La scala 9788882271763, 8882271765

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La scala
 9788882271763, 8882271765

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LA SCALA

GIOVANNI CLIMACO

Nella stessa collana PADRI ORIENTALI Antonio il Grande, Secondo il vangelo. Le venti lettere tradotte dall’arabo Parole dal deserto. Detti inediti di Iperechio, Stefano di Tebe e Zosima Umiltà e misericordia. Virtù di san Macario Evagrio Pontico, Per conoscere Lui Pseudo-Macario, Spirito e fuoco. Omelie spirituali Nella tradizione basiliana. Costituzioni ascetiche. Ammonizione a un figlio spirituale Nel deserto accanto ai fratelli. Vite di Gerasimo e di Giorgio di Choziba Isacco di Ninive, Discorsi ascetici. Terza collezione Isacco di Ninive, Discorsi spirituali e altri opuscoli Teodoro Studita, Nelle prove, la fiducia. Piccole catechesi Nicola della Santa Montagna, Alle origini dell’Athos. Vita di Pietro l’Athonita Nerse¯s di Lambron, Il primato della carità. Discorso sinodale Teolepto di Filadelfia, Lettere e discorsi Gregorio Palamas, “Abbassò i cieli e discese”. Omelie

LA SCALA Traduzione e note a cura di Luigi d’Ayala Valva Introduzione di John Chryssavgis

Invieremo gratuitamente il nostro Catalogo generale e i successivi aggiornamenti a quanti ce ne faranno richiesta. www.qiqajon.it

AUTORE: TITOLO: CURATORE: COLLANA: FORMATO: PAGINE: TRADUZIONE: IN COPERTINA:

Giovanni Climaco La scala Luigi d’Ayala Valva Padri orientali  cm  dal greco a cura di Luigi d’Ayala Valva La scala celeste, miniatura (xi secolo), particolare, codice Sinai , f. v, Monastero di Santa Caterina, Sinai

©  EDIZIONI QIQAJON COMUNITA` DI BOSE  MAGNANO (BI) Tel. .. - Fax ..

EDIZIONI QIQAJON isbn ----

COMUNITA` DI BOSE

INTRODUZIONE

Le tue lacrime e le tue parole hanno parlato di ascensioni verso l’amore e la bellezza di Dio. Menaion del 30 Marzo

1. Giovanni Climaco e la “Scala” 1. 1. La vita di Giovanni Climaco La vita e la condizione dei monaci nel deserto del Sinai sono ben descritte nel Prato spirituale di Giovanni Mosco, pubblicato da Sofronio, suo amico e discepolo: in quest’opera l’autore informa i suoi lettori di una serie di avvenimenti e di storie che gli sono sembrati degni di nota. Un’altra fonte d’informazione è la collezione di quaranta Racconti attribuita ad Anastasio Sinaita, pubblicata da Nau1. Questi documenti ci forniscono un quadro della vita di monaci che godevano di un’alta reputazione, con un’atmosfera e una tradizione loro proprie, distinta da 1 Cf. F. Nau, “Le texte grec des récits du moine Anastase sur les saints pères du Sinai”, in Oriens Christianus 2 (1902), pp. 58-90.

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quella palestinese ed egiziana, ma che allo stesso tempo le mescola entrambe in uno stile di vita austero ed equilibrato. È in queste montagne che Mosè incontrò Dio, è qui che Elia udì la voce di Dio, ed è qui che Giovanni Climaco, ovvero Giovanni “della Scala” raccontò le sue esperienze di Dio. La fonte principale, a parte i Racconti di Anastasio Sinaita2 e gli scritti di Giovanni stesso, è la Vita di Giovanni scritta da un monaco di nome Daniele di Raito3. Daniele scrive come un testimone oculare, o almeno come un contemporaneo dell’asceta del Sinai autore della Scala. Tuttavia non possiamo essere del tutto sicuri di questo: dopo tutto, nella sua Vita, che somiglia ad un elogio edificante, anche Daniele è impreciso. Non fornisce, per esempio, alcuna cronologia e afferma esplicitamente di non conoscere neanche il luogo di origine di Giovanni. Comunque, tutte le altre fonti di informazione non vanno oltre le notizie forniteci da Daniele: tali fonti includono il Menaîon del 30 Marzo, il giorno del transito di Giovanni, così come altri synáxaria e menológhia, come la Vita del X secolo contenuta nel Menológhion dell’imperatore Basilio. Le date precise del periodo nel quale visse l’autore della Scala sono difficili da determinare con certezza, a causa della mancanza di fonti, o di informazioni dettagliate nelle poche fonti disponibili4. Sarei personalmente propenso a considerare Climaco un contemporaneo di Massimo il Confessore (ca. 580-662) e la Scala come una 2

Cf. infra, pp. 75-77. Cf. infra, pp. 67-74. 4 Per le questioni relative alla cronologia della vita di Climaco si rimanda a G. Couilleau, s.v. “Jean Climaque”, in DS VIII, coll. 371-372, e B. Flusin, “Il monachesimo sinaitico al tempo di Giovanni Climaco”, in Giovanni Climaco e il Sinai. Atti del IX Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione bizantina), Bose, 16-18 settembre 2001, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Qiqajon, Bose 2002, pp. 28-31. 3

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sintesi ascetica paragonabile alla sintesi teologica di Massimo. Ci sono infatti dei passi nell’opera di Climaco che ricordano il linguaggio usato dal Confessore5, e questa considerazione è plausibile non tanto come un argomento decisivo quanto piuttosto come una conferma dell’ipotesi di datazione fatta da Bogdanovic´ 6. Mi sembra più ragionevole, quindi, considerare Giovanni come un autore del VII piuttosto che del VI secolo. Le sue date dovrebbero essere collocate tra il 579 circa (con la possibilità di scendere fino al 599) e il 659 (con la possibilità di scendere fino al 679). Giovanni Climaco è anche noto come “Scolastico”7 ovvero “studioso”, un’indicazione del fatto che non era un illetterato, come hanno ipotizzato alcuni studiosi. Nato probabilmente in una nobile famiglia intorno all’anno 579, o poco prima, Giovanni ricevette una buona educazione, che il suo biografo descrive come una “istruzione completa”8: un’espressione che indica un’educazione a tutto campo, che potrebbe includere, anche se non necessariamente, un’istruzione superiore. Non sappiamo dove Giovanni sia nato9, ma il suo biografo ci racconta che arrivò al Sinai quando aveva appena sedici anni. Giovanni sembra essere stato già eccezionalmente maturo a quell’età10. Egli con umiltà si sottopose immediatamente all’obbedienza di una guida spirituale,

5 Si veda soprattutto Scala VI,4. Cf. K. Ware, “Introduction”, in St. John Climacus, The Ladder of Divine Ascent, Paulist Press, New York-RamseyToronto 1982, pp. 3, 18, 57-58. 6 D. Bogdanovic´, Jean Climaque dans la littérature byzantine et la littérature serbe ancienne, Institut d’études byzantines, Belgrade 1968, pp. 216-217, colloca la nascita di Giovanni Climaco prima del 579 e la sua morte dopo il 654. 7 Cf. Vita, titolo. 8 Cf. ibid. 2. 9 Cf. ibid. 1. 10 Cf. ibid. 2.

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un certo abba Martirio, che lo tonsurò sulla santa Vetta all’età di vent’anni11. Ci sono giunti interessanti racconti che parlano di profezie fatte da alcuni anziani che vivevano nel deserto del Sinai a quel tempo. Scendendo dalla Santa Montagna dopo la professione di Giovanni, abba Martirio condusse il proprio discepolo da un certo abba di nome Anastasio, che può essere stato l’igumeno del monastero centrale. Anastasio predisse che Giovanni un giorno sarebbe diventato igumeno – una profezia che si avverò quarant’anni dopo –. Subito dopo questo incontro con Anastasio, e forse proprio nella stessa occasione, Martirio e Giovanni visitarono anche Giovanni il Sabaita, che viveva a circa quindici miglia, nel deserto di Guda, il quale, dopo aver lavato i piedi di Giovanni, informò il proprio discepolo che, anche se non sapeva a chi avesse lavato i piedi, sentiva che quella persona un giorno sarebbe diventata igumeno12. Anche abba Strategio il Recluso “sebbene non uscisse mai, fece la stessa profezia, nel giorno in cui abba Giovanni fu tonsurato”13. All’età di trentacinque anni e dopo la morte di Martirio14, Giovanni andò a vivere come eremita in una località di nome Tola15, a circa cinque miglia dal monastero centrale. Sebbene Daniele usi esplicitamente l’espressione “uscì” per descrivere la sua azione, in realtà non fu un’“uscita” dalla comunità monastica, poiché con ogni probabilità in essa

non era mai stato novizio. Soprattutto non fu un’“uscita” dalle relazioni sociali, perché egli continuò a vedere e a consigliare numerosi visitatori, fino al punto che, per invidia, fu accusato di essere un “chiacchierone”16! Di fronte a tali critiche, Giovanni non parlò con nessuno per un anno intero, e soltanto quando i suoi stessi accusatori lo supplicarono di tornare al suo comportamento precedente accettò di nuovo di ricevere dei visitatori. In modo autentico e profondo, quindi, il silenzio di Giovanni, così come la sua parola, la sua uscita dal mondo e il suo ritiro nella vita solitaria non erano una fuga dalle persone, ma piuttosto un frutto del suo ardente amore17, per gli altri come per Dio18. Dopo un certo tempo, Climaco intraprese la terza forma di monachesimo, la “via mediana o intermedia”, nota anche come vita semi-cenobitica o semi-eremitica19, in cui piccoli gruppi vivevano come uno stretto agglomerato di famiglie, ciascuna sotto la guida diretta di un padre spirituale. Perciò, Giovanni accettò a vivere con sé un discepolo, un certo Mosè20. Nel monachesimo orientale la vita comunitaria è considerata una preparazione per il deserto. Basilio, però, sostiene l’opinione opposta, considerando la vita cenobitica come superiore e addirittura sconsiglia vivamente la vita eremitica21. Evagrio Pontico e il suo discepolo, Giovanni Cassiano, parlano delle tentazioni e dei pericoli della solitudine, sebbene Evagrio non esprima realmente una preferenza per la vita cenobitica22; in ogni

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Cf. Racc. 1. Cf. ibid. 13 Ibid. Queste profezie riguardo a Giovanni possono trovare un parallelo in quelle di Eutimio riguardo a Saba e di Marciano riguardo a Teodosio: cf. Cirillo di Scitopoli, Vita di Eutimio 21 e Vita di Teodosio 3. 14 Cf. Vita 3. Il racconto di Daniele, insieme a quello del Menaion, PG 88,609C, non è chiaro su questo punto: potrebbe significare sia “all’età di diciannove anni” sia “diciannove anni dopo la sua professione”. La seconda traduzione sembra più probabile. 15 Cf. Vita 3 e Menaion, PG 88,609C. 12

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Cf. Vita 8. Cf. ibid. 3. 18 Cf. ibid. 7. 19 Le tre forme – quella cenobitica, quella eremitica e quella semi-eremitica – sono menzionate insieme in Scala I,47. 20 Cf. Vita 6. 21 Cf. Basilio di Cesarea, Discorso ascetico 3 e Regole diffuse 7,1-3. 22 Cf. Evagrio Pontico, Trattato pratico 5. Per l’opinione di Cassiano, cf. Istituzioni V,36. 17

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caso fu egli stesso un solitario, e non un cenobita. Per quanto riguarda Giovanni, egli non entrò inizialmente in un cenobio, precisamente perché la preparazione per la vita solitaria poteva avvenire sia all’interno della vita cenobitica sia di quella semi-eremitica. Quindi, tutto sommato, Giovanni concorda con la prima opinione, che è in generale anche la linea del monachesimo palestinese23. Giovanni era anche famoso per aver operato dei miracoli per mezzo della sua preghiera24: era riconosciuto come un medico del corpo e dell’anima25. Secondo Giovanni Cassiano, che non solo apprezzò ma fece propria la tradizione del deserto egiziano, quanto più gli asceti si allontanano dalla gente e sono quindi più vicini a Dio, tanto più, inevitabilmente, i visitatori si avvicinano ad essi26. Questo si dimostrò certamente vero per Giovanni, poiché, mentre era nel deserto, come abbiamo visto, ricevette molti visitatori, tra cui spesso vi erano dei laici27. Inoltre, Giovanni stesso visitò altri solitari malati. Ci racconta di aver visitato, tra l’altro, anche dei monasteri alla periferia di Alessandria28. Può aver perfino visitato Scete e Tabennesi, anche se per questo non ci sono prove chiare. Climaco afferma infatti che ci sono più “luminari” tra i monaci di Scete che tra quelli di Tabennesi, ma non fornisce alcuna ragione per questo29. Pur menzionando entrambi i luoghi, può non averli mai visitati; comunque, una sua visita a Scete è certamente possibile e più vero23 Per l’importanza del cenobio, cf. Scala IV,72, e per le difficoltà all’interno di un monastero cenobitico, cf. ibid. XXVI/2,61. Per la tendenza palestinese, cf. le Vite di Cirillo di Scitopoli. 24 Cf. Vita 6. 25 Cf. ibid. 7. 26 Cf. Giovanni Cassiano, Conferenze XXIV,19. 27 Cf. Scala I,38-40. 28 Cf. ibid. IV,16-17; V,5 e DP 100. 29 Cf. Scala XXVII/2,3.

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simile, perché è più vicina ad Alessandria di Tabennesi. Giovanni descrive poi anche un altro viaggio durante il quale incontrò vari fastidi30. Di fatto la Scala fornisce generalmente informazioni storiche significative sui cenobi di Alessandria, sugli insediamenti eremitici in Egitto e, soprattutto, sul monachesimo contemporaneo dello stesso Sinai, appartenente a tutte e tre le forme di ascetismo. La vita monastica di Giovanni non sarebbe stata completa, però, senza un’esperienza nella prima forma di monachesimo: quella cenobitica. Dopo quarant’anni nel deserto, i suoi fratelli lo costrinsero a diventare igumeno31. Il suo amore per Dio e le sue lotte ascetiche erano rimasti in gran parte un segreto tra lui e Dio, sconosciuto ad altri32: egli aveva trascorso notti e giorni in una spelonca nascosta (che Daniele afferma però di aver conosciuto e che, secondo la tradizione, può essere visitata ancora oggi), versando in essa fiumi di lacrime33. Tuttavia, nel giorno del suo insediamento come igumeno, giunsero al monastero circa seicento pellegrini34. Giovanni Climaco è visivamente e spiritualmente dominato da due montagne: il Sinai e il Tabor. Il Sinai, perché viveva accanto a esso, e quei dintorni dall’aspetto severo e inospitale devono aver spesso richiamato alla mente dell’eremita la scena di Esodo 20; il Tabor, come il luogo della prefigurazione della gloria di Cristo e della visione della sua trasfigurazione (Mt 17,1). Un grande mosaico nell’abside della basilica del monastero – costruita quasi un secolo prima di Giovanni e ancora oggi esistente – fu 30

Cf. ibid. XXVI/1,43. Cf. Vita 9 e Menaion, PG 88,612A. Questo non implica affatto che Giovanni fosse stato ordinato presbitero. 32 Cf. ibid. 6. 33 Cf. ibid. 5. 34 Cf. Racc. 3. 31

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dedicato alla Trasfigurazione. Climaco deve aver trascorso molte ore a fissarlo dal suo scanno di igumeno durante i lunghi uffici liturgici. La sua vita intera – così era percepita da quelli che lo conoscevano – fu una preghiera offerta a Dio, una vita esemplare di amore35. La luce che egli irraggiava rifletteva la luce vista da Mosè sul monte Sinai e contemplata dai tre apostoli sul monte Tabor.

1. 2. Destinatari e scopo dell’opera Già in età piuttosto avanzata, Giovanni accettò di scrivere la Scala su richiesta di un altro Giovanni, igumeno di Raito36. La Lettera di quest’ultimo è indirizzata a “Giovanni il Sinaita”, ciò che forse presuppone che Giovanni, al momento di scrivere la Scala, fosse ancora un monaco solitario. Comunque, il titolo di entrambe le edizioni di Rader e di Sophronios si riferisce esplicitamente all’autore della Scala come ad “Abba Giovanni, igumeno dei monaci del Monte Sinai”. Come tale, egli è accostato dall’igumeno di una comunità più piccola che viveva in una località vicina. Il titolo originale della sua opera – come indicano molti manoscritti – era Tavole spirituali (Plákes pneumatikaí), derivato dal paragone tra Giovanni e Mosè. Alla fine però prevalse il titolo Scala (Klímax). La Scala è formata da trenta “gradini”, a supplemento dei quali Giovanni scrisse anche un breve trattato intitolato Discorso al pastore, che descrive il compito dell’igumeno o del padre spirituale, ugualmente indirizzato a Giovanni di Raito. 35

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Cf. Vita 5. Cf. Lettera I. Raito si trova a nord-ovest della penisola del Sinai, a circa 125 miglia dall’attuale canale di Suez.

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Sulle prime, Giovanni non aveva la minima intenzione di scrivere, poiché si considerava “senza valore e povero di virtù” e riteneva che il compito fosse “al di là delle [sue] forze”. Egli infine cedette alla richiesta di abba Giovanni, sottoponendosi al “giogo della santa obbedienza, madre di tutte le virtù”, pur essendo convinto che Giovanni di Raito avrebbe dovuto indirizzare questa richiesta a “qualcuno con buona esperienza”, perché per parte sua credeva di essere “ancora nella schiera dei discepoli”. Il compito era “al di là delle [sue] possibilità”, ed egli lo intraprese “con timore e amore”: “Con la mia conoscenza debole ed evanescente e la mia eloquenza impacciata, mi sono limitato a tracciare un primo schizzo a inchiostro delle parole di vita”37. Riconoscendo umilmente i propri limiti e la propria ignoranza, l’autore giudica la propria opera alquanto grossolana e insignificante38, ma la realtà dei fatti si rivelò esattamente opposta. Gli immediati destinatari della Scala erano i cenobiti sottomessi all’autorità di Giovanni di Raito. L’autore è alquanto esplicito su questo punto: egli non invia l’opera ad altri che “alla comunità che è stata chiamata da Dio, insieme a noi, a ricevere i tuoi insegnamenti, o migliore tra i maestri”39. Il pubblico, dunque, è chiaramente di tipo monastico: la Scala è opera di un ex-solitario che scrive per dei cenobiti; ma è anche opera di un ex-eremita che ha avuto contatti personali con monaci che vivevano in comunità e che ora, come autorevole padre spirituale e forse già igumeno, comprende bene le difficoltà che tali monaci devono affrontare. Il lettore moderno deve aver ben presente tutto ciò e non credere che l’autore intendesse

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Lettera II. Cf. Scala III,35; V,10; XV,44; XXVII/2,2. Lettera II.

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sconcertare il suo pubblico, per esempio con il quinto gradino sulla penitenza, e specialmente con la terribile descrizione delle penitenze monastiche della “prigione” di Alessandria nello stesso gradino40. Gli scrittori della generazione di Giovanni Climaco sembrano avere l’impressione di vivere alla fine di un’epoca: un’epoca che ricapitolava gli insegnamenti dei secoli precedenti, pur essendo allo stesso tempo aperta e proiettata verso il futuro, e in un certo qual modo senza precedenti. Per Climaco questo significava che prima di poter anche soltanto iniziare a scrivere degli insegnamenti destinati specificamente a dei monaci, egli doveva prima di tutto proclamare l’universalità di Dio creatore41. Egli avvertiva la necessità di sottolineare il fatto che la salvezza è per tutti, e che il matrimonio non è in alcun modo un impedimento nella vita spirituale42, sebbene una persona sposata non possa aspettarsi di raggiungere gli stessi livelli di un monaco43: comprese che la castità non è affatto un monopolio monastico – e qui Giovanni cita come esempio l’apostolo Pietro44. Nel leggere la Scala, occorre dunque tenere presenti due punti in relazione fra loro: in primo luogo, che la Scala fu scritta specificamente per dei monaci che vivevano in comunità, e in secondo luogo, che l’opera è importante anche per i laici, poiché nel corso dei secoli ha influenzato ugualmente monaci e gente sposata. Simeone il Nuovo Teologo, per esempio, trovò la Scala nella biblioteca di suo padre, un laico dell’aristocrazia del X secolo. È necessario ricordare che la vita monastica è essenzialmente “la vita 40

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Cf. Scala V,5-7. Cf. ibid. I,4. 42 Cf. ibid. II,7-9. 43 Cf. ibid. I,38 e II,15. Cf. Apoftegmi, Antonio 19. 44 Cf. Scala XV,66.

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secondo l’evangelo”45. Tutti sono chiamati a rispondere all’appello di Cristo alla salvezza. Le circostanze della risposta possono cambiare esternamente, ma la via è essenzialmente una sola. Nella vita spirituale, non c’è una netta distinzione tra monaci e non-monaci: la vita monastica è semplicemente la vita cristiana vissuta in modo particolare. I monaci sono cristiani che hanno scoperto particolari possibilità per imitare Cristo e trascendere le normali condizioni di vita46. Questa precisazione è essenziale per apprezzare la Scala. “La Scala è l’invito a un pellegrinaggio”47: un invito esteso a tutti coloro che desiderano essere salvati48 – ammesso che cerchino sinceramente la salvezza. Giovanni vuole anzitutto scrivere un resoconto della propria esperienza personale durante i suoi quarant’anni di soggiorno nel deserto del Sinai, un resoconto che intende stimolare una parallela esperienza personale in coloro che leggono la Scala – ed è proprio questo il motivo per cui essa è indirettamente indirizzata a tutti i lettori. È l’esperienza personale, quindi, che Climaco continuamente mette in risalto sollecitando una risposta, incitando i suoi lettori a un salto di fede, conducendoli fino all’impegno e all’incontro personali. Per lui il significato della vita ascetica è molto più profondo della mera accettazione di alcune dottrine e regole: “Non è possibile imparare a vedere attraverso le parole, perché ciò dipende dalla natura, né è possibile apprendere la bellezza della preghiera dall’insegnamento di un altro”49. Lo scopo è chiaramente spirituale e pastorale, piuttosto che didattico o normativo. L’autore generalmente si astiene dal dare precise istruzioni riguardo agli uffici liturgici, Basilio di Cesarea, Lettere 207,2. Cf. Scala XXVI/1,53-55. G. Florovskij, Questions disputées, Paris 1935, pp. 105-106. 48 Cf. Prol. 49 Cf. Scala XXVIII,63. 47

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le tecniche di preghiera, i metodi e le ore di ascesi, o ai cibi dai quali bisogna astenersi. Non offre alcuna disciplina intellettuale o morale50, ma indica piuttosto un sentiero di iniziazione, uno stile di vita che consiste fondamentalmente in un’ascensione erotica verso Dio51. Ciò che per lui conta non sono le regole ascetiche, esteriori e fisiche, come tali, ma la disposizione interiore, non l’obbedienza inflessibile ad esigenze di carattere etico, ma l’umiltà e la purezza di cuore: “Non sta scritto: ‘Ho digiunato’, né: ‘Ho vegliato’, né: ‘Ho dormito per terra’, ma: Mi sono umiliato, e subito il Signore mi ha salvato (Sal 114,6)”52. Per quanto riguarda le regole esteriori, Climaco sa che sta scrivendo per dei monaci che possono averle già apprese dalla loro vita in monastero: dà quindi per scontato che essi le conoscano già, e non discute questo aspetto. Il suo scopo è sempre di indicare lo spirito e il significato interiori che stanno dietro e al di là della regola esteriore. La Scala è un’opera esistenziale che tocca l’esperienza concreta: è destinata ai monaci, ma è altrettanto importante per ogni lettore – laici inclusi – che sia deciso a intraprendere la salita.

1. 3. Contenuto e stile Lo stile e la struttura della Scala danno l’impressione di una certa sconnessione. Il greco dell’originale è grezzo e in qualche modo riflette l’arido deserto in cui è stato concepito. Emergono tuttavia anche una certa sottigliezza e una cosciente abilità artistica del tutto particolari: in molti passaggi vi sono giochi di parole espressamente 50 51 52

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Cf. ibid. VII,69; XXVI/1,20.37. Cf. ibid. I,48 e VII,35. Sul tema dell’éros divino cf. infra, pp. 47-53. Ibid. XXV,14; cf. anche XXV,11-13.

ricercati53, e vi si scopre una freschezza, una spontaneità e una purezza che ricordano gli Apoftegmi dei padri del deserto del IV e V secolo – del resto anche la Scala contiene un certo numero di aneddoti e di detti, che costituiscono un piccolo Gherontikón54. Climaco dimostra inoltre un senso di humour tipicamente monastico in molti suoi paragoni alquanto curiosi: “... come un uomo che nuota e vuole battere le mani”55. La forte personalità dell’autore, la sua profonda cultura spirituale e l’omogeneità della sua convinzione danno a quest’opera un carattere a un tempo tradizionale e originale, e ne fanno un’opera che, pur appartenendo a una scuola particolare, appartiene allo stesso tempo al mondo intero. Il carattere dell’autore emerge nel corso del libro: ha un occhio fino per le debolezze dei monaci suoi fratelli, un equilibrato senso dello humour, un realismo sorprendentemente compassionevole, uniti alla coscienza della grazia di Dio. Spesso è volutamente enigmatico – e in questo segue le parabole dei vangeli e gli Apoftegmi dei padri del deserto –; si diverte inoltre a usare frasi criptiche come: “Tacerò le conseguenze di quest’affermazione…”56, negazioni volutamente ricercate allo scopo di accentuare un’affermazione, e tutta una serie di immagini prese da vari ambiti di vita, tra cui la famiglia, la corte del re, i tribunali, la medicina, l’esercito, la campagna, il giardino, il mare, la scuola, e perfino la vita matrimoniale. Le espressioni metaforiche impiegate sono molte: un esempio è la personificazione delle varie passioni57. Perfino i nu53 Cf. ad esempio Scala III,33; VII,21.65; XV,2-3; XVI,23; XXVI/2,36; XXVIII,52; DP 100,l. 54 Cf. Scala IV,21.25.26.29. 55 Ibid. VI,12. 56 Ibid. I,19 e XXVII/2,6. 57 Cf. ad esempio ibid. XIV,32 e XV,83.

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meri e le lettere hanno un valore simbolico nella Scala: i trenta gradini – per non ricordare che un esempio – simboleggiano l’età della piena maturità di Cristo, ossia la vita nascosta di Cristo prima del suo battesimo, e di conseguenza la maturità spirituale del monaco58; e nel gradino XXVI l’autore elenca due “alfabeti” della vita monastica59. La sua prosa a volte acquista una qualità ritmica e perfino poetica. Prosatore secco e ruvido, sebbene lo stile sconnesso sia volutamente ricercato, Climaco è anche un artista degno di nota e ispirato60. Ritmico, paradossale e ironico, il suo linguaggio è allo stesso tempo sottilmente teologico: le immagini possono essere trinitarie o cristologiche. Il dogma è costantemente paragonato o perfino identificato all’etica; temi dottrinali sembrano trasformati in temi pratici; il livello puramente ascetico è continuamente elevato a quello profondamente mistico o perfino sottilmente teologico. In ogni caso, le affermazioni teologiche esplicite non sono molto frequenti. La principale immagine usata nella Scala è quella che si trova in Genesi 28,1261. L’uso dell’immagine della “scala” per la vita spirituale è già attestato nei primi autori cristiani e perfino nell’antichità62, ma è assai più sviluppato in Climaco: di fatto, è proprio quest’immagine che conferisce all’intero libro un carattere e un’unità precisi, e 58

Cf. Prol. Cf. Scala XXVI/1,14. Per questi aspetti stilistici, cf. J. Duffy, “Embellishing the Steps: Elements of Presentation and Style in the Heavenly Ladder of John Climacus”, in Dumbarton Oaks Papers 53 (1999), pp. 1-17. 61 Cf. Scala XXX,18. 62 Origene fu il primo tra gli autori cristiani a usare quest’immagine come un simbolo del progresso spirituale: cf. Origene, Commento a Giovanni XIX,6,38; Gregorio di Nazianzo, Orazioni 43,71; Giovanni Crisostomo, Omelie su Giovanni 83,5; Teodoreto di Cirro, Storia dei monaci siri 27. In generale sul tema, cf. E. Bertaud, A. Rayez, s.v. “Échelle spirituelle”, in DS IV, coll. 62-86; Ch. Heck, L’échelle céleste dans l’art du Moyen Age. Une histoire de la quête du ciel, Flammarion, Paris 1997. 59

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sotto quest’aspetto il suo impiego da parte dell’autore è del tutto senza precedenti e ha anche influenzato l’iconografia posteriore all’interno delle chiese e dei refettori dei monasteri, specialmente a partire dal secolo XI. Per quanto riguarda la sua struttura, la Scala può essere divisa in tre parti diseguali: – Gradini I-III: la rottura con il “mondo” o la rinuncia; – Gradini IV-XXVI: la “vita attiva” o práxis; – Gradini XXVII-XXX: la “vita contemplativa” o theoría. La seconda parte può essere a sua volta divisa in due parti: – Gradini IV-VII: le quattro virtù fondamentali (obbedienza, penitenza, ricordo della morte e “gioiosa tristezza”); – Gradini VIII-XXVI: le passioni e le virtù ad esse contrarie. Lo schema generale è il seguente: 1) Rottura con il mondo 1. Rinuncia 2. Distacco 3. Estraneità 2) Virtù e passioni 2.A) VIRTÙ FONDAMENTALI 4. Obbedienza 5. Penitenza 6. Ricordo della morte 7. Gioiosa tristezza 19

2.B) LOTTA

CONTRO LE PASSIONI

Passioni prevalentemente non-fisiche 8. Ira 9. Rancore 10. Maldicenza 11. Chiacchiera 12. Menzogna 13. Acedia Passioni prevalentemente fisiche e materiali 14. Ingordigia 15. Fornicazione 16. Avarizia Passioni prevalentemente non-fisiche e spirituali 17-19. Insensibilità 20. Pusillanimità 21. Vanagloria 22. Superbia 23. Bestemmia

2.C) VIRTÙ SUPREME DELLA “VITA 24. Semplicità 25. Umiltà 26. Discernimento

3) Unione con Dio 27. Esichia 28. Preghiera 29. Impassibilità 30. Carità 20

ATTIVA”

Climaco accetta la distinzione evagriana tra “vita attiva” (práxis) e “vita contemplativa” (theoría), ma non la segue in modo coerente. A suo giudizio, non ci può essere una netta distinzione tra le due, pur essendo esse tutt’altro che identiche: práxis e theoría sono interdipendenti, due aspetti di una sola realtà. Di fatto, vita attiva e vita contemplativa sono considerate come equivalenti a “penitenza” e “teologia”63. Così anche l’immagine della “scala” nell’intenzione dell’autore non deve essere intesa letteralmente, ma in modo figurato e dinamico: c’è chi si trova nel primo gradino, e nonostante ciò riesce a raggiungere ben altre altezze; o ancora, chi è molto vicino alla cima della scala ma può essere tenuto, per esempio, all’afflizione incessante64. Oltre alla struttura generale sopra delineata, molti gradini hanno a loro volta una sottostruttura interna, che organizza la loro composizione secondo il seguente schema: – prima di tutto c’è sempre una breve affermazione introduttiva, spesso di carattere metaforico; – seguono una serie di brevi definizioni, che ricordano quelle di Aristotele; – quindi, c’è un’esposizione del tema: un’analisi più dettagliata, accompagnata di solito da diversi aneddoti illustrativi, che danno all’opera una certa vivacità; – infine, ci viene presentata una sintesi del capitolo, la conclusione del “gradino”, che normalmente comprende un’esortazione attraverso la quale l’autore cerca di infondere coraggio e fervore. Ora, nella sua globalità, il libro può forse dare un’impressione negativa. Sedici dei trenta gradini trattano di vizi da evitare e, dei rimanenti quattordici, alcuni sono 63 64

Per questo termine cf. infra, “Glossario”. Cf. Scala VII,73.

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apparentemente negativi: penitenza, tristezza e impassibilità. Tuttavia questa impressione iniziale potrebbe essere fuorviante, perché i sedici gradini che trattano dei vizi trattano anche al tempo stesso delle corrispondenti virtù e sono molto più brevi degli altri quattordici che, a loro volta, non sono così negativi come può sembrare a un primo sguardo. Abbiamo già ricordato il fatto che Climaco adotta, almeno nominalmente, la distinzione di Evagrio tra práxis e theoría. Perché, dunque, parla poco della vita contemplativa, concentrandosi espressamente sulla vita attiva, sui vizi da evitare e sulle virtù da acquisire? La sua intenzione è chiara: vuole che i suoi lettori ricerchino l’umiltà e la penitenza senza aspirare a visioni e a estasi. La Scala dimostra infatti una notevole sobrietà con il suo riserbo riguardo ai sogni e la sua insistenza sull’obbedienza (gradino IV) e sul discernimento (gradino XXVI) – questi due gradini sono infatti i più lunghi dell’intero libro. Climaco preferisce che i suoi lettori raggiungano il dono delle lacrime continue: egli stesso, del resto, ne era dotato in misura eccezionale65, e quando una volta, nel cenobio di Alessandria, tentò di avviare una conversazione sull’esichia, fu subito rimproverato dai monaci, che gli risposero: Noi, padre Giovanni, essendo persone materiali, conduciamo una vita molto materiale, convinti come siamo di dover affrontare una lotta proporzionata alla nostra debolezza e ritenendo preferibile lottare con gli uomini … piuttosto che con i demoni66.

L’esichia è “veramente riservata a pochi”67 e la teologia non è per tutti68. La reticenza dell’autore su diversi argomenti è quindi voluta. Egli parla diffusamente della guerra e della lotta ascetica ma evita di menzionare – o lo fa soltanto per brevi accenni – la trasfigurazione dell’asceta o la visione della luce divina. Perfino in tema di vizi e di virtù, dove la sua esposizione è più dettagliata, Climaco riconosce i propri limiti, è prudente nel dare consigli e rinvia umilmente ad altri69.

1. 4. Le fonti della “Scala” La Scala è un’opera che riflette un’esperienza diretta e personale da parte dell’autore. In questo senso è emblematico il gradino XXVIII, sebbene Climaco non dica mai che qui la sua base è empirica. Questo è ciò che dà al libro tutta la sua originalità. Allo stesso tempo, tuttavia, è anche un libro impregnato di tradizione, un’opera di sintesi: pur essendo uno dei libri spirituali più originali dell’antichità cristiana, integra in un insieme unitario molti filoni distinti della tradizione precedente. Climaco certamente dipende dagli autori precedenti, ma fa proprio quel che prende a prestito, piuttosto che seguire pedissequamente queste autorità. Egli fa esplicito riferimento ad alcuni autori ma – come è frequente negli scrittori antichi – senza dire con precisione da dove derivino i passi che cita; abbiamo del resto una chiara prova della vastità delle sue letture anche laddove ammette una conoscenza attraverso l’esperienza personale o che il fine 67

65 66

22

Cf. Vita 5. Scala IV,30.

68 69

Ibid. IV,21. Cf. ibid. XXVII/1,9. Cf. ibid. V,10.

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della lotta spirituale non può essere appreso dai libri70. Per esempio, nomina esplicitamente Origene71 ed Evagrio72 (entrambi per criticarli, come d’obbligo), come anche Giovanni Cassiano73, Gregorio il Teologo74 ed Efrem, che chiama semplicemente “il Siro”75. A parte i riferimenti espliciti e impliciti ad altri autori, Climaco accenna anche ad alcuni anziani suoi contemporanei, che conosce o per averli incontrati di persona o per averne sentito parlare. Apprendiamo così di Giovanni il Sabaita76, di Giorgio di Arsealo77, del monaco Mena78, dell’arcidiacono Macedonio79, del monaco Esichio l’Horebita80, insieme ad altri monaci del cenobio di Alessandria81. Espressioni come: “Alcuni senza mentire mi hanno raccontato…”, “Una persona mi ha raccontato…” e “Ho sentito dire da qualcuno…” non sono insolite nella Scala82. Ma consideriamo più attentamente il debito di Climaco nei confronti delle sue fonti. Se esaminiamo la Scala da vicino, scopriamo prima di tutto dei riferimenti alla filosofia antica, per quanto rari essi siano. Climaco fa riferimento alla “meditazione della morte”, ma la sua affermazione è alquanto generale e non implica necessariamente 70

Cf. ibid. XXVI/1,29 e DP 5. Cf. Scala V,29, e le allusioni implicite in XIV,5 e VI,11. 72 Cf. ibid. XIV,8, e le allusioni implicite in XIII,8; XVI,24; XXI,1; XXVI/1,2.29; XXVII/2,9. 73 Cf. ibid. IV,105. 74 Cf. ibid. XXI,1; XXVI/2,19, e le allusioni implicite in XV,1.29 e XXVIII,52. 75 Cf. ibid. XXIX,5. 76 Cf. ibid. IV,111. 77 Cf. ibid. XXVII/2,22. 78 Cf. ibid. IV,29. 79 Cf. ibid. IV,26. 80 Cf. ibid. VI,20. 81 Cf. ibid. V,5. 82 Cf. ibid. VII,50.54; XXII,6. 71

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un’influenza diretta da parte di Platone83. La divisione tripartita dell’anima umana in páthos, thymós e lógos nel Discorso al pastore84 è un altro esempio dell’uso di proposizioni filosofiche, ma anch’essa potrebbe non essere stata presa direttamente dagli scrittori pagani ma da fonti cristiane, come Gregorio il Teologo ed Evagrio. Ma è soprattutto la Bibbia che Climaco cita più abbondantemente: trovandosi più vicino a Gerusalemme che ad Atene – geograficamente, teologicamente e spiritualmente –, egli considera la Bibbia come la sua fonte fondamentale, e ciò che è tipico del suo modo di scrivere è l’adattamento dei testi biblici, attraverso sia l’aggiunta che l’omissione di alcune parole, in modo da adeguarli a un contesto o concetto particolare85. La fine del gradino XXX, per esempio, può essere facilmente accostata all’inno alla carità di Paolo (1Cor 13). Non si può dire con certezza se Climaco avesse una qualche conoscenza diretta dei teologi del IV secolo, come Basilio Magno (329-379) o Giovanni Crisostomo (ca. 347-407). Gregorio di Nazianzo (329-389), però, è esplicitamente menzionato nella Scala e ha avuto un notevole influsso sul suo autore. Lo si vede chiaramente perfino nei passi che non fanno esplicito riferimento a Gregorio, ma che tradiscono un’evidente conoscenza dei suoi scritti86. Altrove, l’autore fa riferimento a Gregorio semplicemente come al “Teologo”87, o mostra di essere 83

Si confronti Scala VI,26 con Platone, Fedone 67E; 81A. Cf. DP 100,h. 85 Cf. Scala IV,20; XXVI/2,38.44; XXVII/2,13; XXVIII,28. Sul tema cf. M. Van Parys, “L’interpretazione delle Scritture nella ‘Scala’”, in Giovanni Climaco e il Sinai, pp. 135-159. 86 Si confronti Scala XV,83 con Gregorio di Nazianzo, Orazioni 14,6-7; XXVII/1,9 con Orazioni 20,1.3; XXVII/2,34 con Orazioni 40,45; XXVIII,52 con Orazioni 40,36; XV,1 con Orazioni 45,8. 87 Cf. Scala XXVIII,52. 84

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stato direttamente influenzato da qualche sua dottrina, come per esempio per la connessione tra preghiera e respiro, anche se, mentre in Gregorio il significato di tale connessione è puramente metaforico, in Giovanni è sia metaforico che letterale88. Si potrebbe anche affermare con sicurezza che Climaco aveva familiarità con le opere di Gregorio di Nissa (330 ca. -395), che può averlo influenzato in argomenti come la persona umana89, le passioni90, l’impassibilità e la salvezza91, la visione di Dio92, la deificazione93, la morte94, così come riguardo alla relazione tra anima e corpo95. La nozione di epéktasis, tipica del Nisseno, è presupposta in vari passi della Scala96, pur senza la menzione del termine specifico, di cui però si può trovare una traccia nel gradino XXIX sull’impassibilità, nell’espressione epekteinómenos, anche se qui l’autore ha in mente soprattutto Filippesi 3,1397. Climaco è familiare con la tradizione più intellettualista di Origene (185-254) e di Evagrio (345-399), e ci sono perfino tracce particolari di un’influenza da parte di quest’ultimo, sebbene l’autore lo citi solo una volta per criticarlo98. Sarebbe però sbagliato affermare che Climaco

88

Si confronti Scala XXVII/2,26 con Gregorio di Nazianzo, Orazioni 27,4. Si confronti Scala XV,83 con Gregorio di Nissa, L’anima e la risurrezione, PG 46,124C; XV,1 con Id., La creazione dell’uomo 17; 22. 90 Si confronti Scala XXVI/1,41 e XXVI/2,41 con Gregorio di Nissa, La creazione dell’uomo 18. 91 Si confronti Scala XXIX,5 con Gregorio di Nissa, Encomio di sant’Efrem, PG 46,836. 92 Si confronti Scala XXIX,3 e DP 100 con Gregorio di Nissa, Vita di Mosè, passim. 93 Si confronti Scala XXIX,15 con Gregorio di Nissa, Sulle beatitudini 7. 94 Si confronti Scala IV,43 con Gregorio di Nissa, Grande catechesi 35. 95 Si confronti Scala XV,73 e XXVI/1,54 con Gregorio di Nissa, La creazione dell’uomo 12.15. 96 Cf. Scala XXVI/1,37-38 e XXX,18. 97 Cf. ibid. XXIX,2. 98 Cf. ibid. XIV,8. 89

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appartiene alla “scuola” evagriana. La Scala analizza in dettaglio gli otto vizi e parla di alcuni vizi e virtù come “madri” – o corrispondentemente come “figlie” –: ma se quest’analisi rivela delle evidenti somiglianze tra i due autori, esse non sono però dovute a presupposti filosofici o origenisti comuni, ma piuttosto a una comune esperienza fondata sulla tradizione del deserto e sulla disciplina dell’ascesi. La Scala nel suo insieme, infatti, non è suscettibile di una “sistematizzazione”: l’autore prende a prestito da Evagrio idee e vocabolario, ma non una metodologia o un sistema. Si possono cogliere così delle somiglianze nella descrizione delle tentazioni99, nel secondo “alfabeto” delle virtù100, nello sviluppo delle nozioni di “insensibilità” e “impassibilità”, così come nell’accento posto sull’“eliminazione dei pensieri” (apóthesis noemáton)101. Allo stesso modo, la demonologia di Climaco e la sua analisi dei vizi è influenzata dall’opera di Evagrio Gli otto spiriti di malizia, tramandata nel corpus delle opere di Nilo102. Ma Climaco non segue la classificazione evagriana dei vizi – né qualche altro schema sullo stesso argomento – con alcuna precisione. Il Sinaita può concordare con Evagrio nel collegare strettamente impassibilità e carità103, ma lascia completamente da parte la cosmologia e la gnoseologia evagriane: per lui infatti la carità è la virtù principale104, mentre per Evagrio la gnôsis è superiore alla carità. L’influenza di Evagrio su Climaco può dunque essere descritta più adeguatamente come terminologica o, al massimo, come puramente formale; e perfino le affinità 99

Cf. ibid. XV,73. Cf. ibid. XXVI/1,14. Si confronti Scala XXVII/2,17 con Evagrio Pontico, Sulla preghiera 70. 102 Cf. PG 79,1145-1164. 103 Si confronti Scala XXIX,4 con Evagrio Pontico, Trattato pratico 81. 104 Cf. Scala XXX,18. 100 101

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terminologiche sono molto meno marcate che, per esempio, in Massimo il Confessore. L’uso che l’autore fa degli Apoftegmi dei padri del deserto (IV-V secolo) è molto evidente in tutta l’opera, ma soprattutto, per esempio, nel gradino XXIX sull’impassibilità. Il suo discorso sul padre spirituale fa ricorso a detti di abba Antonio105, menzionato anche esplicitamente106, insieme a detti di Paolo il Semplice107 e di Arsenio il Grande108. Altrove, la Scala può essere compresa soltanto facendo riferimento agli Apoftegmi: l’autore, per esempio, chiede come mai tra i tabennesioti non ci fossero altrettanti luminari come tra gli scetioti, ma non dà risposta – e la risposta è fornita dal primo detto di abba Ammonio di Nitria –: “Abba Antonio rispose: È perché amo il Signore più di te!”109. L’intera vita di Climaco, del resto, almeno stando alla descrizione di Daniele, rifletteva in molti modi i detti dei padri del deserto: “Mangiava di tutto ciò che gli era consentito dal suo stato di vita, ma molto poco”110. Se alcune parole di Climaco paiono insensate, come per esempio quelle sulla “prigione” di Alessandria111, esse tuttavia riflettono le stesse peculiarità degli Apoftegmi112 e, in definitiva, la “follia” della croce (cf. 1Cor 1,18). È però chiaro che l’autore era familiare con tutta l’antica tradizione del deserto, che oltre agli Apoftegmi stessi, com-

prendeva altre fonti importanti come la Prima vita greca di Pacomio (ca. 390)113, la Storia lausiaca di Palladio (419-420)114, il Prato spirituale di Giovanni Mosco (615619)115 e la Vita di santa Pelagia116. Climaco fa anche esplicito riferimento a Giovanni Cassiano (ca. 365-ca. 435), che egli chiama “grande”117. Ci sono poi delle affinità – pur non essendo abbastanza forti da permetterci di parlare di influenze dirette – perfino con le Omelie pseudo-macariane (IV-V secolo), soprattutto in riferimento al monismo antropologico dello PseudoMacario, che si esprime nella nozione di cuore come centro della persona umana e nel primato attribuito all’amore. Pur riferendosi in minor misura allo Spirito santo, Climaco sembra opporsi sia a un estremo spiritualismo che a un estremo intellettualismo, raggiungendo così una specie di sintesi tra Evagrio e lo Pseudo-Macario – un tentativo già inaugurato da Marco il Monaco e Diadoco di Fotica. Climaco non cita mai Marco il Monaco (prima metà del V secolo) o Diadoco di Fotica (metà del V secolo) per nome, ma probabilmente era familiare con i loro scritti; la dipendenza da Marco però è più sicura di quella da Diadoco. Dal primo, Climaco attinse la sua analisi della tentazione nel gradino XV118 e alcune espressioni e termini come

113

105

Cf. Apoftegmi, Antonio 37-38. Si confronti anche Scala XVIII,6 con Antonio 1; XV,27 con Antonio 14; XXIX,5 con Antonio 32; XXVII/2,29 con Arsenio 7; XV,76 con Ammonas 7 ed Elia 7; IV,106 con Giovanni il Tebano 1; XXVI/2,25 con Timoteo 1; XV,48 con Apoftegmi Nau 291. 106 Cf. Scala XV,27 e XVIII,6. 107 Cf. ibid. XXIV,13. 108 Cf. ibid. XXVII/2,29. 109 Apoftegmi, Ammonio 1. 110 Vita 4: cf. Apoftegmi, Ammonas 4 e Poemen 31. 111 Cf. Scala V,5-7. 112 Cf. Apoftegmi, Antonio 25; Arsenio 37; Ammonas 9; Apoftegmi Nau 61.

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Si confronti Scala XXVII/2,54 con Vite greche di Pacomio I,6. Si confronti Scala XXIV,13 con Palladio, Storia lausiaca 22, e XXV,40 con Storia lausiaca 37. 115 Si confronti Scala XXVI/1,10 con Giovanni Mosco, Prato 112. 116 Si confronti Scala XV,58 con Vita di santa Pelagia, PL 73,665A-C. 117 Cf. Scala IV,105. Si confronti Scala XXI,1 con Cassiano, Istituzioni XI,1; Scala IV,105 con Id., Conferenze II,10; Scala XIII,10 con Conferenze XVII,6. L’influenza di Cassiano può essere ravvisata anche in Scala II,9; VII,40-42; XXI,30; XXII,1.6.10. Climaco inoltre può essere stato influenzato da una compilazione di Cassiano, Gli otto pensieri malvagi, tradotta in greco e attribuita a Nilo (PG 79,1435-1472). 118 Per i riferimenti cf. le note a Scala XV,73. 114

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pararripismòs noós119 o protónoia120, e anche i paragoni presenti nel gradino XXVI121 denunciano la stessa fonte. Dal secondo, derivò alcuni elementi come la già menzionata riserva nei confronti dei sogni122, la sua comprensione della preghiera mentale senza immagini123, l’invocazione “Signore Gesù” nella preghiera124, la considerazione dell’impassibilità come qualcosa di positivo125, e il concetto di “sensi spirituali”126. Diadoco parla anche del ritiro della grazia di Dio, adottando perfino la stessa metafora della madre e del bambino127. Tuttavia i paralleli con Diadoco, per quanto interessanti, non sono altrettanto convincenti, soprattutto considerando che il più lampante – ovvero l’uso dell’espressione “Signore Gesù” – potrebbe molto probabilmente essere stato preso da Barsanufio128. Lo stile di esegesi biblica di Climaco, il suo modo di citare liberamente e di cambiare le citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento, è probabilmente influenzato da Nilo di Ancira (V secolo). La sua influenza è peraltro evidente in alcuni passi, soprattutto in connessione con argomenti come il peccato129, la relazione erotica tra Dio e l’uomo130, 119

Si confronti Scala XV,73 con Marco il Monaco, A Nicola 7. Cf. Scala XXVI/1,76. Si confronti Scala XXII,6 con Marco il Monaco, La legge spirituale 136, e Scala XXVIII,57 con Id., Su chi si crede giustificato per le opere 139. 121 Si confronti Scala XXVI/3,20 ss. con Marco il Monaco, Su chi si crede giustificato per le opere 73 ss. 122 Si confronti Scala III,35-45 con Diadoco di Fotica, Capitoli 36-38. 123 Si confronti Scala XXVII/2,17 con Diadoco di Fotica, Capitoli 59. Ma questo elemento potrebbe derivare da Evagrio: si confronti Scala XVIII,5 con Evagrio, Sulla preghiera 8; 114-119. 124 Cf. Scala XXVIII,9 e XV,51 con Diadoco di Fotica, Capitoli 31; 59; 61; 85; 88; 97. 125 Cf. ibid. 17. 126 Cf. ibid. 25. 127 Si confronti Scala V,10 e VII,58 con Diadoco di Fotica, Capitoli 86-87. 128 Cf. Barsanufio di Gaza, Lettere 446. 129 Si confronti Scala XXVI/1,41 e XXVI/2,41 con Nilo di Ancira, Lettere II,229. 130 Si confronti Scala VII,1 e XXX,1 con Nilo di Ancira, Lettere III,169. 120

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la morte e la resurrezione131. Nilo parla anche della connessione tra preghiera e respiro, ma in lui, come in Gregorio il Teologo, il significato è metaforico132. Al pari dello Pseudo-Macario, lo Pseudo-Dionigi Aeropagita (ca. 500) non è mai citato per nome nella Scala e non vi si possono individuare influssi particolari. Ci sono però alcuni paralleli – dovuti probabilmente a fonti comuni più che a un influsso diretto – in riferimento ai temi dell’éros e delle passioni133. Non c’è alcuna esplicita trattazione della teologia apofatica, ma essa è alla base del pensiero di Climaco e, in qualche modo, l’intera sua esperienza ascetica può essere descritta come apofatica. La più chiara affermazione apofatica si trova all’inizio del trentesimo gradino sulla carità, dove l’autore rifiuta ogni definizione di Dio, ad eccezione di quella di Dio come amore134. Largamente debitore – come è ovvio – nei confronti della scuola palestinese di Gaza (prima metà del VI sec.), Climaco può essere visto come un consapevole continuatore e un erede diretto di questa scuola di spiritualità. Da essa e, tramite essa, dal deserto egiziano, ereditò la rilevanza e il ruolo “critico” del padre spirituale, come anche l’uso selettivo della terminologia evagriana, mentre la presentazione non sistematica della Scala è tipica soprattutto di abba Doroteo. Ma l’affinità dottrinale di Climaco con Barsanufio, Giovanni il Profeta e il loro discepolo Doroteo può essere colta in modo chiaro nella loro comune interpretazione del paolino “portare gli uni i pesi degli altri”(cf. Gal 6,2)135. Un altro scrittore palestinese, non esplicita131

Si confronti Scala IV,43 con Nilo di Ancira, Lettere II,78. Si confronti Scala XXVII/2,26 con Nilo di Ancira, Lettere I,239. 133 Cf. Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, I nomi divini 4. 134 Cf. Scala XXX,2. 135 Si confronti Scala IV,18 con Barsanufio di Gaza, Lettere 189; 191; 199; 203; 206; 239; 483, e Doroteo, Insegnamenti IV,56-57; VII,79. Si confronti inoltre Scala XV,51.76 con Barsanufio di Gaza, Lettere 39; 126; 255; 268; 446; 659. 132

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mente citato, cui Climaco sembra attingere è poi abba Isaia di Scete († 489): entrambi hanno opinioni simili su ciò che è “secondo natura”136. Ci sono paralleli interessanti tra Climaco e Massimo il Confessore, ma, essendo contemporanei, non c’è alcuna prova di una qualche influenza diretta in nessuna delle due direzioni. Entrambi, tuttavia, parlano del primato della carità e descrivono in modo simile le caratteristiche delle passioni, il peccato, e perfino le due nature di Cristo. Sebbene ogni distinzione netta tra modi diversi di far teologia sia spesso vana, si può affermare che Climaco ha espresso in terminologia ascetica ciò che Massimo ha formulato in teologia dogmatica. Si potrebbe dire che Climaco ha gettato le fondamenta per una nuova scuola spirituale, la “scuola sinaitica”, che comunemente è circoscritta ad Esichio (VII-VIII secolo?) e Filoteo (IX-X secolo?): tale tradizione sinaitica ha chiaramente esercitato un’influenza profonda sugli esicasti del XIV secolo, ma in senso stretto essi non possono essere considerati parte della stessa scuola, perché altrimenti il termine “spiritualità sinaitica” sarebbe fuorviante, non tenendo conto di fondamentali considerazioni geografiche. Comunque Climaco ha certamente rimodellato il passato a lui immediatamente precedente in un modo unico, che ha profondamente influenzato i suoi successori, creando e rinnovando prospettive e perfino coniando una nuova terminologia per la vita spirituale, specialmente in temi come la direzione spirituale, le lacrime, l’amore divino e il silenzio contemplativo. Tuttavia, il cambiamento da una “scuola” di spiritualità, come quella palestinese, ad un’altra, come quella del Sinai, è in ultima istanza inafferrabile per-

A eccezione delle Scritture e dei libri liturgici della chiesa, nessun altro scritto nel cristianesimo orientale è stato studiato, copiato e tradotto come la Scala di Giovanni Climaco. La Scala è un testo che ha enormemente influenzato e plasmato non solo il mondo ortodosso orientale – e specialmente la sua tradizione monastica –, ma l’intero ecumene cristiano. La venerazione per il suo autore è evidente dall’inusuale preminenza di cui gode all’interno dell’anno liturgico della chiesa ortodossa. Oltre alla memoria annuale del 30 marzo, nel calendario delle feste fisse, a lui è dedicata anche la quarta domenica di quaresima, insieme alla maggior parte dei testi liturgici di quel giorno. Questo fatto lo indica come l’autore ascetico per eccellenza, i cui scritti sono un punto di riferimento e un modello per l’intera chiesa. Ancora oggi, ogni anno durante la quaresima, è previsto che la Scala sia letta a voce alta in chiesa o in refettorio, come anche privatamente nelle celle dei monasteri ortodossi137. Le origini di questa pratica non possono essere rintracciate con precisione, ma non c’è dubbio che essa sia

136 Si confronti Scala XXVI/1,41 con Abba Isaia, Discorsi ascetici 2,1-2, e anche Scala XXV,22 con Discorsi ascetici 8,7.

137 Cf. Τριδιον Κατανυκτικν, a cura di M. I. Saliveros, Athinai s. d., pp. 75 e 78.

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ché quel che di fatto è in gioco è l’appropriazione delle sorgenti più profonde della vita spirituale. In definitiva, per quanto possa essere fuorviante far riferimento a una “scuola” sinaitica come tale, tuttavia la Scala è indubbiamente responsabile per aver dato forma a una nuova sintesi, che ha raccolto l’eredità egiziana, caratteristica dell’ambiente sinaita, e influenzato a sua volta la posterità bizantina.

1. 5. Popolarità e influenza

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iniziata quando l’autore era ancora vivente. Dopo tutto, l’igumeno Giovanni di Raito richiese la Scala proprio per il beneficio spirituale dei monaci del suo monastero, e non sarebbe difficile immaginare i monaci di Raito intenti ad ascoltare la lettura della Scala durante i pasti di quaresima. Come abbiamo già sottolineato sopra, il testo è destinato ai cenobiti: molti monaci anziani, perciò, l’avranno ascoltato o letto forse almeno cinquanta o sessanta volte nella loro vita. Bisogna tuttavia riconoscere la popolarità che la Scala ha avuto, nel corso dei secoli, anche tra i laici: fino a oggi, infatti, essa si è dimostrata la lettura preferita di un numero incalcolabile di ortodossi in Grecia, Bulgaria, Serbia, Russia, e altrove. Il suggestivo simbolo della scala che dà unità all’intero libro, la combinazione da parte dell’autore di sapienza monastica e di un fresco senso dello humour, la sua capacità di riunire così tanti temi in uno solo, la sua sintesi allo stesso tempo tradizionale e originale, e soprattutto l’ineguagliabile profondità del suo intuito spirituale: sono questi almeno alcuni aspetti della Scala che devono aver attirato l’attenzione e l’immaginazione di innumerevoli lettori nel corso degli anni. Non esiste un equivalente della Scala in occidente, ma la sua popolarità può essere paragonata a quella dell’Imitazione di Cristo, anche se i due libri sono di carattere molto diverso. La vasta diffusione del libro è attestata anche dal gran numero di manoscritti giunti fino a noi, spesso elegantemente e finemente illustrati, che contengono anche dei commenti, come quelli riprodotti nell’edizione di Rader ristampata da Migne (in PG 88)138. Il monastero di Santa 138 Un buon elenco dei manoscritti esistenti della Scala si può trovare in D. Bogdanovic´, Jean Climaque, pp. 25-27; cf. anche A. Rigo, “Giovanni Climaco a Bisanzio”, in Giovanni Climaco e il Sinai, pp. 198-202. Sui manoscritti illustrati della Scala cf. poi J. R. Martin, The Illustration of the Heavenly Ladder of John Climacus, Princeton University Press, Princeton 1954.

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Caterina al Sinai, di cui Climaco stesso fu igumeno per un certo tempo, possiede almeno quindici manoscritti della Scala, uno dei quali risale al IX secolo (Sinai gr. 421). Inoltre, anche molti monasteri del monte Athos posseggono diversi manoscritti di quest’opera, alcuni dei quali riccamente decorati. L’influsso esercitato da Giovanni Climaco sugli autori spirituali posteriori è stato ad un tempo ampio e impressionante. Sullo stesso monte Sinai, il suo insegnamento riguardo alla preghiera e all’esichia fu sviluppato da Esichio – che fa delle allusioni alla “preghiera di Gesù” disseminate qua e là da Climaco il proprio tema dominante – e più tardi da Filoteo. Anastasio (ca. 700), un altro sinaita, e Teodoro Studita (759-826) furono ugualmente influenzati da Climaco. Nonostante la Scala, sorprendentemente, non sia mai citata nella vasta antologia di scritti, storie e detti intitolata Synagoghé dal suo compilatore Paolo Everghetinos (XI secolo), essa fu certamente letta e apprezzata da Simeone il Nuovo Teologo, e probabilmente anche dal suo discepolo e biografo, Niceta Stethatos. Simeone fu soprattutto ispirato dal gradino XIII, “sull’acedia”, ma l’influsso della Scala è particolarmente evidente nel suo insegnamento sul dono delle lacrime e sul ruolo del padre spirituale. La Scala è citata solo due volte nelle sue Catechesi139, ma sappiamo che Simeone fa difficilmente riferimento esplicito ad altri scrittori. Pietro Damasceno (XII secolo) cita Climaco almeno tredici volte, e gli esicasti del XIV secolo chiaramente attingono alla Scala in modo massiccio. Ci sono tredici citazioni della Scala in Gregorio Sinaita – assai più di ogni altro autore – e Gregorio colloca il nome di Climaco al primo

139

Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 4; 30.

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posto nella sua lista di scrittori adatti per la lettura monastica140. Nelle Triadi in difesa dei santi esicasti di Gregorio Palamas, la Scala è citata venticinque volte e, anche se in quest’opera Palamas generalmente non cita l’autore della Scala per nome, negli altri suoi scritti Climaco viene citato almeno altrettante volte e spesso anche per nome. Callisto e Ignazio Xanthopouloi citano la Scala più di trenta volte nella loro Centuria. Questi scrittori del XIV secolo fanno riferimento soprattutto al gradino XXVII sull’esichia, alle affermazioni di Climaco sull’invocazione del nome di Gesù, e sul gradino XXVIII sulla preghiera. Ma l’influsso di Climaco non è affatto trascurabile neanche in occidente141, dove la Scala ha goduto di popolarità all’interno di vari ordini monastici, e specialmente tra i francescani, i benedettini, i cistercensi e i certosini, che scrissero numerosi commenti su di essa, e in misura minore tra i gesuiti. In Francia, i giansenisti ebbero una particolare predilezione per Climaco, come per un certo numero di altri autori ascetici. I commenti e le raccolte di scholia alla Scala sono numerosi. Tre in particolare vanno qui menzionati, due orientali e uno occidentale. Elia, metropolita di Creta tra gli anni 1120 e 1130, fu il primo a scrivere un commento in forma sistematica, ed esistono molti manoscritti della sua opera142. Un altro commento fu scritto in oriente da Niceforo Callisto Xanthopoulos († 1333)143, e in occidente da Dionigi il Certosino, nel XV secolo144. 140

Cf. Gregorio Sinaita, L’esichia 11. Sul tema, cf. M. Cortesi, “La ricezione della ‘Scala’ in occidente”, in Giovanni Climaco e il Sinai, pp. 279-300. 142 Da tale commento derivano parte degli Scholia pubblicati in PG 88,643-1210. 143 Cf. Exegesis. 144 Cf. Dionigi il Certosino, Expositio librorum Iohannis Climaci, in Doctoris ecstatici D. Dionysii Cartusiani, Opera omnia in unum corpus digesta XXVIII, Brépols, Tournai 1905. 141

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Prima della fine del VII secolo – dunque subito dopo la morte di Climaco – la Scala fu tradotta in siriaco. Uno dei manoscritti più antichi, infatti, è un codice siriaco del British Museum (Add. Ms. 14593), scritto a Edessa e recante la data dell’anno 817145; e numerosi altri manoscritti esistevano all’interno dei circoli melchiti nel IX secolo. Il libro di Climaco fu anche tradotto in altre lingue orientali: in arabo e georgiano, prima del X secolo, e in rumeno, nei primi anni del XVII secolo. Le traduzioni russe, serbe e bulgare videro la luce come un risultato dell’influenza slava nel mondo ortodosso146. Il suo influsso sul rinnovamento monastico del XV secolo può essere ravvisato su figure significative come il capofila dei “non-possidenti”, Nil Sorskij, o anche quello dei “possidenti”, Iosif di Volokolamsk147. Il sovrano serbo Giorgio Brankovic´ commissionò una nuova traduzione dell’opera di Climaco; e nella corrispondenza dello zar Ivan IV, detto “il Terribile”, la Scala è il libro più spesso citato accanto alla Bibbia.

2. Alcuni temi spirituali della “Scala” 2. 1. La direzione spirituale Per il Sinaita, l’obbedienza è così importante, che egli le dedica il secondo capitolo più lungo della sua Scala, il 145 Cf. W. Wright, Catalogue of Syriac Manuscripts in the British Museum Acquired Since the Year 1838 II, Trustees of British Museum, London 1870, pp. 590 ss. 146 Cf. M. Heppell, “Some Slavonic Manuscripts of the ‘Scala Paradisi’”, in Byzantinoslavica 18,2 (1957), pp. 233-270, e A. E. Tachiaos, “Note sull’irradiamento della ‘Scala’ nel mondo slavo”, in Giovanni Climaco e il Sinai, pp. 207-239. 147 Cf. J. Meyendorff, Byzantium and the Rise of Russia, Cambridge University Press, Cambridge 1981, in particolare pp. 124, 131, 239, 260.

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IV gradino. Egli non parla dell’obbedienza in termini di conformità a delle regole – siano esse ordini o divieti –; ma, anche se i monaci pacomiani avevano delle regole scritte, Climaco non fa mai menzione della parola “regola” in questo senso. Egli parla piuttosto dell’obbedienza come di un rapporto profondamente intimo con una persona determinata, ossia con il proprio padre spirituale, grazie al quale non si rimane schiavi del proprio io. In questo come in altri aspetti, Giovanni Climaco non fa che seguire la tradizione monastica, specialmente nel modo in cui è delineata dai padri del deserto egiziano nel IV secolo e dagli “anziani” Barsanufio e Giovanni di Gaza nei primi anni del VI secolo. L’insegnamento sull’obbedienza a una persona specifica è presente nella tradizione monastica fin dagli inizi: la prima cosa che allo stesso Pacomio fu detto di fare, è trovare un ghéron, ovvero un padre spirituale148. Alcuni autori monastici chiamano il padre spirituale “ginnasta” (gymnastés) o “allenatore” (paidotríbes). Altri preferiscono usare parole come “igumeno” (hegoúmenos), “guida” (hodegós), “pastore” (poimén), o altri termini pastorali simili. Nella Scala il padre spirituale è paragonato a Mosè, che guidò gli ebrei fuori dall’Egitto: “Anche noi infatti abbiamo bisogno di un qualche Mosè … che stando in piedi, a metà tra azione e contemplazione, tenda le mani verso Dio in nostro favore” e ci guidi alla terra promessa della libertà149. Un certo numero di metafore ricorrenti sono usate per esprimere l’idea della guida: una guida per il cieco (cf. Gb 29,15), un pastore per il gregge, un accompagnatore per

lo smarrito, un padre e una madre (cf. 1Ts 2,7) per il bambino, un infermiere per il bisognoso, un amico per il disperato, e un pilota per la nave150, anche quando la nave è in pericolo151: “Ma mi meraviglierei se qualcuno riuscisse da solo a mettere in salvo la propria barca dai flutti del mare!”152. Parlando della direzione spirituale, Climaco preferisce però le immagini “terapeutiche”: “L’abilità dell’esperto e del medico di cui abbiamo bisogno, infatti, deve essere proporzionata al grado di cancrena delle nostre piaghe”153. Il padre spirituale è un medico esperto che sa, per esempio, come estrarre le schegge senza ingrandire la ferita. Il peccato è equivalente a una malattia o a un’infermità, e quindi dobbiamo entrare nell’“ospedale della confessione” dove il padre spirituale ci risana interiormente prescrivendoci dei medicamenti, fasciandoci le ferite, applicandovi il cauterio, e perfino praticando amputazioni, se necessario. La fiducia nel giudizio del padre spirituale dovrebbe essere pari alla fiducia che si ripone nella diagnosi di un medico, che può curarci solo se gli mostriamo le nostre piaghe: i monaci del cenobio visitato da Climaco ad Alessandria, prendevano nota di ogni loro peccato o pensiero cattivo su una tavoletta che poi mostravano al loro ghéron154. Come una persona che ha ricevuto sapienza dall’alto, il padre spirituale è soprattutto un “maestro” (didáskalos). Egli non ha bisogno di altri libri se non di quell’unico che ha ricevuto attraverso la propria esperienza personale, scritto “dal dito di Dio”155. Il maestro non dovrebbe es150 151 152 153

148 149

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Cf. Vite greche di Pacomio I,6; cf. anche Apoftegmi, Isaia 2. Cf. Scala I,14; DP 93.100.

154 155

Per tutte queste immagini, cf. Scala IV,69. Cf. ibid. XXVI/3,44; DP 3. Scala XV,56. Ibid. I,15. Cf. ibid. IV, 32; e anche IV,13.70. Cf. DP 5-6.20. Il parallelo qui è con le tavole date a Mosè sul Sinai.

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sere soltanto adorno delle virtù dell’innocenza (akakía) e dello zelo (spoudé) ma dovrebbe essere, innanzitutto, rigoroso ed esigente: “Anche questo infatti è segno di un buon pastore”, il quale si preoccupa che l’ultimo Giudizio non si riveli troppo severo per il proprio gregge156. Il pastore ha cura di tutte le sue pecore in ogni momento: egli deve essere onorato e ricordato per le sue capacità spirituali e per la sua cura pastorale, ma non deve essere giudicato o criticato157. Tutti i suoi consigli dovrebbero essere accolti con gioia158, anche quando non sono immediatamente di nostro gradimento, poiché egli vuole metterci alla prova e tenerci continuamente “in allenamento”159. Davanti al proprio padre spirituale, il discepolo sta in silenzio160: non deve soltanto appropriarsi del suo insegnamento (cf. Mt 3,9), ma imitare l’insegnante161. Se, prima di affidarsi nelle sue mani, il monaco non conosce il “medico”, può testarlo per essere sicuro che sia esperto nel guarire e capace di curare le ferite dei pazienti162. Se invece conosce il proprio padre spirituale, non dovrebbe tentare di approfittare del suo “carattere arrendevole e conciliante”163. Il padre spirituale ha una funzione vicaria perché rappresenta non solo il proprio figlio davanti a Dio, ma anche Dio davanti al proprio figlio: il suo desiderio per la nostra salvezza corrisponde alla volontà stessa di Cristo164. Rappresentando così il padre spirituale come un’icona vivente del Dio vivente, la teologia ascetica considera 156 157 158 159 160 161 162 163 164

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Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf.

ibid. 7. Scala IV,9.12-14; XXV,49. ibid. IV,16-17.26.111. ibid. IV,23-24.29.124. ibid. IV,74. ibid. IV,77. ibid. IV,91. ibid. IV,107.122-123. ibid. IV,106, dove si cita Apoftegmi, Giovanni di Tebe 1.

l’obbedienza nei suoi confronti come rivolta a Dio stesso. Il padre spirituale deve essere un servo di Dio, che è il nostro unico vero padre. Come afferma la Scrittura: “Non chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo!” (Mt 23,9). Il padre spirituale, quindi, non fa altro che comunicare la parola di Dio ai figli e alle figlie di Dio, e per Climaco ciò rimane valido anche se il padre spirituale non è una persona particolarmente “spirituale”. Dio infatti può parlare attraverso chiunque gli piaccia, anche se gli interpellati sono tutt’altro che uomini spirituali: Dio infatti non è ingiusto da ingannare le anime che con fede e semplicità si sottomettono umilmente ai consigli e ai giudizi del loro prossimo; infatti, se anche gli interpellati fossero delle bestie senza ragione, colui che parla è sempre l’Immateriale e l’Invisibile165!

L’obbedienza, tuttavia, non è cieca nel senso che è priva di scopo o frutto di un giudizio erroneo. Furono il rischio della fede e la trasparenza dell’amore a condurre Abramo, “che non sapeva dove andava” (cf. Eb 11,8), a offrire il proprio figlio in sacrificio, perché Dio glielo aveva chiesto! Furono lo stesso rischio e la stessa trasparenza e fiducia nel proprio padre a spingere Isacco a collaborare al proprio stesso sacrificio, portando perfino la legna necessaria ad accendere il fuoco! C’è un elemento “protettivo” in questo rapporto: siamo “coperti” da una grazia che ci difende dalle insidie. Il padre spirituale, infatti, è presente perfino nella sua assenza; ci protegge anche quando non è accanto a noi166. E noi 165 166

Cf. Scala XXVI/2,2. Cf. ibid. IV,44.48.52; XV,63.

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ci consegniamo a lui nel pensiero, o piuttosto nella fiducia, così come ci affidiamo a Dio. La salvezza dipende da questo. Perciò, in un certo senso e in modo del tutto paradossale, diventa preferibile peccare contro Dio piuttosto che contro il proprio padre spirituale:

carico soltanto dei peccati del passato, o di quelli del presente. Egli solleva dai pesi e li porta come propri. Ciò è illustrato in modo suggestivo dal seguente aneddoto: L’anziano lesse, sorrise, e facendo rialzare il fratello, gli disse: “Figlio, metti la tua mano sul mio collo”. E appena il fratello ebbe fatto ciò, quel grande anziano gli disse: “Questo peccato sia sul mio collo, fratello, per tutti gli anni che ti ha tormentato e ancora ti tormenterà; tu cerca soltanto di non dartene più pensiero!”171.

se infatti Dio si adira con noi, il nostro maestro ha il potere di riconciliarci con lui. Se invece è il nostro maestro ad adirarsi, non abbiamo più nessuno che possa intercedere per noi. Ritengo però che i due casi si riducano a uno167.

Infine, in un passo unico e suggestivo, Climaco descrive la guida spirituale come anádochos – che è il termine usato per il “garante” o “padrino” del battesimo, e che significa “colui che si assume la responsabilità di un altro”168. La fonte di questa dottrina è paolina: “Noi che siamo forti dobbiamo portare le infermità dei deboli”(Rm 15,1). Barsanufio scrive a un discepolo: “Mi faccio carico di te e ti sostengo, ma a questa condizione: che tu sostenga l’osservanza delle mie parole e dei miei comandi”169. Il padre spirituale non fa altro che assumersi la completa responsabilità delle anime degli altri; scrive l’autore della Scala: “C’è dunque un’assunzione di responsabilità (anadoché) nel pieno senso del termine, che significa offrire totalmente la propria anima per l’anima del prossimo”170. Una tale anadoché, come Barsanufio e Climaco suggeriscono, può essere completa (katà pánta) ma può anche essere parziale: il padre spirituale può scegliere di farsi

167 168 169 170

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Ibid. IV,126. Cf. ibid. IV,104, e anche DP 45.56.59. Barsanufio di Gaza, Lettere 270. DP 57.

Questo gesto potrebbe alludere a una prassi rituale della penitenza presente nella chiesa antica, di cui oggi rimane una traccia nell’atto del presbitero che poggia la mano sul collo del penitente, durante la confessione nel rito bizantino; il gesto implica amore e solidarietà con l’umanità, perché l’anziano si fa carico delle sofferenze degli altri, e così “porta la croce” (cf. Lc 14,27) di Cristo. Del resto, il padre spirituale preferirebbe la sua stessa dannazione a quella dei suoi discepoli. Anche se Climaco non sviluppa questo argomento, esso è certamente implicito nella Scala e lo si può trovare formulato in modo esplicito sia nella tradizione patristica precedente che in quella posteriore. La fonte biblica è la supplica che Mosè rivolge a Dio in favore del suo popolo: “Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro! Ma ora se tu perdonassi il loro peccato … Se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!” (Es 32,31-32). Facendo eco a questo sentimento, Barsanufio prega Dio: “Signore, o mi accogli nel tuo Regno con i miei figli, oppure cancella anche me dal tuo libro!”172. 171 172

Scala XXIII,14. Barsanufio di Gaza, Lettere 187.

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2. 2. “CharmolØpe”: lacrime e gioia Le lacrime hanno un ruolo centrale in tutta la storia e la letteratura ascetica, ma il più originale contributo di Climaco alla teologia delle lacrime è nel modo in cui egli identifica il dolore del pénthos173 con la gioia. I termini tecnici che egli adopera per descrivere lo stato di gioiosa tristezza – charopoiòn pénthos e charmolØpe – si trovano per la prima volta nei suoi scritti, mentre il “gradino” dedicato a questo tema (il VII) è stata la sezione della Scala che ha esercitato il maggior influsso174. Per Climaco l’amarezza delle lacrime viene addolcita mediante la penitenza: le lacrime di timore fioriscono in lacrime d’amore175. L’abito del monaco non è più un abito funebre, ma un “abito di nozze”, un segno di gioia spirituale piuttosto che di dolore, poiché Dio ci ha creati per la gioia e non per il dolore176. “Colui che vive nella continua afflizione secondo Dio, non cessa di essere in festa ogni giorno!”177. Ogni giorno diventa una festa, nella misura in cui il monaco si affligge della sua condizione di peccato; allo stesso tempo, però, l’afflizione segna un passo in avanti – o indietro – verso la condizione originaria, “non decaduta”, e questo diventa fonte di gioia. Nella tristezza, c’è un’attesa: aspettiamo la visita della grazia di Dio. La tristezza è imbevuta di speranza escatologica, che si può gustare fin da ora.

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174

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Per questo termine, cf. infra “Glossario”, s.v. “Afflizione”. Come la sezione sulla “prigione” nel V gradino (cf. Scala V,5) si è dimostrata la più “spaventosa” per i lettori, così – a parte i riferimenti alla “preghiera di Gesù” – il VII gradino è quello che ha esercitato il maggior influsso in senso positivo. 175 Cf. Scala VII,28, e anche VII,54.67. 176 Cf. ibid. VII,24.41.45.46. 177 Ibid. VII,38.

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Il pénthos porta con sé un elemento di “bellezza”. Climaco conia un altro termine a questo riguardo: kallípenthos178. L’umanità è da compiangere per aver perduto questa “armonia” di gioia e tristezza, l’intreccio tra lacrime e gioia presente nella bellezza del pénthos, che Climaco indica con un’altra espressione pregnante: kállos pénthous179. Il concetto caratterizza l’approccio dialettico di Climaco: egli ritiene che distruggere quest’armonia in tensione sia rimanere imprigionati nel pénthos, senza poter fare nient’altro che “sospirare”180. La vera vita di penitenza è un equilibrio di perdizione e di risurrezione181, di morte e di vita, di disperazione e di speranza nella “riconciliazione con il Signore”182, e di dolore che deriva dal desiderio di Dio183. Ploutotapeínosis184 – un altro termine che l’autore ha coniato, per descrivere “la ricchezza dell’umiltà” – descrive efficacemente la “gioiosa tristezza”, il pianto che si mescola – e quasi s’identifica – alla gioia185. È l’esperienza simultanea del Getsemani e del Tabor, del venerdì santo e della domenica di Pasqua: “Moribondi ed ecco viviamo ... addolorati, ma sempre lieti” (2Cor 6,9-10). La co-inerenza di gioia e di tristezza riflette ancora la beatitudine di Cristo: “Beati gli afflitti, perché saranno consolati” (Mt 5,4), come pure la sua ascensione, quando fu separato dai suoi discepoli ma promise di rimanere sempre con loro (cf. Mt 28,20; Gv 14,12). Colui che piange è come un bambino, “che è pieno di gioia e di tristezza allo stesso tempo: di gioia per-

180 181 182 183 184 185

Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf.

ibid. ibid. ibid. ibid. ibid. ibid. ibid. ibid.

VII,39. VII,28. VII,39. V,5,n e V,30. V,2. V,5,v. V,9. VII,61.

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ché vede colui che desidera, e di tristezza per essere stato privato per tanto tempo della sua piacevole bellezza”186. Climaco è capace di condensare l’intero insegnamento patristico sulle lacrime nella sua dottrina della charmolØpe. Anche altri scrittori hanno fatto allusione a questo concetto di “gioiosa tristezza”187, ma egli lo sviluppa in modo esplicito per la prima volta, sia coniando il termine, sia traendo le proprie conclusioni ascetiche dalla beatitudine di Cristo, secondo la quale la “consolazione” beatifica è anticipata escatologicamente qui e ora. L’esperienza del “fiore della santa carità” e la trasformazione delle “lacrime dolorose” in “lacrime di gioia” avviene “miracolosamente”188: è un dono che viene dall’alto. La gioiosa tristezza è soprannaturale, un dono gratuito di Dio, che non ha origine dalle passioni dell’uomo. La gioiosa tristezza è sorprendente per lo stesso Climaco: “Se considero la natura stessa della compunzione, sono stupito al vedere come quella che chiamiamo afflizione e tristezza contenga in sé, come miele nel favo, gioia e letizia”189. C’è un ottimismo soggiacente in Climaco, che consiste nella sua convinzione che la natura umana è stata creata da Dio per la gioia e non per la tristezza, per il riso e non per le lacrime: “Rallegratevi nel Signore sempre; ve lo ripeto: rallegratevi!” (Fil 4,4). Nel settimo gradino l’autore dice: “Dio, miei cari, non ha bisogno, né vuole, che l’uomo si affligga per il dolore del cuore, ma vuole piuttosto che gioisca per amor suo nel sorriso dell’anima”190.

Ma il riso “mondano” sta al riso spirituale come l’ebbrezza che deriva da bevande alcoliche sta all’ebbrezza spirituale191. L’autore afferma che la sola “persona” di fronte a cui si può ridere è il diavolo192. La gioia spirituale193 è una katástasis (letteralmente, uno “stato”) ripiena di amore, una condizione che esclude qualsiasi “tenebra oscura dell’anima”, e una gioia libera da ogni tristezza: “Togli il peccato, e le lacrime di dolore sugli occhi del tuo corpo saranno superflue: dove non c’è piaga, infatti, non c’è alcun bisogno del rasoio!”194. C’è una gioia nell’arrivare e una gioia nell’essere in cammino, ma la gioia è completa soltanto in patria, cioè in paradiso. C’è un legame tra gioia (chará) e grazia (cháris), parole che condividono la stessa radice sia dal punto di vista etimologico che teologico. Come spesso in Climaco, il suo discorso sul dono delle lacrime è una testimonianza, non un trattato; è forse un’omelia, ma non un discorso dottrinale con uno schema fisso di assiomi e di regole. L’autore comunque dimostra una capacità straordinaria nel penetrare a fondo questo “misterioso paese delle lacrime”195, i vari tipi di pianto, e il loro ruolo e significato per la vita spirituale. 2. 3. “E´ros” divino Ci sono molti modi di descrivere la vita spirituale, lo scopo e la lotta di un asceta: l’impassibilità è uno di questi; la “passione”, paradossalmente, è un altro. Climaco si compiace di usare le immagini dell’amore erotico e del

186

Ibid. VII,57. Per esempio, il volto di Antonio è gioioso, anche se lacrima sempre: cf. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio 67. Per gli altri riferimenti, cf. la n. 5 a Scala VII,11. 188 Cf. Scala VII,53-54. 189 Ibid. VII,50. 190 Ibid. VII,45. 187

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191 192 193 194 195

Cf. ibid. VII,16-17. Cf. ibid. XIV,10. Cf. ibid. VII,41. Ibid. VII,46. Cf. A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, c. 7.

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fuoco196. Le due immagini sono strettamente legate: “L’amore”, ci dice, “è una sorgente di fuoco”. Egli parla di un amore che ha sperimentato lui per primo: “Ora hai ferito la mia anima e non riesco a contenere la tua fiamma; perciò continuerò a cantare le tue lodi!”197. È dunque giusto che Climaco parli anche di éros nei termini dell’unione sessuale (synousía)198, perché nell’amore c’è una specie di santa passione e follia (makaría manía)199. Acquistare la virtù non è una pura “aggiunta” alla persona umana: è un atto integrale, che fa tutt’uno con essa, come in un vincolo matrimoniale200. Il fuoco è, per Climaco, l’immagine più adeguata per esprimere l’amore passionale dell’uomo per Dio: essa suggerisce sia l’ardore di quest’amore che la luce che esso è in grado di imprimere alla vita, il desiderio bruciante che reca in sé e la sua natura insaziabile, il suo effetto cauterizzante e distruttivo sulle passioni umane e la capacità che ha di provarci come l’argento e l’oro nel fuoco, come anche la rapidità con cui può manifestarsi ed estinguersi. La “sete” (dípsa) e il “desiderio ardente” (póthos) suscitati dal nostro amore per Dio ci “bruciano” e ci “consumano” continuamente201. Climaco utilizza immagini prese dalla vita quotidiana e le applica alla spiritualità ascetica: egli vuole che nella ricerca delle virtù ci comportiamo come mariti gelosi nei confronti delle loro mogli, e ci dice anche che l’amore di Dio è di gran lunga più grande e più intenso di quello che 196 Sull’éros divino in Climaco, cf. J. Chryssavgis, “The Notion of ‘Divine Eros’ in the Ladder of St. John Climacus”, in St. Vladimir’s Theological Quarterly 29 (1985), pp. 191-200, e Ch. Yannaras, “Éros divin et éros humain selon saint Jean Climaque”, in Contacts 21 (1969), pp. 190-204. 197 Scala XXX,1.18. 198 Cf. ibid. XXVIII,1. 199 Cf. ibid. XXX,1. 200 Cf. ibid. XXV,10.22. 201 Ibid. XXX,9 e specialmente XXVII/2,2.

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una madre nutre per il proprio bambino, che pure è carne della sua carne202. Per questo egli non può che utilizzare l’immaginario erotico. L’éros per lui non è una pura icona, un simbolo o una figura retorica. È prima di tutto un’energia, una modalità di esistenza, un prototipo e un esempio: Il modo in cui temiamo le autorità e le fiere, lo si prenda come esempio di timore del Signore; e l’amore carnale sia modello del tuo desiderio di Dio. Nulla ci impedisce infatti di trarre (poieîsthai hemâs) modelli di virtù dai loro contrari (enantíon)203.

L’espressione poieîsthai hemâs mostra che l’amore carnale non è buono in se stesso ma deve essere reso buono, come vedremo; la parola enantíon, inoltre, mostra chiaramente che, per Climaco, tra amore carnale e amore divino c’è un contrasto così come c’è un’analogia. Pur con questa limitazione, la Scala adopera il linguaggio esuberante e pieno di vita degli innamorati: “Beato chi prova per Dio un desiderio così grande quanto quello che un folle innamorato prova per la propria amata!”204. L’éros umano, compreso quello fisico e corporeo, non esclude, anzi addirittura include una qualche scintilla divina. Climaco apprezza persone che altri cristiani – con zelo, ma in modo del tutto insensato – condannano, per il loro amore “mondano”, e dice di loro: “Avendo tratto dall’esperienza di quell’amore passionale occasione di penitenza, trasferirono lo stesso amore passionale sul Signore, e … si sentirono insaziabilmente spronate all’amore di Dio”205. 202 203 204 205

Cf. ibid. XXX,5.11. Ibid. XXVI/1,31. Ibid. XXX,5. Ibid. V,6.

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L’amore “mondano” può essere facilmente riorientato (metaphéro) verso Dio, e la ferma convinzione di Climaco è che “è possibile e facile, per chi lo vuole, innestare un oleastro su un olivo buono!”206. Proprio perché la prostituta del racconto evangelico aveva “molto amato” (Lc 7,37-48), l’autore afferma che “aveva potuto facilmente scacciare l’amore con l’amore”207. Chi non ama e non è consumato dal desiderio, avrà un fervore minore nella sua ricerca di Dio. Climaco sa che una singola esperienza di éros vissuta in tutta la sua intensità può far avanzare molto di più una persona nella sua vita spirituale, e può essere molto più efficace della più ardua lotta contro le passioni e della più severa disciplina ascetica. Del resto, è soltanto questo amore erotico per l’amata persona del Cristo che può spiegare le altrimenti inspiegabili e apparentemente insensate, o perfino eccentriche, imprese ascetiche208. Le virtù stesse sono descritte oltre che come donne, imparentate l’una con l’altra, anche come qualità degli amanti209. Esse seducono l’uomo in cammino verso il proprio Amore definitivo: sarebbe perciò sbagliato attaccarvisi come se fossero fine a se stesse. Tra le virtù che, come le passioni, in greco sono di genere femminile, Climaco sottolinea l’importanza della “memoria di Dio”: la parola “memoria” (mnéme) ha la stessa radice della parola “fidanzata” (mnesté). Nell’esperienza del deserto, dunque, bisogna ricordarsi di Dio come l’innamorato si ricorda della sua promessa sposa. Allo stesso tempo, l’éros, con la propria carica di desiderio passionale, getta luce sulla nozione di “passioni pec-

206 207 208 209

50

Ibid. XV,66. Ibid V,6. Cf. ibid. XXVI/3,8 e V,5 passim. Cf. DP 100,h.

caminose”: esse non devono essere soppresse o cancellate, ma convertite, plasmate, educate, e orientate nella loro giusta e naturale direzione. Nel contesto monastico, le passioni sono affrontate diversamente: sono superate attraverso la conquista di “passioni divine” più grandi. Il monaco orienta ogni sua passione verso Dio gettando tutti i suoi amorosi sforzi ai piedi del suo Signore: Ho visto alcuni praticare l’esichia saziando insaziabilmente la loro ardente brama (epithymía) di Dio, e generando con il loro fuoco altro fuoco, con il loro amore altro amore (éros), e con il loro ardente desiderio altro desiderio210.

È proprio in questo contesto erotico – intendendo l’éros come una “completa e continua unione con Dio” – che si può comprendere correttamente l’impassibilità211: il monaco che ha raggiunto l’impassibilità desidera continuamente contemplare il volto di Dio, e quasi non riesce più a sopportare l’intensità del proprio desiderio di Dio. Del resto, per Climaco, la relazione erotica tra Dio e l’umanità è l’essenza stessa della preghiera: “La preghiera, nella sua essenza, è intimità (synousía) e unione (énosis) dell’uomo con Dio”212. Nel greco le allusioni erotiche sono esplicite: il pensiero ascetico di Climaco raggiunge qui la profondità della poesia mistica. Dice il monaco: “Cosa c’è per me in cielo? Niente. Accanto a te, cosa ho voluto sulla terra? (Sal 72,25) Niente, se non stare sempre unito a te nella preghiera senza distrazioni”213.

210 211 212 213

Scala XXVII/1,14. Cf. ibid. XXIX,14. Ibid. XXV,27 e XXVIII,1. Ibid. XXVIII,28.

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Come il fuoco che, “quanto più erompe, tanto più infiamma l’assetato”214, il desiderio del monaco non ha limiti: “Non si sazieranno mai di lodare il loro Creatore ... non cesseranno mai di progredire nella carità ... prima di esser diventati angeli”215. Ciò può essere compreso soltanto nel senso escatologico (cf. Mt 22,30; Lc 20,36) di un amore continuo e senza limiti: non si tratta di una versione superficiale di “angelismo”, ma di una follia che si spinge fino all’estremo. Essendo frutto della grazia divina, l’éros suscita un’attitudine di attesa impaziente, di invocazione dello Spirito santo, di preghiera e di implorazione. Ed è ciò che l’autore esprime con una domanda retorica: “Cosa c’è infatti di più buono e di più sublime dello stare uniti al Signore e del perseverare (proskartereîn) incessantemente in questa unione con lui?”216. La parola proskartereîn denota qui un’ardente attesa, un desiderio impaziente della grazia di Dio. E se a volte la grazia divina sembra abbandonarci (cf. Gv 16,5-7), lo fa per suscitare in noi lo spirito di umiltà217, o per ferirci il cuore con il pénthos. Perciò, occorre perseverare, nelle lacrime e nel dolore (cf. 2Cor 7,7), “cercando sempre smaniosamente ... e inseguendo” Dio218. Non si è mai tranquilli nel proprio desiderio di Dio! L’éros “non arresta mai la sua corsa, e quando ferisce qualcuno non permette che abbia riposo dalla sua beata follia!”219. Ferito dall’amore di Dio, Climaco dice che “il suo cuore veglia per sovrabbondanza d’amore (éros)”220: è un’esperienza continua di “per214 215 216 217 218 219 220

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Ibid. XXX,18. Ibid. XXVII/1,26. Ibid. XXVIII,33 e XIX,1. Cf. ibid. IV,50. Cf. ibid. VII,1. Ibid. XXX,1. Ibid. XXX,7.

dita” e di “recupero” dell’oggetto della propria ricerca; è un percepire la presenza di Cristo perfino nella sua assenza. In ogni caso, l’amore non si dà in astratto: esso si riduce a nulla, se non è amore di un’altra persona, concreta ed esistente221. Come una persona che brucia d’amore, il monaco non abbandona mai l’immagine del proprio Amante, non se la lascia mai sfuggire, e parla incessantemente con Dio, sia nella veglia che nel sonno222. Davvero grande è la potenza dell’éros223: “Quel che avviene nell’amore dei corpi, avviene anche in quello spirituale!”224.

2. 4. La “preghiera di Gesù” Un altro ambito in cui Giovanni Climaco ha dimostrato il suo influsso sui secoli successivi è il suo insegnamento sulla preghiera e, specialmente, il suo contributo allo sviluppo della cosiddetta “preghiera di Gesù”225. Per lui, la vera preghiera è dotata di semplicità, in contrasto con la loquacità o la verbosità:

221

Cf. ibid. VII,57. Cf. ibid. XXX,6. 223 Cf. ibid. III,1 e XXX,7. 224 Ibid. XXX,6; cf. VII,57. 225 Sulla “preghiera di Gesù” in Giovanni Climaco, cf. J. Chryssavgis, “The Jesus Prayer in the Ladder of St. John Climacus”, in Ostkirchliche Studien 35 (1986), pp. 30-33; P. Deseille, “La dottrina spirituale di Giovanni Climaco”, in Giovanni Climaco e il Sinai, pp. 128-129. In generale sulla “preghiera di Gesù”, nel suo significato e nel suo sviluppo storico, cf. Un monaco della chiesa d’oriente, La preghiera di Gesù, Morcelliana, Brescia 1964; Ph. Adnès, s.v. “Jésus (Prière à)”, in DS VIII, coll. 1126-1150; A. Rigo, “La preghiera di Gesù”, in Parola, Spirito e Vita 25 (1992), pp. 245-291; J.-P. Larchet, Thérapeutique des maladies spirituelles. Une introduction à la tradition ascétique de l’É´glise orthodoxe, Cerf, Paris 20004, pp. 384-395. 222

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Non affannarti a parlare molto quando preghi, perché la tua mente non si disperda nella ricerca delle parole. Una sola parola da parte del pubblicano bastò a procurargli la misericordia di Dio, e un solo grido di fede salvò il ladrone. L’uso di molte parole (polyloghía) nella preghiera spesso disperde la mente e la colma di immagini, mentre la ripetizione di un’unica formula (monologhía) spesso la raccoglie226.

La vera preghiera è “perdita della polyloghía”227, la quale infatti è “l’oscuramento della preghiera”228. Il silenzio, al contrario, fa sgorgare la preghiera: “Il silenzio intelligente è padre della preghiera”229. Tuttavia, è inevitabile usare parole nella propria preghiera, almeno nelle prime fasi della vita spirituale. Climaco consiglia: “Lotta per elevare il tuo pensiero, o piuttosto per concentrarlo nelle parole della tua preghiera”230; e a questo scopo, egli suggerisce l’uso di brevi e semplici preghiere, a volte, per esempio, il versetto di un salmo: “Grida verso colui che può salvarti, non con un linguaggio ricercato ma con parole semplici, iniziando prima di tutto con: Abbi pietà di me, perché sono debole! (Sal 6,3)”231. In un altro passo, Climaco propone ai monaci una serie di testi diversi presi dalla Scrittura, ma lascia ciascuno libero di scegliere, poiché: “Non sono tutti dello stesso tipo i pani del frumento celeste che ci danno nutrimento spirituale!”232. Vengono dunque previste varie forme di

preghiera; c’è però un tipo di preghiera semplice, cui viene attribuita particolare importanza: è l’invocazione o la memoria del nome di Gesù. Le preghiere brevi sono già menzionate negli Apoftegmi dei padri del deserto: “Abba Poemen disse: ‘Abba Pafnuzio ... ricorreva a preghiere brevi’”233. Nilo, poi, dà un certo rilievo all’invocazione del nome di Gesù, ma essa rimane pur sempre marginale all’interno della pratica spirituale. È solo con Diadoco di Fotica che essa acquista importanza e perfino un ruolo centrale, al punto da influenzare gli autori posteriori: Diadoco menziona l’“invocazione del nome di Gesù”234 e, da parte loro, Barsanufio e Giovanni, continuano la stessa tradizione, parlando di brevi preghiere con particolare riferimento alla preghiera di Gesù e alla preghiera incessante235. Doroteo di Gaza combina insieme le tradizioni di Diadoco e di Barsanufio236. La Scala non tratta esplicitamente di questo argomento; ci sono però tre passi in cui viene menzionata la “preghiera di Gesù” e che hanno avuto molta influenza sugli autori posteriori. C’è anche una quarta allusione alla “preghiera di Gesù”, ma là, più probabilmente, l’autore si riferisce alla “preghiera del Signore”, cioè al Padre Nostro237: Il ricordo della morte e la preghiera di Gesù che consiste in una sola formula (monológhistos Iesoû euché), si addormentino con te, e con te si risveglino: non troverai infatti aiuti più efficaci di questi durante il sonno238.

226

Ibid. XXVIII,9. Ibid. XXVII/2,6. 228 Ibid. XI,2 e XIV,31. 229 Ibid. XI,3.4. 230 Ibid. XXVIII,16. I monaci della “prigione” di Alessandria, però, non dicono niente nelle loro preghiere: cf. ibid. V,5,d. 231 Ibid. XV,76. Cf. anche XVIII,5 e XXVIII,4. 232 Ibid. XXVII/2,42. 227

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233

Cf. Apoftegmi, Poemen 190. Cf. anche ibid., Elia 7 e Macario 19. Cf. Diadoco di Fotica, Capitoli 31; 59; 61; 85; 88; 97. 235 Barsanufio di Gaza, Lettere 446. 236 Cf. Vita di Dositeo 10. 237 Cf. Scala IX,1. 238 Ibid. XV,51. Il passo è citato da Callisto e Ignazio Xanthopouloi, Metodo e canone rigoroso 24, e Gregorio Palamas, Triadi I,3,2. 234

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Il contesto di questo primo passo parla degli assalti dei demoni al momento di prendere sonno: l’autore propone il “ricordo della morte” e la “preghiera di Gesù” come mezzi per combatterli. L’espressione Iesoû euché è probabilmente usata da Climaco per la prima volta. Egli è anche il primo a descriverla come monológhistos, concisa: il termine significa letteralmente “che consiste in una singola formula”, ed è ripreso, in forma adattata, da Marco il Monaco, che lo usa per qualificare non la preghiera ma la speranza239. In Climaco non è testimoniata una formula precisa che corrisponda alla “preghiera di Gesù”; sarebbe però sbagliato affermare che in questo passo l’autore sta semplicemente consigliando la concisione verbale, come nel caso di altre preghiere a cui fa riferimento240. Gli autori ascetici precedenti mostrano che, di norma, il nome di Gesù non veniva pronunciato da solo ma era seguito da altre invocazioni. Abba Elia, negli Apoftegmi dei padri del deserto, usa la frase: “Gesù salvami!”, e Barsanufio, una frase simile: “Gesù, aiutami!”. Entrambi questi autori dicono “Gesù” senza “Signore”, mentre Diadoco di Fotica adotta l’espressione: “Signore Gesù”. Gli esicasti posteriori sottolineeranno il fatto che soltanto i perfetti sono in grado di invocare il nome di Gesù da solo. La forma ordinaria della preghiera di Gesù la si incontra per la prima volta nella Vita di abba Filemone, un testo che parla di un monaco egiziano, difficile da datare ma probabilmente più o meno contemporaneo della Scala. Le parole, a quanto pare, non erano ancora cristallizzate e Climaco qui può aver preferito lasciarne libera la scelta. 239

Cf. Marco il Monaco, La legge spirituale 10 e Su chi si crede giustificato per le opere 140. 240 Cf. Scala XV,76 e XXVII/2,42.

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Mentre ti stai recando là, armati della preghiera, e quando sei arrivato, stendi le braccia e flagella i tuoi nemici con il nome di Gesù (onómati Iesoû): non esiste infatti arma più potente né in cielo né in terra241!

Il contesto di questa seconda citazione riguarda l’uso del nome di Gesù Cristo come arma contro la “paura infantile”. C’è un riferimento specifico alla potenza del nome di Gesù (cf. Mt 16,17-18; Gv 14,13; 16,23.26; At 4,12; Fil 2,10) e alla sua invocazione come un’arma contro i demoni, come risulta chiaramente, del resto, anche dal passo precedente. La parola “arma” suggerisce un comportamento “aggressivo” contro la natura decaduta e un reale desiderio di glorificazione. In questo passo viene anche prevista e suggerita una particolare postura del corpo. “La memoria di Gesù (Iesoû mnéme) faccia tutt’uno con il tuo respiro, e allora conoscerai l’utilità dell’esichia”242. Qui probabilmente il discorso di Climaco è più generale: parla solo di una “memoria” non specificamente di una “preghiera” o del “nome”, come nei due passi precedenti. Il contesto si riferisce piuttosto alla “eliminazione dei pensieri” (apóthesis noemáton): la preghiera di Gesù diventa un modo per mettere da parte i propri pensieri e raggiungere la preghiera senza immagini. Lo stesso nome “Gesù” cessa di essere un pensiero o una pura meditazione, e diventa piuttosto un modo per sentire la presenza di Cristo. L’implicazione è più vaga e generale, nel senso di un ricordo continuo di Gesù. Del resto anche il riferimento al respiro può essere visto come un’indicazione dell’e-

241 Scala XX,6. Passo citato da Gregorio Sinaita, L’esichia 2, e da Callisto e Ignazio Xanthopouloi, Metodo e canone rigoroso 49. 242 Scala XXVII/2,26. Passo citato da Gregorio Sinaita, L’esichia 3, e da Callisto e Ignazio Xanthopouloi, Metodo e canone rigoroso 22 e 49.

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sercizio ininterrotto della preghiera243. Curiosamente, molti autori più tardi danno alla frase un significato assai più specifico, ritenendo che essa implichi una particolare tecnica fisica. Non esiste, tuttavia, una chiara e sicura menzione di tale tecnica – per lo meno nella tradizione greca – fino alla fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. Ciò che Climaco vuol dire è che il monaco deve pregare senza interruzione: “L’esichia è un culto ininterrotto reso a Dio e uno stare sempre alla sua presenza”244. Queste possono sembrare questioni tecniche, ma non oscurano – anzi piuttosto servono a enfatizzare – il fatto che l’invocazione incessantemente ripetuta, sia nella forma del “Signore abbi pietà!” che del “Signore Gesù Cristo abbi pietà di me!” o di qualunque altra breve supplica, riflette la comprensione fondamentale, che Climaco manifesta, della preghiera come relazione da persona a persona, con ciò che questo significa per l’aspetto relazionale dell’ascesi. La preghiera non deve neppure essere articolata in una struttura logica di parole o frasi: “Non sappiamo neppure pregare come dovremmo, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili!” (Rm 8,26). E ciò è anche alla base della teoria e della prassi di preghiera del nostro autore. * * * Questa è una “scala” che ciascuno di noi è tenuto a salire attraverso la propria personale esperienza: lo stesso Climaco vi è salito e, anche se non aveva alcun bisogno di scrivere, lo ha fatto soltanto come un atto di condivisione. 243 244

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Cf. anche Scala IV,19. Scala XXVII/2,25.

Il padre Georgij Florovskij ha osservato che “il livello della Scala è molto semplice: è definita dalla logica del cuore piuttosto che dalla logica dell’intelletto”245. È vero anche però che Climaco definisce degli ambiti difficili, per non dire impossibili, da descrivere. Gli studiosi cercano di scoprire le sue fonti e i suoi influssi, ed è chiaro che dobbiamo prima di tutto collocarlo all’interno del contesto letterario del deserto egiziano e delle regioni monastiche della Palestina, ma ciò che Climaco ha ricevuto dai suoi predecessori lo ha fatto proprio, ed è questo che egli ha trasmesso ai suoi successori nel mondo bizantino e ai suoi lettori nel corso dei secoli: ovvero l’incontro personale con Cristo a ogni gradino della scala. Cristo, infatti, è l’inizio del cammino, Cristo è il termine, e ancora Cristo è la via (cf. Gv 14,6)! Climaco è diventato famoso per i concetti e i termini che conia e trasmette ai posteri per parlare delle lacrime e del silenzio; la sua influenza, però, si deve al fatto che egli parla in base a una propria personale esperienza di eternità, rilevante per tutti i tempi. Egli rende eloquente la propria esperienza attraverso l’esperienza stessa del lettore. È pieno di compassione e libero, ma la sua esperienza è allo stesso tempo un giudizio: la sua compassione e il suo giudizio sono strettamente legati e sono frutto della sua capacità di amare. Del resto egli ha sopportato per primo le difficoltà che i suoi lettori dovranno affrontare per salire la scala; ha iniziato dal gradino più basso, ed è per questo che, secondo lui, l’illuminazione non è da ricercare nell’estasi ma piuttosto nell’ascesi. Proprio in questo, forse, consiste il ruolo dell’asceta: egli non fugge la società per allontanarsi da essa, ma piuttosto per colmare la distanza 245 G. Florovskij, Vizantijskie otcy V-VIII vekov, Gregg International, Farnborough 19722, p. 179.

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che c’è tra l’umanità e la divinità per mezzo della propria virtù e della grazia divina. Il monaco non cerca esperienze o visioni di luce, e neppure la preghiera continua o la deificazione, ma con umiltà e amore cerca unicamente di vivere per e in Dio. Egli scrive sulla lapide della propria tomba, non su pezzi di carta destinati a essere seppelliti nelle biblioteche: vivere per Dio significa morire per Dio, e Climaco scrive proprio in virtù di questo atto di vivere e di morire.

NOTA EDITORIALE

In mancanza di una vera edizione critica della Scala – auspicata da molti ma destinata a rimanere in votis ancora per lungo tempo –, la presente traduzione è stata condotta sul testo edito dal monaco athonita Sophronios1, basato sui manoscritti del monastero di Haghiou Dionisiou (Monte Athos) e giudicato da molti studiosi il testo migliore a tutt’oggi disponibile. Si sono tenute presenti altresì le edizioni di M. Rader2 e dell’archimandrita Ignatios3, e – nei passi più incerti e controversi – se ne sono segnalate in nota le varianti, non esitando ad accoglierle quando il senso lo richiedesse. La suddivisione e la numerazione dei discorsi (o gradini) e dei paragrafi segue fedelmente quella del testo di Sophronios4, anche se la particolare lunghezza di alcuni paragrafi ci ha indotto a suddividerli ulteriormente, adottando una numerazione alfabetica (cf. ad esempio V,5). Anche la suddivisione in paragrafi della Vita di Daniele di Raito è nostra. A margine si aggiunge il riferimento alle pagine dell’edizione Rader (in PG 88).

1 Cf. Κλµαξ το Ιωννου το Σινατου , Konstantinoupolis 1883 (Astir, Athinai 1979). 2 Cf. Sancti Joannis Abbatis, vulgo Climaci, Opera Omnia, editore et interprete Matthaeo Radero, S. Cramoisy, Lutetiae Parisiorum 1632, poi in PG 88,579-1248. 3 Cf. Tο σου Πατρς µν Ιωννου το Σινατου Κλµαξ, Iera Moni Paraklitou, Oropos Attikis 19998. 4 Rispetto all’edizione di Rader, in quella di Sophronios i Discorsi XVI e XVII (sull’avarizia e sulla povertà) sono unificati nel Discorso XVI, mentre il Discorso XXIII (sulla superbia e sulla bestemmia) è suddiviso nei Discorsi XXII e XXIII: dunque, per i Discorsi XVI-XXII, la numerazione di Sophronios è inferiore a quella di Rader di un’unità.

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Tutte le citazioni bibliche sono da intendere riferite al testo dei LXX: la loro traduzione, quindi, diverge spesso da quella delle bibbie in lingua italiana, basate sul testo masoretico. Nel segnalare le citazioni ci atteniamo però alla nomenclatura corrente dei vari libri, secondo le abbreviazioni adottate dalla Bibbia di Gerusalemme. Un “Glossario” in fondo al volume spiega i termini-chiave che ricorrono con maggior frequenza, mentre le note a piè di pagina sono preferibilmente dedicate al commento e alla spiegazione del testo, soprattutto nei passi più oscuri: a tale scopo si è scelto di fare ampio ricorso agli Scholia antichi, oltre che al commento di Niceforo Callisto Xanthopoulos, recentemente edito5, e ai passi paralleli di altri padri. Per quanto possibile, poi, si è cercato di segnalare le numerose citazioni e allusioni patristiche disseminate nel testo, servendoci ampiamente a tale scopo dei lavori di W. Völker6 e J. Chryssavgis7.

