La rappresentazione dello sguardo nel cinema delle origini in Europa. Nascita della soggettiva 8849112335, 9788849112337

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La rappresentazione dello sguardo nel cinema delle origini in Europa. Nascita della soggettiva
 8849112335, 9788849112337

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Introduzione

«La filologia deduce dalla consapevolezza della nostra storicità il riconoscimento di storicità anteriori o, in ogni caso, diverse»

(Cesare Segre)

Questa ricerca nasce sotto la duplice spinta di una convinzione e di una domanda. Na­ sce in primo luogo dalla convinzione che il linguaggio cinematografico - a lungo sospet­ tato di presunta “naturalezza” - sia il prodotto di una cultura e della sua storia.1 La do­ manda, invece, investe la genesi della soggettiva, una figura tra le più affascinanti del linguaggio cinematografico, che rappresenta sullo schermo ciò che vede un personaggio. A unire convinzione e domanda, apparentemente distanti, è per l’appunto il fatto che soprattutto oggi la soggettiva ci appare come una figura assolutamente “naturale”, che tutti comprendono senza neppure sapere di doverla comprendere. Eppure, credere che il linguaggio cinematografico sia il prodotto di una cultura e della sua storia signifi­ ca anzitutto mettere in discussione la naturalità apparente delle configurazioni che lo compongono. In particolar modo, significa sospettare che proprio tali configurazioni ri­ sultino da un complesso incrocio di processi storici e culturali. Anche la soggettiva. Che ci appare naturale , oggi, solo perché le forme che assume hanno dominato lungo quasi tutto il primo secolo di vita del cinema. Già, ma allora, da dove viene la soggettiva? Da dove vengono e come si impongono quelle forme dell’immagine cinematografica che per lo spettatore odierno significano la presenza di un personaggio che guarda? Per rispondere a una tale domanda, questa ricerca si iscrive in un ambito che è ap­ punto quello della storia delle forme del linguaggio cinematografico. Un’opzione che ci ha imposto di fare fronte a tre ordini di problemi. Il primo ordine di problemi è stato storico e terminologico insieme. Infatti, indagare la genesi di una figura di linguaggio significa risalire alle origini della sua storia. Nel no­ stro caso, significa addentrarsi nella prima epoca di vita del cinema, in cui appunto compare per la prima volta ciò che oggi chiamiamo una soggettiva. Ma la prima epoca di vita del cinema, comunemente definita “cinema delle origini”, non è solo un’epoca passata, in quanto tale diversa dalla nostra. E soprattutto un’epoca che, cinematografica­ mente parlando, ci è distante assai più di qualsiasi altra, poiché precede la codificazione di quei procedimenti linguistici (di cui la soggettiva è parte) che caratterizzano appunto ciò che è divenuto nel tempo il linguaggio cinematografico. Pertanto, accostarvisi come a una sorta di originario magma indistinto teso a divenire quell’insieme codificato a noi oggi familiare, adottando per di più una terminologia e degli strumenti interpretativi elaborati in ambiti posteriori, sarebbe risultato inevitabilmente fuorviarne, oltre che ri­ duttivo. Parlare di soggettiva, infatti, significa presupporre almeno i concetti di perso­ naggio e diegesi, poiché in relazione a qualsiasi altra modalità del linguaggio cinemato­ grafico attuale la soggettiva si caratterizza in quanto messa in scena dello sguardo di un

