La regia. L'arte della messa in scena
 8831752049, 9788831752046

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Sergej M. Ejzensiejn

LA REGIA L’arte della messa in scena a

luì

a di Pietro Montani

Saggi Marsilio

© 1989 BY MARSILIO EDITORI® S.P.A. IN VENEZIA Titoli originali Izbrannye proizvedenija v Usti tomach (Opere scelte in sei volumi), Mosca, Iskusstvo, 1963-1970 Reiissura. Iskusstvo mizansceny vol. tv Traduzioni dal russo di Lorena Bottone, Alberto Goni, Simonetta De Bartolo, Marisa Preianò

ISBN 88-317-5204 9

Prima edizione: novembre 1989

ÌNDICE

ix Introduzione di Pietro Montani xxv

Nota editoriale

LA REGIA. L’ARTE DELLA MESSA IN SCENA

3 A priori 7 Introduzione 21 H ritorno del soldato dal fronte 21 46 66 84 95 114 146 177 264 327 360 477 523

617 623

I II

Il movimento degli stili Sul movimento di «rifiuto» in IV V

VI

VII

Vili IX X XI

Note del curatore Indice dei nomi

INTRODUZIONE

1. Il 1° ottobre 1932 Ejzenstejn fu nominato titolare della cattedra di Regia nell’istituto statale di Cinematografìa di Mosca (gik), dove aveva già tenuto dei corsi nel 1928. L’inizio di questa nuova fase di impegno didattico coincide con il concepimento di un ampio trattato sulla regia, un’opera in tre volumi, destinata innanzitutto agli studenti, da scrivere in stretto rapporto con l’attività di insegnamento. Nell’otto­ bre dell’anno successivo è già configurato il piano dettagliato del primo volume: il corso che si inaugura nell’autunno 1933, dunque, assume un’importanza particolare perché è pensato in vista della sua trasforma­ zione in libro. Sarà il nucleo del primo volume del trattato sulla regia, L'arte della messa in scena. Il primo e l’unico, in realtà, perché gli altri due volumi non solo non furono mai scritti, ma non furono nemmeno portati a un grado di sufficiente elaborazione “testuale”. Al contrario, gli stenogrammi delle lezioni tenute nell’anno accademico 1933-34 furono rivisti, annotati e integrati da Ejzenstejn nel corso di un lungo processo di messa a punto che si protrasse, con aggiunte, modifiche, ulteriori esemplificazioni, nuovi excursus teorici, fino al 1948. Della monumentale impresa concepita nel 1932, dunque, oggi ci resta, essenzialmente, questo libro1 in qualche misura incompiuto e ancora in parte da “montare”, come tutte le grandi opere di Ejzenstejn, ma anche, come vedremo, assai coerente, in virtù del pensiero unitario che lo percorre e dell’intento didattico da cui muove. Al grande edifìcio teorico-pratico progettato esso fornisce, si potrebbe dire, nient’altro che le solide fondamenta. Ma si tratta di fondamenta davvero “profon­ de”, perché il problema che vi si affronta è il presupposto più originario dell’operazione registica: il costituirsi di una “scena” in rapporto a “qualcosa” (un «compito», come lo chiama Ejzenstejn) da rappresenta­ 1 Per ulteriori notizie sul testo si rimanda alla nota editoriale.

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re (ma, come si vedrà, la scena eccede, e di gran lunga, il «compito»). All’inizio del corso, Ejzenstejn fornisce ai suoi allievi «una riga di sceneggiatura» che si tratterà di «mettere in scena», ma l’allestimento non si avvale di un referente spettacolare definito (un palcoscenico, un set cinematografico) bensì di uno spazio immaginario che diventa il luogo di un complesso e multiforme esperimento costruttivo. Noi proveremo qui a seguire lo strutturarsi di questo spazio, esplicitandone le principali regole di produzione; ma lo osserveremo anche, per un privilegio e un obbligo della distanza che ce ne separa, alla luce della scena più ampia che lo include: quella in cui uno straordinario personaggio di regista-pedagogo va organizzando sotto gli occhi dei suoi allievi uno spettacolo in cui è in gioco, insieme alla rappresentazione che pian piano prende forma, anche la peculiare rappresentabilità del pensiero teorico che sostiene e produce quella forma e, inoltre, l’affiorare di altri oggetti, sensi, passioni (di altre scene, cioè) che il pensiero convoglia di continuo nell’operazione costruttiva in cui si esprime. Spettacolo appassionante e ricco di suspense, come il lettore vedrà fin dalle prime battute di questo libro che offre, al di là di ogni sua possibile utilizzabilità metodologica, la singolare testimonian­ za di un’«arte della messa in scena» capace di esercitarsi sugli oggetti della riflessione teorica e di tematizzare nel luogo stesso del suo prodursi il fenomeno della creatività. Era questo, d’altronde, un vecchio progetto di Ejzenstejn: un’idea, tutto sommato, meno utopica di quanto egli stesso non si fosse convinto che dovesse essere. 2. Cominciamo dunque dal «compito» che Ejzenstejn presenta ai suoi allievi all’inizio del corso di regia del 1933-34. Viene proposto un segmento narrativo molto semplice - «Un soldato torna dal fronte. Scopre che durante la sua assenza la moglie ha avuto un figlio da un altro. La lascia» -, e si comincia a discutere su come metterlo in scena generando sistematicamente tutte e solo le determinazioni necessarie all’operazione, la quale andrà effettuata, secondo un accordo prelimi­ nare, esclusivamente sul piano della composizione significante dello spazio (planirovka) e sul piano delle azioni o «gioco scenico» (igrà) che i personaggi dovranno eseguirvi. Naturalmente la messa in scena prevede altre regole, dette e non dette, che chiariremo tra poco, ma intanto fermiamoci un attimo su questa sua primissima configurazione, che è già meritevole dì qualche commento. Osserveremo in primo luogo lo statuto perfettamente artificiale

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della scena che gli studenti di Ejzenstejn dovranno costruire: come si è già detto, questo spazio non ha niente in comune con un set cinemato * grafico - il che, del resto, è espressamente previsto dal carattere propedeutico del corso -, inoltre esso stabilisce con lo spazio di una scena teatrale un rapporto puramente analogico e di comodo. Gli studenti sono invitati a procedere «come se» si trattasse di allestire uno spettacolo teatrale o, meglio, una certa fase istruttoria di uno spettacolo teatrale limitata alla composizione e al gioco scenico. Ma, in realtà, lo spazio di questa messa in scena è un costrutto immaginario, un programma che si espande e si articola secondo regole di trasformazio­ ne (come il lettore vedrà subito, la planirovka elaborata da.Ejzenstejn sarebbe assai felicemente rappresentabile, nel suo progressivo venire alla forma, sul monitor di un computer), e il senso delle sue limitazioni ha un valore eminentemente didattico: imparare a pensare e a trattare la composizione dello spazio e il gioco scenico dell’attore come veicoli specifici di senso, come entità capaci di per sé di produrre e formare senso o, all’occorrenza (ed è il caso della lezione sul ritorno del soldato), di caricarsi integralmente di senso, nel rispetto rigorosissimo di un’assoluta economia dei mezzi espressivi e di un’“ isotopia” pervasiva e totalizzante: nessuna determinazione spaziale e nessun gesto o spostamento più di quelli strettamente necessari. Lo spazio che Ejzenstejn e i suoi allievi si mettono a modulare, dunque, è un caso limite di semiotizzazione di una zona dello spazio scenico; ma - ecco la nostra seconda osservazione di carattere prelimi­ nare - che cosa si dovrà “formare” in questo spazio, qual è il “senso” di cui la scena dovrà integralmente caricarsi? Si può supporre, forse, che la «riga di sceneggiatura» fornita agli studenti abbia già un senso e che si tratti solo di manifestarlo? Evidentemente no, perché di soluzioni spaziali quella «riga» ne può generare infinite. Allora sarà necessario procedere a un’operazione preventiva che consiste nell’assumere quella riga in un orizzonte unitario di senso. Se vogliamo tradurla in una certa composizione spaziale attraversata e articolata da una certa rete di rapporti dinamici significativi, dobbiamo prima averla «sentita» secon­ do un’interna unità capace di indirizzare o, meglio ancora, di generare la ricerca e la scelta di soluzioni espressive effettivamente adeguate. Ma che significa che bisogna «sentire» l’unità di un certo frammen­ to testuale? Che statuto ha questo curioso «sentimento» che pretende di precedere e indirizzare la rappresentazione e perfino la medesima rappresentabilità di qualcosa? E che statuto ha 1’“ unità” in cui deve raccogliersi? Che genere di rapporto c’è tra questa “unità” (che è

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Punita di un «sentire», un fenomeno estetico, dunque) e il fatto che essa è ritenuta responsabile della produzione di un costrutto spaziale e dinamico (cioè di qualcosa che è del tutto eterogeneo rispetto all’inizia­ le unità di senso di cui pure si afferma, e con evidenti ragioni, il carattere condizionante)? E infine, che genere di “unità” si potrà mai «sentire» in un frammento testuale come quello proposto, così inten­ zionalmente irrelato, così perentoriamente stereotipo? È chiaro che il maestro qui chiede ai suoi allievi uno sforzo “sperimentale” ulteriore: egli chiede loro di lavorare non solo (come bisognerà pur fare, anzi: come si deve fare) sul senso della scena del ritorno del soldato - che può essere questo o quello, anzi: questo e quello e ancora un altro (le varianti elaborate infatti saranno tre) -, bensì anche sul fatto stesso per cui l’assumere qualcosa in un orizzonte unitario di senso coincide già con la mobilitazione implicita di un complesso ed eterogeneo arsenale di regole e procedure generative “mirate” che si tratta solo di “mettere in produzione” e dominare consapevolmente. La scena dunque si apre sullo spazio vuoto che dovrà pian piano configurarsi e significare, animarsi e comunicare le emozioni e i sensi di volta in volta stabiliti, ma nella più ampia scena che la contiene (l’aula del gik, questo libro) il gioco che ora ha inizio è il gioco della multiforme produttività semiotica del sensato e delle sue regole di esecuzione, il gioco della “creatività regolate? così come Ejzenstejn la intendeva e come riteneva di poterla insegnare. Insomma, per dirla con una formula, Il ritorno del soldato non è (solo) una lezione di cinema o di teatro, è (in primo luogo) una lezione sulle regole dei processi costruttivi del pensiero e sull’eterogeneità della loro natura e dei loro oggetti (che va dall’iniziale «sentimento» estetico dell’unità di un senso, via via fino all’organizzazione significante della forma che ci fa capire o vedere che cosa davvero avevamo sentito). Su queste regole di transito dal senso alla forma e di connessione del senso e della forma - regole che ci sembrano essenzialmente quattro - ci soffermeremo ora in modo dettagliato. 3. La prima regola, che abbiamo appena incontrato, potremmo chiamarla la “regola della precedenza del senso”. Su di essa Ejzenstejn insiste con assoluta costanza, mettendo in campo un’intera batteria di concetti (non sempre felici, non sempre risolutivi) e numerosissime esemplificazioni. Questo “senso” preliminare, in realtà, va inteso nella sua accezione più letterale e meno tecnica: è l’unità di un sentire

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(oscuscenie] nella quale “qualcosa” - diciamo, una “materia tematica” «un soldato ritorna dal fronte... ecc.» - deve potersi raccogliere nel momento in cui ci prepariamo a manifestarla (a convertirla in discorso, a metterla in scena, insomma a “formarla”). Ovviamente il processo non è unidirezionale (e la stessa nozione di “precedenza”, che pure bisogna usare, è in qualche modo falsante), perché tra il senso e la sua esecuzione esiste un evidente rapporto di retroazione o messa a punto reciproca. Diremo allora che Punita del senso è pensata da Ejzenstejn come una sorta di necessaria anticipazione di rappresentabilità: essa apre una scena virtuale, indica le linee di una possibile elaborazione,, mette in stato di preallarme certi dispositivi semantici e ne sopisce altri, insomma predispóne un certo assetto di regolarità costruttive che! segnalano semplicemente che i lavori possono cominciare. » La singolare funzione di questa prima regola è dunque chiara: essa è un principio estetico che serve per la convocazione di regole ulteriori (vedremo tra poco quali); ma, a sua volta, nella sua originaria funzione unificante, essa non si può far dipendere da altre regole. Se così fosse e questo punto è essenziale e ricco di conseguenze imprevedibili - se, cioè, l’unità del senso dipendesse a sua volta da un principio ulteriore da ricercare e da definire, noi entreremmo in uno di quei tipici regressi all’infinito che in genere si insabbiano nell’ipostasi di un fondamento ultimo: il vissuto, l’intuizione, la coscienza di classe, l’inconscio, lo spirito oggettivo, la dialettica della natura o quel che sia. La posizione dì Ejzenstejn è qui nettissima, a dispetto delle pur numerose dichiara­ zioni di ortodossia materialista - e per quanto in qualche misura l’idea di un fondamento «di classe» del «sentire» non sia estranea all’orizzon­ te del pensiero ejzenstejniano, così vasto e bizzarro, così attrezzato e ironico da saper accogliere e rielaborare davvero di tutto, basti pensare al suo uso della «dialettica». La posizione di Ejzenstejn è nettissima in quanto è sostenuta, per così dire, da un’opzione epistemologica: l’unità del senso va pensata come un fatto originario e non ulteriormente risalibile: se noi rappresentiamo (se parliamo, se mettiamo in scena ecc.), ciò accade in quanto un atto preliminare e originario di unificazione del senso ha già messo in campo le regole necessarie all’operazione. Quest’unità, come tale, non tollera di essere ulterior­ mente qualificata per la semplice ragione che essa non è altro che l’apertura di uno spazio simbolico che ora si tratterà di organizzare; è vero invece (ma lo è proprio in virtù di questa radicale originarietà) che l’interrogazione potrà, anzi dovrà ora vertere sullo spazio che si è aperto e sulle regole che vi sono state convocate, perché noi ora eia