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Cf. Niceforo Callisto Xanthopoulos, Exegesis. Cf. W. Völker, Scala Paradisi. Eine Studie zu Johannes Climacus und zugleich eine Vorstudie zu Simeon dem Neuen Theologe, F. Steiner, Wiesbaden 1968. 7 J. Chryssavgis, “The Sources of St. John Climacus (c. 580-649)”, in Ostkirchliche Studien 37 (1988), pp. 3-13. 6

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LA SCALA

PROLOGO

A quanti desiderano che i loro nomi siano iscritti nel Libro della vita1, il presente libro indica in modo chiaro la via migliore da seguire! Se lo leggiamo, infatti, scopriremo che esso è una guida infallibile per chi ne segue le indicazioni, ed è in grado di difenderci da ogni pietra di inciampo. In esso ci viene presentata una scala che dalle realtà terrene si eleva verso quelle celesti e sulla cui sommità si trova il Dio della carità; e credo che questa sia proprio la scala che Giacobbe contemplò mentre riposava sul suo austero giaciglio (cf. Gen 28,12), lui che aveva soppiantato le passioni (cf. Gen 27,36)2. Ma, vi prego, montiamo con zelo e fiducia su questa scala spirituale che conduce in cielo: il suo inizio è la rinuncia alle cose terrene e il suo fine il Dio della carità! L’autore è stato veramente saggio a disporre per noi una salita con un numero di gradini pari all’età di Cristo secondo la carne: ha costruito infatti una scala di perfezione, prendendo a modello i trent’anni della sua maturità. Quando anche noi avremo raggiunto la pienezza dell’età del Signore da essa indicata, saremo giusti e infallibili; ma 1 Questo prologo non è dell’autore, ma di qualche antico amanuense: se pure con sensibili varianti, è presente nei principali manoscritti antichi. 2 Interpretazione allegorica tradizionale: cf. Filone di Alessandria, Allegorie delle leggi II,89; Id., Il mutamento dei nomi 81; Didimo il Cieco, Sulla Genesi III,24.

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chi non l’ha ancora raggiunta, è ancora un bambino e, secondo il giudizio di tutti, non risulterà gradito a Dio. Abbiamo giudicato necessario inserire prima di tutto la vita del sapientissimo costruttore di questa scala spirituale e divina, affinché, vedendo le sue fatiche, non ci rifiutiamo di credere alle sue parole scritte. Poi, dopo aver collocato le lettere del padre che ha commissionato l’opera e di colui che gli ha obbedito, daremo inizio alle parole contenute in questo libro.

BREVE VITA DEL BEATO GIOVANNI, IGUMENO DEL SANTO MONTE SINAI, DETTO SCOLASTICO E AUTORE DELLE “TAVOLE SPIRITUALI”, OVVERO DELLA “SCALA SANTA” Scritta dal monaco Daniele di Raito, uomo venerabile e virtuoso

1. Non sono in grado di dire con precisione1 ed esattezza quale città abbia dato alla luce e allevato quest’uomo divino prima che egli intraprendesse la lotta della vita ascetica; ma quale città lo ospiti e lo nutra ora con delizie di ambrosia, il grande apostolo Paolo lo aveva già scoperto prima di noi: certamente infatti anch’egli appartiene a quella Gerusalemme celeste, dove si trova l’assemblea dei primogeniti (cf. Eb 12,23) la cui patria è nei cieli (Fil 3,20), come sta scritto. Là, saziandosi con il senso spirituale dei beni di cui non si può mai essere sazi e contemplando le bellezze invisibili, riceve ora adeguate ricompense dei propri sudori; e avendo ottenuto come dolce premio delle proprie fatiche l’eredità celeste, si unisce oramai per l’eternità al coro di quelli il cui piede è rimasto sulla via 1 Sul testo della Vita, cf. A. Müller, “Die Vita Johannes des Sinaiten von Daniel von Raithu. Ein Beitrag zur Byzantinischen Hagiographie”, in Byzantinische Zeitschrift 95,2 (2002), pp. 585-601.

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retta (Sal 25,12). Ma ora voglio raccontare in che modo quest’uomo glorioso sia riuscito a ottenere una tale beatitudine. 2. Costui, all’età di sedici anni, si offrì a Cristo come sacrificio accetto e a lui gradito (cf. Fil 4,18), sottoponendosi al giogo della vita monastica sul monte Sinai, e lo stesso luogo visibile in cui dimorava contribuiva – credo – a guidarlo e condurlo verso il Dio invisibile. Abbracciò così l’estraneità, che è la custode di tutte le fanciulle spirituali2, e respinta, grazie a essa, ogni forma di eccessiva e sconveniente familiarità, e acquistata l’onesta umiltà, scacciò una volta per tutte lontano da sé, fin dalla sua entrata nella vita monastica, il demone dell’autocompiacimento e della fiducia in se stesso. Avendo piegato il collo ed essendosi affidato, nel Signore, al padre che l’aveva accolto, come a un ottimo pilota, attraversava senza pericolo questa aspra e violenta tempesta della vita: era talmente morto al mondo e alle proprie volontà, che la sua anima era veramente come priva di ragione e di volontà, e totalmente spogliata delle proprie facoltà naturali; e ciò, nonostante egli avesse ricevuto un’istruzione completa nella scienza mondana prima di giungere a questa celeste ignoranza: cosa sorprendente, perché l’arroganza della filosofia è per lo più estranea all’umiltà di Cristo! 3. Dopo aver vissuto così per diciannove anni sostenendo le lotte della beata sottomissione, allorché il santo anziano che lo aveva formato lasciò questa vita, anch’egli uscì nello stadio dell’esichia tenendo in mano le divine preghiere del suo anziano come armi capaci di distruggere le fortezze di Satana (cf. 2Cor 10,3-4). Come palestra della sua lotta scelse un luogo solitario chiamato 2 Cioè di tutte le virtù. Sull’estraneità (xeniteía), cf. infra, III,1 ss. e “Glossario”, s.v. “Estraneità”.

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Tola3, distante cinque miglia dalla chiesa del monastero, e là trascorse con fervore quarant’anni, sempre infiammato da un amore ardente e dal fuoco della divina carità. Ma chi è in grado di descrivere e celebrare a parole le fatiche ascetiche che egli sostenne in quel luogo? E come è possibile parlarne apertamente, dal momento che ogni sua fatica fu seminata nel segreto e senza testimoni? Tuttavia, partendo da alcuni fatti noti e servendocene come di piccoli indizi, possiamo intuire quale fu la santa condotta di quest’uomo tre volte beato. 4. Mangiava di tutto ciò che gli era consentito dal proprio stato di vita, ma molto poco4; e così, con molta sapienza, riusciva a vincere l’orgoglio e ad abbassare le corna della presunzione. Mangiando poco, infatti, schiacciava quanto più possibile il suo folle e insaziabile tiranno5 gridandogli nella sua fame: Taci, calmati! (Mc 4,39); e mangiando un po’ di tutto riusciva ad abbattere la tirannia della vanagloria. Oltre a ciò, con la solitudine e la mancanza di qualsiasi rapporto umano, spense le fiamme di questa fornace6, riuscendo a ridurla in cenere e a calmarla completamente. All’idolatria7, poi, quell’uomo valoroso sfuggì valorosamente, grazie alla misericordia di Dio e alla mancanza di ogni mezzo necessario. Fece risorgere l’anima da quella morte e da quella paralisi in cui essa rischia di cadere in ogni momento8 stimolandola con il pungolo del ricordo della morte. Spezzò la catena della 3 Località a nord-ovest del massiccio del Sinai (odierna Wadi Tlah), dove ancora oggi è possibile visitare la “caverna di san Giovanni Climaco”. 4 Seguendo in questo la “regola” dei padri egiziani che, piuttosto di grandi digiuni, consigliavano di mangiare poco ogni giorno, senza mai giungere alla sazietà: cf. Apoftegmi, Ammonas 4; Poemen 31. 5 Cioè il ventre. 6 Cioè la concupiscenza della carne. 7 Cioè all’avarizia. 8 Cioè l’acedia.

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tristezza liberandosi da ogni attaccamento passionale, o forse anche gustando i beni invisibili. Se la tirannia dell’ira l’aveva uccisa già prima con la spada dell’obbedienza9, impedendo al proprio corpo di uscire fuori dalla cella, e ancora più alla propria parola di uscire dalle labbra, poi mise a morte anche quella sanguisuga, simile a un ragno, che è la vanagloria. Cosa rimane ancora? La vittoria sull’ottava passione, cioè la perfetta purificazione dall’empia superbia. Questo novello Beseleèl10 iniziò quest’impresa attraverso l’obbedienza, ma fu il Signore della Gerusalemme celeste a portarla a termine visitandolo con la propria presenza, ed esaltando contro la superbia la sua umiltà, virtù senza la quale è impossibile vincere il diavolo e tutta la sua compagnia11. 5. Ma dove posso collocare, nella corona che sto intrecciando12, la fontana delle sue lacrime, che è un dono concesso a pochissimi? L’officina segreta di queste lacrime esiste ancora oggi: una strettissima spelonca situata in un luogo sperduto ai piedi della montagna, che distava dalla sua cella e da tutte le altre quel tanto da consentirgli di sfuggire alle orecchie che avrebbero suscitato in lui la vanagloria, ma che arrivava quasi a toccare il cielo con i gemiti e le grida che egli vi emetteva, simili a quelli di persone trafitte da spade o bruciate da ferri incandescenti, o a cui vengano cavati gli occhi. Dormiva il minimo indispensabile per non danneggiare le proprie facoltà mentali con le veglie, e prima di addormentarsi pregava a lungo e scriveva sopra delle tavolette: questo infatti era l’unico mezzo che aveva per vincere

l’acedia. Del resto l’intero corso della sua vita fu una preghiera incessante e un amore appassionato e indescrivibile per Dio: di notte e di giorno lo contemplava nel limpido specchio della propria purezza, e non voleva mai saziarsene, o piuttosto – per essere più corretti – non poteva. 6. Stimolato dallo zelo del nostro padre teoforo, un tale di nome Mosè, che già aveva abbracciato la vita monastica, lo supplicò con insistenza, attraverso le intercessioni di molti padri, di farlo diventare suo discepolo e di istruirlo nei primi rudimenti della vera filosofia13, e perciò il beato, costretto da tali preghiere, lo prese con sé. Un giorno il santo padre ordinò a questo Mosè di trasportare da un luogo a un altro una certa quantità di terra fertile per la coltivazione degli ortaggi, ed egli, raggiunto il luogo indicato, cominciò a eseguire con impegno quanto gli era stato ordinato; ma quando arrivò l’ora del mezzogiorno e la calura rovente cominciò a bruciare quel luogo come una fornace – infatti era già l’ultimo mese dell’anno14 – Mosè, poiché gli venivano meno le forze, stanco com’era per il trasporto della terra, pensò di doversi riposare un po’, e così, sdraiatosi all’ombra di un’enorme macigno, si addormentò, com’era normale. Ma il Dio amico degli uomini, che non vuole contristare in nulla i suoi servi più fedeli, prevenne – come è sua abitudine fare – il pericolo che Mosè stava per correre, e dirò subito in che modo. Il nostro padre Giovanni, quel grand’uomo, mentre stava nella sua cella raccolto in se stesso e in Dio, come soleva fare, cadde in un leggerissimo sonno e vide una persona dall’aspetto venerabile che lo svegliava e, come rimproverandolo di essersi addormentato, gli diceva:

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Durante il periodo in cui visse sottomesso al proprio anziano. Uno dei costruttori della tenda del convegno, nominato in Es 31,2-3. Cf. Apoftegmi, Antonio 7. 12 La corona cioè delle sue virtù. 10 11

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Cioè della vita contemplativa. L’anno bizantino inizia il primo di settembre: perciò l’ultimo mese è agosto.

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“Giovanni, come puoi dormire così spensieratamente, mentre Mosè si trova in pericolo?”. Ritornato in se stesso all’istante, imbracciò subito le armi della preghiera a difesa del discepolo, e quando costui a sera fu di ritorno gli chiese: “Ti è forse successo qualche spiacevole imprevisto?”. Ed egli rispose: “Un enorme macigno mi avrebbe schiacciato e fracassato completamente, mentre dormivo profondamente alla sua ombra, se io, credendo di udire la tua voce, non mi fossi alzato di soprassalto da quel luogo, tutto confuso; e così vidi subito il macigno staccarsi e cadere a terra”. E quell’uomo veramente umile, senza dir nulla al discepolo della visione che aveva avuto, rese grazie a Dio lodandolo dentro di sé con segrete grida e forti slanci d’amore. 7. Quest’uomo di Dio era capace di guarire anche le ferite invisibili. Una volta, infatti, un monaco di nome Isacco, che era gravemente afflitto dal demonio della fornicazione, preso dallo sconforto, non sapendo più cosa fare, corse da quest’uomo meraviglioso e con gemiti e lacrime gli manifestò la guerra che era dentro di lui; e il divino padre, ammirando la sua fede e la sua umiltà, disse: “Mettiamoci tutti e due in preghiera, fratello, e certamente Dio, che è pieno di misericordia, non disprezzerà la nostra supplica!”. Si misero dunque a pregare, e non avevano ancora terminato la preghiera e il poveretto era ancora prostrato con la faccia a terra, che Dio fece la volontà del suo servo, per dimostrare ancora una volta la verità delle parole del profeta David15. Il serpente della fornicazione, vinto dalle frustate di quell’intensa preghiera, fuggì via, e il malato, vedendosi ormai guarito e liberato da ogni turbamento, fu preso da grande stupore e rese grazie a Dio che aveva glorificato il suo servo, e al suo servo che da lui era stato glorificato. 15 Cf. Sal 144,19: “Farà la volontà di coloro che lo temono, ascolterà la loro supplica e li salverà”.

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8. Questo padre venerabile elargiva con abbondanza le sue parole di grazia a tutti coloro che venivano a visitarlo e versava loro con grande generosità e larghezza le acque del suo insegnamento: perciò alcuni uomini maligni, rosi dall’invidia, cercando di por fine a tutto il bene che faceva, lo accusarono di essere un chiacchierone e un ciarlatano. Ma egli, sapendo di poter tutto nel Cristo che gli dava la forza (cf. Fil 4,13) e volendo istruire chi gli si avvicinava per la propria edificazione, non soltanto con le proprie parole ma ancor più con il proprio silenzio e con la sapienza delle proprie opere – per troncare così ogni pretesto a quelli che cercavano un pretesto (cf. 2Cor 11,12), come sta scritto –, rimase in silenzio per un certo tempo e interruppe il flusso del suo insegnamento dolce come il miele. Riteneva preferibile infatti recare un leggero danno agli amanti del bene – che forse avrebbe comunque potuto aiutare con il proprio silenzio – piuttosto che irritare ancor di più quei giudici maldisposti, esasperando la loro cattiveria. Questi ultimi perciò, rimasti ammirati del suo comportamento umile e modesto e avendo compreso quale grande sorgente di salvezza avevano chiuso e quale grande danno avevano arrecato a tutti, cominciarono a supplicarlo e a implorare insieme agli altri i suoi insegnamenti, pregandolo di non rovinare con il proprio silenzio quanti cercavano la salvezza attraverso le sue parole. Ed egli, che era incapace di contraddire, cedette immediatamente e riprese a comportarsi come prima. 9. Poiché dunque era superiore a tutti in ogni virtù e tutti lo ammiravano, di comune accordo, ma contro la sua volontà, lo posero alla guida dei fratelli come nuovo Mosè, innalzandolo come una lucerna sul lucerniere (cf. Mt 5,15 par.), loro che in tali cose erano giudici eccellenti. E non rimasero delusi nelle loro speranze, perché anch’egli [come Mosè] salì sul monte e, entrato nella nube 73

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oscura e impenetrabile (cf. Es 24,18), ricevette la legge scritta da Dio, elevandosi alla contemplazione attraverso dei gradini spirituali. Aprì la bocca alla parola di Dio e, attirato lo Spirito (cf. Sal 118,131), riversò la parola buona dal buon tesoro del proprio cuore (cf. Mt 12,35 par.). 10. Così giunse al termine di questa vita visibile guidando gli israeliti, cioè i monaci; e l’unica differenza tra lui e Mosè fu che, mentre egli ascese alla Gerusalemme celeste senza alcuna difficoltà, quello – non so come mai – non riuscì a raggiungere quella terrena (cf. Dt 34,4). Possono testimoniare la verità di quanto abbiamo raccontato tutti coloro che, grazie a quest’uomo, hanno ricevuto le parole dello Spirito, e i molti che sono stati salvati e continuano a esserlo. Testimone d’eccezione della salvezza ottenuta grazie a questo sapiente, e insieme della sua sapienza, è quel novello David16; ma ne è testimone anche il nostro buon pastore Giovanni17, grazie alle cui preghiere insistenti quel grande scese dal monte Sinai verso di noi e, avendo anch’egli visto Dio [come Mosè], ci mostrò le tavole scritte dal dito di Dio, che contengono all’esterno gli insegnamenti pratici, e all’interno, quelli relativi alla contemplazione (cf. Es 32,15-16)18.

16 Forse il monaco Isacco nominato sopra, che fu salvato dal demone della fornicazione per aver supplicato con fede il Signore, come il re David. 17 Giovanni igumeno di Raito, il committente della Scala. 18 La prima parte della Scala è dedicata alle virtù “pratiche” (rinuncia al mondo, distacco, estraneità, obbedienza, penitenza…), l’ultima parte alle virtù “contemplative” (esichia, preghiera, carità…).

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DAI “RACCONTI SUI SANTI PADRI DEL SINAI” DI ANASTASIO SINAITA

1. Abba Martirio1, dopo aver tonsurato il nostro igumeno, il santo padre Giovanni, che allora aveva sedici anni, si recò insieme a lui dalla “colonna” del nostro deserto, abba Giovanni il Sabaita2, che allora viveva nel deserto di Guda3 insieme al suo discepolo abba Stefano di Cappadocia4. Appena dunque l’anziano Sabaita li vide, si alzò: prese dell’acqua, la versò in una bacinella e lavò i piedi del discepolo5, baciando anche la sua mano, mentre non lavò i piedi del suo maestro, abba Martirio. Abba Stefano si scandalizzò del fatto, e dopo che abba Martirio e il suo discepolo furono partiti, abba Giovanni, avendo 1 Ci riferiamo direttamente al testo dei Racconti pubblicato da F. Nau, in “Le texte grec des récits du moine Anastase sur les saints pères du Sinai”, in Oriens Christianus 2 (1902), pp. 63-64 (VI=1), 80 (XXXIV=2), 64 (VII=3), 79 (XXXII=4), piuttosto che al testo dei racconti anonimi pubblicati in PG 88,607-610 e riprodotti nell’edizione di Sophronios, che sono il frutto di un rimaneggiamento antico del testo di Anastasio (con l’unica eccezione forse del racconto pubblicato in PG 88,608-609). Su Anastasio, monaco del Sinai contemporaneo di Giovanni Climaco, cf. S. Sakkos, Περ Aναστασων Σιναϊτν, Aristoteleion Panepistimion, Thessaloniki 1964; B. Flusin, Saint Anastase le Perse et l’histoire de la Palestine au début du VII e siècle, CNRS, Paris 1991; Id., “Il monachesimo sinaitico al tempo di Giovanni Climaco”, in Giovanni Climaco e il Sinai, pp. 28-31. 2 Su di lui cf. infra, IV,111-113. 3 Località del monte Sinai, che secondo Anastasio Sinaita, si trovava “a quindici miglia dal santo roveto” (Racconti sui padri del Sinai 31). 4 Cf. Giovanni Mosco, Prato 122 e 127. 5 Cioè di Giovanni.

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visto con la sua chiaroveggenza che il suo discepolo si era scandalizzato, gli disse: “Perché ti sei scandalizzato? Credimi, non so chi sia quel ragazzo, ma io ho accolto l’igumeno del Sinai e ho lavato i suoi piedi!”. E dopo quarant’anni egli diventò il nostro igumeno, secondo la profezia dell’anziano. E non solo abba Giovanni il Sabaita, ma anche abba Strategio il Recluso, sebbene non uscisse mai, fece la stessa profezia, nel giorno in cui abba Giovanni fu tonsurato. 2. Una volta abba Anastasio6 vide scendere abba Giovanni dalla santa vetta insieme ad abba Martirio. Chiamò dunque abba Martirio e il ragazzo, e disse all’anziano: “Dimmi, abba Martirio, da dove viene questo ragazzo? E chi lo ha tonsurato?”. E quello gli rispose: “È tuo servo, padre, e l’ho tonsurato io”. Riprese l’altro: “Oh! abba Martirio! Chi avrebbe mai detto che tu avresti tonsurato l’igumeno del Sinai?”. Ed è veramente a buon diritto che i santi padri fecero queste profezie riguardo al nostro santissimo padre Giovanni: egli infatti era adorno di tutte le virtù e risplendeva a tal punto che i padri del luogo lo chiamavano “secondo Mosè”. 3. Un giorno vennero quassù7 circa seicento ospiti e, mentre erano seduti a tavola e mangiavano, il nostro santo padre Giovanni vide un uomo dai capelli corti, vestito secondo l’uso dei giudei di una tunica bianca, che andava avanti e indietro e dava ordini ai cuochi, agli economi, ai cellerari e agli altri servitori. Quando dunque tutte quelle persone se ne furono andate, mentre i servitori erano seduti a tavola a mangiare, si cercò quell’uomo che andava 6 Monaco altrimenti sconosciuto, da alcuni identificato con Anastasio II vescovo di Antiochia, morto nel 609. 7 Nel Monastero del Sinai.

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avanti e indietro e dava ordini, ma non lo si trovò. Allora il servo di Dio, il nostro santo padre Giovanni, disse: “Smettete di cercarlo! Il nostro signore Mosè non ha fatto nulla di strano mettendosi a servire a casa sua!”. 4. Quando l’anno passato8 il nostro “nuovo e secondo Mosè”, il venerabilissimo igumeno Giovanni9, era sul punto di passare al Signore, il vescovo abba Giorgio, suo fratello gli era accanto e tra le lacrime gli disse: “Ecco che mi abbandoni e te ne vai! Io ti pregavo di mandarmi avanti, perché senza di te, mio signore, non sono capace di pascere questa comunità, ma ora sono io che devo lasciarti partire!”. Allora abba Giovanni gli disse: “Non ti affliggere, non ti preoccupare! Se trovo grazia davanti a Dio, non ti lascerò neanche terminare un anno dopo di me”. E ciò avvenne. Dopo dieci mesi, infatti, anche il vescovo passò al Signore, nei giorni dell’inverno appena passato.

8 In base a quest’annotazione e a quella finale, alcuni studiosi hanno tentato di stabilire la data della morte di Giovanni Climaco: Nau, che data la composizione dei Racconti a dopo il 650, pensa al 649 circa (cf. F. Nau, “Note sur la date de la mort de S. Jean Climaque”, in Byzantinische Zeitschrift 11 [1902], pp. 35-37; Id., “Le texte grec”, p. 79, n. 6); Flusin, invece, che sulla base degli studi di A. Binggeli (Anastase le Sinaïte. Récits sur le Sinaï et Récits utiles à l’âme, tesi di dottorato, Université de Paris-Sorbonne 2001) data il testo di Anastasio al 670 circa, colloca anche la morte di Climaco verso questa data (cf. B. Flusin, “Il monachesimo sinaitico”, p. 31). Altri studiosi ritengono che questa indicazione, per altro assente nel testo edito da Rader in PG 88,609AB, sia una base troppo fragile per una datazione precisa: cf. ad esempio G. Couilleau, s.v. “Jean Climaque (saint)”, in DS VIII, col. 371. 9 Il testo dei manoscritti ha in realtà: “Il venerabilissimo igumeno Giovanni il Sabaita”, ma Nau ritiene che il racconto sia da riferire a Giovanni Climaco.

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LETTERA DI ABBA GIOVANNI IGUMENO DI RAITO AL VENERABILE GIOVANNI IGUMENO DEL MONTE SINAI, DETTO SCOLASTICO E IN SEGUITO DALLA SUA OPERA CHIAMATO CLIMACO OVVERO “DELLA SCALA”

Il peccatore Giovanni, igumeno di Raito, all’eccellentissimo padre dei padri, uguale agli angeli ed esimio maestro, salute nel Signore! Poiché nella nostra miseria conosciamo bene l’obbedienza incondizionata che hai verso tutti nel Signore, obbedienza adorna di ogni sorta di virtù, e tanto più grande quando devi mettere a frutto il talento che hai ricevuto da Dio (cf. Mt 25,14-30), ti rivolgiamo questa supplica, avendo in mente la parola della Scrittura che dice: Interroga tuo padre e te lo farà sapere, i tuoi anziani e te lo diranno (Dt 32,7). Perciò, attraverso questa nostra lettera ricorriamo a te, come al nostro padre comune, più anziano di tutti noi per ascesi e per finezza d’ingegno, e come al migliore tra i maestri, e ti supplichiamo, ora che sei al culmine delle virtù, di scrivere per noi poveri ignoranti quel che hai contemplato nella visione di Dio – come un tempo Mosè sulla stessa montagna1 –, perché

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Cioè sul Sinai: cf. Es 33,18-23.

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questo scritto prezioso che ci manderai, come le Tavole scritte da Dio, possa servire a istruire il nuovo Israele, cioè coloro che sono appena usciti dall’Egitto spirituale e dal mare della vita2. Come dunque in passato hai compiuto miracoli sul mare, utilizzando invece del bastone di Mosè (cf. Es 14,16) la tua lingua ispirata da Dio, così anche ora, ti preghiamo, non disdegnare di esporre senza indugio e in modo chiaro, con le tue eccellenti qualità di maestro, tutto ciò che è necessario alla vita monastica, per la salvezza di tutti coloro che hanno scelto questa condizione di vita angelica; e non pensare che le nostre parole siano lusinghe e adulazioni, ma credi piuttosto che quello che diciamo sia ciò che tutti chiaramente vedono, pensano e dicono. Abbiamo perciò fiducia nel Signore di poter presto ricevere e abbracciare ciò che attendiamo con speranza: le parole preziose incise su tavole, che potranno guidare secondo verità quanti le seguiranno scrupolosamente, come una scala che si eleva fino alle porte del cielo e vi conduce sani e salvi coloro che vogliono salire su di essa, passando senza ostacoli attraverso gli spiriti del male, i principi di questo mondo di tenebra e i padroni dell’aria (cf. Ef 6,12). Se infatti Giacobbe, pur essendo un semplice pastore di pecore, poté contemplare quella visione così impressionante sulla scala (cf. Gen 28,12), tanto più colui che presiede a un gregge di pecore dotate di ragione non dovrà forse mostrare a tutti la via sicura per ascendere a Dio, non solo in visione ma anche nella realtà? Sta’ bene, veneratissimo padre!

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Cioè i giovani monaci, che sono appena usciti dal “mondo”.

LETTERA DI RISPOSTA

Giovanni a Giovanni, salute! Abbiamo ricevuto la lettera preziosa che ci hai inviato, a noi persone senza valore e povere di virtù: essa è veramente degna della tua vita nobile e impassibile e del tuo cuore puro e umile, ma più che di una lettera si tratta di un ordine e di un comando che supera le nostre forze! Ti si addice proprio, del resto, ed è tipico della tua anima santa, chiedere un discorso di dottrina e di esortazione proprio a noi che siamo dei poveri ignoranti privi di educazione sia in parole che in opere! Infatti, hai sempre avuto l’abitudine di offrirci esempi di umiltà con il tuo comportamento. Ma per quanto ci riguarda diremo che, se non avessimo avuto paura di correre un grande pericolo scrollandoci di dosso il giogo della santa obbedienza – che è la madre di tutte le virtù –, non avremmo mai osato intraprendere, contro ogni buon senso, ciò che supera le nostre capacità. Per essere istruito su queste cose, padre venerabile, avresti dovuto infatti ricorrere a persone che le conoscono bene, giacché noi siamo ancora nella schiera dei discepoli. Ma poiché i nostri padri teofori, iniziati alla vera conoscenza, definiscono obbedienza proprio il fatto di sottomettersi senza esitazione a chi ci ordina cose superiori alle nostre forze, ecco che trascurando la nostra condizione a motivo della pietà, abbiamo osato avventurarci temerariamente in un’impresa superiore alle nostre 81

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possibilità; ma questo, non certo per raccontare qualcosa che possa esserti utile, o per spiegarti quel che tu stesso conosci meglio di noi, padre santo e venerabile. Sono infatti persuaso – come forse chiunque abbia un po’ di senno – che l’occhio della tua mente sia puro da qualsiasi genere di turbamento terreno che possa oscurarlo, e che contempli senza alcun ostacolo la luce divina e da essa sia illuminato. Ma poiché, come ho detto, temevo la morte, frutto della disobbedienza, e questa paura mi spingeva all’obbedienza, ho ottemperato al tuo santo comando con timore e amore come un discepolo devoto; e come allievo incapace di un bravo pittore, con la mia conoscenza debole ed evanescente e la mia eloquenza impacciata, mi sono limitato a tracciare un primo schizzo a inchiostro delle parole di vita1, lasciando a te, o migliore e primo tra i maestri, di abbellirlo e di renderlo più chiaro completando le parti mancanti: sei tu infatti che hai realizzato pienamente la legge spirituale! Non è a te però che abbiamo inviato questo nostro lavoro – non sia mai!, sarebbe segno di estrema ingenuità, dal momento che tu, grazie ai doni che hai ricevuto dal Signore, hai tutte le capacità per confermare, non solo gli altri, ma anche noi stessi in una vita conforme agli insegnamenti divini –, ma lo abbiamo inviato alla comunità che è stata chiamata da Dio, insieme a noi, a ricevere i tuoi insegnamenti, o migliore tra i maestri. Alleggerito dal peso della mia ignoranza grazie alle loro preghiere, come per il sostegno di qualche speranza spirituale, spiego ormai le vele della mia penna e, affidando con ogni genere di supplica nelle mani dell’eccellente pilota, cioè Cristo, il timone della mia parola, do inizio al mio discorso, che rivolgo loro attraverso di te. 1 Cf. At 7,38, dove l’espressione è usata per designare i comandamenti ricevuti da Mosè sul Sinai.

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Supplico chiunque leggerà questo libro, che se mai ne ricaverà qualche beneficio, ne attribuisca con gratitudine il merito al nostro eccellente superiore2, e domandi a Dio di dare a noi la ricompensa soltanto per aver intrapreso questo lavoro, senza guardare alle cose dette – perché non hanno alcun valore e sono piene di ogni genere di ignoranza e ingenuità – ma riconoscendo piuttosto la buona intenzione di chi le offre, degna di quella vedova di cui sta scritto nell’evangelo (cf. Mc 12,42-43): Dio infatti commisura le ricompense non tanto all’abbondanza di doni e di fatiche ma al fervore dell’intenzione.

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Lo stesso Giovanni di Raito.

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DISCORSO ASCETICO DI ABBA GIOVANNI IGUMENO DEI MONACI DEL MONTE SINAI INVIATO AD ABBA GIOVANNI IGUMENO DI RAITO

È diviso in trenta capitoli che, come i gradini di una scala, fanno salire coloro che li seguono dalle realtà più basse a quelle più elevate, e per questo il libro è chiamato anche “Scala”

Discorso I SULLA VIOLENTA RINUNCIA ALLA VITA VANA E SUL RITIRO DAL MONDO

1. Poiché il nostro Dio e Re, che è buono, più che buono e interamente buono – è bello infatti iniziare da Dio quando ci si rivolge a dei servitori di Dio! –, ha onorato gli esseri razionali da lui creati con la dignità del libero arbitrio, alcuni sono suoi amici, altri suoi servi fedeli, altri servi inutili; altri sono completamente estranei a lui, e altri infine sono suoi avversari, per quanto impotenti. 2. Per “amici di Dio”, santo e venerato padre1, noi, nella nostra ignoranza, intendiamo propriamente quegli esseri intelligenti e incorporei che stanno intorno a lui; per “servi fedeli”, coloro che hanno compiuto e compiono la sua santissima volontà senza indugio né interruzione alcuna; per “servi inutili”, quanti ritengono sì di essere stati onorati del divino battesimo, ma non hanno custodito fedelmente gli impegni presi con lui; per “estranei a Dio” e suoi nemici intenderemo poi quanti vediamo senza battesimo e con una fede erronea; sono infine suoi “avversari” dichiarati non solo coloro che hanno respinto i comandamenti del Signore rigettandoli lontano da sé, ma anche coloro che combattono con accanimento contro chi li mette in pratica. 1

L’autore si rivolge a Giovanni di Raito.

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3. Ciascuna di queste categorie, dunque, avrebbe bisogno di un discorso particolare che la riguardi, ma poiché in questo momento non conviene che noi, che siamo ignoranti, ci mettiamo a discutere diffusamente di tutte queste cose, orsù, apprestiamoci a tendere la nostra mano indegna, attraverso un’obbedienza cieca2, a questi autentici servi di Dio3 che con la loro devozione ci tiranneggiano e con la loro fiducia ci fanno violenza: ricevendo da questi dotti la penna dell’insegnamento, immergendola nell’inchiostro della cupa e splendente umiltà, e posandola sui loro cuori lisci e candidi, come su fogli o piuttosto su tavole spirituali, per tracciarvi le parole divine, diciamo quanto segue. 4. Di tutte le creature dotate di libero arbitrio, Dio è la vita, di tutte è la salvezza: dei fedeli e degli infedeli, dei giusti e degli ingiusti, dei pii e degli empi, di coloro che sono preda delle passioni e degli impassibili, dei monaci e dei secolari, dei sapienti e degli ignoranti, dei sani e degli infermi, dei giovani e di coloro che sono già avanti negli anni, proprio come l’effusione della luce, la vista del sole e l’alternanza delle stagioni. Né potrebbe essere altrimenti, perché presso Dio non c’è parzialità (Rm 2,11)! 5. L’empio è l’essere razionale, mortale, che si sottrae volontariamente alla vita e ritiene il proprio Creatore – proprio lui che sempre esiste! – come non esistente (cf. Sal 13,1; 52,2). 6. Il trasgressore della legge è colui che rende la legge di Dio prigioniera della propria mente perversa, e s’illude di credere in Dio mentre professa un’eresia che gli è contraria. 2 Lett.: “Obbedienza senza discernimento (adiákritos hypakoé)”. Secondo quanto l’autore stesso afferma in IV,4, chi obbedisce rinuncia al proprio discernimento “per abbondanza di discernimento”. 3 I monaci di Raito.

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7. Il cristiano è imitazione di Cristo – nella misura in cui ciò è possibile a un uomo – in parole, opere e pensieri, con una fede retta e irreprensibile nella santa Trinità. 8. L’amico di Dio è colui che gode di tutti i beni che sono secondo natura ed esenti da peccato e non trascura di compiere tutto il bene che è in suo potere. 9. Il temperante è colui che, pur vivendo in mezzo alle tentazioni, alle insidie e alle distrazioni, cerca con tutte le proprie forze di imitare i comportamenti di chi è libero da ogni turbamento. 10. Monaco è lo stato e la condizione di vita degli angeli incorporei che si realizza in un corpo materiale e sordido. Monaco è colui che si attiene unicamente ai precetti di Dio, in ogni tempo, luogo e azione. Monaco significa violenza ininterrotta fatta alla natura e custodia incessante dei sensi. Monaco è un corpo casto, una bocca pura e una mente illuminata. Monaco è un’anima afflitta che medita ininterrottamente il ricordo della morte, sia nella veglia che nel sonno4. 11. Il ritiro dal mondo è odio volontario e rinnegamento della natura allo scopo di ottenere ciò che è superiore alla natura. 12. Tutti coloro che hanno abbandonato con zelo i beni di questa vita, certamente l’hanno fatto o in vista del Regno futuro, o per il gran numero dei loro peccati, o per amore di Dio5. Ma se nessuno di questi motivi li ha 4 Sul nome del “monaco” (da mónos, “solo, unico”), cf. Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, Sulla gerarchia ecclesiastica VI,3, citato infra, XXVI/1,18, n. 17. 5 L’autore riprende qui la dottrina tradizionale dei tre gradi della vita spirituale, pur invertendone l’ordine (vedi però infra, § 24). Si veda, ad esempio, Basilio di Cesarea, Regole diffuse, prol. 3: “O ci allontaniamo dal male per timore del castigo e ci troviamo allora nella disposizione d’animo propria degli schiavi, oppure, aspirando ai guadagni della ricompensa, osserviamo i comandamenti per il vantaggio che ne ricaviamo e siamo simili così ai mercenari, o ancora operiamo per il bene in se stesso e per amore di colui che ci ha dato la legge, lieti di essere stati trovati degni di servire un Dio talmente glorioso e buono, e ci troviamo così nella disposizione d’animo dei figli”.

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guidati, allora il loro ritiro dal mondo è irragionevole. Comunque il nostro Arbitro, nella sua bontà, attende di vedere quale sarà il termine della nostra corsa. 13. Colui che è uscito dal mondo per sgravarsi del peso dei propri peccati, imiti coloro che se ne stanno seduti davanti alle tombe fuori della città e non smetta di versare calde e bollenti lacrime e di gemere silenziosamente nel proprio cuore, finché anch’egli non veda venire Gesù, non lo veda rotolare via dal suo cuore la pietra del suo indurimento, liberare Lazzaro – ossia la nostra mente – dalle bende dei peccati, e ordinare agli angeli che lo servono: Scioglietelo dai vincoli delle passioni e lasciatelo andare verso la beata impassibilità (cf. Gv 11,44)! Ma se non si comporterà così, non trarrà alcun vantaggio dalla propria uscita dal mondo. 14. Noi tutti che vogliamo uscire dall’Egitto e fuggire lontano dal faraone (cf. Es 13,17-22)6, certamente abbiamo bisogno anche noi di un qualche Mosè, come mediatore davanti a Dio e dopo Dio7, che stando in piedi, a metà tra azione e contemplazione, tenda le mani verso Dio in nostro favore, affinché sotto la sua guida possiamo traversare il mare dei peccati (cf. Es 14,21-22) e mettere in fuga l’Amalek delle passioni (cf. Es 17,8-13)8. Si sono illusi, perciò, quanti, confidando in se stessi, hanno creduto di non aver bisogno di alcuno che li guidasse!

6 Cf. Schol. 11, PG 88,648A: “L’Egitto in senso spirituale è l’ottenebramento prodotto dalle passioni e nessuno vi scende se non perché è piombato nella fame. Non trascurare l’azione, perché altrimenti la tua conoscenza diminuisce e tu, venuta la fame, discendi in Egitto. I padri chiamano ‘Egitto’ la volontà della carne che ci rende inclini al rilassamento del corpo e insegna alla nostra mente ad attaccarsi ai piaceri” (cf. Doroteo di Gaza, Insegnamenti XIII,142,5). 7 Cioè dopo Cristo, che secondo la Scrittura è l’unico vero mediatore tra Dio e gli uomini (cf. 1Tm 2,5). 8 L’“Amalek delle passioni” è il diavolo.

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15. Coloro che uscirono dall’Egitto avevano come guida Mosè, e coloro che fuggirono da Sodoma un angelo (cf. Gen 19,16). Gli uni somigliano a coloro che sono guariti dalle passioni dell’anima attraverso la cura dei loro medici9: sono appunto coloro che escono dall’Egitto. Gli altri invece somigliano a coloro che desiderano ardentemente spogliarsi dell’immondezza del loro misero corpo: anch’essi perciò hanno bisogno dell’aiuto di un angelo, o di uno che, per così dire, sia uguale a un angelo. L’abilità dell’esperto e del medico di cui abbiamo bisogno, infatti, deve essere proporzionata al grado di cancrena delle nostre piaghe. 16. Quanti hanno intrapreso la salita verso il cielo rimanendo nel corpo, devono farsi veramente violenza (cf. Mt 11,12)10 e sopportare sofferenze senza fine – soprattutto agli inizi della loro rinuncia al mondo – finché, grazie a un’autentica afflizione, la loro indole naturalmente incline ai piaceri e il loro cuore insensibile non abbiano raggiunto stabilmente l’amore di Dio e la purezza. 17. Dobbiamo sopportare davvero molta fatica e molta amarezza nascosta, tanto più se viviamo nella negligenza;

9 Climaco usa spesso delle immagini “terapeutiche” per descrivere la relazione tra padre spirituale e discepolo e in generale la dinamica della vita spirituale: il padre spirituale è un medico (a immagine del Cristo, unico vero “medico delle anime e dei corpi”) e il discepolo un malato, che deve essere guarito dalle passioni che ha contratto nell’anima. Cf. Hierotheos (Vlahos), “Illness, Cure and the Therapist according to St. John of the Ladder”, in The Greek Orthodox Theological Review 44 (1999), pp. 109-130 e supra, “Introduzione”, p. 39; in generale su questo tema, caratteristico di tutta la spiritualità orientale, cf. J.-C. Larchet, Thérapeutique des maladies spirituelles. 10 Cf. Schol. 12, PG 88,648B: “In molti punti l’autore parla di violenza, come quando dice: ‘Il monaco è violenza continua fatta alla natura’, e ancora: ‘In realtà hanno bisogno di violenza’, e in molti altri passi simili. A questo proposito si può dire che, quando una certa abitudine è diventata in noi una disposizione stabile e, per così dire, una natura, in quel caso è necessaria la violenza per cambiare e trasformare quell’abitudine che si è acquisito da lungo tempo. Perciò anche il Signore dice: Il regno dei cieli è dei violenti!”.

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e ciò finché, a forza di semplicità, di profonda mitezza e di fervore, non avremo condotto la nostra mente – che è come una cagna abituata a frequentare i macelli e avida di cibo – all’amore della vigilanza e della purezza. Ma facciamoci coraggio, anche se siamo dominati dalle passioni e impotenti! Offriamo e confessiamo a Cristo, con fede incrollabile, la nostra debolezza e l’impotenza della nostra anima, e certamente otterremo il suo aiuto, anche al di là dei nostri meriti, purché ci sprofondiamo continuamente nell’abisso dell’umiltà. 18. Tutti coloro che intraprendono questa bella lotta (cf. 1Tm 6,12; 2Tm 4,7), dura e ardua, ma allo stesso tempo leggera11, sappiano che sono venuti a gettarsi in un fuoco12, se veramente desiderano che il fuoco immateriale abiti in loro. Ciascuno però esamini se stesso e poi mangi del pane di questa lotta, che è accompagnato da erbe amare, e beva del suo calice, che si beve con le lacrime, per non intraprendere il combattimento a propria condanna (cf. 1Cor 11,28-29). 19. Se è vero che non chiunque viene battezzato è salvo, tacerò le conseguenze di questa affermazione. Quanto però a coloro che intraprendono questa lotta, dovranno rinunciare a tutto, disprezzare tutto, ridersi di tutto, e scrollarsi di dosso tutto, in modo da porre un buon fondamento! 20. Un buon fondamento è quello formato da tre basi diverse e da tre colonne: innocenza, digiuno e castità. Tutti i neonati in Cristo (cf. 1Cor 3,1) comincino da queste cose, prendendo esempio da coloro che sono neonati

fisicamente: in essi non si troverà alcunché di malvagio o di falso, né un’avidità insaziabile o un ventre mai soddisfatto, né un corpo infuocato o eccitato dalle passioni; ma forse, quando cominceranno a nutrirsi di più e a crescere, saranno anch’essi bruciati da quest’incendio13. 21. È veramente odioso e pericoloso che il lottatore si rilassi fin dall’inizio della lotta, dando così a tutti un chiaro indizio della propria disfatta14. 22. Aver iniziato a lottare con forza ci sarà sempre utile, anche se in seguito ci saremo rilassati, poiché un’anima che ha iniziato a lottare con valore, anche se poi si sarà rilassata, sarà stimolata dal ricordo dell’antico zelo, come da un pungolo; ed è proprio in questo modo che molti hanno riacquistato le ali. 23. Quando l’anima, tradendo se stessa, perde quel beato e desiderabile fervore, cerchi con impegno la causa di tale perdita, e poi intraprenda contro di essa una guerra a tutto campo, mettendovi tutto il proprio zelo: quel fervore infatti non potrà ritornare che dalla porta da cui è uscito. 24. Chi ha rinunciato al mondo per timore, assomiglia all’incenso che brucia: inizia diffondendo un buon odore, e poi finisce in fumo; chi lo ha fatto perché spera di ottenere una ricompensa, è come la mola di un mulino spinta da un asino, perché gira sempre allo stesso modo15; chi invece si è ritirato dal mondo mosso dall’amore di Dio, possiede fin dall’inizio un fuoco dentro di sé, che, se trova materiale che lo alimenti16, può crescere e provocare un incendio più grande.

11 Cf. Schol. 14, PG 88,648C: “Ha detto ‘dura’ a causa della custodia dei sensi; ‘ardua’ a causa della mortificazione della carne e del doloroso abbandono delle abitudini inveterate; ‘leggera’, infine, a causa della fiducia in Dio, dei progressi che si potranno fare e della speranza dei beni futuri”. 12 Quello delle tentazioni.

13 Cf. Exegesis, p. 67: “L’autore ha aggiunto il ‘forse’ per clemenza, non perché fosse in dubbio: le cose stanno infatti così come ha detto”. 14 Lett.: “Della propria uccisione (tês heautoû sphaghês)”. 15 Cioè è costante nel proprio cammino, ma manca di slancio. 16 Cioè le lotte della vita monastica.

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25. Alcuni costruiscono sulla pietra con mattoni; altri innalzano colonne sulla terra; altri ancora, dopo aver sgranchito un po’ le gambe e aver riscaldato muscoli e articolazioni, si mettono a camminare più rapidamente: chi può capire capisca questo discorso simbolico17. 26. Corriamo con impegno pensando che siamo stati chiamati da un Dio e da un Re, perché, con la brevità della nostra vita, rischiamo di essere trovati senza frutti nel giorno della morte e di morire di fame! Rendiamoci graditi al Signore, come dei soldati nei confronti del loro re: dopo la nostra milizia infatti ci verrà chiesto un conto esatto del nostro servizio! 27. Temiamo il Signore come temiamo le bestie18! Ho visto degli uomini, infatti, che erano andati a rubare senza temere il Signore, ma poi, appena sentirono la voce dei cani in quel luogo, tornarono subito indietro: ciò che non poté fare il timore di Dio, riuscì a farlo la paura delle bestie! 28. Amiamo Dio come onoriamo gli amici! Spesso infatti ho visto persone che quando offendono Dio non provano alcun rimorso, ma quando hanno infastidito i propri amici in una cosa da nulla, ricorrono a ogni artificio, a ogni accorgimento, a ogni sacrificio, a ogni mezzo per riconoscere la propria colpa, in prima persona, attraverso amici, o per mezzo di regali, così da poter riguadagnare l’antica amicizia.

17 Seguendo l’intepretazione di P. Deseille (che riprende con qualche variazione quella di Schol. 17, PG 88,649B), possiamo intendere il passo come segue: alcuni, sul solido fondamento della vita cenobitica (“la pietra”), costruiscono un edificio spirituale mediocre per mancanza di coraggio e di fervore (cf. infra, V,25, e DP 100,c sul valore negativo dei “mattoni”); altri hanno la presunzione di innalzare, fin dall’inizio, l’edificio spirituale della vita eremitica (“le colonne”), senza il fondamento dell’umiltà e dell’obbedienza; altri infine cominciano il loro cammino con umiltà guidati da un padre spirituale, e a poco a poco fanno progressi. 18 Cf. infra, XXVI/1,31.

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29. Quando siamo ancora agli inizi della nostra rinuncia al mondo, certamente l’esercizio delle virtù comporta fatica e amarezza; quando poi abbiamo fatto progressi, non ne proviamo più alcun dolore o ne proviamo poco; e quando infine il nostro animo mortale è divorato e vinto dallo zelo che ci abita, allora ormai esercitiamo quelle virtù con ogni gioia, fervore, desiderio e ardore divino19. 30. Come sono degni di lode coloro che subito, fin dagli inizi, perseguono le virtù e mettono in pratica i comandamenti con gioia e con zelo, così sono altrettanto degni di compassione coloro che, dopo tanti anni passati nell’ascesi, si dedicano a queste cose con fatica, se pure vi si dedicano! 31. Guardiamo di non disprezzare o giudicare male chi rinuncia al mondo a motivo di circostanze contingenti! Ho visto infatti degli esuli che, senza volerlo, incontrarono il loro re che si trovava in viaggio, e da quel momento si misero al suo seguito, entrarono insieme a lui nel palazzo e parteciparono al suo banchetto20. 32. Ho visto del seme caduto casualmente a terra portare frutto ricco e abbondante (cf. Mt 13,8 par .), come ho anche visto il contrario. 33. Ho visto una persona andare in un ospedale per una qualche altra necessità e poi, vinta dalla cortesia del medico, lasciarsi curare con un astringente, scacciando così la nebbia che gli velava la luce degli occhi. Così per alcuni le scelte involontarie si sono rivelate più sicure e decisive di quelle compiute da altri volontariamente. 19 Cf. Apoftegmi, Sincletica 1: “Per coloro che si avvicinano a Dio, all’inizio vi è lotta e grande fatica, ma poi gioia indicibile. Come quelli che vogliono accendere un fuoco: prima sono disturbati dal fumo e lacrimano e poi raggiungono ciò che cercano. Perché dice: Il nostro Dio è fuoco che consuma (Eb 12,29). Così anche noi dobbiamo accendere il fuoco divino con lacrime e stenti”. 20 Cf. Schol. 18, PG 88,649C: “Questa parabola ci mostra la vicenda di Paolo e di molti altri che, avendo incontrato Cristo loro malgrado, sono entrati con lui nel Regno e con lui hanno regnato”.

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34. Nessuno, adducendo come pretesti la gravità e la quantità dei propri peccati, si dichiari indegno della professione monastica e riconosca piuttosto di tenersi in poca stima a causa del proprio attaccamento ai piaceri, cercando scuse per i peccati (cf. Sal 140,4)! Dove infatti è molta la cancrena, c’è anche bisogno di una grande cura da parte del medico per espellere il marciume: non sono i sani, infatti, che vanno in ospedale (cf. Lc 5,31)! 35. Se un re terrestre ci chiamasse e ci chiedesse di militare al suo servizio, noi certo non indugeremmo né inventeremmo scuse, ma, abbandonata ogni cosa (cf. Lc 5,28), lo raggiungeremmo pieni di zelo: ora dunque che il Re dei re, il Signore dei signori e il Dio degli dèi (cf. Dt 10,17; Sal 49,1; 1Tm 6,16; Ap 19,16) ci chiama a questa milizia celeste, stiamo attenti a non rifiutare il suo invito per negligenza o per pigrizia, per non trovarci poi senza scuse di fronte al grande tribunale. 36. È possibile camminare, certo, anche rimanendo legati agli affari e alle preoccupazioni della vita, che sono come catene di ferro, ma con molta difficoltà: spesso infatti anche coloro che hanno i piedi cinti con catene camminano, ma continuamente inciampano e si feriscono21. 37. Il celibe che è legato al mondo solo dagli affari, somiglia a chi ha i piedi cinti da catene: perciò, quando vuole correre verso la vita monastica, non ne è impedito; chi invece è sposato, somiglia a chi ha mani e piedi legati. 38. Alcuni che vivevano nel mondo con negligenza mi dissero: “In che modo possiamo condurre la vita monastica noi che viviamo insieme alle nostre mogli e siamo circondati dalle preoccupazioni della vita pubblica?”. Ho risposto loro: “Tutto il bene che potete fare, fatelo; non in-

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Cf. infra, XXVII/2,19.

sultate nessuno; non mentite a nessuno; non siate arroganti con nessuno; non odiate nessuno; non disertate le assemblee liturgiche; siate compassionevoli verso i bisognosi; non date scandalo a nessuno; non accostatevi alla moglie di un altro, ma accontentatevi dei vostri salari (Lc 3,14), ovvero delle vostre mogli: se vi comportate così, non siete lontani dal regno dei cieli (cf. Mc 12,34)!”. 39. Accorriamo, dunque, con gioia e timore a questa bella lotta (cf. 1Tm 6,12; 2Tm 4,7) senza temere i nostri nemici, giacché essi, anche se non li vediamo, scrutano il volto della nostra anima22 e se lo vedono alterato per lo spavento, allora si armano contro di noi con ancor più accanimento, perché capiscono, quei perfidi, che abbiamo avuto paura di loro. Armiamoci di buon animo, dunque, contro di loro, perché contro chi lotta con impegno, nessuno vuole combattere! 40. Nella sua provvidenza, il Signore alleggerisce le lotte dei principianti, affinché non ritornino nel mondo subito fin dall’inizio. Perciò, rallegratevi nel Signore sempre (Fil 4,4), voi tutti suoi servi (cf. Sal 133,1), riconoscendo in ciò il primo segno dell’amore che il Signore ha per voi, e il segno che è proprio lui ad avervi chiamati! 41. È noto però che spesso il Signore agisce anche così: quando vede anime coraggiose, concede loro di combattere subito fin dagli inizi, perché vuole incoronarle in breve tempo.

22 Cf. Schol. 25, PG 88,652A: “Ha chiamato ‘volto dell’anima’ le facoltà dell’anima. I nostri nemici infatti, che sono i demoni, vedono la nostra condizione per mezzo degli indizi che hanno dalle disposizioni e rappresentazioni dell’anima; giacché da soli non conoscono il nostro pensiero, ma seminano soltanto i loro inganni e aspettano di vedere con quale disposizione li accogliamo; e così con la nostra indolenza facciamo sì che essi ci vedano, pur non vedendoci”.

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42. Il Signore ha nascosto a quelli che vivono nel mondo la difficoltà – ma bisognerebbe dire piuttosto: la facilità23! – della corsa della vita monastica, perché se l’avessero conosciuta, nessun mortale avrebbe mai deciso di rinunciare al mondo! 43. Dona a Cristo le fatiche della tua giovinezza e nella vecchiaia godrai della ricchezza dell’impassibilità: i frutti raccolti in gioventù nutrono e alleviano la stanchezza durante la vecchiaia. Fatichiamo con ardore finché siamo giovani, corriamo con vigilanza, perché è incerto il momento della morte! 44. Abbiamo dei nemici veramente cattivi, feroci, perfidi, scaltri, potenti, mai addormentati, invisibili e immateriali: nelle loro mani tengono del fuoco e con la loro fiamma desiderano incendiare il tempio di Dio24! 45. Nessuno, finché è giovane, presti ascolto ai demoni che gli dicono: “Non consumare la tua carne, per non incappare in malattie e infermità!”. Difficilmente infatti si riuscirà a trovare – soprattutto in questa generazione – chi scelga di mortificare questa carne: sarà a malapena disposto a fare a meno di cibi abbondanti e succulenti! Scopo di questo demonio25 è di rendere fiacca e piena di pigrizia la nostra entrata nella corsa della vita monastica, e il suo termine, quindi, corrispondente all’inizio. 23 Cf. la nota di Sophronios ad loc.: “Quella che ai più appare una difficoltà della lotta ascetica, a me non sembra una difficoltà – dice l’autore – e non lo è: infatti è difficoltà in apparenza, ma facilità in realtà; tuttavia Dio ha nascosto a quelli che vivono nel mondo tale apparente difficoltà, poiché, se l’avessero vista, nessuno avrebbe mai rinunciato al mondo, dal momento che, come dice l’Apostolo, l’uomo carnale non comprende le cose dello Spirito di Dio, perché per lui sono follia (1Cor 2,14). Fare una scelta a favore di Dio è proprio dello spirituale; ma chi vive secondo il mondo come potrebbe rinunciare alle proprie vergognose ricchezze, se Dio non lo chiamasse con l’astuzia? E infatti la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio (1Cor 15,50)”. 24 Vogliono cioè incendiare con la fiamma delle passioni il corpo dell’uomo che in virtù del battesimo è tempio dello Spirito santo: cf. 1Cor 3,16; 2Cor 6,16. 25 Cioè del demonio che tenta il monaco in questo ambito.

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46. La prima cosa che devono esaminare e poi realizzare coloro che vogliono servire veramente Cristo è la scelta del luogo, della forma, dell’assetto di vita, e delle occupazioni a loro convenienti, con l’aiuto dei padri spirituali e delle proprie conoscenze. La vita cenobitica, infatti, non è per tutti, a motivo della golosità, né è per tutti la vita dell’esicasta, a motivo della propensione all’ira26. Ciascuno dunque cerchi di capire per quale stato di vita è tagliato. 47. L’intero stato monastico, in modo assai generale, comprende tre forme di vita: il ritiro e la solitudine dell’atleta spirituale; il vivere nell’esichia in compagnia di uno o due fratelli; e il risiedere in un cenobio esercitando la pazienza. Non deviare – dice l’Ecclesiaste – né a destra né a sinistra27, ma procedi per la via regale (cf. Nm 20,17). La via di mezzo tra quelle appena menzionate è adatta a molti. Guai a chi è solo – dice infatti – perché se cade nell’acedia, nel sonno, nel torpore, o nella disperazione, non c’è chi lo rialzi (cf. Qo 4,10); dove invece due o tre sono riuniti nel mio nome – ha detto il Signore – io sono in mezzo a loro (Mt 18,20). 48. Qual è dunque il monaco fedele e saggio (cf. Mt 24,45; Lc 12,42), che ha custodito sempre vivo il suo fervore, e fino alla fine della vita non ha mai smesso di aggiungere fuoco a fuoco, fervore a fervore, desiderio a desiderio, e zelo a zelo? Primo gradino: tu che vi sei salito, non voltarti indietro (cf. Lc 9,62)!

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Cf. infra, VIII,20. Si tratta in realtà di Pr 4,27.

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Discorso II SUL DISTACCO E SULLA RINUNCIA

1. Chi ama veramente il Signore, chi cerca veramente di ottenere il regno futuro, chi prova veramente rimorso dei propri peccati, chi custodisce veramente il ricordo della punizione e dell’eterno giudizio, e chi ha veramente dentro di sé il timore della propria dipartita, costui non amerà, non penserà, né si preoccuperà più di ricchezze, proprietà, genitori, gloria mondana, amici o fratelli, né assolutamente di qualsiasi altra cosa terrena1; anzi, avendo rigettato e odiato ogni legame e ogni pensiero relativo a queste cose e, prima ancora, la propria stessa carne, seguirà Cristo, nudo, senza preoccupazioni e senza indugi, tenendo lo sguardo fisso verso il cielo e attendendo l’aiuto di là, secondo le parole di quel santo: L’anima mia si è stretta a te (Sal 62,9), e di quell’altro profeta eternamente memorabile: Io non mi sono stancato di seguirti, né ho desiderato il giorno o il riposo dell’uomo, o Signore (Ger 17,16). 1 Cf. Basilio di Cesarea, Regole diffuse 5: “Chi vuole veramente seguire Dio, deve dunque liberarsi dai vincoli dell’attaccamento alla vita; e questo può avvenire solo mediante una totale separazione dai costumi antichi e il loro oblio. Perciò, se non ci rendiamo estranei alla parentela secondo la carne e a questa vita, come trasferiti con il nostro modo di vivere in un altro mondo, conformemente alle parole di colui che ha detto: La nostra patria infatti è nei cieli (Fil 3,20), ci sarà impossibile raggiungere il fine di piacere a Dio. Il Signore, infatti, ha affermato categoricamente: Così chiunque tra voi non rinuncia a tutti i propri beni, non può essere mio discepolo (Lc 14,33)”.

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2. Sarebbe una grandissima vergogna, se, dopo aver abbandonato tutte queste cose, rispondendo alla chiamata del Signore e non di un uomo, ci preoccupassimo poi di qualche altra cosa, che non potrà aiutarci nell’ora del bisogno, ossia della nostra dipartita: questo infatti significa voltarsi indietro e non essere adatti al regno dei cieli, come ha detto il Signore (cf. Lc 9,62). 3. Il Signore, conoscendo la nostra facilità a cadere all’inizio del cammino e sapendo com’è facile che, vivendo o incontrandoci con le persone del mondo, ci volgiamo di nuovo al mondo, a colui che gli aveva chiesto: Permettimi di andare a seppellire mio padre, rispose: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti (Mt 8,21-22)! 4. Dopo la nostra rinuncia al mondo, i demoni ci suggeriscono di considerare beati quelli che tra i secolari sono misericordiosi e pieni di compassione verso i poveri, e di considerarci degli sventurati per esserci privati di una tale virtù. Ma, attraverso questa parvenza di umiltà, in realtà lo scopo dei nostri nemici è di farci tornare nel mondo, oppure, se restiamo monaci, di farci precipitare nella disperazione. 5. C’è chi disprezza coloro che vivono nel mondo per presunzione; ma c’è anche chi lo fa, in loro assenza, per sfuggire la disperazione ed acquistare la speranza. 6. Ascoltiamo cosa ha detto il Signore a quel giovane che aveva messo in pratica quasi tutti i comandamenti: “Una sola cosa ti manca: vendere ciò che hai, darlo ai poveri, e diventare tu stesso un povero che riceve l’elemosina (cf. Lc 18,22 par.)”. 7. Se vogliamo correre con impegno e sollecitudine, osserviamo attentamente come il Signore abbia dichiarato “morti” quanti vivono nel mondo, anche se sono ancora in vita, quando disse ad un tale: “Lascia che i 102

morti, che vivono nel mondo, seppelliscano coloro che sono morti nel corpo (cf. Mt 8,22)!”2. 8. La ricchezza non impediva affatto a quel giovane3 di accedere al battesimo; vaneggiano dunque quanti vanno dicendo che il Signore gli ordinò di vendere la sua ricchezza per ricevere il battesimo! Una tale testimonianza ci basti per acquistare una piena certezza della dignità della nostra professione4. 9. Coloro che, vivendo nel mondo, si consumano in veglie, digiuni, fatiche ascetiche e mortificazioni, quando si separano dagli uomini ed entrano nella vita monastica, come in un luogo di prova o in uno stadio, non continuano più l’ascesi di prima, che così risulta finta e falsa5. 10. Ho visto molte e varie piante di virtù piantate da coloro che vivono nel mondo, innaffiate dalla vanagloria, come da un canale sotterraneo e fangoso, sarchiate dall’ostentazione e concimate dalle lodi degli uomini; poi, però, una volta trapiantate in una terra deserta, inaccessibile alle persone del mondo e senz’acqua (cf. Sal 62,2) – senza cioè quell’acqua fetida della vanagloria –, subito si sono sec2 Cf. Schol. 5, PG 88,660C: “Come infatti ‘muore al mondo’ chi sfugge ciò che appartiene al mondo, così ‘muore alla vita’ chi non mette in pratica i comandamenti di vita; e come diciamo che un essere vivente è morto quando diventa privo di movimento e di attività, egli è un morto spirituale, ed è detto tale, quando non persegue più la vita attraverso il rinnegamento delle proprie volontà”. 3 Il giovane di cui si parla sopra al § 6. 4 In queste parole di Climaco si scorge in sottofondo una “teologia dei consigli evangelici” – per parlare in termini occidentali –, peraltro già formulata in modo esplicito prima di lui da Doroteo di Gaza (cf. Insegnamenti I,12): secondo tale ottica, i comandamenti del Signore sono destinati a tutti i battezzati, ma i “consigli” – che consistono essenzialmente nel celibato, nella povertà e nell’obbedienza – sono riservati soltanto ai monaci. Bisogna riconoscere tuttavia che, mentre in occidente tale modo di intendere la vita monastica – che rischia di fare dei monaci una casta di “perfetti” sottovalutando le esigenze radicali di fedeltà all’evangelo comuni a tutti i battezzati – ha dominato in modo indiscusso fino a tempi recentissimi, in oriente si è generalmente sottolineato di più l’intimo legame tra battesimo e vita monastica e l’unicità della vocazione cristiana. 5 Perché era praticata per la lode degli uomini.

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cate. Le piante acquatiche, infatti, non sono fatte per produrre frutti nei terreni duri e aridi delle nostre palestre6. 11. Chi è arrivato a odiare il mondo, è sfuggito alla tristezza; ma chi prova ancora attaccamento nei confronti di qualcosa di visibile, non è ancora stato liberato dalla tristezza: come potrebbe non rattristarsi, infatti, quando è privato dell’oggetto del proprio amore? 12. In ogni cosa è necessaria molta vigilanza7, ma più che in tutto il resto dobbiamo porre particolare attenzione a questo. Ho visto molte persone nel mondo che erano riuscite a sfuggire alle furenti passioni della loro carne attraverso le cure, le preoccupazioni, le ansie e le veglie dedicate agli affari di questo mondo; ma una volta entrate nella vita monastica, trovandosi nella totale assenza di preoccupazioni, tali persone furono miseramente insudiciate dai moti passionali del corpo. 13. Facciamo attenzione a noi stessi, perché non accada che, mentre affermiamo di camminare per la via stretta e angusta, non ci smarriamo prendendo la via larga e spaziosa (cf. Mt 7,13-14)! Ecco i segni che ti potranno indicare chiaramente la via stretta: la mortificazione del ventre, il restare in piedi tutta la notte, la misura nel bere acqua e la scarsità di pane; il calice purificatore delle umiliazioni, le derisioni, gli scherni, le beffe, la recisione delle volontà proprie, la sopportazione delle percosse; accettare il disprezzo senza mormorazione; farsi violenza nel tollerare gli insulti; sopportare con forza quando si subisce un torto; non offendersi se si è calunniati; non adirarsi se si è disprezzati; umiliarsi se si è condannati. Beati coloro che percorrono questa via, perché di essi è il regno dei cieli (cf. Mt 5,3.10)! 6 7

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Cioè dei monasteri in cui si pratica l’ascesi. In greco: népsis. Cf. infra, “Glossario”, s.v. “Vigilanza/sobrietà”.

14. Nessuno potrà entrare nella celeste sala delle nozze (cf. Mt 22,10) portando una corona, se non avrà compiuto la prima, la seconda e la terza rinuncia; intendo cioè: la rinuncia a ogni cosa, persona e parente; la recisione della volontà propria; e, come terza, la rinuncia alla vanagloria, che è implicata dall’obbedienza8. 15. Uscite di mezzo a loro e separatevi, e non toccate l’impurità del mondo, dice il Signore (cf. 2Cor 6,17). Chi tra di loro, infatti, ha mai fatto miracoli? Chi ha resuscitato dei morti? Chi ha scacciato dei demoni? Nessuno! Tutte queste cose infatti sono il premio dei monaci, che il mondo non può ricevere, perché se lo potesse, superflua sarebbe l’ascesi, ovvero il ritiro dal mondo. 16. Ogni volta che i demoni, dopo la nostra rinuncia al mondo, ci riscaldano il cuore con il ricordo dei nostri genitori e fratelli, noi armiamoci della preghiera contro di loro e infiammiamoci con il ricordo del fuoco eterno, così da spegnere con tale ricordo il fuoco inopportuno che ci brucia nel cuore. Se poi qualcuno ritiene di essere distaccato da un oggetto, qualunque esso sia, e si affligge per la sua perdita, costui s’inganna totalmente. 17. Se dei giovani violentemente attirati dagli amori carnali e dalla dissolutezza vogliono entrare nella vita monastica, si sforzino di esercitarsi in ogni forma di sobrietà e di attenzione, e di convincersi ad astenersi da ogni genere di dissolutezza e di vizio, per evitare che la loro nuova condizione sia peggiore della prima (Mt 12,45)! 8 L’autore riprende, variandolo, il tema evagriano delle tre rinunce, presente in Giovanni Cassiano, Conferenze III,6: “La prima rinuncia consiste nel disprezzo effettivo e reale di tutte le ricchezze e dei beni del mondo; la seconda nel rigetto dei costumi viziosi e delle precedenti passioni dell’animo e della carne; la terza nel distrarre la mente da tutte le cose presenti e visibili per fissarla unicamente nella contemplazione delle realtà future e nel desiderio dei beni invisibili”. Sul tema, cf. Arch. Sophrony (Sacharov), “De la nécessité de trois renoncements chez St. Cassien le Romain et St. Jean Climaque”, in Studia Patristica V, Akademie-Verlag, Berlin 1962, pp. 393-400.

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18. Il porto può sì procurare salvezza, ma anche pericoli, e lo sanno bene coloro che navigano sul mare spirituale. Ma che triste spettacolo veder naufragare in porto coloro che si erano salvati in mare! 657 D

Secondo gradino: tu che corri, non imitare la moglie di Lot, ma Lot stesso9, e fuggi!

Discorso III SULL’ESTRANEITÀ

1. Estraneità1 è l’abbandono definitivo di tutto ciò che nella nostra patria ci è di ostacolo per raggiungere lo scopo della pietà. Estraneità significa comportamento esente da familiarità2, sapienza sconosciuta, intelligenza che non fa mostra di sé, vita nascosta, proposito invisibile, pensiero non rivelato; è brama di abiezione, desiderio di ristrettezza, fondamento del desiderio di Dio, abbondanza di amore3, rifiuto della vanagloria, abisso di silenzio4.

9 La moglie di Lot, fuggendo da Sodoma, si voltò indietro: cf. Gen 19,26; Lc 17,32.

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1 In greco: xeniteía. Per il significato del termine cf. infra, “Glossario”, s.v. “Estraneità”. 2 In greco: aparrhesíaston, lett.: “Senza parrhesía” (per questo termine cf. infra, “Glossario”, s.v. “Familiarità”). Sul rapporto tra estraneità e familiarità, cf. anche Apoftegmi, Agatone 1: “Il padre Pietro, discepolo del padre Lot, raccontò che si trovava un giorno nella cella del padre Agatone, quando un fratello venne a dirgli: ‘Voglio abitare insieme ad altri fratelli. Dimmi in che modo devo vivere con loro’. L’anziano gli rispose: ‘In tutti i giorni della tua vita considerati straniero come il primo giorno in cui ti sei unito a loro, per non avere mai con essi troppa familiarità’. Il padre Macario gli chiede: ‘Ma che cosa fa questa familiarità?’. Gli dice l’anziano: ‘La troppa familiarità è simile a un violento scirocco che, quando arriva, tutti lo fuggono e distrugge i frutti degli alberi’. Il padre Macario gli dice ancora: ‘È dunque così nociva la troppa familiarità?’. E il padre Agatone: ‘Nessun’altra passione è più nociva della troppa familiarità: è la madre di tutte le altre; il monaco operoso deve guardarsene, anche se vive solo nella sua cella’”. 3 Sottinteso: “Per Dio” (in greco: éros). Cf. infra V,6, nota 12. 4 Cf. Apoftegmi, Longino 1: “Se non sai trattenere la tua lingua, non sarai straniero dovunque tu vada. Trattieni qui la tua lingua e sarai straniero!”. Cf. anche Titoes 2.

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2. Di solito, agli inizi, è questo il pensiero che assilla in modo continuo e insistente gli innamorati del Signore, facendoli ardere, per così dire, in un fuoco divino: intendo dire, cioè, il pensiero che spinge gli innamorati di un così grande bene ad allontanarsi dai propri familiari allo scopo di poter vivere nell’abiezione e nell’angustia. Questo pensiero, però, quanto più è nobile e degno di lode, tanto più richiede anche un discernimento attento, poiché l’estraneità, se spinta all’eccesso, non è sempre cosa buona. 3. Se ogni profeta è disprezzato nella sua patria, come dice il Signore (cf. Mt 13,57 par.), guardiamo che la nostra estraneità non diventi occasione di vanagloria5! Estraneità significa, infatti, separarsi da tutto allo scopo di rendere il pensiero inseparabile da Dio. Chi vive da straniero, ama e realizza l’afflizione continua; lo straniero è colui che fugge ogni rapporto, sia con la propria gente che con gli stranieri stessi! 4. Tu che ti stai affrettando a raggiungere l’estraneità o la solitudine, non aspettare che ti raggiungano le anime che sono ancora legate al mondo, perché il ladro viene all’improvviso (cf. Mt 24,43 par.). Molti, infatti, per aver tentato di salvare anche pigri e pusillanimi, perirono insieme a loro, essendosi spento col tempo il fuoco della loro anima. Ma tu, appena hai ricevuto la fiamma, corri, perché non sai quando si spegnerà lasciandoti nella tenebra (cf. Gv 12,35). 5. Non a tutti noi è richiesto di salvare gli altri. Dice infatti l’Apostolo: Ciascuno di noi, fratelli, renderà conto a Dio di se stesso (Rm 14,12); e ancora: Tu che insegni agli altri – dice – non insegni a te stesso (Rm 2,21)? Certamente però a tutti è richiesto di salvare se stessi. 5 Chi abbandona la sua patria e dimora da straniero in un’altra “terra”, deve stare attento a non cercarvi la gloria umana che neanche in patria avrebbe potuto raggiungere. Per questo deve fuggire anche i rapporti con gli altri stranieri.

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6. Se vivi da straniero, guardati dal demone del vagabondaggio e dell’amore del piacere: la tua estraneità, infatti, gli fornisce una buona occasione. 7. Buona cosa è il distacco dagli affetti, ma l’estraneità ne è la madre. 8. Chi si è fatto straniero a motivo del Signore, non deve più essere attaccato a niente, perché non risulti che fa il vagabondo a motivo delle proprie passioni. Chi dunque è straniero al mondo, non si accosti più al mondo, perché le passioni ritornano facilmente. 9. Eva fu esiliata dal paradiso senza volerlo (cf. Gen 3,23); il monaco invece si esilia volontariamente dalla propria patria. Quella infatti avrebbe rischiato di desiderare ancora l’albero della disubbidienza, mentre costui si esporrebbe certamente a un pericolo quotidiano da parte dei propri parenti secondo la carne. 10. Fuggi come un flagello i luoghi del peccato! Quando infatti il frutto non è davanti ai nostri occhi, ci capita di desiderarlo meno spesso. 11. Non devi neppure ignorare il metodo con cui quegli autentici ladri6 ci ingannano: ci suggeriscono infatti di non separarci dalle persone del mondo, sostenendo che riceveremo una grande ricompensa, se, guardando le donne, riusciremo a contenerci; ma non bisogna dar loro retta, anzi fare il contrario7. 12. Quando, passati uno o due anni dalla separazione dai nostri familiari, abbiamo acquistato un po’ di pietà, di compunzione, o di temperanza, ecco che ci assalgono dei pensieri di vanità per suggerirci di tornare di nuovo in patria: “Per l’edificazione di molti – dicono –, per dare il buon esempio e recar giovamento a quanti hanno visto 6 7

Cioè i demoni. Cf. Evagrio Pontico, Trattato pratico 22.

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le nostre azioni inique!”. Se per caso, poi, abbiamo il dono della parola e un po’ d’istruzione, quelli ci suggeriscono subito di tornare nel mondo come salvatori d’anime e maestri, allo scopo di farci disperdere in mare i beni che abbiamo accumulato in porto. 13. Sforziamoci di imitare non la moglie di Lot, ma lo stesso Lot (cf. Gen 19,26; Lc 17,32): un’anima, infatti, che torna là donde è venuta, diventerà insipida come il sale (cf. Mt 5,13) e rimarrà immobile per il resto del tempo! 14. Fuggi l’Egitto senza voltarti indietro, perché i cuori che vi sono ritornati non hanno potuto contemplare Gerusalemme (cf. Es 16,2-3; Eb 3,7-4,4), ossia la terra dell’impassibilità. 15.È successo, sì, che alcuni che agli inizi avevano abbandonato la loro patria a motivo della loro debolezza infantile8, vi siano ritornati utilmente dopo essersi perfettamente purificati, forse allo scopo di salvare altri dopo aver salvato se stessi. Tuttavia anche il grande Mosè, che aveva visto Dio e da Dio stesso era stato inviato a salvare il suo popolo (cf. Es 3,6-10), incontrò molti pericoli in Egitto, ossia molte tenebre nel mondo. 16. È meglio rattristare i propri genitori piuttosto che il Signore, perché il Signore ci ha plasmati e salvati, mentre i genitori spesso portano alla perdizione e consegnano al castigo quelli che amano. 17. Straniero è colui che vive, in piena coscienza, come un uomo di lingua straniera tra persone di un’altra lingua. 18. Non è perché odiamo i nostri familiari o i luoghi in cui siamo nati, che ci separiamo da essi – non sia mai! –, ma lo facciamo per sfuggire al danno che potremmo ricevere da parte loro.

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In senso spirituale, come in 1Cor 3,1.

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19. Come in tutto il resto, anche in questo il Signore ci è stato maestro: risulta chiaramente, infatti, che anch’egli abbandonò più volte i propri genitori secondo la carne; e quando gli fu detto: Tua madre e i tuoi fratelli ti cercano (Mc 3,31), subito il nostro buon maestro ci diede esempio di un odio esente da passione, dicendo: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che fanno la volontà del Padre mio che è nei cieli” (cf. Mt 12,49-50). 20. Tuo padre sia dunque colui che ha la forza e la volontà di aiutarti a portare il peso dei tuoi peccati; tua madre, la compunzione, che è in grado di lavarti dalla sozzura del peccato; tuo fratello, colui che lotta e gareggia insieme a te nella corsa verso il cielo; prenditi come sposa inseparabile la memoria della morte; i gemiti del cuore siano i tuoi figli carissimi; come schiavo acquìstati il tuo corpo; e infine, come amici, le sante potenze angeliche, che al momento della tua dipartita potranno esserti utili, se ti saranno diventate amiche: Questa è la famiglia di quelli che cercano il Signore (cf. Sal 23,6)! 21. L’amore di Dio spegne l’amore per i genitori. Chi afferma di possederli entrambi, inganna se stesso, mentre ascolta colui che dice: Nessuno può servire a due padroni (Mt 6,24), con ciò che segue. 22. Non sono venuto – dice il Signore – a portare la pace sulla terra, o l’amore dei genitori per i figli, o dei fratelli per i fratelli che scelgono di servirmi, ma la guerra e la spada (Mt 10,34), e cioè: a separare gli amanti di Dio dagli amanti del mondo, le persone materiali da quelle spirituali, e coloro che cercano la gloria dagli umili; il Signore infatti si rallegra di litigi e separazioni che avvengono per amor suo! 23. Sta’ attento, sta’ attento, che, per l’amore e l’attaccamento che provi verso i tuoi familiari, non ti paia di vedere tutto ricoperto dalle acque delle loro lacrime, e tu non finisca per lasciarti travolgere insieme a loro dal dilu111

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vio dell’amore del mondo. Non provar compassione per le lacrime dei tuoi genitori o amici, altrimenti dovrai piangere in eterno! 24. Quando i tuoi ti circondano come api, anzi come vespe, e già intonano il lamento funebre su di te, tu subito, senza voltarti, concentra l’occhio della tua anima sulla tua morte e sulle tue azioni, e riuscirai così a scacciare un tormento con un altro tormento. 25. I nostri genitori – che in realtà non sono “nostri”9 – ci promettono con l’inganno di far tutto ciò che ci piace; ma il loro scopo è di ostacolare la nostra bellissima corsa, per attirarci poi verso la loro meta. 26. Quando lasciamo i nostri luoghi d’origine, ritiriamoci in luoghi meno confortevoli, meno esposti alla vanagloria e più umili; altrimenti stiamo prendendo il volo insieme alla passione! 27. Evita di far sfoggio della tua nobiltà di nascita e della tua celebrità, perché non si scopra che sei una persona a parole, e un’altra nei fatti. 28. Nessuno – anche se chiamato ad andare in una terra barbara e di lingua straniera – è mai riuscito a consegnare la propria vita a un tale grado di estraneità come quel grande al quale furono rivolte le parole: Esci dalla tua terra, dalla tua gente e dalla casa di tuo padre (Gen 12,1). 29. C’è chi, per essersi fatto straniero a imitazione di quel grande, è stato glorificato ancora di più dal Signore; tuttavia, anche se viene da Dio, è bene respingere tale gloria con lo scudo dell’umiltà. 30. Quando i demoni lodano la nostra estraneità come una grande virtù, pensiamo allora a colui che si è fatto 9

Cf. Schol. 15, PG 88,676B: “I nostri genitori secondo la carne sono ‘nostri’ secondo la parentela carnale, ma non lo sono nella misura in cui non ci aiutano nel perseguire lo scopo della pietà”.

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straniero per noi scendendo dal cielo sulla terra, e scopriremo che non riusciremo mai a ricompensarlo per tutta l’eternità. 31. L’attaccamento nei confronti di qualcuno dei nostri parenti o anche di un estraneo è pericoloso, perché a poco a poco può trascinarci verso il mondo e spegnere completamente il fuoco della nostra compunzione. 32. Come è impossibile rivolgere un occhio verso il cielo e l’altro verso la terra, così è altrettanto impossibile che non corra pericolo nell’anima chi non si è reso perfettamente straniero, sia con il pensiero che con il corpo, nei confronti di tutti i propri parenti e di tutti gli estranei. 33. Con molto sforzo e fatica si può acquisire in modo stabile una buona abitudine; ma ciò che si è raggiunto con tanta fatica, è possibile perderlo in un solo attimo: le cattive compagnie infatti corrompono i buoni costumi (1Cor 15,33), sia quelle mondane che quelle disordinate10! 34. Chi dopo la sua rinuncia al mondo continua a frequentare le persone del mondo o a stare vicino a loro, certamente cadrà nelle loro reti, oppure contaminerà il suo cuore pensando a esse; o se non si contamina, condannando coloro che si contaminano, anch’egli si contaminerà.

10 Gioco di parole tra “mondane (kosmikaì)” e “disordinate (ákosmoi)”. Cf. Schol. 18, PG 88,676D: “Ha chiamato ‘amicizie mondane’ quelle che vengono dal mondo; e le ha chiamate ‘disordinate’ per il fatto di essere turpi e dannose per coloro che fuggono il mondo”.

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Sui sogni che accompagnano i principianti

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35. Che la mia mente11, fonte della mia conoscenza, sia del tutto imperfetta e piena di ogni sorta di ignoranza, è impossibile nasconderlo: come infatti la gola permette di distinguere i cibi e l’udito i pensieri degli altri, e come il sole rivela la debolezza degli occhi, così le parole accusano l’ignoranza dell’anima. Tuttavia la legge della carità (cf. Gal 5,14) ci costringe a fare anche cose superiori alle nostre forze; perciò credo – ma non oso fare affermazioni categoriche – che dopo i discorsi sull’estraneità, o meglio al loro stesso interno, sia ragionevole inserire alcuni brevi cenni sui sogni, quanto basta per non rimanere all’oscuro neppure di quest’inganno dei nostri perfidi nemici. 36. Il sogno è un moto della mente nell’immobilità del corpo. 37. L’immaginazione è illusione degli occhi mentre l’intelligenza è al riposo. L’immaginazione è un’uscita della mente da sé medesima mentre il corpo è sveglio. L’immaginazione è una visione priva di fondamento nella realtà. 38. Il motivo per cui, dopo i precedenti discorsi, abbiamo deciso di parlare dei sogni è evidente: da quando infatti, dopo aver abbandonato case e parenti a motivo del Signore, abbiamo venduto le nostre stesse persone all’estraneità per amore di Cristo, i demoni cercano di turbarci attraverso i sogni, mostrandoci i nostri parenti che si battono il petto, muoiono, o a causa nostra sono nell’angustia e nella miseria. Ma chi crede a tali sogni è simile a chi rincorre la propria ombra e cerca di afferrarla! 39. I demoni della vanagloria profetizzano nei sogni: nella loro astuzia congetturano gli eventi futuri e ce li an-

nunciano prima; quando poi queste visioni si realizzano, noi restiamo sbalorditi e montiamo in superbia, quasi credendo di essere vicini al carisma della profezia. 40. Questo demone diventa spesso profeta per coloro che gli credono; ma è sempre un mentitore per coloro che lo disprezzano. Essendo infatti uno spirito, egli vede tutto ciò che è nell’aria e, se capisce che qualcuno sta morendo, lo preannuncia in sogno ai più creduloni. 41. I demoni però non sanno niente per prescienza, perché in quel caso anche gli stregoni12 sarebbero in grado di preannunciare la nostra morte. 42. Spesso i demoni si trasformano in angeli di luce (cf. 2Cor 11,14) o prendono l’aspetto di martiri: in tale veste ci appaiono mentre dormiamo, e quando poi ci risvegliamo ci sprofondano nella superbia e nell’esaltazione. 43. Questo sia per te un segno del loro inganno: i veri angeli in sogno ci mostrano punizioni, condanne, separazioni13, e, quando ci risvegliamo, ci ritroviamo tutti tremanti e tristi. 44. Se cominciamo a credere ai demoni nel sonno, diventeremo subito vittime dei loro inganni anche da svegli. Chi crede ai sogni è una persona che non vale nulla; chi invece non ci crede affatto, è un vero saggio. 45. Credi soltanto ai sogni che ti annunciano punizioni e condanne, ma se poi ti turba la disperazione allora anche quelli vengono dai demoni. Ecco il terzo gradino, che ha lo stesso numero della Trinità: chi vi è salito, non volga lo sguardo né a destra né a sinistra (cf. Nm 20,17; Pr 4,27)!

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I §§ 35-45 sono un’appendice al Discorso III.

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Che sono esperti dei demoni. Dei giusti e degli empi.

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Discorso IV SULLA BEATA E SEMPRE MEMORABILE OBBEDIENZA

1. È giunto ormai il momento di rivolgere il nostro discorso ai pugili e agli atleti di Cristo: come il frutto è sempre preceduto da un fiore, così l’obbedienza è sempre preceduta dall’estraneità, sia del corpo che della volontà. Tramite queste due virtù, infatti, come tramite due ali d’oro, l’anima santa spicca risolutamente il volo verso il cielo; ed è forse alludendo a essa che qualcuno, divinamente ispirato, ha cantato: Chi mi darà ali come di colomba così da prendere il volo mediante l’azione1 e riposarmi mediante la contemplazione e l’umiltà (cf. Sal 54,7)2? 2. Ma ora, se volete, non trascuriamo neppure di descrivere l’armatura di questi prodi guerrieri: essi tengono stretto lo scudo della fede (cf. Ef 6,15) – in Dio e nel loro allenatore3 – per allontanare attraverso di esso, se così posso dire, ogni tentazione d’incredulità o di cambiamento di residenza; brandiscono continuamente la spada dello Spirito (cf. Ef 6,17) per uccidere ogni loro volontà propria appena si avvicina; rivestiti poi con le corazze

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In greco: praktiké. Cf. infra, “Glossario”, s.v. “Pratica”. Sull’interpretazione che Climaco dà di questo passo biblico, cf. M. Van Parys, “L’interpretazione delle Scritture nella ‘Scala’”, pp. 144-147. 3 Il padre spirituale. 2

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della ferrea pazienza e della mitezza, respingono con esse ogni offesa, puntura, o frecciata verbale; hanno anche l’elmo della salvezza (cf. Ef 6,17), ossia la protezione che il superiore assicura loro attraverso la preghiera; e non stanno a piedi uniti, perché tendono in avanti l’uno per il servizio, tenendo fermo l’altro nella preghiera. 3. Obbedienza è rinnegamento totale della propria anima4, che si dimostra visibilmente per mezzo del corpo; o forse il contrario: obbedienza è mortificazione delle membra in un’intelligenza vivente. Obbedienza è movimento senza riflessione, morte volontaria, vita senza complicazione, rischio senza preoccupazione, difesa davanti a Dio senza preparazione, serenità nei confronti della morte, una navigazione senza pericoli, un viaggio che si fa dormendo. 4. Obbedienza è tomba della volontà e resurrezione dell’umiltà. Un morto non contraddice e non distingue tra ciò che è buono o ciò che sembra cattivo: infatti colui che, per atto di pietà, ha messo a morte la sua anima, risponderà di lui in tutto5. Obbedienza è rinuncia al discernimento per abbondanza di discernimento! 5. L’inizio della mortificazione, sia delle membra del corpo che delle volontà dell’anima, è fatica; lo stadio intermedio, ora è fatica, ora no; lo stadio finale, invece, è ormai riposo e insensibilità alla fatica. In tale stadio, questo beato morto vivente prova fatica e dolore solo quando si vede compiere la propria volontà, poiché teme il pesante fardello del proprio giudizio. 4

Cioè di sé, della propria vita. Il riferimento è al padre spirituale che è garante del proprio discepolo davanti a Dio (cf. infra, IV,43; DP 57, dove si afferma che anche l’impegno del padre spirituale è un dono totale della vita in favore del discepolo). Seguendo il testo di Rader (che legge hautoû invece di autoû), è possibile anche un’altra interpretazione: “Colui che per scopo di pietà ha messo a morte la propria anima, sarà giustificato in tutto”. 5

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6. Voi tutti che avete iniziato a spogliarvi per entrare nello stadio del martirio spirituale6; voi che volete prendere sul vostro collo il giogo di Cristo (cf. Mt 11,29); voi che vi sforzate di gettare sulle spalle di un altro il vostro fardello; voi che vi affrettate a firmare volontariamente l’atto della vostra vendita e in cambio volete che venga firmato l’atto della vostra liberazione; voi che, sostenuti dalle mani di altri, traversate a nuoto questo vasto mare, sappiate che avete deciso di percorrere un via corta e difficile, e che in essa incontrerete una sola e unica causa di sbandamento, che si chiama “idiorritmía”, ovvero indipendenza di vita7: chi ha rinunciato totalmente a essa, in tutto ciò che gli sembra buono, spirituale e gradito a Dio, ha raggiunto la meta ancor prima di essersi messo in cammino! Obbedienza significa infatti diffidare di se stessi in ogni opera buona fino alla fine della vita. 7. Apprestandoci a piegare il nostro collo e ad affidarci ad un altro, nel Signore, allo scopo di raggiungere l’umiltà e soprattutto la salvezza, prima ancora di entrare nello stadio dell’obbedienza, se abbiamo un po’ di furbizia e di senno, esaminiamo, giudichiamo e, per così dire, mettiamo alla prova il nostro pilota8, perché non ci succeda che, incappando in un marinaio invece che in un pilota, in un malato invece che in un medico, in un uomo che è schiavo 6 Cf. infra, § 10. La vita monastica è un martirio spirituale e, come il martire, il monaco confessa la sua fede in Cristo affrontando una “lotta”. Il tema, già anticipato in Clemente di Alessandria (Stromati IV,4,15) e in Origene (Esortazione al martirio 11; Su Numeri 10,2), è presente fin dagli albori della letteratura ascetica: cf., ad esempio, Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio 47,1; Id., Ai monaci, PG 28,1424C; Vite greche di Pacomio I,1; Basilio di Cesarea, Sui quaranta martiri 2; Giovanni Cassiano, Conferenze VII,20. Sull’argomento cf. E. E. Malone, s. v. “Martirio”, in Dizionario degli istituti di perfezione V, Paoline, Roma 1978, coll. 1038-1040; Atanasio (Jevtic´), “Martiri del sangue e martiri della coscienza”, in Id., L’infinito cammino. Umanazione di Dio e deificazione dell’uomo, Servitium-Interlogos, Sotto il Monte-Schio 1996, pp. 123141. 7 Su questo termine cf. infra, “Glossario”, s.v. “Indipendenza di vita”. 8 Cioè il nostro padre spirituale. Cf. infra, DP 3.

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delle passioni invece che in uno che ne è completamente distaccato, e venendoci a trovare in mare aperto invece che in porto, ci procuriamo così un sicuro naufragio. Ma, una volta entrati nello stadio della pietà e della sottomissione, non giudichiamo più in nulla il nostro buon arbitro, anche se ci capiterà di vedere ancora in lui – che è un uomo – delle piccole mancanze; altrimenti, se lo giudichiamo, non trarremo alcun vantaggio dalla nostra sottomissione. 8. È assolutamente necessario che coloro che vogliono conservare sempre una fiducia incrollabile nei confronti dei loro superiori, mantengano sempre nel proprio cuore, senza mai cancellarlo, il ricordo delle loro azioni virtuose, affinché, quando i demoni vengono a seminare la diffidenza nei loro confronti, essi li mettano zitti con i ricordi conservati nel proprio cuore. Quanto più, infatti, la fiducia fiorisce nel cuore, tanto più il corpo si affretta a compiere il servizio. Ma chi inciampa nella diffidenza, è già caduto nel peccato, poiché tutto ciò che non viene dalla fede è peccato (Rm 14,26)! 9. Se un pensiero ti suggerisce di giudicare o di condannare il tuo igumeno, tu sfuggilo rapidamente come la fornicazione, per non lasciare a quel serpente alcuna libertà, né spazio, né accesso, né appiglio. Di’ piuttosto al serpente: “O ingannatore, non sono io che ho ricevuto il compito di giudicare chi mi comanda, ma lui quello di giudicare me! Non sono io ad essere stato costituito giudice per lui, ma lui per me!”. 10. I padri hanno definito la salmodia un’arma, la preghiera un muro, le lacrime pure un lavacro; ma hanno giudicato la beata obbedienza come una confessione di fede9: senza di essa nessun uomo soggetto alle passioni vedrà il Signore (cf. Eb 12,14). 9

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Cioè come un martirio. Cf. Apoftegmi, Pambo 3, e supra, IV,6.

11. Chi vive nella sottomissione, pronuncia lui stesso la sentenza sulla propria persona: se infatti, per amore del Signore, obbedisce in modo perfetto, anche se non sembra farlo in modo perfetto, è già sfuggito al giudizio; se invece in qualcosa avrà compiuto la propria volontà pur dando l’impressione di obbedire, ne porterà lui stesso il peso. E se il superiore non smette di rimproverarlo, bene; ma se se ne sta in silenzio, non so proprio cosa dire10. 12. Coloro che si sottomettono con semplicità nel Signore compiono bene la loro corsa, evitando di suscitare contro di sé la malizia dei demoni con il gusto di cavillare. 13. Prima di tutto, confessiamo i nostri peccati al nostro buon giudice, e soltanto a lui; se però lui ce lo ordina, anche davanti a tutti: le piaghe manifestate in pubblico, infatti, non potranno incancrenire ma guariranno. 14. Trovandomi una volta in un cenobio11, ho assistito al tremendo giudizio di un ottimo giudice e pastore12. Mentre io ero là, infatti, capitò che una persona che aveva fatto parte di una banda di briganti, volesse entrare nella vita monastica. Quell’ottimo medico e pastore gli

10 Cf. Schol. 16, PG 88,733A: “L’autore suggerisce che la responsabilità della caduta è comune al discepolo che si è sottratto alla sottomissione e al suo padre spirituale che non lo ha rimproverato, mostrando così, con quest’incertezza, che anche il superiore è colpevole”. 11 Comincia qui la descrizione della vita del cenobio egiziano visitato dall’autore, che proseguirà nel discorso seguente dedicato alla penitenza (cf. infra, V,5), e verrà ripresa in DP 94. Da IV,26 apprendiamo che questo cenobio doveva trovarsi nei pressi di Alessandria, ma non è sicuro che si tratti – come alcuni hanno pensato – del monastero di Canopo chiamato “Penitenza” (Metánoia), di cui parla Girolamo nella Prefazione alla Regola di Pacomio; questo dato però sarebbe in linea con la descrizione delle pratiche penitenziali che si fa in V,5, e con il nome di “Prigione” del monastero dipendente da questo cenobio. 12 Cioè di un superiore, che, nei confronti dei membri della sua comunità, aveva le funzioni di giudice e di pastore, oltre a quelle di maestro, medico e padre spirituale. Cf. DP, passim.

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ordinò di restare sette giorni in completo riposo, soltanto per osservare il tipo di vita che si conduceva in quel luogo. Dopo il settimo giorno, il pastore lo chiamò in privato e gli chiese: “Desideri davvero vivere insieme a noi?”. E poiché lo vide assolutamente convinto, gli chiese ancora: “Quali delitti hai commesso nel mondo?”. Vedendo dunque che confessava tutto prontamente, gli disse di nuovo per metterlo alla prova: “Voglio che manifesti pubblicamente queste cose davanti a tutta la comunità dei fratelli!”. E quello, che ormai odiava veramente il suo peccato, disprezzando ogni vergogna, promise di farlo senza esitazioni: “E se vuoi – disse – lo farò anche in mezzo alla città di Alessandria!”. Quindi, il pastore raccolse in chiesa tutte le sue pecore, che erano in numero di duecentotrenta; e, mentre si celebrava la divina sinassi (poiché era domenica), al termine della lettura dell’evangelo, fece entrare quel colpevole – ormai irreprensibile –: trascinato e battuto con moderazione da alcuni fratelli, aveva le mani legate dietro la schiena, era vestito di un cilicio di peli e il suo capo era cosparso di cenere. A quello spettacolo, tutti rimasero esterrefatti e scoppiarono subito in pianto, perché nessuno sapeva ciò che era successo. Poi, quando l’uomo giunse vicino alle porte della chiesa, quel santo giudice pieno d’amore per le anime gli disse a gran voce: “Fermati, perché non sei degno di entrare qui!”. Atterrito dalla voce del pastore che arrivava dal presbiterio – egli infatti, come più tardi ci assicurò con giuramenti, credeva di aver udito non la voce di un uomo ma un tuono –, quell’uomo cadde subito con la faccia a terra, tutto tremante e sconvolto dalla paura. Mentre giaceva a terra e bagnava il pavimento con le sue lacrime, quel meraviglioso medico, che cercava in tutti i modi la sua salvezza e voleva offrire a tutti gli altri un bell’esempio di 122

salvezza e di autentica umiltà, gli ordinò di nuovo di dire a tutti in dettaglio tutto ciò che aveva fatto. E quello, con orrore e lasciando sbigottiti tutti quelli che lo ascoltavano, confessò a uno a uno tutti i suoi peccati: non solo i peccati carnali, contro natura e secondo natura, commessi con gli esseri umani e con le bestie, ma perfino gli avvelenamenti, gli omicidi e altre cose che non è lecito né ascoltare né consegnare allo scritto. Quando dunque ebbe terminato la sua confessione, il superiore ordinò subito di tonsurarlo e di accoglierlo nel numero dei fratelli. 15. Rimasto ammirato dalla sapienza di quel sant’uomo, in privato, gli chiesi come mai si fosse comportato in modo così strano. E quello, da vero medico qual era, mi rispose: “Per due motivi: innanzitutto, per liberare il penitente dalla vergogna futura attraverso la vergogna provata in questa confessione – ciò che è avvenuto realmente –: infatti, fratello Giovanni, egli non si era ancora alzato da terra, che aveva già ottenuto la remissione di tutti i suoi peccati; e non dubitarne, perché uno dei fratelli presenti mi ha confidato: ‘Ho visto un essere terribile che teneva in mano un rotolo scritto e una penna, e via via che il penitente, stando prostrato a terra, confessava un suo peccato, quello lo cancellava con la penna’. E ciò è verosimile, perché sta scritto: Ho detto: “Confesserò contro di me al Signore la mia iniquità”, e tu hai perdonato l’empietà del mio cuore (Sal 31,5). Il secondo motivo è che, avendo qui dei fratelli che hanno dei peccati non confessati, voglio in questo modo spingere anche loro alla confessione, senza la quale nessuno potrà ottenere la remissione dei peccati”. 16. Presso quel pastore degno di eterna memoria e presso il suo gregge, ho visto anche molte altre cose degne di ammirazione e di ricordo, che tenterò di raccontarvi almeno in buona parte. Sono infatti rimasto a lungo 123

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presso di loro per osservare il loro modo di vivere, restando assai sorpreso nel vedere come quegli esseri terrestri imitassero i celesti: erano uniti tra di loro da un vincolo di carità indissolubile (cf. Col 3,14) e – ciò che è ancora più straordinario – senza un’eccessiva familiarità e senza vane chiacchiere. Si esercitavano soprattutto nel non ferire in nulla la coscienza del fratello, e se mai qualcuno mostrava odio per un altro, il pastore lo mandava in esilio in un monastero separato13, come un condannato. E una volta che un fratello aveva parlato male del suo prossimo davanti a lui, quel santo uomo ordinò subito che fosse cacciato via, dicendo che non era ammissibile che in un monastero ci fossero un diavolo visibile e uno invisibile. Presso quei santi monaci ho visto cose veramente edificanti e degne di ammirazione! Ho visto una comunità di fratelli raccolta e unita nel Signore, che si dedicava in modo meraviglioso sia all’azione che alla contemplazione. Essi infatti si consumavano e si esercitavano a tal punto nelle opere divine, da non aver quasi più bisogno del richiamo del superiore, anzi si incitavano spontaneamente l’un l’altro alla divina vigilanza. Avevano infatti definito, concertato e stabilito tra di loro alcune sante e divine pratiche: se qualcuno di loro, in assenza del superiore, iniziava a parlar male di un altro o a condannarlo, o anche soltanto a far discorsi oziosi, un altro fratello lo richiamava di nascosto con un cenno impercettibile e lo faceva smettere; se per caso poi quello non se ne fosse accorto, il fratello che lo aveva richiamato faceva una metanìa14 13

Si tratta del monastero chiamato “Prigione” di cui si parla in IV,33 e V,5. Termine tecnico (da metánoia, “penitenza, pentimento”) con cui nella tradizione bizantina si può indicare una semplice inclinazione del corpo o una completa prostrazione con la fronte a terra. Sul tema cf. G. Bunge, Vasi di argilla. La prassi della preghiera personale secondo la tradizione dei padri, Qiqajon, Bose 1996, pp. 185-191. 14

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davanti a lui e si ritirava. Se dovevano parlare, l’argomento fisso e permanente delle loro conversazioni era il ricordo della morte e il pensiero dell’eterno giudizio. 17. Non voglio tacervi, poi, il comportamento straordinario del loro cuoco. Vedendo infatti che durante il suo servizio conservava un costante raccoglimento e versava lacrime, lo supplicai di rivelarmi come avesse fatto a meritare una tale grazia. Ed egli, messo da me alle strette, rispose: “Non ho mai pensato di servire gli uomini, ma Dio; e poiché mi giudico completamente indegno dell’esichia, sfrutto la vista di questo fuoco materiale per custodire costantemente il ricordo delle fiamme future”. 18. Ascoltiamo anche un’altra loro pratica straordinaria: non cessavano l’attività spirituale neppure a tavola, ma con dei particolari gesti e cenni impercettibili quei beati si richiamavano gli uni gli altri alla preghiera interiore. E non lo facevano solo a tavola, ma anche tutte le volte che si incontravano o si riunivano tra loro. E se poi qualcuno di loro aveva commesso una qualche mancanza, i fratelli lo supplicavano insistentemente di lasciar loro l’incombenza di renderne conto al pastore e di ricevere da lui il castigo. Perciò quel grand’uomo, una volta venuto a conoscenza del comportamento dei suoi discepoli, imponeva loro punizioni più leggere, perché sapeva che quello che veniva punito era innocente; e non cercava neanche di sapere chi veramente avesse commesso la mancanza. Dov’era mai tra di loro la minima traccia di parola vana o scherzosa? Se succedeva che qualcuno di loro cominciasse a litigare con il suo vicino, si faceva avanti un altro e, dopo aver fatto una metanìa, placava la loro ira; e se si accorgeva che quelli conservavano rancore, andava subito a riferirlo al vice-superiore e così faceva in modo che essi si riconciliassero prima del tramonto del sole (cf. Ef 4,26); 125

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ma se quelli s’intestardivano senza cedere, venivano puniti con il divieto di prendere cibo fino a che non si fossero riconciliati, oppure venivano cacciati dal monastero. Questo lodevole rigore che si praticava tra di loro non era certo inutile, anzi produceva frutti abbondanti e visibili: molti tra quei santi uomini infatti si dimostrarono eccellenti sia nella pratica delle virtù che nella contemplazione, sia nel discernimento che nell’umiltà. E tra di loro si poteva vedere uno spettacolo impressionante e degno degli angeli: molti uomini venerandi e d’aspetto ieratico che, come bambini, correvano di qua e di là per obbedire, considerando la propria umiliazione come il vanto più grande. 19. Là ho visto uomini che avevano vissuto in obbedienza per quasi cinquant’anni, e quando li supplicavo di rivelarmi quale conforto avessero ricavato da tutta quella fatica, alcuni rispondevano di aver raggiunto ormai l’abisso dell’umiltà, grazie alla quale potevano respingere ogni assalto dei demoni; altri dicevano di essere giunti ad una perfetta insensibilità e imperturbabilità negli insulti e nelle offese. Ho visto altri, poi, tra quegli uomini degni di eterna memoria, che, ormai canuti e dall’aspetto angelico, grazie alla loro buona volontà e all’aiuto di Dio, avevano raggiunto una profondissima innocenza e una semplicità sapiente, non stupida e sciocca come quella degli anziani che vivono nel mondo, che si è soliti chiamare rimbambiti! Anzi, nel loro aspetto esteriore, erano assolutamente miti, affabili, sereni, senza niente di finto, di studiato o di falso nelle loro parole o nei loro comportamenti, cosa che non si riscontra in molte persone; e nell’intimo della loro anima restavano tesi verso Dio15 e verso il superiore, come fanciulli innocenti, mantenendo allo stesso tempo

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Lett.: “Respiravano (anapnéontes) Dio”; cf. infra, XXVII/2,26.

l’occhio della loro mente risolutamente fisso sui demoni e sulle passioni. 20. Non mi basterebbe il tempo della mia vita, o venerabile padre e comunità amata da Dio16, se volessi descrivere la virtù e la vita celeste di quei beati. È meglio, comunque, che io abbellisca un po’ il discorso che vi rivolgo e risvegli in voi lo zelo caro a Dio con i sudori delle loro fatiche, piuttosto che con le mie povere esortazioni, poiché senza alcun dubbio è l’inferiore che è abbellito dal superiore (cf. Eb 7,7). Vi chiedo però di non sospettare che io scriva qualcosa di inventato, perché, come sempre, la diffidenza guasta ogni frutto. 21. Torniamo ai nostri discorsi. Un uomo di nome Isidoro, che aveva ricoperto la dignità di arconte nella città di Alessandria, aveva da pochi anni rinunciato al mondo nel cenobio di cui ho parlato, ed è là che anch’io lo incontrai. Dopo averlo accolto, quel santissimo pastore, avendolo visto furbo, assai duro, crudele e arrogante, s’ingegnò, nella sua grande sapienza, di vincere in lui la malizia dei demoni con l’astuzia umana. Disse perciò a Isidoro: “Se veramente hai deciso di prendere su di te il giogo di Cristo (cf. Mt 11,29), voglio prima di tutto che eserciti l’obbedienza”. Ed egli rispose: “Come il ferro nelle mani del fabbro, così io mi consegno [nelle tue mani] per obbedirti, o santissimo padre!”. Soddisfatto del paragone, quel grande uomo provò subito a temprare il ferreo Isidoro e disse: “In realtà, fratello, voglio che tu stia davanti al portone del monastero e faccia una genuflessione davanti a ogni persona che entra e che esce, dicendo: ‘Prega per me, padre, perché sono un epilettico!’”. Quello gli obbedì, come un angelo al Signore.

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Giovanni di Raito e la sua comunità.

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Avendo egli trascorso così sette anni, raggiungendo un profondissimo grado di umiltà e di compunzione, l’illustre padre, giudicandolo ormai più che degno, dopo quei sette anni conformi alla legge (cf. Dt 15,1), in cui aveva dimostrato un’incomparabile pazienza, volle accoglierlo nel numero dei fratelli e onorarlo dell’ordinazione presbiterale. Ma egli, tramite altri fratelli e anche tramite la mia misera persona, si mise a rivolgere insistenti suppliche al pastore perché gli concedesse di continuare a vivere nello stesso modo e di terminare là la sua corsa, suggerendo con queste parole, in modo enigmatico e oscuro, di essere ormai giunto alla fine e che il momento della sua chiamata si avvicinava, come infatti avvenne. Avendo infatti ottenuto dal maestro di rimanere al suo posto, dopo dieci giorni, da quella sua umile condizione emigrò gloriosamente verso il Signore; e sette giorni dopo la sua morte trascinò con sé anche il portinaio del monastero, al quale questo beato aveva detto: “Se mai troverò favore presso Dio, presto sarai anche tu là con me, e non ci separeremo mai più!”, come infatti avvenne, a suprema testimonianza della sua obbedienza piena di fiducia e della sua umiltà, che imitava quella del Signore (cf. Mt 11,29). 22. Quando quel grande Isidoro era ancora in vita, gli chiesi quale fosse l’occupazione della sua mente mentre se ne stava davanti al portone, e quell’illustre desiderando recarmi giovamento non me lo nascose: “Agli inizi – disse – facevo conto di essere stato venduto come schiavo per i miei peccati, e in questo modo, pur con grandissimo fastidio, facendomi violenza e quasi versando il sangue, riuscivo a fare le metanìe. Dopo un anno, non provavo già più alcuna tristezza nel cuore, perché attendevo da Dio la ricompensa per la mia pazienza. Passato poi ancora un altro anno, cominciai a stimarmi indegno, con un intimo sentimento del cuore, addirittura di vive128

re in monastero, di vedere e di incontrare i padri, di partecipare ai divini misteri, e di guardare in faccia chiunque: tenendo quindi gli occhi bassi e ancor più basso il pensiero, supplicavo chi entrava e chi usciva di pregare per me”. 23. Un giorno, mentre eravamo seduti a tavola, quel grande superiore chinandosi su di me avvicinò la sua santa bocca al mio orecchio, e mi disse: “Vuoi che ti mostri una sapienza divina in una canizie molto avanzata?”. Poiché lo pregai di sì, quel giusto chiamò dalla seconda tavola un tale di nome Lorenzo, che viveva in monastero da circa quarantotto anni ed era il secondo presbitero della chiesa. Costui venne e fatta una genuflessione davanti all’igumeno ricevette la sua benedizione; ma quando si alzò, l’igumeno non gli disse niente e lo lasciò in piedi davanti alla tavola, senza mangiare. Eravamo appena all’inizio del pasto, e così egli se ne restò in piedi per un’ora buona o anche due, al punto che io mi vergognavo perfino di fissare in volto quel monaco zelante, che aveva tutti i capelli bianchi e già ottant’anni di età! Rimase dunque là senza ricevere risposta fino al termine del pasto, e, quando ci alzammo da tavola, il santo superiore lo mandò da quel grande Isidoro di cui ho già parlato, a recitargli l’inizio del salmo trentanove17. Io, nella mia estrema malignità, non persi l’occasione di mettere alla prova quel vecchio; avendogli dunque domandato a cosa pensasse mentre se ne stava in piedi davanti alla tavola, mi rispose: “Poiché sul volto del mio pastore vedo l’immagine di Cristo, non ho mai creduto di ricevere un comando da lui, ma da Dio. Perciò, padre 17 Cf. Sal 39,1: “Con pazienza ho atteso il Signore, ed egli mi ha prestato attenzione e ha ascoltato la mia supplica”.