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personaggio, in quanto sguardo diegetico.1 Ora, nel cinema delle origini mancano sia la costituzione dell’attore in personaggio, sia la messa in scena di un universo diegetico chiuso e strutturato secondo le leggi del racconto cinematografico, classico, moderno o contemporaneo che sia. O meglio, mancano le condizioni per poter assimilare con di­ sinvoltura ciò che oggi si intende quando si parla di soggettiva, personaggio, diegesi e racconto cinematografico, alle manifestazioni apparentemente più analoghe che ricorro­ no nel cinema delle origini. Per questo, anziché parlare di soggettiva, si è scelto di parlare di rappresentazione dello sguardo, un’espressione che consente di affrontare le diverse modalità di questa pratica le cui radici, come vedremo, precedono il cinema stesso, e di metterne in eviden­ za al tempo stesso tutta la complessità. In secondo luogo, studiare la genesi di una figura di linguaggio nell’amhito di una storia delle forme ci ha imposto di coglierne non solo le trasformazioni nel tempo ma anche le molteplici relazioni al contesto circostante, al fine di risalire alle ragioni che hanno portato alla sua comparsa. Un contesto più propriamente storico, di nuovo, vale a dire un’epoca specifica, quella degli inizi del cinema, alla quale i numerosi film qui analizzati appartengono e con la quale intrattengono relazioni profonde. Ma anche un contesto pragmatico,3 che ci rimanda allo spettatore di quella stessa epoca, che ne cono­ sce, e in gran parte condivide, le premesse culturali. Insomma, per rispondere alla do­ manda formulata sopra abbiamo fatto lo sforzo di abbandonare il nostro punto di vista di spettatori odierni, per assumere il più possibile il punto di vista dello spettatore al quale i film analizzati qui erano destinati. Uno spettatore che guardava questi film in modo diverso da noi, che vi vedeva cose diverse, e li comprendeva diversamente. Questa prospettiva ci ha condotto, nel corso della ricerca, a formulare tre ipotesi. La prima è che la forma di rappresentazione dello sguardo inaugurata in questi film non viene dal nulla, bensì deriva da pratiche iconografiche e spettacolari precedenti alla na­ scita del cinema, e che nel cinema confluiscono in forma di trucco, di artificio ottico. Esaminati alla luce del loro contesto, infatti, questi film non appaiono affatto dominati dall’urgenza di costruire una solida sintassi lineare e narrativa, quanto piuttosto dalla meraviglia di mostrare allo spettatore del loro tempo vedute ingrandite e in movimento, meccanicamente riprodotte. Dall’urgenza, cioè, di testimoniare l’avvenuta modifica de­ gli abituali rapporti percettivi tra l’uomo e l’universo circostante, messa a punto in secoli di progresso tecnologico, e di sperimenzazione ottico-scientifica che trova nell’avvento del cinema il suo definitivo consolidamento. La seconda ipotesi è che quella stessa forma di rappresentazione dello sguardo va da qualche parte — e poco importa con quale grado di consapevolezza, o che avrebbe potu­ to andare altrove. Più precisamente, va in direzione della messa a punto di una modalità di montaggio necessaria per raccordare tra loro le inquadrature attraverso lo sguardo dei personaggi, al fine di raccontare delle storie. Una modalità di montaggio che al pari di altre, legate all’articolazione dello spazio e del tempo, è stata d’importanza decisiva sia per la messa a punto della soggettiva e delle figure dello sguardo in generale, sia per la successiva evoluzione del linguaggio cinematografico quale oggi lo conosciamo. Una terza ipotesi, infine, riguarda il fatto che, a dispetto del nome che assumerà nel tempo,4 la struttura destinata a dare origine alla soggettiva è inizialmente del tutto estra­ nea, oltre che a finalità narrative, anche all’espressione di una qualunque sorta di sogget­ tività. Quest’ultima, infatti, nel cinema delle origini è semmai appannaggio di quelle immagini mentali, oniriche, visionarie o fantastiche, che spesso costituiscono la rappre­ sentazione di uno sguardo interiore. Uno sguardo, cioè, affatto referenziale, che nel pri­ mo cinema appare ancora legato all’eredità di una concezione prefreudiana della rappre­

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sentazione onirica, così come alla concezione dei fenomeni cerebrali inerenti alla vita in­ teriore messa a punto dalla psicologia del XIX° secolo, dove onirismo e visualizzazione del pensiero assumono spesso una valenza magica, divinatoria o premonitrice. Dall’articolazione di queste ipotesi emerge che la nacita della soggettiva svolge un ruolo di rilievo in ciò che Noel Burch ha chiamato il processo di linearizzazione del lin­ guaggio cinematografico — vale a dire quel processo che porta all’articolazione lineare e continua tra più inquadrature montate in successione tra loro. Sia mediante la sua stessa costituzione in figura di linguaggio; una figura lineare, appunto, basata tra le altre cose su un’articolazione sintagmatica di montaggio. Sia in quanto concorre all’istituzione del­ lo spettatore in soggetto, sintattico e figurativo, creando le condizioni della sua stessa vi­ sibilità. Ma questa ricerca ci ha imposto di affrontare un terzo ordine di problemi, relativo alla delicata questione delle fonti. Quindi un ordine di problemi strettamente filologici. Perché cinema delle origini significa anche cinema perduto, distrutto, alterato, scono­ sciuto, inaccessibile. Infiammabile: è il caso di molti tra i rari film italiani sopravvissuti in possesso dell’Associazione italiana per le ricerche di storia del cinema. Si è dovuto, in­ somma, far fronte alla spinosa questione della reperibilità e accessibilità delle fonti, che nel nostro caso ha comportato anzitutto un vero e proprio viaggio alla ricerca delle pelli­ cole perdute di un’epoca che anziché salvaguardare il proprio patrimonio, filmico e cine­ matografico, ne ha consentito la quasi totale, e irrimediabile, scomparsa. Spesso, poi, si è dovuto assumere il delicato compito del confronto e della collazione relativi allo stato di conservazione (troppe volte deplorevole) delle copie disponibili. Talvolta è stato necessa­ rio avventurarsi in delicate indagini sulla genuinità delle copie medesime, al fine di attri­ buire una datazione tanto attendibile quanto decisiva per l’articolazione del nostro di­ scorso. E si è proceduto al necessario allargamento della nozione di fonte a tutta quella rete di materiali che costituiscono ciò che Gérard Genette ha battezzato con il nome di paratesto — cataloghi, annunci pubblicitari, documenti cartacei e iconografici — che con­ giuntamente alle più diverse forme spettacolari, coeve e parallele, sono di importanza decisiva per la ricostruzione dell’«orizzonte di attesa» a partire dal quale il primo cinema può essere interpretato.5 Un criterio portante di questa ricerca è stato comunque l’accesso diretto a fonti di prima mano. La loro analisi, cioè, è stata condotta sempre direttamente e in prima per­ sona. In particolar modo i film sono stati visionati su pellicola e alla moviola, o in altre situazioni ugualmente privilegiate, ricorrendo solo in casi imprescindibili a fonti indiret­ te (quali copie video o descrizioni riportate in altri studi) e denunciate sempre come tali. Quindi si è proceduto a un lavoro di schedatura, che fosse il più ampio possibile, delle pellicole viste presso il National Film Archive di Londra, la Stiftung Deutsche Kinemathek di Berlino, il Centre National de Cinématographie di Bois D’Arcy (Parigi), l’Institut Jean Vigo di Perpignan, la Cinémathèque Fran^aise di Parigi, la Cineteca Comu­ nale di Bologna, la Cineteca del Friuli (Gemona), e la Cineteca Nazionale (Roma). Ma anche nel corso di manifestazioni specializzate quali le “Giornate del cinema muto” di Pordenone, e la sezione speciale “Verso il centenario” della Mostra Internazionale del Nuovo cinema di Pesaro.6 Certo vedere tutto — desiderio forte quanto irrealizzabile — sarebbe stato comunque impossibile; si sono perciò adottate due opzioni, una spaziale e una temporale. In linea di massima, i film analizzati sono stati realizzati tutti tra il 1896 e il 1910. Un arco di quindici anni, che risponde alla duplice esigenza di costruire un corpus suffi­ cientemente circoscritto da permettere un’analisi sincronica, e tuttavia distribuito dia­ cronicamente per consentire di cogliere a più riprese le diverse fasi del lento passaggio