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siamo in un certo orizzonte definito di rappresentabilità e l’unità del senso, che è scattata, può e deve lasciarsi cogliere nel suo necessario specificarsi. Ciò significa, in altri termini, che questa interrogazione ci ha già di fatto collocati nell’orizzonte della seconda regola la quale, dunque (ma lo vedremo meglio tra poco), non è altro che la prima regola osservata sotto un profilo funzionale. Ci si può chiedere, e anzi è bene farlo per evitare equivoci grossolani, che genere di utile teorico Ejzenstejn contasse di ricavare da questa sua insistenza quasi ossessiva sul carattere originario - non risalibile, non qualificabile - del «sentimento» unitario con cui va colta la materia tematica da mettere in scena. Diciamo allora che si tratta proprio di un utile teorico a forte tasso di impegno didattico: Ejzenstejn non intende difendere un’estetica (almeno in questa sede), intende mostrare che la produttività di un approccio responsabile ai problemi della forma non può fare a meno di tematizzare nella sua radicalità la questione del senso e della sua peculiare, intrattabile priorità. Quando questo non accade, il lavoro creativo si appiattisce su una teoria più o meno implicita o la subisce (come succede al regista mestierante o all’intuitivo o al servile portavoce delle istanze di senso ufficiali), oppure introduce un “fondamento” - l’origine del senso - che si risolve di regola nel disordine o nella negazione della forma (e questo è il caso del cosiddetto «realismo», che in questo libro incassa colpi duri e ben piazzati nella sua variante teatrale più illustre, la scuola di Stanislavskij con la sua teoria che colloca l’origine dell’unità del senso nel celebre «perezivanie», cioè in un “vissuto"), o, infine, scarica l’intero compito sulla forma che viene in tal modo feticizzata o resa fortuita o ingovernabile (come nel caso del cosiddetto «costruttivismo», o meglio, della “maniera” costruttivista che fa qui da pendant alla “maniera” stanislavskijana). 4. La regola della “precedenza del senso”, si è detto, è un principio che introduce alla rappresentabilità; ma, sotto un profilo funzionale, si è aggiunto, essa è già in opera come un principio di specificazione e cioè come una seconda regola, che chiameremo “regola del senso orientato”. In altri termini, se la prima regola ha una natura che non abbiamo esitato a definire “estetica”, la natura della seconda è già pienamente “semiotica”. Una volta chiarito che la «riga di sceneggiatu­ ra» comincia a diventare rappresentabile solo in forza della sua assunzione in un orizzonte unitario di senso, Ejzenstejn chiede ai suoi allievi di cominciare a «sentire» la materia tematica del «compito» in

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modo «altamente melodrammatico». A questo punto la composizione dello spazio e la costruzione del gioco scenico possono effettivamente avere inizio, non senza un’ultima istruzione, però, perché la scena che ora si comincerà ad elaborare dovrà servire, successivamente, per la produzione di altre due varianti: una variante «patetica» e una variante «comica» (le quali, dunque, non saranno più generate direttamente dalla «riga di sceneggiatura» ma saranno configurate, per trasformazio­ ne, a partire da una soluzione scenica già compiutamente organizzata). La scena comincia a prendere forma: c’è una donna, c’è un bambino e c’è un dispositivo semiotico già innescato in attesa di produrre figure. Interviene a questo punto la terza regola, che ha carattere restrittivo e che noi chiameremo “regola della drammaturgia del significante”. Abbiamo già in parte anticipato di che si tratta: l’elaborazione melodrammatica del tema proposto dovrà investire esclusivamente un certo specifico ordine del piano dell’espressione. Il senso orientato (l’unità melodrammatica della «riga di sceneggiatura») dovrà essere interamente articolato sul piano della composizione dello spazio e della modulazione dei rapporti tra i personaggi in azione. Lasciamo volentieri al lettore il piacere di scoprire man mano la straordinaria quantità di figure che questa regola è capace di produrre, ai livelli più diversi, tra le mani del regista che la manovra; noi ci limiteremo qui ad esemplificarla nel suo primo e più importante innesto sulla materia del senso. Ma prima occorre aggiungere un’im­ portante precisazione, perché questa terza regola implica un’ulteriore restrizione - diciamo una norma applicativa - che è tipicamente ejzenstejniana: nessuna delle figure spaziali e dinamiche che essa genera dovrà avere natura simbolica o convenzionale. Tutto, cioè, dovrà svolgersi nel più assoluto rispetto di quella generale verosimiglianza di cui qualunque persona di buon senso è naturalmente competente e che in russo si chiama il byt\ il modo d’essere delle cose di tutti i giorni, il contegno indeterminabile e tuttavia riconoscibilissimo della quotidia­ nità. Torniamo alla scena: una donna, un bambino. Che genere di rapporto li unisce? Il rapporto di una madre con un figlio illegittimo. Rapporto di unione e insieme di disunione, di appartenenza e insieme di estraneità. C’è una figura spaziale per manifestare questo rapporto? Sì, suggerisce Ejzenstejn, ed è innanzitutto una figura dello sguardo: la madre e il bambino andranno ad occupare, rispettivamente, i due confini estremi di un unico campo visivo. Un unico sguardo, cioè, effettuerà l’operazione compositiva che consiste nel tenere i due uniti

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(perché, appunto, lo sguardo è uno solo) e insieme separati (perché i due occupano i confini estremi dello sguardo: da un lato la donna, dall’altro il bambino, che si trova in una cesta e dunque non è neppure propriamente “visibile”, ma si fa presente con un vagito). Ciò che risulta da questo percorso è un costrutto che ha già perduto la spontanea prossimità di un rapporto naturale (una madre-con-bambino) per ricostituirla a un livello diverso, nel quale lo spazio (una donna e un bambino) si segnala come una presenza significante, e precisamen­ te come un operatore che pone una domanda sulla propria funzione questo spazio disgiunge o congiunge? - e la lascia intenzionalmente indeterminata. Si osservi come il processo vada dal senso alla manifesrazione e poi di nuovo al senso (che se ne avvantaggia quanto a determinatezza e a produttività) e quindi di nuovo alla manifestazione, che a questo punto può diventare, come è richiesto dal «compito», pervasiva e sistematica: ora noi abbiamo una «chiave stilistica», come la chiama Ejzenstejn, che sarà utilizzata per generare l’organizzazione progressiva degli elementi spaziali e dinamici (la forma della stanza, la collocazione dei mobili, la mappa dei percorsi, la trama dei gesti e degli sguardi, la scansione dei tempi ecc.) di modo che ciascuno di essi replichi e consolidi il senso di una duplicità, di un’ambivalenza, di un’indecisione, di un’inquietante compresenza di familiarità e di estraneità. Così, quando si tratterà di “presentare” il bambino, di toglierlo dalla cesta per esporlo direttamente allo sguardo, l’azione si articolerà come un processo che è al tempo stesso di rivelamento e di occultamen­ to; come un far vedere che è anche un nascondere. La donna solleva il bambino dal cesto e lo depone sul letto sul quale fa scorrere, ma non fino in fondo, una tenda che di nuovo (in senso forte: a un nuovo livello) lo sottrae alla vista. L’atto con cui è stato presentato il bambino rispetta quindi il modello dell’ambivalenza; per meglio dire: è stato generato, è stato messo in forma come una certa trasformazione del modello dell’ambivalenza. Questa presentazione corrisponde a un parziale occultamento: è la presentazione di qualcosa che deve rimane­ re in parte nascosto. Ma questa presentazione, proprio per il modo in cui è stata effettuata, corrisponde anche a un rilancio strettamente drammaturgico, a una tipica condizione di suspense: all’arrivo del soldato, noi sappiamo che in scena c’è qualcosa che egli non vede. Da questo momento in poi il principio costruttivo della scena, inizialmente spaziale, poi dinamico, può convertirsi in un gioco complesso che proietta sulla trama dei rapporti spaziali tra i due protagonisti il disegno

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incongruente di due diversi regimi dello sguardo. In forza della seconda regola di produzione della messa in scena, noi sappiamo che questo gioco è ora destinato a muovere inesorabilmente verso una «catastrofe» conclusiva, di cui siamo autorizzati ad anticipare, in forza della terza regola, la specifica natura drammaturgica: sarà una «catastrofe» dell’or­ dine del significante. 5. Esiste, però, un modo per evitarla, questa catastrofe, ed è precisamente il ricorso alla quarta regola che dunque merita, per lo meno, l’omaggio di un paragrafo a parte. Si tratta della regola di gran lunga più amata da Ejzenstejn anche in virtù del fatto che il suo esito estremo accenna a una sorta di ritorno sulla prima, un ritorno all’impossibile “origine”, si direbbe (secondo la figura, parimenti amata, della spirale): ma di quest’ultimo punto parleremo alla fine (com’è giusto), e per il momento definiremo questa quarta regola come la “regola della conversione o della trasformazione”. È evidente che questa regola specifica la terza; al tempo stesso, però, il suo campo di applicazione si apre su un orizzonte nuovo e assai più ampio. Essa infatti rimanda allo statuto medesimo del “rappresentare” - almeno come lo intendeva Ejzenstejn - che è sempre preso nel movimento di un incessante «uscire fuori di sé» nel desiderio di combaciare punto per punto con il suo senso (cioè con il “rappresentato”) il quale, ovviamen­ te, non fa che dislocarsi altrove. La quarta regola è una specificazione della terza perché ci mostra la tendenza di una drammaturgia del significante ad articolarsi per conversioni e trasformazioni di livelli o piani dell’espressione: nel nostro caso, come in parte si è già detto e come si vedrà dettagliatamen­ te seguendo Ejzenstejn nella sua lezione, le trasformazioni coinvolgono lo spazio, la collocazione degli oggetti, la postura dei corpi, il gesto, la struttura dell’azione scenica (cioè i «percorsi» e le posizioni reciproche dei personaggi) e la mimica dei volti. Ma si tratta, come sappiamo, di una limitazione convenuta all’inizio che può essere revocata in qualun­ que momento (e infatti non mancano incursioni nel campo del colore e della luce). In questo gioco di trasformazioni e di passaggi, Ejzenstejn dà libero corso all’esuberanza del suo “strutturalismo dinamico” dilagando, com’è suo costume, nei più disparati territori della vita delle forme e delle discipline che se ne occupano. Qui richiameremo l’attenzione, in particolare, sulla finezza delle osservazioni di carattere linguistico di cui la regola della conversione fa un uso quasi sistematico. Accade spesso,

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infatti, che in soccorso a qualche difficoltà insorta nella ricerca di un gesto o di un movimento del corpo o di un effetto mimico intervenga, sollecitata dal maestro, l’analisi della definizione verbale che l’uso comune del linguaggio suggerirebbe a quel punto per descrivere o commentare la situazione. E la ricerca, dopo un vaglio meticoloso, approda di colpo alla soluzione scoprendo, nella definizione più appropriata, lo schema o, come la chiama Ejzenstejn, ^«iscrizione verbale» {slovesnaja propis’) della figura richiesta: ci si accorge, cioè, che le definizioni verbali - in particolare, ovviamente, quelle «figurate», ma non solo quelle - portano spesso iscritto in sé un «programma di esecuzione» {programma dejstvifi che può essere proiettato vantaggio­ samente su una materia semiotica diversa. Alla lettera: può essere messo in scena. Se il linguaggio soccorre, dunque, ciò si deve al fatto che una stessa regola formativa si dimostra responsabile, almeno in certe occasioni (ma sono numerose), di un’«arte della messa in scena» che produce, a seconda dei casi, figure verbali e figure gestuali o motorie o mimiche. Non c’è dubbio che in buona parte la creatività linguistica corrisponda a un processo di questo tipo (cioè all’adozione di una regola semantica “profonda” per riplasmare significazioni già stabilite), ma, al di là della pertinenza teorica delle considerazioni linguistiche di Ejzenstejn, ciò che si fa apprezzare, nei numerosi excursus dedicati al problema, è la singolare miscela propulsiva che si costituisce grazie a questa calibrata inserzione della verbalità nella strutturazione della scena. La regola della conversione, in altri termini, si nutre volentieri di linguaggio: approda continuamente all’esplicitezza della designazione verbale, ne ricava uno schema e toma ad immergersi nella densità dei materiali espressivi che si vanno organizzando. Ma, come si è detto, la regola della conversione non è solo un modo di specificare la drammaturgia del significante, è anche l’apertura di un orizzonte nuovo. H passaggio dall’uno all’altro piano dell’espressione, infatti, può arrivare a configurarsi come una trasformazione di genere, cioè può interessare l’interpretazione dell’àcero testo (nel nostro caso della «riga di sceneggiatura») che, in tal modo, diventa un altro testo e dunque si raccoglie nell’unità di un altro senso. H fatto è rilevante sotto molti profili, ma lo è innanzitutto per questa ragione: che ora la regola che abbiamo definito “del senso orientato” dimostra fino in fondo il suo debito nei confronti della manifestazione in cui prende forma. Tant’è vero che, una volta completata la variante «melodrammatica», diventa possibile un esperimento di questo tipo (che coincide, nella sostanza, col criterio con cui Ejzenstejn conduce la lezione da questo

