale, a cura di R. Ciafardone, Rusconi, Milano 1999, p. 63. 36 Ch. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica methodo scientifica pertractata Pars I. Praemittitur Discursus preaeliminaris de philosophia in genere, cit., § 6, p. 3, (tr. it., L’altra estetica, cit., p. 236): «La conoscenza delle ragioni di ciò che è o diviene è detta filosofia». 37 Cfr. A. Seifert, Cognitio historica. Die Geschichte als Namengeberin der frühzeitlichen Empirie, Duncker und Humblot, Berlin 1976. Cfr. la critica del kantiano Fülleborn, che si riferisce a Cartesio ma la estende a tutta la metafisica: «In questa e in altre deduzioni metafisiche si è molto giocato con il concetto del possibile, che a forza di girarlo e rigirarlo, vi si inserisce la rappresentazione della realtà», in Immanuel Kant. Nebst einigen Bemerkungen über die Kantische Philosophie, s.l., 1800, pp. 26-27, (Aetas Kantiana, 78). 38 Ch. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica methodo scientifica pertractata. Pars I. Praemittitur Discursus preaeliminaris de philosophia in genere, cit., § 7, p. 3, (tr. it., L’altra estetica, cit., p. 236). Cfr. anche Ch. Wolff, Ratio Praelectionum, cit., p. 108: «Unde in philosophia res considerantur in universali non in singulari, & ipsi cum veritatibus, seu notionibus universalibus quemadmodum Historiae cum factis negotium est».

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Così la differenza enfatizza il progresso, e quindi anche il rapporto di continuità logico-reale tra conoscenza delle cose, o “istorica”, e conoscenza delle ragioni delle cose, o “filosofica”, sino a concluderne come fa Wolff con intenzione anti-scettica, che la prima è tanto punto di avvio che di ritorno per la seconda, ossia il criterio empirico della sua “conferma”: Se qualcuno sa che per qualche ragione qualcosa può essere, e compiuto un esperimento, osserva che così è, conferma la conoscenza filosofica mediante la conoscenza istorica. Giacché non bisogna dubitare che non possa essere qualcosa che attualmente si osserva che è, la conoscenza istorica si pone al di là di ogni pericolo di dubbio: e quindi è evidente che la conoscenza istorica conferma la filosofia39.

Quella pretesa di esaustività di cui prima si è detto come di uno dei rilievi dei filosofi “popolari” contro il wolffismo, dipende infine dal fatto che la «conoscenza matematica rende certa la conoscenza filosofica», perché dà una sanzione quantitativa e quindi perfettamente dimostrata alle definizioni ancora argomentative della filosofia. La matematica non è superiore alla filosofia, ma le serve come mezzo massimamente razionale, per darsi prova della piena necessità delle proprie regole di derivazione40. In tale quadro di Ch. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica methodo scientifica pertractata. Pars I. Praemittitur Discursus preaeliminaris de philosophia in genere, cit., § 26, p. 12 (tr. it. parz. in L’altra estetica, cit., p. 238). 40 Ivi, § 27, p. 12, (trad. parz. in L’altra estetica, cit., p. 238): «Si quantitas effectus viribus caussae proportionata demonstratur, cognitio philosophica haurit omnimodam certitudinem». Dal rapporto logico tra le tre discipline, deriva l’ordine espositivo di questo discorso “De triplici cognitione humana, historica, philosophica et mathematica”. Wolff non vuole matematizzare la metafisica, ma estendere a questa il rigore del metodo matematico che già opera in modo però non così luminoso nei procedimenti argomentativi sia della conoscenza ordinaria che di quella filosofica. Wolff ritiene che in questo senso la matematica possieda soltanto un vantaggio storico sulle altre discipline, essendo per il resto ad esse qualitativamente omogenea; cfr. Ch. Wolff, Logica tedesca. In appendice la corrispondenza di J. H. Lambert con G. J. Holland e Kant, a cura di R. Ciafardone, Pàtron, Bologna 1978, pp. 115-116: «Poiché finora si dimostra con rigore quasi unicamente nelle discipline matematiche, per questo motivo il mezzo più sicuro per giungere alla scienza è quello di esercitarsi all’inizio seriamente in esse e di cercare in seguito di applicare in altre discipline il metodo, lì annotato, di esporre, per quanto possibile, gli argomenti. Dico intenzionalmente: per quanto possibile. Infatti al momento non ancora è possibile assumerlo in tutti i campi, e, dove è possibile, esso ci conduce, a volte, a prolissità eccessive, se vogliamo applicarlo proprio con rigore». Cfr. anche ivi, p. 142: «Se le ultime proposizioni sono dedotte costantemente dalle prime, come è d’uso nelle scienze matematiche, allora ogni cosa è ben connessa. In caso contrario, le cose non sono connesse». Il tipo di connessione ottenuto per deduzione viene anche detto “ordine naturale”, preferito dai matematici, opposto all’“ordine scolastico”, che usano i “dotti comuni” (ivi, p. 143). Ovviamente, Wolff predilige anch’egli l’ordine matematico, (il che è diverso dal dire che preferisce la matematica). 39

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rapporti, la logica, essendo strumento e momento di questo percorso, può configurarsi come conoscitiva, (perché pensiero delle cose nella loro realtà) e quindi come ars inveniendi, – cioè «per scientiam veritatem latendem investigandi»41 secondo il programma qui espresso da Wolff, che appunto trattando della “conoscenza umana” ne riconosce tre forme di progrediente razionalità, storica, filosofica e matematica42. Essendo poi l’ontologia radicata nella logica, ed essendo questa manifestazione dell’essere delle cose, l’intera sfera dell’essere viene infine radicata in una “psicologia metafisica”, luogo di formazione del pensiero e quindi anche della verità43. Ma a noi interessa chiederci che cosa questo nesso estetica-logica-ontologia-matematica44 possa significare non per l’impostazione generale del problema del sapere, ma soltanto in rapporto alla storia della filosofia. A tale scopo può essere utile ricordare quanto Wolff scrive nella “Prefazione” alla seconda edizione della Metafisica tedesca, dove tratteggia un rapido schema di storia della filosofia: Tutti coloro che si sono adoperati per la conoscenza delle cose e hanno aspirato alla filosofia o si sono decisi a non accettare proprio nessuna dottrina ma a lasciare nel dubbio ogni cosa, affinché non prendessero per precipitazione il falso per il vero e non incorressero in errore, o alla fine hanno osato e introdotto dottrine conformemente alle quali potessero spiegare ciò che si presentava loro nella vita45.

Tra gli “scettici” non è possibile fare alcuna differenza perché «lasciano tutto incerto, l’uno è buono quanto l’altro». Coloro che invece “osano”, in 41 Cfr. Ch. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica methodo scientifica pertractata. Pars I. Praemittitur Discursus preaeliminaris de philosophia in genere, cit., p. 35. 42 Cfr. ivi, §§ 1-28, “De triplici cognitione humana, historica, philosophica et mathematica”. Nella Vernunftlehre di Meier (Gebauer, Halle 1752, §§ 32-34, pp. 33-35), il cui Auszug viene usato da Kant per le lezioni di logica, si trova la distinzione tra la “conoscenza comune”, detta anche “storica”, tratta dall’esperienza, soltanto erudita, e la logica, che indica invece le ragioni, il campo della possibilità del fatto. 43 Ci riferiamo alla tesi proposta in P. Kobau, Essere qualcosa. Ontologia e psicologia in Wolff, Trauben, Torino 2004. Sul rapporto di “priorità” dell’ontologia o della psicologia rispetto alla logica in Wolff, cfr. anche F. Barone, Logica formale e logica trascendentale. Da Leibniz a Kant, I, Edizioni di “Filosofia”, Torino 1957, p. 97. Cfr. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica methodo scientifica pertractata. Pars I. Praemittitur Discursus praeliminaris de philosophia in genere, cit., pp. 39-40. 44 Per l’illustrazione del quale, cfr. la traduzione dalla Metaphysica di Baumgarten (Halle 1779), a cura di P. Kobau, in L’altra estetica, cit., pp. 260-267. 45 Ch. Wolff, Metafisica tedesca. Pensieri razionali attorno a Dio, al mondo, all’anima dell’uomo e anche a tutti gli enti in generale, cit., p. 17.

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opposizione agli scettici, sono detti “dogmatici”, il quale termine nel linguaggio wolffiano altro non significa che scientifici. Tra questi si possono quindi fare differenze. La maggiore è quella che ne divide il campo in “monisti” e “dualisti”. I primi sono “idealisti” o “materialisti”, a seconda che intendano la realtà come «un sogno sottomesso a regole» o non vi ammettano «nessuna cosa che non sia fisica». Dualisti sono invece i filosofi che affermano sia la realtà del pensiero che quella del mondo, in certo senso quindi i cartesiani. Ora, per Wolff tutti hanno detto qualcosa di corretto, hanno colto un lato della questione della verità, sicché, volendo usare un’espressione un po’ forzata, insieme “scrivono” il problema che Leibniz imposta, ma che sarà appunto Wolff stesso a risolvere. Nessun idealista ha spiegato come il pensiero possa porre la realtà, nessun materialista come la materia possa generare pensiero, e siano quindi possibili libertà e moralità. Tuttavia, insieme pongono la giusta esigenza di unità, che invece i dualisti, evidentemente consci delle difficoltà della soluzione monista, escludono. La teoria leibniziana dell’armonia vorrebbe sanare i problemi che oppongono monisti a dualisti. Ma l’orgoglio di Wolff, sempre vivo ogni qual volta debba fare il nome di Leibniz, consiste nell’affermare che egli ha dimostrato ciò che Leibniz ha soltanto indicato, o al massimo ipotizzato, sicché Wolff più che un sistematore si considera colui che ha dato il vero svolgimento filosofico ai cenni e ai suggerimenti di Leibniz46. Contro i dualisti, il sig. Leibniz ha osservato che la questione di come corpo e anima armonizzino l’una con l’altro è concepibile quando li si prenda insieme; cosa che gli idealisti e i materialisti insegnano.

In che modo però questo possa avvenire, il sig. Leibniz non l’ha esposto in nessun luogo, ma ha pensato soltanto a ragioni, mediante cui potrebbe mostrare che un dualista deve riunire ciò che gli idealisti e i materialisti sono costretti ad asserire in forza del principio della loro setta.

Continua allora Wolff: per risolvere il problema che Leibniz chiarisce, orienta, ma non dimostra, 46 Wolff ritiene di avere svolto questo ruolo in effetti rispetto a tutta la storia della filosofia moderna, da Tschirnhaus in poi, cfr. Ch. Wolff, Ratio Praelectionum, cit. Sulla storia della “presunta filosofia leibnizio-wolffiana”, nozione di scarsa validità descrittiva, diffusa da Bilfinger, l’allievo di Wolff che per primo ne presenta il pensiero come una mera esplicitazione di quello leibniziano, cfr. F. Barone, Logica formale e logica trascendentale. Da Leibniz a Kant, cit., pp. 83-98.

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ho dovuto ricercare anche quali verità gli idealisti e i materialisti possiedano e dopo che le ho trovate, si è mostrato che è possibile quanto il sig. Leibniz ha indicato, che cioè le opinioni degli idealisti e quelle dei materialisti sono conciliabili le une con le altre dai dualisti. E così l’armonia prestabilita del sig. Leibniz è senza dubbio messa in una grande luce ed è diventata comprensibile47.

Qui Wolff presenta uno schema tipico, già da noi considerato nel giovane Kant e che ritroveremo simile, ma soltanto da un punto di vista esteriore, nel Kant critico; schema per il quale la storia della metafisica si può rappresentare a grandi linee nella contrapposizione tra orientamenti dogmatici, combattuti dagli scettici48. Di questo schema, importa evidenziare che non c’è stata filosofia la quale in qualche misura non abbia colto un aspetto autentico del problema del rapporto pensiero-realtà e partecipato quindi all’impresa della sua comprensione. Quando questa si assesta – dopo un’evoluzione storica di cui Wolff dice apertamente di aver utilizzato e valorizzato i risultati – nella soluzione che egli propone, in sostanza ogni filosofia vi è presente conciliata con le altre: Wolff stesso scrive di aver dovuto cercare le “verità” delle “sette” contrapposte, non di averle dovute mettere da parte. Nella Ratio praelectionum, questo elemento appare ancora più chiaro: idealismo e materialismo (cioè le posizioni opposte scaturite dal cartesianismo) trovano nella sistemazione wolffiana dei problemi della metafisica una soluzione che essi non possono rifiutare in base alle loro stesse rispettive teorie. Ad esempio, rispetto al problema di che cosa sia il tempo, scrive Wolff: Tempus definio per ordinem successivorum: quam definitionem admittere debet Idealista, licet hypothesi suae indulgens tempus dicere debeat ordinem perceptionum successivarum; nec rejicere potest Materialista, licet ipse tempus dicere mallet ordinem mutationum successivarum in universo, seu mundo materiali49.

A proposito dei modi in cui si presententano le «perceptiones mentis humanae», Wolff giunge alla conclusione, ottenuta in base al principio di ragion sufficiente, secondo cui «veritatem esse ordinem phaenomenorum»: Ch. Wolff, Metafisica tedesca. Pensieri razionali attorno a Dio, al mondo, all’anima dell’uomo e anche a tutti gli enti in generale, cit., p. 19. Questa riflessione trasferisce sul piano della storia della filosofia quell’accordo tra estetica e logica nell’ontologia che viene sostenuto sul piano sistematico. 48 Ch. Wolff, Ratio Praelectionum, cit., p. 141: «Mihi Metaphysicam potissimum vocari scientiam de Deo & mente humana rerumque principiis, unde ista pendet; scientia vero entis, qua ens est, Philosophiae primae nome servari». 49 Ivi, p. 146. 47

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Unde consequitur, Idealista & Scepticos, qui phaenomena admittunt, nec ordinem negare audent, ex suis hypothesibus nostram philosophiam impugnare non posse: nos enim non aliter philosophamur, nisi ut ordinem phaenomenorum ostendamus: in hoc enim ratio ipsorum continetur50.

Per questo motivo, può affermare che «doctrinae meae metaphysicae sint ab omni secta liberae»51, e che lo stile con cui egli si confronta con le altre filosofie, non è quello, molto in uso, della “logomachia”, ma quello del progresso della scienza che può avanzare perché valorizza le conquiste ottenute nel passato dagli altri ricercatori e anzi ne va in cerca come dell’indispensabile punto di partenza per ogni nuova scoperta52. Si può allora affermare che quella delle “sette” è stata un’unilateralità comunque “positiva”, illuminante già nel senso della definizione, e quindi molto diverso da quello, prima accennato in merito a Kant, della loro “significativa” incompiutezza. Inoltre, la soluzione al problema che orienta la storia della filosofia, quello gnoseologico e metafisico, segue il modello cartesiano del passaggio da chiarezza a distinzione, un criterio che opera universalmente nella costruzione del sistema wolffiano, con il quale si articola la definizione di ogni ambito del reale. Questa articolazione va dall’ente sino a Dio, (cioè dall’ente che ha in altro la propria possibilità, all’ente che è a se stesso possibile, e che quindi è anche perfettamente necessario) tramite il progressivo schiarimento generato dal potere dirimente (e allo stesso tempo connettivo) del principio di contraddizione e di quello di ragion sufficiente. La “perfezione” della conoscenza è infatti comprendere «distintamente tutto ciò che può essere conosciuto»53, il concetto di ogni possibile, la definizione della realtà nella conquistata trasparenza trascendentale, dove “trascendentale” sta per reale e possibile insieme (e non quindi nel senso di oggettività per il soggetto, cui siamo abituati dopo Kant). La convergenza di monismi e dualismi nella dimostrazione dell’armonia prestabilita procede, come vediamo dalle parole di Wolff, lungo il percorso teorico che chiarisce sempre meglio ciò che in quelli, in quanto reali, “storici”, già c’è, sino a giungere a quel massimo di chiarezza che è la distinzione (o per meglio dire la «distinzione adeguata»54)

Ivi, pp. 147-148; cfr. anche p. 152, pp. 160-161. Ivi, p. 146. 52 Cfr. a proposito della relatività storica persino della scienza aristotelica, Ch. Wolff, Logica tedesca, cit., p. 29. 53 Ch. Wolff, Metafisica tedesca, cit., p. 241. D’altronde, «l’intelletto è la facoltà di rappresentare distintamente il possibile», ivi, p. 239. 54 Ch. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica methodo scientifica pertractata, cit., § 95, p. 161. 50 51

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nella quale c’è soltanto ciò che può e deve esserci. Avviene quindi senza rotture e senza recuperi: quanto sembrava contraddittorio, pensato meglio, può essere portato a necessità e coerenza55. La filosofia è quindi sempre stata, non si tratta di un’esperienza dispersiva, sebbene vada acquisendo una crescente chiarezza circa la propria verità, e quindi circa la capacità della ragione di definire nell’ontologia un sapere rigoroso e allo stesso tempo estensivo come quello del «mathematice philosophari» secondo il senso che Wolff riesce a dare a questo ideale dell’epoca che egli traeva con qualche giustificata critica dalla Medicina mentis di Tschirnhaus56. Per il Kant critico però questo non è più vero: le contraddizioni della storia della metafisica, come giustamente dicono i popolari, non sono sanabili portando tra le “filosofie” quella maggiore chiarezza consentita da una sistematizzazione generale dei loro risultati. I pensieri della storia della metafisica non sono una realtà “oscura” passibile di quel grado superiore di chiarimento rappresentato dalla distinzione; si tratta di un’esperienza che non svela il proprio perché, giungendo a definirlo nella coincidenza di un possibile che in base all’efficacia del principio di ragion sufficiente si svela come il proprio concetto. Al pari della storia degli uomini in generale, (e intrecciata con la loro “destinazione”), la storia della metafisica è un’esperienza inconclusa, effettivamente contraddittoria perché aporeticamente aperta, e quindi inemendabile nel nesso chiarezza-distinzione, come insanabile nella sintesi monismo-dualismo. Possibilità che entrambe si giustificano con la supposta armonia tra i tre gradi di conoscenza, la storica, la filosofica e la matematica. La realtà della storia della filosofia non dimostra che questa sia 55 Questo metodo spiega anche perché a Wolff non interessi molto delle singole filosofie storiche; cfr. a tale proposito, F. L. Marcolungo, Wolff e il possibile, Antenore, Padova 1982, pp. 134-143. 56 E. W. v. Tschirnhaus, Medicina mentis, sive Tentamen genuinae Logicae, in qua disseritur de methodo detegendi incognitas veritates, Amsterdam 1687 (Olms, Hildesheim 1967), (tr. it. Medicina Mentis, a cura di L. Pepe e M. Sanna, introduzione e note di M. Sanna, Guida, Napoli 1987). Wolff critica come insufficiente la definizione del “criterio di verità” proposta da Tschirnhaus, il “concipere posse” secondo cui «esse verum quod potest concipi; falsum vero, quod non potest concipi; dubium, cuyus nullum habemus conceptum». Tschirnhaus intendeva con questo criterio contrastare la logica nominale della Scolastica, e introdurre anche in metafisica il metodo genetico, l’unico che sembrava assicurare la giusta attenzione ai rapporti reali tra i concetti, e quindi il carattere inventivo della logica. Wolff trovava non sbagliato lo scopo di questa proposta, ma giudicava generico il modo con cui Tschirnhaus spiega il “concipere posse”. Nota che in alcuni degli esempi di Tschirnhaus sono “concepibili” i casi in cui esiste un nesso tra soggetto e predicato e da questo trae la regola della verità: «Veritatis criterium est determinabilitas praedicati per notionem subiecti». Il “concipere posse” di Tschirnhaus diventa per mano di Wolff allora la non repugnanza degli elementi della proposizione; cfr. Ch. Wolff, Ratio Praelectionum, cit., pp. 125-126.

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possibile, sicché comprenderla significherebbe procedere da una tale esperienza a ciò che la rende possibile. Per poi, in questo possibile reso distinto, riconoscere la qualità della ragione, il senso di tutta la vita, e infine la condizione più grande della verità della nostra vita che è la necessaria realtà di Dio57, fondamento ultimo (adeguatamente cartesiano) del sistema. Kant dà ragione ai “filosofi popolari” nella misura in cui riconosce che la storia della filosofia non è “storica” nel senso wolffiano (che anticipa in modo rilevante quello hegeliano, per quanto Hegel stesso ne potesse dire58) dell’unione tra reale e razionale, che ogni esperienza testimonia in quanto suppone e quindi esprime una possibilità. Distinguere la possibilità che soggiace all’esperienza, è il compito del sapere che la coglie oltre il dato sensibile, o meramente fattuale, dando, nella ragion sufficiente così “scoperta”, la ragione del fatto, e quindi con la sua condizione, anche la sua verità. “Storici” in questa accezione sono per Kant soltanto quei fenomeni come la matematica e la logica formale, in cui una certa possibilità è diventata esperienza: in questi casi, sebbene sia preferibile giungere alla distinzione, già la sola chiarezza permette un adeguato livello di comprensione59. Questa caratteristica va insieme all’altra, di tipo sistematico più che pedagogico, per cui Kant richiama sempre al fatto che la filosofia non può essere appresa, ma deve essere pensata60. Se soltanto appresa, è anche perduta, perché essendo un sapere discorsivo, come avremo modo di riconsiderare, finisce, se non ridiventa ogni volta che la si studia, discorso e quindi consapevolezza autonoma di colui che la fa, beninteso sempre nel rigore del livello trascendentale di indagine. Nessuno può quindi insegnare la verità, perché questa è la conquista di ognuno, e in filosofia, potremmo forse dire che anche per Kant – come per Agostino – il maestro più grande (e più necessario) è quello che sa scomparire, trasformandosi in quella ben più solida realtà che è il “maestro interiore”, fonte della storicità essenziale del filosofare, e vero modo di insegnamento. Ma torniamo al nostro principale argomento. Accanto a quelle “storiche”, esistono quindi anche altre esperienze che per il fatto di essere poste, “effettuali”, non perciò sono anche “possibili”: la storia degli uomini, che un’incertezza ontologica costringe al viaggio dalla natura alla “dignità razionale” di enti finali, ha la sua possibilità garantita in modo soltanto analogico; Ch. Wolff, Metafisica tedesca, cit., § 928, p. 725. Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1967, III, 2, pp. 206-213. 59 Cfr. M. Capozzi, Kant e la logica, cit., p. 287. 60 Questo importante criterio di Kant è di origine wolffiana; cfr. Ch. Wolff, in Philosophia rationalis sive logica. Pars I. Praemittutur Discursus preaeliminaris de philosophia in genere, cit., p. 3. 57

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la riflessione sull’assoluto, il bisogno di verità, che si è cercato di soddisfare sul modello del “mathematice philosophari” potrebbero restare impossibili come avvertono, in modo diverso e con scopi divergenti, le critiche di Thomasius, Rüdiger, della cultura “bayliana” e scettica, dell’illuminismo antirazionalistico. A quest’ultimo, carico dell’umanesimo di un sapere delle cose e della vita, appare irreale anche l’ontologia con cui Wolff aveva creduto di potere evitare l’astrattezza della metafisica di Tschirnhaus. Il “possibile” si separa allora dall’esperienza, si allontana dall’“istorico” e dall’“estetico”, e diventa una questione ben più complicata rispetto alla funzione che Wolff poteva attribuirgli come “a priori” logico-ontologico, per il semplice fatto che non è più in tutte le cose. In breve, la differenza tra Wolff e Kant è che per Kant il principio di contraddizione e quello, su di esso basato, di ragion sufficiente non possono essere considerati efficienti anche “materialiter”, come riteneva Wolff sulla base della continuità realistica tra esperienza e pensiero. Questi stessi principi sono efficienti soltanto “formaliter”61 e, come vedremo nel terzo paragrafo di questo capitolo, tale differenza ne comporta altre di ordine sistematico in merito alla differenza tra le tre logiche di cui Kant si occupa nella Critica della ragion pura, quella generale, la sintetica e la dialettica. Da qui non solo l’importante conseguenza per cui secondo Kant la logica, tutta, non costituisce una ars inveniendi, ma soprattutto una sensibilità per l’esperienza che diventa maggiore quanto più, specie osservando alcuni fenomeni, ci si accorga che questa non può essere sempre considerata come l’attuazione contingente, “oscura” ma comunque reale, di una possibilità logico-ontologica, e quindi come il punto di partenza (e ultimo banco di prova) per una chiarificazione principiale. Possiamo allora fare la storia della matematica perché una ragion d’essere si è in essa manifestata, sicché potremmo anche non coglierne perfettamente la natura, come lo schiavo del Menone, e pure riuscire a comprenderla grazie al carattere intuitivo, immaginativo e costruttivo di questo sapere: il che significa che la sua possibilità si fa immediatamente del tutto reale. Ma esistono anche esperienze di diversa qualità: la metafisica non è una conoscenza di quel tipo. Rispetto ad essa, secondo Kant non possiamo quindi parlare di storia, perché dopo l’insegnamento di Hume e quello di Lambert, sembra che in essa non una possibilità abbia preso realtà, ma si mostri piuttosto un’assenza di possibilità, una devianza, quella «direzione diagonale dell’intelletto»62, che a causa dell’influenza scorretta della sensibilità cattura il pensiero nei suoi vicoli cieci. 61 62

Cfr. I. Kant, Logica di Vienna, a cura di B. Bianco, Franco Angeli, Milano 2000, p. 54. Ivi, p. 52.

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Interpretando allora l’approccio kantiano, proponiamo di usare a proposito di questo genere di esperienza, non la nozione di storia, ma quella di “storicità”. La storicità è il presentarsi di quel fenomeno la cui “storia” non avviene, o non è ancora avvenuta, o non si sa se avverrà. Allora, rispetto a quanto non si è definito, la chiarezza della identificazione tra ragion d’essere ed esperienza non è possibile: una identificazione che per gli ambiti in cui vale sa tanto di wolffismo anche in Kant. Ma non si dà nemmeno il riconoscimento wolffiano dell’esperienza che dalla chiarezza è portata sino alla distinzione, della “cognitio historica” che è resa “cognitio philosophica”. Rispetto ad alcuni fenomeni, occorre che si mostri non la possibilità nello stato dell’opera, ma la possibilità per valutare quale sia lo stato dell’opera. Se una realtà non si è data, ma si è data soltanto un’esperienza da cui sembra ineliminabile il segno del fallimento, non c’è chiarezza da trasformare in distinzione. Occorre allora comprendere perché questa esperienza non è stata possibile, secondo l’atteggiamento critico per eccellenza, espresso in modo negativo. Si spiega quindi così perché secondo Kant nel caso di esperienze che sono “storie” la chiarezza può fare a meno della distinzione, cioè si può comprenderne la dinamica e il significato anche senza una consapevolezza radicale del loro principio; e perché invece rispetto ad altre esperienze, che non espongono nel fatto il fine, e sono quindi non realtà o “storie” in senso wolffiano, non si può neanche cominciare a comprendere, se non se ne comprende prima lo “scopo”, e non ci si attrezza per una strategia “congetturale”, non si formulano ipotesi filosofiche, non si opta per un approccio discorsivo, non si separa pensare da sapere per stabilirne il confine e quindi il rapporto reciproco. La “distinzione” sarà allora in questo caso il riflettere sull’assenza di chiarezza in un’esperienza, secondo un valore sintetico della distinzione che Kant oppone al valore soltanto analitico che questo concetto presenta nel wolffismo63. Come ben noto, esiste infatti una differenza per Kant tra «formare un concetto distinto e rendere distinto un concetto», una distinzione importante che ritroveremo in Reinhold. Si rende distinto un concetto, quando lo si analizza nelle sue note, così chiarendolo. Altra procedura è invece quella che vuole formare un concetto distinto, che ancora non è dato e le cui note vengono aggiunte secondo un nesso di coerenza complessiva che ne genera l’intero. Sebbene Kant limiti almeno in modo esplicito, l’utilizzo della “distinzione sintetica” al “matematico” e al “filosofo della natura”, si può forse pensare che anche lo storico filosofico

63 Cfr. I. Kant, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, AA, IX, p. 63, (tr. it., Logica, a cura di L. Amoroso, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 57).

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della filosofia, – che è l’atteggiamento di ogni pensatore il quale parta, come il filosofo critico, dal problema del perché di questa non-storia – si debba servire di essa, aggiungendo discorsivamente nota a nota nel dare distinzione al concetto di filosofia quale risulta dal caos di questa esperienza64. In base alla distinzione si definisce se e in che valore di relatività, un’esperienza si è avvicinata al proprio compimento, e quindi al traguardo della realtà. Non è quindi vero che Kant non avrebbe avuto sensibilità storiografica, perché la storia – soprattutto quella universale e quella della filosofia – diventa per lui un problema filosofico per il rilievo della dismisura che queste esperienze mostrano tra fenomeno e compimento, in quello spazio di realtà, trascurato o negato in modo diverso e per scopi diversi sia da Wolff che da Thomasius, che si situa tra il non essere affatto e quell’essere vero che è tale perché effettualità del possibile. La storia della filosofia è uno dei fenomeni che si situano in tale apertura: spazio di indagine tra il noumenico e il fenomenico, che è ovviamente il luogo dove si trovano anche le dimensioni per Kant più importanti della vita, quelle che spingono la riflessione a chiedersi che cosa sono, e se sono qualcosa, la conoscenza, il senso del bene, la fede e la speranza che abbiamo. Per comprendere questi fenomeni, si può accettare il paradosso di una distinzione che anziché seguire, come vorrebbe la logica cartesiana, invece preceda e fondi la chiarezza. Per ciò che è “storico” la chiarezza può bastare, per ciò che non è ancora “storico” (o che non può diventarlo), non c’è chiarezza, ma proprio perché non c’è chiarezza si esige la distinzione, cioè diventa indispensabile quel rapporto definitorio con la possibilità come confine, e non come già realizzata realtà, che è il programma del criticismo. Soltanto che per Wolff, poiché la metafisica è compiuta, l’indagine sulla sua possibilità non comporta una rappresentazione né una problematicizzazione storica, ma l’articolazione del possibile nella necessità del suo diventare reale grazie al gesto di una ragionevolezza euclidea e teologica. Siccome per Kant, invece la metafisica, come meglio vedremo, non è ancora mai veramente esistita, e la filosofia è sempre rimasta un’aspirazione, indagarne la possibilità è l’unico modo per valutare se e in che misura essa abbia cominciato a svolgere una “storia”, cioè quanto, molto, poco o nulla, si sia approssimata alla sua distinzione. Sembra allora che quando tratta di storia, Kant volga il suo interesse verso oggetti che non hanno ancora fatto la propria esperienza, e che quindi soltanto in parte possono essere trattati 64 Ibid. Una non-storia che genera «l‘indifferentismo, padre del caos e della notte nelle scienze», cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 8, AX (tr. it., p. 6). Sul senso “soggettivo” della distinzione, cfr. I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1996, pp. 49-50.

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organizzandone le informazioni nel nesso scopo-risultato, che risulta sufficiente alla chiarezza e negli oggetti dell’ordinaria storiografia. Se la filosofia è per Kant ricondurre il fatto alla misurazione del suo giusto manifestarsi rispetto al principio della propria normatività, si può concludere che egli prende gusto alla storicità e non alla storia, o altrimenti detto, che la filosofia nell’impostazione critica ha il compito fondamentale di trattare gli interrogativi che riguardano i fenomeni che non possono ancora vantare una storia, perché sebbene dati, non sono risultati concludenti. Sono quindi le avventure della ragione che Kant indica nei quattro interrogativi con cui apre la Logica: quattro interrogativi “teleologici” perché insieme racchiudono il problema della finalizzazione dell’esperienza umana, che è il modo kantiano di trattare il tema illuministico della “destinazione dell’uomo”65. Chiedersi allora se la metafisica è una scienza significa chiedersi se come scienza si è compiuta, e nel nostro tema, se essa ha già avuto luogo come storia di una scienza.

2. La storia della filosofia dentro un’impresa filosofica: Thomasius e Kant Da quanto abbiamo osservato, emerge che i caratteri che rendono possibile la storicizzazione sono l’evidenza di un ordine e la certezza di un progresso verso di esso: in ogni ambito, dalle scienze razionali al regno animale, c’è storia dove questa unione si realizza. Ma entrambe queste condizioni sembrano mancare nella metafisica, perché essa è un mare senza riva, nel quale il progresso non lascia traccia alcuna e il cui orizzonte non contiene un termine visibile che faccia capire di quanto ci si approssimi66.

La metafisica infatti, per i problemi di cui tratta, e la funzione che svolge di esposizione dimostrata dell’intero della realtà, dovrebbe essere “un tutto compiuto”. Se quindi per un verso il suo scopo sembra inconciliabile con il presupposto della storicizzabilità, per l’altro la massa delle sue trasformazioni, essendone la “storia” ormai assai lunga, fa persino dubitare che le sia possibile raggiungerlo: perciò appare simile a una «pietra di Sisifo»67 che la ragione si

I. Kant, Logica, cit., p. 19. I. Kant, Welches sind die wirklichen Fortschritte, die die Metaphysik seit Leibnitzens und Wolf’s Zeiten in Deutschland gemacht hat?, cit., p. 259, (tr. it., p. 65). 67 Ivi, p. 259 (tr. it., p. 66). 65

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ostina a spingere come per essere punita della sua ostinata ignoranza circa la vanità dell’impresa. Per non rimanere bloccati in questa impasse, Kant ne I progressi della metafisica propone di confrontare l’esperienza della metafisica, sia nei momenti recenti di cui parlava il tema del concorso, sia in quelli antichi, «con ciò che si sarebbe dovuto fare»68, dando quindi ad intendere e poi argomentando nel modo “critico”, che quanto si sarebbe dovuto fare ancora non si era fatto. Riservandoci di tornare poi su questo saggio, il suo incipit fa già vedere vari motivi interessanti circa l’atteggiamento di Kant, non solo nello scritto in questione. Sebbene anch’egli constati che la metafisica non ha avuto uno svolgimento paragonabile a quello delle altre scienze, Kant non condivide la convinzione propria a una parte della cultura illuministica del suo tempo, che una tale difficoltà possa valere come dimostrazione del fatto che essa non possieda una propria ragion d’essere: è significativo che il suo ragionamento parta da questo confronto per poi prendere una direzione diversa e originale. Secondo Kant il fatto che la metafisica non possieda una storia simile a quella delle scienze, significa innanzitutto che non può avere una storiografia analoga alle loro; affinché una tale storiografia si dia, bisogna comprendere il perché di questa situazione anomala, così come avviene anche per la storia del genere umano qua talis, cui soccorre infatti una strategia non positivamente storiografica ma “regolativa” dapprima e “teleologica” dopo la terza Critica69. Anzi, queste due difficoltà sono collegate, dato che comprendere il perché dell’incompiutezza della metafisica contribuisce all’aumento di quella «stima razionale di sé»70 che è da Kant indicato come il fine dell’esperienza umana e ci avvicina quindi alla destinazione cui siamo chiamati in quanto genere. È tipico del forte realismo della prospettiva trascendentale suggerire che se si vuole dare ragione di un fatto problematico, quale è il carattere non “progressivo” ma soltanto empirico e contraddittorio della “storia della metafisica”, occorre che ci si ponga in una prospettiva superiore a quella in cui lo si incontra: il metodo critico indica che non si risolve un problema rimanendo al livello nel quale esso è sorto, ma indagandolo secondo le sue condizioni di possibilità per verificare il grado della sua coerenza con queste. Ivi, p. 261 (tr. it., p. 68). Cfr. M. Mori, Conoscenza e mondo storico in Kant, in Etica e mondo in Kant, a cura di L. Fonnesu, il Mulino, Bologna 2008, pp. 275-295. 70 I. Kant, Idee zu einer Allgemeinen Geschichte im Weltbürgerlicher Absicht, cit., p. 20, (tr. it., Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico, cit., p. 126). 68

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È possibile storicizzare rimanendo sul piano empirico soltanto nel caso di saperi che, come la matematica, mostrano i contrassegni di uno sviluppo positivo, quali possono essere la comprensione generale del suo ordine (pur in assenza di consapevolezza trascendentale), momenti di piena attuazione come gli Elementi di Euclide e l’univocità di uno svolgimento che è tale perché da molto tempo non ammette la distruzione di quanto si viene acquisendo. La metafisica invece non offre materiali altrettanto storicizzabili e perciò il suo corso non può essere compreso se non chiedendosi che cosa la ragione ha cercato di fare in essa, seguendo un interesse alla conoscenza pura che deve essere tanto forte quanto l’impossibilità, finora chiara, di soddisfarlo71. Sul piano strettamente metodologico, questo significa che la storia della metafisica, e più in generale quella della filosofia, è per Kant l’oggetto di una trattazione che può riuscire se impostata dapprima in senso negativo, mostrando perché ancora non esiste una metafisica con i caratteri di stabilità posseduti dalle scienze, e oltrepassandone la frammentarietà e inconcludenza, con il ricondurla alle condizioni di possibilità sotto cui soltanto l’interesse della ragione che vi è in gioco avrebbe potuto essere realizzato: Senza di che tutto nella metafisica è una semplice rapsodia, dove non si sa mai se basta ciò che si pone, o se invece manchi ancora qualcosa, e dove72.

Ed è ovvio che non si può fare storia di una rapsodia, se per storia si intende qualcosa di più che non un semplice repertorio vichianamente “slegato” di fatti. Dato che non è un “oggetto” ma solo un “tentativo”, la storia della metafisica richiede, a differenza di quella della matematica, la consapevolezza filosofica del proprio motivo, senza la quale è impossibile. Il modo “negativo” in cui il problema della storia della filosofia deve presentarsi per Kant spiega da solo perché la sua visione storica sarà sempre innanzitutto speculativa. Una tale impostazione fa sì che l’intento storiografico vero e proprio non possa che rappresentare un interesse secondario. Prendere in considerazione la problematicità di questa “storia” è infatti un aspetto del progetto critico di salvataggio e trasformazione della metafisica. Nei Prolegomeni, Kant spiega chiaramente che la metafisica non è ancora mai esistita, scrivendo che

I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., pp. 25-26, B XLII-XLIV, (tr. it., p. 30). I. Kant, Prolegomena zu jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., pp. 329-330, (tr. it., p. 175). 71

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come schiuma, si manteneva a galla la metafisica, in maniera che, non appena si liquefaceva quella già prima creata, se ne manifestava sempre alla superficie subito un’altra, che alcuni avidamente raccoglievano, mentre altri, invece di cercare nella profondità la causa di questa manifestazione, si stimavan saggi perché se la ridevano del vano affannarsi dei primi73.

Però è anche chiaro che quando cominciano a discutere di come elaborare una metodologia storiografica specifica a partire dall’insegnamento di Kant, i suoi allievi non opereranno una forzatura ma svilupperanno un andamento, forse secondario, certamente non periferico, del progetto critico74. È nei loro scritti che il senso del rapporto kantiano con l’esperienza della metafisica si andrà precisando e articolando in quelle distinzioni, che in Kant rimangono accennate. Ad esempio, verrà messo da parte il criterio, considerato requisito di oggettività, secondo il quale per fare la storia della filosofia occorre evitare uno specifico punto di vista filosofico, una posizione paradigmatica della storiografia filosofica contemporanea, che non aiuta a ricondurre questa “storia” alle sue proprie motivazioni nelle forze della ragione. Bisogna al contrario porsi dal giusto punto di vista filosofico, che è quello delle funzioni della ragione come attiva nell’orizzonte trascendentale. È infatti dalla constatazione del fallimento delle metafisiche che il pensiero kantiano si origina, influenzato da questa “crisi dei fondamenti” ben più che dal successo della scienza newtoniana che appare nella sua storia interna quasi soltanto un elemento strumentale, non importante in sé, ma perché getta luce su come risolvere il problema che lo occupa fondamentalmente, che è quello metafisico ed etico75. Ma come si distingue dall’impostazione wolffiana, l’atteggiamento kantiano verso l’esperienza della metafisica è anche diverso da quello, cui si è fatto cenno in precedenza, di pensatori “popolari” nei quali, sull’esempio di Thomasius, si andava rinnovando l’interesse per la storia della filosofia e della logica come conseguenza della loro ostilità alla filosofia di Cartesio e alla mentalità astratta e tecnicistica individuata quale prosecuzione in forma rinnovata della logica degli scolastici. Il progetto critico appare scaturire dal reciproco annullarsi delle istanze wolffiane e di quelle “popolari”, Ivi, p. 272, (tr. it., p. 45). Cfr. il leibniziano K. G. Hausius, Historische Einleitung zur Geschichte der Kantischen Philosophie, Breitkopf und Comp, Leipzig 1793, pp. XCII-XCIII, (Aetas Kantiana, 87); la storia di Hausius si compone di due parti: “Allgemeine Litteratur der Kantischen Philosophie” e “Skizze zu einer Geschichte der Kantischen oder kritischen Philosophie”; entrambe precedono la raccolta, in più volumi, “Materialien zur Geschichte der critischen Philosophie. Erste Sammlung”. 75 Cfr. la lettera a Garve del 21 settembre 1798, in Kant’s Briefwechsel, AA, XII, 3, pp. 257258, (tr. it., p. 82). 73 74

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

per opposti motivi giudicate da Kant utili (istanza wolffiana: necessità della metafisica e della filosofia speculativa / popolare: necessità di riconoscere non solo che «dei sensi si dà scienza»76, ma la priorità lockeana del sensibile) e allo stesso tempo insufficienti (istanza wolffiana: prevalenza del metodo matematico / popolare: mancanza di rigore e di aspirazione sistematica). La Critica della ragion pura colma il vuoto aperto dall’elidersi di questi campi contrapposti del razionalismo e dell’empirismo. Poiché è con il popolare Thomasius che la storia della filosofia assume un ruolo importante nella cultura tedesca – ad esempio entrando negli ordinamenti universitari77 – è importante esaminare gli elementi del suo pensiero che più influiscono sull’immagine della disciplina quale si presenta ancora a Kant, soprattutto perché molto avevano influito su Brucker, e quindi sull’intera tradizione di studi. Contro la reductio ad unum del cartesianismo, Thomasius aveva in effetti aggiornato l’attenzione per la storia, e anche per quella della filosofia78. La storia mostra l’origine sia delle convinzioni valide sia degli errori che si consolidano in tradizioni sbagliate. Con il passare del tempo persino un’idea valida si trasforma in pregiudizio; i pregiudizi acquistano prestigio, o anche soltanto diventano abitudini, che dominano per via della loro semplice autorità. Questo si verifica anche in filosofia: quando un sistema si consolida nell’insegnamento di una scuola o “setta”, ciò che conta per i suoi adepti è difenderlo, bloccando la discussione al rispetto tassativo della dottrina. Il morbo della superstizione non agisce quindi soltanto nella realtà quotidiana: in forme più metodiche contagia persino le accademie, come sapeva bene Thomasius anche per le sue vicissitudini universitarie. Per liberarsi dalle filosofie divenute pregiudizi, o non farsi da esse intrappolare, occorre conoscere la storia della filosofia, che rende invece naturale un atteggiamento di libera indagine. Nella prima parte della sua Introductio ad Philosophiam Aulicam, Thomasius ricostruisce allora la successione delle “sette filosofiche” dall’antichità antidiluviana sino al passato a lui prossimo, non a scopo di erudizione ma perché tali diversi edifici speculativi gli appaiono altrettanCfr. I. Kant, Dissertatio de mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principis, AA, II, “Vorkritischen Schriften 1757-1777”, p. 398: «Sensualium itaque datur scientia, quanquam, cum sint phaenomena, non datur intellectio realis, sed tantum logica; hinc patet, quo sensu, qui e schola Eleatica hauserunt, scientiam phaenomenis denegasse censendi sint», (tr. it., La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile, in Scritti precritici, cit., II, p. 435). 77 Cfr. M. Longo, “Le storie generali della filosofia in Germania”, in Storia delle storie generali della filosofia, 2, a cura di G. Santinello, Editrice La Scuola, Brescia 1979, p. 349. 78 L’anticartesianismo era la forma contemporanea che in Thomasius prendeva il rifiuto della tradizione aristotelica, un rifiuto che lo accomunava a Francesco Patrizi, cfr. J. G. Buhle, Geschichte der neueren Philosophie seit der Epochen der Widerherstellung der Wissenschaften, Röwer, Göttingen 1800-1806, 6. Bde., IV, p. 542, (Aetas Kantiana, 52). 76

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ti percorsi, che l’uomo illuminato deve tenere presenti come termini da ponderare nelle questioni della vita e della teoria, contro il rischio che vi acquistino valore impostazioni dogmatiche79. Il contrario del settarismo, dove ovviamente domina il conflitto tra le scuole filosofiche, è per Thomasius, che con ciò faceva suo l’insegnamento di Sturm80, il metodo eclettico o elettivo, di cui dava, anche qui legandosi a una ricca tradizione, la seguente e celebre immagine: Restat Secta Eclectica seu Electiva, si modo Nova Secta dicenda est, quae non condit nova dogmata, sed ex aliis sua excerpit & ex omnium Philosophorum sectis flores legere jubet81.

Da un punto di vista culturale, Thomasius così polemizzava contro coloro che già suo padre, Jacob Thomasius, il maestro di Leibniz, aveva chiamato – con intenzione in parte diversa – filosofi “novantiqui”, quelli cioè che guardavano alla storia ma soltanto per sostituire l’aristotelismo con un’altra filosofia antica, in genere quella di Platone, in tal modo abbandonando un settarismo per un altro. Da un punto di vista più tecnicamente filosofico, occorre sottolineare che il presupposto dell’eclettismo sta nell’idea del carattere limitato dell’“intelletto”. Questa convinzione non soltanto induce Thomasius a importanti considerazioni, non conservative, sull’importanza della “cautela” e della “prudenza” sia in teologia che in giurisprudenza82 che appunto in logica, ma soprattutto determina anche il suo ricorso alla storia della filosofia: Prudentia ad Philosophiam pertinet, quare & de hac praemittenda tractactio partim historicam de Sectis Philosophorum, partim doctrinalis de Philosophia in genere83.

Una “trattazione storica” mostra infatti che la storia umana è caratterizzata dal progresso nelle scienze84, ma che non vi si giunge all’acquisizione Ch. Thomasius, “De philosophorum sectis”, in Introductio ad philosophiam aulicam, cit., pp. 1-45. Cfr. su questo aspetto del pensiero di Thomasius, M. Longo, «Le storie generali della filosofia in Germania», cit., pp. 331-349. 80 J. Ch. Sturm, De philosophia sectaria et electiva. Dissertatio Academica, Altodorfi 1679. 81 Ch. Thomasius, Introductio ad philosophiam aulicam, cit., p. 18. 82 Cfr. Ch. Thomasius, Cautelae circa precognita jurisprudentiae Ecclesiasticae in usum auditorii Thomasiani, Oficina Rengeriana, Haale 1712. Cfr. N. Hammerstein, Jus und Historie. Ein Beitrag zur Geschichte des historischen Denkens an deutschen Universitäten in 17. und im 18. Jahrhundert, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1972, pp. 43-124. 83 Ch. Thomasius, Introductio ad philosophiam aulicam, cit., p. 6. 84 Non anche in morale, dove il massimo è fare in modo che l’uomo non diventi più malvagio di quanto non sia in natura, cfr. F. Tomasoni, Christian Thomasius, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 104-105. 79

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della “saggezza”, perché nessun filosofo coglie interamente il significato della realtà, potendone elaborare una visione sempre incompleta. Per di più l’intelletto ha la tendenza a trasformare il sistema in dogma, e quindi la razionalità in pregiudizio, escogitando a sua difesa argomentazioni rivolte contro quei pensieri che in funzione di una maggiore verità lo superano: come afferma nella Einleitung zur Vernunfftlehre, dove sono evidenti i riferimenti baconiani, ogni errore deriva da due tipi di pregiudizio, il «praejudicium praecipitantiae» che porta ad affermazioni non abbastanza verificate, e il «praejudicium auctoritatis», la venerazione del passato che deriva dall’«amore eccessivo e irrazionale per altri uomini». Ovviamente, mentre il primo ha il vantaggio di lasciarsi verificare dalla stessa esperienza, ed è quindi autocorrettivo, l’altro, che si può identificare con la forza di una tradizione culturale, è più difficile da estirpare ed è diffuso soprattutto tra gli eruditi: è quindi all’origine del settarismo. Proprio perché si origina dal culto del passato, lo strumento migliore per contrastare il «praejudicium auctoritatis» è quello che viene definito in questa medesima sede «historia philosophica»85. Questa ci fa comprendere due cose: che le “autorità” si formano quando dello slancio critico e argomentativo da cui si origina ogni vera filosofia rimane soltanto la forma vuota; che soprattutto, ogni autentico filosofo è stato un eclettico, perché, osservando le altre filosofie e ponendosi in modo autonomo il problema della verità, – cioè facendo cooperare memoria storica e meditazione personale – si è messo nella condizione di pensare al tempo stesso con rigore e con creatività: «Accedit, quod semper praestantissimi Philosophorum fuerint Eclectici». Tra questi, Pitagora, Zenone, Platone e Democrito, Seneca, Cicerone e molti Padri della Chiesa: «& ipso, in cujus verba jurari solet, Aristotele». Con grande acume, Thomasius osserva anche: «Nostris temporibus Cartesium, quicquid ipse dissimulet, Ecleticum agisse, demonstrarunt viri eruditi»86. Secondo Thomasius quindi stiamo già percorrendo la strada della verità nella misura – segnata dalla storicità dell’esperienza umana – in cui ciò all’intelletto è possibile. Non occorre quindi cambiare modo di filosofare, ma accontentarsi di quel “vero” che possiamo cogliere: Imbecillitas intellectus nostri inculpanda et difficultas rerum, non modus Philosophandi. Una semper et aedem, quae verae Philosophiae nomen mereatur, dari nequit, ergo altera simus contenti. Ita praestat, navem habere ad navigandum aptam, esti saepius in partibus renovatum, quae 85 Ch. Thomasius, “Einleitung” a Vernunfftlehre, [1691], cap. 13, cit. dall’antologia Deutsche Literatur. Aus der Frühzeit der deutschen Aufklärung, hrsg. von F. Brüggemann, Reclam, Leipzig 1938, p. 40. Cfr. Ch. Thomasius, Introductio ad philosophiam aulicam, cit., p. 117. 86 Ivi, p. 43.

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renovatio tamen identitatem non bene cohaerentem & rimarum plena. Ita praestat aedificium à variis artificibus adornatum quam tuguliorum à rustico esti uno exstructum87.

L’eclettismo supera il contrasto tra antichi e moderni, e offre l’antidoto migliore contro la decadenza settaria, cioè autoritativa, che separa gli uomini nell’impresa del bene e del vero che soltanto in comune (cioè “ecletticamente”) può essere portata avanti88. Esso non è allora una filosofia ma la forma di ogni vera filosofia. Per questo Thomasius non lo intende come una nuova setta perché piuttosto vale ai suoi occhi come il modo corretto del fare filosofia: Voco autem Ecleticam Philosophiam, quae jubet non dependere ab ore unius, aut in unius magistri verba jurare, sed ex ore scripisq; doctu quorumcunq; quicquid veri bonique, non docentis auctoritate, sed argomentu pondere convictus quis cognoverit, in horrea sua colligere, adeoq; de suo subinde addere, & ita suis potiq (um nove!) oculis quam alienis videre. Unde à Philosophis Eclectis nimium quantum differunt AUTODIDAKTA, Quodlibet arii, item & Collectores89.

Si può allora affermare che anche Thomasius possiede una visione “modale” della storia della filosofia, in cui questa viene caratterizzata dalla ricorrenza di alcune attitudini perduranti della ragione, l’eclettismo e il settarismo, che appaiono attivi all’interno di molteplici e per definizione contrastanti “scuole filosofiche”. Il quadro formato dalla loro opposizione viene completato dal modo dello “scetticismo”, ostile sia al dogmatismo settario che Ivi, p. 45. Lo storico kantiano Buhle ha colto con precisione questo aspetto della rivalutazione della storia presente in Thomasius, cfr. J. G. Buhle, Geschichte der neueren Philosophie seit der Epochen der Widerherstellung der Wissenschaften, cit., IV, p. 549: «Thomasius non ha pensato per filosofia un sistema di conoscenze diverso in particolare da altre. La considerava soltanto un insieme di ragionamenti generali su cose in genere secondo le regole della dottrina della ragione. Da ciò il fatto che egli chiamava la dottrina della ragione e la storia come i due necessari e indispensabili strumenti della filosofia, in quanto quella metteva a disposizione le regole e questa gli oggetti del filosofare». Nel giudizio di Buhle viene sottolineato il profilo per cui secondo Thomasius, poiché la volontà e l’intelletto sono deboli, occorre ricorrere alla Scrittura sia per sapere quel poco che possiamo conoscere dell’anima e delle verità metafisiche sia per trovare un completo orientamento morale. Ma Buhle, che pur è molto legato alla tradizione dell’illuminismo tedesco, sottolinea che Thomasius non è un filosofo, e il suo posto nella storia della filosofia è meritato soltanto perché rinnova l’atmosfera culturale in Germania. Unifica il motivo logico e quello etico-religioso dell’antisettarismo, l’idea thomasiana che il settarismo abbia inizio con Caino, e sia quindi con le sole forze umane un’eredità incancellabile. 89 Ch. Thomasius, Introductio ad philosophiam aulicam, cit., p. 42. 87 88

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al progressivismo correttivo dell’eclettismo, perché contesta in generale la possibilità della conoscenza stessa. Thomasius tiene molto a ribadire che il presupposto per cui la “vera filosofia” non potrà mai essere data, non autorizza a confondere l’eclettismo con lo scetticismo. Questo ritiene infatti che nessuna verità sia accessibile alla ragione, mentre il primo ritiene che alla ragione siano accessibili forme non assolute di verità. Gli scettici sono «hostes philosophiae»90, cosa che non si può affermare dei “settari” perché questi, almeno in origine, sono stati “eclettici”. Soltanto la filosofia “eclettica” consente di coniugare, nella relatività metodica del suo approccio, esperienza, ragione e verità, e quindi anche in senso politico-culturale, si presenta come meno pericolosa rispetto alle altre due modalità, che sono autoritaria una e anarchica l’altra. Sebbene a un livello elementare, anche Thomasius – come Wolff – presenta quindi uno schema filosofico per l’inquadramento di questa storia. Ma osserviamo anche che così la storia della filosofia diventava importante nel senso dell’ispirazione, del prestito, dell’adesione parziale, nel quadro di una lotta contro il pregiudizio che sa di poter trovare nella molteplicità delle varianti storiche spunti di innovazione e di riflessione91. Nell’ideale di Thomasius, tali spunti non devono rimanere un aggregato di nozioni ma collegarsi anch’esse in un organismo, il quale però si distingue da quello “sistematico” delle “sette”, come la cartesiano-aristotelica o la neo-platonica, perché subito disponibile, per migliorare, al proprio autosuperamento. A questa impostazione corrisponde anche con coerenza una certa idea della gnoseologia e della logica. Opponendosi all’uniformismo analitico di una logica basata sul principio di non contraddizione culminante nel mos geometricus, Thomasius infatti cerca di elaborare una logica adatta alla realtà dell’uomo comunemente attivo nel mondo, “aulica” come dice il titolo della sua prima grande opera dedicata appunto soprattutto a riformare la logica: “aulica”, potrebbe oggi essere inteso come “adatta ai luoghi di lavoro intellettuale”, una logica per uomini attenti alla realtà delle cose, secondo il rinnovato intendimento tardo-secentesco del significato della logica e della Ibid. Una tradizione che prosegue sino al “wolffiano” Meier che rivaluta la funzione pratica del pregiudizio: cfr. G. F. Meier, Contributi alla dottrina dei pregiudizi del genere umano, a cura di H. P. Delfosse, N. Hinske e P. Rumore, con un’introduzione di P. Rumore, ETS, Pisa 2005. Cfr. P. Rumore, “Introduzione”, ivi, p. XVI e pp. XXII-XXIII; cfr. soprattutto R. Pozzo, Georg Friedrich Meiers «Vernunftlehre». Eine historisch-systematische Untersuchung, (FroomannHolzbog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1995) in cui si delinea l’eterodossia wolffiana di Meier soprattutto tramite il riferimento a Locke, un autore fondamentale per l’ambiente filosofico “thomasiano”. 90

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gnoseologia di Epicuro92. Si delinea così quella sorta di figura di “intellettuale” attivo nella “città” e fondamentalmente critico, in cui Thomasius pone il “nuovo” ruolo del “filosofo”, il quale deve quindi dismettere linguaggi e specialismi – comuni invece tra i leibniziani – che non sarebbero funzionali al compito della “Weltweisheit”93 . La principale caratteristica tecnica di questa filosofia è di accettare il probabilismo come alternativa alla certezza astratta di Cartesio, il quale nel “probabile” vedeva invece nient’altro che una forma nascosta di scetticismo94. 92 Cfr. Ch. Thomasius, “Praefatio”, Introductio ad philosophiam aulicam, cit., s. p.: «Mea vero de Philosophia ad Aulae genium accomodata ea est sententia. Ex tripartita antiquorum Philosophia, Logica, Physica & Philosophia morali, Physicae non ita necessario indigere opinor alium, excepta dectrina de homine; at vero Logica opus habet quam maximè, quoniam ea tradere debet fundamenta ratiocinationis omnis & intellectum ejus perficere, tum Philosophia de moribus sive Ethica & Politica, utpote quae normam ipsi debent ostendere, secundum quam honesté, jucundé, utiliter, uno verbo feliciter vivere valeat. Scio equidem & fateor, Historiam atque Mathesin etiam ad studia Aulici pertinere, sed harum disciplinarum traditio, prout in Academis fieri solet, modo non planè negligatur, non ita corrupta est, atque doctrina ratiocinandi & morum. Igitur tentavi in praesenti libello, an naevos illos enormes Logicarum vulgarium evidenter demonstrare, & viam ratiocinandi planam, facilem, & spinis scholasticarum atque carduis (quibus equidem non habeo opus, quoniam Logica mea ponte asinorum caret) vacuam indicare valerem, ut istis ineptiis rationi recta adversis purgata disciplina nobilissima, in posterum forté nauseam minorem sentiant Aulici munditia assueti super studios Philosophicis. Inscripsi vero hunc librum meum, Introductionem ad Philosophiam Aulicam, quia non tam ipsa praecepta ratiocinandi continuo nexu trado (quae admodum pauca futura essent, & vix plura, quam, quae Epicurus in sua Canonica jam observavit) quam ipsos errores qua Cartesianorum, qua Peripateticorum ostendo». A questo allude Reinhold quando rappresenta il punto di vista “popolare” nella reazione alla metafisica idealistica e platonizzante di Leibniz, con il nome-simbolo di Epicuro, cfr. K. L. Reinhold, Versuch einer Beantwortung der von der erlauchten Königl. Ak. Der Wissenschaf. Zu Berlin aufgestellten Frage: “Was hat die Metaphysik seit Wolff und Leibniz gewonnen?”, cit., p. 201. 93 Cfr. R. Ciafardone, “Introduzione” a Ch. Wolff, Metafisica tedesca, cit., p. XXII: «WeltWeisheit è il termine impiegato da Thomasius per denominare la filosofia; essa evidenzia nettamente questa svolta antropologica e mondana della riflessione filosofica». 94 Secondo Wolff il fatto entra nella filosofia come informazione su cui applicare il metodo scientifico della definizione del possibile. Come tale esso non può essere oggetto di sapere ma, secondo la dizione rinascimentale, di “fede”; cfr. Ch. Wolff, Logica tedesca, cit., p. 116: «Per fede intendo l’assenso che si dà ad una proposizione sulla testimonianza di altri […]. La fede abbraccia quindi solo cose che sono accadute o debbono accadere. Le altre cose, infatti, si possono dimostrare e quindi le si può conoscere. Che però qualcosa sia accaduto, non lo si può dimostrare». Si può invece dimostrare, ed essere apodittici nella definizione del “possibile”, nell’insieme degli altri “possibili” che limitandosi l’un l’altro e così giustificandosi l’uno con l’altro, costituiscono il contenuto del sapere rigorosamente determinato. Cfr. G. W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, in Scritti filosofici, a cura di D. O. Bianca, 2 voll., II, UTET, Torino 1988, p. 505. Invece il sapere “statistico” dei popolari non compie il passaggio alla scienza, o assume l’unica veste scientifica possibile, che è quella non apodittica del “probabile”. I popolari oppongono quindi al mos geometricus la topica rinascimentale. Sarà

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Sul piano gnoseologico, Thomasius si mostra attento alle critiche mosse da Gassendi a Cartesio, e anticipa Locke nel difendere l’imprescindibilità dei sensi per la conoscenza. Se, nel giudizio di Cartesio, questi ingannano sempre, perché dubbio è tutto ciò che si origina dal corpo, al contrario per Thomasius i sensi non danno mai informazioni sbagliate: a sbagliare è l’intelletto che interpreta o elabora male l’informazione del senso95. Questo comporta anche il rifiuto della speculazione – cioè in sostanza dell’ontologia – il quale rifiuto coerentemente si coniuga, come abbiamo visto, con la preferenza per una filosofia “pratica” il cui scopo è accrescere la “felicità” degli uomini: Definio Philosophiam, quod sit habitus intellectualis instrumentalis ex lumine rationis Deum, creaturas & actiones hominum naturales & morales considerans, & in earum causas inquirens in utilitatem generis humanis96.

Da qui, oltre alla scelta rivoluzionaria di scrivere anche in tedesco, l’avvio di un pregiudizio anti-speculativo e anti-tecnico la cui conseguenza sarà rilevante in quel duraturo fenomeno, che qui si origina, rappresentato dalla “filosofia popolare” tedesca97, portatore di un presunto dilettantismo su cui ironizzeranno i pensatori speculativi sino ad Hegel. Si tratta quindi di un illuminismo che si occupa del passato per liberarsi del presente, con un interessamento soprattutto memorialistico che almeno per certi versi si inserisce nella “concezione didattico-pragmatica della storia” di matrice umanistica e poi appunto illuministica per cui la storia è ciceronianamente magistra vitae98. Quello storico è uno dei cardini di questo sapere rinnovato che se è probabile e non “distinto”, ha in compenso il pregio della diretta fruibilità nella vita: quella thomasiana costituisce quindi in generale una filosofia storica perché carica di implicazioni per una cultura dei saperi “positivi”99. È quindi anche con la storia che Thomasius intende un allievo di Thomasius, Rüdiger, a dare uno svolgimento adeguato alla logica del probabile, anche con il ricorso alla sillogistica, logica del probabile che in Thomasius è ancora tradizionalmente impostata come topica. 95 Cfr. F. Tomasoni, Christian Thomasius, cit., p. 43. 96 Ch. Thomasius, Introductio ad philosophiam aulicam, cit., p. 58. 97 Ivi, p. 67. 98 Per il ruolo di Thomasius in questa tradizione cfr. U. Muhlack, Geschichtswissenschaft im Humanismus und in der Aufklärung. Die Vorgeschichte des Humanismus, Beck, München 1991, pp. 44-46. 99 In giurisprudenza Thomasius propone di abbandonare la topica e l’innatismo per un accertamento effettivo degli usi giuridici nel senso già indicato da Pufendorf e da Grozio: cfr. F. Tomasoni, Christian Thomasius, cit., p. 9. Per un quadro generale del rinnovamento borghese ed empirico della cultura tedesca nell’eredità dell’esperienza di Thomasius, N. Merker,

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liberare la cultura contemporanea dai residui scolastici, e su questo piano la spinta essenziale non gli giunge tanto dalla critica razionalistica quanto dall’opposizione pietista all’ortodossia della chiesa luterana100. La valorizzazione thomasiana della storiografia filosofica, se è di carattere filosofico – e quindi interessante per il nostro discorso – perché alla filosofia, o meglio alla “Weltweisheit” vuole servire, assume allora un essenziale carattere pratico101. E la certezza dell’inutilità della metafisica, intesa come filosofia speculativa, – orientamento che più di altri corre il rischio di produrre “sette” perché separa il pensiero dalla verità dei sensi – rende secondario il problema della spiegazione della sua storia che, in termini kantiani, apparirà piuttosto una non-storia, e proprio perciò un problema di grande rilevanza filosofica. Dell’anticartesianismo, l’illuminismo thomasiano porta quindi il segno nel non voler essere né sistematico né speculativo, e nell’accettare come inevitabile, ma correggibile, emendabile, forse governabile, lo scadere della filosofia in setta, e della verità in dogmatismo. La maturità della ragione consiste nella forza di autocontrollo con cui cercare di rimanere nella condizione dell’eclettismo102. La presenza, negli scritti dei filosofi “thomasiani”, di cenni teorico-storici e di informazioni storiografiche presenta però per questo motivo un significato molto diverso da quello che avrà nei teorici dell’Aetas Kantiana e nello stesso Kant, che innesca anche in questo campo, come in quello della filosofia della storia, una tensione tra storico e filosofico che non può essere L’illuminismo tedesco. L’età di Lessing, Editori Riuniti, Roma 1989. Celebri e importantissime sono state le opere di Thomasius contro l’idea del reato di stregoneria su cui si veda il lavoro di Tomasoni, pp. 202-220. 100 Sul ruolo del pietismo come elemento durevole – e non transitorio come solitamente si ritiene – del pensiero di Thomasius, cfr. A. Villani, Christian Thomasius. Illuminista e pietista, Arte Tipografica, Napoli 1997. 101 Cfr. F. M. Barnard, The «Practical Philosophy» of Christian Thomasius, in “Journal of the History of Ideas”, 32, 1971, pp. 221-246. Cfr. Ch. Thomasius, Introductio ad philosophiam aulicam, cit., p. 45. 102 Si avverte ancora l’influenza di quest’idea nel programma della rivista di un più tardo eclettico come Hissmann, “Magazin für die Philosophie und ihre Geschichte”, “Vorbericht”, II, 1779, pp. 3-4: «Condivido il desiderio [riferendosi ad alcuni commentatori del precedente numero] che questo Magazin possa essere un deposito per la storia della Weltweissheit, che nella nostra patria non si studia con lo stesso impegno che si dedica ad altre conoscenze e che essa merita davanti ad esse come il solo stabile fondamento di tutte le scienze filosofiche. Infatti sta assolutamente nella natura della verità filosofica che il migliore insegnamento nella filosofia dogmatica debba essere storico; – racconto e messa alla prova delle diverse opinioni dei Weltweisen sopra gli oggetti, la cui natura e costituzione essenziale ammette una molteplicità di opinioni». In quest’ottica di indagine teorica entro una ricognizione storica senza confini, si segnala l’interesse in questo numero e nel seguente per un pensatore oggi secondario come Evemero.

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risolta nel tema accomodante del “probabile”, del progressivo e dell’eclettico. La storiografia di Brucker, che è il modello di riferimento ancora all’epoca di Kant, unisce l’esperienza thomasiana con il criterio della sistematicità nel frattempo imposto da Wolff103. Sappiamo che Brucker sta citando Thomasius quando definisce l’ecclettismo come «in nullius magistri verba iurare»104. Il senso della continuità universale, l’identificazione del contenuto della filosofia con la sapienza, il ricondurre l’errore alla fossilizzazione settaria della verità, la finalizzazione della filosofia alla felicità, sono tutti elementi di una valorizzazione che rendono anche in Brucker piuttosto vago il confine della storia della filosofia. Per Brucker, come si sa, il termine “critico” che compare nel titolo della sua opera maggiore significa appunto “eclettico”, sebbene lo stesso Brucker non si sia definito tale. La storia “critica” può persino risalire, come avviene già in Thomasius, a esperienze antidiluviane, e includere i più diversi temi. Anche se Brucker si pone il problema di definire il contenuto della filosofia, come non era più rinviabile dopo Wolff e la sua esigenza di chiarezza sistematica, non dà quindi una risposta meglio precisata105. E vedremo come vicini ai presupposti storiografici di Brucker sono ad esempio Feder e Platner, autori dei testi usati da Kant per i suoi corsi di lezione ma più a scopo polemico ed espositivo che per adesione106. Feder e Platner sono coloro contro i quali si indirizza la critica di Heydenreich e soprattutto quella di Reinhold nei due testi che iniziano la discussione sulla teoria della storia della filosofia nell’Aetas Kantiana. È stato considerato nel precedente paragrafo l’atteggiamento “leibniziano” che, in base alla tesi della continuità tra i sensi e l’intelletto, identifica la filosofia con la logica e l’ontologia. Poiché in tal modo il “pensare” non può che comportare anche il “conoscere”107, Cfr. M. Longo, “Le storie generali della filosofia in Germania”, cit., p. 537. J. Brucker, Historia critica philosophiae a mundi incunabulis ad nostram usque aetatem deducta, Lipsiae 1742-1744, 5 voll., IV, t. I, p. 38 e p. 44. Cfr. Ch. Thomasius, Introductio ad philosophiam aulicam, cit., § 90, p. 43. 105 Quella che Giovanni Santinello ha definito “metodologica”, in G. Santinello, Il problema metodologico nella storia critica della filosofia di Jakob Brucker, appendice a Metafisica e critica in Kant, Patron, Bologna 1965, pp. 293-315. 106 Per le lezioni di antropologia filosofica Kant adottava come manuale il Grundriß der Philosophischen Wissenschfaten di J. G. H. Feder (Findeisen, Coburg 1767). Cfr. G. Landolfi Petrone, “Saggio introduttivo” a I. Kant, Enciclopedia filosofica. Con un’appendice sull’attività didattica di Kant, Bompiani, Milano 2000, pp. 5-61. Feder è un eclettico che recepisce del wolffismo soprattutto la preferenza per la logica naturale e l’indirizzo pedagogico. Questi elementi sono programmatici nella sua diffusissima Logik und Metaphysik (Dieterich, Göttingen 1769). 107 In base alla tesi secondo cui «è impossibile qualsiasi cosa involga una contraddizione», se pensare significa attenersi al principio di non contraddizione, ogni qualvolta effettivamente 103 104

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le verità della speculazione – cioè i fondamenti della logica e dell’ontologia – sono sempre state “pensate”. Abbiamo anche considerato che in tale impostazione, se di progresso si può parlare, questo consiste soltanto nel maggiore chiarimento che nella modernità, cioè da quando sono rinate le scienze dopo il Medioevo, si sta raggiungendo in merito ad esempio al valore dei loro concetti. Si trova dunque qui, nell’idea thomasiano-popolare e in quella leibnizio-bruckeriana di storia della filosofia, la radice della differenza tra la storiografia tedesca che Kant si trova davanti e quella che verrà teorizzata dopo la Critica. L’eclettismo suppone che tutti i “filosofi” abbiano detto qualcosa di vero, e che le “verità” si possano raccogliere e unire in un fascio sempre più grande. Questo “fascio” non sarà però mai adeguato alla “verità”, di cui si fa esperienza storica ma che come tale si dà soltanto oltre la ragione108. I “pensieri” dei filosofi sono fragili, capaci soltanto di una verità relativa. Vincolata invece alla tradizione della metafisica, la storiografia “leibniziana” – che perciò si oppone a quella “popolare” – giunge alla conclusione secondo cui in tutti i filosofi che hanno operato in un’ottica di razionalità coerente si ritrovano motivi di perdurante validità in ordine alle discipline essenziali e tra loro connesse della logica e dell’ontologia. Sicché se per i popolari la storia è progresso, per i leibniziani – il caso esemplare sarà quello di Schwab – la storia della filosofia in quanto storia della logica e dell’ontologia sostanzialmente non progredisce ma si perfeziona. Quanto ci interessa avere evidenziato è che in entrambi i casi si afferma un modello “continuista” di storia della filosofia109. Nella kantiana “storia dell’uso speculativo della ragione” non ha luogo nessuno dei due movimenti supposti dall’eclettismo: quello reale della trasformazione delle “verità” in “sette”, e quello storiografico della liberazione delle “verità” racchiuse nelle “sette” per il laboratorio del filosofo illuminato. La filosofia, in assenza di consapevolezza critica, è già sempre e irrimediabilsi pensa si pensa il possibile, e quindi si sta conoscendo, cfr. Ch. Wolff, Philosophia prima sive Ontologia methodo scientifica pertractata, qua omnis cognitionis humanae principia continentur, [1736], in Gesammelte Werke, II, Bd. 3, § 79, p. 56. 108 Si dà infatti nella perfezione dei contenuti della Rivelazione: cfr. Ch. Thomasius, Introduzione alla dottrina dei costumi, a cura di R. Ciafardone, Sigraf, Pescara 2005, pp. 131-132. Sul carattere di pensiero “debole” di un certo illuminismo tedesco, da cui scaturiscono pessimismo teorico e fiducia religiosa, cfr. G. Tonelli, La «debolezza» della Ragione nell’età dell’Illuminismo, in Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, a cura di C. Cesa, Prismi, Napoli 1987, pp. 19-41. 109 Anche da questo punto di vista si conferma l’osservazione di Beiser per cui i due gruppi vanno considerati come l’ala empirista e quella razionalista della medesima cultura illuminista tedesca, cfr. F. C. Beiser, The Fate of Reason. German Philosophy from Kant to Fichte, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1987, pp. 165-169.

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mente settaria, e non può certo svilupparsi in modo eclettico, perché non ci sono verità parziali da raccogliere per avanzare, ma illusioni contrapposte da superare, come sul piano pratico fideismo, deismo e agnosticismo; oppure, sul piano teoretico, empirismo, innatismo e scetticismo. Di conseguenza, la storiografia kantiana rifiuterà anche l’idea, centrale invece per i leibniziani, secondo cui la qualità delle verità logiche e metafisiche ammette il cambiamento soltanto nella limitata misura del chiarimento relativo ai medesimi principi e alle loro immutabili conseguenze di valore sistematico nei campi del sapere. A entrambe queste concezioni, i kantiani obietteranno che la storia precedente la Critica è il tempo in cui ha dominato il mero “pensare” e non ancora quel “pensare” che è anche “sapere” (e quindi anche “sapere” del pensare, e cioè vera logica e vera metafisica) di cui Kant ha elaborato con il suo primo grande libro la necessaria propedeutica (e allo stesso tempo il primo “sistema”). Questa distinzione generale introdotta da Kant può essere allora in sede storiografica utilizzata anche come criterio per osservare la differenza tra l’idea di storia criticamente intesa e quelle opposte – ma dal punto di vista critico, almeno su questo punto convergenti – presentate nei campi dei “popolari” e dei “leibniziani”. Uno dei modi in cui si cominciò a comprendere la difficile opera kantiana, fu identificarne le strutture con le filosofie o le correnti filosofiche principali; si ebbe così il risultato che l’insanabilità delle loro contraddizioni reciproche non fu più soltanto evidente ma divenne comprensibile; trasferite e quasi “visualizzate” all’interno degli argomenti kantiani, tali contraddizioni si rivelavano significative di una generale difficoltà a procedere sul vecchio cammino. E divenne impossibile, o almeno poco utile, continuare a raccontare la storia della filosofia come una successione di sistemi diversi, senza confrontarsi con il fatto che questa successione, questa alternanza di sistemi l’uno confutatorio dell’altro, fosse il problema della filosofia110. Si preparò così un modo di affrontare la crisi contemporanea della filosofia, e di predisporsi a farne la storia, ben più profondo che nell’eclettismo o in Brucker, in cui storiografia e filologia quasi mascherano le difficoltà con la forza del dato. Un kantiano come Fülleborn ricorda come gli fosse rimasto oscuro il significato della filosofia critica, nonostante i molteplici tentativi di farsene un’idea. Finché, anche grazie alla “divulgazione” reinholdiana del criticismo, non fece questo ragionamento: i filosofi non sono d’accordo su nulla, né sul contenuto né sul metodo della filosofia; eppure c’è la necessità di riportare i principi dei vari sistemi a un “tutto” in modo da restituire alla filosofia il 110 Cfr. C. Ch. E. Schmid, Kritik der reinen Vernunft im Grundrisse, Krökersch, Jena 17943, p. 10 (Aetas Kantiana, 234).

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suo prestigio. Quando cominciò ad osservare la Critica della ragion pura in questa maniera, gli apparve chiara l’intenzione di Kant: Adesso la Critica mi sembrò un qualcosa di del tutto diverso da ciò che era stata prima per me. La considerai come la critica dei sistemi e diedi alle espressioni generali: dialettica dell’intelletto, antinomie della ragione e così via, i nomi dei filosofi le cui opinioni rientravano sotto una tale rubrica. Così il tutto guadagnò vita e connessione con il vivente111.

L’originalità della proposta kantiana rispetto alla discussione svolta nei decenni precedenti da coloro che anche per l’esempio di Thomasius avevano recuperato il senso di come fosse importante conoscere il passato della filosofia – un recupero che non era sfuggito agli stessi ambienti kantiani112 – sta allora nell’inserire la storia della filosofia come la “retrospettiva” di un’impresa filosofica. Questa, essendo “critica” nel nuovo senso, esige di riconoscere la razionalità anche di ciò che non ha trovato compimento, l’appartenenza alla ragione anche delle sue contraddizioni, le quali possono essere giudicate “necessarie” o “inevitabili”, sebbene rimangano tali, cioè contraddizioni, a testimonianza di un più radicale atteggiamento erroneo113. Si trattava quindi di correggere quanto fatto nella storia della filosofia con una reimpostazione globale del problema della conoscenza, entro un piano più ambizioso di quello pratico, tutto sommato rasserenante anche se almeno per certi aspetti politicamente avanzato, dell’illuminismo popolare114.

111 G. G. Fülleborn, Geschichte meines philosophiscen Studiums, in “Beiträge zur Geschichte der Philosophie”, III, 1793, p. 187, (Aetas Kantiana, 77/1/1). Cfr. anche il caso analogo in W. G. Tennemann, Lehren und Meinungen der Socratiker über die Unsterblichkeit, Akademische Buchhandlung, Jena 1791, pp. IV-VII. 112 Cfr. G. G. Fülleborn, Über Christian Thomasius Philosophie. Mit Auszügen aus seinen philosophischen Schriften, in “Beiträge zur Geschichte der Philosophie”, IV, 1794, pp. 1-115, (Aetas Kantiana 77/2). 113 È interessante osservare che il “ritardo” con cui appare il progetto critico, di per sé naturale e semplice, viene collegato a un’assenza di libertà filosofica, a una sorta di “cattività” in cui la metafisica teneva la ragione con l’apparente necessità delle sue affermazioni contrapposte, cfr. J. Beck, Erläutender Auszug, cit., p. 330. 114 Cfr. la ricchissima e simpatetica voce “Thomasius” a firma di D. Diderot, Encyclopédie, IV, in Oeuvres complètes de Diderot, èdition critique et annotès, prèsentèe par J. Lough et J. Proust, Hermann, Paris 1976, tome VIII, pp. 393-425.

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3. Metodo tipologico e atteggiamento dogmatico Nel caso di una disciplina che non è mai giunta finora a realizzare l’esigenza che ne è all’origine, e che quindi ancora propriamente non esiste, il criterio storiografico da applicare è perciò quello, assai particolare, del suo “Sollen”, e non del perfezionamento oppure della continua revisione dei suoi risultati. Come abbiamo già visto, il criterio dello scopo incompiuto115 genera una rappresentazione storiografica molto diversa da quella ordinaria, nella quale prevale non il fatto come tale ma il suo valore di esempio rispetto all’interesse della ragione che in esso (e nel suo contrario) ha cercato la via per compiersi. Partendo da tali osservazioni, dopo la Critica della ragion pura Kant è in grado di affiancare alle due alternative dogmatiche “razionalismo-empirismo” prima indicate come tipiche della visione storico-filosofica pre-critica, e allo scetticismo che ne derivava, una terza possibilità, sicché dapprima binario, lo schema kantiano si presenterà in seguito come una tripartizione, che con contenuti particolari a volte diversi, sarà però caratteristica in generale del suo sguardo storico-critico. Sebbene vi siano moltissime filosofie, ci sono soltanto tre “passi” della storia della metafisica: il dogmatismo, lo scetticismo e la critica. “Dogmatica” è tutta la filosofia, perché si occupa della metafisica in modo teoretico, sia che parta dall’esperienza sia che invece faccia prevalere l’autonomia della ragione; “scettica” è la filosofia che evidenzia le contraddizioni della filosofia dogmatica, a ciò fermandosi; “critica” è la filosofia che spiega a partire dalle strutture della ragione il fondamento delle contrapposizioni dogmatiche, il motivo generatore quindi dell’idealismo e dell’empirismo, servendosi dello scetticismo come di un necessario alimento, ma consumandolo e mettendo fine anche ad esso116. Si tratta di un quadro iperfilosofico di storia della filosofia, che

115 Per questo scrive Kant che «tutte le filosofie sino alla Critica sono essenzialmente non distinguibili», in Handschriftlicher Nachlass, AA, XX, 7, p. 335. Cfr. J. G. Buhle, Entwurf der Transscendentalphilosophie, cit., p. 41: «A causa della spaccatura tra i partiti filosofici, e a causa degli scettici che contestavano tutti, la filosofia in genere entrò in quel curioso antagonismo con la reale vita comune e i giudizi del sano intelletto umano, che essa gli poté apparire come praticamente inutilizzabile e anche come scienza teoretica dava l’impressione di un impegnativo e assurdo scervellarsi, il quale finiva in nulla e in sogni, con i quali era però connessa la spiacevole consapevolezza che si stava soltanto sognando». 116 I. Kant, Preisschrift über die Fortschritte der Metaphysik, cit., pp. 275-276, (tr. it., p. 83). Cfr. H.-J. de Vleeschauwer, L’evoluzione del pensiero di Kant, cit., p. 169: «La risoluzione del problema critico per eccellenza mediante l’opposizione fra l’empirismo e il razionalismo, costituisce una delle originalità dei Fortschritte, e invano si potrebbe cercare ciò precedentemente».

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sarà estremamente condizionante, riemergendo spesso nella successiva discussione, da Reinhold sino a Jenisch117. Il celebre ultimo capitolo della Critica sulla “Storia della ragion pura” è la matrice di questa storiografia tipologicamente costruita. Kant riduce a tre i problemi fondamentali della ricerca metafisica e in relazione ad ognuno di essi dà ordine a tutte le filosofie del passato, riassumendone le differenti posizioni nello schema di due possibili atteggiamenti contrapposti. Scrive che «rispetto all’oggetto di ogni nostra conoscenza di ragione, alcuni filosofi sono stati semplicemente sensualisti, altri intellettualisti». Ma «questa distinzione di scuole» va molto al di là di Epicuro e Platone, citati come massimi esponenti delle due tradizioni contrapposte, perché era molto più antica di entrambi e «s’è mantenuta a lungo ininterrottamente», e quindi non è in senso stretto né epicurea né platonica118. Altrettanto classificatorio è il discorso di Kant quando considera le filosofie «rispetto all’origine delle conoscenze pure della ragione» e «rispetto al metodo», inteso quale «procedimento secondo principi» con cui indagare la ragione: se in modo “naturalistico”, abbandonando la metafisica a favore del comune intelletto (cosa che Kant rifiuta perché mera misologia), o in modo “scientifico”, che a sua volta può essere dogmatico o scettico119. Si tratta di atteggiamenti pre-critici, i quali essendo tali sono ricorrenti120 e in questo senso “non storici” perché sempre possibili quando il problema dell’oggettività venga affrontato senza la “riforma” di cui il precedente svolgimento dell’opera ha cercato di fornire la dimostrazione. Tipizzazioni simili non sono esclusive del periodo critico: ad esempio, la già citata “Logica Philippi” in cui Kant riconosce Leibniz e soprattutto

Cfr. D. Jenisch, Über Grund und Werth der Entdeckungen des Herrn Professor Kant in der Metaphysik, Moral und Aestetik. Ein Acceßit der Königl. Preuß. Akademie der Wissenschaften in Berlin. Nebst einem Sendschreiben des Verfassers an Herrn Professor Kant über die bisherigen günstigen und ungünstigen Einflüß der kritischen Philosophie, Wieweg, Berlin 1796 (Aetas Kantiana, 137). 118 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., pp. 550-551, A853-854/B881-882, (tr. it., p. 520). 119 Ivi, p. 551, A854-856/B882-884, (tr. it., p. 521). Da questa impostazione è stata ispirata la ricerca di C. F. Staudlin, Geschichte und Geist des Skepticismus vorzüglich in Rücksicht auf Moral und Religion, 2.Bde., Crusius, Leipzig 1794. 120 Per questo motivo, nel medesimo passaggio Kant può trattare degli antichi cinici e di Rousseau come loro emulo moderno, cfr. I. Kant, Logik Philippi, cit., p. 330, (tr. it. parz. in G. Micheli, Kant storico della filosofia, cit., p. 280). Rousseau ha avuto un ruolo determinante nella curvatura degli interessi di Kant dal campo della ricerca naturalistica a quello della filosofia e della metafisica, cfr. A. Köster, Der junge Kant im Kampf um die Geschichte, Simion, Berlin 1914. 117

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Wolff come i maggiori autori nel campo della logica tecnica121, presenta una breve “Storia della logica” che anticipa lo stile schematico della “Storia della ragione” tratteggiata nella Critica. Queste schematizzazioni sono sempre state caratteristiche del Kant che guarda al passato, poco coinvolto da questioni storiografiche vere e proprie, e molto interessato invece a cogliere l’essenza logica di un pensiero alla luce di quello che la ragione, vero scopo della sua attenzione, ha cercato con esso di fare. Inevitabilmente però, questa prospettiva impoverisce la storia della filosofia, proprio nella misura in cui cerca di darne l’interpretazione più essenziale e filosofica, la quale dopo la Critica si risolve non più in uno schema ma in una giustificazione paradigmatica, che acquista significato quanto più si allontana dalla fisionomia dei singoli sistemi, citati con mero valore di esempio. È quindi la storia della ragione che Kant tratteggia, indicando così alcuni criteri che poi entreranno con forza nella teoria storiografica, ad esempio lo scarso rilievo che tutti i protagonisti della discussione sulla storia della filosofia daranno a quelli che si chiamavano i “destini” dei sistemi, cioè le vicende particolari della vita del filosofo e delle circostanze del filosofare, da ridimensionare se non quasi da eliminare perché contingenti rispetto al protagonismo della ragione che tramite quelle si manifesta. Il fatto che questa impostazione filosofica della storia della filosofia acquisti, parallelamente alla presenza della Critica nella cultura tedesca, il valore di un riferimento essenziale, spiega anche gli importanti effetti che ne sono derivati sulla pratica storiografica; per dare un altro esempio, mette in crisi il modello tradizionale che, secondo l’accezione latina del termine, poteva raccontare la storia della filosofia come successione e contrasto fra “sette”. Si può apprezzare questa trasformazione già soltanto considerando che Staudlin, nella sua ancora oggi importante opera sullo scetticismo del 1794, scritta in spirito post-kantiano, non può seguire l’esempio canonico di Brucker e di Platner e considerare gli scettici una “setta”. Lo scetticismo gli appare kantianamente come parte e funzione della fenomenologia della ragione filosofica: lo definisce come il contrario del dogmatismo, e lo rappresenta come un atteggiamento che non può essere ridotto né a uno stato d’animo né all’esperienza di 121 I. Kant, Logik Philippi, cit., p. 335, (tr. it., p. 285). Su Leibniz, ivi, pp. 337-338. Cfr. per apprezzare l’attaccamento kantiano al metodo di chiarezza e di subordinazione logica diffuso in Germania da Leibniz e Wolff, anche I. Kant, Logik Pölitz [1789], AA, cit., XXIV, 1, p. 509. Queste “logiche” si differenziano dal punto di vista dei contenuti, soprattutto nell’ultimo punto, perché avendo la seconda ad oggetto la metafisica, non avrebbe senso che si occupasse anche delle posizioni filosofiche che la negano per principio, come quelle “naturalistiche” e quelle scettiche. Significativo è per l’evoluzione del pensiero di Kant, che in questa “Storia della logica” venga già indicato Locke come il rinnovatore della disciplina. Per il ruolo di Locke nel rinnovamento della logica, cfr. anche I. Kant, Logik Blomberg, cit., p. 1.

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una scuola filosofica, essendo piuttosto «un’arte del pensiero»122, cioè qualcosa che si giustifica con la ragione stessa. Siamo quindi già nell’orizzonte di una feconda filosoficizzazione della storia della filosofia. Se li vogliamo intendere come un testo sui generis di storia della filosofia, e non di polemica contro Leibniz, I progressi della metafisica non costituiscono un’eccezione nell’attività di Kant, ma al contrario provano un interesse che accompagna tutta la sua formazione. Kant ha sempre avuto una grande attenzione per la storia della filosofia, in un certo modo comunicatagli dal suo antico docente universitario, Knutzen, un wolffiano con tendenze ecclettiche. La stessa Critica prende forma non soltanto nella polemica esplicita con alcuni orientamenti moderni e contemporanei, ma anche attraverso un dialogo meno evidente ma forse ancora più decisivo con la filosofia antica, e non unicamente con Platone, sicché tutta la storia della filosofia vi è chiamata in causa123. D’altra parte, poiché quest’opera rivendica la propria funzione in quanto primo “tribunale” in cui la ragione giudica se stessa124, è connaturato C. F. Staudlin, Geschichte und Geist der Skepticismus vorzüglich in Rücksicht auf Moral und Religion, cit., pp. 8-11. L’opera di Staudlin è un effetto del rinnovamento portato dal criticismo nella storiografia filosofica, il quale fa percepire a questo autore, che è inizialmente un leibniziano, come gli scritti di Brucker e di Diderot sull’argomento non siano più utilizzabili dopo il chiarimento kantiano, e occorra riconsiderare il fenomeno dello scetticismo come l’aspetto negativo della storia della ricerca del fondamento del sapere filosofico, e quindi come un versante della nuova storiografia “kantiana”: nelle opere di Kant, scrive Staudlin, «i miei dubbi vennero risolti, e molto di ciò che prima avevo pensato soltanto in modo oscuro, si ritrovò chiarito. In questo stato d’animo presi la decisione di scrivere una storia dello scetticismo e fare ricerche psicologiche sulla condizione emotiva scettica”, (ivi, p. V). Il fatto che lo scetticismo sia anche una condizione psicologica giustifica che si mantengano all’interno di una storia criticamente ispirata elementi biografici e interessi soggettivistici che ricordano lo stile di Brucker. Ma questi si inseriscono in una cornice critica, nella quale lo scetticismo diventa comprensibile come effetto negativo della contrapposizione tra l’idealismo dogmatico e l’empirismo dogmatico, cfr. ivi, pp. 144-145. Cfr. C. W. T. Blackwell, Skepticism as a sect, skepticism as a philosophical stance: J. Brucker versus C. F. Staüdlin, in The Skeptical Tradition around 1800, ed. by J. van der Zande and R. H. Popkin, Kluwer, Dordrecht/Boston/London 1998, pp. 343-359. 123 Sull’importanza di Platone per la critica a Leibniz nella Dissertatio del 1770 cfr. AA, II, § 3 e 7, p. 392 e pp. 394-395; tr. it., p. 427 e pp. 430-431. Su questa influenza insiste molto M. Wundt, in Kant als Metaphysiker. Ein Beitrag zur Geschichte der deutschen Philosophie im 18. Jahrhundert, Stuttgart 1924. Kant stesso racconta come si appropria del termine “aristotelico” di “categoria” cambiandone la nozione, cfr. I. Kant, Prolegomena zu jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., pp. 323-324, (tr. it., p. 163). Cfr. anche G. Micheli, Kant storico della filosofia, cit., pp. 86-165. Sul ruolo di Platone lungo tutto il pensiero kantiano, cfr. P. Manganaro, “Platone in Kant”, in Saggi e studi kantiani, CUEM, Catania 2008, pp. 178-203. Cfr. anche “La “memoria” incompiuta sui «Progressi della Metafisica»”, ivi, pp. 205-237. 124 Anche se va ricordato che persino questa espressione così “kantiana” è wolffiana, cfr. Ch. Wolff, Metafisica tedesca, cit., p. 51. 122

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a un tale sforzo risolutivo che essa si ponga anche come una sorta di redde rationem dei momenti fondamentali di questo passato, sia quando li rifiuta – ad esempio appunto Leibniz – sia quando ne utilizza alcuni aspetti: è il caso invece di Platone, di Aristotele e di Hume. Il repertorio di queste vive presenze, disposte dentro la struttura della Critica secondo l’opportunità problematica della costruzione, si incontra, esposto in maniera più organica, anche nei testi di storia della filosofia preparati da Kant soprattutto per la sua attività di insegnante, secondo un uso accademico non generalizzato e quindi molto indicativo. Né l’immagine kantiana della storia della filosofia muta soltanto in base alle scoperte speculative che preparano e compiono la svolta critica; essa si adegua anche agli sviluppi della ricerca storiografica contemporanea, assorbendone i maggiori risultati125, sicché si può dire che approfondimento critico e apprendimento storiografico sono in perenne dialogo dentro il filosofare di Kant: e d’altronde, egli stesso frequentemente ricollega l’origine della sua speculazione alle contraddizioni di cui si caratterizza la storia della filosofia, inserendosi dentro questa tradizione proprio con un gesto teorico che vorrebbe imprimerle una ridefinizione se non una rottura. Sono quindi disponibili molti materiali storico-filosofici kantiani, disseminati nella Critica, concentrati in saggi come I progressi della metafisica, compresi nel corpus delle lezioni, in appunti studenteschi, nell’epistolario e persino nelle opere a carattere etico e politico, come ad esempio Che cosa significa orientarsi nel pensiero. Coloro che come Heydenreich e Reinhold interpretano il ruolo di primi divulgatori della filosofia critica, cercando anche di sviluppare da Kant una teoria della storia della filosofia126, tentano di mostrare la fecondità dei cenni variamente distribuiti dal filosofo su questa questione. In tutti questi testi, si manifesta la peculiarità dell’atteggiamento di Kant verso la storia della filosofia, il fatto di essere dominato da una radicale propensione teoretica, tant’è che il significato di questi più o meno brevi quadri o riferimenti storici non è separabile dal modo in cui viene emergendo e poi risolto il problema critico127. La stessa cosa si osserva quando Kant rievoca momenti della storia della filosofia allo scopo di difendere l’originalità G. Micheli, Kant storico della filosofia, cit., pp. 169-170; circa il tema dell’inizio greco della storia della filosofia, cfr. però soprattutto, anche per quello che il tema della “grecità” della filosofia implica per la datazione del testo in questione, B. Bianco, “Introduzione” a I. Kant, Logica di Vienna, cit., pp. XLIX-LII. 126 Già nelle Lettere kantiane, il cui scopo è popolarizzare il criticismo, Reinhold dedica molta attenzione alla sua applicabilità storiografica, cfr. infra, pp. 91 e sgg. 127 Cfr. la lettera a M. Herz del 1772 in Briefwechsel, cit., pp. 129-135. I. Kant, “Storia della logica”, in Enciclopedia filosofica, cit., pp. 161-165. 125

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della sua impostazione contro censure volte a riassorbirne la “lettera” nello “spirito” di speculazioni precedenti, quella berkleyana prima e quella leibniziana poi128; o anche quando individua i momenti interessanti della storia della filosofia in quei pensatori che avvertono i problemi chiariti e risolti dalla Critica, come Locke e in misura assai maggiore Hume, il vero «segnale della riforma»129. In tutti questi casi, anche quando vengono presentate seguendo l’ordine storico, le filosofie non sono però da Kant tanto ricostruite quanto piuttosto “giudicate”, cioè spiegate come esperimenti che la ragione ha compiuto su di sé senza avere consapevolezza critica, esperienze quindi illuminanti soprattutto delle difficoltà in cui essa si agita, proponendosi problemi che senza consapevolezza critica non può risolvere. Si può quindi dire che Kant ha dato indicazioni metodologiche (poi ampiamente riprese) per la storiografia filosofica senza essere, né voler essere, uno storico della filosofia130. Questa circostanza contiene un’indicazione circa il fatto che la storia della storiografia filosofica dipende da quella della filosofia, nel senso che le sue scansioni più importanti seguono alla ridefinizione del compito e del modo del filosofare. L’interesse storico di Kant, condizionato dal criterio che abbiamo prima definito “dello scopo incompiuto”, si risolve sostanzialmente in una rappresentazione “tipologica”, di cui abbiamo indicato alcuni dei possibili esempi131: le filosofie gli interessano soprattutto come “tipi”, cioè come modelli ricorrenti degli “erramenti” della ragione, nel tentativo (al quale è obbligata dalla sua stessa natura) di comprendere la realtà in modo assoluto. L’unico riferimento alla contingenza storica che si incontra nei suoi testi “storiografici”, cioè il solo caso di una fattualità irriducibile alla ragione e tuttavia di una certa importanza, riguarda l’origine della filosofia, dovuta ad alcune eccezionali condizioni sociali e politiche prodottesi in Grecia dal V secolo: la libertà materiale e religiosa di un ceto dominante dotato di una acuta curiosità intellettuale, l’Atene di Anassagora e di Socrate. Kant si colloca quindi in modo netto nella discussione allora assai vivace tra chi indicava il luogo natale della filosofia in Grecia, con ciò esprimendo una certa idea circa i suoi contenuti, e coloro che invece sceglievano l’Oriente, perché convinti che ne facessero parte anche i filosofemi di antiche tradizioni, e 128 Cfr. i testi raccolti in I. Kant, Contro Eberhard. La polemica sulla Critica della ragion pura, a cura di C. La Rocca, Giardini, Pisa 1994, alla cui “Introduzione” si rinvia (pp. 1-54). 129 I. Kant, Prolegomena zu jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., p. 270 e p. 288, (tr. it., p. 41 e p. 79). 130 Cfr. S. Givone, La storia della filosofia secondo Kant, Mursia, Milano 1972, p. 42. 131 Cfr. per questa impostazione, G. Micheli, “Filosofia e storiografia: la svolta kantiana”, cit., pp. 919-927.

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che ci fossero contatti e debiti, forse originari, tra l’antica saggezza indiana e quella più recente dei Greci132. Ma al di là di questa questione particolare, che d’altronde Kant non tratta in modo filologico ma soprattutto con un’opzione teoretica, non si può dire che lo attraggano problemi specifici di storia della filosofia. Il suo tipico atto “storiografico” consiste nel classificare le filosofie come fenomeni della ragione in cui si manifestano le possibilità con cui essa tenta di soddisfare il primario bisogno di senso che la spinge oltre l’esperienza, prima che il rapporto con questa non fosse riorientato nel modo suggerito dalla Critica. Il criterio della tipizzazione, cui si ispira direttamente una storiografia come quella di Degerando che ne attua i presupposti in maniera assai efficace133, descrive il modello kantiano ma non basta a spiegare l’importanza che riveste per la discussione sulla storia della filosofia. Esso si basa sulla differenza tra ragione non critica e ragione critica, e rinvia perciò a un’altra differenza, più elementare, già apparsa nel nostro discorso e a cui ora occorre dare maggiore rilievo. Le “filosofie” pre-critiche separano gli elementi di cui la Critica ha mostrato necessaria l’unione, perché puntano o sull’immediatezza dell’esperienza come in tutti gli empiristi, o sull’universalità delle idee, come in tutti i razionalisti. Vediamo così con maggiore chiarezza perché, nella terminologia kantiana, il pensatore che incorre in queste unilateralità è detto “dogmatico”. Dopo aver descritto gli scettici, i quali sono un caso a parte nella storia della filosofia, Kant dice che i dogmatici si suddividono 1. in quelli che filosofarono partendo dai principi della sensibilità e 2. in quelli che filosofarono partendo dai principi della ragione134.

Kant collega sempre il primo gruppo di dogmatici al nome di Aristotele, emblema di uno specifico atteggiamento; il secondo al nome di Platone, simbolo di ogni idealismo, come quello di Cartesio, di Berkeley o di Leibniz. Anche se questa citazione è tratta da un testo di lezioni che dovrebbe risalire al 1770 – la “Logica Philippi” – l’accezione di dogmatico si conserva anche nella Critica e fino a I progressi: dogmatico è colui che prende una parte per condizione di tutta la conoscenza, che fa valere una funzione della ragione sacrificandole ogni altra, cosa che può avvenire soltanto “senza una critica preliminare” del Sull’apparente differenza circa tale questione tra testi pre-critici e post-critici, cfr. M. Capozzi, Kant e la logica, cit., pp. 335-338. 133 Cfr. J. M. Degerando, “Introduction” a Histoire comparée des systemes de philosophie relativement aux principes des connaissances humaines, Henrichs, Paris 1804, pp. VII-XXXIX. 134 I. Kant, Logik Philippi, cit., p. 327, (tr. it., p. 276). 132

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suo potere135. Come abbiamo appena visto, anche nella “Storia della ragion pura” della Critica, dogmatico è il metodo scientifico non scettico, e quindi dogmatica è ogni filosofia tranne quella critica, dato che lo scetticismo non è filosofia, nonostante la sua utilità perché la ragione rimanga sensibile alla propria insufficienza. In questo senso già il testo della “Logica Philippi” afferma: Si è dogmatici quando le asserzioni della ragione non sono fatte oggetto di ricerca, ma si ritiene di averle già trovate136.

Se esistono quindi alcuni tipi ricorrenti di filosofia pre-critica, (i quali ricorreranno sempre nella filosofia non critica) ognuno è però ugualmente “dogmatico”: si rivelano variazioni interne a un unico atteggiamento137; così la filosofia, cioè il modo ben fondato di porre il problema dell’oggettività, comincia con la Critica, «una scienza in sé del tutto nuova»138 che per un verso segna la fine della speculazione iniziata in Grecia, e per l’altro ne indica «una nuova nascita»139, garantita dalla sicurezza di un punto di vista finalmente trascendentale. Se si mette in evidenza la Critica come evento, come linea di demarcazione, il suo risultato consiste soprattutto nel presentare due maniere diverse di fare “filosofia”, quella del passato e quella avvenire, della quale essa vuole mostrare con procedimento sintetico la realtà. Di conseguenza, al di là, – o come sarebbe meglio dire – “al di sotto” della tipizzazione che riconduce le “filosofie” storiche a modi della ragione aporetici e antagonistici, il Kant critico pone un criterio di lettura della “storia della filosofia” ancora più semplice: le “filosofie” storiche sono accomunate dall’essere state prodotte secondo una medesima struttura di pensiero. In quanto pre-critici, la stessa logica opera nei pensatori “sensualisti”, come negli “intellettualisti”, negli “empiristi” Aristotele e Locke, e nei “noologisti” Platone e Leibniz. Il filo conduttore della storia della ragione nel suo uso speculativo è quindi il dogmatismo, poco importa se razionalista o empirista, se sensista o idealista. 135 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 22, BXXXVI-XXXVII, (tr. it., p. 26); I. Kant, Preisschrift über die Fortschritte der Metaphysik, cit., pp. 262-263, (tr. it., p. 69). 136 I. Kant, Logik Philippi, cit., p. 327, (tr. it., p. 276). 137 A tale proposito, occorre precisare che, sebbene abbiamo parlato fin qui di storia della filosofia, in effetti sarebbe stato meglio dire che per Kant essa è propriamente la storia della ragione nel suo uso speculativo e non della filosofia, che se è tale è ovviamente sempre critica e non dogmatica: un po’ come l’illuminismo, che non c’è ancora ma soltanto inizia nel “nostro secolo”; cfr. I. Kant, Che cos’è l’illuminismo?, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 54. 138 I. Kant, Prolegomena zu jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, cit. p. 279, (tr. it., p. 57). 139 Ivi, p. 257, (tr. it., p. 7).

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

Le sole eccezioni al dogmatismo – dato che gli scettici non rientrano nella storia della ragione speculativa – sono Epicuro, l’unico pensatore teoretico realmente coerente140 e Socrate, l’unico pratico. La Critica non ferma la ripetizione di questa alternanza nel comune dogmatismo che costituisce la condizione per la struttura tipologica della storia kantiana della filosofia: la classificazione secondo problemi fondamentali e atteggiamenti costanti è resa possibile dal fatto che prima della Critica, o senza di essa, ogni filosofia è costruita in base alla stessa logica, la quale poi assume alcune forme peculiari, a seconda di dove stabilisca il suo punto d’appoggio, se nel soggetto o nell’oggetto, forme peculiari che, astratte dalle loro configurazioni “positive” e rese così trascendentalmente paradigmatiche, possono essere utilizzate come criteri storiografici. Poiché una sola è la logica filosofica che la genera, la contraddizione che questa storia presenta rimane inesplicabile per lo storico che non ha consapevolezza critica, e che di conseguenza non riconosce il dogmatismo sottostante a filosofie per altro verso – cioè in apparenza – contrapposte141. Lo storico non critico cerca di spiegare quindi differenze che esistono soltanto sul mero piano, contingente, della vicissitudine storica. La differente pelle delle filosofie pre o non critiche nasconde però un unico organismo razionale. Se quindi il modello della tipizzazione può agire in Kant anche prima che emerga la prospettiva critica, con questa si arricchisce di valore, perché non soltanto si può organizzare l’intero materiale della storia della filosofia in due atteggiamenti ricorrenti, ma si può anche dare un’unica ragione di essi. Se la tipizzazione può essere cioè usata anche senza consapevolezza critica, con questa si può anche spiegare perché nella storia della metafisica si osservi l’incalzarsi senza conclusione dei due atteggiamenti speculativi. Quello schema che Kant si 140 Cfr. I. Kant, Logik Philippi, cit., p. 336: Epicuro «insegnò dottrine che si fondano sull’esperienza. Una tale logica doveva ovviamente procurare una grande utilità all’intelletto tramite la conferma delle conoscenze, e i casi della sensibilità. Ma considerata sino in fondo essa altro non era che un semplice organo della fisica». Sulla coerenza di Epicuro, “l’antimetafisico dell’antichità”, al cui nome si lega nel Settecento il processso di modernizzazione e di de-scolasticizzazione della logica, cfr. anche I. Kant, Metaphysik Volckmann, in Kant’s Vorlesungen, AA, XXVIII, 1, pp. 375-376, (tr. it., in G. Micheli, Kant storico della filosofia, cit., pp. 296-297). 141 Cfr. J. C. Beck, Grundriss der critischen Philosophie, Renger, Halle 1796, p. 188: «La filosofia speculativa possiede la peculiarità, rispetto ad altri tipi di impegno razionale, di non poter condurre i suoi concetti alla comprensibilità. Finché il filosofo speculativo stesso non conosce il luogo nel quale sta, non può divenire consapevole di ciò in cui consiste la comprensibilità. Ma colui che vuole giudicare le speculazioni di altri, deve essere un filosofo trascendentale. Chi quindi pensa di fare una storia della ragione speculativa, e tuttavia non è un filosofo critico, riprodurrà in modo incomprensibile una serie di incomprensibilità».

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trascina da Knutzen, rimane materialmente lo stesso, ma muta da un punto di vista qualitativo, perché la Critica permette di trasformare il risultato di un’osservazione in quello di una giustificazione. La storia della ragione speculativa, durante la quale la metafisica è trattata come oggetto di conoscenza, è il ripetersi dei modi della ragione dogmatica. È proprio del pensiero dogmatico, come Kant aveva mostrato nella “Dialettica trascendentale”, svilupparsi in unilateralità e in contrapposizioni. Considerare però la molteplicità delle filosofie come se ci fosse una ragione per ogni filosofo, e fare di quelle una sorta di opinioni, traendone la certezza che nel suo complesso la filosofia è inutile o impossibile, significa farsi ingannare dall’apparenza. È questo il contributo di Kant alla storia filosofica della filosofia: non ci può essere storiografia filosofica senza la filosofia nel doppio senso oggettivo e soggettivo per cui non c’è storia perché non c’è ancora filosofia e non ci può essere comprensione dei tentativi attinenti la dimensione della filosofia, se non alla luce della filosofia: insieme questi due motivi segnano veramente una rivoluzione142. Chiedersi in che cosa consiste il criticismo storiografico, significa quindi chiedersi quale sia la logica del dogmatismo speculativo cui la Critica mette fine, allo scopo di evidenziare, al di là dei “tipi” diversi, quali sono le strutture comuni alle filosofie precritiche. In un certo senso, l’autoconsapevolezza con cui Kant osserva il se stesso degli anni sino al 1770 si estende all’intero passato della filosofia. Tutta la speculazione ha subito il “sonno dogmatico”. Anche Kant è dovuto passare per il salutare abbraccio dello scetticismo moderato e problematico dei Sogni di un visionario, e affrontare con la Dissertazione del 1770 l’insidia di comporre ancora entro un quadro “leibniziano” differenze tra conoscenze sensibili e conoscenze razionali che ormai erano invece pronte a essere riconosciute con forza143. Ma, malgrado le obiezioni di EnesidemoSchulze, non è vero che lo scetticismo rimane la sua ultima parola, come meno ancora diventa reale il pericolo di un riemergere dell’idealismo dalla matrice leibnizio-wolffiana. La Critica sta quindi al centro di tensioni teoriche e di tradizioni concettuali e terminologiche proiettate nell’inconcludenza della storia della ragione speculativa e riverberate al suo interno144. Intesa come linea di demarcazione, la Critica si presenta come il margine di un confine J. G. Buhle, Entwurf, cit., p. 183. Sul superamento della posizione assunta nella Dissertazione del 1770, cfr. R. Ciafardone, Critica della ragion pura. Introduzione alla lettura, La Nuova Italia, Roma 1996, pp. 55-59. Per un’analisi delle strutture della Critica, cfr. M. Vetö, De Kant a Schelling. Le deux voies de l’idealisme allmande, Million, Grenoble, 2, I. 144 Cfr. R. Pozzo, Kant und das Problem einer Einleitung in die Logik. Ein Beitrag zur Rekonstruktion der historischen Hintergrund von Kants Logik-Kolleg, Lang, Frankfurt a. M. 1988. 142

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

con cui si dividono e oppongono due logiche della filosofia, due grandi aree, che indagheremo per brevità indicandole nelle alternative “organo o canone”, “aggregato o sistema”, “ontologia o analitica”. Con questi concetti contrari si indica ciò che la filosofia è stata in passato e ciò che invece è tenuta a essere in futuro, una volta appropriatasi dell’esperienza critica. Cerchiamo di vedere brevemente che cosa Kant intende con queste opposizioni.