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che porta le prime manifestazioni di rappresentazione dello sguardo ad assumere moda­ lità e forme che saranno proprie della soggettiva. Per la stessa ragione, va detto che ogni volta che si è avuta l’occasione di vedere e schedare un film di poco posteriore al 1910, e di qualche interesse per la ricerca, lo si è fatto e se ne è tenuto conto. Si è inoltre limitata la ricerca al solo cinema europeo (grande assente, purtroppo, il cinema italiano, che oltre a fare il suo ingresso ufficiale sulla scena del grande schermo relativamente tardi, per buona parte dell’epoca qui presa in esame pare andato in larga misura perduto). Non per rivendicare una qualche sorta di primato in favore del vecchio continente, bensì per ragioni di omogeneità imposte anche dalla disponibilità degli ar­ chivi visitati. Anche in questo caso, d’altronde, si è trattato in parte di una limitazione fittizia: a quel tempo il cinema circolava molto e il plagio era all’ordine del giorno.7 Per questo motivo, delle più note “imitazioni” effettuate da quella come da questa parte del­ l’oceano si è necessariamante tenuto conto. Ma si è deliberatamente escluso dall’indagi­ ne il cinema di Griffith: sia perché avrebbe comportato uno squilibrio nell’organizzazio­ ne del lavoro, già assai vasto di per sé; sia per la volontà di focalizzare l’attenzione su ciò che è successo prima di Griffith, da questa parte dell’oceano. L’esclusione di Griffith mette in luce un’altra importante scelta di campo che ha ca­ ratterizzato questa ricerca: quella di ridurre espressamente l’analisi di opere (ad esempio, quella di Méliès) su cui già esiste una copiosa e attendibile letteratura filologica, per con­ centrare l’attenzione su ciò che oggi chiameremmo “produzione corrente”, su film sco­ nosciuti o rimasti finora nell’ombra, o addirittura su film scoperti nel corso della ricerca (è accaduto con le due versioni di Eine Fliegenjagd, della Poule aux oeufi d’or, e di Dream ofa Rarebit Fiend) .8 Per questo motivo, del resto, si è scelto di schedare il materiale visionato anche quan­ do solo indirettamente attinente ai temi trattati dalla ricerca. O quando rappresentativo di una produzione in apparenza distante da quella analizzata qui. Sia per accedere a una conoscenza il più possibile onesta e completa di ciò che doveva essere il cinema del pe­ riodo nell’ambito del quale si è modellata questa forma di rappresentazione dello sguar­ do; sia perché la rarità del materiale raccolto rende comunque quest’ultimo un docu­ mento utile per lo studioso. Sebbene, per ragioni di spazio, non sia stato possibile riprodurre qui le schede di tut­ ti i film visionati nel corso della ricerca, ugualmente i film più rappresentativi sono rac­ colti e schedati in ordine alfabetico nella seconda parte di questo volume, e ricorrono nel testo della prima parte con il titolo contrassegnato da un asterisco. Ad essi, le pagine che seguono fanno riferimento. Bologna 1989 Bordeaux 1997

Note all’introduzione

1 In questa direzione, da anni lavorano studiosi come Noel Burch (cfr. soprattutto Burch, 1979, 1987 e 1990), André Gaudreault e Tom Gunning (in particolare si vedano Gaudreault, a cura di, 1988 e 1993), Aumont (1989), oltre all’équipe americana Bordwell-Steiger-Thompson (1985) per quanto ri­ guarda il cinema classico hollywoodiano. Quanto alla presunta “naturalezza” del linguaggio cinemato­ grafico, basti ricordare i termini del dibattito italiano sulla recente “riscoperta” dei combatfilm america­ ni girati in Italia all’indomani della liberazione, per accorgersi di quanto la questione sia ben lontana, e purtroppo, dall’essere assimilata. 2 Cfr. Dagrada (1986).