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momento in poi): si provi a forzare in un solo punto la generale «legalità» costruttiva della scena e si vedrà che l’intero sistema drammaturgico ne uscirà destrutturato (cioè ristrutturabile), col risulta­ to che anche il senso globale che lo reggeva sarà ora già diventato un altro senso. Ciò accade effettivamente nella messa in scena di una variante «patetica» e di una variante «comica», le quali non vengono generate dalla «riga di sceneggiatura» ma vengono ottenute, per trasformazione, a partire dalla scena già messa in forma. Il lettore valuterà la congruenza e la persuasività di questo nuovo gioco di trasformazioni che porta la scena già formata ad «uscire fuori di sé» per diventare un’altra scena e raccogliersi in un altro senso (ed è ovvio che il movimento potrebbe riprodursi indefinitamente). Di certo, e per forza di cose, il tasso di inventività delle due scene “derivate” segna una certa caduta rispetto alla splendida tensione della prima. Prova ne sia, tra l’altro, il fatto che la presenza attiva degli interlocutori di Ejzenstejn si fa sempre più fievole, fino a scomparire del tutto nella discussione sulla variante comica che finisce per diventare un testo chiuso e un po’ magmatico (è chiaro che si tratta della sezione meno elaborata), quasi una schedatura di teorie e riflessioni sul comico, che stenta a configurare ima proposta originale - e quando la configura non convince fino in fondo -, e certo non sembra trarre alcun autentico vantaggio esplicativo dalla critica “d’ufficio” mossa a Bergson (Il riso) e a Freud (Il motto di spirito). Il che nulla toglie, peraltro, alla piena godibilità dell’esemplificazione ejzenstejniana che spazia, come sempre, tra i territori più lontani (da Aristotele a Mickey Mouse, per intenderci) e li mette in comunicazione con audaci operazioni di ingegneria strutturale. In ogni modo, convinca o meno il suo esito comico, la regola della conversione consente di evitare, come si diceva, la catastrofe conclusiva della prima variante e di ristrutturare il senso globale della scena. Fino a che punto si spinga questa ristrutturazione lo si può vedere da questo: che la stessa interpretazione letterale del sintagma «il ritorno del soldato» si modifica in modo da produrre un risvolto drammaturgico inatteso e tuttavia perfettamente legittimo: nella variante «patetica», infatti, il soldato, che ha abbandonato la moglie, ritorna da lei (e dal bambino ormai evidentemente accolto). L’ultima conversione, insom­ ma, ha investito il soldato stesso che, uscito di scena in preda alla furia e allo sdegno, torna sui suoi passi per riprendere con sé qualcosa che ha lasciato: ma il processo che si innesca al suo secondo ritorno (e che si

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costruisce nel rispetto delle regole che conosciamo) Io convincerà in breve che l’oggetto lasciato, l’oggetto da riprendere con sé, è costituito proprio dalla donna e dal bambino. Chi dubitasse delle virtù dialettiche che Ejzenstejn, qui più che in altri testi, annette alla regola della conversione o in generale alla forma patetica (e noi dobbiamo confessare di appartenere alla cerchia) verrebbe a questo punto smentito dallo spettacolo di una perfetta «negazione della negazione» (il soldato torna, se ne va, ritorna) con annesso ripristino, a un livello più alto, dell’unità già infranta. Non l’unità della coppia, ma l’unità dei tre: ciò che nella prima variante appariva (e si sottraeva) sotto il segno di un rapporto ambivalente familiare ed estraneo al tempo stesso -, è ora a quanto pare integrato nella più alta unità di un assetto che non è più solo familiare ma è già comunitario. E vi si legga, come vuole Ejzenstejn, un salto dal biologico al sociale, e la capacità di accogliere il diverso, e la vittoria della cultura e della ragione... Dunque la seconda scena non sarebbe una trasformazione, ma propriamente uno sviluppo della prima, un più capiente contenitore? E al gik andrebbe in scena, tra le altre cose, anche una nobilissima lezione di morale laica a fondamento dialettico? O, se si preferisce, un elogio dell’istanza “adulta” che “ritorna” e mette ordine e concilia proprio là dove un’istanza più rudimentale e pulsionale aveva scompa­ ginato e distrutto? O, ancora, la rappresentazione di un universo di rapporti sottratti all’arbitrio e alla violenza del più forte (del “padre”, cioè, in quanto incarnazione di una legge onnipotente)? Come negarlo? Che la lezione sul ritorno del soldato contenga anche tutto questo materiale, che queste letture non siano estranee alla rappresentabilità del «compito» è fuor di dubbio (e forse la prima regola diceva proprio questo). Semmai bisognerebbe chiedersi con quanta ironia Ejzenstejn fìnga di congelare il suo pensiero nello schema di una stereotipa parabola edificante, e fino a che punto, invece, la scena non faccia balenare la filigrana di un gioco di identificazioni e proiezioni certo divertito e leggero ma anche sufficientemente carico di investimenti da servirsi dello stereotipo per distanziarli e difendersene. Che dire, per esempio, di questo bambino intorno a cui ruota l’intera azione e che sempre se ne sottrae, è sempre altrove o “fuori posto”? Prima in una cesta - luogo circolare che si guadagna un lungo excursus sulle figure spaziali dell’esclusione - poi dietro una tenda, infine “riconosciuto”, sì, ma in virtù di una trasformazione che non lo riguarda neanche un po’ (è il soldato che decide di convertirsi in

Introduzione

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padre). E che dire, invece, della sua autentica natura ambivalente (familiare ed estranea) e della figura del “bastardo” che la sostanzia? Il senso di una nascita illegittima, di una paternità incerta, non attraversa forse in mille modi Finterà storia di Ejzenstejn? Figlio della rivoluzione o del pensiero «borghese»? Della dialettica di Hegel (a cui L’arte della messa in scena dedica niente meno che l’incipit) o di quella di Lenin? Del «formalista» Mejerchol’d o del «realista» Stanislavskij? Figlio illegittimo di Hollywood (il film messicano gli è stato appena tolto; i progetti americani tutti appena falliti) o di Mosca (nemmeno due anni e gli sarà tolto 11 prato di Bezin)? Ci guarderemo bene dall’investigare oltre questa scena proiettiva, che andava tuttavia segnalata perché la sua presenza è indubbia, come lo è il desiderio di farsi riconoscere, almeno di tanto in tanto. Ma quante sono, in realtà, le scene che si intersecano, si sovrappon­ gono, si incapsulano l’una nell’altra e si generano l’una dall’altra nella lunga lezione dell’anno accademico 1933-34? Quante conversioni si operano secondo la quarta e più potente regola della messa in scena? 6. Abbiamo detto che la «catastrofe» conclusiva della variante melodrammatica si può evitare e abbiamo visto come e con quali conseguenze. Della «catastrofe» stessa, però, non abbiamo ancora parlato. Lo faremo adesso, avviandoci alle conclusioni. Torniamo alla scena: abbiamo lasciato la donna alle prese con una complessa operazione spaziale e dinamica di occultamento e di palesa­ mento. Abbiamo anticipato ciò che sta per accadere: giunge, inatteso, il soldato. Conversione e arricchimento del piano dell’espressione: il gioco si sposta su una elaboratissima e multiforme serie di manovre diversive che consistono nell’allontanare il soldato o il suo sguardo da ciò che non deve vedere. Il soldato sta al gioco (come potrebbe non starci?) e non vede ciò che non si deve vedere, non vede al punto tale che, perfino quando vede un segno inequivocabile della presenza di un bambino - è una camiciola che la donna stava cucendo - lo interpreta come il segno di un’assenza, come il segno di un desiderio: la moglie vuole un figlio. La costruzione melodrammatica ha qui raggiunto la sua soglia perché davvero la regola della conversione non potrebbe impegnarsi in modo più atroce nell’ordine del visibile. Ed eccolo, infatti, quel pianto leggero, quel vagito improvviso che da un pezzo non facevamo che aspettare (temere? desiderare?). Qualcosa che non si vedeva anche là dove era palese, si fa ora udire attraverso una manifestazione spazialmente intollerabile, una conversione catastrofica:

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Pietro Montani

l’irruzione di un elemento sonoro. In quella scena tutta costruita sullo spazio, sull’azione e sullo sguardo era presente fin dall’inizio, contenuta e incontenibile, una voce, anzi, la voce allo stato puro, la voce di chi non ha ancora linguaggio, la pura materia significante della voce: il pianto. La variante «melodrammatica» ha un valore paradigmatico, imo statuto esemplare che manca alle altre due (la «patetica» di cui abbiamo detto e la «comica» che in realtà non viene effettivamente elaborata e resta in sostanza priva di un autentico finale). Qui Ejzenstejn conduce fino in fondo il gioco delle quattro regole in modo pressoché perfetto. Si rifletta solo al rigore con cui viene effettuata, sul piano drammaturgi­ co, la conversione della figura del senso che permea l’intera messa in scena: la figura di una «presenza assente» (l’ossimoro è testuale), qualcosa di estraneo e impresentabile che tuttavia organizza, sottraendoglisi, il familiare e il presente. Il lavoro di messa in scena prodotto da Ejzenstejn e dai suoi allievi procede, per via di trasformazioni e conversioni, a investire di questo senso l’intero spazio scenico, i movimenti che vi si svolgono, gli sguardi che lo percorrono. Questo senso è, a tutti gli effetti, il senso articolato dalla sequenza scenica. Ma la sua correlazione con la scena denuncia anche un’altra e più inquietante condizione di appartenenza: fin dall’inizio questa scena silenziosa fatta di spazio, azione e sguardo, porta con sé qualcosa d’altro. La voce - la materia dolente della voce, il pianto - è lì, al suo posto, appartiene alla scena eppure è altrove, “fuori luogo”, incon­ gruente, perché ha a che fare con una dimensione estranea allo spazio, una dimensione sonora: questa dimensione è contenuta nella scena ma' è anche tale da dover irrompere in modo incontenibile, come una catastrofe dell’ordine del significante che corrisponde di per sé a una catastrofe dell’ordine drammaturgico. 1° sguardo diretto verso il punto Ar \ 8 a. La donna è riuscita a dominarsi e ha interrotto J b il flusso penoso dei pensieri: china la testa verso ■ il basso, distoglie gli occhi dalla direzione a, e fig. 54. anche lo «sguardo interiore» cambia direzione.

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Abbassare semplicemente la testa costituirebbe una «frattura» troppo caparbiamente perpendicolare del precedente flusso dei pensieri. Lo stesso sarebbe voltare la testa verso il lato c (ad angolo retto con la direzione a). Abbassare il capo indirizzando gli occhi verso il punto b risolve la condizione di interruzione di un indesiderato flusso di pensieri in una forma meno frammentaria, più morbida e più caratteri­ stica per lo stato della donna. Poi, dalla direzione b, lo sguardo si fa sempre più attivo, esplora gli angoli 1 e 2 fino ad avvicinarsi al 4 lungo la linea visiva più lunga possibile: 2 - 4. 1 - 2 è l’esecuzione di uno stato di «ritorno in sé». 2 - 4, è già uno stato cosciente. La protensione della mano con un piegamento attraverso il tavolo (ostacolo) è già un’azione cosciente (da eseguire con ritmo più rapido!). E, infine, dal punto 4, la donna avvicina lentamente a sé un oggetto, la camiciola da bambino. Lo spettatore è attratto dall’oggetto in virtù del ritmo, della lunghezza della traiettoria spaziale e dell’attenta elaborazione del «rifiuto», ma non sa ancora di che cosa si tratti. La donna lo dispiega lentamente: Esamina la camiciola con un sorriso triste che si muta poi in completa tristezza. Allunga di nuovo la mano e prende l’intero cucito. Si volta e si dirige verso gli scalini. L’atto di tendere la mano una seconda volta per prendere il cucito, per il momento, lo annoteremo come un Nachschlag, come l’esecuzione di un frammento di gioco scenico opposto al Vorscblag, ma identico quanto al ruolo. Di entrambi e del cosiddetto «doppio colpo» si dirà dettagliatamen­ te a suo tempo, quando incontreremo questo fenomeno in un punto più significativo. Per adesso «datemi credito» e convenite con il fatto che un’azione così recitata entra con maggior energia e chiarezza nella percezione della scena da parte dello spettatore. Ora, dopo una pausa abbastanza lunga, possiamo occuparci della scena dell’arrivo del soldato. In che modo può comparire una persona nel vano di una porta aperta?