4. Organo o canone Se è possibile schematizzare le indicazioni date da Kant a proposito della storia della filosofia nella Critica e in alcuni scritti che ad essa più direttamente si collegano, come i Prolegomeni, si ottiene questo quadro: tutta la riflessione precedente la “scoperta” rappresentata dal criticismo non è storia della filosofia, ma “storia dell’uso della ragione” in senso speculativo. La storia della filosofia infatti inizia con la Critica: quella che si chiama la “sua” storia è, piuttosto, soltanto lo stadio di una libera speculazione, durante il quale la ragione non rischiarata asseconda la sua naturale tendenza alla conoscenza di se stessa, del non sensibile e dell’incondizionato, ma i suoi sforzi si esauriscono nel destino cui va incontro ogni metafisica, di essere smentita e soppiantata, «puerili sforzi di cercar di acchiappare delle bolle di sapone»145: Nessuna delle metafisiche fin qui esposte, per ciò che concerne il suo scopo essenziale, si può dire che realmente esista.

Poiché «finora» la metafisica è stata «soltanto tentata»146, «la filosofia non c’è ancora»147, e non c’è quindi neanche una sua storia. In che cosa consiste «la storia dell’uso della ragione in senso speculativo»148, che Kant consideI. Kant, Prolegomena zu jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., p. 292, (tr. it., p. 89). Sul fatto che lo scetticismo sia del tutto giustificato nella fase pre-critica della storia della filosofia, cfr. il passo molto efficace in J. G. Buhle, Entwurf, cit., p. 40. Cfr. anche J. S. Beck, Grundriss der critischen Philosophie, cit., pp. 16-19. 146 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 39, B18, (tr. it., p. 44). 147 I. Kant Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, cit., p. 25, (tr. it., p. 20). 148 I. Kant, Logik Pölitz, in Kant’s Vorlesungen. Vorlesungen über Logik, AA, XXIV, 2, p. 534: «Non esiste una tale vera filosofia. Se impariamo a filosofare, dobbiamo allora considerare tutti i sistemi della storia della filosofia soltanto come storia dell’uso della nostra ragione e oggetto dell’esercizio della nostra capacità di critica»; in questo passo non c’è, come si vede, soltanto un giudizio globale circa il fatto che la storia dell’uso della ragione speculativa non è ancora storia della filosofia, ma si manifesta anche l’esigenza che sempre in un certo senso la storia della filosofia sia considerata come non data, appunto perché essa esiste speculativamente 145

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ra la vera denominazione da usare per il passato della “filosofia”? Per una prima risposta, possiamo ricorrere alla distinzione tra “organo” o “canone” della conoscenza, che si trova subito anche nella Critica, della quale forma uno dei momenti ricorrenti, e che Kant definisce con particolare chiarezza nella Logica: «Per organo noi intendiamo una guida alla produzione di una certa conoscenza». Esso presuppone quindi che si conosca già l’oggetto del quale, seguendo certe prescrizioni specifiche in cui si attua il suo ruolo di strumento, si può ampliare il sapere. Ad esempio, la “logica generale”, cioè semplicemente formale, non può essere un organo perché non avendo rapporto con alcun oggetto, ma anzi prescindendo da questo per occuparsi soltanto delle regole della conoscenza discorsiva, deve presentarsi come “canone”. La matematica invece è un organo perché conosce sia il proprio oggetto che le regole con cui avanzare nella padronanza di esso. Al contrario dell’organo, infatti il canone non produce alcun ampliamento della conoscenza ma tratta delle «condizioni sotto le quali l’intelletto può e deve accordarsi soltanto con se stesso: le leggi e le condizioni necessarie del suo retto uso»149. Questa distinzione precede quella tra logica generale e logica trascendentale esposta nella Critica, nel senso che entrambe sono considerate da Kant un canone, avendo il compito di dimostrare, in ambiti diversi, i limiti entro cui l’operare della ragione rimane legittimo150. La differenza più indicativa posta da Kant tra la logica generale e quella trascendentale riguarda l’oggettività: la generale è indifferente quanto all’oggetto, ed è quindi perfettamente formale; mentre la trascendentale contiene le forme logiche dell’oggettività possibile, le quali quindi vengono chiamate “categorie” perché sono, come dice la vecchia parola aristotelica, predicati

nell’atto del suo originale essere pensata, secondo il fondamento della filosofia kantiana per cui non è filosofico imparare la filosofia. 149 I. Kant, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, cit., p. 13, (tr. it., p. 7). Nella Critica si osserva che la logica generale non è canone soltanto quando agisce come «logica dell’uso speciale dell’intelletto», vale a dire «quale organo di tale o tal’altra scienza», (Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 75, A52-B76, tr. it., p. 78); nella Logica si fa a questo proposito appunto l’esempio della matematica, (p. 7). 150 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 129, B168, (tr. it., p. 130). A p. 517-518, A796/ B824, (tr. it., p. 491): «Io intendo per canone il complesso dei principi a priori del retto uso di certe facoltà conoscitive in generale. Così la logica generale, nella sua parte analitica, è un canone per l’intelletto e per la ragione in generale, ma solo rispetto alla forma, perché essa astrae da ogni contenuto. Così l’Analitica trascendentale è stata il canone dell’intelletto puro; perché questo soltanto è capace di vere conoscenze sintetiche a priori. Ma dove non sia possibile il retto uso di una facoltà conoscitiva, non c’è canone». È vero che a p. 27 si legge di «una ragion pura speculativa, che possiede una vera struttura organica, nella quale tutto è organo», ma qui organo non è opposto a canone quanto invece sinonimo di sistema.

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

elementari degli oggetti. Nell’essere canone si manifesta però la loro affinità, consistente nel fatto che entrambe le logiche sono modi con cui opera l’intelletto unificando rappresentazioni che gli sono date, sia quando elabora per implicazione unità analitiche entro rappresentazioni già formate, sia quando agisce sinteticamente rispetto alla percezione, rendendo conoscitiva l’esperienza senso-intuitiva tramite la categoria: La stessa funzione, che dà unità alle diverse rappresentazioni in un giudizio, dà dunque unità anche alla semplice sintesi delle diverse rappresentazioni in una intuizione; unità che, generalmente parlando, si chiama il concetto puro dell’intelletto151.

Così lo stesso intelletto, il quale «non è altro che la facoltà di unire a priori»152, appunto con le stesse operazioni per cui nei concetti, mediante l’unità analitica, produce la forma logica di un giudizio, produce altresì, mediante l’unità sintetica del molteplice dell’intuizione in generale un contenuto trascendentale nelle sue rappresentazioni153. Il fatto che le due logiche, nel loro fisiologico ruolo di canone, suppongano la stessa azione, cioè la ricerca di unità di un molteplice, viene alla luce soprattutto nella “deduzione metafisica” della “tavola delle categorie” da quella dei giudizi, deduzione che nel passaggio dalla logica generale a quella trascendentale mostra la loro contiguità, mentre ne marca la differente efficacia154. Con questa operazione, Kant vuole mostrare che le categorie si giustificano attraverso l’identità con le regole logiche formali, la cui necessità apodittica assicura anche le categorie dal pericolo di vedersi attribuire un valore meramente psicologico quando, unendo intuizioni, diventano forme conoscitive sintetiche155. Ivi, A79-B105, (tr. it., p. 95). Ivi, p. 110, B135, (tr. it., p. 112). 153 Ivi, pp. 91-92, A78-80/B103-105, (tr. it., pp. 95-96). 154 Un tentativo di dimostrare completezza e definitività della deduzione kantiana, in K. Reich, Die Vollständigkeit der Kantischen Urtheilstafel, Berlin 1948. Questa deduzione è peraltro uno dei passaggi più contestati dell’intero criticismo, perché sembra che in questo modo le “categorie” che dovrebbero essere la condizione di ogni pensabilità, richiedano per essere individuate e fondate, il riferimento a strutture formalmente logiche, come quelle dei giudizi. 155 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 103, A91-92/B123-124, (tr. it., p. 106). Insieme alle frequenti conferme date nella Critica, questa unità è resa evidente dal parallelismo tra la Logica e alcune articolazioni della Critica: le categorie dedotte nell’“Analitica trascendentale” si radicano infatti nelle funzioni logiche generali e formali trattate nella “Dottrina generale degli elementi” della Logica, e in particolare nel secondo capitolo “Dei giudizi”, così come le formazioni ideali della “Dialettica trascendentale” si connettono alle stesse figure esaminate da un punto di vista solo formale nel terzo capitolo, “Delle inferenze”. Cfr. L. Scaravelli, 151 152

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Esiste quindi un fondamento generale dell’attività logica: dare forma razionale e unificare un molteplice sono da considerare la stessa cosa; su questa base, come noto, Kant non ammette la possibilità di un’intuizione intellettuale che varrebbe appunto come un’eccezione rispetto a questo fondamento, cioè come l’ipotesi di un atto conoscitivo non logico, il quale, non istituendo alcun collegamento, non comportasse unificazione ma cogliesse l’identità. Unire un molteplice significa dare di esso una rappresentazione coerente, sicché si può dire che per Kant pensare equivale a introdurre la non contraddizione, a far valere questo principio come vincolo razionale. Data questa definizione generica di cosa significa pensare, occorre però anche evidenziare perché questo si articola in modi diversi, dando luogo appunto a logiche diverse. Questo moltiplicarsi delle logiche avviene in base alle condizioni in cui il pensiero si trova ad agire, cioè rispetto alla qualità dell’oggetto cui viene riferito. La differenza tra logica generale e logica trascendentale è una differenza di funzione, che viene definita da Kant in termini di merito, di diverso “materiale” logico trattato e quindi di differenti modalità di trattarlo. Infatti, dopo che Kant ha riconosciuto la formalità della logica e confutato l’impostazione realistica wolffiana, contestando così ontologia e idea della logica come ars inveniendi, diventa possibile scindere il campo della logicità secondo differenze che in essa vengono determinate a priori in base al tipo di contenuti, che devono essere pensati. Il perché delle diverse specie di logica, “generale, “trascendentale” e “dialettica” diventa allora visibile e si giustifica mettendo in evidenza quali differenze si impongono al principio di contraddizione, elemento universale della logicità, relativamente all’oggetto. Se infatti l’oggetto cui questo principio si riferisce è un’unità data, la sua efficacia, ovvero la ricerca di una non contraddizione in esso, non può che consistere nell’esporre, tramite analisi, la coerenza interna tra le sue parti o “note”, e questo avviene secondo le stesse regole indifferentemente per ogni oggetto; se invece si ha a che fare con molteplici rappresentazioni indipendenti, quali le unità spazio-temporali generate dalla sensibilità, lo stesso principio di contraddizione da analitico si converte in sintetico, perché governa la definizione del rapporto di necessità che può concepirsi come legame, secondo un certo numero di modi di relazione, che attengono alla soggettività e non sono ulteriormente giustificabili. Se è allora vero che per Kant la logica dà sempre regole, è anche vero che le Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze 1990, p. 238: «È la saldatura fra le categorie, (che poi avranno funzione trascendentale) e la struttura logica del giudizio della logica formale. È questa saldatura o questa connessione ciò che si chiama Deduzione metafisica».

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

regole della logica “generale” altro non sono che “formule”, criteri logici indipendenti dall’oggetto, mentre le regole della logica “trascendentale” sono “principi”156, modelli della “logica della verità” in quanto definizioni formali dell’oggettività possibile. Trovare e “classificare” questi modi, che nel loro reciproco rapporto formano la finalità della ragione, è il compito dell’unica metafisica che possa essere scienza, quella della ragione, quale si trova sviluppata nella Critica della ragion pura. In quanto principi, questi concetti non possono essere tratti analiticamente, né costruiti con l’ausilio dell’intuizione pura, come le immagini della geometria, ma possono essere invece mostrati soltanto in modo discorsivo, perché appunto di tratta di concetti e non di quantità. Anche se poi in senso espositivo è possibile parlare di una loro “Analitica”, quale risulta dalla distinzione delle diverse modalità. In questo senso, cioè per mostrare che l’indagine speculativa sulla ragione può compiersi unicamente in modo sintetico-discorsivo, Kant nei Prolegomeni scrive che i concetti a priori che provengono dal puro intelletto e dalla pura ragione […] mai e poi mai possono sorgere seguendo soltanto il metodo dell’analisi.

Sta qui la difficoltà del fare filosofia per Kant e l’impossibilità di ricorrere alla scelta suggestiva ma fuorviante, fatta da Leibniz e Wolff, di servirsi di metodi matematici (o comunque analitici) anziché di argomentazioni. Quando cioè Kant afferma che «essi [i concetti sintetici a priori] richiedono anche un tutt’altro principio»157 oltre quello di contraddizione, sebbene sempre in conformità con esso, si riferisce al procedimento con cui i concetti puri dell’intelletto possono essere ritrovati, e non al loro sorgere dalla natura unificante della ragione governata a ogni livello logico, generale, trascendentale e dialettico, dalla non contraddizione, in un governo che si realizza differenziandosi in base agli oggetti e quindi all’uso, in regole analitiche, coerenze per costruzione sulla base di intuizioni, principi di giudizi sintetico-intuitivi, apparenze sintetiche a priori senza alcuna intuizione e quindi metafisiche158. L’azione logica fondamentale, per cui pensare significa unire, si manifesta in tutti questi distinti atteggiamenti della ragione, benché in ognuno di essi sia impegnata a trovare il significato nella ricerca della non contraddizioI. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 132, A135/B174, (tr. it., p. 134). I. Kant, Prolegomena zu jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., p. 267, (tr. it., pp. 30-31). 158 Cfr. M. J. Vàzquez Lobeiras, Die Logik und ihr Spiegelbild. Das Verhältnis von formaler und traszendentaler Logik in Kants philosophischer Entwicklung, Lang, Frankfurt a. M. 1998, pp. 96-105; p. 116. 156

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ne; potremmo quindi dire che le diverse “logiche” kantiane sono diverse funzioni della non contraddizione. Di questi atteggiamenti della ragione abbiamo finora considerato soltanto l’analisi e la sintesi sul cui ben diverso valore gnoseologico Kant costruisce la sua Critica, riconoscendo come la logica analitica possa essere soltanto “formale”, mentre quella sintetica costituisce una logica della conoscenza, nella cui verifica consiste il successo della “rivoluzione copernicana” rispetto alla tradizione filosofica sia di tipo empirista che razionalista. Si può così misurare, almeno sul piano più generico, quanto Kant si sia allontanato dalla logica wolffiana; una presa di congedo tanto più significativa, in quanto ne rivela anche l’influenza incancellabile. Anche rispetto a Wolff, si nota infatti come quella kantiana sia una ricostruzione la quale più che escluderne qualcuno, dà ordine ai principali modelli logici tra i cui conflitti prende forma il lavoro della Critica. Per Wolff il principio supremo della logica è, come nella tradizione aristotelico-scolastica, quello di contraddizione; il principio di ragion sufficiente ne è un’applicazione o comunque da esso deriva come cardine della giustificazione, e quindi sempre della non contraddizione, nel rapporto tra gli enti. Nella prospettiva critica, il principio di contraddizione non può essere considerato che «il principio supremo dei giudizi analitici»159, e non è più ammissibile quello sviluppo ontologico che ad esso Wolff dava nelle articolazioni rese possibili dal principio di ragion sufficiente. Nella prospettiva critica i due principi, pur mantenendosi nella stessa, innegabile dipendenza logica, si separano infatti quanto all’esito conoscitivo, al punto da poterne concludere che non rientrano più nella stessa logica. In Kant, il principio di ragion sufficiente può perdere l’aspetto 159 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 141, A150/B190, (tr. it., p. 143). In quanto meramente formale, il principio di contraddizione non può essere rappresentato in termini temporali, ivi, p. 143-144, (p. 144). Cfr. J. Ch. Hoffbauer, Analytik der Urtheile und Schlüsse. Mit Anmerkungen meistens erlaeuternden Inhalt, Hemmerde und Schwetschke, Halle 1792, (Aetas Kantiana, 107). Hoffbauer propone una logica di tipo oggettivistico, per cui la verità consiste nella pensabilità, (cfr. p. 114). Soprattutto a p. 109 contesta il divieto di Kant a introdurre una determinazione temporale nel principio di contraddizione. Gli replica Kiesewetter nel Grundriss einer allgemeine Logik nach Kantischen Grundsätze, Lagarde, Berlin 1792, § 19: cfr. la quarta edizione del 1824, pp. 50-55, (Aetas Kantiana, 144/1). Diverso invece il caso del principio di ragion sufficiente che esplicitando rapporti di successione logica, fornisce la base formale per le relazioni sintetiche, le categorie, le quali suppongono rapporti di tempo e li rendono logici secondo necessità. Hoffbauer eserciterà la sua maggiore influenza nella fase post-kantiana, in particolar modo su Fries, con i suoi studi di logica analitica; cfr. a questo proposito, S. Poggi, I sistemi dell’esperienza. Psicologia, logica e teoria della conoscenza da Kant a Wundt, il Mulino, Bologna 1977, p. 155 e pp. 161-164. Cfr. J. Ch. Hoffbauer Anfangsgründe der Logik, Halle 1795 e soprattutto Anwendung der Analysis in den philosophischen Wissenschaften, Reclam, Leipzig 1810, (Aetas Kantiana, 112).

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

analitico e deduttivo, con il quale Wolff si assicurava la perfetta esaustività speculativa dei concetti, e se ancora opera ovviamente all’interno della logica formale, ha il suo vero regno nella logica trascendentale, dove si converte nei modi dell’oggettività possibile della relazione tra elementi indipendenti, come si evince dal più semplice degli esempi, quello relativo alla categoria di causa: Questa regola per determinare qualcosa nella successione cronologica, è che in ciò che precede ha da trovarsi la condizione sotto la quale segue sempre (necessariamente) l’evento. Dunque, il principio della ragione sufficiente è il fondamento dell’esperienza possibile, cioè della conoscenza oggettiva dei fenomeni, rispetto al loro rapporto nella successione nel tempo160.

Se allora il principio di contraddizione è il «supremo dei giudizi analitici», quello di ragion sufficiente, per il quale ogni ente deve essere reso possibile da un altro, e stare quindi con questo in un rapporto reale e logico, assume un prevalente carattere “trascendentale” (nel senso oggettivo-kantiano di questo termine), con cui la non contraddizione, che comunque opera dentro di esso, è trasportata dal funzionamento analitico nel campo delle conoscenze fenomeniche. Esistono quindi due modi in cui trattare il principio di ragion sufficiente, o sul piano della logica formale come una mera conseguenza di quello di non contraddizione, oppure nella “metafisica”, cioè in modo critico: «Il principio di ragion sufficiente non viene qui trattato come in metafisica», scrive Kant nella cosiddetta Logica di Vienna, «dove vale per l’oggetto», appunto come radice di ogni forma di relazione estensiva, «ma come principio logico»161, cioè in quanto sviluppo della logica formale della contraddizione. Nella metafisica della mente, o della ragione, il principio di ragion sufficiente «è manifestamente sintetico», cosa che «il celebre Wolff, e l’acuto Baumgarten» poterono non riconoscere cercando di trattarlo soltanto come una conseguenza di quello di non contraddizione, e quindi sempre secondo la sua efficacia analitica162. Nella prospettiva critica diventa allora chiaro non soltanto quanto i due principi siano vicini, ma anche quanto si allontanino

I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 174, A201/B246, (tr. it., p. 173). I. Kant, Logica di Vienna, cit., p. 56. 162 I. Kant, Prolegomena zu jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., p. 270, (tr. it. p. 41). Cfr. G. W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di D. O. Bianca, I, UTET, Torino 1979, p. 413. 160

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una volta che si esca dalla logica formale per quella “oggettiva” dell’uso sintetico della ragione, o dell’intelletto: Il principio di non contraddizione è il principio della coesistenza e dell’identità, quello di ragion sufficiente il principio della connessione163.

Anche la coesistenza è una connessione e quindi la ragion sufficiente in logica formale è subordinata al principio di contraddizione. Ma anche la connessione è una coesistenza e una relazione, quando la non contraddizione si genera in giudizi, sicché ora, nella logica trascendentale, la figura della ragion sufficiente assume il ruolo di “categoria”, modo della connessione possibile. Il valore conoscitivo dei due principi, pur sempre l’uno spiegato con l’altro, si separa e dà luogo a due logiche distinte, le quali quindi altro non sono che modi dell’unificazione, analitico e chiarificatore, sintetico e conoscitivo164. Altrettanto significativa, e anzi più importante per il tema di una storia filosofica della filosofia, è appunto la differenza che separa le due logiche sotto questo profilo165, una differenza che come ogni momento della sistemazione kantiana è apprezzabile in relazione alla “sorte” del principio di contraddizione perché tutte le “logiche”, pur nella loro differenza, in realtà vi fanno capo. Se infatti nella logica formale per la “verità” basta che l’affermazione in cui è espressa non si contraddica (e il suo specifico contenuto come disciplina è l’esposizione delle regole per giudicare in modo non contraddittorio e per riconoscere la contraddizione laddove si nasconde, cioè analitica e dialettica, organo e canone della logica generale o formale); in quella trascendentale la non contraddizione si riduce ad essere una condizione necessaria ma non sufficiente, perché si richiede, oltre all’accordo intrinseco di un’affermazione, che essa si accordi anche con l’oggetto dell’esperienza al quale

I. Kant, Logica di Vienna, cit., p. 56. Poiché il principio di ragion sufficiente viene descritto da Kant sia nel profilo per cui è omogeneo a quello di contraddizione sia in quello per cui invece se ne differenzia per qualità conoscitiva, la polemica tra kantiani e leibniziani, nella sua seconda fase, dopo il 1790, si concentrerà sul problema della realtà della distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici. Negare questa distinzione, e ricondurre gli ultimi ai primi, significava infatti ricollegare la logica alla metafisica, il pensare al conoscere, rendendo quindi vano lo sforzo di Kant, cfr. F. G. Born, Versuch über die ersten Gründe der Sinnenlehre. Zur Prüfung verschiedener, vornämlich der Weishauptischen Zweifel über die Kantischen Begriffe von Raum und Zeit, cit., pp. 131-138. L’apparente prossimità di svolgimenti però eterogenei spiega il tentativo “leibniziano” di negare l’originalità di Kant, cfr. F. C. Beiser, The Fate of Reason, cit., pp. 193-225. 165 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., pp. 41-42, B24-25, (tr. it., pp. 47-48). 163

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deve riferirsi166. L’intenzione unificante, in cui consiste l’intelletto, riferita alla “materia” della sensazione, si realizza nella connessione sintetica di fenomeni “indipendenti” perché entità spazio-temporali, e quindi in un giudizio effettivamente conoscitivo; in sede invece di logica “generale”, questa stessa funzione unificante, poiché si applica a un contenuto già formato, dà luogo a giudizi analitici: la logica “generale” infatti esercita le medesime regole su concetti costituiti e non ne forma se non nel senso di svilupparne i rapporti interni; questa logica quindi in primo luogo non si interroga sull’origine dei propri contenuti, come deve invece fare la logica trascendentale; in secondo luogo presuppone quest’ultima: perché si dia analisi è necessario che si sia già data una sintesi e, con la sintesi, l’unità che è possibile portare a maggiore chiarezza interna167. Le due logiche sono quindi diverse ma connesse per più di un profilo168. Ma la situazione più interessante per il nostro tema riguarda la possibilità da cui, secondo Kant, ha origine la metafisica: se la funzione unificante dell’intelletto viene riferita a contenuti posti oltre l’esperienza, (cosa che per motivi diversi non fanno né la logica formale né quella trascendentale), l’efficacia della sintesi non può svilupparsi perché non trova materie da collegare nel giudizio ma non può avere luogo neanche l’analisi, dato che questa presuppone che un contenuto le sia dato perché lo possa distinguere e distinguendolo chiarire. Allorché si propone di estendere la sua conoscenza oltre l’ambito dell’esperienza, – di quello che gli è dato quale tutto concluso come di quello che esso deve collegare secondo nessi di necessità nella ricerca di “ragioni sufficienti” tra i fenomeni – l’intelletto, inteso come attivo trascendentalmente, rimane quindi privo di una logica da poter utilizzare secondo il suo “canone” specifico. Se assecondando il proprio supremo interesse, che gli chiede di unificare al massimo grado, prosegue alla ricerca di una tale conoscenza assoluta, l’intelletto si atteggia a ragione, cioè confonde le due logiche che a titolo diverso hanno comunque a che fare con la verità, nel senso che utilizza quella analitica, la cui peculiarità è di non potere indicare i limiti della conoscenza, per scopi sintetici: di conseguenza, opera una forzatura della logica formale, con il cui sostegno “collega” conoscenze che non possiede, creando tra di esse unità soltanto illusorie, garantite dall’apparente necessità formale di uno

166 La sensibilità restringe l’intelletto mediante lo schema, senza del quale la categoria sarebbe soltanto una funzione logica, cfr. ivi, p. 139, A 186, (tr. it., p. 141). 167 Ivi, pp. 90-91, A77-78/B103-104, (tr. it., pp. 94-95). 168 Secondo Scaravelli il radicamento del pensiero nel principio di identità mette in crisi la possibilità di disporre in Kant di una logica realmente sintetica, cfr. L. Scaravelli, Critica del capire e altri scritti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 58.

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svolgimento pseudo-analitico169. Sicché, in conclusione, Kant argomenta in termini di stretta metodologia logica che l’illusione della ragione nella metafisica – cioè l’illusione del suo dogmatismo – consiste nel procedere analiticamente sulla base di una trascinante intenzione di tipo sintetico: sviluppare in modo apparentemente coerente possibilità argomentative formali offerte dal principio di non contraddizione, comporta la trasformazione di due logiche che di per sé hanno solo valore di “canone” sino ad attribuire loro, o al loro coacervo, funzioni di “organo”, cioè di produzione diretta di conoscenze, al di là di contraddizione e ragion sufficiente: Poiché dunque essa [la logica trascendentale] propriamente non può essere altro che un canone di giudizio nell’uso empirico, se ne abusa se la si fa valere come organo di uso generale ed illimitato, e ci si arrischia con il solo intelletto puro, a pronunziare giudizi sintetici, ad affermare e decidere sopra oggetti in generale170.

Capacità che se viene esclusa nel caso dell’intuizione, a maggior ragione non ha senso ammettere per il pensiero discorsivo171. La “Dialettica trascenCfr. I. Kant, Reflexion 1629, in AA, XVI, p. 47. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., pp. 81-82, A63/B88, (tr. it., p. 84). Da questo punto di vista l’idealismo post-kantiano rifonderà insieme canone e organo, e quindi creerà un nuova metafisica attraverso una nuova immissione della logica formale in quella trascendentale. Cfr. F. Barone, Logica formale e logica trascendentale. Da Leibniz a Kant, cit., p. 180: «La ripulsa delle cose in sé include anche la ripulsa della logica formale indipendente: infatti, se non ci sono più cose in sé, non si può nemmeno più parlare di una coscienza a cui le rappresentazioni siano “date” […]. Considerazioni analoghe possono essere sviluppate anche a proposito della connessione tra il processo di degradamento della logica formale e quello di valutazione positiva della dialettica. Quest’ultima è per Kant una logica dell’apparenza, un risultato dell’uso illegittimo della logica generale non più come canone, bensì come organo di produzione della conoscenza: per l’idealismo essa diventa invece non solo lo strumento effettivo della conoscenza, ma lo stesso processo di costituzione dell’essere: tale rovesciamento positivo del significato della dialettica ha tuttavia quale condizione preliminare l’eliminazione della logica formale come dominio sussistente per sé e l’inserimento delle relazioni formali del pensiero all’interno della logica trascendentale». 171 Che tanto la logica generale quanto la trascendentale siano canone lo dimostra già il fatto che entrambe si articolano nell’elaborazione di una “Analitica”, ovviamente di diverso contenuto. Dal punto di vista dell’esposizione scolastica, la differenza tra generale e trascendentale sta nel fatto che la prima, se intesa correttamente come disciplina formale o “catartico” della ragione, si esaurisce nella trattazione analitica; la seconda invece, poiché si propone il problema della genesi della conoscenza, deve aggiungere alla sua analitica anche una “dialettica” che nella logica formale non avrebbe senso, perché l’elemento dialettico che vi compare è anch’esso di tipo analitico, nella forma delle varie tipologie di sillogismo. Perciò la Logica è in realtà tutta un’esposizione analitica, rispecchia l’intero ordine delle facoltà superiori, e tratta di concetti, giudizi e sillogismi; invece, l’analitica della logica trascendentale segue 169

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dentale” e in generale tutta l’indagine kantiana forniscono «la più aspra critica»172 di questa convergenza illegittima di canoni a scopo di organo, principio della confusione tra le diverse modalità della logica, la formale usata come trascendentale, e in senso storiografico, della lunga fase della filosofia come attività della ragione nel suo uso speculativo dogmatico. Lo scetticismo non fa, quindi, che segnalare gli effetti paradossali di questa illegittima confluenza, senza tuttavia impegnarsi adeguatamente a spiegarla173. Si situa in questo snodo non soltanto la differenza che Kant crede di dovere sottolineare tra sé e il passato della speculazione, ma anche quella che egli, sia pure senza una perfetta cognizione degli svolgimenti in corso, opporrà a coloro che come Fichte si richiamano al suo pensiero, trasformando però il carattere formale dell’indagine filosofica richiesto dal concetto di “canone” di nuovo in un principio materiale, e quindi in termini kantiani, in un “organo” che stavolta, al contrario di quanto avveniva nell’impostazione di Wolff, non viene più trovato nella deduzione dell’ens qua ens. Il nuovo principio materiale verrà trovato sulla scia rinnovatrice di Kant nella soggettività produttiva, in base alla quale si ricomincia a configurare il compito della filosofia come organo. Altrettanto si potrebbe dire di autori in rapida evoluzione dal kantismo, come Reinhold, Bardili, Beck, e tra i meno noti, Johann August Grohmann. Se quindi osserviamo anche quanto segue a Kant, possiamo dire che il suo richiamo a che la filosofia si riconosca nell’indagine della ragione come “canone”, finalmente diventando soltanto ciò che può essere, ha la sorte dell’isolamento: “organo” è la filosofia che lo precede, e da cui Kant intende distinguere la

l’ordine delle facoltà superiori per due terzi, comprendendo soltanto l’intelletto e il giudizio, ma non anche la ragione perché in sede trascendentale questa non è più organo ma canone. Il fatto che Kant nella Critica della ragion pura distingua anche formalmente un’analitica e una dialettica della logica generale, distinzione che invece non si trova nella Logica di Jaesche, indica che la prospettiva trascendentale chiarisce quello che in sede di logica formale non è subito evidente, che le due logiche, generale e trascendentale diventano dialettiche “insieme”, reincrociando il loro destino. Dall’elisione dei canoni si genera l’organo, da quella delle logiche della chiarezza e della verità si genera la logica dialettica dell’apparenza. La differenza tra le due presentazioni indica quindi non soltanto la volontà di Kant di stabilire un parallelismo tra le due logiche, ma indica anche l’opportunità filosofica di osservare come la dialettica, in quanto organo, nasce dall’unione del canone della logica generale e di quella trascendentale. Si può dire che la logica come canone si specifica in entrambi i casi in un’analitica, mentre quando diventa organo la sua trattazione richiede una dialettica, cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., pp. 130-131, A131-132/B170-171, (tr. it., pp. 131-132). 172 Ivi, p. 427, A642/B670, (tr. it., p. 407). 173 Cfr. M. N. Forster, Kant and the Skepticism, Princeton University Press, Princeton 2008, pp. 40-51.

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Critica, e “organo” è la filosofia che immediatamente lo segue, da lui (ma già senza Critica) prendendo le mosse174.

5. Canone e organo come criteri per la storia della filosofia È vero che in un passo molto discusso dell’“Introduzione” alla Critica della ragion pura, Kant sembra non escludere che in futuro si realizzi quel desideratum della storia della filosofia, che sarebbe “un sistema della ragion pura”. Sembrerebbe così che Kant entri in contraddizione con quanto affermato in precedenza delegittimando l’attuazione della ragion pura come “organo”: Un organo della ragion pura sarebbe un complesso dei principi, secondo i quali possono essere acquistate ed effettivamente recate in atto tutte le conoscenze pure a priori175.

Ma si comprende come Kant limiti questo risultato all’interno del disegno della Critica, come “propedeutica”: il “sistema della ragion pura” non potrà andare oltre la sua propedeutica, il cui valore negativo si trasferirà ad esso. In questo caso quindi, “organo” viene inteso da Kant come quell’estensione della conoscenza dei principi a priori della ragione che può avere luogo soltanto se si mantiene la visione della ragione come “canone”. Il sistema allora, in cui consisterebbe quella “filosofia trascendentale” che Kant ritiene di aver dato ma il cui sviluppo affida al futuro della speculazione, sarebbe una ricognizione della sinteticità della ragione. In questo luogo, in cui sintomaticamente Kant definisce sia il concetto di trascendentale che quello di storia della filosofia, sembra che il compito sistematico della filosofia possa essere assolto unicamente come ricognizione delle possibilità della ragione. Che un «sistema completo della filosofia della ragion pura» sia possibile, rappresenta per Kant uno dei vantaggi decisivi della prospettiva trascendentale sui precedenti modi di fare filosofia: Che poi questo sistema sia possibile, anzi non sia per essere di tale ampiezza da togliere la speranza di compierlo, si può già argomentare da ciò, che qui si tratta non della natura delle cose, che è inesauribile, ma dell’intelletto soltanto rispetto alla sua conoscenza a priori; e il contenuto di quest’oggetto, non dovendo esser cercato fuori di noi, non ci può restar celato, e secondo ogni presunzione è abbastanza piccolo da poter essere Cfr. K. Ameriks, Kant and the Fate of Autonomy. Problems in the Appropriation of the Critical Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 37-66. 175 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 43, B25, (tr. it., p. 47). 174

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rilevato interamente, giudicato nel suo valore o non valore, e ridotto al suo giusto apprezzamento176.

In sostanza, per Kant il pensiero è radicato nel principio di non contraddizione, e questo come tale, sia in analitica che in sintetica, non ha valore inventivo, non genera conoscenze, richiedendosi nella logica della divisione che qualcosa sia già noto perché sia diviso, e nella logica della sintesi, che gli oggetti si diano alla percezione perché questa diventi materia di un giudizio. Anche quando in altri luoghi Kant ipotizza “un organo della ragion pura”, questo sarebbe l’insieme completo di tutte le conoscenze pure e a priori, e quindi il sistema della ragione, e non della realtà177. Nel negare valore inventivo al principio di non contraddizione si manifesta il lungo transito che Kant ha compiuto oltre il wolffismo178. Già da questi cenni, si comprende come per Kant la storia dell’uso speculativo della ragione sia stata soprattutto l’epoca della confusione tra “canone” e “organo”: durante la fase cui la Critica pone fine, il pensiero speculativo, interessato a universalizzare l’esito del proprio contatto con la realtà, si è diretto all’ampliamento oltre l’esperienza delle sue conoscenze, senza alcun accertamento preliminare circa la propria capacità ad occuparsi di esse179. Questa “confusione”, da cui ha avuto origine l’esperienza della metafisica come parte della filosofia teoretica e non di quella pratica che ne è il vero ambito, trova nella Critica una spiegazione a livello di principi, perché essa evidenzia sia l’affinità delle operazioni fondamentali della ragione – per cui questa cerca sempre l’unità nelle differenti specie della logica generale, trascendentale e dialettica, per cui persino “canone” ed “organo” sono soltanto atteggiamenti della medesima logicità – sia la netta differenza dei risultati che ne derivano sul piano del loro valore conoscitivo, sia ancora quanto facile e persino “naturale” possa essere, data questa identità di fondo, il passaggio Ivi, p. 44, A13/B26-27, (tr. it., pp. 48-49). Ivi, p. 43, A11/B24 (tr. it., p. 47). Non è casuale che nell’ambiente kantiano si comincerà a parlare di nuovo di un “organo” della filosofia, soltanto quando Krug farà dei passi verso la risoluzione idealistica delle contraddizioni interne al sistema critico, cfr. W. T. Krug. Entwurf eines neuen Organon der Philosophie oder Versuch über die Principien der Philosophischen Erkentniss, Erbstein, Meissen 1801, (Aetas Kantiana, 155). 178 Cfr. S. Carboncini, R. Finster, Das Begriffspaar Kanon-Organon. Seine Bedeutung für die Entstehung der Kritischen Philosophie Kant’s, in “Archiv fur Begriffsgeschichte”, XXVI, 1982, p. 40, i quali notano che con i concetti di canone e di organo Kant ha inteso indicare due “vie”: «La prima, quella tradizionale, porta attraverso un organo al sistema, che mira a un’estensione della conoscenza (la cui pretesa Kant mette in dubbio), l’altra, quella kantiana, porta attraverso il canone a un sistema, che scopre i confini dell’esperienza possibile». 179 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 11, BXV, (tr. it., p. 17). 176 177

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della ragione da una sua modalità all’altra. È forse allora sintomatico che nel passo prima discusso, in cui più densa di sottintesi e di difficoltà diventa l’esposizione del rapporto tra canone ed organo, metafisica e critica, sistema e filosofia trascendentale, Kant faccia un cenno di metodo alla storia della filosofia. Un cenno chiarificatore, perché non «ci si può aspettare qui una critica dei libri e dei sistemi della ragion pura, bensì quella della facoltà stessa della ragion pura». Kant non farà quindi lo storico. Fornisce però il criterio per la storia della filosofia: Se non che, se si pone a base questa critica, si ha una sicura pietra di paragone per valutare il contenuto filosofico di opere antiche e moderne in questa branca; se no storico e giudice, incompetenti, giudicano le asserzioni infondate degli altri in nome delle proprie, che sono altrettanto infondate180.

Si possono così comprendere molte esperienze della storia della filosofia, in un certo senso, dalla prospettiva interna della ragione stessa. Ad esempio, diventa possibile comprendere in linea di principio perché è dall’aver inteso la ragione come organo che è derivata la correlazione tra procedimento della logica formale e compito della metafisica181, ovvero quella “fiducia” di cui la Critica parla a più riprese182, forti della quale i logici e i metafisici hanno ritenuto di poter attribuire valenza di realtà a costruzioni il cui fondamento riposa soltanto sulla coerenza del ragionamento in cui sono state elaborate, in sostanza sul rispetto formale del principio di non contraddizione183. In tal modo, la stessa differenza tra sapere analitico e sintetico è rimasta a lungo problematica (finché non è stata resa evidente da una certa interpretazione di discipline esterne alla filosofia), e con l’analisi è stata data alle metafisiche un’apparenza di sinteticità, ovvero di estensione necessaria e universale delle conoscenze: mentre la logica analitica e la trascendentale suppongono, correttamente intese, che si concepisca il pensiero come “canone”, nella storia della “filosofia” la ragione si è configurata soprattutto come “organo”184, e

Ivi, p. 44, B27 (tr. it., p. 49). Ivi, p. 98, B114-115, (tr. it., p. 101). 182 Cfr. ad esempio, ivi, pp. 473-474, A723-725/B751-753, (tr. it., pp. 451-452). 183 Nota Kant che per i metafisici, ad esempio Wolff, il principio di identità non produce tautologia, mentre gli sembra chiaro che non si possa trarne altro, cfr. I. Kant, Preisschrift über die Fortschritte der Metaphysik, cit., pp. 277-278, (tr. it., pp. 85-86). 184 Cfr. S. Carboncini, R. Finster, Das Begriffspaar Kanon-Organon. Seine Bedeutung für die Entstehung der Kritischen Philosophie Kant’s, cit. 180 181

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il compito della filosofia è stato quello di cercare di determinare l’organo della ragione185. Le filosofie pre-critiche presentano così all’occhio della Critica una “finzione” di sinteticità, ottenuta per via analitica: Quella logica generale, la quale è semplicemente un canone di valutazione, viene impiegata altresì come organo di effettiva produzione almeno dell’apparenza di affermazioni oggettive; e quindi l’uso che se n’è fatto, è stato, in realtà, abusivo. Ora, la logica generale, come preteso organo si chiama dialettica186.

Da qui l’impossibilità strutturale all’origine della debolezza che mina le filosofie così costruite, la quale impossibilità, se tradotta in criterio filosofico-storiografico, spiega la caratteristica fondamentale dell’esperienza della ragione nel suo uso speculativo, lo spettacolo di continue distruzioni che essa offre187. Sul piano critico, questa condizione – che Kant hobbesianamente rappresenta come una sorta di “stato di natura”188 della ragione – si spiega con il fatto che il principio di non contraddizione permette di distinguere vero da falso soltanto nell’ambito di conoscenze rigorosamente analitiche, in cui si tratta di svolgere la “parentela logica”189 di termini appartenenti a un concetto. Se invece si cerca di utilizzarlo in conoscenze estensive, come ha fatto la metafisica che perciò pretende di riferirsi con esso (cioè con i modi della logica formale) ad oggetti, perde completamente questa capacità discriminante: Quand’anche per altro, in un nostro giudizio non vi sia contraddizione, esso può nondimeno unire i concetti così come l’oggetto non comporta, o magari senza che ci sia dato, né a priori né a posteriori un fondamento qualunque, che giustifichi il giudizio; e però un giudizio può, anche se libero da contraddizione interna, essere o falso o infondato190.

Come ovvio, anche il giudizio che unisce percezione e categoria secondo i modi dell’“Analitica dei principi” è nullo se si contraddice, come lo sarebbe I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 42, B23-24, (tr. it., p. 47). Ivi, pp. 80-81, A61-B85, (tr. it., p. 83). Cfr. anche p. 32, A4-6/B8-10, (tr. it., p. 38). 187 Cfr. G. Tonelli, Kant’s Critique of pure reason within the tradition of modern logic, Olms, Hildesheim 1994, p. 63. Cfr. anche F. G. Born, Versuch, cit., pp. 117-129. 188 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 491, A751/B779, (tr. it., p. 467). Una condizione quindi dalla quale essa deve uscire verso il suo “stato civile”, la sua urbanità. 189 Ivi, p. 214, A259/B315, (tr. it., p. 213). 190 Ivi, p. 141, B 190, (tr. it., p. 143); cfr. anche p. 80, A60-61/B84-85, (tr. it., p. 82). 185

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quello formale che inserisse una nota incoerente nel chiarimento analitico di un concetto dato; ma oltre questo punto l’affinità tra i due tipi di giudizio non va. La non contraddizione è sufficiente contrassegno di verità su un piano rigorosamente analitico191: in merito alla conoscenza oggettiva, è invece una condizione soltanto negativa della verità, ossia ci dice che un giudizio non è falso senza poterci dire che sia vero, perché nell’ambito di conoscenze “sintetiche” a decidere è l’accordo del giudizio, in sé non contraddittorio, con la possibilità dell’oggetto, e l’identità, poiché in questo caso si cerca una necessità posta oltre essa, «al di là della logica», come scrive Kant, non può essere prova né di verità né di errore192. Si trova qui, da un punto di vista critico, la spiegazione del fatto che la metafisica sia stata un campo di lotte senza fine: ogni filosofia apparentemente sintetica appare o falsa come testimonia nel suo insieme l’inconcludenza di questa storia193, oppure infondata come ritiene non a torto lo scetticismo, che però ne trae conseguenze generali sbagliate. L’uso trascendentale del giudizio, opposto a quello empirico, cioè la pretesa di conoscere in modo incondizionato evitando con un salto metafisico la sequenza delle condizioni, delle cui conseguenze si tratta nella “Dialettica trascendentale”, evidenzia quindi l’inefficacia del principio di contraddizione una volta che ci si spinga oltre l’ambito analitico e sintetico, perché in un tale uso diventa inevitabile concepire affermazioni non conclusive, secondo due caratteristiche modalità, che sono degenerazioni di figure della logica generale: da questo tipo di indagine si generano infatti affermazioni “paralogistiche”, cioè ingannevolmente sillogistiche per l’introduzione surrettizia al loro interno di un quarto concetto, sicché ne risulta una fallacia che gli strumenti della logica generale permettono di scoprire, oppure affermazioni opposte sebbene di pari sostenibilità, secondo le coppie vero/vero o falso/ falso, il che rappresenta un assurdo dal punto di vista della logica sia generale che sintetica194, quello che Kant chiama «uno scandalo della ragione». Que191 Persino sul piano analitico il principio di contraddizione vale in senso positivo soltanto insieme a quello di ragion sufficiente e a quello del terzo escluso, e mai da solo, cfr. I. Kant, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, cit., pp. 51-53, (tr. it., pp. 45-47). 192 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 143, B193-194, (tr. it., p. 145). 193 Ivi, pp. VII-XI, BVII-B XV, (tr. it., pp. 13-17). 194 I. Kant, Preisschrift über die Fortschritte der Metaphysik, cit., pp. 290-291, (tr. it., pp. 101102). Nella “analitica” della “logica generale” invece questo tramonto razionale del principio di non contraddizione non è possibile: vero e falso sono in essa opposti contraddittori e non contrari, sicché si escludono in base a un corretto procedimento analitico, come anche il senso comune si aspetta. Questo indica la differenza tra le due dialettiche: mentre quella formale consiste nella produzione di ragionamenti solo apparentemente conclusivi, i quali una volta che se ne apprendano i meccanismi, non ingannano più, quella trascendentale,

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ste conseguenze, intese come tipologie della ricerca metafisica non critica, visualizzano uno spettro assai vasto di posizioni della storia della filosofia, e valgono quindi come criteri per spiegare in senso genetico conflitti e contraddizioni di questa storia195. Nel 1804 il kantiano Buhle alludeva alla discussione sulla teoria della storia della filosofia, quando dichiarava come fosse ormai evidente per i contemporanei l’importanza decisiva che la nuova filosofia, per i motivi sistematici sinora esaminati, aveva avuto anche riguardo alla teoria e alla prassi della storiografia filosofica: Il sistema kantiano inteso come semplice filosofia trascendentale ha avuto anche un attivo influsso sulla storia della filosofia, e ne ha dato un’elaborazione più ricca di dottrina e più finalizzata. Attraverso essa è stata estremamente facilitata, se non resa possibile per la prima volta, in parte la verifica di tutte le antiche filosofie speculative in relazione ai loro fondamenti, in parte la loro rappresentazione storica secondo il loro autentico senso e spirito. Lo storico poteva sino ad essa caratterizzare certamente i vecchi sistemi; ma non poteva renderli del tutto comprensibili né a se stesso, né agli altri; finché il fondamento della loro origine non veniva spiegato dalle disposizioni della ragione pura. La filosofia trascendentale ha indicato l’unico possibile punto di vista di ogni genuino filosofare, dal quale anche si lasciano considerare le possibili deviazioni della ragione speculativa, e le occasioni a tali deviazioni nella natura della ragione stessa196.

Queste parole che riassumono alcuni dei motivi che andremo incontrando, indicano che la Critica poteva essere utilizzata (e come tale venne di fatto utilizzata) per un chiarimento di principio circa la storia della metafisica, appunto perché essa nella sua intenzione di fondo è «un trattato di metodologia della metafisica»197, che suppone uno scenario storico e si offre di conseguenza anche come una descrizione fenomenologica della metafisica. che dal punto di vista della funzione logica nasce esattamente dagli stessi procedimenti di quella formale, è invece un’illusione inevitabile perché si radica in un bisogno della ragione. È soprattutto in questo ultimo risultato che si manifesta il significato della trasformazione indebita della logica da canone a organo, perché soltanto nella Dialettica trascendentale la ragione si fa esplicitamente soggetto di produzione delle “conoscenze”. 195 Per quanto riguarda il tema del concorso sui Progressi Kant può quindi concludere con l’affermazione della «infruttuosità di tutto ciò che è stato fatto fino alla fine dell’epoca di Leibniz e di Wolff», ivi, p. 301, (tr. it., p. 113). 196 J. G. Buhle, Geschichte der neueren Philosophie seit der Epoche der Wiederherstellung der Wissenschaften, Röwer, Göttingen 1804, VI, pp. 635-636. 197 G. Tonelli, Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, cit., p. 287. Cfr. C. Ch. E. Schmid, Kritik der reinen Vernunft im Grundriss, cit., pp. 24-25.

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In questi risultati si rivela l’affinità tra la dialettica della “logica trascendentale” e quella della “logica generale”, o semplicemente formale, che storicamente è stata il campo della sofistica, cioè della retorica intenzionalmente spregiativa della verità198. Tuttavia, l’impostazione critica modifica anche il significato di “dialettica” per come si presenta storicamente sia nella sofistica che in Aristotele: essa non è l’arte del far apparire vero ciò che è falso, né la logica delle affermazioni verosimili o ipotetiche, ma “logica dell’apparenza”, il cui compito è dimostrare che l’illusione metafisica è naturale e inestirpabile perché radicata nella ragione ma che dalla ragione stessa può essere sempre portata alla luce199. Come critica dell’apparenza, la dialettica recupera il senso lambertiano della “fenomenologia”, applicandolo però non agli inganni nei quali la ragione cade per via della forza di coazione dei sensi, ma alle apparenze che essa stessa genera come prodotti essenziali della propria vita200. Per il lettore di oggi l’originalità di questo modo kantiano di riassumere filosoficamente la storia della filosofia consiste nel privilegio dato all’osservazione trascendentale, e non alla categoria di “svolgimento”. Sono state indicate alcune delle ragioni per cui essa nella storia della filosofia non è applicabile, a differenza di quanto avviene in altre storie “culturali”. È quasi inutile ricordare che invece alla categoria di svolgimento si atterrà, sebbene con qualche fatica e in un’accezione ben determinata, l’altra grande filosofia della storia della filosofia, quella hegeliana, la quale rappresenta il “terminus ad quem” del processo innescato da queste riflessioni di Kant, e dalla loro ricezione tra i suoi primi allievi201. Se lo si paragona a quello kantiano, si può dire che il modello hegeliano riesce a salvaguardare maggiormente la ricchezza delle differenze tra le filosofie e che questo avviene proprio grazie all’applicazione della categoria di svolgimento, la quale categoria è sì quella Cfr. L. Scaravelli, Scritti kantiani, cit., p. 211. Cfr. G. Tonelli, “La Critica della ragion pura di Kant nel contesto della tradizione della logica moderna”, in Id., Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, cit., p. 289; cfr. anche, nello stesso volume, “La ricomparsa della terminologia dell’aristotelismo tedesco durante la genesi della Critica della ragion pura”, (pp. 169-180). 200 J. H. Lambert, Neues Organon, traduzione parziale in Semiotica e fenomenologia, a cura di R. Ciafardone, Laterza, Roma-Bari 1973. Per un quadro della struttura del Neues Organon, cfr. ivi l’introduzione del curatore, p. XXX. Limitando l’espressione alla sensibilità, secondo l’accezione lambertiana di critica della conoscenza percettiva, Kant aveva utilizzato l’espressione «fenomenologia semplicemente negativa (phaenomenologia generalis)» per la parte estetica della Dissertazione del 1770 nella lettera con cui lo stesso anno inviava questo scritto a Lambert, (Kant’s Briefwechsel, cit., p. 98; tr. it., pp. 59-60). 201 Per quanto riguarda il confronto tra i due modelli, e le non minori difficoltà che si incontrano nel metodo hegeliano di storia della filosofia, cfr. S. Biscuso, Tra esperienza e ragione. Hegel e il problema dell’inizio della storia della filosofia, Guerini e Associati, Milano 1997. 198

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che permette a Hegel di sistematizzarle, facendo di esse i gradi di attuazione dell’unica filosofia, ma anche di fatto lo induce a soffermarsi sulle differenze che li dividono, perché carica di significato logico l’articolazione e la successione storiche202, che invece nel modello tipologico kantiano si appiattiscono in senso sincronico. Non c’è infatti “svolgimento” tra dogmatismi speculari ed antagonisti. Se si può approfondire questo confronto, si può forse giungere alla conclusione che la differenza è ancora di tipo logico e funzionale. Nella storia hegeliana della filosofia, il protagonista della trasformazione è sempre l’intelletto, ovvero la ragione, ma una ragione che non essendo ancora se stessa, si presenta nella forma dell’intelletto, con tutto l’insieme di conseguenze che ciò comporta in merito al rapporto con l’oggettività, e al senso stesso di questa. Le epoche della storia della filosofia sono in sostanza il cercarsi della ragione nel suo liberarsi, che è poi vera acquisizione, dal modello dell’intelletto. La ragione, che si costruisce nelle convulsioni dell’intelletto, è allora sempre reale, ma è reale e razionale insieme soltanto nell’inveramento della sua storia rappresentato dalla filosofia dello spirito hegeliana. Ma così la difettività dei suoi momenti non incide sulla sua necessità: è necessario che vi sia stata un’articolata sequenza di esperienze della ragione come intelletto, perché la ragione riconosca l’intelletto come una sua funzione, e ne superi l’effetto oggettivante comprendendo che il sapere della cosa è anche l’essere della cosa come l’essere e il sapere di se stessa. La storia kantiana della ragione nel suo uso speculativo, non è invece reale, cioè vera storia, ma un fenomeno che a questo punto si potrebbe definire una “storia ante-filosofica della filosofia”, perché non vi agisce la facoltà cui spetta il lavoro della filosofia, ma la sua ripetitiva deformazione “razionale”. Riteniamo quindi che con la Critica Kant abbia cercato di fare iniziare la vera filosofia, come ad esempio è già chiaro dall’interpretazione di Reinhold nelle Lettere sulla filosofia kantiana del 1789203. È il ragionamento svolto da Vittorio Hösle rispetto ad Hegel, in Wahrheit und Geschichte. Studien zur Struktur der Philosophiegeschichte unter paradigmatischer Analyse der Entwicklung von Parmenides bis Platon, Fromann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1994. 203 Un’interpretazione differente in G. Micheli, “Filosofia e storiografia: la svolta kantiana”, cit., p. 896. Cfr. anche A. Philonenko, La théorie kantienne de l’histoire, Vrin, Paris 1986; Philonenko sottolinea che sebbene il criticismo abbia una storia interna, coincidente con le fasi della biografia culturale di Kant, per il suo autore esso rappresenta il risultato di una “illuminazione”, una scoperta che, come quella di Euclide negli Elementi, poteva avvenire soltanto staccandosi nettamente da tutto ciò che la precedeva: essendo normatività trascendentale, la Critica non può essere preparata da alcun precedente e «in quanto scienza si libera completamente da tutta la storia della metafisica» che è soltanto un campo di apparenze e opinioni. Philonenko scrive che «questo primo passo nel dominio della scienza eleva il sistema trascendentale alla storicità», cioè a una presenza storica per principio sottratta alla 202

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È per questo motivo che, persino rispetto a quella hegeliana, la spiegazione kantiana della diversità delle filosofie è riduttiva in maniera intollerabile per un autentico senso storico204. Ciò è tanto vero su queste tipizzazioni culminano nell’ipotesi di “una storia della filosofia a priori”, soltanto abbozzata da Kant in un appunto preparatorio al saggio su I progressi, un’ipotesi, presente nelle discussioni del tempo a prescindere da questa non ancora nota affermazione kantiana, contro cui avrà da obbiettare Schelling, convinto, proprio secondo l’insegnamento kantiano, dell’esistenza di una contraddizione insanabile tra “storico” e “a priori”205. Però così l’aporeticità della storia della metafisica non è più una constatazione di fatto che lascia dubbiosi della stessa possibilità della filosofia: le sue manifestazioni possono essere ridotte a tipologie di una “dialettica” che si origina dalla medesima funzione unificante e razionale quale si manifesta, con esiti distinti, nella logica formale dei giudizi analitici e in quella trascendentale dei giudizi sintetici a priori. Essa deriva dal fatto che quando, sotto la spinta dell’impulso unificante della ragione, trattano di oggetti indipendentemente dall’esperienza, procedendo in modo abusivo con unità apparentemente sintetiche ma in realtà prodotte per analisi, le metafisiche non trovano conferma alla loro deduzione che in se stesse, (cioè tramite “idee”, “paralogismi” e “antinomie”, tutte forme prive di oggettività). Sicché è facile che altre costruzioni possano vantare un analogo rispetto del principio di identità e giungere nondimeno a “dimostrare” conseguenze del tutto diverse: è questo l’effetto paradossale del “dommatismo” della ragione storia stessa (p. 213). Poiché l’unico progresso nella storia della metafisica è questo “passo” assoluto, rispetto al quale o si è dentro la filosofia o si è fuori e non ci sono gradi intermedi di diversa qualità, la storia della filosofia assomiglierebbe da un punto di vista kantiano non a una successione di stadi come per Hegel, ma a “una geografia”: la filosofia trascendentale, in base alla struttura da essa scoperta delle funzioni conoscitive, «può mostrare» a ogni filosofia del passato «il suo posto nella geografia della non ragione», cioè di quale facoltà ognuna ha fatto il centro della conoscenza, misconoscendone con questo privilegio il modo relativo che le competerebbe da un punto di vista critico (p. 214). Sull’interpretazione di Philonenko, cfr. L. Bianco, Analogia e storia in Kant, cit., pp. 47-49. L’espressione “geografia della ragione” è peraltro usata da Kant stesso in relazione a Hume, cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 496, A760-B788, (tr. it., p. 471). 204 Quest’impressione è rafforzata dal fatto che Kant, secondo l’uso della storiografia prevalente negli anni della sua formazione, predilige rappresentare la storia della filosofia per “schemata” della “polistoria”. C’è però da ricordare che dopo la svolta critica il significato dello schema muta perché non serve più a indicare l’ordine della successione, ma l’insolubilità delle possibilità filosofiche, cfr. su questo tema, E. Feldmann, Die Geschichte der Philosophie in Kants Vorlesungen, in “Philosophisches Jahrbuch”, 1936, 49, p. 175. 205 Sui motivi di questa riflessione, cfr. G. Riconda, Schelling storico della filosofia, Mursia, Milano 1990, p. 56.

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speculativa, produttrice alla lunga soltanto di scetticismo, al quale, anche per contrastare quest’ultimo, Kant si propone di sostituire «il procedimento dogmatico»206 della ragione critica, la quale è tenuta a procedere anch’essa in maniera rigorosa nell’esplicitazione delle sue possibilità207, cioè a declinare in modo sistematico la necessità e universalità di tutte le forme del “puro” e del “sintetico”, ma dopo aver rovesciato la convinzione in cui era possibile credere alla metafisica come scienza, che la conoscenza (partendo dal pensiero oppure dalle cose) adeguasse gli oggetti, e che quindi la logica formale della non contraddizione fosse in grado di dare conoscenze reali e insieme necessarie208. Per usare un’espressione kantiana – o “lambertiana” – c’è qui “un filo conduttore” che permette di ipotizzare per la prima volta la possibilità di superare il carattere episodico e casuale della storia della “filosofia” riconoscendo nelle sue vicende, cioè nelle filosofie storiche, l’impronta dei diversi modi di unificazione dell’intelletto, cioè delle sue diverse logiche, ma in sostanza dell’unica logica nella differenza di esiti che dipendono dal ruolo assegnato all’oggetto, alla “materia” della sua applicazione: come ha scritto Lucien Braun, la deduzione critica può essere considerata perciò anche deduzione dei possibili modi di fare filosofia209. Il criterio della differenza tra organo e canone permette quindi di stabilire una distinzione generale nella storia della filosofia, un solco epocale e insieme strutturale, che separa due mondi, quello della ragione scettica o esaltata da quello della ragione illuminata210, pur nella consapevolezza propria a quest’ultima dell’inevitabilità dei tentativi metafisici e persino della loro importanza perché la ragione progredisca nella conoscenza di se stessa211.

I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 21, BXXXV, (tr. it., p. 26). Potendo questo rigore valersi soltanto di «prove acroamatiche», cioè discorsive, e non apodittiche come invece quelle delle dimostrazioni matematiche, cfr. ivi, pp. 480-481, A733/ B761, (tr. it., p. 457). Sul significato di questa distinzione, cfr. V. Hösle, Hegel e la fondazione dello spirito oggettivo, Guerini, Napoli 1991, pp. 52-64. 208 Convinzione che se aveva sino ad allora impedito l’idea di una critica della ragione, aveva fatto sì che la storia della filosofia coincidesse con quella della metafisica e fosse perciò dall’inizio in errore, cfr. J. S. Beck, Erläutender Auszug, [1793], cit., p. 376: «La filosofia iniziava dallo studio di Dio e del mondo futuro, due oggetti con i quali ora sappiamo che piuttosto essa avrebbe dovuto finire». 209 Cfr. L. Braun, Histoire de l’histoire de la Philosophie, cit., pp. 211-214. 210 Cfr. I. Kant, Was heisst: Sich im Denken orientiren?, in AA, VIII, pp. 131-147, (tr. it., Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, trad. di P. Del Santo, Adelphi, Milano 1996). 211 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, pp. 490-492, A749-752/B777-780, (tr. it., pp. 465-467). 206

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Questo è quindi il criterio più generico tra quelli che abbiamo indicato, perché, per restare alla terminologia kantiana, segna il più vasto “orizzonte” rispetto al problema che stiamo trattando, mentre le altre due distinzioni, tra aggregato e sistema, e tra ontologia e analitica, ci introdurranno più concretamente nella ricerca storiografica. Nella prospettiva aperta da questo criterio, scivola in secondo piano la figura dei singoli pensatori, al punto che la ricostruzione storica acquista senso, almeno dapprincipio, quanto più si prescinde da essi; per avviare una ricostruzione storiografica circa l’esperienza della ragione nel suo uso speculativo, occorre che l’indagine critica abbia esposto i possibili usi della ragione, dai quali si genera la diversità delle filosofie, che altrimenti rimangono spiegabili unicamente sul piano culturale, giudicato insufficiente da Kant perché soltanto “storico”, cioè una mera “cognitio ex datiis”212. Come noto, Kant distingue le conoscenze “secondo la loro origine oggettiva”, dicendo che questa può essere o razionale o empirica. Inoltre, le distingue anche “secondo la loro origine soggettiva”, in base al fatto che vengano apprese direttamente dalla ragione oppure in modo storico, cioè da altri per istruzione. «È dunque possibile», scrive Kant, «che qualcosa che oggettivamente è una conoscenza razionale» – ed è il caso della filosofia – «sia tuttavia soggettivamente solo storica»213, venga cioè appreso in modo meccanico, come un qualsiasi contenuto mentale del quale non si è in grado di fornire una giustificazione che richieda di andare oltre i termini di quanto imparato. È vero che ci sono conoscenze per le quali basta la “cognitio ex datiis”; ve ne sono però altre, quelle superiori, che per essere autenticamente possedute, richiedono che questa si trasformi in una “cognitio ex principiis”, cioè che all’origine razionale oggettiva corrisponda anche l’origine soggettiva. Altrimenti si incorre in quello che non solo nella Critica Kant chiama “lapsus iudicii”, cioè nell’applicazione di una regola a un caso che in essa non poteva essere fatto rientrare, nell’abuso di un canone come organo, nella discordanza tra dati e principi214. La metafisica come scienza è in senso lato un “lapsus iudicii”: Ivi, p. 540, A836/B864, (tr. it., p. 511). I. Kant, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, cit., p. 22, (tr. it., p. 16). Già nel 1777 Kant aveva distinto tra “scienze dell’apprendimento”, come la storia il cui “organo” è la filologia, e “scienze della conoscenza”, come la logica e la matematica: cfr. I. Kant, Vorlesungen über die Enzyklopädie und Logik, in Vorlesungen über Philosophische Enzyklopädie, AA, cit., pp. 513-514. Cfr. anche I. Kant, “Logik Philippi”, cit., p. 321. 214 La storia della metafisica è raccontata da Kant come storia di un “equivoco” nella cosiddetta “Metaphysik Volckmann”, AA, XXVIII, 5, p. 373, (tr. it., p. 293). Era questo il «segreto» della storia della filosofia che Kant aveva scoperto, cfr. J. G. Buhle, Entwurf, cit., “Vorrede” s.p. 212 213

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A produrre un’estensione dell’intelletto nel dominio delle conoscenze pure a priori, e quindi come dottrina, la filosofia apparisce non necessaria o piuttosto male applicata; poiché con tutti i tentativi finora fatti s’è guadagnato bel poco o niente terreno; ma, come Critica, per prevenire i passi falsi del giudizio (lapsus iudicii) nell’uso di quei pochi concetti puri dell’intelletto che noi possediamo (benché l’utilità non sia allora se non negativa), la filosofia interviene con tutto il suo acume e il suo controllo215.

La valorizzazione dei risultati della Critica come orientamento per la storia della ragione speculativa, è possibile perché essa permette di trasformare un contenuto che fino ad allora poteva essere appreso soltanto “secondo l’origine soggettiva”, cioè sul mero piano dell’erudizione “ex datiis”, in un’autentica conoscenza filosofica, adeguata all’origine razionale che questa conoscenza vanta; perché, di conseguenza, permette di riconoscere gli errori fatti nell’applicare il giudizio laddove non era consentito. Da questa differenza tra i due livelli della comprensione storica – quello unicamente “empirico” e quello che riconduce quest’ultimo al suo momento genetico in un modo della ragione – deriva la proposta kantiana di una “storia filosofica della filosofia”216. La discussione sulla teoria della storia della filosofia che si sviluppa principalmente in ambiente kantiano verte sui diversi modi in cui allievi e seguaci ritengono corretto sviluppare le indicazioni su questo punto di Kant. Perché fosse possibile questa conclusione, era stato necessario mostrare quanto esile eppure netto fosse il confine tra i diversi possibili modi di ragionare e quanto facile, perfino inevitabile, l’illusione prodotta dalla ragione stessa nel valicarlo. E ricordare i termini salienti di questo sconfinamento della ragione entro le sue stesse possibilità è quanto abbiamo fatto finora. Ma la cosa importante è che questa condizione di inspiegabilità – persino ovvia per molta parte della cultura illuministica in cui la metafisica non era più considerata un problema ma un semplice residuato culturale – trova nel pensiero di Kant una giustificazione di tipo filosofico nella distinzione tra logica formale e trascendentale; una distinzione che, mostrando anche la loro identità di fondo come ambiti diversi delle medesime funzioni razionali, permette di collegare geneticamente la necessità vuota dell’analisi alle più gran215 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., pp. 132-133, A135/B174, (tr. it., p. 134). Anche ivi, p. 516. Ne consegue che la Critica è una “sospensio iudicii indagatoria”, in I. Kant, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, cit., p. 75, (tr. it., p. 68). 216 I. Kant, Handschriftliche Nachlass, AA, XX, 7, p. 340, (“Di una storia filosofante della filosofia”, in I progressi della metafisica, cit., p. 156). Cfr. Preisschrift über die Fortschritte der Metaphysik, cit., pp. 258-264, (tr. it., pp. 65-71); anche la sezione “Breve storia della filosofia”, delle lezioni di Logica, cit., pp. 21-26.

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diose costruzioni metafisiche della nostra tradizione, riconducendone tutte le diverse esperienze alla stessa soggettività della ragione. Questo vale come interpretazione speculativa di tale storia, e ai primi allievi, poi ai grandi idealisti, suggerirà come non si possa dare un’autentica comprensione della storia della filosofia, una comprensione concettuale di essa, se non tramite una filosofia che le si contrapponga come un punto di vista superiore, in grado di darne conto per intero, il che era avvenuto per la prima volta con la Critica217. Rendersi consapevoli della “dialettica” sia trascendentale che generale avvicina, nel sentimento di sé che Kant a volte rivela, il suo impegno a quello di Socrate: come il maestro di Platone, anche Kant intende per filosofia la ricerca del pensiero autonomo, animato dalla tensione verso la verità e il bene, la “dottrina della saggezza”218 che si oppone alla “filodossia”219. La Critica chiude quindi il ciclo storico della filosofia come organo e vorrebbe avviare quello della filosofia, quantomeno di quella “contemporanea”220, come canone, una filosofia “socratica”, interrogativa, strutturalmente non dogmatica e “propedeutica”, il che significa dal punto di vista della “esposizione scolastica” che la filosofia vera e propria deve sempre cominciare con il presentare “l’analitica” dei propri principi, anteriormente a qualsiasi altra operazione.

6. Aggregato o sistema Un’ulteriore conseguenza della confusione tra canone e organo è il fatto che, secondo Kant, tutta la filosofia a lui precedente – sia quella che fa iniziare la conoscenza dai sensi sia quella in cui invece si opta per il carattere innato dei concetti – è costretta, poiché manca della prospettiva trascendentale, a presentare le proprie affermazioni sotto la veste di “aggregato”, mentre soltanto la filosofia autenticamente fondata, e cioè quella critica, può aspirare alla qualità di “sistema”221. Per questa convinzione, cfr. infra nel paragrafo su Heydenreich, pp. 117-118. I. Kant, Preisschrift über die Fortsschritte der Metaphysik, cit., p. 301, (tr. it., p. 112). Cfr. Nachschrift Dohna-Wundlachen, AA, XXIV, p. 699. 219 I. Kant, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, cit., p. 24, (tr. it., p. 18). 220 Proprio perché l’esperienza filosofica precedente è stata per i motivi descritti “un brancolamento”, è necessario che la filosofia contemporanea si ponga come “propedeutica”, come “trattato del metodo” e solo più avanti pensi a stabilirsi come “sistema”. Da un punto di vista storico, è la “storia della metafisica” che richiede la critica: se la metafisica non avesse voluto essere scienza, la critica non avrebbe avuto ragione di porsi, cfr. I. Kant, Preisschrift über die Fortschritte der Metaphysik, cit., pp. 310-311, (tr. it. pp. 123-124). 221 Cfr. G. Micheli, Kant storico della filosofia, cit., pp. 225-229. 217

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Nella Logica Kant scrive che per scienza va inteso il complesso di una conoscenza in quanto sistema. La scienza viene contrapposta alla conoscenza comune, cioè al complesso di una conoscenza in quanto mero aggregato. Il sistema si fonda su un’idea del tutto che precede le parti; invece nella conoscenza comune, o mero aggregato di conoscenze, le parti precedono il tutto222.

Allo scopo di comprendere perché nella storia della filosofia non ci sarebbe stato sinora che lo spirito di sistema ma nessun sistema223, aggregati di conoscenze ma nessuna scienza, osserviamo il caso dei due filosofi più discussi da Kant nella Critica, ovvero Leibniz e Hume. Kant ha interesse a trattarne perché le loro filosofie rappresentano le posizioni principali, dogmatica e scettica, nel dibattito sullo statuto della conoscenza e sulla legittimità della metafisica che sono i problemi in merito ai quali avanza la proposta critica. La caratteristica loro comune è di non interrogarsi sull’origine della conoscenza tenendo conto dell’ipotesi, poi convalidata nella Critica, secondo cui essa è eterogenea, dividendosi tra sensibilità e intelletto, ma nell’aver scelto una di queste possibilità riducendovi l’altra, con la conseguenza di elevare così al rango di principio quello che, se viene considerato isolatamente, è soltanto un elemento della ragione. In altri termini, ogni filosofia procede dall’opzione per una forma di conoscenza e da questa deduce il carattere della conoscibilità. Ed è da questa strategia, esattamente opposta a quella critica, che si generano le contrapposizioni tra dogmatismi di cui è fatta la storia della ragione nel suo uso speculativo. Che la conoscenza abbia una indispensabile dimensione empirica è un’esigenza “popolare-lockiana” riconosciuta da Kant, per il quale però è altrettanto certo che vi sono anche conoscenze necessarie ed universali, tali quindi da non poter essere derivate da quella dimensione. Ma questi sono fatti della ragione che si tratta di spiegare, non già essi stessi la spiegazione. Non possono perciò essere considerati principi. Principio è per Kant quell’affermazione che riesce a porre le condizioni della propria prova, che di conseguenza è inseparabile dal proprio essere tenuta per vera: nella discussione critica, il fondamento cui si riporta la possibilità della conoscenza. Né la sensibilità da sola, né l’intelletto senza sensibilità sono dunque principi, perché traggono significato nella loro unione (che ne trasforma poi anche il significato): se ci si interroga seguendo il filo condutI. Kant, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, cit., p. 72, (tr. it., p. 65); cfr. per questa differenza, I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 83, A65/B89, (tr. it., p. 87). 223 Ivi, pp. 21-22, BXXXV-XXXVIII, (tr. it., pp. 26-27). 222

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tore dell’esperienza possibile, si osserva che si danno entrambe le specie, e in un rapporto di reciproca necessità. Di conseguenza, secondo Kant la rappresentazione della ragione come un “tutto” sopraggiunge esclusivamente nella prospettiva trascendentale, che si chiede come sono possibili giudizi necessari e insieme estensivi, così da coinvolgere fonti passive e forme attive della conoscenza. Invece, la scelta di fare di una di esse il centro al quale subordinare le rimanenti fa sì che l’idea del tutto non venga concepita, e si rimanga perciò a quella dell’insieme delle parti224. Un sistema è allora quell’esposizione in grado di presentarsi come struttura organica, e quindi come scienza, in cui l’unità è data dalla reciproca necessità del funzionamento delle parti; un aggregato invece è caratterizzato dal fatto di coordinare le sue componenti in relazione a un centro logicamente egemone: si presenta quindi come una connessione che dà ordine alle parti, essendo però unilateralmente organizzata. Conseguenza di questa impostazione è che in genere la filosofia come aggregato presuppone un obiettivo polemico, rappresentato dalla filosofia che fa valere l’unilateralità opposta alla propria. Per quanto oggi si intenda generalmente il pensiero kantiano come un sistema “chiuso”, la cui immagine sarebbe la cuspide, esso più volte viene descritto dal suo autore piuttosto come un circolo o una sfera225, mentre è l’aggregato che meglio risponde a uno schema verticale. Mettendo in evidenza il radicamento delle “logiche” analitica, trascendentale e dialettica nel principio di contraddizione, come rilevando che non c’è logica conoscitiva senza un’estetica corrispondente, abbiamo prima cercato di mostrare i requisiti per cui la filosofia kantiana si presenta con il vantaggio di essere sistematica secondo l’accezione data. Da questa assenza di consapevolezza critica delle filosofie precedenti, scaturisce un’altra conseguenza di tipo strutturale, oltre al fatto che ogni edificio elevato nella storia dell’uso speculativo della ragione è un aggregato di conoscenze. Tipico di chi elabora un aggregato è infatti il ricorso a prove “apagogiche”226, cioè a dimostrazioni tratte per negazione del contrario, Ivi, p. 545, A843/B871, (tr. it., p. 515): «La distinzione dei due momenti della nostra conoscenza, dei quali gli uni sono del tutto a priori in nostro potere, gli altri possono prendersi soltanto a posteriori dall’esperienza, anche in pensatori di professione rimase soltanto assai oscura; e quindi non poteva mai produrre la delimitazione di una specie a parte di conoscenza, e però neanche la schietta idea di una scienza, che così a lungo e tanto ha travagliato l’umana ragione». Per questo, Kant paragona il compito del filosofo a quello del chimico che deve «isolare le conoscenze» e «diligentemente impedire che si mescolino con le altre» (ibid.). 225 Ivi, p. 497, A762/B790, (tr. it., p. 472). 226 Ivi, pp. 513-514, A879/B817, (tr. it., p. 487): «La prova diretta o ostensiva è, in ogni maniera di conoscenza, quella che unisce con la certezza della verità la cognizione delle fonti 224

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come quelle che producono gli esiti antinomici caratteristici della metafisica227; invece, la prospettiva trascendentale si serve, per descrivere il sistema della ragion pura, non di prove indirette come appunto quelle apagogiche ma di prove “ostensive”. Al di là dei diversi punti di avvio, Leibniz e Hume hanno in comune entrambi questi tratti, che si possono estendere a tutte le costruzioni della storia pre-critica della filosofia228. Per Leibniz i concetti corrispondono agli oggetti, lungo una linea di continuità per cui la sensazione va intesa come un grado depotenziato del concetto della cosa. In tal modo secondo Kant, Leibniz si inganna perché considera un elemento soltanto soggettivo, l’impressione che i concetti si riferiscano direttamente alle cose, come se fosse oggettivo, segno della totale insensibilità per il tema trascendentale. Di conseguenza, ha ritenuto di poter trattare delle cose come se fossero concetti, applicando loro le regole del confronto tra i concetti. Avviene così che dalla mera necessità di un’affermazione nel pensiero si possa passare ad affermare necessaria la realtà corrispondente; se ad esempio il “semplice” è un’evidenza ineluttabile della scomposizione logica, il limite ultimo dell’intelligibilità, allora il “semplice” deve essere reale in quanto “monade” costituente le cose, sebbene ne sia impossibile l’esperienza sul piano sensibile. È una “prova” apagogica: si afferma che qualcosa è vero e corrisponde a un’esistenza dichiarando che il contrario non è possibile, un tipo di ragionamento a cui Kant rifiuta valore conoscitivo sin dagli scritti di argomento logico degli anni Sessanta229 e con di essa; l’apagogica invece può procurare bensì la certezza, ma non la comprensibilità della verità nel suo rapporto con i principi della sua possibilità». I. Kant, Prolegomena, cit., p. 368, (tr. it., p. 263): La scienza «non può essere messa insieme pezzo per pezzo, ma deve il suo germe essere completamente preformato nella critica». 227 Poiché la metafisica stessa si serve di procedimenti indiretti, è molto interessante l’osservazione di Raffaello Franchini secondo cui anche la critica che Kant ne fa, riporta un valore apagogico: «La soluzione e il superamento che Kant propone dell’antitetica sono in fondo meramente apagogiche: ché esse ci rinviano appunto a quei limiti dell’esperienza possibile, che la ragione tenta continuamente, quanto vanamente, di valicare», in R. Franchini, Le origini della dialettica, cit., p. 165; cfr. anche p. 166. 228 Il modo in cui Kant storicizza Leibniz per superare la sua metafisica, e quindi in genere la metafisica moderna, viene assunto dai kantiani come paradigmatico per ogni lavoro storiografico, cfr. ad esempio J. A. Grohmann, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 301: «Sta infatti davanti a noi il modo in cui Kant ha ricondotto il sistema leibniziano alle sue prime fonti [Quellen] e cause [Gründe], il fatto che ne abbia scoperto i fili principali che lo connettono con le cause nella facoltà della rappresentazione; credo che in questo stesso modo debba essere trattata ogni storia della filosofia, e che così essa è pragmatica. Questo ricondurre alle cause prime nella facoltà della rappresentazione è quindi il criterio di ogni storia della filosofia». 229 Cfr. M. Campo, La genesi del criticismo kantiano. Magenta, Varese 1953, I, pp. 254-267.

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efficacia ancora maggiore nella Critica. Un ulteriore esempio di questo tipo di ragionamento è dato dal principio di identità degli indiscernibili che deriva come corollario da quello di ragion sufficiente, su cui Leibniz punta per conferire un aspetto più realistico alla logica aristotelica, nella quale però a giudizio di Kant tutto il suo sforzo viene comunque riassorbito: se due concetti o due cose sono uguali per le medesime proprietà, sono da considerare come uno soltanto, dato che il contrario violerebbe il principio di identità, che garantisce il valore delle proposizioni. Ma, come noto, a Kant questo tipo di ragionamento sembra viziato esattamente dalla stessa fallacia della logica aristotelica della non contraddizione, quando questa si applica oltre l’ambito formale: due gocce d’acqua che «secondo quantità e qualità» sono pensabili come uguali, non lo sono di fatto perché occupano due spazi diversi e sono perciò effettivamente diverse come oggetti di un’esperienza distinta; anche se logicamente indistinguibili finché considerate «solo numero», come «oggetti della sensibilità» lo sono perfettamente. Poiché «intellettualizzò i fenomeni»230, Leibniz si è mosso tra gli oggetti in base ai principi formali della “topica logica”, appunto quella aristotelica, alla quale Kant contrappone una nuova “topica trascendentale”. Il metodo che costruisce l’aggregato di questa filosofia è la “comparatio” tra concetti, che sviluppa le possibilità della logica formale della subordinazione e del coordinamento. Poiché però «il semplice grado della subordinazione (dal particolare al generale) non può determinare i limiti di una scienza, sibbene, nel nostro caso, la totale eterogeneità e anche diversità d’origine»231, alla “comparatio” Kant propone di sostituire la “reflexio”, che si interroga sull’origine delle conoscenze prima di ricercare il modo del loro comporsi reciproco. Entro lo schema della “comparatio” rimane però anche Hume, sebbene non avverta la suggestione dei mezzi analitici leibniziani, dal quale Kant ha interesse a distinguersi per evitare che la Critica possa venire equivocata come nuova veste presa dallo scetticismo moderno. Anche Hume scambia un fatto della ragione con un principio232; nel suo caso il fatto elevato a principio è il presunto carattere psicologico della categoria di causa, motivo del “malinteso” da cui ha origine questa filosofia, che «dalla contingenza della nostra determinazione secondo la legge» passa «alla contingenza della legge stessa»233. Anche questo è un procedimento indiretto: se nel caso di I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 221, A271/B327, (tr. it., p. 219). Ivi, p. 545, A844/B872, (tr. it., pp. 515-516). Cfr. F. Martinello, L’identità degli indiscernibili in Leibniz, Albo Versorio, Milano 2006, p. 31 e p 105. 232 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., pp. 500-502, A767-768/B795-796, (tr. it., pp. 475-476). 233 Ivi, p. 500, A766/B794, (tr. it., p. 475). 230

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Leibniz la prova apagogica fa riferimento a un’impossibilità logica per trarne conseguenze di tipo oggettivo, in base al presupposto dell’isomorfismo tra logica e realtà, nel caso di Hume essa funziona nel senso opposto: parte dal reale, il contenuto delle rappresentazioni, per trarne la conseguenza che altra possibilità non può darsi nella conoscenza, se non appunto la contingenza dei suoi contenuti234. A questo proposito, Kant osserva che ci sono scienze in cui il ragionamento indiretto ha motivo di ricorrere e altre in cui esso è fonte di illusione: la metafisica come ricerca circa la legittimità della conoscenza, quella che Kant chiama “metafisica della metafisica” o “metafisica della mente”, rientra tra queste. Scrive infatti: Il modo apagogico della dimostrazione non può essere consentito se non nelle scienze, in cui sia impossibile sostituire il soggettivo delle nostre rappresentazioni all’oggettivo, ossia alla conoscenza di quello che c’è nell’oggetto235.

La matematica non corre questo pericolo, perché conta su dimostrazioni apodittiche, come in parte anche la fisica; a un tale rischio è invece sempre esposta la ricerca filosofica priva di consapevolezza trascendentale, che fa coincidere quello che trova nella conoscenza con la prova del suo valore, mentre la giustificazione della necessità e universalità di una conoscenza non sta in quanto essa afferma, ma in ciò che la rende possibile; e quindi non in essa come esperienza, ma nella ragione come sua condizione, indagata quando necessario «secondo analogia» ma mai in modo apagogico. Su questa base Kant presenta, sia pure nel linguaggio critico, una sorta di storia della dimostrazione scientifica, collegando a ogni scienza il tipo di prova attenendosi alla quale essa raggiunge il proprio compimento. Misurando su questa tipologia i risultati della speculazione non critica, Kant conclude che la filosofia del passato ha sbagliato quando ha creduto di potersi servire delle dimostrazioni di tipo matematico, che hanno carattere intuitivo, perché ad essa si confanno soltanto quelle discorsive; tra quelle discorsive inoltre la 234 Ciò non significa che i due filosofi possano essere considerati di uguale importanza per l’avvento del rinnovamento critico. Mentre Hume coglie il problema ma non riesce a porlo nell’ottica trascendentale, Leibniz sembra ripetere l’atteggiamento tradizionale della filosofia: «Queste categorie, le quali si sarebbero dovute prendere propriamente nel significato materiale, come appartenenti alla possibilità delle cose stesse, gli antichi le adoperavano in realtà solo in un valore formale, come appartenenti all’esigenza logica nel riguardo di ogni conoscenza; e nondimeno di questi criteri del pensiero facevano incautamente proprietà delle cose stesse», ivi, p. B114, (tr. it., p. 101). 235 Ivi, p. 514, A791/B819, (tr. it., p. 488).

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filosofia deve scegliere soltanto quelle dirette, e non le negative, come avvenuto nei sistemi pre-critici, che abbondano di affermazioni tratte secondo il “modus ponens” e il “modus tollens”. Anche in questo caso, il giudizio sulla storia si fonde con l’apertura di una nuova prospettiva. Poiché il passaggio dal soggettivo all’oggettivo, cioè la confusione tra fatto e principio, è assai facile nella metafisica, questa dovrà servirsi di dimostrazioni non apagogiche ma ostensive, risolvendo così il problema della conoscenza con il tracciare il quadro delle sue possibilità. La confusione tra fatto e principio inoltre permette sul piano storiografico di spiegare perché ogni filosofia non critica è stata unilaterale. Anche Hume, a cui pure tanto si deve per il risveglio della ragione, «non esaminò sistematicamente tutte le specie di sintesi a priori dell’intelletto» ma si soffermò unicamente sul rapporto tra causa ed effetto; ché, se avesse esteso la sua indagine ad esempio anche al concetto di permanenza, si sarebbe accorto di quello che forse, reputa Kant, pensava oscuramente, cioè alla differenza tra giudizi analitici e sintetici, ma che nel fatto gli sfuggì: Quando sottopone a censura alcuni principi dell’intelletto, senza portare sul saggiatore della critica questo intelletto rispetto a tutta la sua facoltà, e oltre a negargli ciò che realmente esso non può dare, va più oltre, e gli contesta ogni facoltà di estendersi a priori, malgrado che non abbia esaminato tutta quanta questa facoltà; allora egli urta nello scoglio, che rovescia in ogni tempo lo scetticismo, d’avvolgersi cioè esso stesso nel dubbio, poiché le sue obbiezioni si fondano solo su fatti, che sono contingenti, ma non su principi236.

Aggregato e sistema trovano nella Critica anche altre denominazioni: il primo è la versione speculativa di «un’unità tecnica» il cui schema «non è abbozzato secondo un’idea, cioè giusta il fine principale della ragione, ma empiricamente», ovvero, come abbiamo detto, trasformando un fatto nel suo principio; il secondo è invece «un’unità architettonica» e solo architettonicamente, per l’affinità di esso molteplice e la derivazione da un unico fine supremo ed interno, che è ciò che primieramente rende possibile il tutto, può sorgere quello che noi diciamo scienza237.

Si tratta di una distinzione importante dal punto di vista dell’ermeneutica storiografica, non soltanto perché fa vedere la differenza di struttura quale si presenta nella prospettiva aperta dalla Critica, ma anche perché indica 236 237

Ivi, pp. 500-501, A767/B795, (tr. it., pp. 475-476). Ivi, p. 539, A833/B861, (tr. it., p. 510).

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che la storia della filosofia, come anche le altre discipline filosofiche, ad esempio l’enciclopedia, trovano soltanto nell’ottica sistematica la possibilità della loro attuazione. Soprattutto però la nozione di “sistema”, per gli aspetti che la differenziano dal significato di questo concetto in Wolff, rinvia al valore più alto della filosofia come «teleologia rationis generi humanis»: la comprensione dei limiti e delle possibilità permette di dare luce allo scopo della ragione, che vi si riconosce, assumendo la consapevolezza della propria destinazione “etica”238. Se si continua invece a rappresentare la ragione nella forma apparentemente sistematica dell’aggregato, legandola a condizioni che essa non può soddisfare, sul suo fine rimane l’ombra in cui si è andata consumando la storia della metafisica come ontologia. Non si tratta quindi di un concetto rilevante soltanto per la scientificità e la coerenza del lavoro critico ma, come sempre avviene in Kant, quanto serve al sapere è funzione per quanto serve a vivere, essendo quella kantiana forse una delle ultime versioni della filosofia come disciplina eminentemente pratica e quindi in questo senso “classica”, cioè orientata al mondo come quella greca. Questo elemento è più esplicito nella Logica di Vienna che nella Critica: Un sistema è infatti la connessione di molte conoscenze secondo un’idea. Le nostre conoscenze storiche servono solo qualora la nostra ragione possa farne un uso conforme a fini. Poiché i fini sono subordinati l’uno all’altro, devono esserci dei fini che siano superiori e così nasce tra questi fini un’unità, ossia un sistema dei fini. Il vero valore del nostro uso della ragione può essere determinato soltanto mediante la connessione che questo tipo di conoscenze ha con i fini ultimi. È perciò una scienza della saggezza239.

7. Ontologia o analitica Concludendo la sua opera Kant scrive che la storia della filosofia rimane un posto da riempire nel sistema240. Ma in un certo senso il sistema scaturito dalla Critica si presenta per il suo autore, almeno in un primo momento, come un “tutto di posti vuoti”, dato che Kant si limita ad «abbozzare l’ar-

Sul concetto di sistema per Kant, cfr. N. Hinske, Zwischen Aufklärung und Vernunftkritik. Studien zur Kantschen Logikcorpus, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Canstatt 1998, pp. 103-108. 239 I. Kant, Logica di Vienna, cit., pp. 17-18. 240 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 550, A852/880, (tr. it., p. 519). 238

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chitettonica di tutta la conoscenza derivante dalla ragion pura»241 giungendo a delineare soltanto come progetto «il sistema intero della metafisica»242 secondo quattro parti fondamentali. Perché la rivoluzione del punto di vista producesse anche il rinnovamento della ricerca filosofica era necessario infatti che le discipline tradizionali recepissero l’impostazione del metodo trascendentale, venendone inevitabilmente cambiate nel presupposto metodico del loro procedimento. Nel programma che a tale scopo Kant presenta, quanto nella tradizione rientrava tra i contenuti della metafisica, viene scisso in due parti: l’ontologia e la fisiologia della ragion pura. Il fatto che Kant recuperi la parola ontologia dal vocabolario accademico non occulta il fatto che con essa ora si debba intendere una disciplina ben diversa, che per la definizione che Kant ne dà si può assumere come un sinonimo di analitica, o di “filosofia trascendentale” tout court: Un sistema di tutti i concetti e principi che si riferiscono ad oggetti in generale, senza assumere oggetti che sarebbero dati243.

L’ontologia nel senso tradizionale del termine invece presumeva che si potesse passare al giudizio circa gli enti in base all’assunto che quanto risultava possibile in senso razionale dovesse anche essere l’essenza della realtà; un’ontologia che era tale perché procedeva dal presupposto della “razionalità” oggettiva del livello estetico, a sua volta basata sull’assunto dell’esistenza come esecuzione della possibilità, e quindi circolarmente come dimostrazione della razionalità del reale. Da un punto di vista critico, se per un verso l’ontologia così fondata riconosceva giustamente l’appartenenza alla ragione dell’estetica, per l’altro non ne coglieva però l’autentica problematicità data dal suo misconosciuto carattere “soggettivo”244. Anche la fisiologia, la cosmologia e la teologia razionali avrebbero dovuto, da allora in avanti, svilupparsi come la rispettiva analitica dei principi di ognuno di tali ambiti differenti. In questo senso si può dire che la trasformazione critica investiva il modo di intendere il valore delle conoscenze filosofiche, proponendo di Ivi, p. 540, A835-B863, (tr. it., p. 511). Ivi, p. 547, A846/B874, (tr. it., p. 517). Va ricordato a questo proposito che con il passare degli anni si andrà attenuando la distinzione, avanzata nella Critica, tra propedeutica e sistema, sicché nell’indagine trascendentale stessa Kant comincerà a vedere già la realizzazione del sistema. 243 Ivi, p. 546, A845/873, (tr. it., p. 516). Sul sistema dei «predicabili» dedotti a priori dal rapporto tra le categorie, cfr. C. Ch. E. Schmid, Kritik der reinen Vernunft im Grundrisse, cit., pp. 44-45. 244 Cfr. F. L. Marcolungo, Wolff e il possibile, cit., pp. 121-126. 241 242

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abbandonare sia le conclusioni scettiche che le presunzioni ontologiche, prevalse in passato, per sostituire ad ambedue tali estremi un esercizio della riflessione metafisica che era scientifico in quanto approfondiva l’analitica dei principi caratteristici a ogni settore di indagine della nuova “metafisica”, o “metafisica della metafisica”245, che in tal modo si formava. Ma si incontra qui forse la maggiore difficoltà in cui sfocia la critica della metafisica e della filosofia. Perché se è vero che ancora non c’è stata filosofia, la filosofia ci sarà soltanto quando la si potrà pensare. La Critica quindi non assicura l’inizio della storia della filosofia, ma semplicemente che si cominci a ragionare nella giusta prospettiva circa gli “oggetti” della filosofia stessa. Ma l’invito a pensare da soli, per cui Kant scrive in più luoghi che, se anche si conoscessero a memoria tutte le affermazioni di Wolff, non si saprebbe ancora niente di filosofia, se filosofia è essenzialmente filosofare, vale anche per la Critica: conoscerla non significa né pensarla né saper pensare. Sicché alla filosofia va forse riconosciuto un senso ancora più radicale – forse troppo esigente – di non esistenza: se prima non esisteva perché non c’era in sostanza consapevolezza dell’impossibilità dell’ontologia, può non esistere ancora dopo la Critica se la ragione non viene liberamente indagata, con il solo limite del sapere critico: anche per Kant vale quindi il suo ammonimento che «non esiste nessuna filosofia garantita»246. Anche la storia della filosofia deve presupporre a ogni valutazione dei “sistemi” precedenti247, un’analitica della ragione filosofica nei suoi esiti storici, cioè una teoria della storia della filosofia che riconduca la diversità delle filosofie storiche alla prevalenza in esse di diversi e specifici ordinamenti trascendentali, e ne mostri sia l’unilateralità che il radicamento nella ragione248. Il che Kant delinea scrivendo in conclusione al suo trattato, che 245 Cfr. la lettera a M. Herz dell’11 maggio 1781, in Kant’s Briefwechsel, AA, X, 1, p. 269, (tr. it., pp. 104-105). 246 I. Kant, Reflexion XXIV, cit., 321. 247 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 542, A838/B866, (tr. it., p. 512): «Il sistema di ogni conoscenza filosofica è la filosofia. La si deve ammettere oggettivamente, se per essa s’intende il modello della valutazione di tutt’i tentativi di filosofare, il quale deve servire a giudicare ogni filosofia soggettiva, la cui costruzione è spesso così varia e mutevole. In questo modo la filosofia è una semplice idea di una scienza possibile, non data mai in concreto, ma a cui si cerca di accostarsi per diverse vie, finché non sia scoperto l’unico sentiero che il senso non lasciava vedere». L’analitica di cui qui si parla è quello che Buhle, citato come esempio di un atteggiamento diffuso tra i kantiani, intendeva come «l’applicazione dei risultati della critica dell’apparenza trascendentale ai sistemi storicamente esistenti della metafisica”, in J. G. Buhle, Entwurf der Transscendentalphilosophie, cit., p. 11. 248 In questo senso si possono intendere i due frammenti, databili agli anni 1793-1795, detti Lose Blätter F 3 e F 5, in Handschriftlicher Nachlaß, AA, XX, 7, pp. 340-343.

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«rispetto all’oggetto di ogni nostra conoscenza di ragione» i filosofi sono stati «semplicemente sensualisti, altri intellettualisti»; «rispetto all’origine delle conoscenze pure della ragione», Aristotele può essere considerato il «capo degli empiristi, Platone invece dei noologisti», Locke è stato l’aristotelico dei tempi moderni, e Leibniz il platonico (sebbene non mistico); e infine, «rispetto al metodo» filosofico, questo «si può dividere in naturalistico e scientifico»249. Rimane da chiedersi perché in questa prospettiva debba rientrare anche la storia della filosofia e quale esigenza, interna all’impresa critica, induca Kant a proporre di reimpostare anche la storia della filosofia sulla nuova base da lui scoperta, affinché possa diventare autenticamente filosofica. Innanzitutto c’è da dire che a Kant sembra necessario considerare la storia della filosofia una disciplina non meramente storiografica: come sappiamo, all’origine oggettiva dei tentativi della ragione deve corrispondere anche un’origine soggettiva altrettanto razionale, sicché non può bastare al giudizio storico in filosofia la generica metodologia storica. In secondo luogo, l’aver ricondotto la storia della metafisica a specifici modus operandi della ragione, la rende disponibile per il lavoro filosofico, quale si prefigura nella prospettiva critica come programma speculativo: la storia filosofica della ragione è esterna alla quadripartizione del sistema ma ne accompagnerà la costruzione, dato che a tale scopo la ragione può anche servirsi dei materiali di cui la storia della metafisica è una miniera, in cui è possibile scavare alla luce della Critica che li fa apparire prodotti della ragione e non episodi privi di significato, mere “cose del passato”. In terzo luogo, la Critica ha bisogno che la storia della filosofia sia rinnovata su basi filosofiche perché il suo cammino, come Kant non si stanca di dire, non avrebbe avuto senso, e non si sarebbe nemmeno svolto, senza la continua consapevolezza dell’inconcludenza e aporeticità della storia della metafisica: è quindi per essa un’esigenza vitale poter ripercorrere a ritroso il cammino compiuto allo scopo di far uscire la ragione dalla metafisica e dallo scetticismo, liberata dalle secche di unilateralità contrapposte di aggregati250. Per tutte queste ragioni, Kant sente il bisogno di gettare, da un punto di vista meramente trascendentale, ossia della natura della ragion pura, un’occhiata fugace all’insieme dei suoi lavori passati,

I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., pp. 550-551, A853-855/B881-884, (tr. it., pp. 520-521). 250 A tal proposito, la Critica viene indicata da Kant come un ritorno della metafisica «sui suoi propri passi per orientarsi» in «una nuova direzione», cfr. I. Kant, Preisschrift über die Fortschritte der Metaphysik, cit., pp. 261-262, (tr. it., pp. 68-69). 249

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

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che mi presenta certamente allo sguardo taluni edifici, ma soltanto in rovina251.

Con questo sguardo la Critica si dà un’ulteriore conferma della propria validità. Che la Ragione potesse osservare se stessa nella propria Storia, era però per l’autore della Critica un’esigenza soltanto funzionale a un progetto di fondazione, e rispetto a tale scopo quindi un mezzo accanto ad altre modalità di verifica, da sviluppare nel lavoro teoretico in senso proprio. Tuttavia, con ciò compiva un passo foriero di tante conseguenze, in cui questa possibilità avrà un ruolo molto più ampio, quasi riassorbendo in sé tutta la speculazione, conseguenze che l’autore della Critica non poteva preconizzare e che, si può dire in base a quel poco che gli fu dato di vedere, non avrebbe condiviso.

251

I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 550, A852/B880, (tr. it., p. 519).

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2 IL PROBLEMA DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA DAL PUNTO DI VISTA “KANTIANO”

1. L’inquadramento storico-universale della Critica nelle Lettere sulla filosofia kantiana di Reinhold Il motivo fondamentale dell’utilizzabilità storiografica della Critica della ragion pura deriva dal chiarimento di principio della differenza tra metafisica e filosofia. La prova di tale differenza, che separa due storie e segna il vero inizio della filosofia, – quello effettivo perché adaequatio rationi rationis – si incentra sul rapporto fra le tre logiche discusse nella Critica, la cui distinzione da un lato è sistematica, perché ha origine dal variare dell’effetto del principio di non contraddizione rispetto alla qualità dell’oggetto trattato; dall’altro è epocale, perché i “fatti” della storia della filosofia pre-critica potevano essere ricondotti alle dinamiche di questo variare della razionalità, nel quadro di quello che perciò poteva apparire in senso kantiano «un generale fraintendimento»1. La sinergia tra la sistematicità della costruzione logico-gnoseologica e la sua riferibilità storica, formava il terreno per porre per la prima volta in modo chiaro il tema del carattere filosofico di questa storiografia. Il primo intervento dedicato esplicitamente a mostrare come la rivoluzione critica potesse produrre effetti anche sulla teoria della storia della filosofia risale al 1791, ad opera di Heydenreich. Heydenreich si inseriva però in una già rilevante linea di valorizzazione del criticismo, avviata soprattutto da Reinhold con le Lettere sulla filosofia kantiana, linea che stava presentando la nuova filosofia con una forte connotazione storica. Ricordare quindi alcuni argomenti delle Lettere può essere utile, sia per inquadrare l’intero fenomeno 1

K. L. Reinhold, Versuch, cit., p. 41 (tr. it., p. 52).

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

qui in esame, sia per comprendere i motivi profondi che porteranno il loro autore a sviluppare questo tema in un apposito saggio nel 1791. Reinhold è una personalità emblematica delle tensioni del suo tempo. Il fatto che giungesse, dopo un’educazione presso la Compagnia di Gesù, all’ordinazione sacerdotale presso i Barnabiti, già condividendo però molti aspetti dell’illuminismo massonico della sua città natale, la Vienna di metà Settecento, risulta interessante se considerato dal punto di vista della sua successiva attività filosofica, e dei temi che in essa sono prevalenti2. L’entusiasmo per la Critica della ragion pura – di cui danno prova le Lettere – ha infatti origine dalla convinzione di trovarvi risolta la crisi in cui era bloccata la cultura contemporanea, una crisi che sorgeva dal fatto che il bisogno di razionalità, avvertito come indispensabile in ogni ambito del reale, rischiava di cancellare alcune dimensioni di questo reale, come ad esempio l’etica e la religione, vissute con la stessa intensità di quel bisogno medesimo. Nel 1789, quando aveva già avanzato una sua proposta teorica per perfezionare il criticismo, Reinhold ricordava «il penoso stato d’animo» in cui si dibatteva prima di incontrare il pensiero kantiano; un’inquietudine che gli era provocata dalla conclusione cui era giunto al termine di lunghe riflessioni solitarie, secondo la quale la metafisica poteva sì presentargli qualcosa di più di un piano per accordarsi ora con la propria testa, ora con il proprio cuore, ma non poteva presentargliene nessuno che fosse in grado di soddisfare le serie richieste di entrambi.

La liberazione da questo stato d’animo, in cui la conflittualità di quella duplice radice, immanentista e religiosa, trova un riscontro psicologico, era avvenuta attraverso la nuova filosofia, cioè tramite lo studio della Critica della ragion pura, dopo che aveva creduto di scorgere in essa, tra le altre cose, anche il tentativo di rendere indipendenti da ogni metafisica i fondamenti conoscitivi delle verità fondamentali della religione e della morale3.

Cfr. M. Frank, Unendliche Annäherung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 19982, pp. 199-224., Versuch, p. 54, (tr. it., p. 56). Un rapido schizzo anche delle fasi immediatamente successive del rapporto con il criticismo, è dato da P. Grillenzoni, ne L’incontro di Karl Leonhard Reinhold con la filosofia di Kant, in Atti del convegno di studi Momenti di ricezione di Kant nell’Ottocento, a cura di G. Micheli, Supplemento al n. 4/2006 della “Rivista di storia della filosofia”, pp. 33-43. 2

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IL PROBLEMA DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA DAL PUNTO DI VISTA “KANTIANO”

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Le Lettere sulla filosofia kantiana, apparse sul “Teutscher Merkur” tra il 1786 e il 1787 per essere poi raccolte in una prima edizione non autorizzata e in una seconda, ampliata, a cura invece dello stesso Reinhold tra il 1790 e il 17924, non offrono perciò una presentazione della Critica della ragion pura, le cui strutture speculative quasi non vi vengono discusse, come avveniva in altri scritti “popolarizzatori” della nuova filosofia5. Delineano invece una sorta di quadro storico-teorico della relazione tra la fede, la ragione e l’etica, quale si è svolta dal primo cristianesimo (anche se con alcune considerazioni ancora precedenti) sino al presente. In particolare, tracciano un bilancio della cultura moderna da Cartesio all’illuminismo, soppesandone i progressi con i problemi nuovi che ne sono derivati, per mostrare come soltanto la Critica rappresenti la svolta che l’epoca attende. Da queste duplice prospettiva storica, la prima più ampia e la seconda più circoscritta, diventava meglio visibile l’intenzione di fondo del pensiero kantiano, spesso occultata ai primi lettori, come ricorderà ancora Reinhold, da quello che erroneamente veniva giudicato un linguaggio “virtuosistico”, ma che era soltanto l’effetto della difficoltà di dare a vecchie parole i significati richiesti da un nuovo modo di pensare. Alla loro caratteristica peculiare, che era quella di non centrare la presentazione del criticismo nelle questioni più tecniche circa l’oggettività ma nell’etica e nella religione, le Lettere devono il successo che rese celebre il loro autore nel mondo filosofico e lo introdusse in quello accademico, portandolo a Jena. Un altro fattore del successo fu la scelta di procedere da esigenze comuni in un pubblico non specialistico come quello della rivista6, forse con conseguenze importanti anche sullo stesso Kant che, come suppone qualche interprete, potrebbe esserne stato indotto a dare nella Prefazione alla seconda edizione della Critica maggiore evidenza che nella prima al problema teologico ed etico, quale in effetti anima l’intero suo programma7. Sulla storia editoriale delle Lettere, cfr. A. Pupi, La formazione della filosofia di K. L. Reinhold, cit., pp. 62-67. 5 Come il celebre testo di C. C. E. Schmid, Kritik der reinen Vernunft im Grundriss, nebst einem Wortebuch zum leichtern Gebrauch der Kantischen Schriften, Jena 1786. Oppure, gli scritti di C. G. Schuetz, Kantianae de spatio doctrinae brevis explanatio, Jena 1788; Kantianae de temporis notione sententiae brevis expositio, Jena 1788; De vero sentiendi intelligendique facultatis discrimine Leibnitianae philosophiae cum Kantiana comparatio, Jena 1789; Schuetz fu con Bertuch il fondatore della “Allgemeine Literatur Zeitung”. 6 Sulle ragioni politiche e sistematiche di questa ricerca della “popolarità” in Reinhold, cfr. K. Ameriks, Reinhold’s Challenge: Systematic philosophy for the Public, in Die Philosophie Karl Leonhard Reinholds, “Fichte-Studien”, Supplementa, 2002, pp. 88-113. 7 Cfr. K. Ameriks, Reinhold’s first Letters on Kant, in K. L. Reinhold. Am Vorhof des Idealismus, hrsg. von P. Valenza, Biblioteca dell’“Archivio di Filosofia”, Istituti editoriali e poligrafici, 4

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

La cultura contemporanea, secondo Reinhold, versa in un grave malessere, che può essere misurato dalla debolezza della sua teologia, di cui è responsabile la ragione. Siamo infatti in un tempo in cui essa viene universalmente riconosciuta come il criterio di ciò che è degno accettare; non riesce però a giustificare le verità della religione, di cui comunque l’uomo continua a sentire il bisogno. La ragione è diventata troppo forte per conservare la fede senza prove, ma troppo debole per riuscire a rendere compatibili con le proprie aspettative i contenuti di cui invoca il sostegno. Da qui una condizione di globale ostilità nel mondo filosofico, che ha per motivo il protagonismo della ragione: È tipico del nostro tempo, che in questa faccenda le parti in lotta si rifacciano tutte alla ragione, sia che la esaltino o la condannino, in funzione della soddisfazione che credono di trarre dalle sue sentenze8.

Una corrente, che Reinhold definisce “iperfisica”, afferma che la fede è necessaria perché la ragione è incapace di dimostrare le verità della religione, come risulta dalle inconciliabili differenze tra le metafisiche. Ci sono quindi buoni motivi “razionali” per attenersi ai “fatti” della Rivelazione. La corrente opposta, invece, ritiene che la ragione possa ma ancora non sia riuscita a dimostrare quelle verità: lavora quindi per sostituire i suoi asserti alla fede, come vorrebbe lo spirito di un’età illuminata. Nel primo caso, che Reinhold identifica con il cattolicesimo, ma anche con certe punte del protestantesimo, la religione si degrada a superstizione, anche se a volte questa “passività” prende forme più raffinate come in Jacobi; nell’altro, esemplificato dal deismo di Mendelssohn, la ragione salva la religione eliminando così di fatto la fede9. O per conoscenza o con un “salto mortale”, questi atteggiamenti hanno in comune di ritenere che è possibile attingere le verità fondamentali della religione e della morale: in questo senso sono “dogmatici”. Non soltanto la superstizione è in lotta con il deismo, ma anche questo stesso si accende al suo interno in continue dispute tra metafisiche contrapposte10, che sembrano inevitabili perché i loro sostenitori «si ritrovano a confutare,

Pisa-Roma 2006, pp. 13-33. Poi in Id., Kant and the Historical Turn. Philosophy as Critical Interpretation, Clarendon Press, New York 2006, pp. 163-184. 8 K. L. Reinhold, Lettere, cit., p. 39. 9 Ivi, p. 61. Si avverte in questo confronto l’eco del “Pantheismus-streit” appena esploso. 10 Reinhold scrive sul “Teutscher Merkur”, ottobre del 1790, un “Vorschlag und Bitte an die streitenden Philosophen”, su cui cfr. L. Holst, Das Fundament des gesamten Philosophie Herrn Kant, Hendel, Halle 1791, p. 227 (Aetas Kantiana, 113).

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IL PROBLEMA DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA DAL PUNTO DI VISTA “KANTIANO”

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anche quando non vogliono», e «riescono soltanto a confutare l’opinione altrui senza essere giunti a provare la propria»11. Stanco della vanità delle discussioni metafisiche, si presenta ancora un terzo atteggiamento, indifferente alla religione e attento invece alle discipline dell’esperienza, come la scienza o la storia12, i cui risultati in molti casi concorrono a screditare la tradizione cristiana13. Ad esso è molto vicino un quarto atteggiamento, lo scetticismo, antimetafisico al punto da non condividere la fiducia nella conoscenza sensibile e sperimentale. Ateismo e scetticismo hanno in comune di negare ogni possibilità di ottenere una qualche sicura conclusione in teologia. Secondo Reinhold rivelano «un esplicito odio nei confronti della ragione» che va però giudicato come «una forma di disperazione»14. Quello che conta aver presente in questo disegno, è che si tratta sempre di operazioni condotte dalla ragione: persino la “superstizione” instaura un riferimento, sia pure negativo, alla ragione, perché intende provare, sulla base della contraddittorietà di quei sistemi, l’insufficienza della ragione e l’indispensabilità del loro surrogato sovrannaturale15.

Questi quattro orientamenti esauriscono lo stato della situazione filosofica, in modo che nessuno riesce a prevalere sull’altro. Non è allora difficile comprendere perché si sia affermato un “dubbio emergente”, il quale, sempre secondo Reinhold, ha così poco a che fare con il solito scetticismo, che si limita al non-sapere, che, dal momento stesso che se ne sia capito il senso, si sente urgente il bisogno di una soluzione16.