11 3 L’espressione «contesto pragmatico» è usata qui nel senso elaborato da Segre (1977). 4 Fatalmente, il nome “soggettiva” (analogamente all’espressione francese plan subjectify a quella spagnola càmara subjective e a quella inglese point-of-view shot) evoca l’espressione della soggettività del personaggio, oltre al fatto di mostrare sullo schermo ciò che vede lo stesso personaggio. Su questo pun­ to, cfr. qui il capitolo IV e i riferimenti bibliografici in esso segnalati. 5 Per la nozione di «orizzonte di attesa» (Erwartungshorizonfì, cfr. Jauss (1967). Per la nozione di paratesto, si veda soprattutto Genette (1981). 6 Presso l’archivio del M.O.MA, inoltre, è stato possibile visionare e schedare il delizioso The Love Microbe*. 1 Gli aspetti dell’“internazionalità” nel cinema delle origini sono stati oggetto del 11° convegno or­ ganizzato da Domitor, Associazione intemazionale che promuove la ricerca sul cinema delle origini. Gli atti di quel convegno sono stati pubblicati in Cosanday e Albera (a cura di, 1995). 8 A proposito del caso Eine Fliegenjagd*, cfr. Dagrada (1990) e (1995b); a proposito delle due ver­ sioni de La Poule aux oeufi dor* cfr. Canosa-Dagrada (1989) e Dagrada (1995a).

I. Archeologia di una figura

Li. Cinema delle origini, origine dello spettatore «...la creazione immaginaria (...) è in parte condizionata, non so­ lo nei contenuti ma nel suo stesso funzionamento, dall’evoluzione delle teorie e delle tecniche che modificano i rapporti dell’uomo con il suo ambiente, e la rappresentazione che egli si fa della pro­ pria situazione nel mondo» (Max Milner)

Fra le tremolanti vedute che abitano lo schermo delle origini, c’è un’immagine che ricor­ re fino a confondersi con la propria forma: l’immagine di un mascherino, circolare ma non solo, dentro il quale guardano astronomi e scienziati, barbieri e portinai, domesti­ che e garzoni, scolaretti e camerieri... Individui quotidiani o fantastici, adulti o bambi­ ni, proletari o borghesi, ma tutti inevitabilmente voyeurs (e voyeuses), intenti, con eccita­ mento e determinazione, ad esercitare la propria “facoltà di sguardo”. Su un piano strettamente iconografico, quel mascherino è assolutamente identico a quello che rappresenta il cannocchiale attraverso cui James Bond, in Goldfinger (Guy Hamilton, 1964), spia le mosse del suo nemico mentre gioca a carte. O ancora - per ci­ tare solo un altro esempio a noi più vicino - è identico a quello del visore a raggi infra­ rossi attraverso cui l’assassino in The Silence of the Lambs (Il silenzio degli innocenti, Jo­ nathan Demme, 1991) spia le mosse dell’agente che gli sta dando la caccia. E identico, cioè, al mascherino di cui si serve ancora il cinema a noi contemporaneo per significare la presenza di un personaggio che guarda, al di qua dell’obiettivo di un telescopio (di un binocolo, o di un qualunque altro visore ottico), e realizzare così ciò che da quasi un se­ colo si è convenuto di chiamare una soggettiva.1 Un nome ambiguo, per una figura sug­ gestiva ma anche complessa, che mostra sullo schermo ciò che vede un personaggio fa­ cendo di quest’ultimo, per l’appunto, il soggetto di uno sguardo. A questa figura, la letteratura teorica sul cinema dedica da sempre grande interesse anche in virtù delle sue molteplici implicazioni stilistiche, semiotiche e narratologiche, che potenzialmente investono la sfera dell’enunciazione, della prospettiva narrativa, del­ la soggettività e della distribuzione del sapere. In virtù delle sue numerose varianti quali, tra le altre, il raccordo sullo sguardo, il campo controcampo, l’immagine mentale e l’im­ magine ricordo. In virtù, infine, della sua diffusa fortuna che ne ha fatto una figura am­ piamente usata e abusata, che oggi compare, oltre che nel cinema narrativo cosiddetto di finzione, anche nei documentari, nella pubblicità, nei cartoni animati, nonché nei più svariati generi televisivi.2 Tanto che, periodicamente, c’è chi propone di ribattezzarla con un diverso nome ritenuto più appropriato (immagine analitica, piano-sguardo, campo personalizzato, ocularizzazione interna...),3 anche se qualunque spettatore un po’ avver­ tito la comprende senza bisogno di sapere che ha un nome, e di quale si tratti. Certo, oggi, il mascherino delle origini compare di rado, ed anzi la soggettiva sembra