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Giovanni, io stavo là in piedi pregando Dio, non come davanti a una tavola di uomini, ma proprio come davanti all’altare di Dio; e per la fiducia e l’amore che nutro verso il mio pastore non ho concepito alcun pensiero cattivo contro di lui, poiché sta scritto: L’amore non pensa il male (1Cor 13,5). Ma tu, padre, sappi anche questo: chi ha volontariamente consegnato se stesso alla semplicità e all’innocenza, non lascia più né spazio né tempo al maligno per attaccarlo”. 24. Se così era veramente quel giusto18, per grazia di Dio salvatore e pastore delle sue pecore spirituali, così era anche l’economo del monastero che Dio gli aveva mandato: assennato come nessun altro, e mite come pochi. Una volta, per l’edificazione degli altri fratelli, il grande anziano inveì contro di lui senza motivo mentre erano in chiesa, ordinando che fosse cacciato fuori senza alcuna giustificazione. Io, sapendo che egli era innocente di ciò per cui il pastore lo accusava, quando fummo soli, cominciai a prendere le difese dell’economo davanti al superiore. E quel sapiente mi disse: “Lo so anch’io, padre, ma come è deplorevole e ingiusto strappare il pane di bocca a un bambino affamato, così chi è stato posto alla guida delle anime si comporterebbe in modo altrettanto ingiusto, verso se stesso e verso i propri operai, se in ogni momento non cercasse di procurar loro delle corone19, nella misura in cui sa che essi sono in grado di sopportarle, attraverso insulti, umiliazioni, segni di disprezzo e scherni. Commetterebbe infatti tre grandissime ingiustizie: in primo luogo, perché priverebbe se stesso della ricompensa che si ottiene con la correzione degli altri; in secondo luogo perché, potendo recar giovamento agli altri fratelli 18 19

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Cioè il superiore del monastero. Cioè delle occasioni per ottenere delle vittorie sulle passioni.

tramite la virtù di uno, trascurerebbe di farlo; in terzo luogo – e si tratta del motivo più grave – perché molto spesso anche quelli che sembrano più resistenti alla fatica, se per un po’ di tempo vengono trascurati e non sono più né ripresi né rimproverati dal superiore – con la scusa che ormai possiedono la virtù –, finiscono per perdere tutta la loro mitezza e loro pazienza. Infatti, per quanto un terreno possa essere buono, fertile e pingue, la mancanza di acqua – cioè dell’umiliazione –, generalmente lo inselvatichisce e fa germogliare in esso le spine della vanità, della malizia e della mancanza di timor di Dio. Sapendo ciò, quel grande Apostolo scriveva a Timoteo: Insisti, grida, rimprovera, a tempo e fuori tempo (2Tm 4,2)!”. Poiché io continuavo a far obiezioni a quell’autentica guida, adducendo come pretesti la debolezza della nostra generazione e l’eventualità che molti, se rimproverati senza ragione, o anche non senza ragione, avrebbero potuto separarsi dal gregge, quella dimora della sapienza mi disse di nuovo: “Un’anima che, a motivo di Cristo, si è legata al proprio pastore nell’amore e nella fiducia, non può separarsi da lui, neanche se deve versare il sangue, specialmente se egli l’ha guarita da qualche piaga, poiché si ricorda di colui che dice: Né angeli, né principati, né potenze, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Cristo (Rm 8,38). Ma mi meraviglierei alquanto se un’anima che non si fosse congiunta, legata e unita al proprio pastore in questo modo, riuscisse a rimanere in questo luogo con buone motivazioni, dal momento che il vincolo della sua sottomissione sarebbe soltanto fittizio”. E davvero quel grand’uomo non s’ingannò, ma anzi guidò, rese perfette e offrì a Cristo delle pecore senza macchia. 25. Ascoltiamo la sapienza di Dio che scopriamo in vasi di creta (cf. 2Cor 4,7), e restiamone ammirati! Mentre ero in quel monastero, io ammiravo la fiducia e la pazienza 131

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dei principianti20 e l’indomita resistenza con la quale sopportavano di essere puniti, insultati e talvolta scacciati, non solo dal superiore, ma anche da monaci di grado ben inferiore. Per mia edificazione, interrogai allora uno dei fratelli, di nome Abbaciro, che viveva in monastero da quindici anni: vedevo infatti che egli era trattato assai male quasi da tutti, e a volte perfino scacciato dal refettorio dai servitori, solo perché, per sua natura, era un po’ intemperante nel parlare. Gli dissi allora: “Fratello Abbaciro, perché ogni giorno ti vedo scacciato dal refettorio, e spesso andare a dormire senza cena?”. Ed egli mi rispose: “Credimi, padre, i miei fratelli mi mettono alla prova per vedere se mi comporto da monaco, ma non fanno sul serio. E io, conoscendo lo scopo del superiore e il loro, sopporto tutto senza fatica: ecco, sono quindici anni che vivo con questo pensiero; e del resto, quando sono entrato, essi stessi mi hanno detto che mettono alla prova chi rinuncia al mondo per ben trent’anni. Ed è giusto così, padre Giovanni, perché senza prova, l’oro non può giungere alla perfezione!”. Questo nobile Abbaciro, dunque, perseverò per ancora due anni dopo il mio arrivo in quel monastero e poi passò al Signore. Poco prima di morire, disse ai padri: “Rendo grazie, rendo grazie al Signore e a voi, perché grazie alle prove che voi mi avete inflitto per la mia salvezza, sono rimasto ben diciassette anni senza tentazioni dei demoni!”. E quel pastore, da giusto giudice qual era, ordinò che egli – come ben meritava – fosse seppellito come un confessore della fede21, accanto ai santi che riposavano nelle tombe del monastero.

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Cioè dei giovani monaci. Cf. supra, IV,10.

26. Sarei davvero ingiusto verso quanti vogliono imitare gli uomini virtuosi, se seppellissi nella tomba del silenzio la virtù e il combattimento di Macedonio, il primo dei diaconi di quel monastero! Quest’uomo caro al Signore, dunque, una volta che la festa della santa Teofania22 si stava avvicinando, due giorni prima, pregò il pastore di lasciarlo andare ad Alessandria per una sua personale necessità, promettendo però di tornare il prima possibile, per l’ufficio e la preparazione della festa. Ma il diavolo, che è nemico del bene, procurando ostacoli all’arcidiacono, fece in modo che, una volta congedato dall’igumeno, egli non ritornasse in monastero per la santa festa, secondo il termine che gli era stato fissato dal superiore. Quando dunque ritornò, un giorno in ritardo, il pastore lo depose dal suo ministero diaconale degradandolo al rango degli ultimi novizi, ma quel bravo diacono, cioè servo, della pazienza e arcidiacono della fortezza accettò l’ordine e la decisione del padre senza turbamento, proprio come se fosse stato punito un altro al posto suo. Dopo che quello ebbe passato quaranta giorni in tale condizione, il sapiente pastore lo reintegrò nel suo grado, ma dopo un giorno l’arcidiacono lo supplicò insistentemente di rimetterlo in quella punizione e in quella condizione disonorevole. Diceva infatti: “In città sono caduto in un peccato imperdonabile!”. Il santo, pur sapendo bene che non diceva la verità ma ricercava quella condizione solo per umiltà, cedette al buon desiderio di quell’operaio [di virtù]. E così si poteva vedere un venerando anziano con i capelli bianchi passare i suoi giorni nel rango dei novizi e supplicare sinceramente ogni fratello di pregare per lui, “Perché – diceva –

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Cioè la festa dell’Epifania del Signore, celebrata il 6 gennaio.

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sono caduto nella fornicazione della disobbedienza!”. Ma a me, persona indegna, questo grande Macedonio confidò il motivo per cui aveva ricercato volontariamente quell’umile condizione: “Perché – disse – non ho mai provato in me stesso, come ora, un tale sollievo da ogni lotta, e una tale dolcezza di luce divina!”. 27. È proprio degli angeli non cadere; forse perché, come affermano alcuni, non ne hanno neppure la possibilità23. È proprio invece degli uomini cadere e rialzarsi di nuovo, ogni volta che succede loro di cadere24. Ma è proprio soltanto dei demoni, una volta caduti, non rialzarsi mai più. L’economo del monastero mi fece questa confidenza: “Quando ero giovane – disse – ed ero incaricato della cura del bestiame, mi successe di cadere in un peccato gravissimo per l’anima; avendo però l’abitudine di non nascondere mai un serpente nella tana del mio cuore, lo afferrai per la coda (cf. Es 4,4) e lo manifestai al medico25. Egli con volto sorridente, colpendomi leggermente la guancia, mi disse: ‘Va’, figlio mio, continua il tuo servizio come prima, senza più temere niente’. Ed io, confidando in lui con ardente fiducia, in pochi giorni acquistai l’intima certezza26 della mia guarigione. Continuai così a correre per la mia strada pieno di gioia e insieme di timore”. 28. Ogni ordine di esseri creati, come affermano alcuni, possiede al suo interno molte diversità: poiché quindi anche all’interno di una comunità di fratelli esistono differenze di progresso e di disposizioni spirituali, quell’autentico medico27, se notava che alcuni fratelli amavano 23

Cf. Gregorio di Nazianzo, Orazioni 38,9. Cf. Apoftegmi, Sisoes 38. 25 Cioè al superiore e padre spirituale. 26 In greco: plerophoría. Su questo termine cf. infra, “Glossario”, s.v. “Certezza”. 27 Il superiore del monastero. 24

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mettersi in mostra davanti alle persone del mondo che venivano in visita al monastero, in loro presenza li copriva dei più pesanti insulti e li caricava dei servizi più umilianti, col risultato che, quando c’era qualche visita di persone del mondo, essi si ritiravano di corsa; ed era uno spettacolo veramente straordinario vedere la vanagloria scacciare se stessa e fuggire gli uomini! 29. Il Signore, non volendo privarmi delle preghiere di un santo padre, una settimana prima della mia partenza chiamò a sé colui che occupava il secondo posto nel monastero dopo il pastore, un uomo straordinario, di nome Mena, che aveva vissuto in monastero per ben cinquantanove anni e svolto ogni tipo di servizio. Tre giorni dopo la sua morte, dunque, mentre noi celebravamo il consueto ufficio funebre per questo santo, improvvisamente il luogo in cui egli giaceva si riempì tutto di profumo. Il superiore, allora, ci fece scoperchiare la bara in cui era stato deposto, e così vedemmo tutti che dai suoi piedi venerabili, come da due sorgenti, scaturiva dell’unguento profumato. Il maestro, allora, disse a tutti: “Vedete? Ecco i sudori dei suoi piedi e delle sue fatiche! Come unguento odoroso sono stati offerti a Dio, e lui li ha veramente graditi!”. Di questo santissimo Mena i padri del monastero mi hanno raccontato anche molte altre opere straordinarie, tra cui questa: “Un giorno – dicevano – il superiore volle mettere alla prova la straordinaria pazienza che Dio gli aveva donato: così, quando a sera quello salì alla cella dell’igumeno e fece una metanìa davanti a lui, per chiedere, secondo l’uso, la benedizione di congedo, egli lo lasciò prostrato a terra fino all’ora dell’ufficio28; poi, dopo avergli dato la benedizione e avergli rinfacciato il suo esibizio-

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Si tratta probabilmente dell’ufficio dell’alba (órthros).

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nismo e la sua mancanza di pazienza, lo fece rialzare. Il santo, infatti, sapeva che Mena avrebbe sopportato valorosamente, ed è per questo che inscenò questo spettacolo, per l’edificazione di tutti. Il discepolo di questo santo Mena ci confermò i fatti riguardanti il suo maestro, dicendo: ‘Poiché lo importunavo per cercare di sapere se per caso, mentre era in ginocchio di fronte all’igumeno, fosse stato colto dal sonno, egli mi assicurò che, mentre era prostrato a terra, aveva recitato l’intero salterio!’”. 30. Non voglio trascurare di abbellire la corona del mio discorso anche con quest’altro smeraldo. Un giorno incominciai un discorso sull’esichia29 con alcuni di questi validissimi anziani, ed essi con volto sorridente e tono gioviale mi dissero: “Noi, padre Giovanni, essendo persone materiali, conduciamo una vita molto materiale, convinti come siamo di dover affrontare una lotta proporzionata alla nostra debolezza e ritenendo preferibile lottare con gli uomini, che a volte sono violenti e a volte si pentono, piuttosto che con i demoni, che continuamente infieriscono e si armano contro di noi!”. 31. Un altro di quegli anziani degni d’eterna memoria, che aveva nei miei confronti molto affetto nel Signore e grande confidenza, mi disse ancora benevolmente: “Se veramente senti di possedere nella tua anima, o uomo pieno di saggezza, la forza di colui che disse: Tutto posso in colui che mi dà la forza (Fil 4,13), cioè in Cristo; se lo Spirito santo, come rugiada di purezza, è disceso su di te come sulla Vergine; se la potenza dell’Altissimo ha steso su di te l’ombra della pazienza (cf. Lc 1,45), allora tu, come l’uomo – cioè come il Cristo Dio –, cingiti i fianchi (cf. Gb 40,7) con il grembiule dell’obbedienza e, dopo

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Per questo termine cf. infra, “Glossario”.

esserti alzato dalla mensa dell’esichia, comincia ad asciugare i piedi dei fratelli con spirito contrito (cf. Gv 13,45; Sal 50,19), o meglio ròtolati ai piedi della comunità con animo abbattuto30. Metti sulla porta del tuo cuore dei portinai severi e svegli; tieni raccolta la mente in un corpo dissipato e indaffarato; esercita l’esichia della mente in delle membra inquiete e agitate; e ciò che è ancor più paradossale, acquista un’anima tranquilla in mezzo ai tumulti! Tieni stretta la lingua che smania di lanciarsi nelle dispute: lotta contro questa tiranna settanta volte sette al giorno! Fissa la tua mente nell’anima come sul legno della croce, affinché, battuta da ripetuti colpi di martello come un’incudine, derisa, insultata, sbeffeggiata e maltrattata, non ceda, né si spezzi, ma rimanga assolutamente calma e immobile. Spògliati della tua volontà come di un vestito disonorevole e, senza di essa, entra nudo nell’arena della lotta, e poi – ciò che è raro e difficile da trovare – rivèstiti della corazza della fiducia (cf. 1Ts 5,8) nei confronti del tuo allenatore31, senza lasciarti né fiaccare né ferire dalla diffidenza. Contieni con il freno della temperanza l’ardore sfrontato del tatto. Tieni a briglia, con la meditazione della morte, i tuoi occhi continuamente desiderosi di andarsene in giro a cercare grandezze e bellezze corporee. Fa’ tacere la tua mente indiscreta occupandola col pensiero di se stessa, lei che nonostante la propria negligenza pretende di condannare il fratello; e dimostra a fatti e senza finzioni al tuo prossimo tutto l’amore e la compassione possibili. “Da questo tutti sapranno, carissimo padre, che siamo veramente discepoli di Cristo, se nella nostra vita comune ci amiamo gli uni gli altri (cf. Gv 13,35)! Vieni, su 30 Cf. Apoftegmi, Matoes 13: “Chi vive con dei fratelli non deve essere un cubo, ma una sfera, per poter rotolare incontro a tutti”. 31 Cioè il padre spirituale.

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vieni – mi ripeteva il mio ottimo amico – vieni a stabilirti con noi! Bevi in ogni momento le derisioni come acqua viva (cf. Gv 4,10)! David infatti, dopo aver ricercato tutto ciò che di piacevole esisteva sotto il cielo, alla fine, smarrito, si chiedeva: Ecco, cosa c’è mai di bello o di piacevole? Nulla, se non che i fratelli abitino insieme (Sal 132,1). Ma se non ci è stato ancora concesso il dono di una tale pazienza e obbedienza, allora la cosa migliore per noi – se almeno siamo arrivati a riconoscere la nostra debolezza – è starcene da soli, lontani da questo stadio riservato agli atleti, proclamando beati coloro che vi lottano e invocando per loro la pazienza32”. Fui vinto dalle buone parole di quel padre e maestro eccellente, che aveva combattuto contro di me con le armi dell’evangelo e dei profeti33, o piuttosto dell’amicizia! Per questo, senza esitazione, accettai di dare il primato alla beata obbedienza. 32. Ricorderò ancora un’altra virtù di quei beati, dalla quale si può trarre grande giovamento, e poi, come uscendo da un paradiso, tornerò a presentarvi i miei discorsi spinosi, che non hanno né bellezza né utilità. Il pastore, dunque, notò che spesso quando eravamo in preghiera alcuni conversavano tra di loro: per questo ordinò loro di stare davanti alla chiesa per una settimana e di fare una metanìa davanti a tutti quelli che entravano e uscivano, e ciò benché essi fossero chierici, ovvero presbiteri. 32 In questo passo la vita solitaria, ben lungi dall’essere presentata come una vita di perfezione, secondo la visione tradizionale, è un rifugio per chi è debole e sente il peso della vita a contatto con gli altri. È una visione che ritroviamo in alcuni detti dei padri del deserto: cf. Apoftegmi, Matoes 13: “Non per virtù vivo in solitudine, ma per debolezza; sono forti infatti quelli che vanno in mezzo agli uomini”; Apoftegmi Nau 573: “Un anziano disse: ‘Se vivi in solitudine nel deserto, non pensare di fare qualcosa di grande; piuttosto considerati come un cane scacciato dal villaggio e incatenato, perché mordeva e assaliva gli uomini’” (cf. anche ibid. 62). 33 Cioè servendosi delle citazioni della Scrittura.

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Vedendo, poi, che uno dei fratelli seguiva la salmodia con intima partecipazione del cuore34, più degli altri, e che soprattutto all’inizio degli inni, con le espressioni e l’atteggiamento del volto, sembrava quasi parlare con qualcuno, interrogai quel beato per conoscere il significato del suo comportamento. Ed egli, non avendo l’abitudine di nascondere ciò che poteva essere utile ad altri, mi disse: “All’inizio degli uffici, padre Giovanni, io ho l’abitudine di raccogliere i miei pensieri, la mia mente e la mia anima, e nel convocarli dico loro: Venite, inchiniamoci e prosterniamoci davanti al Cristo nostro re e nostro Dio (cf. Sal 94,6)35!”. Guardai con attenzione la persona che era incaricata del servizio in refettorio e notai che aveva un’abitudine particolare. Vedendo che teneva appesa alla cintura una piccola tavoletta, scoprii che vi annottava ogni giorno i propri pensieri, per poi rivelarli tutti al pastore. E vidi che non solo lui ma anche moltissimi altri del monastero si comportavano in quel modo: anche questo, come poi appresi, era un comando di quel grand’uomo! 33. Una volta il superiore scacciò via uno dei fratelli perché aveva calunniato un altro fratello davanti a lui come sciocco e chiacchierone; e quello rimase per sette giorni davanti al portone del monastero supplicando di poter entrare e ottenere il perdono. Quando lo venne a sapere quell’autentico amante delle anime, informatosi, e avendo appreso che quel monaco non aveva mangiato assolutamente niente per sei giorni, gli mandò a dire: “Se proprio vuoi abitare in monastero, ti metterò nell’ordine

34 Lett.: “Con il senso del cuore (aisthései kardías)”; per quest’espressione cf. infra, “Glossario”, s.v. “Senso/sentimento spirituale, o del cuore”. 35 Queste parole corrispondono alla formula di introduzione dei principali uffici liturgici bizantini.

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dei penitenti!”. Poiché il penitente accettò la proposta pieno di gioia, il pastore ordinò che fosse condotto al monastero separato, riservato a coloro che piangevano i loro peccati. E così avvenne. Ma poiché ho menzionato questo monastero, parliamone brevemente. A un miglio di distanza dal monastero principale c’era un luogo chiamato “Prigione”, privo di qualsiasi genere di conforto: non vi si sarebbe potuto trovare né traccia di fumo36, né vino, né olio per i cibi, e nient’altro all’infuori di pane e di alcuni ortaggi minuti. In questo luogo il superiore rinchiudeva, senza permesso di uscita, quelli che dopo la loro entrata in monastero erano caduti in grave peccato: non tutti insieme, ma ciascuno separatamente, o al massimo in due; e ciò finché il Signore non l’avesse rassicurato sul conto di ciascuno. Aveva anche preposto ad essi, come proprio vicario, un uomo eccellente di nome Isacco, il quale esigeva da quanti gli erano stati affidati una preghiera quasi ininterrotta, ma metteva anche a loro disposizione molte foglie di palma per prevenire l’acedia37. Questa è la vita, la condizione e la condotta di coloro che veramente cercano il volto del Dio di Giacobbe (Sal 23,6)38. 34. È bello ammirare le fatiche dei santi, ed emularle procura la salvezza; pretendere però di imitare in ogni cosa il loro stile di vita è irragionevole e impossibile. 35. Quando ci sentiamo mordere dai rimproveri, ricordiamoci dei nostri peccati, fino a che il Signore, vedendo la violenza che noi, violenti per amor suo, facciamo a noi stessi (cf. Mt 11,12), non li abbia cancellati, trasfor36

Cioè del fuoco per cuocere gli alimenti. Per il significato di questo termine cf. infra, XIII, passim, e “Glossario”, s.v. “Acedia”. Le foglie di palma servivano a fabbricare i canestri, e il lavoro manuale, secondo i padri, era uno dei modi migliori per difendersi dall’acedia (cf. Apoftegmi, Antonio 1). 38 La descrizione del monastero dei penitenti verrà ripresa in V,5. 37

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mando in gioia il dolore che ci rimorde nel cuore. Sta scritto infatti: In proporzione alla moltitudine dei dolori del mio cuore, le tue consolazioni hanno rallegrato la mia anima (Sal 93,19) al momento opportuno. 36. Non dimentichiamoci di colui che dice al Signore: Quante afflizioni e quanti mali mi hai fatto vedere! Ma mi hai fatto ritornare ridonandomi la vita e, dopo la caduta, mi hai fatto di nuovo risalire dagli abissi della terra (Sal 70,20)! 37. Beato colui che, insultato e disprezzato ogni giorno a causa del Signore (cf. Mt 5,11), fa violenza a se stesso, perché si unirà al coro dei martiri e converserà familiarmente con gli angeli! Beato il monaco che, in ogni momento, si ritiene degno di ogni genere di umiliazione e disprezzo! Beato colui che ha mortificato la propria volontà fino alla fine e che ha affidato la cura della propria persona al suo maestro nel Signore: sarà infatti collocato alla destra del Crocifisso! 38. Chiunque rifiuta il rimprovero, giusto o ingiusto che sia, rinuncia alla propria salvezza. Chi invece lo accetta con fatica, o anche senza fatica, otterrà presto la remissione dei propri peccati. 39. Manifesta a Dio nel tuo intimo la fiducia e l’amore che provi nei confronti del tuo padre spirituale, e Dio, nel modo che tu non sai, lo convincerà ad attaccarsi a te e a dimostrarti un affetto proporzionato alle tue disposizioni verso di lui. Colui che manifesta al proprio padre ogni genere di serpente39, dimostra un’autentica fiducia, ma chi li nasconde, erra ancora su strade impraticabili. 40. Se qualcuno vuol conoscere con precisione il proprio affetto fraterno e la propria carità, sia certo di averli se si vede afflitto per le cadute del fratello, e pieno di gioia per i suoi progressi e per i doni che riceve. 39

Cioè ogni peccato o pensiero cattivo.

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41. Colui che in una discussione pretende di affermare la propria parola, anche se vera, sappia che è malato della malattia del diavolo. E se lo fa soltanto quando parla con i suoi pari grado, forse potrà ancora essere guarito dai rimproveri dei più anziani; ma se si comporta così perfino con coloro che sono più anziani e più sapienti di lui, la sua malattia è umanamente incurabile. 42. Chi non è sottomesso a parole, è chiaro che non può esserlo neppure a fatti. Chi è infedele nel poco, è infedele anche nel molto (cf. Lc 16,10), e testardo si affatica inutilmente senza ricavare dalla santa sottomissione nient’altro che la propria condanna! 43. Se qualcuno ha la coscienza perfettamente pura in materia di sottomissione al proprio padre, costui attende ogni giorno la morte come un sonno, o piuttosto come una vita, e non ha paura perché sa per certo che al momento della sua partenza non sarà lui a dover rendere conto, ma il suo superiore. 44. Se qualcuno, nel Signore, ha accettato un incarico dal proprio padre spirituale senza farsi violenza, e poi inaspettatamente vi trova motivo di inciampo, non ne attribuisca la colpa a chi gli ha dato l’arma, ma a se stesso che l’ha ricevuta: ha ricevuto infatti un’arma per combattere il Nemico, ma egli l’ha rivolta contro il proprio stesso cuore40! Se invece ha fatto violenza a se stesso a motivo del Signore, manifestando in anticipo la propria debolezza a chi gli affidava quell’incarico, si faccia coraggio: anche se è caduto, non è morto! 45. Mi stavo dimenticando, amici, di offrirvi anche un altro gustoso pane di virtù! In quel monastero ho visto monaci obbedienti nel Signore macerarsi da se stessi con

violenze e umiliazioni per amore di Dio; e questo perché, prendendo l’abitudine a non turbarsi per le umiliazioni, potessero essere preparati alle violenze che ricevevano dall’esterno. 46. Un’anima che pensa continuamente alla confessione dei suoi peccati, è da essa trattenuta dal peccare, come da un freno. I peccati che non confessiamo, infatti, li continuiamo a commettere senza ritegno. 47. Se, in assenza del superiore, facciamo conto che egli sia accanto a noi rappresentandoci il suo volto, ed evitiamo ogni incontro, discorso, cibo, sonno, o qualsiasi altra cosa che supponiamo gli sia sgradita, allora l’obbedienza che esercitiamo è veramente autentica. I falsi discepoli considerano l’assenza del loro maestro come una gioia, ma i discepoli autentici la considerano una perdita. 48. Un giorno interrogai uno dei monaci più stimati, supplicandolo di dirmi in che modo l’obbedienza permetta di raggiungere l’umiltà. Ed egli mi rispose: “Chi è veramente obbediente, anche se resuscita i morti, se raggiunge il dono delle lacrime o la liberazione dalle lotte, ritiene sempre che sia stata la preghiera del proprio padre spirituale a realizzare tutto ciò; e così egli rimane personalmente estraneo alla vana presunzione. Come potrebbe infatti vantarsi di ciò che afferma aver realizzato con l’aiuto del proprio padre e non con i propri sforzi?”. 49. L’esicasta41 non conosce la pratica di queste virtù42: la presunzione infatti ha la meglio su di lui e gli suggerisce che i suoi successi sono frutto dei suoi sforzi. Chi invece vive nella sottomissione ha vinto due insidie43 e, ormai, resta eternamente un servo obbediente di Cristo. 41

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Perché ha trasformato un’occasione di obbedienza in un’occasione di superbia.

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Cioè colui che vive nell’esichia; cf. infra, “Glossario”, s.v. “Esicasta”. Cioè dell’obbedienza e dell’umiltà. Cioè la disobbedienza e la presunzione.

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50. Il demonio combatte contro gli obbedienti, ora macchiandoli con le contaminazioni della carne e rendendoli duri di cuore, ora provocando in loro un turbamento contrario alle loro abitudini, ora rendendoli aridi, sterili, golosi, pigri nella preghiera, sonnacchiosi e pieni di oscurità, per allontanarli dalla loro lotta facendo creder loro che non hanno ricavato alcun profitto dalla sottomissione, e anzi camminano all’indietro! Non permette loro di riflettere, infatti, che spesso la perdita provvidenziale delle virtù che ci sembra di avere, diventa occasione della più profonda umiltà. 51. L’ingannatore di cui parlo è spesso respinto da alcuni tramite la pazienza; ma quando ancora quello sta parlando, ci appare un altro angelo (cf. Gb 1,16-18) che dopo poco tenta di sedurci in altro modo. 52. Ho visto monaci obbedienti che, grazie alla protezione del loro padre, erano diventati pieni di compunzione, miti, temperanti, zelanti, liberi dalle lotte e pieni di fervore. Ma i demoni, assalendoli, suggerirono loro che erano ormai capaci di vivere nell’esichia e attraverso di essa erano in grado di raggiungere, come premio finale, l’impassibilità. Così ingannati, uscirono dal porto e presero il largo, ma quando furono sorpresi dalla tempesta, essendo sprovvisti di piloti, rischiarono di essere travolti da quel mare sudicio e salato! 53. A volte è necessario che il mare sia sconvolto, agitato e infuriato, per rigettare di nuovo sulla terraferma, attraverso i fiumi delle passioni, tutto il legname, il marciume e le erbacce che quegli stessi fiumi vi hanno scaricato. Osserviamo e scopriremo che in mare, dopo la tempesta, c’è grande bonaccia. 54. Chi a volte obbedisce al proprio padre e a volte gli disobbedisce, è simile ad un uomo che applica ai suoi occhi a volte un collirio, a volte della calce viva. Sta scritto infatti: Quando uno edifica e l’altro distrugge, che guadagno ne avranno se non fatiche (Sir 34,23)? 144

55. Non ti lasciare ingannare, figlio e servo obbediente del Signore, dallo spirito di presunzione, al punto da riferire le tue mancanze al maestro come se si trattasse di quelle di un’altra persona: senza vergogna, infatti, non si può scampare alla vergogna! Spesso i demoni hanno l’abitudine di convincerci a non confessare le nostre mancanze, o a farlo come se si trattasse di quelle di un altro, o, ancora, ad accusare altri del nostro peccato. 56. Denuda, sì denuda la tua piaga davanti al medico, e di’ senza vergognarti: “È mia questa ferita, padre, è mia questa piaga, ed è frutto della mia trascuratezza, non di quella di un altro! Nessun altro ne è responsabile, né un uomo, né uno spirito, né un corpo, né qualsiasi altra cosa, ma soltanto la mia negligenza!”. Quando ti confessi, abbi l’atteggiamento, l’aspetto e i pensieri come quelli di un condannato, tenendo la testa china a terra e, se possibile, bagnando di lacrime i piedi del tuo medico e giudice, come quelli di Cristo (cf. Lc 7,38). 57. Tutto dipende e deriva dall’abitudine: tanto più le opere buone, perché in esse abbiamo come valido collaboratore Dio stesso. Non dovrai faticare per molti anni, figlio mio, per trovare in te stesso il beato riposo, se agli inizi ti sarai consegnato alle umiliazioni con tutto te stesso. 58. Non disdegnare di fare la tua confessione a colui che ti aiuta, come a Dio stesso, con un atteggiamento umile e dimesso: ho visto infatti dei condannati che, con un atteggiamento degno di grande pietà, una confessione brutalmente schietta e una supplica insistente sono riusciti ad addolcire la severità del loro giudice, trasformando il suo sdegno in compassione. Per questo anche Giovanni il Precursore esigeva la confessione prima del battesimo da quanti venivano da lui, non perché ne avesse bisogno, ma perché cercava di procurar loro la salvezza (cf. Mt 3,6 par.). 145

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59. Non stupiamoci se siamo combattuti dalle passioni anche dopo la confessione: è meglio, infatti, lottare contro i pensieri cattivi che contro la presunzione! 60. Non ti lasciare attirare né esaltare dai racconti degli esicasti e degli anacoreti. Tu infatti stai camminando con l’esercito del primo martire44. 61. Se cadi, non ti sottrarre all’arena della lotta, perché proprio in quel momento abbiamo molto più bisogno del medico. Chi, pur avendo un aiuto, è inciampato in un sasso, se fosse stato senza aiuto, certamente non sarebbe solo inciampato, ma sarebbe morto! 62. Ogni volta che cadiamo, i demoni ci assalgono immediatamente e, sfruttando quel pretesto ragionevole – ma in realtà assurdo –, ci suggeriscono [di cercare] l’esichia: il loro scopo è di aggiungere una ferita alla caduta. 63. Quando un medico dichiara la propria incapacità, allora bisogna recarsi da un altro, perché senza medico pochi riescono a guarire. 64. Chi mai oserebbe contraddirci se affermiamo che qualunque nave abbia fatto naufragio con un pilota esperto, senza di quello sarebbe certamente andata incontro alla completa rovina? 65. Dall’obbedienza deriva l’umiltà e dall’umiltà l’impassibilità, se è vero che sta scritto: Nella nostra umiltà il Signore si è ricordato di noi, e ci ha liberato dai nostri nemici (Sal 135, 23-24). Niente perciò ci impedisce di affermare che dall’obbedienza deriva l’impassibilità, grazie alla quale giunge a perfezione anche l’umiltà. L’obbedienza infatti è l’inizio dell’impassibilità come Mosè è l’inizio della legge; ma la figlia porta a perfezione la madre, come Maria la sinagoga45. 44 Cioè Stefano. I monaci cenobiti, in virtù dell’obbedienza, sono eguagliati ai martiri. Cf. supra, IV,10. 45 Passo oscuro, variamente interpretato dai commentatori antichi e moder-

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66. Sono degni di ricevere ogni genere di punizione da parte di Dio quei malati che, dopo aver sperimentato un medico e averne ricevuto giovamento, lo abbandonano prima di essere perfettamente guariti, preferendogli un altro. 67. Non fuggire dalle mani di colui che ti ha offerto al Signore, perché, in tutta la tua vita, non dovrai venerare nessuno come lui. 68. Come è pericoloso per un soldato inesperto separarsi dall’insieme dell’esercito per combattere singolarmente, così non è senza pericolo per un monaco ritirarsi nell’esichia prima di una lunga esperienza e di un lungo esercizio nella lotta contro le passioni dell’anima. Il primo infatti mette a rischio il suo corpo, il secondo la sua anima. Meglio due che uno! (Qo 4,9), dice la Scrittura, e cioè: è meglio per un figlio essere in compagnia del proprio padre spirituale, quando lotta contro le proprie predisposizioni passionali46 con la forza del divino Spirito. 69. Chi priva un cieco della sua guida, un gregge del suo pastore, uno smarrito della persona che lo conduce sulla retta via, un bambino del proprio padre, un malato del medico, e una nave del suo pilota, mette in pericolo tutte queste persone. Colui, poi, che si mette a lottare contro gli spiriti senza un aiuto, finisce ucciso da loro. ni. Secondo l’interpretazione degli scolii, PG 88,752B-C e 1224B-C, e di Exegesis, p. 134, bisogna intendere: l’impassibilità (“la figlia”) porta a perfezione l’obbedienza (“la madre”), come Maria, la sorella di Mosè di cui si parla in Es 15,20, conclude con il suo intervento il canto di vittoria iniziato da Mosè e dall’assemblea degli israeliti (la “sinagoga”). Nella figura di Maria, sorella di Mosè, la tradizione ha visto una vergine (cf. Gregorio di Nissa, La verginità 19): qui, secondo l’interpretazione da noi adottata, diventa simbolo della libertà dalle passioni che supera la semplice obbedienza alla legge, rappresentata da Mosè. Altri commentatori, con minore probabilità, ritengono che il riferimento sia a Maria madre di Gesù. 46 In greco: prolépseis. Per il significato del termine cf. infra, “Glossario”, s.v. “Predisposizione passionale”.

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70. Coloro che sono appena giunti in un ospedale devono individuare i propri dolori; coloro che invece sono appena giunti nella vita di sottomissione, l’umiltà che possiedono: per i primi, indizio quanto mai sicuro di guarigione sarà l’alleviamento dei dolori, per gli altri la crescita del disprezzo di se stessi. 71. Specchio della tua sottomissione sia la tua coscienza, e questo ti basti. 72. Coloro che vivono nell’esichia sottomessi a un padre, hanno soltanto i demoni come loro avversari; coloro che invece vivono in comunità lottano allo stesso tempo con i demoni e con gli uomini. I primi, essendo continuamente davanti agli occhi del loro maestro, custodiscono i suoi comandi in modo più stretto; invece i secondi, non essendo sempre alla sua presenza, spesso fanno piccole trasgressioni. Comunque, se sono persone piene di zelo e di buona volontà, riescono a compensare ampiamente tale difetto con la sopportazione delle offese, e riportano così una doppia corona. 73. Sforziamoci con ogni cura di vigilare su noi stessi (cf. Pr 4,23). Quando infatti un porto è pieno di navi, è facile che esse si danneggino urtando l’una contro l’altra, tanto più se sono già segretamente corrose dal verme della collera47. 74. Di fronte al superiore, pratichiamo un assoluto silenzio mostrando una totale ignoranza: l’uomo silenzioso, infatti, è figlio della sapienza e acquista sempre una profonda conoscenza. Vidi una volta un monaco che viveva nella sottomissione strappare la parola di bocca al suo superiore e disperai della sua sottomissione, vedendo che da essa aveva imparato l’orgoglio e non l’umiltà.

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La metafora si riferisce alla vita di un monastero cenobitico.

75. Con tutta la vigilanza, la cura e la prudenza possibili, consideriamo quando e come si debba anteporre il servizio alla preghiera. Ciò infatti non deve avvenire sempre e comunque. Fa’ attenzione a te stesso (cf. Dt 4,9; 15,9) quando sei in presenza dei tuoi fratelli, e non sforzarti mai di apparire più giusto di loro in qualche cosa, perché saresti la causa di due mali: urteresti gli altri con il tuo zelo falso e ostentato, e a te stesso procureresti certamente la superbia. 76. Sii pieno di zelo nell’anima, senza mostrarlo esternamente nel corpo, né con l’atteggiamento, né a parole, né con segni allusivi: comportati così, però, solo se hai davvero smesso di disprezzare il tuo prossimo; ma se sei ancora incline a questo difetto, comportati come tutti gli altri fratelli, piuttosto che rischiare di distinguerti da loro solo per l’orgoglio48. 77. Ho visto un discepolo ancora privo di esperienza vantarsi delle opere di virtù del proprio maestro, e mentre credeva di acquistare gloria con le ricchezze altrui, si procurò solo umiliazione, perché tutti gli dissero: “Come può un albero buono aver dato un ramo sterile?” (cf. Mt 7,17-18 par.). 78. Siamo giudicati pazienti non quando sopportiamo con coraggio di essere derisi dal nostro padre spirituale, ma quando ci lasciamo disprezzare e percuotere da ogni uomo, giacché il nostro padre lo sopportiamo per rispetto e perché ci sentiamo in debito con lui. 48 Cf. Schol. 67, PG 88,752D-753A: “L’autore si rivolge alle comunità e a coloro che vivono nella sottomissione: ‘Se non sei incline ad accusare e disprezzare gli altri – dice – pratica la virtù per conto tuo, nel segreto della tua mente, senza manifestarlo in modo visibile; ma se sei portato a condannare gli altri, non cercare di distinguerti dagli altri neppure nell’esercizio dell’anima, ma sii in tutto uguale a loro’. E per ‘esercizio dell’anima’ intende la preghiera continua, il pianto, e le altre pratiche come queste. ‘Se dunque – dice – a causa di queste cose cadi nell’orgoglio, tralasciale’”.

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79. Bevi avidamente la derisione come un’acqua di vita, chiunque sia l’uomo che voglia farti bere questa bevanda che purifica dalla sensualità: allora nella tua anima sorgerà una profonda purezza e la luce di Dio non scomparirà più dal tuo cuore. 80. Nessuno si vanti dentro di sé, se vede che la comunità dei fratelli trova pace grazie ai suoi sforzi, poiché intorno si aggirano i ladri49. 81. Ricòrdati continuamente di colui che ha detto: Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili! Abbiamo fatto quello che dovevamo fare (Lc 17,10). Quanto al giudizio sulle nostre fatiche, lo conosceremo al momento della nostra dipartita. 82. Il cenobio è un cielo terrestre: sforziamoci perciò di assumere nel nostro cuore le stesse disposizioni che gli angeli hanno nel servire il Signore! Coloro che si trovano in questo cielo, a volte hanno il cuore duro come pietra, altre volte ricevono conforto grazie alla compunzione: ciò accade perché, da una parte, possano evitare la presunzione, dall’altra, possano mitigare le loro fatiche grazie alle lacrime. 83. Una piccola fiamma è in grado di sciogliere molta cera; e spesso una piccola umiliazione che ci capita di subire, riesce improvvisamente a sciogliere, addolcire e cancellare tutta la selvatichezza, l’insensibilità e la durezza del nostro cuore. 84. Una volta ho visto due monaci starsene nascosti a spiare e ad ascoltare i gemiti e i tormenti di alcuni che stavano lottando contro le tentazioni; ma uno lo faceva per imitarli, l’altro per poter rinfacciare loro queste cose in pubblico, alla prima buona occasione, e distogliere così quegli operai di Dio dal loro nobile lavoro. 49

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Cioè i demoni, pronti a rubare qualsiasi buon frutto di virtù.

85. Non essere taciturno senza ragione, procurando agli altri turbamento e fastidio, né lento nei movimenti e nel passo quando ti viene chiesto di sbrigarti. Altrimenti sarai peggio degli agitati e dei turbolenti. 86. Ho visto cose del genere, come dice Giobbe (cf. Gb 13,1): spesso la lentezza di comportamento fa soffrire le anime, e a volte anche la troppa affettazione; e mi sono meravigliato di quanto può essere varia la malizia. 87. Chi vive in mezzo ad altri fratelli non può trarre dalla salmodia altrettanto profitto come dalla preghiera50, perché la confusione delle diverse voci impedisce la comprensione del salmo. 88. Lotta incessantemente con la tua mente, e quando si distrae, raccoglila di nuovo in te stesso: Dio, infatti, da coloro che vivono in obbedienza non pretende una preghiera senza distrazioni. Non ti scoraggiare se la mente ti viene rubata, ma piuttosto fatti coraggio richiamandola continuamente a te: l’inviolabilità infatti è solo degli angeli! 89. Chi si è interiormente convinto a non abbandonare la lotta fino all’ultimo respiro51, a costo di dover sopportare mille morti52 nel corpo e nell’anima, non cadrà facilmente in alcuna di queste, perché in genere sono l’indecisione del cuore e l’infedeltà alla propria condizione di vita che producono cadute e disgrazie. 90. Coloro che sono facili al cambiamento, sono privi di qualunque virtù, perché niente produce sterilità quanto la mancanza di perseveranza. 91. Se ti capita di arrivare in un ospedale e presso un medico53 che non conosci, comportati come uno che è di 50

Cioè dalla preghiera “pura” del cuore. Cf. infra, XVIII,5. Cf. Apoftegmi, Antonio 4: “Disse il padre Antonio al padre Poemen: ‘Questa è l’opera grande dell’uomo: gettare su di sé il proprio peccato davanti a Dio; e attendersi tentazioni fino all’ultimo respiro’”. 52 Ovvero peccati e tentazioni. 53 Cioè in un monastero dove c’è un padre spirituale che cura le anime. 51

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passaggio e, senza fartene accorgere, esamina tutti coloro che vi si trovano. Quando poi ti accorgi di poter trovare qualche giovamento per i tuoi mali dalle cure dei dottori e degli infermieri, e soprattutto il rimedio che cercavi contro il gonfiore dell’anima54, allora deciditi a entrare e vendi te stesso a prezzo dell’oro dell’umiltà, firmando il certificato dell’obbedienza con la scrittura del servizio e con gli angeli per testimoni55. 92. In loro presenza, straccia senza esitazione il certificato della tua volontà propria; se infatti continui a girare qua e là, finisci per annullare il contratto con il quale ormai Cristo ti ha comprato! 93. Il luogo in cui ti trovi sia per te una tomba prima della tomba: nessuno infatti uscirà dalla tomba prima della risurrezione generale; e se qualcuno vi è uscito, vedi che è morto56! Preghiamo il Signore che non capiti anche a noi la stessa cosa! 94. I monaci più pigri, quando sentono che gli ordini ricevuti sono pesanti, cominciano subito a preferire la preghiera; quando invece li sentono più leggeri, la fuggono come si fugge da un fuoco! 95. C’è chi intraprende un servizio, e poi lo abbandona per recare conforto a un fratello, se ciò gli viene richiesto; c’è chi invece lo abbandona per pigrizia. C’è poi chi non lo abbandona per vanagloria, e chi per zelo.

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Cioè la superbia. Il riferimento è alla professione monastica che, secondo la convinzione tradizionale in oriente, avviene alla presenza degli angeli. Nel Rito del piccolo abito della liturgia bizantina si dice: “Considera, figlio, quali patti concludi con Cristo Signore: gli angeli, infatti, registrano invisibilmente la tua professione, di cui dovrai rendere conto alla seconda venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (Euchologion, p. 383). Sul tema, cf. P. Raffin, Les rituels orientaux de la profession monastique, Abbaye de Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1992, p. 35. 56 Come Lazzaro: cf. Gv 11,43-44. 55

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96. Se sei stato forzato a legarti a una comunità con dei voti57, e poi vedi che l’occhio della tua anima non fa alcun progresso, non esitare ad andartene. Del resto un buon monaco, è un buon monaco dovunque, come anche il contrario. 97. Nel mondo gli insulti sono la causa di molte divisioni; ma nelle comunità è l’ingordigia a produrre tutte le cadute e le rotture! 98. Se domini questa tiranna58, in qualunque luogo tu risieda, riuscirai ad ottenere l’impassibilità59; ma se è lei a dominarti, sarai in pericolo dovunque, fuorché nella tomba! 99. Il Signore dà sapienza ai ciechi (Sal 145,8), ovvero: apre gli occhi di coloro che vivono in obbedienza sulle virtù della loro guida, e li acceca sui loro difetti. L’Avversario del bene fa il contrario. 100. Modello di perfetta sottomissione sia per noi il cosiddetto argento vivo, che, anche quando lo si fa rotolare sotto a tutto, rimane puro da ogni genere di sporcizia. Coloro che sono pieni di zelo facciano attenzione soprattutto a se stessi, perché, giudicando i negligenti, essi non ricevano una condanna ancor più severa di quelli. Per questo, credo, Lot è stato considerato giusto, perché, pur trovandosi in mezzo a uomini del genere, non risulta che li abbia mai condannati (cf. Gen 19,1-29). 101. Custodiamo l’esichia e la tranquillità in ogni momento, ma soprattutto mentre cantiamo le lodi di Dio. Lo scopo dei demoni, infatti, è di ridurre al nulla la nostra preghiera mediante le distrazioni. 102. Autentico servitore è colui che sta con il corpo tra gli uomini, ma con la mente bussa alle porte del cielo mediante la preghiera. 57

Lett.: “Patti (synthékai)”. Cioè l’ingordigia. 59 Per il significato di questo termine cf. infra,“Glossario”, s.v. “Impassibilità”. 58

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103. Gli oltraggi, le umiliazioni e le altre cose simili sono per l’anima dell’obbediente come il gusto amaro dell’assenzio60; gli elogi, gli onori e le lodi, invece, producono in chi è incline ai piaceri una grandissima dolcezza, come il miele. Consideriamo dunque quale sia la natura di entrambe le sostanze: l’assenzio purifica le parti guaste dell’intestino, mentre il miele aumenta la bile. 104. Bisogna riporre una completa fiducia in coloro che, nel Signore, si sono assunti l’impegno di prendersi cura di noi, anche se ci ordinano cose apparentemente contrarie o addirittura opposte alla nostra salvezza. Proprio allora, infatti, la nostra fiducia in loro viene messa alla prova, come nel crogiolo dell’umiltà; e il segno della più autentica fiducia è quando obbediamo senza esitazione a chi ci comanda, pur vedendo che le cose vanno in modo contrario a come speravamo. 105. Dall’obbedienza deriva l’umiltà, come abbiamo già detto sopra61, e dall’umiltà il discernimento, come insegna così bene e in modo così sublime il grande Cassiano, nel suo discorso sul discernimento62; dal discernimento, poi, deriva la chiaroveggenza63 e da questa la preveggenza. Chi, dunque, non vorrebbe correre in questo nobile stadio dell’obbedienza, vedendo quali beni sono preparati per lui? Di questa grande virtù parlava quel grande Salmista dicendo: “Nella tua bontà, o Dio, hai preparato per il povero obbediente la tua presenza nel suo cuore” (cf. Sal 67,11).

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Cf. Marco il Monaco, La legge spirituale 117. Cf. supra, IV,65. 62 Cf. Giovanni Cassiano, Conferenze II,10: “Il vero discernimento – disse Abba Mosè – non si raggiunge, se non con la vera umiltà”. Per la dipendenza di Climaco da Cassiano, cf. supra, “Introduzione”, p. 29, n. 117. 63 In greco: diórasis. È la capacità di “vedere” ciò che si muove nel cuore di una persona. 61

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106. Per tutta la tua vita non ti dimenticare mai di quel grande atleta che, per ben diciotto anni, con i suoi orecchi esteriori non sentì mai il superiore dirgli: “Dio ti salvi!”, ma con quelli interiori sentiva ogni giorno il Signore che gli diceva, non tanto: “Dio ti salvi!” – perché questo è un augurio incerto –, ma: “Sei salvo!”, che è un affermazione sicura64. 107. Tra coloro che vivono nell’obbedienza, ce ne sono alcuni che, accorgendosi del carattere arrendevole e conciliante del loro superiore, sollecitano da lui disposizioni conformi alle proprie volontà, ma così facendo ingannano se stessi; e se ottengono ciò che vogliono, sappiano che hanno già perduto completamente la corona dei confessori della fede65: obbedienza, infatti, significa radicale abbandono dell’ipocrisia e dei propri desideri! 108. C’è chi, quando riceve un ordine e si accorge che, in fondo, colui che glielo ha dato non vuole che lo esegua, si rifiuta di obbedire; e c’è chi, pur accorgendosene, obbedisce comunque senza esitazioni. Bisogna chiedersi: chi dei due ha agito in modo più santo? 109. Che il diavolo si opponga alla propria volontà è tra le cose impossibili. Convincitene guardando coloro che vivono nella negligenza e ciò nonostante continuano a perseverare in un eremo o in un cenobio66. 64 L’autore si ispira qui ad Apoftegmi, Giovanni di Tebe 1: “Raccontavano che il piccolo Giovanni di Tebe, il discepolo del padre Amoe, servì per dodici anni l’anziano, quando era malato. Gli stava accanto seduto sulla stuoia, ma il vecchio lo trattava con disprezzo. E, sebbene si affaticasse molto per l’anziano, questi non gli diceva mai: ‘Dio ti salvi!’. Ma mentre stava per morire, alla presenza degli altri anziani seduti attorno a lui, gli prese la mano e gli disse: ‘Dio ti salvi, Dio ti salvi, Dio ti salvi!’. E lo consegnò agli anziani dicendo: ‘È un angelo, non un uomo’”. 65 Cf. supra, IV,10. 66 Il senso della frase è spiegato bene nell’Exegesis (p. 144): “La volontà del diavolo è che tutti gli uomini vivano nella negligenza e trascurino le volontà e i comandamenti di Dio. Chi dunque vive già nella negligenza – fosse pure in un eremo o in un cenobio – il diavolo non lo tenta, ma lo lascia stare; sarebbe infatti un controsenso e del tutto impossibile che il diavolo si opponesse e muovesse guerra a coloro che compiono la sua volontà”.

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110. La tentazione di abbandonare i luoghi in cui ci troviamo, sia per noi la prova che là siamo graditi a Dio, perché se siamo combattuti dalle tentazioni, è segno che anche noi combattiamo67. 111. Non vorrei comportarmi come chi nasconde ingiustamente qualcosa o la trattiene avidamente per sé in modo disumano, tacendovi ciò che non è permesso tacere. Il celebre Giovanni il Sabaita68 mi ha raccontato cose veramente degne di essere udite; e tu, venerato padre, sai per esperienza personale come egli sia un uomo completamente libero dalle passioni, puro da ogni menzogna e da ogni parola e opera malvagia. Ecco il racconto che mi ha fatto. “Nel mio monastero in Asia69 – quel sant’uomo proveniva infatti da quella regione – c’era un anziano assolutamente negligente e intemperante, e non lo dico per giudicarlo, ma solo per dire la verità. Costui – non so proprio come – riuscì a guadagnarsi un giovane discepolo di nome Acacio, persona d’animo semplice ma assennata, che sopportava da parte di questo anziano cose che forse ai più parranno incredibili: ogni giorno infatti l’anziano lo caricava non solo di insulti e di umiliazioni, ma addirittura di percosse. La sua pazienza però non era insensata. Vedendolo dunque ogni giorno gravemente afflitto come uno schiavo comprato, spesso, incontrandolo gli dicevo: ‘Come stai, fratello Acacio? Come va oggi?’, e lui subito mi mo67

Cf. infra, XV,62. Monaco originario dell’Asia minore, che visse per alcuni anni in un cenobio del Ponto (cf. infra, § 112) e più tardi nel monastero palestinese di San Saba (da cui il nome di “Sabaita”). Giunto al Sinai, a coronamento della sua carriera di esicasta, si guadagnò il soprannome di “colonna del deserto sinaitico” e incontrando il giovane Giovanni Climaco profetizzò la sua elezione a igumeno del monastero della Santa Montagna (cf. supra, Racc. 1, p. 76). 69 Secondo l’Exegesis (p. 144), si tratta del monastero di Kellibara sul monte Latros, in Asia minore. 68

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strava ora un occhio pesto, ora il collo gonfio, altre volte la testa contusa; al che io, conoscendo la sua virtù, gli dicevo: ‘Bene, bene! Sopporta e ne avrai una ricompensa!’. “Dopo aver passato dunque nove anni sotto questo anziano senza pietà, Acacio se ne andò al Signore e fu seppellito nel cimitero dei padri. Cinque giorni dopo, il suo maestro si recò da un grande anziano che abitava in quel luogo, e gli disse: ‘Padre, il fratello Acacio è morto!’. Appena l’anziano udì queste parole, rispose: ‘Sta’ pur certo, padre: io non ci credo!’. E quello disse: ‘Vieni e vedi!’. L’anziano si levò in fretta e raggiunse il cimitero in compagnia del maestro di quel beato lottatore; e rivolgendosi come a una persona viva a colui che nel sonno viveva veramente, gridò: ‘Fratello Acacio, sei morto?’. E quell’autentico obbediente, dimostrando la propria obbedienza anche dopo la morte, rispose a quel venerando: ‘Com’è possibile, padre, che sia morto un uomo che ha esercitato l’obbedienza?’. A queste parole, l’anziano che era stato il suo maestro – almeno di nome – fu preso da terrore e cadde con la faccia a terra, in lacrime; chiesta quindi all’igumeno della laura70 una cella vicino a quella tomba, visse là nella temperanza per il resto dei suoi giorni”. La mia opinione, padre Giovanni71, è che sia stato proprio lui, quel grande Giovanni, a parlare al morto: 70 Il termine “laura” indica un particolare tipo di insediamento monastico, diffusosi in Palestina a partire dal IV secolo, dove i monaci conducevano una vita semi-anacoretica: vivevano in solitudine ciascuno nella propria cella durante l’intera settimana, mentre la domenica si riunivano nel nucleo centrale della laura (dove c’erano una chiesa e degli edifici comuni) per partecipare insieme alla liturgia eucaristica e prendere un pasto in comune. In generale sulle laure palestinesi, cf. L. Campagnano Di Segni, Cercare Dio nel deserto. Vita di Caritone, Qiqajon, Bose 1990, pp. 15-24; L. Perrone, “All’ombra dei luoghi santi: il monachesimo di Palestina in epoca bizantina e l’esperienza di Gaza”, in Il deserto di Gaza: Barsanufio, Giovanni e Doroteo. Atti dell’XI Convegno ecumenico internazionale (sezione bizantina), Bose, 14-16 settembre 2003, Qiqajon, Bose 2004, pp. 23-50. 71 Giovanni di Raito, destinatario della Scala.

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quell’anima beata, infatti, mi fece anche un altro racconto come se si trattasse di un’altra persona, quando in realtà si trattava di lui stesso, come più tardi potei appurare con precisione. 112. “In quello stesso monastero d’Asia – raccontava – un altro giovane divenne discepolo di un monaco mite, indulgente e pacifico. E vedendo che l’anziano lo trattava con rispetto e cura, giustamente pensò di fare ciò che per molti è pericoloso: pregò cioè l’anziano di lasciarlo partire. Quest’ultimo, infatti, aveva anche un altro discepolo e la cosa non gli avrebbe procurato grandi fastidi. Perciò se ne partì e, grazie a una lettera di presentazione del suo maestro, si stabilì in uno dei cenobi del Ponto. Nella prima notte dopo il suo arrivo nel cenobio, vide in sogno che alcune persone lo sottoponevano ad un rendiconto, e che al termine di quel terribile rendiconto egli risultava debitore di cento libbre d’oro. Risvegliatosi, dunque, rifletté su ciò che aveva visto e si disse: ‘Povero Antioco – era questo infatti il suo nome –, il tuo debito è veramente grande!’. “‘Dopo essere rimasto per tre anni in quel cenobio in assoluta obbedienza – diceva72 –, disprezzato e maltrattato da tutti come uno straniero (là infatti non c’era nessun altro monaco straniero), vedo di nuovo in sogno una persona consegnarmi la ricevuta per dieci libbre del mio debito, e al mio risveglio comprendo la visione e dico: Ancora soltanto dieci? Quando potrò saldare l’intero debito? Allora dico a me stesso: Povero Antioco! Hai bisogno di fatiche e umiliazioni ancora più grandi! Da quel momento cominciai a fingermi pazzo, senza però trascurare minimamente il mio servizio. Perciò quei padri senza

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Giovanni Sabaita riferisce le parole del monaco Antioco.

pietà, vedendomi in quella condizione e pieno di zelo, mi caricavano di tutti i lavori pesanti del monastero. Dopo aver perseverato in questa condotta per tredici anni, vidi di nuovo venirmi incontro le persone che mi erano apparse in precedenza e registrare la remissione completa del mio debito. Quando dunque i padri del monastero mi affliggevano in qualcosa, io, ricordandomi del mio debito, sopportavo di buon animo’”. Questo è il racconto che mi ha fatto quel sapientissimo Giovanni, o padre Giovanni, come se si trattasse di un’altra persona – ed è per questo che ha cambiato il suo nome in Antioco –, quando in realtà fu lui stesso a stracciare il documento del proprio debito con la propria pazienza e il proprio coraggio. 113. Sentiamo ora quale grado di discernimento riuscì ad acquisire quel sant’uomo grazie alla sua estrema obbedienza. Quando risiedeva nel monastero di San Saba73, vennero da lui tre giovani monaci che volevano diventare suoi discepoli. Egli li accolse con gioia e subito diede loro ospitalità, desiderando ristorarli dalla fatica del viaggio; ma dopo tre giorni l’anziano disse loro: “Fratelli, sono un uomo naturalmente incline alla fornicazione e non posso accogliere nessuno tra di voi!”. Ma quelli non si scandalizzarono, giacché conoscevano la virtù dell’anziano. Poiché però, nonostante le molte preghiere, non riuscirono a convincerlo, si gettarono ai suoi piedi supplicandolo almeno di indicar loro in che modo e dove dovessero vivere. L’anziano cedette, e sapendo che avrebbero accolto le sue indicazioni con umiltà e obbedienza, disse al primo: “Il Signore, figlio mio, vuole che tu viva in un luogo soli73 Si tratta del celebre monastero fondato nel 483 da san Saba (439-532) e ancora oggi esistente: designato anticamente come la Meghíste Laura, la “Laura maggiore”, è la più importante delle “laure” palestinesi.

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tario sottomesso a un padre”. Disse poi al secondo: “Va’, vendi le tue volontà e dalle a Dio, poi prendi la tua croce, persevera in un cenobio e in una comunità di fratelli, e certamente avrai un tesoro nei cieli!” (cf. Mt 19,21; 16,24). Disse quindi al terzo: “Accogli in te stesso, unendola inseparabilmente al tuo respiro, la parola di colui che ha detto: Chi persevera fino alla fine sarà salvato (Mt 10,22), poi va’ e, se possibile, non permettere che esista tra gli uomini una persona più severa e più rigida del tuo allenatore74 nel Signore; quindi persevera e bevi ogni giorno le derisioni e gli scherni come latte e miele!”. Allora questo fratello disse al grande Giovanni: “Padre, se quella persona vive nella negligenza, cosa devo fare?”. E l’anziano: “Se anche lo vedrai fornicare – disse – non ti allontanare da lui, ma di’ a te stesso: Amico, per cosa sei venuto? (Mt 26,50), e allora vedrai scomparire il tuo orgoglio e svanire la tua fiamma!”. 114. Noi tutti che vogliamo temere il Signore, lottiamo con tutte le nostre forze, perché non accada che nella palestra della virtù ci procuriamo piuttosto cattiveria e malizia, astuzia e furbizia, perversità e ira! Del resto, è una cosa che succede e non c’è da meravigliarsene. Infatti, finché un uomo è un semplice privato, marinaio o contadino, i nemici del re non si armano granché contro di lui; ma quando vedono che ha ricevuto il sigillo, lo scudo, il pugnale, la spada e l’arco, ed è vestito dell’uniforme del soldato75, allora anche loro digrignano i denti contro di lui e si sforzano di ucciderlo. Appunto per questo, guardiamoci dal sonnecchiare! 74

Cioè del tuo padre spirituale. Cf. Schol. 93, PG 88,760D: “Chiama ‘sigillo’ il battesimo, oppure la penitenza che ne restaura la purezza; ‘scudo’, la fuga del mondo che si raggiunge attraverso il distacco da esso; ‘pugnale’, il rinnegamento delle proprie volontà; ‘arco’, la preghiera attraverso cui si colpiscono i demoni; ‘uniforme del soldato’, l’ornamento delle virtù”. 75

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115. Ho visto arrivare a scuola fanciulli puri e pieni di bontà in cerca di istruzione, di educazione e di profitto, e, dal contatto con gli altri, non apprendere altro che astuzia e malizia. Chi ha intelligenza comprenda! È impossibile che coloro che si sforzano con tutto il proprio impegno di apprendere un’arte, non facciano ogni giorno dei progressi in essa. Ma mentre alcuni conoscono i propri progressi, altri provvidenzialmente li ignorano76. 116. Un bravo banchiere, ogni sera, calcola sempre il guadagno o la perdita della giornata: non può saperlo con precisione, però, se non ne ha preso nota ogni ora sulla sua tavoletta, perché i calcoli fatti ogni ora rendono possibile quello dell’intera giornata. 117. Quando uno stolto riceve un rimprovero o una sgridata e si sente punto, tenta di contraddire, oppure fa subito una metanìa davanti a colui che lo ha rimproverato, non per umiltà ma per far cessare i rimproveri. Tu, quando sei deriso, sta’ in silenzio e accetta questi cauteri dell’anima – anzi piuttosto, queste luci che procurano purezza – e solo quando il medico ha finito, fa’ una metanìa davanti a lui, perché probabilmente nell’ira non accetterebbe neanche la tua metanìa. 118. Noi che viviamo in comunità dobbiamo lottare in ogni momento contro tutte le passioni, ma forse particolarmente contro queste due: la follia della gola e l’irascibilità, perché in mezzo a tante persone esse trovano l’alimento adatto. A quanti vivono nella sottomissione il diavolo ispira il desiderio di virtù impossibili; ugualmente, a quanti vivono nell’esichia suggerisce cose non adatte alla loro condizione.

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Per evitare di farne un motivo di vanto.

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119. Sonda la mente dei cenobiti buoni a nulla e vi troverai un pensiero che divaga tra mille illusioni: il desiderio dell’esichia, del digiuno più duro, della preghiera ininterrotta, dell’assoluta assenza di vanagloria, del ricordo incessante della morte, della compunzione continua, della completa assenza di irascibilità, di un profondo silenzio, e di una straordinaria purezza. E se agli inizi, per divina disposizione, non riescono a raggiungere tutte queste cose, ingannati dal Nemico, saltano a caso da una condizione di vita all’altra: il Nemico infatti gliele ha fatte ricercare prima del tempo, perché non potessero ottenerle al momento opportuno con la loro perseveranza. 120. A quanti vivono nell’esichia, invece, l’Ingannatore magnifica l’ospitalità di coloro che vivono in obbedienza, il loro servizio, il loro affetto fraterno, la loro vita comune, e la loro cura dei malati; e questo per far sì che anch’essi, come quelli, non perseverino nella loro condizione di vita. 121. È veramente riservato a pochi poter vivere nell’autentica esichia: solo a quelli cioè che hanno ottenuto la consolazione divina, che alleggerisce le loro fatiche e li sostiene nei loro combattimenti. 122. Dobbiamo valutare a quali persone sottometterci in base alla qualità delle passioni che ci abitano, e poi scegliere di conseguenza. Se sei incline alla sensualità, il tuo allenatore sia un vero asceta, molto austero nel cibo, piuttosto che uno che opera miracoli ed è sempre pronto ad accogliere ospiti e ad apparecchiare la tavola. Se poi sei incline all’orgoglio, egli sia rigido e inflessibile, piuttosto che mite e benevolo. 123. Non cerchiamo né profeti né veggenti, ma soprattutto persone umili, che, per il loro carattere e il loro stile di vita, siano adatte a curare le nostre infermità. 162

124. Seguendo l’esempio di quel giusto Abbaciro, che abbiamo menzionato sopra77, adotta anche tu questa buona abitudine per apprendere l’obbedienza: pensa sempre, cioè, che il tuo superiore ti stia mettendo alla prova, e così non sbaglierai mai. 125. Se, nonostante i rimproveri incessanti del tuo superiore, la fiducia e il tuo amore verso di lui crescono, sappi che lo Spirito santo è venuto a dimorare invisibilmente nella tua anima e la potenza dell’Altissimo ha steso la sua ombra su di te (cf. Lc 1,35). Ma tu non ti vantare e non gioire se sopporti coraggiosamente oltraggi e umiliazioni, ma piangi piuttosto, perché hai commesso un’azione del tutto meritevole di violenza e hai eccitato un’anima contro di te! 126. Non ti stupire di quel che sto per dire, perché ho Mosè dalla mia parte: è meglio peccare contro Dio piuttosto che contro il nostro padre! Se infatti Dio si adira con noi, il nostro maestro ha il potere di riconciliarci con lui (cf. Es 32,11-14.30-35; Nm 16,16-35). Se invece è il nostro maestro ad adirarsi, non abbiamo più nessuno che possa intercedere per noi. Ritengo però che i due casi si riducano ad uno. 127. Consideriamo, discerniamo e valutiamo attentamente quando dobbiamo sopportare i rimproveri del nostro padre con gratitudine e in silenzio, e quando invece dobbiamo dargli delle spiegazioni. La mia opinione è che sia opportuno tacere in tutte le occasioni che possano procurarci umiliazione, perché quello è appunto il momento di trarre profitto; ma nelle occasioni in cui sia coinvolta una terza persona, allora bisogna parlare, per mantenere indissolubile il vincolo della carità e della pace (cf. Col 3,14; Ef 4,3).

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Cf. supra, IV,25.

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128. Coloro che hanno abbandonato l’obbedienza, te ne potrebbero testimoniare l’utilità: perché da quel momento hanno compreso in quale cielo si trovavano. 129. Chi corre verso l’impassibilità e verso Dio, ogni giorno in cui non è stato insultato, ritiene di aver subito una grande perdita. 130. Come gli alberi sbattuti dal vento mettono radici profonde, così anche coloro che vivono in obbedienza si formano anime forti e salde78. 131. Chiunque vivendo nella quiete sia arrivato a riconoscere la propria fragilità, e poi, mutando condizione di vita, abbia venduto se stesso all’obbedienza, costui, da cieco che era, ha cominciato a vedere Cristo senza fatica. 132. Rimanete saldi, rimanete saldi, e di nuovo ve lo ripeto: rimanete saldi nella vostra corsa, voi fratelli atleti, ascoltando quel sapiente che grida di voi: Li ha provati come oro nel crogiolo – o piuttosto nel cenobio – e li ha accolti come olocausto nel suo seno (cf. Sap 3,6). A lui la gloria e la potenza per l’eternità, con il Padre che non ha principio e lo Spirito santo e adorabile. Amen. Questo gradino ha lo stesso numero degli evangelisti. L’atleta rimanga saldo nella sua corsa e senza paura!

78 Cf. Apoftegmi Nau 396: “Se l’albero non è scosso dal vento, non cresce, né affonda le radici. Così anche il monaco: se non è tentato e non sopporta la tentazione, non diventa coraggioso”.

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Discorso V SULLA PENITENZA ACCURATA E AUTENTICA DOVE SI TRATTA ANCHE DELLA VITA DEI SANTI “CONDANNATI” E DELLA “PRIGIONE”

1. Una volta Giovanni precedette Pietro nella corsa (cf. Gv 20,4), e ora qui l’obbedienza precede la penitenza1: il discepolo che arrivò prima è modello di obbedienza, l’altro di penitenza. 2. La penitenza è un rinnovamento del battesimo. La penitenza è un patto concluso con Dio per una seconda vita. Il penitente è un uomo che vuole comprare l’umiltà. La penitenza è la rinuncia incessante a sperare nei conforti materiali. La penitenza è un pensiero di autocondanna e una preoccupazione di sé senza preoccupazione. La penitenza è figlia della speranza e rinnegamento della disperazione. Il penitente è un condannato che non prova più alcuna vergogna. La penitenza è riconciliazione con il Signore attraverso la pratica delle virtù contrarie ai peccati commessi. La penitenza è purificazione della coscienza. La penitenza è sopportazione volontaria di tutto ciò che ci affligge. Il penitente è l’artefice dei propri castighi. La penitenza è una mortificazione violenta del ventre e una sferza che colpisce l’anima producendo un forte dolore. 1 In greco: metánoia. Sul significato e sulla traduzione di questo termine cf. infra, “Glossario”, s.v. “Penitenza/pentimento”.

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3. Accorrete, avvicinatevi, venite e ascoltate, tutti voi che avete irritato Dio, e vi racconterò! Radunatevi e vedete tutto ciò che Dio ha mostrato alla mia anima per la sua edificazione (cf. Sal 65,16)! Vogliamo dare il primo posto, quello d’onore, a un racconto che narra di uomini virtuosi che nel loro disonore sono degni d’onore. 4. Tutti noi che abbiamo subito qualche caduta imprevista, ascoltiamo, custodiamo e comportiamoci di conseguenza! Voi che giacete a terra a causa delle vostre cadute, rialzatevi e mettetevi a sedere! Fate attenzione, fratelli miei, alle mie parole, piegate il vostro orecchio (cf. Sal 77,1), voi tutti che volete riconciliarvi con Dio attraverso una vera conversione! 5 a. Avendo sentito parlare, io pover’uomo, dello straordinario e insolito genere di vita e dell’umiltà che si praticava in quel monastero separato chiamato “Prigione”2 – che dipendeva dall’autorità di quell’uomo che ho già menzionato sopra, vera luce delle luci –, supplicai quel giusto di concedermi di visitarlo. Quel grand’uomo, non volendo in alcun modo contristare un’anima, accondiscese alle mie preghiere. b. Giunto dunque al monastero dei penitenti3, a quell’autentica terra di piangenti, vidi veramente – se non sono 2

Cf. supra, IV,33. Inizia qui la celebre descrizione del monastero dei penitenti chiamato “Prigione (phylaké)”, spesso criticata e additata come esempio di estremismo ascetico, ai limiti del masochismo e della patologia mentale (cf. per tutti P. Miquel, Mystique et discernement, Beauchesne, Paris 1997, pp. 149-150). Come ha ben notato però P. Deseille, “l’intento di edificazione che ha presieduto alla sua redazione deve dissuaderci dal cercarvi una sorta di cronaca sulla vita quotidiana di questi monaci: siamo in presenza di una serie di icone della penitenza, con la stilizzazione che questo implica. L’autore ne sottolinea e ne evidenzia i tratti, per far emergere il significato spirituale di questi esempi. Ci inganneremo se volessimo vedere in queste pagine dei sintomi patologici, e se volessimo interpretarli secondo le categorie della psichiatria contemporanea. Giovanni Climaco vuole mostrarci in questi penitenti l’immagine di un dolore estremo, il dolore per la salvezza perduta che, lungi dal dissociare la personalità, costituisce al contrario un potente fattore di riunificazione interiore, il più 3

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troppo audace a parlare così – cose che l’occhio di un uomo negligente non vide mai, né udì l’orecchio di un uomo pigro, né mai entrarono nel cuore di un uomo svogliato (cf. 1Cor 2,9): atti e parole capaci di far violenza a Dio, occupazioni e comportamenti che in brevissimo tempo riescono a piegare l’amore ch’egli nutre per gli uomini! c. Ho visto alcuni di questi colpevoli innocenti stare all’aria aperta per l’intera notte, fino al mattino, con i piedi immobili, miseramente oppressi dal sonno per la violenza della natura, senza però concedersi il minimo riposo, anzi rimproverandosi e colpendosi con punizioni e offese per scacciare il sonno. Altri, poi, li ho visti fissare il cielo con uno sguardo capace di suscitare pietà, e con gemiti e grida invocare da lassù un aiuto. d. Altri stavano in preghiera con le mani legate dietro la schiena come dei condannati, e tenevano i loro volti scuri rivolti a terra giudicandosi indegni di levare lo sguardo verso il cielo: nella confusione dei loro pensieri e della loro coscienza non sapevano cosa dire o chiedere a Dio, né trovavano il modo o il mezzo per iniziare una preghiera, ma si limitavano a mettere di fronte a Dio la loro anima muta e la loro mente afona, piena di oscurità e di pura disperazione. efficace forse per coloro che non sono ancora pienamente illuminati dalla grazia dello Spirito” (P. Deseille, “La dottrina spirituale di Giovanni Climaco”, p. 111). Su questa descrizione si vedano anche le osservazioni di Th. Merton, “L’Echelle qui mène à Dieu”, in Contacts 21 (1969), pp. 136-137 ; J. Chryssavgis, “Una spiritualità dell’imperfezione”, in Giovanni Climaco e il Sinai, pp. 175-177. In ogni caso, questa pagina di Climaco diventò per molte generazioni di monaci un vero modello di penitenza, tanto che a partire da essa, in una data incerta, fu composto un Canone penitenziale (Kanòn katanyktikós), un inno diviso in nove odi formate da più strofe (sul modello del Grande canone di Andrea di Creta), che viene riportato dalla maggioranza dei codici climachei a partire dall’XI secolo. Per il testo del canone, cf. J. R. Martin, The Illustration of the Heavenly Ladder, pp. 128-149; I. Barnea, “Un manuscrit byzantin illustré du XI siècle”, in Révue des études sud-est européennes I (1963), pp. 321-324; T. Avner, “The Recovery of An Illustrated Byzantine Manuscript of the Early 12th Century”, in Byzantion 54 (1984), pp. 8-9.

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e. Altri, seduti a terra su tela di sacco e cenere, si coprivano il volto tra le ginocchia e battevano la fronte al suolo. Altri si colpivano continuamente il petto ripensando alla loro anima e alla loro vita passata. Alcuni di questi bagnavano il pavimento con le loro lacrime; altri, incapaci di piangere, si percuotevano. Alcuni levavano grida e lamenti per le loro anime, come si fa per i morti, non avendo la forza di sopportare l’angoscia del loro cuore. Altri ruggivano nel profondo del loro cuore, soffocando dentro la loro bocca il suono dei loro gemiti, ma a volte, non potendo trattenersi, emettevano grida improvvise. f. Là ho visto alcuni che per il loro comportamento e i loro pensieri erano come fuori di sé: per la grande angoscia erano diventati muti, completamente ottenebrati e come insensibili a tutti i bisogni di questa vita; la loro mente era ormai sprofondata nell’abisso dell’umiltà e le lacrime dei loro occhi ribollivano al fuoco del loro avvilimento. Altri se ne stavano seduti, immersi nei loro pensieri, con gli occhi rivolti a terra, scuotendo continuamente il capo e, come leoni, traevano ruggiti e gemiti dal profondo del cuore fino ai loro denti. g. Alcuni di loro, pieni di speranza, chiedevano e invocavano una remissione completa dei loro peccati; altri, nella loro ineffabile umiltà, si giudicavano indegni di tale remissione e gridavano di non avere la forza di giustificarsi davanti a Dio. Alcuni chiedevano con insistenza di essere castigati quaggiù, per ricevere misericordia lassù; altri, schiacciati sotto il peso della loro coscienza, dicevano sinceramente: “Ci basta non essere puniti, anche senza meritare il Regno!”. h. Là ho visto anime umili, piene di contrizione, piegate sotto il peso del loro fardello, e capaci di commuovere perfino le pietre insensibili con le grida che rivolgevano a Dio. Infatti, tenendo gli occhi fissi a terra diceva168

no: “Lo sappiamo, lo sappiamo bene, che siamo degni di ogni castigo e tormento, e giustamente!, giacché ormai non saremmo in grado di soddisfare la quantità dei nostri debiti, neppure se convocassimo il mondo intero a piangere per noi! Questo soltanto chiediamo, imploriamo e supplichiamo: Non rimproverarci con collera e non correggerci nella tua ira (Sal 6,2); non punirci nel tuo giusto giudizio, ma risparmiaci! Ci basta essere liberati dalla tua grande minaccia e dai tormenti sconosciuti e nascosti! Non osiamo chiedere infatti la remissione completa dei nostri peccati, giacché come potremmo farlo, noi che non abbiamo custodito senza macchia la nostra professione, ma l’abbiamo profanata, dopo aver ricevuto la tua misericordia e il tuo perdono?”4. i. Là, amici, proprio là, si potevano vedere veramente realizzate le parole di David: Uomini afflitti e prostrati fino al termine della loro vita, camminavano tutto il giorno con volto triste, esalavano fetore dalle piaghe imputridite del loro corpo (cf. Sal 37,7-6), ma non se ne curavano affatto; si dimenticavano di mangiare il loro pane, mescolavano con le lacrime l’acqua che bevevano, mangiavano cenere e polvere insieme al pane; le loro ossa aderivano alla loro carne ed erano inariditi come l’erba (cf. Sal 101,5.10.6.12). Da loro non si potevano udire altre parole che queste: “Ahi, ahi! Ohimé, ohimé! È giusto, è giusto! Risparmiaci,

4 Secondo la comprensione comune a molti padri orientali la professione monastica è un “secondo battesimo” e assicura la remissione completa dei peccati. La stessa idea si ritrova nei rituali bizantini della professione monastica che raccolgono l’eredità di tutta la tradizione precedente: “È un secondo battesimo che oggi ricevi, fratello, per effetto della sovrabbondanza di grazie riversate da questo Dio che ama gli uomini! Oggi sei purificato dai tuoi peccati e diventi figlio della luce!” (Euchologion, p. 408; cf. P. Raffin, Les rituels orientaux, pp. 169-177). Sul tema cf. E. Malone, “Martyrdom and Monastic Profession as Second Baptism”, in Vom Christlichen Mysterium, a cura di A. Mayer, J. Quasten e B. Neunheuser, Patmos-Verlag, Düsseldorf 1951, pp. 115-134.

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risparmiaci, Signore!”. Alcuni dicevano: “Abbi pietà! Abbi pietà!”. Altri poi, ancor più pietosamente: “Perdonaci, Signore, perdonaci, se è possibile!”. l. Si vedevano alcuni che avevano la lingua riarsa e penzolante dalla bocca come cani. Alcuni si punivano esponendosi al sole bruciante; altri si torturavano con il freddo. Alcuni, dopo aver gustato appena un sorso d’acqua, proprio per non morire di sete, smettevano di bere; altri, dopo aver assaggiato un pezzetto di pane, gettavano via il resto con la mano, dicendo di non essere degni di nutrirsi come esseri umani, poiché si erano comportati come bestie. m. Quando mai tra di loro avresti potuto notare qualcosa di simile a una risata? Quando parole vane? Quando uno scatto di collera o d’ira? Anzi, neppure sapevano se esisteva ancora l’ira tra gli uomini, giacché la loro afflizione aveva completamente estinto l’ardore del loro animo! Quando mai avresti potuto notare una disputa? Quando mai un momento di festa? Quando mai una parola detta in libertà? Quando mai un po’ di cura per il corpo? Quando mai una traccia di vanagloria? Quando mai la speranza di una qualche delizia? Quando mai il pensiero del vino? Quando mai l’assaggio di un frutto? Quando mai il conforto di un buon piatto caldo? Quando mai uno sfizio della gola? In loro, infatti, si era ormai spento il desiderio di tutte queste cose! Avevano forse la minima preoccupazione mondana, o l’abitudine di giudicare chicchessia tra gli uomini? No, nel modo più assoluto! n. Ecco poi ciò che dicevano, meditavano e gridavano ininterrottamente al Signore. Alcuni, battendosi violentemente il petto, dicevano al Signore, come se si trovassero davanti alla porta del cielo: “Aprici, o giudice, aprici, perché con i nostri peccati ci siamo chiusi fuori!”. Altri dicevano: “Fa’ risplendere il tuo volto e saremo salvi!” (Sal 79,4). Altri: “Mostrati agli umili che giacciono nelle tenebre 170

e nell’ombra della morte!” (cf. Lc 1,79). Altri ancora: “Ci venga presto incontro la tua misericordia, Signore, perché siamo perduti, disperati e completamente senza vita!” (cf. Sal 78,8). Alcuni poi dicevano: “Il Signore farà ancora risplendere il suo volto su di noi?” (cf. Sal 66,2); e altri: “Potrà forse la nostra anima attraversare il mare insuperabile del suo debito?” (cf. Sal 123,5). Altri ancora: “Forse il Signore si muoverà ancora a compassione di noi (cf. Dt 32,36; 2Mac 7,6)? Noi che ci troviamo in queste catene impossibili da sciogliere potremo mai udire la sua voce che ci dice: ‘Uscite fuori!’ (cf. Is 49,9)? E a noi che siamo negli inferi della penitenza, dirà forse: ‘Siete perdonati!’? Il nostro grido è forse giunto agli orecchi del Signore?” (cf. Sal 17,7). o. Tutti costoro vivevano tenendo costantemente la morte davanti ai loro occhi e dicevano: “Quale sarà la nostra sorte? Quale la nostra sentenza? Quale la nostra fine? C’è forse per noi una possibilità di ritorno alla vita? C’è forse un perdono per noi che siamo nelle tenebre, per noi miserabili condannati? La nostra preghiera è forse riuscita ad arrivare al cospetto del Signore (cf. Sal 87,3), oppure è stata giustamente respinta, umiliata e confusa? E se veramente è arrivata davanti al Signore, quale profitto ha ottenuto? Quale grazia? Quale frutto? È uscita infatti da bocche e da corpi immondi, e non ha molta forza. Ci ha riconciliati interamente con il nostro giudice, o solo in parte? O forse solo per la metà delle nostre piaghe? Esse, infatti, sono veramente grandi, e ci richiedono grandi fatiche e sudori, e molte sofferenze! Gli angeli custodi si sono avvicinati a noi, oppure sono ancora lontani da noi? Finché quelli non si avvicinano a noi, infatti, tutta la nostra fatica sarà inutile e vana: la nostra preghiera non ha la forza della franchezza5, 5 In greco: parrhesía; per i significati di questo termine cf. infra, “Glossario”, s.v. “Familiarità”.

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né le ali della purezza, per accedere al cospetto del Signore, a meno che i nostri angeli protettori non si avvicinino a noi, la prendano e gliela offrano!”. p. Nel dubbio, spesso si interrogavano l’un l’altro e dicevano: “Forse, fratelli, abbiamo ottenuto qualcosa? Abbiamo raggiunto ciò che abbiamo chiesto nella preghiera? Ci accoglie di nuovo il Signore? Ci apre la porta?”. E altri a queste domande rispondevano: “Chi può sapere – come dicevano i nostri fratelli niniviti – se il Signore si pentirà (Gn 3,9), e se ci libererà almeno dal grande castigo? Comunque, noi facciamo quel che è in nostro potere, e se lui ci aprirà, bene; altrimenti sia benedetto il Signore Dio che ci esclude giustamente! Continuiamo però a bussare fino alla fine della nostra vita, perché forse colui che è buono ci aprirà per la nostra grande impudenza e insistenza (cf. Mt 7,7-11; Lc 11,5-13)!”. Perciò incitandosi a vicenda dicevano: “Corriamo, fratelli, corriamo! Abbiamo bisogno di correre, infatti, e di correre con tutte le nostre forze, perché siamo rimasti indietro rispetto alla nostra nobile compagnia! Corriamo, senza risparmiare questa nostra carne sudicia e corrotta, ma uccidiamola, come essa ci ha ucciso!”6. E così facevano effettivamente quei beati colpevoli. q. Tra loro si potevano vedere ginocchia indurite per la quantità di metanìe, e occhi consumati e profondamente incavati; erano senza capelli; avevano le guance piagate e infuocate dal bollore delle loro calde lacrime; i loro volti erano rinsecchiti e pallidi, in nulla diversi da quelli dei cadaveri; i loro petti erano doloranti per le piaghe, ed essi,

6 La “carne” (cioè la natura umana nella condizione mortale e decaduta del peccato) uccide l’uomo per mezzo delle passioni, che sono come una morte. C’è forse un’eco del celebre detto di abba Doroteo riportato da Palladio in Storia lausiaca 2,2: “[Il corpo] mi uccide, e io lo uccido!”.

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a causa dei pugni che si davano sul petto, erano costretti a sputare sangue. E poi, dov’era mai un giaciglio? Dove vestiti puliti e in buono stato? Tutto era rotto, insozzato e coperto di pulci! Cos’è in confronto la sofferenza degli indemoniati, di coloro che piangono i morti, o di coloro che vivono in esilio? E cos’è in confronto la pena degli omicidi? Le torture e i castighi involontari di questi ultimi non sono davvero niente a paragone di quelli che essi si imponevano volontariamente! Vi prego però, fratelli, di non considerare favole le cose che sto dicendo. Essi spesso supplicavano quel grand’uomo, intendo il pastore, quell’angelo tra gli uomini, di metter loro ferri e catene ai polsi e al collo, di stringere i loro piedi in ceppi, e di non liberarli prima che la tomba li avesse accolti; anzi non volevano neppure la tomba! r. Non voglio nascondervi, infatti, neppure quest’altro modo, veramente degno di pietà, con cui quei beati manifestavano la loro umiltà, il loro amore per Dio pieno di contrizione e la loro penitenza. Quando erano sul punto di passare al Signore e di comparire davanti al suo tribunale imparziale, quei nobili cittadini di questa terra della penitenza supplicavano il superiore, per tramite del loro preposito7, di giurar loro di non onorarli con umana sepoltura, ma di gettarli come bestie nella corrente del fiume o in campagna, in pasto alle fiere. E spesso quell’autentico lume di discernimento acconsentì a fare ciò, ordinando che fossero portati via senza salmodia e senza onori funebri. s. Com’era terribile e degno di pietà lo spettacolo della loro ultima ora! Appena infatti i compagni si accorgevano che uno di loro se ne stava andando precedendoli nella morte, quando ancora quello era in grado d’intendere, lo

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Si tratta dell’Isacco nominato in IV,33.

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circondavano, e assetati, piangenti e spinti da un ardente desiderio, con atteggiamento di estrema pietà, con voce triste e scuotendo la testa, interrogavano il morente, e ardenti di compassione gli dicevano: “Come va, fratello e compagno di condanna? Cosa dici? Cosa speri? Cosa ti aspetti? Hai ottenuto ciò che cercavi con le tue fatiche, o non ci sei riuscito? Hai raggiunto il tuo scopo o no? Hai ricevuto un’intima certezza, oppure hai ancora una speranza incerta? Hai raggiunto la libertà, o il tuo pensiero è ancora sconvolto e assediato dai dubbi? Hai percepito una qualche illuminazione nel tuo cuore, o esso è ancora preda delle tenebre e dell’umiliazione? Hai sentito dentro di te una voce dirti: Ecco sei guarito! (Gv 5,14), o: Ti sono rimessi i tuoi peccati! (Mt 9,2 par.), o: La tua fede ti ha salvato! (Mt 9,22 par.); oppure ti sembra di sentire ancora quell’altra voce che dice: Vadano all’inferno i peccatori! (Sal 9,18), e: Legatelo mani e piedi e gettatelo nelle tenebre! (Mt 22,13), e ancora: L’empio sia tolto di mezzo, perché non veda la gloria del Signore (Is 26,10)? Insomma cosa dici, fratello? Rispondici, ti supplichiamo, perché anche noi possiamo conoscere a che cosa andiamo incontro! Infatti il tuo tempo è finito, e non ne avrai altro per tutta l’eternità!”. t. A queste domande alcuni dei morenti rispondevano: “Sia benedetto il Signore che non ha respinto la mia preghiera e la sua misericordia lontano da me!” (Sal 65,20); altri ancora: “Sia benedetto il Signore che non ci ha consegnato in preda ai loro denti!” (Sal 123,6). Altri dolorosamente dicevano: “Potrà la nostra anima attraversare le acque insormontabili degli spiriti dell’aria?”(cf. Sal 123,5). E lo dicevano perché non avevano ancora una piena fiducia, ma aspettavano di vedere cosa sarebbe successo al momento della resa dei conti. Altri poi rispondevano in modo ancor più triste, e dicevano: “Guai a quell’anima che non avrà 174

custodito integra la sua professione! In quest’ora, e in questa soltanto, conoscerà quale sorte le è stata riservata!”. Ed io, dopo aver visto e udito tali cose tra loro, ero sul punto di cadere nella disperazione, considerando la mia negligenza e mettendola a confronto con tutti i loro patimenti! u. E com’era poi il luogo in cui risiedevano e abitavano? Completamente oscuro, maleodorante, sudicio e squallido – giustamente infatti era chiamato “Prigione” e “Penitenziario”–, al punto che anche la sola vista del luogo poteva insegnare la perfetta penitenza e afflizione! Ma ciò che è duro e insopportabile per altri, risulta gradevole per coloro che hanno perduto la virtù e la ricchezza spirituale. Un’anima, infatti, che non ha più la franchezza di un tempo, che ha perduto la speranza dell’impassibilità, ha rotto il sigillo della castità, si è lasciata spogliare della ricchezza dei suoi carismi, è diventata estranea alla consolazione spirituale, ha violato il patto concluso con il Signore, ha spento il bel fuoco delle lacrime, e che, al ricordo di tutte queste cose, è ferita e dolorosamente trafitta dal rimorso, quest’anima, dico, non solo accetta queste fatiche con tutto lo zelo di cui è capace, ma nel suo fervore cerca addirittura di darsi la morte attraverso l’ascesi, se solo rimane in lei una piccola scintilla d’amore e di timore del Signore. Ed ecco com’erano veramente quegli uomini beati! v. Avendo in mente questi pensieri e riflettendo da quale altezza di virtù erano caduti, dicevano: “Ci ricordiamo dei giorni di un tempo (cf. Sal 142,5) e dell’ardore del nostro zelo”; altri gridavano a Dio: “Dov’è la tua misericordia di un tempo, Signore, quella che hai mostrato alla mia anima nella tua verità? Ricordati dell’infamia e della sofferenza dei tuoi servi” (cf. Sal 88,50-51). E un altro diceva: “Chi mi farà ritornare ai mesi di un tempo, 175

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quando Dio mi custodiva, quando la lucerna della sua luce risplendeva sul capo del mio cuore?” (cf. Gb 29,2-3). Come si ricordavano poi delle virtù di una volta! Le rimpiangevano come bambini, e dicevano: “Dov’è finita la purezza della preghiera? Dove la franchezza che avevamo in essa? Dove quelle dolci invece di queste amare lacrime? Dove la speranza di una castità e di una purezza perfette? Dove l’attesa della beata impassibilità? Dove la fiducia nel pastore? Dove l’efficacia della sua preghiera in noi? Tutto è perduto, tutto è passato, come se non fosse mai apparso! È scomparso e svanito, come se non fosse mai esistito!”. w. Mentre dicevano queste cose e si lamentavano, alcuni si auguravano di essere posseduti da un demonio, altri supplicavano il Signore di ammalarsi di epilessia8, altri di perdere gli occhi, offrendo così a tutti uno spettacolo degno di pietà, altri di diventare paralitici e infermi, pur di non sperimentare i tormenti della vita futura. E io, o amici, compenetrandomi nella loro afflizione, mi dimenticai di me stesso, e fui completamente rapito nella mente, senza riuscire a dominarmi. Ma torniamo al nostro discorso. x. Dopo essere dunque rimasto per trenta giorni nella prigione, non essendo capace di rimanervi di più, me ne tornai al monastero principale, da quel grande anziano. Ed egli, vedendomi tutto stranito e fuori di me, nella sua somma sapienza comprese il motivo della mia trasformazione, e mi disse: “Cosa succede, padre Giovanni? Hai visto i combattimenti di quei faticatori?”. E io gli risposi: “Li ho visti, padre, e ne sono rimasto ammirato, anzi ho stimato più beati loro, che sono caduti e ora piangono se stessi, di quelli che non sono caduti e non piangono se

stessi, perché essi, a causa della loro caduta, sono risorti con una risurrezione che è al sicuro da ogni pericolo!”9. Ed egli mi disse: “È proprio così!”. y. Poi, con quella sua lingua che non mente, si mise a farmi un racconto: “Dieci anni fa – mi disse – avevo qui un fratello talmente pieno di zelo e di buona volontà, che io vedendolo così fervente di spirito avevo paura per lui, temendo l’invidia del diavolo: che cioè, a forza di correre, egli inciampasse col piede in qualche sasso, come suole accadere a quelli che camminano velocemente. Ed è proprio ciò che avvenne. Quindi, una sera tardi, venne da me, mise a nudo la sua ferita10, e mi chiese un rimedio, supplicandomi di usare il cauterio. Era agitatissimo, e vedendo che il medico non era disposto a usare con lui un rimedio troppo severo – poiché era degno di compassione –, si gettò a terra, mi afferrò i piedi bagnandoli abbondantemente con le sue lacrime e mi supplicò di condannarlo alla prigione che hai appena visto: ‘È impossibile – gridava – che io non ci vada! È impossibile!’. Quindi costrinse il medico a mutare la sua clemenza in severità: cosa rara e del tutto straordinaria per dei malati! Raggiunse in fretta i penitenti e cominciò a condividere la loro afflizione diventando un loro zelante compagno. Trafitto nel cuore dal dolore che provava per amore di Dio, come da una spada, otto giorni dopo se ne andò al Signore, chiedendo di non ricevere sepoltura. Ma io lo feci portare qua e seppellire insieme ai padri, come meritava. Così, dopo una settimana di schiavitù, l’ottavo giorno fu liberato11. C’è poi chi ha saputo con certezza che egli non si era an9

Cf. infra, XV,30; XXVI/1,11. Fuor di metafora: confessò il suo peccato. L’ottavo giorno è il giorno della risurrezione di Cristo, che annuncia la vita eterna, la quale supera il tempo della vita umana scandito dai sette giorni della settimana. Cf. anche infra, XXVII/2,2, n. 2. 10 11

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Lett.: “Della malattia sacra”.

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cora alzato dai miei piedi indegni e sudici, che Dio l’aveva già perdonato. E non c’è da farne meraviglia, perché, avendo accolto nel proprio cuore la fede di quella prostituta dell’evangelo (cf. Lc 7,38), anch’egli bagnò i miei poveri piedi con la stessa intima fiducia: Tutto è possibile a chi crede (Mc 9,23), dice il Signore!”. 6. Ho visto anime impure furiosamente invischiate negli amori carnali, le quali, avendo tratto dall’esperienza di quell’amore passionale occasione di penitenza, trasferirono poi lo stesso amore passionale sul Signore e, calpestato immediatamente ogni timore, si sentirono insaziabilmente spronate all’amore di Dio. Perciò il Signore non disse a quella casta peccatrice che aveva provato timore, ma che aveva molto amato (cf. Lc 7,47), e così aveva potuto facilmente scacciare l’amore con l’amore12. 7. Non ignoro, miei onorati fratelli, che le lotte di quegli uomini beati da me narrate, ad alcuni sembreranno incredibili, ad altri quantomeno difficili da credere, e per altri ancora saranno motivo di disperazione. Ma l’uomo coraggioso da questi racconti trarrà piuttosto uno stimolo, come una freccia infuocata, e se ne andrà con il cuore ardente di zelo. Chi poi ha un ardore minore, riconoscerà la propria debolezza e, acquistando facilmente l’umil-

12 L’amore terreno, cioè, viene scacciato dall’amore di Dio. Per esprimere entrambi gli amori si usa la parola éros,“amore passionale”: Climaco dipende qui da una lunga tradizione, che attraverso Gregorio di Nissa e lo Pseudo-Dionigi risale fino a Origene, la quale, sulla scorta di alcuni passi biblici (Pr 4,6; Sap 8,2 LXX) e di un passo di Ignazio di Antiochia (Ai Romani 7,2: “Il mio amore è stato crocifisso”), ha finito per annullare la distinzione originaria tra éros, come “amore umano” possessivo, e agápe, come “amore divino” oblativo, definendo anzi l’éros come un amore più intenso e per questo più adatto a esprimere la passione degli amanti di Dio (cf. Gregorio di Nissa, Sul Cantico dei cantici XIII, p. 383; Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, I nomi divini IV,12). Su questo tema, cf. A. Nygren, Eros e Agape, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 388-389; 604-605; I. de Andia, Mystiques d’Orient et d’Occident, Abbaye de Bellefontaine, Bégrolles-enMauges 1994, pp. 211-240. Cf. anche supra, “Introduzione”, pp. 47-53.

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tà con i rimproveri che rivolgerà a se stesso, correrà dietro al primo; e non so se addirittura non lo possa raggiungere. Il negligente invece non ascolti questi racconti, perché, cadendo nella completa disperazione, non dissipi anche quel poco che ha fatto finora, e si compia così per lui la parola che dice: A chi non ha buona volontà, sarà tolto anche ciò che ha (cf. Mt 25,29)! 8. Se siamo caduti nella fossa dei peccati, non potremo mai uscirne fuori senza esserci sprofondati nell’abisso dell’umiltà dei penitenti! 9. Altra è la mesta umiltà di coloro che si affliggono dei propri peccati, altro è il rimorso di coscienza di coloro che sono ancora nel peccato, e altra è la beata dovizia di umiltà che i perfetti raggiungono per mezzo della grazia di Dio che opera in loro. Ma non affanniamoci a investigare con parole questa terza forma di umiltà, perché correremmo invano! Della seconda è segno il sopportare pazientemente ogni tipo di umiliazione. Quanto a chi si affligge dei propri peccati, anch’egli spesso è tiranneggiato dalle proprie predisposizioni passionali13, e non c’è da farne meraviglia. 10. Il discorso sui giudizi di Dio e sulle nostre cadute è oscuro, e nessun’anima umana riesce a comprendere quali cadute siano frutto di negligenza, quali di un abbandono provvidenziale, e quali di un’allontanamento da parte di Dio. Qualcuno però mi ha spiegato che le cadute che derivano da una disposizione provvidenziale sono seguite da un rapido pentimento, perché Dio che ci ha consegnato a esse, non può permettere che ne siamo dominati a lungo. 11. Noi che siamo caduti in peccato, però, combattiamo prima di tutto contro il demone della tristezza: co-

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Esse diventano per lui occasioni di umiltà.

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stui, infatti, presentandosi a noi al momento della preghiera, e ricordandoci la franchezza che un tempo avevamo in essa, cerca così di renderla inefficace. 12. Non turbarti se cadi ogni giorno e non arrenderti, ma resisti con coraggio, e il tuo angelo custode certamente renderà onore alla tua perseveranza. Quando la ferita è ancora recente e calda, è facile da curare; quelle che invece sono ormai croniche, per il fatto che sono state neglette e trascurate, sono difficilmente guaribili, e la loro cura richiede molta fatica e che vi si applichi il ferro, la polvere disseccante e il fuoco! 13. Molte ferite col tempo diventano incurabili, ma a Dio tutto è possibile (Mt 19,26)! Prima della caduta i demoni affermano che Dio è misericordioso14, ma dopo la caduta, che è inflessibile. 14. Se, dopo un grosso peccato, ti capita di commettere piccole mancanze, non dar retta a colui che ti dice: “Magari tu non avessi fatto quello! Questo qui infatti non è niente!”. Spesso infatti dei piccoli doni sono riusciti a placare la grande ira del giudice. 15. Chi si sottopone a un sincero esame di coscienza, ritiene perduto ogni giorno nel quale non si sia afflitto dei propri peccati, anche se in esso ha fatto qualche altra buona azione. 16. Nessuno di coloro che piangono i propri peccati attenda il momento della propria morte per acquisire una piena certezza15 del perdono, perché ciò che è ignoto16 è insicuro. Per questo qualcuno disse: Dammi sollievo con una piena certezza e riprenderò fiato, prima che me ne vada di qui incerto della mia sorte (cf. Sal 38,14). 14

Lett.: “Amico degli uomini (philánthropon)”. In greco: plerophoría. Su questo termine, cf. infra, “Glossario”, s.v. “Certezza”. 16 Come appunto il momento della morte. 15

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17. Dove c’è lo Spirito del Signore, ogni legame è sciolto (cf. 2Cor 3,17)! Dove c’è umiltà profonda, ogni legame è sciolto! Ma coloro che partono da questa vita senza avere queste due certezze, non s’illudano, perché sono ancora legati. 18. Solo coloro che vivono nel mondo sono estranei a queste due certezze, e soprattutto alla prima. Tuttavia alcuni compiono la loro corsa praticando l’elemosina, e così, al momento di partire dalla vita, scoprono quel che hanno guadagnato. 19. Chi piange se stesso non si accorgerà né del pianto né delle cadute degli altri, né dei rimproveri che vengono loro mossi. 20. Un cane morso da una fiera, le si rivolta contro con più rabbia, e per il dolore della ferita s’infuria contro di lei con violenza ancora maggiore. 21. Stiamo attenti che la coscienza non smetta di rimproverarci, non per aver raggiunto la purezza, ma per essere stata sommersa dal male! 22. Segno della remissione dei peccati è il fatto di ritenersi sempre debitori. 23. Non c’è niente che possa eguagliare o superare la misericordia di Dio. Perciò, colui che dispera uccide se stesso. 24. Segno di autentica penitenza è il fatto di ritenersi degni di tutte le tribolazioni visibili e invisibili che ci capitano, e di tribolazioni ancora più grandi. 25. Mosè, dopo aver visto Dio nel roveto, ritornò in Egitto (cf. Es 3,2-4; 4,20), ossia nelle tenebre, a fabbricare mattoni per il faraone (cf. Es 1,14; 5,6-14)17 – da in17 Per l’interpretazione spirituale di questi passi, cf. Gregorio di Nissa, Vita di Mosé II,59-61: “Il demonio, nocivo e rovinoso, si adopera contro gli uomini, perché chi gli è soggetto non guardi al cielo ma resti chino verso terra e faccia mattoni col fango. Infatti a tutti è chiaro che quanto appartiene al godimento materiale deriva tutto dalla terra e dall’acqua, sia che ci s’interessi al ventre e alla gola, sia anche che si miri alla ricchezza”; Doroteo di Gaza, Insegnamenti XIII,145. Cf. anche infra, DP 100,c.

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tendere ugualmente in senso spirituale –; ma poi tornò ancora al roveto, e non solo, ma salì anche sul monte (cf. Es 19,3). Colui che ha sperimentato la visione di Dio, non potrà mai disperare di se stesso! Il grande Giobbe cadde in miseria, ma poi riebbe le sue ricchezze in misura doppia (cf. Gb 42,10). 26. Per gli svogliati, le cadute che avvengono dopo la chiamata alla vita monastica, sono pericolose, perché togliendo loro la speranza di raggiungere l’impassibilità, li convincono a stimare una beatitudine anche il solo fatto di rialzarsi dal baratro. 27. Stai attento, stai attento, perché non possiamo certo ritornare a Dio per il cammino con il quale ci siamo traviati, ma per un altro più corto18! 28. Ho visto due uomini che correvano verso Dio sulla stessa via e contemporaneamente: uno di loro era anziano e avanzato nelle fatiche ascetiche; l’altro, che era suo discepolo, corse più veloce dell’anziano e giunse per primo al sepolcro dell’umiltà (cf. Gv 20,4). 29. Facciamo tutti attenzione – soprattutto quanti siamo caduti – a non contrarre nel nostro cuore il morbo dell’ateo Origene, perché quel morbo impuro, esibendo la misericordia di Dio, trova facile accoglienza presso chi è incline ai piaceri19! Ma nella mia meditazione, anzi nella mia penitenza, si accenderà il fuoco della preghiera che brucerà la materia20 (cf. Sal 38,4).

30. Misura, esempio, modello e immagine della tua penitenza siano quei santi “condannati” di cui abbiamo parlato sopra, e non avrai più bisogno di alcun libro in questa vita, finché il Cristo, lui che è il Figlio di Dio e Dio, non ti illuminerà facendoti risorgere con un’autentica penitenza. Amen. Hai raggiunto il quinto gradino, tu che hai fatto penitenza! Con essa infatti hai purificato i cinque sensi, e con la punizione e il castigo volontariamente scelti, hai evitato quelli forzati!

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Cioè attraverso l’umiltà. Il riferimento è alla dottrina di Origene sull’apocatastasi, o redenzione universale di giusti ed empi, formalmente condannata dal quinto concilio ecumenico (553). Sull’antiorigenismo di Climaco, cf. G. D. Martzelos, “Il fondamento teologico della spiritualità dei padri sinaiti”, in Giovanni Climaco e il Sinai, pp. 76-79. 20 Cioè i vizi. 19

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Discorso VI SUL RICORDO DELLA MORTE

1. Come il pensiero precede ogni parola, così il ricordo della morte e dei peccati precede il pianto e l’afflizione. Per questo nel nostro discorso li abbiamo collocati secondo l’ordine loro proprio. 2. Il ricordo della morte è una morte quotidiana. Il ricordo della propria dipartita è un gemito continuo. 3. La paura della morte è una proprietà della nostra natura che è frutto della disobbedienza. Il terrore della morte, invece, è indizio di peccati per cui non si è fatto penitenza. 4. Cristo ha avuto paura non terrore della morte, per mostrare con chiarezza le proprietà delle sue due nature. 5. Come il pane è più necessario di tutti gli altri alimenti, così il pensiero della morte rispetto a tutte le altre pratiche. 6. Il ricordo della morte, in coloro che vivono in mezzo ad altri fratelli, produce la sopportazione delle fatiche, la meditazione sui propri peccati e soprattutto il gusto dell’umiliazione; in coloro che vivono lontano dai rumori1, invece, l’abbandono delle preoccupazioni, la preghiera incessante e la custodia della mente. Ma queste cose oltre a essere figlie sono anche madri di tale ricordo della morte. 1

Cioè nell’esichia, ovvero nella vita eremitica.