K. L. Reinhold, Lettere, cit., p. 42. Anche la sostituzione della metafisica con la storicità delle metafisiche, cui erano allora impegnati Herder e con criteri diversi la storiografia dell’illuminismo tedesco, rappresentava uno dei segnali maggiori dello smarrimento, cfr. Lettere, cit., p. 44. Circa il rapporto di Reinhold con Herder, cfr. M. Heinz, Grundzüge der Geschichtsphilosophie in Reinholds Briefen zur Kantischen Philosophie, in K. L. Reinhold. Am Vorhof des Idealismus, cit., pp. 314-320. 13 K. L. Reinhold, Lettere, cit., p. 54. Cfr. per l’identificazione di questo atteggiamento con la filosofia lockiana, K. L. Reinhold, Über den Begriff der Philosophie, in Beiträge zur Berichtigung bisherigen Missverständnisse der Philosophen. Erster Band, das Fundament der Elementarphilosophie betreffend, hrsg. von F. Fabbianelli, Meiner, Hamburg 2003, pp. 43-44, (tr. it. in Concetto e fondamento della filosofia, cit., pp. 32-33). 14 K. L. Reinhold, Lettere, cit., p. 47. 15 Ivi, p. 43. 16 Ivi, p. 44. 11

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

Un dubbio quindi non dogmatico, come quello dello scetticismo radicale che esclude la possibilità di una soluzione, ma “critico”. Questo dubbio si esprime in una domanda che a prima vista non ha contatti con la teologia ma che in realtà viene avanzato principalmente per tematizzare la possibilità di dare a quest’ultima un fondamento: La domanda: che cos’è possibile in forza della pura ragione? pur sonando tanto metafisica, riecheggia chiara nella voce del nostro secolo così antimetafisico. Non abbiamo quasi più discussioni teologiche al di fuori di quelle pro e contro la ragione. […] L’impegno è stabilire che cosa la ragione sia o non sia capace di fare: si cerca cioè di trovare le prove delle proprie opinioni all’interno della facoltà stessa della ragione17.

Lo stato della metafisica moderna esige di «ricominciare per prima cosa a conoscere l’ambito fino a qui sconosciuto della ragione»18, dato che è essa a portare nella religione lo scompiglio, per il quale una parte rafforza la convinzione dell’altra quanto più fa per convincerla di avere torto: la situazione che Ameriks definisce «culture wars»19. Ma se i contrasti circa le cose divine mettono in luce l’aspetto filosofico della crisi, la sua «urgenza e vistosità» si comprendono soltanto se si considera la questione etica che vi è racchiusa. Per capire cosa comporta su questo piano la separazione tra fede e ragione, occorre ripensare il significato del cristianesimo originario, e quindi guardare alla storia; secondo Reinhold, la cultura contemporanea si trova infatti in una situazione analoga a quella che precedette la predicazione cristiana: Nella massa dei suoi contemporanei Cristo aveva trovato una religione senza morale e in un paio di sette filosofiche una morale senza religione20.

Esisteva una morale razionale, ma era incapace di suscitare quel coinvolgimento emotivo che facilita l’agire etico, e che ne estende l’efficacia oltre le elitès intellettuali; e c’era una religione senza morale, a cui dovere un’ubbidienza cieca e priva di significato. Non diversamente da quanto avviene nel mondo moderno nelle forme della superstizione e del deismo, che vorrebbero fare valere o soltanto l’adesione a un’autorità esterna o soltanto la convinzione offerta da argomentazioni. 17 18 19 20

Ivi, pp. 46-47. Ivi, p. 45. K. Ameriks, Reinhold’s first Letters on Kant, cit., p. 22. L. K. Reinhold, Lettere, cit., p. 64.

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Il cristianesimo dà alla religione la morale e veste la morale di forme religiose. Le concilia perché si presenta come una sorta di “estetica” per comunicare ai più e per far interiorizzare agli altri l’etica razionale: all’uomo incolto le sue immagini infondono la consapevolezza del bene, e gli rendono comprensibile la dimensione religiosa, sino ad allora passivamente accettata; all’uomo colto, che comprende la necessità del bene ma non avverte immediatezza nel seguirlo, le sue immagini suggeriscono la fratellanza del rapporto con gli altri, sino ad allora concepito in modo intellettuale come legame nell’identica umanità alla maniera “stoica”. Compito del Cristianesimo fu di rendere comune possesso di ogni ceto i frutti delle profonde speculazioni dei sapienti di questo mondo, tradurre in caldo amore e pratico profitto il freddo consenso loro tributato unicamente da un ristretto numero di menti pensanti: fare ciò che non era riuscito a Socrate e ai suoi: trarre la filosofia giù dalle sterili aree della speculazione e inserirla nel mondo reale21.

Poiché la religione era l’esperienza più comune, il cristianesimo procedette all’unificazione di religione e morale «dalla parte del cuore», cioè servendosi del sentimento religioso perché si affermasse un’etica razionale che, pressoché sconosciuta al mondo antico, si è diffusa al punto che nel mondo moderno nessuno più la contesta. Per i motivi già osservati, non è più la religione l’esperienza fondamentale ma la ragione, sotto la cui direzione si è diffusa un’etica oggettivamente analoga a quella cristiana, e che ormai sembra avviarsi a vivere anche senza il suo originario riferimento alla fede. Tale etica “naturale” è propria sia al deismo, che vuole religione senza fede, sia alla cultura intellettuale o scettica; ed è presente persino nel cristianesimo cattolico, che non riesce a negare che sia possibile esserle coerente anche al di fuori dei vincoli all’esteriorità in cui esso si mantiene. Da dove allora l’allarme di Reinhold, che nella finzione epistolare è in effetti l’allarme del suo corrispondente? Ovvero, perché un’etica senza religione è un segno di crisi interna all’illuminismo e non il massimo compimento della cultura della ragione, dato che consiste in una specie di laicizzazione degli stessi comandamenti dell’etica religiosa? Sembra infatti che la cultura della ragione abbia semplicemente spogliato l’etica razionale implicita nel messaggio cristiano del rivestimento estetico della sua mediazione: sembra quindi che l’abbia condotta alla forma pura cui parrebbe destinata, non avendo più bisogno di proiezioni sentimentali con cui conquistarsi la coscienza universale. 21

Ivi, p. 66.

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

Per rispondere, occorre allora cercare di comprendere quali possano essere i limiti di un’etica razionale senza religione, che è appunto il problema che Reinhold trova risolto in Kant. Questi consistono non più nel suo carattere aristocratico, superato grazie al cristianesimo e alla cultura della ragione che ne è scaturita, ma nell’irrilevanza che vi hanno le questioni tipiche della fede, come la rimunerazione e la vita futura; aspettative, che non sono accessorie rispetto al comandamento etico, come ritiene un certo illuminismo incredulo. L’idea di una vita dopo la morte, l’idea di un Dio garante di felicità giusta sono in primo luogo una convinzione universale in ogni civiltà, evidenza storica significativa22, e in secondo luogo rendono più forte l’etica nella misura in cui ne sono il completamento razionale. Senza l’assicurazione di queste due verità, l’etica non può essere pienamente razionale: le mancherebbe infatti una sistemazione generale delle sue esigenze che può esserle quindi conferita soltanto da una coerente prospettazione religiosa. Ma una tale prospettazione è divenuta inaccettabile per la cultura della ragione che vi legge ormai soltanto il “fanatismo” della superstizione; ed esce screditata dal lavoro di quella sua componente che vorrebbe suffragarne i contenuti perché rifiuta ogni obbedienza che non sia alla ragione, ma nel dimostarne le “verità” produce «un rigido, inerte deismo cerebrale»23 in cui i dubbi circa la possibilità di una via speculativa alla religione si moltiplicano. «Supernaturalisti, naturalisti e scettici» hanno facile gioco nel mostrare nelle discussioni dei metafisici continue contraddizioni, «come illusioni ottiche che nessun’altra illusione ottica è in grado di demolire»24. Se il cristianesimo ha unito etica e religione procedendo «lungo la via del cuore»25, ossia servendosi di quella che abbiamo definito un’estetica per promuovere l’etica autentica, ora, nell’epoca della ragione, è soltanto da questa che possono venire gli argomenti per procedere a una nuova riunificazione, che la parte più problematica della cultura illuminista, – né superstiziosa, né deista, né incredula, né scettica – alla quale Reinhold appartiene, considera Quest’evidenza non ha però valore filosofico perché basta soltanto al “sano intelletto umano”: «Molto spesso e duramente si è addossato alla ragione filosofante la colpa di non essersi messa d’accordo con se stessa rispetto a tale questione, laddove il comune intelletto umano avrebbe risposto ad essa positivamente per mezzo della voce di tutte le nazioni civili, con una unanimità molto vistosa. Si è però anche riflettuto sul fatto che l’intera questione ha per il comune intelletto umano un senso differente che per la ragione filosofante? Per quello essa significa: c’è un Dio? per questa invece: c’è un fondamento conoscitivo per l’esistenza di Dio?», in Versuch, pp. 76-77, (tr. it., pp. 67-68). 23 K. L. Reinhold, Lettere, cit., p. 81. 24 Ivi, p. 72. 25 Ivi, p. 73. 22

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necessaria per la razionalità dell’etica. In questo senso Reinhold ritiene che «l’assunzione e diffusione della conoscenza di Dio, fondata sulla pura ragione, è il primo impegno del nostro tempo» e che «una pura religione è l’esigenza del tempo presente, come diciotto secoli fa lo fu una pura morale»26. Il carattere decisivo di questo problema spiega perché la filosofia moderna ha cercato di stabilire che cosa la ragione può conoscere, non tanto per dare una sanzione ai saperi dell’esperienza, forti di proprie credenziali27, quanto per tentare la comprensione delle verità della religione. E così il problema gnoseologico diventa: che cosa può la ragione rispetto ai contenuti religiosi? Il deismo è l’unica teologia razionale possibile, sicché non ci può essere alcuna teologia veramente “razionale”, e quindi nessuna etica razionale? Poiché risponde a tali interrogativi, la Critica viene defininita da Reinhold «una autentica e sistematica filosofia della religione»28, quindi come uno scritto teologico in cui si affronta daccapo il problema di una religione razionale, necessaria a che l’etica razionale trovi il suo coerente compimento e con questo lo trovi anche l’età della cultura della ragione29. Il suo effetto principale sta nel conferire al messaggio cristiano una forma in cui, per la prima volta, il suo intrinseco contenuto razionale si configura in modo adeguatamente razionale30. Dall’indagine critica risulta infatti che alla ragione è impossibile fornire prove sia a favore che contro le “verità” religiose, perché la conoscenza è vincolata alla particolarità di una base sensibile, già questa prodotto della ragione: né “iperfisica” né “deismo” sono mai stati possibili; risulta anche però che essa stessa, intesa come pratica, cioè ai fini della razionalità dell’agire, può porre l’evidenza, non teoretica quindi ma etica, delle due verità universali della religione, l’esistenza di Dio e la vita nella giustizia dopo la morte. Non soltanto in questo scritto Reinhold considera infatti «l’evidenza della legge morale [come] l’unica che possa stare al passo dell’evidenza matematica»31. Ivi, p. 68. Interessante notare che Reinhold riconosce il ruolo positivo della filosofia di Wolff nella promozione di una conoscenza attenta al dato e all’empirico, perché identifica significato e ragion d’essere, cfr. Versuch, pp. 3-4, (tr. it., p. 38). 28 K. L. Reinhold, Lettere, cit., p. 87. 29 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., pp. 530-531, A 817-819/B 845-847, (tr. it., p. 502). 30 Ad esempio, cfr. ivi, p. 73. Da qui l’esagerazione di considerare la Critica il vangelo contemporaneo, eccesso – che dal punto di vista cosmico-storico reinholdiano è però giustificato – di cui lo stesso Kant si lamentò, pur in un complessivo giudizio di lode per il testo. 31 Ivi, p. 79. Cfr. anche Versuch, p. 114, (tr. it., p. 86). Sul significato del “sommo bene” come apertura verso la scoperta dell’autonomia della ragione, cfr. A. Lazzari, Das Eine, was der Menschheit Noth ist. Einheit und Freiheit in der Philosophie Karl Leonhard Reinholds (17891792), Fromann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2004. 26 27

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

Confutando sia la possibilità della certezza soggettiva che la possibilità di quella speculativa dell’esistenza di Dio a favore della pratica, Kant può rivendicare un duplice merito: aver posto con la massima chiarezza il problema su cui si stava applicando inutilmente la filosofia moderna, problema che anche quando si presenta come questione del rapporto tra il pensiero e le cose, suppone in realtà quello teologico (e infatti vi culmina, da Cartesio a Leibniz, da Hume a Locke); avere dato ad esso una soluzione originale, la cui efficacia è sistematica perché avviene in forza di principi capaci di annullare ad un tempo prove e controprove: ad opera di principi, cioè che, nell’atto stesso in cui privano il deista delle sue armi immaginarie, lo liberano anche dal timore delle armi altrettanto immaginarie dei suoi avversari32.

La Critica può dimostrare «con pari esattezza tanto al metafisico il suo abuso della ragione, quanto all’iperfisico l’usurpazione dei diritti della ragione»33. Vedremo nel prossimo paragrafo che i criteri in forza dei quali Reinhold dichiarava la nuova filosofia strutturalmente diversa da tutte le altre, se servivano ad evidenziare questa differenza, potevano essere utilizzati anche come categorie storiografiche per l’interpretazione sistematica del passato della filosofia.

2. Criteri ed effetti della storicizzazione della Critica nelle Lettere sulla filosofia kantiana Può essere interessante enucleare alcuni dei criteri “storicamente efficaci”, presenti nelle Lettere, poiché li ritroveremo nelle teorie di storia della filosofia proposte dai primi kantiani. Il principio fondamentale con cui Reinhold ricostruisce la storia universale della cultura, è che «lo spirito umano è stato guidato dalle leggi della sua natura anche prima che ne avesse cognizione»34. In particolare, esso procede dal presupposto di una «nostra disposizione alla Divinità» che è «vivente e pura», storica e a priori, di cui osserva «lo sviluppo» nella «storia universale della religione»35. Tale storia diventa comprensibile K. L. Reinhold, Lettere, cit., p. 72. Ivi, p. 71. 34 Ivi, p. 107. Espresso anche osservando che già prima della scoperta della rifrazione della luce in sette colori, e anche dopo, veniva percepito il bianco: anche prima della Critica e persino prima del cristianesimo, era attiva la razionalità pratica da cui sono derivate le molteplici religioni dell’umanità, (cfr. ivi, p. 53). 35 Ivi, p. 81. 32

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come “universale” perché tramite l’impostazione kantiana se ne è definita la condizione di possibilità, cioè il suo riferimento assoluto astorico, in rapporto al quale si può adesso misurarne – per il passato – e orientarne – per l’avvenire – il corso36. Quest’acquisizione è preliminare a che l’opera dell’“attitudine” possa essere riconosciuta nella contraddizione delle esperienze cui ha dato luogo. Analogamente, anche le altre dimensioni principali dell’esperienza si fanno significative alla luce della «struttura essenziale della natura umana» quale risulta da «quell’inopinata presa di coscienza di sé della ragione, di cui andiamo debitori all’esplorazione critica dell’intera nostra facoltà conoscitiva»37. Reinhold ritiene che la storia della cultura segua un certo movimento, risultante dal fatto che «le regole della ragione» sono state efficaci anche prima che grazie a Kant diventassero «conoscenze della ragione»38. Abbiamo già considerato che l’evidenza delle attitudini etico-religiose decresce con l’aumento del ruolo della ragione, sino al punto in cui questa esige di giustificare le esperienze che da quelle dipendono, generando però soltanto contraddizioni: Kant le giustifica perché ne prospetta una fondazione radicalmente nuova. Il senso della storia che troviamo nelle Lettere è quindi quello di un illuminismo della Bildung, dell’educazione del genere umano, in cui uno stesso contenuto, che proviene dalla ragione, dapprima si presenta come certezza del sentimento, e continua ad agire finché si trasforma anche in opera della ragione. Si tratta però di una Bildung non progressiva, che presenta due fasi: quella in cui la ragione esplora ed esaurisce le proprie possibilità precedentemente alla presa di consapevolezza critica, possibilità di assoluto che essa cerca fuori di sé; e quella della rivoluzione, per cui essa si volge a se stessa, scoprendovi altre, più conformi possibilità, per quell’identico contenuto, cioè per le sue aspirazioni fondamentali. Dei due interessi per la religione presenti nella natura umana, quello sensibile e quello morale, cominciò a manifestarsi il primo nell’idea di un Dio giusto vindice, che cronologicamente precede quella della vita futura, in cui si manifesta invece l’interesse morale. Assai significativo è che per Reinhold la filosofia comincia con l’idea della vita futura: Le prime rivelazioni dei profeti quanto le prime indagini dei filosofi riguardarono unicamente la natura della vita futura: la cui esistenza evidentemente era fuori discussione39. Si tratta di quei due lati del pensiero di Reinhold, che per Ameriks ne fanno il protagonista della “historical turn” in filosofia, in Kant and the Historical Turn, cit., pp. 7-9, p. 175. 37 K. L. Reinhold, Lettere, cit., p. 104. 38 Ivi, p. 131. 39 Ivi, 107. 36

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Pertanto la storia della filosofia è intessuta in quella delle fasi già più evolute della storia universale della religione, a cominciare da quando la coscienza ormai colta ha avuto bisogno per credere non più tanto di istinti e di memorie quanto di ragioni, finendo però, nel corso di un secolare approfondimento di questo problema, con il trovare involontariamente ragioni soprattutto per non credere. Dopo la nascita della religione dal sentimento dell’uomo come «giovane figlio della natura»40, si apre infatti il «lungo periodo intermedio»41 in cui «la convinzione religiosa» cominciò a sentire l’esigenza di fondamenti conoscitivi, che poi si riveleranno impossibili da trovare: «Si ebbe prima una religione storica», dove storico – come sempre in Reinhold – significa fondamentalmente “sensibile”; una religione quindi devozionale, in cui il «fondamento conoscitivo» consisteva in una «rivelazione sovrannaturale», in una tradizione “storica”; «in seguito una religione filosofica», ossia l’inizio dell’epoca contrassegnata dalle ricerche metafisiche e della crisi religiosa che vi si lega, in cui il fondamento storico non fu più sufficiente e se ne cercò uno razionale, rimanendo sempre all’interno di un modello conoscitivo: a questa fase si deve il perfezionamento delle competenze speculative della ragione, esercitate nel più astratto degli oggetti di riflessione; «per approdare infine alla religione morale»42, cioè alla dimostrazione kantiana dell’impossibilità delle prove sia storiche che speculative che orienta il superamento della crisi della modernità al di fuori di un contesto conoscitivo, con il quale superamento «l’interesse morale» trova finalmente la sola giustificazione coerente con la sua possibilità. Un ulteriore criterio è quindi che i fondamenti su cui la coscienza “religiosa” si è basata non sono legittimi in assoluto, come ritengono nella loro fissità la superstizione e il deismo, ma cambiano relativamente al grado di sviluppo della cultura: L’identico principio, in un certo periodo indispensabile per garantire alla religione la sua benefica influenza sulla formazione morale, finirebbe in seguito per privarla di questa influenza43.

Con sensibilità storica, Reinhold riconosce che «entrambi i fondamenti conoscitivi», cioè quello storico e quello speculativo, sebbene inadeguati, «furono tuttavia assolutamente indispensabili per la preparazione di quella

40 41 42 43

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,

p. p. p. p.

104. 108. 81. 109.

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grande scoperta»44 (cioè la scoperta della praticità razionale), e presenta i meriti dell’uno e dell’altro nella diffusione della religione, pur proponendosi di dimostrare come «indispensabile ed inevitabile è la loro eliminazione in vista del futuro»45. Se la Critica fa comprendere i motivi dell’eliminazione di ogni pretesa puramente conoscitiva rispetto alla religione, al senso storico di Reinhold interessa soprattutto mostrare come né l’atteggiamento dell’indifferenza né quello della superstizione né quello del deismo siano stati ingiustificati, sebbene lo diventino, evidentemente, dopo Kant. Il discorso circa la rimozione del fondamento conoscitivo storico è meno interessante di quello sull’eliminazione del fondamento conoscitivo filosofico, perché la confutazione delle dimostrazioni metafisiche è la causa immediata della svolta critica e richiede, infatti, un esame ben più rigoroso ed una più circostanziata illustrazione […] per il solo motivo che qui è riconosciuta in pieno la ragione46.

In particolare, il problema concerne le argomentazioni circa l’immortalità dell’anima. Soprattutto nella sesta lettera, la questione critica è molto presente. Reinhold contesta che i tradizionali concetti con cui si sostiene l’immortalità dell’anima, cioè la sostanzialità e la semplicità, permettano di dire che la conosciamo, in base al criterio kantiano per cui pensare non è conoscere. Anzi l’anima, così definita, è per la conoscenza una mera incognita vuota di contenuto. Ed è significativo che questo carattere si sia sempre più evidenziato quanto maggiore diventava la coerenza dei concetti metafisici, soprattutto da quando Cartesio giustamente negò che l’anima, in quanto semplice, potesse essere anche estesa. Ma senza estensione niente è oggetto possibile di conoscenza, come ha obiettato Spinoza: quanto affermato da Cartesio è quindi necessario altrettanto che la contestazione di Spinoza, il quale ne trae conseguenze del tutto opposte. L’idea di anima come sostanziale e inestesa è contraddittoria rispetto alla possibilità della sua esistenza reale: il raffinarsi dei concetti filosofici rende quindi sempre più insostenibili le idee metafisiche mentre sembra invece rafforzarle tramite concetti maggiormente precisi, e finisce quindi col portare alla luce la difficoltà di ridurre l’una all’altra la sensibilità e la ragione, o di farle cooperare senza sbilanciamenti. In questo modo, Reinhold intende evidenziare il fatto che la stessa storia della metafisica mostra la necessità del proprio esaurirsi,

44 45 46

Ivi, p. 108. Ivi, p. 109. Ivi, p. 115.

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quanto più profondi ne diventano i risultati. Così Reinhold radica il criticismo nella storia della filosofia, perché lo presenta come un pensiero innovativo e senza autentici precedenti, il quale però per un verso non sarebbe stato possibile senza le discussioni che l’hanno preceduto, sebbene siano state soltanto “tentativi”, e per l’altro non può essere compreso nella sua autentica portata se non lo si inquadra nell’orizzonte costituito da quelle discussioni, e quindi dall’intero passato della filosofia, il quale ha sperimentato modi di indagine e “soluzioni” ricapitolate dalla Critica nell’esatta misura in cui essa, con la sua novità, li mette da parte; il pensiero di Kant, poiché mette fine a quei “tentativi”, è l’unico che della loro storia può fornire una spiegazione integrale e radicale, cioè non meramente storica ma filosofica. Questi due sensi sono racchiusi nella seguente definizione, che presenta la contesa tra esperienza e ragione come la matrice delle conflittualità da cui è stata attraversata la storia della filosofia, sino a che la Critica non ha mostrato quale ne debba essere il vero rapporto, preparando un generale accordo nel mondo della ricerca speculativa: E che cosa è poi la storia della filosofia vera e propria, se non la storia delle variopinte, molteplici configurazioni fantastiche, che necessariamente dovettero profilarsi all’occhio dell’umano spirito nel corso delle lotte della pura ragione contro le nebbie della sensibilità, prima che i concetti della ragione emergessero nella loro forma autentica, definita e immutabile?47

Occorre notare che nel Reinhold delle Lettere si incontra un inquadramento filosofico della storia della filosofia, ma non secondo il modello “aprioristico” che comunemente si collega a impostazioni fortemente speculative come ad esempio quelle della storiografia hegeliana o vichiana48; le filosofie pre-critiche sono “necessarie” ma non nel senso teleologico di fasi preordinate come passaggi in successione di una potenzialità: sono piuttosto esperienze con cui la ragione sviluppa le possibilità del proprio auto-inganno. Ivi, p. 92. Cfr. A. Pupi, La formazione della filosofia di K. L. Reinhold, cit., p. 93: «La maniera reinholdiana di fare la storia, conformemente alle abitudini della mentalità filosofica del tempo, è singolarmente differente dalla nostra concezione odierna: il metodo è aprioristico, deduttivo: non parte dal rilievo dei fatti bensì ricava dall’analisi della natura dell’oggetto studiato il suo destino storico. La storia del pensiero viene dedotta dalla natura della facoltà conoscitiva umana: sensibilità, ragione speculativa, ragione pratica sono le tre dimensioni dello spirito umano, che successivamente rivelandosi lo informano determinando delle mentalità e delle epoche. Questa deduzione della storia dalla struttura trascendentale – che abbiamo visto operare già nei primissimi saggi di Reinhold – facilmente richiama i nomi dello Hegel e del Vico e forse un esame intenzionato a mostrare la comunità del mezzo culturale che raccoglie queste concezioni della storia potrebbe offrire qualche messa a fuoco opportuna». 47 48

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La prospettiva critica rende “filosofica” la storia della filosofia perché dà ragione della ripetitività aporetica dei medesimi atteggiamenti. Ogni filosofia contraddice l’altra che a sua volta impara presto come contraddirla, e tutte compongono una generale contrapposizione in cui sono date le possibilità di quello che appare un unico insieme, il modo pre-critico di pensare, nel quale teologia, metafisica e scienza sono come obbligate a scontrarsi per la conquista di una verità che non sanno essere per loro indisponibile. La progressione che si osserva nella fase pre-critica si caratterizza per l’assenza della possibilità del “fine” autentico della ragione49. Riconoscere che tanta diversità di filosofie è apparente perché partecipa dello stesso schema, e pertanto pensare fuori di esso, sono per Reinhold i due atti concomitanti – teorico questo e storico-filosofico quello – della rivoluzione critica50. Perché la storia in generale, e in questa quella della filosofia, siano rappresentabili in modo teleologico, occorre che al movimento in due fasi – pre e post critica – della ragione subentri il protagonismo dello spirito, “autore” di una fenomenologia il cui significato non avrà più rapporto con l’apparenza ma con la manifestazione della verità, sebbene articolata attraverso il negativo; ogni momento superato sarà allora per questa ragione – che appunto prendendo le distanze da Kant potrà diventare “spirito” – una conquista di consapevolezza allo stesso tempo relativa, perché ancora “negativa” ma “intera” perché sempre coinvolgente lo spettro del suo essere la realtà; nell’accezione reinholdiana e kantiana, la “fenomenologia” è invece confinata al tempo “pre-critico”, l’unico “dialettico”, da cui la necessità non è assente ma è totalmente “negativa” perché necessità di “illusioni” contrapposte; un

Cfr. S. Givone, La storia della filosofia secondo Kant, cit., pp. 89-135. Da questo punto di vista si spiega perché Reinhold nelle Lettere, come poi anche in seguito, rifiuta l’atteggiamento di Herder o degli illuministi tedeschi, i quali anche se in modo diverso, cercavano la soluzione al problema della metafisica sorto dalla sua storicizzazione, con una diversa comprensione della stessa dimensione storica. Ciò significava ad esempio per Herder individualizzare la metafisica, e accettare che questa non esista come sistema ma come coscienza etica in evoluzione, modus existendi di una comunità. Una tale fuga nella storia per Reinhold amplifica il problema etico e quello stesso della storia della filosofia, che per essere affrontato esige la giustificazione di ciò che è “storico”, e non che quanto è storico venga assunto a giustificazione. Opposto il giudizio reinholdiano precedente all’incontro con il criticismo, cfr. Schreiben des Pfarres zu *** an dem Herausgeber des T. M., in “Teutsche Merkur”, I, 1785, pp. 148-174. Questo scritto che elogiava le Ideen herderiane, criticate invece da Kant, provocò la polemica di quest’ultimo, cfr. I. Kant, Erinnerungen des Rezensenten der Herderschen Ideen zu einer Philosophie der Geschichte der Menschheit über ein im Februar des Teutschen Merkur gegen diese Rezension gerichtetes Schreiben, in “Allgemeine Literatur-Zeitung”, 1785, I, s.p. Cfr. su Herder, A. Carrano, Il pensiero che prova. Il destino nella riflessione filosofica di fine Settecento in Germania (Herder, Schelling, Hölderlin, Hegel), Editori Riuniti, Roma 2007, pp. 24-63. 49

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tempo posto al di qua del vero, che soltanto il suo essere saputo come tale, cioè il suo farsi storiografia, potrà riscattare51. Si vede così il caratteristico orientamento reinholdiano a mantenere la rivoluzione della Critica in contatto con lo sfondo dal quale si distingue. Il suo valore sta infatti nell’aver saputo separarsi da questo sfondo, ma soprattutto nell’averlo saputo creare, operazione che prima nessuna filosofia aveva concepito. L’eccezionalità che rende la Critica non facilmente accessibile ai contemporanei viene presentata nelle Lettere come una strategia che mentre estranea da un orizzonte, ne delinea un altro. E sebbene ancora non vi sia tematizzata, come sarà negli scritti successivi, questo indica che la Critica possiede secondo Reinhold un’efficacia radicale con cui è possibile concepire la storia della filosofia secondo due modalità, quella della prosecuzione problematica storico-universale e quella della sistematicità dei suoi contenuti. Le metafisiche, come anche lo scetticismo e l’empirismo, sono atteggiamenti reciproci, i quali non potevano che essere assunti da una ragione non ancora compresa nei suoi limiti. Sono le Lettere, allora, la prima indicazione della possibilità, a partire dalla Critica, di fornire i concetti per una storia filosofica della filosofia. E questo perché essa crea un’unica prospettiva, in cui la ragion d’essere del passato e la ragion d’essere del cambiamento si uniscono attorno all’unico argomento critico52. Vedremo nei prossimi paragrafi di questo capitolo che quel doppio profilo della continuità problematica

Riscattare significa che i sistemi pre-critici, compresi nella loro ragion d’essere dopo la Critica, potranno essere riutilizzati come materiali, prove, esercitazioni della ragione, atti della sua esplorazione “alla cieca”. Per l’accezione kantiana di “fenomenologia”, cfr. la lettera di Kant a Herz del 21 febbraio 1772, (Kant’s Briefwechsel 1747-1788, cit., p. 129, tr. it., p. 65). In questa, dopo una sorta di autocomprensione dei risultati della Dissertazione del 1770, Kant presenta l’ipotesi della ricerca che poi diventerà quella della Critica della ragion pura, suddividendone la parte teorica in una “fenomenologia” e in una “metafisica”. Cfr. anche I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, AA, IV, cit., p. 555. 52 In questo senso la storia della filosofia kantiana, cioè le vicende del suo affermarsi come delle ostilità che suscitò, è per Reinhold la prosecuzione dei consueti contrasti tra i dogmatismi, cfr. Versuch, cit., p. 178. La risposta reinholdiana al quesito sui progressi della metafisica dai tempi di Leibniz e di Wolff, consiste nell’evidenziare come ogni grande tradizione, l’idealistica di matrice lebniziana, la materialistica di matrice spinoziana, e la scettica ritenga che la Critica abbia chiarito quanto nelle loro precedenti impostazioni non era ben definito. Sicché il progresso fatto starebbe davvero nella Critica, ma in un criticismo interpretato depotenziandone la novità sino a renderlo conferma di quanto esso invece, secondo lo spirito e la lettera, smentisce (cfr. K. L. Reinhold, Versuch einer Beantwortung der von der erlauchten Königl. Ak. der Wissenschaft. zu Berlin aufgestellten Frage: “Was hat die Metaphysik seit Wolff und Leibniz gewonnen?”, cit., p. 202; pp. 212-215 e p. 224; p. 235). In questo saggio, Reinhold sviluppa concetti già esposti in Systematische Darstellung aller bisher möglichen Systeme der Metaphysik, “Der neue Teutsche Merkur”, 1, 1794, pp. 3-18. 51

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e della sistematicità dei suoi fenomeni, per il quale alla storia della filosofia non basta essere narrativa, verrà espresso dai kantiani che seguiranno a Reinhold attraverso una specifica rimodulazione speculativa del concetto di “pragmatico”. Reinhold può esporre la Critica prescindendo dal tema dell’oggettività, e nonostante questo presentare quell’organismo che è il criticismo, perché ne fa consistere la persuasività maggiore nel giustificare la storia della filosofia (e in essa tutta la storia della Bildung), ovvero nel dimostrare: 1) che la filosofia è una necessità della ragione, la quale perciò non ha mai cessato di tribolarsi nelle sue contraddizioni; 2) che ogni filosofia ha espresso qualcosa di autentico (anche se non interamente vero) perché scaturisce da una modalità e da una condizione della ragione; 3) che la filosofia non ostacola, bensì rafforza il senso autentico della religione, come dimostra il fatto che le loro “storie” si toccano nell’essenziale. Questi tre punti declinano il tema generale per cui l’uomo è chiamato alla sua destinazione la quale, essendo razionale, richiede l’esperienza della ragione nella quale si va compiendo.

3. Il programma di Heydenreich per una “rifondazione” critica della storiografia filosofica Il testo in cui Heydenreich teorizza che si possa fare storia della filosofia in modo adeguato soltanto nella prospettiva critica, è posto in appendice alla traduzione della Storia di Cromaziano53. Diffondendo quest’opera, Heydenreich e il traduttore, Grohmann, si proponevano di migliorare nell’area tedesca la conoscenza della filosofia moderna, come si evince dalla anonima “Vorrede”: 53 K. H. Heydenreich, Einige Ideen über die Revolution in der Philosophie, bewirkt durch Immanuel Kant, und besonders über den Influß derselben auf die Behandlung der Geschichte der Philosophie, in Agatopisto Cromaziano kritische Geschichte der Revolutionen der Philosophie in den drey letzten Jahrhunderten. Aus dem Italienischen mit prüfenden Anmerkungen und einem Anhange über die Kantische Revolution versehen von Karl Heinrich Heydenreich, Weygandschen Buchhandlung, Leipzig 1791, pp. 215-232; il testo è riprodotto nella collana Aetas Kantiana (95), da cui si traduce l’appendice sulla storia della filosofia Alcune idee sulla rivoluzione portata da Immanuel Kant nella filosofia e in particolare circa il suo influsso sulla trattazione della storia della filosofia. Una “Appendice” alla traduzione tedesca della Storia critica della restaurazione di ogni filosofia ne’ Secoli XVI, XVII, e XVIII di Agatopisto Cromaziano, cfr. infra, pp. 229-238. D’ora in poi, citato solo come Alcune idee sulla rivoluzione portata da Immanuel Kant e in particolare circa il suo influsso sulla trattazione della storia della filosofia. La traduzione era stata eseguita da Grohmann, cfr. G. Micheli, “Introduzione” a “Gli sviluppi storiografici del kantismo”, in Storia delle storie generali della filosofia, 4/I, L’Età hegeliana. La storiografia filosofica nell’area tedesca, Antenore, Padova 1995, p. 16.

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Se la storia della filosofia moderna avesse avuto nel nostro tempo una sorte positiva pari a quella antica […] una traduzione di quest’opera sarebbe stata piuttosto superflua54.

Eccezion fatta per Brucker, Heydenreich giudicava infatti che lo studio del periodo da Cartesio a Wolff, fosse stato molto trascurato55. L’interessamento per quest’epoca della filosofia, cui già si era dedicato con un vasto lavoro su Spinoza56 e che avrebbe coltivato anche in seguito, non era estraneo alla contesa pro e contro il criticismo che imperversava in quel periodo. Come altri kantiani, Heydenreich riteneva che una delle cause principali della difficoltà di comprendere la Critica, consistesse nell’ignoranza circa la filosofia degli ultimi tre secoli, ma in particolare di quella più recente. Si può a tal proposito ricordare un passo del saggio con cui Born inaugura il “Neues philosophisches Magazin”, una rivista pubblicata insieme ad Abicht e “destinata” a diffondere e difendere il criticismo57. Nella sua prima parte, il saggio riguarda la Verifica delle accuse di oscurità della filosofia kantiana. Anonimo (ma forse K. H. Heydenreich), ivi, “Vorrede”, Cfr. l’analoga affermazione dell’anonimo autore (ma G. W. Tennemann) di Übersicht des Vorzüglichsten, was für die Geschichte der Philosophie seit 1780 geleistet worden, in “Philosophisches Journal einer Gesellschaft deutschen Gelehrten”. Fortsetzung, IX, 1795, p. 84. 56 Heydenreich aveva esordito con un lungo lavoro su Natur und Gott nach Spinoza, Müller, Leipzig 1789, in cui metteva in evidenza il concetto kantiano della libertà sullo sfondo della filosofia di Spinoza. Kant però avrebbe negato che la sua dottrina potesse conciliarsi con quella di Spinoza, esattamente come contestava l’interpretazione scettica del criticismo data da Schulze, cfr. I. Kant, Cosa significa orientarsi nel pensiero, cit. pp. 61-62, nota. Il libro di Schulze è ovviamente, Aenesidemus oder über die Fundamente der von dem Herrn Prof. Reinhold in Jena gelieferten Elementar-Philosophie. Nebst einer Vertheidigung des Skepticismus gegen die Anmaßungen der Vernunftkritik, 1792, (ora Aetas Kantiana, 240). 57 Born è uno dei primi ad intervenire a favore della nuova filosofia; cfr. ad esempio le polemiche contro Weishaupt e contro Feder circa il valore non idealistico del criticismo, la formalità di spazio e tempo, la differenza ontologica tra cosa in sé e fenomeno, svolte nel Versuch über die ersten Gründe der Sinnenlehre. Zur Prüfung verschiedener, vornämlich der Weishauptischen Zweifel über die Kantischen Begriffe von Raum und Zeit, Klausbarths, Leipzig 1788, di cui alcune pagine sono tradotte nell’antologia La “Critica della ragion pura” nell’Aetas Kantiana, cit. Ci sembra interessante ricordare questo passo: «L’idealista dice: non c’è nessun mondo sensibile, ma tutto è apparenza e illusione. Al contrario, Kant afferma: il mondo sensibile è senza dubbio qualcosa di reale; e per noi nulla è più reale di esso. E tutto ciò che possiamo trovare fuori di esso è semplice apparenza», (ivi, p. 18). Di Abicht si ricorda lo scritto “reinholdiano”, Hermias: oder Auflösung der die gültige Elementarphilosophie betreffenden Aenesidemischen Zweifel, Walther, Erlangen 1794; ma soprattutto il saggio di risposta al quesito dell’Accademia di Berlino sui progressi della metafisica dai tempi di Leibniz e di Wolff, Versuch einer Beantwortung der Aufgabe: “Welche Fortschritte hat die Metaphysik in Deutschland seit Leibnitz und Wolff gemacht?”, in Preisschriften über die Frage: Welche Fortschritte hat die Metaphysik seit Leibnitzerns Zeiten in Deutschland gemacht?, Maurer, Berlin 1796, pp. 255-469. 54 55

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Secondo Born, l’oscurità può essere di due tipi: “oggettiva” come ad esempio in Böhme e Swendeborg, che non espongono con ordine quello che pensano; “soggettiva” quando invece non si riesce a seguire l’arco di un’argomentazione altrui, in se stessa chiara. La Critica è chiara oggettivamente perché le sue parti concordano in un intero, e quindi risulta oscura soltanto soggettivamente, cioè per quelli che non hanno una riflessione bene esercitata, una severa, estesa attenzione, una testa sistematica. Tutti requisiti, che nella nostra epoca superficiale non sono affatto fenomeni abituali! In questo senso lo ammetto volentieri: il sistema di Kant ha molte oscurità. Sono però oscurità non oggettive, bensì soggettive, e hanno il loro fondamento negli errori e sbagli di coloro che non lo studiano in modo appropriato. La colpa non è nel sistema; sta nella disattenzione, dispersione, fretta, o anche nella disabitudine a riflettere e nell’incapacità di qualche suo lettore58.

Uno dei fattori della “disabitudine”, qui lamentata da Born, consisteva nella mancanza di esercizio storiografico presso i professori. La gran parte del mondo accademico, composto da “popolari” che disprezzavano la speculazione, riteneva inutile soffermarsi sulle differenze tra i pensatori moderni che in quanto tutti metafisici si riteneva avessero detto più o meno le stesse cose. Ancora nel 1794 Reinhold, citando una celebre definizione mendelsohniana di Kant, polemizzava contro l’ignoranza storica dei “popolari”: Cosa sia diventata la metafisica attraverso Descartes, Spinoza, Leibniz, Locke, Berkeley, Hume, forse soltanto una ventina di dotti in Germania lo sanno dalle fonti, ed è quasi del tutto dimenticato grazie ai resoconti che dalla cattedra e nei loro scritti ne fanno i nostri filosofi popolari: da allora però essa attraverso i cambiamenti che l’onnistritolatore Kant ha intrapreso con la sua materia e la sua forma, è diventata proprio il contrario di ciò che i nostri pedagoghi e demagoghi ne sanno: nessuna

58 F. G. Born, Prüfung der Klagen über die Dunkelheit der Kantischen Philosophie, in “Neues philosophisches Magazin. Erläuterungen und Anwendungen des Kantischen Systems bestimmt”, Witwe, Leipzig 1789, I, 1, p. 11. Ovviamente Born cita come esempio di oscurità oggettiva due pensatori neoplatonici che più lontani dal criticismo non potrebbero essere. Sull’ostilità dei kantiani per questo tipo di filosofia, cfr. G. G. Fülleborn, Neuplatonische Philosophie, in “Beiträge”, dove scrive che «la speculazione rimarrà sempre una madre del dubbio» e che «noi tutti invidiamo a volte quei beati che credono a ciò che non riusciamo a cogliere» (pp. 70-71). «In molti questo stato d’animo è permanente, e fa fare il primo passo verso il misticismo più schwärmerisch», come il neoplatonismo dei “mesmeriani” e “swedenborghiani”. Tutte queste cose dovrà considerare la posterità quando vorrà capire il tempo di Kant (p. 85).

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meraviglia che per il grosso di essi, il nome della metafisica abbia più o meno lo stesso destino del nome religione a Parigi59.

A questi kantiani sembrava, quindi, che il destino della Critica dipendesse anche dal livello del sapere storico, cioè dal fatto che si comprendesse o meno quale differenza si era aperta con essa nella storia della metafisica60. Di conseguenza, essi avvertivano sia un bisogno di “applicazione” del criticismo tramite la verifica della sua fecondità storiografica, sia un’esigenza di approfondimento filologico relativo alle altre filosofie, urgente affinché il carattere rivoluzionario di quella nuova potesse meglio risaltare tramite il confronto con quel tratto di storia della metafisica che con essa si concludeva. Già il libro di Heydenreich su Spinoza del 1789 rispondeva a tale scopo, proponendosi di esaminare alla luce dei concetti critici quello che i contemporanei giudicavano «il sistema più conseguente che la speculazione soprasensibile possa escogitare»61, sicché studiare Spinoza significava quasi studiare la metafisica nel profilo della massima sistematicità con cui essa poteva presentarsi prima di Kant. Tuttavia, insistere affinché si studiasse meglio la filosofia moderna era per Heydenreich necessario anche rispetto allo stesso ambiente kantiano, nel quale si stava diffondendo al riguardo una disattenzione, sia estranea a Kant stesso, che soprattutto contraria allo spirito della sua filosofia. Nello stesso libro su Spinoza, osservava che anche la maggior parte dei sostenitori del sistema vincente», cioè di quello critico, «tratta tutti i sistemi da Platone sino a Herder in un tono, come se ci si dovesse vergognare di averli studiati», per la caduta di valore che deriverebbe dalla scoperta kantiana secondo cui «essi non hanno più validità oggettiva che le forme di un gioco di ombre»62. Questo disinteresse rivelava una significativa incomprensione del criticismo, perché proprio chi ha «misurato la forza visiva della ragione» dovrebbe sapere che si tratta di ombre persistenti, e anzi inevitabili: «La critica della ragione e la natura [di essa] stanno in contrasto, dato che quella rinvia alla verità e questa all’illusione»63, e poiché la storia della metafisica non finisce, è bene continuare a studiarla, tanto più che, approfondendola, non si fa altro che approfondire la filosofia critica stessa. 59 K. L. Reinhold, Systematische Darstellung aller möglichen Systeme der Metaphysik, in “Der neue Teutsche Merkur”, I, 1794, p. 4. 60 Per questo motivo il “Neues philosophisches Magazin” si proponeva di pubblicare anche molti saggi storiografici. 61 K. H. Heydenreich, Natur und Gott nach Spinoza, cit., p. XII. 62 Ivi, pp. IV-V. 63 Ivi, pp. VII-VIII.

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Ma in attesa che altri lavori storiografici in senso kantiano venissero svolti, si capisce perché potesse sembrare già utile tradurre Cromaziano, uno storico piuttosto oggettivo, che «coglie di solito ogni filosofo dal giusto punto di vista e da questo determina la quantità dei suoi progressi». Ci si poteva allora avvalere dell’oggettività di Cromaziano non soltanto per evitare entro il fronte kantiano l’abbandono di un campo di studio che invece, proprio dalla nuova filosofia poteva ricevere finalmente la sua corretta impostazione; ma anche per replicare agli attacchi di quanti, tra i leibniziani, sostenevano che la nuova filosofia altro non fosse che una sofisticata versione della loro ontologia, cioè dell’unione di logica e metafisica (fondata sulla tesi della continuità tra sensibilità e intelletto) la cui tradizione essi proseguivano. Questi, che da Wolff avevano ereditato quel senso della storia che era diventato carente nei “popolari”, contestavano la Critica chiamando in causa il passato della filosofia, dal quale tiravano la conclusione che il pensiero kantiano non fosse una “rivoluzione”. È a loro che nel saggio tradotto in Appendice si riferiscono queste parole di Heydenreich: Ci sono filosofi che non possono capacitarsi che il sistema di Kant sia nuovo e unico, il primo e l’ultimo della sua specie. Si appellano alla storia e accusano di ignoranza storica tutti coloro i quali affermano che l’impresa di Kant non possa essere paragonata, anche soltanto in una certa misura, con nessun tentativo di qualsiasi filosofo prima di lui. Mi sembra che questi uomini non avrebbero potuto evidenziare la loro totale incapacità a giudicare Kant tramite un più inequivocabile segno, che con questo loro richiamo alla storia della filosofia. Infatti, questa pone in modo attendibile la novità e la singolarità del sistema kantiano tanto al di sopra di ogni dubbio, che il conoscitore di quest’ultimo ne viene rafforzato nella sua adesione quanto più estesamente si diffonde nello studio dei monumenti filosofici, e profondamente penetra nel loro spirito.

Il fatto che «alcuni filosofi credono di trovare in Leibniz una critica della ragione», fa dubitare Heydenreich che i sostenitori di una critica leibniziana della filosofia in genere sappiano cosa sia una critica della ragione. Di sicuro, se si considera identico sviluppare un sistema tramite la ragione, e fondare un sistema su una teoria e dimostrazione della facoltà, e dei limiti della ragione, allora si può rintracciare una critica della ragione nello stesso Bruno e in Spinoza. O, se si confonde la logica generale con la critica della ragione, si può credere di incontrare in Wolff e Crusius dei critici della ragione64. 64

C. H. Heydenreich, Alcune idee sulla rivoluzione portata da Immanuel Kant nella filosofia

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Una buona storia della filosofia moderna serve quindi alla causa kantiana anche su questo fronte, certamente più complicato del primo, perché contrasta la strategia di omologare la Critica alla “normalità” della filosofia intesa “leibnizianamente” come ontologia. In particolare, il maggiore esponente della corrente leibniziana, Eberhard, cerca di dimostrare come i principali concetti kantiani siano già presenti, perlomeno implicitamente, nell’orizzonte speculativo “leibniziano”, sicché si potrebbe dire che per Eberhard il criticismo forma un’eresia entro questa tradizione65. Per i kantiani invece il criticismo non consiste in un tentativo di esposizione razionale della ragione, ma in un’indagine sulle sue possibilità, che nessuno prima aveva intrapreso. Altrimenti sarebbe “critico” chiunque si fosse occupato di logica e di metafisie in particolare circa il suo influsso sulla trattazione della storia della filosofia, infra, p. 232, (ted., p. 220). Il cenno a Bruno non è casuale. Heydenreich ha per questo filosofo una rilevante attenzione, perché lo considera un grande metafisico. 65 Un esempio importante di questo tentativo di ridurre al passato la Critica, è fatto da Eberhard in Über die Unterscheidung der Urtheile in analytische und syntetische, in “Philosophisches Magazin”, I, 1789, n. 3-4, pp. 307-332. È il testo che Kant suggerisce a Reinhold di criticare per porre un argine alla polemica della rivista. Reinhold ne fa una recensione in cui inserisce passi di una lettera di Kant, nella “Allgemeine Literatur-Zeitung”, nn. 174, 175, 176 del 1789 (pp. 577-584; 585-592; 593-597). In questo articolo, Eberhard attacca la distinzione tra giudizi sintetici e analitici cui Kant aveva dato particolare rilievo nella “Vorerinnerung” ai Prolegomeni. In questa sede, Kant aveva detto che questa distinzione era stata intravista da Locke, invece Wolff e Baumgarten avevano scelto di ignorarla per ragioni sistematiche. Secondo Eberhard invece, già Crusius aveva compreso tale distinzione, che era chiara ancora prima nel sistema di Leibniz, il quale però le aveva dato un nome diverso, chiamando il giudizio analitico “identico” e quella sintetico “non identico”. Il giudizio “identico” risponde al principio di non contraddizione ed esprime le verità eterne, le verità di ragione; in esso il soggetto e il predicato sono identici o assolutamente, la mera tautologia, o parzialmente. Il giudizio “non identico” corrisponde al principio di ragion sufficiente ed esprime le verità di fatto e contingenti. Già Leibniz avrebbe quindi posseduto questa distinzione, la quale opera senza difficoltà in un sistema che afferma la possibilità della conoscenza reale. Kant avrebbe soltanto chiamato in modo diverso una serie di concetti noti. Nella lettera a Reinhold del 1 maggio 1789 Kant fa notare come in realtà Eberhard non abbia distinto due classi di concetti, ma abbia ridotto i sintetici a priori nell’ambito degli analitici. Per Eberhard infatti analitico è uguale a “non identico”, e questo significa che si postula una identità soltanto implicita che il giudizio esplicita mostrando nel predicato una connotazione essenziale già posta nel soggetto, sia pure occultamente. Nel giudizio “identico” il rapporto di soggetto e predicato è posto dal principio di non contraddizione nella figura della tautologia; nel giudizio “non identico” tale rapporto è immaginato implicito e reso manifesto dal principio di ragion sufficiente. Ma non avviene neanche in questo caso quell’unione che caratterizza la sintesi. L’errore di Eberhard consiste nella prospettiva del suo ragionamento, prospettiva meramente logica. Da un punto di vista soltanto logico, è ammissibile che il giudizio “non identico” abbia le caratteristiche che gli attribuisce Eberhard. Tuttavia, il livello logico è meramente formale e non può riguardare il piano della formazione della conoscenza, che viene compreso soltanto assumendo la prospettiva trascendentale.

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ca, cioè dei contenuti del libro di Kant. Il punto è che questo non è “un libro di” logica e metafisica ma, diremmo, “un libro su”, cioè un ragionamento che, mettendole in questione, ristruttura l’una mentre cambia l’altra. Il bisogno di una nuova storicizzazione della filosofia, che Heydenreich svolge rispetto a quella moderna come altri kantiani, ad esempio Fülleborn, avrebbero fatto poco dopo per l’antica, dipende allora dal voler evidenziare l’eccezionale storicità del pensiero di Kant, quello che ai loro occhi costituiva il suo “fare epoca”, quell’«interrompere il dogmatismo apodittico» che scinde in due parti l’esperienza della filosofia66. L’idea che la storia della metafisica avesse un termine di svolta radicale era inconciliabile con la visione storica “leibniziana”. In questa – come peraltro si trova sviluppata dallo stesso Eberhard, attento al tema storico già prima che apparisse la Critica – la ragione si forma, cioè procede allo schiarimento dei principi con cui opera nell’organizzazione dell’esperienza, in base al presupposto della corrispondenza tra le ragioni delle cose e quelle pensate, nel quale trovano la rispettiva collocazione sistematica tutte le dimensioni del fare e del comprendere. Si tratta di una storiografia illuministica, in cui opera una concezione continuista e progressiva della speculazione. I leibniziani non comprendono perché la Critica dovrebbe fare eccezione, innanzitutto sul piano teoretico; ma così da un punto di vista kantiano non tanto la svalutano quanto la disconoscono del tutto, perché il suo significato deriva da alcune caratteristiche che la rendono un unicum, caratteristiche che giustificano la completa revisione del problema storico in filosofia e che Heydenreich indica loro in modo preciso nel saggio C’è una filosofia? Prima di esaminare quali sono tali caratteristiche, occorre una breve considerazione su questo testo, per cominciare a periodizzare il dibattito sulla storia della filosofia. Si tratta di un lavoro di tre anni successivo all’appendice alla Storia di Cromaziano che vi viene riprodotta in gran parte e con alcune aggiunte, sicché in sostanza questi scritti formano le due fasi di una sola riflessione. Tra essi vi sono però anche importanti differenze. Il testo del 1791 introduce un argomento che rimarrà fondamentale per l’intera successiva discussione: la storia della filosofia è possibile soltanto quando si sia avuta la vera filosofia. Questo argomento viene contemporaneamente rilanciato da Reinhold con la lezione Sul concetto di storia della filosofia dello 66 Cfr. K. H. Heydenreich, Alcune idee sulla rivoluzione portata da Immanuel Kant nella filosofia e in particolare circa il suo influsso sulla trattazione della storia della filosofia, infra, p. 234, (ted., p. 224): «Se affermo che l’idea di questa grande impresa non era venuta in mente prima di Kant a nessuno dei filosofi a noi noti, affermo qualcosa che perlomeno non può essere contraddetta da nessun dato determinato della storia della filosofia»; cfr. anche, infra, p. 235, (ted., p. 226).

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stesso anno, in cui viene elaborato nei termini a cui si riferiranno poi tutti coloro che interverranno nella polemica sul significato e il metodo della storia della filosofia: definita in modo rigoroso la filosofia, si può definire in modo esauriente anche che cosa sia la sua storia. Peraltro, la ricerca di una definizione rigorosa di filosofia porterà Reinhold sempre più lontano da Kant, come noterà anche Heydenreich. Ma a questo punto diventa opportuno precisare che è Reinhold a dare al dibattito il suo aspetto didascalico, per cui in esso vedremo contrapporsi diverse definizioni di filosofia e di storia della filosofia, in base all’opportunità di inserirvi una nota o un’altra: uno stile che culminerà nel saggio composto nel 1797 da Johann Christian August Grohmann, testo che, pur essendo molto importante, presenta un fastidioso andamento analitico, al limite della pedanteria. Con il saggio del 1791 Heydenreich dà il via alla discussione ma non ancora secondo lo stile “scolastico” che la caratterizzerà a partire da Reinhold. Insieme al riflesso dei temi nel frattempo emersi nella discussione, questo stile lo si ritrova però in C’è una filosofia? del 1793, dove anche Heydenreich procede in modo definitorio. In un certo senso quindi questo secondo saggio è più interessante del primo, perché più ricco e filosofico, sebbene il primo abbia maggior valore storico per il suo carattere pionieristico67. Inoltre, permette di seguire l’evoluzione personale di Heydenreich nel suo complicato allontanamento da Reinhold. Ciò detto per storicizzare la successione dei testi, possiamo tornare al rapporto di Heydenreich con i leibniziani, e alle caratteristiche della filosofia kantiana che ne fanno la sola critica della ragione che mai vi sia stata. Secondo C’è una filosofia? «che prima di Kant non si sia data alcuna vera critica della ragione» lo dimostrano i seguenti fatti: 1) che questa non può essere una questione di logica e di ontologia; delle quali discipline la prima tratta soltanto la forma di tutto il pensare, la seconda, come appare nei sistemi della Schulphilosophie, suppone l’indubbio esserci di una facoltà della ragione capace di conoscenza del soprasensibile; 2) che anche per questo a un sistema non può adattarsi nessuna critica della ragione, se in esso si sostiene un sistema di eterne verità di ragione intrinseche all’uomo, per mezzo delle quali questo possa ergersi oltre la conoscenza sensibile a quella delle cose in sé e del mondo soprasensibile, senza che si dimostri con ragioni sufficienti l’esistenza di un tale sistema, lo si rappresenti in modo completo e determinato, e si

67 Questo è il motivo per cui abbiamo preferito tradurre questo, e non Giebt es eine Philosophie?, i cui brani più significativi sono comunque citati nel presente paragrafo.

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indichi in modo soddisfacente in che modo attraverso la sua applicazione sia possibile la conoscenza del soprasensibile68.

Se i leibniziani affermano che al di fuori di un tale presupposto non rimane che lo scetticismo, l’eccezionalità della filosofia critica sta nel riuscire ad eludere l’alternativa tra questo e il razionalismo logico-ontologico, con una posizione del sapere che mostra tramite la sua nuova idea di “oggettività”, l’insostenibilità di entrambi. Se il razionalismo non è mai stato critico, non lo è neanche lo scetticismo. E Heydenreich può concludere l’elenco dei fatti che dimostrano come prima di Kant non c’era mai stata alcuna critica della ragione osservando, al terzo punto, che il modo di considerare la capacità umana della conoscenza che è proprio allo scetticismo, in nessun caso può pretendere il nome di una critica della ragione69.

Questo è uno schema interpretativo che, da quella più recente, si estende in realtà a tutta la storia della filosofia. In uno scritto del 1796, dedicato al secolo secondo Heydenreich per eccellenza “filosofico”, il diciottesimo, si comprende bene come la filosofia in senso autentico per i kantiani nasca con Kant, il quale appare quasi l’eroe solitario che pensa secondo i dati della ragione, e si astrae con forza gigantesca dalla fossilizzazione del pensiero speculativo in modi sbagliati. Heydenreich è impegnato in quel periodo a stabilire un concetto “enciclopedico” di filosofia, che cioè si adatti a tutte le discipline filosofiche70. Lo scopo della filosofia consiste nel determinare il concetto della destinazione umana; questo suppone l’indagine su ciò che all’uomo è possibile conoscere. Eppure, nonostante il carattere decisivo di quest’indagine per la sua stessa realtà, da Aristotele e Platone la filosofia da questo lato non ha fatto quasi alcun progresso, e Cartesio, il cui spirito autonomo ha pure aperto qualche nuova strada, aveva tuttavia trascurato quasi del tutto questo tema. Il di68 K. H. Heydenreich, Giebt es eine Philosophie? Was ist ihr Wesen? Von welcher Zeit an kann man ihr Daseyn rechnen? In welchem Sinne und Umfange darf man Kant den Schöpfer der Philosophie nennen? Was für einen Einfluss haben seine Erforschungen auf die Behandlung der philosophischen Geschichte?, (poi solo Giebt es eine Philosophie?), in Originalideen über die interessantesten Gegenstände der Philosophie. Nebst einer kritischen Anzeiger der wichtigsten philosophischen Schriften, 3, Baumgärtner, I, Leipzig 1793, (Aetas kantiana, 100). 69 Ibid. 70 Riteneva infatti che questo fosse l’unico sviluppo necessario al kantismo, in polemica con il progetto reinholdiano di esplicitare invece il principio reale di cui il criticismo avrebbe bisogno per compiersi effettivamente.

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ciottesimo secolo ci consegna, come sembra, tutte le teorie che lo spirito filosofico poteva condurre sui primi fondamenti di ogni conoscenza, e tra esse quelle per le quali l’intera indagine porta ai più sicuri, generalmente validi risultati, e secondo l’essenziale, è stata per sempre conclusa.

Questo è quindi il secolo che porta la filosofia dalla potenza all’atto, perché si pone il problema del fondamento ultimo della conoscenza, mentre prima secondo Heydenreich si cercava di stabilire questo fondamento, dando per scontato che esistesse e distinguendosi soltanto in merito alla sua identificazione. Per Leibniz la conoscibilità delle cose è assicurata dal patrimonio delle conoscenze innate, per Locke invece dalla forza descrittiva delle rappresentazioni. Entrambi operano quindi entro lo stesso presupposto della corrispondenza delle rappresentazioni alle cose, pensato in modo opposto: formano «scuole dogmatiche positive»71. Hume rompe lo schema perché dimostra che non c’è conoscenza la quale non sia costruzione, e quindi stacco tra la cosa e il suo essere saputa. Ma siccome anch’egli è incapace di pensare la verità in termini diversi dalla corrispondenza, Hume distrugge ogni verità, cancellando il valore stesso dell’oggettivo. Limitiamoci ad osservare il modo diverso in cui, secondo Heydenreich, questi pensatori usano il loro passato. Soltanto «Leibnitz, Locke e Hume» hanno agito «sostenuti dai lavori preparatori dei pensatori acuti dei secoli precedenti». Kant invece ha pensato in quanto si è sciolto e allo stesso tempo liberato da tutti i saggi del mondo precedente come del suo tempo, ardito e forte abbastanza per misurare l’orizzonte spirituale dell’umanità su nuove e mai tentate strade, e con uno slancio, prima appena avvertito, della ragione speculativa72.

Potremmo dire che perché si scoprisse l’autonomia della ragione era necessario che la ragione stessa si rendesse autonoma dalla propria storia. Heydenreich identifica la vera filosofia con l’ardire, che caratterizza Hume ma il cui vero rappresentante è Kant73. Entrambi fanno filosofia in solitudine, nel senso che si collocano oltre ogni tradizione perché riescono a pensare nei termini stessi della ragione. Che infatti non ci fosse conoscenza la quale non fosse rappresentazione, era secondo Heydenreich un elemento che avrebbe potuto essere facilmente compreso anche da Leibniz e da Locke,

71 C. H. Heydenreich, Allgemeine Übersicht der Fortschritte der theoretischen Philosophie im achtzehnten Jahrhundert, in Originalideen, Leipzig 1796, cit., III, p. 19. 72 Ivi, pp. 6-7. 73 Ivi, p. 14.

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se questi non avessero lasciato ingiustificato il presupposto del sapere come corrispondenza. Hume e Kant mettono in questione questo presupposto, e fanno iniziare la filosofia. Conoscere questa storia significava capire perché con Kant la sua fase difettiva era giunta alla fine74. Ricostruire con questo spirito la filosofia da Spinoza a Hume non era quindi per Heydenreich un’opera di divulgazione, ma un disegno volto a far meglio comprendere la novità kantiana. Sebbene Cromaziano non potesse avere il complesso scopo polemico del kantismo storiografico, ne diventa tuttavia lo strumento. E come accade ad ogni strumento adattato a uno scopo per il quale non era stato ideato, la sua storiografia, pur essendo ad esso funzionale, presenta da un punto di vista critico un limite, colmare il quale era compito dell’appendice: L’autore manca di quello spirito pragmatico, che è diventato possibile per lo storico della filosofia dopo la Critica della Ragione di Kant. Tuttavia non è un sostenitore dogmatico di alcun partito, rimane piuttosto fedele al carattere di un libero pensatore, e come tale giudica i sistemi75.

L’intelligente fedeltà dello storico è sufficiente per cogliere le differenze e inquadrare i fatti, come fa Cromaziano secondo il modello ciceroniano della filosofia raccontata per “sette”. Il senso fondamentale del ragionamento di Heydenreich è che questo però non è più il massimo che sia possibile fare nella storiografia filosofica, perché l’idea di un’oggettività di livello maggiore si presenta a coloro che interpretano la Critica come base per la ricostruzione di questa storia. Questa diversa oggettività, più che filologica e ragionata, viene indicata nell’idea che soltanto a partire dalla Critica è diventato possibile anche per la storia della filosofia procedere con “spirito pragmatico”. Sottolineo anche in “filosofia”, perché per la cultura tedesca, come per quella europea di metà Settecento, “pragmatico” doveva essere il metodo di ogni storiografia che volesse ottenere del proprio oggetto una rappresentazione composta da fonti e connessioni, e che quindi spiegasse i fatti attraverso 74 In definitiva, prima delle indagini di Kant non era possibile dire se la filosofia fosse una scienza: «Ma quando quelle indagini siano state condotte in modo fondato e soddisfacente, si può dire con ogni diritto: essa è realmente qui», in C. H. Heydenreich, Encyclopädische Einleitung in das Studium der Philosophie nach den Bedürfnissen unsers Zeitalters. Nebst Anleitungen zur philosophischen Literatur, cit., p. 15. E poiché ogni sapere si basa sulla filosofia, non soltanto un’enciclopedia filosofica è stata possibile soltanto dopo Kant, ma questa enciclopedia è anche la premessa per ogni altra enciclopedia, sia settoriale che generale. 75 Agatopisto Cromaziano kritische Geschichte der Revolutionen der Philosophie in den drey letzten Jahrhunderten. Aus dem Italienischen mit prüfenden Anmerkungen und einem Anhange über die Kantische Revolution versehen von Karl Heinrich Heydenreich, cit., “Vorrede”.

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altri fatti posti come causa. Il problema è quindi comprendere che significa “pragmatico” in storia della filosofia. Secondo Heydenreich, i lavori critici di Kant, così come dovevano provocare una completa rivoluzione della filosofia, rendono necessaria anche una trasformazione radicale del metodo con cui trattare la storia della filosofia76.

E ciò perché consentivano di estendere a questa storia la nozione di “pragmatico”, che da quel momento sarebbe stata al centro di tutti gli interventi sul tema, da Göss a Fülleborn. L’argomento principale di Heydenreich è che «se una filosofia c’è», con Kant «si può indicare adesso con ragioni probanti che cosa essa unicamente e soltanto debba essere»77. Poiché la Critica descrive in modo coerente le dimensioni dell’esperienza razionale, indagate non nel modo in cui esse si manifestano ma nella loro possibilità, e quindi nel loro fondamento generale, non soltanto è l’unica filosofia che sia mai esistita, ma in quanto tale fornisce anche le conoscenze necessarie per ricondurre i sistemi storici alle dinamiche della ragione. In generale, fa comprendere che con quelle costruzioni di logica e metafisica, pur senza riuscirvi, la ragione cercava di corrispondere alla propria aspirazione fondamentale78. Fatta eccezione per lo scetticismo humiano, la filosofia kantiana permette di spiegare le altre filosofie come costruzioni dell’Estetica che subordina l’Analitica, e costruzioni dell’Analitica che subordina l’Estetica, dandone cioè una spiegazione entro le coordinate della vita della ragione stessa e quindi più che come fatti storici. Considerate dal punto di vista critico, risulta allora che le filosofie per un verso non sono mai state “sistemi” ma aggregati, e per l’altro che sono tutte metafisiche nel doppio versante reciproco della dialettica. E poiché “pragmatico” significa spiegare un effetto riportandolo

76 C. H. Heydenreich, Alcune idee sulla rivoluzione portata da Immanuel Kant nella filosofia e in particolare circa il suo influsso sulla trattazione della storia della filosofia, infra, p. 236, (ted., p. 229). 77 C. H. Heydenreich, Giebt es eine Philosophie?, cit., p. 5. 78 Ivi, pp. 34-35: «Tanto a lungo il vero essere della filosofia non è stato colto in modo determinato, alla speculazione non si sono prescritte le uniche corrette vie per la ricerca dei suoi oggetti, i confini dell’intera scienza e delle sue discipline giacevano nascosti nell’oscurità; altrettanto a lungo i prodotti dello spirito filosofico non si potevano apprezzare nel modo conveniente, poiché si mancava dei sicuri principi del giudizio e della verifica. Dopo che Kant risolse realmente quei problemi nei suoi scritti critici, allora divenne chiaro che per la prima volta dopo lui e soltanto secondo i fondamenti della sua filosofia è possibile un giusto apprezzamento del valore delle opere della ragione filosofica; che quindi dopo di lui e soltanto secondo i fondamenti della sua filosofia, la storia della scienza può da questo lato diventare pragmatica».

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alla sua causa79, soltanto con la Critica è legittimo estendere tale metodo anche alla storiografia filosofica, la quale sino ad allora non poteva essere che informazione su quanto fatto in merito ad argomenti astratti80. Heydenreich quindi opera rispetto alla storia della filosofia quella delimitazione e giustificazione che la Critica ha svolto rispetto alla logica e alla metafisica, cioè fondandola nella sua qualità di fenomeno attraverso l’individuazione dei procedimenti della sua genesi nella ragione: La vera teoria annuncia incontestabile il suo carattere perché in essa come in uno specchio fedele l’intera coscienza dell’umanità si rappresenta, perché elenca con verità e precisione i punti e le linee per tutte le direzioni in cui le facoltà spirituali dell’uomo devono agire secondo la destinazione originaria, immodificabile della sua natura, e le trova ordinate nella loro reale armonia, perché elabora una generale carta del piccolo sistema mondiale che le facoltà unite di questa natura formano81.

In questo passo ricorrono due metafore frequenti in Heydenreich, lo specchio e la mappa, le quali indicano aspetti importanti della sua idea di filosofia. Lo “specchio”, in cui per la prima volta la ragione si osserva fedelmente, esprime l’assolutezza, già considerata, della filosofia kantiana come sistema originale della ragione, che non ha autentici debiti speculativi con nessuna filosofia precedente. Questa assolutezza porterà Heydenreich a rifiutare i tentativi di Reinhold, Fichte e Schelling diretti a completare il criticismo esplicitandone quel principio unico e reale che lo renda coerente più di quanto non fosse possibile al livello descrittivo cui si sarebbe fermato Kant. Secondo Heydenreich il criticismo deve rimanere appunto sul piano della descrizione dei dati della ragione, e ogni ulteriore passo in avanti ne Cfr. ad esempio H. M. G. Köster, Über die Philosophie der Geschichte, Giessen 1775, p. 5: «Le cause e le conseguenze degli avvenimenti sono con una parola la cosa più importante, da qui anche l’espressione: pragmatico». Questo è il primo libro tedesco che tematizza la filosofia della storia, in rapporto a Chladenius e Gatterer. 80 È forse interessante notare che con “rivoluzioni” viene tradotto quello che nel titolo di Cromaziano è invece “restaurazione”. Questo termine riflette la struttura dell’opera, in cui ogni filosofia moderna viene descritta come la rinascita di una antica. Antico e moderno sono collegati dalla ripetizione dei medesimi atteggiamenti riflessivi, e il cambiamento è sempre un ritorno, e in questo senso una “rivoluzione”. Da un punto di vista pre-critico, Cromaziano ha ragione perché descrive quello che appare. Invece, una storia pragmatica della filosofia spiega che quegli atteggiamenti “ritornano” perché paradigmatici di una condizione difettiva della ragione. Dopo le spiegazioni kantiane si ha il grande vantaggio di saper dire perché «la storia della metafisica è stata fin dall’inizio la stessa», mentre finora ci si limitava a constatarlo. Ma indicando quel perché, è chiaro che la si sta radicalmente cambiando. 81 C. H. Heydenreich, Allgemeine Übersicht der Fortschritte der theoretischen Philosophie im achtzehnten Jahrhundert, cit., pp. 20-21. 79

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comporta l’abbandono82. Si deve soltanto svilupparne le indicazioni attraverso uno svolgimento enciclopedico che organizzi i saperi come dati della ragione. La metafora della mappa ci riporta al nostro tema, perché questa descrizione consente di esplorare con un sicuro filo conduttore il vasto campo della filosofia storica come esperienza della razionalità pre-critica. La razionalità pre-critica è quella in cui la destinazione della ragione agisce senza potersi realizzare. Poiché ci fa conoscere questa destinazione, e l’erronea concezione dell’oggettività che in modi opposti ha dominato da Platone sino a Leibniz e Locke, la Critica è allora il sistema della ragione che può “provare” gli pseudo-sistemi che essa produce nel suo abuso metafisico. Diventa così un criterio storiografico: Indica tutte le vie possibili, che il pensatore filosofico può prendere, le segue in tutte le loro curvature e i loro sentieri laterali, e ne indica il rapporto l’una con l’altra e con lo scopo, al quale tutte sono rivolte83.

Con la Critica l’oggettività della storiografia, cioè il metodico attenersi ai fatti, da filologica si trasforma quindi in filosofica, perché i “fatti” sono qui da intendere come motivi e atti della ragione che aspira al sapere. Per un verso osserviamo allora con la scelta di Cromaziano la valorizzazione tattica dell’oggettività intesa tradizionalmente come imparzialità, per facilitare il riconoscimento della Critica quale evento epocale; per l’altro, assistiamo sul piano teorico allo svuotamento di questo concetto dal carattere dell’imparzialità, perché da ora in poi si tratta non più di evitare il pregiudizio, ma di scegliere quel punto di vista che è lo stesso della ragione. La storia “kantiana” è l’unica che fornisce della filosofia una rappresentazione adeguata al proprio oggetto84. Questo modello razionale di storiografia comporta, se non la fine, certo la critica di quell’atteggiamento che in Germania aveva il suo esponente in Tiedemann, per il quale l’oggettività si basava sull’equidistanza teorica e sullo spazio dato al contesto politico entro cui si collocano le indagini filosofiche, come ogni altro fenomeno della cultura85. Con la Ivi, p. 46. C. H. Heydenreich, Giebt es eine Philosophie, cit., p. 30. 84 Un’oggettività che ha già modi “rankiani”, cfr. ivi, p. 33. 85 Cfr. G. Micheli, Kant storico della filosofia, cit., p. 21: «Per il Tiedemann, come già per il Meiners e per gli altri studiosi di questo indirizzo, lo storico della filosofia doveva rinunciare ad ogni preliminare definizione in termini speculativi della filosofia, e limitarsi alla esposizione di tutte le opinioni storicamente accertabili. Questa sorta di storia della filosofia senza la filosofia, anche se poi il Tiedemann finiva con l’introdurre surrettiziamente un concetto empiristico di filosofia storicamente avvicinabile a quello del Locke, finiva col significare, come il Tiedemann anche ammise esplicitamente, la riduzione della storia della filosofia alla più generale storia della cultura». 82 83

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nuova loro nozione di “oggettività” storiografica, pur filosoficizzando questa storia, i kantiani si sentono quindi tutt’altro che settari. Lo storico con essa sa dare ad ogni partito il suo giusto riconoscimento, perché apprende a collegare la sua filosofia con la spinta di un motivo presente nella ragione. Heydenreich, ad esempio, riconosce la ragion d’essere anche della filosofia “leibniziana”86, soprattutto però nella formulazione di Wolff. Il razionalismo, come fenomeno difettivo ma necessario della ragione non criticamente definita, se per un verso rimane estraneo alla prospettiva in cui soltanto si dà la vera filosofia, per l’altro diventa un’opzione giustificata dai limiti in cui la speculazione si muove quando vi vale il presupposto ingiustificato della verità come possesso cognitivo delle cose87. Con quest’idea che la filosofia pre-critica è la storia della ragione non critica, vengono inoltre meno i modelli storiografici classici, da Cicerone a Seneca a Laerzio, per cui si fa storia dei saggi o della sapienza, e non della ragione, con la sola eccezione, che vedremo nel prossimo paragrafo, di quello aristotelico che meglio corrisponde, per kantiani come Fülleborn, al senso di una ricerca sullo spirito della filosofia. Ma così si verifica anche una trasformazione del concetto di pragmatico che, se per la storiografia ordinaria vale come ricostruzione della contingenza, – in quanto ogni rapporto causa-effetto avviene nell’ordine del finito – in quella filosofica deve postulare invece il riferimento di quanto è storico a qualcosa di non storico, e produce una ricostruzione che determina il significato della contingenza senza mantenersi sul piano di questa. Detto altrimenti: in una storia pragmatica della filosofia l’osservazione si concentra sul profilo dell’imperfetta sistematicità dell’edificio, sì da averne una comprensione nell’a priori inteso come “causa” speculativa. La storia pragmatica della filosofia richiede che secondo ragioni sufficienti si sviluppi in che modo ogni sistema, la singola opinione di un qualche filosofo, deriva dalla natura delle facoltà spirituali dell’uomo88.

C. H. Heydenreich, Giebt es eine Philosophie?, cit., p. 32: allo storico critico «non è estraneo il punto di vista e l’interesse di nessun partito». 87 Ivi, p. 5: «Quest’idea della filosofia è senza dubbio balenata in una certa misura a tutti i veri ricercatori filosofici prima di Kant. Ma essi potevano seguirne soltanto una oscura ispirazione, mentre noi siamo adesso in condizione di procedere alla realizzazione di una sua idea determinata, e chiarita in tutte le sue parti». Cfr. anche C. H. Heydenreich, Allgemeine Übersicht der Fortschritte der theoretischen Philosophie im achtzehnten Jahrhundert, cit. 88 C. H. Heydenreich, Giebt es eine Philosophie?, cit., p. 29. 86

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Se il metodo pragmatico garantisce storicità perché connette fatto a fatto aggregando i frammenti filologici, in filosofia il “pragmatico” non è un fatto ma una dimensione, quella del “possibile”. Lo storico critico della filosofia comprende il suo oggetto perché lo riconosce come effetto e segno di una possibilità razionale, e lo studia con l’orientamento fornitogli da questa conoscenza. Colui «che ha confidenza con la critica della ragione» deve necessariamente essere posto da questa nella condizione di derivare ogni prodotto della ragione filosofica dalle sue vere fonti, e di indicare con la più perfetta fedeltà la direzione in cui questa capacità alla formazione di se stessa può determinarsi89.

Heydenreich quindi pone il “possibile” come causa, laddove nel metodo pragmatico della storiografia ordinaria questo ruolo di “ragione sufficiente” è svolto dal fatto. È la “forma” che guida la comprensione del “contenuto”. L’aver assimilato la storia della filosofia alla storiografia generale attraverso la categoria di pragmatico, non avviene quindi senza che questa nozione si torca dal suo significato di particolarizzamento delle vicende verso quello di intelligenza genetica, non storica, di una specifica categoria di fatti storici90. Questa assimilazione è quindi più terminologica che metodologica, perché anzi si risolve in una separazione, come già notava un recensore, per il quale il nuovo senso di pragmatico era legittimo soltanto a condizione che la kantiana fosse l’unica e vera filosofia, cosa per Heydenreich certa e invece, secondo lui, ancora tutta da verificare: Finché non esiste nessun edificio filosofico universalmente valido e riconosciuto tale, dallo storico pragmatico della filosofia non si può esigere altro se non che egli osservi ciò che ognuno ha aggiunto al complesso delle conoscenze esistenti nel proprio tempo, e che indichi in cosa questa aggiunta e il nuovo sistema su essa costruito, manca di stabilità secondo i criteri delle conoscenze globali del suo tempo91.

Per questo critico, che rivela la sua formazione leibniziana, lo storico della filosofia dovrebbe continuare ad agire come tutti gli altri92. Dando una Ivi, p. 31. Cfr. le considerazioni svolte su questo aspetto, con riferimento ad altri autori, da U. Schneider, Die Vergangenheit des Geistes. Eine Archäologie der Philosophiegeschichte, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1990, p. 18 e pp. 303-305. 91 Anonimo, recensione a A. Cromaziano, Kritische Geschichte, in “Neue allgemeine deutsche Biblioteck”, 1794, 116, 1, p. 137. 92 Presso i leibniziani era infatti in uso di definire “pragmatica” la storia della filosofia secondo la sua ordinaria accezione. Questi presentano una visione progressiva della storia della filosofia sulla base del presupposto logico-gnoseologico della continuità tra senso e 89 90

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versione trascendentale di “pragmatico”, Heydenreich fa invece emergere la singolarità di questa storiografia a cui per essere rigorosa e vera non basta ciò che basta ad ogni altra, cioè constatare e connettere. Se constata e connette, è sì “oggettiva” ma lo è come una raccolta ragionata di materiali, come avviene in Cromaziano, e per Heydenreich non altro sono state tutte le precedenti storie della filosofia, le quali devono essere adesso utilizzate come “collezioni di dati” per la vera storiografia. L’“oggettività” critica consiste invece nel giudicare, cioè nel riferire il “fatto” alla sua “possibilità”: e abbiamo letto che, secondo Heydenreich, non c’è “fedeltà” “più perfetta” di questa. La storiografia anzi è vera in quanto valutativa, esito che rovescia il significato di “pragmatico” inteso come neutralità della descrizione, come «narrazione correttamente progressiva di ciò che è accaduto»93. intelletto come punto di avvio e di arrivo dello schiarimento di sé della ragione. In coerenza con quest’idea, nella loro storiografia filosofica si incontrano tutte quelle caratteristiche che i kantiani respingeranno. Se ne può vedere un esempio nel wolffiano Eberhard, il quale ritiene che la storia della filosofia «deve essere cronologica, cioè deve contenere il racconto delle trasformazioni più considerevoli dell’intera filosofia secondo l’ordine del tempo. Con questo metodo cronologico deve essere collegato quello pragmatico, se la storia deve essere utile tanto alle osservazioni sullo sviluppo progressivo dell’intelletto umano, come anche alla migliore comprensione degli edifici filosofici, all’utilizzo dei tentativi fallimentari nell’indagine sulla verità, e alla giustificazione del nostro proprio sistema». Perché possa essere pragmatica in questo senso normalmente “causale” del termine, in essa «devono essere rappresentate le opinioni e gli edifici concettuali dei filosofi [Weltweisen] insieme alle circostanze esteriori. È perciò necessario raccontare le vicende biografiche più importanti dei filosofi». Ma anche «la storia politica o deve essere presupposta nella storia della filosofia come nota, o deve essere inserita in quei suoi luoghi in cui il racconto sarebbe altrimenti incomprensibile o non pragmatico», (J. A. Eberhard, Grundriss der Geschichte der Philosophie, cit., pp. 2-3). Si tratta quindi di un pragmatismo storiografico ordinario, costruito su quei criteri che i kantiani ritengono secondari rispetto al pragmatismo autenticamente storiografico in filosofia che è quello determinato dall’osservazione trascendentale. Così inoltre non si poteva conseguire il risultato che più preme ai kantiani, cioè distinguere questa storiografia dalle altre. Oltre che con quella politica, il carattere comprensivo della nozione di sapere valida presso i leibniziani fa sì infatti che per loro la storia della filosofia debba includere anche aspetti di quella della matematica, come ancora in Eberhard. La consapevolezza della differenza tra queste due maniere di trattare geneticamente la storia della filosofia fu un’acquisizione progressiva, come testimonia la recensione positiva di parte kantiana al libro di Eberhard da cui è tratto il Grundriss, la Allgemeine Geschichte der Philosophie. Zum Gebrauch akademischer Vorlesungen, Hemmerd, Halle 1788. La recensione di parte kantiana è in “Allgemeine Literatur Zeitung”, I, 1788, pp. 49-52. Significativamente di segno diverso quella apparsa nella “Allgemeine deutsche Biblioteck”, (1790, 92 Bd., 1, pp. 26-36), nella quale tra altre critiche si osserva che lo storico deve essere più un “referente” dei fatti che un loro “giudice”. Sui diversi significati, metodologici e pedagogici, di “pragmatico” nella Allgemeine Geschichte der Philosophie di Eberhard, cfr. M. Longo, “Scuola di Gottinga e «Popularphilosophie»”, II, cit., pp. 808-811. 93 J. G. Eichhorn, cit. in G. D’Alessandro, L’illuminismo dimenticato. Johann Gottfried Heichhorn (1752-1827) e il suo tempo, Liguori, Napoli 2000, p. 183.

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E infatti agli storici pragmatici veri e propri, cioè agli esponenti dell’illuminismo tedesco, le idee dei kantiani sulla storia non piacquero, perché ne fondavano la conoscenza sul rinvio a un criterio esterno al dato positivo, un riferimento di ordine sistematico che per forza doveva generare un inquadramento sistematico del dato stesso94. Questo comportava il rischio di una filosoficizzazione della storiografia, che presto avrebbe coinvolto anche quella generale, diventando filosofia della storia, come lo stesso Heydenreich non avrebbe tardato a concludere95. Nel saggio del 1794 questa reazione storicistica al ruolo arcontico della filosofia nella propria storiografia aveva già lasciato il suo segno, in un breve cenno che dimostra quanto Heydenreich fosse consapevole di avere introdotto, insieme ai kantiani intervenuti nel frattempo, un’idea di oggettività molto specifica: Uomini, i quali non colgono appieno il suo senso, senza motivo temono di una tale trattazione pragmatica della storia filosofica, che tramite essa i sistemi e le opinioni dei filosofi vengano deformati, e modificati in modo soggettivo secondo i principi di una singola filosofia. Tutte le applicazioni dei fondamenti kantiani alla storia della filosofia presuppongono che nella comprensione delle idee di ogni filosofo siano state seguite nel modo più rigoroso le regole della critica e dell’ermeneutica; e se infatti si procede a quell’applicazione, non vi viene introdotto in alcun modo un senso estraneo, ma convalidato il suo senso proprio e vero, dedotto da principi, e valutato in modo aderente. In realtà la spiegazione autentica di un filosofema può essere spesso trovata soltanto tramite i risultati della filosofia kantiana, e numerose opinioni dottrinali, che prima della sua apparizione stavano circondate dall’oscurità più fitta, alla luce di essa stanno adesso nella piena chiarezza davanti agli occhi del ricercatore penetrante; un’osservazione, che nel modo più interessante, potrebbe essere dimostrata con gli esempi di un Bruno o di uno Spinoza96.

Sull’impossibilità di filosoficizzare la storia ordinaria, insisterà però nell’ambiente kantiano Grohmann, il quale imposterà la sua teoria proprio sull’idea che mentre la storia della filosofia deve essere trattata in modo puramente trascendentale, e quindi soltanto propedeuticamente anche sul piano empirico, la storiografia ordinaria, che Grohmann definisce «storia universale del mondo» non può separarsi dal pragmatismo degli effetti diretti e dalla cronologia. 95 Heydenreich’s encyclopaedische Einleitung in das Studium der Philosophie nach den Bedürfnissen unsers Zeitalters: nebst Anleitungen zur philosophischen Literatur, cit., p. 234: «La storia può essere trattata in modo pragmatico soltanto tramite la filosofia». Per il rifiuto della filosoficizzazione della storia, cfr. la recensione di Heeren a Pölitz nelle “Göttingische Gelehrte Anzeige”, 1795, 86, pp. 859-862. Sulla reazione di Heeren al «dispotismo filosofico» nella storia, cfr. G. D’Alessandro, Dalla causa alla vita. Il pensiero storico tedesco tra fine dell’illuminismo e inizi dell’idealismo, cit., pp. 54-63. 96 C. H. Heydenreich, Giebt es eine Philosophie?, cit., pp. 35-36. 94

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Era questo l’effetto della convinzione per cui dopo Kant, in storia della filosofia – come in ogni disciplina filosofica – non poteva essere accertato in senso autentico nessun “oggetto” se prima non si fosse proceduto a un chiarimento di principio, e quindi filosofico, del suo ambito di appartenenza97. Ma ci sono due aspetti interessanti in questa rivendicazione del carattere effettivamente storiografico di un criterio così filosofico. In quella stessa sede, Heydenreich nega che sia possibile inquadrare tutte le filosofie entro una successione che abbia valore logico e che deterministicamente concluda nel kantismo come suo esito obbligato. Cioè nega ante litteram quello che potremmo chiamare il “modello hegeliano”. Questo è un altro effetto del “pragmatico” inteso come possibile. Infatti, un tale possibile è un universale, che non si traduce mai interamente o integralmente nel costrutto di una filosofia: nessun razionalista rappresenta cioè tutto ciò che il razionalismo può essere. Di conseguenza, non c’è alcuna necessità per cui tutte le filosofie si succedano l’una all’altra formando – come i leibniziani ritenevano – un progrediente perfezionarsi del medesimo principio98, e persino il kantismo avrebbe potuto emergere in altri momenti. Sappiamo infatti che è una filosofia dell’ardire, la quale non ha autentici precedenti. Secondo Heydenreich, la Critica è un salto nella ragione. Come modalità, il “possibile” eccede le sue rappresentazioni e attuazioni. Ma questo significa anche che la forza della filosofia non dissolve l’autonomia dei suoi fatti storici. Questi allora che valore hanno? Quando si studia una filosofia criticamente, si sta cercando di comprendere nella sua specificità di “fatto” una potenza trascendentale. Non ci si può attenere quindi né al fatto come tale Per Heydenreich questo valeva per ogni disciplina filosofica, ad esempio anche per l’enciclopedia: il difetto delle enciclopedie, ad esempio dell’Organum baconiano, consiste nel non sapere stabilire come «tutte le discipline si rapportano ai fondamenti ultimi della conoscenza scientifica»; soltanto la vera filosofia consente l’enciclopedizzazione delle scienze, e questo è avvenuto con «il famoso critico della ragione, sicché si può dire senza esagerazione che tutti i tentativi fatti prima di lui, di enciclopedie filosofiche, sono soltanto incompleti, sconnessi, confusi e indeterminati schizzi». Prima di Kant infatti la filosofia non esiste: «Soltanto quando quelle ricerche sono state eseguite in modo fondato e sufficiente, si può dire con piena facoltà: essa esiste», in Heydenreich’s encyclopaedische Einleitung in das Studium der Philosophie nach den Bedürfnissen unsers Zeitalters: nebst Anleitungen zur philosophischen Literatur, cit., p. 5, p. 14, p. 15. La quarta ed ultima parte di questo scritto espone le «regole per l’uso della storia della filosofia». 98 Un esempio di questa impostazione è rappresentato dal saggio con cui Schwab vince il concorso bandito dall’Accademia di Berlino sui progressi della metafisica dai tempi di Leibniz e di Wolff, (Ausfürliche Erörterung der von der Koenigl. Akademie der Wissenschaften zu Berlin der das Jahr 1791 vergelegte Frage: “Welche sind die wirkilichen Fortschritte die die Metaphysik seit Leibnitzens und Wolffens Zeiten in Deutschland gemacht hat?”, in Preisschriften über die Frage: Welche Fortschritte hat die Metaphysik seit Leibnitzerns Zeiten in Deutschland gemacht?, cit., pp. 1-170). 97

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(che sarebbe troppo poco), né si può procedere in modo teoretico verso quest’ultima (che sarebbe troppo); ma ci si rivolge a quello che Heydenreich non chiama ancora così, sebbene già in qualche modo lo pensi, cioè allo “spirito della filosofia”, espressione che diventerà frequentissima negli altri kantiani e per uno di essi, Fülleborn, la sintesi dei temi sviluppati nella propria riflessione99. Lo “spirito della filosofia” è il suo senso per sé e il suo senso per noi, il modo – storico – in cui si configura una possibilità non storica. Lo “spirito” è ciò che distingue una filosofia e al tempo stesso la assimila alle altre che realizzano la medesima possibilità trascendentale. È interessante notare che lo “spirito” di una filosofia è l’autentico oggetto che qui la storiografia deve allo stesso tempo riconoscere ed elaborare; ma esso, poiché si potrebbe anche definire come l’individualità del trascendentale, una volta compreso, diventa da contenuto ancora forma, e si rivela anche una funzione con cui continuare a fare filosofia. Ad esempio, è traendo queste conseguenze dal pensiero di Kant, che Heydenreich sta facendo altra filosofia a partire dallo spirito della sua. Tutto questo a dimostrazione del carattere mediano tra mera storia e pura filosofia che ha il criterio di “pragmatico” nell’accezione heydenreichiana. Questo carattere evidenzia come il fatto che le strutture razionali non siano storiche, ovvero non abbiano carattere evolutivo, non incide sulla storicità dell’indagine filosofica, sia pre-critica che trascendentale. Detto questo, i concetti con cui Heydenreich articola il suo ragionamento, rievocano idee già emerse nelle Lettere reinholdiane100, sebbene come dicevamo Heydenreich non seguirà affatto Reinhold nel suo processo di allontanamento da Kant: le Critiche sono «lo specchio» in cui l’identità umana si riflette, trovandovi l’origine ante-storica delle sue aspirazioni e delle sue autorappresentazioni. La ragione è stata efficace anche prima che riconoscesse le proprie fattezze. Nel tempo «dell’attività senza critica della ragione filosofica»101, era necessario che questa si perdesse in «sviamenti», non sapendo cosa essere e come agire. Tali sviamenti sono le filosofie pre-critiche, che non vanno disprezzate, perché, soprattutto alcune, come «tentativi», hanno «preparato»102 la radicale novità della Critica. Il seguente brano riassume questo motivo e quello «pragmatico»: Cfr. la nostra traduzione del saggio di G. G. Fülleborn, Was heisst, den Geist einer Philosophie darstellen?, in “Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, 1792, V, pp. 191-203, (Che cosa significa rappresentare lo spirito di una filosofia?, infra, pp. 251-255). 100 Riconoscibili, le Lettere sono peraltro ricordate come il modello dell’imparzialità “kantiana” in storiografia da Heydenreich, in Giebt es eine Philosophie?, cit., p. 33. 101 C. H. Heydenreich, Alcune idee sulla rivoluzione portata da Immanuel Kant nella filosofia e in particolare circa il suo influsso sulla trattazione della storia della filosofia, infra, p. 231, (ted., p. 218). 102 Ivi, p. 232, (ted., p. 220). Che la Critica sia stata “preparata” non toglie che essa sia radicale. 99

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Non è pensabile quindi intreccio, passo falso, contraddizione della metafisica la cui origine non trovi qui il suo completo commento. Da questo punto di vista la critica della ragione assomiglia in effetti a una mappa di viaggio nella quale sono indicate non soltanto le stazioni e le strade, ma anche i luoghi in cui abitualmente si smarriscono i viaggiatori103.

Come nelle Lettere, il carattere preparatorio delle filosofie precedenti non comporta un andamento teleologico, perché ognuna vi è parte di un globale circolo vizioso in cui si trova il pensiero, incerto tra il privilegio della sensibilità e quello della ragione. Ma la filosofia kantiana è l’unica strutturalmente vera, condizione di cui dà prova il fatto che soltanto essa è autenticamente sistematica: mentre nelle altre la sistematicità è «soltanto secondo la forma esteriore, la quale consentiva di nascondere appena le lacune interne, le incoerenze e le contraddizioni»104, in quella critica è una necessità imposta dall’ordine proprio alla ragione. Questo conferma che soltanto chi sia kantianamente orientato può assolvere al compito dello storico, che consiste nel giudicare, con imparzialità e secondo l’unico criterio vero che qui può applicarsi, il grado di valore di ogni tentativo rispetto a ciò che tramite esso è stato ottenuto, e li considera complessivamente come nient’altro che rozzi prodotti di una ragione la quale, stimolata dall’interno impulso della sua facoltà, certamente agisce e opera ma, non essendo illuminata circa la natura di essa, lo fa senza uno scopo determinato, senza la coscienza di principi provati e senza armonia con se medesima; in una parola, per risultati casuali di una ragione senza critica di sé105.

L’oggettività dello storico non consiste più nello restare “fuori” della filosofia a garanzia di imparzialità, ma nello starvi dentro a garanzia di autenticità. Più concretamente, questo significa che la verità della filosofia dello storico diventa funzione della verità della sua storiografia. Si comincia così a stabilire il valore di una tale storia in base a quello che vorremmo chiamare il “suo grado di filosoficità”. Questo implica, per Heydenreich, D’altronde, il fatto che pensatori come Crusius fossero vicini a quello che poi soltanto Kant penserà, dimostra che il “criticismo” era una possibilità presente nella storia della filosofia. 103 Ivi, p. 235, (ted., p. 227). Questo vale per tutte le tre Critiche, perché ognuna mostra il motivo razionale degli “sviamenti” nei rispetti campi di interesse. Ad esempio, nella terza «troviamo anche elencata l’intera possibilità dei disorientamenti e dei passi falsi della ragione speculativa nel filosofare sugli scopi e le cause finali della natura», ivi, p. 236, (ted., p. 229). 104 Ivi, p. 237, (ted., p. 237). 105 Ivi, p. 230, (ted., p. 217).

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che ci sono diversi modi legittimi, ma non tutti ugualmente importanti di fare lo storico della filosofia. Per l’insieme di questi motivi, e sebbene non la chiami così, Heydenreich chiede una sorta di “rifondazione” critica della storiografia filosofica, di cui indica alcuni lineamenti sia in ordine al metodo che al merito. Per questo secondo aspetto, sovente invita alla ripresa degli studi su quei pensatori che a suo parere hanno “preavvertito” il criticismo, per trovare in loro ciò che ora è possibile riconoscere: si tratta di Wolff, di gran lunga preferito a Leibniz, e poi soprattutto di Crusius106. Rispetto al primo aspetto, cioè al metodo, se la verità della filosofia dello storico è condizione per la verità della sua storiografia, soltanto quella autenticamente filosofica sarà allora davvero storiografica. Già nel saggio del 1791, ma con maggiore ampiezza in quello del 1794, Heydenreich sviluppa questo concetto dicendo «di potere introdurre con validità tre classi di storici della filosofia» che, precisa, sono tutti “utili”, anche se «formano una graduatoria dai meriti più bassi a quelli più alti». La prima è formata dai «relatori critici dei fatti che la storia della filosofia rappresenta», non «i semplici relatori», ma quelli che sui fatti operano «una verifica approfondita» e che soltanto stabilendo i testi, possono pretendere il merito per cui «senza il loro lavoro preparatorio ogni altra trattazione della storia della filosofia correrebbe il pericolo di essere senza scopo». Vengono poi, gli acuti ermeneuti. Fondati sulle corrette leggi della spiegazione secondo la loro piena estensione, penetrano nel vero senso delle espressioni e dei fondamenti dottrinali dei filosofi.

Non stabiliscono quindi i testi, ma colgono il senso delle espressioni. Questa differenza ci permette di osservare che rispetto al saggio precedente cambia a questo proposito soprattutto il maggiore rilievo che qui viene dato al secondo genere di ricercatore, prima più o meno confuso con il primo. Non si tratta di una sfumatura, ma di un riflesso della discussione intervenuta in tale arco di tempo: in particolare, vi si può leggere la preoccupazione 106 Ivi, p. 232, (ted., p. 221): «Quanto dico di Wolff e di Crusius, non potrà stupire certamente nessuno che abbia confidenza con la filosofia critica, ma sicuramente i molti che non ce l’hanno ancora. Purtroppo, in alcuni dei circoli filosofici tedeschi, è infatti consuetudine cortese considerare Wolff come un semplice seguace dell’elevato Leibniz, e ridere di Crusius»; cfr. anche infra, p. 233, (ted., p. 222): «Sarebbe da augurarsi che finalmente un tedesco riconoscente, dotato di sufficiente [Wolff] ingegno, erudizione e robusta pazienza, tratteggiasse i meriti propri di quel grande uomo rispetto all’intera filosofia». Su Crusius, che prima di Hume sottolinea la mera formalità del principio di contraddizione, cfr. K. L. Reinhold, Über das Fundament des philosophischen Wissen (poi, solo Fundament), Mauke, Jena 1971, pp. 34-35, (tr. it., in Concetto e fondamento della filosofia, cit., pp. 84-86).

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che Fülleborn aveva evidenziato attraverso il “recupero” di Garve, secondo cui spesso anche storici importanti, come Brucker, sbagliano perché non si accorgono che un termine filosofico cambia di significato con il cambiare della cultura, e questo provoca l’attribuzione di contenuti erronei ed interpretazioni apparentemente filologiche che poi esigono forzature per sistemare il tutto con coerenza107. I “relatori” ricostruiscono quindi il canone, mentre gli “ermeneuti” storicizzano i termini della tradizione speculativa. Questa è la vera filologia filosofica, necessaria perché le parole della filosofia hanno una storia, come l’esempio della “nuova” terminologia di Kant dimostrava allora chiaramente. Infine, vengono i «pragmatische Geschichtsschreiber der Philosophie»: Prima che la filosofia avesse la sua vera scientifica consistenza, prima che si fosse in possesso di concetti soddisfacenti sulla sua essenza, estensione, confini e scopo, relatori critici e acuti ermeneuti potevano conquistare grandi meriti, ma in nessun caso ci poteva essere realmente uno storico pragmatico. Finché la filosofia stessa non è completa e determinata in quanto sistema in sé chiuso dei principi originari della conoscenza della natura e dei costumi, tanto a lungo non può darsi alcun vero pragmatismo nella storia della filosofia108.

Soltanto il criticismo ha reso possibile questa figura di storico. Il senso della specifica oggettività storiografico-filosofica della “rifondazione” heydenreichiana consiste nell’aver compreso che gli storici, i quali lavorano al ripristino filologico dei testi e alla loro contestualizzazione, non colgono il 107 Ch. Garve, De ratione scribendi historiam philosophiae, in “Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, hrsg. von G. G. Fülleborn, XI, 1799, p. 99: «Videmus enim summis philosophis, quorum vel nomen cum reverentia colimus, tribui nonnumquam opiniones ita obscuras, ita a communi hominum sensu alienas et absurdas, ut eorum sententiae vel perversa sit interpretatio, vel falsa temeraria approbatio». Su Brucker, cfr. p. 101. Per considerare i limiti di questa osservazione garveana, si può prendere in esame l’analisi del termine “idea” che Brucker svolge già a partire dalla Historia Philosophica Doctrinae de Ideis, e che prosegue nella Historia Critica, con la quale dimostra il differente significato del termine in Platone e in Aristotele. In questo modo, rivalutando la logica di Epicuro e affermando la superiore qualità della filosofia lockiana della conoscenza, Brucker contestava l’equazione rinascimentale tra i due pensatori classici, e indicava in Locke un punto di svolta nella storia della logica. Sulla ricca tradizione manualistica che confluisce in questa impostazione, cfr. C. Blackwell, Epicurus and Boyle, Le Clerc and Locke: ‘Idea’ and their Redefinition in Jacob Brucker’s Historia Philosophica Doctrinae de Ideis, 1723, in Il vocabolario della République des Lettres. Terminologia filosofica e storia della filosofia. Problemi di metodo, Lessico Intellettuale Europeo. Atti del convegno internazionale in memoria di Paul Dibon, Leo S. Olschki, Firenze 1997, pp. 77-92. 108 C. H. Heydenreich, Gibt es eine Philosophie?, cit., pp. 26-28.

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“dato” con la stessa qualità di coloro che lo “leggono” pragmaticamente e che in apparenza quindi se ne allontanano109. Il rivoluzionario collegamento metodologico tra il “grado di filosoficità” di una storia della filosofia e il suo valore, introduce quello che oggi si chiamerebbe un criterio generale per una storia e una critica della storiografia filosofica. A nessuno sarà poi sfuggita la somiglianza tra questo schema e quello celebre con cui Hegel inaugura nel 1822 un suo corso di storia della filosofia soffermandosi sulle maniere di trattare quest’ultima. Inoltre, si ha ora il criterio per andare oltre quell’idea di storia della filosofia che qualche anno prima veniva riproposta nel “Magazin” di Hissmann110, che traduce il celebre saggio, Sulle sette filosofiche, in cui l’abate Souchay dopo aver mostrato secondo canoni “popolari” quale spettacolo di forzature logiche avesse portato al tempo di Socrate e Platone alla nascita di circa trecento scuole filosofiche, concludeva “scetticamente” che «non c’è in realtà alcuna follia che non sia stata affermata da qualche filosofo»111. Allo storico pragmatico della filosofia invece non si presenta manifestazione che sia incomprensibile, l’intero variopinto gioco delle opinioni filosofiche gli è del tutto spiegabile, e sa come dare la loro vera spiegazione anche ai sogni. […] Da lui non si ascolta mai, anche rispetto alle stranezze della speculazione quel non pensoso gridare meravigliato che forma invece l’intero ragionamento di molti elaboratori della storia filosofica112.

Un gridare meravigliato che serve o a far preferire i saperi dell’esperienza alla filosofia come era in sostanza per Hissmann, o a scoraggiare gli studenti dal mettersi in questo ginepraio. Un giovane kantiano come Göss ripartirà da quest’ultimo punto per ribadire, come anche Heydenreich faceva, l’indispensabilità della storiografia per la formazione del filosofo113. Questo significa per Heydenreich anche che le buone storiografie pre-critiche, come quella di Cromaziano, possono essere utilizzate ormai soprattutto come “raccolte di materiali” per la loro riscrittura in senso critico. 110 Hissmann è un discreto teorico illuminista della storia della filosofia. Le sue idee si trovano principalmente nel “Vorbericht” alla rivista, nel saggio sul “Teutscher Merkur”, Bemerkungen über die Regeln für den Geschichtsschreiber philosophischer Systeme (1777, IV, pp. 22-52) e nel “Vorbericht” a Geschichte der Lehre von der Association der Ideen, (Göttingen 1777). 111 Abbè Souchay, Über die philosophischen Sekten, in “Magazin für Philosophie und ihre Geschichte”, VI, p. 226. Un esempio della critica all’ecclettismo in G. G. Fülleborn, Über einige Vortheile aus dem Studium der alten Philosophen, in “Beiträge”, VI, p. 122. 112 C. H. Heydenreich, Gibt es eine Philosophie?, cit., pp. 31-32. 113 Ivi, p. 36. Tale necessità del punto di vista filosofico veniva raffigurata in modo ben diverso dai leibniziani, i quali vi vedevano il rischio che facilmente si ripristinasse quella 109

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4. La storiografia “aristotelico-garveana” di Fülleborn e il suo effetto su Kant Se nella storiografia generale il criterio di “pragmatico” significa causalità e quindi attinenza ai fatti, applicato alla storia della filosofia implica – come abbiamo visto – che il fatto, cioè il “sistema”, venga ricondotto alle dinamiche della ragione, perché il suo valore si costituisce (e si comprende quindi) in dipendenza da queste. Se il dato rappresenta la contingenza in cui si esplica la dimensione a priori, è soltanto alla luce dell’a priori che diventa possibile individuare la sua portata effettivamente speculativa, e distinguerla dai connotati “esteriori” in cui esso si presenta. Con il trasformarsi del significato di pragmatico, si apriva allora la tensione tra filologia e filosofia che caratterizzerà da ora in poi la riflessione su questo tema. Fare storia della filosofia in senso pragmatico-kantiano presupponeva che la “lettera” del sistema dovesse poter esser vista in trasparenza, il che significava, già per Heydenreich, verificata in merito alla cultura del tempo ma per essere oltrepassata criticamente, al fine di farne emergere lo “spirito” e quindi la connessione trascendentale attiva al di dentro della sua esposizione. Questa tensione si era accesa dacché la Critica aveva mostrato come ogni filosofia fosse da considerare tanto un’espressione della ragione, quanto anche un indice della difformità tra essa come realtà ed essa come fenomeno. Da un punto di vista critico, lo “spirito” di una filosofia dovrebbe quindi apparire relatività del punto di vista, tipica della storiografia “popolare” contro la quale andavano in primo luogo le istanze dei kantiani a dotarsi di un metodo universale e sicuro, perché adeguato alle specificità del contenuto filosofico; cfr. K. G. Hausius, Historische Einleitung zur Geschichte der Kantischen Philosophie, pp. XCII-XCIII, (ora anche Aetas Kantiana, 87): «Quasi si potrebbe dubitare della possibilità di scrivere una qualche storia di una o di tutte le filosofie che ci sono state finora; già il solo pensiero di osarsi a una tale cosa, dovrebbe essere tenuto per un’impresa filosofica e il suo autore per un temerario. Se infatti non c’è sino ad oggi nessuna filosofia, come si comincia ad affermare, non potrebbe neanche apparire nessuna sua storia, e se ne apparisse una, dovrebbe sopportare che le si assegnasse un posto tra i romanzi. […] Certo, se si volesse chiamare filosofico soltanto quel sistema che poggia su fondamenti universalmente validi e indiscussi, lo si dovrebbe infine confessare. Ma a mio parere tutto dipende da ciò che si è scelto di chiamare filosofia, e ciò che le si attribuisce, e anche da quanto ampi si sono o si possono stabilire i confini della storia della filosofia. Le determinazioni mutevoli di ciò che deve contenere il concetto di filosofia, sono troppo note perché debba ripeterle; spesso però la differenza consiste soltanto in parola, e non nella sostanza. Quasi ogni scuola dà una definizione diversa». Sulla posizione leibniziana, oltre al fatto che questo testo esce all’interno di una iniziativa promossa da Eberhard, la pubblicazione dei Materialien zur Geschichte der critischen Philosophie Erste Sammlung, cfr. anche il saggio di Hausius Uber Raum und Zeit. Ein Versuch in Beziehung auf Kantische Theorie, Breitkopf, Dresden u. Leipzig 1790 (Aetas Kantiana, 16).

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anche come la misura della sua distanza dalla noumenicità della ragione114. Per questo motivo si porrà da ora in poi anche il problema di quanto comprendere, in questo caso, non sia in effetti un giudicare. La nozione di “pragmatico” scivolava così verso quella di sistematico, se la comprensione storiografica di una filosofia deve consistere nell’evidenziare il suo scaturire dalla ragione115. Questo comportava un’altra questione, se cioé una storia pragmatica della filosofia non debba essere anch’essa sistematica, nel senso di postulare una rappresentazione unitaria; un’unità che può però essere soltanto intrinseca alle diverse filosofie, e quindi tale da non poter essere cercata nella dimensione empirica e contingente che nel linguaggio del tempo viene indicata con l’espressione «destini della filosofia». Su come interpretare il rapporto tra pragmaticità del metodo, sistematicità dell’esposizione e necessità del contenuto, se cioè la prima esige necessariamente la seconda, in quanto questa scaturisce dall’ultima, si aprirà infine una certa distanza tra i kantiani e Kant stesso116. Che la storia della filosofia dopo Kant si fosse trasformata in un problema filosofico lo osservava nel “Philosophisches Journal” del 1795, cioè diversi anni dopo le prime discussioni, Tennemann, il quale recensisce quanto si era fatto di eccellente nella storiografia filosofica in Germania dal 1780 notando che in nessun tempo quanto nel suo si era riflettutto sul concetto di storia della filosofia, e che ciò «era una conseguenza immediata dell’influsso dello spirito critico». «Così importante per l’intero campo del sapere», questa filosofia «comincia adesso a esercitare una potente particolare influenza anche sull’impostazione formale della storia della filosofia»117. Come ha reso 114 Cfr. P. Giordanetti, Kant e la storia della filosofia, in “Rivista di storia della filosofia”, 4, 1999, p. 621: «La lettura non meramente storica, ma filosofica degli autori diviene dunque possibile solo sul presupposto di una distinzione fra rappresentazioni chiare, che trovano espressione nei loro testi, e rappresentazioni oscure, nelle quali balenano e compaiono in nuce quegli stessi principi e quelle medesime conclusioni cui solo il filosofo di Könisberg potrà giungere, sviluppando quei germi di cui i suoi predecessori avevano oscuramente coscienza». L’autore propone poi l’ipotesi di un residuo di psicologia leibniziana alla base dell’idea racchiusa nella celebre espressione kantiana per cui a volte si comprende un autore meglio di quanto egli stesso non si sia compreso. 115 Cfr. L. Geldsetzer, Die Philosophie der Philosophiegeschichte. Zur Wissenschaftstheorie der Philosophiebeschreibung und -betrachtung, cit., p. 34. La tesi principale di Geldsetzer è che tra i primi kantiani interessati al problema della storia prevale l’idea illuministica delle facoltà come criterio investigativo della diversità dei sistemi, idea alla quale tutti questi vengono generalmente ricondotti. 116 Cfr. infra la traduzione del testo di Grohmann, Sul concetto di storia della filosofia, p. 301. 117 Anonimo (ma G. W. Tennemann), Übersicht des Vorzüglischsten, was für die Geschichte der Philosophie seit 1780 geleistet worden, cit., p. 333 e p. 332.