Uno studente. Al centro della porta. - Soltanto! In realtà (per considerare solo le soluzioni estreme) può comparire altrettanto bene presso lo stipite destro o sinistro. Questo ingresso, cioè, si può far eseguire in tre punti del vano delia porta: a destra, a sinistra e al centro. Noi da dove lo faremo entrare?

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Uno studente. Da destra: infatti le sue gambe vengono viste anticipatamente nella finestra... - Veramente, questa possibilità di utilizzare il gioco scenico delle gambe l’avevamo scartata perché non ci sembrava auspicabile al momento dell’ingresso e molto adatta, invece, per quello dell’uscita. Lo faremo forse entrare da sinistra?

Uno studente. Al centro. Un simile modo di apparire è sempre inaspettato.

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- D’accordo. Quindi come nella Fig. 55. Ma sarà opportuno, per noi, questo tipo di apparizione al centro della porta, così, senza alcuna mediazio-

ne?

L’elemento della frontalità c’è, ma così com’è presentato nel disegno, pur con tutti i suoi pregi «frontali», appare troppo povero e debole. Con qualunfig. 55. que ritmo e passionalità lo si esegua, in nessun modo verrà percepito dinamicamente. L’attore non ha niente da cui prendere l’avvio. E, inoltre, perché la frontalità venga sentita come tale, dovrebbero esserci degli elementi interni che la contraddicono, un conflitto che le consenta di manifestarsi come tale. Francamente, questa entrata non ci soddisfa. Evidentemente, un’entrata così immediata risulterà «indistinta». Tenere la donna e il soldato a una distanza che copre la metà della larghezza della porta è un procedimento altrettanto «indistinto»! Si vorrebbe avere il soldato sulla destra. Ma collocandolo a destra finiamo per sbilanciare la messa in scena. Perdiamo quella simmetria, quella «centralità», che si vorrebbero ottenere in un punto tanto significativo. Dunque, utilizzando il lato destro della porta si dovrebbe collocare il soldato anche nel lato sinistro. E, insieme, si vorrebbe utilizzare in qualche modo il centro...

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Uno studente. A sinistra non si può: lì siede la donna. - Ecco, ora noi abbiamo formulato un’intera serie di desideri; e per

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di più tutti incompatibili: la destra contraddice la sinistra, e la sinistra e la destra contrastano il «centro». I nostri desideri sembrano proprio inconciliabili.

Studente. Proprio così. - Eppure, questa incompatibilità dei contrari ha luogo solo nella... statica. Il processo dinamico invece, come sappiamo, include in sé le contraddizioni: meglio ancora, la dinamica nasce soltanto dall’intera * zione dei contrari. E così, vediamo che il nostro movimento - che abbiamo registrato emozionalmente come «relativamente indistinto» - è un movimento tipicamente statico. A parte lo spostamento spaziale, esso lo è non solo per la sua estensione assoluta (condizionata dalla dimensione della piattaforma scenica), ma anche per la caratteristica interna del processo stesso della sua generazione. Proprio da qui, naturalmente, deriva il senso di staticità: la percezione non è legata ad alcun processo dinamico della sua formazio­ ne, autodeterminazione ecc. Che fare, quindi? Naturalmente, in questo caso, come spesso in casi simili, si può ricercare la soluzione dinamica in un’altra dimensione: ricordiamo che quando non riuscivamo a organizzare la messa in scena in orizzontale ci siamo rivolti alla verticale ecc. Certo, qui potremmo ricorrere a una dimensione «contigua», per esempio al suono. Il rumore di una spada o degli speroni, il calpestio degli stivali, potrebbero essere percepiti in questo modo. Proprio così, per esempio, Mejerchol’d risolve l’uscita di Dobcinskij nel secondo atto del Revisore: la didascalia gogoliana secondo la quale Dobcinskij deve cadere nella stanza, è risolta facendolo scorrere lungo la scala, in modo quasi frontale, in un gran frastuono di stoviglie e di piatti, ed estendendo il diapason della recitazione oltre i limiti della piattaforma scenica tramite l’apertura, sul cammino di Dobcinskij, di una cantina, dove, profondamente al di sotto della scena, va a concludersi questa fase di ciò che, se volete, non è più una mise-en-scène ma... una mise-hors-scène, un portare la scena oltre i suoi stessi confini. Nelle nostre condizioni, questa soluzione eccentrica della dinamica dell’entrata sarebbe, naturalmente poco adatta. Tenteremo pertanto di risolverla in modo puramente spaziale, sfruttando tutte le possibilità della dinamica. Tenteremo di trasformare gli elementi di queste contraddizioni apparentemente irriducibili in altrettanti elementi costi­

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tutivi - a parità di diritto e senza sacrificarne nessuno - della organizzazione dinamica dell’ingresso del soldato. In sostanza, il senso che emerge dall’elenco degli elementi contra­ stanti è quello della necessità di un «processo di rifiuti reciproci» tra le singole componenti del movimento; un processo che sostituisca quella amorfa «unità», che figurava nella nostra entrata statica. Formuliamo il compito e osserviamo l’articolazione graduale del suo sviluppo. Partiamo dal requisito finale, che è del tutto chiaro: verso la fine dell’intero percorso il soldato dovrà trovarsi proprio al centro della porta. E adesso cominciamo il «conto alla rovescia». Se alla fine del percorso il soldato si troverà al centro, è ovvio che non dovrà trovatasi prima: quindi, si troverà a destra o a sinistra. Ma a sinistra siede la donna: resta il lato destro. Ma, per capitare a destra, dovrà essersi trovato fino ad allora a sinistra. E a sinistra siede lei. Il lato sinistro, però, non si riduce solo al piano del vano della porta, dove è seduta la donna: il lato sinistro si estende per tutta la profondità della piattafor­ ma e oltre, in alto, lungo la scala. Ora, se il soldato si verrà a trovare a sinistra, prima si sarà ineluttabilmente trovato - benché sembri ridicolo chiederlo - dove?

Uno studente. A destra. - E prima ancora? Studente. K sinistra.

- Ecc., ecc., ecc. È molto divertente. Ma non allarmatevi. La soluzione estrema è infatti il «perpetuum mobile», e ima soluzione estrema è sempre divertente. Vediamo piuttosto che cosa abbiamo ottenuto nella Fig. 56. Oppure, dopo aver estrapolato la messa in scena dalla sua situazio­ ne, otteniamo la «formula del percorso» che si vede nella Fig. 57. Che cosa vediamo in questa linea? Possiede caratteristiche di entrata «centrale» e di direzionalità frontale? Sicuro: l’equidistanza dei punti 1, 2,3,4,5,6 rispetto a una corda-asse centrale, perfettamente reale, ce ne offre una percezione del tutto concreta e dinamica {a~b}. Gli «scarti» 6-5,5-4, 4-3, 3-2, 2-1 non vengono sentiti, in sostanza, come segmenti isolati; essi danno il senso di un’unica e comune «penetrazione»

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dinamica dell’intero tragitto lungo la linea dell’asse (a-b) che li unisce. Abbiamo qui lo stesso fenomeno della traiettoria di un proiettile: il proiettile procede dritto proprio perché si muove a mo’ di vite, cioè gira attorno al h proprio asse di volo. Esiste a tal fine nella canna una filettatura che imprime al proiettile 0 il movimento a vite che conserverà durante il

a FIG. 56.

FIG. 57.

volo. La vite è una spirale tridimensionale che ruota attorno a un asse. La Fig. 56 ci mostra «la vite» del percorso del soldato nelle condizioni di una superfìcie piana. È proprio questa la forma della messa in scena che ci farà sentire meglio la linearità, come un «colpo di pistola», dell’ingresso dell’uomo. Se durante la traiettoria del proiettile la linearità è espressa dalla «corda» dinamica dell’asse di volo, quando il proiettile sta per raggiungere il bersaglio quest’asse si raccoglie in un punto, e questo punto è già statico, «reale», immobile. Anche l’asse del nostro percorso mette capo in un punto reale, statico, immobile, il centro della porta, che assomma dinamicamente in sé tutto il tragitto e le peripezie dell’ingresso del soldato. Così tutte le condizioni irriducibili, formulate all’inizio, si sono dimostrate perfetta­ mente conciliabili. Ma la caratteristica del nostro tragitto ci dà qualcosa di più: ha ampliato il diapason spaziale dello spostamento in quanto tale. Effetti­ vamente, al posto di un breve percorso lungo la retta nm (Fig. 58), abbiamo una somma di percorsi, che lo supera di molte volte {nd+dc+cb+ba+...). È necessario tenere a mente questa ingegnosa estensione del diapason degli spostamenti spaziali e il metodo con cui la si ottiene. È una necessità che si incontra spesso.

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FIG. 59.

Inoltre: l’esempio può fungere da nuovo modello di conversione di ima struttura dinamica in uno stato di immobilità. L’avevamo già visto nel caso di un centro dinamico che si converte in un centro statico e fìsso. Qui abbiamo la stessa cosa: il passaggio di una direttrice dinamica in un punto fìsso. Non ci resta ora che ricondurre a condizioni normali lo zigzag della soluzione estrema che proseguirebbe «all’infinito». In effetti, esso si può scomporre, in modo perfettamente organico, in una serie di pas­ saggi attraverso il pianerottolo e lungo la scala, ciascuno dei quali costi­ tuisce una singola fase di un unico processo di avvicinamento (Fig. 59). In tal modo, nella costruzione reale conserviamo solo gli elementi che ci servono senza cadere nel convenzionalismo. Un solo passaggio in meno e perderemmo il senso della nostra «vite» grafica; un solo passaggio in più, e otterremmo una contredance convenzionale. Inoltre, il rischio che questo transito venga sentito come qualcosa di meccanicamente geometrico si elimina grazie al fatto che esso si articola in due fasi risolte come due diverse variazioni sullo stesso tema: un tragitto (b-e) su una superfìcie piana, e l’altro (a-b) lungo i gradini della scala. L’unità dinamica che deriva dal contrasto delle singole direziona­ lità opposte del percorso coinvolge anche la soluzione dello spostamen­ to secondo diversi indici di qualità: in verticale (ab) e in orizzontale (bc). Resta da risolvere il problema del ritmo: un simile zigzag è caratteristico di un’entrata di corsa o di un ingresso lento? Uno studente. Di un’entrata di corsa. - Dando una tale valutazione, mi sembra che voi consideriate questo percorso già sotto il profilo della nostra particolare soluzione scenica, sebbene noi non abbiamo ancora accertato i requisiti di

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velocità cui dovrà conformarsi l’arrivo del marito. Questo stesso zigzag, in realtà, può essere eseguito secondo un percorso lento e, in modo altrettanto convincente, adottando qualsiasi altro tipo di movimento. «Di per sé», questo zigzag possiede tutti gli elementi di un’entrata di corsa gioiosa, ma può anche essere interpretato come la traccia di una persona mortalmente ferita, che si trascina da una parete all’altra, per poi crollare al centro della porta. L’effetto espressivo di una tale apparizione centrale dell’attore avrà ugualmente il valore di uno «sparo», anche se il ritmo dell’azione non è quello di un «proiettile». Così, mi pare che abbiamo ottenuto una specie di «formula algebrica» di un certo percorso che ci soddisfa dal punto di vista spaziale. Vediamo che essa abbraccia tutte le soluzioni che risultano sussumibili sotto una comune condizione spaziale e sotto la necessità di una presentazione «centrale» dell’attore. Perché la formula divenga una grandezza reale, bisogna porre al posto dei valori generali contrassegnati da lettere reali grandezze numeriche, relative a casi particolari. Così in algebra. Così pure nel nostro caso. Ma, nella sostituzione di grandezze generali con grandezze reali l’algebra non procede dai preconcetti eventualmente connessi alla formula, bensì la applica, basandosi su una situazione reale e su interrelazioni tra grandezze reali. «Un mercante vendette a un cliente dieci galloni di vino...». Oppure quei famosi problemi in cui si incontrano due persone, uscite da posti differenti ad un’ora diversa e che si muovono a diversa velocità. O ancora, i problemi sulle vasche e relativi tubi di carico e scarico (posto che si voglia risolvere questi esercizi algebricamente). Le formule saranno di volta in volta diverse, ma in ogni formula le grandezze reali e i risultati saranno differenti in dipendenza dal prezzo del grano, dal numero dei parenti del defunto o dall’altezza dell’albero maestro dalla quale si deduce... l’età del capitano. Pertanto, avvicinandoci alla risoluzione di questo percorso sul piano della sua esecuzione scenica effettiva bisogna soprattutto... dimenticarlo, e liberarsi quindi dell’idea imbarazzante di doverlo «nascondere». E sarà bene affrontare questa discussione muovendo da posizioni del tutto diverse e con un taglio completamente diverso; e poi osservare se le conclusioni coincideranno con le precedenti. Un percorso tutto lineare e frontale, se lo osserviamo dal punto di vista dei comportamenti umani, difficilmente sarà quello adatto. Potrà essere l’entrata di un re di fronte ai suoi sudditi; del sommo sacerdote

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di fronte ai fedeli; del giudice che si appresta a pronunciare la sentenza; o del boia che viene ad eseguirla. Ma non sarà mai Ventrata di un marito emozionato, che ha aspettato a lungo nelle trincee. Di un marito che non prevede niente di male. A proposito, a quali condizioni, in rapporto a quale compito scenico, decidereste di risolvere l’entrata del marito in modo frontale dall’inizio alla fine? Studenti', silenzio.