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decisamente avviata verso una forma sempre più essenziale quanto più ellittica. Allo spettatore odierno bastano pochissimi indizi per “riconoscerla”: è sufficiente che l’imma­ gine di una semplice strada di campagna sia ripresa con la macchina a mano, in movi­ mento verso l’avanti, e accompagnata dal rumore di passi affrettati, di un respiro affan­ noso o di un battito cardiaco, per essere interpretata come la soggettiva di un uomo in fuga. Anche se lo spettatore non sa chi quest’uomo sia, se non ha mai veduto il suo vol­ to. Accade spesso, ad esempio, nei film di Brian De Palma, dove basta un movimento brusco, accompagnato dall’amplificazione sonora del respiro, per denunciare la presenza di qualcuno che guarda: solitamente un personaggio ancora ignoto allo spettatore. Ma accade pure, ancora oggi, che un mascherino circolare come quello descritto sopra sia sufficiente per suggerire allo spettatore la presenza di uno sguaido diegetico al di qua di un visore ottico. Per creare suspense. Tensione. Attesa. Stando così le cose, chiedersi a questo punto da dove viene la soggettiva rischia di apparire una domanda oziosa. Chiedersi da dove vengono e come si formano le compe­ tenze grazie alle quali lo spettatore odierno interpreta determinati indizi e segnali quali il movimento in avanti, il mascherino circolare, il rumore del respiro affannoso, come in­ dizi e segnali che significano la presenza di un personaggio che guarda, può sembrare un interrogativo retorico la cui risposta s’impone da sé: viene da quel mascherino, descritto sopra, identico nella forma a quello oltre il quale James Bond spia le mosse del suo anta­ gonista di turno. Viene cioè da quei film, numerosi, che nei primissimi anni di vita del cinema mostrano per la prima volta, circondato da un mascherino, ciò che vede un per­ sonaggio raffigurato sullo schermo. Come nel più noto di questi film, Grandmas Rea­ ding Glassi dove un bambino impugna una lente d’ingrandimento per osservare alcuni oggetti (la pagina di un giornale, un canarino, un orologio...) che puntualmente com­ paiono sullo schermo ingranditi e incorniciati da un mascherino circolare su fondo ne­ ro. Certo le differenze formali tra i piccoli film delle origini come questo e le soggettive descritte prima sono numerose: lì può mancare addirittura lo stesso mascherino; nei film delle origini, invece, manca il sonoro, e molto altro ancora. Su un piano sostanziale, poi, lo scarto è ancora più grande perché la soggettiva di James Bond informa lo spetta­ tore e ne modalizza la partecipazione alla vicenda vissuta dall’agente segreto britannico. Mentre nei film delle origini, spesso, non c’è neppure una vicenda a cui lo spettatore è chiamato a partecipare; c’è solo qualcuno, che guarda qualcosa. Ciò nonostante è indub­ bio: questi film delle origini, dove i personaggi più diversi osservano oggetti altrettanto diversi, presentano alcune inquadrature mediate dall’esibizione di uno sguardo. Eppure, sarebbe ingenuo credere che questi film siano davvero la risposta all’interro­ gativo formulato sopra. Grandmas Reading Glass*' a tutt’oggi ritenuto il più antico tra i film che rappresentano lo sguardo di un personaggio, non è la miracolosa epifania del primo caso di soggettiva della storia del cinema. Non solo per le differenze, importanti, accennate or ora. Ma soprattutto perché, se anche davvero fosse il primo film della sto­ ria del cinema in cui compare la struttura della soggettiva, con buona pace dei fautori del mito della prima volta, parlarne in termini di prima volta, appunto, di epifania, o addirittura d’invenzione, non ci fornirebbe una vera risposta. Non basta, infatti, rintrac­ ciare i “primi casi” di una figura per individuarne l’origine; occorre anche — soprattutto — risalire alle motivazioni profonde che hanno portato alla sua comparsa. Occorre co­ glierne lo spessore culturale collocandola in quel processo di trasformazione del visibile senza il quale, o al di fuori del quale, non si sarebbe forse materializzata. Perché nessuna forma nasce dal nulla, e risalire alla sua genesi significa anche risalire alle ragioni che ne hanno favorito l’apparizione. Alle ragioni che hanno portato all’apparizione di questa forma, e non di altre.

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In questa prospettiva, rintracciarne i “primi casi” è certo indispensabile, anche per interrogare con attenzione le manifestazioni più antiche che ci è dato di osservare. Ma solo perché si tratta dei “primi casi” che contengono, nella loro composizione iconogra­ fica come nelle tematiche messe in gioco, gli elementi necessari per risalire alla risposta che stiamo cercando. Un percorso non semplice. Un percorso da archeologo. Sia nel senso che dobbiamo a Ceram (1965), che da precursore ha saputo tracciare la mappa di quell’insieme di forme spettacolari che precedono il cinematografo e in esso confluiscono: dalla lanterna magica ai giochi ottici, dai Panorami ai Diorami, al Mondo Nuovo, al teatro d’ombre, alle fan­ tasmagorie... Ma anche nel senso proposto da Foucault (1969), perché i vuoti e le as­ senze, affatto casuali, che costellano questa mappa, ne fanno un terreno da scavare con la minuzia dell’archeologo del sapere, all’intersezione tra storia della cultura e storia delle forme, iconografiche e spettacolari. Perché Grandmas Reading Glass*, insieme con tutti gli altri film delle origini in cui è possibile rinvenire questa forma di rappresentazione dello sguardo, appartiene a un’epo­ ca che ha coinciso con quell’età del cinema - l’età delle origini, appunto - che non si esaurice nella totalità dei film prodotti nei primi quindici o vent’anni di esistenza dello spettacolo cinematografico, bensì ne somma la materialità all’insieme dei circuiti icono­ grafici e spettacolari in cui i film medesimi operano e ai quali sono strettamente collega­ ti; così come si somma, inestricabilmente, all’evoluzione corrente delle teorie e delle tec­ nologie suscettibili di modificare il modo di percepire e sperimentare l’universo circo­ stante, e di ripercuotersi sui meccanismi della creazione artistica e immaginaria.4 Un’e­ poca, ancora, che parallelamente all’incubazione, gestazione e successiva affermazione dello spettacolo cinematografico, ha conosciuto innumerevoli capovolgimenti scientifici, tecnologici e culturali. Un’epoca, infine, che sotto il profilo strettamente cinematografi­ co ci è distante almeno quanto il cinema delle origini lo è da ciò che è divenuto il cine­ ma in seguito - tutto il cinema! Perché l’età delle origini costituisce un vero e proprio momento a sé anche in rapporto al resto del cinema muto, che solo a partire dagli anni Dieci — peraltro a loro volta problematici — si è lentamente e variamente allineato su quei binari che lo hanno portato fino a noi. Prima, invece, e dal momento della sua na­ scita, il cinematografo si configura come un vero e proprio cinema alle origini del cinema che conosciamo oggi; come un evento a metà tra la curiosità ottico-scientifica e il punto d’incontro tra forme di intrattenimento popolare vecchie e nuove. O meglio, come il luogo di intersezione tra forme spettacolari passate e future, variamente intrecciate con i percorsi paralleli dell’ottica e della divulgazione scientifica, dove la nostra figura compa­ re sì per la prima volta, ma per significare cose diverse da quelle che significa oggi, e per assumere modi e ruoli differenti, come in parte si è già visto, da quelli che assumerà nel cinema successivo. Negli ultimi vent’anni,5 l’età delle origini del cinema è stata più di ogni altra sotto­ posta a un’attenta revisione storiografica che le è valso il riconoscimento di modo di rap­ presentazione a sé, o Modo di Rappresentazione Primitivo (MRP, secondo Burch, 1987 e 1990), in quanto tale contrapposto a un Modo di Rappresentazione Istituzionale (MRI) che caratterizzerebbe, secondo Burch, il cinema a venire.6 Se affrontata a partire dalle at­ tese del nostro presente, per forza di cose, una tale età delle origini non può che apparir­ ci estranea, quando non addirittura impenetrabile, alla stregua di un idioma straniero di cui non si possieda la chiave d’accesso. Il Modo di Rappresentazione che la contraddistin­ gue è infatti anzitutto fortemente contrassegnato da alcune caratteristiche formali - au­ tonomia dell’inquadratura, orizzontalità della rappresentazione, illuminazione omoge­ nea, “esteriorità” dello spettatore... - per noi oggi difficili da decifrare. E dominato da