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essenziali domande del tipo «che cosa è la filosofia? quali i suoi principi e confini?», continuava, così questo spirito di indagine si estende anche alla determinazione del concetto e dei limiti della storia di questa scienza. Entrambi i concetti stanno in connessione. Quanto più l’uno viene sviluppato, tanto più chiaramente il secondo può essere scomposto nelle sue note. Quante più o meno note vengono ammesse nel primo, tanto più ridotti o ristretti sono stabiliti i limiti della sua storia118.

Tra altre cose importanti che avremo modo di ricordare, scriveva che, oltre ai pensatori più noti, «due giovani pieni di talento» avevano affrontato il problema di determinare concetto e limiti della storia della filosofia, Georg Gustav Fülleborn e Georg Friedrich Daniel Göss. Questi appartengono alla generazione che diventa kantiana seguendo Reinhold. Quando propongono le loro teorie circa la storia della filosofia, formano una sorta di ortodossia kantiano-reinholdiana su questo tema119. Nel prossimo paragrafo si tratterà di Göss, nel presente di Fülleborn. Fülleborn non presenta tanto una teoria, quanto l’applicazione di criteri storiografici dedotti da Kant. Strumento di questa verifica sono i “Contributi alla storia della filosofia”, che egli fonda, dirige e redige, tranne rare collaborazioni, tra cui l’importante saggio di Reinhold Sul concetto di storia della filosofia, che formerà il centro dell’intera discussione su questo tema. Di questa discussione, i “Contributi” sono quindi una delle sedi più importanti, al punto che, cosa piuttosto rara per una rivista, lo stesso Fülleborn con non

Ivi, p. 333. Cfr. ad esempio la critica di Fülleborn ai tentativi di rendere più essenziale il pensiero di Kant, che finivano soltanto con l’unire “Critica e dogmatica” in Bemerkungen über die neuesten Bemühungen für die critische Philosophie, in “Beiträge zur Geschichte der Philosophie”, VII, pp. 159-160: «C’è stato un tempo in cui si metteva ogni impegno, e si trovava ogni vantaggio, nell’arricchire una scienza, le si aggiungevano da ogni parte materiali, si ordinava un capitolo dall’altro, e ci si applicava a dare a una scienza grande estensione. Oggi si è impegnati a ripulire e scheletrire la scienza, per quanto si può, per renderla quanto più semplice e determinata. Ora, uno scheletro è certamente più semplice di un corpo intero, ma anche soltanto uno scheletro. Considerando quando alcuni scolastici deducevano l’intera philosophia humana e la analizzavano secondo l’anatomia del concetto Homo, diviso in hominitas, homineitas e humanitas, noi sorridiamo di questa grande semplicità, e non pensiamo forse a idee simili del nostro tempo»; Fülleborn si sta riferendo soprattutto alla deduzione dell’Io uguale Io come fondamento formale e materiale dell’intera filosofia, proposta dal giovane Schelling, criticato alle pp. 163-170. 118 119

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troppo entusiamo accoglie nel 1796 le sollecitazioni per una ristampa dei numeri120 usciti tra il ’91 e il ’92. Il suo è un caso esemplare di kantismo che si costituisce in rapporto con il problema della storia della filosofia, un kantismo nel quale non è difficile vedere l’influenza delle Lettere reinholdiane121. Per Fülleborn infatti, la storia insegna che «lo spirito dell’uomo è chiamato alla filosofia», per cui l’ostinazione in essa, nonostante la sua millenaria inconcludenza, non «ha il suo fondamento in una sorta di male ereditario»122. Pensare è infatti la destinazione dell’uomo, e quindi la storia della filosofia, come storia di questa destinazione, sta al centro di quella della coscienza umana. Persino la «cultura spirituale di un popolo cresce e diminuisce nella misura in cui lo studio di questa scienza aumenta o declina»123. La filosofia non è allora una disciplina come le altre, ma la riflessione per principio storico-universale con cui si cerca di realizzare il bisogno maggiore della nostra vita, che è quello di chiarimento rispetto all’assoluto dell’etica e della religione124. Reinholdiano era anche l’argomento per cui una filosofia è vera se convalida e non se distrugge le convinzioni più diffuse, che Fülleborn rilancia: Certamente le prove per quei doveri, che i filosofi elaborano, sono soltanto lo sviluppo di sentimenti, che spingono quasi involontariamente ogni uomo che pensi, verso la fede in Dio e nell’immortalità dell’anima.

E in questo senso un filosofo «non dice molto di nuovo rispetto a chi impara a onorare Dio nei cieli». Ma la storicità della filosofia, che è l’espressione più specifica e pura della storicità del nostro essere chiamati a una destinazione, è tale per cui, mentre non cambiano i contenuti di questa destinazione, si modifica il modo in cui vengono compresi e vissuti: da positivi, intuitivi, oscuri, si cerca di trasfonderli in una convinzione razionale. L’esperienza che ha indotto molti a ritenere che la filosofia non avesse Lo scarso entusiasmo è dovuto al fatto di non poter più condividere il contenuto di molti articoli, cfr. G. G. Fülleborn, “Beiträge zur Geschichte der Philosophie. Neue Überarbeitete Auflage”, hrsg. von G. G. Fülleborn, Frommann, Zullichau und Freystadt 1796-1799, pp. III-IV. 121 Cfr. ad es., G. G. Fülleborn, Einige allgemeine Resultate aus der Geschichte der Philosophie, in “Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, 4. St., 1794, pp. 145-159. Un ulteriore segno è il fatto che Fülleborn, nel saggio Plan zu einer Geschichte der Philosophie, in “Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, 4. St., p. 186, indica le Lettere reinholdiane come il modello per la storia di specifiche dottrine filosofiche. 122 G. G. Fülleborn, Einige allgemeine Resultate aus der Geschichte der Philosophie, cit., p. 147 e p. 148. 123 Ivi, p. 150. 124 Ivi, p. 152. 120

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una sua storia, scaturiva dalla naturale associazione tra ciò che è storico e ciò che è nuovo, di fronte allo spettacolo, che si tratta di spiegare, per cui la filosofia pre-critica presenta una struttura aporetica dalla quale sembra esulare la possibilità del nuovo. Ma non è la destinazione della filosofia insegnare allo spirito umano cose che gli siano nuove ed estranee, bensì fare la rassegna dei particolari pensieri e delle verità sulla base delle facoltà in esso presenti e della generale disposizione al pensare125.

La Critica ha quindi valore storiografico: fa comprendere ciò che siamo stati, perché ci dice ciò che siamo chiamati ad essere. Le leggi del pensiero sono sempre le stesse, e tuttavia con l’esperienza che se ne fa, e con la consapevolezza che se ne guadagna, cambia la loro “applicazione”. I due concetti, che sembrerebbero funzioni di una mentalità antistorica, l’assolutezza delle leggi del pensiero e l’idea della destinazione universale, diventavano così invece le premesse “reinholdiane” dell’ultimo «risultato generale», per cui «la verità non si mostra allo spirito umano mai del tutto e mai in una volta»126. Non sorprende quindi che in una autopresentazione intellettuale – genere molto diffuso tra i kantiani per l’esigenza di motivare l’adesione alla nuova filosofia – Fülleborn ricordava che riuscì a comprendere la Critica soltanto quando iniziò a interpretarla come un canone storiografico: Allora la Critica divenne per me tutt’altro da ciò che prima era stata. Vi vidi la critica di tutti i sistemi, e diedi alle espressioni generali: dialettica dell’intelletto, antinomie della ragione, e così via, i nomi dei filosofi le cui opinioni rientravano sotto una tale rubrica. L’intero acquistò vita e connessione con i viventi. […] Quanto più seguivo quest’idea tanto più tutto mi diventava chiaro: credevo di essere adesso in grado di poter giuIvi, p. 154. Ivi, p. 156. Si definisce allora per la filosofia un compito subordinato al fatto che «il genere umano cambia quasi ogni giorno, e con esso i suoi bisogni, visioni e speranze», e che quindi sempre nuove oscurità gli si presentano lungo il cammino: «Ogni filosofia guadagna valore e considerazione se chiarisce e sviluppa le nostre idee oscure e involute, e illumina le regioni in ombra del nostro intelletto» (ivi, p. 157); ogni illuminazione non può quindi essere assoluta, ma storica per contenuto e per livello. Da questo punto di vista, con la Critica si può dare giustizia alle filosofie del passato e concludere, nel senso da Reinhold indicato, che «la storia della filosofia insegna che ogni partito filosofico ha scoperto almeno un lato della verità» (ivi, p. 156); «Il vantaggio di questa filosofia consiste nel fatto che essa ricorda ai pensatori una costante verifica ed esame di idee antiche e nuove, e fa loro un dovere di non affermare e contestare mai alla leggera» (ivi, p. 159). 125 126

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dicare l’intenzione e i confini delle fatiche kantiane. Esse non fanno altro che indicare ai filosofi che in rapporto alle loro conoscenze metafisiche si ingannano sempre, che scambiano la verità soltanto pensata con quella realmente conosciuta, e applicano le leggi del pensiero che sono date soltanto per il piccolo spazio dell’esperienza, a cose che sono sottratte a ogni esperienza. Questo Kant indica loro perché ha indagato soprattutto ciò che noi abbiamo – esperienza127.

Si può allora dire che il programma dei “Contributi” è mettere alla prova la fecondità della Critica come “critica dei sistemi”. L’efficacia storiografica del nuovo pensiero viene sperimentata su molti terreni: dalla differenza tra filosofia antica e moderna al significato della lingua nazionale in filosofia, da quello del valore dello scetticismo alla difficoltà di una storia della logica. E non va sottovalutato il numero, e il significato, delle traduzioni, in particolare quella del celebre opuscolo di Garve De ratione scribendi historiam philosophiae128 e quella del primo libro della Metafisica di Aristotele129. Come via d’accesso al pensiero di Fülleborn può servire soprattutto quest’ultima, che egli ripubblica anche nella seconda edizione dei “Contributi”, nonostante i dubbi sull’autenticità del testo, e il suo stato corrotto, al cui ripristino filologico si stava impegnando Buhle130. Viene riedito perché è «un prospetto piuttosto interessante dei primi tentativi degli antichi filosofi, di trovare un

G. G. Fülleborn, Geschichte meines philosophiscen Studiums, in “Beiträge zur Geschichte der Philosophie”, III, 1793, p. 188. È un’idea che, mutatis mutandis, anticipa l’impostazione della terza delle schellinghiane Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo, a cura di G. Semerari, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 17-18. 128 Ch. Garve, Über die Geschichte der Philosophie. Eine Stelle aus dessen lateinischer Abhandlung, De ratione scribendi historiam philosophiae, [1768]. Übersetzt vom Herausgeber, in “Beiträge zur Geschichte der Philosophie”, IX, 1798, pp. 149-163. Viene edito anche l’intero saggio. Di Garve nei “Beiträge” (XI) anche Legendorum philosophorum veterum praecepta nonnulla et exemplum. Anche Tennemann sul “Philosophisches Journal” esaltava Garve, il quale «ha dato indicazioni rilevanti per elaborare questo tipo di storia», (cit., p. 332). 129 Se la traduzione del primo libro della Metafisica significa la scelta teorica cui è dedicato il presente paragrafo, altre sempre relative alla filosofia antica, nonché in generale l’interesse fülleborniano per questa, rientrano nel disegno di ostacolare l’incomprensione della Critica. Quello che Heydenreich fa per la storia della filosofia moderna, Fülleborn lo propone per quella antica, cfr. ad esempio il cenno a come Kant risale oltre la stratificazione storica al significato platonico di “fenomeno” sicché studiare Platone dalle fonti significa comprendere meglio anche Kant, in Über einige Vortheile aus dem Studium der alten Philosophen, in “Beiträge”, VI, p. 115. 130 Cfr. J. G. Buhle, Aristotelis Opera omnia Graece: ad optimorum exemplarium fidem, rec., annotationem criticam, librorum argumenta et novam versionem Lat. Adiecit JO. Theophilus Buhle, Typographia Societatis Bipontinae, Biponti 1791 e seg. 127

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principio fondamentale delle cose»131. Fülleborn ritiene che la storia della filosofia debba essere “aristotelica” quanto al contenuto, nel senso che essa è storia non della saggezza o delle scienze o della cultura, ma del pensiero speculativo il quale ricerca il principio delle cose. Sono quindi filosofie i pensieri il cui interesse fondamentale sta nella metafisica e nella logica, e soltanto in conseguenza di queste presentano anche insegnamenti di altro ordine. In una “Breve storia della filosofia”, che è il testo citato con favore da Tennemann sul “Philosophisches Journal”, Fülleborn ne descrive il processo secondo tre passi storici, seguire i quali farà comprendere perché una storia della filosofia può ormai essere “aristotelica” soltanto se assume la Critica come suo criterio. La filosofia nasce in Oriente, ma diventa se stessa, cioé speculazione, in Grecia132, dapprima come naturalismo, in cui presto a cause ultime materiali subentrano idee e concetti. Mentre i sensi sembrano ingannare, la conoscenza intellettuale appare infatti ai primi greci un possesso più sicuro. Anche questa però mentre va allontanandosi dal rapporto con il sensibile, scopre in se stessa antinomie e contraddizioni. Questo è allora «il risultato delle fatiche delle più antiche intelligenze»: alcune idee psico-cosmologiche sull’origine e la costituzione fondamentale del tutto; dubbi sulla certezza di una gran parte della conoscenza umana; e alcune esercitazioni sillogistiche133.

Il secondo passo è quello che porta da Socrate a Platone e ad Aristotele. Con Socrate comincia l’influenza della vita sociale sulla filosofia che considera come suo problema quello della definizione speculativa non più del mondo ma dell’uomo come tale. Il Platone di Fülleborn ha poca autonomia da Socrate, da cui si differenzia soprattutto perché ridà peso alla ricerca teoretica. Ben più importante Aristotele, che organizza le diverse discipline, sin’allora confuse, costruisce un sistema in cui la filosofia viene distinta in teoretica e pratica, e si confronta con le filosofie del passato.

G. G. Fülleborn, Erstes Buch der Aristotelischen Metaphysik, in “Beiträge zur Geschichte der Philosophie”, I-II, Neue Überarbeitete Auflage, 1796, p. 143. 132 È un’idea già garveana, cfr. De ratione scribendi historiam philosophiae, cit., p. 125: «Incunabola philosophiae et rudimenta apud Orientis populos fuere […]. At cum primum ad Graecos translata est philosophia, videtur in fertilius solum et suae naturae convenentius incidisse: ita enim parvo tempo excrevit». 133 G. G. Fülleborn, Kurze Geschichte der Philosophie, in “Beiträge zur Geschichte der Philosophie”, III, 1973, p. 12. 131

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Verità e probabilità sono per lui gli scopi a cui le singole parti della scienza devono aspirare: esperienza, nonché prova e confronto delle esperienze secondo le leggi generali del pensiero, sono i mezzi per quegli scopi134.

Aristotele raggiunge il vertice della filosofia antica perché la stabilizza nel suo ruolo di speculazione, anche inquadrandone la tradizione. Perciò è il primo a sentire l’esigenza che anche Fülleborn avverte come storico, cioè «sistemare i singoli momenti in un tutto»135. Già soltanto da questi brevi cenni si comprende che nella vicenda dell’imprinting kantiano di Fülleborn si manifestava la sua insoddisfazione per quello che si potrebbe dire il modello “laerziano”, secondo cui la storia della filosofia deve contenere il regesto delle vite e delle opinioni notevoli dei pensatori136; nell’idea che le strutture della Critica potessero fungere da criteri storiografici, si manifestava la preferenza per un modello di tipo “aristotelico”, organico e mono-problematico nel senso del riconoscimento della centralità della questione metafisica come rapporto tra essere e pensare. Ma se l’intenzione di questa storiografia deve essere “aristotelica”, il mezzo perché venga soddisfatta non può essere cercato nella Metafisica, né nell’idea aristotelica di filosofia. In un altro saggio, si legge che Aristotele, poiché «pensò nel modo più determinato la differenza tra verità logica e verità metafisica»137, è quanto nel mondo antico ci sia stato di più vicino al criticismo. È una sorta di Kant materialiter, a cui manca cioé l’ultimo passo verso la chiarezza dell’orizzonte trascendentale: Aristotele aveva distinto con precisione la facoltà della sensibilità dalla forza del pensiero. All’ultima attribuisce la facoltà di rappresentazione e la forza del giudizio, e le ascrive la più incondizionata generalità, cioè la facoltà di pensare tutto il pensabile. Sempre avvertito della differenza tra materia e forma, che lo guidava quasi in ogni sua indagine, distinse molto correttamente anche rispetto al concepire e giudicare ciò che appartiene all’intelletto e ciò che spetta alle impressioni […]. Certo, non ha chiamato esplicitamente questa facoltà intelletto puro, e il modo della sua attività, concetti originari, concetti radicali; ma ci si renderà conto facilmente che gli balenò un’oscura idea della priorità dei concetti generali e delle forme del giudizio138.

Ivi, p. 20. Ivi, p. 4. 136 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 2 voll., a cura di M. Gigante, Laterza, Roma-Bari 1998. 137 G. G. Fülleborn, Geschichte der logischen Denken, cit., p. 175. 138 Ivi, p. 176. 134 135

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IL PROBLEMA DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA DAL PUNTO DI VISTA “KANTIANO”

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E in un altro testo, Della differenza tra la filosofia antica e l’attuale, ricorda il luogo della Fisica, prossimo alla dottrina delle forme pure dell’intuizione, secondo cui «senza anima non c’è tempo»139. Aristotele tuttavia può servire soltanto da ispirazione, dato che se lavora attorno al problema, non ne possiede la soluzione, presente unicamente nella Critica. E infatti la sua «sistemazione» esplode perché, mancando comunque della sistematicità consentita soltanto dalla prospettiva trascendentale, come tutta la filosofia antica soffriva di un deficit di fondamento segnalato dallo scetticismo, il quale dicendo la parola finale sulla prima fase di questa storia, ne aveva tratto la conclusione di un generale “nulla di fatto”: lo scetticismo, che Fülleborn kantianamente giudica indispensabile, è quell’indagine sul pensiero che non riesce a trovarvi l’ubi consistam della conoscenza. Poiché il pensiero quanto più avanza nella logica, tanto più vi dissolve la metafisica e quindi il sapere, dopo lo scetticismo le scuole post aristoteliche poterono recuperare valore soltanto sul piano pratico della saggezza. Queste, insieme allo scetticismo, sono quindi forme della rassegnazione che segue all’impossibilità di giustificare l’esperienza e dare vita a un sapere metafisico secondo gli interessi della ragione – relativo cioè all’uomo, al mondo e a Dio – che non sia antinomico. Questo esito ci fa capire che «lo scopo fondamentale delle ricerche filosofiche presso gli antichi era lo stesso che anima le attuali», e che anche gli oggetti della filosofia sono rimasti gli stessi140. In questo senso la storia della filosofia, antica come moderna, ha un’unico problema, cioè il rapporto inverso tra pensare e sapere, che lo scetticismo segnala più di altri orientamenti perché lo tiene sistematicamente aperto, in quanto ne svela apparente la sistematicità di ogni proposta di soluzione. Poiché è un fattore di razionalità, con lo scetticismo antico la filosofia non muore, ma si ferma all’insolubilità di questo problema, che coinvolge metafisica e scienza. Le difficoltà della storia della filosofia antica sono il punto da cui ricomincia la filosofia moderna. Come era per Garve e sarà per Hegel141, il mondo romano nel giudizio di Fülleborn non fa avanzare la filosofia che, dopo il

G. G. Fülleborn, Von der Verschiedenheit der alten Philosophie von der neueren, cit., p. 198. Su Aristotele, cfr. il brano in cui Kant lo oppone a Platone, in Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie, AA, VIII, cit., pp. 393-394. La visione kantiana per cui ogni filosofia dell’entusiasmo è fondamentalmente un platonismo, marca anche i lavori “platonici” di Fülleborn. 140 G. G. Fülleborn, Von der Verschiedenheit der alten Philosophie von der neueren, cit., p. 192 e p. 194. 141 Cfr. Ch. Garve, De ratione scribendi historiam philosophiae, cit., p. 131. 139

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

millennio di stasi della Scolastica142, si annuncia non tanto con Bacone143, un empirico, ma con gli speculativi Cartesio e Spinoza. Nella contraddizione tra le loro filosofie, sono gli ultimi a neanche intravedere la necessità che un’indagine preliminare decida della possibilità della ragione di condursi nella metafisica144. Grazie al loro confronto quest’idea sarà invece già chiara a Locke, il quale fa il primo passo verso una vicina critica della conoscenza umana. Questo acuto pensatore vide presto che ogni vera filosofia doveva provenire da un’indagine sull’origine e la certezza delle nostre rappresentazioni145.

La differenza tra la filosofia moderna e l’antica è allora che «noi stiamo sulle spalle del mondo precedente, ma sotto questo riguardo non sappiamo molto più di esso, tranne che sappiamo molto di più che cosa non possiamo sapere»146. È quindi un elemento comune ai kantiani, e che già abbiamo osservato rispetto a Heydenreich, considerare la fase più recente della storia della filosofia quella in cui per la prima volta essa assume l’atteggiamento autointerrogativo che ne permette il passaggio allo status di autentica razionalità. Questo sapere di secondo livello è dovuto alla riflessione sul rapporto di non coincidenza tra pensare e conoscere che secondo Fülleborn si compie in Kant, ma che si prepara nei due secoli precedenti. L’inversione tra pensare e conoscere, su cui si era arenata la filosofia antica, comincia adesso a essere concepita come non coincidenza. Locke cerca il fondamento della 142 G. G. Fülleborn, Kurze Geschichte der Philosophie, cit.: la storia della filosofia romana non ha importantza almeno per un breve compendio come questo perché rielabora idee della filosofia greca, (cfr. ivi, p. 26); l’autore non si sofferma sulla Scolastica ma delinea un “inventario” delle idee filosofiche dell’antichità che sono state ereditate dalla filosofia moderna, (cfr. ivi, p. 27). 143 Bacone proprio perché empirico è invece l’autore che per definizione inizia la filosofia moderna nella storiografia di impostazione bruckeriana, cfr. M. Longo, “Le storie generali della filosofia in Germania”, cit., p. 571 e p. 585. 144 G. G. Fülleborn, Kurze Geschichte der Philosophie, cit., p. 35: «Con questi tentativi la filosofia generale non veniva portata avanti di nulla: infatti sono soltanto idee, prese dal mezzo, senza la precedenza di quell’indagine che soltanto può stabilire in maniera più certa un sistema, l’indagine circa i fondamenti e i principi della conoscenza umana. Nessuno di questi filosofi e dei loro successori si pose sul serio la domanda: cosa sia la conoscenza e su cosa poggi». Cfr. anche G. G. Fülleborn, Philosophische Vorlesungen, cit., p. 105: «Come Cartesio si perse nelle spiegazioni più minute dei problemi della ragione; altrettanto si smarrì Spinoza nell’oscurità di questi compiti». 145 G. G. Fülleborn, Kurze Geschichte der Philosophie, cit., p. 36. Si ricorderà che anche Heydenreich attribuisce un ruolo eminente a Locke nella storia della metafisica. 146 Ivi, p. 10. Sulla dialettica di “ritorni” e “progressi” nella storia pre-critica della filosofia, cfr. I. Kant, Fortschritte, cit., pp. 18-19, (tr. it., pp. 69-70)

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IL PROBLEMA DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA DAL PUNTO DI VISTA “KANTIANO”

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conoscenza nell’elaborazione delle informazioni fornite dai sensi. Leibniz ritiene ingiustificato il fondamento lockiano perché conduce a una scomposizione all’infinito dei dati d’esperienza; quindi ripristina la speculazione fondandola sui principi logici di non contraddizione e di ragion sufficiente, a cui attribuisce valenza oggettiva perché, grazie al concetto di possibile, trova il modo di unire logica e metafisica, pensiero e conoscenza, come già osservavamo nel precedente capitolo147. Berkeley obietta però che la mente ha soltanto rappresentazioni; Hume estremizza quest’idea e dimostra che tutte le filosofie precedenti in modo illegittimo hanno attribuito necessità a modelli di conoscenza che sono psicologici e quindi casuali: pensiamo ma non conosciamo. Con questo scetticismo siamo di nuovo al punto in cui si è spenta la filosofia antica, il luogo in cui, se non storicamente almeno speculativamente, è finito l’aristotelismo. Occorre però considerare che questo ritorno, poiché poggia sulla filosofia lockiana, la quale se non è critica nella soluzione, lo è nel problema, comporta un generale miglioramento dell’impostazione dello stesso scetticismo, e quindi dell’intera riflessione sul rapporto tra pensare e conoscere. Se avesse ragione Hume «non potrebbe esserci nessuna conoscenza filosofica, nessuna certezza, non potrebbe esserci nessuna filosofia»148. A suo dire, «Cartesio e Spinoza, Locke e Leibniz avevano sognato: la ragione era rigettata con le sue pretese alla conoscenza e certezza»149. Ma la storia non si ripete. Kant è riuscito a superare lo scetticismo humiano perché ha saputo confutare anch’egli l’identificazione leibniziana di logica e metafisica, cioè “l’aristotelismo” moderno, senza però ricorrere agli argomenti scettici, e quindi senza cadere nel caput mortuum a cui la filosofia antica si era fermata150. Questo significa che quanti, come ad esempio Schul147 Ivi, p. 39: «È innegabile che Leibniz e il suo grande successore Wolff hanno elaborato più di tutti i precedenti filosofi una filosofia propriamente scientifica. Tramite Wolff tutte le parti della filosofia divennero elementi di un collegamento sistematico [planmässige], che fondato su due principi, doveva essere indistruttibile, se questi due principi erano affidabili, se cioè il principio di contraddizione fondava realmente la nostra conoscenza, e non semplicemente il pensiero, e se il principio di causalità si lasciava estendere a tutte le cose che sono oggetti della conoscenza d’esperienza». 148 Ivi, p. 114. 149 Ivi, p. 111. 150 Occorre osservare che in questo disegno Fülleborn indica come indispensabile per la comprensione della filosofia contemporanea la conoscenza di quella antica, essendo entrambe intente al medesimo problema. Quest’indicazione avrà un effetto sull’impostazione dello storico kantiano Buhle. Il primo tomo della sua storia della filosofia contemporanea comincia con una “Visione generale della filosofia dei greci sino a Sesto Empirico”, cioè allo scetticismo, e prosegue sino a quando la “letargia” della Scolastica non viene eliminata dai primi atti della

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

ze stimano il criticismo soltanto come una migliore forma di scetticismo, non ne hanno compreso molto151: si tratta anzi della prima filosofia che abbia saputo essere anti-metafisica e allo stesso tempo anti-scettica, e qui sta in fondo tutta la sua rivoluzionarietà. Il superamento della coincidenza tra pensare e conoscere, che era contraddittoriamente affermata da Leibniz e quindi allo stesso tempo provocava lo scetticismo di Hume, appare, una volta compiuto, il problema decisivo della storia della filosofia, da cui derivavano gli altri, incluso quello morale. In un breve saggio divulgativo del 1800, Fülleborn avrebbe scritto che: è inutile cercare in tutto ciò che la metafisica ci ha proposto sinora: essa ha preso per oggetto ciò che è soltanto concetto di concetti, ha considerato come conoscibile e conosciuto, ciò che si può chiamare soltanto pensabile e pensato152.

Contro Hume, Kant dimostra che il sapere non si dissolve nel mero pensare; contro Leibniz, che il pensare non comporta di per sé il sapere; contro Locke, che il sentire non è vero sapere, e meno ancora l’intero pensare. Ne deriva un diverso significato di oggettività, che mentre le critica, dà conto delle unilateralità con cui l’empirismo aveva concepito le «rappresentazioni» e il razionalismo la ragione. È qui posto «il fondamento di una nuova mefilosofia moderna che inizia con Cartesio: cfr. J. G. Buhle, Geschichte der neueren Philosophie seit der Epochen der Widerherstellung der Wissenschaften, Witwe, Göttingen 1800, I, pp. 7-8. 151 Cfr. G. G. Fülleborn, Aenesidemus, in “Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, III, 1793, pp. 152- 158. Fülleborn riconosce che l’Enesidemo di Schulze è un «libro che fa epoca», perché introduce un nuovo tipo di scetticismo, il quale non nega in assoluto che in futuro si potrà giungere a conoscenze certe circa le cose in sé e i limiti del sapere, ma contesta che questo sia avvenuto. In questo senso, è «una opportuna e scientifica incertezza, che non ammette in nessuna parte delle conoscenze umane affidamento e sicurezza». In quanto scetticismo non dogmatico, si trova a suo agio con la pars destruens della filosofia critica, ma soltanto con questa. Due sono i temi più interessanti del discorso di Fülleborn nei confronti di Schulze per quanto riguarda il nostro problema. La Critica «ha reso consapevole la ragione filosofica della mancanza di autoconoscenza, che ha prodotto così tante ipotesi avventate, e ha fornito un tentativo, che onora l’ingegno umano, di misurare con esattezza la forza delle facoltà conoscitive, umane secondo la loro estensione e la loro destinazione autentica». Da questo punto di vista, la Critica sembra anche a Schulze avere introdotto la dialetticità che spiega la storia delle metafisiche. Ma il punto è che sul piano positivo rimane un tentativo, come dimostra il secondo tema, a cui certo Fülleborn non può assentire, per cui tramite essa «non è stato confutato né lo scetticismo humeano, né l’idealismo», cioè la filosofia leibniziana. Fülleborn come anche Heydenreich fondano invece proprio su questa duplice confutazione la disponibilità nei concetti critici di criteri per una comprensione universale della storia della filosofia. La rivista tornava sulla critica di Schulze a Reinhold con Lotheisen, Über Elementarphilosophie und Scepticismus, in “Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, VIII, p. 138. 152 G. G. Fülleborn, Kant, cit., p. 25.

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IL PROBLEMA DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA DAL PUNTO DI VISTA “KANTIANO”

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tafisica»153: una metafisica della mente che si approfondisce nella teoria dei giudizi sintetici a priori; e una metafisica attinente ai contenuti tradizionali di questa scienza, rifondati però su base pratica. Questa metafisica nuova può essere utilizzata anche come criterio adeguato alla storia della speculazione, perché quella duplice confutazione – la quale, perché duplice, è anche confutazione dello scetticismo – se comporta la ristrutturazione dell’ordine delle funzioni razionali, vale anche come giustificazione delle posizioni che in passato non potevano ancora dare conto di quell’ordine. La storia della filosofia ha avuto un tema fondamentale, cioé l’impossibilità di risolvere il problema del rapporto tra pensiero e conoscenza senza la comprensione critica, e non include qualsivoglia considerazione su argomenti astratti, sicché ad esempio, non vi rientra Vanini154, perché secondo Fülleborn, non contribuisce alla discussione del problema che fa da discrimine tra quanto attiene alla filosofia e quanto rientra invece tra le vicende della cultura. La funzione storiografica della Critica coincide allora con il suo essere la prima filosofia autenticamente sistematica155. Poiché permette di «trovare lo scopo autentico e il giusto punto di vista della filosofia»156, può servire da criterio per la redazione moderna di qualcosa di analogo al primo libro della Metafisica. Di analogo e superiore però, perché rispetto a questa ha il vantaggio di poter essere “pragmatica” e quindi “oggettiva” nel senso di ricondurre le filosofie ai loro motivi generatori entro le funzioni stesse della ragione: G. G. Fülleborn, Über das Interesse an der Kantischen Philosophie, in “Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, III, 1793, p. 167. 154 Un saggio in “Beiträge zur Geschichte der Philosophie”, V, è dedicato a Vanini. Fülleborn, che ne conosce abbastanza bene i testi, nega che possa essere trattato in una storia della filosofia: «Si trovi nella storia della filosofia che almeno un pensatore abbia attinto un’idea direttamente da Vanini, così potremo considerare la sua come un’omissione. Ma una raccolta di opinioni e arguzie non è affatto storia della filosofia», (p. 24). La storia della filosofia ha a che fare con quella dei perseguitati perché in questa «ci sono spesso filosofi». Ma ciò non comporta che i perseguitati per le loro idee vi debbano rientrare, (ivi, pp. 1-2). Cfr. per una critica a questo giudizio di Fülleborn, D. M. Fazio, Giulio Cesare Vanini nella cultura filosofica tedesca del Sette e Ottocento. Da Brucker a Schopenhauer, Congedo, Galatina 1995. 155 Sulla nozione di sistema kantiano come «sistema di ricerca» sono importanti anche per il nostro tema le considerazioni di C. Piché, Kant et ses épigones. Le jugement critique en appell, Vrin, Paris 1995, pp. 74-128. 156 G. G. Fülleborn, Kurze Geschichte der Philosophie, cit., p. 101. Con questo criterio Fülleborn elabora un breve Plan zu einer Geschichte der Philosophie, (“Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, IV, pp. 180-186) di cui «perlomeno la proposta distinzione tra la storia autentica e le ricerche critico-letterarie meriterebbe qualche considerazione», in “Vorrede”, “Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, XI-XII. Stück, 1799. 153

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

È già stato dimostrato da altri, e io non posso qui che ripetere, che in modo sicuro la Critica dà rilievo a tutto il vero nei diversi sistemi che la precedono, e li raccoglie sotto un punto di vista colto dall’essenza della facoltà umana della conoscenza157.

Il cenno è qui al carattere non settario che una storiografia filosoficamente orientata possiede secondo Heydenreich, nonché al testo di Reinhold di cui dovremo occuparci, nel quale veniva esaltata la possibilità di trasferire l’assetto sistematico della Critica sul piano storiografico, come strutturazione delle diverse modalità pre-critiche di filosofare. Ma che cosa è una storia pragmatica della filosofia se non una storia della ragione? Una forza cessa di essere ciò che è, appena riceve altre leggi secondo cui essa deve agire. Non saremmo più uomini se alla nostra ragione fosse stata data una nuova legge. Si può sviluppare di più, può progredire di luce in luce: ma essa può farlo soltanto secondo le prime ed essenziali leggi, tramite cui è diventata ciò che è. Noi non siamo un semplice gioco del caso e dell’inganno158.

La ragione è il soggetto della storia della filosofia perché questa è la storia della sua legalità, comprensibile in modo unitario quando tale legge sia stata compresa. Allo storico della filosofia interessano soltanto i pensieri che rivelano la storia della ragione, come in una qualche misura aveva già compreso Garve nel suo saggio su modi e motivi di scrivere una storia della filosofia, che Fülleborn non conosceva quando componeva la sua Breve storia della filosofia, ma che avrebbe rimesso in circolazione, insieme a un altro scritto di Garve159, perché vi avrebbe trovato affinità con il suo proprio G. G. Fülleborn, Über das Interesse an der Kantischen Philosophie, cit., p. 176. A dimostrazione del carattere di topos assunto da quest’idea, cfr. J. G. Buhle, Einleitung in die allgemeine Logik und die Kritik der reinen Vernunft, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1795, p. 11: «Se i risultati della Critica della ragione teoretica vengono applicati ai sistemi metafisici sinora avuti, e confrontati con quelli, si ottiene una cosiddetta Metafisica critica, in cui viene determinato ciò che in quei sistemi c’è di vero e di falso». 158 G. G. Fülleborn, Philosophische Vorlesungen, cit., p. 118. 159 Ch. Garve, Legendorum philosophorum veterum praecepta nonnulla et exemplum, 1770. In questo scritto Garve afferma che ci sono due modi per studiare i sistemi del passato, allo scopo di averne uno stimolo intellettuale, o allo scopo di darne una rappresentazione unitaria. Un criterio per questa rappresentazione veniva proposto secondo il modello già bruckeriano delle età della vita umana, che anche la filosofia attraverserebbe per poi ritornare, grazie alla meditazione sugli antichi, a ritrovare la semplicità dei suoi autentici problemi, dopo essersi esaurita nell’inconcludenza delle dispute intellettualistiche della senescenza. Non c’è in Garve quindi tanto un’idea di progresso quanto di maturazione organica del sapere. Quest’idea “vitale” della storia della filosofia fa coagire unità e differenza nell’idea che i medesimi concetti 157

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IL PROBLEMA DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA DAL PUNTO DI VISTA “KANTIANO”

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programma di un approccio non letterario ma “pragmatico” alla storia della filosofia. Scriveva infatti Garve, Est autem philosophiae historia, commemoratio variarum quas inde a principio usque ad nostram aetatem scientia humana subiit, mutationum. Atque ut in quaque re inveniri possint causae, quibus mutata scientia est, illud omnino debet cognitum esse, qua via hominem ad scientiam natura perducat160.

Poiché i concetti di questa scienza mutano più velocemente delle sue parole, «nec enim quid quisque dixerit, sed quid senserit, nosse volumus»161, la difficoltà per lo storico della filosofia consiste nel dover riconoscere come si siano modificati pensieri che spesso si succedono di epoca in epoca rimanendo espressi con le stesse parole, le quali acquistano per via di elaborazione, e sotto lo spirito dei tempi, un nuovo significato. Serve allora una «accurata linguae scientia», che però è cosa «vehementer neglecta»162. In un certo senso, Fülleborn considera Garve un precursore nell’idea che compito della nuova storiografia sia comprendere lo “spirito” della filosofia. L’interesse fülleborniano per la storia linguistica della filosofia, nonché il criterio pedagogico secondo cui un modo indispensabile per imparare a filosofare è tradurre i filosofi, come anche l’idea che dove possibile è sempre meglio evitare sintesi per far parlare direttamente i testi, si accordano con l’idea di Garve secondo cui si tratta di fare la storia della trasformazione dei concetti nella tradizione dei termini filosofici. Da questo momento in poi la questione ermeneutica diventerà centrale per i teorici kantiani della storia, che spesso vengono da una formazione filologica, come nel caso di Göss che sarà esaminato nel prossimo paragrafo. Un effetto di queste osservazioni garveane di Fülleborn si osserva in Heydenreich. Rispetto infatti al saggio del 1791 Alcune idee sulla rivoluzione portata da Immanuel Kant nella filosofia e in particolare circa il suo influsso sulla trattazione della storia della filosofia, nel successivo C’è una filosofia? viene dato maggiore rilievo agli «acuti ermeneuti» che «fondandosi sulle giuste regole della spiegazione secondo il loro pieno sviluppo, penetrano nel vero senso delle espressioni e costruzioni dei filosofi» chiarendo che il loro lavoro preparatorio è indispensabile per una storiografia filosofica163. – relativi all’essenza della conoscenza – si vadano trasformando nel corso della storia ad opera dei singoli filosofi. 160 Ch. Garve, De ratione scribendi historiam philosophiae, cit., p. 94. 161 Ivi, p. 99. 162 Ibid. 163 Cfr. C. H. Heydenreich, Giebt es eine Philosophie?, cit., p. 27.

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

E la differenza tra i due saggi, molto simili, consiste sostanzialmente nella nuova attenzione per il profilo ermeneutico della storia della filosofia, reso centrale da tutta l’opera svolta da Fülleborn nei “Beyträge”. Fülleborn apprezza quindi l’intenzione anti-laerziana (o anti-ciceroniana) di dare «una opportuna, compatta visione del cammino della filosofia», che ha per scopo, come scrive lo stesso Garve, non di presentare «philosophorum enumeratas jejune scriptas, et meras opiniones enumeratas»164. Si tratta piuttosto di cogliere di ogni filosofo la sua «sentiendi cogitandique ratio»165, che è il modo in cui si configura in esso la ricerca speculativa secondo l’attitudine sua propria e l’influenza del proprio tempo. Comprendere lo “spirito” delle singole filosofie non è soltanto una questione ermeneutica. La filosofia è per Garve la sapienza dell’umanità, che tramite le individualità dei pensatori attraversa fasi di crescita ed altre di crisi, secondo lo schema delle età della vita166 che egli applica con concetti quasi già fenomenologici alla storia della filosofia, la quale quindi si rivela infine, almeno nel saggio in questione, come la parte più eloquente della storia universale della cultura. Essendo una la filosofia, comprendere la storicità e particolarità delle filosofie permette quindi allo stesso tempo di «costuire una storia dello spirito umano»167. Garveane sono molte considerazioni del Plan zu einer Geschichte der Philosophie in cui Fülleborn stabilisce che rapporto debba esserci tra i vari tipi di lavori preparatori e la «storia autentica della filosofia», la quale richiede la «determinazione del concetto» e «l’introduzione dello sviluppo e progressiva formazione dello spirito umano alla filosofia»168. Si può affermare in sintesi che il significato principale del lavoro teorico di Fülleborn è consistito nel far notare che lo scopo aristotelico dell’unità della filosofia e quello garveano della storicità dello spirito delle filosofie fossero diventati finalmente raggiungibili con Kant. Esaminiamo allora la definizione di storia della filosofia che Fülleborn dà nel testo qui tradotto in Appendice: Ch. Garve, De ratione scribendi historiam philosophiae, cit., p. 90. Ivi, p. 108. 166 Ivi, p. 121. 167 Fülleborn si richiama a Garve per contestare una recensione apparsa sulla “Allgemeine Deutsche Bibliographie”, cfr. Ch. Garve, Über die Geschichte der Philosophie, cit., Anmerkung vom Herausgeber, p. 160. La citazione finale a p. 163. A Garve, Fülleborn dedica anche una sorta di profilo, Christian Garve. Nebst einigen Bruchstücken über ihn, s.l., 1800, di scarso interesse per il nostro tema. Cfr. su Garve in questo contesto, L. Braun, Historie de l’histoire de la philosophie, cit., pp. 179-181. Potrebbe riferirsi anche a Diogene Laerzio, il cenno nelle Vermischten Bemerkungen zur Geschichte der Philosophie, in “Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, VII, p. 173. 168 G. G. Fülleborn, Plan zu einer Geschichte der Philosophie, cit., p. 185. 164

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Una storia pragmatica della filosofia è quindi possibile soltanto tramite un’indagine critica e una rappresentazione delle diverse maniere di filosofare. E dato questo presupposto, rappresentare lo spirito di una filosofia significa indicare in che modo le affermazioni di un filosofo sono fondate nella natura dello spirito umano, sono commisurate alle sue leggi, e rispettano o violano i suoi confini169.

I sistemi possono essere ricondotti alle tre maniere generali di filosofare, che Kant aveva indicato sia nella «Storia della ragion pura» posta in conclusione della Critica sia in diversi quadri storiografici: dogmatismo (idealista o empirista), scetticismo e criticismo. Dire che in «questo presupposto» si deve rappresentare lo spirito di una filosofia, significa che alla storiografia occorre la cooperazione tra la competenza filosofica circa le forme pure e le dinamiche della ragione, e quella storica, che anche grazie alle regole dell’ermeneutica, riesce a trovare nella lettera del sistema il segno di quelle forme e di quelle dinamiche. Il pragmatico ha così una declinazione allo stesso tempo sistematica e filologicamente feconda. La tensione tra filosofia e filologia che si accendeva in Heydenreich già comincia a trovare vie per comporsi170. Come non di rado, anche in questo caso le conseguenze che gli allievi trassero dalle sue teorie influenzarono il corso dell’ulteriore riflessione di Kant. La traccia di questa definizione di pragmatico, che unisce un orizzonte trascendentale alla necessità che si verifichi la sua specifica configurazione nel sistema storico, si incontra nell’appunto delle tarde “Lose Blätter”, Di una storia filosofica della filosofia, dove Kant cita il nome di Fülleborn171. Scrive Kant: «Ogni conoscenza storica è empirica e quindi conoscenza delle cose come sono, non come devono necessariamente essere». Ma la filosofia è la scienza della ragione e la ragione è la condizione di se stessa e quindi non è storica: «Filosofare è uno sviluppo progressivo della ragione umana e questa

169 G. G. Fülleborn, Che cosa significa: rappresentare lo spirito di una filosofia?, infra, p. 254, (ted., p. 201). 170 Infra, pp. 253, (ted. pp. 196-197): «Così, ad esempio, rappresentare lo spirito dello scetticismo significherebbe altrettanto che indicare cosa è lo scetticismo, ciò per cui esso si distingue dalle altre maniere di filosofare, su quali fondamenti poggia, come si connette in se stesso, e quali siano i suoi effetti. Questo spirito può e deve essere estratto dal rivestimento corporeo delle parole, espressioni e rappresentazioni. Lasciamo cadere le espressioni, i numeri, le idee, le monadi, le omeomerie e così via, per cercare il puro pensiero, interno ed essenziale, che in quelle è avviluppato. Ignoriamo pure le trovate e le ipotesi con cui un pensatore adornava la sua speculazione, o che egli si concedeva, e atteniamoci alle sue affermazioni massimamente oggettive e più importanti, che stanno in connessione tra loro». 171 I. Kant, AA, 7, XX, cit., pp. 340-343. Si tratta di pagine edite soltanto nel 1899.

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non può avere proceduto né iniziato in modo empirico». La filosofia non ha condizioni esterne, perché è un «bisogno» della ragione verso se stessa, e quindi questo bisogno ne è la vera causa. Esistono allora due ordini di comprensione. Il primo: «Una rappresentazione storica della filosofia racconta come e in che ordine si è sinora filosofato». Non narrativa né ricostruttiva (e quindi non necessariamente cronologica) è invece la rappresentazione che coglie questo oggetto dal punto di vista della sua causa nel bisogno della ragione: Una storia filosofica della filosofia è essa stessa non storica o empirica ma razionale, cioè possibile a priori. Infatti sebbene espone fatti della ragione li trae non dal racconto storico ma dalla natura della ragione umana come un’archeologia filosofica172.

Per Kant il problema che si deve risolvere consiste appunto nel dover concepire la storia di qualcosa che non è storico: Una storia della filosofia è di un tipo così particolare che in essa non può essere raccontato nulla di ciò che è accaduto senza prima sapere che cosa sarebbe dovuto accadere, e con ciò anche che cosa può accadere. Tutto dipende dal fatto se questo sia stato prima indagato, o se invece si è escogitato a piacere. Infatti, essa non è la storia delle opinioni che in modo casuale emergono qua e là, ma la storia della ragione che si sviluppa da sé in base a concetti [der sich aus Begriffen entwicklenden Vernunft]173.

Sebbene in forma interrogativa, Kant sembra associare la «rappresentazione storica della filosofia» alla «storia della saggezza», cioè della cultura, da cui distingue la «storia filosofica della filosofia» che invece «può essere una parte della filosofia», e quindi avere in essa un ruolo sistematico. Se la vera storia della filosofia deve essere rappresentata come una parte della filosofia, per un verso dovrà accantonare il tradizionale aspetto narrativo che conservava anche in Fülleborn, per l’altro dovrà adottarne uno di tipo “schematico”, quasi costruttivo per concetti, avendo in mente il quale Kant si chiede

172 Ivi, p. 341. Quindi, per un verso ogni filosofia deve essere riportata alla dimensione dello a priori e per l’altro è concepibile una storia della filosofia tutta a priori, secondo il disegno di ciò che la ragione deve essere. 173 Ivi, p. 343.

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se si lascia abbozzare uno schema per la storia della filosofia a priori, con il quale le epoche, le opinioni dei filosofi dalle informazioni esistenti, si compogano come se [als ob] essi avessero avuto davanti agli occhi questo schema e in base ad esso fossero avanzati nella sua conoscenza.

Il filosofo storico della filosofia intende la ragione come schema per una «archeologia», cioè valorizza i principi della sua esposizione trascendentale come “archai”, come cause dei sistemi, «ciò che ha messo i pensatori tra gli uomini in grado di speculare sull’origine, lo scopo e la fine delle cose nel mondo». È un «come se» che fornisce il concetto regolativo volto a dare finalità a quanto, essendo empirico, non ne può presentare174. La priorità della sequenza fenomenologica della ragione su quella cronologica è per Kant il solo modo per rendere quest’ultima effettivamente significativa. L’«archeologia» è allora la disciplina storiografica che riempie di contenuti positivi lo schema noto del dogmatismo nelle sue ramificazioni empirista e razionalista, cui segue lo scetticismo, al quale pone fine il criticismo. Non c’è coincidenza tra ordine della ragione e ordine della realtà, che sarà possibile per gli idealisti, (e che già però si annunciava in un certo illuminismo175), ma non c’è neanche quella cooperazione storiografica tra a priori e a posteriori che a Fülleborn appare fruttuosa. Per Fülleborn la scansione fenomenologica non subordina la successione storica, ma la conduce ermeneuticamente, mentre nell’idea kantiana di una “archeologia” l’a priori non solo pragmaticamente spiega, ma anche dà l’ordine “necessario” dell’esposizione. Quando i concetti circa il rinnovamento della storiografia filosofica che la Critica aveva generato ritornano a Kant, egli li teorizza quindi in un’idea iper-pragmatica che esalta l’autonomia della filosofia176. Si potrebbe dire che Kant non avverte, o – per la radicalità “wolffiana” della distinzione tra “storico” e “razionale” – non è interessato a comporre la tensione tra filologico e filosofico come invece fanno i suoi allievi, sia Heydenreich che Fülleborn, i quali cercano, soprattutto il secondo, di governarla con il criterio dello “spirito” di una filosofia, in realtà molto più “storico” che non quello di una “archeologia”177. 174 Cfr. l’ancora importante studio di E. Fackenheim, Kant’s Concept of History, in “KantStudien”, Bd. 48, 1956-1957, pp. 381-398. 175 Cfr. J. Neeb, Ueber den in verschiedenen Epochen der Wissenschaften allgemein herrschender Geist und seinen Einfluss auf dieselben, Andrae, Frankfurt a. M. 1795. 176 Cfr. U. Schneider, Die Vergangenheit des Geistes, cit., pp. 314-316. 177 Si può interpretare in questo senso quanto con riferimento però alla storia in generale e non a quella della filosofia scrive Stephan Otto, in Faktizität und Transzendentalität der Geschichte, “Zeitschrift für philosophische Forschung”, 31, p. 56: «La filosofia della storia di Kant è una filosofia della non riuscita “convergenza” di verità storica e verità trascendentale; essa perciò diventa una filosofia della storia della post-histoire». Secondo Otto, il pensiero

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5. Una storia che non racconta. La teoria di G. F. D. Göss Già filologo greco, Georg Friedrich Daniel Göss aveva iniziato a fare filosofia aderendo al criticismo quando questo cominciava ad occupare la scena, dedicandovi una serie di scritti di genere didattico ed espositivo, non sempre bene accolti178. Nel 1794 pubblicava Sul concetto di storia della filosofia179, il testo della lezione con cui inaugurava un corso di storia della filosofia antica all’università di Erlangen. Questo saggio è importante non perché particolarmente originale o innovativo, ma perché offre la prima sistemazione energica e chiara dei temi fondamentali che i kantiani avevano immesso nella discussione sul problema. È rilevante quindi in quanto emblematico del movimento di idee svoltosi sino a quel punto. Pubblicare la prolusione a un corso di storia della filosofia era quanto nel 1791 aveva già fatto Reinhold, con il saggio, apparso come si ricorderà nei “Contributi” di Fülleborn, Sul concetto di storia della filosofia, che sta all’origine del dibattito. Sia Fülleborn che Göss venivano considerati dai contemporanei dei seguaci di Reinhold. Questa collocazione non si adatta però a quello che oggi ci sembrano essere stati. Nella fase in cui si occuparono di storia della filosofia, possono essere detti tali nella misura in cui Reinhold appariva ancora il principale difensore e divulgatore del pensiero di Kant. Anche con quel testo però Reinhold già cominciava a uscire dal kantismo per elaborare un suo proprio pensiero, sviluppato nei programmi teorici noti come «filosofia della rappresentazione» e «filosofia elementare»180. Fülleborn e Göss non sono interessati a possibili svolgimenti del kantismo, quando elaborano le loro teorie sulla storia della filosofia. Per questo motidi Kant sarebbe inadeguato al sapere storico perché il suo “concetto di esperienza” è tarato soltanto sui fatti di natura, e quindi risulta “troppo stretto” non riuscendo a inglobare anche la storia. 178 G. F. D. Göss, Über die Kritik der reinen Vernunft, Palm, Erlangen 1793; Systematische Darstellung der Kantischen Vernunftkritik. Zum Gebrauch akademischer Vorlesungen, nebst einer Abhandlung über ihren Zweck, Gang und ihre Schickale, Felsecker, Nürnberg, 1794. Il suo primo scritto era per la dissertazione De Batrachomyomachia, Homero volgo adscripta auctore, Erlangen 1789. 179 G. F. D. Göss, Über den Begriff der Geschichte der Philosophie. Eine akademische Vorlesung, in Über den Begriff der Geschichte der Philosophie und über das System des Thales. Zwo philosophische Abhandlungen von M. Georg Friedrich Daniel Göss Privatleher der Philosophie, Erlangen bey Johann Iacob Palm, 1794, (tr. it., Sul concetto di storia della filosofia. Una lezione accademica, infra, pp. 257-270). D’ora in poi citato soltanto come Sul concetto di storia della filosofia. 180 La «filosofia elementare» è esposta soprattutto nel primo dei due volumi Beyträge zur Berichtigung bisheriger Mißverständnisse der Philosophen, Mauke, Jena 1790, e Mauke, Jena 1794. Questo volume ora è disponibile a cura di F. Fabbianelli, Meiner, Hamburg 2003, alla cui “Einleitung” (ivi, pp. IX-XXXVIII) si rinvia.

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vo, nell’organizzare il nostro materiale storico, si è scelto di considerare il saggio reinholdiano dopo aver osservato in entrambi questi autori gli effetti più diretti e più puri, che dal kantismo potevano scaturire sul piano della teoria della storia. Se Reinhold dà il tono alla discussione, possiamo dire che la partecipazione di Fülleborn e Göss – sebbene fortemente influenzata da Reinhold – è e rimane kantiana, mentre il contributo reinholdiano ha in sé già motivi più che kantiani, sebbene ne formi appunto l’avvio nonché il più comune punto di riferimento. Göss offre un segnale dell’influenza di Reinhold già nello stile didascalico del proprio ragionamento. Egli intendeva infatti dare una definizione di storia della filosofia, che fosse la più completa ed economica possibile, mimando così la forma che Reinhold aveva imposto nella discussione. Sebbene i pensatori prima di Kant abbiano certamente avuto una qualche intuizione dei compiti della filosofia, Reinhold riteneva che soltanto con Kant fosse diventato possibile darne una definizione adeguata. Per quanto riguarda il nostro tema, ne derivava che una volta compreso in quali modi agisce la ragione, diventava possibile stabilire il sapere relativo alla storia del suo funzionamento181. L’eccezionalità dell’evento critico aveva comportato però notevoli difficoltà anche di tipo espositivo su cui nella fase del suo confronto con Kant successiva alle Lettere Reinhold richiamava l’attenzione, proponendosi di rimuoverle. Affinché la svolta critica fosse bene assimilata, occorreva ridurre il suo tasso di complessità, anche esplicitandone alcune conseguenze non sviluppate, per tradurre il pensiero kantiano nei termini persuasivi di concetti più semplicemente costruiti: tra questi, anche quello di storia della filosofia182. Quando si tornerà a trattare in modo specifico di 181 Questo presupposto, comune a tutti i kantiani, è presente anche in Göss, cfr. Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 259, (ted., p. 12): «Ma certamente, miei Onorevoli Signori, non si poteva riuscire a caratterizzare in modo preciso i confini e l’estensione della storia della filosofia, finché non si fosse fatta chiarezza su cosa si debba pensare per essa, e questo non si poteva finché non si aveva nessun concetto corretto di filosofia in genere. Infatti, lo sviluppo preciso e completo del concetto di storia della filosofia presuppone proprio la definizione, molto più importante e difficile, della filosofia in generale, con la stessa necessità per cui, mancando questa, manca anche il suo importante concetto, e in conseguenza del fatto che esso viene pensato più ampio o più ristretto, a quella deve essere attribuito un punto di vista completamente diverso». 182 Si può vedere l’effetto di quest’impostazione reinholdiana anche in autore polemico con Reinhold come Heydenreich: «Si può adesso rappresentare con ragioni sufficienti che cosa unicamente debba essere la filosofia, se ce n’è una. Quest’idea della filosofia senza dubbio balenò anche a tutti i veri ricercatori filosofici prima di Kant in una certa misura. Soltanto che mentre essi poteva soltanto seguire un’oscura intuizione, ora noi siamo in grado di elaborare la realizzazione di un’idea del tutto determinata e chiarita in tutte le sue parti», in Giebt es eine Philosophie?, cit., p. 5. Questo modello assertorio sarebbe stato tematizzato

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Reinhold, osserveremo come tale ricerca di una maggiore linearità portava in sé anche altro, e cioè, come accennavamo, la ben più rilevante tendenza a una diversa impostazione teorica. Ma per il momento quanto detto basta a spiegare perché in Sul concetto di storia della filosofia, Reinhold esaminava una serie di co-definizioni di filosofia e di storia della filosofia per giustificare la loro sostituzione da parte di un altro “binomio” kantianamente ispirato. Dal suo esempio era derivato in parte della letteratura recente uno stile di discussione “scolastico” intenzionato ad evidenziare l’uso, nelle definizioni altrui, di “note” eccessivamente intensive o estensive183. Possiamo però forse notare che questo stile argomentativo, che opera in modo strutturale anche nel saggio di Göss, già soltanto sul piano del metodo era lontano da un genuino procedimento kantiano, per il quale essendo la filosofia un sapere discorsivo, è ammissibile che cominci con una definizione, ma non che vi concluda. Da un punto di vista kantiano, il progetto di risolvere un problema filosofico chiudendo un concetto in una definizione varrebbe piuttosto come segno dell’imperfezione della procedura. Vorremmo allora dire che nei saggi che ci interessano, Reinhold e Göss conducono la loro discussione da un punto di vista “kantiano” ma, soprattutto il secondo, in una maniera spesso scolastica. La tendenza a contornare i pensieri invece di svolgerli mantenendone l’apertura argomentativa che corrisponde alla loro trascendentalità, diventerà in questo dibattito sempre più marcata sino ad assumere nei saggi di Grohmann una veste che oggi verrebbe definita di tipo analitico184. Ciò detto, non sorprende che nella prima metà del saggio di Göss vengano discusse sei co-definizioni di filosofia e di storia della filosofia. Mostrati i limiti di queste, viene poi presentata quella che verrà adottata nel corso che allora iniziava. Nonostante il ruolo di Reinhold nel porre i termini e la forma del problema, anche la sua definizione di storia della filosofia viene giudicata insufficiente: Nella sua meditata lezione accademica, Reinhold, questo stimato e grande pensatore, presenta la seguente definizione del concetto di filosofia: Filosofia è la scienza della connessione determinata delle cose, indipendente dall’esperienza. Ma per quanto illimitata sia la mia considerazione per i grandi meriti di questo filosofo rispetto a me personalmente come per da Reinhold in uno dei Contributi, in coerenza con l’assetto fondazionalista e realistico che stava prendendo il suo pensiero. 183 Cfr. ad esempio Heydenreich, che ad esso si riferisce in Giebt es eine Philosophie?, cit., p. 4. 184 Si riscontra in una certa misura anche in Tennemann, cfr. Geschichte der Philosophie, I, pp. VII-VIII.

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tutta la filosofia, mi è però impossibile tacere il seguente dubbio circa questa definizione. Attraverso essa, se assumiamo la nota di genere cose nel suo significato più ampio come tutto il rappresentabile, la filosofia viene sufficientemente distinta dalla storia? Non possiede anche la storia una connessione delle cose determinata e indipendente dall’esperienza? Essa quanto meno elabora ragioni sufficienti; ma su queste si basa la connessione necessaria e perciò determinata, e questa è indipendente dall’esperienza in quanto non viene percepita con i sensi, ma può essere riconosciuta soltanto tramite la ragione185.

Göss obietta che in base a tale definizione diventa impossibile distinguere la filosofia dalla “storia” in senso wolffiano (sapere connettivo empirico), perché anche questa collega “cose” secondo vincoli che, non scaturendo dall’osservazione, «sono indipendenti dall’esperienza». La definizione di Reinhold è quindi generica e assimila la filosofia al mero sapere, se sapere significa riconoscere le ragioni sufficienti, che stabiliscono rapporti di necessità tra gli enti. Il termine indistinto e ambiguo cosa può essere elevato a nota di genere senza una più precisa determinazione? e dove sta il criterio per il quale io riconosca proprio le cose che formano il possesso della filosofia? Se invece prendiamo cose nel senso più ristretto, non è allora questa stessa definizione troppo ristretta e si adatta alle diverse discipline della filosofia, più che alla metafisica? Se queste osservazioni sembrano Loro, miei Onorevoli Signori, non del tutto insignificanti, la definizione su ciò fondata dovrebbe difficilmente soddisfarci: Storia della filosofia è la rappresentazione in compendio [Inbegriff] dei cambiamenti che la scienza della connessione delle cose, necessaria e indipendente dall’esperienza, ha sperimentato dalla sua origine sino ai nostri tempi. Tuttavia, il filosofo jenese, non so se per questi o per altri motivi, ha egli stesso abbandonato questa definizione, e nei suoi estremamente apprezzabili contributi alla giustificazione degli equivoci futuri in filosofia ne ha elaborata un’altra, alla quale però io non sono incline ad attribuire una preferenza, in quanto non contiene alcuna nota per la quale vengono designati gli oggetti che appartengono all’ambito della filosofia186.

Göss non accetta la definizione presentata tre anni prima in Sul concetto di storia della filosofia, ma si astiene dal discutere quello che Reinhold stava allora ragionando nei Contributi, a dimostrazione della sua volontà di mantenersi al di qua dei progetti allora in corso di rielaborare il criticismo 185 186

D. F. G. Göss, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 261, (ted., pp. 19-20). Ivi, pp. 261-262, (ted., p. 21).

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dando all’auto-coscienza – variamente intesa – il valore di centro germinale della realtà e quindi di dimensione essenziale dell’indagine filosofica. È interessante notare che la definizione reinholdiana gli appare inadeguata perché non permette di distinguere la metafisica dalla “storia” come conoscenza del particolare, ovvero i termini opposti di cui in un’indagine sul concetto di storia della filosofia si tenta di trovare il collegamento. Si tratta quindi di un’osservazione grave per un pensatore che sul ritardo con cui si affrontava questo problema proprio nei Contributi stava richiamando da sempre l’attenzione, ricordando quanto fosse urgente trovare il criterio per distinguere i concetti di storia, filosofia e storia della filosofia187. Far presente l’insufficienza dirimente di un concetto, come ora nei confronti di Reinhold, sarà il modo con cui Göss procederà in questo saggio, nonché una strategia quasi obbligata in un confronto tra definizioni, la cui debolezza può essere fatta consistere appunto in un deficit o in un eccesso di descrittività. Del mondo kantiano, oltre Reinhold, Göss prende in esame Heydenreich, mentre di quello “wolffiano-popolare” discute le definizioni di Garve, Gurlitt, Buhle in quanto ancora non kantiano e di Eberhard. Nel saggio si trova così un repertorio per exempla di quanto la scena tedesca aveva prodotto sulla teoria della storia della filosofia, negli ultimi cento anni. Il gruppo che potremmo dire “garveano” è composto da wolffiani per i quali la storia della filosofia consiste nell’evoluzione della ragione188, a sua volta identificata “brukerianamente” con la storia della sua “cultura”. Complessivamente, il saggio ha allora il suo baricentro nel mostrare il contrasto tra un’idea di storia della filosofia come storia della cultura della ragione e un’idea di storia della filosofia come storia della ragione. Una volta spiegato perché soltanto quest’ultima corrisponde alla realtà di ciò che vogliamo comprendere, il ragionamento si sposta al confronto tra kantiani, per dimostrare che non quella di Reinhold e di Heydenreich, ma la propria ne è la definizione migliore. Gurlitt era stato l’autore di un manuale di storia della filosofia molto diffuso e importante. Eberhard era un validissimo teoretico, allora coinvolto in una celebre polemica con Kant, i cui atti uscivano su un’apposita rivista, 187 Cfr. K. L., Reinhold, Über die Möglichkeit der Philosophie als strenge Wissenschaft, in Beiträge I, cit., pp. 248-250, (tr. it. Sulla possibilità della filosofia come scienza rigorosa, in Modelli postkantiani del trascendentale, a cura di F. Gallo, Unicopli, Milano 1993, pp. 151-153, in seguito solo Über die Möglichkeit). 188 A dimostrare la complessità dello stesso campo kantiano, si ricorderà che Garve, da Göss contestato, è invece una fonte di ispirazione per Fülleborn il quale non a caso apprezza quel Gurlitt che invece Göss critica. Questo solo per sottolineare che l’uso dell’etichetta “kantiano” lascia molto indeterminato il quadro storico di un movimento fatto di personalità ben diverse.

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il “Philosophisches Magazin”189. Aveva però dato buone prove di sé anche come storico con lavori su Socrate e Platone, ma soprattutto aveva pubblicato un noto compendio di storia della filosofia, da cui Göss traeva la seguente definizione190: Storia della filosofia è la storia della conoscenza della colta ragione del genere umano circa le proprietà [Beschaffenheiten] generali delle cose. Ma, senza concordare con il signor autore circa la nota indeterminata e del tutto superflua che invece gli deve essere sembrata decisiva, perché ben difficilmente può darsi una conoscenza razionale incolta, un’incolta conoscenza per concetti, balza agli occhi che questo famoso e abile pensatore per filosofia non possa aver inteso altro che la metafisica, e anzi soltanto l’ontologia, in quanto scienza dei predicati più generali delle cose. La sua definizione è perciò chiaramente troppo ristretta e ancora oltre a ciò, vaga e indeterminata191.

Ma dal punto di vista di Eberhard la nota «colta» non è un’aggiunta superflua. Infatti per la prospettiva wolffiana di questo autore, la conoscenza dapprima è oscuramente razionale, e sulla base del rischiaramento dei principi, che procede con la riflessione sull’esperienza, si forma una sempre maggiore cultura della ragione, cioè questa impara a conoscere in modo astratto, o altrimenti consapevole, quell’insieme di regole e di principi (come il principio di contraddizione) già attivi in ogni suo primitivo contatto con la realtà. E poiché tra ragione ed esperienza non c’è contraddizione ma armonia, dato che altrimenti per Eberhard non vi potremmo riconoscere quel senso che vi riconosciamo, è anche naturale che la scienza di questi

Cfr. J. A. Eberhard, Nachricht von dem Zweck und der Einrichtung dieses philosophischen Magazins, nebst einigen Betrachtungen ueber den gegenwaertigen Zustand der Philosophie in Deutschland, in “Philosophisches Magazin”, 1788, 1. Bd., 1. St., pp. 1-8 (tr. it. in I. Kant, Contro Eberhard, cit., pp. 167-170). Dal 1792 al 1795 pubblicato a Berlino come “Philosophisches Archiv”. 190 J. A. Eberhard, Allgemeine Geschichte der Philosophie. Zum Gebrauch akademischer Vorlesungen, Hemmerde, Halle 1788, p. 1. Cfr. la recensione apparsa sulla “Allgemeine deutsche Biblioteck”, 1790, 92 Bd., 1, pp. 26-36, dove si legge questa osservazione generale interessante per il nostro tema: «Sebbene da alcuni anni lo studio della storia della filosofia abbia ricevuto un nuovo slancio, e tra noi tedeschi venga affrontato con zelo raddoppiato, ci vorranno ancora molti anni e le fatiche di molti uomini, prima che una scienza così estesa e difficile riceva una certa completezza» (p. 26). In particolare il recensore critica Eberhard per non avere trattato della filosofia contemporanea che sarebbe stata assai più interessante di quella antica. Anche per questo motivo Eberhard cura una seconda edizione (Hemmerde und Schwetsche, Halle 1796) dove appare il sottotitolo Con una prosecuzione sino al tempo presente. 191 D. F. G. Göss, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 259, (ted., pp. 14-15). 189

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principi sia intesa come la scienza elementare delle cose192. In tal modo, per il wolffiano Eberhard la filosofia coincide con l’ontologia, e la storia della filosofia è la storia del progresso in quest’ultima, il quale progresso implica anche quello delle scienze empiriche, il cui arricchimento va inteso come un già elaborato livello sul quale si pone quel sapere della ragione che è la filosofia. Si tratta di una storiografia che riflette un illuminismo della Bildung193, in cui la ragione è in sostanza già materialmente completa, e la storia della filosofia è la storia non di un pensiero che si va trasformando, ma di un pensiero che si va chiarendo194. I leibniziani posseggono quindi un Cfr. per l’uso antikantiano di quest’idea, J. A. Eberhard, Über die logische Wahrheit oder trascendentale Gültigkeit der menschliche Erkenntnis, in “Philosophisches Magazin”, 1788, n. 2, pp. 150-174. 193 Un’esposizione importante dell’illuminismo di Eberhard in Über die Zeichen der Aufklärung einer Nation. Eine Vorlesung, Gebauer, Halle 1783. 194 L’influenza di quest’impostazione si avverte, oltre che in molti dettagli, soprattutto nel modo in cui Schwab vinse nel 1796 il premio bandito dall’Accademia di Berlino sui progressi della metafisica dai tempi di Leibniz e Wolff (Schwab, Ausfuerliche Eroerterung der von der Koenigl. Akademie der Wissenschaften zu Berlin der das Jahr 1791 vergelegte Frage: “Welche sind die wirkilichen Fortschritte die die Metaphysik seit Leibnitzens und Wolffens Zeiten in Deutschland gemacht hat?”, cit.). Questo testo può essere preso a modello dell’idea wolffiana di filosofia e storia della filosofia. Secondo Schwab esistono tre criteri per giudicare il progresso di una scienza e quindi anche della metafisica: materiale che riguarda «l’espansione del suo ambito», e formale che concerne «la migliore organizzazione del suo sistema». (p. 6). Ma la metafisica non pare crescere nel senso dell’ingresso di concetti realmente nuovi. È onesto il Socrate del Teeteto il quale dice di sé di non essere un pensatore originale, perché in sostanza nessuno lo è. Come Socrate anche Leibniz ha dei meriti soltanto rispetto al perfezionamento formale di idee che si trovano in tutta la storia della filosofia, e in particolare in quella greca: «È qualcosa di sorprendente che la somma delle verità effettivamente interessanti nella filosofia speculativa da allora sia rimasta circa la stessa, e che tutto ciò che le teste migliori possono fare, si limita quasi soltanto a raffinare i concetti rozzi della loro nazione; portarli in un ordine migliore; separare verità ed errore; supportare con ragioni ciò che era semplice fede o presunzione, ed esporre i loro principi in una lingua adeguata. Il progresso, come anche il talento speculativo consiste in ciò» (p. 7). È l’atteggiamento wolffiano: chiarire una razionalità che essendo essenziale ha sempre agito, portandone a un livello minimo sia il ruolo dell’errore che la confusione. Il compito del filosofo è contribuire alla chiarezza, non potendo di fatto inventare nulla in metafisica. A proposito di Socrate: «Nessun filosofo prima di lui aveva concepito in modo così chiaro, giusto e ordinato tutto ciò, e nessuno lo aveva rappresentato come lui in una lingua così pura, semplice e nobile, e in un modo tanto acuto; tanto che ognuno dei suoi allievi doveva credere di averlo creato da sé» (p. 8). Si comprende quindi che il criterio “materiale” ha un ruolo minimo, mentre il lavoro filosofico si compie sul piano formale. Da quest’ultimo deriva un terzo criterio, quello “critico”. Con esso si intende la liberazione di una scienza dai contenuti che nel tempo e per via delle contingenze le si attribuiscono in modo non coerente con il suo perimetro formale: «A causa del passare del tempo o per via di un’elaborazione inadatta o troppo ardita, una scienza può essere caricata di così tante affermazioni inutili, false, azzardate, e indimostrabili, che per essa un vero vantaggio sarebbe se le si sottraesse questo eccesso pesante e dannoso, e ne rimanesse soltanto ciò che è utilizzabile e vero, per quanto vicino ci si possa andare. Con una 192

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senso storico del tutto diverso da quello “kantiano”. Per loro infatti non c’è in linea di principio una fase storica in cui la ragione si sia manifestata in modo illusorio, generandosi soltanto in contraddizioni e quindi in un’esperienza di sé difettiva, da oltrepassare con una rivoluzione copernicana. La ragione è tutta la propria storia, nella sequenza di errore in errore e di verità in verità che è crescita nella cultura di sé, la quale in quanto culmina nella filosofia, comprende anche ogni esperienza come parte del sistema universale del sapere195. È chiaro però anche che nella prospettiva kantiana di Göss, sembra inutile precisare che la filosofia è la “colta” conoscenza di sé della ragione, perché questa in quanto formale non ha “cultura” nel senso unitario e progressivo del suo formarsi. Alla base delle sue osservazioni, sta quindi l’idea tale operazione la scienza perderebbe soltanto in apparenza, in effetti invece guadagnerebbe; e il coltello critico sarebbe di guarigione all’intero albero con il taglio dei rami inutili». (pp. 8-9) Schwab vuole rispondere al quesito utilizzando i tre criteri indicati: materiale, formale e critico. La metafisica non ha da ringraziare Leibniz quanto al suo progresso materiale, il quale non poteva pensare nulla di radicalmente nuovo perché giunge dopo un ampio sviluppo storico, che avrebbe esaurito il versante materiale della filosofia. Leibniz ha trovato già posti tutti i suoi principi, in Aristotele quello di identità, in ogni filosofo quello di ragion sufficiente senza il quale non c’è ragionamento, quello “dal niente niente” in tutta la filosofia pagana, quello dell’indiscernibilità presso Cicerone che cita la scienza greca della natura e in Bruno, il principio della verità in Platone e Aristotele, la legge della continuità in Aristotele, l’idea della connessione di tutte le parti della terra negli stoici, il concetto di sostanza semplice in Cartesio, negli eleati, nei pitagorici e in Platone l’idea che i corpi sono fenomeni; il concetto della monade, l’armonia prestabilita, contenuta già in Spinoza, è stata dimostrata poi anche da Mendelssohn, l’unione dell’anima con il corpo è il risultato dell’unione delle ipotesi di Cartesio e di Malebranche, il concetto della divinità è socratico, platonico e aristotelico, l’idea di provvidenza platonica e stoica, la dottrina del male la si trova già in Talete, e il principio dell’unione originaria dell’anima con il corpo organizzato è data in Ippocrate (pp. 10-11). Non è quindi sul piano materiale che Leibniz ha dato un contributo, ma su quello formale: «Secondo me, la metafisica è in debito con lui del suo progresso formale, che rappresenta il suo immortale successo in filosofia. Tutto quanto passava dalle sue mani, otteneva una forma migliore […] ciò che aveva trovato disordinato o confuso nei filosofi greci e nei suoi predecessori, prese nel suo spirito ordine e connessione» (p. 12). Come per Eberhard nella Allgemeine Geschichte der Philosophie, Leibniz anche secondo Schwab, è il Platone tedesco in cui però, a differenza che nel genio antico, sull’immaginazione prevale l’intelletto. Ma Leibniz per troppo amore della libertà di pensiero non costruisce un sistema, anche se ne sarebbe stato capace e conduce la sua battaglia contro i neo-platonici inglesi e tedeschi senza un’elaborazione definitiva. È Wolff che non soltanto riprende l’elemento formale ma a questo aggiunge «un guadagno negativo» (p. 17), cioè la determinazione in senso critico delle differenze tra le discipline filosofiche e quindi innanzitutto rispetto alla metafisica. Il progresso più generale da Leibniz a Wolff è quindi nel passaggio da un razionalismo formale a uno critico-sistematico, permanendo la filosofia identica da un punto di vista materiale. Cfr. la critica di Schelling a questo testo di Schwab in Id., Rassegna generale della letteratura filosofica più recente in Criticismo e idealismo, cit., pp. 32-35. 195 Cfr. J. A. Eberhard, Allgemeine Geschichte der Philosophie, cit., pp. 1-5.

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che la ragione non diventa ciò che è se non grazie a una svolta nel proprio orientamento, a un’illuminazione più che a un illuminismo. Secondo l’ottica kantiana, per la ragione non c’è progressione ma passaggio di orizzonte dal non essere del tutto se stessa all’esserlo. E infatti coloro che si attengono al criticismo, che cioè non ne propongono un qualsivoglia perfezionamento (come invece Fichte, Schelling e Maimon), concordano nel ritenere che la storia della filosofia prima di Kant sia soltanto la storia dei “tentativi” fatti dalla ragione per comprendersi, laddove la Critica non essendo certo un tentativo, fa parte, o è l’inizio, di un’altra storia. Questo è un punto importante, che avrà uno svolgimento opposto ma ugualmente coerente in Georg Gustav Grohmann, il quale giustamente riterrà che se la Critica è in effetti quello che intende essere, con essa la storia della filosofia deve essere considerata finita. Il che era diverso – ma soltanto perché speculare – da quanto affermato da Göss, perché la rivoluzionarietà del kantismo come evento è declinabile sia come fine della filosofia che come suo inizio. Ma lasciando da parte per ora le conseguenze tratte da Grohmann, rimane chiaro che in senso kantiano (ma ovviamente soltanto rispetto alla ragione teoretica), se c’è rivoluzione non c’è formazione196. La storia della “formazione” della ragione sarebbe piuttosto quella del suo sfinirsi durante la fase del proprio abuso speculativo. Sicché, se nella prospettiva wolffiana di Eberhard, la filosofia ha una storia perché la ragione si possiede progressivamente scoprendosi nella propria “cultura”, in quella kantiana essa non vive una storia ma, come abbiamo più volte visto, si determina in due fasi: un’ante-storia fenomenologica della propria auto-illusione e un inizio autentico (o la sua giusta fine) che coincide con la sua piena realtà, ulteriormente investigabile perché condizione di possibilità di ogni esperienza, e in senso storiografico, criterio di giudizio delle filosofie. Dal punto di vista poi del contenuto della filosofia, ciò significa che la filosofia non ha niente a che vedere con l’ontologia, la quale consiste nel determinare i principi dell’essere. Superfluo è dire che il concetto di ontologia era al centro della discussione allora in corso tra Eberhard e Kant, che vedremo citata da Reinhold, e che sebbene in modo indiretto, offriva nel tentativo da parte di Eberhard di trattare il kantismo come un’eresia entro la filosofia leibniziana, e quindi non come una rivoluzione, occasioni per concetti e valutazioni storiche197. 196 È forse in questo senso che Geldsetzer scrive che in Göss «il criticismo kantiano viene inteso nel senso di una psicologia delle facoltà», in L. Geldsetzer, Die Philosophie der Philosophiegeschichte im 19. Jahrhundert, cit., p. 141. 197 Una di queste era il tentativo di parte wolffiana, di usare la Critica come criterio di conferma e migliore dimostrazione dei capisaldi della filosofia leibniziana, al quale sono dedicate alcune pagine da Reinhold nel suo Versuch einer Beantwortung der von der erlauchten

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Göss continuava poi a criticare Gurlitt, l’autore del compendio che aveva scelto come testo per le lezioni198 e che come spesso avveniva allora, (si pensi a Kant rispetto a Meier, o allo stesso Reinhold) non corrispondeva alle convinzioni del docente, che lo usava soprattutto per avere un riferimento neutro, se non negativo, in base al quale presentare piuttosto le proprie idee che non quelle dell’autore199. Era questa la definizione data in quella sede da Gurlitt: La storia della filosofia, dice, è un compendio cronologicamente e sistematicamente ordinato dei cambiamenti che hanno subito quei concetti e conoscenze sopra gli uomini, il mondo e la divinità i quali formano il contenuto della filosofia, dai tempi più antichi ai nostri200.

Questa definizione ha l’aspetto di un diallele in cui si dice che alla filosofia appartengono quegli argomenti astratti che le appartengono: più una tautologia, che un’esplicitazione. Suppone poi un’idea “garveana” di metafisica come saggezza, tanto vaga da non consentire di determinare i confini entro cui essa deve mantenersi: Quali tra i concetti e le conoscenze che concernono la divinità, gli uomini e il mondo, appartengono al dominio della filosofia? In conseguenza di questa definizione, non meritano altrettanto bene di essere accolte in esso la storia delle religioni, la storia dell’umanità, la scienza della geografia e dei popoli, che tutte presentano conoscenze e concetti sopra la divinità, il mondo e gli uomini?201 Königl. Ak. der Wissensch. zu Berlin aufgestellten Frage: “Was hat die Metaphysik seit Wolff und Leibnitz gewonnen?”, cit. pp. 184-191. 198 J. Gurlitt, Abriss der Geschichte der Philosophie, Müller, Leipzig 1789. 199 Su Meier e i manuali “wolffiani” usati dal Kant docente, nell’ottica di osservare tempi e modi della progressiva autonomizzazione del pensiero kantiano dal suo punto di avvio nella logica-metafisica wolffiana, cfr. P. Rumore, L’ordine delle idee. La genesi del concetto di ‘rappresentazione’ in Kant attraverso le sue fonti wolffiane (1747-1787), Le Lettere, Firenze 2007, pp. 75-146. 200 D. F. G. Göss, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 260, (ted., p. 16). 201 D. F. G. Göss, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 260, (ted., p. 17). Anche quest’esigenza era stata per la prima volta segnalata da Reinhold, ed era diventata da quel momento un luogo comune della storiografia filosofica di matrice kantiana, si pensi ad esempio a Johann Gottlieb Buhle, Einleitung in die Allgemeine Logik und die Kritik der reinen Vernunft, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1795, pp. 25-26: «La storia della filosofia racconta i molteplici tentativi che le maggiori intelligenze dell’antichità e dei tempi moderni hanno fatto, allo scopo di stabilire ed elaborare la scienza dei fondamenti necessari e delle regole delle cose e della loro connessione in genere per la soddisfazione della ragione. Osservazione: la storia della filosofia non è da confondere con la storia della cultura del genere umano, dello spirito umano, delle scienze, dei destini, scritti ed opinioni dei filosofi e delle loro scuole, dei singoli dogmi filosofici, ecc».

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Così si tornerebbe a un’idea generica di filosofia, e i confini della sua storia sarebbero poco distanti da quelli dell’antropologia. Altrettanto generica gli appare la definizione di Buhle, tratta dalla Storia dell’intelletto umano filosofico: La storia della filosofia, o come non troppo correttamente titola il signor Buhle, la storia dell’intelletto umano filosofico, è un racconto pragmatico dei molteplici tentativi, che le intelligenze migliori dell’antichità e dei tempi più recenti hanno fatto, per ottenere soddisfazione circa le più importanti questioni della ragione. E tuttavia, io devo dichiarare questa definizione come non meno sbagliata. Infatti, quali tentativi circa le più importanti questioni della ragione meritano il nome di filosofici e sono quindi subito adatti alla materia di una storia della filosofia? Sono dunque esclusi dal suo ambito tutti i tentativi sulle questioni non importanti o meno importanti della ragione? Ci sono in genere questioni della ragione non importanti, o non sono esse tutte ugualmente importanti? – ma allora appartengono tutte alla storia della filosofia? Oltre a ciò, tramite questa definizione non sono determinati in modo abbastanza definito o piuttosto per niente definito, i confini per i quali la storia della filosofia viene separata dalla storia dello spirito umano, dell’estetica e della matematica202.

In conclusione, poiché non posseggono il giusto concetto di filosofia, gli storici “wolffiani” Garve, Eberhard, Gurlitt e Buhle non sanno definire in che consiste la specificità della sua storia. Ma il saggio di Göss si fa ancora più interessante quando guarda ai kantiani. Dopo Reinhold, Göss discute la definizione di filosofia data da Heydenreich nel testo già a noi noto, C’è una filosofia?: La scienza della natura umana, in quanto le sue facoltà sono determinate attraverso originarie, essenziali, universalmente valide forme, regole e principi, e l’efficacia di quelle (facoltà) attraverso la semplice coscienza di queste (forme, regole, principi) può essere compresa in particolare come nel tutto203.

Heydenreich ritiene che la filosofia debba essere la scienza delle facoltà razionali, intese kantianamente come legali. Anche se ancora non c’è cer202 D. F. G. Göss, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 260, (ted., pp. 15-16). Occorre ricordare che si tratta di quanto Buhle aveva fatto sino al 1792, e non della sua successiva produzione storiografica, dove invece è decisiva l’influenza del pensiero di Kant. Cfr. anche di Buhle, Geschichte der neueren Philosophie seit der Epochen der Wiederstellung der Wissenschaften, cit., 6, pp. 575-731. 203 C. H. Heydenreich, Gibt es eine philosophie?, cit., p. 5.

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tezza che una tale scienza esista nella sua compiutezza, si può cominciare a concepirne la struttura avendo come criterio la necessità della destinazione razionale dell’uomo, cioè chiedendosi cosa debba essere la ragione se l’uomo deve essere, nell’integrità delle sue dimensioni, un soggetto razionale. Su questa base, gli sembrava che il compito più importante non fosse stabilire una scienza dei principi – compito che a suo dire già Kant aveva assolto – ma costruire un’enciclopedia dei saperi filosofici, essendo ogni scienza connessa a una facoltà, ma non essendo anche perciò essa stessa scienza di questa facoltà. La filosofia invece come scienza di tutte le facoltà, è allora la base per una sistemazione e giustificazione globale dei saperi. Era questo sviluppo che secondo Heydenreich mancava ancora al kantismo. Rispetto a questo scopo sistematico, la definizione di filosofia data da Reinhold come «scienza della connessione delle cose determinata nella semplice facoltà della rappresentazione» gli appare «troppo stretta». Occorre invece una definizione che si adatti sia alla logica pura, che alla psicologia empirica, tanto alla teoria della facoltà della conoscenza, quanto a quella del sentire, alla metafisica come alla teoria dell’arte bella, in breve una definizione non unilaterale ma onnilaterale204.

Se ad Heydenreich la definizione reinholdiana di filosofia appare ristretta, a Göss invece l’estensione potenzialmente universal-sistematica rivendicata da Heydenreich alla filosofia come base per la riconduzione di ogni sapere nella sua autonomia alla prospettiva trascendentale, appare troppo vasta e quindi generica. Non vi si distinguerebbero le facoltà originarie da quelle derivate, il che impedisce di collocarsi sul piano trascendentale. Se per «scienza della natura umana» Heydenreich intende tutto l’uomo, la filosofia sarebbe per lui una sorta di antropologia; se si limita alla natura spirituale, si scioglie invece nella psicologia. Inoltre, secondo Göss la filosofia diventerebbe in tal modo indistinguibile dalla matematica. Si tratterebbe infine di una definizione ridondante nell’espressione. Questi rilievi erano già stati avanzati in una recensione alla Introduzione enciclopedica di Heydenreich apparsa sulla “Allgemeine Literaturzeitung”205, da cui Göss li mutua, con la sola differenza di trarre la definizione di storia della filosofia dal saggio C’è una filosofia? La definizione che in questo saggio era stata enunciata da Heydenreich, veniva sviluppata nella Introduzione enciclopedica, secondo le 204

223.

C. H. Heydenreich, Über den Begriff der Philosophie, in Originalideen, 2. Bd., 1794, p.

205 Cfr. la recensione alla Encyclopedische Einleitung sulla “Allgemeine Literaturzeitung” del 1793, n. 355, pp. 617-620.

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linee indicate. Sia al recensore che a Göss, Heydenreich può quindi replicare con un unico lavoro, intitolato significativamente Sul concetto della filosofia. Oltre al riconoscimento di «non portare il marchio della partigianeria»206, Heydenreich non concede altro alla definizione che Göss presenta come un perfezionamento della sua: la filosofia è la scienza delle forme, regole e principi necessari e universalmente validi delle originarie facoltà dello spirito umano e di tutte quelle cose che sono determinate tramite quelle (forme, e così via)207.

Da questa Göss traeva poi la seguente definizione di storia della filosofia: storia della filosofia è la rappresentazione in compendio [Inbegriff] di tutti i cambiamenti che, dall’inizio sino ai nostri giorni, ha subito la scienza delle forme, delle regole e dei principi, necessari e universalmente validi, delle originarie facoltà dello spirito umano, e di tutte le cose che sono determinate attraverso quelle208.

La storia della filosofia è un «Inbegriff», che potremmo intendere come una “sintesi concettuale”, con cui si riconduce alla ragione qualcosa che viene rappresentato. Innanzitutto, la storia della filosofia si occupa di quei pensieri che hanno avuto l’obbiettivo di stabilire le regole universali e i fondamenti ultimi del pensare. Questo criterio kantiano illumina la differenza fondamentale su cui il rimanente saggio di Göss è basato, quella tra storia della filosofia e «storia dello spirito». Le due prospettive, sin qui confrontate sul piano didascalico, si determinano in questa alternativa teorica, e nel conseguente chiarimento: l’errore generale che, secondo Göss, i wolffiani commettono, in base alla loro idea di filosofia, consiste nel confonderne la storia con la storia dello spirito. Quest’ultima è la storia dell’esperienza del genere umano nella costruzione della propria cultura sotto il peso influente delle condizioni esterne in cui quello si è trovato ad agire. Nella storia dello spirito la destinazione umana – che è un principio di orientamento – subisce la storicizzazione operata dal carattere occasionale del suo svolgimento. La storia dello spirito umano, scrive Göss, K. H. Heydenreich, Über den Begriff der Philosophie, cit., p. 219. D. F. G. Göss, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 263, (ted., p. 24). Commentando la quale giustamente Heydenreich non poteva che chiedersi: «Non comprendo i vantaggi rispetto alla mia di questa definizione che ne dovrebbe essere un miglioramento. Chiunque la ascolti si chiederà a buon diritto: 1) che cosa è lo spirito umano? 2) quali sono le facoltà originarie dello spirito umano?», in Über den Begriff der Philosophie, cit., p. 224. 208 D. F. G. Göss, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 263, (ted., p. 25). 206

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tratta dei molteplici destini e dei cambiamenti del suo stato, che esso ha sperimentato attraverso tutti i secoli, e caratterizza le diverse epoche del suo progressivo sviluppo e della sua formazione non meno che del suo spesso completo inflaccidirsi, o del suo frequente singolare smarrirsi209.

Vi osserviamo i travagli della formazione dello spirito, quell’emergere della cultura, nel quale hanno un ruolo decisivo le condizioni politiche e naturali, le differenze tra i contesti, e persino il favore o l’ostilità del caso. Lo “spirito” è quindi veramente storico, e la sua vicenda deve consistere in una narrazione, perché concerne dei fatti, ma in una narrazione filosofica, perché si tratta di fatti in cui una destinazione si va compiendo. Ma la storia della filosofia riguarda lo sforzo di comprendere i fondamenti ultimi della conoscenza, e nelle sue vicende il peso decisivo non è dato dal condizionamento, pur esistente, delle circostanze nelle quali i filosofi vivono, neanche esattamente dall’eredità culturale che ricevono, e meno ancora dalla loro biografia, ma dal confronto che ognuno di essi stabilisce con la ragione quale unica “causa” decisiva del suo riflettere. Ritroviamo così in Göss il valore pragmatico-trascendentale che qualifica l’idea “kantiana” di storiografia filosofica – il suo separarsi “husserliano” dalla storia comune, laddove invece, dal punto di vista wolffiano, la causalità cui riferirsi per spiegare la specificità dei sistemi va cercata in quella generale della storia dello spirito. Detto altrimenti, per gli storici prima citati secondo Göss è naturale il disegno di collegare la storia della filosofia alle storie dei filosofi, alle esigenze personali, alle pressioni del momento, alle fasi della storia politica e culturale: il pragmatismo storiografico ordinario vi viene insomma esteso alla filosofia. Invece, in senso kantiano, la ragion sufficiente della filosofia non è la storia, ma la ragione nel suo sforzo di apparire storicamente: la storia della filosofia come protagonismo della ragione. Si spiega allora perché, in conseguenza di una definizione vaga di filosofia, il suo terreno proprio veniva sempre più integrato – ma così anche occultato, o non identificato – in un territorio misto, appositamente creato, al confine tra la politica, le scienze, la matematica e la cultura210. E quest’estensione, sottolinea Göss aprendo il saggio, spiega perché la storia della filosofia viene presentata in molte università come una disciplina spaventosamente ampia, in fin dei conti ingovernabile, e quindi chimerica. Si apre quindi con Göss una differenza, quella tra la storia della filosofia come unicum e la storia dello spirito come Ivi, p. 264, (ted., p. 28). La storia della filosofia non ha a che fare con la storia della scienza che rientra in quella dello spirito, né con quella della matematica che non indaga i fondamenti ultimi di ciò che è rappresentabile. 209 210

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storia universale della cultura, che presto gli idealisti richiuderanno, sino al punto di massima convergenza tra le due che ovviamente sarà sancita, più o meno chiaramente, da Hegel. Per la storia dello spirito vale il cooperare di ragioni sufficienti e informazioni. Ma la filosofia non ha una “formazione”, come invece lo spirito. La storia di questo viene ricostruita nella relatività mentre, secondo Göss, con Kant in filosofia ogni “fatto” – cioè ogni filosofia – deve avere la sua spiegazione in una genesi dalla ragione. Per questo motivo abbiamo sintetizzato la filosofia della storia della filosofia di Göss nell’idea che questa storia non si racconta. Tale motivo diventerà radicale in Grohmann, per il quale la cronologia in storia della filosofia non sarà più un criterio rilevante. Si confrontano così due maniere di essere pragmatici, una “wolffiana” e quella “kantiana” secondo l’impostazione emersa con Fülleborn, e in Göss divenuta radicale: Miei Onorevoli Signori, con quale diritto si credeva perciò quasi universalmente di poter pretendere al plauso e al nome di storico pragmatico della filosofia soltanto con ciò, che ci si era impegnati a cercare le cause [Gründe] e i motivi dei principi filosofici e dei sistemi, più nei rapporti esteriori che a scoprirle nella natura dello spirito umano?211

La Critica è condizione per la storia della filosofia perché ci ha procurato questa conoscenza in modo completo, allora con quanto precede si può spiegare in modo adeguato lo stato incompleto di questa scienza prima dell’immortale suo fondatore212.

Ritroviamo nell’elaborazione di Göss i criteri già incontrati in Heydenreich e in Fülleborn, rispetto al rapporto tra filologia e storiografia. Per il pragmatismo storiografico trascendentale, la conoscenza informativa deve essere accurata e verificata perché è in essa che lo spirito delle singole filosofie si fa riconoscere. E tuttavia, «non è ancora alcuna storia della filosofia», perché questa si forma con il vedere, che soltanto al filosofo è possibile e non allo storico come tale, la ragione agire entro il sistema213. Il filosofo critico sa riconoscere il razionale puro nella contraddittorietà della dimensione pre-critica, sicché il suo comprendere ha di per sé il valore del giudicare. Göss accenna in modo brillante, e con intenzione anti-popolare, al fatto che D. F. G. Göss, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 264, (ted., p. 29). Ivi, p. 268, (ted., pp. 41-42). 213 Questi storici sono «raccoglitori di materiali, e niente affatto storici pragmatici», ivi, p. 266, (ted. p. 34). 211

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il sapere storico-filosofico come giudizio è l’unico che permette di evitare l’anti-storico atteggiamento di coloro che, vedendo la contraddizione senza comprenderne il perché (in quanto privi del punto di vista critico), sottolineano la “follia” di tante filosofie del passato. Quella “follia” è per un kantiano invece la verità pre-critica della ragione. Ancora lontana da se stessa, essa cerca di darsi coerenza, ed è questo tentativo di coerenza a generare dialetticamente le unilateralità e le “stranezze” della sua storia: Certo, si sarebbero scoperte meno contraddizioni negli edifici dottrinali dei filosofi, e li si sarebbe accusati meno di evidenti insensatezze, se ci si fosse impegnati a studiare di più la loro origine nella natura dello spirito umano, e a seguire l’andamento del loro sviluppo214.

Ma soprattutto il criticismo permette di ammirare questa storia di “tentativi”, con un’attualizzazione che mettendoli in diretta connessione con il programma kantiano, unisce quanto fatto, nonostante le differenze, in un unico panorama, nel quale nessun sistema ci appare più così distante: Che cosa non si è ancora scritto, e non di rado sognato e favoleggiato, sulla dottrina dei numeri dell’eccellente Pitagora, nella quale egli ha avvolto i suoi profondi tentativi metafisici? Quanto sono state travisate le perspicaci osservazioni di questo grande uomo e della scuola eleatica sulle diverse facoltà dell’anima umana? In quale modo sbagliato non sono stati rappresentati gli stringenti e fini ragionamenti degli Eleati, nei quali la ragione speculativa ha in poco tempo sperimentate tutte le sue forze? Quanto poco si è saputo spiegare dal punto di vista della natura della ragione l’affermazione profonda e impressionante di un Parmenide, che al di là di un mondo intelligibile c’è anche un mondo dei sensi, il quale è il contrario di quello, perché non si avesse alcuna remora a rigettarla nella rubrica delle bizzarrie di cui sorridere? Quanto sono state misconosciute le osservazioni profonde di un Democrito e di un Aristippo nel campo della sensibilità? E quanti esempi del genere potrei elencarvi dal solo sistema di un Platone, per rendere manifesto lo stato della storia della filosofia prima della filosofia critica, se nel proseguimento delle nostre fatiche non vi fossimo inevitabilmente condotti215.

Si incontra qui la teoria di una storia critica della filosofia che serviva a produrre un risultato del tutto inatteso per quanti rimanevano legati al pregiudizio dell’infecondità storiografica del kantismo, cioè a rendere pensabile la storia come «immortale conservatrice della verità». Veniva così chiarito 214 215

Ivi, p. 267, (ted., p. 39). Ivi, p. 268, (ted., pp. 42-43).

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

in modo esemplare perché la storia della filosofia dovesse essere per un kantiano parte essenziale del suo lavoro teorico, e si giustificava l’avvio di un corso di storia della filosofia antica accanto ad altri dedicati alla spiegazione del nuovo sistema.

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3 A OGNI FILOSOFIA LA SUA STORIA DELLA FILOSOFIA. IL MOLTIPLICARSI DEI RIFORMATORI DEL CRITICISMO

1. Reinhold: la rappresentazione come categoria per la storia della filosofia La lezione di Reinhold1 Sul concetto di storia della filosofia è il testo più importante per comprendere l’effetto che derivava sul “compito dello storico della filosofia” dalla rivoluzione operata dalla Critica. Pubblicata nel 1791 sui “Contributi” di Fülleborn, era al centro del saggio di Göss e sarebbe stata il punto di riferimento obbligato per quanti, in quei primi anni, sarebbero intervenuti sulla questione. Questa riflessione si colloca nella fase del pensiero di Reinhold nella quale cominciano a manifestarsi modi e infine anche temi diversi dal compito di introdurre al criticismo, che egli si era assegnato nelle Lettere sulla filosofia kantiana. L’aspetto teoretico del criticismo, che in questo scritto era stato subordinato a quello pratico, passava adesso in primo piano ma si manteneva, se non addirittura approfondendosi, quel duplice senso della storicità della Critica, per il quale Reinhold, sin dalla prima fase del suo pensiero, aveva visto in essa sia la chiave per entrare nel senso della storia della filosofia, che l’apertura della dimensione in cui diventava possibile fare autenticamente filosofia. È ormai superato il pregiudizio riguardante Reinhold il quale non è stato una figura di passaggio tra Kant e i grandi idealisti, ma un pensatore influente anche sui suoi critici come Schelling e Hegel. Esempi del tradizionale giudizio riduttivo possono essere considerati i lavori di R. Kröner e A. Pupi; del secondo soprattutto quelli di R. Lauth e M. Frank. Cfr. in particolare oggi K. Ameriks, Kant and the Historical Turn, cit., p. 11. 1

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

Il momento più originale del pensiero di Reinhold si apre nel 1789 con la pubblicazione del Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione2. Chiamato all’università di Jena, per Reinhold si poneva la questione di come esporre la Critica a un uditorio accademico, animato da aspettative più specifiche che non il composito pubblico di lettori di una rivista. Non va sottovalutata la circostanza pratica per affrontare la quale Reinhold si propose di semplificare la nuova filosofia, ora che anche per ragioni istituzionali doveva presentarla nel suo profilo teoretico. Ma con il Saggio intendeva soprattutto intervenire a difesa del criticismo nel dibattito rinfocolato da pensatori in vario modo “leibniziani” come Feder, Brastberger, Schwab ed Eberhard, secondo i quali il pensiero kantiano, non accettando il presupposto di una corrispondenza della sensazione alla cosa, non poteva che finire con l’essere altro che una versione dell’idealismo berkeleyano3. La discussione su questo aspetto del criticismo aveva subito assunto un valore decisivo, quasi di momentum crucis, sin da quando era apparsa la recensione alla prima edizione della Critica, elaborata da Garve e poi fatta propria da Feder, nella quale per la prima volta si lanciava l’accusa, poi sempre rinnovata, di idealismo soggettivo, o appunto “berkeleyano”4. Già nel 1781 Jacobi aveva invece respinto la nuova filosofia come un idealismo trascendentale, accusa destinata a trasformarsi in un’interpretazione positiva nel kantiano Beck e ancor prima nella “Dottrina della Scienza” di Fichte5. Ma, prima di giungere a questo punto di trasformazione del kantismo operata da “lieviti” leibniziani, la discussione aveva preso anche un’altra importante direzione. In tempi più recenti infatti, e quando ormai la nuova filosofia aveva conquistato 2 La seconda edizione delle Lettere, curata in quegli anni dallo stesso Reinhold, presenta l’accentuarsi della prospettiva storico-universale, e in particolare di quella connessa con l’evoluzione della storia della filosofia verso l’esito kantiano della filosofia come rappresentazione; cfr. M. Heinz, Grundzüge der Geschichtsphilosophie in Reinholds Briefen zur Kantischen Philosophie, cit., pp. 321-326. 3 Cfr. su entrambi questi temi, tra loro connessi, R. Ciafardone, Critica della ragion pura. Introduzione alla lettura, cit., pp. 86-97. 4 Nel 1825 Feder arriverà addirittura a ritenere che la recensione fosse stata decisiva per il successo del kantismo, e quindi un grave errore perché avrebbe richiamato su di esso l’attenzione del pubblico che, sbagliando, egli presumeva ostile allo spirito di una filosofia la quale invece, anche per il momento rivoluzionario della scena politica europea, coglieva una volontà di cambiamento presente anche nel mondo della cultura: cfr. J. G. H. Feder’s Leben, Natur und Grundsätze, Schwickert, Leipzig 1825, pp. 118-121. 5 Cfr. J. S. Beck, Erlaütender Auszug aus den critischen Schriften des Herrn Prof. Kant. Auf Anrathen desselben. Drittes Band welcher den Standpunkt darstellt, aus welchem die critische Philosophie zu beurtheilen ist, Hartknock, Riga 1796. Cfr. le critiche ma anche i riconoscimenti di Fichte a Beck, in Prima e seconda introduzione alla dottrina della scienza con «Dictate» 1798-1799, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 29 e pp. 63-65.

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A OGNI FILOSOFIA LA SUA STORIA DELLA FILOSOFIA

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quantomeno il ruolo di generale punto di riferimento, l’accusa di idealismo e di scetticismo, oltre che in merito ai temi “estetici” della sensibilità e al problema della cosa in sé, aveva assunto l’aspetto più precisamente logico della negazione “leibniziana” della differenza, che sappiamo invece per Kant essenziale, tra giudizi analitici e sintetici, entrambi ricondotti al principio di non contraddizione6. Questa riconduzione comportava il ripristino del rapporto di continuità per cui il principio di ragion sufficiente derivava da quello di non contraddizione, e quindi anche il ripristino del rapporto tra logica e metafisica che invece Kant, con la differenza tra pensare e conoscere, aveva separato, aprendo tutto un altro orizzonte. Il Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione si compone di tre libri, il primo dei quali ricostruisce sul piano storico le discussioni sui temi dell’etica, della religione e del diritto naturale, come già avvenuto nelle ultime due Lettere, ed è forse il più importante per il nostro scopo. In esso Reinhold si chiede se esistano «fondamenti conoscitivi universalmente validi» per «le verità fondamentali della metafisica», e soprattutto perché quelli proposti come tali dalle diverse filosofie non siano mai riusciti ad essere riconosciuti universalmente come validi7. Nel secondo libro viene presentata la teoria della rappresentazione, e nel terzo una teoria della conoscenza giustificata su quella della rappresentazione. Con questo lavoro teoretico che avrebbe voluto ancora funzionale alla causa dell’intelligibiltà della filosofia critica, Reinhold cominciava in realtà ad andare oltre essa. Lo scopo della teoria della rappresentazione era infatti ancora di introdurre ai risultati della filosofia kantiana; ma come nelle Lettere, anche in questo caso Reinhold non esponeva la Critica. Non intendeva infatti seguire il metodo trascendentale, perché la storia delle «sorti della filosofia kantiana sino ai nostri giorni» aveva dimostrato che questo metodo obbligava a considerazioni innaturali per la coscienza comune, nonché equivoche per molta parte di quella filosofica. Allo scopo di renderne più facile la comprensio6 Cfr. Anonimo (probabilmente Eberhard), Über die Unterscheidung der Urtheile in analytische und syntetische, in “Philosophisches Magazin”, I, n. 3, pp. 307-332. Si tratta di una questione decisiva, dalla cui soluzione dipende l’intera impresa critica. La replica maggiore di Kant nell’ultimo capitolo del saggio Über die Entdeckung nach der alle neue Kritik der reinen Vernunft durch eine ältere entbehrlich gemacht werden soll, in AA, VIII, pp. 225-251, (tr. it. in I. Kant, Contro Eberhard, cit., pp. 107-137). Sulla tradizione che precede Kant e che le osservazioni dei “leibniziani” puntano a rinnovare, cfr. R. Ciafardone, La tradizione analitica dell’illuminismo tedesco, in “Il pensiero”, XXVI, 1985, pp. 53-69. 7 Il tema della “persuasione” è già nelle Lettere, cit., p. 40. Sulla richiesta di una filosofia allo stesso tempo “rigorosa” e “popolare”, che caratterizza l’impegno “politico” di Reinhold, cfr. K. Ameriks, Kant and the Fate of Autonomy. Problems in the Appropriation of the Critical Philosophy, cit., p. 86.

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

ne8, proponeva di rovesciare il processo dimostrativo kantiano: non bisogna porre dapprima la questione dell’origine della conoscenza per ricostruire poi per quali ingranaggi avvenga che questa sia un prodotto di processi della ragione, ma la questione dell’aspetto mentale dei risultati di questi processi, che la stessa filosofia kantiana aveva dimostrato consistere nell’essere tutti rappresentazioni, come già era stato notato sebbene del tutto di passaggio in più punti delle Lettere9. Anzi, il concetto di rappresentazione è il «presupposto»10 implicito della Critica, che Reinhold ritiene opportuno esplicitare per chiarirne l’intero significato, e renderne palese la differenza rispetto ad ogni altra filosofia. Reinhold ritiene questa una via più agevole, perché non c’è bisogno di conoscere Kant per sapere che quanto è nella mente presuppone il riferimento alla coscienza e che a questa ogni contenuto si mostra come una sua rappresentazione, sia che si tratti di se stessa che degli oggetti: è cioè un’evidenza dell’autoriflessione il fatto che non c’è coscienza senza rappresentazione (di sé), e rappresentazione (degli oggetti) senza coscienza. Mettiamo da parte il problema della rappresentazione degli oggetti, e concentriamo l’attenzione su quello della rappresentazione della coscienza, perché prioritario. Anche la coscienza appare a sé come una rappresentazione: questo significa che in sé, e quindi oltre la rappresentazione, non è indagabile, e di conseguenza che la sua indagine deve fare seguito ai risultati di quella sulla struttura della rappresentazione come tale, perché la coscienza, nell’esatta misura in cui determina questa struttura, a questa medesima struttura risponde. L’indagine sul soggetto deve quindi essere preceduta dal chiarimento sistematico di ciò che è la «semplice rappresentazione in quanto essa non è che una semplice rappresentazione». Il problema kantiano della soggettività viene quindi riformulato in quello del «rappresentante rappresentato»; il problema dell’oggetto, che a questo si lega, in quello del rappresentato al o nel rappresentante. Entrambi suppongono l’analisi della rappresentazione come oggetto della coscienza, cioè come rappresentazione o «rappresentazione rappresentata»11, analisi che è quindi fondamentale per affrontare la questione del soggetto e dell’oggetto, e quindi tutti i problemi filosofici che da tale questione derivano. Teniamo presente questo aspetto perché concerne l’idea di storia della filosofia sottintesa in questa riflessione.