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7. Come lo stagno risulta chiaramente distinto dall’argento, anche se per l’aspetto gli somiglia, così chi ha discernimento distingue in modo chiaro e netto la paura naturale della morte da quella contro natura. 8. Il vero segno che mostra chi si ricorda della morte con tutto il proprio cuore, è il volontario distacco da ogni creatura e il completo abbandono della volontà propria. Chi l’attende ogni giorno è un monaco provato, ma chi la desidera in ogni momento è un santo. 9. Non ogni desiderio della morte è buono. Ci sono infatti quelli che, cadendo continuamente nel peccato per la forza dell’abitudine, implorano la morte con umiltà; ci sono poi quelli che, non volendo far penitenza, la invocano per disperazione; ci sono ancora quelli che non ne hanno più paura perché, nella propria presunzione, si ritengono ormai impassibili; e infine ci sono quelli – se pure ve ne sono ancora! – che desiderano la propria dipartita per impulso dello Spirito santo. 10. Alcune persone pie non riescono a capire come mai, se davvero il ricordo della morte è per noi così salutare, Dio ci abbia nascosto la conoscenza anticipata del suo momento; ma non comprendono che in questo modo Dio realizza mirabilmente la nostra salvezza. Nessuno, infatti, se conoscesse in anticipo il momento della propria morte, si affretterebbe ad accostarsi al battesimo o alla vita monastica, ma spenderebbe tutti i suoi giorni nell’iniquità e si precipiterebbe verso il battesimo e la penitenza soltanto nel giorno della sua dipartita; anche se ormai, corrotto dal vizio a motivo della lunga abitudine, resterebbe assolutamente incorreggibile. 11. Quando sei nell’afflizione per i tuoi peccati, non ascoltare mai quel cane che ti suggerisce che Dio è misericordioso2, perché il suo scopo è allontanare da te l’affli2

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Lett.: “Amico dell’uomo (philánthropon)”.

zione e quel timore che scaccia ogni timore; a meno che tu non ti veda trascinato nell’abisso della disperazione. 12. Colui che vuole mantenere sempre in se stesso il ricordo della morte e del giudizio di Dio e poi si abbandona alle preoccupazioni e alle distrazioni materiali, è simile a colui che mentre nuota vuole battere le mani. 13. Il vivo ricordo della morte spinge a ridurre il cibo; e quando, in tutta umiltà, il cibo viene ridotto, vengono recise con esso anche le passioni. 14. L’assenza di dolore nel cuore indurisce la mente. L’abbondanza di cibo inaridisce le fonti3. La sete e la veglia affliggono il cuore; ma quando il cuore è afflitto, sgorgano le acque. 15. Queste parole sembreranno dure ai golosi e incredibili ai fannulloni, ma l’uomo operoso cercherà subito di metterle alla prova con zelo; colui che ne ha fatto esperienza ne sorriderà, ma colui che ancora ne ricerca il senso, sarà più triste che mai. 16. Come i padri affermano che la carità perfetta non cade mai in errore4, così io, da parte mia, dichiaro che la perfetta coscienza della morte è esente da timore. 3

Cioè le lacrime di compunzione. L’idea che chi ha raggiunto la carità perfetta non può più cadere nel peccato è frutto dell’interpretazione di 1Cor 13,8 (“la carità non cade mai”) e ricorre spesso nei padri, in particolare nello Pseudo-Macario: cf. Omelie (Coll. II) 26,16: “Se anche possedessi tutti i carismi e consegnassi il mio corpo per essere bruciato e parlassi le lingue degli angeli, ma non avessi la carità, non sono nulla. Questi carismi hanno una funzione di stimolo, ma quanti restano fermi a questi doni, benché siano nella luce, sono bambini. Molti fratelli infatti giunsero a tale misura e ricevettero rivelazioni e profezie, ma poiché non giunsero alla carità, ove è il vincolo di perfezione (Col 3,14), venne su di essi la guerra e caddero per la loro negligenza. Ma se uno giunge alla perfetta carità, costui ormai è stretto in catene, è prigioniero della grazia. Se però uno si avvicina un poco alla misura della carità, ma non è giunto a essere avvinto dai legami della carità stessa, questo è ancora esposto al timore, alla guerra, alla caduta e, se non si mette al sicuro, Satana lo fa cadere”; cf. anche ibid. 27,14; Id., Grande lettera, p. 250. Per la stessa interpretazione, cf. anche Gregorio di Nissa, L’istituzione cristiana, p. 60; Giovanni Cassiano, Conferenze XI,9. 4

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17. Sono molti gli esercizi della mente operosa: intendo dire, cioè, il pensiero dell’amore che nutriamo per Dio, il ricordo di Dio, il ricordo del Regno, il ricordo dello zelo dei santi martiri, e il ricordo della presenza stessa di Dio accanto a noi – come ha detto il salmista: Vedevo sempre il Signore davanti a me (Sal 15,8) –, il ricordo delle sante potenze spirituali, il ricordo della dipartita, della comparizione in giudizio, della sentenza e della punizione. Abbiamo iniziato con gli esercizi elevati, per terminare con quelli che ci difendono dalle cadute. 18. Una volta un monaco egiziano mi fece questo racconto: “Dopo che il ricordo della morte mi si fu impresso nell’intimo del cuore, una volta, per una necessità che si era presentata, volli sollevare un po’ questo mio corpo di fango da tale ricordo, ma ne fui impedito come da un giudice; e la cosa straordinaria è che, pur volendo, non riuscii scacciarlo via!”. 19. Un altro monaco che abitava qui, nella località chiamata Tola5, era spesso trasportato fuori di sé dal pensiero della morte, e i fratelli che lo trovavano come svenuto o in preda a un attacco di epilessia, lo portavano via quasi senza respiro. 20. Non voglio omettere di riferirvi neppure la storia di Esichio l’Horebita6. Costui era sempre vissuto nella più totale negligenza, senza curarsi minimamente della propria anima, ma una volta si ammalò gravemente nel corpo e per circa un’ora fu rapito fuori di sé, proprio come morto; ritornato nuovamente in se stesso, supplicò noi tutti di ritirarci immediatamente e, murata la porta della sua cella, vi rimase dentro per dodici anni, senza parlare assolutamen5

Cf. supra, Vita 3, n. 3. Monaco del Sinai contemporaneo dell’autore, di cui non abbiamo altre notizie. 6

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te con nessuno, senza nutrirsi d’altro che di pane e di acqua, e stando sempre seduto col pensiero fisso in ciò che aveva visto nel suo rapimento: era talmente immerso nei suoi pensieri che non cambiò mai la sua espressione, e rimanendo sempre come in estasi, versava silenziosamente calde lacrime. Quando era sul punto di morire, spaccammo la porta ed entrammo dentro la sua cella, ma, per quante domande gli facessimo, udimmo da lui soltanto queste parole: “Perdonatemi! Chiunque custodisca in sé il ricordo della morte, non potrà mai peccare!”. Noi che prima lo avevamo visto così negligente, ci stupimmo nel vederlo completamente trasformato, con un mutamento e una trasformazione così felici. Lo seppellimmo religiosamente nel cimitero vicino alla fortezza7, ma il giorno dopo, cercando le sue sante spoglie, non le trovammo: il Signore, anche con questo, volle rassicurare riguardo alla penitenza scrupolosa e degna di lode di quella persona tutti coloro che intendono correggersi anche dopo una lunga vita di negligenza. 21. Come alcuni definiscono infinito l’abisso del mare, e lo chiamano “luogo senza fondo”, così il pensiero della morte ci fa considerare la purezza e l’attività spirituale senza alcun limite. E ciò è confermato dal santo di cui si è appena parlato: uomini come questi aggiungono continuamente timore a timore e non si fermano finché non hanno esaurito tutta la forza che hanno nelle loro ossa. 22. Convinciamoci che anche questo8 è un dono di Dio, accanto a tutti gli altri suoi benefici. Altrimenti come si spiega che frequentando assiduamente le tombe 7 Probabilmente la fortezza (kástron) costruita da Giustiniano nel (cf. Procopio di Cesarea, Gli edifici V,8,4-9). 8 Cioè il pensiero della morte.

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restiamo senza lacrime e con il cuore indurito, mentre poi ci capita assai spesso di raggiungere la compunzione senza un tale spettacolo? 23. Chi è morto a tutto e a tutti, si ricorda della morte; ma chi conserva in sé ancora dei legami, non ha il tempo di farlo, perché tende insidie a se stesso. 24. Non pretendere di dichiarare a tutti con parole l’amore che nutri nei loro confronti, ma piuttosto prega Dio che lo manifesti loro in modo misterioso; altrimenti non ti basterà il tempo per mantenere sia le relazioni che la compunzione. 25. Non illuderti, operaio stolto, di poter recuperare il tempo con il tempo: un giorno infatti non ti basta neanche per saldare integralmente al Signore il tuo debito quotidiano9! 26. Non è possibile – dice qualcuno – non è assolutamente possibile trascorrere il giorno presente nel timore di Dio, a meno di non considerarlo l’ultimo di tutta la nostra vita10. Ed è sorprendente che anche i pagani abbiano

9 Cf. Marco il Monaco, Il battesimo 9: “Abbiamo o no il dovere di offrire a Dio, come un debito quotidiano, tutta la pietà di cui siamo stati resi capaci per natura? Certamente mi dirai di sì, dal momento che Dio ha accordato questa grazia alla nostra natura e ha stabilito dei comandamenti conformi alle sue capacità. Ma allora, se il bene che gli offriamo oggi è il debito di oggi, mostrami quel che gli offri per compensare il peccato antico, sia quello tuo che quello di Adamo. Ti dico che non solo non sei in grado di mostrarmelo, ma che non puoi neanche saldare completamente il tuo debito quotidiano! E da dove risulta ciò? Dal fatto che non ti fai trovare sempre ugualmente perseverante nelle virtù. Infatti, nella misura i cui oggi fai un progresso nella virtù, allo stesso tempo ti accusi come debitore per quel che non hai fatto ieri, rendendo così evidenti le possibilità della natura. Il progresso di oggi, infatti, ha dimostrato che le mancanze di ieri non dipendevano dalla natura ma dalla volontà, ed è proprio per questo che subiamo l’azione del peccato!”; Id. Su chi si crede giustificato per le opere 42. 10 Cf. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio 19,2-4: “Per non perderci d’animo, è bene meditare le parole dell’Apostolo: Ogni giorno io muoio (1Cor 15,31). Se viviamo così anche noi, come se ogni giorno dovessimo morire, non peccheremo. Questo significa che ogni giorno, quando ci svegliamo, dobbiamo

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detto qualcosa di simile, poiché definiscono la filosofia una “meditazione della morte”11. Sesto gradino: colui che vi è salito non cadrà mai più nel peccato, se sono vere quelle parole che dicono: Ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato (Sir 7,36).

pensare che non arriveremo fino a sera, e di nuovo, al momento di coricarci, dobbiamo pensare che non ci sveglieremo più. La nostra vita è incerta per natura ed è misurata ogni giorno dalla Provvidenza. Se ci comporteremo così e se così vivremo giorno per giorno, non peccheremo, non proveremo desiderio di nulla, non ci adireremo con nessuno né accumuleremo tesori sulla terra, ma, aspettandoci di morire ogni giorno, non possederemo nulla e perdoneremo tutto a tutti”. 11 Quest’affermazione, che si trova per la prima volta in Platone (Fedone 67E; 81A), divenne una delle più diffuse definizioni della filosofia in ambito ellenistico (cf. Crisippo, Frammenti morali 768; Giamblico, Protrettico, pp. 13,11; 100,1; 119,21; Ammonio, Sull’Isagoghé di Porfirio, pp. 4-6) e fu ripresa poi in ambito cristiano (cf. Clemente Alessandrino, Stromati II,20,119; V,11,67 e Giovanni Damasceno, Capitoli filosofici 3,6; 66,4). Sul tema cf. G. Poulis, “H ναφορ το γου Ιωννου το Σινατου στ Φαδωνα το Πλτωνος”, in Γρηγριος Παλαµς 653-654 (1976), pp. 166-176.

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Discorso VII SULL’AFFLIZIONE CHE È FONTE DI GIOIA

1. L’afflizione1 secondo Dio è un incupimento dell’anima, ovvero quella certa disposizione in cui si trova un cuore immerso nel dolore, che cerca sempre smaniosamente l’oggetto della sua sete, e non potendolo raggiungere lo insegue affannosamente, e dietro a esso emette strazianti grida di dolore. 2. Oppure in altre parole: l’afflizione è un pungiglione dorato dell’anima, spoglio di qualsiasi attaccamento e legame, che viene conficcato in essa dalla santa tristezza, per sorvegliare il cuore. 3. La compunzione2 è un tormento perpetuo della coscienza, che procura refrigerio al fuoco del cuore attraverso la confessione mentale dei peccati. 4. La confessione è oblio della natura, se è vero che a causa di essa qualcuno si dimenticò di mangiare il proprio pane (cf. Sal 101,5). 5. La penitenza è lieta privazione di qualsiasi conforto del corpo. 6. Le caratteristiche proprie di coloro che ancora stanno progredendo nella beata afflizione sono la temperanza e il silenzio delle labbra; di coloro che sono già progredi1 2

Su questo termine cf. infra, “Glossario”, s.v. “Afflizione”. Su questo termine cf. infra, “Glossario”, s.v. “Compunzione”.

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ti, la non-irascibilità e la pazienza nelle offese; e di coloro che hanno raggiunto ormai la perfezione, l’umiltà, la sete di umiliazioni, la fame volontaria di tribolazioni involontarie, il rifiuto di condannare i peccatori, e una compassione che supera le forze umane. I primi sono accettabili, degni di lode i secondi, e beati coloro che hanno fame di tribolazione e sete di umiliazione, poiché essi saranno saziati del cibo di cui non si avrà mai sazietà (cf. Mt 5,6)! 7. Una volta raggiunta l’afflizione, tienila stretta, perché prima che essa diventi parte di te, ti può essere facilmente strappata: i rumori, le preoccupazioni materiali, le mollezze, ma soprattutto le molte chiacchiere e il continuo scherzare la dissolvono in un attimo come il fuoco la cera! 8. Più grande del battesimo è la fonte delle lacrime che sgorga dopo il battesimo, per quanto l’affermazione possa essere un po’ ardita. Il battesimo infatti ci purifica dai peccati commessi prima, ma questa fonte da quelli commessi in seguito3; e se il primo, avendolo ricevuto da bambini, lo abbiamo contaminato, con la seconda lo riportiamo alla sua purezza. E se Dio, nel suo grande amore per gli uomini, non avesse concesso loro questa grazia, quelli che si salvano sarebbero veramente pochi e difficili da trovare4!

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Dopo il battesimo. Con queste affermazioni, che possono sembrare alquanto sorprendenti – ma che trovano paralleli nella letteratura patristica (cf. in particolare Gregorio di Nazianzo, Orazioni 39,17 e 40,9, che potrebbero essere qui la fonte) –, l’autore “non intende minimamente sostituire le lacrime al sacramento del battesimo. Giovanni è perfettamente cosciente della condizione di unicità del battesimo … Qualunque sia la loro importanza, le lacrime non sostituiscono, ma piuttosto rinnovano il battesimo; non garantiscono la grazia divina, ma portano alla nostra consapevolezza una grazia già accordata nel battesimo … La supremazia o l’efficacia del sacramento non è mai in questione, mentre c’è un’affermazione del bisogno di una ricettività consapevole e di una continua risposta alla grazia battesimale. Il battesimo delle lacrime illumina – non elimina – il battesimo d’acqua e di Spirito” (J. Chryssavgis, “Una spiritualità dell’imperfezione”, p. 183). 4

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9. I gemiti e la tristezza gridano al Signore; le lacrime che sono frutto di timore intercedono per noi; ma le lacrime che sono frutto della santissima carità ci manifestano che la nostra supplica è stata accolta. 10. Se è vero che nulla si accorda meglio all’umiltà dell’afflizione, nulla le è più contrario del riso. 11. Tieni ben salda la beata e gioiosa tristezza5 frutto della santa compunzione, e non cessare di esercitarti in essa, finché non ti abbia elevato al di sopra delle cose di quaggiù, e, puro, non ti abbia presentato a Cristo. 12. Non smettere mai di rappresentarti nella mente e di scrutare l’abisso del fuoco eterno, i servitori crudeli, il giudice spietato e inflessibile, l’abisso senza fondo delle fiamme infernali, gli stretti precipizi di quei terribili luoghi sotterranei e di quelle voragini, e tutte altre immagini simili, affinché la sensualità che abita la nostra anima, stretta da grande paura, si unisca alla purezza incorruttibile e accolga in sé lo splendore del fuoco dell’afflizione che brilla più dell’altro fuoco. 13. Quando supplichi il Signore nella preghiera, stattene tutto tremante come un condannato che compare davanti al suo giudice, affinché con il contegno esteriore e l’atteggiamento interiore tu possa riuscire a spegnere l’ira del giusto giudice: egli infatti non può trascurare un’ani5 In greco: charmoly ´pe. Si tratta di un termine coniato da Climaco stesso che vuole esprimere la misteriosa simultaneità di tristezza e gioia sperimentata dal penitente: tristezza per il proprio peccato e gioia per il perdono ricevuto da Dio. Il termine, come del resto l’intero discorso dedicato al pénthos, avrà una notevole fortuna nella letteratura monastica successiva: cf. ad esempio Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 2; 22; 26; Id., Trattati teologici 1; Id., Trattati etici 3; Gregorio Sinaita, Come l’esicasta deve sedere in preghiera, PG 150,1341D. Il tema dell’afflizione mista alla gioia è però largamente attestato già nei padri precedenti: cf. ad esempio Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio 67; Giovanni Crisostomo, Omelie su Filippesi 14; Id., Omelie su Colossesi 12,3; Gregorio di Nazianzo, Orazioni 16,14, PG 35,952B; Evagrio Pontico, Sulla preghiera 5-6; 78; Giovanni Cassiano, Conferenze IX,28. Sul tema cf. supra, “Introduzione”, pp. 44-47.

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ma che, come una vedova, gli compare davanti tutta dolente e cerca di stancarlo con le sue suppliche, lui l’Instancabile (cf. Lc 18,2-6)! 14. Per chi ha ottenuto il dono delle lacrime interiori, ogni luogo è adatto per giungere all’afflizione; ma chi versa ancora solo lacrime esteriori, non deve smettere di fare discernimento sui luoghi e sui modi appropriati. 15. Se è vero che un tesoro nascosto (cf. Mt 13,44) è più al sicuro dai ladri di quello esposto sulla piazza del mercato, dobbiamo intendere allo stesso modo quel che si è appena detto6. 16. Non comportarti come coloro che, appena hanno dato sepoltura ai loro morti, prima piangono su di loro, e poi si ubriacano in loro onore; sii piuttosto come i prigionieri nelle miniere, che sono sferzati in ogni momento dai loro aguzzini. 17. Colui che prima si affligge, e poi si abbandona ai piaceri e agli scherzi, è simile a chi respinge il cane della sensualità colpendolo con il pane: apparentemente lo scaccia, ma in realtà lo incita a stargli vicino. 18. Rimani raccolto in te stesso, senza ostentazione, tutto preso dalla cura del tuo cuore: i demoni infatti temono il raccoglimento come i ladri i cani. 19. Non siamo stati chiamati qui, miei cari, a una festa di nozze! Colui che ci ha chiamati qui, dunque, ci ha certamente chiamato perché ci affliggessimo su noi stessi! 20. Alcuni, mentre versano lacrime, si sforzano in modo inopportuno di non pensare assolutamente a nulla in quel momento beato, senza riflettere che le lacrime senza pensiero sono proprie degli esseri privi di ragione e non degli esseri razionali. Il pianto è figlio dei pensieri; ma il pensiero, a sua volta, è figlio di una mente che ragiona! 6 Le lacrime interiori, cioè, sono più sicure di quelle esteriori perché non ci espongono al rischio della superbia.

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21. Il tuo coricarti a letto sia per te l’immagine della tua deposizione nella tomba, e così dormirai di meno. Lo stesso atto del mangiare a tavola ti ricordi il doloroso pasto che i vermi faranno del tuo corpo, e così cercherai di meno le prelibatezze. E anche quando bevi dell’acqua, non ti dimenticare della sete che avrai in mezzo a quel fuoco, e così farai certamente violenza alla tua natura. Quando subiamo da parte del superiore qualche onorevole umiliazione7, rimprovero o punizione, riflettiamo alla terribile sentenza del Giudice, e con la mitezza e la pazienza, come con una spada a doppio taglio, riusciremo certamente a distruggere quella tristezza e quell’amarezza che sono state seminate dentro di noi senza ragione. 22. Con il tempo il mare si prosciuga (Gb 14,11), come dice Giobbe, e con il tempo e la pazienza le cose di cui abbiamo parlato si sviluppano a poco a poco e giungono a perfezione in noi. 23. Il ricordo del fuoco eterno si corichi con te ogni sera, e con te poi si rialzi; e così non ti vincerà mai la pigrizia al momento della salmodia. 24. Lo stesso abito che porti ti convinca all’esercizio dell’afflizione8: tutti quelli che sono in lutto, infatti, sono vestiti di nero. Se non sei afflitto, affliggiti per questo; e se lo sei, piangi ancora di più perché, a causa dei tuoi peccati, sei stato costretto ad abbandonare una condizione di vita tranquilla per una piena di fatica9. 25. Nel caso delle lacrime, come in tutto il resto, il nostro giusto Giudice giudica certamente in base alle possi7

Gioco di parole in greco: entímo atimía. L’abito monastico al tempo dell’autore era generalmente nero. 9 La vita monastica è una vita di fatica e la si abbraccia per fare penitenza continua dei propri peccati. L’autore in questo passo capovolge la visione tradizionale della vita monastica come vita di perfezione e sembra dire al monaco: “Se sei monaco e se porti l’abito nero del lutto, è perché sei un peccatore, non un perfetto, altrimenti non ne avresti alcun bisogno”. 8

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bilità della nostra natura. Ho visto infatti piccole gocce versate a fatica come sangue, e ho visto fontane sgorgare senza alcuna fatica: per quanto mi riguarda ho giudicato quei sofferenti più in base alla loro fatica, che alla quantità delle loro lacrime; e credo che così faccia anche Dio. 26. La teologia non si addice a coloro che si affliggono, perché essa per sua natura estingue l’afflizione: il teologo infatti somiglia a chi è seduto in cattedra per insegnare, mentre colui che si affligge somiglia a chi è seduto sull’immondizia e coperto di sacco (cf. Gb 2,8; 16,15)10. Ed è per questo, io credo, che anche David, che pure era saggio e capace d’insegnare, a coloro che lo interrogavano quand’era nell’afflizione, rispose: Come potremo cantare il canto del Signore in terra straniera (Sal 136,4), cioè in preda alle passioni? 27. Come tra le cose create alcune si muovono da sé e altre sono mosse dall’esterno, così avviene anche nella compunzione. Quando la nostra anima, senza alcuno sforzo o applicazione da parte nostra, diventa tutta umida e tenera sciogliendosi in lacrime, corriamo, perché il Signore è venuto senza essere stato invitato, per darci la spugna della tristezza che gli è cara e l’acqua refrigerante delle pie lacrime, che cancella i peccati scritti sul documento del nostro debito (cf. Col 2,14). Custodisci quest’acqua come pupilla dell’occhio (cf. Sal 16,8), finché non si ritiri, perché è grande la forza di questa compunzione, molto più di quella che otteniamo con il nostro sforzo e la nostra riflessione! 28. Ha raggiunto la bellezza dell’afflizione, non chi si affligge quando vuole, ma chi lo fa per le cose che vuole; anzi, neppure per le cose che vuole, ma come Dio vuole! 10 Sulla diffidenza di Climaco nei confronti della teologia speculativa, cf. G. Martzelos, “Il fondamento teologico”, pp. 73-79. Cf. anche infra, “Glossario”, s.v. “Teologia”.

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29. Spesso all’afflizione gradita a Dio si mescolano le lacrime della vanagloria, che a Dio non piacciono affatto! E dobbiamo riconoscere questo fatto in modo sincero e onesto, se vediamo che nonostante la nostra afflizione ci comportiamo male. 30. La compunzione è propriamente un dolore dell’anima che non le permette alcuna distrazione o conforto, ma che in ogni momento le fa immaginare la propria dipartita e attendere come acqua refrigerante la consolazione che Dio accorda ai monaci umili (cf. 2Cor 7,6). 31. Tutti coloro che hanno raggiunto l’afflizione nell’intimo senso del cuore11, hanno anche preso in odio la propria stessa vita, perché piena di fatiche e fonte di lacrime e dolori; al proprio corpo poi hanno voltato le spalle come a un nemico. 32. Quando in coloro che sembrano affliggersi secondo Dio notiamo ira e superbia, riteniamo pure che le loro lacrime siano cattive, poiché sta scritto: Quale comunione ci può essere tra la luce e le tenebre? (2Cor 6,14). 33. La falsa compunzione genera la presunzione; quella autentica e degna di lode, la consolazione. Come il fuoco divora la paglia, così le lacrime pure eliminano ogni sozzura, sia esteriore che interiore. 34. Molti padri definiscono oscuro e difficile il discorso relativo alle lacrime, specialmente nel caso dei principianti, perché esse possono essere prodotte – dicono – da cause molteplici e svariate12. Intendo dire, cioè, dalla natura, da Dio, da una sofferenza generata dal peccato o degna di

11 Si tratta cioè dell’autentica afflizione provata nel profondo del cuore. Sul concetto di “senso del cuore” cf. infra, “Glossario”, s.v. “Senso/sentimento spirituale, o del cuore”. 12 Giovanni Cassiano, in Conferenze IX,29, è il primo a fornire una classificazione dettagliata dei diversi generi di lacrime.

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lode, dalla vanagloria, dall’impudicizia, dalla carità, dal ricordo della morte e da molte altre cause. 35. Dopo aver esaminato grazie al timore di Dio queste diverse forme di lacrime, procuriamoci per noi le lacrime pure e senza inganno che sono prodotte dal pensiero della nostra morte: in esse infatti non c’è rischio né di presunzione né di furto, ma grazie ad esse si ottiene piuttosto la purificazione, il progresso nell’amore di Dio, l’abluzione dal peccato e l’impassibilità. 36. Non c’è da meravigliarsi se coloro che si affliggono iniziano con lacrime buone e finiscono con lacrime cattive, ma ciò che è veramente degno di lode è il fatto di poter passare da lacrime cattive, o semplicemente naturali, a lacrime spirituali! E quelli che hanno una forte inclinazione alla vanagloria sanno bene di cosa si tratta. 37. Non credere alle tue lacrime che sgorgano come fontane, prima di esserti purificato perfettamente: non si dà fiducia, infatti, al vino appena spremuto dai torchi! Nessuno contesta che tutte le nostre lacrime, purché conformi alla volontà di Dio, siano assolutamente utili; ma quale sia il guadagno che ne ricaviamo, verremo a saperlo solo al momento della nostra dipartita. 38. Colui che vive nella continua afflizione secondo Dio, non cessa di essere in festa ogni giorno; ma colui che non cessa di far festa materialmente, erediterà un’eterna afflizione! 39. Non esiste alcuna gioia per i condannati in prigione, né alcuna festa per i veri monaci in terra. Ed è forse per questo che quell’autentico modello di afflizione diceva gemendo: “Fa’ uscire la mia anima dal carcere (Sal 141,8), perché io possa finalmente esultare nella tua ineffabile luce!”. 40. Sii come un re nel tuo cuore, seduto sul trono sublime dell’umiltà, e comanda al riso: “Va’ via!”, e se ne vada; al dolce pianto: “Vieni!”, e venga; al corpo, nostro servo e tiranno: “Fa’ questo!”, e lo faccia (cf. Mt 8,9). 200

41. Chiunque ha indossato, come un manto nuziale, l’afflizione beata e piena di grazia, ha conosciuto il sorriso spirituale dell’anima. Chi è mai colui che nella vita monastica ha speso tutto il proprio tempo in modo così santo da non aver mai perso né un giorno, né un’ora, né un istante, ma li ha spesi interamente per il Signore, pensando che nella vita non si può vedere due volte lo stesso giorno? 42. Beato quel monaco che può contemplare con gli occhi dell’anima le potenze angeliche! Ma davvero impeccabile colui che, attraverso il ricordo della morte e dei propri peccati, bagna incessantemente le proprie guance con acque vive! Non faccio fatica a credere che la prima condizione proceda dalla seconda13. 43. Ho visto mendicanti e poveri sfrontati riuscire in poco tempo a muovere a compassione con le loro parole furbe perfino i cuori dei re; e ho visto poveri e mendicanti di virtù gridare sfrontatamente e insistentemente al Re celeste, dal profondo del loro cuore disperato, usando non parole furbe ma piuttosto parole umili, piene di tenebra e di trepidazione, e riuscire con la loro violenza a violentare la sua misericordia e la sua natura che non può subir violenza (cf. Mt 11,12; Lc 16,16). 44. Colui che s’inorgoglisce nell’anima delle proprie lacrime e dentro di sé condanna coloro che non piangono, è simile a colui che, dopo aver chiesto al re un’arma contro i propri nemici, la usasse per uccidere se stesso! 45. Dio, miei cari, non ha alcun bisogno, né vuole, che l’uomo si affligga per il dolore del cuore, ma vuole piuttosto che gioisca per amor suo nel sorriso dell’anima.

13 L’autore anche qui segue fedelmente l’insegnamento dei padri del deserto: cf. Apoftegmi Nau 332: “Chiesero a un anziano: ‘Come mai alcuni dicono di vedere gli angeli?’. Rispose: ‘Beato colui che vede sempre il proprio peccato!’”.

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46. Togli il peccato, e le lacrime di dolore sugli occhi del tuo corpo saranno superflue: dove non c’è piaga, infatti, non c’è alcun bisogno del rasoio! Prima della trasgressione Adamo non aveva lacrime, come non ne resteranno dopo la risurrezione, quando il peccato sarà distrutto, perché dolore, tristezza e pianto saranno fuggiti (Is 35,10). 47. Ho visto alcuni affliggersi, e altri affliggersi per mancanza di afflizione: essi, pur possedendola, vivono come se non la possedessero, e grazie a questa beata ignoranza restano al sicuro da ogni rapina; e questi sono coloro di cui sta scritto: Il Signore rende sapienti i ciechi (Sal 145,8). 48. Accade spesso che anche le lacrime siano motivo d’orgoglio per i meno saldi, ed è per questo che ad alcuni non vengono concesse, affinché, essendone privati e desiderandole, si considerino degli sventurati e condannino se stessi, con gemiti, sconforto, dolore dell’anima, profonda tristezza e disperazione: tutte cose che possono sostituire le lacrime senza alcun danno, anche se essi – ed è bene per loro che sia così – le considerano come nulla. 49. Se osserviamo bene, scopriremo che spesso i demoni si prendono gioco di noi: quando siamo sazi, mettono in noi la compunzione, e quando abbiamo digiunato, di nuovo ci induriscono il cuore; e questo affinché, ingannati dalle false lacrime, ci abbandoniamo alla mollezza, che è la madre delle passioni. A essi però non dobbiamo dare retta, anzi dobbiamo fare il contrario14. 50. Se considero la natura stessa della compunzione, sono stupito al vedere come quella che chiamiamo afflizione e tristezza contenga in sé, come miele nel favo, gioia e letizia15. Ma da questo cosa impariamo? Che tale compunzione è davvero da riconoscere come un dono del 14 15

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Cf. Evagrio Pontico, Trattato pratico 22. Cf. supra, VII,11, n. 5.

Signore: allora nell’anima non c’è più alcun piacere spiacevole, perché Dio consola segretamente i contriti di cuore (cf. Sal 50,19)! Ma come stimolo per acquistare un’afflizione veramente efficace e un dolore ricco di frutti, ascoltiamo un racconto utile all’anima e in grado di suscitare grandissima pietà. Un tale Stefano, che abitava qui16 e conduceva vita solitaria nell’esichia, aveva passato molti anni nella palestra della vita monastica, ed era ormai tutto adorno di digiuni, e soprattutto di lacrime, e ricolmo di altri bei frutti di virtù. La sua cella era sulla pendice del santo profeta Elia, su questa santa montagna. Quest’uomo venerabile, dunque, allo scopo di poter praticare una maggiore e più austera penitenza, decise di stabilirsi nella regione degli anacoreti chiamata Siden. Dopo aver vissuto là per alcuni anni nella più stretta e rigida austerità – poiché quel luogo era privo di ogni conforto e quasi inaccessibile agli uomini, trovandosi a quasi settanta miglia dalla fortezza17 –, verso la fine della sua vita, l’anziano ritornò nella sua cella sulla santa cima; là aveva anche due discepoli palestinesi, molto devoti, che avevano custodito la sua cella prima del suo ritorno. Dopo pochi giorni egli si ammalò di una malattia che lo portò alla morte. Ma il giorno prima di morire, fu rapito in spirito, e con gli occhi spalancati guardava a destra e a sinistra del letto; e come se qualcuno lo stesse sottoponendo a un esame, mentre tutti i presenti l’udivano, a volte rispondeva: “Sì, certo, è vero, ma per questo ho digiunato tanti anni!”; altre volte: “No! State certamente mentendo, questo non l’ho fatto!”; e ancora: “Sì, questo è vero, sì, ma ho pianto e ho adempiuto al mio servizio!”; e di 16 17

Sul monte Sinai. Cf. supra, VI,20, n. 7.

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nuovo: “No, mi calunniate!”; e a volte a certe accuse rispondeva: “Sì, è vero, sì! A questo non so cosa rispondere! Dio è misericordioso!”. Era uno spettacolo orrendo e terribile: un processo invisibile e senza pietà! Ma più terribile ancora era il fatto che lo accusavano anche di ciò che non aveva fatto. Oh! Proprio lui che era un esicasta e un anacoreta, di fronte ad alcuni suoi peccati diceva: “Non so cosa rispondere a questo!”. Eppure era stato monaco per circa quarant’anni, e aveva avuto il dono delle lacrime! Ahimè, ahimè, dov’era andata a finire in quel momento la parola di Ezechiele che dice: “Ti giudicherò nella condizione in cui ti troverò!” (cf. Ez 7,7)18? Non riuscì a dire niente di simile per difendersi! E perché? Gloria a colui che solo lo sa! Alcuni, senza mentire, mi hanno raccontato che costui, quand’era nel deserto, riusciva addirittura a nutrire un leopardo dalla sua mano. Eppure si separò dal corpo mentre subiva questo terribile esame, senza minimamente lasciare intendere quale sarebbe stata la sua sentenza, la sua fine, e la sua condanna, e la conclusione di quel processo! 51. Come una vedova, che ha perduto il marito e ha un figlio unico, trova in quel figlio la sua unica consolazione dopo il Signore, così un’anima che è caduta nel peccato non trova altra consolazione al momento della sua dipartita, all’infuori del ricordo delle fatiche del digiuno19 e delle lacrime. Persone così non cantano mai, né mai esultano in inni di giubilo nel loro intimo, perché tutto ciò danneggia l’afflizione! Se tu cerchi di procurarti l’afflizione con tali mezzi, sei ancora lontano dal tuo scopo,

perché l’afflizione è un dolore stabilmente radicato in un’anima in fiamme! Per molti l’afflizione è stata come il “precursore” della beata impassibilità, avendo preparato, purificato e consumato il corpo materiale. 52. Una volta un bravo operaio di questa virtù mi disse: “Spesso quando ho cercato di abbandonarmi alla vanagloria, all’ira o all’ingordigia del ventre, il pensiero dell’afflizione che era dentro di me ha protestato dicendo: ‘Non cedere alla vanagloria, perché altrimenti ti abbandono!’, e così anche per le altre passioni; e io gli rispondevo: ‘Non ti disubbidirò mai, finché non mi avrai presentato a Cristo!’”. 53. L’abisso dell’afflizione sperimenta la consolazione, e la purezza del cuore riceve l’illuminazione. L’illuminazione è un’operazione ineffabile che la mente intende senza conoscere e vede senza vedere. La consolazione è refrigerio di un’anima sofferente: come un neonato che allo stesso tempo piange tra sé e grida di gioia. Il soccorso [divino] è rigenerazione di un’anima sprofondata nella tristezza, che trasforma miracolosamente le lacrime di dolore in lacrime di gioia. 54. Le lacrime prodotte dal pensiero della morte generano il timore; quando il timore ha generato la serenità20, appare la gioia; e quando poi cessa la gioia incessante, spunta il fiore della santa carità! 55. Respingi con la mano dell’umiltà la gioia che ti visita, ritenendo di esserne indegno, per non rischiare, con un’accoglienza troppo disinvolta, di accogliere il lupo invece del pastore21! 20

18

Citazione ad sensum. Altri padri citano le stesse parole attribuendole a Gesù: cf. Giustino, Dialogo con Trifone 47; Clemente di Alessandria, Quale ricco si salverà? 40; si veda L. Moraldi, Apocrifi del Nuovo Testamento I, UTET, Torino 1971, p. 468. 19 Lett.: “Le fatiche della gola”.

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Lett.: “L’assenza di timore (aphobía)”. Cf. Schol. 19, PG 88,825A: “La contemplazione senza discernimento comporta molti pericoli; infatti il diavolo si trasforma in angelo di luce e inganna spesso coloro che ignorano i suoi comportamenti. Anche per questo un anziano disse: ‘Io non voglio vedere Cristo quaggiù sulla terra!’”. Il riferimento è ad Apoftegmi Nau 393. 21

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56. Non correre verso la contemplazione quando non è il momento della contemplazione, affinché sia essa a inseguire e raggiungere la bellezza della tua umiltà, per unirsi a te in purissime nozze per i secoli dei secoli. 57. Quando agli inizi il bambino riconosce suo padre, si riempie tutto di gioia; ma se il padre, per qualche motivo, si assenta per un certo tempo e poi ritorna di nuovo, il bambino è pieno di gioia e di tristezza allo stesso tempo: di gioia perché vede colui che desidera, e di tristezza per essere stato privato per tanto tempo della sua piacevole bellezza. 58. Talvolta la madre si nasconde al bambino, e quando vede ch’egli la cerca in lacrime, ne è contenta: così gli insegna a rimanere sempre attaccato a lei, accendendo nel bambino un amore sempre più ardente verso di lei22. Chi ha orecchi per ascoltare ascolti! (Lc 14,35), dice il Signore.

22 L’immagine della madre e del bambino è spesso utilizzata dai padri per descrivere il rapporto tra Dio e il credente: cf. Diadoco di Fotica, Capitoli 86: “Avviene che la grazia … nasconda spesso la sua presenza allo spirito per sollecitare, per così dire, l’anima con l’amarezza provocata dai demoni, perché questa, nel timore più assoluto e nell’umiltà più piena, cerchi allora il soccorso di Dio e poco alla volta riconosca la malizia del suo nemico. La grazia si comporta come una madre che respinge per un po’ dalle sue braccia il proprio bambino indocile alla regolamentazione delle poppate, e gli fa paura prospettandogli le cose che lo circondano come uomini repellenti o bestie feroci di qualsiasi forma, perché egli con grande timore pur tra le lacrime ritorni al seno materno”; Pseudo-Macario, Omelie (Coll. II) 46,3: “Il bambino, se pure non può far nulla ed è incapace di raggiungere sua madre reggendosi sulle proprie gambe, tuttavia si rigira, grida e piange cercando sua madre ed essa si lascia commuovere e gioisce al vedere che il bambino la cerca con pena e grida; e se il bambino non è in grado di raggiungerla, è la madre stessa che a motivo del grande desiderio del bambino va da lui, prigioniera del suo amore per lui, e lo prende tra le braccia, lo consola, lo nutre con immensa tenerezza. Così si comporta il Dio amico degli uomini con l’anima che viene a lui e lo desidera con brama ardente. Anzi, spinto da un ben più profondo amore e dalla sua dolce bontà si unisce ai suoi pensieri e diviene un solo spirito con essi, secondo la parola dell’Apostolo (cf. 1Cor 6,17)”; cf. anche ibid. 31,4; Efrem il Siro, Sulla compunzione, p. 377; Id., Come l’anima deve pregare con le lacrime, pp. 60-61; Giovanni Cassiano, Conferenze XIII,14.

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59. Il condannato che ha ricevuto la sentenza di morte non potrà più preoccuparsi delle programmazioni degli spettacoli teatrali; e così chi piange in modo sincero non deve più badare ai piaceri, alla gloria o alla collera! 60. L’afflizione è un dolore stabilmente radicato in un’anima penitente, che aggiunge dolore a dolore, come una donna nelle doglie del parto. 61. Giusto e santo è il Signore (cf. Sal 144,17): egli procura giustamente la compunzione a chi giustamente vive nell’esichia, e rallegra ogni giorno chi vive giustamente nella sottomissione. Ma chi non segue in modo autentico una di queste due vie, è privato dell’afflizione! 62. Respingi il cane che si avvicina a te quando sei immerso nell’afflizione più profonda per suggerirti che Dio è senza compassione: se lo osservi attentamente, infatti, scoprirai che è quel cane che, prima del peccato, chiamava Dio misericordioso, compassionevole e pronto al perdono23. 63. L’esercizio assiduo favorisce la continuità24, e questa si traduce in esperienza sensibile; e ciò che si è realizzato in un’esperienza sensibile, difficilmente ci potrà essere strappato. 64. Per quanto sublimi possano essere gli stili di vita da noi intrapresi, se non abbiamo il cuore addolorato, consideriamoli pure come inutili e falsi! 65. È necessario – sì veramente necessario! – che coloro che si sono nuovamente contaminati dopo il lavacro battesimale ripuliscano le loro mani, per così dire, dalla pece del peccato con il fuoco incessante del cuore e l’olio della misericordia di Dio25.

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Cf. supra, VI,11. Sottinteso: “Dell’afflizione”. Lett.: “Con l’olio di Dio”. In greco c’è un gioco di parole tra élaion (“olio”) e éleon (“misericordia”). 24 25

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66. Ho visto alcuni giungere all’estremo limite dell’afflizione: li ho visti infatti versare materialmente sangue dalla bocca, a causa del dolore e della ferita del loro cuore; e mi sono ricordato di colui che ha detto: Sono stato falciato come erba, e il mio cuore è inaridito (Sal 101,5). 67. Le lacrime che nascono dal timore trovano in se stesse garanzia di protezione, mentre quelle che nascono dall’amore, possono essere facilmente sequestrate a chi non abbia ancora raggiunto un amore perfetto; a meno che quel fuoco memorabile26, al momento di agire, non abbia incendiato completamente il cuore. È sorprendente notare come la cosa più umile nel giusto momento sia anche la più sicura. 68. Vi sono cose materiali che inaridiscono le nostre fonti, e ve ne sono altre che addirittura producono fango e generano belve al loro interno. Le prime portarono Lot a unirsi alle proprie figlie contro ogni buon costume (cf. Gen 19,30-38); le seconde provocarono la caduta del diavolo27. 69. La malizia dei nostri nemici è così grande, che sono capaci di trasformare le madri delle virtù in madri dei vizi, e le cose che potrebbero generare l’umiltà in cause di superbia! 70. Spesso gli stessi luoghi in cui abitiamo e il loro aspetto sono capaci di richiamare la nostra mente alla compunzione: ti convinca di questo fatto l’esempio di Gesù, di Elia e di Giovanni che pregavano nella solitudine (cf. Mc 1,35 par.; 1Re 19,9-18; Mt 3,1 par.).

71. Spesso ho visto lacrime suscitate anche in mezzo alle città e ai rumori, per far credere ad alcuni che da tale confusione non possono ricevere alcun danno, e così farli avvicinare al mondo: è proprio questa infatti l’intenzione dei demoni malvagi. 72. Spesso una sola parola basta a dissipare l’afflizione. Ma sarebbe un vero miracolo se una sola parola bastasse anche a farla tornare! 73. Quando la nostra anima lascerà questa vita, miei cari, non verremo accusati né di non aver fatto miracoli, né di non aver praticato la teologia, né di non essere stati dei contemplativi, ma certamente dovremo rendere conto a Dio di non aver custodito incessantemente l’afflizione! Settimo gradino: chi ne è stato stimato degno, aiuti anche me; egli infatti è già stato aiutato, perché con il settimo gradino ha lavato le macchie di questo mondo!

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Cioè l’amore. Secondo l’Exegesis (p. 206) ciò “che inaridisce le nostre fonti” è il vino bevuto senza misura: Lot infatti si unì alle sue figlie dopo essersi ubriacato; le cose che generano le “belve” (cioè le passioni) sono invece il potere e gli onori che gonfiano d’orgoglio chi li possiede: Satana-Lucifero infatti proprio per questo motivo decadde dalla sua condizione angelica. 27

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Discorso VIII SULLA NON-IRASCIBILITÀ E SULLA MITEZZA

1. Come l’acqua versata a poco a poco su un fuoco finisce per spengerne completamente la fiamma, così anche le lacrime dell’autentica afflizione possono spengere la fiamma dell’ira e della collera. Per questo, parlando di tali cose, abbiamo seguito quest’ordine. 2. La non-irascibilità è un desiderio insaziabile di umiliazione, allo stesso modo in cui nei vanagloriosi è infinito il desiderio delle lodi. La non-irascibilità è una vittoria sulla natura che si ottiene con lotte e sudori rimanendo insensibili agli oltraggi. 3. La mitezza è una condizione di immobilità dell’anima che rimane costante sia nelle umiliazioni che negli onori. 4. L’inizio della non-irascibilità è il silenzio delle labbra di fronte a un turbamento del cuore; il grado intermedio è il silenzio dei pensieri di fronte a un semplice turbamento dell’anima; e il grado perfetto è una tranquillità imperturbabile in mezzo alla furia dei venti impuri1. 5. L’ira è un odio nascosto covato a lungo nel cuore, ovvero il ricordo di un rancore. L’ira è il desiderio di fare del male a chi ci ha irritato. 6. Lo scatto d’ira è un incendio improvviso del cuore. L’irritazione è una agitazione sgradevole che s’installa nell’anima. 1

Cioè in mezzo alle continue tentazioni suscitate dagli spiriti malvagi.

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7. La collera è un movimento che rende instabile il carattere e deforma l’anima. 8. Come all’apparire della luce le tenebre si ritirano, così al profumo dell’umiltà ogni irritazione e collera scompare. Alcuni, pur essendo facili alla collera, non si preoccupano affatto di curarla e di cercare dei rimedi per essa; quegli sventurati non ascoltano colui che dice: L’istante della sua collera è la sua caduta (Sir 1,22)! 9. Un rapido movimento della mola2 può, in un solo istante, tritare e distruggere nell’anima più grano e più frutto di qualsiasi altro movimento che duri un intero giorno: perciò bisogna stare attenti! 10. La vampata improvvisa di un fuoco suscitata da un vento impetuoso può bruciare e distruggere il campo del cuore più di un fuoco che arde costante per lungo tempo. 11. Neanche questo deve sfuggirci, miei cari: che a volte i demoni malvagi, quando lo ritengono opportuno, si ritirano, per far sì che noi, a forza di trascurare come insignificanti le nostre gravi passioni, finiamo per contrarre dei mali incurabili. 12. Come una pietra appuntita e dura, se urta e sbatte contro altre pietre, smussa tutte le sue punte e tutta la sua durezza e diventa rotonda, così anche un’anima spigolosa e rigida, se si mescola a una folla di uomini duri e irascibili, e vive insieme a essi, dovrà scegliere tra una delle due cose: o curerà la propria ferita per mezzo della pazienza, o, se si ritira, dovrà assolutamente riconoscere la propria debolezza, perché quella sua vile fuga, come uno specchio, gliela manifesterà in modo evidente3.

13. Il collerico è un epilettico volontario che, per effetto di una predisposizione involontaria, dà in escandescenza e cade. 14. Nulla è più sconveniente ai penitenti quanto il fatto di lasciarsi sconvolgere dalla collera, poiché la penitenza richiede molta umiltà, e invece la collera è sintomo della più grande presunzione! 15. Se il limite estremo della mitezza è rimanere tranquilli nel proprio cuore anche davanti a chi ci provoca, nutrendo per lui sentimenti di amore, certamente il limite estremo della collera è continuare a litigare e a imbestialirsi a parole e a gesti contro chi ci ha offeso, anche quando si vive da soli. 16. Se lo Spirito santo è definito come la pace dell’anima (cf. Rm 8,6; Gal 5,22)4, e lo è veramente, e se l’ira è ed è chiamata turbamento del cuore, allora niente come la collera è capace di impedire la venuta dello Spirito santo in noi. 17. Sappiamo che i rampolli dell’ira sono moltissimi e detestabili, ma ne abbiamo trovato uno solo che, generato da essa suo malgrado, risulta utile, pur essendo bastardo. Ho visto alcuni furiosamente infiammati dall’ira riuscire in questo modo a vomitare un rancore segretamente covato da tempo, liberandosi di una passione attraverso un’altra passione e ottenendo da parte di chi li aveva offesi, o il pentimento, o quantomeno un’adeguata spiegazione per ciò che li aveva fatti a lungo soffrire. Al contrario, ho visto altri far mostra di pazienza in modo irragionevole e attraverso il loro silenzio accumulare nel cuore il rancore. Questi ultimi li ho giudicati più infelici di quelli che si lasciano prendere dalla furia dell’ira, perché con la loro oscurità essi hanno fatto sparire la Colomba5!

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Metafora per indicare lo scatto d’ira. Cf. Apoftegmi, Matoes 13: “Chi vive con dei fratelli non deve essere un cubo, ma una sfera, per poter rotolare incontro a tutti”. 3

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L’autore più probabilmente ha in mente qualche definizione dei padri. Ossia lo Spirito santo.

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18. Contro questo serpente6 ci è necessaria molta attenzione, perché anch’esso, come il serpente della fornicazione, ha come alleato la nostra stessa natura! Ho visto persone adirate rifiutare il cibo per l’irritazione, ma con questa loro assurda astinenza non fecero altro che aggiungere veleno a veleno! Ne ho visti altri che, approfittando della collera, come se fosse una giustificazione sensata – quando in realtà è assurda! –, si abbandonarono alla furia del ventre, e dalla fossa caddero nel precipizio! Ne ho visti altri ancora, giudiziosi come dei bravi medici, che, contemperando l’uno e l’altro eccesso, trassero grandissimo giovamento da una alimentazione equilibrata. 19. A volte il canto misurato riesce a calmare la collera in modo eccellente, ma altre volte, quando è senza misura e inopportuno, stimola la ricerca del piacere: fissiamo perciò dei tempi precisi, così da poterne fare buon uso! 20. Un giorno, trovandomi per una qualche necessità fuori della cella di alcuni esicasti, li ho sentiti baruffare da soli nella loro cella, come pernici in gabbia, per l’irritazione e la collera che avevano, avventandosi contro la persona che li aveva offesi come se fosse realmente presente! A essi consigliai rispettosamente di non vivere più da solitari, per non diventare demoni, da uomini che erano. Ne ho visti altri, invece, che per indole erano sensuali e amanti dei cibi, affabili e complimentosi, affettuosi con i loro fratelli e attirati dai bei volti: a essi consigliai di ricercare l’esichia come antidoto contro la sensualità e la gola, se da uomini dotati di ragione quali erano, non volevano ridursi nella condizione miserabile di bestie senza ragione. Quando poi alcuni mi confessarono di sentirsi miseramente trascinati a entrambi i vizi7, proibii loro assoluta6 7

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Cioè il demonio dell’ira. Cioè l’ira e l’amore del piacere (che si traduce nella sensualità e nella gola).

mente di vivere a proprio arbitrio, suggerendo amichevolmente ai loro superiori di consentire loro di abbracciare ora l’uno, ora l’altro regime di vita8, a condizione però che in tutto fossero perfettamente sottomessi e obbedienti al superiore e alla loro guida. 21. Chi è portato ai piaceri corrompe se stesso, e forse anche qualche altro suo complice; ma chi è portato alla collera spesso, come un lupo, sconvolge l’intero gregge e ferisce molte anime umili! 22. È grave, certo, turbare l’occhio del proprio cuore9 con la collera, come dice: Il mio occhio è sconvolto per la collera (Sal 6,8); è ancor più grave manifestare con le labbra la violenza che si ha nell’anima; ma venire alle mani è del tutto contrario ed estraneo alla vita monastica, angelica e divina! 23. Se vuoi liberare l’occhio di qualcuno da una festuca (cf. Mt 7,3) – o piuttosto hai la pretesa di farlo –, non cercare di toglierla con una trave invece che con un bisturi, perché finirai per spingerla più dentro. La “trave” sono le parole dure e i gesti inconsulti; il “bisturi”, invece, l’insegnamento pacato e la correzione paziente. Rimprovera, correggi, esorta! (2Tm 4,2), dice l’Apostolo, ma non dice anche: “Percuoti!”; e se proprio ce n’è bisogno, fallo raramente e non di tua mano10. 8

Cioè la vita cenobitica e la vita eremitica. Cioè la mente (noûs). Cf. Ef 1,18. 10 Teodoro Studita (759-826), il grande padre del monachesimo bizantino, testimonia in una catechesi come nella sua comunità monastica si facesse un uso distorto di queste parole della Scala; cf. Piccole catechesi 47: “Coloro di cui stiamo parlando non solo insultano in modo furibondo, ma arrivano addirittura a picchiare; e tutto ciò nei confronti di fratelli che portano il loro stesso abito! Se poi sono rimproverati per il loro comportamento sconsiderato, rispondono di non essere colpevoli in base alla regola, poiché dicono: ‘Non abbiamo picchiato in prima persona ma tramite altri!’, prendendo così a difesa della loro passione quella breve sentenza della Scala, senza accorgersi che quelle parole sono forzate e non conformi alla legge di Dio! E lo dimostra lo stesso padre quando cita le parole dell’Apostolo e dice: ‘Ammonisci, rimprovera, esorta, però non dice anche: Picchia!’. Se dunque non ha detto di picchiare, chi osa aggiungere o togliere qualcosa alle parole che l’Apostolo ci ha consegnato?”. 9

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24. Prestiamo attenzione, e vedremo che ci sono molte persone irascibili che praticano con zelo il digiuno, le veglie e l’esichia: lo scopo del demonio, infatti, è di insinuare in loro ciò che è in grado di alimentare e accrescere la passione con il pretesto della penitenza e dell’afflizione11. 25. Se un solo lupo, come abbiamo già detto, può sconvolgere l’intero gregge con l’aiuto del diavolo, certamente anche un solo fratello pieno di sapienza, come un otre pieno d’olio12, è in grado di calmare i flutti e di porre in salvo la nave con l’aiuto di un angelo, ricevendo da Dio una ricompensa grande quanto la condanna del primo e diventando un esempio utile per tutti. 26. L’inizio della beata mitezza è accogliere le umiliazioni con amarezza e dolore dell’anima; il grado intermedio è sopportarle senza dolore; e la perfezione – se esiste – è di considerarle come onori. Rallegrati, tu che sei nella prima condizione! Fatti forza, tu che sei nella seconda! E beato te che sei nella terza condizione, perché esulti nel Signore! 27. Negli iracondi ho potuto notare un pietoso spettacolo che essi offrivano attraverso il loro orgoglio, senza neppure avvedersene: dopo essersi adirati, infatti, si adiravano di nuovo per essersi lasciati vincere dall’ira. Io mi meravigliavo di veder punita una caduta con un’altra caduta, e provavo pietà per loro, nel vedere come vendicassero un peccato con un altro peccato. Atterrito dalla malizia dei demoni, per poco non disperavo della mia stessa vita. 28. Se qualcuno si accorge di essere facilmente vinto dall’orgoglio, dagli scatti d’ira, dalla malignità e dall’ipocrisia, e decide di sguainare contro queste passioni la 11 La superbia e la vanagloria, che derivano da quelle pratiche ascetiche, sono in grado di alimentare la passione dell’ira. 12 Cf. infra, XXVI/3,18.

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spada a doppio taglio della dolcezza e della mitezza, dovrà entrare, per così dire, in una salutare lavanderia13, ossia in una comunità di fratelli, i quali dovranno essere quanto mai duri, se egli vuole davvero spogliarsi perfettamente di tali passioni. E ciò affinché là sia stirato e percosso spiritualmente dagli insulti, dalle umiliazioni e dalle ondate violente suscitate dai fratelli, e forse a volte perfino fisicamente scorticato, preso a calci e pestato, e così possa riuscire a lavar via tutto lo sporco che gli ingombra i sensi dell’anima. Lo stesso linguaggio del popolo ti convinca del fatto che gli insulti servono a lavare le passioni dell’anima: alcuni nel mondo, infatti, quando hanno coperto d’insulti qualcuno a viso aperto, se ne vantano con gli altri dicendo: “Gli ho fatto una bella lavata!”, che è proprio la verità. 29. Una cosa è la non-irascibilità che i principianti raggiungono mediante l’afflizione, e altra cosa l’imperturbabilità che è presente nei perfetti: nel primo caso infatti l’ira è trattenuta dalle lacrime come da un freno; nel secondo caso è uccisa dall’impassibilità come un serpente da una spada. Una volta ho visto tre monaci subire la stessa umiliazione: il primo sentì il morso e ne fu turbato, ma tacque; il secondo se ne rallegrò per sé, ma se ne rattristò per colui che l’aveva insultato; il terzo, infine, immaginando il danno subito dal suo prossimo, pianse calde lacrime. Ed era evidente che uno agiva per timore, l’altro per la ricompensa, e il terzo per amore. 30. Come la febbre del corpo è una, ma il suo ardore può essere determinato da diverse cause e non da una sola, così anche l’ardore e il moto della collera – come forse 13 Lett.: “Officina del cardatore (knapheîon)”. Per la stessa immagine cf. infra, XXVI/2,51.

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anche di tutte le altre passioni – hanno cause e origini molteplici. Perciò è impossibile definire un’unica regola contro queste passioni; il mio consiglio, piuttosto, è che ciascuno dei malati ricerchi con tutta la cura e l’impegno possibili il metodo di guarigione a lui adatto. E la prima cura sarà proprio riconoscere la causa del proprio dolore, giacché, una volta che avremo trovato la causa, noi malati potremo ricevere il rimedio efficace contro di essa dalla provvidenza di Dio e dai nostri medici spirituali. 31. Coloro che vogliono entrare insieme a noi nel tribunale spirituale che stiamo per proporre come esempio, vi entrino, e insieme cerchiamo di fare in qualche modo l’esame delle suddette passioni e delle loro cause! La collera, questa tiranna, sia dunque legata nelle catene della mitezza, percossa dalla pazienza, trascinata a forza dalla santa carità e, una volta fatta comparire davanti a questo tribunale della ragione, sia esaminata come si conviene con queste domande: “Dicci, o stolta e sfrontata, il nome di colui che ti ha generata e di colei che ti ha sventuratamente partorita, e i nomi dei tuoi figli e delle tue figlie immonde; e non solo, ma rivelaci anche chi sono coloro che ti fanno guerra e ti uccidono!”. E lei, rispondendoci, dirà pressappoco così: “Le mie madri sono molte, e mio padre non è unico. Le mie madri sono: la vanagloria, l’avarizia, l’ingordigia, e talvolta anche la fornicazione. Colui che mi ha generato si chiama orgoglio. Le mie figlie sono il rancore, l’inimicizia, l’autogiustificazione e l’odio. I miei avversari, che ora mi tengono in catene, sono le virtù opposte a queste passioni: la nonirascibilità e la mitezza. Colei che m’insidia si chiama umiltà. Ma se poi volete sapere chi l’ha generata, domandatelo a lei, al momento opportuno14!”. 14

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Nell’ottavo gradino viene assegnata la corona della non-irascibilità: chi la possiede per natura, può anche non averne conquistata nessun’altra; ma chi l’ha raggiunta con sudori, ha veramente superato tutti gli otto gradini!

Il lettore viene rimandato al Discorso XXV interamente dedicato all’umiltà.

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Discorso IX SUL RANCORE

1. Le sante virtù sono simili alla scala di Giacobbe (cf. Gen 28,12), e gli empi vizi a quella catena che cadde dalle mani a Pietro, il corifeo degli apostoli (cf. At 12,7). Le prime, infatti, conducendo l’una all’altra, portano in cielo chi si decide per esse; i secondi, invece, per loro natura si generano l’un l’altro e s’intrecciano a vicenda. Proprio perciò or ora abbiamo udito la stolta collera dichiarare che il rancore è un suo rampollo. Ora che è il momento opportuno, dunque, diciamo qualcosa anche di questo vizio. 2. Il rancore è conseguenza naturale della collera, custode dei peccati, odio della giustizia, rovina delle virtù, veleno dell’anima, tarlo della mente, vergogna nella preghiera, recisione della supplica, estraniamento dalla carità, chiodo confitto nell’anima, sgradevole sentimento amato per la dolcezza della sua amarezza, peccato continuo, trasgressione incessante, vizio di tutte le ore. Questa tenebrosa e turpe passione – voglio dire il rancore – è una di quelle che sono generate da altre passioni, e non di quelle che generano. Perciò non abbiamo intenzione di parlarne a lungo. 3. Chi ha calmato l’ira, ha eliminato il rancore, perché i figli possono nascere solo se il padre è vivente. 4. Chi ha acquistato la carità, si è reso straniero a ogni risentimento; chi invece coltiva l’inimicizia, accumula per sé fatiche inopportune. 221

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5. Un banchetto di carità dissipa l’odio, e dei doni sinceri raddolciscono l’anima; ma un banchetto imbandito senza la necessaria attenzione genera eccessiva familiarità, e per la porticina della carità entra l’ingordigia! 6. Ho visto l’odio rompere le catene della fornicazione in cui qualcuno era imprigionato da lungo tempo, e – cosa sorprendente! – il rancore custodire tale rottura anche in seguito1. Che spettacolo straordinario: un demonio che guarisce un altro demonio! Ma ciò forse è opera della provvidenza di Dio e non dei demoni. 7. Il rancore è lontano dalla solida e autentica carità, ma a essa si avvicina facilmente la fornicazione: la puoi vedere infiltrarsi di nascosto come un pidocchio in una colomba! 8. Se vuoi coltivare il rancore, coltivalo contro i demoni, e se vuoi odiare, non cessare mai di odiare il tuo corpo! La carne è un’amica sconsiderata e infida, e più ci si prende cura di lei, più ci fa torto. 9. Il rancore è un esegeta della Scrittura che interpreta allegoricamente le parole dello Spirito piegandole alla proprie intenzioni. Ma lo svergogni la preghiera di Gesù, che non possiamo dire insieme a lui se siamo pieni di rancore2! 10. Se, dopo aver molto lottato, non sei ancora riuscito a eliminare questa spina fino in fondo, dà segni di pentimento al tuo nemico, almeno a parole, perché, a lungo andare, tu possa vergognarti dell’ipocrisia che nutri nei suoi confronti e così, stimolato dalla tua coscienza come da un fuoco, tu possa arrivare ad amarlo in modo perfetto. 1 L’autore vuol dire che un rapporto troppo esclusivo tra due monaci, che rischiava di trasformarsi in una relazione impura e passionale, fu troncato efficacemente da un’inimicizia, che suscitò prima l’odio e poi il rancore per le offese subite da parte di entrambi. 2 Il riferimento non è all’invocazione del nome di Gesù (come in XV,51), ma alla recita del Padre Nostro, la preghiera insegnata da Gesù, in cui è contenuta la domanda: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori!”.

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11. Saprai di esserti allontanato da questa cancrena, non quando pregherai per colui che ti ha fatto torto, né quando lo ricambierai con doni, né quando lo inviterai a tavola, ma quando, venendo a sapere che gli è capitata qualche sventura, spirituale o materiale, te ne dorrai e piangerai come per te stesso. 12. Un esicasta rancoroso è un aspide che si nasconde nella tana e porta in sé un veleno mortale. Il ricordo delle sofferenze di Gesù guarirà l’anima che serba rancore, facendola vergognare grandemente di fronte alla sua mansuetudine. 13. I vermi nascono nel legno marcio: così il risentimento si attacca ai temperamenti che sono miti e pacifici soltanto in apparenza. Chi ha allontanato il risentimento, ha trovato il perdono; ma chi vi si attacca, si priva della misericordia di Dio (cf. Mt 6,14-15). 14. Alcuni per ottenere il perdono si sono sottoposti a fatiche e sudori, ma l’uomo che non conserva rancore ha già superato queste cose, se sono vere le parole che dicono: “Perdonate immediatamente, e vi sarà perdonato in abbondanza!” (cf. Lc 6,37). 15. L’assenza di rancore è indizio di autentica penitenza. Chi invece conserva l’inimicizia, anche se crede di fare penitenza, è simile a chi in sogno è convinto di correre. 16. Ho visto persone piene di rancore esortare altri a dimenticare i rancori; comunque, svergognate dalle loro stesse parole, finirono per liberarsi da tale passione. 17. Che nessuno consideri questa passione tenebrosa come una cosa da nulla, perché spesso può arrivare a conquistare perfino gli uomini spirituali! Nono gradino: chi l’ha raggiunto chieda ormai con piena fiducia a Dio nostro Salvatore la remissione dei propri peccati! 223

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Discorso X SULLA MALDICENZA

1. Nessuna persona assennata, credo, potrebbe negare che la maldicenza è generata dall’odio e dal rancore: per questo l’abbiamo messa qui di seguito, dopo i suoi genitori. La maldicenza è figlia dell’odio: sottile morbo, ma grassa sanguisuga, nascosta e impercettibile, che consuma e succhia il sangue della carità; simulazione della carità, che insozza e appesantisce il cuore, e distrugge la purezza. 2. Come ci sono giovinette che compiono il male senza provarne vergogna, e ce ne sono altre che commettono azioni ancor più gravi ma di nascosto e con un certo pudore, così accade anche per le infami passioni (cf. Rm 1,26), come si può ben vedere. Queste giovinette sono: l’ipocrisia, la malizia, la tristezza, il rancore e la maldicenza del cuore: esse sembrano insinuare alcune cose, ma in realtà mirano ad altre. 3. Una volta ho sentito alcuni che parlavano male del loro prossimo e li ho rimproverati; e quegli operatori di male, per giustificarsi, mi risposero che lo facevano per carità e sollecitudine nei confronti di colui di cui parlavano male. E io dissi loro di smetterla con una siffatta carità, per non rendere bugiardo colui che ha detto: Chi parla male in segreto del suo prossimo, io lo respingo! (Sal 100,5). Se dici di amarlo, prega in segreto per quest’uo225

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mo, senza metterlo in ridicolo! È questa infatti la forma di carità gradita al Signore. 4. Non ti dimenticare di questo, e certamente starai ben attento a non giudicare chi pecca: Giuda faceva parte della cerchia dei discepoli (cf. Mt 26,14-16 par.), e il buon ladrone della schiera degli assassini (cf. Lc 23,4243); ma è straordinario come in un solo istante essi si siano scambiati di posto1! 5. Se qualcuno vuole vincere lo spirito della maldicenza attribuisca la colpa non a chi commette il peccato, ma al demone che glielo ha suggerito. Nessuno, infatti, vuole peccare contro Dio, sebbene tutti noi pecchiamo senza esservi costretti. 6. Ho visto una persona peccare in pubblico e poi pentirsi in segreto; e ho scoperto che colui che avevo condannato come fornicatore, era considerato casto da Dio, poiché con la sua sincera conversione si era procurato la benevolenza divina. 7. Non aver riguardo per chi parla male del suo prossimo davanti a te. Digli piuttosto: “Smettila, fratello! Io cado ogni giorno in peccati ben più gravi, e come posso condannare quello là?”. Otterrai così un doppio guadagno: con una sola medicina guarirai te stesso e il tuo prossimo! 8. Questa è una delle vie più brevi che conducono al perdono dei peccati, intendo dire il fatto di non giudicare; se sono vere quelle parole: Non giudicate e non sarete giudicati! (Lc 6,37). Il fuoco è nemico dell’acqua, quanto il giudicare è estraneo a colui che vuole fare penitenza. 1 Cf. Apoftegmi, Xanthia 1: “Il padre Xanthia disse: ‘Il ladrone pendeva dalla croce e fu giustificato da una sola parola; e Giuda, che era stato annoverato con gli apostoli, in una sola notte perse ogni fatica e piombò dai cieli all’inferno. Perciò nessuno che compie il bene si deve gloriare, poiché tutti quelli che hanno avuto fiducia in se stessi sono caduti!’”.

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9. Anche se vedi qualcuno peccare in punto di morte, non condannarlo neanche allora, poiché il giudizio di Dio rimane nascosto agli uomini! Alcuni in pubblico hanno commesso grandi peccati, ma in segreto hanno fatto opere virtuose ancora più grandi, e così i loro calunniatori si sono ingannati fermandosi a contemplare il fumo invece del sole! 10. Ascoltatemi, ascoltatemi, tutti voi perfidi censori delle azioni altrui! Se è vero, come è vero, che col giudizio con cui giudicate sarete giudicati (Mt 7,2), certamente cadremo negli stessi peccati per i quali accusiamo il prossimo, sia dell’anima che del corpo! E non può essere altrimenti. 11. Quei censori scrupolosi e inflessibili delle mancanze del loro prossimo sono soggetti a questa passione perché non si sono ancora presi la briga di ricordare e considerare i propri peccati in modo attento e preciso. Chiunque infatti, dopo aver rimosso il velo dell’amore di sé, riuscisse a vedere con esattezza i propri peccati, non penserebbe a nient’altro nella vita, ritenendo che tutto il suo tempo non potrebbe bastargli per affligersi su di sé, neanche se vivesse cent’anni, e neanche se vedesse l’intero fiume Giordano scorrere giù dai suoi occhi in lacrime! 12. Ho esaminato l’afflizione, e in essa non ho trovato traccia di maldicenza o di condanna del prossimo. 13. I demoni ci costringono a peccare, oppure, se non pecchiamo, a giudicare chi pecca; e questo per riuscire, da omicidi quali sono, a insozzare il nostro primo comportamento con il secondo. Sappi che le persone rancorose e calunniatrici si riconoscono da questo: dal fatto che biasimano e denigrano volentieri e con grande facilità gli insegnamenti, le azioni o i risultati positivi del prossimo, miseramente immersi come sono nello spirito dell’odio. 227

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14. Ho visto persone che, di nascosto e lontano dalla vista degli altri, commettono peccati terribili, e poi, con l’alibi della propria innocenza, si scagliano duramente contro coloro che hanno commesso peccati leggeri ma di fronte a tutti. 15. Giudicare è impudente usurpazione di una prerogativa di Dio, ma condannare è la rovina della propria anima! 16. Come la presunzione, anche senza altre passioni, può portare alla perdizione chi la possiede, così il giudicare, anche da solo, è in grado di portarci alla totale perdizione: il fariseo infatti fu condannato proprio per questo (cf. Lc 18,10-14)! 17. Il bravo vendemmiatore mangia l’uva matura senza raccogliere quella acerba. Così la mente saggia e assennata prenderà scrupolosamente nota di tutte le virtù che vedrà negli altri, mentre quella stolta cercherà di scoprire difetti e mancanze; è di essa che è stato detto: Hanno cercato le iniquità e si sono esauriti continuando a cercare (Sal 63,7). 18. Non condannare, neanche se vedi qualche peccato con i tuoi occhi, perché anch’essi spesso si sono ingannati! Decimo gradino: chi l’ha conquistato è una persona che pratica la carità, o almeno l’afflizione.

Discorso XI SULLA CHIACCHIERA E SUL SILENZIO

1. Nel discorso precedente abbiamo mostrato brevemente come sia pericoloso giudicare – un vizio, questo, che s’insinua anche in persone apparentemente buone –, e come sia ancora più pericoloso essere giudicati e puniti a causa della propria lingua. Ora non ci resta che collocare al loro posto e descrivere brevemente la causa di tale vizio e la porta attraverso la quale entra o esce. 2. La chiacchiera è la cattedra sulla quale la vanagloria sa far mostra di sé sedendo in trionfo. La chiacchiera è indice d’ignoranza, porta della maldicenza, maestra di scherzi, serva della menzogna, rovina della compunzione, artefice e suscitatrice dell’acedia, precorritrice del sonno; dissipazione del raccoglimento, eliminazione della vigilanza, raffreddamento del fervore, oscuramento della preghiera. 3. Il silenzio intelligente1 è padre della preghiera, liberazione dalla prigionia2, guardia del fuoco3, sorvegliante dei pensieri, vedetta contro i nemici, prigione dell’afflizione, amico delle lacrime, custode del pensiero della morte, pittore del castigo futuro, assiduo indagatore del giudizio, dispensatore di sana inquietudine, nemico del1 2 3

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Lett.: “[Praticato] con conoscenza (en gnósei)”. Sottinteso: “Dei pensieri cattivi”; su questo concetto cf. infra, XV,73. Cioè dell’amore di Dio.

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l’eccessiva familiarità, compagno dell’esichia, avversario del gusto di insegnare, sostegno della conoscenza, creatore della contemplazione, progresso invisibile, ascensione nascosta. 4. Chi ha riconosciuto i propri peccati, trattiene la lingua; ma chi si abbandona alle chiacchiere, non è ancora giunto a una giusta conoscenza di se stesso. L’amico del silenzio si avvicina a Dio e, intrattenendosi segretamente con lui, riceve l’illuminazione. Il silenzio di Gesù mise in soggezione Pilato (cf. Mt 27,14 par.); così, l’esichia di un uomo è in grado di distruggere la vanagloria. 5. Pietro, dopo aver pronunciato una parola, pianse amaramente (cf. Mt 26,75 par.) per essersi dimenticato di colui che disse: Dissi: “Custodirò le mie vie, per non peccare con la mia lingua” (Sal 38,2), e di quell’altro che disse: “È meglio cadere a terra da un’altura che cadere con la lingua!” (cf. Sir 20,18). 6. Riguardo a queste cose non voglio scrivere molto, anche se gli inganni delle passioni vorrebbero spingermi a farlo. Un giorno, però, ho sentito dire a una persona che discuteva con me sull’esichia che la chiacchiera deriva sempre da una di queste cause: o da una condotta e da abitudini di vita malvagie e sregolate, poiché – diceva – essendo anche la lingua un membro del corpo, essa reclama le abitudini secondo le quali è stata educata; o ancora – e soprattutto nel caso di chi lotta4 –, dalla vanagloria; o talvolta anche dall’ingordigia. Per questo, molti, dominando il ventre, grazie alla violenza che fanno a se stessi e all’indebolimento delle loro forze, riescono a tenere a freno anche la lingua e la sua verbosità.

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Cioè nel caso degli asceti pieni di zelo.

7. Chi medita sulla propria dipartita, taglia corto con le parole; e chi ha raggiunto l’afflizione dell’anima, fugge la chiacchiera come il fuoco! 8. Chi ama l’esichia tiene chiusa la bocca; ma chi si compiace di fare uscite, è scacciato dalla cella dalla propria passione. 9. Chi ha conosciuto il profumo del fuoco divino, fugge la compagnia degli uomini come l’ape il fumo; poiché, come il fumo scaccia l’ape, la compagnia degli uomini è di ostacolo a questa persona5. 10. Assai pochi riescono a contenere l’acqua uscita fuori dagli argini; ancora di meno, a frenare una bocca intemperante! Gradino undicesimo: chi l’ha conquistato ha spezzato un’infinità di mali in un colpo solo!

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Cf. infra, XXVII/1,25; XXVII/2,29.

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Discorso XII SULLA MENZOGNA

1. Come il fuoco nasce dalla pietra e dal ferro, così la menzogna, dalla chiacchiera e dagli scherzi. La menzogna è estinzione della carità; lo spergiuro è rinnegamento di Dio1. 2. Nessun uomo assennato supponga che quello della menzogna sia un peccato di poco conto. Contro di essa infatti lo Spirito santo ha pronunciato la sentenza più terribile di tutte. Se, come David dice a Dio, Tu farai perire tutti coloro che dicono menzogne (Sal 5,4), che ne sarà di coloro che alla menzogna uniscono i giuramenti? 3. Ho visto persone che si vantavano delle loro menzogne, e che con i loro scherzi e le loro vane parole intessevano storie allo scopo di far ridere, estinguendo miseramente l’afflizione in coloro che li stavano ad ascoltare. 4. Quando i demoni si accorgono che, appena qualche molesto affabulatore comincia a parlare, noi cerchiamo il modo di sottrarci all’ascolto delle sue stupidaggini, come a un morbo pestilenziale, subito tentano di trarci in inganno con due pensieri: “Non offendere chi sta parlando!”, oppure: “Non voler apparire più pio degli altri!”. Ma tu vattene via, senza por tempo in mezzo, altrimenti quegli scherzi ti torneranno in mente al momento della 1

Cf. Gregorio di Nazianzo, Carmi morali 33.

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preghiera! Non limitarti però a fuggire, ma sciogli anche quel malvagio consesso, come richiede la pietà, gettando in mezzo a esso il ricordo della morte e del giudizio. È meglio, infatti, rischiare di ricevere così qualche spruzzo di vanagloria2, pur di recare giovamento a molti. 5. Spesso l’ipocrisia è madre e occasione di menzogna. Secondo alcuni, infatti, l’ipocrisia non significa altro che meditare e inventare menzogne, mescolandovi giuramenti colpevoli. Chi ha acquistato il timore di Dio, si è reso estraneo alla menzogna, avendo ormai la propria coscienza come giudice incorruttibile. 6. Come in tutte le passioni riconosciamo gradi diversi di danno, così è anche per la menzogna. Diversa è la condanna di chi mente per paura di un castigo, e diversa quella di chi lo fa senza esservi spinto da alcun pericolo. C’è chi mente per capriccio, e chi per amore del piacere; c’è chi lo fa per spingere al riso i presenti, e chi per tendere insidie al proprio fratello e fargli del male. 7. I magistrati eliminano la menzogna mediante le torture, ma soltanto fiumi di lacrime possono distruggerla definitivamente! Chi ricorre alla menzogna adduce come pretesto la prudenza, e spesso considera giustizia ciò che conduce l’anima alla perdizione. L’uomo che fabbrica menzogne sostiene di essere imitatore di Raab (cf. Gs 2,1-21) e con la propria rovina afferma di poter procurare la salvezza agli altri! 8. Quando ci saremo totalmente purificati dalla menzogna, allora sì – se le circostanze lo richiederanno – potremo ricorrervi, ma con timore3.

Un bambino non conosce la menzogna, né la conosce un’anima che si è liberata della malizia. Chi è allegro a causa del vino che ha bevuto, senza volere dirà la verità in tutto; così chi si è ubriacato di compunzione4, non potrà mentire.

2 Le passioni sono come le onde di un mare in tempesta che ci colpiscono con i loro spruzzi. 3 Cf. Giovanni Cassiano, Conferenze XVII,6; Apoftegmi, Alonio 4 (cit. in Doroteo di Gaza, Insegnamenti IX,102).

4 L’espressione si ispira a Sal 59,5 LXX: “Ci hai fatto bere un vino di compunzione”. Sul tema del “vino di compunzione” (collegato a quello della “gioiosa tristezza”, cf. supra, n. 5 a VII,11), cf. Pseudo-Giovanni Crisostomo, Discorsi sulla penitenza 1, PG 60,697.

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Dodicesimo gradino: chi vi è salito, possiede la radice di ogni bene!

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Discorso XIII SULL’ACEDIA

1. Ecco un altro vizio che, come abbiamo già detto in precedenza1, è spesso tra i frutti della chiacchiera, anzi è il suo figlio primogenito: parlo dell’acedia; perciò gli abbiamo assegnato il posto che gli spetta in questa infame catena di vizi2! L’acedia3 è paralisi dell’anima, infiacchimento della mente, trascuratezza dell’ascesi, odio della professione4; dichiara beato chi vive nel mondo, e accusa Dio di essere senza misericordia e senza amore per gli uomini; è atonia nella salmodia, astenia nella preghiera, ferrea dedizione nel servizio, solerzia nel lavoro manuale e disponibilità all’obbedienza. 2. Chi vive nella sottomissione5, non conosce l’acedia, poiché arriva alle realtà spirituali attraverso quelle sensibili. 1

Cf. supra, XI,2. Cf. supra, IX,1. Queste definizioni, come anche l’intera descrizione della fenomenologia dell’acedia, sono chiaramente ispirate all’acuta e minuziosa analisi di Evagrio Pontico (cf. Trattato pratico 12; Gli otto spiriti di malizia 13-14; I vizi e le virtù 4; Antirrhetikos 6), probabilmente attraverso la mediazione di Giovanni Cassiano, Istituzioni X,1-25 e di Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1456D-1460B. In generale sull’acedia, cf. G. Bardy, s.v. “Acedia”, in DS I, coll. 166-169; J.-C. Larchet, Thérapeutique des maladies spirituelles, pp. 207214; P. Miquel, Lessico del deserto. Le parole della spiritualità, Qiqajon, Bose 1998, pp. 11-36 ; G. Bunge, Akedia, il male oscuro, Qiqajon, Bose 1999. 4 Cioè del proprio stato monastico. 5 Cioè il monaco cenobita. 2 3

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3. Il cenobio è nemico dell’acedia, ma essa è l’inseparabile compagna dell’esicasta6: non lo abbandonerà prima della morte, e lotterà contro di lui ogni giorno, fino alla fine. Quando vede la cella di un’anacoreta, essa sorride e, avvicinandosi a lui, s’installa al suo fianco. 4. Il medico visita i malati al mattino, mentre l’acedia visita gli asceti verso mezzogiorno7. L’acedia suggerisce di accogliere gli ospiti e costringe a compiere lavori manuali per poter fare elemosine. Esorta con ardore a visitare i malati, ricordando la parola di colui che ha detto: Ero malato e siete venuti a trovarmi (Mt 25,36)8. Suggerisce di recarsi da coloro che sono abbattuti e scoraggiati, dicendo: Confortate i pusillanimi! (1Ts 5,14), proprio lei, la pusillanime! Quando siamo in preghiera ci fa venire in mente qualche dovere urgente, e mette in moto ogni espediente per trascinarci via di là, con buone ragioni, come con una cavezza, proprio lei così irragionevole! 5. Per tre ore9 il demone dell’acedia ci provoca brividi, mal di testa, febbre e dolori intestinali. Giunta l’ora nona, ci fa alzare un po’ il capo, e poi, quando la tavola è pronta, ci fa balzare giù dal letto. Appena però giunge l’ora 6 Cf. Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1460A: “La passione dell’acedia fa guerra soprattutto a coloro che vivono nell’esichia”. 7 Evagrio identifica il demone dell’acedia con il “demone di mezzogiorno” di cui si parla in Sal 90,6: cf. Trattato pratico 12 e Scolii ai Salmi, PG 12,1552C; cf. anche Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1456D, qui citato quasi letteralmente. 8 Cf. Evagrio Pontico, Gli otto spiriti di malizia 13: “L’acedioso adduce come pretesto le visite ai malati, in realtà soddisfa il proprio desiderio”; Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1457A: “L’acedia induce a pensare che sarebbe bene andare a vedere i fratelli, per una visita o per rendere un servizio e, una volta che ha fatto opera di persuasione, fa conoscere l’instabilità, l’agitazione e la concupiscenza, e a poco a poco cattura nelle reti delle occupazioni e delle preoccupazioni mondane”. 9 Sono le tre ore che precedono l’ora nona (cioè le quindici), che era l’ora normale dell’unica refezione giornaliera dei monaci (cf. Apoftegmi, Antonio 34; Macario 33). Evagrio Pontico, Trattato pratico 12, parla di quattro ore: dall’ora quarta (le dieci) all’ora ottava (le quattordici).

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della preghiera, il corpo si sente di nuovo appesantito; e, mentre siamo in preghiera, ci immerge di nuovo nel sonno e con inopportuni sbadigli ci strappa di bocca i versetti10. 6. Ciascuna delle altre passioni può essere vinta con una qualche virtù, ma l’acedia per il monaco è una morte che lo circonda da ogni parte. 7. Un’anima coraggiosa può risuscitare una mente morta, ma l’acedia e la pigrizia dilapidano tutto il bel tesoro accumulato. 8. Poiché anche questo è uno degli otto principali demoni che presiedono ai vizi, e il più opprimente di tutti11, comportiamoci con esso come con gli altri12. Aggiungeremo però ancora questo: che quando non è il momento della salmodia, l’acedia non si fa vedere; e quando l’ufficio è terminato, i nostri occhi si riaprono13. 9. Proprio nel momento dell’acedia si vede chi sa farsi violenza (cf. Mt 11,12): infatti nessun’altra cosa come l’acedia procura al monaco così tante corone, purché egli attenda all’opera di Dio14 senza cedere.

10 Cf. Evagrio Pontico, Gli otto spiriti di malizia 14: “Il monaco acedioso è riluttante a pregare e non pronuncia mai le parole della preghiera. Infatti, come il malato non porta un carico pesante, così l’acedioso non compie l’opera di Dio con diligenza. Quegli ha perduto la forza del corpo, questi ha allentato la tensione dell’anima”. 11 Cf. Evagrio Pontico, Trattato pratico 12; Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1456D. Qui l’aggettivo bary´s ha il duplice significato di “molesto” e di “pesante”: il senso di pesantezza è una caratteristica tipica dell’acedia (cf. supra, § 5). 12 Facendogli un “processo” davanti alla coscienza: cf. infra, § 10. 13 Dal sonno, cioè, in cui l’acedia li aveva immersi. 14 Cioè alla preghiera. L’espressione “opera di Dio” (theîon érgon, più spesso érgon toû theoû), che in origine significava l’intera vita del cristiano consacrata a Dio nella fede (a partire da Gv 6,29), non sembra aver mai assunto in oriente il significato ristretto e univoco di “ufficio divino”, nel senso di una preghiera celebrata in comune a momenti fissi (come invece l’opus Dei in occidente, a partire da Benedetto). Sull’argomento cf. I. Hausherr, “Opus Dei”, in É´ tudes de spiritualité orientale, Pont. Institutum Orientalium Studiorum, Roma 1969, pp. 121-144.

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Fa’ attenzione e vedrai come essa combatta contro i tuoi piedi, quando sei in posizione eretta, e ti suggerisca di appoggiarti al muro quando sei seduto; poi, provocando qualche frastuono e rumore di passi, ti spinge a metter la testa fuori della cella15. Ma chi si affligge su se stesso, non conosce l’acedia! 10. Anche questa tiranna16 sia incatenata dal ricordo dei peccati, percossa dal lavoro manuale, trascinata a forza dal pensiero dei beni futuri e, una volta fatta comparire in tribunale17, sia interrogata come si conviene: “Su, dimmi, pigra e sfaticata, chi è quello sciagurato che ti ha generata? Quali sono i tuoi figli? Chi sono coloro che ti fanno guerra e chi è in grado di annientarti?”. Ed essa, costretta, potrebbe risponderti: “Io non ho dove posare il capo (cf. Mt 8,20)18 tra coloro che vivono veramente in obbedienza; ma trovo posto presso quelli che vivono nell’esichia, e me ne sto tranquilla con loro. Molte e diverse sono le cause da cui traggo origine: a volte l’insensibilità dell’anima, altre volte la dimenticanza delle cose di lassù, e a volte anche l’eccesso di fatiche19. I miei figli sono: i cambiamenti di luogo da me ispirati, la disobbedienza al padre spirituale, la dimenticanza del giudizio, e talvolta anche l’abbandono della professione monastica.

15 Cf. Evagrio Pontico, Gli otto spiriti di malizia 14: “L’occhio dell’acedioso è continuamente puntato sulla finestra, e la sua mente si immagina dei visitatori. La porta ha mandato un cigolio? Eccolo che balza in piedi. Ha udito una voce? Egli spia dalla finestra, e non si muove di là finché l’intorpidimento non ve l’abbia fatto scendere”; Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1460B: “Opera dell’acedia: muovere qua e là i piedi durante la preghiera, fissare ora i muri, ora il tetto, ora qualche oggetto che è nella cella; sporgersi dalla finestra, tendere l’orecchio come se si fosse udito qualcuno venire”. 16 Cf. supra, VIII,32. 17 Cioè davanti alla propria coscienza. 18 Cf. anche supra, § 3. 19 Anche Barsanufio di Gaza, Lettere 562, parla di un’“acedia fisica” che è frutto della spossatezza del corpo provocata dall’ascesi.

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I miei avversari, che ora mi tengono in catene, sono la salmodia e il lavoro manuale20; la mia nemica è la meditazione della morte; ma colei che può uccidermi completamente è la preghiera unita alla ferma speranza nei beni futuri21. Ma se volete sapere chi generi la preghiera, chiedetelo a lei!”. Colui che ha ottenuto questa vittoria, è veramente idoneo ad ogni virtù.

20 Cf. Apoftegmi, Antonio 1, citato infra, XVIII,6. Sul lavoro manuale come rimedio contro l’acedia insiste particolarmente Giovanni Cassiano, Istituzioni X,7-24. 21 Consigli analoghi contro l’acedia si ritrovano in Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79, 1457A-1460A; Marco il Monaco, Su chi si crede giustificato per le opere 36; Doroteo di Gaza, Insegnamenti XIII,125; Giovanni Mosco, Prato 142.

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Discorso XIV SUL VENTRE, NOSTRO FAMIGERATO TIRANNO

1. Nell’accingerci ora a parlare del ventre, siamo come sempre intenzionati a rivolgere i nostri discorsi contro noi stessi: mi meraviglierei infatti se qualcuno riuscisse ad affrancarsi da esso prima di andare ad abitare nella tomba! 2. L’ingordigia1 è l’ipocrisia di un ventre che si lamenta di essere nel bisogno quando è già sazio e grida alla fame quando è pieno fino a scoppiare. L’ingordigia è sapiente artefice di prelibatezze e fonte di delizie. Se le strozzi una vena, spunta fuori da un’altra parte; e se le ostruisci una via, subito gliene apri un’altra. L’ingordigia è illusione degli occhi: pur non potendo assumere che pochi alimenti, pretende di ingurgitare tutto in un solo boccone! 3. La sazietà negli alimenti genera la fornicazione; la mortificazione del ventre procura la purezza. Chi blandisce un leone, spesso riesce ad ammansirlo; ma chi circonda di cure il proprio corpo, lo fa infuriare ancora di più. 1 In greco: gastrimarghía, che in base all’etimologia (da gastér, “ventre” e margaínein, “essere folli”) significa letteralmente “follia del ventre”. I padri in genere la distinguono dalla laimarghía, “follia della gola”, che è piuttosto il desiderio di cibi vari e raffinati (cf. Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1437D), ma Climaco non sembra tenere conto di questa distinzione: per lui la gastrimarghía è sì anzitutto la voracità, ma include anche la “gola”.

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4. Il giudeo si rallegra il sabato e nei giorni di festa, e il monaco ingordo, il sabato e la domenica2: calcola in anticipo quanto manca alla Pasqua e prepara i suoi manicaretti molti giorni prima. Chi serve il proprio ventre, si figura nella mente i cibi con cui celebrerà la festa; chi serve Dio, pensa alle grazie di cui sarà arricchito. Quando arriva un ospite, lo schiavo del ventre è spinto dalla propria ingordigia a profondersi in manifestazioni di carità nei suoi confronti, e considera come ristoro del fratello il proprio lasciarsi andare. In presenza di qualcuno, ritiene giusto concedersi un po’ di vino, e credendo di nascondere la sua virtù3, in realtà diventa schiavo della passione! 5. La vanagloria spesso fa guerra all’ingordigia, ed esse litigano per accaparrarsi il povero monaco come uno schiavo venduto all’asta: l’una lo costringe a lasciarsi andare, l’altra gli suggerisce di farsi bello della propria virtù! Ma il monaco saggio sfuggirà ad entrambe, scacciando l’una con l’altra al momento opportuno. 6. Finché la nostra carne è nel pieno del suo vigore, osserviamo l’astinenza in ogni tempo e luogo; ma quando essa si sarà calmata – e non credo che ciò avverrà prima che essa sia nella tomba! –, allora possiamo anche nascondere la nostra attività ascetica. 7. Ho visto anziani presbiteri beffati dal diavolo dare la propria benedizione a dei giovani che non erano loro discepoli, concedendo loro di bere vino nei banchetti e altre cose simili. Se sono persone che godono di buona fama nel Signore a parlare così, possiamo concederci un po’ di sollievo, anche se con la dovuta misura; ma se sono persone negligenti, non teniamo in nessun conto la loro benedizione, e tanto più se siamo combattuti dal fuoco delle passioni carnali. 2 3

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Giorni in cui nei monasteri si sospendeva il digiuno. Cioè la sua temperanza, per modestia.

8. Il maledetto4 Evagrio credette di essere più sapiente dei sapienti nell’eloquenza e nei pensieri, ma in realtà s’ingannò, sventurato, rivelandosi più stolto degli stolti in molte cose, e in particolare laddove dice: “Quando l’anima desidera cibi variegati, la si riduca a pane e acqua!”5, ordinando qualcosa di simile a chi dicesse a un bambino di salire l’intera scala con un solo balzo! Perciò noi, capovolgendo la sua affermazione, diciamo: “Quando l’anima desidera cibi variegati, richiede qualcosa che è proprio della natura: guardiamo perciò di usare astuzia contro di lei, che è piena di astuzia; e se proprio non ci troviamo nel mezzo di una violentissima lotta e non dobbiamo correggerci da qualche caduta, in un primo momento tagliamo via soltanto i cibi che ingrassano, poi quelli che riscaldano, e infine quelli che sono gustosi”. 9. Nei limiti del possibile, da’ al tuo ventre alimenti che lo riempiano in fretta e siano di facile digestione: così, riempiendolo, sazieremo il suo appetito insaziabile, e digerendo rapidamente ci libereremo del suo ardore, che è per noi come una sferza. Se stiamo ben attenti, scopriremo 4 Lett.: “Perseguitato da Dio (theéletos)”; lo stesso aggettivo è attribuito da Epifanio a Origene in Ancoratus 54 . Questo severo giudizio di Climaco su Evagrio, l’erede e il sistematizzatore della dottrina spirituale dei padri del deserto egiziano, si spiega con la condanna delle dottrine origeniste di quest’ultimo da parte del quinto concilio ecumenico (553). Sul rapporto di Climaco con l’opera di Evagrio, cf. G. D. Martzelos, “Il fondamento teologico”, pp. 76-79; e anche supra, “Introduzione”, pp. 26-28. 5 Evagrio Pontico, Trattato pratico 16. Su questo passo evagriano, cf. A. Guillaumont, Les Kephalaia Gnostica d’Évagre le Pontique et l’histoire de l’origenisme chez les Grecs et chez les Syriens, Seuil, Paris 1962, p. 164; A. e C. Guillaumont, in Évagre le Pontique, Traité pratique ou Le moine II, Cerf, Paris 1971, pp. 540-542, i quali ritengono che qui Evagrio non intenda semplicemente proporre un regime a pane e acqua – normale per i monaci d’Egitto – come opposto a un regime alimentare variato, ma voglia piuttosto consigliare di “ridurre la propria razione di pane e di acqua” al fine di evitare la sazietà. Quale che sia la corretta interpretazione del passo evagriano, nel contesto del discorso di Climaco sembra necessario intenderlo nel modo in cui l’abbiamo tradotto, altrimenti non si giustifica il paragone con il comando di salire l’intera scala – probabilmente la “scala delle virtù” – con un unico balzo.

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che la maggior parte degli alimenti che gonfiano il ventre sono anche eccitanti. 10. Ridi in faccia al demonio che, alla fine del pasto, ti suggerisce di prolungare i tuoi digiuni: all’ora nona del giorno seguente, infatti, egli avrà già rinnegato l’accordo concluso il giorno prima. 11. Altra è l’astinenza che si addice a coloro che hanno una condotta irreprensibile, e altra quella che si addice a coloro che devono scontare dei peccati: per i primi infatti i moti della carne sono solo un segnale6; gli altri invece ne sono affetti senza interruzione e senza tregua fino alla morte e al termine della vita. I primi cercano di custodire sempre l’equilibrio della mente; i secondi si procurano la benevolenza di Dio attraverso la tristezza dell’anima e la macerazione della carne. 12. Un momento di allegria e di distensione non procura la minima preoccupazione a chi ha raggiunto la perfezione; per chi invece ancora combatte contro le passioni, è un momento di lotta; per chi infine è schiavo delle passioni, è la “festa delle feste e la solennità delle solennità”7. 13. Il cuore degli ingordi sogna cibi e alimenti; il cuore degli afflitti, giudizi e castighi. 14. Domina il ventre prima che sia esso a dominarti, perché allora dovrai praticare l’astinenza con vergogna. Sanno quel che dico coloro che sono caduti in quell’orribile fossa8, mentre gli “eunuchi”9 di ciò non hanno alcuna esperienza. 6

Sottinteso: “Che li richiama all’astinenza”. “Festa delle feste e solennità delle solennità” è il titolo che la liturgia bizantina attribuisce esclusivamente alla festa di Pasqua (cf. Giovanni Damasceno, Canone pasquale, hirmòs, VIII ode). Il monaco schiavo delle passioni per Climaco ha ormai perduto qualsiasi coscienza della centralità della Pasqua, e dunque della propria vocazione di monaco e di cristiano: per lui ogni occasione di festa materiale è una “pasqua”. 8 Il peccato di fornicazione, che secondo Climaco è frutto dell’eccesso di cibo. 9 Gli “eunuchi per il regno dei cieli”: cf. Mt 19,12. 7

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15. Recidiamo i desideri del ventre con il pensiero del fuoco eterno: alcuni, infatti, per aver obbedito a esso, finirono poi per mutilare le membra del proprio corpo e morirono di una doppia morte10. Riflettiamo, e scopriremo che il ventre da solo è la causa di tutti i nostri naufragi! 16. La mente di chi digiuna prega con vigilanza, quella dell’intemperante è ripiena di immagini impure. La sazietà del ventre prosciuga le fonti11; invece quando rimane a secco, fa sgorgare le acque. 17. Chi soddisfa il proprio ventre e nello stesso tempo pretende di vincere lo spirito della fornicazione, è simile a chi vuole spegnere un incendio con dell’olio12. Se il ventre è mortificato, il cuore si umilia; se invece il ventre è soddisfatto, il pensiero s’inorgoglisce. 18. Esamina te stesso alla prima ora del giorno, a mezzogiorno e verso l’ultima ora prima del pasto, e imparerai così l’utilità del digiuno13. Al mattino presto, il pensiero salta e divaga di qua e di là; verso l’ora sesta si calma un po’; e al tramonto del sole diventa perfettamente umile. 19. Mortifica il ventre, e certamente chiuderai anche la bocca: la lingua, infatti, prende forza dall’abbondanza degli alimenti. Lotta con tutte le tue forze contro il ventre, e vigila su di esso con ogni attenzione: se infatti fai un po’ di sforzi, subito il Signore viene in tuo soccorso14. 20. Gli otri di pelle aumentano la propria capacità se

10 Cioè di morte fisica e spirituale. C’è probabilmente un riferimento a Origene che, secondo Eusebio, arrivò a farsi evirare, applicando alla lettera il precetto di Mt 19,12: cf. Eusebio di Cesarea, Storia della chiesa VI,8. 11 Cioè le lacrime. 12 Cf. Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1440C. 13 Il digiuno consisteva nel posticipare l’unico pasto giornaliero dopo il tramonto del sole. 14 Lett.: “Coopera (synergheî)”. Su questa nozione cf. infra, “Glossario”, s.v. “Cooperazione”.

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vengono ammorbiditi con l’uso, ma non possono fare altrettanto se rimangono inutilizzati. 21. Chi sforza il proprio ventre, dilata le interiora; chi invece lotta contro di esso, le restringe; e quando ormai le interiora sono ristrette, non abbiamo più bisogno di molti alimenti, e da quel momento digiuniamo in modo naturale. 22. Spesso la sete calma la sete, ma è difficile, e addirittura impossibile, eliminare la fame con la fame. Se il ventre ti domina, tu assoggettalo con le fatiche, ma se per la tua debolezza anche questo ti è impossibile, allora lotta contro di esso con le veglie. 23. Se i tuoi occhi sono appesantiti, applicati a un lavoro manuale; ma se non hai sonno, lascia da parte il lavoro, perché è impossibile dedicare la propria mente a Dio e a mammona (cf. Mt 6,24), ossia a Dio e al lavoro manuale15. 24. Sappi che spesso il demonio16 s’insedia nello stomaco e fa sì che l’uomo non si sazi, neanche se mangia l’intero Egitto e beve tutta l’acqua del Nilo! Dopo il pasto quel maledetto si ritira e manda contro di noi il demonio della fornicazione, dopo averlo messo al corrente di ciò che è accaduto: “Afferralo tu – dice – afferralo e tormentalo, perché ora che il suo ventre è carico non farai molta fatica!”. E quello si avvicina e sorride, lega le nostre mani e i nostri piedi con il sonno e fa ormai tutto ciò che vuole, contaminando l’anima e il corpo con impurità, fantasie e polluzioni! Ed è sorprendente vedere come la mente incorporea sia contaminata e ottenebrata dal corpo, e come poi, attraverso il fango17, l’immateriale sia nuovamente purificata e affinata. 15 Cf. infra, XVIII,6, dove a sostegno di questa opinione si cita Apoftegmi, Antonio 1. 16 Cioè lo spirito dell’ingordigia il quale, secondo la concezione evagriana che Climaco eredita, presiede a questo vizio. 17 Cioè attraverso il corpo materiale.

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25. Se hai promesso a Cristo di percorrere la strada stretta e angusta (cf. Mt 7,13), restringi il tuo ventre, poiché, se lo soddisfi e lo dilati, hai violato i patti! 26. Sta’ attento e udrai colui che dice: Larga e spaziosa è la via del ventre che conduce alla perdizione della fornicazione, e sono molti coloro che vi entrano! Quanto stretta invece è la porta e angusta la via del digiuno che conduce alla via della purezza, e sono pochi coloro che entrano attraverso di essa (cf. Mt 7,13-14)! 27. Lucifero, l’angelo decaduto, è principe dei demoni, e la gola, principe delle passioni. 28. Quando sei seduto a una mensa colma di vivande, richiama alla mente il ricordo della morte e del giudizio: a mala pena anche così riuscirai a porre un freno alla passione! E quando prendi da bere, non smettere di richiamare alla memoria l’aceto e il fiele del tuo Signore (cf. Mt 27,34.48 par.), e così certamente sarai temperante, o almeno ti metterai a piangere e renderai più umile il tuo pensiero. 29. Non illuderti: non potrai mai essere liberato dal faraone, né potrai contemplare la Pasqua di lassù18, se non mangerai continuamente erbe amare e pani azzimi (cf. Es 12,8): le “erbe amare” sono la violenza e la sofferenza del digiuno, e gli “azzimi” il pensiero che non si gonfia. 30. Restino sempre unite al tuo respiro le parole di colui che ha detto: Mentre i demoni mi tormentavano, mi vestivo di sacco, umiliavo la mia anima nel digiuno, la mia preghiera aderiva all’intimo della mia anima (cf. Sal 34,13). 31. Il digiuno è violenza fatta alla natura, circoncisione dei piaceri della gola, amputazione dei desideri che ci infiammano, recisione dei pensieri cattivi, liberazione dai sogni, purezza della preghiera, luce dell’anima, custodia della mente, scioglimento della durezza del cuore, porta 18

Cioè la vita eterna dei risorti.

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della compunzione, umile gemito, lieta contrizione, astensione dalla chiacchiera, origine dell’esichia, custode dell’ubbidienza, alleggerimento del sonno, salute del corpo, causa dell’impassibilità, remissione dei peccati, porta e delizia del paradiso. 32. Interroghiamo anche questa nostra nemica19, o piuttosto questa comandante suprema di tutti i nostri nemici, questa porta delle passioni, causa della caduta di Adamo (cf. Gen 3,6) e della rovina di Esaù (cf. Gen 25,27-34), flagello degli israeliti (cf. Es 14,11), disonore di Noè (cf. Gen 9,20-23), traditrice di Gomorra (cf. Ez 16,49), causa di biasimo per Lot (cf. Gen 19,30-38), morte dei figli di Eli (cf. 1Sam 2,12-17), suscitatrice di impurità: chiediamole, dunque, chi l’ha generata, quali sono i suoi rampolli, chi può fiaccarla e chi estinguerla definitivamente. Dicci, dunque, o tiranna di tutti i mortali, tu che hai comprato tutto con l’oro della tua insaziabilità, per quale via sei riuscita a entrare in noi? E una volta entrata, quali sono gli effetti che produci? E come possiamo farti uscire e allontanarti da noi? Ed essa, seccata da questi nostri insulti, fremente d’ira e furiosa, da vera tiranna qual è, ci risponderà: “Perché mi coprite d’insulti, voi che siete i miei sottomessi? Perché vi sforzate di separarvi da me? Io sono legata a voi per natura! La mia porta è la natura stessa dei cibi; l’abitudine è la causa della mia insaziabilità; e ciò che mi trasforma in passione è un’abitudine di lunga data, unita all’insensibilità dell’anima e all’assenza del ricordo della morte. “Perché volete conoscere i nomi dei miei rampolli? Li conterò e saranno più della sabbia (Sal 138,18)! Tuttavia 19

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Il vizio dell’ingordigia.

ascoltate almeno come si chiamano i miei primogeniti e quelli che amo di più. Mio figlio primogenito è lo spirito della fornicazione; dopo di lui, al secondo posto, viene quello della durezza di cuore, e come terzo il sonno. È da me che procedono poi il mare dei pensieri cattivi, i flutti delle polluzioni, l’abisso delle impurità sconosciute e innominabili! Le mie figlie sono la pigrizia, la chiacchiera, l’eccessiva familiarità, la voglia di far ridere e di scherzare, la contestazione, l’ostinazione, la disubbidienza, l’insensibilità, la prigionia del cuore, la superbia, l’arroganza, l’ostentazione, cui succedono la preghiera impura, l’agitazione dei pensieri, e spesso anche disgrazie inattese e improvvise, seguite a loro volta dalla disperazione, che di tutte è la più funesta. “Il ricordo dei peccati commessi mi fa guerra, ma non mi vince; il pensiero della morte è mio acerrimo nemico, ma non c’è niente che riesca a eliminarmi totalmente di tra gli uomini. Chi possiede il Consolatore20 invoca il suo aiuto contro di me, ed egli, una volta invocato, non mi permette più di scatenare la mia furia passionale; coloro che invece non hanno gustato la sua consolazione, inevitabilmente cercano di essere consolati dalla mia dolcezza!”. È una vittoria degna di uomini valorosi, questa! Chi ne è all’altezza, certamente può raggiungere in fretta l’impassibilità e la suprema castità.

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Cioè lo Spirito santo.

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Discorso XV SULLA PUREZZA E SULLA CASTITÀ INCORRUTTIBILI RAGGIUNTE DA UOMINI CORRUTTIBILI PER MEZZO DI FATICHE E SUDORI

1. Abbiamo appena udito quella forsennata1 affermare che da lei ha avuto origine la guerra contro il corpo, e non c’è da farne meraviglia, poiché ce lo insegna anche quel nostro antico progenitore, Adamo, il quale, se non si fosse lasciato dominare dal proprio ventre, non avrebbe mai saputo che cos’è una moglie (cf. Gen 3,16)2. Perciò, coloro 1

Cioè l’ingordigia. L’autore vuol dire che se Adamo non si fosse cibato del frutto proibito, non si sarebbe mai unito a sua moglie Eva. L’idea che la vita sessuale sia estranea alla natura dell’uomo secondo il piano creazionale di Dio e sia invece conseguenza del peccato, è diffusa nei padri, i quali considerano la verginità come un ritorno dell’uomo alla sua autentica natura, simile a quella degli angeli: cf. Gregorio di Nissa, La creazione dell’uomo 17: “Se, una volta ristabilita nell’ordine originario, la nostra vita sarà simile a quella degli angeli, è perché la vita prima della trasgressione era in qualche modo una vita angelica; ed è appunto perciò che anche il nostro ritorno alla condizione primitiva ci rende simili agli angeli. Ora, come è noto, pur non esistendo tra loro il matrimonio, le loro schiere sono miriadi infinite: così racconta Daniele nelle sue visioni. Dunque, allo stesso modo, se il peccato non ci avesse trasformati e fatti decadere da una condizione pari a quella angelica, non avremmo avuto bisogno del matrimonio per moltiplicarci”; Giovanni Damasceno, Esposizione della fede 97,5-12: “La verginità era originaria e innata nella natura degli uomini. In paradiso, la verginità era lo stato normale ... Ma quando con la trasgressione la morte entrò nel mondo, allora soltanto Adamo conobbe sua moglie ed essa partorì”. Cf. anche Ireneo di Lione, La predicazione apostolica 14; Cirillo di Gerusalemme, Catechesi 12,5; Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Genesi 18,4; Id., Sulla verginità 14. 2

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che osservano il primo comandamento3 non cadono nella seconda trasgressione, ma rimangono figli di Adamo, pur non conoscendo la condizione di Adamo4 ed essendo di poco inferiori agli angeli (cf. Sal 8,6); e ciò5 “affinché il male non rimanga immortale”, come dice colui che è chiamato il Teologo6. 2. La purezza è appropriazione della natura incorporea. La purezza è amabile dimora di Cristo e cielo terrestre del cuore. La purezza è soprannaturale rinnegamento della nostra natura ed emulazione veramente meravigliosa degli angeli incorporei da parte di un corpo mortale e corruttibile. Il puro è colui che scaccia l’amore con l’amore7 e spegne il fuoco materiale con il fuoco immateriale. 3. Castità8 è il nome generico di tutte le virtù. Casto è colui che, anche quando sogna, non sente alcun movimento nel corpo o alterazione del proprio stato. Casto è colui che ha raggiunto una perfetta insensibilità nei confronti delle differenze che esistono tra i corpi. Regola e criterio della purezza perfetta e assoluta è il provare gli stessi sentimenti di fronte ai corpi animati e a quelli ina3

Quello del digiuno. Cioè rimangono uomini mortali, pur senza conoscere la condizione di “morte spirituale” di Adamo dopo la caduta. 5 La condizione mortale ereditata da Adamo. 6 Cf. Gregorio di Nazianzo, Orazioni 8, PG 36,633B: “L’uomo si dimenticò dell’ordine che aveva ricevuto da Dio e non potè trattenersi dal gustare l’amaro frutto, allora fu bandito nello stesso tempo dall’albero della vita e da Dio a causa della sua malvagità … Anche in questo caso guadagnò qualcosa, vale a dire la morte e il fatto che pose un termine al suo peccato, affinché il male non fosse immortale: così la punizione di Dio divenne un beneficio per l’uomo”. L’idea è formulata per la prima volta in Ireneo di Lione, Contro le eresie III,23,6. 7 Cf. supra, n. 12 a V,6. 8 In greco: sophrosØne. Qui Climaco assume il termine in senso ampio, come sinonimo di enkráteia (“temperanza” o “dominio di sé”), facendo eco alla definizione che di quest’ultimo termine aveva dato Diadoco di Fotica, in Capitoli 42: “La temperanza è il nome comune di tutte le virtù”. Sul significato ampio di questa parola, cf. R. Plus, A. Rayez, s.v. “Chasteté”, in DS II, col. 778; J.P. Larchet, Thérapeutique des maladies spirituelles, p. 457. 4

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nimati, a quelli degli esseri ragionevoli e a quelli delle bestie prive di ragione. 4. Nessuno di coloro che da tempo si esercitano nella purezza creda di essere giunto a possederla grazie ai propri sforzi: vincere la propria natura infatti non è tra le cose possibili. Ogniqualvolta si verifica una vittoria sulla natura, bisogna riconoscere la presenza di colui che è al di sopra della natura. Nessuno infatti può negare che ciò che è inferiore sia sconfitto da ciò che è superiore. L’inizio della purezza è non acconsentire ai pensieri cattivi9, e subire ogni tanto polluzioni notturne non accompagnate da immagini; il grado intermedio è avvertire movimenti naturali dovuti all’abbondanza di cibo, ma senza immagini, né polluzione; il grado perfetto è la mortificazione del corpo, dopo la morte dei pensieri. 5. Veramente beato è chi ha raggiunto la perfetta insensibilità di fronte a ogni corpo, colore e bellezza! 6. Non chi ha custodito senza macchia il proprio corpo di fango è puro, ma chi ne ha perfettamente sottomesso le membra all’anima. 7. È grande colui che quando tocca qualcuno rimane impassibile, ma più grande ancora colui che rimane invulnerabile alla vista, e anzi vince la vista del fuoco10 con il pensiero della bellezza di lassù11. 8. Chi scaccia questo cane12 per mezzo della preghiera somiglia a chi lotta contro un leone; chi lo allontana con il metodo della contraddizione13, a chi non cessa di inseguire il suo nemico; chi poi ha neutralizzato una volta per 9

Cf. infra, § 73. Cioè della bellezza femminile che accende il fuoco della passione. 11 Cf. infra, XV,58. 12 Lo spirito della fornicazione. 13 In greco: antírrhesis. Sul termine cf. infra, “Glossario”, s.v. “Contraddizione”. 10

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tutte i suoi assalti, anche se vive ancora, è già risorto dalla tomba. 9. Se segno di autentica purezza è rimanere immobili di fronte alle fantasie impure che si hanno durante il sonno, certamente il limite estremo della sensualità è subire la polluzione da svegli a causa dei propri pensieri. 10. Chi combatte questo avversario con sudori e fatiche, somiglia a chi lega il suo nemico con un giunco; chi invece lo combatte con l’astinenza e le veglie somiglia a chi lo stringe in catene; e chi poi lo combatte con l’umiltà, la non-irascibilità e la sete, somiglia a colui che ha ucciso il suo nemico e lo ha nascosto nella sabbia14, e con “sabbia” devi intendere l’umiltà, poiché essa non fornisce alimento alle passioni, ma è come terra e cenere (cf. Gen 18,27; Gb 42,6). 11. C’è chi tiene legato questo tiranno con le sue lotte, chi con la sua umiltà, e chi infine lo fa grazie a una rivelazione divina: il primo somiglia alla stella del mattino, il secondo alla luna, il terzo al sole splendente, e ciascuno di essi ha la propria dimora nei cieli (cf. Fil 3,20). Ma come dal chiarore del mattino spunta la luce, e dalla luce il sole, allo stesso modo bisogna cercare d’intendere le cose che abbiamo appena detto15. 12. La volpe finge di dormire, mentre il corpo e il demonio fingono di essere casti: quella lo fa per ingannare una gallina, e questi per ingannare un’anima. 13. Finché vivi, non fidarti del tuo corpo di fango, e non confidare in esso finché non comparirai davanti a Cristo.