- Evidentemente, questa soluzione sarebbe appropriata se il conte­ nuto del suo ruolo riunisse tutte le funzioni prima enumerate o parte di esse, sia pure in una qualità diversa. Se egli, cioè, tornasse dal fronte con la prova del tradimento della moglie. Non solo, ma se anche lei ne fosse consapevole, o l’avesse supposto o indovinato. Lo vedremmo incedere, sovrano severo, verso la sua suddita che si muoverebbe verso di lui, supplicante. In risposta alla donna, egli pronuncerebbe una sentenza inappellabile. E... comincerebbe a svolgere il suo compito. II nostro soldato invece è equilibrato e tran­ quillo. Ma non proprio come un automa. Sarà del tutto plausibile che si diriga di corsa verso la porta per vedere dove si trova la moglie, in quale parte della stanza. Poi la scorgerà e a questo punto non correrà più, ma, «afferrato» da un sentimento di gioia, «non sembrandogli vero», si muoverà verso di lei. FIO. 6o. Ora osserviamo se queste due linee si incon­ trano e se il nostro grafico può servire per una simile esecuzione del gioco scenico (Fig. 60): una corsa veloce lungo la scala (a-b)\ una sosta accanto alla parete nel punto b\ uno sguardo sul «focolare domestico», come da lontano, in «piano generale» (qualcosa di analogo a ciò che proverebbe se vedesse la propria casa dalla collina vicina o dall’ultima curva della strada che gliene apre all’improvviso la vista); una pausa, e una corsa più veloce verso il punto c. Quindi una serie di sguardi. Una visione generale della stanza. Poi una visione analitica: per dettagli. Con una successione di «primi piani». Osservate che, nel cinema, una presentazione «ortodossa» del luogo dell’azione si fa proprio così: dal piano generale al piano medio fino ai

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primi piani dei singoli elementi che si trovano nel piano generale. Lui non la noterà subito. Guarderà dritto davanti a sé. Dirigerà lo sguardo a destra fino alla tenda. Che è tirata. Il suo sguardo non si poserà sulla donna, la quale, in uno stato di paura che va mutandosi in terrore, si addosserà alla parete. Nelle mani irrigidite tiene la camiciola. Lo sguardo dell’uomo cadrà ora a sinistra: lei non è nemmeno lì. Poi, con maggiore lentezza, con l’attenzione di chi cerca, comincerà a perlustrare l’intera stanza. Di solito, quando stiamo su un posto elevato, vediamo per ultimo proprio ciò che abbiamo sotto i piedi. Allo stesso modo, per esempio, si dice che i mariti vengono a sapere per ultimi del tradimento delle mogli. Esiste una certa affinità tematica tra questa situazione e... la nostra: qui il fenomeno è puramente casuale e non evidenzia radici profonde. Lo notiamo così, solo per inciso... Abbracciando via via con lo sguardo quanto gli sta intorno, l’uomo si imbatte infine nella moglie. A questo punto farà un passo verso di lei. La sua ombra si allunga sul pavimento, ma lui è in piena luce, nei raggi del sole. La donna è rannicchiata nell’ombra. È del tutto naturale un appello (da parte di lui). Quale sarà la reazione di lei a questo appello? Uno studente. Scapperà via da lui. - Giusto. E allora che cosa bisognerà eseguire prima di questa fuga? L’avvicinamento. Lei, pur non sollevandosi, è come se tendesse verso di lui dal suo punto y. Colta alla sprovvista, guarda dal basso, impaurita. L’uomo abbassa la testa. Comincia a sorridere. Di colpo la donna comprende per intero la sua condizione, si volta e come una freccia corre nell’ombra, tenendo celata la camiciola lungo il percorso. Mentre sviluppiamo l’azione, introduciamo delle correzioni alla soluzione iniziale. Lo schematismo angolare dei primi schizzi comincia già ad «arrotondarsi» plasticamente. Quale nuovo elemento è emerso ora, per esempio? La donna lancia un primo sguardo sul soldato, uno sguardo che precede la sua fuga nell’ombra. E un Vorschlag rispetto allo sguardo che ella lancerà dal proscenio verso l’interno - che sarebbe un po’ forzato se dovesse servire a individuare colui che entra -, e che risulta perfettamente persuasivo per il nostro obiettivo: osservare, convincersi, accertarsi. Tutto ciò in quella gamma di sentimenti confusi e contrad­ dittori dei quali abbiamo già detto. E in questo primo accenno di avvicinamento - di nuovo ima sorta di Vorschlag rispetto all’incontro,

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mancato, accanto alla tenda - il suo estatico tendersi verso il marito tornato si estende fino a diventare una rincorsa e improvvisamente si spezza: la donna si riprende, e a questo punto il passo dell’uomo procede dal centro della porta verso la moglie, rimasta accanto alla tendina. Lui si avvicina, sempre con lo stesso appello, con lo stesso sorriso. Nella donna tornata padrona di sé il marito vede solo quel che già si aspettava: il più completo sbigotti­ III mento per la felicità di vederlo. Il carattere della prima parte della corsa di lei non fa che rafforzare la sua interpretazione (Fig. 61, in e IV). Inoltre, questa «frammentazione» del gio­ co scenico determina definitivamente il luogo esatto e il carattere della posizione della donna: proprio al limite dello scalino, a sini­ FIG. 6l. stra e, ancor meglio, sul più basso dei due. Vediamo, infine, che al momento dell’arrivo del soldato la figura della donna non dovrà essere disposta di tre quarti rispetto al ritratto, perché se così fosse si troverebbe col viso rivolto verso la porta al momento dell’arrivo. Ciò si otterrà facilmente perché, avendola fatta rabbrividire già al primo rumore dei passi, prima ancora che l’uomo compaia sulla scala, le abbiamo consentito di scostarsi dalla porta verso la parete e di voltare la testa a sinistra (Fig. 61, i). La donna lentamente «inverte la posizione» girandosi verso il pubblico (Fig. 61, n). È annichilita, guarda nel vuoto. Il ruolo di questo «vuoto», cioè della completa fuoriuscita dal piano dell’ambiente reale, nel suo grado estremo, lo gioca... la platea: quel che c’è là di reale - il pubblico - si presuppone assente secondo la convenzione scenica. Badate che la nostra attrice si è posta di fronte allo spettatore non appena l’eroina, trasportata dall’azione fuori dalla normale postura quotidiana, s’è rannicchiata in preda allo sbalordimento e alla paura. Certo, questo punto si deve eseguire senza tener conto di quel signore che sta dormendo in prima fila, o di quel ragazzino biondastro che, appoggiato sui gomiti all’estremità del proscenio, mastica qualcosa e con una smorfia guarda annoiato la bocca aperta degli attori... Altrimenti si tratterebbe di un gioco scenico con lo spettatore. Anche in

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questo caso abbiamo a che fare con una «uscita dal piano» consueto, ma praticata diversamente, e cioè attraverso la rottura della «real­ tà» convenzionale che ha luogo sulla scena. È curioso che proprio al teatro che ha distrutto la convenzione scenica, cioè al «teatro non-convenzionale», sia toccata la storica designazione di teatro... della con­ venzione [37]. In questi due tipi di «uscita dal piano» vediamo due fasi, due gradazioni quantitative che inevitabilmente si ripartiscono in una contrapposizione qualitativa di generi. E così, a quanto pare, sia per quanto riguarda la soluzione spaziale, sia sotto l’aspetto del gioco scenico eseguito dagli attori, la nostra composizione dell’ingresso del soldato risulta parimenti opportuna e ammissibile. È un fatto casuale? O credete piuttosto che sia il frutto di un trucco, di un gioco di prestigio? Credo che non sia casuale. Quasi sempre, se si stabilisce un rapporto sufficientemente attento con ciò che si deve esprimere, vedrete che il giusto schema di esecuzione del gioco scenico tenderà regolarmente a coincidere con lo schema spaziale più opportuno in quelle date condizioni. A garantirlo sarà il fatto che al di sotto di entrambi agisce con la stessa intensità un medesimo sentimento del compito espressivo dram­ matico. Ed è questo sentimento, in ultima analisi, che mira ad essere concretamente messo in forma con ogni mezzo e modo. Sia i «calcoli» logici per la «geometria» dei percorsi, sia la descrizione emotiva degli stati d’animo del personaggio sono dettati in pari misura dallo stesso sentimento del contenuto fondamentale e in pari misura servono come mezzi per la sua più completa concretizza­ zione. Proprio così, appoggiandoci sull’ossatura geometrica della logica, noi troviamo la regolarità delle forme del movimento che meglio coincidono con i contorni di ciò che abbiamo «sentito». Che sia proprio questo, per tutti noi, il fondamento dell’atto creativo e il principio che orienta ogni nostro passo nella composizione, lo si vede se non altro dal fatto che la recitazione a zigzag dell’ingresso del soldato ha continuato ad aleggiare nelle nostre menti anche quando ci concentravamo solo sui «calcoli algebrici». Alla mia domanda sul ritmo, infatti, voi avete risposto immediatamente con una specifica caratterizzazione dell’esecuzione del gioco scenico. In una soluzione ben definita, ripeto, Io schema del gioco scenico e quello spaziale coincideranno sempre. Ma il processo di soluzione

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dovete condurlo da entrambi i lati simultaneamente, cosicché si correggano reciprocamente, non permettendo né all’uno né all’altro di prevalere. Sotto la colata lavica delle emozioni non si riuscirà più a introdurre, in un secondo tempo, l’ossatura di una forma severa; d’altra parte, lo scheletro puro e semplice non si rivestirà mai più di un sentimento vivo. La nostra iniziale collocazione del soldato presso lo stipite destro assume un altro significato molto importante. Questa comparsa, infatti, si prefiggeva un duplice scopo. Innanzitutto la centralità dell’apparizio­ ne: egli è al centro, è solo. In secondo luogo, l’elemento di confronto con il ritratto. Ma per indurre un confronto sono necessarie condizioni uguali per entrambi gli oggetti: la costruzione dev’essere «paritaria­ mente» simmetrica. Ora, l’apparire subito al centro della porta avrebbe escluso questo momento di simmetria. Comparendo all’inizio accanto allo stipite destro, il soldato si troverà proprio nelle condi­ zioni favorevoli per il confronto: rispetterà la costruzione simmetrica di cui abbiamo bisogno (Fig. 62). Anche il confronto che precede l’«illuminazione» del personaggio è un procedimento cor­ retto: è come una «verifica della personalità», fig. 62. una sorta di idea del soldato, o una didascalia su di lui, analoga a quelle del cinema muto. Inoltre i tre personaggi sono incatenati nella figura unitaria di un triangolo immobile. Elaborando il gioco scenico nei dettagli, concede­ remo al soldato, che abbraccia la stanza con lo sguardo, un momento di gioiosa immobilità. Al vertice inferiore si trova la moglie, ammutolita nel suo presentimento, con gli occhi sbarrati rivolti verso il pubblico. E, infine, il terzo personaggio: il ritratto immobile, soddisfatto di se stesso. Il confronto del ritratto con la figura sulla soglia, per la rigorosa equivalenza della loro collocazione, introduce necessariamente nella coscienza dello spettatore il senso di un tragico triangolo: la donna tra le due immagini del marito. E lungo il lato superiore del triangolo si articola distintamente il sentimento del tempo: dai passati giorni felici al tragico oggi. Siccome abbiamo sottolineato così spesso e così costantemente l’importanza del problema del sentimento' vorrei che aveste un’idea ben chiara di ciò che con questo si deve intendere. Infatti l’espressione «sentimento» {oscuscenié)' più di molte altre,

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implica la possibilità di qualsiasi interpretazione, incluse le più idealisti­ che. Qui la dobbiamo intendere come la intende il marxismo, applican­ do il termine alla conoscenza. L'oiùiscenie (sensazione) - scrive Lenin, - è un’immagine della materia in movimento. Noi non possiamo saper nulla né delle forme della sostanza né delle forme del movimento se non per mezzo delle nostre sensazioni; le sensazioni sono generate dall’azione della materia in movimento sui nostri organi di senso [38].