Cfr. ad es., Versuch, cit., pp. 254-255, (tr. it., p. 157). Una teoria che già comincia a delinearsi nelle Lettere settima e ottava. 10 Versuch, cit., p. 61, (tr. it., p. 59). 11 Cfr. ivi, pp. 231-235, (tr. it., pp. 145-147). 8

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A OGNI FILOSOFIA LA SUA STORIA DELLA FILOSOFIA

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Quest’analisi evidenzia come suo primo risultato la necessità che qualcosa nella rappresentazione sia rappresentato; che quindi la «forma» della rappresentazione diventi quella del rappresentato, inteso come una «materia» di cui è logicamente necessario ammettere una forma propria precedente alla rappresentazione, che esso però abbandona all’atto di entrare in quella, una forma quindi per principio non rappresentabile: forma e materia si rivelano così le «note interne» della rappresentazione come tale. Una teoria che sviluppi nella massima semplicità l’interrelazione tra queste «note» arriva alla deduzione che tutto quello che è conoscibile deve essere rappresentabile, cioè presente alla coscienza e che, per essere rappresentabile, un oggetto deve deporre la forma posseduta prima di diventare «materia» della rappresentazione, assumendo necessariamente la forma di quest’ultima; si può così proporre il problema della cosa in sé, e spiegare l’oggettività nella nozione specifica del conoscere critico in termini più piani che se si cominciasse dalle difficili questioni dell’estetica trascendentale, e del suo essere già innervata di affinità intellettuali, elementi che molto avevano favorito l’incomprensione della novità critica da parte dei leibniziani e il complicarsi delle interpretazioni tra gli stessi kantiani12. È a questi infatti che Reinhold in sostanza si rivolge perché esclude dai suoi interlocutori i “filosofi popolari”, a causa dell’eclettismo che li rende estranei alla riflessione metafisica. Con la teoria della rappresentazione, secondo Reinhold, si sarà già ottenuto quello che il criticismo ha da dire di essenziale, cioè un’introduzione al concetto di sintesi a priori, e per chi lo vorrà, sarà più facile passare da questo al livello dell’indagine trascendentale vera e propria, cioè al livello in cui vengono distinte le rappresentazioni sensibili, intellettuali e razionali, quali sono esposte nelle deduzioni kantiane secondo la diversa origine e funzione. Ma la teoria della rappresentazione non lascia intatta l’impostazione kantiana perché fornisce il criticismo di un’anticipazione dei suoi risultati che in sostanza ne rende inutile la procedura e ne orienta il significato in senso idealistico13. Reinhold raggiunge il punto di maggiore autonomia nella frequente avvertenza che non è possibile iniziare la riflessione sul soggetto dall’analisi della facoltà rappresentante, come chiede il metodo trascendentale, perché anche questa, in quanto rappresentata, suppone lo studio dei caratteri costitutivi della rappresentazione: «La facoltà rappresentativa deve

Cfr. P. Rumore, Una via all’idealismo: la concezione reinholdiana dell’oggetto trascendentale, in “Studi kantiani”, XV, 2002, pp. 199-210. 13 Cfr. K. Ameriks, The Fate of Autonomy, cit., p. 126. 12

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

essere misconosciuta se se ne deduce il concetto dalla facoltà rappresentativa e non dalla rappresentazione stessa»14. Comincia così a profilarsi il percorso che nel giro di pochi mesi lo porterà lontano da Kant. Se nelle Lettere il problema di fondo della storia della filosofia era costituito dall’impostazione teoretica della metafisica e della teologia, le cui aporie, esemplificate nei contrasti Cartesio-Spinoza e Mendelssohn-Jacobi, avevano favorito il moderno rifugiarsi della ragione nei saperi empirici o al contrario il suo acquietarsi in una passività, a volte persino superstiziosa, nel Saggio di nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione il problema di fondo è individuato in un’evidenza generale e in un contrasto altrettanto generale. L’evidenza riguarda il carattere rappresentativo dei contenuti mentali: La rappresentazione è l’unica cosa sulla cui realtà effettiva tutti i filosofi sono d’accordo. Se c’è almeno qualcosa in generale su cui si è d’accordo nel mondo filosofico, questo è la rappresentazione; nessun idealista, nessun egoista, nessuno scettico dogmatico può negare che ci sia la rappresentazione15.

Il contrasto di cui è fatta la storia della filosofia, e l’incomprensione della filosofia critica, sorge e si spiega come un «generale fraintendimento» del significato della rappresentazione: Sebbene tutti concedano la rappresentazione ed ogni filosofo abbia un concetto di rappresentazione, questo concetto non è tuttavia per tutti il medesimo, non è per tutti ugualmente completo, ugualmente puro, ugualmente giusto. Si è addirittura in disaccordo sulle sue note essenziali16.

L’incertezza circa il concetto di rappresentazione illustra due questioni: in primo luogo, «quello spettacolo delle quattro sette principali e della loro insolita battaglia che si compone di tanti atti quanti sono i problemi importanti avuti finora dalla filosofia speculativa»17, cioè i contrasti di cui è fatta la storia della filosofia, e che a partire dal concetto di rappresentazione Reinhold ritiene di poter ridurre a soltanto quattro modalità; in secondo luogo, che rispetto alla Critica «a tenere in vita […] il fraintendimento era

14 15 16 17

Versuch, pp. 220-221, (tr. it., p. 140). Ivi, p. 190, (tr. it., p. 123). Ibid. Ivi, p. 94, (tr. it., p. 76).

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A OGNI FILOSOFIA LA SUA STORIA DELLA FILOSOFIA

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soltanto il concetto di rappresentazione, pensato diversamente da Kant e dai suoi avversari»18. Le categorie “storiografiche” che abbiamo “dedotto” dalle Lettere non soltanto quindi si conservano nel Saggio ma si rafforzano, innanzitutto perché parlando di un “fraintendimento” comune a tutte le filosofie pre-critiche, Reinhold accomuna non solo queste tra di loro, ma anche rispetto alla Critica, attorno a un unico problema19. Procede così a una precisa logicizzazione della storia della filosofia. Logicizzare la storia della filosofia significa: 1) che non esistono diversi sistemi ma diverse modalità di cui i sistemi sono contingenze; 2) che di conseguenza tali modalità sono necessarie, nella misura in cui ognuna dipende dalle altre, quali articolazione di un complesso che è organico in quanto è interamente non critico20. Quelle che appaiono filosofie diverse sono solo apparentemente tali, perché in effetti esprimono una condizione generale della ragione. La storia dell’uso speculativo della ragione è quindi il tempo dell’apparenza dialettica, portatore ex post di un valore non più che “negativo”. Versuch, p. 64, (tr. it., p. 60). Era lo sviluppo dell’idea kantiana secondo cui «tutte le filosofie sino alla Critica non sono state diverse nell’essenziale», cfr. I. Kant, AA, VIII, cit., p. 335. 20 Soltanto dopo Kant si comprendono le ragioni per cui l’intera storia della filosofia si trovava nell’impossibilità di determinare con esattezza il valore della “rappresentazione”, la quale non può essere dimostrata ma unicamente esposta; cfr. Versuch, pp. 223-224, (tr. it., p. 142): «Poiché la rappresentazione è ciò cui si deve riferire tutto quello che è e può essere oggetto di coscienza, essa è la cosa più nota, ma anche la più inspiegabile tra tutto ciò che può comparire nella coscienza. Essa precede ogni coscienza, che è possibile solo mediante essa, ed è tanto poco bisognosa quanto capace di una spiegazione, dal momento che deve essere presupposta in ogni spiegazione. Il suo concetto invece non ne ha certamente nessuno superiore da cui possa essere dedotto, giacché viene presupposto anche nel concetto di una cosa nel significato più ampio possibile (cioè di ciò che è rappresentabile ovvero, come lo si esprime di solito, di ciò che è pensabile). Proprio perciò, però, questo concetto necessita tanto più di essere esposto, quanto meno il suo oggetto ammette una spiegazione. Poiché la stessa rappresentazione deve essere presupposta in ogni spiegazione, è solo mediante il concetto esposto nella sua interezza e completamente determinato della rappresentazione inspiegabile che si può evitare che della rapprresentazione venga presupposto più o meno di quello che deve assolutamente essere presupposto, se non deve essere falsato il presupposto che serve da premesssa a tutte le spiegazioni possibili. Poiché infine il concetto di rappresentazione viene presupposto nel concetto di una cosa, è evidente che ques’ultimo importante concetto, che sta alla base di tutta la metafisica, dovesse restare plurivoco e oscillante, fino a quando l’altro non fosse stato completamente determinato e fissato, è evidente che la filosofia non debba affatto, come si è creduto finora, cominciare le sue indagini o con la cosa più individuale tra tutte quelle per noi rappresentabili, con il nostro Io rappresentante, oppure con quella più universale, con la cosa in generale, ma con la rappresentazione; che pertanto l’intero corso preso finora da tutto il filosofare avesse una direzione sbagliata proprio nel primo punto da cui prendeva le mosse». 18

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Dalla prospettiva della “rappresentazione”, le filosofie pre-critiche appaiono esprimere una sola logica modulata secondo un insieme di varianti, l’una opposta e quindi “motivata” dall’altra; le contraddizioni storiche tra i sistemi diventano esplicabili al livello filosofico in cui si dimostrano conseguenze del difetto generale di impostazione dogmatica, che Kant corregge. Il che spiega anche il loro fare fronte comune contro la nuova filosofia. Scrive Reinhold nel saggio Sulle sorti della filosofia kantiana fino ai giorni nostri che, già edito, riutilizza come “Prefazione” al volume sulla rappresentazione: E se questa faida, tanto inevitabile se si considera lo sviluppo solo graduale dello spirito umano quanto indispensabile ad esso, dipendesse in fondo solo dall’unilateralità del punto di vista dal quale ogni gruppo osserva l’oggetto comune a tutti? Quando ogni gruppo vede la verità, però soltanto da un lato, questo lato si mostra solo in quanto si contrappone ad un altro che gli sta di fronte, e non per come esso è anche conciliabile o addirittura necessariamente connesso con quello. Fin quando ogni gruppo annuncia la parte su cui cade il suo sguardo come l’intera verità, è necessario che venga apertamente confutato da quello che gli sta di fronte e che ha lo sguardo rivolto verso una verità intera contrapposta. L’elemento di verità che appare evidente a ciascuna setta, e che è in parte indiscutibilmente vero, contiene allora la ragione per cui nessuna delle altre è stata potuta reprimere21.

Nel Saggio, Reinhold descrive questa “faida” in rapporto ai maggiori problemi della morale e della religione, mostrando come non si sia potuti giungere a stabilire dei fondamenti conoscitivi che fossero sia universalmente validi che universalmente compresi come tali. Ma quel che conta considerare è che tale “faida” non è descritta quanto giustificata. Reinhold infatti ritiene che le posizioni che in essa si sono confrontate, e cioè quelle di razionalisti, soprannaturalisti, atei e scettici dogmatici, siano tutte necessarie nel senso che, affrontando i problemi della filosofia speculativa nell’orizzonte della rappresentazione non tematizzata, è razionale assumere uno quanto un altro di questi quattro orientamenti. Teisti e suprannaturalisti ritengono che si dia un fondamento conoscitivo per l’esistenza di Dio; atei e scettici dogmatici pensano che invece non si possa dimostrare l’esistenza di Dio. Il teista si allea però con l’ateo perché entrambi difendono il diritto della ragione in questo campo. Il suprannaturalista concorda invece con lo scettico dogmatico nel negare alla ragione ogni diritto conclusivo in teologia22. È uno schema in cui Versuch, pp. 43-44, (tr. it., p. 52). Sul rapporto con lo scetticismo, cfr. D. Breazeale, Putting Doubts in its Place: K. L. Reinhold on the Relationship between Philosophical Skepticism and Trascendental Idealism, in The Skeptical Tradition, cit., pp. 121-132; soprattutto p. 130. 21

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A OGNI FILOSOFIA LA SUA STORIA DELLA FILOSOFIA

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i contrasti avvengono per strategia, e gli accordi per tattica. Partiti opposti affermano la loro convinzione non allo stesso modo né per lo stesso scopo, ma con il medesimo risultato. Inoltre, tre gruppi su quattro sono d’accordo nell’approvare ognuno dei quattro concetti che secondo Reinhold sono compatibili con la filosofia kantiana. Debitore di tale impostazione alla dialetticità secondo l’accezione kantiana, il movimento non progressivo della storia pre-critica della filosofia secondo Reinhold si struttura in un’immagine, in una sorta di scenografia storico-concettuale. Quest’immagine, che ricorrerà spesso, nel passo seguente è riferita al problema teologico: Il mondo filosofico si è diviso in quattro gruppi principali che si sono accampati intorno alla verità formando un quadrilatero, nel quale i gruppi che si trovano l’uno di fronte all’altro considerarono il loro oggetto da punti di vista esattamente opposti, quelli confinanti lo considerarono da punti di vista diversi; i primi furono coinvolti in una faida senza fine, gli altri combatterono ora da una parte ora dall’altra. I teisti e i panteisti si dichiararono così per il sapere, i soprannaturalisti invece, e gli scettici dogmatici per il non sapere una risposta alla questione dell’esistenza di Dio; i teisti e i soprannaturalisti si dichiararono invece per l’esistenza di un Dio diverso dalla natura, laddove i panteisti e gli scettici dogmatici credettero di comprendere l’infondatezza di questa dichiarazione. Il soprannaturalista ora combatteva contro il panteista, insieme al teista con lui confinante da un lato, ora chiamava in aiuto lo scettico dogmatico contro il suo vecchio alleato; ogni gruppo perpetuava così, per quanto dipendesse da lui, il disaccordo, scendendo in campo ora con gli alleati dei suoi avversari, ora contro i propri23.

Dall’immagine del “quadrilatero”, emergono alcune caratteristiche che si trasformeranno in indicazioni di metodo storiografico nella lezione Sul concetto di storia della filosofia: i “sistemi” hanno senso in relazione alla ragione e non all’individualità o al contesto storico, perché approfondimenti interni a modalità generali. Le “sette” svolgono l’esplorazione completa di un medesimo orizzonte dal quale però manca la verità, e che quindi viene continuamente indagato secondo procedure ormai standardizzate, persino nella loro contrapposizione. Pur rimanendo fuori dalla verità, Reinhold ritiene che in ognuno di essi ci sia comunque qualche cosa di vero24, nel senso che ogni sistema è l’espressione giustificata di una ragione non critica. Nella storia precritica della filosofia si può quindi incontrare un tipo di “verità” Versuch, pp. 42-43, (tr. it., p. 52). Nessuno degli argomenti presentati in metafisica ha mai potuto persuadere se non un quarto del mondo filosofico. 24 Ivi, p. 126, (tr. it., p. 92). 23

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unicamente storica ed unilaterale. Per comprendere questa storia occorre collegare la diversità dei fenomeni – cioè dei sistemi – a quell’unico modo di pensare di cui le “sette” sono la manifestazione. Si scopre così che tali “sette” non sono infinite come sembrano, ma soltanto quattro. È impossibile dare una normazione teleologica al movimento pre-critico. Il passato della speculazione è un’esperienza necessaria, ma che non trasmette tale necessità allo svolgimento stesso: il suo movimento è piuttosto quello della rotazione, un movimento quindi aporetico25. Come in ogni schema, anche in quello reinholdiano avviene che scarso rilievo possono avervi le sfumature e le differenze effettivamente storiche tra le diverse posizioni. E questo spiega perché non mancarono le critiche all’astrattezza del “metodo logico” reinholdiano, soprattutto da parte di coloro che nel fronte eberhardiano erano più sensibili alla cultura storiografica come indagine sul fatto. Queste critiche erano anche l’espressione di una mentalità filosofica incline alle soluzioni di compromesso, che non poteva accogliere bene la rigidità dello schema quadripartito di Reinhold26. L’importanza storica di questo schema risiede però nel fatto che con esso ci si trova all’inizio di una filosofia della storia della filosofia. Sia la storia universale della filosofia che quella più recente potevano essere ricondotte a motivazioni speculative. Non la continuità (perché questione di contenuto) ma la sinotticità (che è questione di forma) della storia della filosofia ne veniva rafforzata, perché la rivoluzione critica serviva a risolvere la questione cruciale da cui sorgeva il grappolo di problemi e di atteggiamenti della filosofia che l’aveva preceduta. Con accento pietista, la Critica viene descritta 25 Non si tratta quindi ancora di una finalizzazione della storia della filosofia quale siamo abituati a intendere con l’esempio hegeliano o idealistico, ma piuttosto di un primo passo verso una sua intelligibilità in quanto fenomenologia della ragione nel significato, attinente al valore di apparenza, che questa nozione possiede ancora nella prospettiva critica. Per Hegel invece, come si sa, le filosofie del passato sono già la verità della filosofia, che quando diventa assoluta, diventa anche la verità di tutte le filosofie: «La storia della filosofia mostra, da una parte, che le filosofie, che sembrano diverse, sono una medesima filosofia in diversi gradi di svolgimento; dall’altra, che i principi particolari, di cui ciascuno è a fondamento di un sistema non sono altro che rami di un solo e medesimo tutto», in G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza, Roma-Bari 1989, § 13, p. 21. Sul diverso significato del termine “fenomenologia” in Kant e Hegel, con riferimento a Lambert, cfr. R. Franchini, Le origini della dialettica, cit., pp. 217-219. 26 Una critica al “quadrilatero” reinholdiano, molto incisiva perché condotta anch’essa in modo schematico, è svolta nell’articolo Über ein neues merkwürdiges Resultat der philosophiscen Geschichte, in Beziehung auf die Frage vom Daseyn Gottes, in “Philosophisches Magazin”, hrsg. von Johann August Eberhard, 2° Bd., 4° Stück, Gebauer 1790, pp. 436-446. L’autore mostra come in termini matematici si dimostri falso lo schema reinholdiano per cui i quattro partiti si alleerebbero sempre tre contro uno.

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come quella desiderata «mediazione che faccia a tutti giustizia». Una mediazione che bisogna ben distinguere da quell’atteggiamento esso sì mediano tra i sistemi, con cui Reinhold invece polemizza, rappresentato dall’eclettismo della “filosofia popolare”. È questa la filosofia – o per meglio dire, data la sua carenza di rigore, questa non filosofia – che cerca di risolvere il contrasto tra empirismo e razionalismo prendendo da ognuno quell’elemento che le appare ragionevole in base alle esigenze del “sano intelletto umano”, il quale per definizione evita le difficoltà della metafisica e della filosofia speculativa, mantenendosi al livello della percezione e dell’immediata evidenza27. Sebbene possa sembrare il contrario, l’eclettismo è una filosofia disattenta alla storia della filosofia e alle stesse filosofie che utilizza, in quanto costruisce la propria figura facendo «violenza»28 ai sistemi, e ne piega il significato a proprio uso e consumo. Non confrontandosi con il problema della metafisica, lo «scetticismo della filosofia popolare», per quanto contagioso, non fa parte in senso autentico della storia della filosofia, della quale è una sorta di febbre, che la Critica cura. Ma proprio per la sua medianità, cioè il suo mero livellare i conflitti senza affrontarli, la filosofia del «sano intelletto umano» ha avuto un certo fascino tra coloro che vanno auspicando «la pace filosofica», sicché a essa hanno fatto ricorso un po’ tutte le «sette» nella fase più recente, che perciò si può definire «periodo della filosofia eclettica». È il metodo sbagliato, sul quale può bastare «un piccolo sfogo»29, non una vera discussione: Sarebbe inutile chiedere a questi riformatori di riflettere se non sarebbe altrettanto opportuno lasciare che almeno un certo tipo di filosofia rimanesse nelle più alte regioni della speculazione, dal momento che soltanto di lì si sarebbe in grado di dominare con lo sguardo l’intero ambito del sapere umano e semmai scoprire il punto di vista a partire dal quale si lascerebbe riunire tutto ciò che è giusto e che venne trovato in modo unilaterale dai singoli gruppi30.

27 Come “sensus communis” il sano intelletto umano è molto utile alla vita, perché rende efficaci quelle disposizioni che non riesce a dimostrare, cfr. Versuch, p. 77, (tr. it., p. 68). Questa “filosofia” è “popolare” perché ad esempio nell’ambito della «verità fondamentale della moralità», si mantiene molto vicina al modo di pensare di «chi non ha mai filosofato sulla libertà» e accetta «la realtà effettiva della libertà» come «la prova più valida della possibilità di essa», mentre «la filosofia non possiede nessun’altra questione alla quale sia più difficile dare una risposta e che tuttavia sia meno da respingere» (ivi, pp. 91-92, tr. it., p. 75). 28 Ivi, p. 83, (tr. it., p. 70). 29 Ivi, p. 139, (tr. it., p. 98). 30 Ivi, pp. 135-136, (tr. it., p. 96).

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È invece la «Critica della ragione» la vera riforma, perché della storia della filosofia «fa una questione»31 e riconosce la verità parziale dei sistemi precedenti, appunto perché giustifica la propria affermazione circa il fatto che quella loro verità è soltanto parziale. Questa giustificazione è stata resa possibile dall’inversione della strategia che sino ad allora, secondo Reinhold, era sempre stata seguita rispetto al problema principale della conoscibilità delle verità metafisiche. Tale inversione consiste nel fatto che non si procede più cercando di inferire dalla realtà la possibilità dei suoi principi, così tentandone la giustificazione; ma si procede dal dubbio circa la possibilità di tali principi, per poi su questa base suffragarne o meno la realtà. Per questo motivo, la Critica è al centro della storia della filosofia e ne rappresenta in senso letterale una svolta. Poiché tutte procedevano dalla realtà per dedurne i principi, tutte le “sette” si sono attenute all’apparenza della rappresentazione senza tematizzarla. Ma se il problema critico può essere esposto in modo più efficace e chiaro sviluppandolo in quello della rappresentazione, allora anche il problema della storia della filosofia può essere centrato in quello della rappresentazione. Non avendo tematizzato questo concetto, alle “sette” è mancata la consapevolezza dei limiti e delle forme che attengono alle dinamiche rappresentative del soggetto. L’intero loro disaccordo appare adesso come un equivoco di tipo prospettico dovuto alla mancata riflessione sulla “rappresentazione”, e quindi sul valore dei contenuti mentali. Si ha così il fondamento per una ricostruzione unitaria delle divergenze, e quindi per una storia filosofica della filosofia nello spirito di Kant. Il concetto con cui Reinhold vuole semplificare l’esposizione del suo pensiero, vale allora anche come criterio per la spiegazione collettiva delle filosofie pre-critiche. E con questa funzione opera nella lezione Sul concetto di storia della filosofia, in cui da esso vengono dedotti tutti i criteri di tipo anche metodologico su cui in quell’occasione Reinhold ferma la propria attenzione. Nel Saggio, questa chiarificazione teoretica si presenta in gran parte sotto le vesti “retoriche” del disaccordo tra le “sette”, interpretato come disaccordo relativo al fatto che nessun fondamento conoscitivo proposto come universalmente valido è poi compreso come universalmente valido: una pretesa impossibile senza essere venuti in chiaro del concetto – che è poi una struttura – di “rappresentazione”. Reinhold infatti afferma: È fondatamente supponibile che alla base di questa mancanza di ciò che è universalmente compreso come valido stia la mancanza di ciò che è universalmente valido; e questa supposizione conduce al dubbio critico 31 Ivi, p. 140, (tr. it., p. 99). Reinhold sta trattando qui del «dubbio critico», ivi, p. 130, (tr. it., p. 94).

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se la filosofia sia in grado di formulare fondamenti conoscitivi e principi fondamentali universalmente validi32.

Se infatti, come sinora è avvenuto, si avvia l’indagine filosofica dalla facoltà rappresentativa – cioè dalle diverse “fonti” della conoscenza – e non dalla rappresentazione, non si può ottenere un concetto determinato di quella, comunque la si intenda, perché anch’essa come oggetto di coscienza è una rappresentazione. Ma se quindi si riuscisse, come Kant ha iniziato a fare, a chiarire nella sua vera struttura e rilevanza questa che è la condizione essenziale di tutti i contenuti mentali, – di quelli possibili come conoscenza e di quelli che in questo senso non sono possibili – si potrebbe ottenere quella pace tra i sistemi che sta molto a cuore a Reinhold, e anche l’avvio di una riflessione finalmente rigorosa sul vero oggetto della filosofia. In un certo senso la storia della filosofia inizia, sia come materiale di studio davvero filosofico sia come attività posta sulle sue proprie legittime basi, soltanto quando la filosofia diventa in grado di dare una definizione esatta di se stessa33. Questo tema è al centro di Sul concetto di storia della filosofia. Definire la filosofia e porre il concetto della sua storia diventano quindi in Reinhold due operazioni congiunte, la prima condizione della seconda, e anzi un medesimo atto; e poiché è soltanto con Kant che si ha la prima comprensione del significato autentico della filosofia, tutte le precedenti definizioni di storia della filosofia, e quindi anche tutte le storie della filosofia prima di Kant, sono fuori dall’ambito cui ambiscono, non possedendo il necessario punto di vista della loro disciplina. Procedendo nella semplificazione condotta lungo il binario del concetto di “rappresentazione”, si evidenzierà agli occhi di Reinhold anche la possibilità di una essenzializzazione teorica, che alla fine non soltanto sembrerà emancipare il criticismo dalla sua complessità, ma lo renderà, almeno secondo il suo interprete, più vero, aprendo la fase della “filosofia elementare”34.

2. Reinhold: la lezione Sul concetto di storia della filosofia nel contesto dei Contributi La ricerca del vero significato della filosofia, cioè del suo “concetto rigoroso”, forma il nucleo della riflessione reinholdiana successiva al Saggio. Questa Ivi, p. 120, (tr. it., p. 89). Cfr. P. Valenza, Reinhold e Hegel. Ragione storica e inizio assoluto della ragione, Cedam, Padova 1994, p. 22. 34 Versuch, pp. 62-63, (tr. it., p. 59). 32 33

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ulteriore fase è caratterizzata dall’elaborazione della “filosofia elementare”, esposta nei Contributi alla rettificazione degli equivoci sorti sino ad ora tra i filosofi35, a partire dal 1790. Ad essa appartiene anche la lezione accademica Sul concetto della storia della filosofia del 1791. La “filosofia elementare” viene proposta allo scopo di dare alla teoria della rappresentazione una più profonda elaborazione, che replicasse alle critiche che il Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione aveva ricevuto. In alcune recensioni questo venne infatti contestato sia dai leibniziani, che dai kantiani più legati alla lettera del criticismo. I primi giudicarono incoerente l’idea di una rappresentazione che mentre nella sua articolazione semplice si presenta come struttura basilare e completa dei contenuti mentali, necessariamente rinvia anche a una cosa ad essa esterna di cui si ammette che come tale non è rappresentazione: la rappresentazione sarebbe quindi una struttura essenziale ma allo stesso tempo insufficiente36. La nuova teoria non dimostrava quindi altro che anche nell’ambito di un kantismo riformato si riproponeva inevitabilmente il problema del rapporto con l’oggetto, e quindi la necessità di un’impostazione gnoseologica che tra la cosa e il pensiero non ponesse scissioni soggettive; inoltre, ad alcuni leibniziani il concetto di rappresentazione apparve troppo generico per poter comprendere tutte le diverse esperienze conoscitive e mentali. Soprattutto ad opera di Heydenreich, i kantiani invece ritennero che non vi fosse nulla di realmente nuovo, potendo i capisaldi della teoria della rappresentazione essere tutti rintracciati nella Critica, rilievo non immotivato né per certi versi contestato dallo stesso Reinhold; di conseguenza, però, l’abbandono del metodo critico costituiva a loro giudizio non un vantaggio ma una perdita di completezza, e quasi una banalizzazione37. 35 K.L. Reinhold, Beyträge zur Berichtigung der bisheriger Missverständnisse der Philosophen, Mauke, I, Jena 1790, II, ivi 1794. 36 J. C. Schwab, Über den Reinholdischen Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögen, in “Philosophisches Magazin”, 2, 1790, pp. 125-147; J. F. Flatt, “Tübingische gelehrte Anzeigen”, 39, 1790, pp. 306-312; J. G. H. Feder, “Göttingische Anzeigen von gelehrten Sachen”, 14, 1790, pp. 129-139. 37 K. H. Heydenreich, “Neue Leipziger gelehrte Anzeigen”, 46, 1790, pp. 362-365. Questa recensione come le precedenti e molte altre, relative anche al primo volume dei Beiträge e alla Fundament-Schrift, è ora raccolta in Die Zeitgenossischen Rezentionen der Elementarphilosophie K. L. Reinholds, eing. und hrsg. von F. Fabbianelli, Olms, Hildesheim 2003, pp. 54-57. Il curatore presenta «una breve storia» di queste reazioni nella sua “Einleitung”, ivi, pp. XIII-LXXV. Nella Encyclopedische Einleitung in das Studium der Philosophie nach den Beduerfnissen unsers Zeitalters. Nebst Anleitungen zur philosophischen Litteratur, cit, Heydenreich dirà che la definizione di filosofia data da Reinhold come «la scienza di ciò che è determinato nella semplice facoltà della rappresentazione» è «troppo stretta»: «Questa definizione, un’opera del Signor Reinhold,

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Colpito da queste critiche ma anche persuaso di come in fondo fossero sbagliate, Reinhold nel giro di qualche mese approfondì la teoria della rappresentazione giungendo, come dicevamo, al risultato più influente della sua attività speculativa, la “filosofia elementare”. Come già indica il titolo, i Contributi si propongono di promuovere la rettificazione delle incomprensioni sorte fino ad allora tra i filosofi, trattando un tema, quello della “pace” nel mondo della speculazione, già presente nelle Lettere e nel Saggio, e che è anche inevitabilmente foriero di considerazioni sul concetto della storia della filosofia. Per mettere in luce questo aspetto particolare, ci interessano soprattutto alcuni dei saggi raccolti in Beyträge I, e in particolare quello intitolato Sul concetto della filosofia38. Scrive Reinhold: Confesso di essere convinto che si conosce di meno proprio ciò che finora si credeva di conoscere di più: cosa significhi pensare, sentire, rappresentare, conoscere e filosofia! Saper dire qualcosa sulla filosofia, non vuol di gran lunga ancora dire di sapere cosa è la filosofia39.

Sicché Reinhold poteva affermare che «la filosofia nel senso più proprio non esiste ancora, dovendosi annunciare attraverso il concetto determinato»40. Che non si sappia cosa è la filosofia, non è ovviamente una questione di ignoranza soggettiva. Piuttosto, si tratta di una condizione insieme storica e speculativa, che per essere compresa va riferita allo stadio di evoluzione in cui si trova lo spirito umano; come avrebbe detto in un altro saggio dei Contributi:

ha incontestabilmente il vantaggio di indicare l’essenza della filosofia nelle sue pure parti teoretiche con acutezza assoluta. Soltanto io dubito che la si possa applicare senza forzature alle discipline morali e alle altre parti della filosofia» (p. 47). La critica a Reinhold diventa tecnica nell’uso che anche Heydenreich fa dell’espressione “filosofia elementare” secondo però un’accezione diversa, discussa nello stesso lavoro alle pp. 91-98. Anche in questo scritto Heydenreich preferisce alla semplificazione reinholdiana la tripartizione kantiana delle facoltà nell’unico fatto della coscienza. Sul modello kantiano propone allora la sistemazione enciclopedica di tutto il sapere, la quale è possibile solo se preceduta da una enciclopedia della filosofia, quale in questo scritto viene tentata. Non mancano però anche riconoscimenti specifici ai Beyträge, ad esempio rispetto all’inassimilabilità di criticismo e scetticismo: cfr. K. H. Heydenreich, Gibt es eine Philosophie?, cit., p. 4, nota. Importante anche la critica alla “filosofia della rappresentazione” di J. S. Beck, in Erlaütender Auszug aus den critischen Schriften des Herrn Prof. Kant, cit., pp. 61 e seg. Ostile sarà anche Hülsen, da posizione fichtiane, cfr. infra. pp. 214 e sgg. 38 K.L. Reinhold, Über den Begriff der Philosophie, cit., pp. 11-65, (tr. it., pp. 3-56). 39 Ivi, p. 25, (tr. it., p. 14). 40 Ivi, p. 22, (tr. it., p. 12).

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Ci sono malintesi tra i filosofi che ricadono interamente in conto alla filosofia stessa, o, se si preferisce dipendono dal grado dello sviluppo in cui si trova la ragione filosofante con i suoi lenti progressi41.

Perché quest’incertezza su cosa sia la filosofia costituisca una condizione storica e speculativa, lo si comprende se si affronta dapprima il problema, qui implicito, di cosa significa determinare un concetto e della ben diversa cosa che ha significato prima di Kant. Il punto di arrivo sarà comprendere che non si determina il concetto di filosofia in via analitica ma soltanto sinteticamente, e che quindi la logica formale non serve a distinguere la filosofia dalle forme conoscitive che le sono prossime, e con le quali viene sempre diversamente confusa nelle definizioni che ne sono state date durante la sua storia; si tratta quindi di chiarire perché la logica formale del genere prossimo e della differenza specifica, sempre utilizzata a questo scopo prima della svolta kantiana, sia utile soltanto dopo che il concetto di filosofia è stato determinato, a mero scopo di chiarimento e di verifica; o, potremmo anche dire, a scopo polemico per mostrare quali elementi manchino nelle precedenti definizioni, alla luce della determinazione sintetica e quindi necessaria che è l’unica possibile nel campo della speculazione. Il saggio Sul concetto di storia della filosofia che non fa parte dei Contributi ma sviluppa un aspetto specifico della filosofia che vi è presentata, sarà costruito in larga misura con la logica del genere prossimo e della differenza specifica, ma soltanto perché nei Contributi si è giunti a determinare il concetto di filosofia nel rigore e nella necessità che soltanto la sintesi può garantire42. Se quindi molti dei concetti che vi si incontrano in merito al metodo della filosofia erano già presenti nel Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione, l’insieme della sua argomentazione rivela la prossimità alla fase della “filosofia elementare”. Dai Contributi mutua anche l’architettura polemica, fatta di critiche a specifiche definizioni di storia della filosofia, secondo l’idea che «se non possediamo nessun significato determinato del termine, non disponiamo neppure di un concetto determinato di filosofia», e quindi neanche di storia della filosofia43. Si tratta allora di porre la questione «così raramente sollevata»: «Cosa vuol dire filosofia?»44 Per ri41 K.L. Reinhold, Über die Möglichkeit der Philosophie, cit., p. 232, (tr. it. in Concetto e fondamento della filosofia, cit., p. 132). 42 Secondo Karl Ameriks, Sul concetto di storia della filosofia è «path-breaking», apre una via alla riflessione sulla storia della filosofia, cfr. K. Ameriks, Reinhold’s first Letters on Kant, cit., p. 24 nota. 43 K.L. Reinhold, Über den Begriff der Philosophie, cit., p. 16, (tr. it., p. 7). 44 Ivi, p. 14, (tr. it., p. 4).

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spondere, occorre prima intendersi su cosa significa determinare un concetto, problema che occupa buona parte del saggio Sul concetto della filosofia. Determinare un concetto significa porre le note che necessariamente lo compongono e per le quali esso è quello che è. Due sono i modi possibili: «Attraverso la scomposizione nella coscienza e attraverso la riunione nella rappresentazione»45. L’analisi determina il concetto nel senso che fornisce la consapevolezza di ciò che già è presente in esso; la riunione, cioè la sintesi, lo determina nel senso attivo di riconoscere una necessità. Per capire il perché di queste due maniere di determinazione, va tenuto presente che esistono due classi di concetti, quelli storici e quelli filosofici. Storico è il concetto empirico, che cioè ha per oggetto un’intuizione in senso kantiano: poiché questa, nell’atto stesso del suo essere percepita e resa giudizio, pone la necessità della connessione, è posta con essa l’unità che può essere analizzata; il concetto storico è quindi già in un certo senso determinato e l’analisi non fa che esplicitare questa sua determinazione. Del tutto diversa la situazione rispetto ai concetti filosofici, cioè il caso di pensieri rivolti al pensiero stesso: qui la connessione non è data, e quindi la determinazione deve essere un procedimento attivo, che pone e collega quanto di per sé non si offre. Come già Kant aveva insegnato, rispetto ai concetti filosofici la sintesi precede l’analisi. La scomposizione in filosofia si riduce a un “trovare” che non impegnandosi sul piano della fondazione, che è l’unico a conferire necessità in quest’ambito, sarà sempre «una cosa casuale»46: è l’atteggiamento di quei filosofi e di quegli storici della filosofia che si accontentano di una definizione corrispondente all’uso corrente e alla preferenza soggettiva. Invece, in filosofia unicamente «la riunione determina»47. Nel concetto di filosofia la determinazione non può che avvenire riunendo ciò che nel pensiero non può non esserci: come dice Reinhold, il concetto determinato di filosofia «deve consistere nel pensare un principio fondamentale che esprime l’ultima cosa pensabile»48; deve connettere «solo ciò che è necessario e universale nello spirito umano» e non «contenere niente di arbitrario, niente di dipendente da caratteri contingenti dello spirito e quindi niente di mutevole»49; «non deve contenere niente che non sia riconducibile a ciò che è necessario ed universale nell’animo umano»50.

45 46 47 48 49 50

Ivi, p. 17, (tr. it., p. Ibid., (tr. it., p. 8). Ibid., (tr. it., p. 7). Ivi, p. 19, (tr. it., p. Ivi, p. 22, (tr. it., p. Ivi, p. 23, (tr. it., p.

7). 9). 12). 13).

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Deve quindi essere il pieno e ultimo concetto di sé dello spirito, «dal momento che qui tutto esiste solamente tramite il sapere»51. Si pone allora il problema che caratterizza il ragionamento reinholdiano. Che cosa infatti può essere un tale principio? È legittimo ritenere che l’ultima cosa pensabile è la condizione del pensiero, o non bisogna piuttosto andare oltre, chiedendosi se il fondamento della pensabilità stessa possa consistere in un concetto, pur presentandosi alla riflessione nell’ovvia fattispecie di un concetto, dato che un concetto non può essere fondamento, dipendendo da altri concetti, che lo costituiscono come note interne o che lo circoscrivono come generalità superiori. Dobbiamo allora chiederci se il concetto determinato di filosofia possa essere ottenuto con i criteri aristotelico-wolffiani del genere prossimo e della differenza specifica, cioè con le regole che attengono alla determinazione di ogni altro concetto, sia quando viene risolto in una «scomposizione» delle sue note che quando lo si produce in una loro «riunione»: con questo procedimento si è spesso ritenuto di aver determinato il concetto di filosofia mostrando che essa è la differenza specifica che sta sotto il genere prossimo di scienza. Ma la difficoltà di determinare con questa procedura il concetto di filosofia è evidenziata già dalla situazione di fatto: Certo non dovrebbe conoscere assolutamente nulla della storia della filosofia odierna chi non sapesse che sulla differenza specifica, mediante cui la filosofia si distingue da ciò che non è filosofia, si è altrettanto in disaccordo, che addirittura il concetto di scienza viene determinato in modi molto differenti52.

La determinazione che si attua mediante la ricerca per genere prossimo e differenza specifica non può funzionare nel caso della filosofia perché qui si cerca il concetto dell’ultima cosa pensabile, cioè il concetto della rappresentabilità stessa, e questo non può avere la propria giustificazione nel rapporto di distinzione-dipendenza da altro, come succede inevitabilmente per ogni concetto ottenuto per scomposizione o riunione. È questo il motivo per cui Reinhold dice che gli stessi concetti di genere prossimo e di differenza specifica, cioè le regole della definizione, devono allo stesso modo essere risolti nel genere prossimo e nella differenza specifica, continuando così fin quando non si sia convinti di essere giunti a qualcosa di irresolubile, che di conseguenza non è un concetto composto53. 51 52 53

Ivi, p. 15, (tr. it., p. 6). Ivi, p. 20, (tr. it., pp. 10-11). Ivi, pp. 20-21, (tr. it., p. 11).

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Si fa così manifesto il problema centrale dell’indagine che porta all’idea di una “filosofia elementare”: se è possibile che il fondamento del concetto di filosofia possa essere un concetto o se invece non vada cercato in una “realtà”, nel senso di essere la condizione del pensare e quindi anche la condizione del proprio porsi a fondamento del pensare. Il rifiuto kantiano dell’aggregato e la scelta per il sistema, insieme al tema dell’appercezione, cominciavano quindi ad avere un esito più che trascendentale. Nessuna proposizione che possa essere messa al riparo da malintesi e sia interamente determinabile solo mediante altre proposizioni, può essere accolta in filosofia come un principio fondamentale assolutamente primo54.

La giustificazione di una proposizione, poiché avviene tramite altre proposizioni, non può giungere a una piena determinazione. Il principio fondamentale della pensabilità sarà ovviamente una proposizione, da un punto di vista formale. Non può però trarre la sua fondazione alla stessa maniera di una qualsiasi proposizione, il cui senso è ricavato da altre proposizioni in un processo analitico diretto all’infinito. Perché possa valere come principio, un concetto deve essere universalmente valido; per essere universalmente valido deve essere completamente determinato; completamente determinato è soltanto il principio che si determina da sé, non come i concetti e le proposizioni che sono determinati da altri concetti e da altre proposizioni. Ma autodeterminantesi non è allora un concetto, ma la realtà in cui si colloca ogni pensiero, cioè soltanto «un principio determinato interamente per mezzo di se stesso, e certamente l’unico possibile»55. Principio quindi di rappresentabilità come stato originario della coscienza e condizione primitiva della stessa concettualità intesa come un modo della rappresentazione. Si va così anche precisando l’esatta portata del concetto di “riunione” o di “sintesi” per come qui viene elaborato: che non si possa giungere alla fondazione rigorosa della filosofia con la logica della spiegazione, e che a tale scopo serva invece un’altra dimensione principiale, da Reinhold tematizzata nel «principio di coscienza», riformulazione fondazionalistica del precedente tema della rappresentazione56. K. L. Reinhold, Über die Möglichkeit der Philosophie, cit., p. 239, (tr. it., p. 140). Ibid. 56 K. L. Reinhold, Fundament, p. 111, (tr. it., p. 127): «Il criterio del fondamento della filosofia elementare rispetto alla sua materia, è l’evidenza del suo contenuto – immediata, indipendente da ogni ragionamento, possibile tramite la semplice riflessione –, l’impossibilità di scomporre ulteriormente i concetti che espongono originariamente tale contenuto e la natura fattuale delle note di cui questo è composto. Il criterio di tale fondamento, riguardo alla sua forma, è la sua rigorosa sistematicità, l’essere completamente determinato proprio dei suoi teoremi e 54

55

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Ma una volta che si sia ottenuto un concetto rigoroso di filosofia fondando la pensabilità su un principio – non su un concetto ma sullo “stato di fatto” del principio di coscienza, la semplice rappresentatività ancora né teoretica né pratica, – il metodo della scomposizione per genere sommo e differenza specifica diventa utile allo scopo di verificare se la definizione di filosofia, o di concetti attinenti al suo ambito, come quello di storia della filosofia, corrispondano o meno, e in che misura, all’evidenza di quel principio. Si tratta quindi di fare una distinzione rispetto allo stesso metodo, che non è utile e anzi “fuorviante” quando si tratta di fondare la filosofia, e utile quando invece si tratta di verificare sulla base di questa fondazione la distanza o la vicinanza al principio. Sia il “contributo” Sul concetto della filosofia che la lezione accademica Sul concetto di storia della filosofia seguono questo percorso: nel primo, essendo fondativo, emerge soprattutto l’atto del determinare sintetico e la posizione del principio della filosofia nella coscienza, un principio che sebbene sia espresso come una proposizione, dovendo essere ultimo e inequivoco, non deve essere pensato come una proposizione; nel secondo invece le definizioni di storia della filosofia date dai maggiori studiosi dell’epoca vengono confrontate con quella che scaturisce direttamente dalla determinazione del principio: si fa valere come criterio ricostruttivo la differenza tra l’idea di filosofia come autoattività del soggetto rappresentante e quella di filosofia ancora ferma a determinazioni discorsive, soltanto logiche, e quindi poco rigorose. La definizione reinholdiana viene presentata dopo la critica di altre definizioni delle quali si mostra che, essendo legate a un’idea imperfetta di filosofia, sono equivoche, sebbene poi Reinhold stesso almeno parzialmente le recuperi. Ma questa critica è logicamente resa possibile dal fatto che si è già proceduto alla fondazione della filosofia con la messa in problema del procedimento analitico e con l’opzione sintetica per un principio semplice57. E questo spiega il nesso che lega i due saggi in un unico ragionamento. dei suoi corollari a partire da principi fondamentali, e la subordinazione di tutti i suoi principi fondamentali sotto un unico principio. Il criterio dell’unione della vera materia con la vera forma nel medesimo fondamento è l’essere determinato attraverso se stesso del primo principio fondamentale attraverso cui questo riceve il posto di principio fondamentale assolutamente primo fra tutti quelli possibili e tramite cui il fondamento che quel principio esprime riceve la proprietà di fondamento ultimo». Cfr. M. Frank, “Unendliche Annährung”, cit., pp. 225-251; pp. 396-418. 57 Cfr. M. Bondeli, Das Anfangsproblem bei Karl Leonhard Reinhold. Eine systematische und entwiklungsgeschichtliche Untersuchung zur Philosophie Reinholds in der Zeit von 1789 bis 1803, Klostermann, Frankfurt am Main, 1995, pp. 42-64. Secondo Reinhold, anche Kant ha seguito il procedimento analitico, in contraddizione con il proprio concetto di filosofia, cfr. F. C. Beiser, The Fate of Reason, cit., pp. 240-243.

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Avendo posto la differenza tra una fondazione logico-discorsiva e perciò non rigorosa e una fondazione autenticamente sintetica del principio della filosofia, Reinhold può allora scrivere che solo quando lo spirito abbia conseguito un tale concetto di se stesso, può esaminare il prodotto preso per filosofia, può cioè rendere conto a se medesimo se nella produzione di esso abbia seguito solo le sue leggi necessarie ed universali oppure anche gli umori contingenti, dipendenti da circostanze casuali58.

In Sul concetto della filosofia si pone quindi l’esigenza di stabilire quale sia la nota caratteristica della filosofia e vi vengono discusse e confutate definizioni già nella prospettiva della soluzione che Reinhold esplicita soltanto dopo questa rassegna, ma che si affaccia sin dalle prime battute del testo nel chiarimento metodologico di come debba essere concepito il pensiero capace di porsi a principio della filosofia. Il saggio ha così un movimento circolare, che caratterizza anche lo scritto Sul concetto di storia della filosofia, nel quale ugualmente l’analisi demolitoria di definizioni date da esponenti dei vari indirizzi filosofici del tempo precede e giustifica la definizione reinholdiana, implicitamente attiva già in quelle osservazioni. Reinhold ritiene infatti che la gran parte dei filosofi non si siano cimentati con il problema che sorge dal carattere sintetico della determinazione della filosofia, non si siano cioè chiesti che cosa è la filosofia, accettando come un dato di fatto, da ognuno tradotto in tante diverse definizioni, una certa, generica e approssimativa idea di essa, alla quale si sono attenuti. Tutt’altro il suo intento: la cosa più importante è procedere a una determinazione essenziale del concetto di filosofia, cioè porre il tema di una «filosofia della filosofia». Il nesso che Kant aveva stretto tra problema della filosofia e problema della storia della filosofia, e che Heydenreich, Fülleborn e Göss avrebbero investigato, ognuno con una specifica attitudine, già con Reinhold diventava indissolubile. La storia della filosofia non è un oggetto, ma il risultato, logico e quindi anche metodologico, della ricerca speculativa. Cambia in conseguenza degli esiti della ricerca speculativa: e in questo modo è per qualsiasi autentico filosofo una delle sue inevitabili preoccupazioni. Il privilegio accordato da Reinhold alla sintesi nel processo filosofico è di grande importanza, perché l’analisi è l’ambito che sviluppa la non contraddizione, e questa qualifica i concetti di universalità e necessità che appaiono essenziali per determinare il valore di verità del pensiero: lo stesso proce-

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K. L. Reinhold, Über den Begriff der Philosophie, cit., p. 23, (tr. it., p. 12).

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dimento per genere prossimo e differenza specifica appare come un’articolazione costruttiva, ordinata all’efficacia della contraddizione. La polemica di Reinhold è quindi rivolta contro l’idea che non la ricerca filosofica ma la determinazione del concetto di filosofia possa essere svolta con la logica tradizionale della contraddizione, e in senso positivo che di questa si possa fare uso nella «filosofia della filosofia». Scrive infatti: È spiacevole che le regole logiche siano così inutili per la produzione di un concetto corretto, come sono indispensabili per l’esame di quello già prodotto59.

Ma è proprio su tali criteri che si sono basati quei filosofi che nella cultura contemporanea più di altri, se non esclusivamente, si sono posti il problema di determinare il concetto di filosofia. La scena contemporanea della filosofia si divide infatti per Reinhold in due gruppi: i filosofi “popolari”, che fanno dell’individualità il metro del filosofare, non sono attendibili né interessati a sapere in cosa consiste la filosofia, perché qualsiasi cosa venga pensata e sia mediamente accessibile vale per loro già come filosofia, che si richiamino a Locke o a Hume o che si presentino come eclettici; ad esempio, un leibniziano con attitudine lockiana come Feder ritiene abbastanza aver detto che filosofia è ciò che può essere ricavato dal semplice uso della ragione, una definizione che non spiega né cosa significa “ricavare” né cosa sia la “semplice ragione”60. All’eterogeneo campo cui partecipa Feder, si contrappongono i pensatori della miglior tradizione leibniziana, ad esempio Baumgarten, i quali si rendono conto di quanto sia importante determinare il concetto di filosofia perché hanno chiaro come universalità e necessità non si accompagnano a qualsivoglia pensiero prodotto dal “sano intelletto umano” e che invece la filosofia deve essere appunto l’ambito dei pensieri necessari e universali; tuttavia, come vedremo, se per un verso comprendono che questo significa aprire l’ambito dell’a priori, per l’altro procedono in questo con la logica formale della contraddizione, una logica che la Critica ha dimostrato inefficace nell’ambito delle ricerche speculative. Sia la corrente leibniziana che quella popolare sono presenti, con questi e altri protagonisti, anche in Sul concetto di storia della filosofia, dove il discorso, riguardando la determinaIvi, p. 21, (tr. it., p. 11). Ivi, pp. 27-28, (tr. it., pp. 15-16). Cfr. anche Fundament, pp. 54-55, (tr. it., pp. 95-96). Sul rapporto di Reinhold con la filosofia popolare e sui punti di forza di quest’ultima, cfr. G. di Giovanni, Freedom and Religion in Kant and His Immediate Successors, Cambridge University Press, Cambridge, Mass. 2005, pp. 42-60. 59 60

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zione del concetto di storia della filosofia, riflette quanto detto sui modi della determinazione di quello della filosofia. È ovviamente più interessante discutere la posizione dei leibniziani che non quella dei “popolari”, che nel testo reinholdiano da noi tradotto si meritano un certo spazio, ma più come fattore di disturbo e come fenomeno di crisi culturale. Il problema della determinazione del concetto di filosofia coincide con «una delle grandi questioni su cui finora nel mondo filosofico non è stato deciso assolutamente nulla» e cioè la differenziazione tra «ciò che è puramente razionale», perché presente nella conoscenza «in virtù dell’autoattività [Selbsttätigkeit] della ragione», e i contenuti che provengono dall’impressione sensibile. Anche coloro che come i leibniziani si pongono tale problema, ritengono che per filosofia si debba intendere l’ambito delle ragioni sufficienti, cioè dei fondamenti senza i quali non c’è pensare. Ma il concetto di ragion sufficiente appare a Reinhold più un modo di esprimere il problema della razionalità pura che non la sua soluzione, perché si tratta appunto di stabilire quando un concetto vale come ragione sufficiente. Una questione che si trova al centro di ogni dibattito sia di tipo gnoseologico, perché ad esempio sulla possibilità di indicare ragioni sufficienti si dividono e si contrappongono scettici e dogmatici; sia di visione generale, perché sull’identificazione delle ragioni sufficienti nella divinità o nella natura si dividono e si contrappongono teisti e spinoziani61. Ma in generale questa appare a Reinhold una nozione assai incerta. Ad esempio, gli sembra evidente che occorra specificare che per essere sufficiente una “ragione” deve essere determinata come “principio”, cioè come quella ragione assolutamente sufficiente da cui si sviluppano tutte le altre, relative, che a quella devono la loro derivata “sufficienza”. Ma una ragione sufficiente può, per definizione, essere assolutamente tale? Sebbene non gli sia del tutto sfuggita, questa determinazione non è però fatta valere in modo sistematico da un wolffiano come Baumgarten. La discussione circa il significato determinato di filosofia si riassume quindi in quella sulla determinazione della nozione di ragion sufficiente. Sullo statuto del concetto di ragion sufficiente recentissima e ancora in corso era la polemica tra Kant e Eberhard62, qui citata con l’allusione ai “filosofi di primo rango”, nella cui disputa Reinhold dice di non voler entrare, mentre in realtà vi partecipa con due affermazioni di rilievo, dapprima in senso kantiano ricordando che dire sufficiente una ragione non significa aver detto perché lo è; e poi proponendo la sua soluzione come superiore ai termini della K. L. Reinhold, Über den Begriff der Philosophie, pp. 28-29, (tr. it., p. 18). I. Kant, Über eine Entdeckung, nach der alle neue Kritik der reinen Vernunft durch eine ältere entbehrlich gemacht werden soll, cit., pp. 226-251, (tr. it. cit.). 61

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disputa, in quanto capace di integrare entrambe le posizioni. Si tratta di una scelta scaturita da una questione di metodo: Reinhold ritiene che la sua definizione di filosofia può essere difesa come vera soltanto se riesce ad assorbire quanto di autentico ma incompleto era presente nelle definizioni precedenti. È questo un criterio che sarà presente nella lezione Sul concetto di storia della filosofia perché la “vera filosofia” si dimostra tale se riesce anche a giustificare quanto di razionale è riscontrabile nelle filosofie pre-critiche. Le risposte tradizionali al problema di quale carattere rende sufficiente una ragione rinviano ai concetti di universale e necessario, e a loro volta questi vengono basati sul principio di contraddizione. Per accertare il grado di determinatezza di queste definizioni, che riflettono sul piano storico diverse posizioni teoriche, si deve quindi valutare la possibilità che la contraddizione riesca a distinguere sufficiente da non sufficiente. Per Reinhold però il principio di contraddizione non ha questa forza, ed è anzi il prestigio tradizionale della sua autorità a bloccare in una impasse anche quei filosofi, come i leibniziani, che veramente hanno compreso quanto occorresse una modificazione del punto di vista filosofico generale per riuscire a determinare che cosa è la filosofia. È loro infatti la scoperta speculativa decisiva: i caratteri di universalità e di necessità che debbono caratterizzare i principi del pensare devono essere cercati nella predisposizione del soggetto conoscente, «nella natura del soggetto rappresentante, la quale precede ogni esperienza»63. Da qui la definizione “leibniziana” di filosofia come «scienza di ciò che è conoscibile a priori»64. Con Leibniz si comprende quindi che le ragioni sufficienti, necessarie e universali, vanno cercate nel “rappresentante” (una soluzione ovviamente congeniale a chi aveva teorizzato la “filosofia della rappresentazione”) e che il perché del pensiero si trova soltanto dentro il pensiero stesso, anteriormente alla costruzione di quel contesto di ragioni relative e ipotetiche che forma il mondo dei concetti empirici: Di ciò che è assolutamente necessario non si può indicare nessuna ragione, dal momento che ogni ragione ultima deve stare in ciò che è assolutamente necessario. Ciò che è fondato nella stessa forza del pensiero, deve però essere pensato in modo assolutamente necessario. La sua ragione risiede nella sua semplice pensabilità. Esso viene pensato perché pensabile; viene pensato così e non altrimenti perché è pensabile così e

63 64

K. L. Reinhold, Über der Begriff der Philosophie, p. 35, (tr. it., p. 24). Ivi, p. 34, (tr. it., p. 24).

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non altrimenti; ed è pensabile così e non altrimenti perché è determinato così e non altrimenti nella natura del pensiero65.

Eppure, secondo Reinhold, questa definizione della filosofia come «scienza di ciò che è conoscibile attraverso la semplice ragione solo nella misura in cui è scienza di ciò che è conoscibile a priori»66, manca ancora di una nota essenziale e ne è resa di conseguenza non del tutto determinata. Se infatti ci chiediamo in cosa consista per i leibniziani la pensabilità come tale, cioè che cosa è a priori, la loro risposta consiste nel sostenere che a priori è il pensiero universale e necessario, e se si chiede che cosa sono queste determinazioni logiche del pensiero, essi rispondono che sono a priori, in «un circolo dal quale nessun seguace di questa filosofia può tirarsi fuori»67. Che cosa si segnala in questa circostanza? Il limite di un approccio soltanto logico al tema della determinazione della pensabilità e quindi del concetto di filosofia, un limite che soltanto in parte lo stesso Kant ha illuminato e superato con la “rivoluzione copernicana” della riflessione argomentativa sulla ragione. Questo si fa evidente soprattutto nel caso di Wolff, per il quale necessario è quanto non si contraddice, ciò il cui contrario è contraddittorio; che è necessario, universale e quindi a priori. La tradizione leibniziana continua a stringere classicamente in un nodo questi tre concetti, e nonostante il suo rinnovamento rimane ferma alla definizione di filosofia come scienza di ciò che è necessario e universale. Per mostrare come con il riferimento alla contraddizione non si è determinato il concetto né di necessario, né di universale, né di a priori, Reinhold chiarisce che la non contraddizione non assicura la realtà né la fondazione di una definizione, perché è piuttosto la conseguenza delle coordinate date nel concetto, cioè delle note che sono state connesse nella definizione stessa: non quindi il principio su cui erigere la scienza della pensabilità, dal momento che i concetti di universale e necessario scaturiscono come un esito della definizione, il cui valore è del tutto riposto nel concetto stesso, comunque sia costruito. Non si può sopperire al deficit di verità oggettivo di un concetto con lo strumento della contraddizione, non si può usare questo per misurare la verità di quello, perché la contraddizione trae facilmente in inganno, come per Kant il ragionamento apagogico, in quanto può essere condotto verso qualsiasi apparente dimostrazione. Così, se al concetto di cavallo alato riferisco la nota del non alato, questo diventa contraddittorio ma senza tale riferimento non diven65 66 67

Ivi, p. 35, (tr. it., pp. 24-25). Ivi, p. 36, (tr. it., p. 25). Ibid.

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ta necessario68; ogni arbitrarietà nella costruzione del concetto si potrebbe tramutare facilmente in necessità e quindi in universalità, se davvero la non contraddizione fosse il criterio ultimo della pensabilità. Bisogna piuttosto ammettere che nel giudizio i predicati sono necessari non per il fatto che il loro contrario contraddice il loro soggetto; il loro contrario contraddice invece il loro soggetto, dal momento che questo soggetto viene pensato mediante un predicato contrario.

La necessità quindi deve trovarsi nell’atto stesso della determinazione del concetto, essendo la non contraddizione una conseguenza che deriva da questa determinazione sintetica e non viceversa. Necessità o vera sufficienza, e non contraddizione non sono allora la stessa cosa: Il fondamento dell’atto del riunire è pertanto ciò che contiene il fondamento della contraddizione del contrario e quindi della necessità69.

Viene prima la sintesi e poi la contraddizione, che soltanto il tipo di fondazione della sintesi può garantire non illusoria. La nota della contraddizione è infatti posta con ogni concetto, a prescindere dal fatto che la riunione di note da esso operata sia contingente, arbitraria o in effetto necessaria. Indicare la non contraddizione non significa quindi aver mostrato la necessità di un concetto e meno ancora di un principio. Per la determinazione del concetto di a priori, aver detto da parte dei leibniziani che esso consiste nelle ragioni sufficienti, specificando che sufficiente è ciò che nel pensiero è necessario e universale perché non contraddittorio, non comporta alcuna vera determinazione perché «la pensabilità non è [dunque] derivabile direttamente dall’assenza di contraddizione»70. Sebbene soltanto Kant – da grande ex leibniziano – abbia indicato il limite cui si ferma anche la migliore delle filosofie pre-critiche, era all’incapacità della filosofia leibniziana che andavano attribuite in ultimo alcune attitudini prevalenti, e certo non positive, nella cultura filosofica: La filosofia assumeva nei manuali la forma della storia, nella misura in cui si allontanava dalla forma della scienza rigorosa. Nella logica, avere rappresentazioni in generale veniva scambiato con pensare71. Reinhold sta polemizzando con la teoria analitica della sintesi a priori sostenuta da leibniziani come Maas, cfr. F. C. Beiser, The Fate of Reason, cit., p. 200. 69 K. L. Reinhold, Über den Begriff der Philosophie, cit., pp. 31-32, (tr. it., p. 21). 70 Ivi, p. 32, (tr. it., p. 21). 71 Versuch, p. 10, (tr. it., p. 40); anche Über den Begriff der Philosophie, p. 74, (tr. it., p. 44). 68

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Una prova di questa difficoltà del tentativo leibniziano si trova nell’incapacità – segnalata nel caso di Platner, un altro dei pensatori discussi anche in Sul concetto di storia della filosofia – di distinguere ciò che è assolutamente necessario da ciò che lo è in senso relativo e ipotetico, essendo entrambi i campi ugualmente non contraddittori. È chiaro che la filosofia deve contenere soltanto ciò che è necessario e universale come fondamento della pensabilità, ma queste sue note non possono essere determinate in modo soltanto logico. Il fatto che anche la tradizione leibniziana, cioè quella più attenta al problema di che cosa è la filosofia, e a quello conseguente di che cosa è la sua storia, sia rimasta bloccata nell’aporia di cercare nella logica della contraddizione una necessità e universalità che invece scaturiscono soltanto dalla realtà del soggetto rappresentante, permette a Reinhold, una volta fatti i conti anche con i filosofi popolari, di affermare che il suo tempo avverte il bisogno, sempre più urgente, di una «filosofia della filosofia»72, o di una «filosofia senza appellativi» come dirà anche in Sul concetto di storia della filosofia, e quindi di una «filosofia elementare»73. Quanto precede serve quindi a stabilire il valore fondazionalistico, altrimenti non bene percepibile, dato da Reinhold alla propria determinazione del concetto di filosofia: La filosofia è la scienza di ciò che è determinato attraverso la semplice facoltà rappresentativa74.

È chiaro che come prodotto dello spirito essa «non può realizzarsi improvvisamente» e anzi il momento in cui si riesce a porre «la forma essenziale della filosofia», cioè il suo concetto determinato, deve essere per forza di cose preceduto da un lungo periodo di «molteplici tentativi falliti». Questi tentativi vengono chiamati filosofia, sebbene in effetti possano rientrare nel «suo contenuto solo dopo una loro elaborazione completa», cioè nella misura, ancora da verificare, in cui siano riassumibili entro il punto di vista della «filosofia della filosofia». Si mostra di nuovo qui l’idea “kantiana” di una possibile utilizzazione dei materiali storici della “filosofia” nell’ambito dei lavori teorici resi possibili dal vero inizio della storia della filosofia, segnato dalla Critica. Sul fatto che si cercassero ragioni dove per essenza non ve ne sono senza la ragione della filosofia, cioè nella diversità degli studi storici, annuncio quasi della malattia storica moderna, si era già soffermato Reinhold nelle Lettere. 72 Ivi, p. 44, (tr. it., p. 33). 73 Ivi, p. 59, (tr. it., p. 47). K. L. Reinhold, Briefe über die Kantische Philosophie, II, cit., p. 178. 74 K. L. Reinhold, Über den Begriff der Philosophie, p. 46, (tr. it., p. 35).

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Ma si mostra anche un altro lato del procedimento reinholdiano. Le definizioni di coloro che si sono posti il problema di determinare la filosofia, non si sono rivelate sbagliate: per quanto “tentativi”, hanno messo in luce una serie di concetti, ad esempio quello, ora considerato, di necessario come a priori, che indicano caratteristiche effettive della filosofia; ad alcuni di essi, sorti soprattutto in ambito leibniziano, è mancato l’ultimo passo verso una fondazione radicale, passo che avrebbe richiesto la «rivoluzione di tutti i nostri concetti filosofici avuti finora», rivoluzione già in corso «attraverso la ricerca critica delle facoltà conoscitiva e rappresentativa», da cui dovrà emergere un concetto di filosofia del tutto nuovo, libero dalle mancanze che hanno caratterizzato i concetti avuti finora, nella misura in cui se ne differenzia75.

Questo significa che occorre procedere in modo del tutto diverso da quanto fatto soprattutto dai “filosofi popolari” con il loro eclettismo. Ma si tratta di intendersi il più chiaramente possibile anche rispetto a quelle filosofie che più di altre si sono poste il problema della definizione di filosofia, perché la differenza risalti con la massima precisione. Il criterio della “formula”, o della definizione, che è seguito da Reinhold in Sul concetto di storia della filosofia, non ha quindi una funzione didascalica, ma corrisponde a una precisa motivazione teorica, che già in parte aveva avuto spazio nel Saggio, dove per la prima volta era stato annunciato con chiarezza: «Fin quando una formula ammette, senza fare violenza all’uso linguistico, più di un significato, è sicuro che essa non è un primo principio fondamentale valido universalmente»; si tratta di «espressioni di concetti non ancora analizzati nei quali o sono ammesse note che non vi rientrano oppure sono tralasciate note essenziali»76. Questa rivoluzione mantiene con quei concetti e con quei tentativi l’importante rapporto che si mantiene con ciò da cui ci si differenzia, e che in quanto tale può fornire la prospettiva, indicata dalla svolta critica e, con strategia più radicale, anche dalla “filosofia elementare”, della sua giustificazione negativa, soprattutto quando quei concetti incrociano, sia pure in modo inadeguato, le effettive questioni in gioco nella fondazione della filosofia come scienza. Ma come già si era chiarito nelle Lettere, questo tipo di rapporto esclude la possibilità di una “anticipazione” aprioristica dei risultati della “filosofia elementare” in filosofie incubatrici della natura razionale progressivamente

75 76

Ibid. Versuch, p. 124, (tr. it., p. 91).

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sviluppatasi sino a diventare piena acquisizione, perché per ogni criticismo è essenziale ritenere che la ragione o è nella prospettiva della trascendentalità o non lo è, e se non conquista questa posizione, ha un’importanza secondaria se l’esteriorità in cui prima di allora si muove cade più vicina o più lontana da quell’unico ambito che la fa essere: per questo motivo, Reinhold conclude kantianamente che o si è nella filosofia o si rimane esterni ad essa. L’idea “hegeliana” di una maturazione finalistica dell’identico nell’apparenza della sua diversità è qui esclusa dal senso di radicale apertura che la svolta trascendentale compie. Non è invece esclusa una maturazione non finalistica, e quindi non teleologicamente rappresentabile, quale messa in opera delle diverse possibilità di autocomprensione della ragione nella fase in cui il carattere rappresentativo del suo operare non viene colto con tutti i suoi requisiti; come laboratorio storico-teorico di possibili soluzioni, questo passato concorre alla svolta “rappresentativa” ed “elementare”, nella misura in cui negativamente la indirizza verso l’unico esito vero, con il quale la filosofia come “sistema” ha inizio mentre si esaurisce il suo andamento storico77. Con questa idea, Reinhold ritiene di riuscire a comporre ogni dissidio nel mondo filosofico perché la sua definizione può mantenere la propria unicità, pur inglobando all’interno della nuova formulazione della filosofia come scienza della “facoltà della rappresentazione” quanto di “razionale” c’era nelle definizioni precedenti, liberandole allo stesso tempo dalla loro zavorra “logica”; ed è inoltre convinto di assicurare così la “pace filosofica” perché la sua definizione dimostra di possedere carattere sistematico in quanto impedisce che sorgano ancora problemi irrisolvibili, secondo l’insegnamento kantiano circa la specifica razionalità non conclusiva della metafisica come scienza “reale”. Anche in Sul concetto di storia della filosofia Reinhold segue lo stesso schema, dettatogli dalla strategia con cui è giunto alla “filosofia elementare”. Questa storia è l’insieme dei “tentativi” di definire in cosa consiste la filosofia. Ma come si è filosofato senza chiedersi che cosa la filosofia dovesse essere, così la storia della filosofia è stata scritta coinvolgendo in essa qualsiasi materiale che in un modo o nell’altro avesse a che fare con quelli che tradizionalmente si consideravano i problemi filosofici, quelli di Dio, del mondo e dell’anima. Le definizioni di storia della filosofia che erano state date non potevano quindi essere mirate al giusto compito, perché prive della stessa idea determinata di filosofia: Cfr. M. Heinz, Untersuchungen zum Verhältnis von Geschichte und System der Philosophie in Reinholds Fundamentschrift, in Philosophie ohne Beynamen, hrsg. von M. Bordeli und A. Lazzari, Schwabe, Basel 2004, pp. 334-346. 77

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Nel concetto rimasto sin’ora del tutto indeterminato di filosofia sta il motivo principale del perché anche il concetto di storia della filosofia è rimasto ancora oggi non meno ambiguo e incerto, e anche del perché si è confusa l’autentica storia della filosofia ora con la storia dello spirito umano, ora con la storia delle scienze in generale, ora con la storia di singole scienze filosofiche, ora con la storia della vita e delle opinioni dei filosofi 78.

La filosofia è invece la scienza della “facoltà della rappresentazione”, e quindi la scienza che precede e fonda ogni altra scienza particolare, anche ogni altra particolare scienza filosofica. Per i motivi teorici chiariti in Sul concetto della filosofia, Platner e Feder mancano di tale consapevolezza e quindi non riescono a imprimere alla loro opera storiografica un’impostazione determinata: come oscilla la loro idea di filosofia, così confondono il genere della sua storia con generi soltanto affini. Ed è intenzione di Reinhold mostrare come dopo Kant, la cui Critica discrimina gli autentici contenuti filosofici, sia impossibile continuare a procedere in modo casuale, come rispetto alla stessa nozione di filosofia fanno i filosofi “popolari”: Non ogni tipo di rappresentazione, che un uomo ha avuto realmente o presuntivamente, il quale a torto o a ragione ha ricevuto il nome di filosofo, appartiene alla storia della filosofia; altrimenti ogni banale alzata d’ingegno dovrebbe appartenervi, perché l’uomo che l’ha avuta è stato annoverato tra i filosofi da un qualche scrittore, ad esempio da Diogene Laerzio, malgrado che egli in effetti avrebbe meritato di essere nominato soltanto tra i matti. Possono aspirare ad avere un posto nella storia della filosofia soltanto quei tipi di rappresentazione di singoli uomini, che in modo mediato o immediato concernono la ricercata connessione delle cose, coincidono con la filosofia come scienza, e ammettono un significato propriamente filosofico, e di conseguenza razionale79.

Non ci si può accontentare di una generica definizione, come quella che si incontra nel «filo conduttore» scelto per il corso accademico che Reinhold stava inaugurando, cioè il manuale del «signor Gurlitt», il quale parla soltanto di certi concetti e di conoscenze sugli uomini, il mondo e la divinità, che costituirebbero i contenuti della filosofia. Egli sembra così presupporre, e certamente a buon diritto, che non tutti i concetti e le conoscenze dei sunnominati oggetti appartengono alla filosofia. Soltanto che anche nella sua definizione non è contenuto alcun cenno sulle conoscenze, concernenti la divinità e così via, alle quali egli attribuisce il 78 79

K. L. Reinhold, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 244, (ted., p. 227). Ivi, p. 247, (ted., p. 237).

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privilegio di essere autenticamente filosofiche. La sua definizione non è quindi in nulla più determinata di quella antica di Cicerone: la filosofia sarebbe la scienza delle cose divine e umane e delle cause per le quali queste cose sarebbero connesse. Sia Gurlitt che Cicerone confondono la filosofia con il compendio [Inbegriffe] di tutte le scienze, e dai loro concetti non si lascia indicare perché, ad esempio, la logica debba appartenere alla filosofia più della geografia o della conoscenza dei popoli. Le informazioni positive [historischen] sugli uomini e il mondo che ci dà la storia, se la definizione di Gurlitt contenesse il vero concetto di filosofia, meriterebbero il nome di questa scienza molto più appropriatamente dell’ontologia, che non si occupa tanto della divinità, del mondo e degli uomini quanto invece dei più generali predicati delle cose80.

Come nota Braun, si manifesta qui l’idea che «la storia della filosofia non può più ormai essere una somma o un insieme – ciò che designa il termine Inbegriff»81, non può più essere un riassunto ma una parte dello stesso lavoro scientifico della filosofia. Anche in questo contesto Reinhold riconosce la superiorità della filosofia leibniziana, la quale, a differenza delle altre, si pone il problema della filosofia e quindi anche problematizza la questione della sua storia: La definizione di alcuni sostenitori della scuola leibnizio-wolffiana, la quale lascia consistere la filosofia nella scienza delle ragioni sufficienti, mi appare certamente giungere più vicino alla verità, ma aver mancato altrettanto il concetto determinato che essa doveva esprimere. In tale definizione infatti la filosofia non viene distinta abbastanza dalla storia, la quale anch’essa presenta ragioni sufficienti82.

Segno di un confronto della cui importanza i testi dei Contributi esaminati precedentemente, e in particolare quello Sul concetto della filosofia, ci hanno fatto comprendere le ragioni. Chi però crede di aver distinto in maniera adeguata le ragioni sufficienti di tipo filosofico da quelle storiche, perché chiama le prime ora innate, ora determinate a priori, ora assolutamente necessarie, dimentica che le sue spiegazioni presuppongono come noto e assodato esattamente ciò attorno al quale verte la questione e su cui si dibatte, proprio perché manca un criterio riconosciuto di tutte queste note83.

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Ivi, p. 241, (ted., pp. 214-215). L. Braun, Histoire de l’histoire de la philosophie, cit., p. 226. K. L. Reinhold, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 240, (ted., p. 213). Ivi, p. 241, (ted., p. 213).

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

La critica alla filosofia leibniziana e wolffiana elaborata in Sul concetto di filosofia ritorna quindi con gli stessi argomenti anche in questo saggio, dove vengono riassunte tutte le principali questioni già trattate nel testo di apertura dei Contributi, inclusa quella su cui non ci soffermeremo di una «nuova suddivisione della filosofia»84: solo che qui tale ripresa è fatta nell’ottica di preparare la dimostrazione di come dalla “filosofia elementare” non solo tutte le scienze filosofiche particolari traggano un concetto determinato di se stesse85, ma anche la storia della filosofia, la cui nozione, bisognosa come ogni altra di chiarimento e precisione, viene invece lasciata indeterminata nei manuali più celebri del momento86. Soltanto la «filosofia elementare» come «filosofia della filosofia» può determinare il concetto della storia della filosofia, che può trovare adesso, in un quadro teorico di per sé già post kantiano, la forma di una trattazione rigorosa: Noi potremo presentare uno storiografo della filosofia [Geschichtschreiber der Philosophie] soltanto quando avremo una filosofia senza appellativi [eine Philosophie ohne Beynahmen], una filosofia κατ′εξοχην, una filosofia che abbia soppiantato tutte le filosofie e si stabilisca su fondamenti compresi universalmente come validi87.

K. L. Reinhold, Über den Begriff der Philosophie, pp. 62-65, (tr. it., pp. 50-53). K. L. Reinhold, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 243, (ted., pp. 222-223): «L’appropriatezza di una definizione deve darsi conferma tramite la propria fecondità; e la fecondità della nostra non può attualmente mostrarsi in una luce più chiara, se non in quanto noi possiamo dedurre dai concetti esposti della filosofia in generale, i concetti delle scienze filosofiche finora conosciute, la qual cosa non si verifica per nessuna attuale definizione. La definizione corretta della filosofia in generale deve contenere la nota del genere, la quale si adatti a tutte le cosiddette parti della filosofia come alle sue specie; deve essere adeguata in una stessa comune maniera alla logica, alla metafisica, alla fisica e alla morale, e da essa deve potersi comprendere perché e in virtù di cosa tutte queste scienze portano il nome di filosofia». 86 Karl Ameriks ritiene che il ruolo eminente di Reinhold nella filosofia post-kantiana sia consistito nell’aver proposto una via mediana tra il mero storicismo herderiano, cui aderiva inizialmente, e l’astoricismo che si trovava ancora di fronte nella logica e ontologia ecletticowolffiana. Il saggio Sul concetto di storia della filosofia appare ad Ameriks fondamentale sia per lo sviluppo del pensiero reinholdiano che in generale per la storia immediatamente seguente della filosofia tedesca: ad esempio, molto dice circa il giudizio hegeliano su Reinhold nella Differenzschrift. Tuttavia, proprio perché per il suo argomento tocca nel modo più diretto il problema del rapporto tra la storia e la filosofia, e quindi quello dell’autonomia della ragione rispetto alla propria esperienza, il saggio evidenzia anche la contraddizione e lo stato non compiutamente elaborato del pensiero reinholdiano, cfr. K. Ameriks, Kant and the Historical Turn. Philosophy as Critical Interpretation, cit., pp. 196-206. 87 K. L. Reinhold, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 248, (ted., p. 241). 84

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E come in Sul concetto della filosofia, anche in Sul concetto di storia della filosofia, a una prima pars destruens segue una pars construens, nella quale secondo il metodo definitorio del genere prossimo e della differenza specifica – adesso ridimensionato e quindi di nuovo utilizzabile – Reinhold si sofferma a stabilire in che cosa consista la storia della filosofia, distinguendone il concetto da quelli di altri tipi di costruzione storica di ambito culturale e filosofico.

3. Una storiografia senza cronologia. Grohmann e l’influenza di Fichte Johann Christian August Grohmann interviene nella discussione sul problema della storia della filosofia con due saggi, Sul concetto della storia della filosofia e Cosa significa: storia della filosofia?88, scritti tra il 1797 e il 1798. L’interesse per questo tema non occupa che una breve fase nell’attività di questo studioso, caratterizzatosi in seguito soprattutto per ricerche di psicologia e fisiognomica, discipline delle quali è stato uno dei fondatori moderni. Il suo ruolo in questo dibattito non è però marginale. La vicenda di Grohmann è anzi particolarmente significativa, perché con quei suoi due scritti partecipò all’ampio fenomeno di transizione dal kantismo alla “Dottrina della scienza” di Fichte, che allora era in corso. Si tratta di un movimento a cui non fu estraneo per un breve momento neanche Reinhold, nel rapidissimo volgere di posizioni che si concluderà nell’adesione all’oggettivismo logico di Bardili89. Ma l’esperienza di Grohmann ha un valore particolare 88 J. Ch. A. Grohmann, Über den Begriff der Geschichte der Philosophie, Kühneschen Buchhandlung, Wittenberg 1797. Questo è il testo che viene tradotto nell’appendice al presente volume, d’ora in avanti citato come Sul concetto di storia della filosofia; l’altro scritto di Grohmann su questo argomento è Was heisst: Geschichte der Philosophie?, in “Neue Beyträge zur kritischen Philosophie und insbesondere zur Geschichte der Philosophie”, V, pp. 191-203. 89 Bardili è ormai noto soprattutto per il cattivo ricordo che ne hanno lasciato Schelling ed Hegel, che lo avevano avuto insegnante allo Stift di Tübingen. In realtà si tratta di un personaggio molto complesso, che partecipa anch’egli al dibattito sulla storia della filosofia con un testo importante, già soltanto per la data, molto vicina a quella degli interventi di Reinhold e Fülleborn, che rivela una certa sensibilità: cfr. C.G. Bardili, Giebt es für die wichtigsten Lehren der theoretischen sowohl als praktischen Philosophie, ungeachtet allen Widersprüche der Weltweisen, doch noch gewisse allgemeine brauchbare Kennzeichen der Wahrheit? Stuttgart 1791. In questo breve testo, Bardili verifica i risultati della filosofia kantiana mettendoli a confronto con alcune osservazioni tratte dalla storia mondiale. Il suo interesse per la storiografia è anche pratico: lo stesso anno curava infatti una non ben riuscita edizione di Pomponazzi, Petri Pomponatii Mantuani Tractatus de immortalitate animae. Collatis tribus editionibus denuo edidit, et quae de Philosophis, post Scholasticorum aevum in Italia claris, de vita Auctoris, librique argumento notatu digna sunt adjecit, M. C. G. Bardili, Philos. Prof. P. O., Cotta, Tübingen

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rispetto ad altre, perché il suo transito maturò all’interno di una riflessione su un problema specifico, quello della storia della filosofia, e non sul piano immediatamente “teoretico” della filosofia della coscienza, con cui Fichte riteneva di aver soddisfatto il bisogno del criticismo – un bisogno non più negato neanche dai kantiani – di farsi padrone delle proprie autentiche, ma inespresse, premesse. Già il fatto di essere tornato sullo stesso tema nel giro di pochi mesi, può essere interpretato come un segno della repentinità con cui il passaggio oltre il criticismo si andava imponendo alla riflessione di questo studioso. I due testi sono assai simili – addirittura con gli stessi esempi e con ampi brani trasposti dall’uno all’altro – tranne che per un punto, che da solo rende storiograficamente interessante la loro successione; punto in virtù del quale a cambiare è l’identificazione della vera filosofia – che deve essere presupposta alla comprensione storiografica – non più con la “Critica” ma con la “Dottrina della Scienza”. Analizzeremo allora soprattutto il primo scritto, limitandoci per il secondo a evidenziare soltanto i motivi di questo riposizionamento. Questi testi quasi dimenticati meritano una certa attenzione anche perché presentano, credo per la prima volta in modo esplicito, una serie di considerazioni che accompagneranno l’intera esperienza dell’idealismo, soprattutto hegeliano, nel suo rapporto con la storia. Il punto di partenza del saggio Sul concetto di storia della filosofia consiste in una distinzione di ordine teorico; si danno, scrive Grohmann, due possibili forme di elaborazione: il sistema e il metodo; la forma della conoscenza è 1791, (cfr. la recensione sulla “Allgemeine deutsche Bilbiothek”, Bd. 109, erstes Stuck, 1792, pp. 158-160). Ma il testo più importante, anche per la storia intellettuale di Reinhold, è il Grundriss der Ersten Logik, gereiniget von den Irrthümern bisherigen Logiken überhaupt, der Kantischen insbesondere; keine Kritik sondern eine Medicina Mentis, brauchbar hauptsachlich für Deutschlands Kritische Philosophie, Stuttgart 1800 (ora anche Aetas Kantiana, 80). Bardili vi afferma che la logica è rimasta «una concrescenza eteronomica di materia e forma, persino nelle sue presunte leggi pure del pensiero». Per questo motivo, ritiene necessario cercare «il prius della logica», che non è un principio soltanto logico ma l’antecedente reale del valore di conoscenza della logica, che in tal modo diventa metafisica. Bardili tenta quindi di dare una connotazione oggettiva alla logica, perché se non si riesce in questo tentativo, non è possibile né una logica né una filosofia. Come spesso avviene in Hegel, i pensatori che più contesta sono anche quelli da cui più trae, e questo vale anche nel caso di Bardili, cfr. K. Rosenkranz, Vita di Hegel, Mondadori, Milano 1974, p. 168. Sul fronte kantiano, la replica a Bardili arriva da Jaesche, nell’introduzione alla Logica di Kant, che egli cura; contro il Grundriss der Ersten Logik, Jaesche critica il tentativo di Bardili di indicare il prius del pensiero logico, cioè il principio materiale del pensare che ne farebbe antikantianamente una conoscenza e non un catartico del pensare, nell’infinita ripetibilità del pensiero identico e nel metodo del calcolo dei pensieri (“Vorrede” a I. Kant’s Logik, cit., p. 9). Cfr. anche M. Capozzi, La logica di Kant, cit., pp. 142-143.

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scientifica quando adegua il proprio contenuto, ed è questo il caso del «sistema». Quando invece gli oggetti vengono raggruppati per generi attorno a «un’unità comparativa», e in base ad essa si costruiscono classi di oggetti simili, aventi le stesse tendenziali caratteristiche, si ha invece una conoscenza per «metodo», che non è scientifica in senso pieno; infatti l’unità comparativa del metodo non adegua mai il proprio contenuto, perché rispetto a ognuno degli oggetti della sua indagine rimane approssimativa90. Ne risulta che soltanto la conoscenza riguardante le forme stesse della conoscenza può essere sistematica, e quindi che soltanto la filosofia può essere «scienza»; invece, la conoscenza relativa all’esperienza, e cioè tutta quella al di fuori della filosofia, sia naturale che storica, può essere al massimo metodica91. Quest’ultima è allora il tipo della conoscenza progressiva, empirica e quindi sempre formalmente incompiuta92. Questa premessa serve a Grohmann per porre in modo analitico i termini della contraddizione di cui soffre il concetto di storia della filosofia, che in quanto storia deve ammettere diversità e cambiamento, ma in quanto filosofia dovrebbe invece consistere in un sapere sistematico e definitivo93. La materia della storia della filosofia è infatti composta di «sistemi», e un sistema, in quanto «intero assoluto e insuperabile che, astratto da ogni contenuto materiale, è costituito dalla connessione stabile e immodificabile di tutto ciò che sta all’interno dell’intero stesso»94 non può essere trattato secondo le regole sintetiche del «metodo», che implica sempre la relativizzazione ad altro95. Il 90

22).

J. Ch. A. Grohmann, Sul concetto di storia della filosofia, infra, pp. 247-277, (ted., pp. 12-

Ivi, pp. 279-280, (ted., pp. 26-28). In entrambi i saggi, Grohmann determina il concetto di storia della filosofia distinguendolo da quella della storia generale, ovvero della storia ordinaria, la cui definizione è uno degli aspetti più importanti della sua riflessione. In questo senso, accenniamo soltanto al fatto che solo un anno dopo Grohmann scriverà un saggio dal titolo assai significativo: In che misura la storia può essere una scienza?, un tema in effetti presente già in questi due lavori. 93 J. Ch. A. Grohmann, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 272, (ted., pp. 5-6): «Credo perciò che una ricerca condotta a partire dalle fonti del problema è quindi necessaria e che soltanto essa può confermare o smentire quanto è stato detto circa la possibilità di una forma più sistematica e più scientifica della storia mondiale come anche della possibilità di una storia a priori della filosofia. Credo anche che soltanto in questo modo si può determinare con pura certezza quale forma di trattazione debba avere la storia della filosofia, secondo il suo concetto determinato». 94 Ivi, p. 273, (ted., p. 7). 95 Ivi, p. 274, (ted., pp. 9-10): «Al metodo una forte unità universale serve per così dire da ideale, secondo il quale esso tratta il particolare, il contenuto d’esperienza […]. L’unità generale comparativa, che è astratta dall’esperienza, o che è quasi lo schema del puro concetto e della sensibilità, procura soltanto la mediazione, affinché qualcosa di particolare possa essere 91

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problema della storia della filosofia riguarda quindi quale statuto assegnare a una disciplina il cui contenuto è rappresentato da un molteplice che è allo stesso tempo necessario96. Tra queste contraddizioni si comincia a profilare l’idea di un oggetto, cui compete un connotato di storicità sui generis. Secondo Grohmann, che per Lucien Braun è stato il più rigoroso dei kantiani97, soltanto la prospettiva trascendentale permette di capire in che cosa un «sistema» possa essere diverso dall’altro, e quindi perché è possibile una molteplicità di «assoluti», che è la peculiarità di questa storia98. All’origine di ogni filosofia si colloca l’intuizione fondamentale di una specifica «categoria» o modalità della ragione: quella che Grohmann definisce una «facoltà rappresentativa pura» e la connessione tra facoltà. Tranne Kant, ogni filosofo ha interpretato la realtà a partire da una sola di queste possibilità razionali, cui attribuisce una posizione centrale, fondando in essa ogni altra modalità: intesa non in senso trascendentale ma come principio ad un tempo logico e metafisico, – e quindi secondo il fraintendimento che per i kantiani era stato tipico della lunga fase pre-critica – tale categoria o modalità diventava il cardine di una costruzione generale99. Ogni “sistema” è quindi l’espressione unilaterale del dominio artificiale di un elemento a priori, non riconosciuto come tale ed esaltato a intero laddove è soltanto parte, il quale svolge un ruolo egemone sulle altre possibilità della ragione, coordinandone il quadro attorno al proprio valore: una spiegazione che ricorda i motivi per cui Kant, criticando Leibniz e Hume, indicava nelle prove ostensive, e non in quelle apagogiche, il solo legittimo atteggiamento post-critico in filosofia100. L’unilateralità trascendentale è quindi l’origine della sistematicità che Grohmann definisce «conformità al sistema». E il ruolo epocale di Kant sta nel fatto che soltanto egli è stato sistematico senza residui, cioè non in un tale modo unilaterale. L’aver saputo essere speculativo senza la chiusura del «sistema» appariva quindi a Grohmann il risultato, raggiunto con la riforma trascendentale del punto di vista filosofico, che apriva la prospettiva da cui era possibile osservare questa storia. trattato secondo l’idea di un sistema, di una scienza, benché non in quanto sistema, in quanto scienza, e cioè possa essere trattato soltanto metodicamente». Su questa distinzione si regge la differenza tra “sistematicità” e “conformità al sistema” che forma la struttura principale su cui il saggio è costruito. 96 Ivi, p. 280, (ted., p. 31). 97 L. Braun, Histoire de l’histoire de la philosophie, cit., p. 235: «C’est chez lui que nous trouvons l’expression la plus rigoureuse de l’évidence qui advient à l’histoire de la philosophie dans le champ d’influence kantien». 98 J. Ch. A. Grohmann, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 282, (ted., p. 36). 99 Cfr. L. Braun, Histoire de l’histoire de la philosophie, cit., p. 237. 100 Cfr. supra, pp. 82-84.

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Poiché si danno molteplici possibilità di un tale coordinamento trascendentale, molteplici sono state anche le filosofie in cui la ragione inconsapevole di sé ha cercato di dare espressione al bisogno di comprendersi: una molteplicità allora di «sistemi», – cioè di costruzioni trascendentali, e non storiche – che spiega la specificità di questa “storia”, e la difficoltà a comprenderne la natura prima del criticismo. Questa è allora la sua definizione: Storia della filosofia è la rappresentazione sistematica dei sistemi necessari ed esistenti della filosofia, in quanto scienza della conoscenza determinata a priori nella facoltà della rappresentazione, in quanto i sistemi possono essere ricondotti ai loro principi primi nella facoltà della rappresentazione e sono possibili tramite essa101.

È reso così concepibile un oggetto che deve essere allo stesso tempo storico quanto all’espressione e astorico quanto al contenuto. E viene posto inoltre il criterio per discernere cosa rientra nella storia della filosofia: In primo luogo che possa e debba trattare semplicemente sistemi, in secondo luogo, soltanto i sistemi necessari che realmente sono posti dalle leggi del pensiero e dalle diverse relazioni a priori delle facoltà dell’animo umano tra di loro102.

Tale riconduzione permette quindi di giudicare della filosoficità di un pensiero: ciò che non si lascia riportare geneticamente a una «facoltà della rappresentazione» è cultura razionale ma non filosofia. Questo spiega anche in che cosa deve consistere l’elaborazione storiografica in filosofia: se infatti si limita a registrare i «pensieri» la storia della filosofia rimane, come spesso è stata, «soltanto una geografia, una mera copia dei sistemi esistenti»103. Deve essere invece un’attività altrettanto filosofica e quindi creativa, sebbene di secondo livello, in quanto rivolta al riconoscimento di un effettivo processo ideativo. Era inevitabile che al contrario la ragione precritica equivocasse lo statuto della propria storia, essendole inconcepibile come potesse darsi una molteplicità di conoscenze “assolute”, che essa considerava quindi tutte meri fatti storici. Sembrava perciò naturale unire motivi empirici, come la biografia, a contenuti a priori, ed esperienze che portano in sé la nota della trascendentalità venivano di conseguenza esposte come vicende importanti ma accidentali. La soluzione al problema della storia della filosofia, così come impostato da Grohmann, ha quindi richiesto un’ampliamento del binomio 101 102 103

J. Ch. A. Grohmann, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 290, (ted., p. 64). Ivi, p. 281, (ted., p. 35). Ivi, p. 282, (ted., p. 37).

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sistema-metodo, per arrivare a riservare ad essa uno spazio speciale come unico sapere “storico” che non deve accogliere alcun elemento “metodico” (ovviamente nell’accezione grohmanniana). Questo significa che occorre considerare quella della filosofia l’unica storia in cui è necessario procedere con la logica del «sistema». E questo implica che bisogna considerare la singola filosofia non come un evento, non alla stessa maniera degli avvenimenti cui si «applica» il sapere storico ordinario del «metodo». Non è un dato poco importante che Grohmann abbia affermato che la forma storiografica della filosofia è il «sistema», un concetto che sarà determinante per la teoria filosofica della storia della filosofia da quel momento in avanti. Il «metodo» (perché inevitabilmente di un metodo si deve pur parlare) per questa “storia” consiste nel pragmatismo trascendentale che Grohmann recepisce come il maggiore dei risultati cui si era giunti nelle riflessioni di inizio decennio portate avanti da Reinhold, Fülleborn e Göss: «Per quanto riguarda la maniera pragmatica di trattare la storia della filosofia, cioè in quanto i sistemi sono indicati in collegamento con le loro cause [Gründe], io la ritengo l’unica vera e adatta che conviene alla storia della filosofia»104. Indicato così il metodo, e posta la propria definizione di storia della filosofia respinge tutte le altre, che interpretando la necessità di un tale pragmatismo, erano state date dai kantiani, nonché quelle presentate da autori di altro orientamento, in base all’opportunità di una parola o il peso di un’omissio-

Ivi, p. 299, (ted., pp. 92-93). Ma questo significa anche che non è legittimo il tentativo, in atto da più parti, ad esempio Jenisch, di estendere la filosoficizzazione del sapere storico oltre quello filosofico. La storia deve rimanere conoscenza del particolare: «E qui non è più necessaria una lunga discussione sul fatto che proprio lo scopo della storia universale del mondo sia di disporre il particolare come particolare, gli avvenimenti come fatti particolari; che in essa gli avvenimenti devono ovviamente rimanere proprio nel collegamento esteriore e nell’ordine che presentano nel mondo dei fenomeni: e che contraddice all’intera destinazione e vorrei dire, alla stessa intenzione di questa storiografia, l’idea di osservare nelle vicende il generale o un generale e che quindi è anche altamente non filosofico parlare di un andamento filosofico nella storia [philosophischen Gang in der Geschichte], come se in essa il particolare potesse e dovesse essere ordinato sotto un generale. Se si verificasse questo, essa non rimarrebbe più storia nel senso proprio, in base al quale essa ha per scopo di rappresentare e raccontare le vicende particolari come particolari; ma diventa storia pragmatica del mondo, che nel particolare indica un generale, nella quale diventano certamente possibili un andamento filosofico, cioè un metodo e una trattazione conforme al sistema. Là scopo è la rappresentazione del particolare come un particolare, e l’andamento deve essere cronologico, e procedere proprio nello stesso modo in cui le vicende e i fatti [Facta] particolari si sono succeduti nell’esteriore mondo sensibile; qui invece scopo è la rappresentazione del generale del particolare, come nella storia pragmatica del mondo, in cui il generale, che è il vero interesse dell’osservazione, attraverso il particolare viene quasi soltanto documentato e convalidato», (ivi, p. 278, ted., pp. 23-24). 104

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ne105. Da questo punto di vista, la partecipazione di Grohmann al dibattito giustifica, più di altri interventi, il nome di «querelle delle definizioni»106. La critica a Reinhold107, come quella a Göss che in sostanza la ripete108, appaiono infatti almeno per questo aspetto didascaliche. Da ciò si capisce che per molti concetti la fase “pionieristica” della loro elaborazione è stata ormai superata, andandosi consolidando in espressioni sicure e decise. Una volta chiarito con il ricorso al pragmatismo in che modo una storia della filosofia come molteplicità di sistemi sia possibile e intelligibile, Grohmann si sofferma nella disamina della differenza di principio tra la storia nel senso ordinario e quella della filosofia. E giunge a una conclusione che merita una certa attenzione non soltanto per il suo carattere apparentemente paradossale, ma soprattutto perché costituisce la sua idea più forte. L’eccezionalità dello statuto della storia della filosofia non ha espressione maggiore che nel fatto di non dover tenere conto della cronologia: è una storia non cronologica. Grohmann ritiene che gli antecedenti polemici, il contesto culturale e la stessa biografia del filosofo, giocano un ruolo secondario rispetto all’intuizione fondamentale della sua filosofia, e quindi devono avere solo un piccolo spazio nella storiografia filosofica. Il condizionamento storico è reso inessenziale dal livello a priori in cui ha luogo il vero filosofare. Per cogliere il significato di una filosofia occorre quindi concentrasi sulla sua essenza, con attitudine alla comprensione trascendentale applicata alla storiografia109. Ogni pensatore – ad esempio, Spinoza – è giunto a teorizzare il proprio sistema al termine di un processo ideativo originale, del quale non Ivi, p. 291, (ted., p. 67). Grohmann ritiene superiore la propria definizione alle altre già proposte dai vari Reinhold e Fülleborn, perché in queste c’è di volta in volta o una nota di troppo, qualcosa di inutile, o una nota di meno, e manca quindi qualcosa di necessario, cfr., ivi, p. 291 e p. 281, (ted., p. 67 e p. 35). 107 Ivi, pp. 293-294, (ted., pp. 71-75). 108 Ivi, p. 294, (ted., pp. 75-76). L’unico motivo di interesse della critica a Göss è che Grohmann la trae per intero dalla Rassegna di Tennemann sul “Philosophisches Journal”. 109 J. Ch. A. Grohmann, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 284, (ted., p. 45). Per questo motivo trova sbagliata la definizione data da Gurlitt nel suo Abriss der Geschichte der Philosophie. Zum Gebrauch der Lehrvorträge, (Leipzig 1786): «Storia della filosofia è un compendio cronologico e sistematicamente ordinato dei cambiamenti che dai tempi più antichi sino ai nostri hanno subito quei concetti e quelle conoscenze sugli uomini, il mondo e Dio che costituiscono il contenuto della filosofia». Questa definizione non presenta un’aspetto essenziale di ogni storiografia, cioé la considerazione che il fatto storico deve essere riportato alla sua causa, rilievo che viene poi riscontrato anche per gli altri casi. Grohmann non comprende come la storia della filosofia possa, stando alle parole di Gurlitt, essere allo stesso tempo “cronologica” e “sistematica”, (J. Ch. A. Grohmann, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 288, ted., pp. 68-69). 105

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si può trovare alcuna premessa essenziale nella filosofia precedente. Questa gli fornisce la mera cornice di un quadro che dipinge il suo paesaggio con colori e tecniche sue proprie. Mentre il pragmatismo della storiografia generale è inscindibile dallo schema cronologico, quello trascendentale se ne può emancipare, perché ottiene l’esplicabilità di una filosofia riconducendola all’origine sistematica nella centralità – unilaterale, e quindi non critica ma metafisica – di una categoria o di una modalità della ragione. Questo è quindi il crinale più netto che apre il divario tra la storiografia ordinaria e quella filosofica, il momento più avanzato di un’emancipazione che era iniziata non appena con Heydenreich e Reinhold ci si accorse della novità che il kantismo rappresentava anche in merito al problema della storia della filosofia. Ma questa è ancora una “storia”? L’aver tratto questo risultato radicale testimonia di un’esaltazione del ruolo cognitivo della filosofia rispetto alla mera storicità, o di un privilegio del filosofico sul positivo, che fa percepire la presenza di una sensibilità cui non sarà difficile assimilare il fichtismo, oltre che già pronta a superare molte delle cautele che su questo punto erano ancora nutrite dalla prima generazione di kantiani110. Da questo punto di vista, è esemplare la discussione della definizione di storia della filosofia proposta dall’anonimo «acuto autore della Rassegna» (in realtà, Tennemann), pubblicata sul “Philosophisches Journal”, che è presentata da Grohmann come l’unica veramente interessante tra quelle che egli critica: La storia della filosofia ha lo scopo – si afferma – di rappresentare il mutevole dell’effettiva elaborazione della filosofia in rapporto all’immutabile, o i passi della ragione filosofica verso la scienza nell’idea111.

Grohmann osserva che, secondo tale definizione, la storia della filosofia dovrebbe commisurare il grado di adeguazione dei diversi sistemi storici al presupposto ambito immutabile della razionalità, attraverso la distinzione tra ciò che in ognuno è soltanto contingente e ciò che invece è effettivamente razionale: 110 D’altronde, la peculiare scientificità della filosofia non poteva che avere un grosso impatto nella discussione metodologica sulla storia, e acuirne la problematicità, in considerazione delle caratteristiche letteralmente straordinarie che la filosofia come oggetto storico presentava rispetto agli altri materiali del passato. Il testo di Grohmann avverte subito che il problema dell’“istorica” e quello della storia della filosofia sono connessi. Non è un caso che buona parte di coloro che partecipano alla “querelle delle definizioni” sia composta da filologi greci, cioè spesso da storici della filosofia antica, che erano interessati a prendere parte a entrambe le discussioni, sulla storia della filosofia e sulla storia in generale: si pensi a figure del calibro di Göss o di Hermann. 111 Ivi, p. 294, (ted., p. 77).

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Se di ogni sistema non viene mostrato quanto ha di vero e quanto di falso, e quindi in che misura esso contribuisca a fare avvicinare questo regno dell’immutabile, non possono essere osservati i passi della così detta ragione filosofica, e quindi secondo l’opinione dell’autore, non è possibile alcuna storia della filosofia112.

Nota anche che se il metodo della storia della filosofia deve distinguere in ogni sistema quanto è contingente da quanto è autenticamente filosofico, essa si tramuta in una serie di giudizi circa la diversa distanza dei sistemi da quell’«immutabile» che è «la scienza nell’idea». Ma così perde l’oggettività ottenuta con il rigore del pragmatismo. In base al rifiuto dell’elemento cronologico, Grohmann ritiene perturbante il ruolo che in questo modo il contingente si vedrebbe riconosciuto come indice di una teleologia della coscienza filosofica. Anche una teleologia sembrava comportare troppo di ordinariamente storiografico, e quindi appannare la distinzione di qualità tra la storia della filosofia e ogni altra storiografia su cui Grohmann aveva fondato la propria teoria. Soprattutto, si chiede: È poi possibile una tale rappresentazione in cui sono indicati i passi della ragione filosofica verso l’immutabile? – Se la vera filosofia, l’immutabile, o come la chiama l’autore, la scienza nell’idea, – è una filosofia senza sistema, che non ne ha nessuno, a nessuno si attiene, ma sta ben al di sopra di ogni spirito di sistema, e consiste nella conoscenza dei limiti che sono posti allo spirito umano, nel possesso della misura dell’intera facoltà della rappresentazione, allora la vera filosofia, l’immutabile, la scienza nell’idea, consiste nel fatto che non si può sapere niente su ciò di cui tutti i sistemi vogliono sapere qualcosa: non vedo possibile infatti nessun passaggio dal mutevole all’immutabile, tramite cui la ragione filosofica possa farsi più vicina all’immutabile. Se ogni sistema è qualcosa che si attiene a un fondamento [Grund] unilaterale, singolo, il quale è dato nella facoltà della rappresentazione, allora la filosofia come scienza abbraccia proprio tutti i sistemi, li attornia con un circolo, non procede da alcun punto singolo della facoltà della rappresentazione ma è onnilaterale [alles umfassende] critica dell’intera facoltà della rappresentazione stessa: ma così c’è adesso un’immane frattura tra il mutevole e l’immutabile della filosofia, e non è allora possibile nessun passo con cui si possa superare questa frattura, e dopo il quale la ragione filosofica si sia avvicinata di più dal mutevole all’immutabile113.

112 113

Ivi, p. 295, (ted., pp. 78-79). Ibid., (ted., pp. 80-81).

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Grohmann respinge quindi un’idea di storia della filosofia come fenomenologia della ragione filosofica, che già porta nell’atmosfera tedesca motivi caratteristici dell’impostazione hegeliana: Proprio in questo mi sembra consistere la peculiarità della filosofia: che qui non è possibile alcun avvicinamento, alcun progresso successivo verso qualcosa, ogni sistema sorge libero, indipendente dagli altri, è qualcosa di singolare, isolato, che si separa da ogni altro secondo il proprio fondamento114.

La respinge perché quest’idea esige una rivalutazione del ruolo della contingenza, che a sua volta postula la relatività di ogni sforzo della ragione filosofica, cioè di ogni filosofia, a quello dell’altra, e quindi la costruzione di una storia di sequenze e di collegamenti. Qualcosa quindi che, per così dire, richiede il ritorno del “tempo” nella storia della filosofia, qualcosa che per la visione grohmanniana varrebbe come il ripristino di caratteri meramente storiografici in una storia che se li ammette rimane incomprensibile, come è stata sinora. E questo anche se l’autore del “Philosophisches Journal” propone quello che a Grohmann sembra un ripristino di modalità storiografiche ordinarie, nella forma di un’aspirazione storico-universale della ragione alla comprensione di se stessa. Per Grohmann, la comprensione del “sistema” è la percezione del luogo ove sorge la razionalità, luogo per definizione sottratto al tempo, alla piena comprensione, e alla stessa sistematicità. In quanto il sistema è l’elaborazione a partire da un principio puro, se ne deve fare una ricognizione sciolta dalla successione temporale, per non tornare a una storiografia che sia soltanto copia dei fatti. Se infatti “filosofico” è ciò che ha in se stesso la propria origine, per cui il fatto filosofico è sistema perché soltanto in esso tra i fenomeni storici la forma e il contenuto sono tutt’uno, non è ammissibile l’idea di una filosofia che progredisca verso una sempre maggiore purezza. Ogni sua manifestazione, se autentica manifestazione delle «facoltà della rappresentazione» che ne sono la causa, deve essere pura e immodificabile nella sua essenza filosofica come queste stesse. Se la storia della filosofia consistesse in una evoluzione, ogni sua manifestazione non sarebbe fondata da e in se stessa: il sistema superato sarebbe, nella condizionatezza che lo caratterizza e che con esso viene abbandonata, motivo del sistema più elevato che meglio si adegua all’immutabile, senza che questo risultato possa essere mai ottenuto completamente. La purezza, e con essa anche la specificità della storia della

114

Ivi, p. 296, (ted., pp. 81-82).

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filosofia, verrebbero compromesse da questa maniera di porre il problema. La filosofia, che poi sarà la filosofia dello “Streben”, è resa impossibile. Anche se critico verso kantiani come Reinhold e Göss, Grohmann, in questa difesa della pura trascendentalità della storia della filosofia, rivela di possedere alcuni tratti del kantiano ortodosso: Considero la storia della filosofia nel senso del nostro autore, in cui devono essere osservati i passi della ragione filosofica, come impossibile, e contraddittoria rispetto allo spirito della stessa filosofia115.

Una storia della filosofia che, come quella richiesta dal recensore, dovesse descrivere il progresso realizzato tramite ognuno dei suoi sistemi dalla ragione filosofica nel suo autoavvicinamento, ovvero nel percorso che la conduce verso la «scienza nell’idea», comporterebbe la necessità di giudicare i sistemi rispetto alla loro maggiore o minore distanza da questo termine ideale, e quindi comporterebbe critica e valutazione, che Grohmann ritiene però contraddittori rispetto al dovere storiografico della descrittività e dell’oggettività: L’intera discussione del concetto di storia della filosofia da parte dell’autore della Rassegna letteraria mi sembra perciò portare in sé note estranee e inessenziali, e mi sembra che una storia secondo essa, se anche fosse praticamente possibile, tuttavia non sarà una storia della filosofia, ma una critica dei sistemi della filosofia116.

Non sorprende quindi che Grohmann ritenga che agli antecedenti polemici, così come al contesto culturale e alla stessa biografia del pensatore, spetti solo un piccolo spazio storiografico. Quanto di vero c’è in una filosofia è sempre “nuovo”, perché apprensione di un modo di essere della ragione e per questo motivo è naturale che all’impegno teorico si leghi anche una nuova corroborante terminologia. Una vera filosofia, nella sua più autentica radice, porta sempre in sé il carattere di un’assoluta originalità, e l’originalità come è del pensiero è anche della parola. Per lo storico, si tratta allora di ripercorre a ritroso la strada che va dal testo del filosofo all’intuizione della categoria che ne anima il significato, come causa del sistema, o suo moti115 Ibid., (ted., p. 82). A meno che il recensore non intenda la storia della filosofia in senso “antropologico”, (passim), e non consideri altro che le circostanze esteriori che possono aver indotto un filosofo a passare dalla contestazione di un sistema all’elaborazione di uno nuovo. Grohmann ribadirà questa critica in Was heisst: Geschichte der Philosophie, cit., pp. 26-27. Tennemann replicherà sottolineando l’astrattezza dei criteri proposti da Grohmann in Geschichte der Philosophie, Barth, Leipzig 1798, I, p. IX. 116 J. Ch. A. Grohmann, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 296, (ted., pp. 83-84).

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vo dominante. Quindi, anche il tema “garveano” della storicizzazione del lessico – sviluppato da Fülleborn come da Göss – viene immesso in questa trascendentalizzazione della storia della filosofia. Non si tratta più soltanto di distinguere il termine che permane uguale dal suo mutevole significato, per non farsi ingannare dalle variazioni della cultura, ma anche di osservare come il linguaggio filosofico si formi all’interno dello stesso processo creativo del pensare. È quest’individualità l’autentica storicità del linguaggio filosofico, che non è quindi uno strumento offerto dall’epoca al pensatore, ma un medium che si forma geminae ortae funzionalmente ai contenuti del sistema. Un’ulteriore esito coerente ma paradossale è che in questo modo la filologia diventa per lo storico della filosofia tanto più importante, quanto più anch’essa subisce la destoricizzazione complessiva che nell’idea di Grohmann deriva dal livello trascendentale di ogni autentica spiegazione di questi «fatti»117. Quanto meno importante diventa la cronologia, tanto più lo diventa la filologia, cioè la penetrazione ermeneutica del particolare linguaggio con cui il sistema è espresso, perché deposito della specificità del sistema. Il riconoscimento storiografico del carattere filosofico richiede quindi allo stesso tempo adesione al testo e comprensione originale. Per l’insieme di queste considerazioni, Grohmann, come altri kantiani, è perfino sarcastico verso l’idea “kantiana” di una «storia della filosofia a priori»118, la quale non sarebbe altro che la stessa Critica della ragion pura esplicitata storiograficamente: un naturale dogmatismo originario, seguito da un inevitabile scetticismo, e da una continua irrisolvibile tensione tra questi due atteggiamenti, sino alla pace filosofica portata dal pensiero critico. Una ben misera storia della filosofia, mentre proprio la prospettiva trascendentale inaugurata dallo stesso Kant permetteva di scorgere in maniera rigorosa la grande ricchezza che quella presenta. Il rifiuto della cronologia non implica dunque quello della filologia: per Grohmann non può esistere un generico spinozismo, o forse, anche ammettendo che qualcosa di simile esista, ha però poco a che vedere con l’effettiva filosofia spinoziana che si è espressa con un certo linguaggio in cui c’è il proprium di Spinoza. Se quindi per un verso non è indispensabile conoscere Cartesio per comprendere Spinoza, per l’altro il rifiuto della cronologia coincide con l’estrema valutazione della stretta storicità di SpiBisogna avere a disposizione «informazioni filologiche, cioé l’elaborazione filologica dei sistemi», e «conoscenza dei sistemi, e quindi competenza storica» (ivi, p. 298, ted., p. 92), prima di poterli comprendere: tra questa comprensione e quella preparazione c’è lo stesso rapporto che tra il vestibolo e l’interno dell’edificio (ibidem). 118 Ivi, p. 283, (ted., pp. 39-42). 117

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noza, e ovviamente, al di là dell’esempio, di ogni filosofia. Ma il carattere pragmatico-trascendentale di questa storiografia filosofica ha anche un’altra conseguenza, e cioè che una stessa categoria è comune tanto a Spinoza quanto a tutta la filosofia dualista che ne dà una interpretazione opposta. Anche questa divergente direzione non getta minore luce sul valore e logico e trascendentale di quella possibilità dell’esperienza. Non basta però aver definito la storia della filosofia con maggiore precisione degli altri. Occorre anche concentrarsi sul soggetto di questa storiografia, e non solo sul suo oggetto. Possiamo sintetizzare il lungo ragionamento di Grohmann in una domanda: quale tipo di filosofia, e di preparazione filosofica, è richiesta allo storico della filosofia? È la risposta a questa domanda che cambia tra il primo e il secondo saggio. Nel 1797 sappiamo che Grohmann indica la filosofia kantiana. Ma ancora: che caratteristiche ha la filosofia kantiana per permettere la comprensione della storia della filosofia? La caratteristica della filosofia kantiana che a questo proposito si è rivelata più importante è quella di non essere un sistema nel senso della sistemazione esteriore, della «conformità al sistema»: per lo stesso Kant, la sua opera è tanto un sistema quanto l’operazione critica che precede e prepara verifiche e applicazioni sistematiche, come appunto quella che i suoi primi sostenitori conducevano allora nel campo della storia della filosofia. Proprio in quanto non è sistema, può guidare alla conoscenza dei “sistemi” attraverso la subordinazione del “metodo”. Esplicitando questa qualità della filosofia kantiana, Grohmann richiede che lo storico della filosofia possieda una «filosofia senza sistema»119 quale condizione soggettiva, indispensabile a trarre risultati da quella oggettiva delle conoscenze meramente storiche. L’espressione «filosofia senza sistema» rievoca la definizione reinholdiana di «filosofia senza appellativi»120, presentata sia nei Contributi che in Sul concetto di storia della filosofia. Si tratta però di una idea che, in seguito alle riflessioni di Fichte, si era fatta sempre più approfondita e problematica. Quali sono infatti le caratteristiche che dovrebbe possedere una filosofia senza sistema? Ora, la differenza tra il primo e il secondo saggio consiste soprattutto nella diversa risposta a questa domanda. I pochi mesi intercorsi tra i due scritti devono essere stati ricchi di riflessioni, che sembrano concentarsi su due linee: approfondire la nozione di filosofia senza sistema alla luce della funzione storiografica che essa deve svolgere; verificare sino a che punto questa possa coincidere con la filosofia kantiana. Si va così precisando la nozione di filosofia che porterà Grohmann 119 120

Ivi, p. 301, (ted., pp. 100-101). K. L. Reinhold, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 248, (ted., p. 241).