14. Non credere di non cadere solo perché pratichi l’astinenza: infatti uno che non mangiava nulla è stato precipitato dal cielo16! 15. Alcuni uomini dotati di conoscenza definiscono bene la rinuncia al mondo come un odio del corpo e una lotta contro il ventre. 16. Le cadute nei principianti sono generalmente provocate dall’abbondanza di cibo; in coloro che si trovano a metà del cammino, dalla superbia – ciò che può succedere anche nei principianti –; e in coloro che sono ormai vicini alla perfezione unicamente dal fatto di giudicare il prossimo. 17. Alcuni proclamano beati coloro che sono eunuchi per natura, perché sono liberi dalla tirannia del corpo, ma io proclamo beati gli “eunuchi quotidiani”, tutti coloro cioè che hanno l’abitudine di mutilarsi con il pensiero, come con un coltello (cf. Mt 19,12). 18. Ho visto alcuni cadere in questo peccato loro malgrado, e ne ho visti altri che volentieri avrebbero voluto cadere, ma non potevano; e questi ultimi li ho considerati più miserabili di quelli che cadono ogni giorno, perché desiderano la puzza17 pur essendo impotenti! 19. Chi cade, fa pietà, ma fa ancor più pietà chi fa cadere anche un altro, perché egli porta il peso delle cadute di due persone e del piacere provato da una. 20. Non cercare di respingere il demonio della fornicazione con giustificazioni e contraddizioni verbali18, perché, avendo come alleata la natura, anche lui ha buone ragioni per combatterci. 21. Chi vuole vincere la propria carne, o anche solo farle guerra, con le proprie forze, corre invano: se infat-

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Cioè Mosè: cf. Es 2,12 (e infra, DP 100,d). Cf. Exegesis (p. 269): “Dalle lotte, infatti, nasce l’umiltà; e grazie ad essa poi l’uomo raggiunge l’illuminazione divina del sole spirituale, illuminazione che gli procura la perfetta purezza”. 15

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Cioè Lucifero. Cioè il peccato. Cf. supra, § 8.

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ti il Signore non distrugge la dimora della carne e non edifica quella dell’anima, invano digiuna e veglia chi vuole distruggerla (cf. Sal 126,1-2). 22. Offri al Signore la debolezza della tua natura, riconoscendo interamente la tua impotenza, e senza accorgertene riceverai il dono della castità. 23. Negli uomini inclini ai piaceri – come mi raccontava uno di loro che ne aveva fatto esperienza, dopo essere rientrato in sé –, c’è un forte sentimento di amore dei corpi e uno spirito impudente e disumano che s’installa sfacciatamente nel senso stesso del cuore e procura a colui che ne è combattuto una sensazione di dolore fisico nel cuore, facendolo ardere come una fornace infuocata: tale spirito non teme Dio, disprezza il ricordo del castigo come cosa di nessun conto, prova disgusto per la preghiera e quando è sul punto di passare all’azione, se vede dei cadaveri, li considera come pietre inanimate; priva del senno la sua vittima riducendola fuori di sé, ebbra di brama insaziabile per gli esseri ragionevoli e irragionevoli, e se i suoi giorni non fossero abbreviati, nessun anima si salverebbe (cf. Mt 24,22), rivestita com’è di questo corpo di fango mescolato a sangue e umore impuro! Come potrebbe essere altrimenti? Ogni essere creato infatti desidera insaziabilmente ciò che appartiene alla sua stessa specie: il sangue desidera il sangue, il verme il verme, e il fango il fango; e quindi anche la carne desidera la carne, anche se noi, che facciamo violenza alla natura e aspiriamo al Regno (cf. Mt 11,12), tentiamo di ingannare il nostro ingannatore con qualche astuzia. 24. Beati coloro che non fanno esperienza di questa lotta! Ma preghiamo anche noi di essere completamente liberati da una simile prova, poiché coloro che scivolano in questa fossa cadono molto più in basso rispetto a coloro che salgono e scendono quella famosa scala (cf. Gen 258

28,12)19, e per rialzarsi di là hanno bisogno di molti sudori e di digiuni durissimi. 25. Osserviamo attentamente se per caso anche i nostri nemici spirituali20, nello schierarsi a battaglia contro di noi, non si comportino come in una guerra materiale, in cui a ciascuno è affidato un compito proprio e specifico da svolgere. 26. Questo fatto sorprendente21 ho avuto modo di constatarlo in coloro che subiscono la tentazione; e ho visto che esistono cadute più gravi di altre: chi ha l’intelligenza per intendere intenda (cf. Mt 11,15)! Il demonio – soprattutto nei confronti di quelli che lottano e praticano la vita monastica – ha l’abitudine di mettere in moto tutta la sua violenza, tutto il suo impegno, tutti i suoi artifici e inganni, e tutta la sua intelligenza, per indurli ad atti contro natura, e non tanto a quelli secondo natura, e si sforza di tentarli soprattutto in questo. E così è successo che alcuni, trovandosi insieme a delle donne e non essendo minimamente tentati dal desiderio di esse, si siano proclamati beati; ma essi ignoravano, poveretti, che quando la caduta è più grave, non c’è alcun bisogno che ci venga procurata quella meno grave! 27. Credo che siano due i motivi per cui quegli infami assassini hanno l’abitudine di combatterci e devastarci con le tentazioni contro natura: perché in questo modo possiamo trovare sempre e dovunque delle occasioni per cadere nel peccato, e perché così possiamo ricevere un castigo più severo. Sa bene ciò che dico quel monaco che 19 Si allude qui alla scala di Giacobbe, ma anche alla scala delle virtù descritta in questo libro: l’autore vuol dire che chi cade nel peccato di fornicazione non si limita a retrocedere di qualche gradino nella scala delle virtù, ma precipita addirittura a un livello più basso del primo gradino. 20 Cioè i demoni che presiedono ai vari spiriti del male. 21 Ovvero ciò che l’autore ha appena detto.

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prima fu in grado di dare ordini agli onagri e poi cadde lui stesso miseramente in potere degli onagri selvaggi22 e dei loro raggiri, e che prima si nutriva di pane celeste e poi fu privato di questo bene. E la cosa più sorprendente è che, anche dopo che egli si fu pentito, il nostro grande maestro Antonio abbia detto piangendo amaramente: “È caduta una grande colonna!”, e con queste parole quel saggio tacque sul modo in cui era avvenuta la caduta23; egli sapeva infatti che esiste una fornicazione commessa corporalmente ma senza il concorso di un altro corpo. 28. C’è in noi una specie di morte, un rischio di cadere in perdizione che è dentro di noi e che ci portiamo sempre appresso, soprattutto nella giovinezza; ma di questo non ho il coraggio di scrivere perché la mia mano è trattenuta da colui che ha detto: Quanto viene fatto da alcuni in segreto, è vergognoso perfino dirlo, scriverlo e udirlo (cf. Ef 5,12)! 29. Questa carne, che è mia, eppure non mia, a un tempo amica e nemica, Paolo l’ha chiamata “morte”, dicendo: Chi mi libererà da questo mio corpo votato alla morte? (Rm 7,24); un altro teologo poi l’ha chiamata “sottomessa alle passioni”, “schiava” e “notturna”24, e io desidererei sapere perché hanno utilizzato questi appellativi25. 22

Cioè i demoni. Cf. Apoftegmi, Antonio 14: “Il padre Antonio udì di un giovane monaco che aveva compiuto un prodigio sulla strada: visti degli anziani affaticati dal cammino, aveva ordinato agli onagri di venire e di portarli fino ad Antonio. Dice loro: ‘Quel monaco mi pare una nave piena di tesori; ma non so se giungerà in porto’. Dopo qualche tempo, a un tratto, il padre Antonio si mette a piangere, a strapparsi i capelli, a gemere. I discepoli gli chiedono: ‘Padre perché piangi?’. Ed egli: ‘È crollata or ora una grande colonna della chiesa’ – intendeva dire di quel giovane monaco. ‘Ma andate da lui – dice – a vedere quel che è accaduto’. I discepoli dunque vanno e trovano il monaco che, seduto su una stuoia, piange il peccato commesso. Al vedere i discepoli dell’anziano, egli dice: ‘Dite al padre che supplichi Dio di concedermi solo dieci giorni di tempo, e spero di poterne fare ammenda’. Dopo cinque giorni morì”. 24 Cf. Gregorio di Nazianzo, Orazioni 40,2. 25 Sul significato del termine “carne” cf. infra, “Glossario”, s.v. “Carne”. 23

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30. Se, come ho appena detto, la carne è una morte, chi l’ha vinta, certamente non muore. Ma chi è mai quell’uomo che vivrà e non vedrà la morte (Sal 88,49), ovvero la contaminazione della carne? Bisogna riflettere attentamente, ve ne supplico, su chi sia il più grande: chi è morto ed è risorto26, oppure chi non è morto affatto? Chi proclama beato il secondo s’inganna, perché Cristo è morto ed è risorto! Ma chi proclama beato il primo, vuole che coloro che muoiono, o meglio cadono nel peccato, non perdano mai la speranza. 31. Il nemico disumano che presiede al vizio della fornicazione dice che Dio è amico dell’uomo e che è pronto a perdonare questa passione, poiché essa è legata alla nostra natura; ma se osserviamo attentamente gli inganni dei demoni scopriremo che, dopo che abbiamo commesso il peccato, essi lo chiamano giudice giusto e senza pietà: ci insinuano questi pensieri, la prima volta per indurci a peccare, e la seconda, per farci sprofondare nella disperazione. Finché siamo in preda alla tristezza e alla disperazione, infatti, non possiamo rammaricarci della nostra caduta, accusare noi stessi e vendicarci contro il demonio; e appena quelle cessano, il tiranno viene di nuovo a parlarci dell’amore che Dio nutre per gli uomini. 32. Poiché il Signore è incorruttibile e incorporeo, egli si rallegra della purezza e dell’incorruttibilità del nostro corpo. Al contrario – affermano alcuni – niente rende felici i demoni come il fetore della fornicazione e, quindi, nessun’altra passione come quella che contamina il corpo. 33. Purezza significa familiarità e somiglianza con Dio, per quanto è possibile agli uomini. Madre di dolci frutti è la terra, unita alla rugiada; ma madre della purezza è l’esichia, unita all’obbedienza.

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Cioè chi è caduto nel peccato, e poi si è rialzato grazie alla penitenza.

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34. L’impassibilità del corpo ottenuta per mezzo dell’esichia, se viene spesso a contatto con il mondo non rimane salda; ma quella acquistata per mezzo dell’obbedienza, supera sempre la prova, e rimane inconcussa. 35. Ho visto la vanagloria diventare occasione di umiltà, e mi sono ricordato di colui che dice: Chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? (Rm 11,34). 36. La caduta è una fossa e un frutto dell’orgoglio, ma per coloro che lo vogliono spesso la caduta può diventare occasione di umiltà. 37. Chi pretende di vincere il demone della fornicazione con l’ingordigia e la sazietà, è simile a chi vuole spegnere un incendio con dell’olio27. 38. Chi crede di poter placare questa guerra solo con l’astinenza, è simile a chi nuota con una mano sola e pretende di allontanarsi dal mare aperto. Al giogo dell’astinenza devi associare l’umiltà, perché senza la seconda la prima risulta inutile. 39. Chiunque si accorga che una passione sta per impadronirsi di lui, prima di tutto si armi contro questa sola passione, e a maggior ragione se il nemico è intestino28: infatti, finché quella passione non verrà distrutta, la vittoria su tutte le altre non ci gioverà a nulla. Quando poi anche noi avremo colpito a morte questo “egiziano” (cf. Es 2,12), certamente vedremo Dio nel roveto dell’umiltà (cf. Es 3,2-4). Mentre ero tentato, ho sperimentato come questo lupo produca nell’anima, in modo fraudolento e senza motivo ragionevole, gioia, lacrime e consolazione, e, nella mia ingenuità, credevo di cogliere un frutto invece della corruzione! 27 28

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Cf. supra, XIV,17. Cioè se la passione nasce dall’interno del nostro corpo.

40. Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo (1Cor 6,18), e questo senz’altro perché versando il liquido seminale contaminiamo la sostanza stessa della carne, cosa che non può succedere negli altri peccati. E poi, mi chiedo, come mai, quando si tratta di qualunque altro peccato, generalmente ci limitiamo a dire che coloro che lo hanno commesso hanno inciampato, e quando invece sentiamo che qualcuno si è dato alla fornicazione, diciamo con dolore: “Quel tale è caduto!”? 41. Il pesce fugge di scatto lontano dall’amo; così l’anima di chi ama il piacere rifugge l’esichia. 42. Quando il diavolo vuole unire due persone in un turpe legame, esamina entrambe le parti per vedere a quale delle due appiccare il fuoco. 43. Spesso chi è incline alla sensualità appare compassionevole, misericordioso e facilmente portato alla compunzione; chi invece ha a cuore la purezza, non possiede queste qualità nella stessa misura29. 44. Un uomo dotato di conoscenza un giorno mi sottopose un problema veramente serio, chiedendomi: “Qual è il peccato più grave di tutti, a parte l’omicidio e l’apostasia?”. E poiché io gli risposi: “È cadere nell’eresia”, egli mi replicò: “Come mai, allora, quando la chiesa cat29 Prendendo spunto da questo passo di Climaco il filosofo russo N. Berdjaev, nell’opera Spirito e realtà, ha formulato una critica severa nei confronti delle derive disumanizzanti dell’ascetismo cristiano: egli vede qui emblematicamente rappresentata “l’opposizione tra il principio dell’ascetismo e il principio dell’amore, della compassione e della misericordia” (cf. N. Berdiaeff, Esprit et realité, Aubier, Paris 1950, p. 105). In realtà una tale interpretazione, probabilmente dovuta anche a una traduzione russa poco fedele, non rende piena giustizia al senso di questo passo: l’autore qui vuole mettere l’accento soprattutto sul carattere apparente della compassione e della misericordia dimostrate da chi è incline alla sensualità, e non dice che chi ha a cuore la purezza non possieda affatto queste qualità, ma che non le possiede nella stessa misura in cui l’altro fa mostra di averle; del resto un’opposizione tra purezza e carità risulta del tutto estranea allo spirito dell’intera opera.

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tolica30 riaccoglie gli eretici, dopo la solenne abiura della loro eresia, li ritiene degni di prendere parte ai misteri, mentre, quando riaccoglie colui che ha commesso la fornicazione e confessa e abbandona il suo peccato, lo esclude dai santi misteri per degli anni, in obbedienza alla prescrizione dei Canoni apostolici31?”, e siccome di fronte a questa difficoltà rimasi confuso, il problema restò insoluto32. 45. Esaminiamo, valutiamo e osserviamo attentamente se la dolcezza che proviamo durante la salmodia ci venga procurata dal demonio della fornicazione, o dalle parole dello Spirito, e dalla grazia e dalla potenza che esse contengono. 46. Non ingannare te stesso, o giovane! Ho visto infatti alcuni che pregavano di tutto cuore per i loro amici e, pur essendo mossi a ciò dalla loro sensualità, credevano di compiere la legge della carità. 47. Con il semplice tatto si può provocare la contaminazione del corpo: non esiste senso più pericoloso di questo. 48. Ricordati di quel tale che avvolse la sua mano con il mantello33, e trattieni la tua mano dalle parti “natura30 L’aggettivo katholiké va inteso nel duplice significato originario: “Colei che è diffusa nell’intero ecumene terrestre”, e “colei che possiede l’integralità della fede e della dottrina cristiana” (cf. ad esempio Cirillo di Gerusalemme, Catechesi 18,23). 31 Non si tratta in realtà dei Canoni apostolici ma dei Canoni di san Basilio: cf. Basilio di Cesarea, Lettere 217, canone 59: “Il fornicatore sarà escluso per sette anni dalla partecipazione ai sacramenti: per due anni piangerà, per due anni sarà uditore, per due anni si prosternerà, e per un anno se ne starà solamente in piedi; all’ottavo anno sarà ammesso alla comunione”. 32 Lo scoliaste (PG 88,1233C) spiega che mentre l’eresia è un peccato della sola anima, la fornicazione è un peccato sia dell’anima che del corpo, e per questo chi vuole allontanarsi da esso ha bisogno di molto tempo, per poterlo guarire con la fatica dell’ascesi e le lacrime. 33 Cf. Apoftegmi Nau 159: “Un fratello era in viaggio con la sua vecchia madre. Giunsero a un fiume che la vecchia non poteva attraversare. Il figlio prese il suo mantello e si avvolse le mani per non toccare il corpo di sua madre e, tenendola così sulle spalle, la portò sull’altra sponda. La madre gli disse: ‘Perché ti sei avvolto le mani, figlio mio?’. ‘Perché il corpo della donna è fuoco – rispose – e da esso mi sarebbe venuto il ricordo di altri; perciò ho fatto così’”.

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li”34 e dalle altre parti del corpo, sia tuo che degli altri. 49. Penso che nessuno possa essere chiamato giustamente santo, se prima non ha trasformato questo corpo di terra in una cosa santa, ammesso pure che tale trasformazione sia possibile. 50. Quando ci distendiamo sul letto, vigiliamo, perché allora la mente combatte contro i demoni senza l’aiuto del corpo, e se è incline al piacere diventa facilmente traditrice35. 51. Il ricordo della morte e la “preghiera di Gesù”, che consiste in una sola formula36, si addormentino con te, e con te si risveglino: infatti, non troverai aiuti più efficaci di questi durante il sonno. 52. Alcuni affermano che le tentazioni e le polluzioni derivino soltanto dai cibi, ma io ho visto persone seriamente malate e macerate dai digiuni, che nonostante ciò erano gravemente soggette a tali contaminazioni. 53. Un giorno interrogai a questo proposito un monaco dotato di discernimento tra i più stimati, e quell’uomo beato mi diede un insegnamento molto chiaro: “La polluzione durante il sonno – mi disse quel grand’uomo – può essere frutto dell’abbondanza di cibo e della rilassatezza di vita; un’altra causa può essere la superbia, quando cioè ci vantiamo di non avere di questi flussi da molto tempo; ed è possibile, poi, che essa derivi anche dal fatto di giudicare il prossimo. Gli ultimi due casi possono capitare 34

Cioè dalle parti genitali. Seguo l’intepretazione dell’Exegesis (p. 280). Consegnandosi ai nemici, cioè ai demoni. 36 Lett.: “Di una sola parola (monológhistos)”; il termine è ripreso da Marco il Monaco, La legge spirituale 10; Su chi si crede giustificato per le opere 140; Il battesimo 5. Cf. G. J. M. Bartelink, “Quelques observations sur le terme ‘monologhistos’”, in Vigiliae Christianae 34 (1980), pp. 172-179. La “preghiera di Gesù” alla quale Climaco fa allusione (cf. anche XX,6; XXVII,26; XXVIII,9) è l’invocazione del nome di Gesù attraverso l’incessante ripetizione di una breve formula di preghiera, anche se l’autore non accenna mai a una formula specifica. Cf. supra, “Introduzione”, pp. 53-58. 35

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anche ai malati, e forse anche tutti e tre. Ma se qualcuno si vede purificato da tutte queste cause è beato, perché ha raggiunto una tale impassibilità, e quando gli capita quest’incidente, è solo per invidia del diavolo: Dio per un certo tempo permette che ciò gli succeda, affinché attraverso un tale incidente, esente da peccato, egli possa raggiungere la più sublime umiltà”. 54. Nessuno cerchi di rimeditare tra sé durante il giorno le fantasie che ha avuto durante il sonno: in questo modo infatti i demoni cercano di contaminarci da svegli per mezzo dei nostri sogni. 55. Ascoltiamo anche un altro imbroglio dei nostri nemici: come i cibi che nuocciono al corpo in genere ci fanno ammalare solo dopo un certo tempo, o dopo un giorno, così avviene spesso anche per le cause che contaminano l’anima. 56. Ho visto alcuni che mangiavano cibi raffinati, e sul momento non subivano alcuna tentazione; e ne ho visti altri che mangiavano e s’intrattenevano con donne, e subito non concepivano alcun cattivo pensiero: tuttavia, vittime dell’inganno com’erano, fiduciosi in se stessi e privi della minima preoccupazione, quando ormai credevano di aver raggiunto la pace e la sicurezza, ecco che subirono improvvisamente la disgrazia nella loro cella! E qual è questa disgrazia? Quella che avviene nel nostro corpo e nella nostra anima quando siamo nella completa solitudine: chi ne ha fatto esperienza lo sa, e chi invece non ne ha fatto esperienza, non c’è bisogno che lo sappia! In quel momento possono esserci di grande aiuto il cilicio, la cenere, lo stare in piedi tutta la notte, il restare senza pane e con la lingua riarsa o appena un po’ inumidita, il dimorare tra le tombe, e soprattutto l’umiltà del cuore; e ancora, se è possibile, l’aiuto di un padre o di un fratello di buona volontà, che siano avanzati nella sapien266

za: mi meraviglierei, infatti, se qualcuno riuscisse da solo a mettere in salvo la propria barca dai flutti del mare. 57. Spesso lo stesso peccato, commesso da una persona, merita una condanna cento volte più severa di quando è commesso da un’altra; e ciò dipende dal tipo di vita, dal luogo e dal grado di progresso spirituale, come da molti altri fattori. 58. Un tale mi ha raccontato di un sorprendente ed eccezionale esempio di purezza: “Qualcuno – mi disse – avendo visto la bellezza di una donna, innalzò grandi lodi al Creatore per essa, e quella sola vista bastò ad incitarlo all’amore di Dio e a fargli versare un fiume di lacrime37. Ed era sorprendente vedere come ciò che per qualcuno sarebbe stata occasione di peccato, per un altro, in modo soprannaturale, diventava occasione di corone!”. Se un tale uomo, in circostanze simili, prova sempre tali sentimenti e si comporta sempre in questo modo, è già risorto all’incorruttibilità, prima della comune risurrezione! 59. Applichiamo la stessa regola anche alle melodie e ai canti: chi ama Dio, dai canti – siano essi profani o spirituali – viene incitato alla gioia, all’amore di Dio e alle lacrime; ma a chi ama il piacere, capita il contrario. 37 Allusione a un episodio della Vita di santa Pelagia (PL, 73,665A-C), in cui si narra del vescovo Nonno che, vedendo passare per le strade di Antiochia la prostituta Pelagia, insieme a tutto il suo corteo di servitori, “la guardò attentamente con gli occhi dello spirito, e dopo il suo passaggio si voltò per contemplarla. Poi distolse il suo sguardo, posò la testa sulle sue ginocchia, e riempì di lacrime il fazzoletto che teneva in mano e tutta la parte anteriore della sua veste. Quindi, tratto un profondo sospiro, disse ai vescovi che erano seduti insieme a lui: ‘Veramente non vi siete rallegrati della sua bellezza?’; ma quelli, rimanendo in silenzio, non gli risposero nulla. Di nuovo, allora, posando il viso sulle sue ginocchia, trasse profondi sospiri, si colpì il petto e riempì di lacrime tutto il suo cilicio. Poi rialzò la testa e disse ai vescovi: ‘Veramente non vi siete rallegrati della sua bellezza?’, ma poiché non rispondevano il santissimo vescovo disse: ‘Veramente io mi sono rallegrato della sua bellezza e l’ho amata, perché Dio prenderà questa donna e la porrà davanti al suo tribunale terribile e formidabile per condannare noi, il nostro episcopato e la nostra vita’”.

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60. Alcuni, come abbiamo già detto, vivendo in luoghi solitari, sono combattuti in modo molto più violento; e non c’è da farne meraviglia, perché i demoni dimorano volentieri in quei luoghi, da quando il Signore li ha confinati nei deserti e nell’abisso. 61. I demoni della fornicazione combattono spietatamente contro l’esicasta per riuscire a riportarlo nel mondo, convincendolo che dal deserto non ricava alcun vantaggio. Quando ci troviamo nel mondo, i demoni si ritirano da noi, affinché, vedendo che là non siamo più combattuti, decidiamo di restare con la gente del mondo. 62. Se siamo combattuti dalle tentazioni, significa certamente che anche noi combattiamo spietatamente contro il Nemico; perché, se noi non combattessimo contro di lui, anch’egli sarebbe nostro amico! 63. Quando ci troviamo nel mondo per una qualche necessità, siamo protetti dalla mano di Dio, forse grazie all’intercessione del nostro padre spirituale, in modo che il Signore non venga bestemmiato a causa nostra (cf. Rm 2,24)38. A volte però ciò può avvenire anche per la nostra insensibilità e perché, per averne fatto lunga esperienza, siamo ormai sazi di tutto ciò che si vede, si dice e si fa nel mondo; oppure perché i demoni si sono ritirati spontaneamente da noi lasciandoci solo il demonio dell’orgoglio, che occupa il posto di tutti gli altri. 64. O voi tutti che avete deciso di esercitare la purezza, udite un’altra astuzia e un altro imbroglio di questo nostro ingannatore, e state in guardia! Una persona che aveva fatto esperienza di quest’inganno mi ha raccontato che spesso il demone della lussuria si ritira completamente dal monaco, ispirandogli grandissima devozione e forse facendogli versare torrenti di lacri38

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Cf. Apoftegmi, Antonio 3; Doroteo di Gaza, Insegnamenti I,23.

me, proprio nel momento in cui è seduto a parlare con delle donne, suggerendogli di istruirle sul ricordo della morte, sul giudizio e sulla castità; e ciò affinché, grazie a quei discorsi e a quella sua finta devozione, le sventurate accorrano verso il lupo come se fosse un pastore, e poi, quando ormai i rapporti sono diventati familiari e confidenziali, il pover’uomo cada nel peccato. 65. Evitiamo con tutti i nostri sforzi di guardare o anche di sentir parlare di questo frutto39, perché ci siamo impegnati a non assaggiarlo mai più! Mi meraviglierei, infatti, se ci ritenessimo più forti del profeta David40, perché ciò che è impossibile! La lode che si addice alla purezza è talmente grande e sublime, che alcuni padri hanno osato chiamarla “impassibilità”41. 66. Alcuni affermano che chi ha gustato il peccato, non può più essere chiamato puro42; ma io, da parte mia, confutando la loro opinione, affermo che è possibile e facile, per chi lo vuole, innestare un oleastro su un olivo buono (cf. Rm 11,24). Se le chiavi del Regno dei cieli fossero state affidate a un uomo vergine, forse l’opinione di quei tali sarebbe giustificata, ma poiché non è così, li confonda colui43 che, pur avendo una suocera (cf. Mc 1,30), diventò puro e ricevette le chiavi del Regno (cf. Mt 16,19)! 67. Il serpente della lussuria può assumere forme diverse: a coloro che non ne hanno ancora fatto esperienza suggerisce di provare una sola volta, e poi di smettere; co39

Cioè la bellezza della donna, che è paragonata al frutto della tentazione. Il quale cadde nel peccato di adulterio per essersi lasciato attrarre dalla vista di Betsabea: cf. 2Sam 11,2-3. 41 Cf. Efrem il Siro, Parenesi ai monaci d’Egitto 36. 42 L’autore qui riferisce, senza condividerla, un’opinione di chiara tendenza encratita, secondo la quale soltanto i vergini sarebbero in grado di raggiungere la completa purezza e di ereditare il regno dei cieli. Con “peccato” qui si intende il semplice rapporto sessuale (cf. supra, XV,1). 43 L’apostolo Pietro. 40

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loro che invece ne hanno già fatto esperienza, il maledetto li stimola attraverso il ricordo a provare di nuovo. Tra i primi, molti rimangono senza essere tentati, grazie alla loro ignoranza del male; i secondi invece, avendo già fatto esperienza di questa lordura, subiscono turbamenti e lotte. Ma spesso può capitare anche il contrario. 68. Quando ci svegliamo dal sonno ben disposti e in pace, è segno che, senza accorgercene, siamo consolati dai santi angeli, e ciò soprattutto se ci siamo addormentati con molte preghiere e molta vigilanza. Ma può capitare anche che ci svegliamo dal sonno senza una buona disposizione, e questo ci succede a causa dei brutti sogni e delle visioni che abbiamo avuto. 69. Ho visto l’empio esaltato, elevato, agitato e infuriato dentro di me come i cedri del Libano; son passato oltre mediante l’astinenza, ed ecco che il suo furore non era più come prima; l’ho cercato dopo aver umiliato il mio pensiero, e non ho più trovato il suo posto in me, né la sua traccia (cf. Sal 36,35-36). 70. Chi ha vinto il corpo, ha vinto la natura; e chi ha vinto la natura, certamente ha raggiunto una condizione superiore alla natura, e chi ha raggiunto questa condizione, è di poco – per non dire in nulla – inferiore agli angeli (Sal 8,6). 71. Non c’è niente di straordinario nel fatto che un essere immateriale combatta contro un altro essere immateriale; ma la cosa veramente straordinaria è che un essere immerso nella materia, combattendo contro questa materia ostile e insidiosa, riesca a mettere in fuga i propri nemici immateriali44. 44 L’autore vuol dire che la cosa straordinaria non è che la mente (che è immateriale) combatta contro i demoni (che sono ugualmente immateriali), ma che essa li combatta e li vinca pur essendo mescolata al corpo materiale, contro cui deve ugualmente combattere.

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72. Il Signore buono, mostrando in questo molta previdenza nei nostri confronti, con il freno del pudore, ha come imbrigliato l’impudenza della donna, perché se essa corresse liberamente verso l’uomo, nessun vivente si salverebbe (cf. Mt 24,22)! 73. I padri dotati di discernimento hanno distinto l’uno dall’altro l’assalto, la relazione, il consenso, la prigionia, la lotta e ciò che si chiama passione dell’anima45. Quegli uomini beati definiscono “assalto”46 la semplice parola47 o l’immagine di una cosa qualsiasi che si presenta improvvisamente nel cuore. La “relazione”48 è poi l’intrattenersi con ciò che è apparso, con o senza passione. Il “consenso”49 è l’assenso che l’anima rivolge con compiacimento a ciò che le viene mostrato. La “prigionia”50 è un rapimento violento e involontario del cuore, oppure l’attaccamento ostinato all’oggetto, che distrugge le nostre migliori disposizioni. Definiscono quindi “lotta”51 un confronto a forze pari con l’avversario, in cui, a seconda della propria volontà, si riporta la vittoria o si subisce una sconfitta. Affermano, infine, che la “passione”52, in senso proprio, è un moto che si nasconde nell’anima da lungo 45 Per le differenze nella descrizione delle varie fasi della tentazione nei diversi padri, cf. J.-P. Larchet, Thérapeutique des maladies spirituelles, pp. 521-524. L’analisi di Climaco, che appare sostanzialmente una sintesi del pensiero di Marco il Monaco con alcuni tratti evagriani, diventerà classica nella letteratura ascetica: cf. Esichio Sinaita, Centurie I,46; Filoteo Sinaita, Sulla sobrietà 34-35. 46 Cf. Marco il Monaco, Il battesimo 11; La legge spirituale 141. 47 L’aggettivo qui tradotto “semplice” (psilós, “puro”) è un termine tipicamente evagriano e significa “privo di passione”: cf. Evagrio Pontico, I pensieri malvagi 8; Id., Sulla preghiera 55-56. 48 Lett.: “Accoppiamento (syndyasmós)”. Cf. Marco il Monaco, Il battesimo 4.5. 49 Cf. Marco il Monaco, La legge spirituale 93.142; Id., A Nicola 3. 50 Cf. Id., Su chi si crede giustificato per le opere 195; Id., A Nicola 3; 6; Evagrio Pontico, A Eulogio 16; Id., I vizi e le virtù 3. 51 Cf. Marco il Monaco, Su chi si crede giustificato per le opere 136; 148; Evagrio Pontico, A Eulogio 11. 52 Cf. Marco il Monaco, La legge spirituale 180-181; Id., Su chi si crede giustificato per le opere 78.111.

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tempo, e che ormai l’attrae frequentemente a sé, come per abitudine, sì che essa vi corre da sola, volontariamente e spontaneamente. Di tutti questi moti, il primo è esente da peccato; il secondo, non sempre; il terzo, a seconda della disposizione interiore di colui che combatte; la lotta può procurarci corone o castighi; la prigionia è valutata diversamente se avviene nel momento della preghiera o in un altro momento, a motivo di cose di scarsa importanza o di pensieri cattivi; la passione invece, senza alcun dubbio, richiede sempre una penitenza proporzionata, altrimenti incorrerà nel castigo futuro. Perciò, chi resiste in modo impassibile al primo moto del pensiero, recide in un sol colpo tutti gli altri. I più precisi tra i padri dotati di conoscenza descrivono anche un’altro moto interiore, più sottile dei precedenti, che alcuni chiamano “turbamento momentaneo della mente”53, e che, in un attimo, senza parola e senza immagine, suggerisce distintamente la passione a chi cade in preda ad essa. Tra i moti dello spirito non se ne trovi uno più penetrante e più impercettibile di questo: rivela la sua presenza nell’anima attraverso un semplice ricordo, non riflesso, istantaneo, inattingibile e presso alcuni anche inconsapevole. Se qualcuno, grazie all’afflizione, è riuscito a percepire un moto così sottile, potrà insegnarci come sia possibile che con una sola occhiata, un semplice sguardo, una toccata della mano, o l’ascolto di una semplice melodia, l’anima cada in preda alla passione della fornicazione, senza aver concepito alcuna immagine o pensiero. 74. Alcuni affermano che il corpo è trascinato verso le passioni dai pensieri di lussuria; altri, al contrario, che i 53 In greco: parrarrhipismós. Cf. Id., A Nicola 7. Per il significato di questo termine, cf. K. Ware, “Introduction” a Marc le Moine, Traitées spirituels et Théologiques, Abbaye de Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1985, p. XXX.

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pensieri cattivi sono prodotti dalle sensazioni del corpo54. I primi affermano: “Se l’intelletto non avesse preceduto, il corpo non l’avrebbe seguito!”55. I secondi invece, portano a sostegno della propria opinione il male prodotto dalle manifestazioni passionali del corpo, dicendo: “Spesso i pensieri riescono a entrare nel cuore in seguito a una visione particolarmente gradevole, alla semplice toccata di una mano, all’odore di un profumo o all’ascolto di una voce gradevole”56. Colui che, nel Signore, è in grado di illuminarci riguardo a queste cose, lo faccia: sono infatti veramente necessarie e utili a coloro che si dedicano alla pratica delle virtù per mezzo della conoscenza; ma parlarne a coloro che operano in semplicità di cuore è del tutto inutile: infatti non è per tutti la conoscenza, né per tutti la beata semplicità, che è una corazza contro le insidie dei demoni malvagi. 75. Alcune passioni procedono dall’interno verso il corpo; altre fanno il contrario57. A chi vive nel mondo succede la seconda cosa, ma a chi conduce la vita monastica, la prima, a causa della mancanza di occasioni materiali58. 54 Un dilemma dello stesso tipo si trova in Evagrio Pontico, Trattato pratico 37, su cui cf. J.-P. Larchet, Thérapeutique des maladies spirituelles, p. 513, n. 18. 55 Marco il Monaco, La legge spirituale 120. Cf. anche ibid. 180-181: “Quando ti rendi conto che le pulsioni latenti prendono una consistenza reale ed eccitano alla passione la mente che è nella pace, sappi che è stata proprio la mente ad aprir loro la strada e a metterle all’opera, collocandole stabilmente nel cuore. Una nuvola non può prendere consistenza senza un soffio di vento; così anche la passione non nasce senza un’idea presente nella mente”. La stessa opinione si trova in Doroteo di Gaza, Insegnamenti XIII,145. 56 È l’opinione sostenuta da Evagrio in Trattato pratico 38: “Le passioni sono generalmente suscitate dalle sensazioni”, e ripresa da Massimo il Confessore in Capitoli sulla carità I,65. 57 Cioè: alcune passioni hanno origine nei pensieri e solo successivamente passano nel corpo, altre seguono il movimento inverso. In questo modo Climaco risolve il dilemma enunciato al paragrafo precedente. 58 Cf. Evagrio Pontico, Trattato pratico 48: “I demoni, contro i mondani combattono soprattutto con le cose, contro i monaci per lo più con i pensieri: essi infatti sono privi delle cose a motivo della solitudine”.

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Io riguardo a questo argomento mi limito a dire: Cercherai la sapienza presso i malvagi, e non la troverai (Pr 14,6)! 76. Quando, dopo aver lottato a lungo contro questo demonio59, compagno del nostro corpo di fango, riusciamo a scacciarlo dal nostro cuore tormentandolo con la pietra del digiuno e la spada dell’umiltà, allora quel miserabile, rimanendo come un verme dentro il nostro corpo, si sforza di contaminarci eccitandoci con moti sconvenienti e importuni. E ciò succede per lo più a quelli che cedono al demone della superbia; infatti, non avendo più continuamente nel cuore pensieri di fornicazione, cadono in quella passione. E se vogliono una prova della verità delle mie parole, appena abbiano raggiunto un po’ di esichia, si esaminino con attenzione e certamente troveranno un pensiero cattivo nel profondo del loro cuore, come un serpente nascosto nel letame, il quale suggerisce loro che il grado di purezza di cuore che hanno raggiunto – grande o piccolo che sia – è dovuto al loro proprio sforzo e al loro zelo. E non pensano, sventurati, alle parole che dicono: Che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto gratuitamente, o da Dio, o grazie all’aiuto e alla preghiera degli altri (cf. 1Cor 4,7)? Facciano dunque attenzione e si sforzino con tutto il loro zelo di scacciare questo serpente dal loro cuore, procurandogli la morte con molta umiltà. E così, se si libereranno di lui, forse un giorno potranno anch’essi spogliarsi delle tuniche di pelle (cf. Gen 3,21)60 e cantare al Signore 59

Il demonio della fornicazione. Un’interpretazione allegorica risalente a Origene (Selecta in Genesim, PG 12,101) ha letto nelle “tuniche di pelle” di cui furono rivestiti Adamo ed Eva al momento della cacciata dal paradiso la loro carne mortale: cf. anche Gregorio di Nazianzo, Orazioni 28,12; ibid. 45,8, PG 36,633B; Gregorio di Nissa, L’anima e la risurrezione, PG 46,148C-149D. Sul tema cf. M. Harl, “La prise de coscience de la nudité d’Adam”, in Studia Patristica VII, Akademie-Verlag, Berlin 1966, pp. 486-495; Ch. Yannaras, La fede dell’esperienza ecclesiale. Introduzione alla teologia ortodossa, Queriniana, Brescia 1993, pp. 121-122. 60

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l’inno trionfale della purezza, come un tempo fecero quei fanciulli puri61: ciò a condizione però che, una volta spogliati, non siano trovati nudi (cf. 2Cor 5,3), privi cioè dell’innocenza e dell’umiltà, che nei fanciulli sono naturali. Questo demonio, molto più degli altri, spia i momenti opportuni per assalirci, e, quando non siamo in grado di pregare contro di lui con il corpo, allora quel maledetto decide di farci guerra! Coloro che non hanno ancora raggiunto la vera preghiera del cuore possono trovare un aiuto negli sforzi della preghiera del corpo; mi riferisco al tendere le mani, al battersi il petto, al levare al cielo sguardi puri, all’emettere forti gemiti, e al piegare continuamente le ginocchia. Ma poiché spesso, a causa della presenza di altri, non possiamo fare queste cose, i demoni ci fanno guerra proprio in quei momenti, quando cioè, non avendo ancora la forza di resistere ai nostri nemici con la concentrazione della mente e la potenza invisibile della preghiera, finiamo necessariamente per cedere a loro. Ritirati immediatamente, se ti è possibile; nasconditi un po’ in un luogo segreto; eleva gli occhi della tua anima, se ne sei capace; altrimenti, almeno quelli del tuo corpo; stendi le tue mani in croce, rimanendo immobile, per confondere e vincere con questo segno Amalek62; grida verso colui che può salvarti (cf. Eb 5,7), non con un linguaggio ricercato ma con parole semplici, iniziando prima di tutto con: Abbi pietà di me, perché sono debole (Sal 6,3)! Allora sperimenterai la potenza dell’Altissimo (cf. Lc 1,35), e grazie a un aiuto invisibile metterai invisibilmente in fuga i nemici invisibili. 61 Sono i bambini che accolsero Gesù nella sua entrata a Gerusalemme: cf. Mt 21,15. 62 Cioè il demonio. Cf. Es 17,11-13.

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Chi si è abituato a combattere in questo modo63, sarà ben presto capace di mettere in fuga i propri nemici con la sola anima: la seconda cosa è concessa da Dio ai buoni operai come ricompensa della prima opera, ed è giusto che sia così. 77. Una volta, trovandomi in una riunione, notai che un fratello pieno di zelo era tormentato dai pensieri cattivi, e non trovando un luogo adatto per pregare, usciva per andare a soddisfare un bisogno del corpo, come se ne sentisse lo stimolo, e in quel luogo combatteva contro i nemici con un’intensa preghiera. Poiché lo rimproverai per aver scelto un luogo sconveniente, mi disse: “In un luogo impuro ho pregato per scacciare pensieri impuri, così da essere purificato da ogni lordura!”. 78. Tutti i demoni si sforzano di ottenebrarci la mente, per poterci suggerire così ciò che piace a loro, poiché, fino a che la nostra mente non chiuderà i suoi occhi, il nostro tesoro non potrà esserci sottratto; il demonio della fornicazione, però, lo fa più di tutti gli altri: spesso, dopo averci ottenebrato la mente, che è la nostra guida, ci spinge – perfino in presenza d’altri – a commettere azioni che solo i pazzi commettono; per cui, dopo un po’ di tempo, quando la nostra mente ha riacquistato la sua sobrietà, ci vergogniamo dei nostri atti, discorsi e comportamenti indecenti, non solo di fronte a quelli che ci hanno visto, ma anche di fronte a noi stessi, e ci stupiamo del nostro precedente accecamento. Spesso, perciò, è successo che alcuni, in seguito a una tale presa di coscienza, abbiano smesso di commettere il male. 79. Respingi il Nemico che dopo un’azione malvagia ti impedisce di pregare, di rivolgerti a Dio, o di vegliare, ricordandoti di colui che ha detto: Poiché questa povera anima, tiran-

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Pregando cioè con il corpo.

neggiata dalle sue predisposizioni passionali, mi procura fastidi, le farò giustizia liberandola dai suoi nemici (cf. Lc 18,5). 80. Chi ha vinto il proprio corpo? Chi è giunto alla contrizione del cuore. E chi mai vi è giunto? Chi ha rinnegato se stesso (cf. Mt 16,24). Come potrà, infatti, non avere il cuore contrito chi è morto alla propria volontà? 81. Esistono uomini corrotti, più corrotti dei corrotti, che provano piacere e diletto perfino nel fare la confessione delle proprie sconcezze. 82. I pensieri impuri e sconci che sono nel nostro cuore, sono generalmente suscitati da quel seduttore del cuore che è il demonio della fornicazione: per guarire da essi bisogna praticare l’astinenza e non tenerli in alcun conto. 83. Non so in che modo e con quale mezzo potrò incatenare questo mio amico64 per condurlo in giudizio come 64 Cioè il corpo. Tutto questo passo si ispira – con riprese letterali – a Gregorio di Nazianzo, Orazioni 14,6-7, PG 35,865B-C: “Come fui unito al corpo non so; né so come sono immagine di Dio e mescolato al fango. Questo corpo, che quando è in buona salute, mi fa guerra e, preda della guerra, mi tormenta; questo corpo che io amo come compagno di schiavitù, ma odio come nemico; questo corpo che fuggo come una catena, ma rispetto come coerede. Lotto per consumarlo, ma allora non posso servirmi del suo aiuto per raggiungere ciò che è bellissimo, perché so bene per quale scopo sono nato e so che devo ascendere a Dio grazie alle opere. Lo tratto con rispetto come un collaboratore e non so come fuggire la ribellione o come non cadere lontano da Dio, gravato dai ceppi che mi trascinano in basso o che mi trattengono al suolo. È un nemico benevolo e un amico insidioso. Oh che unione e che inimicizia! Mi prendo cura di ciò che temo, e temo ciò che amo: prima di giungere alla guerra mi riconcilio, prima di aver fatto pace sono preda della divisione. Qual è la saggezza che mi fa agire così, e qual è questo grande mistero? Oppure Dio vuole che noi, che siamo parte di lui e discendiamo dall’alto, affinché non disprezziamo il Creatore innalzandoci e gonfiandoci al di là del giusto, in questa lotta e battaglia contro il corpo, volgiamo sempre il nostro sguardo verso di lui, e vuole che la debolezza congiunta a noi sia un insegnamento alla nostra dignità, affinché sappiamo di essere contemporaneamente i più grandi e i più meschini, terreni e celesti, caduchi e immortali, eredi della luce e del fuoco, ma anche dell’oscurità a seconda di dove pieghiamo? Di tal genere è dunque la mescolanza di cui siamo composti, e per questi motivi, come almeno mi sembra chiaro: perché, quanto ci innalziamo di orgoglio per la nostra somiglianza con l’immagine, tanto ci abbassiamo per essere fatti di terra”. Cf. anche Gregorio di Nissa, L’anima e la risurrezione, PG 46,124C.

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tutti gli altri vizi: prima di averlo incatenato, si scioglie; prima di averlo giudicato, mi riconcilio con lui; e prima di averlo punito, mi piego su di lui! Come potrò vincere ciò che per natura sono portato ad amare? Come potrò liberarmi da ciò a cui sono vincolato per l’eternità? Come potrò distruggere ciò che risorgerà con me? Come potrò rendere incorruttibile ciò che ha ricevuto una natura corruttibile? Quale argomento ragionevole potrò usare contro ciò che per natura ha tutte le ragioni dalla sua parte? Se lo incateno con il digiuno, subito condanno il prossimo65, e mi riconsegno di nuovo in suo potere; se smetto di pronunciare condanne e lo vinco, subito mi esalto nel cuore, e cado di nuovo nelle sue mani! È mio alleato e nemico, aiuto e avversario, soccorritore e traditore! Se mi prendo cura di lui, mi fa guerra; se lo consumo, s’indebolisce; se lo ristoro, di nuovo diventa indisciplinato; se poi lo tormento, non lo sopporta; se lo affliggo, mi metto io stesso in pericolo; se lo percuoto, non ho più lo strumento per acquistare le virtù: lo abbraccio, e allo stesso tempo lo fuggo! Cos’è questo mistero che mi circonda? Qual è il motivo di questa mescolanza che è in me? Come mai sono nemico e amico di me stesso? Dimmelo tu, dimmelo, mia compagna, mia natura, perché non ho bisogno di sapere da altri ciò che ti riguarda. Come posso rimanere invulnerabile ai tuoi colpi? Come posso sfuggire al pericolo che è costitutivo della mia natura? E, poiché ho promesso a Cristo di esserti sempre nemico, come farò a vincere la tua tirannia? Come farò, dal momento che ho scelto di farti violenza?

Ed essa66, rispondendo, per così dire, alla sua anima, potrebbe dire: “Non ti spiegherò nulla che tu non sappia, ma solo ciò che entrambe conosciamo bene. Mi vanto di avere in me stessa la carità67 come madre! Il mio ardore esteriore, poi, è generato dalla troppa cura di me stessa, e in generale da ogni forma di rilassamento; mentre la fiamma che mi brucia dentro e sconvolge i miei pensieri è frutto di un precedente rilassamento e delle azioni passate. Da parte mia, concepisco e partorisco i peccati, ed essi, una volta partoriti, generano a loro volta la morte mediante la disperazione. “Se riconosci chiaramente la mia e la tua profonda debolezza, mi hai legato le mani. Se reprimi la gola, mi hai legato i piedi, così che non posso più andare avanti. Se ti sottometti al giogo dell’obbedienza, ti sottrai al mio. Se acquisti l’umiltà, mi hai tagliato la testa!”. Ecco il quindicesimo premio! Chi, pur essendo nella carne, lo ha conquistato, è morto ed è risorto, e gusta già da quaggiù le primizie dell’incorruttibilità futura!

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Cioè “la mia natura”, ovvero la “carne”. Qui la “carità (agápe)” è la falsa carità che diventa pretesto per relazioni e amicizie impure. 67

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Per il fatto che non digiuna.

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Discorso XVI SULL’AVARIZIA E SULLA RINUNCIA AL POSSESSO

1. La maggior parte dei maestri di sapienza colloca a questo punto1, dopo il tiranno di cui si è appena parlato2, l’avarizia, questo demonio dalle mille teste. E noi, dunque, privi di sapienza come siamo, per non cambiare l’ordine di quei sapienti, ci siamo attenuti alla loro regola e al loro esempio. Diciamo perciò alcune parole su questa malattia, e poi trattiamo brevemente del rimedio per guarirne. 2. L’avarizia è adorazione degli idoli (cf. Ef 5,5; Col 3,5) e figlia dell’incredulità: prende pretesto dalle malattie, prevede la vecchiaia, suggerisce l’arrivo della siccità, e preannuncia le carestie3. 3. L’avaro deride e trasgredisce volontariamente le parole dell’evangelo4. Chi ha acquistato la carità, getta via 1 Cf. Evagrio Pontico, Trattato pratico 6.9; Id., Gli otto spiriti di malizia 7; Id., I vizi e le virtù 3; Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1449B; Giovanni Cassiano, Istituzioni VII,1; Id., Conferenze V,2 ; Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe XXXI,45,87. 2 Il demonio della fornicazione. 3 Cf. Evagrio Pontico, Trattato pratico 9: “L’avarizia suggerisce una lunga vecchiaia, l’impotenza delle mani al lavoro, le carestie e le malattie che potranno sopraggiungere, le amarezze della povertà e ricorda quale vergogna sia ricevere dagli altri ciò di cui si ha bisogno”; Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1449D-1452A. 4 Le parole che comandano cioè di abbandonare le ricchezze e le preoccupazioni mondane per seguire Cristo e cercare il Regno: cf. Mt 6,25-34; 19,21 par.

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le proprie ricchezze, mentre chi afferma di poter convivere con l’una e con le altre, inganna se stesso! 4. Chi si affligge su di sé, rinnega anche il proprio corpo, e, quando l’occasione lo richiede, non risparmia neanche quello. 5. Non dire che accumuli per i poveri, perché due spiccioli sono bastati a comperare il Regno (cf. Lc 21,2)! 6. Un uomo ospitale e un avaro s’incontrarono, e il secondo rinfacciò al primo di essere senza discernimento! 7. Chi ha vinto questa passione, ha eliminato le preoccupazioni; chi invece vi rimane legato, non riuscirà mai a pregare in modo puro. 8. Il pretesto dell’elemosina è l’inizio dell’avarizia; l’odio dei poveri è il suo culmine. Finché uno sta accumulando, è misericordioso e fa elemosine, ma quando le ricchezze sono diventate sue, stringe le mani. 9. Ho visto dei poveri di denaro arricchirsi vivendo come poveri in spirito (cf. Mt 5,3); e così dimenticarono la loro precedente miseria. 10. Il monaco avido di ricchezze non sa cosa sia l’acedia, e si ricorda continuamente della parole dell’Apostolo: Chi vive nell’ozio, neppure mangi! (2Ts 3,10)5, e: Queste mie stesse mani hanno provveduto a me e a quelli che erano con me (cf. At 20,34)! 11. Rinunciare al possesso significa deporre ogni affanno, vivere senza preoccupazioni, camminare senza impacci, stare lontani dalla tristezza e credere nei comandamenti. 12. Il monaco che rinuncia al possesso è padrone del mondo: affida a Dio le sue preoccupazioni, e per mezzo della fede ha tutti gli uomini come suoi servi. Non parla agli uomini dei suoi bisogni, ma tutto ciò che gli capita, lo accoglie come dalla mano di Dio.

L’operaio6 che rinuncia al possesso è figlio del distacco, e considera tutto ciò che gli appartiene come se non esistesse. Quando poi arriva il momento del suo ritiro dal mondo, considera tutto come spazzatura (cf. Fil 3,8); ma se si rattrista per qualcosa, non ha ancora rinunciato al possesso. L’uomo che ha rinunciato al possesso è puro nella sua preghiera, mentre chi è attaccato alle proprietà, prega rivolgendo la mente a immagini materiali. 13. Coloro che vivono nella sottomissione ignorano l’avarizia: dal momento che infatti hanno consegnato anche il proprio corpo, cosa potrebbero possedere ormai di proprio? Una sola cosa può danneggiarli, il fatto di essere facili e pronti a mutare luogo. 14. Ho visto monaci rimanere con perseveranza nello stesso luogo a causa dei beni materiali, e ho giudicato più beati quelli che sono vagabondi a causa del Signore. 15. Chi ha gustato le cose di lassù (Col 3,1), disprezza facilmente quelle di quaggiù; chi invece non le ha gustate, si rallegra di ciò che possiede. 16. Chi rinuncia al possesso in modo irragionevole7, riceve un doppio danno: non gode dei beni presenti ed è privato di quelli futuri. Stiamo dunque attenti, o monaci, a non apparire più increduli degli uccelli, i quali non hanno preoccupazioni materiali né accumulano beni (cf. Mt 6,26)! 17. Grande è chi rinuncia ai propri beni per amore di Dio, ma santo chi rinuncia alla propria volontà: il primo riceverà il centuplo, o in beni materiali o in carismi, ma è il secondo che erediterà la vita eterna (cf. Mt 19,29). 18. Al mare non mancheranno mai le onde, né all’avaro l’ira e la tristezza8. 6 7

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Cf. Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1452B.

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Cioè il monaco pieno di zelo nella virtù. Cioè senza avere una vera fede nel Signore. Cf. Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1452D.

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19. Chi disprezza i beni materiali si tiene lontano dalle contese e dai litigi; chi invece vi rimane attaccato, lotterà fino alla morte per un solo ago. 20. Una fede incrollabile potrà eliminare le preoccupazioni materiali, ma il ricordo della morte porta a rinnegare anche il proprio corpo. 21. In Giobbe non c’era traccia di avarizia: perciò, anche quando fu privato dei suoi beni, rimase imperturbato (cf. Gb 1,22). 22. L’avarizia è la radice di tutti i mali (1Tm 6,10), ed è chiamata così, perché da essa derivano l’odio, i furti, le invidie, le divisioni, i litigi, i rancori, le crudeltà e gli omicidi. 23. Alcuni con un piccolo fuoco sono riusciti a bruciare molto legname9, e con una sola virtù sono sfuggiti a tutte le passioni appena elencate: questa virtù si chiama “distacco”10, ed è generata dall’esperienza e dal gusto di Dio, come anche dal pensiero della resa dei conti a cui saremo sottoposti al momento della morte. 24. Il lettore attento non si sarà dimenticato delle parole della madre di tutti mali11: essa dice infatti che il secondo rampollo della sua maledetta e miserabile prole è la pietra dell’insensibilità; ma io non ho potuto assegnare a essa il posto che le spettava, perché me lo ha impedito il serpente dell’idolatria dalle molte teste12, al quale – non so come mai – i padri dotati di discernimento hanno assegnato il terzo posto nella catena degli otto vizi. Dopo aver parlato a sufficienza di questo, vogliamo ormai parlare dell’insensibilità, che pur avendo qui il terzo posto, è

stata generata per seconda. Dopo questa, tratteremo brevemente del sonno e della veglia, e poi anche della pusillanimità, che è cosa infantile e indegna di un uomo: sono queste infatti le malattie dei principianti. Ecco un altro premio! Chi l’ha conquistato, cammina verso il cielo privo di ogni materia. Ecco la sedicesima lotta! Chi l’ha vinta, o ha conquistato la carità, o ha eliminato le preoccupazioni.

9 Gioco di parole: in greco la parola hØle significa sia “legname” sia “materia” (e quindi “beni materiali”, come nei §§ 14 e 19). 10 Cf. supra, II. 11 L’ingordigia. Cf. supra, XIV,32. 12 Cioè l’avarizia.

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Discorso XVII SULL’INSENSIBILITÀ CHE È NECROSI DELL’ANIMA E MORTE DELLA MENTE PRIMA DELLA MORTE DEL CORPO

1. L’insensibilità, sia nel corpo che nello spirito, è una morte della sensibilità che deriva da una malattia cronica e da una negligenza prolungata, e sfocia nella completa perdita di sensibilità. 2. L’indolenza è negligenza diventata abitudine, torpore della mente, frutto di predisposizioni passionali, trappola del fervore, irretimento del coraggio, ignoranza della compunzione, porta della disperazione, madre della dimenticanza1 e, dopo il parto, figlia di sua figlia, e rifiuto del timore. 3. L’indolente è un filosofo privo di senno, un maestro che si condanna da sé, un oratore che si contraddice, un cieco che vuole insegnare agli altri a vedere. Discute sul modo di curare una ferita, e non smette di irritarla. Parla contro la sua passione, e non smette di mangiare cose nocive. Prega di essere liberato da essa, e subito corre a compierne le azioni. Si sdegna con se stesso per le azioni compiute, e non si vergogna – il misero! – delle sue stesse parole.

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Di Dio e delle sue promesse.

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“Faccio male!” – esclama –, e continua di buona lena. Con la bocca prega di essere liberato dalla passione, ma con il corpo lotta per soddisfarla. Filosofeggia sulla morte, e vive come se fosse immortale. Parla con gemiti e sospiri della separazione dell’anima dal corpo, e se ne sta in ozio come se fosse eterno. Discetta sull’astinenza, e lotta per soddisfare l’ingordigia. Proclama beata l’obbedienza, e lui per primo disobbedisce. Loda chi è distaccato da tutto, e non si vergogna di conservare rancore e di litigare per uno straccio. Se va in collera, si irrita con se stesso, e poi va di nuovo in collera per essersi irritato, senza accorgersi che così aggiunge sconfitta a sconfitta. Legge quel che sta scritto sul giudizio, e si mette a sorridere; quel che sta scritto sulla vanagloria, e s’insuperbisce nel momento stesso in cui legge. Ripete a memoria discorsi sulla veglia, e subito si immerge nel sonno. Loda la preghiera, e la fugge come fosse una frusta. Si pente di aver mangiato fino alla sazietà, e subito dopo riprende a riempirsi il ventre. Esalta il silenzio, e ne tesse le lodi con fiumi di chiacchiere. Insegna la mitezza, e mentre la insegna, va continuamente in collera. Rientrato in se stesso, sospira, poi scuote la testa e cede di nuovo alla passione. Biasima il riso e poi ridacchiando predica l’afflizione. Si accusa di vanagloria di fronte agli altri, e accusandosi va in cerca di gloria. Fissa i volti delle persone con sensualità, e parla di castità. Elogia gli esicasti mentre vive nel mondo, e non si rende conto di svergognare se stesso. Esalta i misericordiosi che fanno elemosine, e insulta i poveri. Si fa continuamente accusatore di se stesso, e non vuole prenderne coscienza, per non dire che non può. 4. Ho visto molte persone di questa risma piangere sentendo parlare della morte e dei terribili giudizi di Dio e poi, ancora con le lacrime agli occhi, correre in fretta a 288

mettersi a tavola; e sono rimasto sbalordito vedendo come quel fetido tiranno – intendo il ventre – rafforzato da un bel po’ d’indolenza, riuscisse a vincere perfino l’afflizione. 5. Nei limiti della mia povera conoscenza e delle mie capacità, ho messo a nudo gli inganni di questa furiosa e folle passione, dura e tagliente come la pietra, e anche le piaghe che essa procura: non mi sento di parlarne più a lungo. Ma chi, con l’aiuto del Signore e grazie alla propria esperienza, fosse in grado di consigliare i rimedi adatti a tali piaghe, non esiti a farlo; per quanto mi riguarda, infatti, non mi vergogno di riconoscere la mia incapacità, essendo io stesso violentemente posseduto da questa passione. Da solo non sarei neppure riuscito a scoprire i suoi artifici e i suoi inganni, se una volta non l’avessi sorpresa, catturata a forza e torturata, e non l’avessi costretta a confessare le cose che ho appena detto, fustigandola con la sferza del timore del Signore e con quella della preghiera continua. Mi parve che quella malefica tiranna mi dicesse: “I miei sudditi ridono quando vedono dei morti; quando stanno in preghiera sono duri come pietre, rigidi e pieni di tenebra; quando vedono la sacra mensa, non provano alcuna sensazione; e quando partecipano ai santi doni, per loro è come se mangiassero un semplice pezzo di pane! Quando li vedo compunti, li derido: dal padre che mi ha generato ho imparato a uccidere tutto ciò che è frutto della generosità e del fervore. Quanto a me, sono madre del riso, nutrice del sonno e amica della sazietà; quando sono rimproverata, non ne soffro; e sono compagna inseparabile della falsa pietà”. Io, dunque, sconvolto dalle parole di quella forsennata, le chiesi il nome di colui che l’aveva generata. E quella mi rispose: “Non ho un’unica nascita, ma il mio concepimento è, per così dire, misto e variabile: la sazietà mi dà forza, 289

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il tempo mi fa crescere, la cattiva abitudine mi consolida, e chi la contrae, non riuscirà più a liberarsi di me! “Se mediti continuamente il giudizio eterno, vegliando a lungo, forse ti darò un po’ di respiro. Esamina la causa per cui sono nata in te, e lotta contro quella mia madre, perché non ne ho una sola in tutti i casi. Prega spesso tra le tombe, imprimendotene nel cuore l’immagine in modo indelebile: se infatti non l’avrai incisa in te con lo stilo del digiuno, non potrai vincermi in eterno!”.

Discorso XVIII SUL SONNO, SULLA PREGHIERA E LA SALMODIA COMUNITARIA

1. Il sonno è sostegno, in una certa misura, della nostra natura, immagine della morte e ozio dei sensi. Come la concupiscenza, il sonno è unico, ma ha moltissime cause ed origini: può essere, cioè, frutto della natura, dell’alimentazione, dell’azione dei demoni, o anche a volte di un digiuno estremo e troppo prolungato che, sfinendo la carne, fa’ sì che essa cerchi un ristoro nel sonno. 2. Come l’eccesso nel bere dipende dall’abitudine, così anche l’eccesso nel dormire. Dobbiamo perciò lottare contro di esso, soprattutto agli inizi della nostra rinuncia al mondo, perché è difficile guarire una lunga abitudine. 3. Facciamo attenzione, e scopriremo che, appena la tromba spirituale1 dà il segnale, i fratelli si radunano visibilmente, e i nemici si raccolgono invisibilmente! Alcuni di loro, perciò, si appostano vicino al nostro letto e, appena ci alziamo, ci spingono a coricarci di nuovo, dicendo: “Aspetta ancora un po’, finché non siano conclusi gli inni d’introduzione, e poi andrai in chiesa!”. Altri, mentre siamo alla preghiera, ci fanno sprofondare 1 Cioè il “simandro”: lo strumento che, ancora oggi, nei monasteri orientali serve a dare il segnale per gli uffici liturgici e che, in senso spirituale, come dice l’autore, adempie la funzione della tromba che dà il segnale di guerra.

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nel sonno; altri ci stimolano il ventre con acuti e insoliti dolori; altri ci spingono a tenere conversazioni nella casa del Signore; altri trascinano la nostra mente verso pensieri sconvenienti. Altri ci fanno appoggiare al muro, come se fossimo sfiniti dalla stanchezza2, magari facendoci anche sbadigliare ininterrottamente. Alcuni, poi, durante la preghiera ci fanno ridere in continuazione, per suscitare in tal modo l’indignazione di Dio contro di noi; altri ci costringono a recitare i salmi in modo affrettato, per pigrizia; altri ci spingono a cantarli più lentamente, per vano compiacimento; e può succedere che alcuni si appostino addirittura sulla nostra bocca e ce la chiudano, così che facciamo difficoltà ad aprirla. 4. Chi pensa, con profondo sentimento del cuore, di trovarsi alla presenza di Dio mentre è in preghiera, resterà immobile come una colonna, e nessuno dei demoni di cui abbiamo appena parlato potrà prendersi gioco di lui. Spesso succede che chi è veramente obbediente, appena si presenta alla preghiera, diventi tutto radioso e pieno di gioia: quel lottatore infatti si era già preparato e infiammato in anticipo con la sincerità del proprio servizio. 5. Pregare insieme a un gran numero di persone è possibile a tutti; pregare con un solo fratello animato dallo stesso spirito è conveniente a molti; ma la preghiera solitaria è riservata a pochissimi. Quando canti i salmi insieme a un gran numero di persone, non puoi pregare in modo immateriale3, 2

Cf. supra, XIII,9. Cioè senza far uso di parole e di immagini legate al mondo materiale. La salmodia è considerata da tutta tradizione monastica come meno perfetta rispetto alla preghiera contemplativa (la cosiddetta preghiera pura o del cuore): cf. Evagrio, Sulla preghiera 83.85: “Mentre la salmodia placa le passioni e infine sopisce gli eccessi del nostro corpo, la preghiera dispone invece l’intelletto alle proprie attività … La salmodia rispecchia l’immagine della scienza multiforme, la preghiera è invece accesso alla sapienza immateriale e unitaria”; Diadoco di Fotica, Capitoli 73. Sulla distinzione tra salmodia e preghiera, cf. G. Bunge, Vasi di argilla, pp. 43-50. Cf. anche infra, XXVIII,37. 3

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ma per esercitare la tua mente, contempla le parole che vengono cantate, o ancora, recita qualche breve preghiera in attesa del versetto successivo4. 6. Nessuno si dedichi a un’altra occupazione durante la preghiera, tanto meno a un lavoro materiale5. Questo lo ha insegnato chiaramente l’angelo apparso al grande Antonio6. 7. La fornace prova l’oro, e lo stare in preghiera mette alla prova lo zelo e l’amore che i monaci hanno per Dio7. Chi ha fatto propria quest’opera degna di lode, si avvicina a Dio e mette in fuga i demoni!

4 Per l’interpretazione di questo passo, cf. M. Van Parys, “L’interpretazione delle Scritture nella ‘Scala’”, p. 142: “Il tenore del consiglio suggerisce che i salmi fossero recitati lentamente e ad alta voce da uno solo e che l’ascolto lasciasse la possibilità di ‘contemplare’ le parole e di formulare una breve (intensa?) preghiera interiore come eco ai versetti appena ascoltati”. In generale sul metodo di recitazione dei salmi nei cenobi orientali, cf. Giovanni Cassiano, Istituzioni II,11-12. 5 Traduco così kátergon, secondo l’interpretazione di Exegesis (p. 314) che intende: “Quel lavoro che fa stare in basso (káto) l’attività della mente e non le permette di raggiungere la sublimità della preghiera”. 6 Cf. Apoftegmi, Antonio 1: “Un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu colto dall’acedia e da una fitta nebbia di pensieri. E diceva a Dio: ‘O Signore! Io voglio salvarmi, ma i pensieri me lo impediscono. Che posso fare nella mia afflizione?’. Ora, sporgendosi un po’, Antonio vede un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega. Era un angelo del Signore, mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udì l’angelo che diceva: ‘Fa’ così e sarai salvo!’. All’udire quelle parole, fu preso da grande gioia e coraggio: così fece e si salvò”. L’abitudine di lavorare pregando e ripetendo parole della Scrittura era in realtà largamente diffusa in tutto il monachesimo antico, e raccomandata dai padri (cf. Giovanni Cassiano, Istituzioni II,12-14, e sull’argomento L. Regnault, Vita quotidiana dei padri del deserto, Piemme, Casale Monferrato 1994, pp. 113-124), ma forse qui Climaco intende raccomandare l’astensione dal lavoro soltanto nei momenti specificamente consacrati alla preghiera. Cf. anche supra, XIV,23 e infra, XXVII/2,54. 7 Cf. infra, XXVIII,38.52.

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Discorso XIX SULLA VEGLIA DEL CORPO E SUL MODO DI PRATICARLA

1. Di fronte ai re della terra, alcuni si presentano senza né armi né armatura, altri tenendo in mano dei fasci, altri degli scudi, altri delle spade. C’è molta differenza tra i primi e gli ultimi, anzi non c’è neanche paragone, perché i primi sono generalmente parenti e familiari del re. Questo per quanto riguarda loro. Vediamo ora in che modo anche noi stiamo alla presenza del nostro Dio e Re, tutte le volte che, a sera, durante la notte e durante il giorno, stiamo in preghiera. Alcuni, infatti, vegliando l’intera notte a partire dalla sera, tendono le mani in preghiera1, distaccati come sono dalle cose materiali e spogli di ogni preoccupazione mondana. Altri vegliano recitando i salmi; altri si dedicano piuttosto alla lettura; altri, per la loro debolezza, lottano valorosamente contro il sonno con il lavoro delle loro mani; altri, infine, si concentrano sul pensiero della morte e cercano così di raggiungere la compunzione. Tra tutti costoro, i primi e gli ultimi vegliano come amici di Dio; i secondi vegliano come monaci; i terzi, invece, per-

1 Cioè si dedicano alla preghiera contemplativa, senza servirsi di un’altra mediazione che li aiuti a restare svegli.

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corrono una via assai più modesta: Dio però accetta e valuta i doni secondo l’intenzione e la forza di ciascuno. 2. L’occhio che veglia purifica la mente, ma l’abbondanza di sonno indurisce l’anima. Il monaco vigilante è nemico della fornicazione, mentre il sonnolento è suo compagno. 3. La veglia è estinzione del fuoco passionale, liberazione dai sogni, occhio umido di lacrime, cuore intenerito, custodia dei pensieri, fornace dei cibi, briglia delle passioni, freno della lingua, esilio delle fantasie. 4. Il monaco che veglia è un pescatore di pensieri, potendo facilmente avvistarli e catturarli nella calma della notte. Il monaco che ama Dio, appena suona il segnale2 della preghiera, dice: “Bene! Bene!”, e il pigro: “Ohimè! Ohimè!”. 5. Una tavola imbandita rivela chi è ingordo, e l’esercizio della preghiera, chi è amico di Dio: il primo al vedere la tavola salta di gioia, l’altro si rattrista. 6. Il troppo sonno procura l’oblio, ma la veglia purifica la memoria. 7. La ricchezza dei contadini viene raccolta sull’aia e nel torchio, mentre la ricchezza e la scienza dei monaci sono raccolte durante le veglie serali e notturne, e con gli esercizi della mente. 8. Il troppo sonno è un compagno sleale, perché sottrae al pigro metà della vita, o anche di più. 9. Il cattivo monaco sta ben sveglio nelle conversazioni, ma quando arriva l’ora della preghiera gli pesano gli occhi3. Il monaco fatuo eccelle nelle chiacchiere, ma al momento della lettura, non riesce più a vedere per il sonno. Al suono dell’ultima tromba i morti risorgeranno (cf. 1Cor 15,52; 1Ts 4,16); allo stesso modo, appena sentono le chiacchiere, i dormiglioni si risvegliano!

Il tiranno4 del sonno è un amico infido: spesso, quando siamo sazi, si ritira, e quando invece siamo affamati e assetati, ci attacca con violenza. Durante la preghiera, poi, ci suggerisce di dedicarci a un lavoro manuale, perché altrimenti non riuscirebbe a distruggere la preghiera di chi veglia. Questo tiranno è il primo ad assalire i novizi: per renderli negligenti fin dagli inizi, o per preparare la strada al demonio della fornicazione. Finché non ce ne saremo liberati, non chiediamo la dispensa dalla salmodia comunitaria; spesso infatti la vergogna può trattenerci dal sonnecchiare. 10. Il cane è nemico delle lepri, e il demonio della vanagloria è nemico del sonno. 11. Alla fine della giornata, il bottegaio si mette seduto e calcola il suo guadagno; il monaco operoso5, invece, lo fa alla fine della salmodia. 12. Dopo la preghiera, rimani vigilante, e vedrai intere schiere di demoni! Noi infatti li abbiamo combattuti, ed essi, terminata la preghiera, tentano di ferirci con fantasie sconvenienti. Siediti e osserva, e vedrai coloro che hanno l’abitudine di rapirci le primizie dell’anima! 13. Può capitare che, per l’abitudine presa, si ripetano le parole dei salmi anche durante il sonno; ma a volte sono i demoni a suggerircele, per farci montare in superbia. C’è poi un terzo caso, che non volevo menzionare, ma qualcuno6 mi costringe a farlo: l’anima che medita incessantemente la parola del Signore, può arrivare a intrattenersi con essa perfino nel sonno. Quest’ultima cosa, infatti, non è che la giusta ricompensa della precedente, per mettere in fuga i peccati e le fantasie. Gradino diciannovesimo: chi lo ha raggiunto, ha ricevuto la luce nel proprio cuore. 4

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Cf. supra, XVIII,3. Cf. supra, XIII,5.

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Cioè il demonio. Lett.: “L’operaio (ergátes)”. Gli esempi presenti nelle Scritture: cf. Sal 1,2; 118,148; Ct 5,2.

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Discorso XX SULLA PUSILLANIMITÀ CHE È COSA INFANTILE E INDEGNA DI UN UOMO

1. Chi esercita la virtù all’interno dei cenobi e delle comunità, in genere non è minimamente tentato dalla pusillanimità. Chi invece vive in luoghi solitari deve lottare per non essere dominato da questo frutto della vanagloria e da questa figlia dell’incredulità, ovvero dalla pusillanimità. 2. La pusillanimità è un’attitudine infantile in un’anima già avanzata negli anni e piena di vanagloria. La pusillanimità significa vacillare nella fede in attesa di pericoli imprevisti. 3. La paura è la percezione anticipata di un pericolo; o ancora: la paura è un sentimento trepidante di un cuore sconvolto e agitato per ignote disgrazie. La paura è la perdita di ogni intima certezza. L’anima superba è schiava della pusillanimità: confida in se stessa, e poi si spaventa davanti al minimo rumore e all’ombra delle creature! 4. Coloro che si affliggono per i propri peccati e sono diventati insensibili al dolore, non sono soggetti alla pusillanimità; ma i pusillanimi spesso perdono la testa, e ciò è normale: colui che abbandona i superbi, infatti, agisce secondo giustizia, perché anche noi impariamo a non insuperbirci. 299

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5. Tutti i pusillanimi sono pieni di vanagloria; ma non tutti i coraggiosi sono umili, perché anche i ladri e i violatori di tombe non si spaventano facilmente. 6. Non esitare a recarti in piena notte nei luoghi in cui di solito hai paura, perché se ti lasci andare un po’ a questa passione ridicola e infantile, essa finirà per invecchiare con te! Mentre ti stai recando là, armati della preghiera, e quando sei arrivato, stendi le braccia e flagella i tuoi nemici con il nome di Gesù1: non esiste infatti arma più potente né in cielo né in terra! Una volta guarito da questa malattia, eleva un canto a colui che ti ha liberato, perché se gli dimostrerai gratitudine, egli ti proteggerà in eterno. 7. Come non riuscirai mai a saziare il ventre con un solo boccone, così non riuscirai a vincere la tua pusillanimità tutta in una volta. Essa si ritirerà tanto più velocemente, quanto più grande sarà la nostra afflizione; ma nella misura in cui la nostra afflizione sarà insufficiente, resteremo pusillanimi. Si rizzarono i peli della mia carne (Gb 4,15), disse Elifaz, descrivendo le arti malvagie di questo demonio. 8. A volte è l’anima, a volte è il corpo che comincia a provare paura, e poi si comunicano l’un l’altro questa passione. Quando la carne è tutta tremante, ma la paura inopportuna non riesce a penetrare nell’anima, significa che la guarigione dalla malattia è vicina. Quando poi accogliamo volentieri, con un cuore contrito, tutti gli imprevisti possibili, allora significa che siamo veramente liberi dalla pusillanimità. 9. Non sono l’oscurità e la solitudine dei luoghi che danno forza ai demoni contro di noi, ma la sterilità dell’anima. A volte però può anche trattarsi di una punizione provvidenziale. 1 Cioè ripetendo incessantemente l’invocazione del nome di Gesù. Cf. supra, XV,51.

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10. Chi è diventato servo del Signore, teme il proprio padrone, e lui solo (cf. Mt 10,28 par.); ma chi ancora non lo teme, spesso si spaventa davanti alla sua stessa ombra! 11. Quando uno spirito2 si avvicina invisibilmente, il corpo si spaventa. Ma se si avvicina un angelo, l’anima degli umili esulta di gioia; perciò, appena riconosciamo la sua presenza da quest’effetto, corriamo subito alla preghiera: il nostro buon custode, infatti, è venuto a pregare con noi! Chi ha vinto la pusillanimità, è evidente che ha affidato la propria vita e la propria anima a Dio.

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Cioè un demonio.

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Discorso XXI SULLA MULTIFORME VANAGLORIA

1. Alcuni preferiscono distinguere la vanagloria dalla superbia dedicandole una trattazione particolare, e per questo affermano che i principali e fondamentali pensieri cattivi sono otto1. Al contrario, Gregorio il Teologo2 e altri maestri di dottrina ne enumerano sette, e io, per quanto mi riguarda, faccio più fiducia a questi ultimi. Chi infatti, dopo aver vinto la vanagloria, rimane incline alla superbia? La sola differenza che esiste tra l’una e l’altra, infatti, è la stessa che c’è tra un bambino e un uomo adulto, e tra il grano e il pane: il primo è l’inizio, il secondo, il compimento3. Dunque, ora che l’occasione lo richiede, 1 Così Evagrio Pontico, Trattato pratico 13-14, seguito da Cassiano, Istituzioni XI,1 e Conferenze V,10, e dallo Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1460C: “La vanagloria è diversa dalla superbia. È vanagloria, quando compiamo qualche buona azione per la gloria umana; è superbia, quando ci stimiamo persone grandi e sublimi, e condanniamo gli altri. La prima ha origine da un’azione; la seconda da un’opinione; la prima è l’inizio della presunzione, la seconda ne è il culmine”. 2 Cf. Gregorio di Nazianzo, Orazioni 39,10: questo passo, in cui il Nazianzeno parla di “sette spiriti della malizia, pari di numero a quelli della virtù”, mi sembra sufficiente a spiegare il riferimento del nostro autore, e non c’è alcun bisogno di pensare – come fanno alcuni studiosi – che, con il nome di “Gregorio il Teologo”, l’autore abbia inteso riferirsi a Gregorio Magno (cf. Commento morale a Giobbe XXXI,45,87); cf. P. Deseille, “La dottrina spirituale di Giovanni Climaco”, pp. 100 e 114; M. Viller, K. Rahner, Ascetica e mistica nella patristica. Un compendio della spiritualità cristiana antica, Queriniana, Brescia 1991, pp. 156-157. 3 Sul rapporto tra vanagloria e superbia cf. anche infra, § 27.

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parliamo brevemente delle passioni che sono inizio e culmine dell’empia presunzione: chi infatti volesse discuterne diffusamente, sarebbe simile a chi si affatica invano a misurare il peso dei venti. 2. La vanagloria, nella sua essenza, è uno stravolgimento della natura, una perversione dei costumi e un’attenzione sempre desta alle critiche; nelle sue qualità, poi, è sperpero di fatiche, spreco di sudori, insidia del nostro tesoro, figlia dell’incredulità, precorritrice della superbia, naufragio nel porto, formica nell’aia – insetto che, per quanto minuscolo, minaccia l’intero frutto della nostra fatica –. 3. La formica attende che il grano sia maturo, e la vanagloria che la nostra ricchezza4 sia accumulata: la prima infatti trova gusto nel rubare, la seconda nello sperperare. Lo spirito della disperazione si rallegra al veder moltiplicarsi i vizi; lo spirito della vanagloria, invece, al veder crescere le virtù: al primo, infatti, apre la porta il gran numero di ferite, al secondo, la ricchezza accumulata con molte fatiche. 4. Osserva con attenzione, e scoprirai come quest’empia passione fiorisca fin dentro alla tomba, con le vesti, i profumi, i cortei funebri, gli aromi, e altre cose del genere! 5. Come il sole riversa la sua luce in abbondanza su ogni cosa, così la vanagloria si compiace di ogni umana attività. Per esempio: se digiuno, ne traggo motivo di vanagloria; e se smetto di digiunare per non essere visto, mi glorio ancora della mia prudenza. Se indosso splendide vesti, sono vinto dalla vanagloria; e se mi cambio, vestendomi in modo povero, cado ancora nella vanagloria. Se parlo, sono vinto dalla stessa passione; e se sto in silenzio, sono vinto di nuovo! È come un tribolo di ferro: in qua-

lunque modo tu la getti, questa passione tiene sempre una punta rivolta verso l’alto5. 6. Il vanaglorioso è un credente idolatra, che in apparenza onora Dio, ma in realtà cerca di piacere agli uomini e non a Dio. Vanaglorioso è chiunque ama mettersi in mostra: il suo digiuno rimane senza ricompensa, e la sua preghiera è inutile e inopportuna, perché sia l’uno che l’altra sono fatti per la lode degli uomini (cf. Mt 6,1-6.1617). L’asceta vanaglorioso riceve un danno doppio: macera il proprio corpo e non riceve alcuna ricompensa. 7. Chi potrebbe non ridere vedendo come lo schiavo della vanagloria, durante la salmodia, sia spinto da questa passione ora a ridere, ora a piangere di fronte a tutti? 8. Dio spesso nasconde ai nostri occhi anche le virtù che possediamo; ma chi ci loda – o meglio chi ci inganna –, con le sue lodi ci apre gli occhi e, aperti gli occhi, la nostra ricchezza scompare (cf. Gen 3,7). 9. L’adulatore è un servo dei demoni, un complice della superbia, un distruttore della compunzione, un annientatore delle virtù, un ingannatore che ci fuorvia: Coloro che vi chiamano beati – dice infatti il profeta – vi ingannano (Is 3,12)! 10. È proprio degli spiriti elevati sopportare le offese con coraggio e con gioia; ma è proprio dei santi e dei puri passare indenni in mezzo alle lodi. 11. Ho visto persone che si affliggevano per i propri peccati accendersi d’ira per gli elogi ricevuti, scambiando una passione con un’altra passione6, come si fa in una fiera. 12. Nessuno conosce i segreti dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui (1Cor 2,11): si vergognino dunque e chiudano la bocca coloro che osano lodarci in faccia! 5

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Cioè la virtù.

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Cf. Pseudo-Nilo, Gli otto pensieri malvagi, PG 79,1461C. Cioè la vanagloria con l’ira.

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13. Se senti che il tuo vicino o il tuo amico ti ha rivolto un insulto, in tua presenza o in tua assenza, lodalo e dimostragli il tuo amore. 14. Grande cosa è scacciare dalla propria anima le lodi degli uomini, ma è cosa ancor più grande respingere le lodi dei demoni. 15. Dimostra umiltà non chi disprezza o insulta se stesso – come potrebbe, infatti, non sopportare le proprie parole? –, ma chi, offeso da un altro, non diminuisce il proprio amore per lui. 16. Ho notato come a volte il demonio della vanagloria suggerisca a un fratello dei pensieri cattivi rivelandoli allo stesso tempo a un altro, e come poi spinga quest’ultimo a rivelare al primo i pensieri del suo cuore, così che quello finisca per lodarlo come un profeta7. A volte questo demonio maledetto può perfino attaccarsi alle membra del corpo facendole sussultare. Non lasciarlo avvicinare quando ti fa balenare la prospettiva di diventare vescovo, igumeno o maestro, perché è difficile scacciare un cane dal banco del macellaio8! Appena costui si accorge che qualcuno ha raggiunto un po’ di pace interiore, subito lo spinge a lasciare il deserto per tornare nel mondo, dicendogli: “Va’ a salvare le anime che periscono!”. 17. Come l’aspetto degli etiopi9 è diverso da quello delle statue, così la forma di vanagloria propria dei cenobiti è diversa da quella degli eremiti. 18. Quando dei secolari vengono in visita, la vanagloria ne anticipa l’arrivo e spinge i monaci più fatui a usci-

re loro incontro: li fa cadere ai loro piedi e li veste di umiltà – proprio lei che è piena di superbia! –, accomoda il loro portamento e la loro voce, li spinge a guardare le mani dei visitatori nella speranza di ricevere qualcosa, e a chiamarli signori e padroni, e, dopo Dio, “datori della vita”. A tavola, consiglia di fare astinenza e di rimproverare senza pietà gli inferiori10. Durante la salmodia, rende solleciti i pigri, dà una bella voce a chi non ce l’ha, e risveglia i sonnacchiosi; lusinga il maestro del coro e lo supplica di assegnare ai vanitosi le parti principali del canto: lo chiama padre e maestro, finché gli ospiti non se ne siano andati. Rende orgoglioso chi è apprezzato più degli altri, e infonde rancore in chi è disprezzato. 19. Spesso la vanagloria procura disonore invece che onore: i suoi seguaci, infatti, possono subire una grande umiliazione, se si abbandonano all’ira. La stessa vanagloria può rendere miti davanti agli uomini le persone irascibili; tanto più salta addosso a coloro che possiedono delle doti naturali, e per mezzo di esse conduce quegli sventurati alla rovina! 20. Ho visto un demonio assalire e scacciare un altro demonio suo fratello: una volta infatti, mentre un monaco era in preda all’ira, giunsero improvvisamente dei secolari, e quello sventurato passò dall’ira alla vanagloria, giacché non poteva servire l’una e l’altra allo stesso tempo. 21. Chi si è venduto alla vanagloria, vive una doppia vita: esteriormente vive tra i monaci, ma con lo spirito e col pensiero vive nel mondo. 22. Se veramente desideriamo piacere al re di lassù, sforziamoci di gustare la gloria di lassù! Chi infatti l’avrà gustata, disprezzerà ogni gloria terrena; ma mi meravi-

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Cf. infra, DP 84. Seguo qui il testo di Rader invece di quello di Sophronios. L’immagine si riferisce alla mente che rimane invischiata nelle preoccupazioni mondane e materiali. 9 Cioè dei neri. 8

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10 Si può intendere: i monaci più giovani di loro, oppure quelli che non sono al loro livello di ascesi.

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glierei se qualcuno riuscisse a disprezzare la seconda senza aver gustato la prima. 23. Spesso, dopo essere stati depredati dalla vanagloria11, ci siamo rivoltati contro di lei e, a nostra volta, siamo riusciti a depredarla grazie a una migliore disposizione. Ho visto alcuni intraprendere un’opera spirituale per vanagloria, e poi, lasciato da parte il motivo riprovevole che gliel’aveva fatta iniziare, portarla a termine in modo degno di lode, per aver mutato le proprie intenzioni. 24. Chi s’insuperbisce dei propri doni naturali, per esempio della propria intelligenza, della propria facilità di apprendimento, delle proprie capacità di lettura e di espressione, del proprio ingegno, e di altre cose simili, non otterrà mai i beni soprannaturali, perché chi è infedele nel poco, sarà infedele – ovvero vanitoso – anche nel molto (cf. Lc 16,10). 25. Molti, pur di acquistare la perfetta impassibilità, carismi in abbondanza, e la capacità di operare miracoli e fare profezie, macerano il proprio corpo in modo sconsiderato, senza sapere, poverini, che non sono le fatiche, ma è piuttosto l’umiltà la madre di tali cose. Chi pretende di ricevere dei doni in cambio delle proprie fatiche, ha posto delle fondamenta destinate a crollare; chi invece si considera un debitore, all’improvviso riceverà una ricchezza inaspettata. 26. Non ti fidare del vagliatore12, che ti suggerisce di ostentare le tue virtù perché chi ti ascolta ne possa ricavare giovamento. Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà se stesso? (cf. Mt 16,26; Lc 9,25). Non c’è niente che possa edificare di più chi ci guarda, di un atteggiamento umile e sincero, e di 11 La vanagloria spinge i monaci a praticare le virtù, sottraendo loro i frutti di tale pratica. 12 Cioè Satana, che vaglia i discepoli del Signore come il grano: cf. Lc 22,31.

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una parola franca: ciò infatti aiuta anche gli altri a non insuperbirsi mai. E che cosa può mai esserci di più utile? 27. Un uomo dotato del carisma di chiaroveggenza ebbe una visione e mi raccontò quel che vide: “Un giorno – disse – mentre ero seduto in assemblea, vennero il demonio della vanagloria e il demonio della superbia, e si misero a sedere accanto a me, uno da una parte e uno dall’altra. Il primo mi punzecchiava il fianco con il dito della vanagloria, esortandomi a raccontare qualche mia visione o qualche prodezza da me compiuta nel deserto. Ma appena me ne fui liberato, dicendogli: ‘Retrocedano e siano coperti di vergogna quelli che meditano il male contro di me!’ (Sal 39,15b), subito quello che stava alla mia sinistra mi disse nell’orecchio: ‘Bene! Ben fatto! Sei stato grande a vincere quella spudorata di mia madre!’; e io immediatamente, riprendendo il seguito del versetto, gli dissi: ‘Siano subito respinti e coperti di vergogna quelli che mi dicono: Bene! Hai fatto bene!’ (cf. Sal 39,16)”. Allora io chiesi a quella persona: “Come mai la vanagloria è madre della superbia?”; ed egli mi rispose: “Le lodi esaltano e gonfiano, e quando l’anima è esaltata, la superbia la afferra, la porta fino al cielo, e poi la precipita giù nell’abisso”. 28. C’è una gloria che viene dal Signore, poiché sta scritto: Glorificherò coloro che mi glorificheranno (1Sam 2,30); e ce n’è una che è frutto dell’inganno del diavolo, poiché sta scritto: Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi (Lc 6,26). 29. La prima, la riconoscerai chiaramente quando, considerandola come un danno, cercherai di respingerla in tutti i modi, e quando, dovunque andrai, cercherai di nascondere la tua condotta di vita; la seconda, invece, quando farai tutto, anche la minima cosa, per essere visto dagli uomini. 309

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Questa gloria impura ci suggerisce di fingere delle virtù che non abbiamo, dicendo: “Sta scritto: Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone!” (Mt 5,16). Spesso il Signore conduce i vanagloriosi al ripudio della vanagloria facendo subir loro qualche umiliazione. 30. L’inizio del ripudio della vanagloria consiste nella custodia della propria bocca (cf. Sal 140,3) e nell’amore delle umiliazioni; il grado intermedio, nella recisione di tutti i pensieri di vanagloria che abbiamo nella mente; il grado perfetto – ammesso che possa esistere un limite nell’abisso –, nel ricercare tutto ciò che può umiliarci in pubblico, senza provarne il minimo fastidio. 31. Non nascondere la tua infamia13 con il pretesto di non dare scandalo! Tuttavia, forse, a seconda del tipo di caduta, non sarà opportuno applicare sempre lo stesso rimedio. 32. Quando ricerchiamo la gloria, o quando essa ci viene procurata da altri senza che l’abbiamo ricercata, o ancora, quando intraprendiamo qualche opera per vanagloria, ricordiamoci della nostra afflizione passata e di quel timore con cui ci presentavamo davanti a Dio nella nostra preghiera solitaria, e certamente faremo vergognare quella spudorata14, purché ci sforziamo davvero di pregare in modo autentico. Se ciò non basta, richiamiamo subito alla mente il pensiero della morte; e se non basta neanche questo, temiamo almeno la vergogna che segue la gloria, poiché chi si esalta, sarà umiliato (Lc 14,11), non solo nell’altra vita, ma certamente anche in questa! 33. Quando i nostri adulatori – o meglio i nostri ingannatori – cominciano a elogiarci, richiamiamo subito alla 13 14

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Cioè il peccato che ti procura vergogna davanti agli altri. La vanagloria.

mente la moltitudine dei nostri peccati, e ci scopriremo indegni delle lodi e degli onori che ci vengono tributati. 34. Certamente ci sono anche vanagloriosi che meritano di essere esauditi da Dio in alcune loro richieste: di solito, però, il Signore previene le loro preghiere e le loro suppliche, per evitare che essi, ricevendo ciò che chiedono per mezzo della preghiera, s’insuperbiscano ancora di più. 35. Non sono certo le persone più semplici le vittime ordinarie di questo veleno: la vanagloria infatti è rifiuto della semplicità e finzione continua nei propri comportamenti. 36. Spesso il verme, quando è cresciuto, mette le ali e vola in alto; così la vanagloria, quando è giunta a piena maturazione, genera la superbia, autrice e perfezionatrice di tutti i mali (cf. Eb 12,2). Gradino ventunesimo: chi non si è lasciato catturare da questa passione, non potrà mai cadere nella superbia, nemica di Dio e ribelle a ogni autorità15.

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Lett.: “Senza capo (aképhalos)”: cf. infra, XXII,28, n. 8.

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Discorso XXII SULLA SUPERBIA RIBELLE A OGNI AUTORITÀ

1. La superbia è rinnegamento di Dio, invenzione dei demoni1, disprezzo degli uomini, madre del giudizio del prossimo, figlia delle lodi, indizio di sterilità, ripudio dell’aiuto di Dio, precorritrice della follia, foriera di cadute, causa dell’epilessia, sorgente della collera, porta dell’ipocrisia, sostegno dei demoni, custode dei peccati, artefice di crudeltà, ignoranza della compassione, esattrice inflessibile, giudice crudele, avversaria di Dio, radice della bestemmia. 2. L’inizio della superbia è il culmine della vanagloria; il suo grado intermedio è il disprezzo del prossimo, la spudorata esibizione delle proprie fatiche, l’intimo compiacimento nelle lodi e l’odio dei rimproveri; il suo culmine è il rifiuto dell’aiuto di Dio e l’esaltazione dei propri sforzi, che è un comportamento diabolico. 3. Ascoltiamo attentamente, noi tutti che vogliamo evitare di cadere in questa fossa! Spesso questa passione si pasce dei ringraziamenti che rivolgiamo a Dio: non è così spudorata, infatti, da suggerirci di rinnegare Dio fin dall’inizio! 4. Ho visto qualcuno ringraziare Dio con la bocca, e vantarsi nell’intimo. E ne dà chiara testimonianza quel fa1 Il primo superbo fu Lucifero, l’angelo decaduto a causa della propria superbia e capo dei demoni.

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riseo che, dissimulando la propria superbia, disse: Dio, ti ringrazio! (Lc 18,11). 5. Ogniqualvolta si verifica una caduta, vuol dire che la superbia aveva già piantato la sua tenda, poiché l’una è indizio dell’altra. 6. “Supponi che le infami passioni (cf. Rm 1,26) siano dodici – ho sentito dire da un uomo degno di rispetto –: se ne ami volontariamente anche una sola, intendo dire la presunzione, quella occuperà il posto delle altre undici!”2. 7. Il monaco superbo contraddice con aggressività; l’umile invece non sa neanche guardare in faccia. Un cipresso non si piega per far crescere i suoi rami a terra; né il monaco dal cuore superbo si piega ad acquistare l’obbedienza. 8. L’uomo dal cuore superbo brama di comandare: non c’è altro modo infatti in cui possa – o piuttosto voglia – perdere completamente se stesso. 9. Il Signore resiste ai superbi (Pr 3,34; cf. Gc 4,6; 1Pt 5,5): chi dunque può avere pietà di loro? Ogni uomo dal cuore superbo è impuro agli occhi del Signore (Pr 16,5): chi dunque potrà renderlo di nuovo puro? 10. La caduta corregge i superbi; il demonio li stimola; il delirio della mente procura loro l’abbandono da parte di Dio. Dai primi due mali, gli uomini riescono spesso a guarire grazie all’aiuto di altri uomini; ma l’ultimo è umanamente inguaribile. 11. Chi rifiuta i rimproveri, rivela la sua passione; chi li accoglie, è già libero dai suoi vincoli. 12. Se a causa di questa sola passione, senza il concorso di altre, qualcuno è caduto dal cielo, bisogna chiedersi se non sia possibile salire al cielo con la sola umiltà, anche senz’altre virtù.

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Cf. Marco il Monaco, La legge spirituale 136.

13. La superbia è sperpero di ricchezza e di sudori. Hanno gridato, e non c’era chi li salvava: certamente perché hanno gridato con superbia! Hanno gridato al Signore e non ha dato loro ascolto (Sal 17,42): certamente perché non avevano eliminato le cause dei peccati da cui pregavano di essere liberati! 14. Un giorno, un anziano dotato di profondo discernimento richiamò con un consiglio spirituale un fratello che si dimostrava superbo, ma quello, nel suo accecamento, gli disse: “Perdonami, padre, ma io non sono superbo!”. E quell’anziano ripieno di sapienza gli rispose: “Quale dimostrazione più chiara della tua passione potresti darmi, figlio, del tuo dire: ‘Non sono superbo!’?”. Per simili individui sono fondamentali la sottomissione, una disciplina più rude e umiliante, e la lettura degli esempi di virtù soprannaturali dei padri; e anche così, forse, sarà piccola la speranza di salvezza per questi malati. 15. È una vergogna farsi belli di un ornamento prezioso che non ci appartiene, ma è somma follia vantarsi dei doni ricevuti da Dio. Vantati soltanto – semmai – del bene che hai fatto prima di nascere, perché quello che hai fatto dopo la tua nascita, è un dono di Dio, come la nascita stessa! 16. Soltanto le virtù che hai conseguito senza l’aiuto della mente ti appartengono, perché la mente te l’ha donata Dio. Soltanto le vittorie che hai riportato senza il corpo sono frutto dei tuoi sforzi, perché il corpo non è tuo, ma è opera di Dio3!

3 Ipotesi assurde volte solo a mettere in luce la totale dipendenza dell’uomo-creatura dal Dio creatore. Cf. Evagrio, Gli otto spiriti di malizia 18: “Non possiedi nulla che tu non abbia ricevuto da Dio; perché dunque la tua mente si offusca in ciò che è di un altro, come se fosse tuo? Perché ti fai bello della grazia di Dio, come di un tuo possesso? Riconosci il donatore, e non esaltarti oltre; sei creatura di Dio, non rifiutare il Creatore; hai ricevuto aiuto da Dio, non rinnegare il benefattore!”.

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17. Non ti sentire sicuro finché non hai ricevuto la sentenza, vedendo come quell’uomo, che pure era già stato ammesso alla festa nella sala delle nozze, fu legato mani e piedi e gettato fuori nelle tenebre (cf. Mt 22,13). 18. Non alzare troppo la testa, tu che sei fatto di terra: molti infatti furono precipitati dal cielo, pur essendo santi e incorporei! 19. Quando il demonio ha stabilito la sua dimora in coloro che compiono le sue opere, allora appare loro mentre dormono, o anche mentre sono svegli, nell’aspetto di un santo o di un martire, rivela loro qualche mistero e li gratifica di qualche carisma, affinché quegli sventurati, così ingannati, finiscano per perdere completamente la testa. 20. Se anche sopportassimo innumerevoli morti per Cristo, non avremmo ancora saldato il nostro debito, perché un conto è il sangue di Dio, altro conto il sangue dei suoi servi: quanto al valore, voglio dire, non alla sostanza4. 21. Non smettiamo mai di meditare e di esaminare le vite luminose dei padri che ci hanno preceduto, e allora scopriremo che non abbiamo fatto neanche un passo sulle orme della loro vita perfetta, né abbiamo custodito santamente la nostra professione, ma ci troviamo ancora nella condizione di chi vive nel mondo. 22. Ecco cos’è veramente un monaco: un occhio dell’anima5 che non si lascia mai distrarre6, e sensi del corpo 4 Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie sulla penitenza 9, PG 49,349-350: “Non sai che, se anche versi il tuo sangue per lui, neppure così hai saldato il debito? Un conto, infatti, è il sangue del Signore, altro conto il sangue dei suoi servi!”. 5 L’“occhio dell’anima”, o del cuore, è la mente (noûs). Per quest’espressione, cf. Pseudo-Macario, Omelie (Coll. II) 7,8: “Come gli occhi esteriori vedono da lontano i rovi, i dirupi, i fossi, così anche la mente, essendo più vigorosa, vede le arti della potenza avversa e le sue insidie e premunisce l’anima; infatti è come l’occhio dell’anima”. 6 In greco: ameteóriston, espressione tipicamente basiliana, coniata a partire da Lc 12,29: cf. Basilio di Cesarea,Veglia su di te, p. 30. Qui è possibile anche la traduzione “che non guarda in alto”, con un’eco di Sal 130,1: “I miei occhi non guardano in alto (oudé emeteorístesan)”.

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che rimangono immobili. Monaco è colui che incita i suoi nemici al combattimento come bestie feroci, e li provoca anche quando fuggono via da lui. Monaco è continuo rapimento in Dio, e tristezza per questa vita. Monaco è colui che è così naturalmente orientato alle virtù, come altri ai piaceri. Monaco è luce incessante nell’occhio del cuore. Monaco è un abisso di umiltà che ha sommerso e soffocato in sé ogni spirito cattivo. 23. La dimenticanza dei propri errori è frutto dell’orgoglio: il loro ricordo infatti procura l’umiltà. 24. La superbia è l’estrema povertà di un’anima che s’immagina di essere ricca e che nella sua tenebra si crede di avere la luce: questa maledetta non solo ci impedisce di far progressi, ma ci fa precipitare anche dalle vette che abbiamo raggiunto! 25. Il superbo è un melograno marcio di dentro, ma splendente di bellezza di fuori7. Il monaco superbo non ha bisogno del demonio: è già demonio e nemico a se stesso! 26. Le tenebre sono estranee alla luce; così il superbo è estraneo alla virtù. Nei cuori dei superbi nascono parole di bestemmia; nelle anime degli umili, contemplazioni celesti. Il ladro odia la luce del sole, il superbo disprezza chi è mite. 27. La maggior parte dei superbi – non so come – non conoscono se stessi, e mentre credono di aver raggiunto l’impassibilità, al momento del trapasso scoprono la propria povertà. Chi è preda della superbia, avrà bisogno del7 Cf. Giovanni Crisostomo, Sulla vanagloria 3: “Come è il frutto di Sodoma, tale è la vanagloria: quello ha uno splendido aspetto e a chi lo vede offre, all’apparenza, l’impressione dei frutti sani. Ma se prendi in mano una melagrana o una mela, cede subito sotto le dita, e la buccia che l’avvolge di fuori, disfattasi, le lascia cadere in polvere e in cenere. Qualcosa di simile è pure la vanagloria: alla vista sembra essere qualcosa di grande e ammirevole, ma presa nelle nostre mani fa subito cadere in cenere la nostra anima”.

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l’aiuto del Signore, perché per lui è vana la salvezza degli uomini (Sal 107,13)! 28. Un giorno ho sorpreso questa ingannatrice senza capo8 nel mio cuore, portata sulle spalle da sua madre9, e dopo averle catturate entrambe con il laccio dell’obbedienza, e frustate con la frusta della modestia, le costrinsi a dirmi in che modo fossero entrate in me. Ed esse, sotto i colpi della frusta, mi dissero: “Non abbiamo né origine, né nascita, perché tutte le passioni hanno origine e nascono da noi. La contrizione del cuore, che è frutto di sottomissione, ci fa guerra aperta. Non sopportiamo di essere comandate da nessuno, e perciò, dopo esserci impadronite del potere anche nei cieli, ce ne allontanammo. “Per dirla in breve, noi siamo le madri di tutte le passioni che si oppongono all’umiltà, mentre tutto ciò che la sostiene si oppone a noi. Ma se siamo diventate potenti perfino in cielo, tu dove pretendi di fuggire allontanandoti da noi? “Nelle umiliazioni spesso accompagnamo l’ubbidienza, la non-irascibilità, l’assenza di rancore e lo zelo nel servizio. I nostri figli sono i peccati degli uomini spirituali: l’ira, la maldicenza, l’irritazione, la collera, le grida, le bestemmie, l’ipocrisia, l’odio, l’invidia, l’indipendenza di vita, la contestazione, la disobbedienza. “C’è una sola cosa contro cui non possiamo far niente, e giacché continui a frustarci te la diciamo: se ti accusi sinceramente davanti al Signore, senza smettere mai, consideraci pure come una ragnatela. Infatti, come vedi, il ca-

vallo della superbia è la vanagloria; ed è proprio su di lei che sono salita. Ma la santa umiltà e l’accusa di se stessi si rideranno del cavallo e del cavaliere, cantando armoniosamente l’inno della vittoria: Cantiamo al Signore perché si è coperto di gloria: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare (Es 15,1), cioè nell’abisso dell’umiltà!”. Gradino ventiduesimo: chi vi è salito, è ormai forte, se veramente è riuscito a farlo.

8 Su quest’espressione, cf. Exegesis (pp. 344-345): “Chiama la superbia ‘ingannatrice senza capo’: ‘senza capo’ (aképhalos), perché essa attribuisce a se stessa le opere virtuose e non al capo di tutti che è Cristo, e ‘ingannatrice’, perché ci inganna e ci seduce con le sue vuote millanterie”. 9 La vanagloria.

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Discorso XXIII SUGLI INESPRIMIBILI PENSIERI DI BESTEMMIA

1. Abbiamo appena sentito come da una radice e da una madre funesta sorga una propaggine ancor più funesta: parlo cioè dell’indicibile bestemmia, figlia dell’infame superbia. È necessario, dunque, portare questa passione al centro del nostro discorso: non si tratta infatti di un nemico qualunque, ma del nemico e dell’avversario di gran lunga più terribile di tutti; e quel che è peggio, non è facile riuscire a esprimerlo a parole, a confessarlo, o a manifestarlo al medico spirituale1. Ed è proprio il motivo per cui spesso questo maledetto demonio ha portato molti allo sconforto e alla disperazione, dopo aver corroso, come un tarlo nel legno, tutta la loro speranza. 2. Questo infame demonio – sì proprio lui! – spesso, proprio durante le sante sinassi e nell’ora tremenda dei misteri, si compiace di bestemmiare il Signore e i santi misteri che vengono celebrati; e da questo possiamo capire assai chiaramente che non è la nostra anima a pronunciare dentro di noi quelle parole indecenti, empie e inconcepibili, ma il demonio nemico di Dio, che fu cacciato dal cielo proprio per avere anche là, a quanto pare, lanciato

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Cioè al padre spirituale.