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un’estetica Ae\V attrazione spettacolare (cfr. Gunning, 1986, e qui II.2. e III.l.), che si contrappone alla logica della narrazione lineare e continua a noi oggi così familiare. Ed è altresì dotato di un proprio universo simbolico, di propri riferimenti culturali, di pro­ prie modalità espressive relativamente stabili e sufficientemente autonome da riuscire a convivere, a partire dalla seconda metà del primo decennio del secolo, con più forze contraddittorie che ne fanno anche e contemporaneamente un cinema di transizione, for­ temente ancorato al proprio passato e però proiettato verso un futuro prossimo. Per im­ parare a decifrarlo e a comprenderlo, per coglierne la complessità e lo spessore, per ca­ pirne il funzionamento e i molteplici riferimenti culturali, occorre perciò fare lo sforzo di spogliarci delle nostre attuali competenze e rivestire, nella misura del possibile, quelle dello spettatore del suo tempo; occorre abbandonare il nostro punto di vista per entrare in sintonia con quello dello spettatore a cui il cinema delle origini si rivolge, e che nel cinema delle origini riconosce il proprio bagaglio di competenze spettacolari e iconogra­ fiche, le proprie aspettative psicologiche e culturali, oltre a quello stesso universo simbo­ lico, quella logica e quei riferimenti che formano il quadro del suo orizzonte di attesa.7 Certo, questo quadro è giunto a noi cosparso di buchi e lacune. A lungo ignorato dalle istituzioni archivistiche del sapere e della cultura “alta”, il cinema delle origini è og­ gi in larga misura inaccessibile anche perché la grande maggioranza dei film prodotti al­ lora è andata irrimediabilmente, e colpevolmente, perduta.8 Così come resta poco dei rari discorsi prodotti intorno ai film, di quei documenti cartacei e iconografici che po­ trebbero oggi permetterci di valutarne le modalità di produzione e di interpretazione, disoccultando così ciò che la pratica archivistica ha occultato, impedito o disperso. Que­ sti discorsi, anzi, sono talvolta inesistenti in partenza: basti pensare alla mancanza, sinto­ matica, di un qualunque discorso critico fin quasi alle soglie degli anni Dieci. Prima di quella data, vale a dire per buona parte del periodo che ci interessa qui, solo quanto è sopravvissuto di un eventuale paratesto — cataloghi, listino dei prezzi o indicazioni di una lunghezza in metri — costituisce talvolta l’unica indiscutibile traccia dell’esistenza di un film. E solo le descrizioni riportate dai cataloghi, quando sussistono, costituiscono un possibile indizio, se non di come i film erano visti, almeno di come avrebbero dovu­ to esserlo. Una traccia potenziale non tanto del loro contenuto (in alcuni casi, infatti, sono riscontrabili vistose discrepanze), ma di una loro eventuale ricezione; quantomeno di una ricezione prevista, in quanto tale guidata e auspicata, nonché affidata talvolta al­ l’abilità retorica di un “imbonitore” incaricato di accompagnare la proiezione, e di com­ mentarla orientando la comprensione del pubblico in sala, servendosi anche, appunto, delle indicazioni contenute nei cataloghi. Un insieme di “istruzioni per l’uso”, insomma, in grado di fornirci quegli elementi necessari per una corretta valutazione delle capacità visive dello spettatore del loro tempo. Per questo, per disegnare la mappa della soggettiva occorre farne l’archeologia. Per colmarne i vuoti, riempirne i buchi e sopperire alle sue assenze, occorre avventurarsi nel­ la ricostruzione di quella costellazione di discorsi che hanno circolato intorno ai film do­ ve compare per la prima volta questa figura, riesumandone il paratesto e incrociandone l’analisi con quella di ciò che resta dei film medesimi. Da archeologi - e filologi - del sa­ pere, occorre adoperarsi per tracciarne la storia, ponendosi non tanto in una prospettiva estetica, quanto in una prospettiva preliminare, di ordine filologico per l’appunto, che parta dalla materialità dei testi fìlmici per studiarne la forma e collegarla con tutto quan­ to è possibile ricostruire del contesto che li ha visti nascere e a partire dal quale possano essere interpretati. Un contesto a partire dal quale, cioè, divenga possibile “comprendere come i film delle origini erano capiti”.9 Ma allora, per trovare una risposta adeguata al nostro interrogativo dobbiamo tra­