Nella sua essenza, l’attività creatrice (la produzione dell’oggetto artistico) è un particolare tipo di conoscenza, nel quale questo processo si svolge con la specifica particolarità per cui le tappe della conoscenza non rimangono fissate nella coscienza per mezzo di formule, ma si manifestano nella regolarità che presiede alla concatenazione delle forme dell’opera. In tal modo, come risultato vediamo qui delinearsi il prodotto della conoscenza non come una formula, ma come una specie di oggetto della forma, tutt’uno con il contenuto della conoscenza. Una volta un poeta ha detto: «La gente immagina che tutti i pensieri nascano nudi... Non capisce che io non posso pensare se non nella forma del racconto. Lo scultore non si sforza di trasportare nel marmo i suoi pensieri: egli pensa direttamente col marmo...». Pur apprezzando l’arguzia di queste parole di Wilde (citate da altri a proposito della sua personalità) e la loro rispondenza al processo del pensare e del conoscere tipici di questo poeta e giustamente indicati, bisogna tuttavia osservare che le cose possono svolgersi in questo modo unilaterale solo assumendo un atteggiamento superficiale nei confronti degli obiettivi coscienti che si propone il poeta-cittadino («Poeta puoi non essere, ma ad esser cittadino sei costretto» [39]). In un’opera orientata in modo consapevole, un tale sentimento è inseparabile dal rigorosissimo controllo ideologico che lo informa. Il grande ideatore riesce a conservare nelle opere teoriche tutta la passionalità dell’opera d’arte, da un lato e, dall’altro, a includere tutta la sua saggezza ideologica e politica anche negli ingegnosi intrecci di favole che possono ascoltare senza fatica i bambini più piccoli. Ho in mente quelle fiabe che Karl Marx sapeva raccontare per infinite «miglia»14, durante le passeggiate con le sue figliolette. E quello 14 «Alle mie sorelle (allora io ero troppo piccola) papà narrava certe favole durante le passeg­ giate, e queste favole non si dividevano in capitoli, ma in miglia. “Raccontaci ancora un miglio”,

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straordinario contenuto ideologico, che fioriva nella loro forma’5, così imprevedibile rispetto al Capitale. Questa fiaba - ci fa sapere Eleonora - Marx la raccontava nel corso di lunghi mesi, ed era composta da un’intera sere di fiabe. Il suo tema era molto avvincente: Hans possiede un negozio di giocattoli, ma le sue faccende finanziarie sono sempre ingarbugliate. Il negozio è pieno di cose meravigliose. Benché sia un mago, Hans non riesce mai a pagare i suoi debiti né al diavolo, né al macellaio e perciò è obbligato, suo malgrado, a vendere i giocattoli al diavolo. Ma dopo molte meravigliose avventure tutte queste cose ritornano sempre nel negozio di Hans Ròckle. Se ricordiamo che gli anni dell’infanzia di Eleonora furono per Marx anni di lavoro particolarmente intenso al primo libro del Capitale, e mettiamo a confronto il «tema» di quest’opera geniale di Marx con il tema della fiaba, involontariamente ci si affaccia alla mente il seguente pensiero: non ha tradotto Marx in questa fiaba, nella lingua della fantasia infantile, il suo Capitale? Non rappresenta nel personaggio di Hans Ròckle... l’operaio, sfruttato dal diavolo, cioè dal capitalista, e dal macellaio, cioè dal mercante? Non sono le cose meravigliose di Hans Ròckle la sua forza lavorativa, che ogni giorno è venduta al capitalista e ogni giorno ritorna all’operaio? E non introdusse Marx in questa fiaba la sua teoria del comuniSmo scientifico, ma in modo talmente inavvertibile per un bambino, che la già adulta Eleonora, socialista attiva e progressista, riporta questa fiaba senza alcun accenno alla sua profonda tendenza politica16? (L. Percik, Introduzione al libro: Eleonora Marx-Eveling, Karl Marx. Note fugaci, pp. 8-9).

Anche i sentimenti con i quali operiamo noi non sono staccati da cause oggettive. Non si tratta di un semplice «librarsi per aria» senza legami, ma di un’operazione perfettamente concreta, influenzata da un fattore determinante fondamentale: la «materia» tematica. Il sentimento qui non «viene da Dio», ma dalla realtà di un contenuto formabile - da uno specifico ambito materiale e dalle condizioni della sua rappresentabilità e, inoltre, da quella provvista generale di esperienza sociale di cui dispone l’artista. chiedevano a gran voce tutte e due le bambine. . .» (Eleonora Marx-Eveling, Karl Marx. Note fugaci * Partizdat 1933, p. 17). D «fra un narratore di fiabe insuperabile e unico nel suo genere» (ibidem). 16 Non sono del tutto d'accordo con il termine «traduzione» del Capitale nella lingua della fantasia infantile. Penso che sarebbe più giusto dire che Marx non tradusse da una lingua all'altra, ma che a seconda del pubblico e degli ascoltatori egli esprimeva immediatamente lo stesso ordine

di idee ora con la «lingua della logica», ora con la «lingua delle immagini» (come le definirebbe Plechanov), e tra l’altro in modo indissociabile: la prima non senza la seconda, e questa, inevitabil­ mente, non senza la prima.

in

Il ritorno del soldato dal fronte

Perciò nella concretizzazione di questi «sentimenti non ancora espressi compiutamente» noi ci rivolgiamo continuamente alle condi­ zioni materiali che li producono: alle caratteristiche sociali del vivere quotidiano, alla regolarità del comportamento cosciente e affettivo dell’uomo e alla regolarità del formarsi, del procedere e dell’agire delle forme spaziali e plastiche. E se nel processo della conoscenza il sentimento conduce al «fatto della conoscenza», nell’opera d’arte il sentimento conduce per le stesse vie al fatto dell’espressione influenzante {vozdejstvujusèee vyrazenie).

vi. Abbiamo già parlato dettagliatamente del modo in cui i nostri eroi si sono incontrati dopo la «fuga» dal triangolo ritratto-donna-marito. Dunque, si sono incontrati. Che cosa accadrà in seguito?

Studenti. Lei comincerà ad occuparsi di lui. - Comincerà a darsi da fare. - Al contrario. - Perché dovrebbe fare tutto ciò?

Uno studente. Perché vuole allontanarlo. - Quindi, il motivo determinante che informerà l’azione successiva sarà quello dell’«allontanare». Dove vuole portarlo?

Uno studente. Verso il tavolo. - Perché verso il tavolo? Che senso ha per lei il tavolo?

Studente. Sarà un modo per trovarsi più lontani dal letto. - «Più lontani dal letto», ecco ciò che serve. In che direzione si articolerà questo allontanamento dal letto? Cosa si deve fare per allontanare il più possibile qualcosa da una certa linea?

La regia

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Uno studente. Tracciare una perpendicolare. - Vale a dire che il massimo allontanamento si effettua con un movimento lungo la perpendicolare. Se noi faremo procedere la donna lungo la perpendicolare, finirà per imbattersi nella panca, poiché questa si trova nel punto più lontano dal letto (Fig. 63). E questo è il momento strutturale fondamentale, quello che determinerà la dire­ zione.

fig. 63.

fig. 64.

Pertanto, andranno verso la panca. Evidentemente, lui non trova niente di particolare da obiettare. La raggiungeranno, si siederanno ecc. A proposito, chi prenderà l'iniziativa in questo percorso? Uno studente. Lei, è chiaro. - Dunque, lei lo condurrà verso questa panca. Lo dovrà prendere con il braccio sinistro, perché questo faccia da ostacolo tra lui e la tenda (Fig. 64). È così che lo porterà vicino al tavolo. Come lo farà sedere?

Uno studente. Facendogli voltare le spalle al letto. - È necessario che il soldato si trovi in questa posizione o se ne può fare a meno?

Uno studente. Non è necessario. - Voi come lo fareste sedere? {La Markelova fa sedere lo studente Zejnali con le spalle verso il pubblico). - Lo farebbe sedere così?

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Uno studente. No. - Perché?

Studente. La loro recitazione non verrà vista. - Be’, questo non è ancora detto! Ma qui c’è un altro motivo: se la donna lo farà sedere con le spalle verso il letto, quest’azione, nello stato di agitazione in cui si trova, si presenterà come un momento troppo calcolato. Nella condizione in cui è appena venuta a trovarsi e in cui ancora si trova, le basta in generale portarlo via dal letto. È riuscita ad allontanarlo e per lei è sufficiente anche solo questo risultato. Inoltre, verosimilmente, non sarà l’ultima volta che, in questa scena, la donna tenterà di distrarlo, di allontanarlo. D’altronde, questo è solo il primo anello dell’intera catena dell’azio­ ne. E noi dobbiamo essere oculati: lasciare aperte tutte le possibili vie di sviluppo successive di questo tema fondamentale nel gioco dei loro rapporti reciproci. Sarà bene a questo punto ricordare quanto scriveva con disappro­ vazione Marx a Engels il 23 febbraio 1851 a proposito di Louis Blanc e Dumas: Per quanto riguarda le sue opere storiche, egli le scrive come Alexandre Dumas scrive i suoi «feuilletons». Studia il materiale sempre solo capitolo per capitolo. In tal modo escono libri come la Histoire de dix ans. Da un lato, è proprio questo a conferire al suo compendio una certa vivacità, poiché ciò che egli comunica è nuovo per lui come per il lettore; ma, dall’altro, in complesso l’opera è debole [40].

Si deve tener conto non solo del frammento del quale ci stiamo occupando adesso, ma anche di quelli che seguiranno e che, insieme a quello attuale, vengono determinati dal corso generale dell’azione, dalla costruzione generale. Bisogna tener conto non solo della prima mossa, ma pensare già anche alle tre o quattro successive. In quale gioco ci si comporta così?

Uno studente. Nel gioco degli scacchi. - Lo stesso vale anche per il gioco scenico. Nel nostro caso faremo meglio a dire per... il gioco registico. Qui si procede esattamente nello stesso modo, considerando e anticipando le deduzioni future e i loro possibili collegamenti.

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Pertanto, in questa fase di sviluppo dell’azione saremo più cauti. Questo primo allontanamento del soldato per ora l’abbiamo realiz­ zato solo aumentando la distanza dalla zona più pericolosa. Il momento in cui volterà le spalle - per di più con in mezzo un ostacolo (nel nostro caso la panchetta) - lo assegneremo a una fase di maggior tensione nello sviluppo della vicenda. La donna farà semplicemente sedere il marito sulla panchetta. Anche in questo modo egli si troverà accanto al tavolo di tre quarti: il suo sguardo cioè non sarà diretto sulla tenda, ma piuttosto sul pubblico. Che cosa farà in seguito la donna?

Uno studente. Gli toglierà lo zaino. - In ogni caso, passerà a qualche azione domestica. Lo zaino va benissimo, perché il soldato è arrivato equipaggiato di tutto pun­ to. Inoltre, nelle azioni che la donna compirà ci sarà il desiderio di farlo partecipare al massimo. Oppure di distrarlo per allontanar­ lo dal letto. Dunque, gli toglierà lo zaino e poi lo porterà da qualche parte (Fig. 65). Ammettiamo che il marito sia stato con­ dotto in una zona tranquilla, ma ecco che, fig. 65. continuando a procedere lungo la linea delle azioni quotidiane, la donna va a incappare nella stessa situazione pericolosa nella quale cadrete anche voi se vi limitate alle considerazioni puramente quotidiane. Gli ha tolto lo zaino e l’ha portato via. Ma così facendo, ha «scoperto il fronte»: egli è di nuovo libero: se l’è lasciato scappare dalle mani. Che cosa faremo a questo punto?

Studenti. Ora gli si deve far compiere qualche azione. - Potrebbe togliersi il berretto. - Pensa un po’ che azione, togliersi il berretto! Ma secondo il senso che cosa deve succedere dopo? Lei se lo è lasciato sfuggire. Quindi, che cosa deve accadere? Di nuovo una situazione per lei pericolosa. Finché lo tratteneva, non lo lasciava andare, tutto andava bene. Ma ora la faccenda riacquista una piega rischiosa. Che cosa gli dovremo far fare?