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oltre Kant, in direzione della “Dottrina della Scienza”. «Filosofia senza sistema» è descrivibile come quell’atteggiamento di stabile consapevolezza trascendentale che, per il tema qui in questione, si può indicare anche come un’attitudine fermamente coltivata ad accogliere il nucleo di verità sistematica sotto il rivestimento storico delle filosofie: con essa, il futuro storico della filosofia – infatti sino ad oggi non è ancora esistito – deve stare a un’altezza che gli permetta di spaziare con lo sguardo su tutto, di dominare l’intero; come il pittore di paesaggi sta fuori dal paesaggio che egli rappresenta, egli deve rimanere al di là dell’ambito dei sistemi filosofici, in modo che tutte le linee, tutti i raggi di luce arrivino sino a lui, ed egli possa così misurare tutto e tutto seguire sino ai più estremi confini121.

Nel primo saggio, la filosofia kantiana era sembrata assicurare quest’apertura prospettica. Nel secondo, fattasi più radicale l’astrazione impressa all’idea di filosofia senza sistema, Grohmann giudica che la filosofia kantiana non riesca collocarsi a un tale livello di consapevolezza speculativa, il quale invece gli sembra realizzato nell’idea di una piena libertà trascendentale, elaborata da Fichte: lo spirito della filosofia concerne qui l’intima connessione di un sistema filosofico e il rapporto di questo con la maniera a priori della speculazione. E così abbiamo uno spirito del dogmatismo, dell’idealismo, del criticismo sino a quello della dottrina della scienza, in cui la filosofia ha raggiunto il grado più alto della speculazione, e che è lo schema dello spirito filosofico dato a priori come il compendio generale di tutti i sistemi della filosofia122.

Alla differenza tra le due filosofie Grohmann dedica nel 1798 un saggio, Tentativo di indicare i più importanti punti di differenza tra filosofia di Kant e di Fichte123, che segue quello su Cosa significa: storia della filosofia?, e che rende ragione sul piano sistematico del passaggio alla “Dottrina della Scienza” che in quello si compie. La cosa interessante comunque non è l’adesione di un kantiano alla “Dottrina della Scienza”, ma il fatto che questa avvenga all’interno di una riflessione in cui le esigenze che la filosofia deve soddisfare

J. Ch. A. Grohmann, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 301, (ted., p. 99). J. Ch. A. Grohmann, Was heisst: Geschichte der Philosophie?, cit., pp. 41-42. Cfr. J. G. Fichte, Fondamenti dell‘intera dottrina della scienza, in Dottrina della Scienza, a cura di F. Costa, Laterza, Bari 1987, p. 181. 123 J. Ch. A. Grohmann, Versuch einer Angabe der vorzüglichsten unterscheidenden Hauptpunkte der Kantischen und Fichteschen Philosophie, in “Neue Beyträge zur kritischen Philosophie und insbesondere zur Geschichte der Philosophie”, 1798, pp. 1-79. 121

122

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sono stabilite e si modificano in funzione del suo ruolo per la comprensione storiografica124. Ma qui si deve sottolineare ancora un ultimo passaggio, determinato dalla nozione di «filosofia senza sistema», con il quale Grohmann si proietta ancora più avanti, incontrando una difficoltà destinata in seguito a riemergere, perché strutturale a ogni progetto di filosoficizzazione del sapere storico. Grohmann afferma infatti – ed è forse il primo a farlo – che la storia della filosofia, diventata scientificamente possibile, in realtà è finita: La storia della filosofia è la fine di ogni filosofare, ed essa può essere portata a compimento quando una vera filosofia è stata portata a compimento. Ogni altra storia prosegue all’infinito insieme alla sequenza degli avvenimenti, e alle azioni che non hanno mai tregua, e non c’è alcuna previsione su quando la storia si concluderà: la storia della filosofia ha in sé confini chiusi secondo i limiti e il sistema delle leggi del pensiero e delle singole facoltà dell’animo umano, essa è un intero chiuso che procede da se stesso, ma non dipende da singoli fatti esteriori, circostanze e avvenimenti. […] La storia della filosofia indica come e dove si trovano la pace e la sospensione di tutti i sistemi, così che nessuno più ne possa venire, nessuno più formarsi, e che, quando in futuro si accenderà di nuovo la lotta a causa della filosofia, il conflitto possa avvenire soltanto a proposito dei vecchi sistemi, soltanto a riguardo di ciò che è già avvenuto, perché a tale scopo manca ogni nuovo contenuto. La storia della filosofia è quindi diversa dagli altri tipi di storiografia, e da se stessa si distingue rispetto ad essi: essa è, per così dire, l’eterno trattato di pace [Friedenschluss] dei contrasti nel campo della filosofia, il quale promette interiore serenità anche quando mancasse quella esteriore, – quando cioè la pace significa che si combatte non per la scoperta e il possesso di nuove terre, ma

Il caso di Grohmann dimostra, nonostante il suo didascalismo, che la “querelle delle definizioni” non può essere ridotta a un confronto tra formulazioni analitiche del concetto di storia della filosofia. Riflettendo sul rapporto tra la filosofia e la sua storia, Grohmann arriva a intravedere la “necessità” della svolta fichtiana. Lungo questo cammino verso l’idealismo, poi interrottosi, si possono riconoscere gli effetti che si producono sulla ridefinizione del concetto stesso di filosofia, dall’interno di una riflessione che almeno all’inizio riguardava soltanto il problema di quale o di come debba essere la filosofia capace di rendere comprensibile la propria storia. In questo senso, la cosiddetta polemica sulle definizioni, va forse considerata come un fenomeno secondario, ma complementare, dell’evoluzione dello stesso idealismo classico, e in particolare della sua filosofia della storia. Sarebbe forse meglio rinunciare all’espressione di “querelle delle definizioni” e ricollocare questo dibattito come una fase della più ampia discussione sul significato della storia in generale svoltosi tra storici, filologi greci e storici della filosofia tra la fine del Settecento e i primi tre decenni dell’Ottocento. 124

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soltanto per il mantenimento e la legittimità di antiche regioni e antiche provincie125.

Non è quindi la fine della filosofia in senso assoluto, perché anzi proprio adesso può cominciare l’esplorazione consapevole e rigorosa delle nostre possibilità di esperienza in quanto enti razionali. È in un altro senso, non meno importante di quello materiale ora escluso, che la storia della filosofia è finita. Lo è nel senso che ora, grazie alla sola filosofia che è vera, sappiamo come distinguere filosofico da meramente razionale, e soprattutto comprendere quelle passate esperienze unilaterali della ragione in cui è consistita questa storia. D’altronde, è logico affermare che, una volta realizzatasi la condizione che rende qualcosa possibile, questo qualcosa si possa dire concluso: concluso in quella sua fase di crescita, in cui l’errore portava con sé aperture di verità ma non la verità. Verità di cui, sembra dire Grohmann, non si può fare storia. Anche il tema della fine della storia della filosofia faceva quindi la sua apparizione in questo dibattito. Ma sia per l’idea di fine della storia della filosofia che per l’affermazione dell’inessenzialità della cronologia in questa storiografia, – due effetti congiunti dell’estrema trascendentalizzazione del sapere storico – la teoria che troviamo in Grohmann è aporetica, il che è un valore e non un limite, perché significa che già pone sul tappeto alcune delle maggiori difficoltà con cui si troverà a dover fare i conti anche l’idealismo classico nel suo rapporto con questi temi.

4. La storia della filosofia come divenire a sé dello spirito. August Ludwig Hülsen Opponendosi alla definizione di storia della filosofia proposta dall’anonimo recensore del “Philosophisches Journal”, Grohmann aveva rifiutato la tesi che questa potesse rappresentare l’evoluzione della ragione nel suo impegno ad autodeterminarsi, cioè a giungere a se stessa secondo una legge ad essa propria. Tale critica era motivata con la teoria di un rigoroso pragmatismo trascendentale, per cui ogni sistema sta a sé nel rapporto genetico che ne lega l’essenza logica a un’interpretazione unilaterale, gravante attorno a una sola modalità, dell’intero apparato logico-cognitivo della ragione. In tale sua essenza, ogni sistema è quindi autonomo, come il caso di Spinoza secondo Grohmann dimostrava in modo esemplare. Il loro insieme non forma

125

J. Ch. A. Grohmann, Sul concetto di storia della filosofia, infra, p. 302, (ted., p. 101).

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un’unica vicenda, se non nel riferimento, a ognuno però singolare, che tutti presentano con la ragione. Quello che veniva compromesso dall’impostazione di Grohmann era il modello narrativo, dichiarato non scientifico se esteso dalla normale storiografia a quella filosofica: è questo il momento di maggiore consapevolezza della differenza formale tra la storiografia filosofica e quella ordinaria, differenza che Grohmann intende fissare in linea di principio con i suoi lavori. Insieme al modello narrativo, veniva però anche accantonata l’immagine di successione, di svolgimento che la storia della filosofia aveva sin’allora conservato anche nelle teorie degli altri kantiani, ad esempio in Fülleborn. Convintosi della “maggiore” efficacia che, rispetto al criticismo, la filosofia fichtiana aveva raggiunto nella focalizzazione della libertà della ragione, Grohmann quasi scopre che quanto egli andava pensando in merito alla trascendentalizzazione della storia della filosofia su ispirazione del criticismo, supponeva invece un’immagine della ragione più analoga a quella “scienza sulla scienza” che Fichte proponeva. Pur avendo iniziato a riflettere sul problema della storia della filosofia da kantiano, Grohmann arrivava ad interpretare la libertà “kantiana” come libertà dall’oggetto, il che comportava per un verso il riconoscimento della sua razionalità come incondizionatezza e per l’altro il riconoscimento speculativo della razionalità dell’oggetto stesso, ossia del mondo quale effetto, o “riflesso” di tale incondizionatezza: il che nella terminologia grohmanniana si esprime con la formula per cui nella storia della filosofia il contenuto razionale esige una forma razionale, nella reciproca determinazione di questi due termini, reciprocità che ne fa un unicum rispetto a tutta la rimanente storiografia. Tuttavia, il perdurante richiamo della radice kantiana, se non impediva a Grohmann la transizione verso Fichte, lo induceva a declinare l’idea di “libertà trascendentale” nella teoria per cui questa si attua in gesti tanto più significativi quanto più originali e indipendenti l’uno dall’altro. Ma l’idea di “libertà trascendentale”126 nel senso fichtiano del termine, cioè la convinzione che la ragione sia eminentemente pratica perché produttrice di un mondo, non poteva che evocare il problema anche dell’unità delle sue esperienze “riflessive”, quelle con le quali la ragione nella storia della filosofia cerca di comprendere questa sua stessa libertà, e quindi di comprendersi. Il problema che Grohmann risolve nell’atomismo del rapporto di ogni filosofia con la ragione, poteva avere una soluzione diversa e più unitaria, all’interno dello A. L. Hülsen, Prüfung der von der Akademie der Wissenschaften zu Berlin aufgestellten Preisfrage: Was hat die Metaphysik seit Leibniz und Wolf für Progressen gemacht?, Hammerich, Altona 1796, p. 94. 126

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stesso orizzonte aperto da Fichte. Perché se è vero che la ragione è la “causa” delle filosofie – solo apparentemente infatti esse nascono nella contingenza – quest’idea può essere sviluppata non soltanto nel rigore a-storico dell’atomismo grohmanniano, ma anche recuperando in forma nuova il modello narrativo, facendo cioè convergere nel protagonismo della ragione le filosofie come segni della sua progrediente libertà. O per meglio dire, poiché la libertà nel senso trascendentale dell’espressione non può progredire ma essere o non essere, occorre riflettere se non sia possibile considerare le filosofie segni della progrediente consapevolezza della libertà127. Se allora per Grohmann la libertà trascendentale non può conciliarsi neanche con il condizionamento di questo suo medesimo svolgimento, per altri pensatori di scuola fichtiana invece essa si svuota di significato se, mentre le si riconosce la posizione del mondo, non le si riconosce la storia della filosofia come posizione di quegli atti di autoriflessione che ne formano la vita pensata, cioè l’assimilazione del punto di vista da cui proviene quel suo stesso agire nella posizione del mondo. Quest’idea sarà al centro del testo con cui un giovane e sfortunato pensatore, August Ludwig Hülsen128, risponde al quesito bandito dall’Accademia di Berlino circa i progressi della metafisica dal tempo di Leibniz e di Wolff, Verifica del quesito messo a concorso dall’Accademia delle Scienze di Berlino: quali progressi ha fatto la metafisica dai tempi di Leibniz e Wolff? Nell’appendice di testi che completa il presente volume, viene data la traduzione della “Einleitung” a questo scritto. Certo, dire che Hülsen partecipi al concorso è dire troppo, dato che la sua risposta consiste in una Prüfung, cioè in una messa in esame del quesito stesso, da cui sia questo che l’Accademia che lo ha proposto risulteranno «privi di senso»129. Se infatti se ne vuole cogliere l’autentica intenzione, il quesito chiede una soluzione ai contrasti che la rivoluzione critica ha aperto, 127 Cfr. S. Maimon, Pragmatische Geschichte des Begriffs von Philosophie und Beurtheilung der neuen Methoden zu philosophiren, “Philosophisches Journal”, VI, 2, pp. 150-181. Cfr. in questo saggio anche una significativa critica alla teoria storico-filosofica di Reinhold. 128 La biografia di Hülsen è ricostruita da Ulrich Krämer in “… meine Philosophie ist kein Buch”. August Ludwig Hülsen (1765-1809). Leben und Schreiben eines Selbstdenkers und Symphilosophen zur Zeit der Frühaufklärung, Peter Lang, Frankfurt am Main 2001, pp. 23-286. 129 A. L. Hülsen, Prüfung, cit., p. 41. Il saggio di Hülsen si articola in due sezioni, nella prima delle quali è sviluppata la “Prüfung” vera e propria, che si conclude con la dimostrazione del carattere fittizio del problema nella forma in cui è stato posto dall’Accademia. Nella seconda invece il quesito, liberato dall’esteriorità polemica in cui si trovava, viene indagato alla luce dell’unico “compito” della filosofia, quale emerso in precedenza. Si tratta di porre il quesito dal punto di vista della ragione, e non come una domanda posta dall’esterno. Questo si risolve in una lunga e poco interessante distinzione tra il “metodo popolare” e quello “critico” di indagine, il primo dei quali prende il quesito per come lo trova e lo analizza nelle sue

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violando quella che Hülsen chiama la «pace della filosofia leibnizio-wolffiana»130. Ma allora l’Accademia trae l’ispirazione per il proprio quesito dalla situazione in cui si trovano coloro ai quali al contempo chiede una soluzione, soluzione che essi evidentemente non hanno131, e che allargando, come si dovrebbe fare, lo sguardo a tutta la storia della filosofia, non è stata trovata nemmeno da secoli di studio. Ed è ovvio che in questo modo essa, se arriverà a premiare qualcuno, lo farà scegliendo una delle parti, e quindi imponendo un «pronunciamento d’autorità»132 che per definizione è incompatibile con la vita di una comunità di dotti, la cui caratteristica è, come Fichte aveva insegnato, la libertà, perché essere razionali ed essere liberi sono il medesimo133. Invece, la soluzione a questo problema che «appartiene interamente al foro della storia della filosofia»134, dovrà essere trovata «nelle cose stesse», e cioè dovrà scaturire da una realtà [Thatsache] necessaria e universalmente innegabile, che la ragione filosofica attraverso i contrasti di tutti i possibili partiti spinge contemporaneamente alla loro fine necessaria, ovvero al risultato conclusivo dell’intero contrasto; [...] questo spingere ha il suo fondamento nell’impulso necessario [Streben] del nostro spirito, nella nostra ragione pratica135.

componenti, mentre il secondo si interroga su di esso ponendo la questione di diritto, cfr. A. L. Hülsen, Prüfung, cit., p. 77. 130 Ivi, p. 44. 131 Ivi, p. 67: «Se si è ancora in contrasto con gli altri, lo si è necessariamente anche con sé; e un tale stato contraddice assolutamente l’indispensabile condizione sotto la quale soltanto un compito della ragione può aver luogo ed essere risolto. Il quesito dell’Accademia non presenta quindi alcun senso». 132 Ivi, p. 46. 133 Cfr. J. G. Fichte, La missione del dotto, a cura di V. E. Alfieri, Mursia, Milano 1987, p. 49: il «risultato dell’intera filosofia» è che «quanto è certo ch’egli ha la ragione, altrettanto è certo che l’uomo è fine in se stesso». Una comunità di dotti è la condizione perché ci sia un’Accademia delle scienze, ma se questa si pone d’autorità sopra la propria condizione, cessa di esistere come autentica realtà spirituale e cerca, bloccando la libertà, di mantenere i dotti in una situazione di minorità; cfr. A. L. Hülsen, Prüfung, cit., pp. 47-49. Da questo punto di vista cfr. anche A. L. Hülsen, Über die natürliche Gleichheit der Menschen, “Athenaeum”, II, 1, 1799, pp. 152-180. 134 A. L. Hülsen, Prüfung, cit., p. 76: «Osservato come semplice azione, il nostro compito consiste, nella determinata domanda: rappresentare e indicare con precisione l’attuale stato generale della metafisica nel rapporto con uno specifico ad esso precedente. Esso è nella tesi puro-filosofico, nell’antitesi meramente storico, nella sintesi quindi filosofico-storico». 135 Ivi, p. 45.

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La domanda decisiva per comprendere il valore delle filosofie e quindi il significato della storia della filosofia riguarda lo “spirito”, che per Hülsen è il soggetto di cui quelle rappresentano i fenomeni. Bisogna quindi cercare di comprendere che cosa si intende per spirito. Pensare autenticamente significa pensare liberamente. Ma pensare liberamente significa pensare a partire da se stessi, e pensare a partire da se stessi non può significare altro che pensare se stessi. Bisogna quindi innanzitutto riconoscere che il pensiero è «autoattività», Selbstthatigkeit come scrive Hülsen in evidente connessione con Fichte136. È «un’azione», il che segnava la radicalizzazione della massima kantiana per cui non si impara la filosofia ma si impara solo a fare filosofia. Nessuno infatti può fare questa «azione» al posto di un altro: solo il Selbstdenker, colui che pensa su sé a partire da sé, è un filosofo, e sulla base di questa qualità occorre allora tracciare l’autentico contenuto della storia della filosofia, di quei pensieri che hanno legittimità a farne parte. Ma l’autoattività come autoattività non è il semplice «pensare», bensì quel «riflettere» che tematizza l’azione del «pensare» e vuole appropriarsi di questa come tale. La «Reflexion» è quindi quel pensare che vuole farsi consapevole della libertà del pensare; non è soltanto “libertà” ma è «azione dalla libertà», tentativo di comprendere la libertà della ragione che soltanto a partire dall’esperienza interiore e speculativa di questa stessa libertà è possibile provare: Essa è lo scopo della ragione nel suo progresso verso l’Idea, e sta quindi certamente sulla nostra via; ma può essere raggiunto soltanto attraverso molteplici erramenti137.

Finché gli uomini non giungono a concepire, in modo più o meno confuso, che il mondo in quanto azione è un’Idea, vivono sotto la guida dell’istinto razionale nel grembo della natura, (la quale è un’altra loro azione, una ragione oggettivata e quindi ancora “irrazionale”, appunto un’istinto), dove abbiamo soltanto la “lettera” della libertà138. Questa è una delle situazioni che Hülsen descrive nella “Einleitung” che viene tradotta nell’appendice a questo volume. Quando, con la cultura, l’uomo arriva a percepire la propria autentica dimensione creativa, e quindi comincia ad esercitare la libertà che è la sua vita, lo scopo di concepire questa libertà, e quindi di pensare il pensare, – e allora di fare filosofia – diventa l’occupazione più importante

136 137 138

J. G. Fichte, Prima e seconda introduzione alla dottrina della scienza, cit., p. 43. A. L. Hülsen, Prüfung, cit., p. 51. Ivi, pp. 64-65.

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della ragione, perché essa inizia ad avere a che fare con sé, e quindi con l’essenza di tutto ciò che è139. Ogni aspirare dei filosofi ad elevare la filosofia a scienza, non può che consistere nel determinare l’oggetto della filosofia come scienza. Tale oggetto doveva essere soltanto mediato, e quindi doveva essere necessario che fosse presupposto in ogni filosofia possibile come in reali tentativi di mediarlo140.

La «Reflexion» sul «Selbstdenken», e quindi il pensare di sé nel pensare di sé, sono lo scopo per cui la ragione si pone in “divenire”, e in ogni filosofo cerca se stessa nella libertà e specificità dell’atto del suo specifico pensare. La “ragione” kantiana e grohmanniana in Hülsen si sta quindi trasformando in “spirito”, perché le è connaturato il divenire verso se stessa nell’esperienza di ciò che, essendo uno «Streben», deve accadere. Pensare la libertà è allora il «compito» supremo della filosofia, al quale ogni altro deve essere subordinato. Questo compito non può che attuarsi nel tempo, il quale diventa quindi un elemento decisivo per la filosofia. Il fatto che il mondo sia un prodotto della libertà non è infatti immediatamente comprensibile, e anzi appare paradossale che quanto nell’apparenza dei fenomeni sembra legarci all’oggettività, non esista in effetti che perché noi esistiamo. La realizzazione dell’unico “compito” richiede successive esperienze di questo “fatto”: Come ente puro razionale l’uomo non è altro che se stesso, la sua assoluta libertà come un essere. Ma come ente empirico non è altro che ciò che non è, e di conseguenza scompare nell’essere. Perciò egli deve attraverso la libertà includersi questo scomparire e quindi porsi in se stesso141.

Da questa differenza deriva che l’uomo è «un divenire di se stesso», necessario affinché si raggiunga empiricamente – quindi storicamente – nel suo proprio essere puro, e si avvicini all’infinito che egli contiene, e quindi «compia il Divenire di se stesso sino all’Essere»142. In sintesi: 139 Ivi, p. 52: «Da quel punto in poi riconosciamo come nostra soltanto quella cosa che abbiamo posto in noi tramite la libertà». Sull’importanza dell’elaborazione da parte di Hülsen di questo concetto si consideri quanto ne scrive F. Schlegel, Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, Schöningh, Münich, VII, p. 80. Per quanto riguarda l’influenza della Prüfung nella cultura contemporanea, nonché anche per quanto attiene al giudizio che in letteratura si dà oggi dello scritto hülseniano, cfr. U. Krämer, “… meine Philosophie ist kein Buch”. August Ludwig Hülsen (1765-1809), cit., pp. 313-319. 140 A. L. Hülsen, Prüfung, cit., p. V. 141 Ivi, p. 53. 142 Ibid. Sulla debolezza del concetto di divenire dello spirito a se stesso nella Prüfung, si

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Il filosofare è un riflettere dalla libertà, e quindi un domandare e rispondere: non sarebbe quindi mai stata possibile una contraddizione della ragione se il filosofare fosse sempre stato razionale […]. La contraddizione della ragione si può quindi eliminare se impariamo a porre il problema della ragione in modo razionale, a interrogare razionalmente, e di conseguenza se impariamo a riconoscere la ragione come ragione, e cioè il puro Sé come l’incondizionato e il massimo143.

Dal punto di vista più tecnico al quale Hülsen ricorre per dare carattere deduttivo alla sua inquisizione sull’insignificanza del quesito “accademico”, si può dire che se il non-Io, il mondo, cioè l’oggetto in quanto inconsapevolmente posto dall’Io, deve essere elevato, nella consapevolezza, alla sua condizione di risultato, e quindi riconosciuto come espressione della libertà, e questa stessa come “risultato” di sé, allora tale elevarsi non può che avvenire nel tempo, dato che nel tempo e nello spazio si trova posto quell’oggetto. L’Io non è puro, come in Kant, soltanto nell’astrazione della sua autonomia, ma nella realtà che esso stesso pone, e quindi esiste in quanto posizione assoluta, e allora appunto quale spirito144. Con la “riflessione”, il non-Io diventa ciò che non è, e quindi diventa ciò che è effettivamente, quale risultato dell’auto-attività della ragione. Questa, dopo averlo posto, cioè essersi riflessa una prima volta nel mondo, si assimila questa riflessione e diventa allora «intelligenza»: «Per cogliere la sua assoluta auto-attività, l’Io deve riflettere autoattivamente sulla sua attività riflessa, assimilarsela tramite la riflessione e in tal modo diventare intelligenza»145. Nella storia della filosofia, l’Io, ovvero la ragione, appare a Hülsen unito nelle sue due più essenziali attività, quella pratico-teoretica del porre il mondo, e quella teoretico-pratica del porre il mondo di nuovo in se stesso. Sicché si può dire che l’assolutezza dell’Io sta nell’unione di queste due dimensioni, ovvero nel non poter conoscere nient’altro che se stesso. Un elemento importante è il modo in cui Hülsen indica le caratteristiche della sofferma M. Frank, “Unendliche Annäherung”. Die Anfänge der philosophischen Frühromantik, cit., pp. 915-923. 143 A. L. Hülsen, Prüfung, cit., pp. 105-107, nota. 144 Ivi, p. 87. È evidente in questi concetti il forte schellinghismo di Hülsen, cfr. F.W.J. Schelling, Criticismo e idealismo, a cura di C. Tatasciore, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 26: lo spirito «è spirito solo in quanto diviene oggetto per se stesso, cioè in quanto diviene finito. Esso non è dunque infinito senza divenire finito»; ivi, p. 42: «Solo una forza che ritorna in sé e crea a se stessa un interno» può essere definita spirito. Va ricordato che Schelling curerà, accompagnandola con parole di forte rimpianto, la pubblicazione di alcuni testi postumi hülseniani, cfr. A. L. Hülsen, Philosophische Fragmente, in “Allgemeine Zeitschrift von Deutschen für Deutsche”, 1813, I, 2, pp. 267-297. 145 A. L. Hülsen, Prüfung, cit., p. 90.

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conoscenza di sé da parte dell’Io. Per riflettersi l’Io deve essere limitato dal mondo che gli si contrappone e sul quale riflette nel senso della libertà trascendentale. Hülsen deduce che: Nessuna riflessione è possibile senza tesi e antitesi. Affinché infatti la libera e assoluta autoattività dell’Io possa essere riflessa, l’Io deve opporre a se stesso dapprima un mondo. La contrapposizione di questo è però allo stesso tempo anche un eguagliamento [Gleichsetzung], perché l’opposto all’Io può essere soltanto = Io, ovvero l’Io non è Io ma come tale annullato e quindi = non Io. Per comprendere questo in modo completo, si può riflettere sull’attività riflessiva dell’Io nelle sue due componenti necessarie, dell’attività dell’Io e di quella del non Io; così si indica chiaramente che non è possibile nessuna antitesi senza sintesi, nessuna sintesi senza antitesi. Tesi, antitesi e sintesi danno perciò insieme il risultato: non Io = Io. […] In ogni possibile questione l’elemento problematico è perciò la mera sintesi della tesi e dell’antitesi che sono da porre in modo determinato146.

Questa è considerata da Hülsen la «legge» cui ogni problema deve sottoporsi per essere filosofico, cioè per distinguersi come “necessario” da quegli interrogativi superficiali e privi di autentica ragione che ad esempio vengono messi a concorso dalle Accademie scientifiche. Tale «legge» traduce in «premesse per l’autentica verifica del nostro compito»147 il riconoscimento dell’auto-attività dell’Io, cioè l’affermazione, di origine fichtiana, che il carattere essenziale anche della ragione teoretica è la sua qualità pratica. L’articolazione di ogni “problema” filosofico nella “sintesi” di una “tesi” e di una “antitesi” non fa altro che formalizzare sul piano della procedura di indagine il passaggio dalla praticità iniziale della ragione a quella sua praticità “riflessa” e quindi teoretica che si presenta nella filosofia come pensiero della libertà148. Ogni problema che non sorga come una tesi assoluta, e che non generi da questa un’antitesi, la quale con la tesi si ritrova nella sintesi, Ivi, p. 98. Ivi, p. 112. 148 Occorre forse sottolineare che espressioni come le precedenti che hanno fatto pensare a un’anticipazione di motivi hegeliani, non hanno in realtà molto a che vedere, neppure nella terminologia, con quella che sarebbe stata la logica hegeliana. Se una somiglianza si può trovare tra un pensatore romantico come Hülsen e uno antiromantico come Hegel, questa sta nella comune radice fichtiana, che nel filosofo di Stoccarda appare aver dato un frutto più maturo, ma anche per questo più logicizzato perché temperato dal realismo di una nuova ontologia. La “sintesi” è in Hegel soltanto teoretica, e manca del tutto di quell’intenzionalità pratica che per Hülsen è inseparabile dal pensiero che voglia pensare se stesso, come libertà. Forse, in Hülsen c’è più il mondo del primo Schelling che non Hegel. Diverse infatti nel testo le citazioni dal Vom Ich di Schelling. Ma certo comune con Hegel è almeno il tema del progresso della ragione come “destinazione” dell’uomo verso l’Uomo: un unico compito, e 146 147

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rivela con ciò stesso di svolgersi a un livello inferiore a quello dell’indagine filosofica. Questo schema non è un modello, né un metodo, bensì l’unica forma che può essere data a considerazioni autenticamente necessarie. Alla luce di ciò, il quesito, così come è posto, non è quindi razionale, finché viene semplicemente basato sulla contingenza della situazione storica149. Da questo punto di vista, occorre piuttosto dire che il quesito potrà avere una risposta soltanto quando sarà possibile una «critica della storia della filosofia»150, e anzi suppone che si stabilisca quest’indagine di principio che è prioritaria rispetto ad ogni altra. Ma una critica della storia della filosofia suppone a sua volta la critica della filosofia, la quale soltanto, poiché fa riconoscere l’assolutezza della ragione, permette di riconoscere i passi che essa fa nel tempo verso la piena autoriflessione, e i motivi trascendentali per cui la temporalità, e quindi la storia, le sono necessari. Questi infatti, pur contingenti, attingono la necessità della loro contingenza dalla stessa necessità della ragione. Ora, la cosa che nella “Einleitung” tradotta nell’appendice a questo volume non viene da Hülsen esplicitata, ma soltanto lasciata intuire, pur essendo il culmine di tutta la trattazione che segue, è che il momento in cui una critica della storia della filosofia si è fatta possibile coincide con «il fatto» della «dottrina della scienza del signor prof. Fichte di Jena»151, quel Fichte che da parte sua consigliava la lettura della Prüfung come introduzione alla dottrina della scienza152. La filosofia di Fichte garantisce la razionalità del problema: Fino ad ora si poneva l’in sé stesso [das An sich selbst] nel mondo oggettivo e si annullava quindi l’Io. La dottrina della scienza indica al contrario che tutto quanto è posto fuori dell’Io è anche necessariamente un non Io, e quindi da un punto di vista assoluto è niente. Questo niente è perciò contrapposto all’Io nell’esatta misura in cui questo è un assoluto essere se stesso. Non c’è originariamente alcuna altra realtà che la realtà dell’Io e originariamente ogni altra cosa è niente: così da questo niente non può divenire mai un qualcosa, senza ricevere dall’Io assoluto la sua realtà ed essere quindi qualcosa attraverso l’Io, per l’Io e quindi = all’Io. […] La dottrina della scienza, come scienza della possibilità di ogni sapere, è in grado di dedurre e di esporre ogni possibile sistema a partire dai suoi fondamenti153. quindi un unico «scopo» cui la «ragione filosofica» (che in quanto storica è una «forza che aspira»), tende attraverso molteplici «erramenti». 149 Cfr. A. L. Hülsen, Philosophische Briefe an Hrn. v. Briest in Nennhause. Erster Brief. Über Popularität in der Philosophie, “Philosophisces Journal”, VII, 1, 1797, p. 87. 150 A. L. Hülsen, Die Prüfung, cit., p. 120. 151 Ivi, p. 156. 152 Cfr. M. Frank, “Unendliche Annährung”, cit., p. 913. 153 A. L. Hülsen, Die Prüfung, cit., pp. 157-158.

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La critica della storia della filosofia, che è condizione per qualsiasi indagine in questo ambito, è quindi resa possibile dall’abbandono dell’irrazionalità costituita da ogni punto di vista filosofico che sia trascendente, della trascendenza della ragione come di quella della cosa154; un esito non dissimile in ciò da quello kantiano, se non fosse che per Hülsen anche il criticismo, nonostante tutto, è una filosofia della trascendenza e quindi un punto di vista ancora “empirico”. O, detto in senso positivo, una critica della storia della filosofia è resa possibile dalla filosofia come coscienza della coscienza. Sebbene le filosofie storiche non fossero radicate nella coscienza della coscienza, erano comunque i segni della sua aspirazione a diventare se stessa, e quindi fatti in questo senso razionali, sebbene a rigore di per sé “irrazionali”. Questo stesso cruciale effetto si può esprimere dicendo che la filosofia è allo stesso tempo il problema da risolvere nella sua storia e lo strumento necessario ed unico per la soluzione stessa del problema che la sua storia pone. La filosofia ha una storia perché è una scienza: in primo luogo, scienza di sé che, essendo riflessione dalla libertà, non accetta l’uniformità delle formule, sicché anzi è autentica scienza nel rigore, eminentemente storico perché trascendentale, che ognuno, il quale pensi dalla libertà, sa darle; e quindi la molteplicità dei fatti storico-filosofici non è in contraddizione con questa deduzione; in secondo luogo, è storia perché la ragione, avendo una destinazione, aveva bisogno di un’esperienza, il cui inizio e la cui dinamica Hülsen splendidamente descrive nella “Einleitung” tradotta in appendice, quasi una “Fenomenologia dello spirito” di stile fichtiano e schellinghiano. Le filosofie sono gli eroici episodi di questo necessario elevamento trascendentale, operazioni della libertà sulla libertà, con cui essa torna a se stessa. Si tratterà comunque di un ritorno infinito, – o di un “avvicinamento eterno”155 – perché la libertà non può essere esaurita, e anzi si rinnova di forze e quindi si proietta in una più ampia realtà quando sia stata pensa154 Ivi, p. 38. È chiaro che la critica della storia della filosofia non è possibile tramite la Critica della ragion pura, soprattutto per il modo in cui questa viene interpretata ed esposta da quanti rimangono fermi secondo Hülsen alla sua lettera, cioè a quell’elemento di oggettività, soprattutto espositiva ma anche speculativa, che ancora separa il criticismo dal pensiero della libertà della coscienza come coscienza. Hülsen biasima nella «scolastica» kantiana queste «teorie che la lettera del criticismo ha prodotto, e che consegnano al dogmatismo tutto ciò che la storia della filosofia è in grado di presentarci». Proprio perché la Critica della ragion pura è quanto di più vicino alla verità ci sia, pur restandone però all’esterno, essa caratterizza anche il periodo storico in cui maggiore è stato il conflitto tra la lettera e lo spirito della ragione, cfr. ivi, p. 167. In questo senso, cfr. la polemica con Beck, svolta nell’appendice della Prufüng, alle pp. 168-211 (erroneamente indicata come p. 111) 155 Ivi, p. 92.

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ta156. Oppure, dicendo la stessa cosa da un altro punto di vista, poiché la “negazione” e il mondo sono originariamente non Io e quindi altro dalla ragione, dall’Io, allora l’opera filosofica della riconduzione dell’uno all’altro come del condizionato alla condizione, non potrà mai esaurire l’originarietà della stessa loro contrapposizione. Non si potrà mai giungere al momento in cui «l’Idea, l’assoluta negazione sarà stata realizzata in assoluta realtà, e di conseguenza tutto il Non-essere nell’infinito Divenire che si eleva all’assoluto Essere se stesso». Per Hülsen come per Fichte, il soggetto non sarà mai del tutto l’oggetto, e l’oggetto non potrà mai essere fatto tornare del tutto al soggetto, ma entrambi potranno essere soltanto istantaneamente superati come specchi da cui si riflette la stessa situazione. Il “compito” dell’autocomprensione è quindi “necessario”, ma infinito, e ogni parziale problema filosofico deve trovare in esso la sua possibile soluzione come in un intero157. Da ciò deriva inoltre che, essendo il problema della filosofia quello di pensare la libertà, cioè di cogliere speculativamente la “libertà trascendentale” prima della scissione della trascendentalità in soggetto ed oggetto, questo problema non può essere presentato come un “quesito”, cioè come un problema qualsiasi: Perciò è un compito autonomo [Selbst-Aufgabe], che non può mai venire dall’esterno, cioè un compito in cui il puro Sé di ognuno, o la libertà in genere, viene considerato come una legge eternamente necessaria per ogni Possibile e ogni Reale, e nella quale e secondo la quale quindi un mondo deve essere realizzato soltanto attraverso noi stessi158.

Ne consegue un dato importante per la teoria della storia della filosofia, e cioè che ogni vero filosofo la pensa da sé e per sé, nella “libertà” della propria contingenza che comunque è la sola condizione da cui poter corrispondere alla libertà della ragione, e quindi in modi diversi, ma ognuno ricco di tutto il senso possibile. E tuttavia, ogni filosofo, o dotto, cioè ogni uomo libero nel pensiero (e quindi anche nella realtà) è connesso nella “libertà” con ogni altro dalla condivisione dello stesso scopo, e dalla medesima aspirazione. Esiste quindi una comune direzione alla ricerca, e in questo senso, sebbene 156 Ivi, p. 70: «Ci spingiamo in una sfera dove soltanto ritorniamo a noi stessi attraverso l’infinito». 157 Ivi, p. 62. Come tutto ciò che ha una sua apodittica, intima necessità, il “compito” non può restare senza soluzione, e suppone un esito scaturente da quella sua logica interiore, sicché per paradosso Hülsen sembra ritenere che in filosofia soltanto i problemi fittizi non abbiano soluzione, come quello dell’Accademia delle scienze. 158 Ivi, p. 69.

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del tutto non deterministico, Hülsen scrive che la storia, e quindi anche la storia della filosofia, è un “progresso”. Opprimere in qualsiasi forma la libertà, è quindi la peggiore delle azioni fatte a danno della verità. Ma è anche un’azione sostanzialmente impossibile per ragioni metafisiche, prima che empiriche. Infatti, nel rapporto tra l’Io e il non Io si arriva alla conclusione che se anche si volesse ammettere che il non io sia assoluto, e quindi esso la condizione dell’Io, e l’Io quindi un effetto del mondo, questo non Io non potrebbe che trasformarsi in un Io, perché ne assumerebbe le caratteristiche: «Ogni essere assoluto, cioè ogni essere di Sé, può essere soltanto un Io»159. Poiché è essenza della realtà, la libertà è secondo Hülsen incomprimibile per definizione, e non la si può evitare in sede logica come in metafisica: comunque il pensiero vada al “concetto” dell’assoluto, se è coerente, non può che trovarla. La ragione diventa allora storica per essenza, dovendo nell’irrazionalità relativa dei suoi “sistemi” maturare quella padronanza di sé che può essere sempre un fatto e mai una regola, sempre una conquista e mai una conclusione: Ciò che ci presentano i libri non è mai filosofia, e mai scienza, ma soltanto uno dei mezzi che la libertà ha tentato per risvegliare gli uomini e farsi percepire. La scienza nello spirito è l’eterna luce che si irraggia nell’oscurità, e deve quindi illuminarci nelle aride vie del passato, in modo che noi possiamo dire: questi sono i progressi del genere umano. […] La ragione come ragione non può che tornare nel passato e cercare se stessa160.

159 160

Ivi, p. 86. Ivi, p. 166.

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APPENDICE

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Karl Heinrich Heydenreich

ALCUNE IDEE SULLA RIVOLUZIONE PORTATA NELLA FILOSOFIA DA IMMANUEL KANT E IN PARTICOLARE CIRCA IL SUO INFLUSSO SULLA TRATTAZIONE DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA1

Si prendano queste idee soltanto come lo schizzo di una futura esauriente trattazione di questo argomento. §1 Ci sono filosofi che non possono capacitarsi che il sistema di Kant sia nuovo e unico, il primo e l’ultimo della sua specie. Si appellano alla storia e accusano di ignoranza storica tutti coloro i quali affermano che l’impresa di Kant non possa essere paragonata, anche soltanto in una certa misura, con nessun tentativo di qualsiasi filosofo [Weltweisen] prima di lui. Mi sembra che questi uomini non avrebbero potuto evidenziare la loro totale incapacità a giudicare Kant tramite un più inequivocabile segno, che con questo loro richiamo alla storia della filosofia. Infatti, questa pone in modo attendibile la novità e la singolarità del sistema kantiano tanto al di sopra di ogni dubbio, che il conoscitore di quest’ultimo ne viene rafforzato nella sua adesione quanto più estesamente si diffonde nello studio dei monumenti filosofici, e profondamente penetra nel loro spirito. Il conoscitore del sistema kantiano trova in esso il compendio [Inbegriff] sistematico di tutti i principi della conoscenza della natura e della moralità, li trova dedotti dalla natura della stessa facoltà umana della conoscenza [Erkenntnißvermögen] e garantiti in modo sufficiente dalla fondatezza della deduzione, li trova rappresentati secondo il loro ordine determinato, la loro 1 K. H. Heydenreich, Einige Ideen über die Revolution in der Philosophie, bewirkt durch Immanuel Kant, und besonders über den Influß derselben auf die Behandlung der Geschichte der Philosophie, in Agatopisto Cromaziano kritische Geschichte der Revolutionen der Philosophie in den drey letzten Jahrhunderten. Aus dem Italienischen mit prüfenden Anmerkungen und einem Anhange über die Kantische Revolution versehen von Karl Heinrich Heydenreich, cit., pp. 215-232. La sua opera maggiore è l’Introduzione filosofica di cui abbiamo discusso nel paragrafo a lui dedicato. Scomparso molto presto, rimane interessante l’attenzione per Balthàsar Gracian, testimoniata da un inedito postumo, Der Mann von Welt, eingeweiht in die Geimnisse der Lebensklughait / ein nach Balthasar Gracian nachgelassene Ms. von Karl Heinrich Heydenreich, Maecker, Reutlingen 1804 [ndt].

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

necessaria connessione e la perfetta armonia. In questo modo, egli trova determinato nella maniera più completa e rigorosa non soltanto ciò che può accadere tramite ogni singola facoltà spirituale dell’uomo e ciò che tramite essa deve accadere, ma anche quanto forma un sistema della conoscenza attraverso il regolare cooperare di tutte. Allo stesso tempo trova quindi l’immagine caratteristica dell’umanità spirituale nello specchio di tale filosofia, e siccome in questa non viene accolto nessun elemento che non debba appartenere necessariamente all’oggetto, allora la sua coscienza ne riconosce le verità. Se ora si volge ai sistemi pre-kantiani, certamente in ognuno trova l’aspirazione essenziale della ragione a filosofare in vivente attività, incontra anche esposti e rappresentati veri oggetti della filosofia, trova persino presso i negatori di ogni principio filosofico l’influsso, inconsapevole e addirittura contrario alla loro volontà, di necessari principi della ragione. Soltanto che inutilmente cerca tra di loro anche soltanto l’idea di un’indagine, determinazione e verifica della facoltà stessa di filosofare, tramite la quale a questa sia stata data la sua autentica direzione, siano stati indicati i suoi propri oggetti e segnati i suoi confini, posti infallibilmente dalla natura stessa. Piuttosto, egli nota che tutti i filosofi prima di Kant procedettero alla spiegazione degli oggetti della filosofia senza preoccuparsi della critica di questa facoltà per mezzo della quale intendevano chiarirli, nota che i loro non erano niente più che tentativi, imprese affidate alla buona sorte. Non perciò egli disprezza questi tentativi e i loro risultati che, per quanto anche debbano essere dichiarati inammissibili, tuttavia sono sempre celeberrime dimostrazioni del più premuroso zelo della ragione speculativa per il raggiungimento dei suoi fini così elevati e nobili; uno zelo, che non poté essere interrotto del tutto neanche nei secoli della barbarie scolastica, e trasmette a molte sue ruvide scene nel dipinto della storia un tratto di dignità. Tuttavia, poiché sa cosa unicamente la filosofia deve e realmente può effettuare, è in condizione di determinare con imparzialità e secondo l’unico criterio vero che qui può applicarsi, il grado di valore di ogni tentativo rispetto a ciò che tramite esso è stato ottenuto, e li considera complessivamente come nient’altro che rozzi prodotti di una ragione la quale, stimolata dall’interno impulso della sua facoltà, certamente agisce e opera ma, non essendo illuminata circa la natura di essa, lo fa senza uno scopo determinato, senza la coscienza di principi provati e senza armonia con se medesima; in una parola, per risultati casuali di una ragione senza critica di sé. Questo giudizio sarebbe duro e falso se si riferisse a elaborazioni di singole parti della filosofia, diverse delle quali, ad esempio la dottrina generale della ragione [die allgemeine Vernunftlehre], sono state adeguatamente trattate già prima di Kant. Esso concerne però unicamente l’intero della filosofia e quei tentativi nei quali prima di Kant ci si era impegnati a formare tale intero. E soltanto l’intero della filosofia deve essere preso in considerazione, se il discorso concerne il suo possibile perfetto soddisfacimento. Infatti, data la generale dipendenza di tutte le parti della filosofia dagli stessi principi, la loro intima connessione, e il loro generale influsso reciproco l’una sull’altra, è del tutto naturale che un beneficio pienamente determinato e sicuro, anche per una singola parte, possa essere soltanto il frutto della completezza dell’intero.

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KARL HEINRICH HEYDENREICH

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§2 Lo stato della filosofia prima di Kant è dunque caratterizzato da tutti quei sintomi che sono conseguenze dell’attività senza critica della ragione filosofica [philosophirenden Vernunft]. Mi pare che i più evidenti tra essi non possano essere negati da nessun giudice imparziale e competente: 1) mancanza di fondamento e incoerenza all’interno di ogni sistema così formato; 2) divergenze e conflitto dei sistemi l’uno rispetto all’altro; 3) impossibilità di collegarli con la vita e le comuni ma pur necessarie e naturali convinzioni dell’umanità; 4) completa assenza di un concetto determinato di filosofia. Gli ultimi due sintomi mi sembrano del tutto inequivocabili: 1) una vera filosofia non deve alzare nessuna barriera tra sé e la vita, né deve eliminare nessuna convinzione, anche se del tutto comune, che sia naturale e necessaria all’umanità, né indebolirla, rappresentandola come illusione; deve piuttosto ricondurre tutte le specie di rappresentazioni [Vorstellungsarten], ogni aspirazione e sentimento che appartengono a una autentica vita umana, verso i loro veri principi, che giacciono nella stessa natura umana, e in questa maniera assicurarli contro qualsiasi dubbio. Si indichi tra le filosofie prekantiane una soltanto che vi riesca in maniera perfetta! 2) Appena sia stata trovata la vera, completa e determinata filosofia, così non può mancare anche il suo vero, completo e determinato concetto, e se tale concetto non risulta con evidenza piena da una filosofia, questa filosofia deve ancora mancare in un’esigenza essenziale. Si considerino i sistemi prima di Kant: non ce n’è uno tramite cui si sarà pienamente d’accordo su cosa sia la filosofia, o si sarà posti con sicurezza nella condizione di poter distinguere questa scienza da tutte le altre secondo stabili caratteristiche2. Le conseguenze teoretiche del procedimento non critico della ragione filosofica dovevano comportarne inevitabilmente altre di tipo pratico, e tra queste metto in evidenza in modo privilegiato che la filosofia non poteva diventare partecipe di quella dignità che ad essa è universalmente riconosciuta soltanto quando raggiunge il suo intero scopo per l’umanità, e che le accuse, tanto in merito alla difficoltà che all’infecondità dello studio filosofico, dovevano moltiplicarsi nella misura in cui cresceva il numero degli edifici dottrinali [Lehrgebäude] non critici. §3 Anche negli ultimi tre secoli la filosofia è stata trattata da tanti grandi geni, e tuttavia di nessuno si può dire che abbia proceduto criticamente. Si cercano inutilmente negli scritti di Bruno, Bacone, Cartesio, Malebranche, Spinoza, Leibniz, Tschirnhaus, Wolff, Crusius e di altri ancora, quelle ricerche che dovrebbero precedere ogni filosofare: sulla natura, le facoltà, i principi e i limiti della ragione in relazione al conoscibile e al non conoscibile, al concepibile e al non concepibile, sul rapporto della ragione con le altre facoltà dell’anima, sul contributo della ragione alla conoscenza del mondo sensibile, e sulla sua sufficienza per la conoscenza del mondo 2 Si ottiene questa traduzione intendendo, nell’espressione “von allen übrigen noch festen Merkmalen”, “noch” come un refuso per “nach” [ndt].

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

soprasensibile. Certamente alcuni filosofi credono di trovare in Leibniz una critica della ragione; ma io confesso che secondo la mia approssimativa comprensione dei fondamenti e ipotesi di quel filosofo, a me questo risulta così poco, che quasi mi sentirei autorizzato ad osare di mettere in dubbio se i sostenitori di una critica leibniziana della filosofia in genere sappiano cosa sia una critica della ragione. Di sicuro, se si considera identico sviluppare un sistema tramite la ragione, e fondare un sistema su una teoria e dimostrazione della facoltà e dei limiti della ragione, allora si può rintracciare una critica della ragione nello stesso Bruno e in Spinoza. O, se si confonde la logica generale con la critica della ragione, si può credere di incontrare in Wolff e Crusius dei critici della ragione. §4 Cionondimeno, si deve concedere a numerosi pensatori l’innegabile merito di aver preparato tramite le loro fatiche l’impresa di una critica della ragione. Soprattutto annovererei a questo proposito coloro che nei tempi più recenti hanno elaborato in modo fondato la dottrina della ragione e l’ontologia, e hanno dato forma sistematica a tutte le parti della filosofia. Wolff e Crusius mi appaiono essersi guadagnati da questo punto di vista la più grande gratitudine. Anche alcuni inventori di ardite ipotesi metafisiche, ad esempio Leibniz e Spinoza, hanno a tal proposito dei meriti, in quanto nei loro esempi si indica in maniera interessante in quali smarrimenti può incappare una ragione non sostenuta dalla critica della sua facoltà. Lo stesso empirismo di Locke e il coraggioso, forte scetticismo del grande Hume partecipano alla promozione della felice rivoluzione filosofica che dobbiamo a Kant. Quanto dico di Wolff e di Crusius, non potrà stupire certamente nessuno che abbia confidenza con la filosofia critica, ma sicuramente i molti che non ce l’hanno ancora. Purtroppo, in alcuni dei circoli filosofici tedeschi, è infatti consuetudine cortese considerare Wolff come un semplice seguace dell’elevato Leibniz, e ridere di Crusius. La prima cosa mi pare un’ingiustizia senza eguali, l’ultima un’ignoranza, meritevole di compassione, riguardo alla questione stessa della filosofia, oppure una disonorevole parzialità. Wolff accolse del tutto le invenzioni filosofiche leibniziane, ma fece così tanto per la loro forza di convinzione e la loro evidenza, che se era debitore di Leibniz, dall’altro lato si guadagnò egli stesso un credito nei suoi confronti. La sua elaborazione della filosofia di Leibniz non consiste semplicemente, come alcuni vogliono convincerci, nel fatto che ne raccolse le affermazioni e le ordinò esteriormente in discipline determinate; piuttosto ricondusse a principi anche molte cose che in quel sistema erano state soltanto azzardate, ne determinò e distinse quasi tutte le idee fondamentali, ne colmò le lacune, introdusse la connessione dove mancava, lo rese evidente dove era oscuro, e sviluppò molti principi da Leibniz non sufficientemente elaborati, sino alle loro più lontane conseguenze. Già per una tale elaborazione, sebbene di pensieri altrui, Wolff si conquistò la pretesa a una certa originalità. Ma ne dimostrò ancora molta di più in quelle opere in cui lavorava esclusivamente secondo un proprio piano, in particolare nella sua dottrina della ragione [Vernunftlehre], in quella dell’anima, nell’ontologia, cosmologia, filosofia

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KARL HEINRICH HEYDENREICH

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pratica e nel diritto naturale. Sarebbe da augurarsi che finalmente un tedesco riconoscente, dotato di sufficiente ingegno, erudizione e robusta pazienza, tratteggiasse i meriti propri di quel grande uomo rispetto all’intera filosofia. Certamente costui dovrebbe partire innanzitutto da Leibniz, e determinare nella maniera più precisa quanto effettivamente Wolff poteva acquisire da lui, e indicarne il grado di valore filosofico in relazione a fondamenti, connessione, consequenzialità ed esecuzione, poi dovrebbe mostrare di quale importanza era ciò che mancava nelle rapsodie leibniziane, e quale misura di spirito filosofico ci voleva per integrarlo. Dovrebbe inoltre studiare le opere stesse di Wolff nella maniera più approfondita e in dettaglio, per poter valutare l’estensione, l’ordine e l’armonia dei suoi piani per le discipline, che egli elaborò, la sapiente rigorosità delle sue determinazioni, la profondità e la finezza delle sue articolazioni e, in conseguenza di tutto ciò, lo schiarimento [Aufklärung] che diffuse sulla filosofia. In questa maniera si presenterebbero i meriti di Wolff nella piena luce dell’evidenza, potrebbe essere deciso chi dei due, se Leibniz o Wolff, era il più grande filosofo secondo l’accezione autentica della parola, una questione che perlomeno a me sembra di gran lunga non ancora risolta, a causa dei panegiristi di Leibniz e degli sprezzatori di Wolff. Per quanto riguarda Crusius, dopo aver studiato i suoi scritti filosofici con più acuta attenzione, non ho alcuna remora a collocarlo tra i più meritevoli originali elaboratori dell’intera filosofia, e sarebbe certamente molto interessante se un uomo capace determinasse con verità e precisione il rapporto del suo sistema da un lato con quello leibnizio-wolffiano, e dall’altro con quello kantiano. Ci si convincerebbe allora che la filosofia di Crusius era molto superiore a quella leibnizio-wolffiana, e che i suoi risultati si avvicinano ai risultati della filosofia critica più che quelli di qualsiasi altra filosofia, in quanto questo si possa dire di un sistema critico3. La dottrina della ragione, l’ontologia e la morale di Crusius affermeranno in ogni tempo il loro posto tra i più importanti monumenti dello spirito filosofico. E il suo severo zelo di rinnovare il nesso tra metafisica e morale, interrotto dalla filosofia leibnizio-wolffiana, poteva essere superato soltanto tramite l’ammirevole dottrina della libertà del grande Kant. §5 Se ci si volesse immaginare soltanto come ideale ciò che è la cosa più alta e grande di tutte quelle che lo spirito filosofico possa tentare, si dovrebbe riconoscere come estremo confine del possibile la ricerca diretta a misurare perfettamente le facoltà spirituali dell’uomo, singolarmente e nella loro connessione, e a determinare in base alle forme e regole della loro attività originaria, l’intero sistema dell’autentica conoscenza umana, della fede, dell’agire e del sentire. Attraverso il felice compimento di questa impresa sarebbe completamente esaurita la conoscenza dell’umanità 3 Qui Heydenreich intende forse dire “non critico”. In ogni caso, il significato è chiaro, riferendosi al fatto che non c’è relatività rispetto al criticismo, per cui o si è in esso o se ne sta fuori [ndt].

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

spirituale, e insieme l’immagine archetipica del genere verrebbe così perfettamente disegnata che tutti gli individui, indipendentemente dalle loro peculiarità casuali e particolari, vi si dovrebbero riconoscere. Se affermo che l’idea di questa grande impresa non era venuta in mente prima di Kant a nessuno dei filosofi a noi noti, affermo qualcosa che perlomeno non può essere contraddetta da nessun dato determinato della storia della filosofia. E se affermo che Kant ha concepito per primo questa idea nella sua intera estensione, mi riferisco in questo giudizio non a questa o a quella parte, ma all’intera connessione delle sue opere critiche, e richiamo l’attenzione non soltanto su ciò che vi è contenuto in modo esplicito ed elaborato, ma anche su tutto quanto ne consegue necessariamente. §6 La facoltà della conoscenza, quella della sensibilità per il piacere o il dolore, e quella appetitiva [Begehrungsvermögen] sono tutte le facoltà dell’animo umano. Ognuna è vincolata in modo originario a certe leggi e forme della propria attività, e in conseguenza di ciò ha i propri caratteri determinati e i propri limiti stabiliti. Tutte devono però essere subordinate alla facoltà che è la maggiore tra esse, cioè alla ragione, ed entrare sotto la sua autorità nella più intima armonia. Questo non sarebbe possibile, se i principi essenziali e le forme per l’attività delle singole facoltà stessero in conflitti tali che esse non potessero venire riunite sotto nessuna condizione. Sono quindi poste realmente dalla natura in tali reciproci rapporti che tra loro è possibile una perfetta armonia. Se l’uomo deve mirare con fiducia a questo scopo dell’unità con se stesso, allora deve esaminarne innanzitutto la possibilità, e certamente tramite la conoscenza fondamentale delle facoltà della sua natura spirituale. Mentre qui ogni altra filosofia lo abbandona senza poter condurre le sue forze a un accordo armonioso, unicamente quella kantiana gli permette una perfetta soddisfazione. Soltanto essa è la vera filosofia umana, cioè quella nella quale ogni uomo ritrova la forma fisicamente necessaria della sua conoscenza delle cose, la forma moralmente necessaria delle sue azioni, la forma moralmente e fisicamente necessaria della sua fede e della sua speranza, infine la forma dei bisogni, aspirazioni e sentimenti risultanti da tutto ciò, tratteggiati con completezza, fedeltà e precisione e per mezzo di fondamenti che la natura stessa santifica, assicurati contro ogni dubbio. §7 Presentimento di un essere [Wesen] assoluto delle cose, riconoscimento della connessione generale dell’uomo con il soprasensibile, e irresistibile impulso a sconfinare in questo campo, già nei tempi più antichi indirizzavano lo spirito umano verso le speculazioni metafisiche, dandogli una direzione che è proseguita per tutti i secoli, e soltanto sotto molteplici forme ha prodotto sempre nuove teorie del soprasensibile. Wolff diede per primo alla metafisica forma compiuta e sistematica, e Crusius proseguì questo metodo con non minore rigore, secondo la particolarità dei suoi principi fondamentali. Ma l’ordinamento artificiale [kunstvolle] della scienza poteva nasconderne tanto poco i punti deboli, quanto procurarle un influsso dura-

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KARL HEINRICH HEYDENREICH

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turo e indubitabile sull’umanità. La metafisica rimase ciò che era stata sin dall’inizio, un campo di battaglia per interminabili duelli di sette contrapposte. Grande, naturale e semplice è l’idea tramite cui Kant interruppe il dogmatismo apodittico [demonstrierend] del suo tempo, l’idea di misurare e mettere alla prova la facoltà stessa della ragione pura, prima di intraprendere ogni filosofare sulle cose in sé e sull’intero mondo ultrasensibile. Già la scoperta della possibilità di questa impresa sarebbe sufficiente a rendere immortale il suo autore. Ma egli l’ha anche attuata nella sua Critica della ragion pura in maniera insuperabile: ha determinato nel modo più preciso i concetti del sentire, intuire, pensare, conoscere e concepire, e li ha rappresentati nei loro veri rapporti reciproci, ha indicato le forme e i principi della nostra intera conoscenza pura, e così ha anche tracciato i loro immutabili confini. Unicamente l’attività congiunta della sensibilità e dell’intelletto permette, secondo lui, di formare vere conoscenze nel campo dell’esperienza, e i principi puri dell’intelletto hanno senso rispetto all’essere generale delle cose soltanto in relazione all’esperienza possibile. Nel campo dell’esperienza la ragione ordina i giudizi dell’intelletto secondo il suo proprio principio. Quando, secondo questo, essa produce un determinato numero di idee dell’incondizionato, non si è guadagnato con ciò nulla nella conoscenza del soprasensibile, ma si è compiuta soltanto l’unità delle conoscenze dell’intelletto. Egli indica a quali sviamenti [Verirrungen] lo spirito umano deve necessariamente essere esposto, appena misconosce le forme della sensibilità, i fondamenti dell’intelletto, il principio e le idee della ragione, e le applica in modo sbagliato. Non è pensabile quindi intreccio, passo falso, contraddizione della metafisica la cui origine non trovi qui il suo completo commento. Da questo punto di vista la critica della ragione assomiglia in effetti a una mappa di viaggio nella quale sono indicate non soltanto le stazioni e le strade, ma anche i luoghi in cui abitualmente si smarriscono i viaggiatori. Come in questa maniera la sfera della conoscenza umana viene determinata e limitata unicamente al mondo sensibile, così alla metafisica viene prescritto l’abbandono dei suoi possedimenti illegittimi. La sua ontologia si muta nel sistema dei puri principi per la possibilità di un’esperienza in generale; le sue dottrine dell’anima, del mondo e di Dio non appaiono niente più che abusi delle idee: essere semplice, mondo, essere Perfettissimo e necessario. §8 Attraverso la Critica della ragion pura, Kant ha ricollocato la conoscenza umana entro il più piccolo ma più sicuro cerchio della natura sensibile, ha rappresentato i principi a priori per la possibilità della conoscenza della natura in un intero sistematico, e indicato l’impossibilità di elevarsi semplicemente con la ragione oltre la natura conoscibile tramite i sensi, e fare scoperte in un mondo soprasensibile. Egli non avrebbe potuto procedere con coerenza alla teoria della moralità e a quella, con questa connessa, della religione, se nella critica della ragione teoretica non avesse assicurato la possibilità della libertà e la pensabilità priva di contraddizione di tutte quelle idee, che sono fondamenti necessari della religione. Questo era accaduto con

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

ammirevole finezza e, senza temere il sospetto di un conflitto con se stesso, Kant poteva intraprendere la descrizione dei puri principi della moralità, e affermare la necessaria connessione delle verità religiose con quelli. Il metodo critico, di cui qui si serve, esige la stessa ammirazione di quello che domina nell’opera sulla ragione teoretica. Viene fatta chiarezza circa la determinazione e il rispetto dell’unico metodo valido per filosofare sulla moralità, e allo stesso tempo su tutti i disorientamenti [Verwirrungen] e le complicazioni qui possibili. §9 La filosofia non può accontentarsi di avere indicato la differenza peculiare del regno della natura e del regno della libertà ma, poiché la ragione promuove immancabilmente l’armonia di questi due regni e l’uomo se la rappresenta come necessaria, deve anche esporre secondo quali principi sia possibile questa rappresentazione. Tutto questo costituiva l’ultima impresa critica di Kant, che egli ha eseguito nella sua critica della facoltà del giudizio teleologico [Kritik den teleologischen Urtheilskraft4]. Qui egli indica come la nostra facoltà di giudizio, mentre indaga la natura secondo il suo proprio principio della conformità a un fine [Zweckmäßigkeit], con ciò stringe un nesso tra ambito della natura e libertà, e rende comprensibile come queste due sfere del tutto separate possano entrare in armonia. E qui troviamo anche elencata l’intera possibilità dei disorientamenti e dei passi falsi della ragione speculativa nel filosofare sugli scopi e le cause finali della natura. §10 Tutto quanto è stato detto sinora non può servire a dare un’idea soddisfacente della filosofia kantiana a chi non la conosce. Ne presuppongo piuttosto, nei lettori5 di questo saggio, la conoscenza e ne spiego soltanto i lati dai quali si evidenzia il suo grande influsso sul modo di trattare la storia della filosofia [der philosophischen Geschichte]. §11 Affermo che i lavori critici di Kant, così come dovevano provocare una completa rivoluzione della filosofia, rendono necessaria anche una trasformazione radicale del metodo con cui trattare la storia della filosofia, e che i migliori scritti sino ad oggi apparsi su di essa, non possono essere considerati nient’altro che raccolte di materiali in relazione alla storia della filosofia [philosophische Historie] ancora da scrivere secondo principi critici. §12 La storia della filosofia può essere trattata: 1) semplicemente in modo informativo ed ermeneutico, oppure 2) pragmaticamente. Nel primo caso le opinioni ven4 5

Probabile errore di stampa, di “den” al posto di “der”, [ndt]. Probabile errore di stampa, di “beiden Lesern” per “bei den Lesern” [ndt].

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gono solamente rappresentate e chiarite secondo i corretti criteri della spiegazione [Auslegung]. Nel secondo caso viene richiesto di più: 1) di ogni opinione e di ogni sistema si deve cercare di sviluppare geneticamente la sua origine e il suo perfezionamento secondo tutte le cause e i rapporti che possono avervi avuto un’influenza; 2) l’intero e le parti di ognuno devono essere provati secondo principi. §13 Finché non esiste ancora la filosofia completa e determinata, in quanto sistema in sé concluso dei principi originari della conoscenza della natura e dei costumi; altrettanto a lungo non può esserci nessuna vera pragmatica [Pragmatik] nella storia della filosofia, meno che mai in quel significato per cui sistemi e opinioni sarebbero provati in maniera decisiva già con la rappresentazione. Soltanto quando la filosofia ha intrapreso, come scienza, il suo percorso determinato e immutabile per natura, e sono contenuti in essa in modo fondato e sistematico i principi, necessari circoli di attività, e i limiti delle facoltà spirituali vi sono determinati secondo la coscienza generale dell’umanità, quando dunque si sa perfettamente cosa è la filosofia e come si deve filosofare secondo ragione, soltanto allora si può provare, valutare e decidere di ogni tentativo dell’umano spirito filosofico. §14 Una storia pragmatica della formazione della filosofia in un sistema è per la prima volta diventata possibile, dal momento che Kant ha descritto la filosofia realmente e intimamente sistematica. I precedenti sistemi erano in senso proprio tali soltanto secondo la forma esteriore, la quale consentiva di nascondere appena le lacune interne, le incoerenze e le contraddizioni. Da questo punto di vista, la loro verifica sarebbe impossibile, se non potesse avvenire secondo i criteri della filosofia autenticamente sistematica. §15 Una storia pragmatica della metafisica è diventata possibile soltanto perché Kant ha misurato l’intero campo della ragion pura. Una storia pragmatica della filosofia pratica può altrettanto aver luogo soltanto adesso, poiché da Kant ci è stata indicata l’unica via corretta ai veri principi della moralità [Sittlichkeit]. §16 Possiamo adesso aspettarci una storia pragmatica della religione, perché Kant ha sviluppato gli unici principi veritieri della religione razionale [Vernunftreligion]. §17 Soltanto elaborata secondo principi critici la storia della filosofia può avere un’utilità del tutto innegabile per l’umanità, ed essere chiamata con verità una scuola dello spirito umano. -----------------------

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

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Incapace di dare esecuzione qui a queste idee secondo la loro piena estensione, lo farò in un altro luogo con particolare riguardo alla storia dei sistemi dell’ateismo.

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Karl Leonhard Reinhold

SUL CONCETTO DI STORIA DELLA FILOSOFIA. UNA LEZIONE ACCADEMICA1

Se i filosofi di professione fossero d’accordo su un determinato concetto di filosofia, non avrei motivo, per stabilire il concetto provvisorio della sua storia, di indugiare dapprima sulla domanda: che cosa dobbiamo intendere per filosofia? Potrei presupporre la risposta a questa domanda come universalmente nota, o mi potrei anche accontentare di prendere a prestito una definizione dal più vicino e più valido compendio e porla a fondamento dello sviluppo del concetto di storia della filosofia. Soltanto che anche i nostri più famosi docenti di filosofia non concordano né tra loro, né persino con se stessi su ciò in cui consiste l’oggetto autentico della scienza, di cui sono noti conoscitori e cultori; e io vi confesso di non aver trovato sino ad oggi nessuna definizione di questo oggetto che mi soddisfi, nessuna della cui inammissibilità io non sia in grado di persuadervi. In molti compendi, e in parte anche nei più importanti, sarà persino inutile cercare una spiegazione del significato del termine filosofia. I loro autori si sono risparmiati le difficoltà di una simile spiegazione, impelagandosi soltanto nella discussione del concetto di una certa specie di filosofia, o unicamente di una sua cosiddetta parte, e in tal modo hanno evitato di darci conto di ciò che essi stessi intendevano per filosofia. Ad esempio, negli Aforismi di Plattner ho atteso inutilmente una risposta a questa domanda2, anche se in effetti non ero autorizzato a sperare in tanto dalla forma prediletta di quest’opera, che lascia dipendere la scelta delle materie esclusivamente dall’arbitrio dell’autore. Il signor Plattner ci dice soltanto ciò che egli intende per filosofia nel senso più alto del termine, e cioè: una serie di ordinate ricerche in merito alla questione: “Cosa è il mondo e cosa è l’uomo, con riguardo ai sommi 1 K. L. Reinhold, Über den Begriff der Geschichte der Philosophie. Eine akademische Vorlesung, tradotto da K. L. Reinhold, Auswahl vermischter Schriften, Jena 1796, pp. 207-245, usando l’esemplare conservato presso la Historisches Lesesaal della biblioteca centrale dell’università di Tübingen. Il saggio apparve la prima volta nel 1791 come titolo di apertura del primo numero dei “Beyträge zur Geschichte der Philosophie ” di G. G. Fülleborn [ndt]. 2 E. Platner, Philosophische Aphorismen nebst einigen Anleitungen zur philosophischen Geschichte, Bd. 2, Leipzig 1776-1782.

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concetti del generale [Allgemeinbegriffe]3 e ai principi della pura ragione”. Ma, oltre al fatto che un lettore, il quale desideri cominciare a conoscere l’essenza e lo spirito della filosofia tramite questi Aforismi, all’inizio del libro non può indovinare in alcun modo cosa il signor Plattner vorrebbe si intendesse per pura ragione, per concetti del generale (presumibilmente c oncetti generali) e per suoi principi: l’autore avrebbe dovuto indicare cosa intende per filosofia in genere, prima di trattare di una superiore, che secondo il suo proprio giudizio non deve essere altro che la metafisica. Quando il signor Feder, nel suo manuale di logica e metafisica 4, definisce la filosofia il compendio [Inbegriff] delle più importanti conoscenze che possono essere ottenute tramite il semplice uso della ragione, egli sembra certamente distinguere la filosofia dalla storia per il fatto di limitare la prima a ciò che può essere conosciuto (non ottenuto) soltanto con l’uso della ragione. Solo che, poiché nella filosofia contemporanea il concetto della semplice ragione è del tutto ambiguo e manca un criterio riconosciuto per stabilire cosa può essere conosciuto con la ragione, tramite quella spiegazione non si apprende nulla di ciò che si desidera sapere. Infatti! Poiché subito dopo l’autore dichiara la filosofia come conoscenza della natura e delle sue leggi generali, ma ovviamente alla conoscenza della natura appartiene anche ciò che è appreso tramite i sensi, così è del tutto impossibile indovinare cosa potrebbe davvero aver pensato sotto ciò che si lascia ottenere tramite la semplice ragione. Il concetto indicato diventa infine ancora più indeterminato, perché la filosofia viene chiamata il compendio delle conoscenze più importanti. – Tutto quanto di non importante che si lascia conoscere con la semplice ragione, persino qualcosa di più importante che però non è m assimamente importante, sarebbe quindi escluso dall’ambito della filosofia? In che consisterebbero la cosa priva di importanza e quella meno importante, che sarebbero conoscibili con la semplice ragione? O c’è in genere qualcosa di conoscibile tramite la s emplice ragione che possa essere detto non importante? Non è ogni conoscenza possibile con la semplice ragione, una parte essenziale di un intero sistematico e, di conseguenza, ugualmente importante? La definizione di alcuni sostenitori della scuola leibnizio-wolffiana, la quale lascia consistere la filosofia nella scienza delle ragioni sufficienti, mi appare certamente giungere più vicino alla verità, ma aver mancato altrettanto il concetto determinato 3 Letteralmente “concetti del generale” espressione in effetti poco chiara, come Reinhold nota subito dopo [ndt]. 4 Johann Georg Heinrich Feder (1740-1821) è un filosofo di orientamento wolffiano-baumgarteniano. Dimostrò un certo acume quando, insieme a Garve, pubblicò una celebre recensione alla prima edizione della Critica della ragion pura, intuendo i motivi per cui questa metteva fuori gioco il suo disegno eclettico di una conciliazione tra empirismo lockiano e razionalismo wolffiano. Su un suo famoso manuale, Grundriss der philosophischen Wissenschaften nebst der nöthingen Geschichte (Findesin, Coburg 1767) Kant teneva le sue lezioni di metafisica, spesso prendendo dal testo soltanto lo spunto per argomentare contro le affermazioni dell’autore. Qui Reinhold si riferisce a Logik und Metaphysik, (Dieterich, Göttingen 1774), in cui si trova una sezione su “Geschichte der Metaphysik”, (pp. 422-433) [ndt.].

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che essa doveva esprimere. In tale definizione infatti la filosofia non viene distinta abbastanza dalla storia, la quale anch’essa presenta ragioni sufficienti. Chi però crede di aver distinto in maniera adeguata le ragioni sufficienti di tipo filosofico da quelle storiche, perché chiama le prime ora innate, ora determinate a priori, ora a ssolutamente necessarie, dimentica che le sue spiegazioni presuppongono come noto e assodato esattamente ciò attorno a cui verte la questione e su cui si dibatte, proprio perché manca un criterio riconosciuto di tutte queste note. Anche il filo conduttore che ho scelto per le mie lezioni5 non procede da un concetto determinato. Il signor Gurlitt parla soltanto di certi concetti e di conoscenze sugli uomini, il mondo e la divinità, che costituirebbero i contenuti della filosofia. Egli sembra così presupporre, e certamente a buon diritto, che non tutti i concetti e le conoscenze dei sunnominati oggetti appartengono alla filosofia. Soltanto che anche nella sua definizione non è contenuto alcun cenno sulle conoscenze, concernenti la divinità e così via, alle quali egli attribuisce il privilegio di essere autenticamente filosofiche. La sua definizione non è quindi in nulla più determinata di quella antica di Cicerone: la filosofia sarebbe la scienza delle cose divine e umane e delle cause per le quali queste cose sarebbero connesse insieme. Sia Gurlitt che Cicerone confondono la filosofia con il compendio di tutte le scienze, e dai loro concetti non si lascia indicare perché, ad esempio, la logica debba appartenere alla filosofia più della geografia o della conoscenza dei popoli. Le informazioni positive [historischen] sugli uomini e il mondo che ci dà la storia, se la definizione di Gurlitt contenesse il vero concetto di filosofia, meriterebbero il nome di questa scienza molto più appropriatamente dell’ontologia, che non si occupa tanto della divinità, del mondo e degli uomini quanto invece dei più generali predicati delle cose. Se noi procedessimo da una delle citate definizioni, potremmo essere sicuri che mancheremmo il concetto di storia della filosofia, e predisporremmo ogni nostra futura osservazione secondo un falso punto di vista. La domanda: c os’è la storia della filosofia? rimane priva di risposta fino a quando non si è fatta chiarezza circa la domanda: c os’è la filosofia? Si dice storica una conoscenza, in quanto dipende da un’esperienza propria o altrui; filosofica, in quanto dipende dal pensiero. L’elemento storico [das Historische] nelle nostre conoscenze è ciò che noi in esse dobbiamo alla percezione e dunque all’uso dei nostri sensi; l’elemento filosofico [das Philosophisches] quanto invece dobbiamo al ragionamento e di conseguenza all’uso della ragione. L’esserci della cosa e delle sue qualità costitutive è percepito; pensato è il modo e la maniera in cui la cosa si connette con le sue qualità e con le altre cose. I sensi ci forniscono il molteplice che costituisce la materia delle nostre conoscenze degli oggetti dell’esperienza; la ragione procura l’unità tramite cui ogni molteplice delle nostre conoscenze sta in connessione. Ora, allo stesso modo in cui sotto ciò che si lascia percepire tramite l’uso dei sensi nell’esperienza, viene compreso nel significato 5

J. Gurlitt, Compendio della storia della filosofia. Per l’uso delle lezioni, Müller, Leipzig 1786.

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più proprio della parola l’o ggetto della storia: così per oggetto della filosofia si deve pensare la connessione [Zusammenhang] degli oggetti in genere, determinata senza alcuna esperienza e conoscibile soltanto tramite l’uso della ragione, o tramite il collegamento [Verknüpfung] di tutto ciò che è rappresentabile. Filosofia nel senso più rigoroso del termine è scienza della connessione determinata delle cose, indipendente dall’esperienza. Dato che nello stato attuale della filosofia non c’è accordo sul significato neppure di una singola parola, così so troppo bene che le espressioni di questa definizione hanno bisogno di uno svolgimento più preciso, col quale spero perlomeno di trovarmi d’accordo con voi, Miei signori, sul significato di essa. Affermo in primo luogo: che la filosofia è scienza, e con ciò spiego che non considero filosofica nessuna conoscenza che non sia scientifica, e che non si differenzi dalla conoscenza comune, disordinata e senza regole, del non filosofo. Poiché la ragione non agisce altrimenti che tramite il collegamento delle nostre rappresentazioni, così non può esserci uomo la cui ragione non si sia sviluppata in qualche misura e che perciò non possieda una più o meno giusta e più o meno ampia conoscenza della connessione delle sue rappresentazioni e degli oggetti tramite essa rappresentati. Ma, non ogni conoscenza della connessione del rappresentato merita il nome di filosofica: bensì soltanto quella che è il frutto di indagini intenzionali e a ciò finalizzate. La filosofia naturale (non scientifica) dell’uomo comune consiste di osservazioni casuali, che la ragione ha fatto in occasione del suo impegno con i mezzi della soddisfazione dei bisogni sensibili, laddove invece la filosofia scientifica comprende esclusivamente i risultati di una riflessione che ha per scopo la conoscenza della verità per se stessa, il bisogno spirituale della ragione, la connessione delle cose indagata intenzionalmente. Affermo in secondo luogo: la filosofia è scienza della connessione determinata. La connessione di molteplici cose è determinata in quanto essa non si lascia pensare altrimenti o, il che significa la stessa cosa, in quanto è necessaria. Fintantoché questa necessità non viene da noi riconosciuta, la connessione è per noi indeterminata. Se, per esempio, due corpi vengono percepiti nello spazio immediatamente uno accanto all’altro, ha luogo tra essi una connessione, la quale però è indeterminata, in quanto nella nostra coscienza dipende dalla mera percezione dell’essere l’uno accanto all’altro. Due pietre stanno una accanto all’altra, e riconosco che ognuna di esse sarebbe ciò che è anche se non stessero l’una accanto all’altra; la loro connessione è quindi semplicemente casuale, non è spiegabile tramite niente nelle pietre stesse, è indeterminata. Ma si immagini che queste pietre vengano assemblate in un edificio: allora dalla figura di ogni pietra si può spiegare perché essa ammette questo posto e nessun altro, l’intero non si lascia pensare senza le sue singole parti, e nessuna parte senza il suo rapporto con l’altra; la connessione delle pietre è determinata nella misura in cui è necessaria. Proprio alla stessa maniera, due eventi nel tempo possono essere percepiti l’uno dopo l’altro, e la loro connessione rimarrà altrettanto indeterminata finché è determinata nella nostra coscienza tramite nient’altro che la percezione. Cessa di essere indeterminata soltanto quando viene pensato anche il

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fondamento tramite cui viene determinata una necessità dell’essere l’uno dopo l’altro. Dunque, in quanto le cose [Dinge] si connettono l’una con l’altra tramite la mera percezione nello spazio e nel tempo, cioè in quanto esse non stanno in nessuna congiunzione [Verbindung] che non sia il semplice fatto che esistono una accanto e dopo l’altra, allora la loro connessione è indeterminata, perché casuale; e le cose [Gegenstände] sono perciò oggetti della storia, non della filosofia. Affermo in terzo luogo: che la filosofia è scienza della connessione determinata e indipendente dall’esperienza, e caratterizzo con ciò la fonte da cui la ragione attinge la forma della connessione riconoscibile per se stessa, cioè la pura natura dello spirito umano, o la facoltà della rappresentazione, in quanto questa è presupposta all’esperienza nel soggetto rappresentante, e quindi non può essere attinta dall’esperienza. Che ogni corpo debba avere una sostanza, cioè qualcosa di permanente nello spazio, e accidenti, ovvero proprietà mutevoli, e di conseguenza in ogni corpo il mutevole si connetta necessariamente con qualcosa di permanente; che ogni cambiamento debba avere una causa, e di conseguenza tutto ciò che sorge si connetta necessariamente con qualcos’altro, come effetto; che tutto ciò che nello spazio è esistente contemporaneamente insieme a un oggetto, debba essere pensato come agente l’uno sull’altro, reciprocamente, e di conseguenza in una comunanza attiva, ovvero in scambio; – questo non si può riconoscere tramite alcuna percezione, e di conseguenza neanche tramite alcuna esperienza, che è il compendio [Inbegriff] delle percezioni, e che deve soltanto al pensiero la sua connessione stessa. La generalità, che si estende a tutti i casi possibili, non si può fondare sull’esperienza che sempre comprende soltanto un certo numero di casi reali: così come l’esperienza può convincere soltanto di ciò che c’è, non di ciò che deve essere, soltanto dell’esistenza, non della necessità. Al contrario, tali note degli oggetti che hanno il loro fondamento nella facoltà della rappresentazione, e non sono altro originariamente che le forme delle rappresentazioni stesse, si riferiscono agli oggetti in modo necessario e generale, proprio perché questi possono essere rappresentati soltanto tramite esse (soltanto tramite le rappresentazioni riferite ad essi possono essere elevati a rappresentati). L’appropriatezza di una definizione deve darsi conferma tramite la propria fecondità; e la fecondità della nostra non può attualmente mostrarsi in una luce più chiara, se non in quanto noi possiamo dedurre dal concetto esposto di f ilosofia in genere, i concetti delle scienze filosofiche finora conosciute, la qual cosa non si verifica per nessuna attuale definizione. La definizione corretta della filosofia in generale deve contenere la nota del genere, la quale si adatti a tutte le cosiddette parti della filosofia come alle sue specie; deve essere adeguata in una stessa comune maniera alla logica, alla metafisica, alla fisica e alla morale, e da essa deve potersi comprendere perché e in virtù di cosa tutte queste scienze portano il nome di filosofia. In senso lato, cosa [Ding] significa tutto ciò che può essere oggetto [Objekt] di una rappresentazione. La scienza della connessione necessaria delle cose in questo ampio significato comprende quindi anche la scienza della necessaria connessione tra i nostri meri [bloßen] concetti, in quanto noi possiamo essere consapevoli di essa

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in quanto tale. Questa scienza è la logica, la quale espone le leggi del pensiero, tramite cui la connessione tra i nostri meri concetti viene determinata con riguardo alla sua necessità e universalità. Come scienza della connessione necessaria delle cose in senso stretto, ovvero degli oggetti diversi da tutte le mere [bloßen] rappresentazioni, la filosofia comprende: 1) 2) 3) 4) 5) 6)

L’ontologia, o la scienza della connessione necessaria degli oggetti [Objekte] in generale, in quanto questa è determinata tramite le sue note più generali; La psicologia razionale, ovvero la scienza della connessione necessaria delle note, tramite cui l’anima, o il soggetto della facoltà della rappresentazione, deve essere concepita; La cosmologia razionale, o la scienza della connessione necessaria delle note, tramite cui deve essere pensato il mondo o il compendio delle sostanze finite; La teologia razionale, o la scienza della connessione necessaria, sotto cui il mondo deve essere pensato con un essere [Wesen] da esso diverso quale sua causa, e le note tramite cui questo essere deve essere pensato; La fisica pura, o la scienza della connessione necessaria, sotto cui le sostanze conoscibili tramite i sensi, ovvero i corpi, devono essere pensati tanto in merito alle loro note costanti quanto a quelle transitorie; La morale , o la scienza della connessione necessaria, che deve essere determinata per le azioni arbitrarie tramite l’auto-attività [Selbstthätigkeit] della ragione.

Poiché la filosofia empirica consiste soltanto nell’applicazione dei principi di quella pura all’esperienza, e di conseguenza nella scienza della connessione necessaria delle note tratte dall’esperienza, allora la nostra definizione si adatta a ogni possibile parte della cosiddetta filosofia dell’esperienza, non meno che a quella pura. Io ritengo perciò – senza potermi soffermare in una discussione ancora più precisa di esso, alla quale comunque nel corso della nostre riflessioni avremo qualche occasione per tornare – di poter formulare il mio concetto di storia della filosofia nella seguente maniera: q uesta è la rappresentazione in compendio [Inbegriff ] dei cambiamenti che dalla sua origine sino ad oggi, ha sperimentato la scienza della connessione necessaria delle cose, ovvero il compendio dei destini [Schicksale] che ha sperimentato l’aspirazione [Streben] verso una tale scienza. Nel concetto rimasto sin’ora del tutto indeterminato di filosofia sta il motivo principale del perché anche il concetto di storia della filosofia è rimasto ancora oggi non meno ambiguo e incerto, e anche del perché si è confusa l’autentica storia della filosofia ora con la s toria dello spirito umano, ora con la storia delle s cienze in generale, ora con la s toria di singole scienze filosofiche, ora con la storia della vita e delle opinion i dei filosofi.

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Io distinguo la storia della filosofia in primo luogo dalla storia dello spirito umano. Si intende per spirito umano le attitudini all’umanità immediatamente presenti nell’uomo in contrasto con quelle animali. La scienza dei cambiamenti che il genere umano ha sperimentato riguardo alla propria natura consistente di disposizioni animali e spirituali, è la storia dell’umanità 6, mentre la storia dello spirito umano si limita propriamente soltanto ai destini della condizione delle disposizioni spirituali. Essa si occupa dell’enumerazione dei diversi e più considerevoli gradi dello sviluppo progressivo di queste disposizioni e delle sue occasioni esterne, fondate nelle caratteristiche generali e particolari delle organizzazioni, nei climi, nelle rivoluzioni fisiche e politiche; si estende alla progressiva formazione, ora favorita ora ostacolata dalle citate circostanze, delle capacità tanto recettive che attive dell’animo, della sensibilità come della ragione. La storia della filosofia, al contrario, ci indica lo spirito umano intento a un unico e determinato scopo, nell’aspirazione di scoprire la connessione delle cose, e di estendere e rettificare i suoi concetti di questa. In quanto per storia della filosofia non si intende ora un qualche asciutto elenco di opinioni e di sistemi filosofici; in quanto questa storia indica allo stesso tempo i fondamenti storici dell’origine di ogni sistema nella condizione ogni volta peculiare dello spirito umano, e in particolare nello spirito individuale del suo fondatore; in quanto essa illumina anche l’origine psicologica delle dottrine filosofiche, allora si collega essa stessa alla storia dello spirito umano, e ne costituisce una parte molto importante, perché racconta le epoche dello sviluppo delle più eccelse forze teoretiche dello spirito, – ma sempre soltanto una parte che non si può scambiare con l’intero senza la confusione di concetti essenzialmente diversi. In secondo luogo, distinguo la storia della filosofia dalla storia delle scienze. A un primo sguardo, si dovrebbe ritenere questa distinzione superflua, poiché già soltanto il tradizionale ordinamento, generalmente in uso presso le accademie, di tutte le discipline dell’erudizione [Gelehrsamkeit] nelle quattro Facoltà, che sono denominate con il nome comune di scienze, basta a indicare che la filosofia dovrebbe essere subordinata al genere come una specie soltanto. Poiché però la filosofia è la più antica tra tutte le cosiddette scienze del pane7, e nei primi tempi della cultura tutte le altre scienze furono coltivate unicamente da filosofi, e filosofi erano i primi fondatori e commentatori [Ausleger] delle leggi civili, inventori e pratici dell’arte medica, non meno che maestri e ministri della religione, e poiché quindi le scienze in genere portavano il nome di filosofia; così specialmente nel recente periodo della filosofia popolare, quando il significato di questo nome aveva perso la sua determinatezza, niente era più naturale che si mescolasse la storia della filosofia vera e propria con la storia di altre scienze, e che in quella si accogliesse senza distinzione ciò che in parte appartiene alla storia delle scienze in generale, in parte soltanto alla storia di scienze particolari poste oltre l’ambito della filosofia 6 Anche la storia naturale del genere umano deve essere distinta dalla sua descrizione naturale. All’ultima appartengono i meritevoli contributi del signor Meiner. 7 Ovvero discipline, che essendo oggetto d’insegnamento, permettevano di lavorare. Questa accezione è analoga al francese “gaigne-pain” [ndt].

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vera e propria. Poiché nelle nostre prossime osservazioni abbiamo a che fare soltanto con la storia della scienza della connessione necessaria delle cose in genere, ci preoccuperemo dei destini della m atematica, della storia naturale, della retorica e della poetica altrettanto poco che di quelli della m edicina, del diritto e dell’erudizione religiosa; e grazie al fatto che distinguiamo scrupolosamente dal nostro oggetto tutto ciò che è casuale, guadagniamo più tempo per dedicarci in esso alla trattazione dell’essenziale. In terzo luogo, distinguo la storia della filosofia dalle storie particolari di singole parti della filosofia, e in special modo della metafisica, che viene confusa spessissimo e oggi del tutto abitualmente con la filosofia. Certamente, l’incapacità così manifesta della metafisica quale abbiamo avuto sin’ora, di sciogliere i grandi problemi concernenti le ragioni dei nostri diritti e doveri in questa vita e della nostra aspettativa in quella futura, con generale soddisfazione dei filosofi [Selbstdenker], i quattro partiti principali, in cui i conoscitori e i cultori di questa scienza si dividono su ogni questione importante8, e il conflitto sempre più intricato di questi partiti hanno infine portato al risultato che si è cominciato a negare il rango di scienza non soltanto a ogni metafisica quale avuta sin’ora, ma anche a ogni possibile metafisica; e hanno inoltre condotto al fatto che persino da cattedre accademiche si dichiarano nell’ontologia per semplici opinioni proprio gli stessi teoremi metafisici, tramite cui nella cosiddetta teologia naturale si dimostra la verità elementare della religione e della moralità. Ma se la metafisica viene troppo trascurata e scredidata a causa dell’incoerenza dei nostri empirici [Empiriker] e filosofi popolari, tuttavia si può negare altrettanto poco che essa sia stata elaborata dai razionalisti e dai sistematici in modo troppo esclusivo e collocata troppo in alto, con la conseguenza che essa viene ugualmente fraintesa da entrambi gli antipodi. Quale scienza dei primi fondamenti conoscitivi del sapere umano, come è stata definita da Baumgarten, quale regina di tutte le scienze, come essa viene esaltata dai suoi adoratori, essa è stata posta con grave mancanza di diritto al posto della s cienza filosofica elementare [philosophischen Elementarwissenschaft], e persino sul trono della vera filosofia. Poiché noi per filosofia intendiamo il genere di quella scienza di cui la metafisica è soltanto una specie, la nostra storia della filosofia racconterà i destini della metafisica soltanto in riferimento alla filosofia in generale, e oltre a ciò in nessun modo escluderà i destini della scienza della natura, della morale e della logica, dalla parte relativa che esse hanno nei destini dell’intera filosofia, nella misura in cui sono inseparabili dalla storia della scienza della connessione delle cose. In quarto luogo, distinguo la storia della filosofia da una raccolta di descrizioni biografiche di filosofi celebri, dall’antologia o dall’indicazione del contenuto delle loro opere, come anche dall’informazione [Angabe] storica sulle loro dottrine ed opinioni in base ai loro propri scritti o a notizie tratte da altri. La biografia dei filosofi non appartiene assolutamente alla storia della filosofia, la quale si preoccupa soltanto 8 Reinhold allude qui alla scenografia storico-concettuale del “quadrilatero” delle sette filosofiche, con cui riassume la condizione della filosofia contemporanea. Su questa immagine, cfr. supra, p. 175 [ndt.].

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dei destini interni della scienza, ma in nessuna maniera dei suoi cultori e promotori. Soltanto nei casi particolari in cui è possibile indicare in modo determinato l’influsso del carattere psicologico o morale di un uomo, o di certe circostanze della sua vita, sul suo sistema filosofico, e se certamente questo sistema, la sua opera effettiva, era in sé ragguardevole, e l’influenza di quei dati storici su di esso decisiva, soltanto in questi casi, non certo molto numerosi, la storia della filosofia è autorizzata a prendere provvisoriamente in considerazione le biografie. Senza considerare che il racconto delle circostanze biografiche, solitamente in sé poco importanti e soprattutto per i filosofi antichi tratte da fonti poco affidabili e molto ristrette, è nelle lezioni accademiche sulla storia della filosofia un’inutile perdita di tempo. La storia della filosofia va distinta anche dalla storia letteraria di questa scienza, la quale consiste negli elenchi completi e precisi delle opere ammirevoli che appartengono all’ambito della filosofia, e in una breve ma determinata caratterizzazione del loro più essenziale contenuto. La storia della filosofia nomina soltanto quelle opere che hanno fatto epoca nella scienza, introdotto cambiamenti essenziali nella sua forma, determinato il suo stato storico [jeweiligen]. Ma il racconto delle dottrine e delle opinioni dei filosofi che nei nostri attuali compendi, messo insieme con le biografie e le informazioni letterarie, porta il nome di storia della filosofia, non merita certamente questo nome, anche quando è separato dalla biografia e dalla storia letteraria. Anche la più precisa informazione [Angabe] s torica sulle dottrine e le opinioni dei filosofi non fornisce nient’altro che semplici materiali per la storia della filosofia, ma in nessun modo questa stessa. Non ogni tipo di rappresentazione, che un uomo ha avuto realmente o presuntivamente, il quale a torto o a ragione ha ricevuto il nome di filosofo, appartiene alla storia della filosofia; altrimenti ogni banale alzata d’ingegno dovrebbe appartenervi, perché l’uomo che l’ha avuta è stato annoverato tra i filosofi da un qualche scrittore, ad esempio da Diogene Laerzio, malgrado che egli in effetti avrebbe meritato di essere nominato soltanto tra i matti. Possono aspirare ad avere un posto nella storia della filosofia soltanto quei tipi di rappresentazione di singoli uomini, che in modo mediato o immediato concernono la ricercata connessione delle cose, coincidono con la filosofia come scienza, e ammettono un significato propriamente filosofico, e di conseguenza razionale. È un’assurdità, di cui a ogni occasione si rendono responsabili i nostri attuali storici della filosofia [Geschichtschreiber], il fatto che credano di aver svolto il loro mestiere quando citano le dottrine degli antichi filosofi raccolte sotto il titolo di opinioni con le loro stesse parole o da fonti diverse, e poi le confutano se non si lasciano conciliare con le proprie opinioni, o persino le denunciano come evidenti insensatezze, e in questo caso spesso lo storico della filosofia non può meravigliarsi abbastanza di come un filosofo abbia potuto dire qualcosa di così poco filosofico, mentre io non posso stupirmi abbastanza di come lo storico della filosofia sia giunto a considerare una tale cosa come un materiale per la storia della filosofia. Così, ad esempio, la teoria dei numeri di Pitagora viene citata come un elemento della dottrina che deve caratterizzare la filosofia di questo celebre uomo; e nello stesso tempo viene dichiarata proprio la più avventurosa delle trovate, la più inspiegabile

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stravaganza. Che cosa si deve intendere in questo caso per filosofia? Quale criterio ammettere, in base al quale venga concesso o negato a un tipo di rappresentazione o a un uomo un posto nella storia della filosofia? C’è un altro criterio oltre il senso filosofico di un tipo di rappresentazione, per contarlo tra quelli filosofici? Se un principio dottrinale [Lehrsatz], il quale anche venga ascritto a un filosofo famoso, non ammette assolutamente un tale senso, allora non appartiene per nulla a ciò che può chiamarsi storia della filosofia. Se invece ammette un tale senso, allora il suo sviluppo appartiene a ciò che deve essere chiamato la forma della storia della f i l o s o f i a , perché un tale principio dottrinale diventa un’idonea materia di questa scienza soltanto per mezzo di un tale senso. Le cause del perché la storia della filosofia, specialmente quella antica, compare nei nostri compendi più come storia dell’umana follia che come storia della sapienza [Weltweisheit]; le cause del perché i filosofi [Selbstdenker] dell’antichità più celebri e spesso anche più meritevoli, vi sono maltrattati nel modo più indegno, e i loro profondissimi sguardi nel santuario della verità sono travisati e infamati [verschrieen] come i più triviali errori, consistono nel fatto che il loro senso razionale non poteva essere trovato dai nostri tipi di rappresentazione, che certamente invece hanno cattiva fama [verschrieenen], e che si fraintendevano e si dovevano fraintendere proprio nell’esatta misura in cui tanto più precisamente ci si atteneva nella loro valutazione ai più tardi principi di una delle quattro principali sette metafisiche, o quanto più si era ormai stati abituati dal metodo della filosofia popolare a prevenire tutte le più profonde indagini grazie ai presunti oracoli del sano intelletto umano. L’uomo che padroneggia non soltanto gli antichi monumenti e le fonti della storia della filosofia, ma possiede anche tutte le conoscenze ausiliarie utili e necessarie alla loro illuminazione, come quelle storiche, filologiche, grammaticali e logiche, con tutta questa preparazione è comunque destinato ad essere soltanto un raccoglitore e un meccanico elaboratore di materiali per una futura storia della filosofia, non l’ideatore del suo piano9, non l’edificatore del suo edificio concettuale. Noi potremo presentare uno storico della filosofia soltanto quando avremo una filosofia senza appellativi [eine Philosophie ohne Beynahmen], una filosofia κατ′εξοχην, una filosofia che abbia soppiantato tutte le filosofie e si stabilisca su fondamenti compresi universalmente come validi [allgemeingeltenden]. Già soltanto per cominciare a conoscere provvisoriamente i materiali della storia della filosofia, della cui ricerca e indagine ci dobbiamo accontentare sino ad allora, non basta che le dottrine dei filosofi, finora indicate [angegebenen], siano anche spiegate con le dimostrazioni tratte dalle fonti. Devono venire determinate con precisione da un lato in rapporto agli oggetti che concernono, dall’altro in rapporto alla disposizione originaria dello spirito umano, non meno che a partire dalla condizione particolare 9 Il termine “Plan” ha un valore decisivo nella discussione tedesca sulla storia della filosofia, da quando Chladenius ne tematizzò l’importanza per il giusto equilibrio tra oggettivo e soggettivo in questo genere di conoscenza, cfr. J. M. Chladenius, Allgemeine Geschichtswissenschaft, worinnen der Grund zu einer neuen Einsicht in allen Arten der Gelhartheit geleget wird, Leipzig 1752 [ndt].

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delle singole intelligenze, da cui sono scaturite. Se il ricercatore storico della filosofia [Geschichtsforscher der Philosophie] non è d’accordo con se stesso sugli oggetti dei diversi tipi di rappresentazione degli antichi filosofi [Selbstdenker]; se egli stesso non sa che cosa deve pensare su questa o quella questione a cui questo o quel filosofo [Weltweisen] ha tentato di rispondere; se non ha trovato quella stessa risposta che la ragione filosofica, in quanto riconosce se stessa, deve dare non dal punto di vista unilaterale di questa o di quella setta ma secondo le leggi della disposizione originaria dello spirito umano; allora egli non comprenderà mai la dottrina che giudica, non indicherà mai il vero che essa contiene accanto al falso, non potrà scoprire mai il suo senso razionale. Egli non la accoglierà nella sua storia in forza del proprio intimo carattere filosofico, ma soltanto perché l’ha trovata rubricata sotto il nome di una dottrina filosofica. Egli non è ancora giunto con la propria indagine sulla facoltà rappresentativa, conoscitiva e appetitiva tanto avanti da elevarsi al sopra di tutti i partiti; ancora appartiene egli stesso a uno dei quattro che con gli altri tre procedono a un conflitto senza fine; e così, giudicherà i filosofemi dei tempi antichi e di quelli recenti, non secondo i finora misconosciuti principi universalmente validi [allgemeingultig] della ragione comune a tutti gli uomini, ma secondo gli oscillanti fondamenti di una singola setta, tratti da concetti non sviluppati; egli li porterà alla sbarra davanti al tribunale del proprio sistema, anch’esso controverso nel mondo filosofico; e perciò scoprirà profonda saggezza in un’affermazione indeterminata e ambigua se non persino falsa, oppure un’evidente assurdità nell’osservazione più fine e intelligente, semplicemente perché l’una sembra suffragare il suo sistema, mentre l’altra rovesciarlo. Io perciò ritengo la conoscenza della natura della facoltà rappresentativa, conoscitiva e appetitiva come una condizione essenziale per lo studio della storia della filosofia, tanto quanto la competenza sulle fonti antiche e sulle scienze ausiliarie storico-filosofiche; e credo che ciò che deve essere attinto dalla prima si rapporta a ciò che si lascia trarre dalla seconda come lo spirito della storia della filosofia al suo c orpo. Questo è il resoconto provvisorio che ho creduto di dover dare a Voi, Miei Signori, circa il modo in cui sono intenzionato a trattare la storia della filosofia. Nella nostra prossima riflessione indagheremo le epoche principali dei cambiamenti che devono essersi verificati nell’animo umano, prima che la ragione potesse raggiungere il grado di sviluppo della sua forza che è indispensabile per filosofare, o per riflettere sulla connessione delle cose. Noi tratteremo quindi di quel periodo della storia dello spirito umano che contiene il progressivo passaggio di questo spirito dalla condizione del semplice istinto nel cosiddetto stato di natura, a quell’uso della ragione raggiunto soltanto nel grembo della vita sociale, con il quale iniziò il lavoro della ragione filosofica.

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Georg Gustav Fülleborn

CHE COSA SIGNIFICA RAPPRESENTARE LO SPIRITO DI UNA FILOSOFIA?1

È l’oggetto di un dizionario critico, raccogliere e giustificare tutte le combinazioni in cui noi usiamo la parola spirito, a imitazione dei francesi. Ma io mi attengo qui a quell’uso che è importante per la storia della filosofia, nel senso per cui ad ogni occasione si fa dovere allo storico della filosofia di rappresentare lo spirito di questo o quel sistema, di questa o quella filosofia. Qualche tempo fa questo era un compito molto semplice: dagli scritti dei pensatori famosi si raccoglieva una quantità di dichiarazioni, massime, sentenze e invenzioni, e in tal modo ci veniva dato uno spirito del signor von Leibnitz, di Hume, di d’Argens come anche di altri. Se noi nella parola spirito pensiamo innanzitutto al non corporeo, non abbiamo conquistato ancora niente di utile alla spiegazione di quel modo di dire. Dobbiamo ancora scomporre il concetto in modo più preciso, e da tale analisi risulta che noi colleghiamo con esso prevalentemente i seguenti concetti: 1) il concetto dell’interno di un oggetto che, per contrasto con la forma esteriore, si potrebbe chiamare materia; 2) il concetto del generale o dell’intero, che o è diffuso attraverso le singole parti oppure viene prodotto tramite esse; 3) il concetto dell’essenziale in un oggetto, in opposizione al casuale; 4) il concetto del massimamente oggettivo, l’elemento più rilevante, o più importante; 5) il concetto del puro, che è quanto rimane dopo la separazione da ogni elemento eterogeneo, o quanto sussisteva già prima di ogni ulteriore aggiunta; 6) il concetto del vivente, come ciò che è agente in e per se stesso.

1 G. G. Fülleborn, Was heisst, den Geist einer Philosophie darstellen?, in “Beyträge zur Geschichte der Philosophie”, cit., pp. 191-203. Apparso originariamente nel 1792, il saggio viene tradotto considerando il testo ripubblicato da Fülleborn nella riedizione del 1796; questa seconda edizione è l’oggetto della ristampa anastatica disponibile nella collana dell’Aetas Kantiana. Fülleborn è il maggiore rappresentante del kantismo storiografico, come la lucidità del testo qui presentato già da sola dimostra. Anch’egli, come Göss, andrà progressivamente ad assumere un ruolo marginale non appena il primo piano della scena filosofica verrà occupato da Fichte e dal suo allievo Schelling, come da coloro che, ad esempio Jacobi, si oppongono al fichtismo come teoria, se non come filosofia pratica della libertà [ndt].

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

7) il concetto del vivificante, che comunica a quanto è fuori di sé la propria forza. Da tutto ciò risulta che spirito è un qualcosa che fa di un oggetto ciò che esso è, il proprio in cui è determinata la differenza dagli altri oggetti. Una volta applicati questi significati alla locuzione spirito di una filosofia, che cosa questa vorrà dire esattamente? A tal proposito, noi distinguiamo facilmente in primo luogo la filosofia in quanto scienza oggettiva, dagli sforzi del pensatore di trovare o fissare una tale scienza, cioè dalle diverse maniere di filosofare [Arten zu philosophieren]. La filosofia di un Cartesio, Newton, Leibnitz, Wolff non è ancora la filosofia in generale, così come invece la geometria di un Euclide, Karsten, Kästner, è la geometria in generale. In secondo luogo, noi distinguiamo la filosofia come scienza secondo il concetto scolastico, da essa in quanto saggezza secondo il concetto mondano. Lo storico della filosofia ha a che fare con le diverse maniere di filosofare. Di cui, secondo la distinzione principale, si danno soltanto tre tipi. O i pensatori affermavano che quanto essi avevano concepito sulla connessione generale delle cose fosse realmente così e ne elaboravano quindi dimostrazioni: maniera dogmatica di filosofare. Oppure mettevano in dubbio e negavano la possibilità e la verità di tali conoscenze e dimostrazioni: la maniera scettica. O infine indagavano i fondamenti di queste affermazioni, le possibilità di queste conoscenze, la validità di queste dimostrazioni nella natura dell’uomo stesso: la maniera critica di filosofare. Affermare, dubitare e indagare costituirebbero quindi l’elemento interno, essenziale, generale, massimamente oggettivo e vivente nelle diverse filosofie dei pensatori, quella cosa da cui procedono tutte le loro singole ricerche, per mezzo della quale sono condotte, e a cui ritornano, e quindi noi dovremmo parlare di uno spirito dogmatico, scettico e critico delle filosofie, in cui naturalmente si trovano anche sottodistinzioni. Chi ha filosofato sempre soltanto in una di queste maniere, ha filosofato secondo certi principi, i quali possono essere proposizioni formalmente espresse oppure no. Chi non aveva tali principi, o non li applicava nelle proprie ricerche, non appartiene alla storia della filosofia. Principi sono il generale [das Allgemeine] che si ritrova in tutte le speculazioni particolari, l’interno di ogni opinione dottrinale, l’elemento che dà alle singole ricerche forza e relazione, cioé le loro più essenziali componenti, senza le quali le ricerche cessano di essere qualcosa più che un mero opinare. Quindi, rappresenta lo spirito di una filosofia quello storico che rintraccia i principi di una filosofia, e ne mette alla prova le singole affermazioni secondo quei principi ed in base ad essi le spiega. Naturalmente, in questa descrizione, egli dovrà considerare se questi principi sono empirici o razionali, e gli ultimi se logici o metafisici, se sono generali e necessari, o soltanto particolari e casuali. La loro applicazione determina la connessione in una maniera di filosofare, l’unità che domina nelle ricerche singole, con una parola l’elemento sistematico. Espone quindi lo spirito di una filosofia quello storico che ne indica la connessione, prodotta tramite principi, di tutte le sue parti. Lo scopo ultimo della filosofia è il collegamento della conoscenza con gli scopi essenziali dell’uomo, ovvero la saggezza. I pensatori hanno più o meno mirato a questa nelle loro fatiche, in modo diretto o mediato. Ci rappresenta quindi lo spirito di una

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GEORG GUSTAV FÜLLEBORN

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filosofia, quello storico che per noi sviluppa in che modo questa o quella maniera di filosofare aveva avuto o poteva avere maggiore o minore influenza sulla vita reale, in che misura essa teneva ben presente quest’influenza, o invece la perdeva di vista. Secondo quanto precede, si dovrebbe parlare di uno spirito scientifico, sistematico e pratico delle filosofie, fatte salve ovviamente alcune altre sottodistinzioni. Così, ad esempio, rappresentare lo spirito dello scetticismo significherebbe altrettanto che indicare cosa è lo scetticismo, ciò per cui esso si distingue dalle altre maniere di filosofare, su quali fondamenti poggia, come si connette in se stesso, e quali siano i suoi effetti. Questo spirito può e deve essere estratto dal rivestimento corporeo delle parole, espressioni e rappresentazioni. Lasciamo cadere le espressioni, i numeri, le idee, le monadi, le omeomerie e così via, per cercare il puro pensiero, interno ed essenziale, che in quelle è avviluppato. Ignoriamo pure le trovate e le ipotesi con cui un pensatore adornava la sua speculazione, o che egli si concedeva, e atteniamoci alle sue affermazioni massimamente oggettive e più importanti, che stanno in connessione tra loro. Ma forse sorge qui la perplessità, se attraverso un tale procedimento la storia della filosofia non possa perdere la fedeltà che è necessaria ad ogni storiografia e non possa trasformarsi in un romanzo, nel quale tutti i filosofi pensano e insegnano così come pare allo storico. Si è infatti spesso ripetuta l’affermazione che una storia pragmatica della filosofia dovrebbe essere scritta propriamente a priori. Ma da questo lato non c’è niente da temere per la fedeltà della storia. A voler essere precisi, una tale fedeltà può aver luogo molto meno in una storia di avvenimenti che in una storia di opinioni e di affermazioni. Gli avvenimenti dipendono da una quantità di incalcolabili e molto spesso minime circostanze concomitanti; essi vengono osservati, trasmessi dalla tradizione, e cambiano quasi ad ogni passaggio. La stessa osservazione immediata viene modificata dalle caratteristiche, dal punto di vista e dall’umore dell’osservatore. Del tutto diversa è la situazione che riguarda la storia dei pensieri umani. Qui lo storico si attiene a informazioni originarie, alle quali chiunque può accedere. Egli non può fare sorgere l’oggetto di cui racconta attraverso il suo racconto: né può osservare ciò che accade; ha davanti a sé fatti evidenti, fatti registrati, e può soltanto comprenderli e metterli alla prova. Non lo preoccupa se un pensatore, il cui sistema egli sta considerando, forse pensava in modo del tutto diverso da come scriveva, e forse agiva in modo del tutto diverso da quanto pensava: deve soltanto riferire ciò che quello ha espressamente insegnato. Ma il narratore non inserirà le sue proprie idee? Il wolffiano non comprenderà e giudicherà questi fatti in modo del tutto diverso dal cartesiano? Egli prende forse questa o quella espressione di un filosofo nel senso che il suo sistema collega ad essa; ne trova l’elemento essenziale e caratteristico proprio in ciò in cui consiste l’elemento essenziale e caratteristico della sua filosofia, e prima che ce ne accorgiamo, ci rappresenta in un Parmenide un antico Spinoza, in un Aristotele il più deciso dei lockiani.