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bestemmie contro il Signore. Se infatti quelle parole empie e sconvenienti fossero mie, come mai, allora, ricevo e venero il dono2? Come posso insultare e benedire allo stesso momento? 3. Questo ingannatore e corruttore delle anime ha spesso condotto molti alla follia. Nessun altro pensiero infatti è così difficile da confessare come questo, ed è il motivo per cui molto spesso invecchia insieme alle persone. D’altra parte, niente dà tanta forza contro di noi ai demoni e ai pensieri cattivi quanto il fatto di nutrirli e di nasconderli nel cuore senza confessarli. 4. Nessuno si ritenga responsabile dei pensieri di bestemmia: il Signore, del resto, è un conoscitore dei cuori (cf. At 1,24; 15,8) e sa bene che tali parole e pensieri non sono nostri ma dei nostri nemici3. 5. L’ubriachezza provoca le cadute; e la superbia, i pensieri sconvenienti. Colui che cade, non è colpevole per il fatto di essere caduto, ma certamente sarà punito per essersi ubriacato. 6. Quando ci mettiamo a pregare quei pensieri impuri e indecenti insorgono contro di noi, ma appena abbiamo terminato la preghiera, subito si ritirano, perché non sono abituati a combattere contro chi non combatte contro di loro. 2

Le specie eucaristiche. Cf. Evagrio Pontico, Trattato pratico 46: “Il demonio che induce la mente a una bestemmia contro Dio e a quelle immaginazioni proibite che io non oso nemmeno affidare allo scritto, non ci imbrogli né ci faccia perdere la nostra buona volontà. Infatti il Signore è un ‘conoscitore dei cuori’ e sa che noi, anche quando eravamo nel mondo, non ci siamo mai abbandonati a una tale follia”. Per l’attributo divino “conoscitore dei cuori” (kardiognóstes), cf. la spiegazione di Evagrio Pontico, Scolii ai Salmi, PG 12,1305C: “Colui che è stato l’unico a plasmare, è anche l’unico a conoscere: perciò solo Dio è chiamato a buon diritto ‘conoscitore dei cuori’”; cf. anche Id., Scolii ai Proverbi 68; 76; 144; Id., I pensieri malvagi 37; Pseudo-Macario, Omelie (Coll. II) 16,6; Marco il Monaco, Su chi si crede giustificato per le opere 15. 3

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7. Quell’empio non solo bestemmia Dio e tutte le cose divine, ma pronuncia nella nostra mente le parole più turpi e indecenti per farci abbandonare la preghiera, o almeno cedere alla disperazione. Molti sono coloro che ha strappato alla preghiera, e molti coloro che ha allontanato dai misteri4! Questo tiranno crudele e disumano ha logorato i corpi di alcuni con la tristezza, e altri li ha fiaccati con il digiuno, senza dar loro il minimo sollievo; ed è riuscito ad ottenere questo risultato non solo con i secolari ma anche con quelli che conducevano vita monastica, suggerendo loro che non avevano più speranza di salvezza, convincendoli anzi che erano più degni di compassione e più sventurati di tutti gli infedeli e i pagani. 8. Colui che è tormentato dallo spirito di bestemmia e vuole liberarsene, riconosca chiaramente che la causa di tali pensieri non è la sua anima ma il demonio impuro che una volta disse al Signore: Ti darò tutte queste cose se, prostrato, mi adorerai (Mt 4,9)! Perciò anche noi disprezziamolo e non teniamo in alcun conto le sue parole, e diciamo: “Vattene Satana! Adorerò il Signore mio Dio, a lui solo renderò culto (cf. Mt 4,10)! La tua fatica e le tue parole ricadranno sulla tua testa, e sul tuo capo scenderà la tua bestemmia, in questo secolo e in quello futuro (cf. Sal 7,17)! Amen”. 9. Chi vuole lottare contro il demonio della bestemmia in modo diverso da come si è appena detto, somiglia a chi pretende di afferrare un fulmine con le mani. Come potrebbe, infatti, afferrare questo demonio, contraddirlo, o

4 Cf. Evagrio Pontico, Trattato pratico 46: “L’obiettivo di questo demonio è quello di distoglierci dalla preghiera, in modo che non stiamo più davanti al Signore, né osiamo tendere le mani verso colui contro il quale abbiamo avuto in mente tali cose”.

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lottare contro di lui, se costui piomba nel cuore all’improvviso come un vento, pronuncia le sue parole più rapidamente di un lampo, e poi subito scompare? 10. Tutti gli altri nemici, infatti, si fermano, lottano e si attardano un po’, dando del tempo a colui che lotta contro di loro; questo invece no, ma appena è apparso si ritira, e appena ha pronunciato le sue parole si dilegua. 11. Questo demonio ha spesso l’abitudine di frequentare le menti delle persone più semplici e ingenue, che assai più delle altre si agitano e si turbano: riguardo a loro bisogna affermare che tutto ciò che subiscono non è certo frutto del loro orgoglio ma dell’invidia dei demoni. 12. Smettiamo di giudicare e di condannare il prossimo, e non dovremo più temere i pensieri di bestemmia: la causa e la radice di tali pensieri, infatti, è proprio questa. 13. Come chi è chiuso in casa sente i discorsi di tutti quelli che passano all’esterno, senza intrattenersi a parlare con loro, così l’anima raccolta in se stessa è turbata dal semplice ascolto delle bestemmie che il demonio pronuncia passando attraverso di lei. 14. Chi disprezza questo demonio è liberato da questa passione, ma chi cerca di lottare contro di lui in altro modo, finirà per soccombere. Chi infatti vuole catturare gli spiriti con le parole, somiglia a chi pretende di mettere i venti sotto chiave! Un monaco zelante che fu tormentato da questo demonio per ben vent’anni, macerò la sua carne con digiuni e veglie, ma accortosi poi di non ricavarne alcun giovamento, scrisse la sua passione su un foglio di papiro, andò da un sant’uomo e glielo consegnò, prostrandosi con la faccia a terra, senza avere la forza di levare gli occhi verso di lui. Dopo aver letto, l’anziano sorrise, e facendo rialzare il fratello, gli disse: “Figlio, metti la tua mano sul mio collo”. E appena il fratello ebbe fatto ciò, quel gran324

de anziano gli disse: “Questo peccato sia sul mio collo, fratello, per tutti gli anni che ti ha tormentato e ancora ti tormenterà; tu cerca soltanto di non dartene più pensiero!”5. E questo fratello assicurò poi che, ancor prima di aver lasciato la cella dell’anziano, la sua passione era già scomparsa. Fu proprio lui, che aveva subito tale prova, a raccontarmela, rendendone grazie a Dio. Chi ha riportato la vittoria su questa passione, ha scacciato la superbia!

5 Sulla paternità spirituale come assunzione di responsabilità, che implica il farsi carico dei peccati del prossimo, cf. infra, DP 57 e supra, “Introduzione”, pp. 42-43.

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Discorso XXIV SULLA MITEZZA, LA SEMPLICITÀ E L’INNOCENZA, NON NATURALI MA ACQUISITE, E SULLA MALIGNITÀ

1. La luce dell’aurora precede il sole; così la via della mitezza precede ogni forma di umiltà. Ascoltiamo dunque come la Luce stessa1 le collochi proprio in quest’ordine: Imparate da me – dice infatti – che sono mite e umile di cuore (cf. Mt 11,29). È giusto, dunque, essere illuminati dalla luce dell’aurora2 prima che spunti il sole3, così da poterlo fissare poi in modo chiaro e distinto. Non è possibile, infatti, non è proprio possibile contemplare il sole, se prima non si è conosciuto la luce, come insegna l’ordine reale di queste cose. 2. La mitezza è una condizione stabile della mente che rimane sempre uguale a se stessa sia negli onori che nelle umiliazioni. La mitezza significa pregare sinceramente per il prossimo quando si subiscono molestie da parte sua, senza esserne minimamente turbati. La mitezza è una roccia che emerge sul mare della collera, che dissolve tutte le onde che le si abbattono contro, senza mai esserne scossa. 1 2 3

Cioè Cristo: cf. Gv 1,9; 8,12. Cioè dalla mitezza. Cioè l’umiltà.

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La mitezza è sostegno della pazienza, porta, anzi madre della carità, presupposto del discernimento, poiché sta scritto: Il Signore insegnerà ai miti le sue vie (Sal 24,9b); procura il perdono dei peccati, è franchezza nella preghiera, e dimora dello Spirito santo, poiché sta scritto: Su chi poserò il mio sguardo, se non sui miti e sui pacifici? (Is 66,2). La mitezza è collaboratrice dell’obbedienza, guida dell’amore fraterno, freno degli impulsivi, ostacolo dei collerici, dispensatrice di gioia, imitazione di Cristo, virtù propria degli angeli, catena dei demoni, scudo contro l’amarezza. 3. Nel cuore dei miti riposerà il Signore4, ma l’anima turbolenta è sede del diavolo. I miti erediteranno la terra (Sal 36,11; Mt 5,5), anzi domineranno su di essa, ma gli uomini violenti saranno espulsi dalla loro terra. 4. L’anima mite è trono della semplicità, ma la mente incline all’ira è artefice di malignità. L’anima mansueta sarà capace di accogliere le parole della sapienza, perché il Signore guiderà i miti nel giudizio (Sal 24,9a), anzi nel discernimento5. L’anima retta è compagna dell’umiltà, ma l’anima maligna è serva della superbia. Le anime dei miti saranno riempite di scienza, ma la mente rabbiosa dimora nelle tenebre e nell’ignoranza. 5. Un iracondo e un dissimulatore s’incontrarono, e nella loro conversazione non si poté trovare una sola parola schietta! Se apri il cuore del primo, vi troverai la follia, e se scruti l’anima del secondo, vi scoprirai la malignità. 6. La semplicità è la condizione abituale di un’anima priva di artifici, che non si lascia trascinare a concepire il

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Cf. Evagrio Pontico, Ai monaci 31: “In un cuore mite riposerà la sapienza”. 5 Gioco di parole in greco tra “giudizio” (krísis) e “discernimento” (diákrisis).

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male. L’innocenza è la serena disposizione di un’anima aliena da ogni doppiezza di pensiero6. 7. La prima caratteristica propria dell’età infantile è una semplicità priva di artifici: finché Adamo la conservò, non vide la nudità della propria anima, né la vergogna della propria carne (cf. Gen 3,7). 8. Buona e beata è la semplicità che alcuni hanno per natura, ma non quanto quella che è stata innestata su un’indole malvagia a forza di fatiche e sudori. Se la prima infatti è al sicuro da un gran numero di artifici e di passioni, la seconda è in grado di procurarci la più sublime umiltà e mitezza. La ricompensa dell’una non è molto grande, ma quella dell’altra è più che infinita! 9. Tutti noi che vogliamo attirare a noi il Signore, accostiamoci a lui con semplicità, senza finzioni, né malizia, né artifici, ma con la schiettezza con cui ci si avvicina a un maestro per riceverne gli insegnamenti. Infatti, essendo egli semplice e senza molteplicità, vuole che le anime che si accostano a lui siano semplici e innocenti. Del resto è impossibile vedere la semplicità separata dall’umiltà. Il maligno è un falso indovino che s’immagina di poter cogliere i pensieri di qualcuno dalle sue parole, e i sentimenti del cuore dagli atteggiamenti esterni. 10. Ho visto retti di cuore imparare la malignità dai maligni, e mi sono meravigliato di come potessero perdere la loro indole naturale e il loro pregio così facilmente. 11. Quanto è facile per i retti di cuore mutare la propria natura, tanto è difficile per i maligni riuscire a ottenere la trasformazione opposta. Ma l’autentica estraneità, la sottomissione e la custodia delle labbra spesso hanno 6 A partire da questo punto del testo fino alla fine del Discorso XXIV, l’ordine dei paragrafi varia sensibilmente tra i vari manoscritti e tra le edizioni di Rader e di Sophronios, che qui continuiamo a seguire.

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ottenuto grandi risultati e guarito prodigiosamente mali incurabili. 12. Se la scienza per lo più gonfia (cf. 1Cor 8,1), guarda se l’ignoranza e la mancanza d’istruzione non possano al contrario renderci umili. Ci sono alcuni però, anche se pochi, che si vantano della loro ignoranza. 13. Chiaro esempio e modello di beata semplicità è stato per noi il tre volte beato Paolo il Semplice7. Nessuno infatti ha mai visto o sentito, né potrà mai vedere, un simile progresso compiuto in così poco tempo. 14. Il monaco semplice è un animale privo di ragione, ma ragionevole8, che obbedisce e depone il proprio fardello sulle spalle di colui che lo conduce. Un animale non si oppone al padrone che lo lega, né un’anima retta al superiore: lo segue dovunque voglia trascinarlo, e anche se la conduce al sacrificio, non è in grado di contraddirlo. 15. Priva di malignità è l’anima che si trova nella sua purezza naturale e si comporta con tutti in modo conforme alla natura nella quale è stata creata9. 16. Rettitudine è un pensiero non complicato, un carattere genuino e un linguaggio senza finzione né ricercatezza. Dio, come è chiamato “Carità” (Cf. 1Gv 4,8.16), così è chia7 Padre del deserto egiziano, discepolo di Antonio il Grande, rimasto celebre per la sua obbedienza e la sua estrema semplicità, che gli meritò il soprannome di “semplice”. Varie fonti parlano di lui: Palladio, Storia lausiaca 22,113; Storia dei monaci in Egitto 24,1-8; Sozomeno, Storia della chiesa I,13,1-13; Apoftegmi, Paolo il Semplice 1. 8 Gioco di parole ossimorico tra álogon (“bestia, animale privo di ragione”) e loghikón (“ragionevole”), tipico dello stile di Climaco; ne chiarisce il senso l’Exegesis (p. 361): “Il monaco è ‘un animale privo di ragione’ perché non ha più la volontà propria; sta scritto infatti: Di fronte a te ero come un animale, e io sarò sempre con te (Sal 72,23-24). È però ‘ragionevole’ perché ha scelto liberamente di diventare questo ‘animale privo di ragione’, depone volontariamente la volontà propria e si rende pronto all’ubbidienza”. 9 Sul concetto di “natura”, qui usato in senso pregnante, cf. infra, “Glossario”, s.v. “Natura”.

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mato anche “Rettitudine”, ed è per questo che il saggio10, nel Cantico dei cantici, rivolgendosi al cuore puro dice: La Rettitudine ti ha amato (Ct 1,4); e, ancora, il padre di quel saggio11 dice: Buono e retto è il Signore (Sal 24,8); e afferma che chi condivide il suo nome è salvato; dice infatti: Dio salva i retti di cuore (Sal 7,11), e ancora: Il suo volto ha visto e osservato la rettitudine delle anime (cf. Sal 10,7). 17. Malignità è: perversione della rettitudine, pensiero tortuoso, falsa indulgenza, giuramenti non mantenuti, discorsi complicati, cuore impenetrabile, abisso di inganno, menzogna diventata abitudine, presunzione ormai naturale, avversione dell’umiltà, simulazione della penitenza, abbandono dell’afflizione, odio della confessione, condotta secondo il proprio giudizio, occasione di cadute, rifiuto di rialzarsi da esse, sorriso davanti alle offese, tristezza simulata, finta pietà, vita diabolica. 18. Il maligno è compagno e sinonimo del diavolo. Per questo il Signore ci ha insegnato a chiamare il diavolo così, dicendo: Liberaci dal Maligno! (Mt 6,13). 19. La malignità è una scienza – o meglio un’indecenza – diabolica, completamente priva di verità, che crede di restare nascosta ai più. 20. L’ipocrisia è una contraddizione tra l’atteggiamento del corpo e quello dell’anima, che si associa a ogni genere di doppiezza di pensiero. 21. Fuggiamo lontano dal precipizio dell’ipocrisia e dalla fossa della falsità, ascoltando colui che dice: I maligni saranno annientati (Sal 36,9), come fieno in fretta saranno seccati e come l’erba presto appassiranno (Sal 36,2)! Questi tali infatti sono pascolo dei demoni. 10

Salomone, a cui la tradizione attribuisce i libri sapienziali. David, padre di Salomone e, secondo la tradizione, autore dell’intero Salterio. 11

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22. Difficilmente i ricchi potranno entrare nel Regno (cf. Mt 19,23), e i sapienti, in realtà insipienti12, potranno accedere alla semplicità. 23. Spesso una caduta ha fatto rinsavire i furbi, accordando loro la grazia – da essi non ricercata – dell’innocenza e della salvezza. 24. Lotta per confondere la tua propria sapienza, e così facendo troverai la salvezza in Cristo Gesù Signore nostro. Amen.

Discorso XXV SULLA SUBLIME UMILTÀ, DISTRUTTRICE DELLE PASSIONI, CHE SI RADICA IN UN SENTIMENTO INTERIORE

Chi ha raggiunto questo gradino, si faccia coraggio: ha imitato il Cristo, suo Maestro, ed è ormai salvo. 1. Chi, per mezzo di parole materiali, vuole descrivere in modo preciso il sentimento e l’effetto1 dell’amore del Signore in noi, in modo adeguato quelli della santa umiltà, in modo veridico quelli della beata purezza, in modo chiaro quelli dell’illuminazione di Dio, in modo autentico quelli del suo timore e in modo infallibile quelli dell’intima certezza del cuore, e presume poi, attraverso la spiegazione di tali cose, di poter illuminare coloro che non le hanno mai gustate, si comporta in modo simile a chi, per mezzo di parole ed esempi, vuole spiegare la dolcezza del miele a chi non l’ha mai assaggiato2. Se il secondo, però, disquisisce invano – per non dire che parla a vanvera –, il primo, o non ha alcuna esperienza delle cose che descrive, oppure è stato decisamente ingannato dalla propria vanagloria.

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Cioè sapienti secondo il mondo e insipienti secondo Dio.

1 In greco: enérgheia. Sul significato di questo termine in Climaco cf. infra, “Glossario”, s.v. “Energia”. 2 Cf. Basilio di Cesarea, Omelie sui Salmi, PG 29,364D: “Come la natura del miele non la si può spiegare a parole a chi non l’ha mai provata così efficacemente come con la sensazione del gusto, così anche la bontà della Parola celeste non può essere trasmessa in modo persuasivo attraverso insegnamenti se, dopo aver esaminato a lungo i dogmi della verità, non siamo capaci di gustare la bontà del Signore attraverso la nostra personale esperienza”. Cf. Id., Omelia di esortazione al battesimo, PG 31,425D.

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2. Questo discorso pone davanti a noi, perché possiamo apprezzarne il valore, un tesoro custodito in vasi di creta (cf. 2Cor 4,7), ovvero nei nostri corpi: tesoro la cui essenza rimane inconoscibile per mezzo di parole3. Il titolo che reca in testa, già da solo, è incomprensibile e offrirebbe abbondante, anzi immensa, materia di indagine e di fatica a coloro che volessero spiegarlo a parole. Il titolo è questo: “La santa umiltà”. 3. Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio (Rm 7,14) si uniscano a noi in questo sinedrio spirituale colmo di sapienza, portando nelle loro mani spirituali le tavole della conoscenza scritte da Dio (cf. Es 31,18)! Ci siamo riuniti4, abbiamo discusso insieme, e abbiamo esaminato il valore di questo venerabile titolo. Uno disse: “Significa dimenticare accuratamente le proprie opere buone!”; un altro: “Significa considerarsi l’ultimo e il più peccatore di tutti!”; un altro: “Significa riconoscere nell’intimo la propria impotenza e debolezza!”; un altro: “Significa prevenire il prossimo nelle occasioni di litigio, mettendo fine per primi alla propria collera!”; un altro: “Significa riconoscere la grazia e la misericordia di Dio!”; e un altro infine: “È il sentimento di un’anima contrita e il rinnegamento della volontà propria!”. Io però, dopo aver ascoltato tutti questi pareri e averli esaminati dentro di me scrupolosamente e con attenzione, non sono riuscito, attraverso queste parole, a comprendere il beato sentimento dell’umiltà; perciò, pur es3 Sul carattere ineffabile dell’umiltà, cf. anche Doroteo di Gaza, Insegnamenti II,37: “Nessuno può dire come sia l’umiltà o come nasca nell’anima; come ho ripetuto spesso, non è possibile comprenderla con un ragionamento, se non abbiamo meritato di comprenderla con le nostre opere … L’umiltà è divina e sfugge a ogni comprensione”. 4 L’assemblea di sapienti che si riuniscono a discutere sul valore dell’umiltà è solo una finzione letteraria attraverso la quale l’autore elenca le varie definizioni dell’umiltà proposte dai padri.

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sendo l’ultimo di tutti, raccogliendo come un cane le molliche che cadevano dalla tavola dei quei padri beati e sapienti (cf. Mt 15,27), formulai la seguente definizione. L’umiltà è una grazia che si riceve nell’anima e di cui nessuno conosce il nome se non coloro che ne hanno fatto esperienza; è una ricchezza indicibile; è il nome stesso di Dio e un suo dono: Imparate da me – dice infatti –, non da un angelo, né da un uomo, né da un libro, ma da me, cioè dalla mia inabitazione, dalla mia illuminazione e dalla mia energia presenti dentro di voi, poiché sono mite e umile di cuore, di pensiero e di spirito, e troverete ristoro dalle lotte e sollievo dai pensieri, per le vostre anime (cf. Mt 11,29). 4. Diverso è l’aspetto di questa santa vigna5 in inverno, quando ci sono ancora le passioni, diverso in primavera, quando ormai spuntano i frutti, e diverso in estate, quando si raccolgono le virtù, sebbene tutte queste fasi contribuiscano all’unica gioia della raccolta dei frutti: dunque, in un certo modo, ciascuna di esse porta in sé dei segni e dei presagi dei frutti venturi. 5. Infatti, appena iniziano a spuntare in noi i grappoli della santa umiltà, subito, anche se a fatica, cominciamo a odiare ogni gloria e buona reputazione che viene dagli uomini, scacciando dal nostro intimo la collera e l’irascibilità. Poi, man mano che questa regina delle virtù cresce spiritualmente nell’anima, stimiamo come un nulla, anzi come un abominio, tutte le buone opere da noi compiute, convinti come siamo di aggiungere ogni giorno un peso al fardello dei nostri peccati dissipando senza saperlo i nostri tesori; quanto all’abbondanza dei carismi divini che ci sono stati dispensati, sospettiamo che, a causa della nostra indegnità, divenga motivo di un castigo più grave. Ed è 5 Cioè l’umiltà. Cf. Exegesis (p. 366): “Chiama ‘vigna’ la santa umiltà, perché essa fa sgorgare in abbondanza il vino della compunzione (cf. Sal 59,5)”.

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così che la nostra mente rimane inviolabile, al sicuro nello scrigno della modestia, e pur udendo i colpi e le parole insolenti dei ladri6, non può ricevere danno da nessuno di loro, perché la modestia è un rifugio inaccessibile! 6. Fino a qui, ci siamo arrischiati a parlare brevemente della fioritura e della rapida crescita di questo frutto sempreverde. Ma qual’è il frutto maturo della santa umiltà? Voi che siete familiari del Signore, chiedetelo a lui! È impossibile parlare della grandezza di questa santa virtù, e ancora più impossibile chiarirne le qualità. Noi, dunque, cercheremo di parlare delle sue proprietà secondo l’idea che ce ne siamo fatti. 7. La penitenza scrupolosa, l’afflizione che purifica da ogni macchia e la santissima umiltà dei principianti sono così diverse e distinte tra di loro quanto il lievito e la farina lo sono dal pane. L’anima infatti prima è ridotta in frantumi7 e macinata per mezzo di un’autentica penitenza; poi è unita e, per così dire, impastata con Dio per mezzo dell’acqua di una sincera afflizione; quindi, infiammata dal fuoco del Signore8, si trasforma in pane, e così prende consistenza in lei la beata umiltà, che è priva del lievito dell’orgoglio (cf. Mt 16,6). Perciò, questa santissima e triplice catena9, o meglio arcobaleno, concorrendo a un’unica forza e a un unico effetto, mantiene in qualche modo i caratteri propri di ciascuna delle sue parti, e ciò che diresti segno dell’una, scopri che diventa elemento distintivo anche dell’altra. Tenterò di confermare ciò che ho detto con una breve dimostrazione. 6

Gli spiriti maligni. In greco: syntríbetai. Il verbo, qui tradotto in senso concreto, indica in senso traslato il raggiungimento della contrizione (syntrimmós). Cf. infra, §, 37 e “Glossario”, s.v. “Contrizione”. 8 Cioè dal fuoco dell’amore di Dio. 9 Formata cioè da penitenza, afflizione e umiltà. 7

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8. La prima e principale proprietà di questa bella e ammirevole trinità è il consenso dato con gioia alle umiliazioni, ricevute e accolte dall’anima a braccia aperte, come un rimedio in grado di placare e di estinguere le sue malattie e i suoi gravi peccati. La seconda proprietà è l’estinzione di ogni moto di collera, e la modestia che l’accompagna. Il terzo grado, che è il più alto, consiste nella serena sfiducia10 nelle proprie opere buone e nel continuo desiderio di imparare. 9. Termine della legge e dei profeti è Cristo, per la giustificazione di chiunque crede (Rm 10,4); termine delle passioni impure sono la vanagloria e la superbia, per chiunque non fa attenzione: ma questa cerva spirituale che è l’umiltà le estingue, custodendo chi vive con lei al sicuro da ogni veleno mortifero11. Come potrebbe manifestarsi in lei, infatti, il veleno dell’ipocrisia, o quello della maldicenza? E come potrebbe insinuarsi di nascosto in lei un serpente? Non sarà piuttosto bandito dalla terra del cuore, ucciso e divorato? In chi si è legato a lei, non ci può essere né manifestazione di odio, né ombra di contestazione, né traccia di disobbedienza, a meno che non si tratti di questione di fede. 10. Chi ha sposato l’umiltà, è dolce, affabile, facilmente incline alla compunzione, compassionevole verso tutti, calmo, radioso, docile, superiore al dolore, vigile, solleci10 Lett.: “Fiduciosa sfiducia (apistía pisté)”: una sfiducia cioè sostenuta e generata dalla fiducia in Dio. 11 Era opinione diffusa nell’antichità che i cervi divorassero i serpenti e succhiassero il loro veleno riuscendo a neutralizzarlo: cf. Basilio di Cesarea, Omelie sui salmi, PG 29,300A; Apoftegmi, Poemen 30: “Come i cervi nel deserto divorano molti rettili e, quando il veleno li brucia, bramano di venire alle acque e, dopo aver bevuto, trovano sollievo dal veleno dei rettili, così anche i monaci che vivono nel deserto sono arsi dal veleno dei demoni malvagi e bramano il sabato e la domenica per venire alle fonti delle acque, cioè al corpo e sangue del Signore, per essere purificati dall’amarezza del maligno”; cf. anche infra, XXVI/3,5; XXX,8.

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to, e – per non dilungarmi oltre – impassibile, se è vero che: Nella nostra umiltà il Signore si è ricordato di noi e ci ha liberato dai nostri nemici (Sal 135,23-24), ovvero dalle nostre passioni e dalle nostre impurità. 11. Il monaco umile non cerca di conoscere i segreti ineffabili, mentre il superbo vuole scrutare i giudizi di Dio (cf. Rm 11,33). 12. Un giorno i demoni apparvero in forma visibile a un fratello tra i più dotati di conoscenza, e si misero a coprirlo di lodi; ma quell’uomo colmo di sapienza disse loro: “Se smettete di lodarmi attraverso i pensieri che suscitate nell’anima, dalla vostra partenza io concluderò di essere diventato grande; ma se non smettete di lodarmi, dalla vostre lodi non potrò che dedurre la mia impurità, perché: Ogni uomo dal cuore superbo è impuro agli occhi del Signore (Pr 16,5). Dunque, o vi ritirate, e allora diventerò grande, o lodatemi, e grazie a voi acquisterò un’umiltà più grande!”. E quelli, colpiti da queste parole imbarazzanti, si dileguarono immediatamente. 13. La tua anima non sia come una cisterna per questa corrente d’acqua vivificante: ora colma fino all’orlo, ora di nuovo prosciugata dall’ardore della vanagloria e dell’orgoglio, ma sia piuttosto una fonte pura da ogni genere di passione, da cui sgorghi incessantemente il fiume della povertà12. Sappi, amico caro, che le valli hanno grano in abbondanza (Sal 64,14), ovvero sono ricolme di frutto spirituale: la valle è l’anima che si umilia tra i monti – ovvero tra le virtù spirituali – e che rimane sempre immobile, senza gonfiarsi di superbia. 14. Non sta scritto: “Ho digiunato”, né: “Ho vegliato”, né: “Ho dormito per terra”, ma: Mi sono umiliato, e subi-

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Cioè della povertà di spirito (ptocheía): cf. Mt 5,3; Lc 6,20.

to il Signore mi ha salvato (Sal 114,6). La penitenza ci fa rialzare, l’afflizione bussa alle porte del cielo, e la santa umiltà ce le apre: io confesso e venero la trinità nell’unità, e l’unità nella trinità13! 15. Il sole illumina tutto ciò che si vede; così l’umiltà dà consistenza a tutti gli atti compiuti secondo ragione. Quando manca la luce, tutto diventa oscuro; quando manca l’umiltà, tutto ciò che possediamo è senza valore. 16. In tutta la creazione, un unico luogo ha visto il sole una sola volta; e un unico pensiero ha generato più volte l’umiltà. In un solo e unico giorno il mondo intero ha esultato di gioia; e questa virtù è l’unica che i demoni non possano imitare14. 17. Una cosa è esaltarsi, altra cosa non esaltarsi, e altra cosa ancora umiliarsi: il primo giudica gli altri ogni giorno, il secondo non giudica, ma non condanna neanche se stesso; il terzo, pur essendo innocente, non cessa mai di condannare se stesso. 18. Una cosa è essere umili, altra cosa è sforzarsi di essere umili, e altra cosa ancora è lodare chi è umile. La prima 13 L’autore fa eco qui a una formula di fede trinitaria (cf. ad esempio Gregorio di Nazianzo, Orazioni 25,17, SC 284), come spiega l’Exegesis (p. 372): “Come la divinità è in tre ipostasi, ma è riconosciuta come una sola natura, ed è unità e trinità insieme, così è per la penitenza, l’afflizione e l’umiltà: anche se sembrano essere tre, sono una cosa sola. Esse infatti sono affini tra di loro, tenute insieme e riunite dalla grazia divina, che le congiunge l’una all’altra”. 14 Cf. Schol. 10, PG 88,1005B, che riferisce le seguenti interpretazioni di questo passo enigmatico: “L’unico luogo è il fondale del mar Rosso, al momento del passaggio d’Israele (cf. Es 14,21-22); e il giorno della gioia del mondo intero non è altro che il giorno della risurrezione del Signore e Salvatore nostro, nel quale il genere umano fu liberato dalle catene eterne della morte. Secondo alcuni, però, si tratta del giorno della natività, nel quale si udì la voce degli angeli: Gloria nel più alto dei cieli (Lc 2,14); secondo altri, poi, del giorno in cui Noè uscì dall’arca insieme ai suoi familiari (Cf. Gen 8,14-9,17)”. Le stesse interpretazioni sono riferite in Exegesis (p. 372), che aggiunge che “il solo pensiero che ha generato più volte l’umiltà” è il ricordo della morte e dei castighi. Sull’umiltà come unica virtù che i demoni non riescono ad imitare, cf. Apoftegmi, Macario 11; Teodora 6.

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cosa è propria dei perfetti, la seconda di chi vive in modo autentico nella sottomissione, la terza di tutti i fedeli. 19. Chi ha raggiunto l’umiltà nel proprio intimo, non rischia di essere tradito dalle proprie labbra15, perché la porta non può lasciare uscire ciò che il tesoro non contiene (cf. Mt 12,34-35). 20. Quando un cavallo è solo, spesso è convinto di correre, ma se è insieme al branco, allora si rende conto della propria lentezza. 21. Quando il nostro pensiero cessa di vantarsi dei propri doni naturali, questo è il segno dell’inizio della sua guarigione; ma finché sente quel fetore16, non può sentire il soave odore del profumo17. 22. “Chi si è innamorato di me – dice la santa umiltà – non riprenderà, non condannerà, non comanderà, e non farà mostra di sapienza, finché non si sia unito a me18; dopo l’unione, infatti, per lui non c’è più alcuna legge (1Tm 1,9)”19. 23. Un giorno i demoni maligni seminarono le lodi nel cuore di un uomo che lottava con impegno per conquistare questa virtù beata, ma quello, su divina ispirazione, s’ingegnò di vincere la malignità di quegli spiriti con un pio inganno: alzatosi in piedi scrisse ordinatamente sulla parete della sua cella i nomi delle virtù più sublimi – voglio dire la carità perfetta, l’umiltà angelica, la preghiera pura, la purezza incorruttibile, e le altre virtù simili a 15 Cioè non rischia di perdere le sue ricchezze spirituali a causa delle proprie parole superbe. 16 Cioè la superbia. 17 Cioè l’umiltà. 18 Cf. Abba Isaia, Discorsi ascetici 8,7: “L’umiltà non ha lingua per dire di qualcuno che è negligente o di un altro che è superbo; non ha occhi per guardare i difetti degli altri, né orecchi per ascoltare cose che nuocciono all’anima; non ha a che fare con nessuno se non con i propri peccati”. 19 L’umile non ha più bisogno di alcuna legge esterna perché l’umiltà fa ormai parte della sua natura.

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queste –; poi, quando i pensieri cattivi cominciavano a lodarlo, egli diceva loro: “Andiamo in giudizio!”, e subito andava a leggere i nomi e gridava a se stesso: “Quando avrai acquistato tutte queste virtù, allora dovrai riconoscere che sei ancora lontano da Dio!”. 24. Non siamo in grado di dire quale sia la potenza e l’essenza di questo sole, ma possiamo comprendere la sua essenza a partire dai suoi effetti e dalle sue proprietà20. 25. L’umiltà è un velo divino che ci copre impedendoci di vedere le nostre opere buone. L’umiltà è abisso del disprezzo di sé, inaccessibile a qualsiasi ladro. L’umiltà è una torre fortificata di fronte al Nemico (Sal 60,4). Il Nemico non trarrà alcun guadagno contro di lui21, e il figlio – anzi il pensiero – dell’iniquità non arriverà a fargli del male, ma egli distruggerà i suoi nemici davanti a sé, e metterà in fuga quelli che lo odiano (cf. Sal 88,23-24). 26. Oltre alle proprietà distintive già esposte sopra, il beato possessore di questa ricchezza ne ha anche altre dentro la propria anima. Quelle infatti, eccetto una, sono segni visibili ed esteriori della sua ricchezza22. 27. Riconoscerai, senza rischio di illusioni, di possedere questa santa ricchezza23, dall’abbondanza di luce inef20 L’autore, come ha già fatto con le categorie dell’unità e della trinità (cf. §, 14), applica qui la distinzione teologica tra “essenza” (ousía) ed “effetto” (enérgheia: cf. infra, “Glossario”, s.v. “Energia”) alla virtù dell’umiltà, la quale, pur restando inconoscibile nella sua essenza, può essere però sperimentata a partire dagli effetti che produce in noi. 21 Bisogna intendere: l’umile. 22 Come nota giustamente P. Deseille (in Saint Jean Climaque, L’échelle sainte, Abbaye de Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1987, p. 342), le “proprietà già esposte sopra” sono probabilmente quelle enumerate al § 8, e l’unica proprietà che rimane invisibile è la “serena sfiducia nelle proprie opere buone”. I commentatori antichi hanno interpretato quest’ultima “proprietà” in vario modo: secondo gli Scholia si tratta dell’“opinione” che si ha di sé (PG 88,1008B), oppure più precisamente del “disprezzo di sé” (PG 88,1237A); secondo l’Exegesis (p. 375), si tratta invece della “non-distrazione nella preghiera”. 23 Gioco di parole tra osía (“santa”) e ousía (“sostanza”, “ricchezza”).

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fabile e dall’amore indicibile che avrai per la preghiera. Prima che tu abbia raggiunto queste cose, ne è un segno il cuore che non insulta più gli altri per le loro cadute; e prima ancora, l’odio di ogni genere di vanagloria. 28. Chi è arrivato a conoscere se stesso con tutti i sensi della propria anima, ha gettato un seme in terra (cf. Mc 4,26): è impossibile, infatti, che l’umiltà fiorisca, se non si è seminato in questo modo. Chi conosce se stesso, acquista nella propria mente il timore di Dio, e se procede lasciandosi guidare da esso, arriva alla porta della carità. 29. L’umiltà è la porta del Regno (cf. Mt 7,13-14), che vi introduce coloro che a essa si avvicinano. È riguardo a questa porta, credo, che il Signore ha detto: Chi vuole entrerà ed uscirà senza paura dalla vita, e troverà pascolo (cf. Gv 10,9) ed erba verdeggiante nel paradiso. Tutti coloro che sono entrati per un’altra porta nella vita monastica, sono ladri della propria vita e briganti (cf. Gv 10,8). 30. Noi che vogliamo raggiungere l’umiltà, non cessiamo di esaminare noi stessi; e se con l’intimo sentimento del cuore siamo convinti che il prossimo ci superi in tutto, la misericordia di Dio è vicina24. 31. Come è impossibile che dalla neve esca una fiamma, così è ancora più impossibile che negli eretici ci sia l’umiltà: questa è dunque una virtù propria dei buoni credenti e in particolare di coloro che si sono purificati dalle passioni. 32. Noi per lo più affermiamo di essere peccatori, e forse lo pensiamo, ma solo le umiliazioni mettono alla prova il nostro cuore25. 33. Chi si affretta verso questo porto tranquillo26, non cessa mai di mettere in opera, di pensare e di escogitare 24

Cioè è vicino il momento in cui Dio ci farà la grazia dell’umiltà. Cioè solo il modo in cui accogliamo le umiliazioni rivela la sincerità dell’umiltà che professiamo. 26 Ovvero verso l’umiltà. 25

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tutti i comportamenti, i discorsi, i pensieri, i propositi, i tentativi, le ricerche, le manovre, gli espedienti, le preghiere e le suppliche possibili, finché, grazie all’aiuto27 di Dio e ai metodi più umilianti e più mortificanti, non riesca a liberare la barca della sua anima dal mare perennemente in tempesta della superbia. Chi infatti si è liberato da essa, per tutti gli altri peccati si comporterà come il pubblicano, e otterrà facilmente il perdono (cf. Lc 18,13-14). 34. Alcuni, dai propri peccati passati, hanno tratto occasione di umiltà fino al termine della vita, anche dopo averne ottenuto il perdono, schiaffeggiando in questo modo la loro vana presunzione; altri, meditando la passione di Cristo, si considerano sempre debitori28; altri, a motivo delle loro mancanze quotidiane, si stimano come persone dappoco; altri hanno abbattuto il proprio orgoglio tramite le tentazioni, le infermità e le cadute morali alle quali sono continuamente soggetti; altri ancora, grazie alla loro mancanza di carismi, hanno ottenuto la madre di tutti i carismi. Vi sono alcuni poi – ma non so dire se ve ne siano ancora – che traggono motivo di umiltà dagli stessi doni di Dio, man mano che crescono, stimandosi indegni di una tale ricchezza e credendo di aggiungere ogni giorno qualcosa al proprio debito: ecco l’umiltà, ecco la beatitudine, ecco il premio perfetto! 35. Quando vedi o senti che qualcuno ha raggiunto in pochi anni il grado più alto dell’impassibilità, sta’ pure

27 In greco: synérgheia. Su questo concetto cf. infra, “Glossario”, s.v. “Cooperazione”. 28 Cf. Marco il Monaco, Su chi si crede giustificato per le opere 19: “Se Cristo è morto per noi secondo le Scritture e noi non viviamo per noi stessi ma per colui che è morto e risorto per noi, è evidente che il nostro debito ci impone di servirlo fino alla morte. Come possiamo, dunque, ritenere che l’adozione a figli ci sia dovuta?”.

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certo che non ci è arrivato per altra via che per questa beata scorciatoia29! 36. La carità e l’umiltà formano una santa coppia: la prima innalza, e la seconda, sostenendo quelli che sono stati innalzati, non permette che cadano mai più. 37. Una cosa è la contrizione, altra cosa la conoscenza di sé, e altra cosa ancora l’umiltà. La contrizione è frutto di una caduta: chi cade infatti riporta fratture30 e senza avere troppa confidenza se ne sta in preghiera con una lodevole impudenza, e appoggiandosi sul bastone della speranza come un uomo dalle ossa rotte, scaccia con essa il cane della disperazione. La conoscenza di sé è la lucida coscienza dei propri limiti e il ricordo costante dei propri peccati, anche minimi. L’umiltà è la dottrina spirituale di Cristo che, come una sposa, è custodita spiritualmente nella stanza più interna dell’anima da quanti ne sono degni ed è inesprimibile con parole umane. 38. Chi afferma di sentire chiaramente l’odore di tale profumo, e poi, quando riceve delle lodi, si emoziona nel proprio cuore anche solo per poco, o riconosce il valore di quelle parole, non s’illuda: si è illuso! 39. Ho sentito qualcuno dire con profondo sentimento dell’anima: Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome da’ gloria (Sal 113,9)! Sapeva infatti che la nostra natura, da sola, non può scampare facilmente al pericolo delle lodi. Da te viene la mia lode nella grande assemblea (Sal 21,26), ossia nel secolo futuro: prima di quel tempo, infatti, non sono in grado di sopportarla senza pericolo! 29 Cf. Paolo Everghetinos, Synagoghé III,38,44: “Un anziano che viveva in Egitto diceva sempre: ‘Non c’è via più breve dell’umiltà’”. 30 Anche qui, come al § 7 (cf. n. 7), il verbo syntríbesthai ha un doppio significato: quello concreto di “essere spezzato”, e quello traslato di “essere contrito”; e così “caduta” (ptóma) è da intendere sia in senso materiale che in senso morale.

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40. Se indizio, manifestazione e caratteristica dell’estrema superbia è fingere virtù che non abbiamo, per ricavarne gloria, allora segno della più profonda umiltà è fingere colpe che non ci appartengono, per disprezzo di noi stessi. Così fece colui che “prese in mano pane e formaggio”31; e così quell’altro che si spogliò del vestito e, da campione di purezza qual’era, attraversò la città senza provarne turbamento32. Persone come queste non si preoccupano più di dare scandalo agli uomini, perché, con la loro preghiera, hanno ormai il potere di rassicurare invisibilmente tutti sulle loro reali intenzioni. 41. Chi si preoccupa della prima cosa, mostra di non possedere la seconda. Quando infatti Dio è pronto a esaudirci, possiamo fare tutto! Scegli di contristare gli uomini piuttosto che Dio: egli si rallegra infatti al vederci correre incontro alle umiliazioni per calpestare, colpire ed estinguere la nostra vana presunzione.

31 Si tratta di abba Simone, un padre del deserto egiziano; cf. Apoftegmi, Simone 2: “Un’altra volta venne un altro magistrato per vedere abba Simone, e i chierici lo prevennero per dirgli: ‘Padre, preparati, perché il magistrato, avendo sentito parlare di te, viene per ricevere la tua benedizione’. ‘Sì, rispose, mi preparo’. Indossato quindi il suo vecchio mantello, prese in mano pane e formaggio e si sedette all’ingresso mangiando. Quando il magistrato giunse con il suo seguito e lo videro, lo disprezzarono: ‘È questo l’anacoreta di cui abbiamo sentito parlare?’ E ritornarono subito indietro”. 32 Si tratta di abba Serapione detto il Sindonita, asceta itinerante la cui vita è narrata da Palladio in Storia lausiaca 37,1-15; ivi si racconta che Serapione, a una vergine di Roma che si vantava di essere ormai “morta al mondo”, rispose: “Bene, se vuoi convincermi che sei morta al mondo e che non vivi più per piacere agli uomini, fa’ ciò che faccio io, e saprò che sei veramente morta: togliti tutti i vestiti, sul mio esempio, mettili sulle spalle e attraversa il centro della città; io ti precedo acconciato allo stesso modo”; e di fronte alle reticenze della donna: “Vedi dunque: non essere più orgogliosa di te stessa, pensando di essere la donna più pia di tutte e morta al mondo; io sono più morto di te, e ti dimostro con i fatti di essere morto al mondo, poiché sono disposto a compiere questo gesto senza turbamento e senza vergogna” (ibid. 37,14-15).

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42. È la perfetta estraneità a rendere possibili tali prodezze: solo chi è veramente grande infatti può sopportare gli scherni dei propri familiari. Non ti stupire per queste parole: nessuno è mai potuto salire in cima a una scala in un solo balzo! 43. Da questo tutti sapranno che siamo suoi discepoli (cf. Gv 13,35), non se i demoni ci ubbidiscono, ma se i nostri nomi sono scritti nel cielo dell’umiltà (cf. Lc 10,20). 44. L’assenza di frutti, per sua natura, fa sì che i rami dei cedri s’innalzino verso l’alto; quando invece vengono piegati verso il basso, subito si riempiono di frutti33. Chi ha intelligenza per comprendere, capisce! 45. Il gradino di questa santa virtù può farci salire, davanti a Dio, con un frutto del trenta, del sessanta, o del cento per uno (cf. Mc 4,8): all’ultimo livello possono salire coloro che hanno raggiunto l’impassibilità; a quello di mezzo, i forti; al primo, tutti. Chi conosce se stesso non potrà mai lasciarsi trarre in inganno tentando ciò che supera le sue forze, ma continuerà a procedere al sicuro su questo beato sentiero. 46. Gli uccelli temono la vista del falcone; così chi coltiva l’umiltà teme il suono della contestazione! 47. Molti hanno ottenuto la salvezza senza profezie, né illuminazioni, né segni, né prodigi; ma senza questa virtù nessuno entrerà mai nella sala delle nozze (cf. Mt 22,10-14)! Quest’ultima infatti è la custode di quei doni, ma senza di essa quei doni possono condurre alla rovina le persone più leggere. 33 Cf. Doroteo di Gaza, Insegnamenti II,33: “Ci sono piante che non danno frutto, finché i loro rami s’innalzano verso il cielo, ma se si prende una pietra e la si appende ai rami per trascinarli verso terra, allora danno frutti. Così avviene anche all’anima: quando è umiliata, porta frutto, e quanto più porta frutto, tanto più si umilia, poiché quanto più i santi si avvicinano a Dio, tanto più si riconoscono peccatori”.

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48. Affinché potessimo umiliarci anche senza volerlo, il Signore nella sua provvidenza ha disposto che nessuno potesse vedere le nostre piaghe meglio del prossimo: siamo costretti così ad attribuire la grazia della nostra guarigione non a noi stessi, ma a lui, e a Dio. 49. Chi ha la mente umile, aborrisce sempre la propria volontà come fallace, e quando chiede qualcosa al Signore, si lascia istruire e obbedisce con fede incrollabile, senza guardare alla condotta dei propri maestri, ma affidandosi completamente a Dio, il quale ha potuto insegnare a Balaam ciò che doveva fare anche per bocca di un asino (cf. Nm 22,22-34). 50. Un simile operaio di umiltà, anche se pensa, opera e parla in tutto secondo Dio, neppure così si fida di se stesso: per l’umile infatti fidarsi di se stesso è un dolore e un peso, come per il superbo la volontà di un altro. 51. Credo che sia proprio degli angeli non essere mai sorpresi dai peccati; ho sentito dire infatti a un angelo terrestre: Non mi sento colpevole di nulla, ma non per questo sono giustificato: il giudice è il Signore (1Cor 4,4)! Perciò noi dobbiamo continuamente accusarci e rimproverarci, per riuscire a cancellare, per mezzo del volontario disprezzo di noi stessi, i nostri peccati involontari; altrimenti, al momento della nostra dipartita, certamente ce ne sarà chiesto conto in modo severo. 52. Chi chiede a Dio meno di quanto merita, certamente otterrà più di quanto merita! Ne dà testimonianza il pubblicano che, avendo chiesto il perdono dei peccati, ottenne la giustificazione (cf. Lc 18,13-14). Il ladrone, poi, chiese soltanto di essere ricordato nel Regno, ma ereditò l’intero paradiso (cf. Lc 23,42-43)! 53. Nell’intera creazione è impossibile trovare un fuoco che sia grande o piccolo per natura: così nell’autentica umiltà è impossibile che rimanga la minima traccia di 347

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materia. Finché dunque cadiamo volontariamente nel peccato, l’umiltà non è in noi; ed è questo il segno che ce ne indica la presenza o l’assenza in noi34. 54. Il Signore, sapendo che la virtù dell’anima si conforma al contegno esteriore, prese un asciugatoio e ci mostrò la via da seguire per giungere all’umiltà (cf. Gv 13,45); infatti “l’anima si assimila ai comportamenti esteriori, si modella sulle proprie azioni e a esse si conforma”35. 55. Per uno degli angeli36 il potere divenne occasione di superbia, pur non avendolo ricevuto per questo. 56. La disposizione interiore di chi siede su un trono è diversa da quella di chi siede su un letamaio37, ed è per questo forse che quel grande giusto stava seduto sul leta-

34 Passo di difficile interpretazione, così spiegato dall’Exegesis (p. 384): “Nella creazione non esiste alcuna differenza di natura tra un fuoco grande e un fuoco piccolo: il fuoco infatti è sempre lo stesso, anche quando, per la grande quantità di materiale (hØle), divampa in un incendio più grande. Così nell’autentica umiltà è del tutto impossibile che colui che la possiede ami una qualche forma terrestre o materiale … Questo è il segno della presenza dell’autentica umiltà: il fatto di non avere alcun attaccamento passionale nei confronti della materia”. L’umile, dunque, per sua natura rimane indifferente alle cose materiali, anche quando ne è circondato, come il fuoco non muta la propria natura anche quando, per effetto della “materia”, diventa un incendio. 35 Basilio di Cesarea, Omelia sull’umiltà, PG 31,537B. 36 Ovvero Lucifero. 37 Cf. Doroteo di Gaza, Insegnamenti II,39: “Perché dunque si dice che anche le fatiche del corpo rendono umili? Che influenza può avere la fatica del corpo su una disposizione dell’anima? Ve lo dirò. L’anima, caduta dall’obbedienza al comandamento nella trasgressione, fu consegnata, l’infelice, alla concupiscenza, alla piena libertà dell’errore, come dice san Gregorio, amò i beni del corpo, divenne una sola cosa con il corpo, divenne carne interamente, come sta scritto: Il mio spirito non dimorerà tra questi uomini perché sono carne (Gen 6,3). E così l’anima infelice soffre con il corpo e subisce tutto ciò che accade al corpo. Per questo l’anziano ha detto che anche le fatiche del corpo conducono all’umiltà. E difatti non sono identiche le disposizioni dell’anima di chi sta bene e di chi è malato, di chi ha fame e di chi è sazio. E non sono le stesse le disposizioni dell’anima di chi cavalca un cavallo e di chi cavalca un asino, di chi è seduto su un trono e di chi è seduto per terra, di chi porta belle vesti e di chi è vestito miseramente. La fatica dunque umilia il corpo e quando il corpo è umiliato, anche l’anima si umilia con lui e così giustamente l’anziano ha detto che la fatica del corpo conduce all’umiltà”.

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maio fuori della città38; dopo aver raggiunto la perfetta umiltà, infatti, disse dal profondo dell’anima: Ho disprezzato me stesso, e mi sono macerato: mi sono considerato terra e cenere (Gb 42,6). 57. Trovo scritto che Manasse peccò come nessun altro tra gli uomini, profanando il tempio di Dio con gli idoli e contaminando tutta quanta la religione (cf. 1Re 21,118; 2Cr 33,1-9): se il mondo intero avesse digiunato per lui, non avrebbe potuto compensare adeguatamente il suo peccato, ma l’umiltà riuscì a guarire in lui anche ciò che sembrava incurabile (cf. 2Cr 33,12-13)39. 58. Se tu avessi voluto un sacrificio, te l’avrei offerto, dice David a Dio, ma tu non ti compiaci dei corpi macerati dal digiuno come olocausti; sacrificio a Dio, e ciò che segue, che tutti conoscono40. Ho peccato contro il Signore!, gridò un giorno a Dio questa beata umiltà, a causa di un adulterio e di un omicidio, e subito udì: Il Signore ha perdonato il tuo peccato (2Sam 12,13)! 59. I padri degni di eterna memoria hanno affermato che via e fondamento dell’umiltà sono le fatiche del corpo41; io affermo che lo sono l’ubbidienza e la retti38

Si tratta di Giobbe: cf. Gb 2,8. Oltre al testo biblico, l’autore ha qui certamente presente anche la cosiddetta Preghiera di Manasse, un testo apocrifo conservato in alcuni manoscritti della Bibbia dei LXX ed entrato molto presto nella liturgia bizantina, dove l’umile penitenza del re empio è espressa in modo particolarmente intenso. Su questo testo cf. Apocrifi dell’Antico Testamento III, a cura di P. Sacchi, Paideia, Brescia 1999, pp. 539-549. 40 Cf. Sal 50,18-19 LXX: “Sacrificio a Dio è uno spirito contrito, Dio non disprezzerà un cuore contrito e umiliato”. 41 Cf. Apoftegmi Nau 323: “Fu chiesto a un anziano che cos’è l’umiltà. Rispose: ‘L’umiltà è un’opera grande e divina. Via dell’umiltà sono le fatiche del corpo e il ritenersi peccatori e al di sotto di tutti’”; Apoftegmi, Mosè 18: “Disse il fratello: ‘A cosa servono i digiuni e le veglie dell’uomo?’. Dice a lui l’anziano: ‘Servono a umiliare l’anima. Sta scritto infatti: Guarda la mia umiliazione e la mia fatica, e perdona tutte le mie colpe (Sal 24,18). Se l’anima produce questi frutti, per essi il Signore si impietosisce di lei’”; Doroteo di Gaza, Insegnamenti II,39, citato supra, n. 37. 39

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tudine di cuore, che per loro natura si oppongono all’orgoglio. 60. Se l’orgoglio ha potuto fare di alcuni angeli dei demoni, certamente l’umiltà può fare dei demoni degli angeli. Perciò chi è caduto si faccia coraggio! 61. Affrettiamoci e lottiamo con tutte le forze per salire sulla cima di questa virtù! Se non ci riusciamo, montiamo almeno sulle sue spalle; e se ci mancano ancora le forze, almeno non cadiamo dalle sue braccia, perché chi cade di qui, difficilmente riuscirà a ricevere qualche dono nell’eternità! 62. I nervi dell’umiltà42 e le vie che conducono ad essa – senza essere però segni della sua presenza – sono la rinuncia al possesso, un’estraneità non esibita, la dissimulazione della propria sapienza, un modo di parlare senza orpelli, il chiedere l’elemosina, il silenzio sulla propria nobiltà di nascita, il rifiuto dell’eccessiva familiarità, l’abbandono delle chiacchiere. Nulla, infatti, ha mai potuto umiliare l’anima come la condizione di miseria e il vivere da mendichi. Il nostro amore per la sapienza e per Dio si dimostra infatti proprio quando, avendo la possibilità di essere onorati, fuggiamo gli onori senza volgerci indietro. 63. Se ti prepari a combattere contro una qualche passione, prenditi come alleata l’umiltà: essa infatti camminerà sulla vipera e sul serpente e calpesterà il leone e il drago (cf. Sal 90,13), cioè camminerà sul peccato e sulla disperazione, e calpesterà il diavolo e il drago che insidia il corpo43. L’umiltà è un sifone celeste che dall’abisso dei peccati può sollevare l’anima fino al cielo. Un giorno un tale vide nel proprio cuore la bellezza dell’umiltà, e, preso da grande stupore, le chiese di cono42 43

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Cioè i mezzi che la fortificano. Ovvero il demonio della fornicazione.

scere il nome di chi l’aveva generata, ma quella, con un sorriso radioso e sereno, rispose: “Perché desideri tanto conoscere il nome di colui che mi ha generata? Egli non ha nome e non te lo dirò finché non avrai raggiunto Dio!”44. A lui la gloria nei secoli! Amen. L’abisso delle acque genera la sorgente, e la sorgente del discernimento è l’umiltà!

44 L’autore vuol far intendere, come del resto ha già detto sopra (cf. § 3), che il padre dell’umiltà è Dio stesso.

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Discorso XXVI/1 SUL DISCERNIMENTO DI PENSIERI, PASSIONI E VIRTÙ

1. Il discernimento, nei principianti, è una conoscenza autentica di se stessi; in coloro che sono a metà del cammino, è un senso spirituale che distingue infallibilmente il bene autentico da quello naturale e dal suo contrario; nei perfetti, è una scienza infusa per divina illuminazione, che è in grado di illuminare con il proprio lume anche ciò che negli altri rimane coperto dalle tenebre. Forse, più in generale, si definisce ed è discernimento la comprensione sicura della volontà di Dio in ogni tempo, luogo e circostanza, che è presente solo in chi è puro nel cuore, nel corpo e nella parola. Il discernimento è una coscienza immacolata e una sensibilità pura. 2. Chi ha vinto i primi tre pensieri come si conviene, insieme a quelli ha vinto anche gli altri cinque1; chi invece li trascura, non vincerà né gli uni né gli altri. 1 Tra le varie interpretazioni dei commentatori antichi, seguiamo qui una di quelle proposte dall’Exegesis (p. 392): “I pensieri di malizia che ci fanno guerra sono in tutto otto. Di questi otto, però, tre sono i più generali: quello dell’ingordigia, quello dell’avarizia e quello della vanagloria. Con questi il diavolo tentò anche il Signore, e si ritirò dopo essere stato da lui sconfitto; attraverso questi il Signore vinse ogni tentazione, come dice l’evangelista Luca (cf. Lc 4,13), il quale con questi tre, che sono i più generali, ha inteso indicare anche tutti gli altri pensieri. Gli otto pensieri sono questi: quello dell’ingordigia, quello della vanagloria, quello dell’avarizia, quello della fornicazione, quello dell’ira, quello dell’acedia, quello della tristezza e quello della superbia. Chi

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3. Nessuno, udendo o vedendo nella vita monastica cose superiori alla natura, cada nell’incredulità a causa della propria ignoranza, perché dovunque c’è la presenza di Dio – che è superiore alla natura – accadono cose superiori alla natura. 4. Tutte le guerre che i demoni scatenano contro di noi sono riconducibili a queste tre cause generali: la negligenza, la superbia e la loro invidia. La prima è deplorevole, la seconda del tutto miserabile, ma la terza è felice! 5. Come guida e regola in ogni cosa, dopo Dio, dobbiamo seguire la nostra coscienza, affinché, conoscendo da dove soffiano i venti2, possiamo spiegare le vele in quella direzione. 6. In tutte le azioni che compiamo secondo Dio i demoni ci tendono tre insidie: prima di tutto si sforzano di impedirci di fare il bene; poi, dopo aver subito la prima sconfitta, cercano di impedirci di compierlo secondo Dio3; e quando infine hanno fallito anche in questo obiettivo, allora quei ladri s’installano silenziosamente nella nostra anima e si mettono a lodarci perché ci comportiamo in tutto secondo Dio. La prima insidia si combatte con lo zelo e il pensiero della morte; la seconda, con la sottomissione e l’umiliazione; la terza con la continua accusa di se stessi. 7. Questa è la fatica cui dobbiamo far fronte finché il fuoco di Dio non sarà entrato nel nostro santuario (cf. Sal dunque ha vinto i primi tre pensieri, ovvero quello dell’ingordigia (che genera quelli della fornicazione e dell’acedia), quello della vanagloria (da cui dipendono quelli dell’ira e della superbia) e, come terzo, quello dell’avarizia (da cui dipende quello della tristezza), purché lo abbia fatto con intenzione di pietà, ha vinto con quelli anche gli altri cinque. A quei tre infatti si possono ricondurre anche gli altri cinque, che sono di minore entità”. Per la stessa distinzione tra i tre vizi principali e gli altri cinque, cf. Evagrio Pontico, I pensieri malvagi 1; Massimo il Confessore, Capitoli sulla carità III,56. 2 Cioè, fuori di metafora, i pensieri cattivi. 3 Cioè non per compiacere Dio, ma per compiacere gli uomini e noi stessi.

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72,16-17)4, perché allora non saremo più oppressi dalle nostre predisposizioni passionali: infatti il nostro Dio è un fuoco che consuma (Eb 12,29) ogni ardore, moto e predisposizione passionale, ogni indurimento e accecamento, interiore ed esteriore, materiale e spirituale! I demoni, invece, hanno l’abitudine di fare il contrario di ciò che si è appena detto: quando infatti riescono a impadronirsi della nostra anima e ad alterare il lume della nostra mente, in noi, sventurati, non rimane più né sobrietà, né discernimento, né conoscenza di noi stessi, né vergogna, ma solo indolenza, insensibilità, mancanza di discernimento e cecità. 8. Sanno molto bene ciò che sto dicendo coloro che hanno messo giudizio, dopo essersi dati alla fornicazione, coloro che hanno posto un freno alla propria eccessiva familiarità, e coloro che dalla sfrontatezza sono passati alla discrezione; e sanno molto bene come ora, dopo il risveglio della loro mente e la guarigione del loro indurimento – o meglio della loro cecità! – provino, per così dire, un’intima vergogna di se stessi per tutto ciò che hanno detto e fatto quand’erano ciechi. 9. Se prima non verrà la sera e non scenderà la notte nel giorno dell’anima, i ladri non potranno né rubare, né uccidere, né distruggere (cf. Gv 10,10)! “Furto” è la perdita della propria ricchezza; “furto” è compiere ciò che non è bene come se fosse bene; “furto” è quando l’anima è ridotta in prigionia senza che neppure se ne accorga. “Uccisione” dell’anima è la morte della mente ragionevole caduta in azioni indegne. “Distruzione” è la disperazione dopo il peccato.

4 Il “fuoco di Dio” è l’amore di Dio, e il “nostro santuario” è la nostra mente (noûs).

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10. Di fronte ai comandamenti dell’evangelo, nessuno adduca come pretesto la propria incapacità: ci sono anime infatti che hanno fatto ben più di quanto richieda il comandamento! Convincitene in modo certo guardando colui che amò il suo prossimo più di se stesso, donando la propria vita per lui, pur non avendo ricevuto alcun comandamento dal Signore per questo5. 11. Si facciano coraggio coloro che, pur essendo ancora dominati dalle passioni, hanno raggiunto l’umiltà: infatti, se anche cadono in tutti i precipizi, se rimangono intrappolati in tutte le reti e contraggono tutte le malattie, dopo la loro guarigione, potranno diventare medici, luminari, fari e piloti per tutti, spiegando i sintomi di ciascuna malattia e salvando grazie alla propria esperienza chi sta per cadere. 12. Coloro che sono ancora tiranneggiati dalle predisposizioni passionali della loro vita passata, e nonostante ciò sono in grado di insegnare, anche se solo a parole, insegnino pure, ma senza comandare. Forse, infatti, vergognandosi delle proprie parole, cominceranno a metterle in pratica, e potrà capitare a loro quel che ho visto capitare ad alcuni che erano immersi nel fango: coperti di fango com’erano, spiegavano ai passanti in che modo si erano impantanati, e ciò lo raccontavano per salvarli, perché non cadessero anch’essi allo stesso modo; e così, a causa della salvezza che avevano procurato agli altri, Dio onnipotente liberò dal fango anche loro. Se però chi è dominato dalle passioni si getta volontariamente nei piaceri, si limi5 Il riferimento, come suggerisce lo scoliaste, è probabilmente ad abba Leone di Cappadocia, che, secondo il racconto di Giovanni Mosco, Prato 112, si consegnò volontariamente nelle mani dei briganti per riscattare tre suoi confratelli prigionieri; al termine del racconto l’autore commenta: “Abba Leone realizzò le parole della Scrittura: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (Gv 15,13)!”.

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ti a insegnare con il proprio silenzio! Sta scritto infatti: Gesù cominciò a operare, e poi a insegnare (At 1,1)6. 13. Attraversiamo un mare pericoloso, sì veramente pericoloso, o umili monaci, e pieno di venti7, di tempeste, di vortici, di secche, di mostri, di pirati8, di tifoni e di onde! Per “tempesta”, in riferimento all’anima, dobbiamo intendere lo scatto di collera violento e improvviso; per “vortice”, lo scoraggiamento che circonda la mente e si sforza di farla sprofondare nell’abisso della disperazione; per “secca”, l’ignoranza che prende il male per bene; per “mostro”, questo nostro corpo pesante e selvaggio; per “pirati”, i crudelissimi demoni che servono la vanagloria, che rapiscono il nostro carico, ossia le virtù che abbiamo acquistato con fatica; per “onda”, il ventre dilatato e ingrossato, che nella sua foga ci fa cadere in preda al mostro; per “tifone”, la superbia, che è stata precipitata dal cielo9, e che a sua volta ci solleva fino al cielo, per poi farci sprofondare fin giù nell’abisso. 14. Chiunque abbia un po’ d’istruzione sa bene quali discipline sono riservate ai principianti, quali a coloro che sono a metà della loro formazione, e quali agli insegnanti. Stiamo bene attenti che, dopo aver passato tanto tempo a imparare, non continuiamo a rimanere al livello dei rudimenti per principianti: è una grandissima vergogna vedere un vecchio che va alla scuola dei bambini! Il migliore alfabeto per tutti10 è il seguente: A obbedienza, B digiuno, Γ cilicio, ∆ cenere, E lacrime, Z confessione, H silenzio, Θ umiltà, I veglie, K fortezza, Λ freddo, M fatica, N sofferenza, Ξ umiliazione, O contrizione, 6

La traduzione del passo segue l’interpretazione dell’autore. Doppio senso: pneúma significa sia “vento” sia “spirito” (ovvero “demonio”). 8 Altro doppio senso: peiratés significa sia “pirata” sia “tentatore”. 9 Allusione alla caduta di Lucifero. 10 Cioè anche per i principianti. 7

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Π assenza di rancori, Ρ amore fraterno, Σ mitezza, T fede semplice e schietta, Υ assenza di preoccupazioni mondane, Φ odio dei propri genitori non dettato da odio11, Χ distacco da ogni legame, Ψ semplicità unita a innocenza, Ω

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volontario disprezzo di sé. Ecco poi un bel programma e un bell’elenco di virtù per coloro che progrediscono: assenza di vanagloria, nonirascibilità, piena fiducia, esichia, discernimento, costante ricordo del giudizio, viscere di misericordia, ospitalità, discrezione nel correggere, preghiera non distratta da alcuna passione, disprezzo del denaro. Ed ecco il criterio, la regola e la legge per gli spiriti e i corpi che con la propria pietà raggiungono la perfezione, pur rimanendo nella carne: A cuore libero da ogni genere di prigionia, B carità perfetta, Γ sorgente continua di umiltà, ∆ mente che emigra [in Dio], E intima presenza di Cristo, Z luce inviolabile nella preghiera, H abbondanza d’illuminazione divina, Θ desiderio della morte, I odio della vita, K fuga dal corpo, Λ [essere] intercessore per il mondo, M violentatore di Dio, N partecipe della liturgia angelica, Ξ abisso di conoscenza, O dimora dei misteri, Π custodia dei segreti, Ρ salvatore degli uomini, Σ dio per i demoni, T signore delle passioni, Υ padrone del corpo, Φ governatore della natura, X straniero al peccato, Ψ dimora dell’impassibilità, Ω imitazione del Signore con l’aiuto del Signore. 15. Abbiamo bisogno di non poca vigilanza, quando il corpo è malato, perché i demoni, vedendoci distesi a terra e incapaci per il momento, a causa della nostra debolezza, di lottare contro di loro con l’ascesi, decidono proprio allora di attaccarci con più violenza. E se coloro 11 Lett.: “Odio senz’odio dei genitori (mîsos ámison gonéon)”: un “odio”, cioè, che è frutto dell’amore per il Signore e della ferma volontà di mettersi alla sua sequela (cf. Lc 14,26 e supra, III,18-19).

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che vivono nel mondo, quando sono malati, sono assillati dal demonio dell’ira e a volte da quello della bestemmia, coloro che invece vivono fuori dal mondo, se sono ben provvisti di mezzi, sono incalzati dal demonio dell’ingordigia e da quello della fornicazione, ma se vivono in luoghi privi di ogni conforto e degni di veri asceti, sono assediati dal tiranno dell’acedia e dell’ingratitudine. 16. Un giorno notai come il lupo12 della fornicazione aumentasse le sofferenze di un malato e come, perfino in mezzo a quelle sofferenze, gli procurasse moti passionali e polluzioni: era uno spettacolo impressionante vedere la carne gonfiarsi e ardere di passione proprio in mezzo a forti e intensi dolori! Osservai ancora, e vidi altri malati che giacevano nel loro letto confortati dalla grazia divina, o dalla loro compunzione, e proprio grazie a questa consolazione tenevano lontane le sofferenze, al punto da non desiderare più di essere liberati dalla malattia. Mi voltai da un’altra parte, e vidi altri sofferenti che grazie alla loro malattia erano riusciti a liberarsi delle passioni dell’anima, come se avessero compiuto una penitenza; e glorificai colui che con il fango li aveva purificati dal fango. 17. La mente spirituale è certamente rivestita anche di un senso spirituale13, e poiché esso è allo stesso tempo presente e assente in noi14, non dobbiamo mai smettere di cercarlo: infatti, quando si manifesterà, certamente i sensi esterni cesseranno da soli dalle proprie attività15. 12

Cioè il demonio. Sul concetto di “senso spirituale” cf. infra, “Glossario”, s.v. “Senso/sentimento spirituale o del cuore”. 14 Cf. Schol. 17, PG 88,1039D: “Il senso spirituale è presente in noi, perché è intimamente unito alla mente di ogni uomo, ma è anche assente, perché nei temperamenti passionali è coperto dalle passioni, e così reso inefficace e irriconoscibile”. 15 Smetteranno cioè di essere strumenti delle passioni e si sottometteranno al senso interno. 13

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Cosciente appunto di questo un sapiente disse: Allora troverai un senso divino (Pr 2,5)16! 18. La vita monastica deve essere vissuta attraverso l’intimo senso del cuore: nelle azioni, nei discorsi, nei pensieri e nei movimenti; altrimenti non è vita monastica e tanto meno angelica17! 19. Una cosa è la provvidenza di Dio, altra cosa il suo soccorso, altra cosa la sua protezione, altra cosa la sua misericordia, e altra cosa ancora la sua consolazione: la prima si manifesta in tutta la creazione, il secondo solo nei credenti, la terza nei veri credenti, la quarta in coloro che lo servono, e l’ultima in coloro che lo amano. 20. A volte, ciò che è medicina per una persona può diventare veleno per un’altra; ma è anche possibile che lo stesso rimedio dato alla stessa persona sia una medicina, se viene somministrato al momento opportuno, e diventi invece un veleno, se viene somministrato quando non è il momento. 21. Ho visto un medico18 inetto umiliare un malato già oppresso dal dolore, senza procurargli altro che dispera16 I commentatori antichi attribuiscono erroneamente la frase a Nilo Sinaita (in riferimento al trattato evagriano Sulla preghiera 80), ma in realtà si tratta di una variante di Pr 2,5, ben nota e attestata nella tradizione patristica, soprattutto alessandrina: cf. Clemente di Alessandria, Stromati I,4,27,2; Origene, Contro Celso I,48; VII,34; Id., Trattato sui principii I,1,9; IV,4,10; Gregorio di Nissa, Sul Cantico dei cantici 1.9. Proprio questo passo biblico è stato utilizzato da Origene per elaborare la dottrina dei “sensi spirituali”. Cf. Deseille, “La dottrina spirituale di Giovanni Climaco”, p. 124. 17 La “vita monastica” (bíos monadikós: da monás, “unità”) porta inscritta nel proprio nome un’esigenza di unità e di totalità: il monaco è appunto colui che unifica tutta la propria vita in Dio. Si veda in proposito la classica definizione dello Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, Sulla gerarchia ecclesiastica VI,3: “I nostri divini precettori [i monaci] sono stati giudicati degni di portare dei nomi santi. Gli uni li hanno chiamati ‘servitori’, gli altri ‘monaci’, a causa del servizio e del culto puro che essi rendono a Dio, e causa della loro vita indivisa e ‘una’, che li unifica in un raccoglimento che esclude ogni divisione, per condurli all’unità deiforme e alla perfezione dell’amore divino”. In generale sull’argomento si veda A. Guillaumont, “Monachisme et éthique judéo-chrétienne”, in Id., Aux origines du monachisme chrétien, pp. 47-66. Cf. anche supra, I,10. 18 Cioè un padre spirituale.

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zione; e ho visto un medico abile operare attraverso l’umiliazione un cuore gonfio di orgoglio svuotandolo di tutto il suo marciume. Ho visto poi un malato che a volte, per purificarsi dalle proprie sozzure, beveva la medicina dell’obbedienza, si muoveva, camminava e non dormiva; altre volte, quando era malato l’occhio della sua anima19, restava nell’esichia e nel silenzio. Chi ha orecchi per intendere intenda (Lc 14,35)! 22. Alcuni, non so come – non ho imparato infatti a scrutare con arroganza i doni di Dio – sono, per così dire, naturalmente inclini alla continenza, alla purezza, all’esichia, alla riservatezza, alla mitezza, o alla compunzione. Ci sono altri, invece, che in queste cose incontrano la resistenza della propria stessa natura, e nonostante ciò si fanno violenza con tutte le proprie forze. E anche se costoro di tanto in tanto subiscono qualche sconfitta, io però li apprezzo più dei primi perché fanno violenza alla propria natura. Non ti vantare, o uomo, di una ricchezza per cui non hai faticato! Il Donatore, infatti, prevedendo il grande danno che avresti subito, la tua debolezza e la tua perdizione, ha voluto preservartene – almeno in una certa misura – con i suoi doni gratuiti. Del resto, anche gli insegnamenti e l’educazione che abbiamo ricevuto fin da bambini, e le occupazioni alle quali ci siamo dedicati, una volta cresciuti, possono esserci di aiuto o anche di ostacolo nella virtù e nella vita monastica. 23. Gli angeli sono luce per i monaci, ma la vita monastica è luce per tutti gli uomini: i monaci, dunque, si sforzino di essere un buon modello per tutti, senza dare motivo di scandalo a nessuno (2Cor 6,3) in tutto ciò che fanno

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Cf. supra, XXII,22, n. 1.

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o dicono: se infatti la luce diventa tenebra, quanto sarà oscura la vera tenebra (cf. Mt 6,23), ovvero coloro che vivono nel mondo? 24. Se davvero volete darmi ascolto, vi dico che è bene che non ci disperdiamo e che non dividiamo la nostra povera anima per combattere mille migliaia e diecimila miriadi di nemici, perché non arriveremo mai a conoscerli o anche solo a scoprirli tutti! Con l’aiuto della santa Trinità, armiamoci contro le tre passioni con le tre virtù20; altrimenti ci procureremo soltanto molte fatiche. 25. È proprio vero: se verrà anche in noi colui che muta il mare in terra ferma (Sal 65,6), anche il nostro Israele – cioè la mente che vede Dio21 – certamente riuscirà a traversare il mare senza essere scossa dalle onde, e vedrà gli egiziani annegati nell’acqua delle lacrime; se però egli non verrà ad abitare in noi, chi potrà resistere al fragore delle onde del mare (Sal 64,8), cioè di questa carne? Se Dio sorge in noi attraverso la pratica delle virtù saranno dispersi i suoi nemici; e se ci accostiamo a lui attraverso la contemplazione, coloro che lo odiano, e che odiano anche noi, fuggiranno lontano da lui e da noi (cf. Sal 67,2)! 26. Sforziamoci di apprendere le cose di Dio più con il sudore e la fatica che con semplici parole: infatti, al

20 Seguo l’interpretazione di Schol. 29, PG 88,1043A-B: “Con il sostegno della suprema e santa Trinità – l’autore vuol dire – resistiamo alle tre passioni principali, cioè l’amore del piacere, l’avarizia e la vanagloria, per mezzo delle tre virtù dalle quali quelle passioni sono distrutte, ossia la temperanza, la carità e l’umiltà. L’amore del piacere, infatti, è distrutto dalla temperanza; l’avarizia dalla carità, che condivide e mette in comune; e la vanagloria dall’umiltà, che non ama l’ostentazione e odia le lodi”. Si tratta probabilmente della stessa terna di “passioni principali” al quale l’autore fa riferimento nel § 2 (cf. n. 1), anche se in questo commento lo scoliaste sostituisce l’ingordigia (gastrimarghía) con l’amore del piacere (philedonía). 21 Interpretazione frequente nell’esegesi patristica: cf., ad esempio, Filone di Alessandria, I sogni II,173; Atanasio di Alessandria, Commento ai salmi, PG 27,296.

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momento della nostra dipartita, non dovremo mostrar parole, ma fatti! 27. Chi ha sentito dire che in un luogo c’è un tesoro nascosto (cf. Mt 13,44), si mette a cercarlo, e, quando lo ha trovato, lo custodisce con cura per la molta fatica che ha speso nel cercarlo; chi invece si è arricchito senza fatica, sperpera con facilità. 28. È difficile vincere le proprie predisposizioni passionali, ma chi non smette mai di alimentarle, o cadrà nella disperazione, oppure non ricaverà alcun vantaggio dalla propria rinuncia al mondo; so però che tutto è possibile a Dio, e che niente per lui è impossibile (cf. Mt 19,26; Lc 1,37). 29. Alcuni mi proposero una questione difficile da risolvere, che supera le capacità delle persone come me, e che non ho trovato trattata in nessuno dei libri che mi sono capitati tra le mani. Mi chiedevano infatti: “Quali sono i germogli di ciascuno degli otto pensieri cattivi? E quale dei tre pensieri principali genera ciascuno degli altri cinque?”22. Avendo io dichiarato con onore la mia ignoranza di fronte a tale questione, ecco cosa appresi da quegli uomini santissimi: “La madre della fornicazione è l’ingordigia, e quella dell’acedia è la vanagloria; la tristezza è figlia di tutti e tre i pensieri principali23, come anche l’ira; e la madre della superbia è di nuovo la vanagloria”. Ribattendo a mia volta a quegli uomini degni di eterna memoria, dissi: “Desidero ancora conoscere i figli degli otto pensieri, e da chi è concepito ciascuno di loro”. E quegli uomini – che da tali passioni erano completamente liberi – mi istruirono con molta dolcezza, dicendo che tra chi è privo di senno non esiste né ordine né logica. 22 23

Cf. supra, § 2, n. 1. Cioè: ingordigia, vanagloria e avarizia.

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E per convincermi di questo con buoni argomenti, quei beati mi fecero diversi esempi, tra i quali nel nostro discorso ne citiamo alcuni, perché attraverso di essi possiamo ricevere luce anche riguardo a tutti gli altri. Per esempio: il riso inopportuno, a volte è generato dalla fornicazione, a volte dalla vanagloria (quando qualcuno, senza alcun pudore, si compiace di se stesso nel proprio cuore), a volte dall’abbondanza di cibo. Il molto sonno, a volte è frutto dell’abbondanza di cibo, a volte del digiuno (quando chi ha digiunato s’inorgoglisce), a volte dell’acedia, a volte della natura. La chiacchiera, a volte è frutto della vanagloria, a volte dell’ingordigia. L’acedia, a volte è frutto dell’abbondanza di cibo, a volte dell’assenza di timore di Dio. La bestemmia è propriamente un frutto della vanagloria, ma spesso può essere generata dal fatto di giudicare il prossimo nel proprio cuore, o anche dall’invidia importuna dei demoni. La durezza di cuore, a volte può essere generata dalla sazietà, ma spesso anche dall’insensibilità e da una qualche forma di attaccamento passionale. L’attaccamento passionale, a sua volta, è generato dalla fornicazione, dalla vanagloria, e da molte altre passioni. La malignità, dalla presunzione e dall’ira. L’ipocrisia, dall’autocompiacimento e dall’indipendenza di vita. Le virtù contrarie a queste passioni nascono dai genitori contrari. Ma per non dilungarmi troppo – perché mi mancherebbe il tempo, se volessi esaminarle una ad una – dirò soltanto che la vera distruttrice di tutte queste passioni è l’umiltà, e chi l’acquista, le ha vinte tutte. 30. All’origine di tutti i mali ci sono il piacere e la malignità24, e chi si attacca a queste cose, non vedrà il Signore: astenerci dal primo non ci gioverà a nulla, se non ci asteniamo anche dalla seconda.

31. Il modo in cui temiamo le autorità e le fiere, lo si prenda come esempio di timore del Signore25; e l’amore carnale sia modello del tuo desiderio di Dio26. Nulla ci impedisce infatti di trarre modelli di virtù dai loro contrari. 32. Questa nostra generazione è gravemente corrotta, ed è tutta piena d’orgoglio e d’ipocrisia: forse sostiene fatiche fisiche paragonabili a quelle dei nostri antichi padri, ma non è giudicata degna dei loro carismi; eppure – io credo – mai come ora la natura umana ha avuto tanto bisogno di carismi! Ma è normale che ci sia capitato questo, perché Dio non si manifesta nelle fatiche, ma nella semplicità e nell’umiltà! E se è pur vero che la potenza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza (2Cor 12,9)27, tuttavia il Signore non respingerà chi opera nell’umiltà (cf. Sal 93,14)! 33. Quando vediamo uno degli atleti di Cristo soffrire nel corpo, non cerchiamo, con malignità, di conoscere il motivo di quella sua infermità, ma piuttosto prendiamoci cura di lui, accogliendolo con amore semplice e schietto, come una delle nostre membra (cf. Rm 12,5), e come un nostro compagno d’armi ferito in guerra. 34. Ci sono malattie che servono a purificarci dai peccati, e altre che servono a umiliare il nostro spirito. Spesso il nostro buono e santissimo padrone e Signore, quando vede che alcuni sono particolarmente pigri nell’ascesi, umilia il loro corpo con la malattia, come con un’ascesi meno faticosa, e così, a volte, purifica anche la loro anima dai pensieri cattivi e dalle passioni. 35. Tutto quel che ci capita, sia di visibile che d’invisibile, possiamo accoglierlo bene o in modo passionale, o 25

Cf. supra, I,27. Cf. supra, V,6, n. 12. Forse, seguendo l’interpretazione di Exegesis (p. 408), bisogna intendere: “Se è pur vero che la potenza di Dio si manifesta in un corpo debole, che è stato reso tale dal digiuno e dalle altre pratiche ascetiche, tuttavia…”. 26 27

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Sulla malignità cf. supra, XXIV,4 ss.

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con una via di mezzo tra i due atteggiamenti. Ho visto tre fratelli subire una disgrazia: il primo si arrabbiò, il secondo rimase indifferente, e il terzo ne ricavò motivo di grande gioia. 36. Ho visto contadini28 gettare lo stesso seme, ma ciascuno con un’intenzione particolare: uno per pagare i propri debiti; un altro per accumulare ricchezza; un altro per onorare il Signore con i propri doni; un altro per essere lodato per la qualità del proprio lavoro da coloro gli passavano accanto lungo il cammino della vita; uno per affliggere il proprio nemico invidioso, e un altro per non essere rimproverato dagli uomini come scansafatiche. Ed ecco i nomi delle sementi gettate dai contadini: digiuno, veglie, elemosina, servizio, e altre cose simili a queste. Quanto alle intenzioni, siano i fratelli a valutarle attentamente, con l’aiuto del Signore. 37. Come quando attingiamo acqua a una fonte ci può capitare, senza accorgercene, di tirar su anche una rana, così quando pratichiamo le virtù spesso cerchiamo di appagare anche dei vizi ad esse segretamente intrecciati. Per esempio: all’ospitalità s’intreccia l’ingordigia; alla carità, la sensualità; al discernimento, la furbizia; alla prudenza, la malignità; alla mitezza, la falsità, la fiacchezza, la pigrizia, la contestazione, l’indipendenza di vita e la disubbidienza; al silenzio, l’orgoglio della propria dottrina; alla gioia, la presunzione; alla speranza, la pigrizia; alla carità, ancora, il giudizio contro il prossimo; all’esichia, l’acedia e la pigrizia; alla purezza, l’asprezza di comportamento; all’umiltà, l’eccessiva familiarità. A tutte queste virtù si accompagna la vanagloria, come un collirio, o meglio un veleno, sempre efficace!

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Cioè, fuori di metafora, monaci o asceti.

38. Non rattristiamoci se per molto tempo chiediamo al Signore qualcosa e non siamo esauditi29. Il Signore, infatti, vorrebbe certo che tutti gli uomini raggiungessero l’impassibilità in un attimo, ma, nella sua prescienza, sa che ciò non sarebbe vantaggioso per loro. Tutti coloro che chiedono qualcosa a Dio e non ottengono ciò che chiedono, certamente non l’ottengono per uno di questi motivi: o perché chiedono prematuramente, o in modo indegno, o mossi dalla vanagloria, o perché, se fossero esauditi, si gonfierebbero d’orgoglio, oppure perché, dopo aver ottenuto ciò che chiedono, diventerebbero negligenti. 39. Può capitare – non solo tra i credenti ma anche tra quelli che non credono – che alcuni siano liberati da tutte le passioni, a eccezione di una: questa sola passione rimane a occupare il posto di tutte le altre, come il primo di tutti i mali30, se è vero che essa è così dannosa da aver potuto perfino far cadere qualcuno dal cielo. 40. Che i demoni e le passioni si ritirino dall’anima, o per un certo tempo o definitivamente, credo che nessuno possa negarlo, ma pochi sanno in che modo avviene il loro ritiro. La materia31 è distrutta e consumata dal fuoco divino; e una volta che la materia è stata eliminata e l’anima purificata, allora si ritirano anche le passioni, se non le attiriamo di nuovo con una vita materiale e rilassata. I demoni si ritirano spontaneamente per indurci alla negligenza, e poi rapire improvvisamente la nostra povera anima.

29 Gli oggetti di tali richieste, come si comprende dalla frase seguente, sono la liberazione dalle passioni, o comunque benefici spirituali finalizzati al progresso nella virtù. 30 Cf. supra, XXII,6, n. 2. 31 Tutto ciò che è alimento delle passioni.

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Conosco anche un altro caso in cui queste bestie si ritirano: quando cioè l’anima si è perfettamente abituata alle passioni, e queste sono diventate talmente parte della sua natura, che ormai essa si tende insidie e si fa guerra da sola. Abbiamo un esempio di ciò nei neonati: per la lunga abitudine, infatti, anche quando ormai si sono staccati dal seno materno, continuano a succhiarsi le dita. Conosco anche una quinta forma di liberazione dalle passioni: quella che si realizza nell’anima grazie a una grande semplicità e a una lodevole innocenza; in questi casi, infatti, è giusto che Dio venga in aiuto, lui che salva i retti di cuore (Sal 7,11) e li libera dai vizi senza che essi se ne accorgano: come i neonati che, quando vengono spogliati, non se ne rendono conto. 41. Il vizio e la passione non sono naturali nella nostra natura: Dio infatti non è creatore delle passioni32; al contrario, da lui abbiamo ricevuto molte virtù naturali, tra le quali ci sono certamente anche queste: la misericordia, poiché anche i pagani sono misericordiosi; l’amore, poiché anche gli animali privi di ragione spesso piangono per la perdita di uno di loro; la fede, poiché tutti siamo in grado di generarla in noi stessi33; la speranza, poiché quando prendiamo in prestito e prestiamo denaro, quando navighiamo e quando seminiamo, speriamo sempre per il meglio. Se dunque, come abbiamo dimostrato, l’amore è in noi una virtù naturale, ed esso è vincolo e compimento della legge (cf. Col 3,14; Rm 13,10), allora le virtù non sono estranee alla natura. Si vergognino dunque quelli che adducono come pretesto l’impossibilità di praticarle!

32 Cf. infra, XXVI/2,41; per il concetto di “natura” cf. infra, “Glossario”, s.v. “Natura”. 33 Per l’idea della fede come dono naturale, cf. Clemente di Alessandria, Stromati VII,10,55; Evagrio Pontico, Trattato pratico 81.

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42. Sono invece superiori alla natura la purezza, la non-irascibilità, l’umiltà, la preghiera, le veglie, il digiuno e la compunzione continua: di alcune di queste virtù sono maestri gli uomini, di altre gli angeli, di altre maestro e largitore è lo stesso Verbo di Dio34. 43. Quando ci si trova di fronte a due mali, bisogna scegliere il male minore. Per esempio, spesso capita che, mentre siamo in preghiera, giungano da noi dei fratelli; allora è necessario scegliere una delle due cose: o interrompere la preghiera, o contristare il fratello lasciandolo andar via senza risposta. Ma la carità è più grande della preghiera, perché, come è universalmente riconosciuto, la preghiera è una virtù particolare, mentre la carità è una virtù che le comprende tutte (cf. 1Cor 13,13). Una volta, quand’ero ancora giovane, capitai in una città, o in un villaggio, e mentre me ne stavo seduto a tavola, fui assalito contemporaneamente dal pensiero dell’ingordigia e da quello della vanagloria, ma temendo che potesse spuntare la figlia dell’ingordigia35, preferii lasciarmi vincere dalla vanagloria. Ho notato però che, nei giovani, è spesso il demone dell’ingordigia ad avere la meglio su quello della vanagloria, e ciò è normale. 44. Tra i secolari, la radice di tutti i mali è l’avarizia (1Tm 6,10), ma tra i monaci è l’ingordigia. Spesso Dio, nella sua provvidenza, lascia negli spirituali alcune passioni meno gravi, affinché essi, accusandosi 34 Cf. Schol. 55, PG 88,1049B: “Maestri di purezza sono Elia, Giovanni il Precursore e Giovanni il Teologo; di mitezza, Mosè e David; di preghiera, lo stesso Verbo di Dio, l’angelo apparso ad Antonio, e quello apparso a Pacomio; del digiuno, ancora Mosè e lo stesso Signore; della veglia, molti, alcuni dei quali possedevano anche la compunzione; di umiltà, il Verbo di Dio che per noi si fece povero prendendo la nostra carne come Salvatore di tutti”; per i riferimenti ad Antonio e Pacomio, cf. Apoftegmi, Antonio 1; Palladio, Storia lausiaca 32,6-7; Vite greche di Pacomio III,32. 35 Cioè la fornicazione.

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continuamente per lievi mancanze – che non sono neanche peccati –, possano acquisire il tesoro inviolabile dell’umiltà. 45. Agli inizi del cammino monastico è impossibile acquisire l’umiltà senza vivere nella sottomissione, perché chiunque impara un’arte per proprio conto finisce per vantarsene. 46. I padri riconducono l’intera pratica delle virtù a due virtù di carattere molto generale: [la temperanza e l’obbedienza]; e giustamente, perché l’una consente di distruggere i piaceri, l’altra di preservare tale distruzione attraverso l’umiltà36. Per questo anche l’afflizione ha un duplice effetto: da una parte distrugge il peccato, e dall’altra produce l’umiltà. 47. È proprio delle persone pie dare a chiunque chiede (cf. Lc 6,30), e delle persone ancora più pie dare anche a chi non chiede; ma non richiedere a chi ci sottrae del nostro (cf. ibid.) – soprattutto quando ciò è possibile – è proprio soltanto di coloro che hanno raggiunto l’impassibilità. 48. Non cessiamo mai di esaminarci su tutte le passioni e su tutte le virtù, chiedendoci a che punto siamo, se all’inizio, a metà, o alla fine. Tutte le guerre che i demoni scatenano contro di noi sono riconducibili a queste tre cause37: all’amore del piacere, alla superbia, o alla loro invidia. Beati sono gli ultimi38, del tutto infelici i secondi, e buoni a nulla fino alla fine della vita i primi! 36 Seguo l’interpretazione dello scoliaste, PG 88,1240A, e di Exegesis (p. 415). L’autore vuol dire che ogni vera pratica di virtù prevede un momento di purificazione e di dominio di sé, e un momento di consolidamento di tale purificazione attraverso l’umiltà. Sulla temperanza e l’obbedienza come virtù fondamentali, cf. soprattutto Diadoco di Fotica, Capitoli 41-42; Basilio di Cesarea, Regole diffuse 16-17. 37 Cf. supra, § 4. 38 Cioè coloro che sono combattuti dall’ultima tentazione.

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49. Esiste un sentimento, o piuttosto una disposizione interiore, chiamata “capacità di sopportare il dolore”39, e chi ne è preso, non potrà più temere, né cercherà più di respingere il dolore: le anime dei martiri riuscirono facilmente a disprezzare i tormenti proprio perché erano possedute da questo nobile sentimento. 50. Una cosa è la vigilanza sui pensieri, e altra cosa la custodia della mente40. Quanto dista l’oriente dall’occidente (Sal 102,12), altrettanto la seconda è più elevata della prima, e più difficile da raggiungere. 51. Una cosa è pregare contro i pensieri cattivi, altro è contraddirli, e altro ancora disprezzarli e non tenerli in alcun conto41. Del primo atteggiamento rende testimonianza colui che dice: Dio vieni in mio aiuto (Sal 69,2), e altre cose simili; del secondo, colui che afferma: A coloro che mi insultano risponderò con una parola (Sal 118,42) adatta a contraddirli, e ancora: Ci hai posti come segno di contraddizione per i nostri vicini (Sal 79,7); del terzo atteggiamento è testimone il salmista: Sono rimasto muto e non ho più aperto la mia bocca (Sal 38,10), e: Ho posto una cu39 In greco: “Che sopporta la fatica (pheréponos)”, termine tipico della filosofia stoica (cf. ad esempio Marco Aurelio, A se stesso 1,5,1; 5,5,1). 40 Cf. Schol. 60, PG 88,1049C-D: “La ‘vigilanza sui pensieri’ significa respingere le immagini dei pensieri cattivi attraverso le lotte o la preghiera; la ‘custodia della mente’ è invece un cuore libero da ogni genere di prigionia e il ricordo incessante di Dio”. 41 Cf. Schol. 61, PG 88,1049D: “Il primo comportamento è dei deboli, i quali, non riuscendo in alcun modo a resistere ai nemici, li mettono in fuga attraverso la preghiera. Il secondo comportamento è dei lottatori che vincono i nemici attraverso l’ascesi. Il terzo comportamento è dei contemplativi, i quali, elevandosi tramite la contemplazione, sono irraggiungibili e, per così dire, inattaccabili dagli avversari”. Nel primo caso si prega di essere preservati dai pensieri cattivi, perché essi non penetrino nel cuore e non inneschino il meccanismo della tentazione; nel secondo caso, invece, si combatte contro i pensieri dopo averli lasciati penetrare nel proprio cuore. Sui diversi metodi per combattere i pensieri cattivi secondo l’insegnamento dei padri, cf. J.-P. Larchet, Thérapeutique des maladies spirituelles, pp. 530-534, e in particolare sul metodo della “contraddizione”, cf. infra, “Glossario”, s.v. “Contraddizione”.

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stodia alla mia bocca mentre il peccatore stava davanti a me (Sal 38,2), e ancora: Gli orgogliosi hanno gravemente trasgredito la tua legge, ma io non ho deviato dalla tua contemplazione (cf. Sal 118,51). Di questi tre modi, chi si serve del secondo, spesso utilizza anche il primo, quando è preso alla sprovvista; chi si serve del primo, non è ancora in grado di respingere i nemici mediante il secondo; chi poi si serve del terzo, disprezza totalmente i demoni. 52. Secondo natura è impossibile che ciò che è incorporeo42 sia contenuto nei limiti di un corpo; ma tutto è possibile a chi possiede Dio (cf. Mc 9,23)! 53. Come coloro che hanno l’olfatto sano riescono a capire se qualcuno tiene nascosti dei profumi, così anche l’anima pura è in grado di riconoscere negli altri sia il buon odore che essa stessa ha ricevuto da Dio, sia il cattivo odore dal quale si è liberata, e questo anche quando gli altri non se ne accorgono43. 54. Non è possibile che tutti raggiungano l’impassibilità, ma che tutti siano salvati e riconciliati con Dio, non è impossibile (cf. 1Tm 2,4; 2Cor 5,20). 55. Non lasciarti dominare da quegli stranieri44 (cf. Sal 18,14) che pretendono di discutere con arroganza sugli ineffabili disegni di Dio e sulle visioni concesse agli uomini, suggerendoci segretamente che Dio fa preferenze di persone (cf. At 10,34): sono infatti figli dell’orgoglio, e come tali si fanno riconoscere! 56. Il demone dell’avarizia spesso finge l’umiltà45; e il

demone della vanagloria – come anche quello dell’amore del piacere – ci incita all’elemosina: purifichiamoci dunque da entrambi, e poi non smettiamo di esercitare la misericordia in ogni circostanza. 57. Alcuni hanno affermato che i demoni si oppongono gli uni agli altri46, ma io so per esperienza che tutti cercano la nostra rovina. 58. Ogni atto spirituale, esteriore o interiore, è preceduto da un’intenzione particolare e da un desiderio buono, che sorgono in noi grazie all’aiuto di Dio: se prima non si pongono questi fondamenti, l’atto non può seguire47. 59. Se c’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo (Qo 3,1), come dice l’Ecclesiaste, e se in “ogni cosa” sono comprese anche le sante opere del nostro genere di vita, stiamo ben attenti, vi prego, ed esaminiamo in ogni momento quali siano le azioni proprie di ogni tempo. È certo, infatti, che per coloro che lottano c’è un tempo per l’impassibilità e un tempo per le passioni – lo dico per coloro che sono ancora bambini nella lotta –; c’è un tempo per le lacrime e un tempo per la durezza di cuore; un tempo per obbedire e un tempo per comandare; un tempo per fare digiuno e un tempo per prendere cibo; un tempo per subire la guerra da parte del corpo, nostro nemico, e un tempo per mettere a morte gli ardori passionali; un tempo per la burrasca dell’anima e un tempo per la calma della mente; un tempo per la tristezza del cuore e un tempo per la gioia spirituale; un tempo per l’insegnamento, e un tempo per l’ascolto; un tempo per la contamina46

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Cioè la mente; cf. infra, XXVII/1,5, n. 4. 43 Il buono e il cattivo odore indicano la presenza di Dio o dei demoni nell’anima. 44 Per “stranieri” bisogna intendere qui i demoni che insidiano l’anima. 45 Suggerendoci, cioè, di non condividere le ricchezze per evitare l’ostentazione.

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Cf. ad esempio Evagrio Pontico, Trattato pratico 58. Lett.: “Se le prime cose non vengono poste come fondamenti, la seconda non può seguire”. I commentatori antichi interpretano l’intera frase in modo diverso: “Ogni atto spirituale è preceduto dalla nostra propria intenzione e dal nostro desiderio buono, che sono accompagnati dall’aiuto di Dio. Se non si pongono come fondamenti la nostra intenzione e il nostro desiderio, l’aiuto di Dio non può seguire” (cf. Schol. 64, PG 88,1052B; Exegesis, p. 418). 47

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zione, forse a causa del nostro orgoglio, e un tempo per la purificazione, attraverso l’umiltà; un tempo per la lotta e un tempo per il riposo tranquillo; un tempo per l’esichia e un tempo per l’attività frenetica e senza distrazione; un tempo per la preghiera incessante (cf. 1Ts 5,17) e un tempo per il servizio sincero. Non lasciamoci perciò trascinare da zelo superbo a cercare prima del tempo ciò che deve venire a suo tempo! Non cerchiamo in inverno ciò che è proprio dell’estate, o nel tempo della semina ciò che deve venire nel tempo della mietitura, perché c’è un tempo per seminare le fatiche e un tempo per mietere gli ineffabili doni di grazia; altrimenti, neppure quando sarà giunto il tempo potremo raccogliere i frutti propri di quel tempo! 60. Per un misterioso disegno di Dio, alcuni hanno ricevuto da lui le sante ricompense per le proprie fatiche prima ancora di averle sostenute, altri mentre le sostenevano, altri dopo averle sostenute, e altri ancora al momento della morte. Bisogna chiedersi quale di questi sia diventato più umile. 61. C’è una disperazione che è frutto di una moltitudine di peccati e di una coscienza gravata da un rimorso insostenibile, quando cioè l’anima, sommersa dalla moltitudine delle sue ferite, sotto il loro peso sprofonda nell’abisso della disperazione. C’è poi una disperazione che sorge in noi come conseguenza della superbia e della presunzione, quando cioè pensiamo di non aver meritato la caduta che ci è capitata. Chi osserva con attenzione, scoprirà le seguenti caratteristiche in ciascuno dei due casi: nel primo ci si abbandona ormai all’indifferenza; nell’altro, pur in mezzo alla disperazione, si continua a praticare l’ascesi, anche se ciò non giova a nulla. Nel primo caso si può guarire con l’astinenza e con una salda speranza, nel secondo con l’umiltà e non giudicando nessuno. 374

62. Non dobbiamo stupirci o far meraviglie vedendo alcuni predicare il bene e compiere il male, perché, perfino in paradiso, l’orgoglio riuscì a innalzare e mandare in perdizione il serpente (cf. Gen 3,1-15). 63. In ogni tua attività e in ogni tuo comportamento, sia che tu viva nella sottomissione sia nel caso contrario, sia nelle opere visibili sia in quelle spirituali, abbi come criterio e regola che esse siano veramente secondo Dio. Se cioè intraprendiamo un’opera qualsiasi – parlo per i principianti –, e da essa non ricaviamo nell’anima un’umiltà più grande di quella che avevamo, piccola o grande che sia quell’opera, mi sembra che non la compiamo secondo Dio. 64. Per noi che siamo ancora dei bambini48, è dunque questo il criterio49 che ci dà la piena certezza di compiere la volontà del Signore; per coloro che sono a metà del cammino, è forse la cessazione delle lotte; per i perfetti, l’aumento e l’abbondanza di luce divina. Le piccole cose, realizzate dai grandi, possono non essere realmente piccole, ma le grandi cose, realizzate dai piccoli, certamente non sono ancora perfette50. 65. Come il cielo sgombro di nuvole ci permette di vedere lo splendore del sole, così l’anima che si è liberata dalle proprie predisposizioni passionali e ha ottenuto il perdono dei peccati, riesce certamente a vedere la luce divina. 48

In senso spirituale: cf. 1Cor 3,1. Cioè la crescita dell’umiltà. Secondo l’interpretazione dell’Exegesis (pp. 421-422), quest’ultima frase sfuma e corregge i criteri enunciati nella precedente. Fatti salvi quei criteri generali – intenderebbe dire l’autore – è sempre possibile che i segni indicati come criteri di conformità alla volontà di Dio per i principianti s’incontrino anche nei perfetti, e viceversa; ogni cosa però è proporzionata alla grandezza delle persone: le cose che sembrano piccole, come l’umiltà, possono diventare grandi quando sono compiute da “grandi”, e le cose che paiono grandi, come l’illuminazione divina durante la preghiera, sono ancora imperfette quando sono compiute da “piccoli”; non bisogna illudersi dunque di essere arrivati alla perfezione prima del tempo. 49 50

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66. Una cosa è il peccato, altra l’ozio, altra la negligenza, altra la passione, e altra ancora la caduta. Chi, con l’aiuto del Signore, è in grado di indagare il senso di queste parole, lo faccia e chiarisca51. 67. Tra i carismi spirituali alcuni esaltano soprattutto quello di compiere miracoli in modo visibile, ma non sanno che ne esistono molti altri superiori a questo, che, essendo nascosti, non vengono mai meno52. 68. Chi si è perfettamente purificato, vede, se non proprio l’anima stessa del prossimo, almeno lo stato in cui essa si trova; ma chi sta ancora progredendo, ne giudica in base al corpo. 69. Spesso un piccolo fuoco può distruggere l’intera foresta; e una piccola falla può vanificare tutta la nostra fatica. 70. Esiste un riposo accordato alla carne, nostra nemica, che risveglia le energie della mente, senza eccitare l’ardore delle passioni; ed esiste una sua macerazione eccessiva che invece può perfino risvegliare i moti passionali: questo affinché non confidiamo in noi stessi ma in Dio (2Cor 1,9) che può mortificare questa carne vivente senza che neppure ce ne accorgiamo. 71. Quando vediamo che alcuni ci dimostrano affetto nel Signore, guardiamoci dall’eccessiva familiarità soprattutto nei loro confronti, perché non c’è niente che possa dissolvere la carità e ingenerare l’odio come tale familiarità! 72. L’occhio dell’anima53 è spirituale e di una bellezza straordinaria, superiore a quella di ogni altra creatura, a 51 Cf. Schol. 73, PG 88,1053C-D: “‘Peccato’ è la trasgressione di un comandamento qualunque, anche del più piccolo; ‘ozio’ è non compiere e non realizzare le opere di Dio; ‘negligenza’ è realizzarle, ma svogliatamente; ‘passione’ è l’inclinazione stabile e difficilmente correggibile della mente verso ciò che le nuoce; ‘caduta’ è scivolare nell’incredulità o cadere in preda alle passioni del corpo”. 52 Perché di essi non possiamo vantarci con il rischio di perderli. 53 Cioè la mente; cf. supra, XXII,22.

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parte le sostanze incorporee54; per questo spesso anche uomini soggetti alle passioni riescono a discernere i pensieri presenti in altre anime grazie al grande amore che provano per esse, e ciò soprattutto quando sono immersi nel fango delle proprie sozzure. 73. Se è vero che nulla si oppone a ciò che per natura è immateriale quanto ciò che è materiale, chi legge comprenda (Mt 24,15; Mc 13,14)! 74. Per quanti vivono nel mondo, le superstizioni55 si oppongono alla provvidenza di Dio; per noi monaci, sono un ostacolo alla conoscenza spirituale. Chi è debole e infermo nell’anima, riconosca la visita di Dio nei tormenti del corpo, nei pericoli e nelle prove esteriori; i perfetti, invece, nella presenza dello Spirito santo in loro e nell’aumento dei carismi. 75. Vi è un demonio che, appena ci corichiamo a letto, si avvicina a noi e comincia a bersagliarci con i suoi pensieri cattivi e impuri, per far sì che noi, se per pigrizia non ci alziamo a pregare e non ci armiamo contro di lui, ci addormentiamo in tali pensieri impuri e facciamo dei sogni impuri. 76. Tra gli spiriti maligni ve n’è uno chiamato “precursore”, che ci assale appena ci svegliamo dal sonno e cerca di contaminare il nostro primo pensiero. Ma tu offri al Signore le primizie della tua giornata56, perché essa apparterrà a chi per primo ne avrà preso possesso! Un eccellente asceta mi disse queste parole degne di essere ascoltate: “Fin dal mattino – disse – conosco tutto il corso della mia giornata!”. 54

Cioè gli angeli. Lett.: “Le osservanze (parateréseis)”; seguo l’interpretazione di Exegesis (p. 423). 56 Cf. Evagrio Pontico, Sulla preghiera 126: “Compie la preghiera colui che offre sempre a Dio ogni proprio primo pensiero”. 55

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77. Molte sono le vie della pietà, e molte quelle della perdizione: capita spesso, perciò, che, mentre si procede in senso contrario rispetto a qualcuno, si vada al passo con qualcun altro; e il Signore gradisce l’intenzione degli uni e degli altri. 78. In tutte le tentazioni che ci assalgono, i demoni si sforzano di farci dire o fare qualcosa di sconveniente; e quando non ci riescono, si avvicinano a noi silenziosamente e ci suggeriscono di elevare a Dio un ringraziamento pieno di superbia. 79. Chi pensa alle cose di lassù (cf. Col 3,2), quando si separa dal corpo, sale in alto, almeno con una parte di sé; al contrario, chi pensa alle cose di quaggiù, scende in basso: non c’è alcuna via di mezzo, infatti, per quanti si separano dal corpo. 80. Una sola creatura non ha ricevuto l’essere in se stessa ma in un altro57, ed è meraviglioso come essa possa sussistere anche senza quello nel quale ha ricevuto l’essere. 81. Le figlie pie le generano le madri, ma le madri le genera il Signore58; e non è sbagliato applicare questa regola anche ai loro contrari59. 82. Mosè, o meglio Dio stesso, ordina: “Il pusillanime non esca in guerra!” (cf. Dt 20,8), perché non rischi – come è normale – di cadere nell’estremo traviamento dell’anima, che è assai peggiore della precedente caduta del corpo60. 57

Si tratta dell’anima, che è creata in un corpo. Le “madri” sono le virtù fondamentali, dalle quali derivano le virtù particolari. 59 Nel senso cioè che i vizi particolari sono generati dai vizi fondamentali, e questi ultimi dal demonio. 60 L’autore intende dire che chi non è in grado di sopportare le tentazioni e le lotte non deve entrare nella vita monastica, perché, cadendo nel peccato, non rischi di cadere anche nella completa disperazione. Il testo di Rader e di Ignatios aggiunge di seguito anche questa frase, assente in Sophronios: “Gli occhi sensibili sono la luce di tutte le membra del corpo; così il discernimento è la luce spirituale delle divine virtù”. 58

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Discorso XXVI/2 SUL BUON DISCERNIMENTO

1. Come la cerva arsa dalla sete anela alle fonti (cf. Sal 41,2), così i monaci desiderano ardentemente comprendere quale sia la volontà buona e conforme alla volontà di Dio; ma, oltre a questa, vogliono anche conoscere la volontà che mescola in sé bene e male1, e inoltre quella che è decisamente contraria alla volontà di Dio; e sono argomenti sui quali il discorso sarebbe veramente lungo e difficile (Eb 5,11). Quali, per esempio, tra le opere che siamo tenuti a fare, devono essere compiute senza indugio e il più presto possibile, ascoltando colui che dice: “Guai a colui che rimanda da un giorno all’altro e da un tempo all’altro” (cf. Sir 5,7)? E quali invece devono essere compiute con prudenza e circospezione, come esorta colui che ha detto: È con una guida intelligente che si conduce la guerra (Pr 24,6), e ancora: Ogni cosa sia fatta con decoro e con ordine (1Cor 14,40)? Non è certo da tutti, infatti, dare un giudizio rapido e chiaro su questioni di così difficile discernimento, se – come leggiamo – anche David, che era ripieno di Dio e nel quale parlava lo Spirito santo, pregava spesso per questo, dicendo: Insegnami a fare la tua volontà, perché sei tu 1 Lett.: “Mista (synkekraménou)”, cioè quella volontà che spinge a compiere il bene ma non con retta intenzione.