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Uno studente. Può guardare il ritratto. - C’è una proposta relativa al ritratto. Ma sarà il ritratto il primo oggetto al quale tenderà? Che cosa guarderà innanzitutto? A che cosa è legata la sua idea di ritorno a casa, dalla moglie? È chiaro che il suo sguardo sarà anzitutto rivolto dalla parte del letto. È tornato a casa ed è perfettamente naturale, non solo perché il letto è la sua piazza d’armi dell’amore, ma anche perché è tornato dal fronte, dove ha perso l’abitudine di dormire su un letto. È del tutto comprensibile che il suo sguardo si posi su questa parte della stanza. Il suo sarà un comportamento perfettamente naturale se, dopo aver posato il berretto ed essersi guardato un po’ in giro, cercherà di spostarsi verso il letto. La donna s’è allontanata da qualche parte, ha cominciato ad armeggiare con lo zaino. Nel frattempo il marito può alzarsi e dare imo sguardo al letto, tanto più che è nascosto dalla tenda. Come si muoverà? Può guardare la stanza e poi ferma­ re lo sguardo sul letto. Lungo quale linea si muoverà? Lungo quella traccia­ ta nella Fig. 66, oppure comincerà col voltarsi e poi procederà diritto verso il letto? Dapprima esaminerà la stanza dal suo posto, poi la sua osservazione, que­ sto movimento visivo circolare, si tra­ sformerà in un movimento materiale, quando avrà trovato la mèta che lo interessa e che lo attrae. fig. 66. Il suo sguardo si fa più intenso, si sposta. Il suo gioco scenico si precisa, attratto com’è da due centri. Un centro passivo, il letto, e uno attivo e contrapposto: Finterò gioco scenico della moglie. H gioco scenico del soldato sarà così altrettanto attivamente indirizzato ora verso il letto, ora verso la moglie. Nel nostro caso lo spostamento reale, che replica in una nuova dimensione il movimento circolare di osservazione della stanza, conser­ verà in sé questa caratteristica, sarà cioè un movimento tendenzialmen­ te circolare lungo un arco. Potremo anche farlo muovere su e giù mentre continua l’osservazio­ ne che avrà già compiuto per un po’ da fermo, e poi fargli rivolgere

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l’attenzione al letto, fermandolo di nuovo da qualche parte, vicino alla cesta. In tal caso l’arco della sua «passeggiata» avrà già assunto una precisa direzione di movimento lungo la tendina. Oppure potrà avvicinarsi al letto quatto quatto, in maniera scherzo­ sa. In questo caso, sarà bene che lo faccia in modo molto circospetto, continuando a voltarsi per guardare la moglie. Come con l’intenzione di nascondersi dietro la tenda per chiamarla da lì. Questa variante, forse, è anche migliore. H letto, infatti, non ha ancora fatto la sua comparsa nell’ambito del gioco scenico dell’uomo: al momento del loro primo incontro lui non si era ancora reso conto che si trovavano accanto al letto. Per la donna, al contrario, questa situazione era al centro dell’attenzione e ne aveva determinato il comportamento. Lui, invece, è diventato consapevole della presenza del letto mentre si trovava seduto, e questo letto gli fa ora venire in mente una serie di idee scherzose. Come che sia, il suo percorso fino alla tenda sarà costruito più o meno ad arco, come nella Fig. 66. Arrivato alla tenda potrà sfiorarla, ma non deve assolutamente tirarla. Mentre si avvicina, i suoi movimenti saranno più che altro allusivi. Sta davanti alla tenda, come di fronte al primo contatto con una fanciulla. A questo punto, che ne sarà della moglie? Si è voltata e guarda verso la panchetta, verso di lui. Ma si accorge che non è più lì e naturalmente rivolge subito lo sguardo verso la parte della scena che la preoccupa: dalla parte del letto. Ma perché lo spettatore possa prestare la dovuta attenzione a questa e alle successive azioni della donna, occorre innanzitutto attrarre il suo sguardo su di lei. Come dovremo operare? In primo luogo, sul piano spaziale: dobbiamo cioè costruire l’azione in modo tale che la sua presenza si imponga. Niente di più facile. Potremmo averla fatta inginocchiare, prima, e sparire dietro il tavolo. Per esempio: si è data da fare con lo zaino, prendendone qualcosa, e poi s’è tirata su. Ma per attrarre l’attenzione dello spettatore, tutto ciò, evidentemente, non basta, e si dovrà ricorrere al suono. Quale sarà il sistema migliore? Potremo farle tirar fuori qualcosa dallo zaino e fargliela mettere sul tavolo con un certo rumore. Per esempio, una pagnotta di tipo militare, che urterà contro il tavolo e costituirà per lei un motivo per guardare verso l’altra estremità del tavolo, dove si suppone che si trovi il soldato. E, infine, la pagnotta può giocare un forte ruolo melodrammatico sia

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che egli, alla fine, andandosene via, rabbiosamente la porti via con sé, sia che la getti alla moglie, lasciandola. Così, avremo attratto l’attenzione dello spettatore sulla donna. Lo spettatore la vedrà smarrita e preoccupata. Una rotazione dello sguardo. A questo punto, via via che il soldato andrà muovendosi lungo la tenda, avvicinandosi alla parte che si trova accanto al ritratto, che cosa farà la donna? Uno studente. Gli taglierà la strada correndo. - Credete proprio che gli taglierà la strada?

Uno studente. Gli dirà: «Andiamo a mangiare». - La prima cosa che farà dopo averlo visto lì, sarà di emettere una sommessa esclamazione, in modo che il pubblico le presti attenzione. Che ne pensate, si slancerà verso di lui o no? E poi non fa differenza, tanto che si butti lei stessa o che si tratti d’una battuta o che gli lanci un richiamo.

Uno studente. No, non si slancerà verso di lui. - Anche a me pare che a questo punto la donna resterà come impietrita. Ciò esprimerà meglio la tremenda tensione dovuta alla paura che egli stia per raggiungere il letto, veda e... tutto crolli... Dobbiamo ricordarci che non si tratta di occultare il bambino in modo definitivo. Il marito, infatti, è arrivato a casa così all’improvviso che la donna non ha fatto in tempo a prepararsi a parlargli del problema. La sua necessità primaria è ora quella di guadagnare tempo, per poterlo pian piano introdurre nella situazione, confessargli tutto, e così via. Pertanto, la cosa più importante è che lui non la colga alla sprovvista, che non venga a sapere anzitempo quello che deve venire a sapere solo dopo una certa preparazione. Il gioco scenico si basa qui sul rischio che egli scopra il bambino prima del tempo. È un rischio che cresce e che non le permette né di concentrarsi, né di riflettere. Perciò, durante il percorso del marito lungo la tenda, resterà come paralizzata. Nella sua condizione estrema, la paralisi è una completa assenza di movimenti. E tuttavia noi dobbiamo inscenare una situazio *

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ne così caratterizzata permettendo al tempo stesso alla donna di spostarsi. Qui non dobbiamo intendere la paralisi come una paralisi pro­ gressiva, con il suo avanzamento caratteristico e cadenzato, ma piuttosto come uno stato di incantamento, di ipnosi. I movimenti della donna acquisteranno un carattere automatico, come di chi sia caduto in trance. Voi come costruireste questo movimento?

Uno studente. In linea retta. - Giusto. Ma dobbiamo interpretarlo non tanto come una sempli­ ce linea retta, quanto nel senso che il percorso è interiormente lineare, a motivo unico, cioè privo di qualsiasi contraddizione interna tra motivi diversi. Poiché ogni contraddizione è stata eliminata da un ordine giunto dall’esterno. Infatti, qual è l’aspetto fondamentale di questa situazione? Che sia eliminata qualsiasi resistenza a un’ingiun­ zione che viene dall’esterno. (Non si tratterà sempre e necessariamen­ te di una linea retta: pensiamo a una salita lineare lungo una scala a chiocciola, o alla «linearità» di un giro attorno a un edificio circola­ re!). Ma se il processo si caratterizza, in tal modo, come mancanza o eliminazione di qualsiasi contraddizione interna, questa stessa caratte­ ristica deve riguardare anche l’azione reciproca tra la causa della «trance» e l’individuo che vi è caduto. L’ipnotizzato, infatti, è incapace di esercitare qualsiasi resistenza personale e le sue azioni si limitano a ripetere alla lettera ciò che gli si ordina. È come se riproducesse linearmente, come se replicasse con l’azione ciò che gli viene prescritto con le parole. Immaginate che l’ipnosi non passi per la parola, ma per un’azione che egli possa vedere. L’automatismo verrà allora espresso dalla ripetizione, dalla riproduzione delle caratteristiche di quest’azione. Darà luogo, cioè, a una sorta di azione parallela. Prima, parlando del terrore, abbiamo fatto l’esempio del serpente [41]. Abbiamo detto che l’individuo impaurito resta come paralizzato per poi cominciare a muoversi verso il serpente. Il serpente lo attira, nel senso che il movimento consapevole, che potrebbe frenare questo avvicinamento, si interrompe, si esaurisce. Dal punto di vista del serpente, di che cosa si tratta? Cos’è che vuole?

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Uno studente. Vuole mangiare. - Tutti vogliono mangiare. Ma qui si tratta d’altro. Il serpente vuol far avvicinare l’oggetto. Ma come si comporta un essere paralizzato? Resta come intorpidito, avvicinandosi con ciò oggettivamente in quanto non si oppone affatto al processo di avvicina­ mento. Oppure, meglio ancora, ripete ciò che vuole il serpente. Cioè comincia a tendere di fatto verso di lui, ad awicinarglisi. Quando perdete il controllo, quando la vostra volontà individuale dorme, siete in pieno potere dell’imitazione, della ripetizione. Prendiamo l’esempio più semplice. Una persona smarrita, poniamo, nel corso di un esame. Che cosa fa, quando gli pongono una domanda? Innanzitutto ripete questa domanda. La ripete perché non sa più orientarsi in maniera cosciente e, per ritornare alla normalità, comincia ad operare con gli elementi più primitivi. Anche i bambini, soprattutto nei primissimi anni, acquistano esperienza e la capacità di reggersi sulle proprie gambe attraverso l’imitazione, ripetono, cioè, il comportamen­ to dei grandi o dei compagni più esperti. Quasi tutti i grandi pittori, nel periodo del consolidamento del proprio stile, hanno fatto copie per poter sentire il processo figurativo nel complesso di tutta l’esperienza dei maestri del passato. Esistono così copie fatte da Cézanne e da Délacroix. La famosa «Passeggiata nel cortile del carcere» di Van Gogh pare che riproduca sul piano della composizione una stampa di Gustave Dorè, della serie delle sue impressioni britanniche. E Fernand Léger, agli inizi, copia... dettagli di macchine. Lo stesso vale per la letteratura. E non è un caso unico quello di Vsevolod Ivanov, che studiò il processo dinamico formativo dell’opera letteraria con una sua esatta ripetizione: trascrisse a mano Guerra e pace di Tolstoj. In una catastrofe, uno scontro, un evento imprevisto, immancabil­ mente si registra uno «scatto all’indietro» verso forme più arretrate dell’esperienza. Una persona, disorientata da ima domanda inaspettata, ricorre al vecchio metodo per riportarsi in una condizione formalmente normale: ripete automaticamente la domanda. (A ciò si aggiunge a volte un desiderio consapevole di guadagnar tempo per orientarsi: ripetendo le parole della domanda, e al loro riparo, egli mobilita in questo modo, e non con un silenzio pensieroso, che sarebbe inadatto, le poche risorse delle sue cognizioni. A questo genere di fenomeni si riferisce la storiella

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del mercante balbuziente, che sconfìgge i più abili affaristi guadagnan­ do tempo con il suo balbettio). Se un relatore usa un argomento poco convincente e se ne rende conto dalle proprie frasi spezzate, che cosa fa? Si ripete. Ripete automaticamente la fine della frase. Per molti relatori, abituati ad operare con materiali poco convincenti, una tale ripetizione recitativa della fine delle frasi diventa un’abitudine stilistica, una maniera di parlare. Ciò significa semplicemente che non vengono mobilitati gli aspetti coscienti e volitivi e che si opera in modo automatico. È probabile che anche voi ricordiate e conosciate molti oratori di tal fatta. Nella commedia non girata MMM [42] mi ero proposto, tra gli altri clichés retorici e forme burocratiche di eloquio banale e stereotipato che prendevo di mira, di ridicolizzare in particolare questo procedi­ mento. Ma, naturalmente, non bisogna confondere queste banalità retori­ che con quella consapevole costruzione ritmica delle ripetizioni che contraddistingue il metodo di quasi tutte le opere classiche dell’orato­ ria, a partire dalle Catilinarie di Cicerone fino agli storici discorsi di Lenin. Quale sarà, in definitiva, il movi­ mento della donna che meglio corri­ sponde al senso di annichilimento e di «trance», causato dal marito che si muove lungo la tenda? Evidentemente, lo spostamento lun­ go una direzione parallela (Fig. 67). La donna replicherà il senso del movimento, anche se è vero che dovrà muovere dalla parte opposta. Nondime­ no sarà conservato l’orientamento es­ senziale di queste linee parallele: non solo, ma qui avremo in più la sensazione che la donna sia incatenata al soldato, che lo segua. Probabilmente saprete che in geometria c’è una teoria per cui non esistono linee rette, in generale, e la linea retta viene considerata come un caso particolare di un arco dal raggio molto grande. Chi è il teorico di questa geometria?

Uno studente. Lobacevskij.

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- Giusto. Se noi consideriamo questi due percorsi paralleli come elementi di archi (Fig. 68), possiamo giungere a una condizione limite nella quale, in sostanza, tutto il movimento si svolge lungo un’unica circonferenza. È diffìcile trovare un modo altrettanto espressivo per rap­ presentare un automatismo. Così, il percorso è stato sta­ bilito. Il massimo della tensiofig. 68 ne nasce dai passi vivaci del­ l’uomo accanto alla tenda e dai passi paralleli, accanto al tavolo, della donna rattrappita dal panico. Sta per arrivare la catastrofe... Cosa si deve fare adesso? Dobbiamo in qualche modo prevenire la catastrofe nel momento in cui sta per irrompere, dobbiamo introdurre di nuovo qualcosa che aiuti la donna a «cavarsela».

Uno studente. Si può introdurre il suono. - Non è questo che serve, adesso. Siamo di fronte a due alternative fondamentali: o la donna, tornando in sé, interrompe l’azione del marito, oppure la interrompe egli stesso. Che cosa sarà preferibile?

Uno studente. Che sia lui a interrompere l’azione.