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

Mi pare che proprio qui la maniera critica di filosofare si dimostra preferibile. Il filosofo critico non prende propriamente nessun partito, non è né unilaterlamente dogmatico né scettico, né materialista né immaterialista, o come ancora si possano chiamare le altre sette. Egli considera tutte queste posizioni dal lato della loro relazione con le leggi dello spirito umano: non trova nelle dottrine degli empiristi o dei razionalisti niente di risolutivo, così come non dubita con lo scettico [Zweifler]; ma osserva prevalentemente in che modo le affermazioni degli uni, o il dubbio dell’altro siano fondate in quelle leggi generali dello spirito umano, in che misura l’uno o l’altro abbia oltrepassato i confini della facoltà di conoscere, o in essi si sia mantenuto. Il filosofo critico non crede a nessuna filosofia realmente esistente, ma considera la filosofia provvisoriamente soltanto come una scienza possibile, e giudica di conseguenza le invenzioni dei pensatori secondo il grado in cui esse si avvicinavano a quest’idea di una scienza o ne rimanevano lontane. Proprio perciò egli è anche posto in condizione di scrivere una storia pragmatica della filosofia. Ogni storia pragmatica suppone un compito, che tramite essa deve essere risolto: deve fornire regole e modelli per ciò che ancora può e deve accadere. Il dogmatico e lo scettico hanno già deciso sopra ogni problema, e considerano già completato il lavoro della filosofia. Una storia pragmatica della filosofia è quindi possibile soltanto tramite un’indagine critica e una rappresentazione delle diverse maniere di filosofare. E dato questo presupposto, rappresentare lo spirito di una filosofia significa indicare in che modo le affermazioni di un filosofo sono fondate nella natura dello spirito umano, sono commisurate alle sue leggi, e rispettano o violano i suoi confini. Di conseguenza, nella rappresentazione dello spirito di una filosofia: in primo luogo non importa che si conservino proprio le immagini e le espressioni in cui il pensatore incorniciò le sue dottrine, anche se è bene citarle per agevolare chi deve giudicare. In secondo luogo, sono escluse tutte le opinioni senza fondamenti filosofici, come le fantasticherie del fuoco e della pietra filosofale, o le dottrine dell’anima dormiente [Seelenschlafe], della sede delle anime, e così di questo passo: tutte le idee [Einfälle] sconnesse sopra questo o quell’oggetto filosofico, che non poggiano su alcun principio e non stanno in collegamento tra loro: tutte le ipotesi che non hanno nessun oggetto possibile, non sono sufficienti, e che devono essere qualcosa più che meri mezzi polemici di difesa. Tutte queste cose possono essere fatte notare incidentalmente, per caratterizzare il filosofo stesso, ma non appartengono allo spirito di una filosofia. In terzo luogo, un’esposizione delle circostanze esteriori e dei motivi che condussero un pensatore proprio a una maniera di filosofare, non trova il suo posto specifico nello spirito di una filosofia. Qui vogliamo sapere soltanto che cosa insegnò, ma non perché scelse proprio questa dottrina, se un tale perché non va cercato nel cammino della ragione filosofica, in quanto dipese da circostanze esteriori. Lo sviluppo di queste ultime può servire al massimo come abbellimento.

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GEORG GUSTAV FÜLLEBORN

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In quarto luogo, si può rappresentare lo spirito di una filosofia anche tramite mirati estratti dagli scritti di un filosofo, se è stato indicato in generale il giusto punto di vista da cui giudicarlo. Io non posso permettermi di indicare uno qualsiasi dei miei limitati tentativi come modello di una tale rappresentazione: ma sono persuaso di avere perlomeno tenuto ben presente questo ideale. Se in seguito mi sentissi in grado di osare una completa storia della filosofia, allora cercherò di avvicinarmi ancora di più ad esso.

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Georg Friedrich Daniel Göss

SUL CONCETTO DI STORIA DELLA FILOSOFIA. UNA LEZIONE ACCADEMICA1

Miei Onorevoli Signori, quanto meno ci si era è impegnati a caratterizzare con precisione i confini di una scienza, a indicare scrupolosamente gli oggetti che rientrano nel suo ambito, e quindi a separare da essa ogni elemento eterogeneo, tanto più era necessario che ci dovessero essere divergenze e imbarazzo, non appena ne dovesse essere determinata da un lato l’utilità e l’influsso sulle altre scienze, dall’altro la specie [Art] e il modo di trattarla. Di ciò la logica può darvi i più inequivocabili esempi; ma questa considerazione si impone in modo ancora più forte al ricercatore di storia della filosofia. Con meraviglia egli osserva, già sulla soglia di questa scienza, come alcuni degli uomini più in vista si impegnino, tramite un ideale [idealisches] dipinto di tutte le conoscenze ed abilità che vi sono necessarie, non ad incoraggiare quanto piuttosto a spaventare e a far recedere dal suo santuario colui che volesse occuparsene; mentre altri ancora con passi spediti si attrezzano alla svelta per questo compito e presumono di soddisfare tutte le aspettative del conoscitore, se forniscono soltanto un racconto il più fedele possibile della vita e degli scritti degli antichi pensatori. Egli percepisce con stupore come non di rado l’uno pronunci, con l’aria2 del giudice infallibile, la significativa massima che non ci si possa mai sciogliere dal groviglio di contraddizioni che fanno della storia della filosofia un

1 D. F. G. Göss Über den Begriff der Geschichte der Philosophie. Eine akademische Vorlesung, in Über den Begriff der Geschichte der Philosophie und über das System des Thales. Zwo philosophische Abhandlungen con M. Georg Friedrich Daniel Göss Privatleher der Philosophie, Erlangen bey Johann Iacob Palm, 1794. Si traduce dall’esemplare conservato presso la Biblioteca dell’Università di Basilea. Come indicato nella prima nota del paragrafo a lui dedicato, Göss passò presto dagli studi filologici all’attività filosofica nel campo del kantismo. Non parteciperà però alla scena filosofica post kantiana, e i suoi interventi diventeranno disomogenei, andando dalla statistica alla teologia. Sul tema del saggio tradotto in questa sede, pubblicherà pochi anni dopo un testo dal contenuto teoricamente non dissimile, Blicke in das Gebiet der Geschichte der Philosophie, Kleefeld, Leipzig 1798. Le note nell’originale sono indicate da asterischi, qui sostituite da cifre arabe. I capoversi sono stati introdotti dal traduttore, [ndt]. 2 Probabile refuso di stampa, di “Mine” per “Miene” [ndt].

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

perpetuo campo di battaglia, oppure vede bene con quale riso di scherno qualcun altro cali lo sguardo su chiunque sia interessato alla storia della filosofia piuttosto che a molte altre scienze, come su un cavaliere errante, il quale comunque, tanto per spezzare una lancia, fa la sua apparizione sull’arena generale; mentre un altro ancora di tutto ciò non percepisce nulla, e crede di avere infallibilmente raggiunto il più elevato scopo della sua fatica, quando con scrupolo raccoglie a partire dalle loro fonti le dottrine di ogni setta, che ordina e intreccia in un tutto. Se li interrogate circa l’utilità e l’influenza di questa scienza sui rimanenti campi dell’umano sapere, per nessun altro motivo che questo stesso troverete presso gli addetti e gli esperti le più divergenti opinioni. Alcuni sono così vivamente persuasi che la conoscenza precisa delle dottrine e dei principi dei filosofi [Weltweisen] dell’antichità sia indispensabile per chiunque voglia in futuro pretendere il nome di uomo colto, che senza questa difficilmente gli riconoscerebbero profondità e acutezza in qualsiasi altra scienza; altri, al contrario, ne limitano l’intero valore al non molto importante piacere che ci procura il progressivo sviluppo e la formazione dello spirito umano, e il confronto che in tal modo siamo in grado di porre tra le scoperte degli antichi e dei nuovi filosofi. Infine, molti trovano il suo valore unicamente nel comune desiderio di sapere che cosa la parte illuminata del mondo antico ha pensato a proposito di importanti indagini, sulle quali nel nostro tempo ci si divide, o è egemone un pregiudizio; mentre altri non hanno alcuna preoccupazione a negarne ogni valore, o a considerare la storia della filosofia al massimo come degna della fatica di diligenti eruditi da studiolo. Ma così come Loro, miei Onorevoli Signori, possono attribuire queste unilaterali e contraddittorie affermazioni circa il modo di trattare la storia della filosofia e la sua utilità unicamente all’indeterminatezza dei suoi confini e della sua estensione, così possono essere non meno convinti che anche la sua attuale imperfezione sia una conseguenza inevitabile di questa situazione. Infatti, come si voleva determinare con certezza che cosa appartiene alla storia della filosofia, fintantoché non si fossero stabiliti con precisione i confini del suo ambito? In che modo si poteva essere sicuri di non avervi ammesso niente da un’altra scienza, con la quale essa sta in un rapporto più o meno stretto, e di non averla confusa con questa nello stesso grado in cui si credeva di averla invece perfezionata? Chi vorrebbe essere d’accordo con coloro che elaborano come materia di una storia della filosofia soltanto quelle dottrine e quei principi degli antichi pensatori che si adattano unicamente a una storia della metafisica, o con coloro che invece includono nel suo ambito ogni cosa che sia oggetto del sapere umano? Che cosa dovrebbe impedire allo storico di seguire nell’elaborazione più la propria preferenza e la propria inclinazione, che prescrizioni che egli non ha conosciuto e leggi che egli non ha saputo darsi? Quale meraviglia, se molto spesso si portava a termine più una raccolta dei pensieri più rozzi e delle trovate più avventurose e quindi, anziché una storia delle dottrine razionali e delle opinioni sugli oggetti filosofici, si componeva piuttosto una storia degli sviamenti dello spirito umano? se si rigettavano dalla storia della filosofia le indagini più profonde e le più acute osservazioni degli antichi filosofi, le quali o non venivano capite, oppure le si riteneva troppo aride e

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GEORG FRIEDRICH DANIEL GÕSS

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capziose, e quindi si occupava il loro posto con scoperte in altre arti e scienze o con riflessioni sugli avvenimenti politici? Ma certamente, miei Onorevoli Signori, non si poteva riuscire a caratterizzare in modo preciso i confini e l’estensione della storia della filosofia, finché non si fosse fatta chiarezza su cosa si debba pensare per essa, e questo non si poteva finché non si aveva nessun concetto corretto di filosofia in genere. Infatti, lo sviluppo preciso e completo del concetto di storia della filosofia presuppone proprio la definizione, molto più importante e difficile, della filosofia in generale, con la stessa necessità per cui, mancando questa, manca anche il suo importante concetto, e in conseguenza del fatto che esso viene pensato più ampio o più ristretto, a quella deve essere attribuito un punto di vista completamente diverso. Io non posso, miei Onorevoli Signori, convincervi in maniera più vivace della verità di questa osservazione, che caratterizzandovi brevemente le definizioni a me note, e cercando di indicarvi la loro indeterminatezza, ambiguità, o manifesta erroneità, le quali dovevano necessariamente scaturire dal presupposto di un falso concetto di filosofia in generale. Garve 3 dà questa definizione: La storia della filosofia è un racconto dei diversi destini, che il sapere umano ha subito dall’inizio sino ai nostri tempi. In conseguenza di tale definizione, questo filosofo universalmente stimato e onorato, non poteva aver pensato per filosofia nient’altro che quanto da molti anni quasi universalmente si è soliti intendere: un compendio [Inbegriff] di tutto il sapere umano. Da ciò si comprende perché egli non ha sufficientemente distinto la storia della filosofia né dalla storia dello spirito umano, né da quella della vita e degli scritti degli antichi saggi, né dalla storia delle altre discipline, e neanche persino dalla scienza degli Stati e dei popoli, ché anzi egli raccolse tutte quante sotto il concetto di storia della filosofia. Ciò diventerà Loro ancora più evidente, se vorranno darsi la soddisfazione di studiare direttamente il prezioso saggio dell’uomo notevole, dal quale Loro però già sanno di non potersi aspettare altro che un ideale di storia della filosofia. Un filosofo non meno stimato e capace, il signor Eberhard4, ci dà un’altra definizione [Erklärung], nel primo paragrafo della sua storia generale della filosofia: Storia della filosofia è la storia della conoscenza della colta ragione del genere umano circa le proprietà [Beschaffenheiten] generali delle cose. Ma, senza concordare con il signor autore circa la nota indeterminata e del tutto superflua che invece gli deve essere sembrata decisiva, perché ben difficilmente può darsi una conoscenza razionale incolta, un’incolta conoscenza per concetti, balza agli occhi che questo famoso e abile 3 Nel suo notevole saggio De ratione scribendi historiam philosophiae, Lips. 1768, p. 8. Con questa definizione coincide quella di Brucker: Historia philosophiae vel doctrinarum vel personarum est. Doctrinarum historia scientiarum fata exibet etc. Tuttavia egli divide con ragione la storia dei filosofi dalla storia delle loro dottrine. 4 Göss si riferisce a J. A. Eberhard, Allgemeine Geschichte der Philosophie. Zum Gebrauch academischer Vorlesungen, Hemmerd, Halle 1788. Si tratta di uno dei manuali più noti del tempo, anche per la grande fama dell’autore che in sostanza prese la guida dell’opposizione “leibniziana” alla filosofia critica. Anche in seguito ad alcune critiche, (cfr. ad es. la recensione apparsa sulla “Allgemeine deutsche Bibliotheck”, 1790, 92. Bd., 1, pp. 26-36), Eberhard ne fa una seconda edizione “Mit einer Fortsetzung bis auf gegenwärtigen Zeiten”, (Hemmerde und Schwetsche, Halle 1796, XXIV-318, [ndt]).

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

pensatore per filosofia non possa aver inteso altro che la metafisica, e anzi soltanto l’ontologia, in quanto scienza dei predicati più generali delle cose. La sua definizione è perciò chiaramente troppo ristretta e ancora oltre a ciò, vaga e indeterminata. Alcuni vantaggi rispetto a queste citate definizioni mi sembra possedere quella che Loro trovano nella Storia dell’intelletto umano filosofico, della quale il signor professore Buhle da molto tempo ci ha fatto dono5: La storia della filosofia, o come non troppo correttamente titola il signor Buhle, la storia dell’intelletto umano filosofico, è un racconto pragmatico dei molteplici tentativi, che le intelligenze migliori dell’antichità e dei tempi più recenti hanno fatto, per ottenere soddisfazione sulle più importanti questioni della ragione. E tuttavia, io devo dichiarare questa definizione come non meno sbagliata. Infatti, quali tentativi circa le più importanti questioni della ragione meritano il nome di filosofici e sono quindi subito adatti alla materia di una storia della filosofia? Sono dunque esclusi dal suo ambito tutti i tentativi sulle questioni non importanti o meno importanti della ragione? Ci sono in genere questioni della ragione non importanti, o non sono esse tutte ugualmente importanti? – ma allora appartengono tutte alla storia della filosofia? Oltre a ciò, tramite questa definizione non sono determinati in modo abbastanza definito o piuttosto per niente definito, i confini per i quali la storia della filosofia viene separata dalla storia dello spirito umano, dell’estetica e della matematica. Il signor Gurlitt, il cui manuale6 abbiamo scelto come filo conduttore per le nostre lezioni, nonostante i suoi rilevanti ma scusabili errori nella rappresentazione come nella caratterizzazione dei sistemi degli antichi pensatori, dà la seguente definizione: La storia della filosofia, dice, è un compendio [Inbegriff] cronologicamente e sistematicamente ordinato dei cambiamenti che hanno subito quei concetti e conoscenze sopra gli uomini, il mondo e la divinità i quali formano il contenuto della filosofia, dai tempi più antichi ai nostri. Ma anche da questo sviluppo del concetto di storia della filosofia balzano subito agli occhi del pensatore l’indeterminatezza e l’equivocità. Infatti, quali tra i concetti e le conoscenze che concernono la divinità, gli uomini e il mondo, appartengono al dominio della filosofia? In conseguenza di questa definizione, non meritano altrettanto bene di essere accolte in esso la storia delle religioni, la storia dell’umanità, la scienza della geografia e dei popoli, che tutte presentano conoscenze e concetti sopra la divinità, il mondo e gli uomini? Non potrebbero persino avanzare la pretesa a questo posto onorevole, con molto più diritto che non l’ontologia, se noi volessimo dare il nostro assenso a questa definizione? Ma anche volendo ammettere, miei Onorevoli Signori, che il colto signor autore del nostro filo conduttore abbia inteso evitare questa ambiguità tramite l’aggiunta: che formano

5 Buhle è stato un importante storico della filosofia, nonché a partire dalla metà degli anni Novanta un buon espositore della filosofia critica, alla quale andò aderendo in quel volgere di anni. Cfr. Lehrbuch der Geschichte der Philosophie, 8. Bde., Wittwe, Göttingen 1796-1804; per l’orientamento pragmatico-kantiano, cfr. soprattutto il Lehrbuch der Geschichte der Philosophie, 8. Bde., Röwer, Göttingen 1800-1804. Soprattutto la descrizione della crisi interna al kantismo, attraverso Reinhold, Beck e Fichte, presente nel sesto volume del Lehrbuch, conserva una significativa chiarezza anche per il lettore attuale [ndt]. 6 Göss si sta riferendo a J. Gurlitt, Abriss der Geschichte der Philosophie, Müller, Leipzig 1786 [ndt].

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GEORG FRIEDRICH DANIEL GÕSS

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il contenuto della filosofia, anche così comunque la sua definizione si adatta soltanto alla storia della metafisica, ed è evidentemente troppo stretta. Da questa breve ma, come spero, stringente critica delle principali definizioni di storia della filosofia, osserviamo dunque come la loro determinazione e correttezza dipenda del tutto dal concetto di filosofia in generale, che deve stare a loro fondamento, e poiché l’esatta connotazione del contenuto, scopo, utilità ed estensione della storia della filosofia, nonché il modo e la maniera di trattarla, risulta soltanto dalla giusta definizione di storia della filosofia, osserviamo anche come per noi sia necessario stabilire prima di tutto il concetto di filosofia. Ma non oserei mai assumermi questo difficile compito, se non avessi come predecessori e guide su queste irte e ancora poco battute strade, alcuni dei più intelligenti filosofi, e se io non sentissi il dovere, per quanto la nostra intenzione lo esiga, di mettervi a conoscenza delle profonde indagini di questi uomini illustri, indagini che sono state intraprese soprattutto con l’intento di fondare una giusta definizione di storia della filosofia. Nella sua meditata lezione accademica7, Reinhold, questo stimato e grande pensatore, presenta la seguente definizione [Definition] del concetto di filosofia: Filosofia è la scienza della connessione determinata delle cose, indipendente dall’esperienza. Ma per quanto illimitata sia la mia considerazione per i grandi meriti di questo filosofo rispetto a me personalmente come per tutta la filosofia, mi è però impossibile tacere il seguente dubbio circa questa definizione. Attraverso essa, se consideriamo la nota di genere cose nel suo significato più ampio come tutto il rappresentabile, la filosofia viene sufficientemente distinta dalla storia? Non possiede anche la storia una connessione delle cose determinata e indipendente dall’esperienza? Essa quanto meno elabora ragioni sufficienti; ma su queste si basa la connessione necessaria e perciò determinata, e questa è indipendente dall’esperienza in quanto non viene percepita con i sensi, ma può essere riconosciuta soltanto tramite la ragione. Il termine indistinto e ambiguo cosa può essere elevato a nota di genere senza una più precisa determinazione? e dove sta il criterio per il quale io riconosca proprio le cose che formano il possesso della filosofia? Se invece prendiamo cose nel senso più ristretto, non è allora questa stessa definizione troppo ristretta e si adatta alle diverse discipline della filosofia, più che alla metafisica? Se queste osservazioni sembrano Loro, miei Onorevoli Signori, non del tutto insignificanti, la definizione su ciò fondata dovrebbe difficilmente soddisfarci: Storia della filosofia è la rappresentazione in compendio [Inbegriff] dei cambiamenti che la scienza della connessione delle cose, necessaria e indipendente dall’esperienza, ha sperimentato dalla sua origine sino ai nostri tempi. Tuttavia, il filosofo jenese, non so se per questi o per altri motivi, ha egli stesso abbandonato questa definizione, e nei suoi estremamente apprezzabili contributi alla giustificazione degli equivoci futuri in filosofia8 ne ha elaborata un’altra, alla quale però io non sono incline ad attribuire una preferenza,

Nel primo numero dei Contributi sulla storia della filosofia di G. G. Fülleborn. Göss si sta riferendo ai Contributi alla rettifica dei fraintendimenti sorti finora tra i filosofi, pubblicati da Reinhold a partire dal 1790 [ndt]. 7

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in quanto non contiene alcuna nota per la quale vengano designati gli oggetti che appartengono all’ambito della filosofia. Ma lo scopo della mia lezione mi impedisce di citarvela, di esaminare più da vicino e di valutare il suo contenuto, così come per gli stessi motivi devo tralasciare le definizioni di Schmid e di Kant, la quale ultima Kiesewetter e con poche differenze Jacob hanno accolto nei loro manuali. Tanto più mi permetterete allora di trattenermi sulla definizione della quale ci ha fatto dono da tempo l’eccellente autore delle Idee originali, poiché essa appare essere rivolta allo stesso scopo, per il quale anche io premetto la presente lezione alle nostre future fatiche. Il signor professore Heydenreich dice9: La filosofia è la scienza della natura umana, in quanto le sue facoltà [Vermögen] sono determinate attraverso forme, regole e principi originarii, essenziali, universalmente validi, e l’attività di quelle (facoltà) può essere compresa in particolare e in generale attraverso la semplice coscienza di queste (forme, regole e principi). Ma anche in questo sviluppo del concetto di filosofia lo sguardo inquirente del pensatore scopre notevoli errori. Infatti: 1) essa raggruppa nel concetto di filosofia tutte le facoltà della natura umana, le originarie come le derivate, che sono le specie di queste, e hanno anche le loro necessarie e generalmente valide forme e condizioni. Senz’altro, l’autore sembra voler sfuggire a questa contestazione con il fatto che egli nella delucidazione aggiunta, limita queste facoltà semplicemente a quelle di rappresentazione, di appetizione [Begehrung] e di sentimento [Gefühl], e quindi soltanto alle facoltà originarie della natura umana; ma appunto questo è ciò che viene chiesto, e che avrebbe dovuto essere indicato tramite una nota nella definizione. 2) Essa è anche indeterminata ed ambigua. Si dice che è la scienza della natura umana – quindi dell’intera natura umana, spirituale altrettanto che fisica? o soltanto di quella spirituale, e quindi scienza dello spirito umano, dell’anima umana, come il signor professore Heydenreich stesso ha cura di ammettere nella sua enciclopedia10? Ma allora l’oggetto della filosofia sarebbe soltanto l’anima umana, la natura spirituale dell’uomo, e sotto questo riguardo la definizione sarebbe quindi più adatta alla psicologia che alla filosofia. Tale errore mi sembra soprattutto evidenziare che questo sottile pensatore ha evidentemente confuso la natura spirituale dell’uomo con l’essenza [Wesen] della natura spirituale dell’uomo, o natura dello spirito umano, dell’anima umana, poiché soltanto nel primo caso si chiederebbe che cosa lo spirito umano è, non, come nell’ultimo, in che cosa consiste. 3) Da questa definizione non risulta in alcun modo come la matematica sia distinta dalla filosofia. 4) Mi sembra anche che la determinatezza e la precisione di questa discussione del concetto di filosofia siano state più danneggiate che favorite dal fatto che la fonte della conoscenza, la coscienza, vi è stata accolta. Non dovrebbe infatti questo seguire da sé da una definizione della filosofia, che può scaturire soltanto dalla semplice riflessione, e quindi essere concepita soltanto tramite la semplice coscienza? Le Nel suo Idee originali, p. 5. Göss si sta riferendo alla Heydenreich’s encyclopaedische Einleitung in das Studim der Philosophie nach den Beduerfnissen unsers Zeitalters: nebst Anleitungen zur philosophischen Literatur, Weigard, Leipzig 1793, [ndt]. 9

10

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parole quindi: e l’attività di quelle facoltà attraverso la coscienza di queste (forme, regole e principi) può essere compresa in particolare e in generale, dovrebbero, se determinatezza e precisione sono le prime leggi di un’esposizione filosofica, essere espunte da quella di Heydenreich. E quindi senza pretese presento Loro la mia definizione, e la raccomando alla loro riflessione come alla critica equa di uomini competenti: la filosofia è la scienza delle forme, regole e principi necessari e universalmente validi delle originarie facoltà dello spirito umano e di tutte quelle cose che sono determinate tramite quelle (forme, e così via). 1) Secondo questa definizione, la fonte della conoscenza della filosofia è la coscienza, in quanto soltanto tramite essa possono essere comprese queste forme, regole e principi, necessari e universalmente validi, che sono fondati nelle facoltà originarie dello spirito umano, in quanto esprimono la loro attività secondo la loro propria disposizione [Einrichtung], nella singola cosa come in rapporto a tutti gli oggetti tramite esse determinati. 2) Il contenuto della filosofia consisterebbe in queste forme e condizioni necessarie e universalmente valide, in quanto specie e modi di agire determinati delle originarie facoltà spirituali, e riguarderebbe tutti gli oggetti che sono determinati attraverso queste, e di cui esse costituiscono l’ultimo fondamento rappresentabile. 3) Lo scopo della filosofia non sarebbe meno che quello di indagare in modo soddisfacente la natura dello spirito umano, in quanto in esso sono fondate le originarie facoltà spirituali, con riguardo a queste loro proprie forme, regole e principi, alla loro relazione e determinazione. 4) L’estensione, infine, giungerebbe fin dove è possibile concepire tutte le forme e leggi fondate nelle originarie facoltà dello spirito umano in particolare e in universale, tramite conoscenze, attinte all’originaria fonte della conoscenza. Da questa discussione del concetto di filosofia in genere, risulta ora per la storia della filosofia la seguente definizione: storia della filosofia è la rappresentazione in compendio [Inbegriff] di tutti i cambiamenti che, dall’inizio sino ai nostri giorni, ha subito la scienza delle forme, delle regole e dei principi, necessari e universalmente validi, delle originarie facoltà dello spirito umano, e di tutte le cose che sono determinate attraverso quelle. Miei Onorevole Signori, io sono senz’altro molto lontano dal lusingarmi con l’idea che tale definizione della filosofia, che vi ho appena presentato, e la definizione del concetto di storia della filosofia fondata su di essa, verrebbero approvate dalla maggioranza dei voti in un’assemblea di filosofi, ma perlomeno credo di poter affermare che tramite essa quegli errori che inficiano e che necessariamente dovevano inficiare tutte le definizioni precedenti, sono stati evitati con successo. Mi sembra anche che essa abbia il non piccolo vantaggio di indicare in modo più determinato contenuto, scopo ed estensione della storia della filosofia, e tramite ciò di renderne meglio percepibile la differenza dalla storia dello spirito umano, delle scienze, della vita e delle opinioni dei filosofi. Infatti, in conseguenza di questa definizione la storia della filosofia11 può e deve rappresentarci soltanto in che modo lo spirito umano era da sempre impegnato a indagare i fondamenti ultimi di tutto 11

Probabile refuso di “Geschichte die Philosophie”, al posto di “Geschichte der Philosophie”, [ndt].

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ciò che è rappresentabile e non rappresentabile, concepibile e non concepibile, e a spiegarsi il più completamente possibile, tramite questa determinata e necessaria connessione, l’estensione e lo scopo di tutte le cose; quali figure e modificazioni hanno avuto i suoi concetti lungo la sequenza di gradi, che va dal suo sviluppo ed elevamento rispetto alla conoscenza sensibile sino a quella intellettuale; quali sistemi esso si è andato formando e quali erano i motivi e le ragioni della loro ascesa, influsso e decadenza. Quanto diverso non è invece il contenuto della storia dello spirito umano? Questa tratta dei molteplici destini e dei cambiamenti del suo stato, che esso ha sperimentato attraverso tutti i secoli, e caratterizza le diverse epoche del suo progressivo sviluppo e della sua formazione non meno che del suo spesso completo inflaccidirsi, o del suo frequente singolare smarrirsi. Ci descrive il modo in cui esso qui sotto un cielo sempre sereno, e risvegliatosi presto dal suo sonno leggero nel lieto godimento di un agio privo di preoccupazioni, sia stato incoraggiato a riflettere su di sé e sulla natura che lo circonda, e come con velocità alata avesse subito raggiunto i più elevati gradi della perfezione; come là una felice organizzazione lo rendeva capace a ogni sforzo e all’espressione delle proprie forze, e in grado di combattere i più grandi ostacoli per fare progressi del tutto inattesi anche sotto lo strepito delle armi e nelle distruzioni spietate della guerra; o come invece dispotismo e papismo [Papstthum] lo avessero imprigionato a catene di ferro, paralizzando tutte le sue forze; come pregiudizio e superstizione ora lo portavano nei più miserevoli vicoli ciechi, e ora lo inabissavano nell’inazione priva di pensiero, finché di nuovo una felice incertezza lo risvegliava, e tutto d’un tratto metteva in tensione ogni sua forza; in che modo infine rivoluzioni politiche e fisiche in parte bloccavano, ma in parte reclamavano il suo sviluppo. Miei Onorevoli Signori, con quale diritto si credeva perciò quasi universalmente di poter pretendere al plauso e al nome di storico pragmatico della filosofia soltanto con ciò, che ci si era impegnati a cercare le cause [Gründe] e i motivi dei principi filosofici e dei sistemi, più nei rapporti esteriori che a scoprirle nella natura dello spirito umano? A che scopo ci si poneva quasi come unico compito quello di indicare sempre con precisione quale influsso avevano avuto sul modo di pensare di un uomo le leggi, i costumi e gli ordinamenti dello stato nel quale viveva, i viaggi che faceva, i maestri del cui insegnamento si era giovato e gli amici della cui compagnia aveva goduto, senza riflettere a come questo influsso di rado sia percepibile, ma ancora meno si possa stabilire con una qualche sicurezza? Perché si cercava abitualmente più di mostrare lo spirito umano nella sua attività che di renderne percepibili, e per altri godibili, i frutti? Non era questa una chiara conseguenza del concetto indeterminato e non corretto di storia della filosofia? Anche la storia delle scienze non può essere confusa con quella della filosofia, la qual cosa sinora si poteva ben poco evitare dato che per filosofia non di rado si era intesa la scienza dell’intero sapere umano. Da quella deve essere accuratamente separata la storia della matematica e la storia naturale, altrettanto che la storia dell’umanità, delle religioni, etc. E se in tal modo, miei Onorevoli Signori, il suo ambito sarà subito certamente limitato, tuttavia Loro possono aspettarsi che esso viene coltivato e viene reso

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coltivabile nell’esatta misura in cui i suoi confini sono stati determinati e segnati in modo più preciso. Infatti, poiché sinora ci si era sempre occupati soltanto della sua espansione, e si cercava di guadagnare nuovo terreno ora dalla storia politica, ora dalla storia delle arti e delle altre scienze, era necessario che si dovesse trascurare il terreno autentico della storia della filosofia. Si enumeravano con scrupolo le scoperte degli antichi filosofi in matematica e astronomia, nella medicina e nelle altre scienze ed arti, e più spesso ci si accontentava di aver citato soltanto sbrigativamente i loro filosofemi. Si era ben più preoccupati di non lasciarsi scappare nessuno dei loro pensieri nelle altre scienze e nelle altre arti, anche se paradossali e azzardati, che non di raccogliere i modi di rappresentazione filosofici e di determinarne senso e contenuto. Si era persuasi spesso di invogliare, tramite una tale maniera di trattare la storia della filosofia, lo stanco viandante alla prosecuzione del suo viaggio fastidioso, e ci si esonerava tanto più volentieri dalla fatica di rendergli comodo e percorribile il suo spinoso e ruvido sentiero, in quanto si era convinti di spaventare così ogni altro da un futuro tentativo. In conseguenza della nostra definizione, la storia della filosofia è non meno sufficientemente distinta dalla storia della vita e delle opinioni degli antichi pensatori. Le biografie non appartengono assolutamente all’ambito della storia della filosofia, che tratta unicamente dei destini di questa scienza, tranne quando le biografie hanno avuto un’influenza decisiva sui sistemi dei filosofi, e anche in questo caso può fare riferimento ad esse soltanto in modo provvisorio e può essere citata soltanto la cosa più essenziale a questo scopo. Per non dire, miei Onorevoli Signori, che così si è guadagnato molto tempo sia in esposizioni orali che nell’elaborazione scritta, allora Loro notano da sé che certamente non può essere considerato un errore irrilevante quello di alcuni testi scientifici i quali, oltre ad alcuni asciutti materiali per una semplice biografia di antichi filosofi, quasi non contengono niente che possa caratterizzare i loro sistemi. Infatti, non sarebbe certo un’impresa priva di merito, se la biografia degli antichi filosofi fosse finalmente trattata in modo che ogni volta si impari a coglierne correttamente l’impronta propria del loro spirito e del loro carattere, in parte per alleggerire il faticoso studio dei loro scritti, in parte per poter indicare in modo più sicuro e determinato le cause e i motivi spesso per noi inesplicabili di alcuni principi e modi di rappresentazione che sono da cercare nello spirito individuale di chi li ha stabiliti. Se si è osservato questo risultato con il più felice successo nei riguardi di poeti e prosatori greci come presso i latini, perché non si dovrebbe potersene aspettare un beneficio uguale, se non maggiore per lo studio delle opere spesso così oscure e difficili degli antichi filosofi? Non posso poi non menzionare qui il fatto che hanno diritto ad essere considerate nella storia della filosofia soltanto quelle opere di filosofi che in questa scienza fanno epoca, che le danno una direzione completamente nuova oppure un impulso straordinario, in breve che hanno la più evidente influenza sulla determinazione dello stato della filosofia. Infatti, miei Onorevoli Signori, a che scopo la precisa e scrupolosa enumerazione di tutti e di ogni scritto, dei loro molteplici destini ed elaborazioni, a che scopo quelle indagini ampie e assai protratte e quei giudizi circa la loro autenticità

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o inattendibilità? Tutto questo, come anche l’esatto elenco storico delle opinioni e dei principi dottrinali, senza considerare il loro corso, le vie e gli sviamenti dei diversi sistemi e delle diverse sette, è il compito del relatore critico [kritischen Relatoren], e una tale storia non è ancora in alcun modo storia della filosofia. Se quindi quanti se ne sono occupati, sino a qui avevano più o meno questo scopo, Loro comprendono da sé che questi erano, senza occuparci troppo dei loro meriti, in gran parte soltanto raccoglitori di materiali, e nient’affatto storici pragmatici. Certamente, non è possibile alcuna trattazione pragmatica della storia della filosofia finché uomini di riconosciuto acume e talento critico da una parte non abbiano riportato le opere degli antichi pensatori alla loro purezza, e separato quelle interpolate da quelle invece autentiche; o finché, dall’altro lato, intimamente pratici delle leggi dell’ermeneutica, non siano penetrati sino al vero senso delle espressioni e non abbiano rappresentato i loro sistemi più con una breve e compatta sintesi che tramite singole e abbozzate proposizioni. E tuttavia, anche con tutta la loro critica e il loro approfondito esame, e con la più esatta rappresentazione dei fatti, che formano le premesse della storia della filosofia, essi non appartengono affatto alla classe degli storici [Geschichtsforscher]. Infatti, spetta loro soltanto di conquistarsi una precisa conoscenza della lingua, e in particolare delle maniere proprie di pensare e di agire dei filosofi, come non meno dello spirito dei tempi nei quali vissero, e dello stato delle scienze e del grado di cultura che lo spirito umano aveva raggiunto allora, per provare l’autenticità dei loro principi dottrinali così come dei loro scritti o per comprenderli correttamente, e comunicare fedelmente il loro contenuto, secondo il suo senso genuino. Ma quanto ben più importante è il compito dello storico pragmatico? Questo non può in alcun modo accontentarsi di ciò che i filosofi hanno detto, ma deve indicare cosa hanno pensato. Secondo lo scopo della storia della filosofia, egli deve propriamente riconoscere e rappresentare in modo pertinente il senso razionale dei sistemi degli antichi pensatori [Selbstdenker], indagare la loro origine e il graduale sviluppo, ricercare le cause [Gründe] e i motivi dei loro principi e delle loro affermazioni, e indicare le vie sulle quali sono giunti alle loro speculazioni. Deve determinare in che modo le costruzioni dottrinali di certi pensatori si differenziano dalle filosofie di altri, in cosa hanno contribuito alla formazione di singoli sistemi, o all’ampliamento della filosofia in generale, e infine deve indicare correttamente i destini e i cambiamenti che hanno subito. Tramite questa precisa determinazione del contenuto e dello scopo della storia della filosofia scompare adesso quell’ideale che si era immaginato quando la si confondeva ora con la storia dello spirito umano, ora con la perfetta indicazione storica di tutto ciò che un qualsiasi uomo dall’inizio del mondo sino ai nostri tempi poteva avere sognato, favoleggiato, ragionato e sragionato, di tutto ciò che egli poteva avere scritto di sé e altri sopra di lui, di tutto ciò che poteva avere avuto influsso sulla determinazione e formazione del suo spirito, e sulle modificazioni dei suoi principi dottrinali. Spariscono quelle colossali difficoltà, che ci si vanta di dovere vincere, quando si vuole riconoscere autenticamente il contenuto dei filosofemi degli antichi pensatori, e rappresentare lo spirito dei loro sistemi secondo i loro molteplici cambiamenti.

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Di quanto poco, però, gli attuali cultori della storia della filosofia hanno avuto davanti agli occhi questo scopo, ci persuade anche il più rapido sguardo ai loro sforzi tanto differenti. Quale meraviglia allora, se essi, invece di farci familiarizzare con il senso segreto e nascosto dei modi di rappresentazione filosofici, raccontavano in grandissima parte soltanto cosa dicevano i loro autori, ma in nessun modo anche che cosa avevano pensato; se essi, invece di indagare l’oscuro cammino che lo spirito umano prese in questa o quella ricerca, o che doveva necessariamente prendere, sì da mettersi nel modo più semplice in condizione di spiegare correttamente il loro senso, abitualmente si fermavano alle singole affermazioni, enumeravano con scrupolo ogni famosa e non famosa affermazione, che giudicavano e, cosa che era il caso più frequente, rigettavano, sempre senza metterne una migliore al suo posto; se essi, invece di rappresentare i sistemi secondo la loro intera connessione, il loro progressivo sviluppo e formazione, e con ciò rendere comprensibile il loro proprio carattere e contenuto, li riferivano secondo frasi intese a casaccio, e tramite un simile smembramento sottraevano la crescita e il progresso della filosofia allo sguardo del pensatore. Certo, già da lungo tempo, miei Onorevoli Signori, si sarebbe bandita la follia ancora universalmente dominante, di onorare Anassagora come l’inventore dell’unico vero Dio, e la famosa polemica, condotta con così tanta passione dai tempi di Thomasius e Bayle sino ai nostri, sulla questione se i più antichi filosofi erano ateisti o teisti, mai sarebbe giunta a maturazione se nel giudizio sugli antichi sistemi si fosse sempre proceduto nella maniera in cui così tanto a lungo non si riuscì a concludere nulla, in quanto si misconosceva il vero scopo della storia della filosofia. Certo, si sarebbero scoperte meno contraddizioni negli edifici dottrinali dei filosofi, e li si sarebbe accusati meno di evidenti insensatezze, se ci si fosse impegnati a studiare di più la loro origine nella natura dello spirito umano, e a seguire l’andamento del loro sviluppo. Certo, si sarebbe giunti già prima a rifiutare il metodo sbagliato e tuttavia tanto in uso, di esporre i sistemi dei filosofi secondo brevi e sconnesse proposizioni, nelle quali dovevano rimanere non percepibili la loro concatenazione e forma sistematica non meno che il loro contenuto, e la crescita dell’intera filosofia. Ma di sicuro, per colui che sente in sé la vocazione a lavorare secondo questo scopo, la conoscenza dei monumenti e delle fonti della storia della filosofia [Weltweissheit], le utili e necessarie informazioni storiche e filologiche e lo stesso felice talento di immedesimarsi con il pensiero ogni volta nello spirito dei filosofi e acquisire il circolo delle loro idee, devono essere molto meno necessarie che la precisa conoscenza della natura dello spirito umano e delle facoltà spirituali su di essa fondate. Infatti, queste soltanto contengono i principi generalmente validi della ragione comune a tutti gli uomini, attraverso cui si può fare chiarezza circa gli oggetti delle diverse specie di rappresentazioni, rispondere a ogni possibile domanda che da sempre la ragione umana ha posto per spiegarsi la necessaria connessione di tutto ciò che è conoscibile e comprensibile, separare dal falso il vero delle sue speculazioni, e in genere determinare il loro contenuto filosofico. Soltanto secondo i principi e i fondamenti che sono stabiliti nella natura dello spirito umano, si possono valutare giustamente le affermazioni altrui, e provare la loro ammissibilità o

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non ammissibilità entro una storia della filosofia; si può indicare con precisione il punto di vista, dal quale l’intelletto filosofico procedeva ogni volta, ripercorrere la sua strada, e attirare l’attenzione sui suoi sviamenti. Non questo o quel sistema al quale si aderisce, ma soltanto queste necessarie e immodificabili leggi e principi, in cui consiste l’essenza di ogni filosofia, devono essere il criterio, in base al quale si riconosce l’influenza e il contenuto di ogni sistema, o soltanto di ogni tentativo di formare un edificio filosofico. La conoscenza precisa di queste condizioni e leggi delle facoltà spirituali dell’uomo, della loro relazione e determinazione, e in genere dell’intera natura dello spirito umano ci gioverà ancora più del felice dono della divinazione, e della massima consuetudine scientifica con le fonti e i mezzi ausiliari della storia della filosofia; e se le più inequivocabili prove del nostro tempo garantiscono che la filosofia critica ci ha procurato questa conoscenza in modo completo, allora con quanto precede si può spiegare in modo adeguato lo stato incompleto di questa scienza prima dell’immortale suo fondatore. Infatti, per condurre soltanto di passaggio su ciò la Loro attenzione, che cosa non si è ancora scritto, e non di rado sognato e favoleggiato, sulla dottrina dei numeri dell’eccellente Pitagora, nella quale egli ha avvolto i suoi profondi tentativi metafisici? Quanto sono state travisate le perspicaci osservazioni di questo grande uomo e della scuola eleatica sulle diverse facoltà dell’anima umana? In quale modo sbagliato non sono stati rappresentati gli stringenti e fini ragionamenti degli Eleati, nei quali la ragione speculativa ha in poco tempo sperimentate tutte le sue forze? Quanto poco si è saputo spiegare dal punto di vista della natura della ragione l’affermazione profonda e impressionante di un Parmenide, che al di là di un mondo intelligibile c’è anche un mondo dei sensi, il quale è il contrario di quello, perché non si avesse alcuna remora a rigettarla nella rubrica delle bizzarrie di cui sorridere? Quanto sono state misconosciute le osservazioni profonde di un Democrito e di un Aristippo nel campo della sensibilità? E quanti esempi del genere potrei elencarvi dal solo sistema di un Platone, per rendere manifesto lo stato della storia della filosofia prima della filosofia critica, se nel proseguimento delle nostre fatiche non vi fossimo inevitabilmente condotti. La natura della facoltà umana della rappresentazione, non meno di quelle del sentimento e dell’appetizione [Begehrung], è inoltre la fonte generale, dalla quale tutte le filosofie dei pensatori antichi e nuovi sono fluite; e quindi soltanto la giusta conoscenza delle sue leggi e principi può essere la chiave per scoprire il loro senso, per quanto nascosto in profondità esso sia, e ci può istruire su quanto le espressioni di altri filosofi vi si avvicinano o vi si allontanano; quale applicazione o quale abuso sta loro a fondamento; infine anche quali incomprensioni sono sorte dalla falsa applicazione di queste forme e regole, e quali conseguenze sono da ciò derivate per l’intero ambito della filosofia. Ma in questo confronto consiste anche la differenza di tutti i sistemi, e la rappresentazione di questa costituisce nella massima misura l’essenza della storia della filosofia. Miei Onorevoli Signori, se quindi vogliamo convincerci che consideriamo la storia della filosofia nel modo corretto, che ci assicuriamo dalle false interpretazioni

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nella spiegazione delle dottrine e dei sistemi che i libri di storia ci hanno conservato, che comprendiamo in modo adeguato il loro senso, che indichiamo fedelmente e valutiamo con cognizione i loro motivi e le loro cause, come anche le loro conseguenze e destini; allora li dobbiamo esaminare da un lato sempre nella prospettiva della disposizione [Einrichtung] originaria e della costituzione dello spirito umano, dall’altro giudicarli e determinarli secondo il carattere individuale di ogni filosofo; dobbiamo considerare correttamente gli oggetti delle loro dottrine in base ai dati, ed esporne l’origine e lo sviluppo a partire da tutte le facoltà spirituali, e in un certo senso scioglierli nelle loro forme originarie. In genere, però, tutto ciò che è richiesto per una giusta trattazione della storia della filosofia, la quale scaturisce necessariamente da una precisa indicazione del suo contenuto determinato e del suo scopo, si può ricondurre alle seguenti regole che io sono così poco incline a tacervi quanto più un altro filosofo mi sembra averle indicate in modo indeterminato. Si giudichino prima di tutto le molteplici massime e i sistemi dei filosofi secondo le leggi e i principi generalmente validi e immodificabili delle facoltà spirituali della natura umana. Si sviluppi secondo ragioni sufficienti, che in parte risultano dalla ragione comune a tutti gli uomini, in parte dal particolare modo di pensare e di agire del singolo filosofo, come ogni specie di rappresentazione, ogni sistema di un qualsiasi filosofo sia scaturito in una certa, determinata maniera dalla natura dello spirito umano. Si indichi infine la sua connessione nell’intero, e se ne determini il contenuto specifico, la differenza, l’influenza e i molteplici destini. Miei Onorevoli Signori, da tutto ciò Loro possono però anche dedurre facilmente che una storia della filosofia, elaborata secondo un tale piano, è una cosa che richiede molti anni. Se tuttavia uomini, familiarizzati con queste giuste aspettative, e forniti delle conoscenze sufficienti, già adesso pongono mano a una tale opera, allora si potrebbe temere che essi, attraverso una precipitosa applicazione di questa grande massa di precetti, allontanino ulteriormente l’epoca felice per la storia della filosofia mentre ambiscono ad accelerarla. Ma certamente non è mai troppo presto per indirizzare l’attenzione verso questo grande fine, e ogni sforzo volto a facilitare il faticoso cammino verso di esso deve essere benvenuto ai ricercatori. Già la silenziosa considerazione di quello stesso fine deve spronarci alla diligenza, e sotto l’onere del nostro lavoro accordarci una dolce ricompensa. E una volta che la storia della filosofia sia stata trattata in questo modo, da quale lato vantaggioso e brillante ci si mostra il suo studio? Essa descrive in che modo la fantasia dell’uomo giocasse a lungo il ruolo più importante nell’ambito della filosofia, finché l’intelletto speculativo si liberò dalle catene della sensibilità, e cominciò a combattere per avere soddisfazione circa le più importanti questioni del cuore e della ragione; come questo errò per secoli sui campi senza confine del sapere umano, e ora ingannato da un miraggio, si smarrì in un labirinto senza uscita, ora guidato da una stella benevola, camminò sulle vie luminose della verità; come egli, iniziato il suo sviluppo, si esaltò su questo oceano vasto e tempestoso, e se qui dava la caccia a un fantasma, si infilava in un’avventura, mentre là scopriva una terra della verità, la cui realtà nessun mortale aveva ancora presagito. Lo

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segue attraverso tutte le mutevoli forme delle opinioni, attraverso la sua follia e la sua saggezza, e vede in che modo con l’impeto pieno di forza accorreva verso i confini del concepibile e come li superava in modo temerario non appena li aveva raggiunti, per scindersi in una guerra eterna con se stesso nel selvaggio volo della speculazione. La storia della filosofia porta gli spiriti maggiori davanti all’occhio studioso del pensatore, e scompone il fine meccanismo in cui le forze spirituali si sono sviluppate sin dall’inizio del mondo. Ci fa conoscere le scoperte più importanti nell’immenso campo della filosofia, e indica con precisione che cosa in ogni epoca è stato conquistato attraverso questa, e mentre ci istruisce con il progresso delle utili rivoluzioni nel regno del sapere, corregge i giudizi limitati dell’egoismo. Ci guarisce dall’esagerata ammirazione delle scoperte dei tempi recenti, mentre svela le loro tracce nell’antichità, e ci insegna così a pensare in modo equo verso ogni scopritore. Indica ancora le diverse fonti degli errori; su sentieri ancora ignoti, guida il nostro sguardo a nuove scoperte e accende la luce nel nostro intelletto e un entusiasmo fattivo nei nostri cuori. Amplia il nostro orizzonte, e in questo modo anche ci protegge dall’unilateralità e dal settarismo cieco, nella misura in cui ci familiarizza con le più diverse maniere di pensare dei più grandi spiriti, essa, l’immortale depositaria della verità. Ma poiché tutte le scienze sono legate da un nesso fraterno, che soltanto l’intelletto astraente separa mentre lo spirito filosofico lo annoda più stretto, non vi deve sconcertare l’influenza della storia della filosofia sulle altre scienze. Senza avere la più intima dimestichezza con essa chi potrebbe arrischiarsi a scrivere una storia dei dogmi che corrisponda alle aspettative dell’esperto [Kenner], o a comporre una storia della religione senza voler utilizzare questa fonte? Quale ferrato giurista può misconoscere il suo certamente non piccolo contributo alla formazione del diritto romano? E poiché il dogma e la morale dovevano alla filosofia il loro perfezionamento e raffinamento, come può pretendere di essere un capace insegnante di religione, colui al quale la storia della filosofia è una terra sconosciuta? Voler infine menzionare la sua influenza sulla spiegazione dei classici antichi significherebbe pronunciare una verità, che ancora non si è mai negata. Per quanto diversa sia la destinazione che ci attende nella società civile, non c’è tuttavia nessuno al quale la storia della filosofia non sia in grado di dare qualcosa, all’osservatore pensante infiniti oggetti di istruzione, al filosofo importanti informazioni, e a ognuno senza differenze una ricca fonte dei piaceri più nobili, e ciò che per l’uomo è il dono maggiore – la verità.

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Johann Christian August Grohmann

SUL CONCETTO DI STORIA DELLA FILOSOFIA1

È la vera infanzia dell’uomo, quando egli, come un bambino che cresce, gioisce della propria attività, – senza interrogarsi sullo scopo e l’aspirazione [Streben] del suo affaccendarsi – ad accatastare cumuli [Massen] che alla fine non riesce più ad abbracciare con lo sguardo, finché davanti ad essi non si ritrae e ricade in una sorta di tranquillità, in cui al chiarore del crepuscolo si leva la riflessione “cosa ha fatto di questi cumuli, da dove sono venuti?”, ora che in quei mucchi di pietra gettati giungono spirito e vita, ordine da un’eccitato affaccendarsi, o per così dire, al posto di quelle pietre sorgono i deucalionidi. Così è stata scritta una sterminata catena e un’immensa sequenza di avvenimenti del mondo, di un’ampiezza che si dilata e di una sempre crescente estensione, nelle quali il filosofo ha presagito che la nostra discendenza avrebbe scavato soltanto i massi più significativi, per provare con essi, in quanto documenti, l’educazione o il miglioramento dell’uomo; così abbiamo adesso un labirinto di opinioni filosofiche, di sistemi, per così dire schizzi e quadri della vita umana e del mondo che si soppiantano l’un con l’altro e che sembrano scaturiti da se stessi: e ora, dopo che si ricade all’indietro davanti a questi cumuli, si leva la storia, compagna della riflessione, la quale ci conduce nei luoghi oscuri e segreti da cui quei pesi accatastati si sono sollevati. Là vediamo la cosiddetta storia pragmatica dei fatti mondiali, la quale non vuole più mostrare quel che c’è stato ma, secondo considerazioni proprie, organizza partizioni in periodi che rilasciano una lettera di credenziali per l’educazione e il progresso morale degli uomini: qui vediamo la storia della filosofia, che anch’essa vuole dar conto di quella quantità di sistemi e di opinioni filosofiche che pressano su di noi, e vuole procurarci una più semplice visione d’insieme. Se questa storia della filosofia sia stata sin’ora fortunata nelle sue imprese, e se abbia fatto con l’andatura felicemente assunta dalla storia

1 J. Ch. A. Grohmann, Über den Begriff der Geschichte der Philosophie, Wittenberg 1797 in der Kühneschen Buchhandlung. Si traduce dall’esemplare conservato presso la Historisches Lesesaal dell’Università di Tübingen. Sono stati introdotti capoversi non presenti nell’originale. Cifre arabe per le note sostituiscono gli asterischi: La “Vorerinnerung” (pp. III-XXIV) non viene tradotta [ndt].

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pragmatica del mondo progressi uguali ai suoi, non è cosa che mi azzardi a decidere adesso; ma un certo impegno al riguardo mostrerà nella seguente discussione che cosa ci sia da dire nel caso si voglia decidere di tale questione. Io non considero le ricerche e le risposte alle questioni che la Critica della ragion pura o in genere la filosofia critica ha suscitato nei suoi sostenitori, i quali infiammati dall’eccellente maestro, dal loro predecessore, diffondono ovunque l’appassionato spirito di riforma, anche laddove non c’era niente da riformare, e anche dove intraprendere una riforma avrebbe reso necessaria una restaurazione del vecchio, come per esempio nel metodo e nella specie di trattazione della normale storia del mondo [Weltgeschichte]; non considero le ricerche e le risposte alle questioni che la Critica della ragion pura ha suscitato, già così complete che ne deriverebbe la superfluità di ogni altra rinnovata indagine la quale, se anche non ricca di uno nuovo, tuttavia giustificasse il vecchio risultato già proposto da uomini intelligenti e lo esaurisse secondo tutte le sue fonti e la sua estensione. Tra queste risposte e ricerche su questioni, – per le ultime delle quali si avrebbe forse ragione di ringraziare una vanagloriosa bramosia di sapere che vuole illuminare tutto con la sua fiaccola, – ascrivo anche la discussione della seguente questione: “se e come la storia mondiale che finora è stata trattata e organizzata secondo la cronologia possa e debba ottenere una forma più sistematica, in che misura poi sia possibile una storia della filosofia a priori” – e la domanda più consueta, “quale metodo sia il più comodo o piuttosto il più necessario per la storia della filosofia”. Quest’ultima questione, perché abbia una risposta certa e indubitabile, si risolve in una precisa scomposizione del concetto di storia della filosofia, come della sua fonte. Senza fare ingiustizia ai meriti di un Reinhold, Fülleborn, Göss, e così via, io credo che qui ci sia ancora qualcosa che è rimasto da aggiungere, ed è mia convinzione che questo sia da attingere in base ad indagini condotte in modo del tutto indipendente in merito ai seguenti temi: “cosa sia sistema, metodo, scienza – in che cosa consista il contenuto della storia e quello della filosofia” e “quale di quelle diverse forme si adatti a questo contenuto” e sia conforme ad esso [ihm gemäss]. È infatti già del tutto chiaro che ogni contenuto ha una sua forma propria e particolare, che non qualsivoglia forma si adatta a un oggetto e non ogni contenuto può venire riversato in una forma qualsiasi. Credo perciò che una ricerca condotta a partire dalle fonti [Quellen] del problema è quindi necessaria e che soltanto essa può confermare o smentire quanto è stato detto circa la possibilità di una forma più sistematica e più scientifica della storia mondiale come anche della possibilità di una storia a priori della filosofia. Credo anche che soltanto in questo modo si può determinare con pura certezza quale forma di trattazione debba avere la storia della filosofia, secondo il suo concetto determinato. Il concetto di “scienza” in quanto determinazione formale, può essere soltanto qualcosa che è dato a priori; non è infatti concepibile che qualcosa, il quale ha confini certi e assoluti entro cui presenta una stabile e insolubile connessione, debba essere astratto e derivato da qualcosa che proviene dall’esperienza, dove la

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connessione delle cose è casuale, e i confini determinati non sono mai dimostrabili con certezza. Non soltanto ciò che è scienza, ciò che entra nella scienza, ma anche il concetto e la forma della scienza stessa debbono quindi essere qualcosa di dato a priori. E allora, sistema o scienza è l’intero assoluto e insuperabile che, astraendo da ogni contenuto materiale, è costituito dalla connessione stabile e immodificabile di tutto ciò che sta all’interno dell’intero stesso. Un tale concetto non può mai essere derivato dall’esperienza, nella quale, poiché essa sempre diviene, non potrà mai essere trovato qualcosa di puro. – Se scienza, considerata in senso materiale, è un compendio [Inbegriff] di conoscenze sintetiche, allora ci si chiede: quale contenuto si adatta a questa forma, come a un intero insuperabile e stabilmente congiunto entro i propri confini? Nel caso infatti di scomposizioni analitiche o di spiegazioni di concetti puri si può prevedere che la spiegazione non possa avere ogni volta confini né più ampi né più ristretti di quelli che ha il concetto puro indipendente dall’esperienza; ma nel caso di un contenuto che procede sinteticamente, non si riesce a prevedere da dove debba essere attinto, per realizzare quel concetto di scienza. E non è necessario nessun lungo concatenamento di deduzioni per trarre la conclusione che se la scienza include la determinazione di un processo sintetico, di conoscenze reali, queste conoscenze non possono essere derivate dall’esperienza, poiché queste, incompatibili con la determinazione formale della scienza, non possono mai essere condotte a un intero insuperabile di stabili connessioni tra le parti – ciò che deve essere messo in un tale forma può essere dato solo a priori, e questo dato a priori non può a sua volta essere altro che forme, leggi – possono cioè essere concetti e singole determinazioni formali di intuizioni. Il concetto formale di scienza come di un sistema, può essere posto soltanto tramite e con questi concetti dati a priori, in quanto essi, proprio perché dati a priori, hanno confini determinati e certi, e perché anche all’interno di tali confini non può sopraggiungere nulla in grado di modificare l’ordine determinato del sistema, cosicché in questo caso forma e contenuto ingranano l’uno nell’altro e il concetto formale della scienza è astratto per così dire soltanto da questa stabile unità dei concetti determinata a priori. Niente quindi, che non sia dato a priori, può pretendere la qualificazione e il nome di “sistema”, di “scienza”; la forma stabile e determinata con confini assoluti e connessione interna certa rinvia a quanto è dato a priori come all’unico possibile contenuto della scienza. A sua volta tale contenuto, in quanto quello dal quale soltanto sono tratti il concetto, il sistema e la scienza, rinvia all’unica possibile forma della connessione sistematica, e dell’unità sistematica, determinata e assoluta. Quindi, solamente la determinazione sintetica e la scomposizione del dato a priori secondo concetti e secondo la costruzione dei concetti, oppure ciò che viene derivato e determinato immediatamente secondo questi concetti e la costruzione dei concetti, può essere chiamato sistema, scienza: non è pensabile nessun’altro contenuto, al quale possa essere applicabile questa determinazione formale. La sola possibile forma di ciò che è dato a priori è sistema, scienza, e questo non è adattabile in nessun’altra forma. Qui forma e contenuto si determinano essi stessi. Se si dichiara la scienza come la conoscenza sistematica tratta da concetti o principi, allora mi sembra in primo luogo

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che dalla pura determinazione della scienza sia stato ammesso nella definizione un risultato; cioè la nota “da concetti, da principi”, la quale deriva dalla determinazione della scienza come un intero assoluto e determinato con una connessione certa delle sue parti, e mi sembra quindi che soltanto concetti dati a priori possono costituire l’oggetto o il contenuto di una forma che deve essere scienza. In secondo luogo però, sebbene questo risultato possa essere ammesso nella pura determinazione del concetto di scienza, mi appare comunque troppo stretto, dato che la matematica, in quanto tale che procede secondo la costruzione dei concetti, ci risulta esclusa da questa determinazione e forma della “scienza” e del “sistema”. La sola pura determinazione del concetto “scienza o sistema” è l’intero assoluto e insuperabile, dotato della stabile insolubile connessione di ciò che sta all’interno dei confini di quell’intero. Se si accoglie nella definizione la nota concetto, da concetti, allora si confonde già qualcosa di materiale con qualcosa di formale, si fa già riferimento al contenuto, all’oggetto di una possibile scienza, il quale certamente può consistere soltanto in principi oppure nella costruzione di concetti. Il modo in cui si procede in una scienza o in un sistema si chiama scientifico o sistematico. La nota del contenuto che deve adeguarsi alla forma della scienza deve essere l’estrema assoluta universalità, in modo che nessuno possa con i propri mezzi aggiungere qualcosa di particolare che un’altro non possiede, e così estendere i confini della conoscenza, e inserire qualcosa nella connessione delle parti. Secondo questa nota, ogni contenuto d’esperienza è quindi escluso dalla scienza. Altro è qualcosa di conforme al sistema [systemmässig], ovvero trattare qualcosa al modo di una scienza, al modo di un sistema e altro trattare effettivamente qualcosa in maniera sistematica, in quanto scienza, in quanto sistema. Quello si chiama metodo. Al metodo una forte unità universale serve per così dire da ideale, secondo il quale esso tratta il particolare, il contenuto d’esperienza. Tra l’assoluta unità forte che è rappresentata come ideale del sistema, e il contenuto che viene trattato, deve esserci un’altra unità, la quale da una parte sta con quella unità assoluta in una certa relazione, dall’altra si avvicina anche all’individualità del contenuto particolare: infatti l’unità assoluta universale, o la pura forma di un sistema, non può tollerare nessuna applicazione al particolare, all’empirico e al casuale. L’unità generale comparativa, che è astratta dall’esperienza, o che è quasi lo schema del puro concetto e della sensibilità, procura soltanto la mediazione, affinché qualcosa di particolare possa essere trattato secondo l’idea di un sistema, di una scienza, benché non in quanto sistema, in quanto scienza, e cioè possa essere trattato soltanto metodicamente. – Trattare qualcosa metodicamente o secondo un metodo, significa quindi porre qualcosa secondo i parametri di una generale unità comparativa, la quale perciò non è l’unità assoluta del sistema. La generale unità comparativa, che dà il metodo, è cioè un concetto tratto dall’esperienza secondo una categoria pura, il quale concetto può quindi avere diversi nomi, vari significati, poiché è affetto [affiziert] materialmente: mentre al contrario l’unità assoluta che è la forma del sistema, è attinta puramente a priori dal sistema chiuso di ciò che è determinato nella facoltà della rappresentazione, e quindi non ha affatto connotazioni o significati, ma semplicemente una pura unità. L’unità generale comparativa, quella cioè che

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dà il metodo, può essere derivata ad esempio secondo la somiglianza, come per esempio nella storia naturale dei volatili, così che questa è ora soltanto lo schema in funzione del quale i singoli oggetti vengono ordinati e classificati, schema che si colloca tra l’unità stabile, assoluta e determinata del sistema, e la particolarità del tutto individuale del contenuto. Una tale associazione di conoscenze tramite un’unità comparativa generale si definisce ora, in quanto trattata metodicamente, conforme al sistema, – cioè secondo l’ideale di un sistema, secondo l’idea dell’unità assoluta, la quale però non può essere raggiunta ma soltanto imitata. Una conoscenza, stabilita secondo una tale unità comparativa generale, non può perciò pretendere il nome di sistema o di scienza, perché quell’unità lascia sempre aperti i confini che circondano il contenuto, non raggiunge lo scopo, in cui per così dire sia chiusa l’unità, o nella determinazione empirica, la somiglianza. Che cosa non può essere ordinato sotto l’idea della somiglianza e, ad esempio in base ad essa nella storia dei volatili? – essa accoglie sempre qualcosa di ulteriore, non cessa di estendere sempre ulteriormente i propri confini, quanto più si scopre qualcosa che può essere ricondotto in tali confini. Ma tutt’altro avviene nell’unità assoluta del sistema e della scienza. Poiché qui non c’è nessuna unità generale indeterminata, ma un’unità chiusa con confini stabili, la quale è tratta secondo il sistema dei concetti che sono determinati nella facoltà della rappresentazione: così non può essere ordinato in quell’unità qualcosa in più o in meno, ma l’unità stessa rinvia al molteplice che costituisce il contenuto della conoscenza, in modo che qui non può aver luogo alcun ampliamento o riduzione dei confini. In secondo luogo, con il contenuto che secondo essa viene ordinato, tale unità sta in una relazione immediata: mentre quella unità generale comparativa sta con il proprio contenuto in una relazione soltanto mediata. La stabile unità assoluta del sistema dà essa stessa indicazione sul fatto che non può essere trattato come scienza se non ciò che è determinato a priori, i concetti e le intuizioni formali, e quanto da essi deriva, perché la materia e la forma vengono appresi in questo caso reciprocamente, e l’una cosa lascia riconoscere l’altra. Ma che cosa avviene invece a proposito dell’unità comparativa del metodo conclusa secondo l’induzione, ad esempio nel caso della somiglianza, con il cui criterio vengono ordinati i prodotti della natura! Il concetto di somiglianza dà esso stesso indicazione circa il proprio contenuto determinato, come fa l’unità assoluta del sistema? Ma che cosa non può essere ordinato sotto la somiglianza e venir trattato secondo questa unità schematica! Anche questa più incerta e più lontana relazione dell’unità comparativa con il contenuto trattato fa sì che un tale metodo, una tale conformità al sistema sia molto lontana dal sistema e dall’unità della scienza, la quale costituisce con il suo contenuto per così dire un’unità e un tutto indivisibile. Da questo più lontano, e sempre rinnovato, rapporto dell’unità comparativa con il suo contenuto individuale e particolare, il quale può essere di varia natura, deriva anche che tra il singolo contenuto e l’unità generale, sotto cui quello viene trattato, deve esserci una nota interposta di mediazione, un concetto schematico, il quale da un lato si collega con il singolo contenuto particolare ma dall’altro produce anche la nota

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caratteristica, generale e sensibile della generalità. Se ad esempio nella storia naturale dei volatili, questi devono essere ordinati secondo somiglianza, ci si chiede: qual’è lo schema che media l’applicazione dell’unità generale del concetto di somiglianza al singolo particolare oggetto determinato, perché una tale mediazione deve pur esserci se l’unità, il concetto di somiglianza, non dà già il contenuto determinato, come avviene invece nel caso dell’unità assoluta del sistema. E una tale mediazione deve essere per un verso il carattere più generale possibile della somiglianza, per armonizzarsi con l’unità comparativa, con l’idea secondo cui gli oggetti debbono essere determinati; ma per l’altro deve anche stare in una relazione con il contenuto particolare ovvero con gli oggetti, tale per cui una nota certa e da esso inseparabile sia un segno della sua qualità individuale e al contempo anche la caratterizzazione più ampia del genere. Così, per esempio, in questa già citata storia dei volatili l’uguaglianza o la diversità in relazione agli organi vitali interni più necessari forma lo schema mediatore della somiglianza, in virtù del quale questa storia viene realizzata in maniera metodica, conforme al sistema o secondo l’idea dell’unità assoluta in un sistema. Sotto il profilo della forma di una scienza, il metodo o il tipo di trattazione conforme al sistema può essere applicato quindi a ogni contenuto particolare in quanto oggetto d’esperienza: infatti, sebbene in quella che mi piace chiamare metodistica [Methodistik] si astrae dal particolare individuale e viene trattato soltanto ciò che è uguale a un’unità generale, sembra che il metodo come forma stia in contraddizione con il contenuto particolare in quanto oggetto d’esperienza; così ogni contenuto particolare sta sotto una legge generale, e secondo questa legge generale la forma del metodo o la conformità al metodo può essere applicata a ogni contenuto particolare. Ma bisogna notare che nel metodo il particolare viene trattato come uguale al generale, e che proprio per mezzo di questo generale quanto sta in ogni oggetto d’esperienza può essere considerato come posto al di sotto di una regola o legge, ed è resa quindi possibile l’applicazione ad esso della forma del metodo. Così avviene nella storia naturale dei volatili, la quale è trattata in modo conforme al sistema secondo la somiglianza degli oggetti, ogni singolo oggetto essendo al di sotto di una regola o legge generale, come per esempio quella della somiglianza o della continuità; e quindi viene considerato come qualcosa di generale, senza però che vengano meno le determinazioni individuali degli oggetti. Questo qualcosa di generale, perché empirico, ha soltanto una generalità comparativa, e non può allora darsi un sistema, ma soltanto un metodo. Ogni contenuto di esperienza può essere considerato da un duplice punto di vista: come qualcosa di particolare, di individuale; oppure, come già detto, come qualcosa di generale, in quanto sta sotto una regola generale. Secondo questa duplice necessaria distinzione, se ci si vuole dare ragione delle possibili forme della conoscenza, ha origine anche una duplice possibile forma, secondo la quale ogni contenuto d’esperienza può essere trattato. Se viene trattato secondo il suo carattere generale, sorge il metodo, che in quanto forma viene applicato ad esso: se invece deve essere posto come contenuto particolare e singolare, allora quella forma non gli può essere applicata, ed esso deve rimanere nella sua determinazione individuale

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e singolare, deve essere posto nell’ordine delle relazioni locali e temporali e quindi nel modo in cui si presenta realmente all’esperienza. Secondo queste differenze è ora facile stabilire quando e dove una conformità al sistema, e cioè la forma del metodo, può essere applicata a una conoscenza d’esperienza: se questa conoscenza finisce con il rappresentare il contenuto come del tutto particolare, allora ogni forma di conformità al sistema, che riguarda soltanto l’elemento generale, deve essere allontanata da esso; se però viene considerato come un elemento generale che sta in relazione con altri oggetti secondo una regola generale, allora è chiaro di per sé che può essergli applicato un qualsiasi ordine oppure il miglior ordine secondo l’idea di una regolarità [die beste gesetzmässige Ordnung einer Idee gemäss]. Quindi, per quanto riguarda la forma di quelle conoscenze che considerano il particolare dell’esperienza come particolare, non spetta loro il nome di metodo o di conformità al sistema; in esse il particolare è posto secondo la posizione che presenta nell’ordine esteriore dell’esperienza, ed è quindi soltanto una connessione esteriore o riprodotta dall’esterno quella in cui si indicano le cose o gli oggetti. La denominazione di metodo come conoscenza che può essere portata a compimento in maniera conforme al sistema, e quindi metodica, spetta con diritto soltanto a quelle conoscenze in cui nell’oggetto particolare si osserva il generale, in cui cioè esso viene posto secondo una certa unità generale. Il particolare deve essere trattato come un particolare, deve perciò essere collocato o posto esattamente nel collegamento di tempo o di circostanze locali, perché queste relazioni esteriori costituiscono nell’esperienza una condizione non piccola del particolare. Nel caso di una conoscenza come metodo viene certamente conservata anche la particolarità delle circostanze locali e temporali che caratterizzano il contenuto, ma qui essa lo è soltanto per rappresentare il particolare come particolare e allo stesso tempo per caratterizzarlo, come succede per esempio nella storia naturale dei volatili, in cui sebbene questi vengano posti secondo specie e generi, viene indicato tuttavia anche il particolare individuale [das besondere individuelle], ad esempio dove vive questo o quell’uccello, in quale paese – la qualcosa è pure necessaria se non si vuole spogliare del tutto il particolare delle sue determinazioni particolari. Ma in un tale procedimento metodico questo è soltanto quasi un lavoro collaterale, mentre è l’opera centrale in quel tipo di trattazione in cui si astrae dal generale, e che punta unicamente alla rappresentazione del particolare secondo le sue circostanze individuali. Ora, una tale conoscenza che rappresenta il particolare come un particolare, non può essere chiamata, secondo la sua forma e il suo collegamento, metodica, o conforme al sistema, o metodo, e meno ancora sistema, sistematica o scienza; nella sua determinazione confrontata o indicata, conserva ogni volta però un predicato, che coincide con il suo procedimento empirico e con la sua intera maniera empirica di trattare, come ad esempio nella definizione della storia universale del mondo, secondo cui essa è racconto, o in quella di geografia, per cui essa è descrizione. E qui un’osservazione sulla questione posta da alcuni sostenitori della filosofia critica, o persino sulla loro pretesa che la storia universale del mondo debba deviare dal suo modo empirico di trattazione, che fin qui ha adottato, per

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assumere un’andamento più sistematico o conforme al sistema. Infatti, la differenza è importante soprattutto rispetto alla decisione in merito alla legittimità di questa richiesta circa le determinazioni da cui risulta la forma della conoscenza, se in una conoscenza qualcosa debba essere trattato come un particolare contenuto, o se in esso non debba invece essere rappresentato il generale. E qui non è più necessaria una lunga discussione sul fatto che proprio lo scopo della storia universale del mondo sia di disporre il particolare come particolare, gli avvenimenti come fatti particolari; che in essa gli avvenimenti devono ovviamente rimanere proprio nel collegamento esteriore e nell’ordine che presentano nel mondo dei fenomeni: e che contraddice all’intera destinazione e vorrei dire, alla stessa intenzione di questa storiografia, l’idea di osservare nelle vicende il generale o un generale e che quindi è anche altamente non filosofico parlare di un andamento filosofico nella storia [philosophischen Gang in der Geschichte], come se in essa il particolare potesse e dovesse essere ordinato sotto un generale. Se si verificasse questo, essa non rimarrebbe più storia nel senso proprio, in base al quale essa ha per scopo di rappresentare e raccontare le vicende particolari come particolari; ma diventa storia pragmatica del mondo, che nel particolare indica un generale, nella quale diventano certamente possibili un andamento filosofico, cioè un metodo e una trattazione conforme al sistema. Là scopo è la rappresentazione del particolare come un particolare, e l’andamento deve essere cronologico, e procedere proprio nello stesso modo in cui le vicende e i fatti [Facta] particolari si sono succeduti nell’esteriore mondo sensibile; qui invece scopo è la rappresentazione del generale del particolare, come nella storia pragmatica del mondo, in cui il generale, che è il vero interesse dell’osservazione, attraverso il particolare viene quasi soltanto documentato e convalidato. Poiché le circostanze individuali comunque dipendono dal particolare, anche qui il particolare deve certamente essere rappresentato come un particolare, soltanto che esso qui è necessario al solo scopo di abbandonare il carattere proprio del particolare, ma là nella storia del mondo generale queste determinazioni individuali non vengono lasciate al particolare soltanto perché dipendono da esso, ma perché il suo scopo è proprio descrivere i fatti particolari nella loro intera situazione individuale. Ma ora volgiamoci alla storia della filosofia, e certamente in primo luogo alla determinazione del suo concetto. Una storia di avvenimenti, i quali sono indipendenti dall’esperienza ed esclusi dalle leggi dei fenomeni sensibili, entro le quali ricade ogni altro tipo di evento mondano, ed hanno perciò la loro fonte in qualcosa che ha significato a priori, deve caratterizzarsi già subito al primo sguardo tramite determinazioni particolari e un proprio tipo di elaborazione, diverso da quello della storia che ha per contenuto i fatti empirici come qualcosa di dato dall’esperienza e da essa del tutto dipendente. Quest’ultimo si manifesta sotto il fisso rivestimento del tempo e dello spazio, procede secondo leggi sensibili, è in genere, come fatto empirico, qualcosa di dato casualmente, che non può essere ricondotto a un fondamento [Grund] necessario,

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come al suo principio esplicativo: al contrario quello, poiché la filosofia è la scienza di ciò che è determinato a priori da concetti nella facoltà della rappresentazione, deve essere fondata libera dalle condizioni sensibili da cui dipendono gli avvenimenti esteriori, dalla legge della causalità sensibile degli eventi del mondo, in qualcosa di necessario che non è legato al mondo dei fenomeni e deve essere riportato a questo qualcosa di necessario. Se il contenuto che tratta la storia generale del mondo, per mezzo dell’irrisolvibile condizione della quale appare rivestito, le impone la necessaria legge di trattare le vicende come vicende, cioè come qualcosa di accaduto nel tempo e nello spazio, di non svestirle delle forme sensibili, del momento in cui si manifestarono, del luogo in cui avvennero, e sotto quali circostanze, ma di trattarle cronologicamente secondo tutte le loro individuali circostanze esteriori: allora si deve pensare che il contenuto di cui tratta la storia della filosofia e che in senso stretto non può essere denominato con la parola avvenimento – perché è qualcosa di determinato a priori nella facoltà della rappresentazione che ha per fondamento qualcosa di escluso dalla casualità e dalle condizioni dei fenomeni sensibili – deve essere libero dalla necessità di un rivestimento cronologico, dal procedimento e dalla trattazione della storia generale del mondo. Se procediamo adesso in maniera del tutto analitica secondo concetti, senza porre attenzione all’esperienza che ci porge di continuo la realtà di diversi sistemi, sorprende in effetti che si senta parlare di una storia della filosofia – dato che dal concetto di filosofia come scienza di ciò che è determinato a priori secondo concetti si trae la conclusione della sua autonomia, di qualcosa che non è sottoposto a nessuna modificazione, a nessun cambiamento, come invece il contenuto dei fenomeni sensibili – dato che quella, la storia, racchiude in sé la nota della diversità, della molteplicità, del cambiamento, questa invece, la filosofia, come detto, esclude ogni nozione di cambiamento e trasformazione. Due concetti, che secondo l’apparenza si contraddicono e tuttavia vengono connessi, i quali danno luogo alla generale “Storia della Filosofia”. Cominciamo allora dalle caratteristiche pure che stanno nel concetto di filosofia, per determinare cosa dovrebbe essere la storia della filosofia; lasciamo invece da parte la parola storia e il suo usuale significato nell’uso corrente, per evitare il rischio di introdurre nella definizione che stiamo cercando qualcosa che non si armonizzi con il concetto di filosofia. È infatti chiaro che la forma di una conoscenza deve ogni volta essere determinata dal contenuto e dallo scopo che ci si propone nel trattarlo; e che dal fatto che la parola storia nel suo significato ordinario racchiuda in sé la nota del racconto cronologico, non deriva affatto che anche la storia della filosofia debba attenersi a un tale procedimento cronologico, perché sia forse il contenuto, che è la filosofia, sia lo scopo peculiare che si ha in questa storia, rendono necessaria una determinazione formale ad essa propria e un proprio tipo di trattazione. Noi biasimiamo in genere come un procedimento contraddittorio, del quale ci siamo accorti in numerosi tentativi di determinare il concetto della storia della filosofia, che si comincia con la determinazione della storia, e che dalle note che stanno in questa parola, e che si adattano al contenuto che tratta la normale storia

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di avvenimenti, si traggono conclusioni sulle note della determinazione della storia della filosofia e se ne deriva perlomeno troppo precipitosamente, semplicemente secondo il comune uso linguistico, la necessità di un ordinamento cronologico e di una connessione cronologica nella storia della filosofia. La cosa sorprendente che ci si imponeva prima nella precisa disamina dei concetti collegati insieme nella denominazione di “storia della filosofia”, le cui note appaiono contraddirsi, deve risolversi nel corso delle osservazioni seguenti. Se storia, come racconto di qualcosa che è accaduto, rinvia a molteplicità, diversità, cambiamento, da cui sorgeva il sopramenzionato contrasto con il concetto di “filosofia”, allora il molteplice, che la storia deve considerare nel campo della filosofia, non può e né deve essere quello stesso tipo di molteplice che si osserva negli avvenimenti sensibili, che è dato nella successione e che porta in sé il carattere del cambiamento, della trasformazione di una e medesima cosa; ma deve piuttosto essere stampato con il sigillo proprio della filosofia, deve essere qualcosa che consiste insieme nello stesso tempo, di dato l’uno accanto all’altro, se così posso dire, un molteplice determinato a priori, il che sta già nel concetto di filosofia ed è ciò che rende possibile la determinazione di una storia, di un racconto. Se la parola storia in senso stretto significa un racconto di avvenimenti che esistono in successione e sono stati prodotti tramite causalità sensibile, allora questa parola in tal senso non può essere applicata alla filosofia, la quale esclude proprio questo qualcosa che accade l’un dopo l’altro e consiste tramite i sensi: deve quindi essere presa in un significato più esteso, secondo cui in genere l’elencazione di una molteplicità indica che ora questo molteplice, gli avvenimenti in senso ampliato, possono avere il carattere della filosofia, di qualcosa che allo stesso tempo in essa consiste. Secondo queste osservazioni provvisorie, la storia della filosofia sarebbe allora un’elencazione o rappresentazione di avvenimenti, che sono determinati nella scienza di qualcosa di determinato a priori secondo concetti nella facoltà della rappresentazione. Per procedere ancora oltre, che cosa possono essere gli avvenimenti che consistono nella filosofia, che sono dati nella conoscenza di qualcosa di determinato a priori nella facoltà della rappresentazione, allo stesso tempo e l’uno accanto all’altro affinché nessuno annulli l’altro, che portano in sé il carattere della filosofia, della necessità, della validità universale, e che infine sono esclusi dalla successione casuale ed empirica come dalla legge sensibile della causalità? – Sotto il rispetto formale una scienza può avere diversità e molteplicità semplicemente in riferimento all’unità, alla connessione, al collegamento, e in quanto questo collegamento riposa su qualcosa, può avere diversità e molteplicità soltanto in riferimento ai principi e fondamenti dai quali procede l’unità, ovvero ciò che si esprime con la parola sistema, come una diversa determinazione in una scienza. (Primo corollario) Dunque gli avvenimenti che tratta la storia della filosofia, devono consistere in diversi sistemi, come nell’unica pensabile possibilità di una molteplicità in una scienza che è determinata a priori ed è quindi una. Ma il molteplice, il diverso, che deve poter del tutto coincidere con la scienza, senza portare

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alcun incremento alla sua unità, e allo stesso tempo deve essere dato attraverso la scienza come necessario e in essa fondato, deve anche essere esso stesso necessario: quindi (secondo corollario) i sistemi della filosofia, di cui tratta la storia della filosofia, devono essere necessari, ed essere fondati nella scienza, se vogliono meritarsi un posto in tale storia: infatti al di fuori di ciò, diventano figure casuali ed eventi che non sono nella filosofia come scienza, destini, come li si potrebbe chiamare, qualcosa di casualmente prodotto dall’esterno, e la storia della filosofia sarebbe allora essa stessa più una descrizione di qualcosa di casuale ed esterno circa la [an] filosofia, e quindi di non appartenente alla scienza, che non una storia della filosofia e del molteplice nella [in] filosofia stessa. Come possono questi sistemi, ora che siamo andati così avanti nella determinazione della storia della filosofia, per cui essa è un racconto dei diversi sistemi necessari della filosofia, come possono, dicevo, questi sistemi, in quanto necessari, essere posti dalla scienza stessa, e le loro fonti essere fondate in essa e tramite essa? – Se un sistema, che è qualcosa di coerente, deve avere una qualche diversità da un altro sistema, cioè un’altra unità, deve avere un altro collegamento, come ho già notato di sfuggita, e anche un altro fondamento [Grund], dal quale scaturisca; infatti, soltanto da questo altro fondamento si origina l’altra unità, l’altro collegamento, così che, se ci sono diversi fondamenti o principi, dai quali è derivato, si formano anche altre unità, collegamenti o sistemi. Secondo questa necessità, che se devono esserci in filosofia diversi sistemi, devono anche esserci diversi principi necessari sui quali essi si basino, arriviamo, senza averne avuto l’intenzione, alle diverse forme di pensiero e leggi dell’intelletto, alle diverse relazioni a priori determinate delle singole facoltà [Vermögen] dell’animo umano tra loro come le possibili fonti, dalle quali sorgono con necessità i sistemi e tramite le quali essi sono posti: giungiamo a concludere che ora la storia della filosofia è infine pensabile come racconto o rappresentazione dei diversi, necessari sistemi della filosofia, in quanto essi stessi sono posti dalla filosofia medesima come scienza di ciò che è determinato a priori nella facoltà della rappresentazione, secondo concetti. Abbiamo quindi scoperto due caratteristiche nel concetto di “storia della filosofia”, in primo luogo che possa e debba trattare semplicemente sistemi, in secondo luogo, soltanto i sistemi necessari che realmente sono posti dalle leggi del pensiero e dalle diverse relazioni a priori delle facoltà dell’animo umano tra di loro: nella quale ultima determinazione io concordo con il signor Fülleborn e il signor Reinhold, il quale ultimo a ciò allude2 nella sua lezione “Sul concetto di storia della filosofia”, 2 Vedi nei Contributi alla storia della Filosofia di Fülleborn, primo numero, p. 29: «Non ogni tipo di rappresentazione, che un uomo ha avuto realmente o presuntivamente, il quale a torto o a ragione ha ricevuto il nome di filosofo, appartiene alla storia della filosofia; altrimenti ogni banale alzata d’ingegno dovrebbe appartenervi, perché l’uomo che l’ha avuta è stato annoverato tra i filosofi da un qualche scrittore, ad esempio da Diogene Laerzio, malgrado che egli in effetti avrebbe meritato di essere nominato soltanto tra i matti. Possono aspirare ad avere un posto nella storia della filosofia soltanto quei modi di rappresentazione di singoli uomini, che in modo mediato o immediato concernono la ricercata connessione delle cose, coincidono con la filosofia come scienza, e ammettono un significato propriamente filosofico, e di conseguenza razionale».

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mentre quello nei suoi Contributi alla storia della filosofia (quarta parte) ha posto questa come una nota necessaria per la storia della filosofia. A che scopo devono entrare nella storia della filosofia anche sistemi o piuttosto opinioni che in sé non presentano niente di filosofico e che sono sorti unicamente tramite un eccitato gioco dell’immaginazione! – La materia della storia della filosofia si divide quindi in due parti, o piuttosto a queste può venire ricondotta: cioè, poiché nella storia della filosofia ricadono soltanto i sistemi necessari, dati a priori secondo le leggi della facoltà della rappresentazione, allora, per separare e distinguere i sistemi necessari da quelli casuali, sorti dal gioco dell’immaginazione, la storia della filosofia deve paragonare le fonti o i principi su cui si basano i sistemi, con i sistemi stessi, per vedere quale sistema debba ammettere e trattare nel suo ambito; infatti, soltanto attraverso il confronto delle fonti e dei sistemi può giustificare l’ammissione di questo o quel sistema nel suo ambito. Mi sembra, o scaturisce da questa distinzione, che nella vera storia della filosofia nessuna parte di essa può essere separata dall’altra, senza che con ciò non vadano perduti l’intero concetto della storia della filosofia, e tutte le sue aspirazioni a questo titolo: infatti, se trattasse soltanto una parte, ad esempio i sistemi in e per sé, unilateralmente, senza portarli alla loro fonte, e ricondurli alla specifica legge del pensiero da cui questo o quel sistema deriva, e cioè semplicemente li enumerasse e indicasse la loro differenza soltanto tramite l’enumerazione e il collocamento reciproco; allora non sarebbe niente più di ciò che io chiamo una geografia, una mera copia dei sistemi esistenti. Se al contrario considerasse soltanto e unilateralmente le fonti senza le conseguenze, e quindi le leggi del pensiero senza i sistemi, che da esse sorsero procedendo ora da questa ora da quella; è chiaro che sarebbe ancora meno una storia della filosofia, quanto piuttosto una dottrina delle leggi del pensiero, o una dottrina della ragione, come infatti si chiama. Riconduzione dei sistemi alle loro fonti, il confronto e paragone degli uni con le altre, mi paiono quindi costituire un necessario ingrediente della storia della filosofia, e un criterio che sta nel suo concetto stesso, il quale deve determinare necessariamente il metodo per la trattazione della storia della filosofia. Secondo questo criterio sarebbe quindi storia della filosofia il racconto o la rappresentazione dei sistemi necessari della filosofia, in quanto possono essere riportati a leggi del pensiero a priori determinate nella facoltà della rappresentazione e alle relazioni delle singole facoltà tra di loro. Credo però che la necessità del paragone di entrambe le parti, dei sistemi e delle fonti, può essere corroborata anche a partire dal concetto di “storia”. Tutto ciò che accade o è accaduto, sta in una necessaria connessione di causa ed effetto, e lo storico deve osservare necessariamente questa connessione, e registrarla secondo il mondo reale, sicché anche nella storia vediamo apparire questi stessi fatti proprio secondo l’ordine con cui essi sorsero nel mondo sensibile in conformità a quella legge della connessione. Se quindi adesso astraiamo dalla sequenza cronologica e dalla legge causale sensibile, cui sottostanno i fatti sensibili (ovvero gli avvenimenti del mondo), poiché, come abbiamo già notato, la filosofia e i suoi sistemi in quanto

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avvenimenti non portano in sé quel carattere e il metodo della storia della filosofia non sta quindi sotto la forma dell’enumerazione cronologica, tuttavia però la parola e il concetto di “accadere” rinviano a un fondamento e a una conseguenza, e un sistema è qualcosa che c’è, qualcosa che si presenta come accaduto; allora, nella storia della filosofia non si deve e non si può fare altrimenti che prendere in considerazione questa reciproca relazione, e i sistemi non devono e non possono essere rappresentati se non come conseguenze del loro proprio principio. – Una storia della filosofia a priori, della quale ai nostri giorni si sente parlare qua e là, intesa in senso stretto, sarebbe una rappresentazione dei sistemi possibili, in quanto possano essere dedotti secondo le leggi e le relazioni determinate a priori senza osservare la realtà. Ma il termine storia possiede in sé l’essenziale nota della realtà, di qualcosa che è stato o è presente; allora, poiché questa nota nel concetto di “storia” non contraddice alcun altro carattere essenziale del concetto “filosofia”, nel qual caso noi altrimenti lo dovremmo omettere dalla determinazione e dalla spiegazione di quello di “storia della filosofia”, come abbiamo fatto per la nota del tempo e della successione cronologica, che contraddice a ogni contenuto della filosofia3 e poiché noi vogliamo ammettere fedelmente nella definizione tutto ciò che sta in entrambi i concetti senza contraddirsi, allora quella pura determinazione della storia della filosofia a priori, in cui si considerava la mera possibilità dei sistemi, dato che non avevamo ancora accolto la nota della realtà che sta nel concetto di “storia”, deve, senza perdere la propria purezza, mutarsi in quella per cui storia della filosofia è la rappresentazione dei sistemi realmente esistenti della filosofia, in quanto possono essere ricondotti ai primi principi determinati nella facoltà della rappresentazione e sono possibili secondo questi. Per quanto riguarda la forma della storia della filosofia o il tipo della sua rappresentazione, in tal modo essa viene indicata con e attraverso il contenuto e tramite 3 Io non vedo come l’autore delle Indicazioni letterarie: “Rassegna su quanto di eccellente è stato fatto in Germania dal 1780 per la storia della filosofia”, nel Giornale Filosofico di Niethammer, II vol., quaderno 4: voglia corroborare l’ordine cronologico come una forma essenziale di rappresentazione per la storia della filosofia. “La prima esigenza per la storia della filosofia, afferma, è dunque che essa deve ammettere soltanto qualcosa che è avvenuto nel tempo, fatti, vicende, e che stia con queste in connessione. La prima cosa forma il suo contenuto diretto, la seconda il suo contenuto indiretto. Tali realtà devono essere rappresentate nel modo in cui sono determinate nel tempo. Questa è la seconda esigenza che determina la forma della sua rappresentazione come di una storia”. Dice in breve l’autore: “La storia presuppone dati certi, i quali possono essere cercati e trovati soltanto nei segni del tempo, e rappresenta vicende nel modo in cui esse sono divenute reali nel tempo l’una con l’altra o l’una dopo l’altra, vicende che secondo la loro intera individualità l’intelletto umano non può darsi ma soltanto giudicare”. – Il criterio “realtà” deve certamente essere ammesso nella spiegazione del concetto di “storia della filosofia”, e può esserlo, poiché non contrasta con nessuna caratteristica del concetto di filosofia: ma il criterio “successione” in primo luogo è un criterio casuale per i cambiamenti della filosofia, i quali sono determinati a priori secondo le leggi del pensiero; in secondo luogo, contraddice loro perché, come mi pare si possa dire, essi sono determinati a priori nello stesso tempo e uno accanto all’altro. Quindi anche in primo luogo l’ordine e la forma cronologici sono una forma accidentale nella storia della filosofia; in secondo luogo questa forma contraddice anche all’essenza dei cambiamenti della filosofia, i quali procedono sistematicamente dalle leggi stesse del pensiero. La forma della storia della filosofia deve essere sistematica, non data dall’esterno, ma essere determinata secondo le leggi del pensiero, secondo le relazioni di queste stesse tra di loro.

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lo scopo della trattazione del contenuto, la quale da questo dipende. Ciò di cui tratta la storia universale del mondo, sono i cambiamenti aventi luogo negli oggetti sensibili e tramite questi, che si formano secondo le leggi sensibili della causalità; sono oggetti particolari e singolari, ai quali è propria una certa determinatezza e un’individualità di condizioni spaziali e temporali: quindi queste circostanze, questo contenuto dell’universale storia del mondo mettono in evidenza la sua forma, il fatto che essa tratti cronologicamente tutto ciò che tratta, che lasci ogni singolo evento nella connessione in cui esso è determinato secondo luogo e tempo nel mondo esteriore. Se intende segnalare in questo ente particolare qualcosa di generale, allora diventa storia del mondo pragmatica, la quale ora può trovare dal punto di vista del generale che essa ha preso a considerare nel particolare, una forma, un metodo che è adeguato al generale, secondo la quale porre gli avvenimenti particolari che devono convalidare il generale. La storia del mondo universale, in quanto tratta il particolare come un particolare, non può avanzare a rigore alcuna pretesa, in considerazione della propria forma, alla denominazione di conforme al sistema, di metodo, per non parlare di quella di “scienza” o di “sistema”, poiché essa copia semplicemente la forma cronologica, la qual cosa però non è affatto una considerazione fatta da sé, generale e ricondotta al particolare, che è invece sempre necessaria per il metodo. Soltanto la storia del mondo pragmatica, della quale il prof. Poelitz ha dato un così eccellente modello, può essere chiamata metodica, conforme al sistema, ma comunque non scienza, o addirittura sistema. Nel metodo la forma viene sempre messa in opera secondo l’oggetto, secondo la posizione di questo con l’intenzione della somiglianza e dell’analogia, nella misura in cui i singoli oggetti corrispondono tramite caratteristiche comuni ad uno schema, il quale corrisponde a quello generale dell’idea o del rapporto che è stato assunto. Il sistema ovvero la scienza, viene invece portato a compimento, astraendo del tutto dagli oggetti, e guardando semplicemente all’unità dei fondamenti [Gründe], o alla necessaria connessione determinata a priori che ha luogo tra le cose tramite una sintesi. Determinare o stabilire la forma della storia della filosofia, dipende dal chiarire secondo quale punto di vista essa prenda il suo contenuto, se debba trattarlo come particolare singolare, o come qualcosa di generale, se debba astrarre la forma secondo la somiglianza degli oggetti, nel qual caso procederebbe metodicamente, oppure debba istituire la propria forma di rappresentazione secondo l’unità dei fondamenti, che sottostanno agli oggetti, nel qual caso quindi la forma sarebbe scientifica, sistematica. Non è certo necessario dilungarsi sul fatto che gli eventi considerati dalla storia della filosofia si distinguono in maniera netta dalle vicende esteriori che costituiscono la materia della generale storia del mondo, per il fatto che essi, pur nel loro apparire individuale in riferimento a una persona, a un tempo e a un luogo, sono tuttavia qualcosa di universale, che sorge da una certa legge generale del pensiero, che a ognuno è data, e che quindi avrebbe potuto presentarsi in ogni altro tempo, senza riguardo a una certa persona o a circostanze locali, e non è limitata né a un luogo né a circostanze di tempo e ognuno la riconosce come un

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suo possibile sistema. Mentre invece gli avvenimenti del mondo sono meramente fatti [Fakta] esteriori, limitati appunto al luogo, alle circostanze temporali, in cui si sono verificati, e quindi sono del tutto individuali. Secondo la scansione precedentemente posta, tra sistema, scienza – metodo, conformità al sistema – e conoscenza in generale, che avevamo discusso soltanto in vista di questo scopo ultimo, è ora chiaro che la storia della filosofia disconoscerebbe del tutto il proprio contenuto e non lo tratterebbe in maniera corretta, se volesse trattarlo come una cosa particolare, e dunque scegliesse la forma cronologica in cui i sistemi si presentavano come avvenimenti. La questione è allora sempre se la storia della filosofia possa essere metodica e quindi conforme al sistema, oppure essa stessa sistematica e allora scienza. Nel metodo la materia viene ordinata semplicemente secondo la generalità comparativa o unità, poiché gli oggetti sono collocati secondo somiglianza, analogia, eccetera; al contrario, in un sistema o in una scienza la materia viene trattata come un Uno assoluto, in quanto le sue singole parti vengono poste secondo una connessione sintetica dei principi [Gründe] determinata a priori, ovvero si connettono esse stesse. Là la forma è presa dall’oggetto, qua dai principi e dall’unità determinata a priori. Se non fosse possibile, o non fosse consentito alla storia della filosofia per via del suo stesso concetto, di confrontare i sistemi con le loro fonti e quindi addurne i principi, non le rimarrebbe altro che la conformità al sistema o il metodo, poiché abbiamo già visto che il suo contenuto è un generale, e quindi per esempio un ordine copiato e cronologico sarebbe una figura estranea in essa introdotta, ogni qual volta metta in opera il metodo, la conformità al sistema, secondo la somiglianza degli oggetti, dei sistemi, della relazione reciproca di questi tra loro. Così però essa ricadrebbe daccapo al di sotto del suo rango, e si farebbe colpevole dell’errore di non utilizzare ciò che dovrebbe e potrebbe usare, se i sistemi devono essere ricondotti alle loro fonti e quindi anche poter essere ordinati sistematicamente secondo queste fonti, che sono le leggi del pensiero determinate a priori e le diverse relazioni determinate a priori delle facoltà dell’animo umano l’una con l’altra, nelle quali è data un’unità rigorosa secondo un sistema. La forma della storia della filosofia è quindi determinata dal fatto che essa deve essere sistematica, secondo l’unità e la connessione, secondo la relazione reciproca dei principi [Gründe], alla quale la storia della filosofia deve ricondurre i sistemi necessari. Nessun sistema in filosofia quanto quello di Spinoza, in cui Dio è una sola cosa con il mondo, è opposto all’altro per il quale l’essere infinito viene posto rispetto al mondo come qualcosa di diverso, di superiore e di separato. Questi sistemi procedono in direzioni del tutto opposte, non sembrano avere secondo la forma alcun punto di contatto che non sia nei loro oggetti, che sono gli stessi. In una storia della filosofia come dovrebbero essere posti o ordinati questi sistemi? – secondo la cronologia? In base a quando vissero gli autori di quei sistemi, a quando visse Spinoza, a quando i sistemi apparvero sulla scena? La storia della filosofia fa bene appello a un ordine più razionale di questa casuale giustapposizione secondo tempo e successione. La storia del mondo deve

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certamente copiare i suoi fatti secondo quest’ordine, essi sono fatti individuali, particolari, singolari, connessi con il tempo, il tempo particolare in cui sono apparsi; essi non erano, e ora sono passati, lo stampo in cui erano stati colati è sempre pronto a sparire. Ma questo vale anche per i cambiamenti della filosofia? – Non sono essi dati contemporaneamente con e nella filosofia, senza riguardo a quando un singolo uomo li ha chiamati all’esistenza nel mondo dell’apparire come singoli fatti? E cosa importa allora, cosa serve allo storico della filosofia preoccuparsi di quando vissero gli autori dei sistemi e di quando i sistemi nacquero? Tuttavia con una limitazione, che vedremo poi! – I cambiamenti della filosofia hanno un certificato di nascita eterno, che vale insieme ai principi dai quali scaturirono, e la cui data viene da un ambito invisibile; e infatti qui vogliamo vedere il posto, il luogo, che rimane costante, in cui quindi anche la conseguenza rimane costante, dal quale essi sorsero, e questo luogo è l’animo umano in generale, le leggi del suo pensiero determinate a priori, e le relazioni determinate a priori di una facoltà con le altre. – I cambiamenti della filosofia, i suoi sistemi, dovrebbero di nuovo essere posti secondo analogia e somiglianza degli oggetti, perché sia questo a determinare il loro ordine e la loro forma, allo stesso modo in cui la somiglianza o la differenza degli oggetti determina nella storia naturale dei volatili, la loro classificazione? – Una storia della filosofia non sarebbe allora certamente in nulla migliore di una tale registrazione secondo somiglianze nel regno della natura. E quanto lontano dal sistema che gli si oppone in maniera diretta, non dovrebbe essere quindi il sistema di Spinoza che prima abbiamo citato? Due sistemi che procedono esattamente da un solo principio [Grunde], soltanto che l’uno trae le sue conclusioni secondo i concetti puri dell’intelletto, in cui l’incondizionato non interferisce ancora con il condizionato, mentre il secondo aggiunge l’ambito della ragione a quello dell’intelletto, e separa entrambi l’uno dall’altro. Il sistema spinoziano procede dalla pura forma disgiuntiva, in cui la sfera di tutto ciò che viene concepito è una e una stessa cosa con ciò che concepisce, soltanto che questa cosa viene formata dalla sostanza, quella dagli accidenti; quindi, secondo Spinoza, Dio è una sola cosa con il mondo, soltanto che quello è la sostanza, questo le modificazioni che nella sostanza sono fondate. Il sistema opposto procede dallo stesso principio, ma connette le esigenze della ragione con la forma disgiuntiva dell’intelletto, in cui l’incondizionato non è una stessa cosa con il condizionato, e Dio non è la stessa cosa che il mondo. In una storia della filosofia, la cui forma deve essere essa stessa filosofica e portare in sé il carattere della filosofia, e che quindi deve risalire sino ai fondamenti [Gründe] primi dei sistemi, non dovrebbero perciò questi sistemi venire posti insieme in base alla loro unità nel fondamento? – Questo mi soddisfa soltanto come un esempio di ciò che qui ho argomentato, anche se forse per molti ciò che concerne questo fatto non può essere fondato: tuttavia corrisponde al mio scopo di commentare la forma che considero essenziale e doverosamente necessaria per la storia della filosofia. – Ora però occupiamoci della limitazione della quale ho prima ricordato qualcosa di passaggio, e che mi deve giovare perlomeno contro un possibile fraintendimento.

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La realtà di un oggetto, o di qualcosa che si è verificato, può essere documentata soltanto tramite il fatto che siano determinate con precisione le circostanze di tempo e di luogo che individualizzano quel qualcosa che è accaduto ovvero l’oggetto come particolarità. Perciò, ad esempio nella storia naturale dei volatili, in cui la forma viene stabilita non seguendo l’ordine delle regioni ma metodicamente secondo generi e specie, e quindi senza tener conto della vicinanza o lontananza delle regioni in cui queste creature vivono, c’è tuttavia l’indicazione della regione, del luogo particolare nel quale vive questa o quella specie di uccelli, questo o quel singolo individuo. Questa indicazione serve a conclamare l’esistenza dell’oggetto, la sua realtà, per rappresentare nello stesso tempo anche l’elemento particolare e individuale di un oggetto. E così avviene in ogni storia – e quindi anche in quella della filosofia. Se già sopra dicevo che non si potrebbe stabilire la forma della storia della filosofia in base alle circostanze di tempo e di luogo, ovvero quando, dove sorse un sistema e chi lo pensò: così quel carattere di realtà che rientra necessariamente nel concetto di “storia”, vale anche qui, quando cioè i sistemi non vengono posti secondo l’ordine cronologico, per documentarne la realtà, l’esserci effettivo o il loro essere stato; vale anche qui che di ogni sistema debba essere indicato il tempo, e in particolare la persona che lo ha elaborato, per presentare con ciò anche un segno esteriore della sua esistenza, e distinguerlo da un sistema soltanto possibile – e quindi per distinguere la storia della filosofa dalla storia della filosofia a priori, la quale ha a che fare con semplici possibilità. Ma questa determinata indicazione del tempo serve unicamente a confermare un sistema come sistema reale, per lasciargli la sua parte di apparenza nel mondo dell’esperienza, ma non per modellare su ciò la forma della storia della filosofia o determinarla. Definita la storia della filosofia come la sistematica rappresentazione dei sistemi necessari ed esistenti in quanto modificazioni della scienza della conoscenza determinata a priori nell’animo umano secondo concetti, in quanto i sistemi possono essere ricondotti a fondamenti determinati nella facoltà della rappresentazione – o sono possibili in base a tali principi: possiamo adesso distinguerla da ogni altro genere di storiografia, a partire da queste caratteristiche che rientrano nel concetto di “storia della filosofia”, – ed essa si distingue in primo luogo dalla generale storia del mondo. In questa il contenuto è empirico, dato dall’esterno e altrettanto empirica, data dall’esterno, casuale, ne è la forma. Al contrario, il contenuto della storia della filosofia è certamente dato empiricamente, ma non è esso stesso empirico, e la forma della sua rappresentazione è data a priori ed è quindi necessaria e sistematica. Poniamo qui la differenza tra ciò che è empirico e ciò che è empiricamente dato: quello sorge dall’esperienza, questo invece è soltanto collegato all’esperienza, come appunto i sistemi della filosofia, i quali secondo la loro realtà sono certamente dati dall’esperienza ma non dipendono da questa, quanto invece dalle leggi del pensiero e dai principi a priori. Se quindi ora già la storia della filosofia nel cui concetto rientra non semplicemente la nota di un contenuto possibile, ma piuttosto di uno reale, accoglie dall’esperienza i dati della storia, cioè i sistemi in quanto modificazioni della filosofia,

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essa opera sotto questo profilo in maniera uguale alla generale storia del mondo: tuttavia, il suo contenuto consiste in questi sistemi dati a priori, determinati secondo la loro intera possibilità a priori nella facoltà della rappresentazione; e in ciò essa allora si distingue dalla generale storia del mondo, la quale può derivare il suo intero contenuto soltanto dall’esperienza dove questo non ha niente di determinato a priori, ma è semplicemente empirico e casuale. L’elemento determinato a priori nel contenuto della storia della filosofia le dà però anche la sua forma. Come i primi fondamenti, dai quali procedono i sistemi, stanno in connessione reciproca, così in queste stesse connessioni devono essere realizzati anche i sistemi. Il procedimento cronologico o la classificazione secondo somiglianza degli oggetti esulano del tutto dall’ambito di questo tipo di elaborazione: mentre invece la generale storia del mondo, il cui contenuto è solo empirico, è legata strettamente alla cronologia come all’unica possibilità per mezzo della quale gli eventi sensibili si connettono nella catena del tempo lungo la sequenza delle cause e degli effetti. – La nostra storia, della quale abbiamo cercato di determinare il concetto, presuppone, rispetto alla generale storia del mondo, che essa dà a se medesima la propria forma, il suo proprio ordine, e certamente secondo il necessario contenuto, o piuttosto secondo i fondamenti, ai quali esso contenuto deve essere ricondotto: un tale ordine è sistematico secondo unità, cioè secondo l’unità del sistema in cui le leggi del pensiero e le diverse facoltà dell’animo umano stanno l’una rispetto all’altra. In secondo luogo, sotto il profilo della forma, la nostra storia della filosofia si differenzia anche da quella trattazione della generale storia del mondo che si chiama pragmatica. La regola o l’unità secondo cui vengono ordinati gli eventi nella storia della filosofia e nella storia del mondo pragmatica, è già assegnata a priori; là i cambiamenti della filosofia secondo i diversi determinati fondamenti a priori dell’intelletto umano, qui il progresso del genere umano secondo l’idea di un summum della formazione morale e dell’educazione. Ma così l’ultima cosa è, in quanto idea morale, soprattutto un postulato che può essere accolto ma non dimostrato, mentre quella cosa che determina la forma della storia della filosofia possiede una certezza logicamente dimostrabile. E perciò la storia del mondo pragmatica segue più un metodo e presenta conformità a un sistema, mentre quella possiede il sistema stesso, ed è scienza. – In secondo luogo, anche la storia del mondo pragmatica è legata alla forma temporale e alla rappresentazione cronologica, quando stabilisce le sue proprie epoche secondo quell’idea di formazione morale, poiché ogni progresso, o progredire, può aver luogo soltanto poco alla volta e secondo le determinazioni del tempo. Quindi il contenuto della storia pragmatica, che ha per scopo di rappresentare l’approssimarsi del genere umano al bene, il suo progresso, indica ad essa anche la forma della periodizzazione e delle epoche. – Abbiamo così argomentato in che modo stanno le cose rispetto ad ogni altra storiografia che voglia rappresentare un simile progressivo avanzamento, come ad esempio la storia dell’arte, in quanto esse ogni volta si attengono al tempo, e scelgono questo come forma della rappresentazione.