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il mio Dio (Sal 142,10), e un’altra volta: Guidami sulla tua verità (Sal 24,5), e ancora: Fammi conoscere, Signore, la via da seguire perché a te ho elevato e innalzato l’anima mia (Sal 142,8), allontanandola da ogni preoccupazione di questa vita e da ogni passione. 2. Quanti vogliono conoscere la volontà del Signore, prima mettano a morte la propria; poi, dopo aver pregato con fede e con candida semplicità e aver consultato le anime dei padri, o anche dei fratelli, con umiltà di cuore e senz’ombra di diffidenza nel pensiero, accolgano i loro consigli come dalla bocca di Dio, anche se sono contrari alle loro personali intenzioni, e anche se gli interpellati sono tutt’altro che uomini spirituali: Dio infatti non è ingiusto (Eb 6,10) da ingannare le anime che con fede e semplicità si sottomettono umilmente ai consigli e ai giudizi del loro prossimo; infatti, se anche gli interpellati fossero delle bestie senza ragione, colui che parla è sempre l’Immateriale e l’Invisibile! Coloro che senz’alcuna esitazione si attengono alla regola sopra indicata, sono colmati di una grande umiltà. Del resto, se qualcuno poteva sciogliere il proprio enigma sulla cetra (Sal 48,5), non credete forse che una mente ragionevole e un’anima spirituale potranno darci una risposta assai migliore di uno strumento inanimato2? Molti, però, non essendo riusciti a raggiungere questo comportamento a un tempo facile e perfetto a causa della propria presunzione, hanno tentato di scoprire da soli in se stessi la volontà del Signore, lasciandoci molti e svariati pareri al riguardo.

3. Alcuni, in tale ricerca3, hanno prima allontanato il proprio pensiero da qualsiasi attaccamento all’una o all’altra inclinazione dell’anima – cioè a dare o a rifiutare il consenso a un’azione –; quindi, dopo aver presentato per un certo numero di giorni al Signore, in una preghiera fervente, la loro mente spoglia di qualsiasi volontà propria, sono arrivati a riconoscere la sua volontà; e questo sia che un’intelligenza spirituale4 abbia parlato spiritualmente alla loro mente, sia che una delle due inclinazioni sia scomparsa totalmente dalla loro anima. Altri hanno compreso che l’opera che stavano intraprendendo era conforme alla volontà di Dio dalle tribolazioni e dagli impedimenti che l’hanno accompagnata, secondo le parole di colui che ha detto: Abbiamo desiderato venire da voi una volta, anzi due, ma Satana ce lo ha impedito (1Ts 2,18). Altri, al contrario, per aver ricevuto un aiuto inatteso nella propria opera, hanno intuito che essa era gradita a Dio, ripetendo quelle parole: “A chiunque si propone di fare il bene Dio viene in aiuto! (cf. Rm 8,28)”. 4. Chi per mezzo dell’illuminazione possiede Dio in se stesso, di solito, sia nei casi urgenti sia in quelli che possono attendere, riceve la piena certezza della sua volontà nel secondo modo5, senza però che passi molto tempo. 5. Esitare nelle proprie decisioni e rimanere a lungo incerti è indizio di un’anima che non ha ricevuto l’illuminazione e cerca la propria gloria: Dio non è ingiusto (Eb 6,10) da chiudere la porta a coloro che bussano con umiltà (cf. Mt 7,7-11)! In tutte le azioni, sia in quelle urgenti che in

2 Il senso della frase è il seguente: se Davide, l’autore del Salterio, riusciva a sciogliere i propri enigmi servendosi della cetra, che è uno strumento inanimato (il senso della citazione è evidentemente adattato al contesto), con tanto maggior successo i monaci potranno consultare i propri padri spirituali che sono dotati di anima e di ragione.

3 Cioè nel tentativo di scoprire se un’azione era o meno conforme alla volontà di Dio. 4 Probabilmente un angelo. 5 Con la preghiera, che è il secondo metodo indicato per conoscere la volontà di Dio, dopo la consultazione del padre spirituale.

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quelle che richiedono di essere rimandate, ciò che dobbiamo valutare davanti al Signore è l’intenzione: infatti, tutte le azioni pure da ogni attaccamento e contaminazione passionale, compiute unicamente per il Signore e non per altro fine, anche se non sono del tutto buone, tuttavia ci verranno accreditate come buone. Del resto, cercare di conoscere più di quanto possiamo, può essere rischioso. 6. Il giudizio del Signore su di noi è imperscrutabile. A volte infatti vuole nasconderci provvidenzialmente la sua volontà, sapendo che, anche se la conoscessimo, non vi obbediremmo, e quindi riceveremmo più percosse (cf. Lc 12,47). 7. Un cuore retto resta lontano dalle azioni complicate e naviga senza pericolo sulla barca dell’innocenza. 8. Ci sono anime coraggiose che, per ardente amore di Dio e umiltà di cuore, si lanciano in opere superiori alle loro forze, e ci sono cuori superbi che fanno lo stesso. Spesso infatti i nostri nemici mirano a suggerirci azioni superiori alle nostre forze, perché, cadendo nell’acedia in seguito a esse, trascuriamo anche quelle che sono in nostro potere, e così diventiamo oggetto di riso per i nostri nemici. 9. Ho visto persone, debilitate nell’anima e nel corpo per la moltitudine delle loro cadute, intraprendere lotte superiori alle loro forze senza riuscire a sostenerle: a esse spiegai che Dio giudica la nostra penitenza non in base alla quantità di fatiche, ma al grado di umiltà. 10. A volte l’educazione può essere causa dei più grandi mali, come possono esserlo le cattive frequentazioni, ma spesso, a rovinare un’anima, basta la sua stessa perversione. Chi è riuscito a salvarsi dai primi due mali, forse potrà evitare anche il terzo, ma chi possiede in se stesso il terzo, si condanna alla perdizione in qualunque luogo si trovi: infatti non c’era luogo più sicuro del cielo6 … 6

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Sottinteso: “… eppure Lucifero riuscì a cadere anche di lassù”.

11. Se dei miscredenti o degli eretici vengono a discutere con noi con intenzioni malevole, dopo una o due ammonizioni (Tt 3,10), interrompiamo la discussione, ma non stanchiamoci di fare del bene (Gal 6,9) a coloro che desiderano conoscere la verità; comunque, sia nell’uno che nell’altro caso, approfittiamone per rinsaldarci nel nostro cuore. 12. Sarebbe alquanto stupido chi, sentendo parlare delle virtù soprannaturali dei santi, cadesse nella disperazione. Esse, al contrario, possono ammaestrarti in modo eccellente: o incitandoti all’emulazione attraverso l’esempio di un santo coraggio, oppure conducendoti, per mezzo della santissima umiltà, a un profondo disprezzo di te stesso e al riconoscimento della debolezza che è in te. 13. Tra i demoni impuri ve ne sono alcuni più cattivi degli altri, i quali non solo ci consigliano di peccare, ma vogliono che rendiamo complici del nostro male anche altri, per poterci procurare così un castigo più severo. Una volta ho visto un uomo apprendere da un altro una cattiva abitudine: frattanto, colui che gliel’aveva insegnata, presa coscienza del proprio peccato, cominciò a far penitenza e cessò di compiere il male, ma a causa delle opere del discepolo la sua penitenza rimase inefficace7. 14. Grande, veramente grande e difficile da discernere è la malizia degli spiriti cattivi: pochi la riconoscono, e neanche questi pochi, credo, interamente! Perché spesso succede che, quando mangiamo in abbondanza e siamo sazi di cibo, riusciamo a vegliare con la mente lucida, e quando digiuniamo e soffriamo la fame, crolliamo miseramente dal sonno? Perché, quando restiamo nell’esichia e nella solitudine, i nostri cuori s’induriscono, e quando stiamo in compagnia di altri, raggiungiamo 7 Non gli servì, cioè, né a ottenere il perdono di Dio, né a raggiungere un’autentica conversione.

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la compunzione? Perché, quando siamo affamati, siamo tentati durante il sonno, e quando siamo satolli, non subiamo tentazioni? E perché, quando siamo nell’indigenza, diventiamo tenebrosi e incapaci di compunzione, e quando beviamo del vino, diventiamo radiosi e inclini alla compunzione? In queste cose, chi dal Signore ne ha ricevuta la capacità, illumini chi è senza luce, perché noi su tali questioni non siamo stati illuminati. Possiamo soltanto dire che alterazioni come queste non sono sempre frutto dell’azione dei demoni, ma a volte anche del temperamento che ciascuno di noi ha ricevuto e di questa pinguedine sordida e golosa che – non so come mai – ci avvolge. Per queste anomale alterazioni di cui si è appena parlato e su cui è difficile formulare giudizi chiari dobbiamo pregare con sincerità e umiltà il Signore: se poi vediamo che, anche dopo aver pregato per un po’ di tempo, il fenomeno continua come prima, possiamo essere certi che non è opera dei demoni ma della natura. Spesso però può essere opera anche della provvidenza di Dio, la quale vuole assicurare il nostro bene anche con dei mezzi contrari, per reprimere in tutti i modi possibili la nostra presunzione. È pericoloso mettersi a scrutare con curiosità l’abisso dei giudizi di Dio, perché i curiosi navigano sulla barca dell’orgoglio. Tuttavia, a causa della debolezza di molti, bisogna parlarne un po’. 15. Un tale chiese a un uomo dotato di discernimento: “Perché mai Dio, pur prevedendo le cadute di alcuni, concede loro dei carismi e il dono di compiere miracoli?”. E quello rispose: “Allo scopo di mettere in guardia anche gli altri spirituali, di manifestare la libertà della volontà, e di togliere ogni possibile giustificazione a chi è caduto al momento del giudizio!”. 384

16. La legge, che è ancora imperfetta, dice: Veglia su te stesso! (Dt 4,9; 15,9), ma il Signore, che supera ogni perfezione, ci ha ordinato anche la correzione del fratello, dicendo: Se il tuo fratello pecca contro di te (Mt 18,15), e quel che segue. Se il tuo modo di rimproverare, o piuttosto di richiamare, è puro e umile, non trascurare di compiere il comandamento del Signore; ma se non sei ancora giunto a tanto, almeno osserva la legge! 17. Non ti meravigliare se vedi che quelli che ti sono amici ti diventano nemici a causa dei tuoi rimproveri: i monaci più vacui, infatti, sono strumenti dei demoni, e soprattutto contro i loro nemici8! 18. Tra le cose che ci accadono, una mi meraviglia particolarmente: perché, pur avendo come cooperatori nelle virtù Dio onnipotente, gli angeli e i santi9, e nelle passioni soltanto il demonio maligno, ci pieghiamo più facilmente e più rapidamente alle passioni? Su questo argomento non voglio parlare in dettaglio, né potrei. 19. Se le creature rimangono nella condizione naturale in cui furono create, “perché mai io che sono immagine di Dio – come dice il grande Gregorio – sono impastato con il fango”10? Se però qualcuno tra gli esseri creati si trova in una condizione diversa rispetto a quella in cui fu creato, non può che avere un desiderio insaziabile di ciò che gli appartiene per natura11. 20. Ciascuno usi ogni mezzo possibile per elevare e far sedere sul trono di Dio – se così posso esprimermi – il proprio fango12. Nessuno dunque trovi scuse per non compiere 8

I nemici dei demoni sono coloro che praticano le virtù. Sul concetto di “cooperazione (synérgheia)” cf. infra, “Glossario”. 10 Gregorio di Nazianzo, Orazioni 14,6. Cf. supra, XV,83, n. 63. 11 Così l’uomo, essendo stato creato immortale e avendo perduto l’immortalità a causa del suo peccato, non può non desiderare insaziabilmente di ritornare nella condizione originaria. 12 Cioè il proprio corpo. 9

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la salita: la via e la porta sono aperte (cf. Gv 10,9; 14,6)13! 21. L’ascolto delle opere compiute dai padri spirituali risveglia lo zelo della mente e dell’anima, ma l’ascolto dei loro insegnamenti conduce chi è pieno di zelo a imitarli. 22. Il discernimento è una lampada nelle tenebre, una via di ritorno per gli erranti, e una luce per i miopi. Chi possiede il dono del discernimento fa ritrovare la salute e distrugge la malattia. 23. Coloro che per ogni minima cosa fanno grandi meraviglie, generalmente si comportano così per due motivi: o per la loro estrema ignoranza, o allo scopo di acquistare l’umiltà, magnificando ed esaltando le azioni del prossimo. 24. Sforziamoci non solo di lottare contro i demoni, ma di far loro guerra aperta: chi lotta, infatti, a volte colpisce, a volte è colpito; ma chi fa guerra aperta incalza continuamente il nemico. 25. Chi ha vinto le passioni, ferisce i demoni: fingendo di essere ancora in preda alle passioni, inganna i suoi nemici e così non subisce i loro attacchi. Una volta, un fratello ricevette un’umiliazione e, senza esserne minimamente turbato nel proprio cuore, si mise a pregare mentalmente; poi cominciò a lamentarsi delle umiliazioni subite, nascondendo la propria impassibilità dietro una finta passione. Un altro fratello, che non ambiva affatto ad avere il primo posto, si mise a fingere di darsi un gran da fare per ottenerlo. Come descriverti la purezza, poi, di quell’uomo che, entrato in un bordello, apparentemente con l’intenzione 13

Con la sua morte e risurrezione Cristo ha aperto a ogni uomo la via e la porta – che lui stesso è – per giungere alla “divinizzazione”, cioè alla piena comunione con Dio.

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di peccare, vi fece uscire la prostituta spingendola alla vita ascetica14? A un altro esicasta, una volta qualcuno portò al mattino presto un grappolo d’uva, ed egli, dopo aver congedato la persona che glielo aveva portato, pur senza avere appetito, lo mangiò in gran fretta, per apparire ingordo agli occhi dei demoni. Un altro, avendo perduto alcune foglie di palma, per tutto un giorno fece finta di esserne addolorato. Coloro che si comportano in questo modo, però, hanno bisogno di molta vigilanza, altrimenti, volendo prendere in giro i demoni, finiscono per prendere in giro se stessi! È proprio a queste persone che l’Apostolo si riferiva dicendo: Considerati impostori, ma in realtà veritieri (2Cor 6,8). 26. Se qualcuno vuole offrire a Cristo un corpo casto e presentargli un cuore puro, custodisca attentamente la non-irascibilità e la continenza: senza di esse, infatti, ogni nostra fatica è inutile! 27. Come sono diversi i gradi in cui la luce può essere percepita dagli occhi umani, così sono molti e diversi i modi in cui il sole spirituale può spandere la sua luce nell’anima: altra è l’illuminazione che si produce attraverso le lacrime del corpo, e altra quella che si produce attraverso le lacrime dell’anima; altra quella che penetra attraverso gli occhi del corpo, e altra quella che penetra attraverso gli occhi della mente; altra è quella che proviene dall’ascolto di una parola, e altra quella che sorge come gioia spontanea nell’anima; altra è quella che è frutto dell’esichia, e altra quella che è frutto dell’obbedienza. Accanto a tutte queste, si distingue particolarmente quel14 Il riferimento, come segnala lo scoliaste, è a un episodio della vita di abba Serapione, padre del deserto egiziano: cf. Apoftegmi, Serapione 1; ma episodi simili sono attribuiti anche ad altri padri del deserto: cf. ibid., Giovanni Nano 40; Timoteo 1.

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la che conduce la mente in presenza di Cristo facendola uscire da se stessa in modo ineffabile e inesprimibile, e immergendola in una luce spirituale. 28. Ci sono le virtù, e ci sono le madri delle virtù15: chi è saggio si sforza soprattutto di acquistare le madri. Di queste “madri” è maestro Dio stesso, con la propria azione; delle “figlie”, i maestri sono moltissimi16. 29. Stiamo attenti a non compensare la mancanza di cibo con l’abbondanza di sonno, perché questo è un comportamento da insensati, come anche il contrario! In qualche particolare circostanza, ho visto monaci operosi cedere un po’ al proprio ventre, ma poi subito, da forti quali erano, castigare quel miserabile vegliando in piedi per tutta la notte, insegnandogli così per l’avvenire a evitare con gioia la sazietà. 30. Il demonio dell’avarizia lotta aspramente contro coloro che hanno rinunciato a ogni possesso; se però non riesce a vincerli, allora, con il pretesto dei poveri, cerca di convincere questi uomini immateriali a diventare di nuovo materiali17. 31. Quando siamo scoraggiati18, non cessiamo di richiamarci alla mente il comandamento che il Signore ha dato a Pietro, di perdonare settanta volte sette a chi pecca, perché ciò che ha comandato a un altro, egli stesso lo farà in misura molto maggiore (cf. Mt 18,21)19! Quando invece ci 15

Cf. supra, XXVI/1,81. Cf. supra, XXVI/1,42. Cioè ad acquistare ricchezze per fare l’elemosina ai poveri. 18 Sottinteso: “A causa dei nostri peccati”. 19 Il comandamento evangelico del perdono illimitato viene inteso, ex parte Dei, come promessa di perdono illimitato. Per la stessa interpretazione, cf. Apoftegmi, Poemen 86: “Un fratello chiese al padre Poemen: ‘Se l’uomo è molto invischiato in una qualche colpa, e poi si converte, sarà perdonato da Dio?’. L’anziano gli disse: ‘Il Dio che ha comandato agli uomini di fare questo, non lo farà ancor più egli stesso? Egli infatti ha dato a Pietro quest’ordine: Perdona al tuo fratello fino a settanta volte sette’”; cf. anche Basilio di Cesarea, Sulla creazione dell’uomo 2,10; Gregorio di Nazianzo, Orazioni 39,18; 41,3. 16 17

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gonfiamo di superbia, ricordiamoci ancora di colui che ha detto: Chiunque osservi tutta la legge spirituale, ma cada anche in una sola passione – cioè nella superbia –, diventa colpevole di tutto (Gc 2,10)! 32. Tra gli spiriti maligni e invidiosi ve ne sono alcuni che, in particolari condizioni, si ritirano volontariamente dai santi, per non procurar loro corone tormentandoli con guerre in cui non riescono a vincerli. 33. Beati gli operatori di pace (Mt 5,9)! – e nessuno lo contesta –; ma io ho visto anche dei beati seminatori di discordia. Due giovani avevano intrecciato una relazione peccaminosa, e un uomo dotato di conoscenza e di grande esperienza spirituale divenne strumento di inimicizia tra di loro: andando a dire a uno che l’altro lo insultava, e facendo lo stesso con l’altro, quell’uomo pieno di sapienza riuscì a stornare la malizia dei demoni con l’astuzia umana, suscitando un odio capace di sciogliere quel legame peccaminoso. 34. C’è chi trascura un comandamento per osservarne un altro: ho visto infatti due giovani che erano legati l’uno all’altro da un’amicizia secondo Dio, e tuttavia, per non dare scandalo o ferire la coscienza di qualcuno (cf. 1Cor 10,28-29), decisero di comune accordo di allontanarsi l’uno dall’altro per un certo tempo. 35. Come una festa di matrimonio non si concilia con un funerale, così la superbia non si accorda con la disperazione: tuttavia, a causa del disordine provocato dai demoni, è possibile vederle assieme. 36. Ci sono demoni impuri che, agli inizi del nostro cammino monastico, vengono a spiegarci come interpretare le divine Scritture; e hanno l’abitudine di far questo soprattutto nel cuore di chi è incline alla vanagloria, specialmente se ha pratica della sapienza mondana, per ingannarlo a poco a poco, e così condurlo fino all’eresia e alla bestemmia. 389

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Riconosceremo questi discorsi su Dio – o piuttosto questi inutili sprechi di parole!20 – come opera dei demoni, dall’agitazione e dalla gioia sfrenata e disordinata che sorgono nell’anima al momento di tali spiegazioni. 37. Tutte le realtà create hanno ricevuto dal Creatore un ordine e un inizio, e alcune anche una fine, ma il limite della virtù è senza limite21; dice infatti il salmista: Di ogni compimento ho visto il termine, ma il tuo comandamento è immenso (Sal 118,96) e senza limiti. 38. Se alcuni asceti pieni di buona volontà passano di potenza in potenza (cf. Sal 83,8), ossia dalla pratica alla contemplazione, e se la carità non avrà mai fine (1Cor 13,8), e se il Signore custodirà la tua entrata, che è il timore, e la tua uscita, che è la carità (cf. Sal 120,8)22, allora il limite di questa virtù è davvero senza limite, e non finiremo mai di progredire in essa, né nel secolo presente né in quello futuro, aggiungendo continuamente luce a luce. E anche se l’affermazione potrà sembrare un po’ strana ai più, tuttavia devo farla: direi cioè che, in base alla dimostrazione che abbiamo appena fatto, o beatissimo padre, neppure le sostanze spirituali sono esenti dal progresso continuo, anzi affermo che esse passano continuamente di gloria in gloria e di conoscenza in conoscenza23.

20 Gioco di parole tra theologhía (“discorso su Dio”) e battologhía (“discorso inutile e vano”: cf. Mt 6,7; in altri manoscritti: theomachía “battaglia con Dio”). 21 L’autore riprende qui la nozione dell’epéktasis, cioè del progresso spirituale continuo, nozione presente in vari padri e caratteristica in particolare della teologia mistica di Gregorio di Nissa (cf. ad esempio Vita di Mosé I,4-8). Si veda anche infra, XXVII/2,7; XXIX,2. Sul tema cf. supra, “Introduzione”, p. 26. 22 Il timore è la prima forma di amore di Dio, e la carità ne è la forma perfetta, che però non ha mai limite. 23 L’autore qui si ispira chiaramente a Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, I nomi divini I,2: “Il Bene stimola le sacre intelligenze verso la contemplazione di sé, per quanto la possano esse raggiungere, verso la comunione e l’assimilazione, quelle intelligenze che, per quel che è lecito, vi tendono santamente e non pre-

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39. Non ti meravigliare se spesso i demoni ci suggeriscono dei buoni pensieri, e poi si mettono a contraddirli nella nostra mente: con questo i nostri nemici mirano a convincerci che essi conoscono perfino i pensieri del nostro cuore24. 40. Non voler essere un giudice troppo severo di coloro che a parole danno grandi insegnamenti, se vedi che sono meno solleciti nel metterli in pratica: spesso infatti i benefici recati con la parola riescono a compensare la carenza di opere. Non tutti possediamo tutto in ugual misura: in alcuni infatti la parola supera le opere; in altri, al contrario, sono le opere a superare la parola. 41. Dio non è l’autore né il creatore del male: si sono ingannati, quindi, quanti hanno affermato che alcune passioni sono naturali nell’anima, ignorando che siamo noi che abbiamo trasformato in passioni quelle che erano proprietà costitutive della nostra natura25. Per esempio, dalla natura siamo stati dotati dello sperma per la procreazione dei figli, ma noi ne abbiamo fatto un mezzo di fornicazione. Dalla natura siamo stati dotati della collera contro il serpente26, ma noi ce ne siamo serviti contro il prossimo. Dalla natura siamo stati dotati dello zelo, perché potessimo essere zelanti nelle virtù (cf. 1Cor 12,31), ma noi lo siamo nel vizio. Per natura l’anima è portata a desiderare la gloria, ma quella di lassù. Per natura è portata a insuperbirsi, ma contro i demoni. Altrettanto nasumono – sarebbe impossibile! – di raggiungere ciò che è superiore alla manifestazione divina concessa a loro nella giusta misura, né scivolano all’ingiù verso le cose peggiori, ma saldamente e senza volgersi mirano il raggio che brilla su di loro e, in grazia dell’amore proporzionato ai raggi loro elargiti, si librano in alto sulle ali castamente e santamente con sacra reverenza”. 24 Secondo la Scrittura soltanto Dio è “conoscitore dei cuori (kardiognóstes)”: cf. Pr 24,12; At 1,24; 15,8; supra, XXIII,4, n. 3. 25 Cf. supra, XXVI/1,41. 26 Cf. Gregorio di Nazianzo, Orazioni 44,7.

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turale in noi è la gioia, ma per il Signore e per la felicità del prossimo. Ci è stato dato anche il rancore, ma contro i nemici dell’anima. Ci è stato dato il desiderio di una vita beata27, ma non della dissolutezza28! 42. L’anima intrepida eccita contro se stessa i demoni; ma più aumentano le guerre, più aumentano le corone! Chi non viene colpito dai nemici, non potrà certo ricevere la corona; ma chi, nonostante le cadute che gli capitano, non si scoraggia, sarà glorificato dagli angeli come un buon soldato! 43. Qualcuno, dopo aver passato tre notti nella terra, ritornò in vita per sempre (cf. Mt 12,40 par.). Chi ha vinto per tre ore [la tentazione], non muore più29. 44. Quando, per una disposizione provvidenziale destinata alla nostra correzione, il sole30, dopo essere sorto 27 In greco: tryphé, termine spesso utilizzato dai padri per indicare la vita beata del paradiso (sulla scorta di Gen 3,23-24 LXX, dove traduce il nome ebraico ‘eden). 28 Sul carattere naturale delle “passioni” cf. abba Isaia, Discorsi ascetici 2. 29 Cioè non può più soccombervi, perché ormai l’ha superata. Di questo passo gli antichi commentatori hanno dato varie interpretazioni, riferite da Exegesis (pp. 446-447): “Il Signore nostro Gesù Cristo, dopo aver passato tre giorni nella terra, risuscitò e ora vive per sempre: La morte non ha più potere su di lui (Rm 6,9)! Colui che, imitando Cristo, ha ottenuto la vittoria nelle ‘tre ore’ della vita umana, ovvero nella giovinezza, nella maturità e nella vecchiaia, non subisce più la morte dell’anima. Alcuni con ‘tre ore’ hanno inteso le tre principali forme di passione (l’amore del piacere, l’amore della gloria e l’amore del denaro): chi infatti le ha vinte non subirà più la morte delle altre passioni. Altri hanno pensato al demonio dell’acedia, che è anche chiamato ‘brivido delle tre ore’. Ma le ‘tre ore’ si possono intendere anche così: la prima, la tentazione dei demoni all’inizio delle nostre lotte ascetiche; la seconda, a metà delle lotte; la terza, alla fine della vita. Oppure puoi intendere le ‘tre ore’ anche così: la prima, quando il demonio compie il suo assalto e si è tentati di accoglierlo senza opporgli resistenza; la seconda, quando si è tentati di trattenere con compiacimento il pensiero cattivo; la terza, quando si è tentati di lasciarsi convincere a compiere il male. Colui che subisce queste tre tentazioni e non soccombe, ma vince il tentatore, cingerà la corona della vita eterna. Oppure puoi intendere anche così: colui che ha resistito per tre ore quando la passione lo assale con violenza, con l’aiuto di Dio riuscirà a vincere e a superare la tentazione”. 30 Cioè Dio.

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in noi, conosce il suo primo tramonto (cf. Sal 103,19), allora certamente fa calare le tenebre sottraendosi alla nostra vista (cf. Sal 17,12) e viene la notte: in questa notte si muovono contro di noi i feroci leoncelli, che prima si erano allontanati, e tutte le fiere delle spinose passioni, che ruggiscono cercando di rapire la nostra speranza e reclamano da Dio il loro pasto di passioni, sia nel pensiero sia nell’azione (cf. Sal 103,20-21). Poi, attraverso l’oscura umiltà, spunta nuovamente in noi il sole, e le fiere si radunano e si acquattano nelle loro tane (cf. Sal 103,22), ossia nei cuori amanti dei piaceri, e non più in noi; allora si dirà tra i demoni: Grandi cose ha fatto il Signore usando nuovamente misericordia verso di loro; e noi risponderemo loro: Grandi cose ha fatto il Signore per noi, siamo pieni di gioia, e voi siete respinti (cf. Sal 125,2-3)! Ecco, il Signore si siede su una nube leggera – cioè sull’anima che si è elevata al di sopra di ogni desiderio terreno – ed entra in Egitto, ovvero nel cuore prima immerso nelle tenebre, e crollano gli idoli fatti dalla mano dell’uomo (cf. Is 19,1), ossia i cattivi pensieri della mente31. 45. Se Cristo, benché onnipotente, fuggì con il suo corpo lontano da Erode (cf. Mt 2,13-15), i temerari imparino a non gettarsi da soli nelle tentazioni! Sta scritto infatti: Non esporre al pericolo il tuo piede, e il tuo angelo custode non si addormenterà (Sal 120,3). 46. L’orgoglio s’intreccia al coraggio, come il convolvolo si avviluppa al cipresso32. Sforziamoci continuamente di non lasciar neppure balenare in noi l’idea che abbiamo 31 Sull’intero passo, cf. M. Van Parys, “L’interpretazione delle Scritture nella ‘Scala’”, pp. 148-149. 32 Cf. Evagrio Pontico, Gli otto spiriti di malizia 15: “Il convolvolo si avviluppa attorno all’albero, e quando raggiunge la cima ne secca la radice; così la vanagloria cresce accanto alle virtù, e non se ne va prima di averne smorzato il vigore”.

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acquistato la benché minima virtù; ma, considerando attentamente quale sia il segno distintivo di questa virtù33, esaminiamo se esso è presente in noi, e certamente ci scopriremo manchevoli. Cerca incessantemente anche i sintomi delle passioni, e scoprirai che in te ce ne sono molti. Quando però siamo malati, non siamo in grado di discernerli, o perché siamo troppo deboli, o perché essi sono profondamente radicati in noi. 47. Dio giudica l’intenzione; ma nella misura in cui ne abbiamo le possibilità, reclama benevolmente anche le opere. Grande è chi non trascura ciò che è nelle sue possibilità, e ancor più grande chi con umiltà intraprende ciò che supera le sue possibilità. Spesso però i demoni ci impediscono di compiere le opere più semplici, che sono anche le più utili, e ci esortano a intraprendere piuttosto quelle più faticose. 48. Trovo nella Scrittura che Giuseppe è lodato per aver fuggito il peccato e non per aver dato prova d’impassibilità (cf. Gen 39,7-20). Ma bisogna chiedersi con quali e quanti peccati tale fuga è in grado di procurarci la corona, perché un conto è fuggire l’ombra, un altro correre verso il sole di giustizia (Ml 3,20)! 49. Chi è nelle tenebre, inciampa; chi inciampa, cade; chi cade, muore. Coloro che sono ottenebrati dal vino, spesso riescono a ritornare in se stessi lavandosi con l’acqua; coloro che sono ottenebrati dalle passioni possono farlo con le lacrime. 50. Una cosa è l’intorbidamento della mente, altra cosa la dissipazione, altra cosa ancora l’accecamento. Il primo male è guarito dalla temperanza; il secondo dall’esichia; il terzo dall’obbedienza e da Dio che per noi si è fatto obbediente (Fil 2,8).

51. Per comprendere adeguatamente i due diversi modi di purificazione di quanti sono intenti alle cose di lassù (cf. Col 3,2), prendiamo come modelli i due luoghi in cui si lavano gli indumenti di quaggiù: con il nome di “lavanderia”34 possiamo chiamare la vita cenobitica conforme alla volontà del Signore, perché essa gratta via lo sporco, il grasso e le imperfezioni dell’anima; la “tintoria”, invece, potrebbe essere la vita anacoretica, destinata a coloro che, avendo ormai deposto la lussuria, il rancore e l’ira, dal cenobio vanno a vivere nell’esichia. 52. Alcuni affermano che il fatto di cadere negli stessi peccati è frutto della mancanza di una penitenza adeguata che compensi con una giusta correzione gli sbagli commessi. Bisogna chiedersi però se chi non è ricaduto nello stesso genere di peccati, abbia veramente fatto una degna penitenza. 53. Alcuni ricadono negli stessi peccati, o perché hanno sepolto nell’abisso della dimenticanza i loro peccati passati, o perché, per il loro amore del piacere, presumono che Dio sia pieno di misericordia, o perché disperano della propria salvezza; e se non avessi paura di essere rimproverato a questo riguardo, direi anche che costoro non sono più capaci di incatenare il nemico, perché ormai fa loro violenza con la tirannia dell’abitudine. 54. Bisogna anche chiedersi come mai l’anima, che è incorporea, non sia in grado di vedere gli spiriti che la visitano nel loro aspetto naturale, nonostante essi siano della sua stessa natura35. Ciò forse si deve al fatto che essa è unita al corpo, nel modo che conosce soltanto colui che operò l’unione.

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Ossia l’umiltà.

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Cf. supra, VIII,28. Cioè spirituali.

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55. Un giorno un uomo dotato di conoscenza mi chiese: “Dimmi un po’, dimmi – desidero saperlo – quali sono gli spiriti maligni che umiliano la nostra mente quando pecchiamo, e quali sono quelli che la esaltano?”. Di fronte a tale domanda restai confuso, e poiché giuravo di non saperlo, quello, che prima voleva imparare, si mise a insegnare, e disse: “Voglio darti in poche parole un lievito per il tuo discernimento, e poi ti lascerò esaminare il resto con le tue forze. Il demonio della fornicazione, quello dell’ira, quello dell’ingordigia, quello dell’acedia e quello del sonno in genere non esaltano la mente; lo fanno invece quello dell’avarizia, quello della smania di potere, quello della chiacchiera, e molti altri, che così aggiungono male a male: tra questi ultimi c’è perciò anche il demonio che ci porta a giudicare il prossimo”. 56. Se qualcuno visita o accoglie come ospiti dei secolari e quando poi si separa da loro, dopo un giorno o dopo un’ora, è ferito dalla tristezza, piuttosto che gioire per essersi liberato da un ostacolo e da un laccio, costui è lo zimbello della propria vanagloria o della propria sensualità! 57. Prima di tutto cerchiamo di capire da dove soffia il vento36, perché non ci troviamo a stendere le vele nella direzione contraria. 58. Conforta con amore gli anziani che hanno praticato le virtù e che hanno logorato i loro corpi nell’ascesi, accordando loro un po’ di riposo, ma costringi i giovani che hanno logorato le loro anime nei peccati a praticare l’astinenza, ricordando loro il castigo. 59. Non è possibile, come abbiamo già detto in altro luogo, purificarsi perfettamente dall’ingordigia e dalla vanagloria subito agli inizi del nostro cammino monastico. Non

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Cioè da dove hanno origine le tentazioni degli spiriti maligni.

cerchiamo però di combattere la vanagloria con un regime alimentare rilassato, soltanto perché la vittoria sull’ingordigia alimenta la vanagloria – intendo dire nei principianti –; ma preghiamo piuttosto per esserne liberati facendo astinenza, perché verrà l’ora, ed è questa (cf. Gv 4,23; 5,25) – per chi vuole –, in cui il Signore sottometterà anche questa passione sotto i nostri piedi (cf. Sal 8,7)! 60. I giovani e gli anziani che intraprendono la vita monastica non sono tormentati dalle stesse passioni; spesso, anzi, hanno proprio le malattie opposte. Perciò sia benedetta, veramente benedetta, l’umiltà, perché grazie a essa la penitenza diventa sicura ed efficace, sia nei giovani che negli anziani! 61. Non turbarti per quello che sto per dire: esistono – anche se poche – anime semplici e innocenti, aliene da qualsiasi genere di malizia, di ipocrisia e di furbizia, alle quali non giova affatto il vivere insieme ad altri uomini, ma che, con l’aiuto della loro guida, sono in grado di salire al cielo salpando, per così dire, dal porto dell’esichia, senza aver bisogno di sperimentare le turbolenze e gli scandali della vita comunitaria. 62. I dissoluti li possono curare gli uomini; i cattivi, gli angeli; ma i superbi, Dio solo. 63. Spesso anche questa è una forma di carità: permettere al nostro prossimo, quando viene a visitarci, di comportarsi in tutto come vuole, facendogli buon viso in tutto37.

37 Cf. Apoftegmi Nau 343: “Vi erano due monaci che abitavano in un luogo, e si recò da loro un anziano; volendo metterli alla prova, prese un bastone e cominciò a distruggere tutti gli ortaggi di uno dei due. Il fratello, vedendo, si nascose. Quando fu rimasta una sola radice, disse all’anziano: ‘Padre, se vuoi, lasciala, perché io la possa cuocere e la mangiamo insieme’. L’anziano si inchinò davanti al fratello dicendo: ‘Per la tua pazienza, fratello, si è posato su di te lo Spirito santo!’”.

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64. Bisogna chiedersi in che modo, fino a che punto, quando e se davvero il fatto di rimpiangere il bene compiuto possa cancellarlo, come avviene con il male. 65. Abbiamo bisogno di molto discernimento per capire quando dobbiamo resistere, in quali casi e fino a che punto dobbiamo lottare contro ciò che alimenta le passioni, e quando invece dobbiamo ritirarci: a volte, infatti, a causa della nostra debolezza, è preferibile scegliere la fuga piuttosto che morire38. 66. Consideriamo e osserviamo attentamente quando e come – con qualche amaro rimedio – possiamo riuscire a svuotare la nostra bile39; quali tra i demoni ci esaltano, e quali ci umiliano; quali ci induriscono, e quali ci incoraggiano al bene; quali ci ottenebrano, e quali invece fingono d’illuminarci; quali ci rendono fiacchi, e quali furbi; quali tristi, e quali allegri. 67. Non stupiamoci se, subito dopo la nostra entrata nello stadio della vita monastica, ci vediamo più soggetti alle passioni di quando vivevamo nel mondo: è necessario infatti che le cause della malattia manifestino pienamente la loro azione, prima di poter riacquistare la salute: quelle bestie40 infatti non erano visibili solo perché fino a quel momento erano nascoste. 68. Quando capita che coloro che sono ormai prossimi alla perfezione subiscano una qualche piccola sconfitta da parte dei demoni, immediatamente mettono in moto ogni artificio per strappar loro una rivincita cento volte più grande! 69. Come i venti a volte agitano il mare solo in superficie, quando è bonaccia, e altre volte lo sconvolgono nelle sue profondità, così devi pensare anche dei venti te-

nebrosi del peccato: in quelli che sono ancora soggetti alle passioni, in genere sconvolgono il senso stesso del cuore; in quelli che sono già progrediti nella virtù, invece, agitano solo la parte superficiale della mente, cosicché essi ritrovano subito la propria tranquillità, poiché il loro cuore non è stato contaminato. 70. È proprio dei perfetti saper sempre riconoscere nell’anima quale pensiero venga dalla coscienza, quale da Dio, e quale dai demoni: i demoni infatti non ci suggeriscono sempre e soltanto cose malvagie fin dall’inizio, e perciò il problema è veramente oscuro e difficile da risolvere. Il corpo riceve luce dai due occhi sensibili, mentre gli occhi del cuore sono illuminati dal discernimento delle cose visibili e di quelle spirituali.

38 Ciò che alimenta le passioni sono i pensieri cattivi: in alcuni casi è meglio fuggirli fin dal loro primo apparire, in altri è meglio lottare contro di essi. 39 Cioè il carico del nostro peccato. 40 Cioè le passioni.

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Discorso XXVI/3 BREVE RICAPITOLAZIONE DI TUTTI I DISCORSI PRECEDENTI

1. La fede salda è la madre della rinuncia al mondo, e il suo contrario è evidente. La speranza incrollabile è la porta del distacco dal mondo, e il suo contrario è evidente. L’amore di Dio è il fondamento dell’estraneità, e il suo contrario è evidente. 2. La condanna di se stessi e il desiderio della salute1 generano la sottomissione. La meditazione della morte e la memoria costante del fiele e dell’aceto del Signore (cf. Mt 27,34.48 par.) sono madri della temperanza. L’esichia è sostegno della castità. Il digiuno è estinzione dell’ardore passionale. La contrizione del cuore è avversaria dei turpi pensieri. 3. La fede e l’estraneità sono la morte dell’avarizia; la compassione e la carità offrono il corpo in sacrificio. La preghiera incessante distrugge l’acedia; la memoria del giudizio stimola all’impegno. L’amore dell’umiliazione guarisce la collera. 4. Il canto dei salmi, la compassione e la rinuncia al possesso soffocano la tristezza. Il distacco dalle realtà sensibili conduce alla contemplazione delle realtà spirituali.

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Ovvero della guarigione dalle passioni.

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Il silenzio e l’esichia sono nemici della vanagloria; se però vivi in mezzo ad altri, ricerca l’umiliazione. 5. La superbia esteriore e visibile può essere guarita da abitudini e condizioni di vita dimesse; quella interiore e invisibile solo da colui che da prima dei secoli è invisibile. Il cervo uccide tutte le bestie sensibili; l’umiltà quelle spirituali2. Attraverso le realtà naturali possiamo ricevere insegnamenti chiari su tutto ciò che concerne le realtà spirituali. 6. Come il serpente non può spogliarsi della sua vecchia scorza, se non entrando in una stretta fessura, così anche noi non potremo mai deporre le nostre vecchie predisposizioni passionali, la vecchiaia della nostra anima e la tunica dell’uomo vecchio (cf. Ef 4,22; Col 3,9)3, se non percorrendo la via stretta e angusta del digiuno e dell’umiliazione (cf. Mt 7,14). 7. Come gli uccelli troppo grassi non possono volare in cielo, così anche colui che nutre e soddisfa la propria carne. 8. Un pantano asciutto non alletta più i porci: così una carne consumata dall’ascesi non dà più riposo ai demoni. 9. Come una grande quantità di legna spesso soffoca la fiamma e la spegne, producendo molto fumo, così spesso una tristezza eccessiva4 rende l’anima fumosa e oscura, e prosciuga l’acqua delle lacrime. 10. Come un arciere cieco viene scartato, così un discepolo che contraddice va in perdizione. 11. Come un ferro temprato può affilare quello che non lo è, così un fratello pieno di zelo spesso può salvarne uno pigro. 2

Cf. supra, XXV,9, n. 11. La “tunica dell’uomo vecchio” è la tunica di pelle di cui fu rivestito Adamo al momento del peccato (cf. supra, XV,76, n. 60). 4 Prodotta dall’ascesi e dalla penitenza. 3

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12. Come le uova degli uccelli covate in mezzo agli escrementi si schiudono producendo nuove vite, così anche i pensieri cattivi che non vengono manifestati5 generano figli e si traducono in azioni. 13. Come i cavalli correndo gareggiano l’uno con l’altro, così in una buona comunità ci si stimola a vicenda. 14. Come le nuvole nascondono il sole, così i pensieri cattivi oscurano la mente e la mandano in perdizione. 15. Come chi ha ricevuto una sentenza di condanna e si avvia al supplizio non si mette a parlare di spettacoli teatrali, così chi si affligge veramente su di sé, non potrà mai preoccuparsi di soddisfare il proprio ventre. 16. Come i poveri, vedendo i tesori dei re, si rendono meglio conto della propria povertà, così anche l’anima, leggendo i racconti delle grandi virtù dei padri, rende il suo pensiero sempre più umile. 17. Come il ferro, anche senza volere, è attratto verso la calamita da una misteriosa forza della natura, così coloro le cui predisposizioni passionali sono diventate abitudini, sono da esse tiranneggiati. 18. Come l’olio, anche senza volere, calma il mare agitato, così il digiuno spegne gli ardori del corpo, anche contro la loro volontà. 19. Come l’acqua, premuta da ogni parte, sale verso l’alto, così spesso l’anima stretta dai pericoli, si eleva a Dio attraverso la penitenza e si salva. 20. Come chi porta dei profumi, anche se non vuole farsene accorgere, è tradito dal loro odore, così chi ha lo Spirito del Signore è riconosciuto dalle sue parole e dalla sua umiltà. 21. Come il sole rende visibile l’oro facendolo brillare, così anche la virtù rende riconoscibile chi la possiede. 5

In confessione al padre spirituale.

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22. Come i venti sconvolgono le profondità del mare, così la collera sconvolge la mente più di ogni altra cosa. 23. Come ciò che non si vede con gli occhi, non si può desiderare ardentemente di gustarlo solo sentendone parlare, così coloro che sono puri nel corpo traggono un grande sollievo da questa loro condizione. 24. Come i ladri non si avvicinano facilmente dove vedono che ci sono le armi del re, così chi ha unito saldamente la preghiera al proprio cuore non potrà facilmente essere derubato dai ladri spirituali. 25. Come il fuoco non genera la neve, così chi aspira agli onori di quaggiù, non godrà di quelli di lassù. 26. Come spesso una sola scintilla arriva a incendiare una grande foresta, così capita che una sola opera buona possa cancellare una quantità enorme di gravi peccati. 27. Come è impossibile uccidere una bestia feroce senza un’arma, così è impossibile raggiungere la non-irascibilità senza umiltà. 28. Come, secondo le leggi di natura, non si può vivere senza mangiare, così chi vuole essere salvato, non può essere negligente neanche per un istante, fino al giorno della sua dipartita. 29. Come un raggio di sole che penetra attraverso una fessura, illumina tutto l’interno di una casa, al punto che si può veder volare nell’aria perfino il più fine pulviscolo, così anche il timore del Signore che entra nel cuore, gli manifesta tutti i suoi peccati. 30. Come i granchi sono facili da catturare perché si muovono ora avanti ora indietro, così anche l’anima che ora ride, ora si affligge e ora si abbandona ai piaceri non potrà guadagnare niente di buono. 31. Come chi sonnecchia viene facilmente derubato: così anche chi pratica la virtù restando vicino al mondo. 404

32. Come chi lotta con un leone, appena volge lo sguardo altrove, è perduto: così anche chi lotta con la propria carne, appena le accorda un po’ di sollievo. 33. Come chi sale su una scala di legno marcio rischia di cadere, così ogni forma di onore, di gloria e di potere, opponendosi l’umiltà6, fa cadere chi li possiede. 34. Come è impossibile che chi è affamato si dimentichi del pane, così è impossibile che chi desidera essere salvato si dimentichi della morte e del giudizio. 35. Come l’acqua cancella la scrittura, così le lacrime possono cancellare i peccati. 36. Come alcuni, in mancanza d’acqua, cancellano la scrittura con altri mezzi, così ci sono anime che, non avendo il dono delle lacrime, raschiano e grattano via i loro peccati con il rimorso, i sospiri e una profonda mestizia. 37. Come una gran quantità di letame produce una gran quantità di vermi, così una gran quantità di cibo produce una gran quantità di peccati, di pensieri e di sogni impuri. 38. Come un cieco non vede dove cammina, così anche un pigro non può vedere il bene, né compierlo. 39. Come chi ha i piedi legati non riesce facilmente a camminare, così coloro che accumulano tesori non possono salire al cielo (cf. Mt 6,19-20). 40. Come è facile guarire una ferita ancora calda, così, al contrario, è difficile guarire le ferite di vecchia data presenti nell’anima – ammesso che si riesca a guarirle –. 41. Come è impossibile che un morto cammini, così è impossibile che chi è caduto nella disperazione sia salvato. 42. Chi, avendo una fede retta, commette peccati, è simile a un volto senz’occhi. 6 Che è l’unica a garantire un’ascesa sicura della scala delle virtù: cf. supra, XXV,35.

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43. Chi, senza avere la fede, compie qualche opera buona, è simile a chi attinge dell’acqua e la versa in una giara forata7. 44. Come una nave guidata da buon pilota arriva in porto senza pericolo, con l’aiuto di Dio, così un’anima guidata da un buon pastore sale facilmente al cielo, anche se ha commesso molti peccati. 45. Come chi non ha una guida è facile che sbagli strada, anche se è molto prudente, così chi percorre il cammino della vita monastica guidato solo dalla propria volontà, è facile che si perda, anche se possiede tutta la sapienza di questo mondo. 46. Chi è debole nel corpo e ha commesso gravi peccati, segua la via dell’umiltà e osservi tutto ciò che essa richiede, perché non troverà altra via di salvezza. 47. Come chi è malato da lungo tempo non può riacquistare la salute in un attimo, così è impossibile vincere all’istante le passioni, o anche una sola passione. Osserva quale grado raggiungi in ogni passione e in ogni virtù, e potrai conoscere i tuoi progressi. 48. Come coloro che scambiano l’oro con il fango subiscono una perdita: così anche coloro che parlano con ostentazione dei propri doni spirituali per ottenerne vantaggi materiali. 49. Molti hanno ottenuto rapidamente la remissione dei peccati, ma nessuno l’impassibilità: essa infatti richiede molto tempo, un intenso desiderio, e l’aiuto di Dio. 50. Esaminiamo quali bestie o uccelli8 ci insidiano al momento della semina, quali al momento in cui il nostro grano è ancora tenero, e quali al momento della mietitura9, per poter tendere loro delle trappole adeguate. 7 8 9

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Cf. Evagrio Pontico, Sulla preghiera 22. Cioè le passioni e i demoni maligni. Si tratta dei tre momenti del cammino spirituale del monaco.

51. Come non è giusto che chi ha la febbre si suicidi, così non bisogna mai disperare, fino all’ultimo respiro. 52. Come è contrario a qualsiasi buon costume che colui che ha appena seppellito il proprio padre, dopo il funerale si rechi a una festa di nozze, così è sconveniente che chi si affligge sui propri peccati cerchi onore, conforto e gloria in questo mondo da parte degli uomini. 53. Come le dimore dei liberi cittadini sono diverse da quelle dei condannati, così la condotta di vita di chi piange i propri peccati deve essere completamente diversa da quella di chi è innocente. 54. Come il re non ordina di cacciare dall’esercito un soldato che in guerra ha riportato gravi ferite alla faccia, ma piuttosto lo promuove di grado, così anche il re celeste incorona il monaco che ha sopportato molte prove da parte dei demoni. 55. Il senso dell’anima10 è una facoltà che le è propria; il peccato, invece, è uno schiaffo dato a tale senso. La presa di coscienza genera la cessazione o la diminuzione del peccato, ed essa è appunto frutto della coscienza. La coscienza è la voce e il rimprovero dell’angelo custode che ci è stato dato al momento del battesimo: per questo vediamo che i non battezzati non provano nella loro anima un rimorso altrettanto forte per le azioni malvagie, ma ne hanno una percezione molto più vaga. La diminuzione del peccato genera il distacco dal peccato; il distacco dal peccato è l’inizio della penitenza; l’inizio della penitenza è l’inizio della salvezza; l’inizio della salvezza sono i buoni propositi; i buoni propositi generano le fatiche dell’ascesi; l’inizio delle fatiche sono le virtù; l’inizio delle virtù è la loro fioritura; la fioritura

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Cf. supra, XXVI/1,17.

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delle virtù è l’inizio della loro pratica; il frutto della virtù è la pratica continua; il frutto della pratica continua è l’abitudine al bene; il frutto dell’abitudine è la disposizione al bene. La disposizione al bene genera il timore; il timore genera l’osservanza dei comandamenti, sia di quelli celesti che di quelli terreni; l’osservanza dei comandamenti è indizio di carità; l’inizio della carità è la ricchezza di umiltà; la ricchezza di umiltà genera l’impassibilità, e la sua acquisizione è la pienezza della carità, ossia la perfetta inabitazione di Dio in coloro che, grazie all’impassibilità, sono puri di cuore; poiché sta scritto che essi vedranno Dio (Mt 5,8). A lui la gloria nei secoli! Amen.

Discorso XXVII/1 SULLA SANTA ESICHIA DEL CORPO E DELL’ANIMA

1. Noi, che siamo come schiavi che si sono lasciati comprare dalle passioni impure, anzi che si sono sottomessi a esse volontariamente, per questo conosciamo, almeno in una certa misura, gli inganni, i metodi, le angherie e le astuzie degli spiriti che hanno spadroneggiato sulla nostra povera anima; vi sono altri, però, che hanno scoperto le arti malvagie di questi spiriti, per essere stati illuminati dallo Spirito santo e per essersi liberati dal loro dominio. C’è infatti chi cerca di immaginare il benessere della salute a partire dalla sofferenza della malattia, e chi invece cerca di comprendere e di congetturare lo sconforto che si prova nella malattia a partire dalla gioia provata nella salute. Noi, dunque, deboli come siamo, abbiamo timore di trattare ora, nel nostro discorso, del porto dell’esichia, perché sappiamo che, intorno alla tavola di una buona comunità, si aggira sempre qualche cane che tenta di rubare un pezzo di pane – ossia un’anima – per addentarlo e poi correre via a divorarlo tranquillamente nell’esichia1. 1 L’autore vuol dire che chi vive in comunità è spesso tentato dal demonio di abbandonare prima del tempo il proprio monastero, per abbracciare la vita eremitica, ma in questo modo non ottiene niente di buono, anzi rischia di compromettere la propria salvezza.

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Perciò, per non dare occasione a questo cane con le nostre parole, e per non fornire un pretesto a chi cerca un pretesto (cf. 2Cor 11,12), non riteniamo giusto metterci ora a parlare di pace a questi coraggiosi soldati del nostro re che sono ancora in guerra2, ma diciamo soltanto questo: per chi combatte valorosamente, sono già state intrecciate corone di pace e di tranquillità. Tuttavia, se credete, diremo alcune cose sull’esichia, a mo’ di spunti di riflessione, per non rischiare di far torto a qualcuno lasciando questo tema completamente privo di trattazione. 2. L’esichia del corpo è la disciplina dei costumi e dei sensi, e la loro condizione pacificata; l’esichia dell’anima è la disciplina dei pensieri, e una mente inviolabile. Amico dell’esichia è un pensiero forte e risoluto che rimane sempre vigilante alla porta del cuore, per uccidere o scacciare i pensieri cattivi che si avvicinano. Chi pratica l’esichia con l’intimo senso del cuore, capisce quel che sto dicendo; chi invece è ancora principiante, non avendone ancora fatto esperienza, l’ignora. L’esicasta dotato di conoscenza non avrà bisogno di parole, perché per lui sono i fatti a illuminare le parole. 3. L’inizio dell’esichia è quando si scaccia ogni rumore che possa turbare le profondità dell’anima, ma il suo grado perfetto è quando non si temono più i frastuoni, anzi si rimane insensibili a essi. 4. Chi, anche se esce dalla propria cella, non ne esce con la parola, è mansueto e vera dimora della carità: parla difficilmente ed è incapace di andare in collera. Il contrario è evidente3. 2 Cioè ai monaci cenobiti, che ancora si trovano ad affrontare le lotte dell’obbedienza e della vita comune. L’autore pensa ai monaci della comunità di Raito a cui il suo scritto è indirizzato. 3 “Il silenzio è la vera cella portatile da cui l’uomo di preghiera non deve mai uscire, anche quando per necessità è costretto a lasciare la cella visibile” (I. Hausherr, Solitudine e vita contemplativa secondo l’esicasmo, Queriniana, Brescia 1978, p. 62).

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5. L’esicasta è colui che aspira a circoscrivere l’incorporeo in una dimora corporea: supremo paradosso4! 6. La gatta spia il topo; il pensiero dell’esicasta spia il topo spirituale5. Non considerare banale questo paragone, perché vorrebbe dire che non sai ancora cosa sia l’esichia! 7. Un monaco solitario non è lo stesso di un monaco che vive insieme a un altro monaco: il monaco solitario infatti ha bisogno di molta sobrietà e di una mente non distratta. A chi vive in compagnia di altri, può venire spesso in aiuto il suo fratello; ma il solitario può soccorrerlo solo il suo angelo! 8. Le potenze spirituali partecipano alla liturgia di colui che pratica l’esichia dell’anima e dimorano volentieri in lui; ma di quel che succede nel caso contrario, preferisco non parlare. 9. L’abisso dei dogmi è profondo, ma la mente dell’esicasta vi si tuffa senza pericolo6. Non è sicuro nuotare vestiti, né tanto meno accostarsi alla teologia quando si è ancora posseduti dalle passioni! 10. La cella dell’esicasta sono i limiti del corpo: al suo interno racchiude una dimora per la conoscenza7. 4 Cf. supra, XXVI/1,52. Su questo passo, cf. Gregorio Palamas, Triadi I,2,6: “Vi sono alcuni … che tentano di persuadere quasi tutti – e addirittura gli stessi che hanno abbracciato la vita che porta in alto grazie all’esichia – che è meglio per chi prega tenere fuori dal corpo la mente, e così costoro non rispettano nemmeno Giovanni, che per noi costruì con i suoi scritti la Scala che porta verso il cielo e, definendo e dimostrando, disse che ‘l’esicasta è colui…’, mentre anche gli insegnamenti impartitici dai nostri padri sono concordi con lui”. 5 Cioè il pensiero cattivo. 6 Il testo di Rader e Ignatios ha qui: “non senza pericolo”, ma probabilmente si tratta di una correzione dovuta all’apparente contraddizione con la frase seguente. In realtà l’autore vuol dire che l’esicasta, essendosi liberato dalle passioni, è ormai in grado di penetrare il senso profondo dei dogmi per un’intima partecipazione alla loro verità più che attraverso una speculazione intellettuale. 7 Cf. Pseudo-Basilio, Costituzioni ascetiche 5: “Per il monaco perfetto la cella e il sicuro rifugio per l’anima è il proprio corpo: anche se si trova sulla pubblica piazza, al mercato, in montagna o nei campi, in mezzo a una grande folla, se ne sta nel suo monastero naturale, unifica le profondità del suo cuore e medita ciò che deve”. Cf. anche supra, XXVII/1,5.

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11. Chi è ancora malato di una qualche passione dell’anima e si mette a praticare l’esichia, è simile a colui che si butta in mare da una nave, e con una tavoletta è convinto di poter raggiungere la riva senza pericolo. 12. Coloro che lottano contro il proprio corpo di fango, a tempo debito potranno praticare l’esichia, purché abbiano qualcuno che li guidi. Per vivere da soli, infatti, bisogna avere la forza degli angeli: parlo degli autentici esicasti, nel corpo e nell’anima. 13. L’esicasta che ha allentato il proprio zelo dirà menzogne per indurre subdolamente gli uomini a distoglierlo dall’esichia. Una volta abbandonata la propria cella, accusa i demoni senza accorgersi di essere diventato un demonio per se stesso! 14. Ho visto alcuni praticare l’esichia saziando insaziabilmente la loro ardente brama di Dio e generando con il loro fuoco altro fuoco, con il loro amore altro amore, e con il loro ardente desiderio altro desiderio. 15. L’esicasta è l’immagine terrestre di un angelo che con il papiro del proprio desiderio e la scrittura del proprio zelo ha affrancato la propria preghiera dalla negligenza e dall’indolenza8. 16. Esicasta è colui che ha dichiarato apertamente: Pronto è il mio cuore, o Dio (Sal 56,8)! Esicasta è colui che ha detto: Io dormo, ma il mio cuore veglia (Ct 5,2)! 17. Chiudi la porta della cella al tuo corpo, la porta della lingua alle parole, e la porta interiore agli spiriti maligni. 18. La bonaccia e il sole di mezzogiorno mettono alla prova la pazienza del marinaio; così la mancanza del necessario mostra la perseveranza dell’esicasta. Quando il 8 Le immagini utilizzate fanno riferimento all’atto di manumissione con cui si affrancavano gli schiavi.

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primo si scoraggia, si tuffa in acqua; e quando il secondo si abbandona all’acedia, si mescola alle folle. 19. Non aver paura dei rumori provocati dai demoni per prendersi gioco di te: chi vive nell’afflizione infatti non conosce la paura, né si turba9. 20. Coloro che hanno veramente imparato a pregare con la mente, parlano con il Signore faccia a faccia (cf. Es 33,11), come quelli che parlano all’orecchio del re. Coloro che pregano con la bocca somigliano invece a quelli che si prosternano davanti a lui in presenza di tutta la corte. Quelli poi che vivono nel mondo rivolgono suppliche al re in mezzo allo strepito di tutto il popolo. Se hai imparato bene quest’arte, capisci quel che dico! 21. Seduto su un’altura, osserva te stesso – se sai farlo – e allora vedrai come, quando, da dove, quanti e quali ladri entrano per rubare i tuoi grappoli d’uva10. Quando la sentinella11 è stanca, si alzerà a pregare; poi, di nuovo, si siederà e riprenderà con coraggio il lavoro iniziato. 22. Un tale12, che di queste cose ha fatto esperienza, vorrebbe parlarne in dettaglio e con precisione, ma teme di rendere indolente chi già vi si dedica con fervore e di spaventare con il rumore delle sue parole chi ne ha l’intenzione. Chi parla dell’esichia con precisione e cognizione di causa, eccita contro di sé i demoni: nessun altro come lui infatti è capace di manifestare i loro comportamenti indecenti. 23. Chi ha raggiunto l’esichia, conosce l’abisso dei divini misteri, ma non sarebbe mai arrivato a una tale pro9 Cf. Evagrio Pontico, Sulla preghiera 97: “Chi si esercita nella preghiera pura sentirà rumori, colpi, voci e ingiurie dai demoni, ma non demorderà né perderà la ragione; dirà invece a Dio: Non temerò alcun male perché tu sei con me (Sal 22,4), e altre simili frasi”. 10 Ovvero le tue virtù. 11 Fuori di metafora: la mente che veglia sul cuore. 12 L’autore parla di se stesso.

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fondità, se prima non avesse visto e udito il tumulto delle onde e dei venti13, rimanendone forse spruzzato. Conferma ciò che dico il grande apostolo Paolo: se infatti non fosse stato rapito in paradiso, come in un luogo di esichia, non avrebbe mai potuto ascoltare parole indicibili (cf. 2Cor 12,4). 24. L’orecchio dell’esichia udrà da Dio parole straordinarie; perciò anche nel libro di Giobbe questa sapientissima diceva: Forse che il mio orecchio non udrà da lui parole straordinarie? (Gb 4,12). 25. L’esicasta è colui che fugge tutti gli uomini senza odiarli – come altri corrono loro incontro per leggerezza – perché non vuole privarsi per un solo momento della dolcezza di Dio14. 26. Va’, distribuisci subito i tuoi beni – perché venderli richiede troppo tempo – e dalli ai monaci poveri (cf. Mt 19,21), affinché con la loro preghiera ti sostengano nella tua corsa verso l’esichia; quindi prendi la tua croce (Mt 16,24), portandola per mezzo dell’obbedienza e sopportando con forza il peso della recisione della tua volontà, poi vieni e seguimi (Mt 19,21), per abbracciare la beatissima esichia, e ti insegnerò le opere visibili e il genere di vita delle potenze spirituali15. Quelle potenze spirituali per tutti i secoli dei secoli non si sazieranno mai di lodare il loro Creatore, né colui che è entrato nel cielo dell’esichia di cantare inni al Creatore16.

Non si preoccupano della materia gli spiriti immateriali, né del cibo coloro che, pur trovandosi nella materia, sono immateriali. I primi non sono sensibili agli alimenti, né i secondi hanno bisogno che qualcuno prometta loro di fornirglieli. Quelli non si preoccupano di ricchezze o di proprietà, né questi dei maltrattamenti subiti da parte degli spiriti maligni. Quei celesti non hanno desiderio di alcuna creatura visibile, né questi terrestri di alcuna visione sensibile. Quelli non cesseranno mai di progredire nella carità, né questi di gareggiare con loro ogni giorno. I primi non ignorano la ricchezza del loro progresso, né i secondi l’amore che li spinge a salire. E questi non si fermeranno prima di aver raggiunto i serafini, né si stancheranno prima di esser diventati angeli. Beato colui che spera di raggiungere la meta; tre volte beato chi è sul punto di raggiungerla; ma chi l’ha raggiunta è un angelo!

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Cf. supra, XXVI/1,13. Cf. Apoftegmi, Arsenio 13: “Il padre Marco disse al padre Arsenio: ‘Perché ci fuggi?’. L’anziano gli dice: ‘Dio sa che vi amo. Ma non posso essere contemporaneamente con Dio e con gli uomini. Le schiere celesti che sono a migliaia e a decine di migliaia hanno un’unica volontà, mentre gli uomini ne hanno tante. Perciò non posso lasciare Dio per venire dagli uomini’”; ibid., Teodoro di Ferme 14: “Chi ha conosciuto la dolcezza della cella fugge il suo prossimo, ma non con disprezzo”. Cf. infra, XXVII/2,29. 15 Cioè degli angeli, di cui gli eremiti sono l’immagine visibile (cf. supra, § 15). 16 Cf. supra, XXVI/2,38. 14

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Discorso XXVII/2 SULLE DIVERSE FORME DELL’ESICHIA E SU COME DISCERNERLE

1. In ogni genere di disciplina, come è noto a tutti, esiste diversità di opinioni e di intenzioni: non tutti infatti sono perfetti in tutto, sia per mancanza di zelo che di capacità. Vi sono dunque alcuni che entrano in questo porto, o meglio in questo mare, o forse in questo abisso, a causa della loro incapacità di dominare la lingua o della predisposizione del loro corpo alle passioni1. Altri vi entrano perché, non avendo il controllo della propria collera, sono incapaci – poverini! – di tenerla a freno in mezzo a un gran numero di persone. Altri perché, per loro presunzione, hanno deciso di navigare in modo indipendente piuttosto che sotto la guida di un altro. Altri perché, in mezzo alle cose materiali, non sono in grado di astenersene. Altri vi entrano per diventare virtuosi conducendo una vita ritirata. Altri per potersi infliggere torture per i propri peccati, senza che alcuno lo sappia. Altri per poter acquistare gloria attraverso questa vita. Vi sono altri poi – se pure il Figlio dell’uomo ne troverà ancora sulla terra quando 1 Cioè a causa della loro inclinazione ai piaceri, che nel relativo benessere di un cenobio troverebbe più occasioni per essere soddisfatta: cf. supra, I,46; VIII,20.

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verrà (cf. Lc 18,8)! – che hanno sposato questa santa esichia per poter godere dell’amore e della dolcezza di Dio e saziare così la loro sete; ma non l’hanno fatto prima di aver ripudiato ogni tipo di acedia, perché rimanere legati a quest’ultima è come commettere adulterio nei confronti della prima. 2. Secondo la poca scienza che mi è stata data, come un architetto non certo sapiente (cf. 1Cor 3,10), ho costruito una scala per permettere la salita: ora ciascuno guardi in quale gradino si trova, considerando se è venuto per volontà d’indipendenza, o per la gloria umana, o per la propria incapacità di dominare la lingua, o di tenere a freno l’ira, o per la gran quantità dei propri attaccamenti passionali, o per espiare i propri peccati, o per diventare virtuoso, o per acquistare un fuoco ancora più grande. Gli ultimi saranno i primi, e i primi ultimi (Mt 20,16)! Le prime sette sono le opere della settimana del secolo presente, alcune gradite a Dio, altre no; mentre l’ottava è chiaramente un segno del secolo futuro2! 3. Osserva attentamente, o monaco solitario, i momenti in cui spuntano le bestie feroci; altrimenti non potrai tendere loro trappole adatte! Se l’acedia, che abbiamo ripudiato, si è veramente dileguata, il lavoro è superfluo3; ma se continua ad assalirci con impudenza, non so come sia possibile praticare l’esichia.

Perché mai tra i santi monaci di Tabennesi non ci sono stati tanti luminari come tra i monaci di Scete4? Chi può intendere intenda! Io infatti non posso parlarne, o piuttosto non voglio5. Tra coloro che vivono in quest’abisso, alcuni si dedicano a diminuire le loro passioni, altri salmeggiano e passano la maggior parte del loro tempo in preghiera, mentre altri ancora attendono alla contemplazione. Chi vuole approfondire la questione, tenga presente la figura della scala6. Chi può comprendere, comprenda nel Signore (cf. Mt 19,12)! 4. Vi sono anime pigre che vivono nei cenobi e trovandovi abbondanti occasioni per alimentare la propria pigrizia finiscono col perdersi del tutto. Ve ne sono altre poi che grazie al fatto di vivere insieme ad altri riescono a deporre la propria pigrizia; e ciò avviene non solo ai più negligenti, ma spesso anche a coloro che sono già pieni di zelo. Si può applicare la stessa regola all’esichia dicendo che molti che aveva accolto come idonei, li ha poi respinti a causa della loro tendenza a vivere in modo indipendente, avendoli scoperti amanti dei piaceri; altri, invece, che aveva accolto per la loro paura e la loro preoccupazione di subire la condanna, li ha poi resi zelanti e fervorosi. 5. Nessuno osi assolutamente mettersi sulle tracce dell’esichia, se è ancora turbato dalla collera, dall’orgoglio,

2 Il tempo della storia umana è scandito dal ritmo ciclico della settimana, che solo l’irrompere dell’“ottavo giorno” – il giorno della risurrezione e della parousía – può spezzare, aprendo la storia all’eternità: i primi sette modi di abbracciare l’esichia sono dunque frutto delle possibilità umane, l’ultimo dell’intervento di Dio. Sul simbolismo del numero sette e del numero otto, cf. Evagrio Pontico, Scolii ai Salmi, PG 12,1624B-C: “Come l’ottavo giorno simboleggia il secolo futuro, perché contiene la potenza della risurrezione, così il settimo è simbolo di questo mondo”; Origene, Sul Levitico 8,4; Basilio di Cesarea, Esamerone 2,8; Gregorio di Nazianzo, Orazioni 41,2-4. 3 Il lavoro manuale, che è un mezzo efficace contro l’acedia: cf. supra, XIII,10.

4 I primi sono i monaci della comunità cenobitica fondata da Pacomio a Tabennesi, nella Tebaide; i secondi sono gli anacoreti che vivevano nel deserto di Scete, a ovest del delta del Nilo. 5 Cf. Schol. 5, PG 88,1117C: “L’opera dell’esichia è certamente grande e procura un progresso spirituale superiore rispetto a quello della vita cenobitica. Ma l’autore non vuol dirlo a motivo dei più deboli”. 6 Ovvero: comprenda che le categorie di persone appena elencate corrispondono ai diversi gradini del progresso spirituale: principianti, proficienti e perfetti. Su questo passo si veda il commento di Pseudo-Simeone, Metodo della santa preghiera e attenzione, in I padri esicasti, L’amore della quiete, a cura di A. Rigo, Qiqajon, Bose 1993, p. 44.

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dall’ipocrisia e dal rancore, perché non ne ricaverebbe altro che la propria follia! Chi si è purificato da tali passioni, allora potrà conoscere quel che è bene per lui; ma credo che forse neanche lui potrà conoscerlo7. 6. I segni, le virtù e i tratti caratteristici di quanti praticano l’esichia in modo ragionevole sono i seguenti: mente insonne, pensiero puro, rapimento dell’anima in Dio, memoria continua dei castighi, pressante desiderio della morte, preghiera insaziabile, custodia inviolabile del cuore, estinzione della sensualità, ignoranza di qualsiasi attaccamento passionale, morte al mondo, assenza di ingordigia, predisposizione per la teologia, sorgente continua di discernimento, lacrime spontanee, perdita della chiacchiera, e altri simili comportamenti, ai quali i più sono generalmente avversi. Ecco invece qual è la penuria di ricchezze spirituali propria di quanti non praticano l’esichia in modo ragionevole: aumento dell’irascibilità, accumulo di rancore, diminuzione della carità, crescita dell’orgoglio, e voglio tacere il resto. 7. Giacché il nostro discorso è giunto a questo punto, è necessario considerare qui anche il caso di coloro che vivono nella sottomissione: il nostro discorso, del resto, è rivolto soprattutto a loro. I tratti caratteristici di quanti hanno sposato in modo legittimo, senza adulterio né contaminazioni, questa bella e nobile virtù8, secondo l’insegnamento dei padri teofori, sono i seguenti – e sono tutte cose che giungeranno a perfezione al loro tempo, purché noi ci sforziamo9 ogni giorno di svilupparle e di farle pro7

Probabilmente bisogna sottintendere: “Se qualcuno non lo guiderà”. Cioè appunto la sottomissione. 9 Lett.: “Ci protendiamo (epekteinómetha)”: è il verbo dell’epéktasis – il progresso spirituale continuo –, ricavato da Fil 3,13. Cf. supra, XXVI/2,37; infra, XXIX,2. 8

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gredire –: crescita dell’umiltà iniziale, diminuzione dell’irascibilità (una volta vuotata la bile, infatti, come potrebbe essere altrimenti?), scomparsa di tutto ciò che ottenebra la mente, aumento della carità, affrancamento dalle passioni, liberazione dall’odio, diminuzione della sensualità grazie ai rimproveri subiti, ignoranza dell’acedia, aumento dello zelo, amore della compassione, abbandono della superbia – impresa quest’ultima che tutti si augurano di compiere, ma che pochi realizzano –. Una fonte senz’acqua non merita il nome di fonte, e chi ha intelligenza capisce ciò che voglio dire con questo10! 8. Una giovane sposa che non custodisce il proprio talamo contamina il proprio corpo; ma un’anima che non custodisce la promessa fatta contamina il proprio spirito. Per la prima le conseguenze sono: rimproveri, odio, frustate, e – cosa più deplorevole di tutte – il divorzio; per la seconda: contaminazioni, oblio della morte, ingordigia del ventre, incontinenza degli occhi, ricerca della vanagloria, desiderio insaziabile del sonno, durezza di cuore, insensibilità, accumulo di pensieri cattivi e aumento dei consensi dati ad essi, prigionia del cuore, condotta irrequieta, disobbedienza, contestazione, diffidenza, cuore dubbioso, chiacchiere, attaccamento alle cose materiali e – cosa più grave di tutte – eccessiva familiarità, e – cosa ancor più deplorevole – cuore privo di compunzione, da cui, se non si sta attenti, nasce l’indolenza, che è la madre degli spiriti maligni e delle cadute. 9. Tra gli otto pensieri cattivi, cinque assalgono coloro che praticano l’esichia, e tre coloro che vivono nella sottomissione11. Chi pratica l’esichia e combatte ancora con10 Cf. Schol. 12, PG 88,1120C: “Chi non ha queste virtù, non è un monaco che vive nella sottomissione”. 11 Lo Schol. 14, PG 88,1120C, afferma che i pensieri cattivi che assalgono gli esicasti sono l’acedia, la vanagloria, la superbia, la tristezza e l’ira, mentre quelli che assalgono i cenobiti sono l’ingordigia, la fornicazione e l’avarizia.

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tro l’acedia, spesso perde più di quanto guadagna, perché il tempo che dovrebbe riservare alla preghiera e alla contemplazione lo spreca a cercare espedienti per lottare contro quella. 10. Un giorno, mentre me ne stavo seduto nella mia cella in preda alla pigrizia e quasi meditavo di abbandonarla, alcuni uomini vennero da me e si misero a coprirmi di lodi per la mia vita di esicasta. Subito il pensiero della pigrizia fu scacciato da quello della vanagloria e si ritirò; e io sono rimasto sbalordito al vedere come questo demone a tre punte12 riesca ad opporsi a tutti gli spiriti maligni. 11. Sorveglia continuamente gli impulsi e i turbamenti della tua consorte13, le sue inclinazioni e i suoi movimenti, e guarda come si producono e dove tendono. Solo chi ha raggiunto la calma per mezzo dello Spirito santo, non ignora ciò che dico. 12. La principale opera dell’esichia è l’assenza di preoccupazioni nei confronti di tutte le cose, sia ragionevoli che irragionevoli, perché chi aprirà la porta alle prime, certamente s’imbatterà anche nelle seconde14. La seconda opera dell’esichia è la preghiera incessante; e la terza, l’attività inviolabile del cuore15. È impossibile, secondo natura, che chi non conosce l’alfabeto possa studiare sui libri; ma è ancora più impossibile che chi non ha raggiunto la prima opera possa praticare a dovere le altre due.

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Cf. supra, XXI,5. Cioè la carne. 14 “Le cose irragionevoli, che non hanno alcuna ragione di essere, sono quelle che costituiscono i peccati, o portano al peccato e si rivelano, fin da principio, spiritualmente inutili. Queste, ogni cristiano le deve evitare. Al contrario, le eúloga sembrano giustificate da buone ragioni, per esempio, la cura del corpo; o persino necessarie per legge naturale, come la sollecitudine per i poveri o per il prossimo. Queste pure, il monaco deve evitarle” (I. Hausherr, Solitudine e vita contemplativa, p. 87). 15 Cioè non turbata dai demoni e dalle passioni. 13

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13. Una volta16, mentre ero intento all’opera che sta in mezzo alle altre due17, mi ritrovai nella condizione propria di coloro che hanno raggiunto questo grado intermedio18: ero assetato19 ed egli20 m’illuminava, ma poi mi ritrovavo nuovamente in quella stessa condizione. Gli chiesi cosa fosse prima di prendere forma visibile21, ma non poté insegnarmelo, perché il Sovrano non lo permetteva. Gli chiesi allora in quale condizione si trovasse attualmente, e mi rispose di trovarsi nella condizione a lui propria, non in questa. E io: “Cosa significa stare e sedere alla destra di colui che è il principio di tutte le cose?”. Mi disse: “È impossibile essere iniziati a questi misteri per mezzo di parole!”. Allora gli chiesi di condurmi là dove mi attirava il mio ardente desiderio, ma quello mi rispose che non era ancora giunta l’ora (cf. Gv 2,4), perché mi mancava ancora il fuoco dell’incorruttibilità. Non so se queste cose le abbia vissute con il mio corpo di terra o senza di esso (cf. 2Cor 12,4). 16 Vera crux desperationis di commentatori antichi e moderni, questo paragrafo è stato variamente interpretato. In generale i commentatori antichi hanno inteso l’intero passo come la descrizione di un’esperienza mistica nel corso della quale l’autore parlerebbe con un angelo (uno degli esseri che stanno appunto “in posizione mediana” tra Dio e gli uomini) ponendogli alcune domande relative a Cristo (cf. Schol. PG 88,1246C-D; Exegesis, pp. 489-491). Sono invece più complesse le interpretazioni di Fozio, Amphilochia 273 e di Michele Psello, Theologica 30. Seguiamo qui l’interpretazione e il testo – un po’ diverso da quello di Sophronios – proposti da J. Gouillard, “Un ravissement de Jean Climaque: exstase ou artifice didactique?”, in Bυζντιον,

Aφι ρωµα στο Aνδρ α N. Στρτο II, Athinai 1986, pp. 445-459: secondo tale interpretazione, l’interlocutore non è un angelo ma il Cristo stesso, ciò che appare più conforme al pensiero dell’autore, che quando allude a delle esperienze mistiche non fa mai riferimento a degli intermediari; cf. ad esempio infra, XXIX,15; XXX,12; DP 100,a. 17 Cioè la preghiera incessante: la seconda “opera” elencata sopra. 18 Cioè il grado intermedio del progresso spirituale, tra la pratica e la contemplazione. 19 Sottinteso: “Di conoscere e di vedere Dio”. 20 Cioè Cristo. 21 Ovvero: quale fosse la sua condizione, prima della sua incarnazione.

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14. È difficile scuotersi di dosso il sonno di mezzogiorno, soprattutto nelle ore estive: soltanto allora, forse, non si dovrà disdegnare il lavoro manuale. 15. Ho scoperto che il demonio dell’acedia prepara e spiana la via a quello della fornicazione, in modo che, dopo che l’uno ha violentemente indebolito il corpo e lo ha sprofondato nel sonno, l’altro possa contaminare gli esicasti con immagini impure, come se fossero svegli. Se tenti di resistere con forza a questi demoni, certamente ti combatteranno con ancor più violenza, per farti desistere dalle tue lotte, facendoti credere che non ti servono a nulla; ma nulla dimostra con più evidenza la sconfitta dei demoni, come la violenza con cui ci fanno guerra. 16. Quando esci, custodisci ciò che hai accumulato: quando si apre la porta, infatti, gli uccelli in gabbia volano via. E allora non trarremo più alcun guadagno dall’esichia. 17. Un minuscolo capello dà fastidio all’occhio; così la minima preoccupazione fa scomparire l’esichia: l’esichia è infatti l’eliminazione di ogni rappresentazione mentale22 e la rinuncia a ogni preoccupazione ragionevole! 18. Chi ha veramente raggiunto l’esichia non si preoccupa più neppure della sua stessa carne: non mente infatti colui che ha promesso (cf. Mt 6,25-34; Tt 1,2; Eb 10,23)! 19. Chi vuole presentare a Dio una mente pura ed è agitato dalle preoccupazioni, è simile a chi, dopo essersi legati i piedi con stretti vincoli, pretendesse di camminare velocemente23. 22 In greco: apóthesis noemáton, espressione tipicamente evagriana; cf. Evagrio Pontico, Sulla preghiera 70: “La preghiera è l’eliminazione delle rappresentazioni mentali”. I noémata sono le rappresentazioni degli oggetti sensibili elaborate dalla mente (noûs), che servono da supporto ai “pensieri” (loghismoí): cf. M. Lot-Borodine, Perché l’uomo diventi Dio, Qiqajon, Bose 1999, p. 123, n. 72; A. Guillaumont, “Introduction”, in Évagre le Pontique, Sur les pensées, Cerf, Paris 1998, pp. 24-27. 23 Cf. Evagrio Pontico, Sulla preghiera 70-71: “Non potrai pregare in modo

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20. Sono rari coloro che sono perfettamente istruiti nella sapienza mondana; ma io dico che sono ancora più rari coloro che possiedono la sapienza divina della vera esichia! Chi non ha ancora conosciuto Dio, non è adatto per l’esichia e va incontro a molti pericoli. L’esichia soffoca gli inesperti, perché essi, non avendo gustato la dolcezza di Dio, consumano il loro tempo a lasciarsi ridurre in prigionia e derubare dai demoni, ad abbandonarsi all’acedia e alle distrazioni. 21. Chi ha toccato con mano la bellezza della preghiera, fuggirà le folle come un onagro! Chi infatti, se non questa, lascia libero l’asino selvatico da ogni rapporto umano (cf. Gb 39,5)24? 22. Chi è ancora circondato dalle passioni e vive nel deserto, non può che dedicare la sua attenzione alle loro chiacchiere, come mi anche detto e insegnato un santo anziano – voglio dire Giorgio Arsilaita25 –, che anche a te, o venerabile padre26, non è completamente sconosciuto. Costui, una volta, mentre istruiva e guidava un’anima incapace nei primi rudimenti dell’esichia, mi disse: “Ho notato che in genere al mattino vengono i demoni della vanagloria e della concupiscenza; a mezzogiorno, quelli dell’acedia, della tristezza e dell’ira; e alla sera, i sordidi27 tiranni del miserabile ventre”. puro, se sei attaccato alle cose materiali e agitato da continue preoccupazioni … Non si può correre legati, né la mente schiava delle passioni può vedere il luogo della preghiera spirituale!”. 24 L’“asino selvatico” è qui il monaco, e in particolare l’esicasta. Per la stessa interpretazione, cf. Olimpiodoro, Commento a Giobbe 39,5. 25 Eremita del monte Sinai vissuto tra il VI e il VII secolo nella laura di Arselao, che si trovava a una mezza giornata di cammino dal monastero principale. Sulla sua vita cf. Anastasio Sinaita, Racconti sui padri del Sinai 9-12; D. Tsamis, T Γεροντικν το Σιν, Thessaloniki 1991, pp. 126-131. 26 Giovanni di Raito, a cui è indirizzata l’opera. 27 Lett.: “Amanti dello sterco (philokóprous)”.

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23. Meglio un poveretto che vive in obbedienza, di un esicasta soggetto alle distrazioni! 24. Chi abbraccia l’esichia con giudizio, ma poi non ne vede ogni giorno i frutti, è perché non la pratica con giudizio, oppure perché si lascia derubare dall’orgoglio. 25. L’esichia è un culto ininterrotto reso a Dio e uno stare sempre alla sua presenza. 26. La memoria di Gesù faccia tutt’uno con il tuo respiro, e allora conoscerai l’utilità dell’esichia28. 27. È la volontà propria che fa cadere chi vive in obbedienza, ma è l’interruzione della preghiera che fa cadere l’esicasta. 28. Se ti rallegri quando ricevi visite nella tua cella, sappi che non stai dedicando il tuo tempo a Dio ma soltanto all’acedia! 29. Modello di preghiera sia per te quella vedova che aveva ricevuto un torto da parte di un suo avversario (cf. Lc 18,1-8), e modello di esichia, il grande esicasta Arsenio, uguale agli angeli29. Tu che vivi nella solitudine, ricordati della condotta di quel grande esicasta e considera come egli spesso abbia mandato via coloro che venivano a visitarlo, per non perdere la cosa più importante30! 30. Ho scoperto che i demoni persuadono coloro che

28 Questo passo della Scala diventerà famoso nella successiva tradizione esicasta, quando la “preghiera di Gesù” sarà legata sempre più strettamente al ritmo del respiro fisico: cf. Gregorio Sinaita, L’esichia 3; Callisto e Ignazio Xanthopouloi, Metodo e canone rigoroso 22; 49. Cf. anche supra, “Introduzione”, pp. 53-58. 29 Arsenio, uno dei grandi padri del deserto egiziano, fu sempre considerato dalla tradizione monastica il modello di tutti gli esicasti: la voce di Dio che egli udì nel deserto (cf. Apoftegmi, Arsenio, 2: “Arsenio, fuggi, taci, pratica l’esichia!”) diventò un programma di vita per intere generazioni di eremiti (cf. Cirillo di Scitopoli, Vita di Eutimio 59). Sul tema cf. I. Hausherr, Solitudine e vita contemplativa, pp. 40 ss.; Ph. Adnès, s.v. “Hésychasme”, in DS VII, coll. 385-386. 30 Cf. Apoftegmi, Arsenio 7; 8; 13; 28; 34; 37.

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girovagano senza motivo a visitare sempre più spesso coloro che praticano con giudizio l’esichia, per poter ostacolare almeno un po’ attraverso di loro quei bravi operai. Ma tu, mio caro, tieni d’occhio questi tali, e, per motivo di pietà, non esitare a contristare codesti scioperati! Forse, infatti, grazie a tale tristezza, smetteranno di girovagare. Comportandoti così, però, guardati dal contristare senza motivo un’anima assetata, che viene da te ad attingere acqua. In tutto hai bisogno del lume del discernimento. 31. La vita degli esicasti, o piuttosto di ogni monaco, deve essere guidata dalla coscienza e dal senso interiore31. Chi compie la sua corsa con giudizio e ordina ogni sua attività, ogni sua parola, ogni suo pensiero, ogni suo passo, ogni suo proposito e ogni suo movimento secondo il Signore, costui agisce con l’intimo senso dell’anima e al cospetto del Signore; se però si lascia distrarre32, non vive ancora secondo la virtù. 32. “Esporrò sulla cetra la mia difficoltà (Sal 48,5) e la mia volontà”, ha detto qualcuno a causa di un discernimento ancora insufficiente; ma io manifesterò la mia volontà attraverso la preghiera, e di là riceverò piena certezza. 33. La fede è l’ala della preghiera: senza di essa la mia preghiera tornerà di nuovo nel mio seno (cf. Sal 34,13). La fede è stabilità incrollabile dell’anima, non scossa da alcuna contrarietà. L’uomo di fede non è chi crede che Dio può tutto, ma chi crede di poter ottenere tutto (cf. Mt 21,22)! 34. La fede è dispensatrice delle cose che non osiamo sperare, ed è ciò che ha dimostrato il ladrone (cf. Lc 23,43). Madre della fede è la fatica, unita a un cuore retto: se quest’ultimo la rende salda, la prima la costrui31 32

Cf. supra, XXVI/1,18. Lett.: “Si lascia derubare (kléptetai)”; cf. infra, XXVIII,24.

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sce. La fede è madre degli esicasti: chi infatti non ha la fede, come può praticare l’esichia? 35. Chi è stato incatenato e messo in prigione ha paura di colui che può infliggergli una pena, e chi dimora nella calma della propria cella, genera in se stesso il timore del Signore: il primo non teme così tanto il tribunale, quanto il secondo il giudizio del sommo Giudice. Nell’esichia, o mio eccellente amico, hai bisogno di molto timore, perché niente è così efficace per scacciare l’acedia! 36. Il condannato sta continuamente all’erta per vedere quando il giudice si presenti alla prigione; il vero operaio, per vedere quando venga chi lo solleciti a uscire dalla vita33. Il primo si porta legato un carico di tristezza, il secondo una fonte di lacrime. 37. Se impugni il bastone della pazienza, subito i cani34 cesseranno di comportarsi da sfrontati! La pazienza è lo sforzo tenace dell’anima che non si lascia turbare da alcun rumore, ragionevole o irragionevole che sia. La pazienza è un argine posto alla tribolazione, che l’accoglie ogni giorno. Il paziente è un operaio infallibile che, anche con le sue cadute, riporta la vittoria. La pazienza è la recisione di ogni occasione di distrazione e l’attenzione a se stessi. 38. L’operaio della virtù non ha tanto bisogno di cibo, quanto di pazienza. La mancanza del primo gli varrà una corona, ma la mancanza della seconda lo condurrà alla perdizione! 39. L’uomo paziente è già morto prima di andare nella tomba, perché ha fatto della cella la propria tomba. La pazienza è figlia della speranza e dell’afflizione: chi infatti è senza queste due cose, è schiavo dell’acedia. 33 34

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Cioè l’angelo “psicoforo” che conduce l’anima fuori dal corpo. Cioè i demoni.

40. Il lottatore di Cristo deve conoscere quali nemici scacciare da lontano, e a quali permettere di lottare con lui a corpo a corpo35. A volte la lotta procura la corona, e altre volte il rifiuto della lotta squalifica i lottatori. Non è possibile insegnare tali cose a parole, perché non abbiamo tutti le stesse qualità e lo stesso carattere. 41. Tra gli spiriti maligni ce n’è uno che devi tenere d’occhio con particolare vigilanza, perché da parte sua ti fa guerra incessantemente: quando stai in piedi, quando cammini, quando sei seduto, quando ti muovi, quando ti corichi, quando preghi e quando dormi36. 42. Tra coloro che si sono messi sulla strada dell’esichia, alcuni si esercitano incessantemente sulle parole: Davanti a me vedevo sempre il Signore (Sal 15,8). Non sono tutti dello stesso tipo, infatti, i pani del frumento celeste che ci danno nutrimento spirituale. Altri meditano le parole: Con la vostra pazienza guadagnerete le vostre anime (Lc 21,19); altri: Vegliate e pregate (Mt 26,41); altri: Prepara le tue opere in vista della tua partenza (Pr 24,27); altri: Mi sono umiliato, e mi ha salvato (Sal 114,6); altri: Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura (Rm 8,18). Altri infine meditano continuamente: Per paura che non vi rapisca, e non vi sia chi vi liberi (Sal 49,22). Tutti corrono, ma uno solo di questi conquista il premio (1Cor 9,24) senza fatica37. 35 L’autore vuol dire che il monaco deve saper discernere quali tra i pensieri cattivi è opportuno scacciare subito con la preghiera, e a quali permettere l’accesso al proprio cuore per poterli meglio combattere attraverso un’intima lotta spirituale, e in particolare con il metodo della “contraddizione” (cf. supra, XXVI/1,51). 36 Secondo lo scoliaste (PG 88,1248A) e l’Exegesis (p. 498) può trattarsi dello spirito di fornicazione, o di quello della vanagloria, o ancora di quello dell’acedia. 37 Cf. Exegesis (p. 499): “Uno solo riceve la corona della vittoria senza fatica, colui che realizza uno di questi esercizi con profonda umiltà; oppure chi persevera fino alla fine senza mai stancarsi; oppure con ‘uno’ intende dire il ‘primo’, che si esercita sulle parole: Davanti a me vedevo sempre il Signore, perché è alla mia destra, affinché io non vacilli”.

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43. Chi è ormai progredito nell’esichia sta in attività non solo quando è sveglio, ma anche quando dorme; per questo alcuni anche durante il sonno insultano i demoni che si avvicinano a loro e richiamano alla castità le donne dissolute38. 44. Non attendere visite e non fare preparativi per esse, perché la condizione di chi pratica l’esichia è assolutamente semplice e libera da ogni vincolo! 45. Nessuno, volendo costruire una torre, ovvero una cella per l’esichia, intraprende l’opera prima di essersi seduto a calcolare e valutare con la preghiera se ha le capacità di portarla a compimento, per evitare che, dopo aver gettato le fondamenta, egli diventi un oggetto di scherno per i suoi nemici, e un ostacolo per gli altri operai (cf. Lc 14,28-29). 46. Stai bene attento che la dolcezza che viene a visitare la tua anima non ti sia stata per caso propinata a tradimento da qualche medico crudele, o piuttosto da qualche perfido ingannatore! 47. Di notte, dedica la maggior parte del tempo alla preghiera, e una piccola parte alla salmodia; di giorno, poi, regolati secondo le tue forze. La lettura39, poi, è in grado di illuminare e di raccogliere non poco la mente, perché quelle sono parole dello Spirito santo e certamente mettono ordine40 in coloro che le frequentano! Tu sei un operaio, abbi letture pratiche41: mettere in pratica queste, infatti, rende inutili le altre letture! 38

Sottinteso: “Che appaiono loro in sogno per tentarli”. Sottinteso: “Della Scrittura”. 40 In greco: “Danno un ritmo, una regola (rythmízousin)”. L’esicasta ha un estremo bisogno di questa “regola” della Scrittura – insinua l’autore –, perché, non vivendo più sottomesso a un anziano, egli rischia di vivere a proprio piacimento, cadendo nel soggettivismo e nell’idiorrhythmía (termine formato dalla radice del verbo rythmízo), ovvero nella completa indipendenza di vita. Su quest’ultimo termine cf. infra, “Glossario”, s.v. “Indipendenza di vita”. 41 Letture, cioè, che possano aiutare a praticare l’esichia. Il passo è citato in Gregorio Sinaita, L’esichia 11. 39

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48. Cerca d’illuminare quelle parole salutari42 con le tue fatiche più che con i libri43! Non accostarti a opere che hanno un senso allegorico prima di aver acquisito la forza spirituale: essendo infatti parole oscure, gettano nell’oscurità chi è debole44! 49. Spesso una sola coppa basta a farci capire il sapore di un vino: ugualmente una sola parola di un esicasta, a chi è capace di gustarne il sapore, può rivelare tutta la sua attività e condizione interiore. 50. Non distogliere mai l’occhio della tua anima45 dall’orgoglio, perché non c’è furto che possa danneggiarci più di questo! 51. Quando esci, risparmia la lingua, perché essa è in grado di sperperare in un attimo le tue molte fatiche! 52. Sforzati di non essere curioso, perché la curiosità è in grado di contaminare l’esichia come nessun’altra cosa! 53. Ai tuoi visitatori offri il necessario: intendo sia per il corpo che per lo spirito. Se sono più sapienti di noi, dimostriamo la nostra sapienza con il silenzio; se invece sono fratelli come a noi, apriamo loro con moderazione la

42 Secondo l’insegnamento tradizionale dei padri, le parole della Scrittura sono medicine che guariscono le ferite dell’anima: cf. Basilio di Cesarea, Omelie sui Salmi, PG 29,209. 43 La tradizione patristica insiste molto sulla necessità di leggere la Scrittura con la vita per penetrarne il senso profondo e autentico. Dice Giovanni Cassiano: “È allora che le Scritture divine ci appaiono con maggiore chiarezza e, in certo qual modo, ci aprono le loro vene e le loro viscere, appunto quando la nostra esperienza personale non solo avverte, ma ne previene la conoscenza, e così il senso delle parole ci sarà svelato non da qualche spiegazione, ma dall’esperienza viva che ne abbiamo fatto” (Conferenze X,11). Cf. anche Marco il Monaco, Legge spirituale 87-88. Su questo tema, cf. M. M. Morfino, Leggere la Bibbia con la vita, Qiqajon, Bose 1990, pp. 103-106. 44 Secondo Schol. 40, PG 88,1128A-B si tratterebbe dei libri della Scrittura che richiedono di essere interpretati allegoricamente, come per esempio il Cantico dei cantici, o dei libri oscuri degli eretici. Cf. M. Van Parys, “L’interpretazione delle Scritture nella ‘Scala’”, pp. 138-139. 45 Cf. supra, XXII,22.

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porta delle nostre labbra. Comunque, è sempre meglio ritenere che siano superiori a noi. 54. A chi è ancora principiante, avrei voluto vietare del tutto il lavoro manuale durante le sinassi, ma me l’ha impedito colui che per tutta la notte portava la sabbia con il suo mantello46. 55. Come alla dottrina del dogma della santa, increata e adorabile Trinità si contrappone la dottrina dell’incarnazione di una delle persone di questa Trinità degna di ogni lode – poiché ciò che là è plurale, qui è singolare, e ciò che là è singolare, qui è plurale47 –, così altre sono le attività adeguate all’esichia, e altre quelle adeguate all’obbedienza. 56. Il divino Apostolo dice: Chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? (Rm 11,35), ma io dico: chi ha mai conosciuto la mente di colui che pratica l’esichia nel corpo e nello spirito? La potenza del re dipende dalla sua ricchezza e dal grande numero [dei suoi sudditi]; la potenza dell’esicasta, dalla ricchezza della sua preghiera!

46 Cf. Vite greche di Pacomio I,6, dove si racconta che abba Palamone, per tener sveglio Pacomio durante le lunghe veglie, gli faceva trasportare della sabbia da un luogo a un altro. Cf. supra, XVIII,6. 47 L’autore vuol dire che, mentre nel dogma trinitario si parla di tre persone (Padre, Figlio e Spirito santo), ma di una sola natura, di una sola energia e di una sola volontà (quella divina), nel dogma cristologico si parla di una sola persona (il Figlio), ma di due nature, di due energie e di due volontà (quella umana e quella divina).

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Discorso XXVIII SULLA SANTA E BEATA PREGHIERA, MADRE DELLE VIRTÙ, E SUL MODO DI ATTENDERVI CON LA MENTE E CON IL CORPO

1. La preghiera, nella sua essenza, è intimità e unione dell’uomo con Dio1; nei suoi effetti, è sostegno2 del mondo, riconciliazione con Dio, madre delle lacrime e loro figlia, espiazione dei peccati, ponte per superare le tentazioni, muro contro le tribolazioni, eliminazione delle guerre3, opera degli angeli, nutrimento di tutti gli esseri incorporei, letizia del mondo futuro, attività senza fine, fonte di virtù, dispensatrice di grazie, progresso invisibile, alimento dell’anima, illuminazione della mente, scure contro la disperazione, dimostrazione di speranza, dissoluzione della tristezza, ricchezza dei monaci e tesoro degli esicasti, diminuzione della collera, specchio del nostro progresso, indice del nostro grado di perfezione, manifestazione della nostra condizione interiore, rivelazione dei beni futuri e pegno della gloria. La preghiera, per chi prega veramente, è corte di giustizia, giudizio e tribunale del Signore prima del giudizio futuro. 1 2 3

Cf. supra, “Introduzione”, p. 51. In greco: sy´stasis, “ciò che tiene insieme, che dà consistenza”. Che i demoni muovono contro le anime.

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2. Alziamoci e ascoltiamo questa regina delle virtù che grida a gran voce verso di noi dicendo: Venite a me, voi tutti affaticati e oppressi, e io vi darò riposo! Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, e troverete riposo per le vostre anime, e guarigione per le vostre ferite! Il mio giogo infatti è dolce, ed è in grado di guarire grandi cadute (cf. Mt 11,28-30)! 3. Ogni volta che andiamo a presentarci davanti al nostro Re e Dio e a conversare con lui, guardiamo di non metterci in strada se prima non ci siamo preparati, perché non succeda che egli, vedendo da lontano che non abbiamo le armi e il vestito adatto per presentarci a corte, ordini ai suoi servitori e ministri di legarci, di scacciarci lontano dalla sua presenza (cf. Mt 22,11-12) e di gettarci in faccia le nostre richieste (cf. Sal 34,13), dopo averle strappate. 4. Quando vai a presentarti davanti al Signore, la tunica della tua anima sia interamente tessuta con il filo – o piuttosto con il presupposto4 – dell’assenza di rancori, perché altrimenti non ricaverai alcun profitto dalla tua preghiera. L’intero tessuto della tua supplica sia senza ornamenti: il pubblicano e il figlio prodigo infatti si riconciliarono con Dio con una sola parola (cf. Lc 9,13; 15,21)! 5. Tutti quelli che pregano, certo, stanno in presenza di Dio, ma in questo ci sono molte varietà e differenze. Alcuni si rivolgono a lui come a un amico e a un padrone, offrendo ringraziamenti e suppliche, non per se stessi, ma per gli altri. Altri si rivolgono a lui per domandargli un aumento di ricchezza e di gloria spirituali, e di confidenza filiale5; altri, per chiedergli di essere completamente liberati dal loro avversario; altri, per supplicarlo di 4 5

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In greco c’è un gioco di parole tra némati (“filo”) e lémmati (“premessa”). In greco: parrhesía.

concedere loro una qualche grazia; altri, per chiedergli di essere perfettamente liberati dalla preoccupazione riguardo al loro debito; altri, per ottenere la liberazione dalla loro prigione; e altri la remissione dei loro crimini. 6. Sul rotolo della nostra supplica, dobbiamo collocare prima di tutto un sincero rendimento di grazie; poi, al secondo posto, la confessione dei peccati e un’autentica contrizione dell’anima; quindi presentiamo la nostra petizione al re dell’universo. Questo è il modo migliore di pregare, come è stato rivelato da un angelo a uno dei fratelli. 7. Se mai hai dovuto rendere conto delle tue azioni di fronte a un giudice di questo mondo, non hai bisogno di altro modello di come stare in preghiera; ma se non sei mai comparso di persona di fronte a un giudice, né mai hai assistito al processo di altri, impara almeno dalle suppliche che i malati rivolgono ai medici, quando stanno per subire un’amputazione o una cauterizzazione. 8. Nella tua preghiera, non usare parole sofisticate, perché spesso il balbettio semplice e ripetitivo dei bambini è riuscito a intenerire il Padre loro che è nei cieli (cf. Mt 6,9). 9. Non affannarti a parlare molto quando preghi (cf. Mt 6,7), perché la tua mente non si disperda nella ricerca delle parole. Una sola parola da parte del pubblicano bastò a procurargli la misericordia di Dio (cf. Lc 18,13), e un solo grido di fede salvò il ladrone (cf. Lc 23,42-43). L’uso di molte parole nella preghiera spesso disperde la mente e la colma di immagini, mentre la ripetizione di una sola formula spesso la raccoglie6. 10. Quando una parola della tua preghiera ti pervade di dolcezza o di compunzione, rimani in essa, perché in quel momento il nostro angelo custode sta pregando con noi.

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Cf. supra, XV,51.

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11. Anche se hai raggiunto la purezza, non avere troppa confidenza nella tua preghiera; accostati piuttosto ad essa con grande umiltà, e riceverai ancor più confidenza. 12. Anche se hai salito l’intera scala delle virtù, prega per la remissione dei tuoi peccati, ascoltando Paolo che afferma riguardo ai peccatori: Io sono il primo di loro (1Tm 1,15)! 13. L’olio e il sale condiscono le pietanze; la castità e le lacrime danno ali alla preghiera. 14. Se ti sei interamente rivestito di mitezza e spogliato di ogni irascibilità, non faticherai molto a liberare la tua mente dalla prigionia. 15. Finché non abbiamo raggiunto l’autentica preghiera, somigliamo a coloro che esercitano i bambini a compiere i primi passi7. 16. Lotta per elevare il tuo pensiero, o piuttosto per concentrarlo nelle parole della tua preghiera; e anche se si stanca e cade – dal momento che è ancora bambino –, tu riconducilo di nuovo in esse. L’instabilità, infatti, è propria della mente, ma Dio può rendere stabile ogni cosa! 17. Se sostieni questa lotta incessantemente, verrà ad abitare anche in te colui che stabilisce i confini al mare della mente, e durante la tua preghiera gli dirà: Fin qui giungerai e non oltre (Gb 38,11)! 18. È impossibile incatenare lo spirito, ma laddove è presente il creatore dello spirito, tutto gli si sottomette. 19. Se mai hai contemplato il Sole8 in modo autentico, potrai anche conversare con lui come si conviene. Altrimenti, come puoi rivolgerti a colui che non hai mai visto senza essere falso? 20. L’inizio della preghiera consiste nel respingere gli assalti dei demoni fin dal primo istante con la ripetizione 7 8

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La mente è il “bambino” che compie i primi passi nella preghiera. Cioè Cristo.

di una sola formula; il grado intermedio, nel mantenere fisso il pensiero nelle parole pronunciate e pensate; il grado perfetto, nell’essere rapiti nel Signore. 21. Altra è la gioia che provano nella preghiera coloro che vivono in comunità, e altra è quella che provano coloro che pregano nell’esichia. La prima, infatti, può essere legata, almeno in piccola parte, a delle immagini, mentre la seconda è interamente colma di umiltà9. 22. Se eserciti la mente a non divagare, resterà accanto a te anche quando ti metti a tavola; ma se essa vaga liberamente, non potrà mai rimanere con te. 23. Quel gran cultore della sublime e perfetta preghiera afferma: Preferisco dire cinque parole con la mia mente (1Cor 14,19) e ciò che segue. Ma una tale preghiera è estranea alle anime che sono ancora nell’infanzia; perciò noi, che siamo imperfetti, abbiamo bisogno, insieme alla qualità, anche di una certa quantità di parole: quest’ultima infatti procura la prima. Sta scritto infatti: Egli accorda una preghiera pura a chi prega (cf. 1Sam 2,9) con impegno, anche se la sua preghiera è contaminata e detta a fatica. 24. Un conto è l’impurità della preghiera, altro conto la sua estinzione, altro il suo furto, e altro ancora la sua macchia: “impurità” è quando stiamo alla presenza di Dio e ci rappresentiamo immagini sconvenienti; “estinzione” è quando ci lasciamo catturare da preoccupazioni inutili; “furto” è quando il pensiero si lascia distrarre senza accorgersene; “macchia” è qualunque assalto del demonio che ci sorprenda in quel momento. 9 Cf. Diadoco di Fotica, Capitoli 60: “Altra è la gioia iniziale, altra è quella perfetta; la prima non è esente da immaginazione, l’altra possiede la forza dell’umiltà; tra le due si trova una tristezza benedetta e delle lacrime senza dolore”; cf. anche ibid. 73. Sul rifiuto dell’immaginazione nella preghiera cf. infra, § 44, n. 17.

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25. Se, al momento della preghiera, non siamo da soli, formiamoci un atteggiamento di supplica nel nostro intimo; ma se non ci sono persone che ci possano lodare, assumiamo pure un atteggiamento adatto alla preghiera anche esteriormente. La mente, infatti, in coloro che sono ancora imperfetti, spesso si conforma al corpo10. 26. Tutti, ma soprattutto coloro che si recano dal re per ricevere la remissione dei peccati, hanno bisogno di una profondissima contrizione. 27. Se siamo ancora in prigione, ascoltiamo colui che dice a Pietro: “Mettiti il grembiule dell’obbedienza e spogliati delle tue volontà (cf. At 12,8), e così nudo presentati al Signore nella preghiera, invocando soltanto la sua volontà. Allora riceverai Dio, che tiene il timone della tua anima e ti guida senza pericolo!”. 28. Una volta risorto dalla morte dell’amore del mondo e dei piaceri, respingi le preoccupazioni, spogliati dei pensieri e rinnega il corpo, poiché la preghiera non è nient’altro che estraniamento dal mondo visibile e invisibile. Cosa c’è per me in cielo? Niente. Accanto a te, cosa ho voluto sulla terra? Niente, se non stare sempre unito a te nella preghiera senza distrazioni. Alcuni desiderano la ricchezza, altri la gloria, altri le creature, ma il mio desiderio è stare unito a Dio, riporre in lui la speranza della mia impassibilità (cf. Sal 72,25.28)! 29. La fede dà ali alla preghiera: senza di essa infatti quest’ultima non può volare in cielo11. 30. Noi che siamo ancora schiavi delle passioni, imploriamo il Signore con perseveranza. Tutti gli impassibili, infatti, sono passati dalla schiavitù delle passioni all’impassibilità. 10 11

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Cf. supra, XV,76; XXV,54. Cf. supra, XXVII/2,33.