- Possiamo introdurre un elemento casuale che distolga l’attenzio­ ne del soldato dal letto. Questo elemento interromperà l’annichilimento della donna che potrà riprendere padronanza di se stessa e cominciare ad agire. Abbiamo qualcosa che ci permette l’esecuzione scenica di questo passaggio?

Uno studente. H ritratto. - Verissimo. Lungo il percorso c’è il ritratto. Raggiunto il centro della tendina, il soldato può notarlo casualmente, e avendolo notato, è perfettamente naturale che si distragga. Su quale elemento si può impiantare qui il gioco scenico? Sul confronto dell’uomo col suo ritratto. Lì è un giovanotto, «con i vestiti della domenica», ora è affaticato, trasandato, sudicio. E il momento del confronto con il

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ritratto naturalmente lo distrae da ogni pensiero legato al letto. Si sente stanco, invecchiato, sporco. Il letto scivola fuori dai suoi pensieri. Egli comincia ad osservarsi nel ritratto. Possiamo notare, tra l’altro, che l’esecuzione scenica di questo confronto si svolge nello stesso punto in cui si era trovata la donna, nella scena iniziale, dopo aver tirato la tendina; ora anche lui, come già lei, si confronta col passato. Inoltre, è la terza volta che il gioco scenico si basa su questo confronto. La prima volta nel rapporto tra la donna e il ritratto, al momento di tirare la tendina. Poi, nella partecipazione dello spettatore alla costruzione del triangolo. Adesso nel rapporto tra il ritratto e il soldato. Lo stesso tema, come si vede, in tre diverse varianti. È proprio in questo momento che la donna, tornata padrona di sé, gli si avvicina e lo porta via. Che cosa sarà preferibile: che gli lanci un appello, che lo chiami, cioè, oppure che lo vada a prendere? È chiaro che l’uno e l’altro modo differiscono solo per una maggiore o minore intensità. Uno studente. Lo andrà a prendere lei stessa. - Certo, sarà lei a portarsi fisicamente fino a lui. Infatti, quando ci si trova in una situazione simile, chi chiama qualcuno per farlo avvicinare deve trovarsi nella condizione di dominare non solo se stesso, ma anche l’altro, di comandarlo. Ora, lo stato d’animo attuale della donna non è tale da permetterle, con la sola voce, di obbligare il marito a venire da lei. Deve mobilitare tutte le sue risorse per distrarlo. Non solo con la voce, ma con tutta se stessa, con tutte le forze. Ne prenderebbe anche in prestito da fuori, se ne avesse la possibilità. Sente, avverte che la sua vicinanza fìsica non ha smesso di turbarlo. E per allontanarlo dal punto pericoloso si serve istintivamente di questo strumento, di questo mezzo, attraendolo con tutta se stessa verso di sé. Si muoverà verso di lui. Adesso occupiamoci più in dettaglio del gioco scenico del soldato. Lui si accorge del ritratto proprio quando si trova nel punto fin dove è stata tirata la tendina. Appena oltre c’è uno spazio aperto. Ancora un passo e vedrebbe il letto e il bambino. Lo spettatore ha già afferrato nervosamente i braccioli della poltrona. Ma il soldato ha sollevato il capo. Ha cominciato ad osservarsi. Avanza ora verso il ritratto e oltrepassa la zona più pericolosa, quella scoperta, tutto preso

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1 = movimento verso la zona pericolosa. 2 = movimento lungo la zona pericolosa. 3 = movimento lungo il tratto scoperto di questa zona.

fig. 69.

FIG. 70.

dall’osservazione della propria immagine. E lo spettatore tira un sospiro di sollievo: «se l’è cavata» (Fig. 69). Otteniamo a questo punto la distensione necessaria dopo una forte tensione. Ricordo un caso analogo in chiave comica. Nella Febbre dell’oro Chaplin cammina a lungo per una montagna; dietro di lui un orso. Lo spettatore si domanda: che succederà? Ma poi l’orso, all’improvviso, si dirige da un’altra parte. E non succede niente. Grossa risata liberatoria. Lo stesso accade qui, con la sola differenza che la faccenda rimane seria anche dopo l’abbassamento della tensione. (In che cosa consista la differenza e perché una costruzione uguale produca un effetto diverso risulta evidente dal confronto del contenuto. Tutto ciò verrà chiarito meglio quando elaboreremo la scena sul piano comico). E così, la donna gli si avvicina. Con che movimento? Urto studente. Un movimento impetuoso. - Impetuoso. Lineare e sospinto da un unico scopo (Fig. 70). Il soldato guarda il ritratto, lei gli si avvicina e lo conduce via. Probabil­ mente, la donna si muoverà e si fermerà tra lui e il ritratto, obbligando­ lo ad abbassare gli occhi verso di lei. Con la mano destra gli prende la spalla sinistra, opponendo il braccio tra lui e la zona del pericolo. Lo fa voltare lentamente verso l’altra parte della stanza. Questa è la posizione più opportuna. Inoltre, a differenza di quando, per la prima volta, lo aveva allontanato dalla tenda, la donna viene ora a trovarsi sul fianco opposto del marito (Fig. 71).

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A questo punto, come cercherà di allontanarlo? Uno studente. Lo sospingerà. - No, io vi chiedo: come sarà questo percorso, quale sa­ rà il suo contenuto sul piano del gioco scenico?

Uno studente. La donna deve impegnarlo in qualche modo nell’altra parte della stanza. Cercherà di interessarlo al pranzo. - Qual è la cosa più interessante per il soldato?

Uno studente. Lei stessa. - È naturale che sia lei. E lei lo sa. E a questo punto dovrà non solo allontanarlo, ma dovrà anche attrarlo. Cercherà, cioè, di «civettare» con lui. Sarà convincente a questo punto un allontanamento lineare? Credo di no. Anche la linea dell’allontanamento non dev’essere lineare, ma piuttosto ondeggiante, «scherzosa». La linea del percorso sarà una serpentina. Quanto alla forma caratterizzante di questa curva, la più adatta sarà, evidentemente, una forma lineare con una sola curvatura, quasi un rovesciamento del motivo conduttore. La prima metà della linea serve ad allontanare l’uomo dal letto; la seconda, ad avvicinarlo al tavolo. A metà percorso la donna smetterà di

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«civettare»: ha già assolto gran parte del suo compito. Che cosa, invece, andrà crescendo?

Uno studente. Il gioco scenico del soldato. - Giustissimo. Egli «starà» al gioco. Cioè, comincerà lui a scherza­ re con lei. Come si vede, questo movimento «scherzoso», oltre ad essere di per sé un’azione mutevole, presenta chiaramente la possibilità di lasciarsi modellare secondo tracciati opposti. Lo stesso tracciato di questa linea, in altri termini, pur conservando il medesimo tratto caratterizzante, può essere risolto in maniera duplice (Fig. 72, A e B). Quale soluzione vi pare la migliore? Evidentemente, la prima soluzione esprime in modo più chiaro la funzione del percorso, quella dell’allontanamento dal letto. La seconda andrebbe bene nel caso di una forte resistenza da parte dell’uomo, che potesse essere vinta dall’iniziativa della moglie. Ma qui, per il momento, non si può supporre niente del genere. Basta che lei lo abbracci perché lui la segua. E lei deve guidarlo in modo tale che non le stacchi gÙ occhi di dosso per tutto il tempo del tragitto lungo la zona pericolosa. Ecco perché è importante per lei «catturare» il suo sguardo, portarlo dal ritratto verso di sé. Nel movimento a seguire gli occhi di lui saranno già rivolti verso di lei. Come impostare questa «seduzione»? Evidentemen­ te giocando sul ritratto, sul confronto col ritratto. L’uomo è impegnato in un confronto con la sua immagine passata, cioè con il ritratto. La donna deve cogliere al volo questo gioco e inserirvisi. Potrebbe esprimere a parole ciò che lui sta pensando, dare a queste parole un altro significato, incoraggiarlo con frasi del tipo «non è la barba che fa l’uomo». Se l’azione si svolge senza parole, il gioco pantomimico dovrà procedere grosso modo su questo stesso piano. In un modo o nell’altro, sviluppando questa linea del gioco scenico, la donna riuscirà a metterlo a suo agio. Che cosa dovrà fare poi? Evidentemente, qualcosa che non la allontani da lui. Deve restargli accanto, vicina, per non farselo sfuggire ancora una volta. Che cosa farà a questo scopo?

Uno studente. Andrà verso la credenza, prenderà qualcosa e... - Proprio quello che non deve fare. La donna non deve assolutamente allontanarsi da lui, anzi deve dar luogo a un’azione comune che la obblighi a restargli accanto.

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La regia

Allontanarsi verso la credenza per prendere del cibo, a questo punto, non è per niente opportuno, perché, così facendo, lascerebbe il fronte scoperto. Che fare, allora? Uno studente. A me pare che qui potrebbe andar bene una pausa. La donna porterà il marito fuori dalla stanza per farlo lavare. - È davvero necessaria questa pausa? Lo escluderei categoricamen­ te. Al contrario, qui noi dobbiamo intensificare sempre più l’azione. E se ci siamo concessi un momento di abbassamento della tensione, lo abbiamo fatto solo allo scopo di incrementarla, di farla crescere. Abbiamo già avuto un momento di giusto calo, ora bisogna prendere la rincorsa verso una nuova fase di intensificazione. Dobbiamo escogitare qualcosa per rimettere in moto la situazione, per darle una spinta. E adesso, per favore, fate appello alle vostre ricchissime riserve di dettagli e di casi quotidiani. Occorre trovare qualcosa che metta i due nella condizione di restare strettamente uniti.

Uno studente. La donna prenderà del cibo dalla credenza, accanto alla quale ci sarà un lavabo. Dopo che l’uomo si sarà lavato, lei gli siederà accanto. - È opportuno introdurre questo fatto del lavarsi?

Uno studente. No. - Sul piano della vita quotidiana è perfettamente ragionevole. Ma ci serve quest’azione ragionevole, è funzionale rispetto ai nostri interessi? Quest’azione non funziona, non perché sia assurda, ma proprio perché per lei sarebbe un fatto del tutto logico indurlo a lavarsi. Ma in questo momento il comportamento della donna non ha niente a che fare con le azioni logiche e naturali: ciò che conta è un’altra logica, quella della sua intenzione di rimanere ad ogni costo a stretto contatto con lui.

Uno studente. Prenderà a sfilargli gli stivali. - Giusto. Lo può far sedere e può cominciare a sfilargli gli stivali.

Il ritorno del soldato dal fronte

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Adesso bisogna chiarire di che genere di calzature si tratta.

Studenti. Stivaletti con le fasce. - Stivaletti alti con l’allacciatura. - Stivali alti. - Quale dev’essere il criterio per la scelta? L’azione di sfilare le scarpe deve tenerli entrambi il più possibile vicini l’uno all’altra. Ecco il criterio fondamentale che determinerà il tipo di calzatura. Se le faremo sfilare uno stivale alto, quest’azione corrisponderà alle nostre esigenze?

Uno studente. No. - Perché? Perché il momento in cui la moglie gli toglierà gli stivali li terrà ancora in qualche modo legati, per quanto presenti una forte tendenza alla separazione. Ma nel momento preciso in cui gli avrà tolto lo stivale si avrà un brusco distacco, cioè proprio il contrario di quel che ci occorre. Inoltre è assolutamente sbagliato equiparare lo stivale alto allo stivaletto con l’allacciatura alta. Le fasce e lo stivaletto con l’allacciatura alta, per le funzioni che ci interessano, saranno più o meno equivalenti. Nel primo caso si deve slacciare, nell’altro slegare, svolgere. Ma il nostro scopo fondamentale in entrambi i casi è quello di... allacciare loro due, e possibilmente per un lungo lasso di tempo. Quale dei due tipi di calzatura sarà il più adatto?

Studenti. U processo di allacciatura più lungo. Quello che dura di più. - Vanno meglio le fasce.

- Perché vanno meglio le fasce?

Uno studente. Sono più espressive. - Che significa «più espressive»? E che cosa sarà più espressivo nel nostro caso? Sarà più espressivo quel tipo di calzature che servirà meglio a legare tra loro i nostri due personaggi. Per quest’unione saranno senz’altro più adatte le fasce. Nello svolgere le fasce, le mani devono abbracciare interamente la gamba, girarle attorno. Anche dal punto di vista della verosimiglianza, inoltre,

La regia

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le fasce sono più adatte a un soldato che non lo stivale con l’allacciatura alta. Dunque diamo per approvato che la donna cominci a svolgere una fascia. Facciamo attenzione al metodo di determinazione e di scelta di quell’oggetto che, tra tutti gli oggetti possibili, meglio si adatta a certe condizioni espressive. L’atto stesso dello srotolare le fasce determinerà anche la disposi­ zione dei personaggi.

Uno studente. Bisogna far sedere l’uomo lungo la diagonale che prolunga la linea della panchetta (Fig. 73). - Siete d’accordo?

Uno studente. No. In questo modo egli guarderà dalla parte del letto. La diagonale va bene, ma la direzione dovrebbe essere rivolta verso il pubblico (Fig. 74).

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