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Ma ora è come se mi sentissi ribattere: gli antichi sistemi della filosofia non si formarono proprio come ogni altra cosa che entra nel mondo dell’apparenza, l’uno dopo l’altro in tempi molteplici e diversi; e non è quindi anche la storia della filosofia legata alla cronologia, al modo in cui sorse questo o quel sistema, dato che storia in genere non è altro che una copia la quale di nuovo rappresenta il che cosa e il come di ciò che essa trova nelle diverse epoche? – Mi si conceda soltanto che la storia della filosofia non può rappresentare nient’altro che ciò che è fondato nella filosofia ed è possibile tramite essa: allora io sono anche giustificato ad affermare che il casuale non può essere accolto in essa, niente di casuale può costituire né il suo contenuto né la sua forma, e che non si può negare il fatto che le circostanze esteriori, quando sorse un sistema, quanto ampio e lungo fu il suo prestigio, chi lo produsse, appartengono alle forme casuali – e che quindi la forma della storia della filosofia non può essere determinata anche secondo esse. La forma propria alla storia della filosofia deve avere unità, deve essere sistema, il quale è determinato attraverso la filosofia stessa, in quanto questa indica a priori quali sistemi soltanto sono possibili nella filosofia. Tutti i cambiamenti della filosofia sono fondati in essa stessa, e secondo questi cambiamenti in essa fondati, devono essere posti anche i cambiamenti nella sua storia. Quelle circostanze particolari e quei motivi che riguardano la formazione, la durata, la decadenza di un sistema, appartengono ai destini [Schicksale] della filosofia, e se il casuale non deve subentrare al necessario, una storia della filosofia deve quindi essere distinta dalla storia o rappresentazione dei destini dei sistemi della filosofia, i quali potrebbero essere sintetizzati sotto la denominazione di “cambiamenti esteriori o circostanze esteriori della filosofia” – la quale storia dovrebbe essere composta secondo cronologia. A una tale rappresentazione apparterrebbe per esempio, “quando e come un sistema è sorto, come è stato formato, che scuole ha fondato, quanto a lungo ha avuto valore e così proseguendo”, e una tale storia sarebbe molto diversa dall’autentica storia della filosofia. Ma sempre nell’ambito di questa storia che sto ora distinguendo da quella della filosofia, non si confonda la rappresentazione dei destini della filosofia con la rappresentazione o storia dei destini dei filosofi, la quale appartiene alle descrizioni biografiche, e concerne soltanto gli individui, le persone, mentre quell’altra concerne l’aspetto del tutto generale dei cambiamenti esteriori della filosofia stessa. La nostra determinata storia della filosofia è però altrettanto diversa da quella dello spirito filosofico. Se sotto la parola “spirito” non mi foggio un concetto sbagliato, ciò che con essa si intende, è la specie e la maniera dell’influenza occasionale e reciproca della facoltà sensibile (immaginazione, fantasia) sulla facoltà del pensiero (in senso stretto) e della sua espressione: quindi spirito filosofico è la specie e la maniera dell’espressione del gioco reciproco della sensibilità e della facoltà del pensiero con riguardo al compito o rispetto al compito di determinare gli oggetti che rientrano nell’ambito della filosofia. – Tra tanto molteplici modificazioni e tipi di

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gioco si forma per così dire questo reciproco influsso della sensibilità e dell’intelletto, sicché la sensibilità può avere molte modificazioni a seconda delle determinatezze della persona, dell’epoca, delle circostanze esteriori, e così, tra tante manifestazioni, emerge anche lo spirito filosofico: e una storia di questo (non la sua psicologia) è molto diversa da quella della filosofia, i cui cambiamenti essa ha fondati in se stessa, mentre quella sorge tramite una doppia, e ogni volta casualmente determinata influenza di due facoltà o forze, ed è quindi necessariamente legata alla cronologia e alla periodizzazione nella sua forma di rappresentazione, in quanto la filosofia verrebbe trattata nel suo rivestimento ora sotto questa ora sotto quella veste dello spirito filosofico, secondo la formazione di più alte o di più basse forze dell’uomo, la qual cosa dipende da circostanze individuali, temporali, casuali. Una storia dello spirito considera quindi più la veste esteriore della filosofia, se così posso dire, – come essa viene rappresentata, come un sistema è stato trattato con maggiore o minore spirito inventivo, come c’erano periodi durante i quali non si credeva di aver fatto niente per la filosofia se non si cominciava l’edificio filosofico con definizioni ed assiomi e non si proseguiva secondo dimostrazioni, o come, non preoccupati di una tale severa arte della dimostrazione, si filosofava invece liberamente, cioè ci si aspettava che la filosofia fosse come un figlio della calda sensibilità, – il quale periodo soltanto da non molto sembra sul punto di scomparire grazie alla luce sobria della filosofia critica. Una tale storia dello spirito filosofico potrebbe nello stesso tempo essere trattata e compiuta insieme a quella dei destini dei sistemi: in quanto cioè quello non ha avuto poca influenza sui destini di questi, sul più o meno lungo loro rimanere in auge, sulla loro più o meno grande influenza nelle scuole. Tuttavia anche in questa unificazione la storia dello spirito filosofico rimane diversa da quella che abbiamo chiamato storia dei destini dei sistemi4)5. Dopo queste discussioni, in cui io ho cercato di rappresentare il mio concetto di storia della filosofia per quanto possibile con la massima chiarezza, passiamo ora alle altre definizioni e chiarimenti di questo concetto date da uomini intelligenti, in modo da confrontare con queste la spiegazione da me proposta e metterla ancora una volta alla prova. La definizione era: Storia della filosofia è la rappresentazione sistematica dei sistemi necessari ed esistenti della filosofia, in quanto scienza della conoscenza determinata a priori nella facoltà della rappresentazione, in quanto i sistemi possono essere ricondotti ai loro principi primi nella facoltà della rappresentazione e sono possibili tramite essi. – I cambiamenti, a cui 4 Lo spirito filosofico è più o meno un figlio di concetti oscuri, e con lo spirito filosofico cominciò la filosofia: perciò una sua storia risalirebbe assai lontano nell’antichità, ai primissimi tempi nei quali non era possibile ancora né una storia della filosofia né una storia dei suoi destini. 5 È in genere ammesso anche un certo spirito a priori del filosofare o spirito filosofico, e la rappresentazione di esso e delle sue diverse forme deve avere un posto anche in una storia della filosofia. Rinvio qui a quanto afferma Kant nella Critica della Ragion pura sotto il titolo “La storia della ragion pura”. Questo spirito filosofico è determinato alla stessa maniera in cui sono determinati a priori i sistemi filosofici, in certe relazioni originarie delle singole facoltà dell’animo. La sua determinazione deve però essere diversa dallo spirito filosofico empirico, del quale parliamo sopra nel testo.

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fa riferimento il concetto di “storia”, nel caso della filosofia, che è una scienza fondata in se stessa, non possono consistere in altro che nei sistemi: da ciò deriva questa nota di “sistema”, tramite la quale il concetto generico e indeterminato di “cambiamento” viene indicato determinatamente in riferimento al contenuto della storia della filosofia. Questi sistemi, in quanto cambiamenti di una scienza che è unità perché è in se stessa fondata, possono essere fondati soltanto nella filosofia, o negli oggetti che questa tratta, cioè nelle leggi della facoltà della rappresentazione, e sorgere secondo esse, cioè devono essere necessari: da ciò ora la nota “sistemi necessari”, per allontanare dal piano della storia della filosofia quelle opinioni o quei sistemi prodotti dall’immaginazione, che non possono avanzare alcuna pretesa alla denominazione di “filosofici”. Ogni storia dovrebbe e deve indicare l’accaduto, i cambiamenti, secondo il collegamento di causa ed effetto, e quindi anche la storia della filosofia deve mostrare i sistemi come risultati in collegamento con i loro fondamenti o cause [Gründe]: da ciò la nota con la quale viene precisato il modo di trattare il contenuto: «in quanto possono essere ricondotti ai loro principi primi nella facoltà della rappresentazione e sono possibili tramite essi». Questi fondamenti non possono, come le cause per i fatti sensibili, risiedere al di fuori della facoltà della rappresentazione, ma devono essere dati in essa: da ciò la nota, già presente in quella proposizione: «ai principi primi nella facoltà della rappresentazione». Il concetto di “storia” contiene e racchiude in sé la nota che ciò che essa tratta abbia realtà, da ciò la nota «sistemi reali, esistenti»: infatti, noi vogliamo vedere in una storia non la possibilità, se anche così possa aver luogo una storia a priori della filosofia, in quanto tutti i sistemi devono poter essere dedotti da principi a priori. Poiché i principi dei sistemi stanno a priori nella facoltà della rappresentazione, e qui sono determinati, anche la relazione reciproca e l’unità dei sistemi dipendono dalla relazione reciproca e dall’unità dei principi: così la forma della storia della filosofia deve essere presa dall’unità, dal sistema o dalla connessione sistematica dei principi, cioè deve essere essa stessa sistematica, e da ciò la nota «rappresentazione sistematica». Dopo questa breve ricapitolazione e ulteriore verifica delle note presenti nella mia definizione, passiamo adesso agli altri tentativi di determinare il concetto della storia della filosofia: e noto in generale su tutte le definizioni seguenti, che o mancano di note essenziali o ne vengono accolte di inessenziali, o si trovano in una stessa definizione errori in entrambe queste direzioni. La vecchia e nota definizione di Gurlitt6, «storia della filosofia è un compendio cronologico e sistematicamente ordinato dei cambiamenti che dai tempi più antichi sino ai nostri hanno subito quei concetti e quelle conoscenze sugli uomini, il mondo e Dio, che costituiscono il contenuto della filosofia», è stata soppiantata in parte già da chiarimenti e da definizioni più recenti, tramite le quali è già stato indicato che la si considera

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Compendio di storia della filosofia.

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incompleta e incongruente: al di là di alcune osservazioni, non c’è quindi bisogno di una specifica analisi di questa definizione. – In primo luogo, per quanto riguarda la mancanza di note essenziali, non si trova qui, ma la cosa vale anche per le altre seguenti definizioni, la nota essenziale e necessaria che è propria ad ogni storia, che la storia della filosofia deve indicare e rappresentare i sistemi in collegamento con le loro cause, sistemi qui designati con il concetto generico di “cambiamenti”. Ogni tipo di storiografia è tenuta a rappresentare i propri avvenimenti nella successione di cause e di effetti, che nel caso dei fatti sensibili, si pongono successivamente in una sequenza: e così deve quindi fare anche la storia della filosofia, se non vogliamo considerare i suoi avvenimenti semplicemente come singoli fatti incoerenti, nel qual caso ci mancherebbe un principio di spiegazione. – L’espressione indeterminata “cambiamenti”, che Gurlitt non ha ulteriormente analizzato, ha fatto sì che egli scambiasse la storia dei destini della filosofia con la storia della filosofia, le esteriori vicende casuali dei sistemi della filosofia con i cambiamenti interni e necessari della filosofia stessa, e via discorrendo. – Per quanto riguarda la forma della rappresentazione della storia della filosofia, sono sovrapposti qui due caratteri, che stridono l’uno con l’altro, e dove l’uno è di troppo, lo è anche l’altro ed è quindi falso. «Compendio ordinato cronologicamente e sistematicamente», ma come possono entrambe le note stare insieme, come può ciò che è ordinato cronologicamente, che è dato secondo la forma, essere posto sistematicamente, secondo l’unità di un’idea, e ciò che è ordinato secondo questa, essere posto cronologicamente? – Una delle due note deve recedere dal collegamento, e questa è la nota cronologica, la quale secondo la nostra precedente determinazione, non si concilia con il contenuto che tratta la storia della filosofia. Infatti, la convalida della realtà dei sistemi tramite indicazioni cronologiche, che noi prima pur limitandola abbiamo ammesso e indicato come necessaria, non costituisce in alcun caso una forma propria alla storia della filosofia; ma questa indicazione cronologica è soltanto il mezzo per documentare la realtà di un sistema effettivo tramite un contrassegno caratterizzante esteriore. La definizione di Reinhold, che è presentata nella lezione “Sul concetto di storia della filosofia”, recita: «essa è la rappresentazione in compendio [Inbegriff] dei cambiamenti che dalla sua origine sino ad oggi, ha sperimentato la scienza della connessione necessaria delle cose». Noi vediamo che anche qui manca quel qualcosa che nella definizione di Gurlitt abbiamo indicato come l’assenza di un carattere essenziale, per il quale una storia viene distinta da una semplice copia. La storia della filosofia non dovrebbe essere altro che la morta riproduzione dei sistemi o dei cambiamenti, del modo in cui erano un tempo, senza che ne sia indicata la origine, il principio dal quale sorsero? – Essa sarebbe così ancora meno della generale storia del mondo, che non presenta i suoi avvenimenti semplicemente come edifici senza fondamenta, ma secondo la loro connessione e il loro concatenarsi in una sequenza di cause e di effetti: la quale necessità di esecuzione sta già nel concetto di avvenimenti sensibili, che la

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generale storia del mondo rappresenta; perciò questa nota della connessione della causa con la conseguenza non ha bisogno di essere indicata in particolare nella definizione della storia del mondo, perché è già considerata nell’espressione, – «un racconto o rappresentazione delle cose plausibilmente accadute o avvenimenti del mondo»7. Al contrario nella definizione della storia della filosofia, poiché nel caso dei cambiamenti che, come dice Reinhold, la filosofia sperimenta, causa ed effetto non si connettono l’uno con l’altro, e non si rappresentano sensibilmente come avvenimenti, questa nota deve necessariamente essere aggiunta e indicata in particolare, il fatto cioè che essa debba ricondurre i cambiamenti ai loro principi, e così lasciar vedere contemporaneamente conseguenza e principio. – Ma anche qui, in che cosa consistono i cambiamenti che la scienza della connessione necessaria delle cose sperimenta e può sperimentare? – In una definizione dovrebbe e deve essere indicata ogni cosa con note determinate e chiare, se non deve sorgere una continua catena di definizioni, ognuna delle quali chiarisce quello che nella precedente è stato lasciato indeterminato. Nella definizione della generale storia del mondo, la nota “cambiamento” viene ricondotta in maniera determinata al suo carattere più proprio, al carattere di contenuto della storia mondiale, “sono avvenimenti, fatti”: perché allora nella definizione di storia della filosofa dovrebbe essere lasciato indeterminato il carattere proprio dei cambiamenti che riguardano la filosofia? – Questi sono sistemi. Quindi, tale nota più precisa deve essere ammessa, se la definizione non deve dare la prima occasione a rappresentazioni della storia della filosofia non conformi al suo scopo, nelle quali ora si confonderebbero i destini della filosofia con l’intima essenza necessaria e con i sistemi della filosofia, e ora questi con quelli, sicché tutto si mescolerebbe. – Inoltre, i cambiamenti della filosofia, in quanto cambiamenti di una scienza in se stessa fondata, possono derivare soltanto da se medesima, e i sistemi sono posti dalle leggi del pensiero. Poiché ora la storia della filosofia può accogliere semplicemente i sistemi filosofici, cioè quelli che hanno il loro necessario fondamento nelle leggi del pensiero determinate a priori, e deve quindi ammettere nel suo proprio ambito unicamente i cambiamenti interni della filosofia, allora deve essere aggiunta anche la nota “sistemi necessari”, la cui determinazione però nella definizione reinholdiana si è persa, allo scopo di distinguere i sistemi filosofici da quelli casuali, prodotti dalla forza dell’immaginazione, e i cambiamenti interni della filosofia da quelli esterni che avvengono rispetto alla filosofia, e per separare con stabili confini la storia della filosofia da quella dello spirito filosofico, e dalla rappresentazione dei destini della filosofia. Infine, per quanto riguarda la forma della storia della filosofia, quanto nella definizione di Gurlitt era troppo determinato, qui diventa troppo poco, o del tutto indeterminato. Una rappresentazione in compendio può essere o sistematica, o conforme al sistema, o infine anche una semplice copia, composta secondo la cronologia, etc. 7 I kantiani non possono in effetti salvarsi dal meritato rimprovero di pedantismo, se applicano la loro terminologia kantiana ovunque, e vogliono ovunque introdurla. Come ridicola è perciò la definizione di storia che si deve sentire qui e là – «rappresentazione degli avvenimenti umani secondo il tempo e lo spazio!».

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Non è però necessario che tutto ciò sia determinato nella definizione di storia della filosofia? Quando si dice: la filosofia è scienza eccetera, allora la determinazione della forma sta già nel concetto di “scienza”, cioè è una forma sistematica. Ma nel concetto di «rappresentazione in compendio» non si trova niente di una tale nota, che determini e indichi la forma. A che scopo quindi, che io passi anche alle note eterogenee, inessenziali, come l’aggiunta «dall’origine sino ai nostri tempi»? – Che la storia della filosofia debba rappresentare l’intero delle modificazioni che ha sperimentato la scienza della necessaria connessione delle cose, è già implicito nella già indicata nota di «rappresentazione in compendio». Ma forse l’inserimento di questa aggiunta doveva indicare la forma della nostra scienza, il fatto che Reinhold vuole che essa sia cronologica: se così fosse, mentre prima c’era una nota soltanto superflua, adesso ne sarebbe stata accolta persino una falsa ed estranea. La definizione di Göss8, «storia della filosofia è la rappresentazione in compendio di tutti i cambiamenti che, dall’inizio sino ai nostri giorni, ha subito la scienza delle forme, delle regole e dei principi, necessari e universalmente validi, delle originarie facoltà dello spirito umano, e di tutte le cose che sono determinate attraverso quelle», ricade completamente in quella precedente di Reinhold, e ne condivide quindi tutti i difetti, che sopra abbiamo elencato. L’unica cosa per la quale questa definizione si distingue, è che dà o sembra dare un’altra definizione di filosofia, della quale però anche l’autore della Rassegna letteraria sul Giornale di Niethammer (2, IV numero) ha già indicato che è sbagliata, perché include l’ambito della matematica in quello della filosofia9. Non notiamo altro che piccole, e non felici, sfumature di parole, come «subire», invece di «sperimentare». Dopo la discussione di queste definizioni, nelle quali, come abbiamo indicato, o mancano note essenziali, o vi sono accolte altre inessenziali ed estranee, perché nelle ultime due si bada più a una definizione di filosofia che a quella di storia della filosofia, giungiamo adesso a quella presentata dal perspicace autore della Rassegna letteraria nel summenzionato Giornale, la quale egli stesso però desidera che sia considerata non come una disamina esauriente del concetto che deve essere determinato. «La storia della filosofia ha lo scopo», si afferma, «di rappresentare il mutevole dell’effettiva elaborazione della filosofia in rapporto all’immutabile, o i passi della ragione filosofica verso la scienza nell’idea». Sopra questa definizione, la quale in effetti è più una descrizione in generale del punto di vista che la storia della filosofia deve assumere di quanto non sia una vera definizione, e sulla quale non mi è permesso di svolgere una completa o precisa disamina, perché l’autore non la presenta come definitiva, osservo soltanto che non mi sembra indovinato il punto di vista che deve essere assunto nell’elaborazione della storia della filosofia, perché mi sembra eterogeneo, inessenziale, interpolato, appartenente a un ambito del tutto diverso Cfr. il piccolo scritto “Sul concetto di storia della filosofia”, 1794. Per la più precisa determinazione del concetto di “filosofia”, è utile leggere il breve scritto di Krug, “Sull’influsso della filosofia”, oltre al trattato, “Sul concetto e la parti della filosofia”, 1796. 8 9

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dell’elaborazione scientifica. Mi sembra cioè che l’autore consideri la storia della filosofia come una valutazione [eine Beurtheilung], come una critica [Kritik] dei diversi sistemi come dell’elemento mutevole in filosofia, per far così notare i passi della ragione filosofica verso l’immutabile, come scienza nell’idea. Senza valutazione [Beurtheilung], senza una critica infatti non può essere posto questo avvicinamento [Annähern], questo progredire della ragione filosofica nel mutevole in direzione dell’immutabile: infatti, se di ogni sistema non viene mostrato quanto ha di vero e quanto di falso, e quindi in che misura esso contribuisca a fare avvicinare questo regno dell’immutabile, non possono essere osservati i passi della così detta ragione filosofica, e quindi secondo l’opinione dell’autore, non è possibile alcuna storia della filosofia. Ma mi sembra che proprio questo sia l’elemento estraneo che non può presumere alcun ruolo nell’ambito della storia della filosofia, il fatto che in questo ambito si inserisca una valutazione, una critica dei sistemi, poiché, come ritengo, la storia della filosofia deve astenersi da ogni cosiddetta critica che indichi il mutevole o l’immutabile in un sistema, e non fare altro che mostrare la filosofia nel suo mutevole, cioè indicare i sistemi e ricondurli come effetti alle loro fonti, alle loro cause [Gründe] prime nella facoltà della rappresentazione. Ma volere illuminare con la fiaccola di una valutazione queste cause e questi effetti, come la misura in cui essi corrispondono all’immutabile, alla filosofia come scienza, e quella in cui la ragione filosofica si sia approssimata all’immutabile, mi sembrano cose che stanno del tutto al di là del piano e dello scopo di una storia della filosofia; storia della filosofia la quale deve semplicemente dire “che cosa c’è e in che modo è”, ma non “in quale misura ciò che esiste come filosofia, contribuisce alla verità”. Una tale storia che abbia l’intenzione di una critica e di uno schiarimento dei sistemi, la si dovrebbe chiamare critica dei sistemi, o dell’elemento mutevole della filosofia. – In secondo luogo, è poi possibile una tale rappresentazione in cui sono mostrati i passi della ragione filosofica verso l’immutabile? – Se la vera filosofia, l’immutabile, o come la chiama l’autore, la scienza nell’idea, – è una filosofia senza sistema, che non ne ha nessuno, a nessuno si attiene, ma sta ben al di sopra di ogni spirito di sistema, e consiste nella conoscenza dei limiti che sono posti allo spirito umano, nel possesso della misura dell’intera facoltà della rappresentazione, allora la vera filosofia, l’immutabile, la scienza nell’idea, consiste nel fatto che non si può sapere niente su ciò di cui tutti i sistemi vogliono sapere qualcosa: non vedo possibile infatti nessun passaggio dal mutevole all’immutabile, tramite cui la ragione filosofica possa farsi più vicina all’immutabile. Se ogni sistema è qualcosa che si attiene a un fondamento [Grund] unilaterale, singolo, il quale è dato nella facoltà della rappresentazione, allora la filosofia come scienza abbraccia proprio tutti i sistemi, li attornia con un circolo, non procede da alcun punto singolo della facoltà della rappresentazione ma è onnilaterale [alles umfassende] critica dell’intera facoltà della rappresentazione stessa: ma così c’è adesso un’immane frattura tra il mutevole e l’immutabile della filosofia, e non è allora possibile nessun passo con cui si possa superare questa frattura, e dopo il quale la ragione filosofica si sia avvicinata di più dal mutevole all’immutabile.

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Proprio in questo mi sembra consistere la peculiarità della filosofia: che qui non è possibile alcun avvicinamento, alcun progresso successivo verso qualcosa, ogni sistema sorge libero, indipendente dagli altri, è qualcosa di singolare, isolato, che si separa dall’altro secondo il proprio fondamento; e proprio quanto più la vera filosofia, essa come scienza, mi sembra lontana dal mutevole, dai sistemi, tanto meno essa è quel sistema ma piuttosto circoscrive i sistemi. Come ogni sistema, così anche la vera filosofia, o il suo elemento immutabile, deve sorgere da se stessa, non può, per così dire, essere nata attraverso altri sistemi, c’è e mostra se stessa – e così io considero la storia della filosofia nel senso del nostro autore, in cui devono essere osservati i passi della ragione filosofica, come impossibile, e contraddittoria rispetto allo spirito della stessa filosofia. In ogni altro uso delle forze umane, dove ha luogo un summum o un massimo, un tale progresso verso il massimamente elevato è senz’altro possibile, come per esempio nell’educazione, nella cosiddetta formazione morale dell’uomo, in cui il soprasensibile, l’invisibile sta sotto l’effetto del sensibile, sicché qui passi e gradi sono possibili, e quindi è possibile anche una storia che rappresenti il progresso del mutevole verso l’immutabile. Ma è lo stesso nel caso della filosofia? la si distingua e non la si confonda con lo spirito umano, in cui è possibile una simile rappresentazione del progredire dalla luce impura della sensibilità a quella più pura del pensiero limpido e libero; – ma nella filosofia? la quale è fondata indipendentemente e in sé, procede da se stessa e dove ogni sistema può mostrare un singolo, e per se sussistente fondamento. Quindi, per il fatto che una tale indicazione e caratterizzazione dei passi della ragione filosofica dal mutevole all’immutabile nella storia della filosofia sia una nota estranea che non le appartiene, una tale storia mi sembra addirittura impossibile – se non si vuole che essa debba essere antropologica, e allora storia del modo in cui attraverso circostanze individuali, dello spirito, dell’epoca e così via, un filosofo è stato condotto da un sistema all’altro. L’intera discussione del concetto di storia della filosofia da parte dell’autore della Rassegna letteraria mi sembra perciò portare in sé note estranee e inessenziali, e mi sembra che una storia secondo essa, se anche fosse praticamente possibile, tuttavia non sarà una storia della filosofia, ma una critica dei sistemi della filosofia. La più recente definizione del concetto di storia della filosofia che mi sia nota, e alla cui verifica giungo conclusivamente, è quella del signor Buhle10: «La filosofia è la scienza della natura dell’animo umano in sé e per sé, e dei suoi rapporti originari agli oggetti fuori di sé. La storia della filosofia è un racconto pragmatico dei tentativi più importanti che le più eccelse intelligenze dell’antichità e dei tempi moderni hanno fatto, per portare a compimento questa scienza». Consideriamo però anche queste altre parole dell’autore: «Nel fatto che in parte non si era fissato il concetto di filosofia in modo giusto, preciso e chiaro, in parte si sconoscevano lo scopo della storia della filosofia e il suo vero ambito, sta il motivo del perché la più recente disciplina se10

Manuale della storia della filosofia e della sua letteratura critica, Gottinga 1796.

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condo l’elaborazione avutane sinora, è più storia letteraria, storia della cultura che non ciò che essa deve essere, eccezion fatta per alcune parti». Io dico che questa sincera espressione dell’autore, come anche la più recente origine della definizione che viene dopo molti precedenti tentativi, mi lasciano a buon diritto sperare che le parole dell’autore si compiano e il concetto della storia della filosofia sia esaurito nella definizione più di quanto avvenuto in precedenza, secondo tutte le sue note. Ma in primo luogo, se riteniamo di aver biasimato sopra con diritto l’uso della parola indeterminata che era stata accolta in alcune definizioni, «cambiamenti, che la filosofia ha sperimentato», tramite la quale perlomeno veniva però caratterizzato qualcosa di generale rispetto al contenuto di cui la storia della filosofia deve trattare: cosa dovremmo allora dire di una nota ancora più indeterminata, che non caratterizza proprio nulla di generale che appartenga al contenuto della storia della filosofia, come la nota qui accolta “tentativi”? La promessa dell’autore di fornire in modo più preciso, più chiaro una definizione del concetto, viene adempiuta? In che cosa possono consistere i tentativi di portare a compimento una scienza? in che cosa in particolare possono consistere i tentativi per portare a compimento una filosofia? – Ma è però forse irrilevante che questa nota particolare venga indicata nella definizione? Questa lamentela, che la definizione di Buhle incontra, è tanto giusta quanto è evidente al primo sguardo che non si ha bisogno di nessuna ulteriore parola su come l’autore estenda in maniera ancora più indeterminata, nonché alle note più generali, ciò che nelle precedenti definizioni era indeterminato, invece di determinarlo con maggiore esattezza, e di renderlo in modo più preciso. In secondo luogo: «la storia della filosofia è un racconto pragmatico, eccetera». Cosa significa qui pragmatico? Esporre i sistemi della filosofia secondo i loro motivi esteriori, fattori [Gründe] e circostanze occasionali, oppure secondo le loro cause [Gründe] interiori, come essi scaturirono da queste o da quelle leggi originarie della ragione? – Deve rimanere indeterminata la particolarità di questa differenza del pragmatico nella definizione del concetto “storia della filosofia”? non deve essere determinato esplicitamente in che cosa consiste il racconto pragmatico nel caso della storia della filosofia? – Ma quasi crediamo che l’autore abbia lasciato qui indeterminato non soltanto il pragmatico, ma che egli vi abbia connesso un concetto che non attiene alla storia della filosofia, o che perlomeno abbia confuso quella duplice distinzione a proposito del pragmatico. Si consideri soltanto la Prefazione al Manuale: «Il presente manuale deve innanzitutto contenere la stessa cosa in forma di compendio. Deve raccontare l’origine, e il progressivo sviluppo della filosofia come scienza con la maggiore brevità possibile, lo spirito dei sistemi filosofici più famosi, antichi e moderni, deve storicamente indicare la loro differenza, il loro reciproco influsso l’uno sull’altro e le più dirette occasioni per tale influenza, e per quanto le notizie, o la natura della ragione filosofica, lo permettono, dare anche delucidazioni sulle circostanze del tempo, la particolare fisionomia spirituale, il carattere, la biografia dei filosofi stessi». Quindi più una storia antropologica della filosofia, o piuttosto dei destini della filosofia! La parola pragmatico che si trova nella definizione, è presa nel senso per cui i tentativi sono descritti in collegamento con i loro motivi esteriori e in genere

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con le circostanze occasionali e individuali! Secondo la nostra opinione, questo non permette alcuna storia pragmatica della filosofia, in quel vero senso della parola filosofia che è determinato attraverso il suo contenuto. – In terzo luogo, secondo quale metodo o forma la storia della filosofia deve raccontare? – secondo la forma cronologica, o quella conforme al sistema, o anche quella sistematica? – In questa definizione però non c’è niente che riguardi questa necessaria determinazione. Quale sia il modo di trattazione della storia della filosofia più adatto o meno adatto allo scopo di questa, secondo questa definizione è un tema lasciato alla sorte, buona o cattiva, dello storico. – Note non essenziali, o che comunque si intendono già da sé, non possono essere accolte in una definizione, che infatti secondo il nostro autore, deve essere precisa. A che scopo allora, in quarto luogo, inserire nella summenzionata definizione la nota «che le più eccelse intelligenze dell’antichità come dei tempi moderni hanno fatto»? – In che modo un tentativo diretto a realizzare una scienza, è possibile se non attraverso il pensare, il riflettere, le quali cose hanno luogo nelle intelligenze? Quanto è utile quindi questa pregnante aggiunta! Non è più breve, più preciso dire, come nella definizione reinholdiana, «dalla sua origine sino ai nostri tempi»? o come in quella di Göss «dall’inizio sino ai nostri tempi»? – Che cosa inoltre il nostro autore considera come criterio per distinguere l’importante dal meno importante, l’importantissimo dal più importante, l’eccelso dal molto buono, quando aggiunge «i tentativi più importanti, le intelligenze più eccelse»? Simili note relative devono rimanere fuori da una definizione, che deve essere criterio per tutti. La storia della filosofia tratta dei sistemi necessari della filosofia, possa un tale sistema necessario essere scaturito da una delle intelligenze più eccelse o meno eccelse. Noi potremmo ancora evidenziare molte simili affermazioni le quali indicano la più recente definizione del concetto che noi cerchiamo, quella del signor Buhle, come la più indeterminata, vaga e imprecisa: e non c’è allora bisogno di nessuna più estesa disamina per confermare ciò che qui ricordiamo di questa definizione, perché la più breve riflessione può bastare. Di queste stesse osservazioni, eravamo però debitori, perché esponevamo una nuova definizione che doveva giustificarsi davanti alle altre, e che allo stesso modo in cui ho fatto rispetto alle definizioni degli uomini più intelligenti, si espone pubblicamente alla verifica, alla censura o al plauso. Secondo la determinazione sopra presentata della storia della filosofia come la rappresentazione sistematica dei sistemi necessari ed esistenti della filosofia o della scienza di ciò che è determinato a priori nella facoltà della rappresentazione secondo concetti, in quanto i sistemi devono essere ricondotti alle cause [Gründe] originarie nella facoltà della rappresentazione e sono possibili tramite queste, – derivano adesso molteplici conoscenze preparatorie, che devono essere preventivamente acquisite allo scopo di fare poi storia della filosofia. I sistemi esistenti devono essere trattati, in modo da poter essere ricondotti alle prime originarie cause [Gründe] nella facoltà della rappresentazione tramite cui sono possibili: si presuppone dapprima, dal lato del contenuto, la conoscenza dei sistemi, e quindi competenza storica su quali sistemi c’erano, che si conoscano secondo tutti

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i loro collegamenti, i loro motivi [Gründe] e risultati, e il modo in cui gli autori li composero. A questa competenza storica vengono ora presupposte, in modo che l’una debba ingranare nell’altra, e l’una debba preparare l’altra, prima che una storia della filosofia possa essere portata a compimento, le informazioni filologiche, cioè l’elaborazione filologica dei sistemi, in quanto necessaria per cogliere l’autentico senso dell’autore. Entrambe le cose però precedono soltanto come propedeutica la vera storia della filosofia, che porta tale nome con diritto, come un vestibolo che deve essere varcato prima che si possa giungere all’interno dell’edificio. Mi sembra perciò che non abbia alcun fondamento la partizione della storia della filosofia in una maniera di trattazione storica, una pragmatica e una critica: infatti, quanto costituisce una conoscenza preparatoria, propedeutica, non appartiene ancora alla scienza vera e propria, ed è separata dal suo ambito da severi confini, come il mezzo rispetto allo scopo. La conoscenza storica o la competenza circa i sistemi della filosofia appartengono alle conoscenze preliminari o introduttive alla storia della filosofia. Per quanto riguarda la maniera pragmatica di trattare la storia della filosofia, cioè in quanto i sistemi sono indicati in collegamento con le loro cause [Gründe], io la ritengo l’unica vera e adatta che conviene alla storia della filosofia. Ma non si confonda questa maniera in cui ogni sistema viene ricondotto alla sua intima causa [Gründe] con quello che io chiamo il metodo antropologico, secondo il quale sino ad oggi quasi sempre sono stati trattati l’intera storia della filosofia e tutti i sistemi, metodo con cui si cercano e si presentano le cause [Gründe] esteriori, che devono aver indirizzato al suo sistema questo o quel pensatore. Se questa maniera di trattazione fosse la vera storia della filosofia, allora non mancherebbero affatto perlomeno singole storie della filosofia, dato che secondo tale criterio è stato fatto quasi tutto ciò che nel nostro tempo si è prodotto in quest’ambito. Ma io non ritengo neppure che il coerente sistema di Spinoza sia sorto dal principio occasionante “nihil ex nihilo sit”; io voglio dire che questa maniera di trattazione della storia della filosofia nella quale si assommano i motivi esteriori, è estremamente casuale e non può valere come un’indicazione cui fare affidamento. Anche senza che il sistema di Cartesio la precedesse, la filosofia di Spinoza era posta con necessità secondo una legge del pensiero; e io ritengo che la storia della filosofia debba esibire questa causa [Grund], questa possibilità a priori, se vuole meritarsi il nome di pragmatica, cioè dell’unica maniera di trattazione che le si confà. Tramite quella congetturale indicazione delle circostanze antropologiche e dei principi occasionanti, noi veniamo ben poco soddisfatti. Dopo tutti quegli scritti che si indicano come epitomi della filosofia di Spinoza, che intrapresero a discutere la storia di questo sistema secondo tutte le congetture e motivi a cui quel sistema è stato ricondotto come alle sue fonti, mi è sempre rimasta la domanda più importante: «Quale è la causa [Grund] interna nella facoltà della rappresentazione, per cui un tale sistema poteva avere visto la luce?» – alla quale non rispose nessuno di quegli scritti, con tutte le loro occasioni individuali ed esteriori. Per quanto riguarda la maniera critica di trattazione della storia della filosofia, per come viene presentata nella distinzione dei metodi, ho già detto sopra che una

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

storia della filosofia non deve essere una critica, una valutazione di come la ragione filosofica si sia avvicinata nel mutevole dei sistemi all’immutabile dell’idea. Quindi, è sbagliata quell’articolazione globale della storia della filosofia, secondo cui deve essere scelto nella sua stesura contemporaneamente il punto di vista storico, pragmatico e critico; e rimane allora come unico punto di vista soltanto quello pragmatico, in quanto essenziale alla storia della filosofia, perché quello storico precede come propedeutica, e quello critico esula dal suo campo11. Se nella storia della filosofia sono previste conoscenze preparatorie dal lato del contenuto che deve essere trattato, allora dalla precedente definizione della storia della filosofia e dalla nota lì presentata «che i sistemi devono essere ricondotti alle loro fonti, e così indicato il fondamento della loro origine», risulta anche un secondo necessario requisito come propedeutica, che deve essere posseduto dallo storico della filosofia, un requisito però molto meno facile da raggiungere che tutte quelle conoscenze storiche dei sistemi, le quali devono comunque precedere come introduzione alla storia della filosofia; – deve esserci cioè una filosofia senza sistema, una visione generale di tutti i sistemi che di tutti tracci i confini, una scienza che ha misurato l’intera facoltà della rappresentazione da ogni lato sino ai suoi ultimi fondamenti, – una critica della ragione.

11 Nell’eccellente periodico “Annali della filosofia e dello spirito filosofico” (n. 123, 1795), il recensore dei Contributi alla storia della filosofia di Fülleborn, scrive soprattutto a proposito del citato principio fondamentale di Fülleborn: «Una rappresentazione delle circostanze esteriori e delle occasioni che condussero un pensatore a filosofare proprio in un certo modo, non trova certamente il proprio luogo nello spirito di una filosofia». (Contesta il recensore: «Come tale no. Ma è sempre istruttivo per la storia dello sviluppo dell’intelletto umano, vedere perché un filosofo giunge proprio a questa dottrina, anche se questo perché dipese da circostanze esteriori, dato che queste spesso danno ai suoi filosofemi un’impronta particolare. Perciò ad esempio, non si potrà certamente fare arrabbiare un Tiedemann se nel suo Spirito della filosofia speculativa tenta ogni volta un’esposizione di quelle circostanze esteriori e di quei motivi. A una storia pragmatica della filosofia, cioè tale per cui in essa i fatti sono rappresentati nella loro perfetta connessione, appartiene la descrizione tanto della sua connessione esteriore come di quella interiore; tuttavia in modo che la prima sia sempre subordinata alla seconda. Quella maniera di trattare la storia della filosofia che le collega entrambe in generale, sarà secondo l’opinione del Recensore, sempre la più istruttiva e la più utile»). Per assicurami qui da una possibile critica, chiarisco soltanto che io stesso considero come la più completa rappresentazione quella che sa collegare l’una all’altra la storia della filosofia, cioè la connessione interna dei sistemi, e la storia dei suoi destini, ovvero la connessione esterna, nonché la storia dello spirito filosofico; ma in un’indagine che determina il concetto di storia della filosofia, nessuna cosa deve essere separata dall’altra, e il nome di “storia della filosofia” è adeguato soltanto alla rappresentazione che indica la connessione interna dei sistemi, rappresenta i sistemi in quanto risultati insieme ai loro fondamenti necessari. È quindi tanto più necessario che si faccia questa determinazione essenziale, quanto più nelle storie della filosofia quali abbiamo sinora avute, si è guardato a una rappresentazione antropologica dei motivi esteriori dei sistemi, e si è considerato questo come una vera storia della filosofia. Non sono quindi d’accordo con il recensore su ciò che egli dice della storia pragmatica della storia della filosofia. Infatti, c’è un elemento pragmatico per la storia della filosofia, quando i modi con cui si fa filosofia vengono rappresentati con riguardo ai loro possibili fondamenti, e la rappresentazione delle circostanze esteriori sta in questa storiografia, come io sostengo, al di fuori del modo pragmatico di rappresentazione. Se si determina la rappresentazione della storia della filosofia con il criterio della cosa utile ed istruttiva (in senso lato), allora sono d’accordo con il recensore che è bene collegare la storia dei destini della filosofia con la storia della filosofia vera e propria. E tuttavia questo rimane sempre un valore aggiuntivo rispetto all’autentica storia della filosofia.

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Ricondurre ai fondamenti [Gründe] i sistemi della filosofia secondo un sistema, questo non può farlo nessuna storia della filosofia, perché quella riconduzione dei sistemi ai fondamenti secondo un sistema, suppone unilateralità e partigianeria; e dovrebbero allora esserci tante storie della filosofia per quanti sono i sistemi, in base al fatto che ognuno proceda dal sistema particolare che è il proprio. Ogni storico, in base al proprio sistema, considererebbe altri i motivi [Gründe], ai quali dovrebbero esseri ricondotti i sistemi che non sono il suo; ma comunque non potrebbe eseguire questa riconduzione, perché il sistema esclude la critica della facoltà della rappresentazione, e chiunque ha un sistema, procede soltanto da una parte della facoltà della rappresentazione, ma non abbraccia questa facoltà nella sua interezza. Il futuro storico della filosofia – infatti sino ad oggi non è ancora esistito – deve stare a un’altezza che gli permetta di spaziare con lo sguardo su tutto, di dominare l’intero; come il pittore di paesaggi sta fuori dal paesaggio che egli rappresenta, egli deve rimanere al di là dell’ambito dei sistemi filosofici, in modo che tutte le linee, tutti i raggi di luce arrivino sino a lui, ed egli possa così misurare tutto e tutto seguire sino ai più estremi confini. E qui sta lo sconcertante nodo gordiano che sinora non è stato sciolto! – sebbene già ci sono gli strumenti per scioglierlo, perché è apparsa la Critica della ragion pura – strumenti che però non sono stati ancora applicati alla storia della filosofia, se non vogliamo forse considerare come storia di parti specifiche o di sistemi della filosofia le singole osservazioni del grande ideatore della critica, come anche si potrebbe; sta infatti davanti a noi il modo in cui Kant ha ricondotto il sistema leibniziano alle sue prime fonti [Quellen] e cause [Gründe], il fatto che ne abbia scoperto i fili principali che lo connettono con le cause nella facoltà della rappresentazione; credo che in questo stesso modo debba essere trattata ogni storia della filosofia, e che così essa è pragmatica. Questo ricondurre alle cause prime nella facoltà della rappresentazione è quindi il criterio di ogni storia della filosofia. Come la conoscenza storica dei sistemi, sotto il profilo oggettivo del contenuto, è la prima condizione o la propedeutica per la storia della filosofia, così soltanto una filosofia senza sistema, una critica che circoscriva l’intera facoltà della rappresentazione e conosca tutte le relazioni delle singole facoltà originarie l’una con l’altra, forma la seconda condizione, quella soggettiva, per la storia della filosofia, – una condizione senza di cui nessuna storia della filosofia può essere pensata, nel cui concetto sta la nota necessaria di tale condizione. Soltanto una critica della ragione pura può fornire una storia della filosofia, immodificabile per ogni tempo, o può indicare la conoscenza dell’immutabile della filosofia, se il mutevole della filosofia – i molteplici sistemi possibili – scaturiva da questo o da quel punto nella facoltà della rappresentazione, da questa o da quella legge del pensiero, da questa o da quella relazione reciproca delle originarie facoltà dello spirito umano quando si faceva filosofia o si rifletteva sugli oggetti che rientrano in questo ambito. Si trova dunque qui la soluzione dell’enigma, e cioè la soluzione della curiosa apparente circostanza del perché noi non abbiamo ancora una storia della filosofia, e allo stesso tempo, se ci è consentito di nutrire una speranza, del perché adesso

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

invece possiamo averla! – La storia della filosofia è la fine di ogni filosofare, ed essa può essere portata a compimento quando una vera filosofia è stata portata a compimento. Ogni altra storia prosegue all’infinito insieme alla sequenza degli avvenimenti, e alle azioni che non hanno mai tregua, e non c’è alcuna previsione su quando la storia si concluderà: la storia della filosofia ha in sé confini chiusi secondo i limiti e il sistema delle leggi del pensiero e delle singole facoltà dell’animo umano, essa è un intero chiuso che procede da se stesso, ma non dipende da singoli fatti esteriori, circostanze e avvenimenti. – Ogni altra storia corre lungo il filo visibile delle cose accadute, lungo la catena del tempo e della rigorosa concatenazione della legge causale; la storia della filosofia si ritrae in se stessa da questi collegamenti esteriori, la forma della sua trattazione e del suo collegamento del contenuto è fondata a priori nelle leggi del pensiero o nella facoltà della rappresentazione, – non si trova qui alcun elenco cronologico, nessuna registrazione secondo l’ordine della epoche. – La storia della filosofia indica come e dove si trovano la pace e la sospensione di tutti i sistemi, così che nessuno più ne possa venire, nessuno più formarsi, e che, quando in futuro si accenderà di nuovo la lotta a causa della filosofia, il conflitto potrà avvenire soltanto a proposito dei vecchi sistemi, soltanto a riguardo di ciò che è già avvenuto, perché a tale scopo manca ogni nuovo contenuto. La storia della filosofia è quindi diversa dagli altri tipi di storiografia, e da se stessa si distingue da loro: essa è, per così dire, l’eterno trattato di pace [Friedenschluss] dei contrasti nel campo della filosofia, il quale promette interiore serenità anche quando mancasse quella esteriore, – quando cioè la pace significa che si combatte non per la scoperta e il possesso di nuove terre, ma soltanto per il mantenimento e la legittimità di antiche regioni e antiche provincie.

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August Ludwig Hülsen

INTRODUZIONE A ESAME DEL QUESITO POSTO A CONCORSO DALL’ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI BERLINO: QUALI PROGRESSI HA FATTO LA METAFISICA DA LEIBNIZ E WOLFF? 1

La storia dello sviluppo della ragione umana ci presenta sino al giorno d’oggi questo fatto certo singolare: che da tempo immemorabile gli uomini contro niente si sono opposti così tanto, e contro nessun’altra cosa ancora continuano ad opporsi anche adesso così tanto, come contro la destinazione posta in loro stessi: contro il procedere verso il perfezionamento. C’era infatti un contrasto della ragione con se stessa, ed è unicamente esso che ha per secoli condotto gli uomini sulle vie della necessità e della sofferenza; così anche la fonte di tutto questo sta unicamente in quel fatto [Thatsache] della storia. Perciò accusiamo inutilmente e perciò inutilmente speriamo. Nessuna pace giunge sulla terra e nessun benessere agli uomini, se prima quella fonte non venga deviata. Gli uomini che misconoscono se stessi, di questo rimasero ignari. Essi provarono nostalgia per l’innocenza, e guardarono sconsolati all’esperienza. Chiesero consiglio alla ragione e – divennero scettici o esaltati. 1 A. L. Hülsen, Prüfung der von der Akademie der Wissenschaften zu Berlin aufgestellten Preisfrage: Was hat die Metaphysik seit Leibnitz und Wolf für Progressen gemacht?, Hammerich, Altona 1796. Geniale e amato allievo di Fichte, Hülsen (1765-1810), rinuncia alla carriera accademica per fondare un ricovero per bambini abbandonati, dove mettere in pratica gli insegnamenti educativi della sua filosofia della libertà. Compone due articoli per il “Philosophisches Journal” (1797 e 1798) e un intervento sulla rivista schlegeliana “Atheneum” e in sostanza soltanto il libro di cui si traduce qui la “Einleitung”. Dopo la scomparsa della moglie attraversò un periodo di grande malessere mentale, che mise fine alla sua attività di pensatore. Alcuni suoi scritti postumi sono stati editi da Schelling. Se una sintesi se ne può dare, la sua filosofia sta in queste vive parole: «La mia filosofia non è un libro, e io stesso, per quanto ne sono consapevole, aspirerò sempre a perfezionarmi e migliorarmi nel mio intero essere, e quindi nel mio sapere», in A. L. Hülsen, Prüfung der von der Akademie der Wissenschaften zu Berlin aufgestellten Preisfrage: Was hat die Metaphysik seit Leibniz und Wolf für Progressen gemacht?, Hammerich, Altona 1796, p. IX. Si utilizza in questa traduzione l’esemplare conservato presso la Biblioteca dell’Università di Basilea. Nell’indicazione delle note, cifre arabe sostituiscono gli asterischi [ndt].

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

Ma sia anche quel fatto esperienza di tutti i tempi, e carichi anche adesso di declino un giorno dopo l’altro: non perciò piegherà voi, che siete vigili e progrediti: tanto più esso vi deve sollevare, soltanto con lo sguardo nel futuro e il sentimento della vostra forza, a un coraggio da uomini e alla fiducia. Conoscete l’esperienza. Essa testimonia che l’uomo, in quanto certamente è uomo, è anche destinato a progredire secondo la natura del suo essere e che – egli non può sottrarsi alla sua destinazione [Bestimmung]. Non l’Indolente e il Confuso, non il Debole e l’Oppresso, non lo Schiavo e il Mendico, No – l’uomo come tale non può affatto sfuggire alla sua destinazione. Tale elevata verità è ciò che quel fatto ci testimonia, e ne testimonia in modo tanto più evidente quanto più seria ed energica diventa la contraddizione della ragione. Così doveva essere. Così pretendeva l’unica ed eterna legge del nostro spirito. Se esso deve rimanere concepibile, anche la sua soluzione deve trovarsi nei contrasti stessi. Dunque, l’uomo si traspone nella contraddizione con se stesso soltanto per questo motivo, perché vuole sfuggire a ciò cui non può sfuggire. Se quest’ultima cosa fosse possibile, nel conflitto ci sarebbe allora una contraddizione [Wiederstreite], e la possibilità del potere perciò si identificherebbe con l’impossibilità della volontà. Questo ritenevano anche i fatalisti, e la loro conclusione è l’opposta. Essi dicono – una legge eternamente necessaria del nostro spirito in quanto forma della sua attività, nessuna possibile volontà in noi. E noi diciamo – nessuna necessaria legge del nostro spirito nella sua pura autoattività [Selbstthätigkeit], nessuna possibile volontà in noi. Quelli pongono come ultimo anello un fatto inesorabile e che mette i brividi. Noi – la ragione, la ragione che aspira a raggiungere se stessa nella sua pura ed eterna identità. Perciò per noi adesso: deviare [ableiten] la fonte di ogni miseria umana, e portare alla ragione la pace con se stessa, non significa necessariamente nient’altro che: istruire l’uomo sulla sua vera destinazione. Non le si può sottrarre, perché è la sua destinazione, fondata nella sua propria ragione, cioè in lui stesso, e solo per questo egli ha bisogno della mera istruzione sopra di essa, per non volersene più sottrarre – Che questo venga detto da tutte le lingue che insegnano, da tutte le labbra che si aprono, e sulle strade e dai tetti! che lo spirito della persecuzione, della malizia e della cattività finalmente venga sempre più estirpato, e nei cuori risvegli umanità e tenerezza. Già sento il vostro risolino, di Voi Avviliti dall’animo piccolo, e il vostro profondo sospiro, voi altri Generosi e Nobili. Ma osservate i giorni, che verranno, e contate, o Compiuti, le generazioni future, per fondare l’espressione: era così, e così sarà? Osservate l’esperienza, e non la comprendete. In essa cercate l’uomo e non lo trovate. E deridete e sospirate – Ma cercatelo dapprima in voi, negli uomini migliori, in voi tramite ricerca e conoscenza della vostra interiorità, e allora ditelo a tutto il mondo, che gli uomini diventeranno migliori quando sapranno di essere migliori. Attraverso loro stessi, non vogliamo certo precipitare i nostri passi. Ognuno che segue presuppone necessariamente chi precede. Noi possiamo soltanto accelerarli. Ma perciò ai nostri passi è legata anche l’eternità, e Noi dunque dobbiamo fare in modo che arrivi e divenga, ciò che deve essere e rimanere eterno. Così guardiamo

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AUGUST LUDWIG HÜLSEN

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fiduciosamente al migliore futuro, infatti esso è una nostra opera, e per noi certo quanto il nostro essere stesso. Volerlo aspettare con il digiuno e la preghiera, o in tranquillità e riposo, è infantile e ridicolo. Intervenire con le forze della libertà nei momenti del tempo e chiamarlo attraverso le azioni, è la maniera dell’uomo. Insegnamento all’uomo sulla sua vera destinazione! Questo soltanto può portare al compimento [Erfüllung] che è stato promesso ai nostri cuori. Al compimento, in cui noi, affrancati dal giogo della servitù, nel libero gioco delle nostre forze impariamo a nutrirci di infinità. Una volta, e non importa quanto sia tardi, l’umanità deve giungere a ciò, perché tale è la sua destinazione. Persino la sua aspirazione contraria [Gegenstreben] è in generale soltanto un’aspirazione ad afferrare questa destinazione, e ogni contraddizione della ragione soltanto quindi un combattimento con se stessa verso l’armonia [Einstimmung]. C’era perciò soltanto uno scopo verso il quale l’umanità andava: e soltanto un compito [Aufgabe] che essa era destinata ad assolvere. Questo essa ha tentato, – e tentato a lungo. Ma il maggior premio della verità è averla raggiunta, e ai figli della libertà, la libertà poteva giungere soltanto tramite loro stessi. Perciò c’era uno scopo e perciò una lotta. Si doveva elevare l’uomo! ed elevarlo da lattante alla dignità dell’uomo. Così l’errore si trasformava a lungo nell’oscurità e proteggeva le sue vie con la paura della notte. Dapprima la verità apparve nella luce del giorno con i raggi della pace, e si dileguarono i timori, e la paura e la contraddizione. Riconoscerla finalmente era il successo dell’uomo, e un’unica azione il riconoscerla e il superarla [Aufheben]: un istante della ragione per ogni ragione. O istante benedetto, a partire dal quale i giorni della pace devono allinearsi nella chiara lontananza del futuro in modo leggero e bello come un’eco dell’armonia dei nostri spiriti in una sequenza eternamente lieta. Dove esso, questo [istante] beato, apparve al filosofo che ricerca [dem forschenden Selbstdenker], e attraverso lui all’intera umanità, era là che per la prima volta dalla verità celeste cadde via l’involucro materiale come una nebbia del mattino. Che cosa è ed era l’uomo, e che cosa deve essere: da quando si è filosofato, questi sono stati subito oggetti dell’indagine filosofica. Ma mai lo erano con la determinata differenza tra il puro e l’empirico, tra gli imperativi della ragione e i comandamenti dell’affidarsi alla lettera e al positivo [Hergebrachtes]. Soltanto singoli grandi uomini hanno infranto, in alcuni momenti, tramite l’autoattività del loro spirito, i limiti del caso e dato agli uomini leggi di libertà. Per questo motivo saranno sempre benedetti sulla bocca dei posteri, in quanto furono le luci che illuminavano gli spiriti affini durante i secoli, e sebbene soltanto in un’infinita lontananza, tuttavia portavano gli uomini più vicini al grande giorno, nel quale Tutto deve diventare Una luce e Una chiarezza. L’uomo quindi è determinato dalla natura del suo essere al progresso, e la sua stessa controaspirazione è soltanto un tale progredire. Vi troviamo una conferma prima di tutto nel cammino delle scienze. Le scienze come tali non sono l’opera del caso e del pensiero meccanico, ma prodotti della libertà e dell’autoattività nel pensiero. In esse perciò deve avere avuto luogo in qualche modo un primo tentativo, secondo il tempo. Di conseguenza,

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

se astraiamo da ogni loro realtà, e le poniamo, come possibili tramite la libertà, semplicemente in modo problematico, giungiamo regressivamente a un punto nel tempo in cui l’attività dell’io, che è produttiva nel sapere, la libera riflessione, non era ancora questa attività. Ma libertà in genere e libera riflessione non sono concetti reciproci, bensì due sfere distinte. La riflessione non era dunque ancora libera – come essa necessariamente doveva essere secondo il regresso che noi poniamo – e allora essa era certamente, ma non era destinazione attraverso la libertà, quanto piuttosto un mero riflettere, cioè un rappresentare [Vorstellen] in generale. Quel punto nel tempo, in cui noi poniamo le scienze come semplicemente problematiche, è quindi il punto della libertà e della semplice rappresentazione. In quanto mero ente rappresentante l’uomo non è libero, è anzi contrapposto alla libertà. Considerato quindi come ente, un semplice ente di natura. Di conseguenza, esso sta, in quanto rappresentante, anche sotto determinazioni [Bestimmungen] oggettive, ed è completamente condizionato e necessario. Egli entra in ogni istante presente soltanto attraverso il precedente, e il suo intero esserci è – un eterno cambiamento nel tempo: un sorgere e passare, entrambe le cose allo stesso tempo in un momento. In questo stato del mero rappresentare, come di una serie di momenti senza unità e connessione: in quanto stato di un cambiamento di stati senza stato del rappresentante – non rimane concepibile alcun sapere. Alla coscienza manca del tutto l’identità, e perciò è soltanto una coscienza per un’intelligenza possibile. Riflettiamo su ciò come sul punto nel tempo in cui ogni sapere è ancora impossibile, perché l’Io non è ancora colui che sa [das wissende], e poniamo le scienze come meramente problematiche; così tra di esse dobbiamo necessariamente pensarne anche una, che sia l’espressione di ciò attraverso cui l’io raggiunge il sapere, attraverso cui diventa quindi colui che sa, e perciò: una scienza della possibilità di ogni sapere. Qui non c’è alcun arbitrio. Non volerlo ammettere, significherebbe affermare che l’io non possa mai diventare un Io che sa; quindi affermare che ogni affermare contenga in se stesso una contraddizione, che non vi sia spazio per un sapere reale, e di conseguenza anche che manchi una scienza della possibilità di ogni sapere, affermare allora una cosa insensata. Ogni obiezione si contraddice quindi tanto chiaramente da se stessa, quanto quel concetto è tramite se stesso chiaro ed evidente. – Tuttavia si potrebbe voler rovesciare su noi questa contraddizione. Poniamo infatti tutte le scienze come semplicemente problematiche, e pensiamone tra loro una come scienza della possibilità di ogni sapere; così questa possibilità è spiegabile necessariamente soltanto tramite il fatto che la scienza di essa, in quanto l’unica tra le possibili, sia reale. Però tutte le scienze devono essere poste come prodotti della libertà, e tutte perciò, nel punto della semplice rappresentazione, devono essere poste come problematiche. Quindi, la scienza della possibilità di tutte le scienze sarebbe problematica e non problematica allo stesso tempo, la qualcosa si contraddice. A questa contraddizione ci potremo sottrarre. Essa cade necessariamente con la sola osservazione che sia unicamente la nostra riflessione a porre quel punto della

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mera rappresentazione, e con esso le scienze tutte, come meramente problematiche. La scienza della possibilità di ogni sapere è quindi realmente problematica e non problematica allo stesso tempo. Problematica – in relazione al soggetto rappresentante del punto ammesso: e non problematica – in relazione al presente porre di questo punto, di conseguenza in relazione a questa nostra riflessione. Ma essa è problematica in quanto un’intelligenza riflette il punto della mera rappresentazione, e quindi è problematica soltanto in quanto essa contemporaneamente è non problematica, e quindi reale. Per una tale intelligenza possibile, che sarebbe meramente pensata, la scienza della possibilità di ogni sapere non era perciò mai problematica, il che dice la stessa cosa: essa non era mai in genere altrimenti possibile che per il fatto che era reale. Se adesso l’io viene posto in questo punto della scienza, con esso esiste anche l’intelligenza, che riflette attraverso se stessa il percorso andamento empirico verso la scienza, e pone così un punto di inizio dell’intero tragitto. La scienza della possibilità di ogni sapere, o la scienza come tale, poteva quindi diventare reale soltanto tramite un compiuto tentativo, e quindi tramite il fatto che la sua possibilità era stata data tramite la realtà. Noi chiamiamo questa scienza, in quanto prima tra tutte le scienze, o in quanto scienza attraverso la quale ogni umano sapere è in genere un sapere, e Un sapere deve diventare – filosofia; così c’erano stati in questa da sempre soltanto tentativi. Ma c’erano stati soltanto tentativi, in quanto si affermava la sua possibilità tramite la realtà, e di conseguenza ogni tentativo – almeno secondo l’idea – doveva essere l’ultimo e perfetto, e quindi scienza. Da ciò segue senza dubbio, che per quanto nel regresso possiamo ammettere soltanto un sapere, con esso dobbiamo porre già anche tentativi verso la scienza; tanto che il primo sapere possibile era già un primo tentativo reale verso la scienza in genere, e di conseguenza anche il primo sapere – un sapere immediato. Giustificheremo questa deduzione. Tutte le scienze in genere hanno un inizio nel tempo attraverso la riflessione dalla libertà [Reflexion aus Freiheit]. Anche il primo sapere reale era stato in qualche tempo un primo sapere. Questo punto è da determinare. Esso deve essere un primo nel tempo, un punto della libera riflessione. Nella libera riflessione, o nella riflessione attraverso la libertà [Reflexion durch Freiheit], c’è riflessione e libertà, e la libertà non attraverso la riflessione, ma la riflessione attraverso la libertà. Questo determina per noi il nostro oggetto. La libertà in genere è pensabile soltanto in quanto incondizionata; di conseguenza soltanto come identità, senza cambiamento e senza modificazione. Invece la semplice riflessione è pensabile soltanto in quanto pienamente condizionata, e di conseguenza soltanto come cambiamento continuo, senza unità e identità. Se la riflessione è ora libera, o la libertà è riflettente, allora un cambiamento riceve tramite essa identità nel tempo, cioè un’esserci [ein Dasein] tramite unità di tempo. Ma che la libertà rifletta, non significa altro che essa giudica. Infatti tramite il giudicare viene posto che qualcosa sia. Se guardiamo quindi al nostro punto come a un primo nel tempo, così entra in esso il giudizio, che in genere qualche

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA NELL’AETAS KANTIANA

cosa sia. Questo giudizio è del tutto libero. Se infatti non lo fosse, la riflessione in esso sarebbe, in quanto azione condizionata, l’intera azione. Di conseguenza non sarebbe posto che qualche cosa sia, ma questa azione, in quanto un determinare, ricadrebbe nella sfera della rappresentazione e sarebbe determinata, e quindi non sarebbe un giudicare che qualche cosa ci sia. Quel sapere primo da determinare è quindi un giudizio, e certamente un giudizio che qualche cosa sia. Secondo la precedente deduzione, in ciò deve trovarsi allo stesso tempo il primo tentativo verso la filosofia. Per chiarire ciò, osserviamo il punto del tempo in cui ogni riflettere è ancora un rappresentare in genere, una mera determinazione [Bestimmung] tramite oggetto. Se la libertà deve ora intervenire nel cambiamento, e riflettere in modo autoattivo per quindi emettere il giudizio che qualche cosa sia, allora accoglie in sé necessariamente in questo momento la mera rappresentazione determinata tramite l’oggetto. Essa riflette tramite la rappresentazione, ma attraverso la rappresentazione determinata dall’oggetto. Riflette di conseguenza attraverso la rappresentazione l’oggetto della rappresentazione. Se però la libertà riflette attraverso la rappresentazione, allora questa è a lei stessa anche la legge della riflessione [das Gesetz der Reflexion]. Ma la rappresentazione è essa stessa determinata dall’oggetto, e soltanto tramite questo stesso è rappresentazione. La libertà riflette perciò l’oggetto della rappresentazione attraverso la rappresentazione, cioè giudica di questo oggetto in coerenza con la rappresentazione che esso ci sia; così anche giudica necessariamente che sia assoluto. Infatti, la libertà determina attraverso la rappresentazione determinata dall’oggetto l’esserci di questo oggetto. Di conseguenza la legge della riflessione, o la riflessione come tale, ha anche validità soltanto tramite se stessa, e il suo giudicare è perciò necessariamente nient’altro che A=A, cioè A è perché è2. Con ciò noi stiamo al confine di tutto il sapere e riconoscere umano, in quanto ne abbiamo voluto mostrare la sua origine empirica. Quel giudizio è il primo passo, e questo condiziona quindi necessariamente l’intero progresso empirico, sino alla pura fonte originaria [Urquelle] di tutto il nostro sapere. Per tale motivo l’inizio del filosofare non si lascia adesso porre per nessun possibile motivo ulteriormente in alto o in basso. Ci troviamo in una catena, e siamo perciò obbligati ad andare indietro sino al primo anello. Questo ci presenta [stellt auf] il giudizio, che qualcosa semplicemente sia. La sua possibilità viene quindi data attraverso la realtà, e di conseguenza il giudizio, in quanto un sapere, è per il giudicante [das Urtheilende] anche un sapere immediato e compiuto. Contro questa deduzione non si può argomentare da un punto di vista più alto. Abbiamo astratto da tutto il sapere, per poterne porre uno primo in genere.

2 Si chiarisce da ciò che il principio A=A dovrebbe originariamente esprimere di necessità l’essere assoluto di A e quindi l’esistenza. Noi astraevamo da tutto il sapere, e trovavamo in tale modo nel regresso il punto della mera rappresentazione per un’intelligenza possibile. Questa riflessione è un principio trascendentale, per il quale la realtà di A, in quanto di un Io, viene affermata semplicemente e senza nessun ulteriore fondamento. Ma risulta da ciò che noi attraverso il giudizio originario A=A, che abbiamo trovato nel regresso, giungiamo soltanto dapprima a questa riflessione nel progresso empirico, e che di conseguenza il giudizio A=A in quanto originariamente soltanto formale non potrebbe essere pensato.

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La questione è quindi soltanto se noi realmente, anche attraverso rappresentazioni, e quindi tramite la coscienza, unicamente giungiamo al sapere, che noi abbiamo voluto presuporre qui per il nostro scopo. Conosciamo il primo sapere, con il quale nell’ordine di tempo comincia tutto il sapere umano. Vi troviamo contemporaneamente la natura dei primi filosofemi. Possiamo cioè chiamare ogni giudizio, in quanto semplicemente osservato come tale, un filosofema. Questo sta nel concetto. Un filosofema non significa altro che una determinata specie di rappresentazione [Vorstellungsart] di ciò che è o deve essere. La verità o falsità di esso dipende interamente dal giudizio. Trovammo A=A, o A è perché è, come il primo di tutti i giudizi in genere. A dunque qui è semplicemente posto, di conseguenza posto in genere. Quindi A=A, considerato come giudizio, è giudicato soltanto teticamente, ovvero A=A è un giudizio tetico. Proprio così stanno le cose con i primi filosofemi. La loro forma è in ogni caso A=A, ed essi sono perciò interamente di natura tetica. Nei giudizi tetici la forza riflettente del giudizio [die reflektierende Urtheilskraft] intraprendeva quindi il suo primo percorso. Era qui il luogo in cui si sviluppava la facoltà [Vermögen] di porre semplicemente qualcosa. Infatti ogni giudicare non riguardava altro che il porre un oggetto, e quindi il suo semplice esserci, come essere assoluto. Questo assolutamente posto ha però una doppia relazione. Per una qualche intelligenza – come per la nostra riflessione – c’erano necessariamente molti e diversi Assoluti [Absoluta], in quanto molteplicità degli oggetti. Per il giudicante stesso però non c’era ancora nessuna molteplicità, ma dappertutto soltanto uno e un medesimo oggetto, cioè esserci in genere. Ma mai la forza del giudizio avrebbe potuto fare un ulteriore progresso, se non ci fosse stata tuttavia una molteplicità originaria di oggetti. Essendosi perciò sviluppata in una certa misura la facoltà di porre semplicemente qualcosa negli oggetti A, B, come in una x in generale, questi furono posti non più in quanto una semplice x – come esserci in genere – ma come Ax e Bx, e di conseguenza con differenziazione dell’uno dall’altro. Con questo porre delle differenze la forza del giudizio avviò subito il suo secondo percorso, quella dei giudizi antitetici, con inclusione dei tetici. In questo suo secondo percorso la forza del giudizio giunse incontestabilmente a una certa abilità, in modo molto più semplice e rapido che nel primo e precedente. Questo si chiarisce dai rapporti dell’uno con l’altro. Originariamente sono A e B semplicemente e unicamente posti. Ma il loro mero essere posti come una x non esclude l’A=A e il B=B, di conseguenza le note A e B nella x. Questo perlomeno non per un’intelligenza al di fuori del giudicante [ausser dem Urtheilenden]. Con la grande abilità nel giudicare tetico, la forza del giudizio divenne proprio questa intelligenza. Pose quindi A=A e B=B; di conseguenza A-B e B-A. Ma B altrettanto che A erano semplicemente posti, e quindi, in quanto A era posto, B era posto contro A. Quanta più determinatezza perciò in A come A e in B come B, tanto più percepibili divennero necessariamente le differenze, e quindi tanto più determinata anche la contrapposizione. La facoltà della contrapposizione [das Vermögen der Entgegensetzung] si sviluppò quindi necessariamente tramite la grande abilità nel giudicare tetico.

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Ancora c’era per la forza del giudizio un terzo ed ultimo percorso: quello dei giudizi sintetici. Questi giudizi non erano in alcun modo già subito legati con quelli antitetici. Infatti, se in sé certamente nessuna antitesi è possibile senza sintesi, tuttavia la riflessione doveva fare il passaggio dalla tesi attraverso la tesi alla semplice antitesi. Ma il giudizio sintetico è stato prodotto proprio così tramite l’antitetico, come questo tramite il tetico. Infatti, non possono essere poste differenze senza confrontare gli elementi della differenziazione [die Unterschiedenen], di conseguenza esse hanno luogo soltanto nell’uguale [im Gleichen]. Per poter giudicare B come opposto ad A, devono entrambi essere già posti realmente in una coscienza, e di conseguenza essere già sinteticamente legati. Con la grande abilità nel giudicare antitetico, in quanto facoltà della contrapposizione, la forza del giudizio immediatamente, cioè tramite il giudicare antitetico, doveva quindi riflettere sull’uguaglianza degli opposti come sul loro essere posti in una coscienza, e quindi giudicare sinteticamente. Anche quest’azione della sintesi era come quella della tesi e dell’antitesi originaria e assoluta. La forza del giudizio non aveva anche qui nessun’altra legge della riflessione, che la semplice riflessione stessa attraverso l’essere posto uguale [durch das Gleichgesetzseyn]. Così doveva anche essere, se in genere una forza del giudizio doveva esserci. Essa è forza del giudizio soltanto in quanto la riflessione viene determinata attraverso la libertà. Di conseguenza la riflessione diventa incondizionata, e quindi la forza del giudizio secondo la sua intera estensione diventa assoluta e incondizionata come forza del giudizio. Con ciò però adesso la facoltà della forza del giudizio [das Vermögen der Urtheilskraft] era anche del tutto esaurita [erschöpft] in tutta la sua estensione. Infatti viene giudicato che qualcosa sia, che qualcosa non sia, e che qualcosa non sia soltanto una cosa qualunque, e quindi che sia qualcosa. O con altre parole: viene posto, contrapposto e identificato [gleichgesetzt]. Ogni opposto è identificato; così non è necessariamente di nuovo nient’altro che tesi. Attraverso la sintesi la riflessione ritorna di nuovo alla tesi, e quindi a ciò stesso da cui era partita, e con essa l’intera sfera dei giudizi è esaurita e tracciata. Con la facoltà della sintesi la forza del giudizio otteneva quindi l’intero suo spazio d’azione. La ricchezza, che i giudizi antitetici avevano prodotto, è stata adesso capovolta. Ogni sintesi ricadeva nuovamente nella sfera della tesi, e così la riflessione estendeva il suo ambito proprio nella misura in cui essa produceva unità e ordine dal caos. Ma l’intero a lungo rimase ancora incontestabilmente un caos. I giudizi tetici rendevano ciò necessario. Per il loro effetto, tutti gli A e B erano stati posti semplicemente in modo assoluto [schlechtin und absolut]. Il giudizio tetico A=A o A è perché è, non significava quindi altro che: A è un Io. Altrimenti rimaneva non pensabile. La forza del giudizio era necessitata a porre semplicemente A, come sopra è stato rigorosamente dimostrato. A doveva quindi essere anche quella stessa cosa, in conseguenza della quale era stato posto, cioè un esserci della coscienza. Quindi, l’Io era stato trasposto in A, e poiché il giudizio era assoluto, e l’azione del trasporre non era condizione di A, così necessariamente anche A divenne un Io al di fuori dell’Io.

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Da ciò si spiega anche il fatto della storia [das Faktum der Geschichte], che la ragione infantile personifica ogni cosa attorno a sé. Così doveva essere. Il ricercatore della lingua e dell’antichità avvierà una ricerca priva di spirito, se non considera questa necessaria legge del nostro spirito. Il giudizio tetico era quindi quello che, attraverso la trasposizione dell’Io, generava individui [Personen] da quanto era opposto a questo Io, dagli oggetti [Objekten]. Certamente questi individui passavano presto attraverso l’antitesi e la sintesi, e in tal modo tra di essi sorgevano famiglie e parentele. Ma degli Assoluti [Absoluta] potevano tuttavia formare soltanto serie per sé consistenti, e non diventare quindi essi stessi membri di una catena. Così non c’erano parti attraverso un intero, ma soltanto un intero attraverso parti, e di conseguenza altrettanti interi che parti, e perciò tra di essi una mera aggregazione. Attraverso tesi, antitesi e sintesi la forza del giudizio era quindi esaurita nella sua facoltà. Per essere in genere forza del giudizio, essa quindi non poteva ammettere alcuna ulteriore determinazione. Le rimaneva ancora unicamente soltanto un’espansione intensiva. Per questo motivo, i suoi progressi dovevano avvenire ora soltanto tramite se stessa, nella facoltà già determinata, e cioè attraverso giudizi in genere. Perciò anche la prima sintesi conteneva già necessariamente il germe [Keim] di tutti i sistemi successivi. Ognuno era un tentativo dal molteplice all’unità. Ognuno dava quindi alla coscienza anche più estensione e contenuto, e di più essa non aveva bisogno, per portare attraverso successive sintesi ordine e unità anche in questo contenuto. – Originariamente la coscienza è in ogni singolo giudizio soltanto Una coscienza: in molti e diversi – per una tale intelligenza – una molteplice e diversa3. Attraverso successive sintesi sorgeva adesso, nella stessa coscienza, l’intelligenza che connette il molteplice in uno, e tramite ciò sorgeva anche, nell’intera estensione dei giudizi, l’unità della coscienza. Ma unità della coscienza, come unità dei giudizi nella coscienza, è unità sistematica, e questa dunque, nonostante possibili crepe [Sprünge] e incoerenze, è necessariamente già un tentativo vivente verso la filosofia, come scienza della possibilità di ogni sapere. Infatti! A è diventato ora, come doveva avvenire, semplicemente posto; così era posto anche come fondamento della spiegazione di ogni coscienza, di conseguenza anche il molteplice doveva essere nell’unità della coscienza una sequenza, che si rapportava [sich verhielt] ad A: come il condizionato alla sua condizione come all’incondizionato [wie das Bedingte zu seiner Bedingung als Unbedingten]. Ma A era l’incondizionato, in quanto era posto semplicemente come tale. Dal punto di vista della semplice coscienza potevano esserlo anche B e C, e la forza del giudizio sviluppava il medesimo sistema. Che questo dovesse avvenire si lascia anche rigorosamente dimostrare con il presupposto di una esperienza possibile, cioè di una rappresentazione in genere. Esclusivamente nella libertà l’Uno e Asso3 Proprio perciò noi non possiamo avere alcuna coscienza dei nostri primi anni, infatti in questi non c’era ancora Una coscienza.

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luto è la perfetta identità. Nella natura e nelle sue leggi domina invece una grande molteplicità. Ma la natura era quella che accolse l’uomo come un lattante nel suo grembo4. Insieme al latte materno gli fece fluire anche natura, ed educò il suo pupillo per i suoi scopi. Ci sia da ora in poi un molteplice! era la sua prima massima: e il minore lo fu. Come ente che rappresenta, come semplice ente di natura, non c’è nell’uomo nessun essere, nessuna autonomia e identità. Egli viene e passa nella corrente del tempo, e in lui non c’è niente che dia stabilità e ordine ai nulli momenti. Non doveva essere questo, il figlio della libertà. Forza infinita, la forza della libertà, combatte per la pienezza della divinità [Fülle der Gottheit]. Questa doveva sorgere da lui con onnipotenza, e così il comandamento della natura nella sua aspirazione doveva essere annientato. Era perciò la libertà quella che intervenne autoattivamente nel cambiamento delle rappresentazioni e suscitò l’esserci. Ma questo cambiamento e il suo effetto non erano l’opera della libertà. La natura lo produceva dalla sua pienezza [Fülle] della differenza, e in questo modo formava, nelle sue parti, l’intero genere umano come un molteplice. Perciò necessariamente nei diversi soggetti la catena delle rappresentazioni, in quanto giudizi tramite la libertà, divenne diversa anche in quello stesso che non era libertà. Quindi in ognuno la forza del giudizio doveva ottenere nella sua intensiva espansione un proprio spazio di azione. In ognuno dal suo punto di vista era unità, e per ognuno l’esserci del mondo in genere era determinato secondo le proprie leggi della riflessione. Con molteplici tentativi nella filosofia sorsero necessariamente anche molteplici sistemi. Li si aveva realmente, li si percepiva come reali. In essi non poteva avere luogo più alcun progresso, ma soltanto in loro la forza del giudizio conservava un infinito spazio d’azione. Non si progrediva però in un sistema, bensì da tutti in ognuno. Non c’era quindi semplicemente una infinità, ma molteplici infinità in competizione per l’infinità. Indirizziamo allora la nostra attenzione su questo fatto e traiamone l’importante seguente risultato: Rispetto al progredire di molteplici sistemi, l’uno opposto all’altro, nella scienza, necessariamente ognuno aspira a imporre la propria pretesa sulla scienza con l’esclusione di tutti gli altri: e questo aspirare di tutti, in quanto esplicitamente rivolto all’unico ed identico scopo, alla scienza, è necessariamente con ogni progresso unilaterale nella scienza subito un progresso generale verso la scienza. Le due cose sono una e medesima azione. Gli interi fatti [Die gesammten Thatsache] del progredire unilaterale nella scienza sono allo stesso tempo i fatti del reale procedere verso la scienza, e come è certo quello, così lo è anche questo.

Per questo motivo conserviamo in tutti sistemi contrapposti, e anche in quelli soltanto possibili, la più perfetta unità. Infatti tutti essi, come fatti, 4 Che qui non si possa pensare a nessuna creazione, deve apparire chiaro a chiunque ci abbia seguiti sino a questo punto. Il discorso riguarda semplicemente un essere razionale, che tesse il suo esserci. Un compito infinito! E tuttavia un compito da sciogliere necessariamente tramite la ragione.

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danno soltanto un fatto, di conseguenza l’Unico di cui noi abbiamo bisogno, per aspettare con fiducia la conclusione di tutte le ostilità. Ma in loro tutti, come in un fatto compiutamente pensato, sta allo stesso tempo anche l’oggetto determinato di una storia della filosofia. La filosofia è scienza soltanto tramite un tale concluso tentativo. Essa accade quindi tramite tentativi. Di conseguenza, la sua storia non è necessariamente altro che: La perfetta rappresentazione dell’intero progredire della ragione filosofica [philosophierenden Vernunft] verso la filosofia come scienza; ovvero: la scienza della scienza diveniente [die Wissenschaft von der werdenden Wissenschaft]. Attraverso tutto ciò che è stato detto, siamo voluti arrivare esattamente a questo punto. Ora lo scopo diventa visibile. È la pura idea di una storia della filosofia. Per cogliere questa idea nella sua purezza anche realmente, tentiamo ancora un più preciso sviluppo. L’oggetto di ogni storia della filosofia sono i progressi della ragione nel suo cammino verso la scienza. Ma è la ragione quella che progredisce, e scienza è il suo scopo; così essa in questo scopo deve essere anche allo stesso tempo scopo a se stessa. La ragione tuttavia può essere essa stessa uno scopo soltanto in quanto esce da se stessa, e di nuovo torna a se; di conseguenza, in quanto descrive essa la sua propria sfera, e si pone come ragione. – La ragione come ragione è la ragione nel suo puro e originario essere [Wesen], in cui essa è ciò per cui essa è ragione. A questo non corrisponde il concetto del progredire. Esso è empirico. La ragione che progredisce [Die fortschreitende Vernunft] non è quindi quella pura, ma la ragione empirica. La ragione in genere usciva quindi da sé per il fatto che entrava nel mondo dei fenomeni. Di conseguenza era già ragione, ancora prima che per essa ci fosse una rappresentazione, e attraverso la rappresentazione un’esperienza [Erfahrung] e una natura. Ma essa non era a se stessa questa ragione, questa ragione indipendente da tutte le esperienze. E tuttavia doveva esserlo. Essa doveva sapere e riconoscere che essa è ragione, sapere quindi se stessa come l’essere autoattivo [das selbstthatige Seyn], la cui essenza [Wesen] non è rappresentare e differenziazione, ma libertà e massima unità. Perciò essa usciva nell’ambito della coscienza, per tornare di nuovo a se stessa, ed essere a se stessa ragione. Questo punto del ritorno della ragione a se stessa, è il punto della scienza. In questa la ragione ha raggiunto la propria libertà, e il più elevato scopo del suo intero progredire verso se stessa, è quindi il sapere di se stessa, e di conseguenza: CONOSCENZA DI SÈ! Verso questo si muoveva la sua aspirazione, verso questo l’impegno di secoli. L’essere umano come uomo [Der Mensch als Mann], nel pieno sentimento delle sue libere forze, nella coscienza del Suo Sé, era il grande scopo di tutte le epoche passate. Con esso comincia una nuova epoca, l’epoca delle idee, come leggi eternamente valide per tutto ciò che può diventare reale tramite la ragione.

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Il tempo, in se stesso posto come uno scopo, può essere rappresentato non appena questo scopo è presente. Il progredire della ragione verso se stessa come ragione è quindi rappresentabile come un procedere concluso. Ora la ragione che progredisce è la ragione empirica, e a questa la sua intera essenza è un progredire senz’altro; di conseguenza, i suoi progressi non possono essere fissati e determinati tramite se stessa in quanto progressi della ragione determinata, ma soltanto tramite la ragione pura in quanto progressi della ragione determinante. Se pertanto i progressi verso la filosofia come scienza debbono essere indagati e rappresentati scientificamente, allora l’indagine non può essere meramente storica, ma deve necessariamente essere allo stesso tempo filosofico-storica. In ciò sta la condizione per qualsiasi descrizione della storia della filosofia. Essa deve essere scienza, e di conseguenza avere interna connessione e certezza. Essa deve pertanto risultare dallo spirito dell’uomo in modo vivente. Non potrebbe quindi azzardarsi alla rappresentazione di questa storia – per quanto abbondi di erudizione letterale – chi prima di tutto non possa richiamare l’intero passato nello specchio della conoscenza di sé, chi in se stesso non sappia quindi trovare i primi germogli dell’esserci sino al maturo frutto della libertà, sino al conoscere se stesso. I molteplici tentativi, che sinora si sono avuti sulla storia della filosofia, devono essere dimenticati. Sta nella natura della cosa che una tale storia, come storia del procedere verso la scienza o verso la libertà della ragione, sia pragmatica. Ma questo i ricercatori storici [die Geschichtsforscher] sino ad oggi potevano soltanto avere l’intenzione di farlo; l’esecuzione era impossibile. Non c’era ancora una filosofia come scienza, ancora nessun concluso procedere della ragione verso se stessa. Come il cammino potesse volgersi a questo scopo, era quindi del tutto ignoto, e su questa strada non c’era niente da anticipare. Certamente con ogni istante si aveva un tempo trascorso, e quindi anche i progressi verso la scienza ad esso relativi. Ma proprio perciò mancava ancora l’intelligenza per riflettere questi progressi come proprio questi, e per fissare con precisione i momenti del tempo come nell’intero tempo del progredire. Un’indagine scientifica che non procede dal tutto alle parti contraddice se stessa, perché non ha nessun oggetto come Un oggetto. Così stavano le cose con la storia della filosofia. La ragione lottava ancora soltanto per la sua idea, e che cosa è accaduto a tal proposito, deve essere del tutto dimenticato. Ma la filosofia è esistita già una volta come scienza5; e quindi difficilmente potrà darsi un bisogno del tempo più urgente che tentare subito una sua storia. La scienza non deve avere, come la filosofia in divenire, una meramente inoperosa dimora tra le quattro pareti del dotto; ma in quanto scienza della verità, che ha come unico oggetto il fare dell’uomo in generale, deve diventare una legge suprema per la volontà. Perciò, sta in essa stessa di insediarsi negli animi o, in modo più puro e più 5 Come lettera la scienza non può mai essere esistente, infatti si fonda soltanto sulla conoscenza di sé, ed è niente altro che lo spirito vivente in noi nei rapporti necessari con se stesso. – Un’osservazione per coloro che di fronte alle parole del testo desidererebbero pensare con facilità a paragrafi e al loro autore.

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determinato: per lo spirito diventato libero è un’aspirazione resa necessaria dalla sua attività, diffondere la ragione, e quindi elevare l’uomo all’alto ideale, che nella luce della sua interiorità gli fluttua davanti con sempre crescente chiarezza e grandezza. Possiederebbe la lettera e non la scienza, chi la tenesse riservata ad alcuni pochi. No, il comandamento della ragione, di rompere ogni catena e annullare [aufheben] ogni limitazione, risiede soltanto nella stessa infinita forza della ragione, e questa efficacia avrà e deve avere il suo esito. La scienza deve quindi essere portata agli animi, e per questa iniziazione, io dico che la sua storia – la storia dell’uomo che diviene – sarà se non l’unico, certo tuttavia lo strumento più affidabile. Non tutti sono ugualmente capaci di elevarsi alla pura idea della scienza: e ciò non è presso tutti un difetto di intelligenza. Lo spirito ossessionato e fisso in una unilaterale direzione del pensiero, deve essere liberato; soltanto in tal modo lo si conduce ai fatti della libertà, come fatti che egli già sulla sua via empirica è necessitato a riconoscere. Ma la storia della filosofia deve prendere questa strada realmente. Il suo intero oggetto consiste soltanto di fatti il cui contenuto, come unità, è la contraddizione6 in genere. Questa, essa la deve rappresentare come del tutto risolta, e di conseguenza procedere nella rappresentazione sino a quel punto, in cui sopraggiunge la scienza, o la ragione appare in pace con se stessa, ed essa, la contraddizione, quindi scompare. Dunque, la storia ci conduce, secondo quest’idea, attraverso tutti i punti del successivo progredire, e ci guida tramite evidenti fatti sino alla filosofia come scienza. Il suo cammino è qui necessariamente sicuro quanto pacifico. Sicuro – tramite la riflessione secondo leggi della scienza; e pacifico – tramite la riflessione su ogni contraddizione in generale. Essa deve stare del tutto al di là della sfera di una contraddizione possibile. Infatti ogni affermazione unilaterale, ogni possibile riluttanza [Widerstreben], appartiene di necessità all’ambito della sua materia, ed essa può essere soltanto l’opera della ragione concorde con sé, della ragione libera. Da questo rapporto della filosofia e della sua storia, viene perfettamente giustificata la nostra summenzionata idea, di preparare la prima attraverso l’ultima. Guardiamo all’intero, e quindi anche alla necessaria condizione empirica. Qui una storia della filosofia è dapprima veramente possibile soltanto con l’inizio di questa come scienza; ma in considerazione dei rapporti di tempo è anche di nuovo l’effettiva introduzione ad essa. Da questo segue ancora altro. Ogni fare resistenza [Sträuben] e 6 La storia della filosofia non può avere altro oggetto che la contraddizione. In questa difatti consiste l’ostinata aspirazione della ragione alla filosofia come scienza. Nel dogmatismo compiuto, in cui tutti i sistemi sono ricondotti sotto il principio dell’oggetto assoluto, all’uno, la contraddizione della ragione è giunta al massimo. Ma anche in questo istante essa viene negata tramite se stessa. Infatti, mentre la ragione elimina [aufhebt] il punto di vista trascendente, e assume attraverso la conoscenza di sé il posto più alto, è annullata [aufgehoben] anche la contraddizione con se stessa. Essa è ora la ragione come ragione, in accordo con se stessa, e a se stessa quindi uguale. Al posto della contraddizione subentra adesso la scienza, e la storia della filosofia con questa non ha più nessun oggetto, è quindi del tutto conclusa, ed è essa stessa scienza. Chi non vede, però, che questo compito è infinito? In nessun momento del tempo l’uomo è, come individuo, un uomo libero, e tale esiste quindi soltanto per noi nell’idea. Allo stesso modo stanno le cose con la scienza e la sua storia. Ma l’idea è necessaria. In essa si presenta davanti a noi il futuro infinito, e la nostra intera aspirazione mira al suo compimento.

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contrapporre è unicamente soltanto un lottare per la facoltà dell’idea [der Ideen], per la libertà della ragione; – così appartiene anche alla materia della storia della filosofia, o al progredire della ragione verso se stessa, come ragione. Questa via è necessaria, e l’uomo deve percorrerla. Sarebbe la più imperdonabile incoerenza, se un filosofo [Selbstdenker] volesse replicare al dileggio circa i prodotti della sua autoattività con la beffa. La scienza non potrebbe mai giustificare un tale comportamento, infatti significherebbe negarla, e degradarsi al di sotto della dignità dell’uomo libero. C’è unicamente uno scopo, ed è un’idea così necessaria come elevata, che nel grande ambito della scienza debbano esserci soltanto la scienza e la sua storia. Quella ci indica l’uomo nella sua raggiunta libertà, mentre l’ultima lo rappresenta in lotta con se stesso. Entrambe ci sono indicate nell’idea della libertà e dell’aspirazione infinita, e soltanto quest’idea è ciò a cui noi ci eleviamo di volta in volta sulla strada del nostro empirico progredire. L’idea è esistente, e lo è per comprendere con essa un mondo; per ordinare in essa e secondo essa tutto il reale. Per l’esecuzione dell’idea di una storia della filosofia si incontrano in particolare grandi e importanti difficoltà. Il punto nel tempo in cui cade la scienza, limita il cammino empirico della ragione verso se stessa come ragione. Questo cammino doveva essere necessariamente, e in quanto tale, limitato soltanto dalla libertà. La libertà deve ora percorrerlo ancora una volta in quanto compiuto e rappresentarlo scientificamente. Era però un labirinto di errori infelici, quello in cui la ragione da secoli si aggrovigliava; così ci sono necessariamente anche strade oscure contorte, lungo le quali la libera riflessione è tenuta ad andare verso se stessa. Certamente, non si è creduto con altrettanta sicurezza in niente come nell’ambito della storia, non appena i fatti furono i fatti. Ma non si presagiva che la verità della relazione, da cui tutto propriamente dipende, non giace in alcun modo nei fatti, ma richiede forza del giudizio, e non si presagiva che quella rimaneva ancora soltanto un oggetto storico [ein historische Gegenstand] per una possibile intelligenza, sino al momento della scienza. Tutta la storia in genere sta necessariamente nel più preciso rapporto con l’uomo. Come l’uomo, così la sua storia. Egli è ancora in divenire, ancora in progresso verso se medesimo; così non c’è per esso ancora nessuna storia, come storia vera [wahre Geschichte], che soltanto un’intelligenza al di fuori di lui potrebbe porre. Una tale intelligenza è ora la ragione nella sua libertà. Ma essa non lo è altrimenti che tramite la riflessione del suo progresso empirico in genere: di conseguenza soltanto tramite il fatto che essa deve portare dapprima unità e ordine nel caos dell’intero passato. Realizzare ciò richiederà senz’altro una particolarmente felice formazione [Ausbildung] di molteplici forze umane, una formazione, che potrebbe forse non essere ancora del tutto possibile neanche al prossimo secolo. Tuttavia già noi, che ci gloriamo del felice momento della scienza, dobbiamo perlomeno avere l’intenzione di una sua storia, e perciò è necessaria la domanda su come potremmo intraprendere con successo tutto ciò. Su ciò è la scienza stessa che ci deve adesso istruire. Una giusta visione dell’intero, nell’idea di una storia, è senza dubbio la prima cosa di cui abbiamo bisogno. Questa non può fondarsi sull’esperienza, ma tutta l’esperienza

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reale dovrebbe e deve essere giudicata piuttosto tramite essa. Perciò si lascia attingere soltanto da un’osservazione critica sull’uomo empirico in genere, in rapporto al suo essere puro razionale, e una tale osservazione sarebbe dunque la preparazione determinata a qualsivoglia indagine filosofico-storica, con cui dobbiamo rendere possibile ai nostri discendenti una storia della filosofia. Con ciò giungiamo finalmente alla determinata e sinora soltanto introdotta indagine sull’oggetto proprio di questo scritto. L’applicazione di quanto detto risulterà da sé. A questa rinviamo ognuno, al quale potremmo essere sembrati forse troppo oscuri o averla presa troppo alla larga. Lo scopo non si lascerà mancare, ed esso soltanto deve giustificarci.

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INDICE DEI NomI

abicht, Johann Heinrich, 10, 14, 108 agostino, 26 alfieri, Vittorio Enzo, 217 ameriks, Karl, 67, 93, 96, 101, 167, 169, 171, 182, 198 amoroso, Leonardo, 28 anassagora, 51, 267 argens, Jean-Baptiste Boyer marchese d’, 251 aristippo, 165, 268 aristotele, 18, 36, 50, 52, 53, 73, 89, 115, 129, 136-139, 157, 253 assunto, rosario, 9 Bacone, Francesco, 140, 231 Bardili, Christoph Gottfried, 66, 199, 200 Barnard, Frederick M., 41 Barone, Francesco, 21, 22, 65 Baumgarten, alexander Gottlieb, 18, 19, 21, 62, 112, 188, 189, 246 Bayle, Pierre, 267 Beck, Jacob Sigismund, 3, 9, 45, 54, 56, 66, 76, 168, 181, 223, 260 Beiser, Frederick C., 43, 63, 186, 192 Berkeley, George, 52, 109, 141 Bertuch, Friedrich Justin, 93 Bianca, Domenico omero, 18, 39, 62 Bianco, Bruno, 27, 50 Bianco, Luca, 16, 75 Bilfinger, Georg Bernhard, 22 Biscuso, Salvatore, 73 Blackwell, Constance W. T., 49, 129 Bodei, remo, 5 Böhme, Jacob, 109 Bondeli, Martin, 186, 195 Bonelli, Munegato Cristiana, 2 Bordoli, roberto, 14 Born, Friedrich Gottlob, 3, 63, 70, 108, 109 Borowski, Ludwig Ernst, 2

Brastberger, Gebhard Ulrich, 168 Braun, Lucien, 7, 76, 146, 197, 200 Breazeale, Daniel, 174 Brucker, Johann Jacob , 42, 44, 108, 129, 259 Brüggemann, Fritz, 36 Bruno, Giordano, 111, 112, 124, 157, 231 Buhle, Johann Gottlieb, 8, 34, 37, 46, 48, 49, 55, 56, 72, 77, 88, 136, 141, 142, 144, 154, 159, 160, 260, 296-298 Buonafede, appiano, vedi Cromaziano agatopisto Campo, Mariano, 82 Capecchi, Giorgio, 6 Capozzi, Mirella, 11, 15, 26, 52, 200 Carabellese, Pantaleo, 9 Carboncini, Sonia, 68, 69 Carrano, antonio, 105 Cassirer, Ernst, 9 Cesa, Claudio, 43, 168 Chladenius, Johann Martin, 119, 248 Ciafardone, raffaele, 3, 9, 19, 20, 39, 43, 55, 73, 168, 169 Cicerone, 36, 121, 157, 197, 241 Codignola, Ernesto, 8, 26 Costa, Filippo, 212 Cotroneo, Girolamo, 6 Croce, Benedetto, 14 Cromaziano, agatopisto (pseud. di Buonafede appiano), 4, 111, 113, 117, 119, 120, 122, 123, 130 Crusius, Christian august, 111, 112, 127, 128, 231-234 D’alessandro, Giuseppe, 16, 123 Dal Pra, Mario, 9 Dal Santo, Petra, 76 Degerando, Joseph Marie, 52

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inDiCE DEi noMi

Delfosse, Heinrich P., 38 Democrito, 36, 165, 268 Descartes, rené, 10, 11, 19, 33, 36, 39, 40, 52, 93, 100, 103, 108, 109, 115, 140, 141, 157, 172, 210, 231, 252, 299 Diderot, Denis, 45, 49 Di Giovanni, George, 188 Diogene Laerzio, 121, 138, 146, 196, 247, 281 Eberhard, Johann august, 3, 112, 113, 123, 131, 154-160, 168, 169, 189, 259 Ècole, Jean, 11 Eichhorn, Johann Gottfried, 123 Epicuro, 39, 47, 54, 129 Euclide, 32, 74, 252 Evemero, 41 Fabbianelli, Faustino, 2, 95, 150, 180 Fackenheim, Emil L., 149 Faggiotto Pietro, 2 Fazio Domenico M., 143 Feder, Johann Georg Heinrich, 1, 42, 168, 180, 188, 196, 240 Feldmann, Erich, 75 Ferraris, Maurizio, 10 Fichant, Michel 8 Fichte, Johann Gottlieb, 2, 66, 119, 158, 168, 199, 200, 211, 212, 215-218, 222, 224, 251, 260, 303 Finster, reinhard, 68, 69 Flatt, Johann Friedrich, 180 Fonnesu, Luca, 31 Forster, Michael n., 66 Franchini, raffaello, 14, 82, 176 Frank, Manfred, 92, 167, 186, 220, 222 Fries, Jakob Friedrich, 61 Fülleborn, Georg Gustav, 3, 19, 44, 45, 109, 113, 118, 121, 126, 129, 130, 131-150, 154, 164, 167, 187, 204, 205, 210, 215, 239, 272, 281, 300 Furnari, Giusi, 6 Gallo, Franco, 154 Garin, Eugenio, 2 Garve, Christian, 1, 33, 129, 136, 139, 144146, 154, 160, 168, 240, 259 Gassendi, Pierre, 40 Gatterer, Johann Christoph, 119 Geldsetzer, Lutz, 17, 132, 158 Gentile, Giovanni, 8 Gesù, 96

Gigante, Marcello, 138 Giordanetti, Piero, 132 Givone, Sergio, 51,105 Göss, Georg Friedrich Daniel, 118, 130, 145, 150-166, 167, 187, 204-206, 209, 251, 272, 294, 298 Gracian, Balthàsar, 229 Gregorio, Giuliana, 6 Grillenzoni, Paolo, 92 Grohmann, Johann august, 3, 66, 82, 114, 132, 152, 158, 164, 199-214, 216 Grozio, Ugo, 40 Gurlitt, Johann Gottfried, 154, 155, 159, 196, 197, 205, 241, 260, 291, 293

133, 210,

107, 215, 160,

Hammerstein, noktar, 35 Hausius, Karl Gottlob, 1, 33, 131 Heeren, arnold Hermann Ludwig, 16, 124 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 5, 26, 40, 74, 104, 130, 139, 164, 167, 176, 199, 200, 221 Heinz, Marion, 95, 168, 195 Herder, Johann Gottfried, 95, 105, 110 Hermann, Johann Gottfried Jakob, 206 Herz ,Marcus, 2, 13, 50, 88, 106 Heydenreich, Karl Heinrich, 2, 4, 5, 8, 42, 50, 91, 107-130, 131, 136, 140, 142, 144-147, 149, 151, 152, 154, 155, 160-162, 164, 180, 181, 187, 206, 262, 263 Hinske, norbert, 9, 38, 86 Hissmann, Michael, 41, 130 Hösle, Vittorio, 74, 76 Hoffbauer, Johann Christoph, 61 Hohenegger, Hansmichael, 1 Hohenemser, rolf, 9 Holst, Ludolf 94 Hülsen, august Ludewig, 3, 181, 214-225 Hume, David, 27, 50, 51, 75, 80, 82-84, 100, 109, 116, 117, 141, 142, 188, 202, 232, 251 ippocrate, 157 Jacob, Ludwig Heinrich von, 262 Jacobi, Friedrich Heinrich, 94, 251 Jäsche, Gottlob Benjamin, 15, 66, 200 Jenisch, Daniel, 14, 47, 172, 204 Kästner, abrahem Gotthelf, 252 Karsten, Wenceslas Johann Gustav, 252 Kiesewetter, Johann Gottfried Christian, 61, 262

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inDiCE DEi noMi

Knutzen, Martin, 13, 49, 55 Kobau, Pietro, 10, 21 Köster, adolpf, 47 Köster, Heinrich Martin Gottfried, 119 Krämer, Ulrich, 216, 219 Kröner, richard, 167 Krug, Wilhelm Traugott, 68, 294 Lambert, Johann Heinrich, 8, 27, 73, 176 Landgrebe, Ludwig, 16 La rocca, Claudio, 51, 155, 189 Lauth, reinhard, 167 Lazzari, alessandro, 99, 195 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 11, 13, 14, 18, 22, 23, 35, 39, 47-50, 52, 53, 60, 62, 72, 80, 82-84, 89, 100, 106, 108, 109, 112, 116, 120, 125, 128, 141, 142, 156, 157, 190, 202, 216, 231-233, 251, 252 Locke, John, 13, 38, 40, 48, 51, 53, 89, 100, 109, 112, 116, 120, 129, 140-142, 188, 232 Lombardo radice, Giuseppe, 8 Longo, Mario, 7, 34, 35, 42, 123, 140 Lough, John, 45 Lübbe, Hermann, 17 Maass, Jean Gebhard Ehrenreich, 192 Magnani, Massimo, 6 Maimon, Salomon, 158, 216 Malebranche, nicolas, 157, 231 Manganaro, Paolo, 15, 49 Marcolungo, Ferdinando L., 25, 87 Martinello, Francesco, 83 Massimilla, Edoardo, 6 Mathieu, Vittorio, 8 Meier, Georg Friedrich, 21, 38, 159 Meiner, Johann Werner, 245 Meiners, Christoph, 120 Mendelssohn, Moses, 9, 94, 157, 172 Meo, oscar, 2 Merker, nicolao, 40, 53 Micheli, Giuseppe, 13, 47, 50, 51, 54, 74, 79, 92, 107, 120 More, Henry, 12 Mori, Massimo, 31 Muhlack, Ulrich, 40 neeb, Johann, 149 newton, isaac, 252 niethammer, Friedrich immanuel, 283, 294 otto, Stephan, 149

321

Parmenide, 165, 253, 268 Patrizi, Francesco, 34 Pepe, Lucio, 25 Petrone, Landolfi Giuseppe, 42 Philonenko, alexis, 74, 75 Piché, Claude, 143 Pirrone, 9 Piselli, Francesco, 18 Pitagora, 36, 165, 247, 268 Platner, Ernst, 42, 47, 48, 193, 196, 239, 240 Platone, 35, 36, 49, 50, 52, 53, 89, 110, 115, 120, 129, 130, 136-139, 155, 157, 165, 268 Pölitz, Karl Heinrich Ludwig, 124, 284 Poggi, Stefano, 61 Pomponazzi, Pietro, 199 Popkin, richard H., 11, 49 Pozzo, riccardo, 38, 55 Proust, Jacques, 45 Pufendorf, Samuel von, 40 Pupi, angelo, 2, 9, 93, 104, 167 reich, Klaus, 58 reinhold, Karl Leonhard, 2-5, 9, 10, 14, 39, 42, 47, 50, 66, 74, 91-107, 109, 110, 112114, 119, 126, 128, 133-135, 142, 144, 149154, 158-161, 167-199, 204-206, 209, 211, 216, 260, 261, 272, 281, 292-294 riconda, Giuseppe, 75 riedel, Manfred, 16 rink, Friedrich Theodor, 2 rizzo, Francesca, 6, 14 rosenkranz, Karl, 200 rousseau, Jean-Jacques, 47 rüdiger, andreas, 11, 27, 40 rumore, Paola, 38, 159, 171 Sanna, Giovanni, 8, 26 Sanna, Manuela, 25 Santinello, Giovanni, 7, 34, 42 Scaravelli, Luigi, 58, 64, 73, 119 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 3, 75, 133, 157, 158, 167, 199, 220, 221, 251, 303 Schlegel, Friedrich, 219 Schmid, Carl Christian Erhard, 44, 72, 87, 93, 262 Schneider, Ulrich, 122, 149 Schuetz, Christian Gottfried, 93 Schultz, Johann, 2, 3 Schultze, Gottlob Ernst, 3, 9, 55, 108, 142 Schwab, Johann Christoph, 10, 14, 43, 125, 156, 157, 168, 180

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Seifert, arno, 19 Semerari, Giuseppe, 136 Seneca, 36, 121 Sesto Empirico, 9, 141 Socrate, 51, 54, 79, 97, 130, 137, 155, 156 Solari, Gioele, 16 Spinoza, Baruch, 11, 18, 103, 108-111, 117, 124, 140, 141, 157, 172, 205, 210, 214, 231, 254, 285, 286, 299 Staudlin, Carl Friedrich, 47, 48, 49 Sturm, Johann Christoph, 35 Swendeborg, Emanuel, 109

Tiedemann, Dietrich, 7, 120, 300 Tomasoni, Francesco, 35, 40 Tonelli, Giorgio, 43, 70, 72, 73

Talete, 157 Tatasciore, Carlo, 220 Tschirnhaus, Ehrenfried Walter von, 25, 27, 231 Tennemann, Wilhelm Gottlieb, 10, 45, 108, 132, 136, 137, 152, 205, 206, 209 Tessitore, Fulvio, 5 Thomasius, Christian, 10, 11, 12, 27, 29, 3045, 267 Thomasius, Jacob, 35

Will, Georg, 1, 2 Wolff, Christian, 11, 12, 14, 18-27, 29, 38, 39, 42, 43, 48, 49, 60-62, 66, 69, 72, 86, 88, 99, 106, 108, 111, 112, 121, 125, 128, 141, 156, 157, 191, 216, 231-234, 252 Wundt, Max, 49

Valenza, Pierluigi, 93, 179 Vanini, Giulio Cesare, 143 Vàzquez, Lobeiras Maria Jesus, 60 Vetö, Miklos 55 Vico, Giambattista, 104 Villani, antonio, 41 Vleeschauwer, Hermann-Jean de, 3, 15, 46 Volpi, Franco, 29, 76

Zande, Johan van der, 49 Zenone, 36 Ziolkowski, Theodor, 14

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Collana di testi e studi diretta da Giuseppe Cacciatore e Fulvio Tessitore

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26.

G. Giarrizzo, La scienza della storia. interpreti e problemi (a cura di F. Tessitore) F. Lomonaco, tolleranza e libertà di coscienza. Filosofia, diritto e storia tra Leida e napoli nel secolo XViii E. Schulin, L’idea di Oriente in Hegel e Ranke (a cura di M. Martirano, con una nota di F. Tessitore) C. Hinrichs, Ranke e la teologia della storia dell’età di Goethe (a cura di r. Diana, con una nota di F. Tessitore) a. Salz, Per la scienza contro i suoi colti detrattori (a cura di E. Massimilla) E. Krieck, La rivoluzione della scienza e altri saggi (a cura di E. Massimilla) G. D’alessandro, L’illuminismo dimenticato. Johann Gottfried eichhorn (1752-1827) e il suo tempo a. Giugliano, nietzsche Rickert Heidegger (ed altre allegorie filosofiche) G. acocella, Le tavole della legge. educazione, società, Stato nell’etica civile di aristide Gabelli T. Tagliaferri, La nuova storiografia britannica e lo sviluppo del welfarismo. Ricerche su R. H. tawney P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna (a cura di F. Tessitore, con due note di n. Bobbio e G. Calogero) S. Moscati, Civiltà del mare. i fondamenti della storia mediterranea (con una nota di F. Tessitore) E. Massimilla, intorno a Weber. Scienza, vita e valori nella polemica su «Wissenschaft als Beruf» D. Conte, Storicismo e storia universale. Linee di un’interpretazione L. Pica Ciamarra, Goethe e la storia. Studio sulla «Geschichte der Farbenlehre» a. de’ Giorgi Bertòla, Della filosofia della storia (a cura di F. Lomonaco) a. Carrano, Un eccellente dilettante. Saggio su Wilhelm von Humboldt (con una nota di F. Tessitore) G. Ciriello, La fondazione gnoseologica e critica dell’etica nel primo Dilthey (con una nota di G. Cacciatore) H. rickert, i limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale. Un’introduzione logica alle scienze dello spirito (a cura di M. Catarzi) M. Cambi, La machina del discorso. Lullismo e retorica negli scritti latini di Giordano Bruno (con una nota di M. Ciliberto) G.a. Di Marco, Studi su Max Weber (con una nota di F. Tessitore) C. Tramontana, La religione del confine. Benedetto Croce e Giovanni Gentile lettori di Dante (con una nota di n. Mineo) M. Moretti, Pasquale Villari storico e politico (con una nota di F. Tessitore) r. Celada Ballanti, erudizione e teodicea. Saggio sulla concezione della storia di G.W. Leibniz (con una nota di F. Tessitore) G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati (nuova edizione a cura di M. G. amadasi Guzzo e F. Tessitore) S. Caianiello, Scienza e tempo. alle origini dello storicismo tedesco (con una nota di F. Tessitore)

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27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37.

F. Meinecke, aforismi e schizzi sulla storia (nuova edizione a cura di G. Di Costanzo, con una nota di F. Tessitore) F. Schlegel, Filosofia della filologia (a cura di r. Diana) G. Getto, Storia delle storie letterarie (nuova edizione a cura di C. allasia) P. Piovani, indagini di storia della filosofia. incontri e confronti (a cura di G. Giannini, con una nota di F. Tessitore) M. Kaufmann, anarchia illuminata. Una introduzione alla filosofia politica (a cura di S. achella e C. de Luzenberger, con una nota di G. Cacciatore) G. Morrone, incontro di civiltà. L’islamwissenschaft di Carl Heinrich Becker (con una nota di E. Massimilla) F. Gabrieli, tra Oriente e Occidente (a cura di F. Tessitore, con una nota di r. Traini) W. Dilthey, La vita di Schleiermacher, vol. i (a cura di F. D’alberto, con una nota di F. Tessitore) E. nuzzo, Storia ed eredità della coscienza storica moderna. tra origini dello storicismo e riflessione sulla conoscenza storica nel secondo novecento G. Magnano San Lio, Biografia, politica e Kulturgeschichte in Rudolf Haym (con una nota di F. Tessitore) S. Di Bella, La storia della filosofia nell’aetas Kantiana. teorie e discussioni

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