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sformare la domanda «da dove viene la soggettiva» nella domanda «da dove viene lo spettatore a cui è destinata questa forma di rappresentazione dello sguardo». Dobbiamo prima chiederci da quali esperienze percettive lo spettatore delle origini proviene. In al­ tre parole: da quali immagini vengono queste immagini, e come le vede lo spettatore a cui sono destinate.

1.1.1. Lo spettacolo del mondo

C’è un filmetto in grado di suggerirci, più esplicitamente di altri, una prima risposta. Il suo titolo è Toto aéronaute*, e mostra un ragazzetto, Totò, che sfoglia una rivista e solle­ citato dalle illustrazioni decide di costruirsi una rudimentale mongolfiera domestica per partire, armato di telescopio, alla volta del cielo. Ecco come il supplemento di novembre e dicembre al catalogo Pathé del 1906 ne descrive l’inizio: «Toto feuillette une revue illu­ stre où sont relatés de lointains voyages. Soudain, il lève la tète: une grande idée germe dans son cerveau! Il se frappe le front dun air important et cherche Ics matériaux dont il a besoin: un vaste panier d osier, le filet qui sert à la cuisinère pour faire son marche et Toreiller de sa maman gonfie à un bec de gaz et soigneusementficelé, voilà un ballon sérieux! Toto s’embarque, muni de provisions de route: biscuits, confitures... prononce le traditionneb «Lachez tout» et s’élève dans les airs. (...)» La descrizione continua, ricca in dettagli, fino alla conclusione disastrosa dell’avven­ tura aerea di Totò, ma da un rapido confronto tra il contenuto della pellicola e questo quadretto iniziale è già chiaro che quest’ultimo è ancora più esplicito nel sottolineare il ruolo della rivista illustrata nella decisione di Totò. Anche perché il film non include tutte le informazioni riportate nel catalogo. Né lo potrebbe. Certo Toto aéronaute* è un film più elaborato di Grandmas Reading Glass*, come peraltro la data giustifica. Ma non al punto da essere sonoro, o da presentare un montaggio complesso e completo di rac­ cordi tra piani d’insieme e dettagli, che consentirebbe al pubblico di vedere da vicino la rivista sfogliata da Totò e le sue solleticanti illustrazioni di avventurosi viaggi verso paesi lontani. Se il catalogo si premura di descriverla, questa rivista illustrata (nel film difficil­ mente riconoscibile come tale per lo spettatore odierno, ma anche per quello del tempo, se non fosse per la mimica e la gestualità eloquente di Totò), se si premura di sottolinea­ re il fatto che proprio sfogliandola Totò ha l’idea di fabbricarsi una mongolfiera con ele­ menti dell’arredo domestico, così come si premura di precisare che prima di salpare ver­ so il cielo Totò pronuncia un tradizionale «Lachez tout», possiamo supporre che l’imbo­ nitore, qualora presente, fosse tenuto a sopperire alla mancanza, completando i vuoti e pronunciando la frase di rito in fase di proiezione. Ma possiamo ragionevolmente rite­ nere, anche, che lo spettatore a cui questo filmetto era destinato fosse depositario di un sapere che gli consentiva non solo di capirne le immagini, ma anche di completarne a sua volta i vuoti, riconoscendo una situazione appartenente al proprio bagaglio di espe­ rienze, dirette o indirette che fossero. Come il ragazzetto di questo film Pathé, lo spettatore del cinema delle origini, di cui Totò non è che uno dei molti prolungamenti cinematografici, sollecita la propria fanta­ sia sfogliando riviste illustrate. Da buon “icononauta” (Fespressione è di Brunetta, 1992 e 1996), è abituato da lungo tempo a viaggiare con lo sguardo, e conosce le immagini che Totò osserva dall’alto — i tetti di Parigi, il mare aperto — perché ha già visto quel ma­ re e quei tetti innumerevoli volte. Al cinema, certo, dove già a partire dalla fine del seco­ lo precedente sono numerosissimi i film che mostrano panorami di città e paesaggi ri­ presi dall’alto; ma soprattutto, prima del cinema, nelle stampe popolari, nelle proiezioni