31. Anche se il Giudice non teme Dio – essendo lui stesso Dio –, tuttavia, poiché l’anima rimasta vedova di lui a causa dei suoi peccati e delle sue cadute gli procura fastidi, egli le farà giustizia contro il suo avversario, il corpo, e contro gli spiriti suoi nemici (cf. Lc 18,4). 32. Il nostro Dio, da buon mercante, attira al suo amore coloro che gli sono riconoscenti, esaudendo immediatamente le loro domande; ma le anime ingrate come cani, le fa stare in preghiera davanti a sé con la fame e la sete di vedere esaudite le loro domande! Il cane ingrato, infatti, appena ha ricevuto il pane, subito si allontana da chi glielo ha dato. 33. Quando hai pregato per lungo tempo, non dire che non hai ottenuto nulla, perché hai già ottenuto qualcosa: cosa c’è, infatti, di più buono e di più sublime dello stare unito al Signore e del perseverare incessantemente in questa unione con lui (cf. Sal 72,28)? 34. Chi sta per essere condannato non teme così tanto la sentenza della propria condanna, come chi è sollecito nella preghiera teme il momento in cui si mette a pregare12; e così, se ha un po’ di saggezza e di accortezza, con quel solo pensiero riesce a respingere ogni ricordo di offesa, ogni ira, ogni preoccupazione, ogni fastidio, ogni angoscia, ogni sazietà, ogni pensiero cattivo e ogni tentazione. 35. Preparati con la preghiera continua dell’anima al momento della supplica, e così farai rapidi progressi. 36. Ho visto persone, che brillavano nell’obbedienza e che per quanto potevano custodivano nella mente il ricordo di Dio, mettersi a pregare all’improvviso e subito essere in grado di concentrare la propria mente e di versare torrenti di lacrime: si erano infatti già preparate attraverso la santa obbedienza. 12

Cf. supra, VII,13.

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37. Alla salmodia cantata insieme a un gran numero di persone, spesso si accompagnano pensieri che rendono prigioniera la mente e la distraggono13; non così nella salmodia solitaria. Quest’ultima però deve combattere contro l’acedia14, mentre la prima è sostenuta dallo zelo. 38. La guerra dimostra l’amore che il soldato ha per il re, e il tempo passato in preghiera rivela l’amore che il monaco ha per Dio15. La tua preghiera ti manifesterà il tuo stato interiore: i teologi, infatti, la chiamano “specchio del monaco”16. 39. Chi si dedica a una qualsiasi attività e, quando giunge l’ora della preghiera, continua a occuparsi in essa, è raggirato dai demoni: quei ladri infatti mirano a rubarci un’ora dopo l’altra! 40. Non rifiutarti di pregare per un’anima, quando ti viene richiesto, anche se non hai il dono della preghiera. La fede del richiedente, infatti, spesso salva anche chi prega per lui con cuore contrito. Non ti esaltare se preghi per un altro e vieni esaudito, perché è la fede di quella persona che ha operato in modo efficace! 41. Ogni allievo viene interrogato ogni giorno dal proprio maestro sulla lezione da lui appresa; così, a ogni mente, ogni volta che prega, viene giustamente richiesta la forza che ha ricevuto da Dio. Perciò bisogna fare attenzione!

42. Quando riuscirai a pregare con attenzione, sarai subito assalito dalla tentazione dell’ira: è proprio questo, infatti, che vogliono i nostri nemici! Dobbiamo sempre praticare ogni virtù – e soprattutto la preghiera – con un profondo sentimento interiore. L’anima prega con tale sentimento, quando riesce a dominare l’ira. 43. Ciò che si ottiene con molte preghiere e dopo lungo tempo, è durevole. Chi possiede in se stesso il Signore, non dovrà più esprimere l’oggetto della sua preghiera, perché ormai lo Spirito intercede per lui nel suo intimo con gemiti inesprimibili (cf. Rm 8,26). 44. Non accogliere alcun genere di immaginazione sensibile nella tua preghiera, per non rischiare di andare fuori di senno17! 45. L’intima certezza dell’esaudimento di ogni nostra domanda si mostra nella preghiera. L’intima certezza è la liberazione dal dubbio. L’intima certezza è la manifestazione di ciò che non è manifesto priva di ogni esitazione. 46. Sii pieno di misericordia mentre ti dedichi alla preghiera: è in essa infatti che i monaci riceveranno il centuplo; quanto al resto, lo riceveranno nel secolo futuro (cf. Mt 19,29). 47. Quando il fuoco viene ad abitare in un cuore, risuscita la preghiera; e quando questa risorge e ascende in cielo, ecco che avviene la discesa del fuoco nel cenacolo dell’anima18.

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Cf. supra, XVIII,5. Cf. supra, XIII,3-5. Cf. Marco il Monaco, Su chi si crede giustificato per le opere 90: “La preghiera senza distrazione, per chi vi persevera, è segno di amore per Dio. Trascurarla e lasciarsi distrarre da essa è invece prova di amore del piacere”; Massimo il Confessore, Capitoli sulla carità II,1: “Chi ama Dio d’un amore sincero, prega senza lasciarsi distrarre; chi prega senza lasciarsi distrarre, ama Dio d’un amore sincero” (cf. Schol. 26, PG 88,1146D). 16 Cf. Apoftegmi Nau 96: “Dicevano gli anziani: ‘La preghiera è specchio del monaco!’”. In generale, sulla preghiera come mezzo per conoscere l’orientamento della propria anima, cf. Pseudo-Macario, Omelie (Coll. III) 24,5. Per “teologi” bisogna intendere qui coloro che conoscono Dio per averne fatto esperienza nella preghiera (cf. Evagrio Pontico, Sulla preghiera 60: “Se sei teologo, pregherai veramente, e se preghi veramente sei teologo”). 14 15

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17 Sul rifiuto dell’immaginazione (phantasía) durante la preghiera, cf. Evagrio Pontico, Sulla preghiera, 114-117: “Se aspiri a vedere il volto del Padre che è nei cieli, non cercare di costruirti una forma o un’immagine nel tempo della preghiera. Non desiderare di vedere sensibilmente angeli, potenze o Cristo, per non esser preso da follia, scambiando il lupo con il pastore e prostrandoti dinanzi ai demoni, ostili nemici. La vanagloria è fonte di errore poiché da essa la mente è spinta a circoscrivere la divinità in immagini e forme. Dirò qui il mio pensiero, che ho espresso anche ai più giovani: beata la mente che dedicandosi alla preghiera, raggiunge la perfetta assenza di forma!”; cf. anche ibid., 66-68; Diadoco di Fotica, Capitoli 59; 68. Sul tema cf. M. Lot-Borodine, Perché l’uomo diventi Dio, pp. 119-120. 18 Cf. At 2,3. Lo Spirito santo cioè discende nell’anima, come un tempo sugli apostoli riuniti nel cenacolo dopo la risurrezione di Cristo.

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48. Alcuni dicono che la preghiera è più potente del ricordo della morte; io lodo le due nature in una sola persona19! 49. Un buon cavallo, via via che avanza, si riscalda e diventa sempre più veloce nella sua corsa. Per corsa qui intendo la salmodia, e per cavallo la mente coraggiosa: essa fiuta la guerra da lontano (Gb 39,25), vi si prepara in anticipo, e così rimane assolutamente invincibile. 50. È grave strappare l’acqua dalla bocca di un assetato, ma ancor più grave che un’anima che sta pregando con compunzione si separi dalla sua intensa preghiera prima di averla portata a termine. 51. Non allontanarti dalla preghiera finché non vedi che il fuoco e l’acqua20, per divina disposizione, sono cessati, perché forse in tutta la tua vita non avrai più un’occasione simile per ottenere la remissione dei peccati. Chi ha gustato il sapore della preghiera, spesso riesce a contaminare la propria mente con una sola parola pronunciata in modo disattento, e generalmente, poi, quando si mette a pregare, non trova più ciò che desidera. 52. Una cosa è vigilare con assiduità sul proprio cuore, altra cosa è essere – per così dire – “vescovi” del proprio cuore21, usando la mente ora come guida, ora come sommo sacerdote che offre a Cristo sacrifici spirituali (cf. Rm 12,1)22. Quando il fuoco santo e celeste23 visita gli uni – come dice 19 Lett.: “Le due sostanze in una sola ipostasi”. L’autore usa una formula teologica tradizionale in senso spirituale, come in XXV,14. 20 Il fuoco della compunzione e l’acqua delle lacrime. 21 Gioco di parole tra episkopeîn (“sorvegliare”) ed episkopeúsai (“essere vescovo”). 22 Su questo passo e in generale sulla funzione “sacerdotale” della mente, cf. M. Van Parys, “La liturgie du cœur selon saint Grégoire le Sinaïte”, in Irénikon 51 (1978), pp. 312-337, in particolare p. 332. 23 Cioè lo Spirito santo.

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uno di quelli che hanno il soprannome di teologi24–, li brucia, perché hanno ancora bisogno di purificazione; mentre gli altri, li illumina, perché hanno ormai raggiunto la perfezione. Lo stesso Dio, infatti, è chiamato fuoco che consuma (cf. Eb 12,29) e luce che illumina (cf. Gv 1,9)! Alcuni perciò escono dalla preghiera come da una fornace25, sentendosi alleggeriti da qualche loro sozzura e dalla materia; altri, invece, vi escono come illuminati da una luce e rivestiti del doppio manto dell’umiltà e della gioia26. Chi infatti esce dalla preghiera senza aver sperimentato questi due effetti, prega in modo materiale, per non dire alla maniera dei giudei! Se un corpo si trasforma e muta il proprio modo di agire quando tocca un altro corpo, com’è possibile che non si trasformi chi con mani pure tocca il corpo di Dio27? 53. Come un re di questa terra, così vediamo il nostro re infinitamente buono elargire doni ai propri soldati: ora direttamente, ora attraverso un amico, ora attraverso un servo, o talvolta anche in modo nascosto; ma tutto ciò nella misura in cui indossiamo la tunica dell’umiltà. 24 Cf. Gregorio di Nazianzo, Orazioni 9,2: “Il sole rivela la debolezza dell’occhio e la visita di Dio rivela la malattia dell’anima. Per gli uni è una luce, per gli altri un fuoco, secondo la natura profonda e la qualità di ciascuno”; e anche ibid. 40,36. 25 Cf. supra, XVIII,7. 26 Le stesse immagini del fuoco e della luce applicate alla preghiera si ritrovano in Gregorio Sinaita, Utilissimi capitoli 113: “Per i principianti la preghiera è come un fuoco di letizia che sale dal cuore; per i perfetti, come profumata luce operante”. 27 Questa espressione estremamente ardita, più che come un riferimento all’eucaristia – così intendono molti sulla base di Schol. 23, PG 88,1145C –, va forse compresa in senso metaforico, nel quadro della sensibilità spirituale: se è vero cioè che, in tutta l’opera, l’autore afferma l’esistenza di una dimensione “sensibile” che si colloca a un livello più profondo della sensibilità corporea (cf. supra, XXVI/1,17), “toccare il corpo di Dio” può indicare l’esperienza di un intimo contatto con Dio che il monaco sperimenta nella propria preghiera attraverso il senso spirituale: tale intima esperienza però si riverbera anche all’esterno, al punto da trasfigurare visibilmente l’intero corpo della persona (cf. infra, XXX,10.11). L’espressione sottolinea bene anche il carattere fortemente dialogico e personale che la preghiera riveste agli occhi del nostro autore (cf. supra, § 1).

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54. Come un re di questa terra sarebbe alquanto infastidito al vedere qualcuno che, stando alla sua presenza, distoglie da lui il proprio sguardo e parla con i nemici del proprio sovrano, così il Signore è disgustato al vedere chi accoglie i pensieri impuri mentre sta in preghiera. 55. Quando viene il cane, scaccialo con la tua arma28; e, per quanto continui ad abbaiare, tu non cedere. 56. Chiedi con l’afflizione, cerca con l’obbedienza e bussa con la pazienza, perché chiunque chiede così riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto (Mt 7,8 par.). Nella tua preghiera, sta’ attento a non intercedere con leggerezza per una donna, per non essere derubato da destra29. 57. Non voler confessare i tuoi peccati carnali specificando in dettaglio quali sono, per non tenderti una trappola da solo30. 58. Il tempo della preghiera non diventi per te un’occasione per riflettere su affari importanti e necessari, o anche su questioni spirituali; altrimenti ti lasceresti rubare la cosa più importante! 59. Chi tiene saldamente in pugno il bastone della preghiera, non inciamperà; o se mai gli capita, non cadrà in modo definitivo. La preghiera, infatti, è una pia tirannia esercitata su Dio. La sua utilità ci è dimostrata dagli ostacoli che i demoni ci frappongono durante le sinassi, e il suo frutto, dalla sconfitta del nemico. Da questo – dice infatti il salmista – so che mi hai voluto bene, se il mio nemico non godrà di me (Sal 40,12) nel tempo della guerra. Ho gridato – dice – con tutto il mio cuore (Sal 118,145), cioè

con la bocca, con l’anima e con lo spirito, perché laddove gli ultimi due sono riuniti insieme, Dio è in mezzo a loro (cf. Mt 18,20). 60. Non siamo tutti uguali, né in ciò che riguarda il corpo, né in ciò che riguarda lo spirito. Ad alcuni infatti giova una salmodia rapida, ad altri una più lenta: i primi affermano di combattere così contro i pensieri che riducono in prigionia la mente, gli altri contro l’ignoranza31. 61. Se preghi incessantemente il re contro i tuoi nemici, quando ti assalgono, fatti coraggio: non dovrai faticare molto, perché essi si allontaneranno subito da soli; quei maledetti, infatti, non vogliono vederti ricevere una corona combattendo contro di loro con la preghiera; e oltre a questo, fuggiranno perché flagellati dalla tua preghiera, come si fugge davanti al fuoco. 62. Da’ prova di tutto il tuo ardimento, e avrai Dio stesso come maestro di preghiera! 63. Non è possibile imparare a vedere attraverso le parole, perché ciò dipende dalla natura, né è possibile apprendere la bellezza della preghiera dall’insegnamento di un altro, perché essa ha come proprio maestro Dio, che insegna all’uomo la scienza (Sal 93,10), accorda la preghiera a chi prega e benedice gli anni dei giusti (1Sam 2,9)32. Amen.

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Ovvero: “Quando il demonio viene a tentarti, scaccialo con la preghiera”. Cioè perché il demonio non ti inganni, rubandoti il frutto della tua preghiera, dietro un’apparenza di bene. 30 Cf. Marco il Monaco, Su chi si crede giustificato per le opere 139: “I peccati passati, se ricordati in dettaglio, nuocciono a chi è pieno di speranza, perché se riemergono con dolore lo allontanano dalla speranza, e se vengono rappresentati nella mente senza dolore, gli procurano di nuovo l’antica macchia”. 29

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31 Salmeggiando lentamente possono infatti comprendere il significato delle parole cantate. 32 Cf. anche Evagrio Pontico, Sulla preghiera 58.

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Discorso XXIX SULL’IMPASSIBILITÀ, CHE È IMITATRICE DI DIO E CIELO TERRESTRE, PERFEZIONE E RISURREZIONE DELL’ANIMA PRIMA DELLA COMUNE RISURREZIONE

1. Ecco che anche noi, che siamo immersi nella fossa profondissima dell’ignoranza, nelle passioni tenebrose e nell’ombra della morte di questo corpo (cf. Lc 1,79), con grande audacia cominciamo a parlare di questo cielo terrestre1. Come infatti le stelle sono la bellezza del firmamento, le virtù sono l’ornamento dell’impassibilità. Io credo, del resto, che l’impassibilità non sia nient’altro che il cielo della mente penetrato nell’intimo del cuore2, che fa ritenere ormai tutte le trappole dei demoni come ridicoli scherzi. 2. È veramente impassibile, e tale è riconosciuto, colui che, dopo aver reso incorruttibile la propria carne, elevato la propria mente al di sopra delle cose create, sottomesso ad essa tutti i propri sensi e stabilito la propria anima alla presenza del Signore, resta costantemente pro-

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Cioè dell’impassibilità. Climaco anticipa qui in nuce la nozione di “discesa della mente nel cuore” che sarà centrale nella spiritualità esicastica del XIV secolo. Cf. Gregorio Palamas, Triadi II,2,27. 2

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teso verso di lui in modo superiore alle proprie forze3. Alcuni definiscono l’impassibilità una risurrezione dell’anima che precede quella del corpo. Altri dicono che è una perfetta conoscenza di Dio, inferiore soltanto a quella degli angeli. 3. Questa perfetta, eppur sempre imperfetta, perfezione dei perfetti4 – come mi ha raccontato una persona che l’aveva gustata – santifica e distacca la mente dalle cose materiali, al punto che essa, oramai, dopo aver raggiunto questo porto celeste, vive la maggior parte della sua vita carnale come se fosse stata rapita in cielo, elevandosi nella contemplazione. A questo proposito, dice giustamente da qualche parte un uomo che ne aveva fatto esperienza: I potenti di Dio sono stati molto elevati da terra (Sal 46,10)! E sappiamo che accadeva proprio così anche a quell’egiziano che, quando pregava insieme a qualcuno, evitava di tenere le braccia stese per lungo tempo5.

4. C’è chi è impassibile, e c’è chi è più impassibile dell’impassibile! Il primo odia con forza il male, ma il secondo si arricchisce insaziabilmente di virtù. Anche la purezza è chiamata impassibilità6, e a ragione, perché essa è il preludio della comune risurrezione e dell’incorruttibilità dei corpi corruttibili. 5. Diede prova d’impassibilità colui che disse: “Possiedo il pensiero del Signore!” (cf. 1Cor 2,16). Diede prova d’impassibilità quell’egiziano che affermava di non temere più il Signore7. Diede prova d’impassibilità colui che pregò perché gli fossero restituite le passioni8. E chi mai, prima di giungere allo splendore della vita futura, fu onorato dell’impassibilità come quel siriano? Se infatti l’illustre profeta David disse al Signore: Permettimi di riprendere fiato! (Sal 38,14), quell’atleta di Dio disse invece: “Ritira i flutti della tua grazia!”9. 6

Cf. ad esempio Efrem il Siro, Parenesi ai monaci d’Egitto 36. Cf. Apoftegmi, Antonio 32: “Il padre Antonio disse: ‘Io non temo più Dio, lo amo. Perché l’amore caccia il timore (1Gv 4,18)’”. 8 Cf. ibid., Giovanni Nano 13: “Il padre Poemen raccontava che il padre Giovanni Nano aveva pregato Dio e furono allontanate da lui le passioni, e fu liberato da ogni sollecitudine. Si recò allora da un anziano e gli disse: ‘Mi trovo nell’esichia, e non devo sostenere nessuna lotta’. Gli disse il vecchio: ‘Va’ e prega Dio perché sopraggiunga su di te la lotta e tu tragga quella contrizione e umiltà che avevi prima. È attraverso la lotta che l’anima progredisce!’. L’altro pregò Dio per questo e, quando giunse la lotta, non pregò più perché la allontanasse da lui. Chiedeva invece: ‘Dammi, Signore, pazienza nei combattimenti!’”. 9 Cf. Efrem il Siro, Discorso ascetico, p. 182: “Ti supplico, Cristo salvatore del mondo, volgi il tuo sguardo su di me e liberami dalla moltitudine delle mie iniquità. Ho disprezzato tutti i doni che mi hai elargito fin dalla mia giovinezza; perché, pur essendo ignorante e stupido, tu mi hai reso vaso ripieno di scienza e di sapienza. Hai moltiplicato la tua grazia verso di me, ed essa ha saziato la mia fame ed estinto la mia sete, ha illuminato la mia mente tenebrosa e raccolto i miei pensieri distogliendoli dall’errore. Ora supplico e prego la tua ineffabile bontà, confessando la mia debolezza: ritira da me i flutti di questa tua grazia e conservala per me in quel giorno, e non ti adirare con me, o tu che sei infinitamente buono: ho osato farti questa richiesta sconsiderata perché non riesco a sostenere i flutti di questa grazia”. L’accostamento con Sal 38,14 è dovuto al fatto che entrambe le citazioni iniziano in greco con la parola ánes (“lascia”, “permetti”, ma anche “placa”, “calma”). Cf. anche Gregorio di Nissa, Encomio di sant’Efrem, PG 46,836. 7

3 Cf. supra, XXVI/2,37. Sulla concezione dell’impassibilità in Climaco si veda la lunga Osservazione di Rader, in PG 88,1173-1178, in cui l’interprete si sente in dovere di rispondere alle accuse di “stoicismo” mosse a Climaco da J. Gerson e cerca di spiegare l’autentico signicato che l’impassibilità rivestiva per il Sinaita; a differenza di quanto sostiene Rader, però, Dionigi il Certosino non condivideva l’opinione di Gerson: cf. Dionigi il Certosino, Expositio librorum Iohannis Climaci, pp. 482-486. Cf. anche infra, “Glossario”, s.v. “Impassibilità”. 4 Sul rapporto tra impassibilità e perfezione, cf. Ignazio e Callisto Xantopouloi, Metodo e canone rigoroso 87: “Anche sant’Efrem a proposito dell’impassibilità e della perfezione dichiara: ‘Gli impassibili, protesi insaziabilmente verso ciò che è sommamente desiderabile, fanno della perfezione una condizione che non ha fine: poiché i beni eterni non hanno fine’; e ancora: ‘L’impassibilità è perfetta quando la si misura sulla capacità umana; ma è imperfetta in quanto sempre supera se stessa con ciò che giorno per giorno aggiunge e perché si eleva continuamente con le ascensioni a Dio’”. La citazione di Efrem, che può ben essere la fonte che ha ispirato Climaco (cf. anche Schol. 1-2, PG 88,1152C-D), non è rintracciabile nel corpus greco delle opere attribuite a questo autore. 5 Cf. Apoftegmi, Titoes 1: “Del padre Titoes raccontavano che se non faceva presto ad abbassare le braccia quando stava in preghiera, la sua mente era rapita in alto. Perciò se accadeva che dei fratelli pregassero insieme a lui, si affrettava ad abbassare le braccia, perché la sua mente non venisse rapita e rimanesse a lungo in tale stato”.

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6. L’anima possiede l’impassibilità quando per essa le virtù sono diventate così naturali come i piaceri per chi è sottomesso alle passioni. 7. Se l’estremo limite dell’ingordigia è di sforzarsi di mangiare anche senza appetito, l’estremo limite della temperanza sarà certamente di dominare l’istinto naturale della fame anche quando è senza colpa. 8. Se l’estremo limite della lussuria è di infiammarsi di desiderio per le bestie senza ragione e senz’anima, l’estremo limite della purezza sarà di avere verso tutti gli stessi sentimenti che si hanno verso gli esseri inanimati. 9. Se il colmo dell’avarizia è di non cessare mai di accumulare e di non saziarsi mai, il colmo della rinuncia al possesso sarà di non risparmiare neppure il proprio corpo10. 10. Se il colmo dell’acedia è di non conservare la pazienza neppure nella completa tranquillità, il colmo della pazienza sarà di credere di godere della tranquillità anche in mezzo alla tribolazione. 11. Se l’abisso dell’ira è di infuriarsi anche quando non c’è nessuno, l’abisso della mansuetudine sarà di custodire la stessa calma sia in presenza di chi ci insulta sia in sua assenza. 12. Se il culmine della vanagloria è di fingere atti ipocriti anche quando non c’è nessuno che ci possa lodare, sarà segno della virtù contraria che la nostra mente non si lasci catturare neanche in presenza di chi ci loda. 13. Se è segno di perdizione, ovvero di superbia, vantarsi anche in una condizione miserabile, sarà indizio di salutare umiltà custodire un pensiero umile anche nelle imprese e nei successi più grandi. 14. Se è segno di completa sottomissione alle passioni cedere subito a tutte le suggestioni dei demoni, ritengo che sia 10

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Cf. supra, XVI,4.

indizio certo della santa impassibilità poter dire: “Quando il Maligno si allontana da me, io non me ne accorgo (Sal 100,4), né so come sia venuto, né perché, né come se ne sia andato; anzi rimango completamente insensibile a tali cose, perché sono interamente unito a Dio, e sempre lo sarò!”. 15. Colui che ha meritato una tale condizione pur trovandosi ancora nella carne, diventa dimora di Dio, il quale lo guida in ogni sua parola, azione e pensiero. Perciò, per illuminazione, percepisce ormai la volontà di Dio come una voce interiore e, diventato superiore a ogni umano insegnamento, dice: “Quando verrò e comparirò davanti al volto di Dio? (Sal 41,3), giacché non riesco più a sostenere la potenza del desiderio, ma aspiro a quella bellezza immortale che tu mi avevi dato prima di questo mio corpo di fango!”11. Ma perché dilungarci? L’impassibile, non vive più lui stesso, ma in lui vive Cristo (cf. Gal 2,20), come disse colui che aveva combattuto la buona battaglia, terminato la corsa e conservato la fede (cf. 2Tm 4,7). 16. Il diadema di un re non è formato da una sola gemma; così l’impassibilità non è perfetta se trascuriamo una sola virtù, quale che essa sia. L’impassibilità devi intenderla come il palazzo del re celeste che è nei cieli; le “molte dimore” (cf. Gv 14,2) come le abitazioni che sono all’interno della città; e la remissione dei peccati come il muro di questa Gerusalemme celeste. 17. Corriamo, fratelli, corriamo, per poter entrare nella camera nuziale del palazzo! Se poi, per grande sventura, siamo impediti da qualche fardello o predisposizione passionale o dalla mancanza di tempo, cerchiamo almeno di raggiungere una di quelle dimore che sono intorno alla camera nuziale; e se poi siamo ancora troppo deboli e ci ven11 Si ricordi che, secondo i padri, il corpo mortale fu assunto dall’uomo soltanto dopo il peccato: cf. supra, n. 59 a XV,76.

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gono meno le forze, sforziamoci almeno in tutti i modi di entrare all’interno delle mura, perché chi prima della fine non vi sarà entrato, o meglio non le avrà scavalcate, andrà ad alloggiare nel deserto dei demoni e delle passioni! Per questo qualcuno pregava dicendo: Con il mio Dio scavalcherò il muro (Sal 17,30); e un altro, come in persona di Dio, dice: Non sono forse i vostri peccati che creano una separazione tra voi e me? (Is 59,2). 18. Abbattiamo, miei cari, questo muro di separazione che sta frammezzo (Ef 2,14) e che abbiamo sventuratamente costruito con la nostra disobbedienza! Riceviamo così la remissione del nostro debito, perché all’inferno non c’è chi possa rimetterci i debiti! 19. Dedichiamoci a quest’ozio12, una buona volta, fratelli, giacché di noi sta scritto che siamo degli “oziosi”13! Non possiamo più accampare come scuse le cadute, il tempo o il fardello dei peccati. A quanti, infatti, hanno accolto il Signore, per mezzo di un lavacro di rigenerazione (cf. Tt 3,5), egli ha dato il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12), dicendo: Fermatevi, e riconoscete che io sono Dio (Sal 45,11), ovvero l’Impassibilità. A lui la gloria nei secoli dei secoli! Amen. La beata impassibilità solleva la povera mente da terra e rialza il misero dal letamaio delle passioni, ma la carità, degna di ogni lode, lo fa sedere tra i principi – cioè gli angeli – tra i principi del popolo del Signore (cf. Sal 112,7-8)! 12 In greco: scholásomen; ovvero: sforziamoci di lasciar da parte tutto ciò che ci impedisce di aderire interamente a Dio, di vacare Deo, di “essere liberi per Dio”. 13 In greco: scholastaí. C’è qui un’allusione a Es 5,17, dove, in bocca al faraone, troviamo le parole: “Voi state in ozio (scholásete), siete degli oziosi (scolastaí) e dite: innalzeremo preghiere al Signore nostro Dio!”, parole che i padri interpretano collegandole a Sal 45,11 (vedi infra): per conoscere e contemplare Dio è necessario essere liberi da ogni preoccupazione mondana; cf. Eusebio di Cesarea, Commento ai Salmi 45,11; Basilio di Cesarea, Omelie sui Salmi, PG 29,429A; Didimo il Cieco, Sui Salmi fr. 483.

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Discorso XXX SUL VINCOLO FORMATO DALLA SANTA TRINITÀ DELLE VIRTÙ, CIOÈ DALLA CARITÀ, DALLA SPERANZA E DALLA FEDE

1. Dopo tutto quel che abbiamo detto, rimangono dunque queste tre cose, che insieme costituiscono il vincolo che lega e tiene unito tutto il resto: la fede, la speranza e la carità, ma di tutte più grande è la carità (1Cor 13,13), perché è il nome stesso di Dio (cf. 1Gv 4,8.16). Io però – per quel tanto che mi è dato di comprendere – considero la prima come il raggio, la seconda come la luce, e la terza come il disco solare: tutte insieme formano un unico riverbero luminoso e un solo splendore1! La fede, infatti, può compiere e realizzare ogni cosa (cf. Mc 9,23; Mt 17,20); la speranza è circondata dalla misericordia di Dio, che le concede di non essere mai confusa (cf. Rm 5,5); la carità, poi, non viene mai meno (cf. 1Cor 13,8)2, né arresta mai la sua corsa, e quando ferisce qualcuno non permette che abbia riposo dalla sua beata follia! 2. Chiunque voglia parlare della carità, deve cominciare a parlare di Dio, ma spiegare Dio a parole è assai ri1 L’immagine del sole, del raggio e della luce è spesso utilizzata dai padri per rappresentare l’unità delle tre persone della Trinità: cf. Atanasio di Alessandria, A Serapione I,19; Giovanni Damasceno, Esposizione della fede 8,293-297. 2 Sull’interpretazione di questo versetto cf. supra, VI,16.

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schioso e pericoloso per chi non faccia attenzione! Gli angeli sanno parlare della carità, ma anch’essi nella misura in cui sono illuminati da Dio. La carità è Dio stesso (cf. 1Gv 4,8.16), e chi pretendesse di definirlo sarebbe come un cieco che volesse contare i granelli di sabbia degli abissi marini! 3. La carità nella sua essenza è somiglianza con Dio – nella misura in cui ciò è possibile a dei mortali –; nei suoi effetti3, è ebbrezza dell’anima; nelle sue proprietà, è sorgente di fede, abisso di pazienza, oceano di umiltà. 4. La carità è innanzitutto ripudio di qualunque pensiero d’inimicizia, se è vero che la carità non tiene conto del male (1Cor 13,5). La carità, l’impassibilità e l’adozione a figli si distinguono soltanto di nome: come la luce, il fuoco e la fiamma concorrono a un unico effetto, lo stesso devi pensare di queste4. Nella misura in cui manca la carità, è presente il timore; chi infatti è senza timore o è ripieno di carità (cf. 1Gv 4,18), oppure è morto nell’anima! 5. Non c’è niente di sconveniente se dalle cose umane prendiamo delle immagini per rappresentare il desiderio, il timore, il fervore, lo zelo, il servizio e l’amore di Dio. Beato chi prova per Dio un desiderio così grande quanto quello di un folle innamorato per la propria amata5! 3

Per la stessa distinzione tra “essenza” ed “effetti” cf. supra, XXV,1-2. L’autore sembra qui rinunciare a stabilire un preciso rapporto “genealogico” tra la carità e l’impassibilità, al contrario di Evagrio che ritiene la carità “figlia dell’impassibilità” (Trattato pratico 81; ma cf. Id., A Eulogio 23: “La carità è il vincolo dell’impassibilità”). In altri passi, però, Climaco sembra piuttosto condividere l’opinione dello Pseudo-Macario (cf. Omelie [Coll. II], 45,7: “La carità, essendo salda e incrollabile, rende impassibili e irremovibili quanti la desiderano”) e di Diadoco di Fotica (Capitoli 89: “Nessun’altra virtù, se non la carità, è in grado di procurare all’anima l’impassibilità”), secondo cui è la carità stessa a rendere impassibili (cf. supra, VI,16; XXVI/3,55). Della stessa opinione è anche Massimo il Confessore, Capitoli sulla carità III,50. 5 Per l’amore di Dio come “amore passionale” (éros), cf. supra, V,6, n. 12 e “Introduzione”, pp. 47-53. 4

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Beato chi teme il Signore quanto i condannati temono il loro giudice! Beato chi è animato da un così grande fervore in ciò che veramente conta, quanto il servo fedele nei confronti del proprio padrone! Beato chi è diventato così pieno di zelo6 nelle virtù quanto i mariti gelosi nel vegliare sulle proprie mogli! Beato chi sta in preghiera davanti al Signore come i servitori davanti al re! Beato chi si sforza continuamente di onorare il Signore come si onorano gli uomini! Una madre che allatta il proprio bambino non lo tiene così stretto a sé quanto il figlio della carità si tiene stretto al Signore in ogni momento! 6. Chi è veramente innamorato si rappresenta continuamente il volto della persona amata e l’abbraccia dentro di sé con grande gioia: egli non può acquietare il proprio desiderio neanche durante il sonno, ma anche allora si intrattiene con la persona amata. Quel che avviene nell’amore dei corpi, avviene anche in quello spirituale! 7. Un tale, che era stato ferito da un simile amore, diceva di sé – e sono parole mirabili –: Io dormo per necessità di natura, ma il mio cuore veglia per sovrabbondanza di amore (cf. Ct 5,2)! 8. Devi notare, mio eccellente amico, che allorché l’anima, come una cerva, ha ucciso i serpenti velenosi7, si consuma di desiderio e si strugge (Sal 83,2) per il Signore, colpita dal fuoco della carità come da un veleno. 9. Gli effetti della fame sono in qualche modo nascosti e non si notano, mentre quelli della sete sono così in6

In greco: zêlos, che significa sia “zelo”, “fervore” sia “gelosia”. Si tratta dell’anima che, attraverso l’umiltà (questo il significato della “cerva spirituale”: cf. supra, XXV,9), ha raggiunto l’impassibilità (i “serpenti velenosi” sono le passioni). 7

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tensi ed evidenti, che rivelano a tutti l’ardore del desiderio. Appunto per questo colui che desidera Dio dice: La mia anima ha sete del Dio potente e vivente (Sal 41,3). 10. Se il volto della persona amata è in grado di produrre un cambiamento evidente in tutto il nostro essere e di renderci radiosi e pieni di gioia allontanando la tristezza, che cosa non farà il volto del Signore, quando verrà a visitare invisibilmente un’anima pura? 11. Il timore, quando penetra nell’intimo senso dell’anima, è capace di dissolvere e di consumare le impurità della carne. Dice infatti il salmista: Trafiggi con il timore la mia carne (Sal 118,120). La santa carità, invece, talvolta può divorare alcuni, secondo la parola di colui che dice: Mi hai rapito il cuore, mi hai rapito il cuore! (Ct 5,9); altre volte può riempire di gioia e di luce, come dice: Il mio cuore ha sperato in lui ed è stato aiutato, e la mia carne è rifiorita (Sal 27,7); e ancora: Quando il cuore si rallegra, il volto fiorisce (Pr 15,13). Quando dunque l’intero essere dell’uomo si è, per così dire, mescolato all’amore di Dio8, allora lo splendore della sua anima si riflette anche nell’aspetto esteriore del corpo, come in uno specchio: questa è la gloria di cui fu coronato il grande Mosè, che vide Dio (cf. Es 34,29)! Coloro che hanno raggiunto una tale condizione, che li rende pari agli angeli, spesso si dimenticano del nutrimento del proprio corpo, e credo che molte volte non ne provino neanche appetito. Non c’è da farne meraviglia, se è vero che spesso un forte desiderio contrario riesce a scacciare il desiderio del cibo. Credo che il corpo di questi uomini incorruttibili ormai non possa neanche più ammalarsi facilmente, per8 Per quest’espressione, tipica del vocabolario dell’esperienza mistica, cf. Pseudo-Macario, Omelie (Coll. II) 1,3; 5,7; 18,10; 27,17; 44,9.

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ché è diventato come incorruttibile, essendo stato purificato dalla fiamma della castità, che ha spento l’altra fiamma. Credo che ormai neanche il cibo che mangiano procuri loro il minimo piacere, perché come l’acqua sotterranea nutre le radici delle piante, così il fuoco celeste nutre le loro anime9. 12. La crescita del timore è l’inizio della carità, e la purezza perfetta è il fondamento della teologia10. Colui che ha perfettamente unito a Dio i propri sensi, è da lui iniziato al mistero delle sue parole; ma finché i sensi non si sono uniti a lui, è difficile e rischioso parlare di Dio. 13. La Parola che dimora nell’anima la rende perfettamente pura (cf. Gv 15,3) e con la sua presenza mette a morte la morte11; e morta questa, il discepolo che vuole apprendere la teologia riceve l’illuminazione. La parola del Signore, che procede da Dio Padre, è pura e rimane per sempre (cf. Sal 11,7; 18,10). Ma chi non ha conosciuto Dio parla per congettura. 9 La trasfigurazione del corpo dei santi già nella loro vita terrena è al centro della concezione antropologica del nostro autore, fedele anche in questo all’intera tradizione patristica; come ha ben sottolineato Chryssavgis: “La teologia ascetica di Giovanni Climaco fa un tutt’uno con la sua teologia dogmatica. Seguendo la tradizione patristica, egli lega strettamente fede e comportamento morale. Egli sa molto bene che la corruttibilità è un risultato della caduta dell’uomo e, per quanto tecnico possa sembrare, questo punto dogmatico è vitale per la spiritualità. Significa che nella misura in cui l’uomo supera il peccato, raggiungendo la deificazione attraverso la grazia, corruttibilità e malattia possono diminuire … L’esempio classico nella letteratura patristica è la Vita di Antonio in cui Atanasio dice che il corpo di Antonio non era deteriorato dopo vent’anni di austera ascesi e che la sua salute fu in buone condizioni fino alla fine della sua vita. L’effetto della grazia di Dio risplendeva letteralmente sul volto di Antonio: ‘Poiché la sua anima era tranquilla e senza turbamento, lo erano anche i suoi sensi esteriori: anche il suo volto era radioso come per la gioia dell’anima …’ (Vita di Antonio 67)” (J. Chryssavgis, Ascent to Heaven. The Theology of the Human Person according to Saint John of the Ladder, Holy Cross Orthodox Press, Brookline 1989, p. 49). Cf. anche Vite greche di Pacomio II,88. 10 Cioè della conoscenza di Dio, non intellettuale ma esperienziale. 11 Cioè le passioni mortifere.

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14. La purezza può fare di un discepolo un teologo in grado di afferrare da solo i dogmi della Trinità12. 15. Chi ama il Signore, ha amato prima il proprio fratello: il secondo amore infatti è la prova del primo (cf. 1Gv 4,19-21). Chi ama il suo prossimo, non potrà mai sopportare coloro che parlano male di lui, anzi li fuggirà come il fuoco. Chi dice di amare il Signore e si adira con il proprio fratello, è simile a chi sogna di correre! 16. La forza della carità è la speranza: grazie a essa infatti attendiamo la ricompensa della carità. La speranza è una ricchezza di beni non ancora visibili. La speranza è una certezza indubitabile di un tesoro non ancora posseduto. È sollievo dalle fatiche, porta della carità, arma contro la disperazione, immagine di ciò che non è ancora presente. La mancanza di speranza annienta la carità: a essa sono legate le nostre fatiche, da essa sono sostenuti i nostri travagli, e grazie ad essa siamo circondati dalla misericordia di Dio. 17. Il monaco pieno di speranza elimina l’acedia, scacciandola con la spada della propria speranza. La speranza è generata dall’esperienza dei doni di Dio: chi infatti non li ha sperimentati non può mai rimanere senza dubbi. L’ira dissipa la speranza, perché se quest’ultima, come dice la Scrittura, non è mai causa di vergogna (cf. Rm 5,5), l’uomo iracondo invece non si comporta in modo decoroso (cf. Pr 11,25). 18. La carità procura il dono della profezia; la carità opera miracoli; la carità è un abisso d’illuminazione; la carità è una sorgente di fuoco: quanto più zampilla, tanto più infiamma l’assetato; la carità è la condizione degli angeli; la carità è un progresso che continua per l’eternità! “Dicci, o tu che sei la più bella tra le virtù, dove fai 12 C’è un probabile riferimento all’evangelista Giovanni, che, da discepolo del Signore quale era, diventò “il teologo” per antonomasia – secondo il titolo che gli viene attribuito in oriente –, in grado di scrutare i misteri ineffabili della Trinità.

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pascolare le tue pecore e dove riposi a mezzogiorno (cf. Ct 1,7). Illuminaci, dissetaci, guidaci, prendici per mano, perché ormai vogliamo salire fino a te: tu infatti domini su tutto! Ora hai ferito la mia anima, e non riesco a contenere la tua fiamma; perciò continuerò a cantare le tue lodi: Tu domini la violenza del mare, calmi l’agitazione dei suoi flutti e la fai morire. Tu umili il superbo come un ferito; con il tuo braccio potente hai disperso i tuoi nemici (Sal 88,10-11)13 e liberi dalla guerra i tuoi amanti. Desidero ardentemente sapere che aspetto avevi quando Giacobbe ti vide sopra la scala (cf. Gen 28,12); spiegami, ti prego, come si può compiere una tale ascensione! Quali sono i gradini che formano insieme questa scala e che il tuo amante ha disposto come altrettante ascensioni nel proprio cuore (cf. Sal 83,6)? Ho anche sete di conoscere quale sia il loro numero e il tempo necessario per compiere la salita! Colui che ti vide e lottò con te14 ci ha riferito quali guide ci avrebbero preso per mano15, ma non ha voluto, o meglio non ha potuto, illuminarci su nient’altro”. E lei – anche se credo che farei meglio a dire: lui16 –, quella regina, apparendomi come se scendesse dal cielo mi disse parlandomi agli orecchi dell’anima: “Finché non ti sarai liberato, o mio amante, dalla materia, non potrai scoprire qual è la mia bellezza; ma questa scala ti insegni la disposizione spirituale delle virtù. Io sto sulla cima di questa scala, come disse quel mio grande iniziato: Ora rimangono dunque queste tre cose: fede speranza e carità, ma di tutte più grande è la carità (1Cor 13,13)!”. 13 Il salmo è evidentemente inteso in senso allegorico: la carità è in grado di dominare e calmare le passioni e di mettere in fuga i demoni tentatori. 14 Cioè Giacobbe, che lottò con Dio lungo il fiume Iabbok: cf. Gen 32,2531. Si noti che l’autore – come fa notare lui stesso un poco più oltre – ha cominciato a rivolgersi direttamente a Dio, che è la stessa carità. 15 Gli angeli: cf. Gen 28,12. 16 Perché la carità è Dio stesso.

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BREVE ESORTAZIONE CHE RIASSUME IN MODO ALTRETTANTO EFFICACE QUANTO È STATO DETTO PER ESTESO

Salite, fratelli, salite, disponendo con fervore ascensioni nei vostri cuori (cf. Sal 83,6), e ascoltando colui che dice: Venite, saliamo al monte del Signore, alla casa del nostro Dio (Is 2,3), che ha reso i nostri piedi come quelli di una cerva e ci ha innalzato sulle alture (Sal 17,34), perché potessimo ottenere la vittoria elevando a lui un canto (Ab 3,19)! Correte, vi prego, insieme a colui che dice: Affrettiamoci finché non siamo arrivati tutti all’unità della fede e della conoscenza di Dio, allo stato di uomo perfetto, all’età della piena maturità di Cristo (Ef 4,13), il quale, ricevendo il battesimo nel trentesimo anno della sua vita umana, raggiunse il trentesimo gradino della scala spirituale, poiché la carità è Dio stesso (cf. 1Gv 4,8.16)! A lui la lode, la potenza e la forza, a lui che è, era e sarà l’unica causa di tutti i beni, per i secoli senza fine! Amen.

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DISCORSO AL PASTORE

1. In questo libro terrestre, divino padre1, ti ho lasciato l’ultimo posto, ma sono convinto che in quello celeste tu ci preceda tutti, se è veritiero colui che ha detto: Gli ultimi nel pensiero saranno i primi nella dignità (cf. Mt 20,16)! 2. Vero pastore è colui che, attraverso la propria innocenza, il proprio zelo e la propria preghiera, è in grado di cercare e di riportare sulla retta via le pecore dotate di ragione che si sono perdute. 3. Pilota è colui che, grazie all’aiuto di Dio e alle proprie fatiche, ha ottenuto una forza spirituale che lo mette in grado di strappare la nave non solo alla tempesta ma anche allo stesso abisso. 4. Medico è colui che è sano sia nel corpo che nell’anima, e che per essi non ha bisogno di alcuna medicina. 5. Vero maestro è colui che, avendo ricevuto il libro della conoscenza spirituale scritto dal dito di Dio2 – ovvero dall’energia3 della sua illuminazione –, non ha più alcun bisogno di altri libri. È sconveniente per dei mae1

L’autore si rivolge a Giovanni di Raito a cui è dedicata l’intera opera. Cf. Es 31,18, dove l’espressione è riferita alle tavole della legge ricevute da Mosè sul Sinai: ogni padre spirituale è per Climaco un altro Mosè (cf. supra, I,14) che avendo fatto esperienza di Dio è in grado di trasmetterla ai suoi figli. Sul confronto con Mosè, cf. soprattutto infra, DP 100. 3 Su questo termine cf. infra, “Glossario”. 2

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stri insegnare a partire da libri scritti da altri, come per dei pittori dipingere copiando tavole antiche! 6. Tu che ammaestri persone che vivono quaggiù sulla terra, insegna loro ciò che tu stesso ricevi dall’alto, e in modo materiale istruiscili su ciò che è spirituale! Non ti dimenticare di colui che ha detto: “Non ho ricevuto né appreso il mio insegnamento dagli uomini né per mezzo di un uomo!” (cf. Gal 1,12); infatti non è mai stato possibile guarire chi giace a terra con rimedi terrestri. 7. Un abile pilota porrà in salvo la nave, un buon pastore riporterà in vita e guarirà le pecore malate. Nella misura in cui le pecore avranno seguito fedelmente il loro pastore e fatto progressi, egli potrà rendere conto di loro davanti al padrone di casa. Il pastore scagli le pietre delle sue parole sulle pecore rimaste indietro per pigrizia o ingordigia: anche questo infatti è segno di un buon pastore. 8. Quando le pecore per l’ardore della calura – o piuttosto del corpo – cominceranno a sonnecchiare nell’anima, il pastore, guardando verso il cielo, vegli più intensamente per loro, perché in quei momenti molte rischiano di cadere in preda ai lupi. Ma se esse, come vediamo fare abitualmente alle pecore materiali al momento dell’ardore della calura, piegano verso terra la testa della loro anima, abbiamo allora la parola che dice: Un cuore contrito e umiliato, Dio non lo disprezzerà (Sal 50,19). 9. Allorché le tenebre e la notte delle passioni scendono sul gregge, metti il tuo cane immobile davanti a Dio, a vegliare nella notte; e non c’è niente di strano nel considerare la mente come un cane, perché essa scaccia le fiere4. 10. Anche questo è un tratto tipico della nostra natura quale il nostro Signore buono l’ha creata: che il mala-

to si rallegri al solo vedere il medico, anche se forse non può ricevere da lui alcun beneficio. 11. Anche tu, mio eccellente amico, procurati impiastri, pozioni, polveri, colliri, spugne, lancette da salasso, cauteri, unguenti, sonniferi, bisturi, bende, e la cosiddetta “immunità alla nausea”. Ma se siamo privi di queste cose, come faremo a dimostrare la nostra competenza? È impossibile! Del resto si riceve un compenso non per delle parole ma per delle opere. 12. L’“impiastro” è il rimedio per le passioni visibili, cioè del corpo. La “pozione” è il rimedio per le passioni interiori, che permette di spurgare tutte le impurità nascoste. La “polvere” è l’umiliazione che brucia e purifica la putredine dell’orgoglio. Il “collirio” è il rimedio che purifica l’occhio dell’anima5 quando è intorbidato dalle turbolenze dall’ira; il collirio è anche il rimprovero tagliente, che dopo un po’ di tempo procura la guarigione. Il “salasso” è la rapida evacuazione di un fetore nascosto, ma precisamente il salasso è un’incisione energica e decisa per la salvezza dei malati. La “spugna” è la cura refrigerante che il medico applica al malato dopo il salasso o dopo l’operazione chirurgica, per mezzo di parole gradevoli, dolci e tenere. Il “cauterio” è l’ordine o la punizione dati con misericordia per un certo tempo, in vista della penitenza. L’“unguento” è il conforto che si dà al malato dopo aver applicato il cauterio, tramite parole o altre forme di consolazione. Il “sonnifero” significa prendere su di sé il fardello del discepolo offrendogli in cambio, attraverso la sottomissione, il riposo, un sonno insonne6 e una santa cecità, perché non veda le proprie virtù. Le “bende” consistono nel ridare forza e tensione, attraverso una pazien5

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Cioè appunto le passioni.

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Cf. supra, XX,22. Cioè la capacità di vigilare.

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za fino alla morte, a coloro che sono rilassati e infiacchiti per la vanagloria. E infine, il “bisturi” è la decisione estrema di operare un’amputazione su un corpo spiritualmente morto, o su un membro incancrenito, perché l’impurità non si estenda anche agli altri membri. 13. Cosa beata e degna di lode è l’“immunità alla nausea” per i medici, e l’impassibilità per i superiori! Gli uni, infatti, non provando alcuna nausea, potranno curare senza indugio qualunque piaga maleodorante; gli altri potranno risuscitare qualunque anima morta. 14. Nelle sue preghiere il superiore chieda, tra le altre cose, di riuscire a provare affetto e di essere ben disposto verso tutti in misura del merito di ciascuno, per non rischiare di nuocere – come Giacobbe – sia al suo prediletto sia a tutti gli altri fratelli (cf. Gen 37,1-36). Questo succede quando i superiori non hanno ancora i sensi dell’anima perfettamente esercitati al discernimento del bene e del male, e di ciò che sta nel mezzo. 15. È una grande vergogna per un superiore pregare Dio che conceda al suo discepolo qualcosa che lui stesso non possiede! Coloro che sono stati ammessi alla presenza di un re e ne hanno guadagnato l’amicizia, possono riconciliare con il re anche tutti i suoi servitori, e forse anche gli sconosciuti o i nemici – se questi lo vogliono –, permettendo loro di prendere parte alla sua gloria: lo stesso discorso vale per i santi. 16. Gli amici mostrano rispetto e obbediscono ai loro amici più stretti e autentici, e talvolta si lasciano anche far violenza da loro. È bello avere come amici gli “amici spirituali”7, perché nessun altro meglio di loro può aiutarci ad acquistare la virtù!

17. Un amico di Dio mi ha raccontato, che se è vero che Dio ricompensa sempre con i suoi doni coloro che lo servono, lo fa però soprattutto in occasione delle feste annuali e delle solennità del Signore. 18. Il medico8 deve essersi perfettamente spogliato delle passioni per poterne all’evenienza fingere qualcuna, e soprattutto nel caso della collera. Se infatti non le avesse veramente respinte, non potrebbe rivestirsene di nuovo in modo impassibile. 19. Ho visto un cavallo ancora male addestrato che, finché era tenuto alle briglie, camminava tranquillamente, ma appena le briglie gli venivano un po’ allentate, subito cercava di disarcionare il padrone. Ci sono due demoni che generalmente si comportano allo stesso modo: chi vuole indagare la questione, lo faccia con tutto il proprio impegno9! Il medico riconoscerà di aver ricevuto da Dio la sapienza, solo quando potrà curare le malattie incurabili. 20. Non è degno di particolare ammirazione il maestro che rende sapienti gli allievi intelligenti, ma piuttosto quello che rende sapienti e perfettamente educati gli stupidi e gli insipienti. Così, l’abilità degli aurighi dà prova di sé e merita veramente l’applauso, quando essi ottengono la vittoria con cavalli di cattiva qualità, conducendoli al traguardo sani e salvi. 21. Se hai ricevuto degli occhi capaci di prevedere i marosi, preannunciali in modo chiaro a quanti si trovano sulla nave; altrimenti sarai tu il responsabile del naufragio, perché tutti ti hanno affidato il governo della nave, senza alcuna preoccupazione! 8

Cioè il superiore. Secondo Schol. 1, PG 88,1173A, si tratterebbe dei demoni della vanagloria e dell’ingordigia o della fornicazione. 9

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Cioè gli angeli, oppure i santi.

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22. Ho visto medici non rivelare ai pazienti le cause delle loro malattie, procurando in questo modo molte pene e dolori sia ai malati che a se stessi. 23. Quanto più il superiore si accorge che non solo i suoi discepoli ma anche gli altri ripongono in lui una grande fiducia, tanto più deve vigilare su se stesso con la massima attenzione, per tutto ciò che fa e dice, sapendo che tutti guardano a lui come a un modello considerando ciò che dice o fa come una regola e una legge. 24. L’amore rivela il vero pastore: per amore, infatti, il nostro grande Pastore è stato crocifisso (cf. Eb 13,20). 25. I peccati degli altri falli tuoi, almeno a parole, e così non sarai più trattenuto dal troppo rispetto umano10. 26. Affliggi per un po’ di tempo il malato11, perché la sua malattia non diventi cronica, o addirittura egli muoia a causa del tuo maledetto silenzio! Molti, a causa del silenzio del loro pilota, s’illudevano di navigare bene, finché non sono andati a cozzare contro gli scogli. 27. Ascoltiamo ciò che il grande Paolo scrive a Timoteo: Ammoniscili a tempo e fuori tempo (1Tm 4,2); “a tempo”, cioè, quando coloro che sono rimproverati sopportano di buon grado i rimproveri, e “fuori tempo”, quando invece ne sono irritati. Anche le sorgenti, infatti, continuano a far sgorgare le loro acque quando spesso non c’è nessuno che abbia sete. 28. Esiste in alcuni superiori una tendenza naturale – se così posso dire – al rispetto umano, che spesso li spinge a tacere ciò invece dovrebbero dire ai propri sottoposti: nonostante ciò, essi non possono rifiutarsi di assolve-

10 L’autore probabilmente vuol dire: confessa di aver commesso gli stessi peccati dei tuoi discepoli, e così mettendoti al loro livello troverai il coraggio di correggerli. 11 Sottinteso: “Con le tue cure, cioè con i tuoi rimproveri”.

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re ai propri doveri di maestri nei confronti dei propri discepoli, ma devono semmai provare a dar loro le necessarie istruzioni per iscritto. 29. Ascoltiamo quel che dice la divina Scrittura in alcuni passi: Taglia il fico! Perché mai dovrebbe sfruttare inutilmente il terreno? (Lc 13,7); e poi: Togliete il malvagio di mezzo a voi! (1Cor 5,13); e ancora: Non pregare per questo popolo! (Ger 7,16), e lo stesso si dice per Saul12. Bisogna che il pastore sappia a quali persone, in che modo e quando applicare tutte queste parole: nulla infatti è più veritiero di Dio! 30. Chi non si vergogna quando è rimproverato in privato, farà anche del rimprovero pubblico un’occasione per dar prova di impudenza, perché ha ormai disdegnato volontariamente la propria salvezza! 31. Voglio notare anche un altro fatto che ho visto accadere ad alcuni malati pieni di buona volontà: coscienti della propria pusillanimità e della propria debolezza, supplicarono i medici di legarli, anche loro malgrado, e di curarli a forza, ma con il loro consenso. Lo spirito è pronto, infatti, a causa della speranza futura, ma la carne è debole, a causa delle predisposizioni passionali contratte nel passato (cf. Mt 26,41). Avendo visto questo, io stesso supplicai i medici di dar loro ascolto. 32. La guida non deve dire a chiunque si avvicina che la via è stretta e angusta (cf. Mt 7,14), né a tutti che il giogo è dolce e il carico leggero (cf. Mt 11,30); deve piuttosto valutare ogni singolo caso e quindi applicare le medicine adatte: per chi è oppresso dal peso di gravi peccati e può cadere facilmente nella disperazione, va bene la seconda medicina; per chi invece è incline alla superbia e all’orgoglio, va bene la prima. 12 Cf. 1Sam 16,1: “Il Signore disse a Samuele: Fino a quando piangerai su Saul mentre io l’ho ripudiato perché non regni su Israele?”.

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33. Alcuni, prima di partire per un lungo viaggio, chiesero informazioni a delle persone che conoscevano la via, e si sentirono rispondere che era dritta e senza pericoli. A causa di queste parole si misero in viaggio senza grande impegno, ma a metà del cammino si trovarono nel pericolo, o addirittura tornarono indietro, trovandosi impreparati ad affrontare le prove. Ma pensa anche al caso opposto! 34. Quando l’amore divino tocca il cuore, le parole non hanno la forza di suscitare il timore (cf. 1Gv 4,18)13; quando appare il timore della geenna, si sopporta ogni genere di fatica; quando infine s’intravede la speranza del Regno, si arriva a disprezzare tutto ciò che appartiene a questo mondo. 35. Il bravo generale deve conoscere molto bene la posizione e l’ordine di battaglia adatti a ciascuno dei suoi subalterni: infatti, in mezzo a tante persone, possono esserci alcuni che sono in grado di combattere da soli nelle prime file, e che per questo egli deve collocare nell’esichia perché possano aiutarlo a difendere gli altri soldati14. 36. Il pilota non può da solo recare in salvo la nave senza la collaborazione dei marinai, né il medico può curare il malato, se costui prima non lo supplica e non lo incoraggia mostrandogli la propria ferita con piena fiducia. Coloro che si vergognano dei medici lasciano andare le proprie ferite in cancrena, e molti spesso muoiono. 37. Mentre le pecore pascolano, il pastore non cessi di suonare il flauto della parola, soprattutto quando stanno 13

Cf. supra, XXX,4. Questo consiglio prevede una comunità monastica formata da un “cenobio” e da una “laura” (cf. infra, DP 94), cioè da un nucleo centrale di cenobiti alle dirette dipendenze del superiore, e da un certo numero di anacoreti che vivono in celle separate nei pressi del cenobio. Con la loro preghiera di intercessione, questi ultimi devono aiutare il superiore a difendere i più deboli, che ancora combattono contro le passioni. 14

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per andare a dormire, perché non c’è niente che il lupo tema così tanto come il suono del flauto del pastore! 38. Il superiore non deve né sempre umiliarsi, in modo irragionevole, né sempre esaltarsi, in modo sciocco, ma deve guardare a Paolo che seguiva sia l’una che l’altra via (cf. 2Cor 10,10; 12,10). 39. Il Signore spesso copre gli occhi dei subalterni su alcuni difetti del loro superiore, ma se egli stesso li rivela loro, genera in essi la sfiducia. 40. Ho visto un superiore che, per estrema umiltà, su alcune questioni chiedeva consiglio ai propri figli; e ne ho visto un altro che, mosso dall’orgoglio, si fingeva ignorante per poter meglio sfoggiare davanti a loro la propria stupida sapienza. 41. In alcuni casi, anche se di rado, ho visto uomini dominati dalle passioni dirigere uomini impassibili, e a poco a poco, vergognandosi di fronte ai discepoli, rompere con le proprie passioni. Questa fu la ricompensa – credo – di quelli che si erano salvati grazie a loro; e ciò che essi avevano intrapreso dominati dalle passioni, diventò per loro causa di impassibilità! 42. Bisogna stare attenti a non disperdere in mare aperto ciò che si è accumulato in porto: sanno bene di cosa parlo coloro che non sono ancora preparati ad affrontare i tumulti esterni! 43. È davvero un’impresa grande riuscire a sopportare di buon animo e con coraggio l’arsura, la calma completa e la tentazione della negligenza che sono proprie dell’esichia senza cercare distrazioni e conforti fuori della nave della nostra cella, come quei marinai negligenti che al momento della bonaccia si tuffano in mare. Ma è impresa incomparabilmente più grande non temere i tumulti esterni, ma in mezzo a quei rumori rimanere con il cuore intrepido e imperturbabile, vivendo all’esterno con gli uomini, e nell’intimo con Dio. 471

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44. Ciò che avviene nei tribunali mondani, mio eccellente amico, ti ricordi ciò che avviene nei nostri! A volte davanti al nostro terribile e autentico tribunale si presenta un colpevole, altre volte un innocente con un grande desiderio di lavorare e di servire Dio15: sono modi di avvicinarsi del tutto opposti, e ognuno richiede un trattamento diverso e particolare. 45. Prima di tutto bisogna interrogare il colpevole – naturalmente in privato –, su quale genere di peccati abbia commesso, e questo per due motivi: da una parte perché, pungolato continuamente dal ricordo di questa confessione, non diventi mai sfrontato, e dall’altra perché, sapendo di quali ferite ci siamo presi carico, sia spinto ad amarci. 46. Neanche questo ti sfugga, venerato padre – e certamente non ti sfugge, non sia mai! –: voglio dire che nel giudicare i colpevoli bisogna tener conto anche del luogo in cui hanno vissuto, dell’educazione che hanno ricevuto, e delle abitudini che hanno contratto, perché queste cose sono causa di molte varietà e differenze. Spesso la persona più debole risulta essere anche più umile di cuore, e per questo deve essere punita con minor rigore dai giudici spirituali. Il contrario è evidente. 47. Non è giusto che un leone conduca al pascolo le pecore; e non è sicuro che colui che è ancora sottomesso alle passioni comandi su persone ugualmente sottomesse alle passioni. 48. È uno spettacolo penoso vedere una volpe in un pollaio, ma non c’è niente di più penoso di un pastore che si lascia vincere dall’ira: quella spaventa e uccide i polli, questo le anime dotate di ragione. 15 L’autore si riferisce a coloro che si presentano per essere ammessi alla vita monastica.

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49. Sta’ attento a non diventare un inquisitore severo delle più piccole mancanze, perché così non saresti più un imitatore di Dio! 50. Abbi tu stesso Dio per economo e igumeno di tutta la tua vita interiore ed esteriore, considerandolo come un eccellente pilota; e così, recidendo grazie a lui la tua volontà propria, anche tu diventerai libero da ogni preoccupazione, lasciandoti guidare soltanto dalle sue indicazioni. 51. Devi chiederti – come del resto dobbiamo fare tutti – se la grazia di Dio non abbia disposto di operare attraverso di noi molti prodigi, non in virtù della nostra purezza, ma della fede di coloro che si accostano a noi: proprio in questo modo, infatti, hanno operato miracoli anche molti che erano ancora sottomessi alle passioni. 52. Se è vero che sta scritto: Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome (Mt 7,22), e ciò che segue, allora quel che ho appena detto non è incredibile. 53. Chi ha veramente ottenuto il favore di Dio è in grado di fare del bene a coloro che soffrono senza farsene accorgere e in modo nascosto, e ottiene così due grandi risultati: preserva se stesso dalla gloria umana, come da una ruggine, e fa sì che quanti hanno ottenuto misericordia rendano grazie a Dio solo. 54. A coloro che corrono con giovanile ardore, offri con generosità e coraggio i cibi migliori e più raffinati16; a coloro che invece, con i loro comportamenti o la loro disposizione interiore, rimangono indietro, offri del latte, perché sono dei bambini e hanno ancora bisogno di conforto (cf. 1Cor 3,1-2). 55. Spesso lo stesso cibo può infondere in alcuni il fervore e in altri lo sconforto; perciò, prima di gettare il 16

Cioè gli insegnamenti spirituali più solidi e impegnativi.

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seme, bisogna fare attenzione alle circostanze: al momento, alla persona, alla qualità e alla quantità necessarie. 56. Alcuni, senza tenere nel minimo conto quanto sia impegnativo assumersi una responsabilità spirituale17, si sono improvvisati pastori di anime senza alcun discernimento; e anche se prima avevano molte ricchezze, alla fine se ne sono andati a mani vuote, dopo averle distribuite tutte a coloro che avevano preso in carico. 57. Come ci sono figli pienamente legittimi, altri nati da seconde nozze, altri da schiave, e altri trovatelli, ugualmente possiamo distinguere molti livelli di responsabilità spirituale. C’è dunque un’assunzione di responsabilità spirituale nel pieno senso del termine, che significa offrire totalmente la propria anima per l’anima del prossimo (cf. Gv 10,11); ma è anche possibile prendersi carico solo dei peccati passati, o solo di quelli futuri, o assumersi la responsabilità soltanto dei propri ordini, e ciò per difetto di forza spirituale e per mancanza di impassibilità. Anche nel primo caso, però, quando la responsabilità che ci assumiamo è totale, il peso che portiamo dipende dal grado di recisione della volontà propria18. 58. Il figlio legittimo si riconosce quando il padre è assente: lo stesso vale anche per coloro che vivono nella sottomissione.

17 Cioè il prendersi carico di un discepolo di fronte a Dio. Sul padre spirituale come anádochos (“colui che è responsabile”, “che si prende carico di qualcuno”), cf. supra, XXIII,14; XXIV,14. Sul tema cf. J. Chryssavgis, Soul mending. The Art of Spiritual Direction, Holy Cross Orthodox Press, Brookline 2000, e supra, “Introduzione”, pp. 42-43. 18 Sottinteso: “che il discepolo è disposto a operare su di sé”. Affinché l’assunzione di responsabilità da parte del padre spirituale sia completa è necessaria una collaborazione tra chi guida e chi è guidato (cf. supra, DP 36): il discepolo deve abbandonarsi totalmente nelle mani del padre e con completa fiducia gettare su di lui ogni suo “peso”, altrimenti anche un impegno totale da parte di quest’ultimo può rivelarsi infruttuoso.

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Il superiore osservi e prenda accuratamente nota di coloro che lo contraddicono o gli fanno resistenza e li punisca con pene severissime in presenza di qualche persona importante, incutendo così timore anche agli altri, senza curarsi se essi sono profondamente feriti da tali umiliazioni: la correzione di molti, infatti, vale più del danno di una sola persona! 59. Ci sono alcuni che, mossi da autentica carità, si fanno carico dei pesi degli altri al di là delle loro forze, ricordando colui che ha detto: Nessuno ha un amore più grande di questo (Gv 15,13), e ciò che segue; e ci sono altri che, pur avendo forse ricevuto da Dio la forza di farsi carico degli altri, non si sobbarcano volentieri di questo peso per la salvezza dei fratelli. Questi ultimi sono per me da compiangere, perché non possiedono la carità. Quanto ai primi, ho trovato scritto da qualche parte: Chi estrae ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarà come la mia bocca (Ger 15,19)19, e ancora: Come hai fatto tu, così sia fatto a te (Abd 1,15). 60. Ti prego di considerare anche questo: spesso il peccato commesso dal superiore nel pensiero è giudicato più grave del peccato commesso dal discepolo nell’azione, se è vero che l’errore di un soldato è meno grave della decisione sbagliata del generale. 61. Ammonisci i tuoi discepoli di non confessare i peccati carnali e sessuali in modo dettagliato; ma di richiamare alla mente in modo dettagliato tutti gli altri peccati, di giorno e di notte. 19 Il passo è interpretato allo stesso modo da Giovanni Crisostomo, dal quale Climaco probabilmente dipende: cf. Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Genesi 3,4: “Affinché tu impari quale grande bene è essere in grado di guadagnare la salvezza di un altro insieme alla propria, ascolta il profeta che dice in persona di Dio: Chi estrae ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarà come la mia bocca. E cosa significa questo? ‘Chi guida il suo prossimo – vuol dire – dall’errore alla verità, o dal vizio alla virtù, imita me, nei limiti delle umane possibilità!’”; cf. Id., Omelie su Matteo 78,3; Id., Omelie su 1Corinzi 3,5.

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62. Abitua coloro che ti sono sottomessi a essere totalmente schietti gli uni verso gli altri, ma molto prudenti nei confronti dei demoni. 63. Non ti sfugga l’intenzione che hanno le tue pecore nelle loro relazioni reciproche, perché l’intento dei lupi20 è di infiacchire i ferventi per mezzo dei pigri. 64. Non esitare a intercedere nella preghiera, se ti è richiesto, anche per persone totalmente negligenti21, chiedendo non che ottengano misericordia – perché questo è impossibile finché essi non collaborano22 –, ma piuttosto che Dio risvegli in loro lo zelo. 65. I deboli non mangino insieme agli eretici, come prescrivono i canoni23! Quanto a coloro che sono forti nel Signore, se gli infedeli li invitano in buona fede ed essi vogliono andare, vadano pure, a gloria del Signore. 66. Non addurre l’ignoranza come un pretesto per i tuoi peccati, perché colui che senza saperlo avrà fatto cose meritevoli di percosse, sarà comunque percosso per non aver cercato d’imparare (cf. Lc 12,48)! 67. È una vergogna per un pastore temere la morte, se è vero che l’obbedienza si definisce proprio come serenità nei confronti della morte24. 68. Cerca, o beato, qual è quella virtù senza la quale nessuno vedrà il Signore (cf. Eb 12,14)25 e poi fa’ in modo che i tuoi figli l’acquistino prima di ogni altra, liberandoli completamente dalla vista di qualsiasi volto imberbe e femmineo. 20

Cioè i demoni. Cf. supra, XXVIII,40. 22 Sulla nozione di “cooperazione” (synérgheia), cf. infra, “Glossario”. 23 Cf. Basilio di Cesarea, Canone 96 sugli eretici; Id., Regole brevi 124. Cf. anche 1Cor 5,11. 24 Cf. supra, IV,3. 25 La virtù alla quale l’autore allude è la purezza: secondo i padri, solo chi è puro può accostarsi al Puro (cf. 1Gv 3,3; Mt 5,8). Cf. anche infra, DP 100,b.

69. Tutti coloro che ci sono sottomessi nel Signore abbiano un regime di vita e un’abitazione distinti a seconda della loro età fisica26. Nessuno infatti deve essere respinto dal porto27! 70. Non abbiamo fretta d’imporre le mani ad alcuno28, prima che abbia raggiunto l’età legale della ragione secondo il mondo, perché non avvenga che qualche pecora, entrata nell’età dell’ignoranza, una volta raggiunta la conoscenza, non sopportando più il peso e la fatica, ritorni nel mondo; e ciò non sarà senza conseguenze per chi avrà imposto loro le mani prematuramente! 71. Chi sarà mai quel bravo economo posto da Dio che, non avendo più bisogno delle proprie lacrime, dei propri gemiti e delle proprie fatiche, potrà offrirle generosamente a Dio per la purificazione degli altri? 72. Non cessare mai di lavare e di purificare le anime contaminate, e soprattutto i corpi, per poter reclamare con piena fiducia dal nostro giusto Arbitro le corone della vittoria, non solo per la tua ma anche per le altre anime! 73. Ho visto un malato guarire la malattia di un altro malato con la propria fede, intercedendo per lui presso Dio con lodevole impudenza e offrendo umilmente la propria anima per l’anima dell’altro; e così, guarendo l’altro, egli finì per guarire anche se stesso. Ho visto un altro, poi, far la stessa cosa mosso dall’orgoglio, e sentirsi rinfacciare: Medico, cura te stesso (Lc 4,23)! 74. Si può rinunciare a un bene per un bene più grande, come quel tale che evitò il martirio, non per viltà ma

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26 Sulla necessità di mantenere distinti l’abitazione e il regime di vita dei più giovani da quelli dei più anziani, cf. Basilio di Cesarea, Regole diffuse 15. 27 A nessuno cioè si deve impedire di entrare nella vita monastica, neanche ai più giovani. 28 L’autore allude al rito della professione monastica.

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per il bene di coloro che grazie a lui dovevano raggiungere la salvezza29. 75. C’è chi si è esposto al disonore per salvare l’onore degli altri: costui, pur essendo considerato dai più un vizioso, in realtà, è come chi è considerato un impostore pur essendo veritiero (cf. 2Cor 6,8). 76. Se colui che ha il dono della parola per l’utilità comune e non ne fa parte agli altri con generosità, non potrà restare impunito, quanto più grande, mio caro amico, sarà il pericolo cui si esporranno coloro che, potendo aiutare chi si trova in difficoltà con il semplice zelo delle loro opere, non sono disposti a sobbarcarsi una tale fatica? 77. Redimi gli altri, tu che sei stato redento da Dio, salva, tu che sei stato salvato, coloro che sono condotti alla morte, e non far riserve di te stesso per riscattare coloro che sono uccisi dai demoni! Questa è infatti l’impresa più grande agli occhi di Dio, superiore a qualsiasi attività e contemplazione di uomini e di angeli! 78. Colui che, grazie alla purezza che ha ricevuto da Dio, lava e purifica la sporcizia degli altri, offrendo a Dio doni senza macchia a partire da ciò che è impuro, diventa come un collaboratore delle potenze spirituali e incorporee. È questa infatti l’unica opera dei ministri divini, poiché sta scritto: Tutti coloro che stanno intorno a lui gli offriranno dei doni (Sal 75,12), cioè delle anime. 79. Niente manifesta l’amore e la bontà che il nostro 29 Il riferimento è a Gregorio il Taumaturgo (ca. 213-275), vescovo di Neocesarea, che durante le persecuzioni di Decio fuggì insieme ad altri fedeli, per cercare di impedire il dilagare dell’apostasia. Su questo avvenimento cf. Gregorio di Nissa, Vita di Gregorio Taumaturgo, PG 46,945D: “Vedendo dunque quel grande la debolezza della natura umana, come cioè i più non avessero la forza di lottare per la pietà fino alla morte, consigliò alla chiesa di sottrarsi per un po’ a quella spaventosa persecuzione, ritenendo che fosse meglio che le loro anime si salvassero attraverso la fuga, piuttosto che tradissero la fede resistendo nelle lotte”.

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creatore ha verso noi uomini, come il fatto di aver lasciato le novantanove pecore per cercare quella perduta (cf. Lc 15,4)! Fa’ dunque attenzione, mio eccellente amico, e dimostra tutto il tuo zelo, tutta la tua carità, tutto il tuo fervore, tutta la tua sollecitudine e tutta la tua capacità di intercessione presso Dio, in favore di colui che si è completamente traviato ed è schiacciato dal dolore; perché quando le malattie e le ferite sono gravi, certamente anche i compensi corrisposti per la loro guarigione sono grandi! 80. Ponderiamo, esaminiamo, e poi agiamo: a motivo della debolezza di alcuni, infatti, non è bene che il superiore pronunci sempre un giudizio giusto. Una volta ho visto due fratelli giudicati da un giudice sapientissimo: egli dichiarò innocente il colpevole poiché era più debole, mentre l’innocente, poiché era coraggioso e forte, lo dichiarò colpevole, per evitare che, applicando la giustizia, la differenza tra i due aumentasse ancora di più; in privato e in disparte, però, disse a ciascuno ciò che era giusto e conveniente, specialmente a colui che aveva l’anima malata. 81. Una pianura erbosa è ciò che ci vuole per delle pecore; ma l’insegnamento e il ricordo della morte sono ancora più appropriati per tutte le pecore dotate di ragione, perché sono in grado di curare ogni genere di scabbia. 82. Prendi di mira i forti, e umiliali senza motivo in presenza dei deboli, per guarire con la medicina data agli uni la ferita degli altri e insegnare ai fiacchi a diventare robusti! 83. Non risulta che Dio abbia mai rivelato in pubblico la confessione udita da qualcuno, e ciò per non ostacolare con tale rivelazione coloro che vogliono confessarsi, rendendo così incurabili le loro malattie. 84. Anche se abbiamo il dono della prescienza, guardiamoci dal dire noi per primi ai colpevoli i loro peccati, 479

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ma piuttosto esortiamoli alla confessione con parole velate; la confessione che fanno davanti a noi infatti contribuisce non poco a procurar loro il perdono. Dopo la confessione, concediamo loro maggiore confidenza e dimostriamo loro più affetto di prima, perché questo accresce notevolmente la fiducia e l’amore che nutrono per noi. Dobbiamo offrir loro un esempio di estrema umiltà, ma allo stesso tempo educarli a provare timore davanti a noi. Devi essere paziente in tutto, tranne quando disobbediscono ai tuoi comandi! 85. Stai attento che un’eccessiva umiltà da parte tua non accumuli carboni ardenti sul capo dei tuoi figli (cf. Pr 25,22; Rm 12,20)! 86. Osserva attentamente se per caso nel tuo campo non vi siano alberi che sfruttano inutilmente il terreno (cf. Lc 13,7), mentre forse potrebbero fruttificare in un altro: non esitiamo a sradicarli amorevolmente con i nostri consigli, e a trapiantarli altrove! 87. A volte il superiore può praticare senza pericolo la virtù anche nei luoghi meno appropriati, ossia nei luoghi più mondani e pieni di vizi. 88. Se il medico gode dell’esichia interiore, non ha tanto bisogno di quella esteriore per curare i malati30, ma in mancanza della prima, ricorra alla seconda! 89. Il superiore faccia molta attenzione quando accoglie nuovi agnelli nel proprio ovile, perché non ogni rifiuto o esclusione sono sgraditi a Dio! 90. Non c’è dono più gradito che possiamo fare a Dio dell’offrirgli anime dotate di ragione attraverso la peni-

tenza. Il mondo intero non vale quanto un’anima, perché il mondo passa, ma l’anima è incorruttibile e rimane per sempre! Perciò non ritenere beati coloro che offrono denaro, tu che sei beato, ma piuttosto coloro che offrono a Cristo pecore dotate di ragione31. 91. Il tuo olocausto sia senza difetto, perché altrimenti non ti gioverà a niente. 92. Come bisogna credere che il Figlio dell’uomo doveva essere tradito (Lc 24,7), ma guai a colui dal quale è stato tradito! (Mc 14,21), così, al contrario, devi credere che molti dovranno essere salvati – quelli che lo vogliono, s’intende –, e a coloro che, dopo Dio, saranno stati causa della loro salvezza, sarà data la ricompensa! 93. Prima di tutto, venerabile padre, abbiamo bisogno di molta forza spirituale, affinché, quando vediamo che quelli che abbiamo deciso d’introdurre nel Santo dei santi per mostrar loro il Cristo seduto alla mensa mistica e segreta32, sono afflitti e oppressi da una folla di pensieri cattivi che vogliono impedir loro il passaggio – soprattutto quando essi sono sulla soglia d’entrata –, possiamo, grazie a tale forza, prenderli per mano come bambini e liberarli da quella folla di pensieri. Se poi alcuni di loro sono ancora molto piccoli e deboli, bisogna sollevarli e portarli in spalla finché non siano riusciti a oltrepassare quella porta d’entrata veramente stretta (cf. Lc 13,24), perché è proprio in quel punto che in genere si concentra tutta la ressa opprimente e soffocante dei pensieri. Perciò qualcuno ha detto a questo proposito: Questa fatica è davanti a me finché non sono entrato nel santuario di Dio (Sal 72,16-17).

30 Seguo qui il testo di Rader e di Ignatios, invece di quello di Sophronios, che dà un senso meno accettabile. La sentenza non fa che ripetere, con parole diverse, ciò che è detto al paragrafo precedente: se il padre spirituale ha raggiunto l’esichia interiore, cioè la pace profonda dell’anima, può guarire le altre anime dai peccati anche nei luoghi meno adatti al raccoglimento.

31 Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie su 1Corinzi 3,5: “Niente vale quanto un’anima, neppure il mondo intero: anche se doni ricchezze infinite ai poveri, non farai niente di paragonabile a chi riconduce un’anima sola sulla retta via!”. 32 Il “Santo dei santi” è qui probabilmente la parte più intima del cuore, dove avviene l’unione mistica con il Cristo.

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94. Nella nostra precedente trattazione, abbiamo già parlato, o padre dei padri, di quello straordinario padre dei padri e maestro dei maestri33, dicendo come egli fosse interamente rivestito di sapienza celeste, privo di finzioni, severo, rigoroso, equilibrato, condiscendente, e sereno nell’anima. Ma la cosa più sorprendente di tutte era che se vedeva qualcuno desideroso di essere salvato, lo trattava con maggior rigore; e se vedeva qualcuno custodire una volontà propria o un qualche attaccamento passionale, lo privava dell’oggetto dei suoi desideri, al punto che ormai tutti si guardavano bene dal manifestare una qualche volontà propria per ciò a cui tenessero particolarmente. Quell’uomo illustre soleva ripetere: “È meglio scacciare qualcuno dal monastero, che lasciargli compiere la sua volontà! Chi infatti scaccia qualcuno, spesso lo rende più umile, fino a fargli recidere la sua volontà; ma chi per misericordia e condiscendenza solo apparenti si mostra indulgente con tali persone, si farà maledire tristemente al momento della morte, per averli ingannati invece che aiutati!”. Alla fine della preghiera del vespro, si poteva vedere quel grand’uomo seduto come un re su un trono – un trono, il suo, esteriormente fatto di legno, ma interiormente di carismi spirituali –, e la sua bella comunità riunita al completo lo circondava come uno sciame di api sagge, ascoltando le sue parole e i suoi comandi come se venissero da Dio: a uno comandava di recitare cinquanta salmi, a un altro trenta, a un altro cento; a un altro di fare altrettante genuflessioni; a un altro di dormire seduto; a un altro di leggere per un tempo determinato; e a un altro di stare per lo stesso tempo in preghiera.

Oltre a questo, aveva stabilito due fratelli come sorveglianti, con il compito di sorvegliare e impedire, di giorno, le conversazioni e gli ozi, e di notte, le veglie inopportune e altre cose che non è lecito riferire per iscritto. E non è tutto: anche in materia di cibo quel grande aveva assegnato a ciascuno una regola propria; non c’era infatti un solo regime alimentare uguale per tutti, ma era diverso per ciascuno, a seconda della sua condizione34: ad alcuni, infatti, quel bravo economo aveva assegnato una dieta più austera, ad altri una più abbondante, e la cosa sorprendente era che ogni suo comando veniva eseguito senza mormorazioni, come se fosse uscito dalla bocca di Dio. Inoltre, alle dipendenze di quell’illustre superiore c’era anche una laura35, dove quell’uomo, perfetto in tutto, mandava i fratelli del monastero che erano in grado di vivere nell’esichia. 95. Guardati, ti supplico, dal rendere astuti e maligni nei loro pensieri i monaci più semplici; o meglio, se ti è possibile, cerca di trasformare gli astuti in semplici, che è cosa assolutamente straordinaria! 96. Chi ha raggiunto la perfetta purezza grazie a una perfetta impassibilità, potrà usare il rigore, come il giudice divino: la mancanza di impassibilità infatti colpisce il cuore del giudice e non gli permette di punire e purificare gli altri come dovrebbe. 97. Prima di tutto lascia ai tuoi figli l’eredità di una fede senza macchia e di sante dottrine, per poter condurre al Signore, attraverso la via dell’ortodossia, non solo i tuoi figli ma anche i figli dei tuoi figli.

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Conformemente alle prescrizioni di Basilio, Regole diffuse 19. L’autore utilizza in riferimento all’Egitto un termine tipico del monachesimo palestinese (cf. supra, IV,111), dove era anche frequente la combinazione tra laura e cenobio. 35

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Cf. supra, IV,14-33; V,5.

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98. Non esitare a fiaccare e domare i giovani pieni di ardori passionali, perché al momento della morte possano cantare le tue lodi. 99. Anche in questo, o uomo colmo di sapienza, ti serva da modello il grande Mosè: egli non poté liberare dal faraone coloro che gli erano stati affidati – per quanto fossero disposti a seguirlo docilmente –, finché essi non mangiarono il pane azzimo con le erbe amare (cf. Es 12,8). Il “pane azzimo” è l’anima che non ha in sé alcuna volontà propria36: essa infatti la farebbe gonfiare e inorgoglire, mentre ciò che è azzimo rimane sempre basso e umile. Per “erbe amare” invece dobbiamo intendere, a volte il fastidio pungente che si prova al ricevere degli ordini, a volte le angustie causate dal rigore del digiuno. 100 a. Nello scriverti queste cose, però, o padre dei padri, mi sembra di udire le parole che dicono: Tu che insegni a un altro, non insegni a te stesso (Rm 2,21)? Ma ora, prima di concludere il discorso, voglio aggiungere una sola cosa: un’anima che attraverso la purezza si è unita a Dio, non avrà più bisogno della parola di un altro per essere istruita, perché quella beata ormai porta in sé il Verbo eterno, come suo mistagogo, sua guida e sua luce! E so bene che la tua anima è proprio così, o vetta santissima e piena di luce! Conosco infatti la perfetta limpidezza del tuo pensiero, non solo per averne sentito parlare, ma per averlo visto all’opera e averne fatto esperienza: è tutto splendente di umiltà e di una mitezza che uccide le fiere37, proprio come quel grande legislatore: Mosè (cf. Es 34,29)38. 36 Lett.: “Che non ha l’aggiunta (próslemma) della volontà propria” (secondo la lezione di Rader e Ignatios), oppure “che non ha la nozione (prólemma) di volontà propria” (secondo la lezione di Sophronios). La prima lezione sembra preferibile, perché permette di cogliere meglio il paragone implicito con il lievito che si aggiunge alla pasta per farla gonfiare. 37 Cioè le passioni. 38 Quest’ultima parte del DP è un encomio che celebra le virtù e la sapien-

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b. Tu stai veramente seguendo le sue orme, padre pieno di pazienza, e progredendo continuamente verso l’alto, sei quasi arrivato a superarlo – intendo dire per ciò che riguarda l’onore della purezza e il merito della castità! Grazie a queste virtù più che ad altre, infatti, possiamo avvicinarci a Dio, che è il totalmente puro (cf. 1Gv 3,3; Mt 5,8)39, lui che dona e sostiene ogni impassibilità, e attraverso di essa trasferisce in cielo coloro che ancora vivono sulla terra. Montando con piede risoluto su di esse40 come su un carro di fuoco – sull’esempio di quel grande amante della purezza che fu Elia (cf. 2Re 2,11)41 –, non solo hai ucciso l’egiziano, nascondendo nella sabbia dell’umiltà il merito di quest’impresa (cf. Es 2,12)42, ma sei anche salito sul monte e hai visto Dio attraverso il roveto di una vita spinosa e difficile (cf. Es 3,2-4). Hai udito la voce di Dio e goduto dello splendore della sua luce. Ti sei sciolto i calzari, cioè ti sei spogliato di tutto il rivestimento di morte che ci avvolge (cf. Es 3,5)43. Hai afferrato per za pastorale di Giovanni di Raito, interamente costruito sul raffronto con la vita di Mosè e di Giosuè interpretata in chiave allegorica come modello di ascesi e di progresso spirituale (come già nella tradizione, a partire da Filone di Alessandria e Origene, fino a Gregorio di Nissa, dal quale Climaco soprattutto dipende). In generale sulla figura di Mosè come modello di santità nei padri, cf. P.-M. Guillaume, s.v. “Moïse, IV. Epoque patristique”, in DS X, coll. 1464-1470. 39 Cf. supra, DP 68. 40 Le due virtù di cui si è detto sopra. 41 Per Elia come modello di purezza e di castità cf. supra, Schol. 55, in n. 34 a XXVI/1,42; Nilo di Ancira, Lettere I,181: “Hai imitato nella castità e nella purezza l’ammirevole Elia che, facendosi iniziatore di ogni ascesi, per primo ci ha mostrato la temperanza e il celibato angelico, a causa del quale fu rapito da un carro di fuoco”. In generale su questo tema, cf. E. Poirot, Elie, archétype du moine, Abbaye de Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1995, pp. 25-51. 42 L’“egiziano” rappresenta la concupiscenza della carne (cf. Schol. 2, PG 88,1208B). Per la stessa immagine cf. supra, XV,10.39. 43 I “calzari” rappresentano la “carne” mortale di cui l’uomo fu rivestito agli inizi per la sua trasgressione (cf. il tema delle “tuniche di pelle”, supra, n. 60 a XV,76) e di cui egli si deve spogliare per accedere alla perfezione. Cf. Gregorio di Nissa, Vita di Mosè II,22: “I piedi dell’anima debbono essere liberati dal rivestimento di pelli morte e terrene, che hanno avviluppato all’inizio la sua natura, quando per la trasgressione del comando divino fummo denudati”.

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la coda – cioè quando ormai era alla fine – colui che da angelo si è trasformato in serpente (cf. Es 4,4)44, e lo hai gettato nella sua tana, cioè nell’abisso profondissimo delle tenebre. Hai vinto il faraone orgoglioso e altero45, e hai colpito gli egiziani e ucciso i loro primogeniti (cf. Es 11,5)46, che è l’impresa più grande di tutte! c. Quindi, a motivo della tua saldezza, il Signore ti ha affidato la direzione dei fratelli, e tu, o guida delle guide, senza timore li hai allontanati e liberati dal faraone e dall’impura fabbricazione dei mattoni di argilla (cf. Es 1,14)47, per introdurli alla piena conoscenza del fuoco divino e della nube della purezza che estingue ogni fiamma di desiderio carnale (cf. Es 13,21-22). Oltre a ciò, hai diviso davanti a loro questo mare rosso e infuocato (cf. Es 14,21)48, nel quale la maggior parte di noi rischia spesso di far naufragio, e con il tuo bastone e la tua sapienza pastorale li hai condotti alla vittoria e al trionfo, dopo aver annegato completamente i nemici che li incalzavano alle spalle (cf. Es 14,27-28). d. Oltre a ciò, stendendo le tue braccia e stando a metà tra azione e contemplazione, hai ottenuto per il tuo popolo, illuminato dalla luce di Dio, il trionfo sull’Amalek dell’orgoglio (cf. Es 17,8-13), il quale assale regolarmente chiunque abbia ottenuto la vittoria sul mare. Hai vinto le nazioni. Hai condotto coloro che erano con te sulla montagna dell’impassibilità, e li hai costituiti sacerdoti49.

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Per l’espressione “afferrare il serpente per la coda” cf. anche supra, IV,27. Cioè il vizio della superbia. Gli “egiziani” sono i demoni malvagi, e i “primogeniti” i pensieri cattivi da essi ispirati. 47 La “fabbricazione dei mattoni di argilla” sono le occupazioni terrene e carnali. Cf. supra, V,25, n. 17. 48 Questo “mare” è la carne con la sua concupiscenza (cf. Schol. 4, PG 88,1208B e supra, XXVI/1,25). 49 In senso spirituale: li hai resi capaci di offrire sacrifici spirituali al Signore (cf. supra, XXVIII,52). 45 46

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Hai imposto loro la circoncisione50, perché chi non è stato purificato per mezzo di essa non può vedere Dio. Sei asceso in alto, dissipando ogni oscurità, caligine e tempesta: ovvero la triplice tenebra dell’ignoranza. e. Ti sei avvicinato a una luce ben più venerabile, splendente e sublime di quella del roveto (cf. Es 3,2-4). Hai meritato di udire la voce di Dio, di contemplarlo, e di ricevere il dono della profezia: hai visto, in qualche modo, pur vivendo ancora in questo mondo, i beni futuri51, ovvero la perfetta e definitiva illuminazione della conoscenza che ci sarà donata di là; poi hai udito la voce che diceva: L’uomo non potrà vedere … (cf. Es 33,20). Perciò, dopo questa visione di Dio, sei disceso nella valle profonda dell’umiltà, verso l’Horeb, portando con te anche le tavole che descrivono l’ascensione verso la conoscenza di Dio, con il volto tutto raggiante di gloria nell’anima e nel corpo (cf. Es 34,29). Ma quale triste spettacolo vedere il vitello d’oro fabbricato proprio dalla mia comunità, e le tavole infrante (cf. Es 32,19)! f. Ma poi cos’è avvenuto? Hai preso il popolo per mano, lo hai condotto nel deserto, e una volta, quando era arso dal proprio fuoco52, forse anche tu hai fatto sgorgare in lui una sorgente d’acqua, cioè di lacrime, usando il bastone di legno (cf. Es 17,5-6), cioè crocifiggendo la sua carne con le sue passioni e i suoi desideri (cf. Gal 5,24). Hai combattuto contro i popoli che vi assalivano, bruciandoli con il fuoco di Dio53. Quindi sei arrivato al Giordano (cf. Gs 3,1) – niente ci impedisce infatti di abbreviare un po’ la storia –: hai diviso il popolo con la tua 50

Cioè la “circoncisione del cuore” (cf. Rm 2,29), ovvero la sua purificazione. Lett.: “Ciò che viene dopo (tà ópisthen méllonta)”: interpretazione allegorica delle “terga di Dio” contemplate da Mosè in Es 33,23. 52 Cioè dal fuoco delle passioni. 53 Cioè con il fervore della preghiera. 51

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parola come Giosuè (cf. Gs 13,1-33)54, e hai separato le acque, facendo scorrere quelle a valle verso il mare del sale e della mortificazione, e trattenendo invece quelle a monte – cioè quelle della carità – sugli occhi dei tuoi israeliti spirituali (cf. Gs 3,16)55. g. Hai ordinato poi di portare dodici pietre (cf. Gs 4,28), o per indicar loro la via degli apostoli, o per rappresentare simbolicamente la vittoria sulle otto nazioni – ossia sulle otto passioni – e l’acquisizione delle quattro virtù principali56. Lasciandoti completamente alle spalle il mare morto e sterile, hai raggiunto la città del Nemico57, e, facendo risuonare la tromba della preghiera per sette volte – cioè lungo l’intero corso della vita umana58 – hai abbattuto le sue mura e l’hai vinta (cf. Gs 6,1-21), così da poter ormai cantare anche tu al tuo Alleato invisibile e immateriale: Le spade del nemico sono svanite per sempre e hai distrutto le città (Sal 9,7)! h. Ma vuoi che dica la cosa di gran lunga più importante di tutte? Sei asceso a Gerusalemme – cioè alla visione della pace perfetta delle anime59 – e hai visto Cristo, il Dio della pace! Hai condiviso le sue sofferenze come un buon soldato (cf. 2Tm 2,3). Hai crocifisso con lui la tua 54 Assegnando cioè ad ognuno un “luogo adatto” – le virtù e lo stile di vita da praticare – nella “terra promessa” della vita monastica. 55 Secondo l’interpretazione di Schol. 8, PG 88,1209A, le acque “a valle” (lett.: “le prime”) sono le lacrime dei principianti, che sono frutto dell’ascesi e sono destinate a purificare i peccati; le acque “a monte” (lett.: “dall’alto”) sono invece le lacrime donate da Dio e alimentate dalla carità. 56 Le “otto passioni” sono gli otto principali vizi o pensieri cattivi, già incontrati più volte, mentre le “quattro virtù principali” sono le virtù cardinali: prudenza (phrónesis), fortezza (andreía), temperanza (sophrosØne) e giustizia (dikaiosØne). 57 Interpretazione allegorica di Gerico: nei padri questa città rappresenta il “mondo” opposto al “paradiso” di Gerusalemme. 58 La vita umana infatti è scandita dal ritmo temporale dei sette giorni (cf. supra, V,5,y). 59 Interpretazione tradizionale del nome di Gerusalemme.

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carne con le sue passioni e i suoi desideri (cf. Gal 5,24), e giustamente, perché anche tu sei diventato un dio per il faraone e per tutta la sua potenza nemica60! Poi, insieme a lui sei stato sepolto (cf. Rm 6,4), e sei disceso agli inferi, ovvero nell’abisso della teologia61 e dei misteri ineffabili. Sei stato unto di mirra e profumato dalle tue parenti e amiche (cf. Mc 16,1 par.), ovvero dalle virtù. Sei risuscitato: cosa mi impedisce infatti di dire anche questo, quando anche tu sei veramente seduto in cielo alla destra di Dio Padre (cf. Ef 1,20; Col 3,1; 1Pt 3,22)62, anzi si è diffusa la voce del rapimento del tuo corpo (cf. Mt 28,15)? Sì, sei risuscitato anche tu dopo tre giorni, dopo aver vinto i tre tiranni, ovvero, per parlare in modo più chiaro, dopo aver ottenuto la vittoria sul corpo, sull’anima e sullo spirito, oppure dopo aver purificato le tre parti dell’anima: quella passionale, quella irascibile, e quella razionale. i. Sei arrivato al monte degli Ulivi63 – devo infatti concludere, senza andare troppo per le lunghe, tanto più scrivendo a te che sei ripieno di sapienza e che ci superi tutti in conoscenza –: a quel monte, intendo dire, di cui un eccellente corridore diceva cantando: Le alte montagne sono per i cervi! (Sal 103,18), cioè per le anime che uccidono le fiere64. Correndo dunque anche tu insieme a lui, hai raggiunto la base della montagna, e dopo aver alzato gli occhi verso il cielo – torno di nuovo a seguire il modello del Verbo – hai benedetto noi tuoi discepoli (cf. Lc 24,51) e hai visto elevarsi davanti a te la scala delle virtù (cf. Gen 28,12). 60 61 62 63 64

Come un tempo Mosè, secondo le parole di Es 7,1. Su questo termine cf. infra, “Glossario”. Sull’idea di una risurrezione “anticipata” cf. supra, XV,58; XXIX,2.4. Da dove Gesù ascese al cielo: cf. Lc 24,50. Cf. supra, XXV,9.

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l. Di tale scala tu, secondo la grazia di Dio che ti è stata data, come un sapiente architetto hai posto il fondamento (cf. 1Cor 3,10), o meglio l’hai edificata interamente, anche se poi, per la tua umiltà, hai costretto noi, poveri sempliciotti, a prestarti la nostra bocca impura per parlare al tuo popolo65. Ciò non è affatto strano, perché, se si guarda al modello della storia di Mosè, anche lui aveva l’abitudine di descrivere se stesso come balbuziente e tardo nel parlare (Es 4,10): Mosè però ebbe la fortuna di trovare in Aronne un ottimo assistente e parlatore (cf. Es 4,14-16), tu invece, che sei iniziato ai misteri ineffabili, non so come mai, hai voluto venire da me, sorgente inaridita e tutta piena di rane d’Egitto, o meglio di carboni (cf. Es 7,27-8,8)66. m. Ma poiché non è bene che io me ne vada lasciando incompiuta la corsa della mia narrazione, riprendo a tessere l’elogio della tua bellezza, o corridore celeste, dicendo che ti sei avvicinato al monte santo e, elevando i tuoi occhi verso il cielo, hai posto il tuo piede alla sua base, hai corso, sei salito, sei stato elevato, sei montato a cavallo dei cherubini – cioè delle virtù – e hai volato (cf. Sal 17,11), e così sei asceso tra le acclamazioni (cf. Sal 46,6) dopo aver trionfato sul Nemico. Ci hai aperto e indicato la via, anzi anche ora continui a guidare e indicare la via a noi tutti, perché ormai hai raggiunto la cima della santa scala e ti sei unito alla carità, e la carità è Dio stesso (cf. 1Gv 4,8.16)! A lui la gloria nei secoli! Amen.

65 66

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Cioè alla tua comunità. Gioco di parole tra batráchon (“rane”) e anthrákon (“carboni”).

ABBREVIAZIONI E SIGLE

DP

Giovanni Climaco, Discorso al pastore, citato secondo la numerazione di Sophronios, Κλµαξ το

Iωννου το Σινατου, Konstantinoupolis 1883.

DS

Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique, doctrine et histoire, 16 voll., Beauchesne, Paris 1937-1996.

Esort.

Breve esortazione che riassume in modo altrettanto efficace quanto è stato detto per esteso (alla fine di Scala XXX).

Exegesis

Niceforo Callisto Xanthopoulos, Eξγεσις σντοµος ες τν Κλµακα το Iωννου, editio princeps a cura di N. Meletios, S. Dimitreas e B. Lampropoulos, Ekdosi Ieras Mitropoleos Nikopoleos, Preveza 2002.

Lettera I

Lettera di abba Giovanni igumeno di Raito al venerabile Giovanni igumeno del monte Sinai.

Lettera II

Lettera di risposta.

Menaion

Vita Climaci ex Menaeis 30 Martii, PG 88,609C-612A.

PG

Patrologiae cursus completus. Series graeca, a cura di J.-P. Migne, Paris 1857 ss.

PL

Patrologiae cursus completus. Series latina, a cura di J.-P. Migne, Paris 1844 ss.

Prol.

Prologo alla Scala.

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Racc.

Dai “Racconti sui santi padri del Sinai” di Anastasio Sinaita (capitoli relativi a Giovanni Climaco, citati secondo la numerazione adottata in questo libro).

SC

Sources Chrétiennes, Cerf, Paris 1942 ss.

Scala

Giovanni Climaco, La scala, citata secondo la numerazione di Sophronios.

Schol.

Scholia graeca anonymi ad s. Climaci Scalam Paradisi, PG 88,643-1210.

Vita

Breve vita del beato Giovanni, igumeno del santo monte Sinai.

BIBLIOGRAFIA

Edizioni Κλµαξ το Iωννου το Σινατου, a cura di Sophronios Lavriotis,

Konstantinoupolis 1883 (rist. Astir, Athinai 1979). San Giovanni Climaco, Scala Paradisi, 2 voll., a cura di P. Trevisan, SEI, Torino 1941. Sancti Joannis Abbatis, vulgo Climaci, Opera Omnia, a cura di M. Rader, S. Cramoisy, Lutetiae Parisiorum 1632, poi in PG 88, 579-1248 (Scala Paradisi 633-1164, Liber ad Pastorem 1165-1210). Tο σου Πατρ"ς #µ$ν Iωννου το Σινατου Κλµαξ, a cura dell’arch.

Ignatios (Pouloupatis), Iera Moni Paraklitou, Oropos Attikis 19998.

Traduzioni italiane GIOVANNI CLIMACO, La scala del paradiso, a cura di C. Riggi, Città Nuova, Roma 19962. S. GIOVANNI CLIMACO, La scala del paradiso, 2 voll., a cura di B. Ignesti, Cantagalli, Siena 1955. SAN GIOVANNI CLIMACO, Scala Paradisi, 2 voll., a cura di P. Trevisan, SEI, Torino 1941.

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493

Commenti antichi DIONIGI IL CERTOSINO, Expositio librorum Iohannis Climaci, in Doctoris ecstatici D. Dionysii Cartusiani, Opera omnia in unum corpus digesta XXVIII, Brépols, Tournai 1905. FOZIO, Scholia: a cura di A. Papadopoulos-Kerameus, “Φωτου πατρι ρκου Σχλια ες τν Κλµακα”, in Pravoslavnyj Palestinskij Sbornik 11 (1892), pp. 21-24; a cura di G. Hofmann, “Der hl. Johannes Klimax bei Photios”, in Orientalia Christiana Periodica 7 (1941), pp. 461-479, (cf. anche Photii patriarchae constantinopolitani Epistulae et Amphilochia VI/1, a cura di L. G. Westerink, Teubner, Leipzig 1987, pp. 64-66). MICHELE PSELLO, Scholion, in Michaelis Pselli Theologica I, a cura di P. Gautier, Teubner, Leipzig 1989, pp. 121-126. NICEFORO CALLISTO XANTHOPOULOS, Eξγεσις σντοµος ες τν Κλµακα το Iωννου, editio princeps a cura di N. Meletios, S. Dimitreas e B. Lampropoulos, Ekdosi Ieras Mitropoleos Nikopoleos, Preveza 2002. PSEUDO-GIOVANNI DI RAITO, In sancti Joannis, cognomento Scolastici seu Climaci, Climacen Scholia, PG 88,1211-1248 (solo in versione latina). Scholia graeca anonymi ad s. Climaci Scalam Paradisi, ante hac numquam edita, ex Elia Cretesi archiepiscopo potissimum, et aliis Patribus et scriptoribus Graecis decerpta, PG 88,643-1210.

Altre fonti antiche citate nel libro ABBA ISAIA, Discorsi ascetici = Tο σου πατρ"ς #µ$ν &ββ( )Ησαου λ+γοι ΚΘ , a cura di S. N. Schoinas, Aghioritikis bibliothikis, Volos 1962. Tr. it. Isaia di Scete, Asketikón, Chirico, Napoli 2003. AMMONIO, Sull’Isagoghé di Porfirio = In Porphyrii isagogen sive quinque voces, a cura di A. Busse, in Commentaria in Aristotelem Graeca IV/3, Reimer, Berlin 1891, pp. 1-128.

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ANASTASIO SINAITA, Racconti sui padri del Sinai = F. Nau, “Le texte grec des récits du moine Anastase sur les pères du Sinai”, in Oriens Christianus 2 (1902), pp. 65-67. Apoftegmi = Apophthegmata patrum (Collectio alphabetica), PG 65,71440. Tr. it. Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari, Città Nuova, Roma 1996. Apoftegmi Nau = Histoires des solitaires égyptiens, a cura di F. Nau, in Révue de l'Orient Chrétien 12-14 (1907-1909), 17-18 (1912-1913). Tr. it. Detti inediti dei Padri del deserto, a cura di L. Cremaschi, Qiqajon, Bose 1986, da completare con I padri del deserto, Detti, a cura di L. Mortari, Città Nuova, Roma 1972. ATANASIO DI ALESSANDRIA, A Serapione = Sancti Athanasii archiepiscopi alexandrini epistulae ad Serapionem Thmuitanum episcopum 1-4, PG 26,529-648B. Tr. it. Atanasio, Lettere a Serapione. Lo Spirito santo, a cura di E. Cattaneo, Città Nuova, Roma 1986. –, Ai monaci = Sancti patris nostri Athanasi Magni Doctrina ad monachos, lenis atque spiritualis, PG 28,1421-1425. –, Commento ai salmi = Sancti Athanasii archiepiscopi alexandrini expositiones in Psalmos, PG 27,60-589. –, Vita di Antonio = Athanase d’Alexandrie, La vie de saint Antoine, a cura di G. J. M. Bartelink, SC 400, Cerf, Paris 1994. Tr. it. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio. Antonio Abate, Detti – Lettere, a cura di L. Cremaschi, Paoline, Milano 1995. BARSANUFIO DI GAZA, Lettere = Barsanuphe et Jean de Gaza, Correspondence I-III, a cura di F. Neyt, P. de Angelis-Noah, SC 426427, 450-451, 468, Cerf, Paris 1997-2002. Tr. it. Barsanufio e Giovanni di Gaza, Epistolario, a cura di F. T. Lovato e L. Mortari, Città Nuova, Roma 1991. BASILIO DI CESAREA, Canone 96 sugli eretici = Canon 96 de haereticis, in P.-P. Joannou, Discipline Générale Antique II. Les Canons des Pères Grecs, Pontificia commissione per la redazione del codice di diritto canonico, Grottaferrata-Roma 1963, pp. 198-199. –, Discorso ascetico = Sancti Basilii Magni sermo asceticus, PG 31,869-881.

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CIRILLO DI SCITOPOLI, Vita di Eutimio = Vita Euthymii, in Kyrillos von Skythopolis, a cura di E. Schwartz, Hinrichs, Leipzig 1939, pp. 3-85. Tr. it. in Cirillo di Scitopoli, Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, a cura di R. Baldelli e L. Mortari, Abbazia di Praglia, Bresseo di Teolo 1990, pp. 97-191. –, Vita di Teodosio = Vita Theodosii, in Kyrillos von Skythopolis, pp. 235-241. Tr. it. in Cirillo di Scitopoli, Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, pp. 377-388. CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Quale ricco si salverà? = Clementis Alexandrini liber quis dives salvetur, PG 9,603-662. Tr. it. Clemente Alessandrino, Quale ricco si salverà?, a cura di M. G. Bianco, Città Nuova, Roma 1999. –, Stromati = Clément d’Alexandrie, Les stromates I-II, IV-VII, a cura di C. Mondésert, Th. Camelot, A. Van der Hoek, A. Le Boulluec e P. Descourtieux, SC 30, 31, 463, 278, 446, 428. Tr. it. Clemente Alessandrino, Gli Stromati. Note di vera filosofia, a cura di G. Pini, Paoline, Milano 1985. CRISIPPO, Frammenti morali = Stoicorum veterum fragmenta, III. Chrysippi fragmenta moralia. Fragmenta successorum Chryssipi, a cura di H. von 2 Arnim, Teubner, Stuttgart 1968 , pp. 3-191. Tr. it. in Stoici antichi, Tutti i frammenti, a cura di R. Radice, Rusconi, Milano 1998, pp. 1025-1351. D IADOCO DI F OTICA , Capitoli = Diadoque de Photicé, Oeuvres 3 spirituelles, a cura di E. des Places, SC 5 bis, Cerf, Paris 1966 , pp. 84-163. Tr. it. Diadoco di Fotica, Cento considerazioni sulla fede, a cura di V. Messana, Città Nuova, Roma 1978. DIDIMO IL CIECO, Sui Salmi fr. = Didymi Caeci fragmenta in Psalmos, in Psalmenkommentare aus der Katenenüberlieferung, 2 voll., a cura di E. Mühlenberg, De Gruyter, Berlin 1975-1977 (vol. I, pp. 121375; vol. II, pp. 3-367). –, Sulla Genesi = Didyme l'Aveugle, Sur la Genèse, 2 voll., a cura di P. Nautin e L. Doutreleau, SC 233-244, Cerf, Paris, 1976-1978. DOROTEO DI GAZA, Insegnamenti = Dorothée de Gaza, Oeuvres spirituelles, a cura di L. Regnault e J. De Préville, SC 92, Cerf, Paris, 1963, pp. 146-487. Tr. it. Doroteo di Gaza, Scritti e insegnamenti spirituali, a cura di L. Cremaschi, Paoline, Roma 1980.

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EFREM IL SIRO, Come l’anima deve pregare con le lacrime = Περ- ψυχ0ς

1ταν πειρζηται 4π" το Eχθρο π$ς 6φελει µετ8 δακρων τ$: Θε$: προσεχεσθαι, in Tο ;ν