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luminose mediante scatole ottiche, nei Panorami, nelle complesse ricostruzioni architet­ toniche delle Esposizioni Universali...10 Ha già visto, anche, innumerevoli volte una mongolfiera. Se non di persona, in riproduzioni a stampa, nei libri di avventure, come pure attraverso le cronache illustrate dei molti viaggi aerei pubblicamente organizzati nel cielo di quegli anni. O nei popolarissimi spettacoli di lanterna magica, ancora molto in voga al tempo della nascita e dell’affermazione del cinematografo — basti ricordare che un’inchiesta francese del 1904, di due anni precedente al filmetto Pathé e di ben otto anni successiva all’inaugurazione pubblica del Cinématographe Lumière, rileva che il sog­ getto per lanterna magica più richiesto è appunto quello della «navigation aérienne par les ballons dirigeables» (cfr. Perriault, 1981: 113). Antica già di quasi tre secoli, ma dalla seconda metà dell’Ottocento popolare al pun­ to da esibirsi, in alcune città, in spettacoli quotidiani,11 la lanterna magica ha largamente contribuito a formare l’immaginario visivo di un pubblico che diventa, a cavallo tra XIX° e XX° secolo, quello del primo cinema. Questa scatola eclettica per eccellenza, in­ fatti, già preceduta nel tempo dalla camera oscura, nonché dalla lanterna viva lungo il Medio Evo, è fin da subito in grado di spaziare in ogni campo del sapere e del piacere, facendo dello sguardo l’organo privilegiato di accesso alle più nuove dimensioni della scienza e dello spettacolo, del progresso e della meraviglia, spettacolarizzando il mondo, così come l’approdo alla conoscenza del mondo. Basta scorrerne i principali cataloghi per constatare come il suo vastissimo repertorio riunisca in un’autentica sintesi tutte le frontiere del visibile, ponendosi come strumento didattico e spettacolare al tempo stesso. Mescolando vedute astronomiche, panorami­ che, scientifiche, esotiche, licenziose e fantastiche. Immagini di catastrofi naturali e di paradisi artificiali. E proponendo, tra gli altri, una quantità inverosimile di soggetti va­ riamente intrecciati con i temi del progresso, scientifico e tecnologico, che rivoluziona­ no lo stile di vita del XIXO secolo e che il XIX° secolo ripaga, rendendo loro una sorta di omaggio riconoscente, spettacolarizzando la scienza a sua volta. Perriault (1981: 109 sgg.) riporta l’elenco delle proiezioni di lanterna magica effettuate durante una confe­ renza alla Sorbona nel 1880; vi compaiono: «une partie de la surface solaire, le globe lunaire, une éclipse de soleil (par tableau anime), les principals formes de l’aérostat, la machi­ ne à perforer les montagnes, la roue en dessous, une presse hydraulique (...), la coupe en long du telephone de Graham Bell, le microphone...». E ancora: ferrovia, cavi telegrafici, storia naturale, globuli del sangue, fotografia microscopica... Tutti soggetti che torneranno, nuovamente spettacolarizzati, in moltissimi film delle origini. Alla stregua dei numerosi soggetti astronomici, che pure costituiscono una presenza considerevole, ad esempio del catalogo di plaques per lanterna magica del 1884 di Molteni,12 dove su un totale di oltre ottomila titoli figurano cinquecentoquindici vedute di argomento astronomico, e duecentosettantacinque vedute di astronomia popolare. Ma anche alla stregua delle immagi­ ni di viaggio (di nuovo il catalogo di Molteni include un gran numero di riproduzioni d’illustrazioni di «géographie et voyages»', ottocentottantasei vedute numerate e tremilacinquecento fuori catalogo, da aggiungere alle ottomila). Sono proprio queste immagini di viaggio, queste vedute astronomiche, queste lastre a soggetto scientifico o tecnologico che, insieme con l’immaginazione da esse sollecitata, confluiscono sullo schermo delle origini. Né più e né meno delle stesse immagini di città riprodotte nelle vedute panora­ miche dei Panorami e dei Diorami; delle immagini in trompe-loeil riprodotte nelle ve­ dute ottiche del Mondo Nuovo; delle immagini caleidoscopiche riprodotte nei giochi ottici...13 L’elenco potrebbe continuare, ma è già chiaro l’essenziale che per ora ci interessa qui: sul piano strettamente tematico, il cinema si inserisce nell’universo spettacolare e icono­

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grafico del tempo senza apportare un contributo particolarmente originale,14 bensì si li­ mita a sfruttare, in forme tecnologicamente più avanzate, temi e soggetti che hanno già avuto ampia fortuna altrove. Le immagini che scorrono sullo schermo delle origini, cioè, hanno già popolato altri schermi: quello della lanterna magica, quello dei Panorami, quello dei Diorami, quello delle fantasmagorie (cfr. infra il capitolo IV.), quello dei tea­ tri d’ombre, ed anche quello del Musée Grévin dove Emile Reynaud proietta le sue Pan­ tomimes lumineuses. Non solo: continuano a illuminarli, questi stessi schermi, oltre che ad illuminarne di nuovi (pensiamo al cinerama, agli Hale’s Tour, allo schermo gigante installato dai fratelli Lumière all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900...), molti an­ ni ancora dopo l’avvento del Cinématographe. Gli stessi titoli di numerosi film sono ispirati o ripresi, in modo più o meno esplici­ to, da spettacoli appartenuti ad altre forme di intrattenimento precedenti o coeve. Qui basti ricordare, brevemente, tre casi tra i più noti. Il caso di Fire!*, che riprende la popo­ lare storia per lanterna magica Bob the Fireman, di produzione inglese non posteriore al 1880.15 Quello di Histoire dun crime*, derivato da un feuilleton omonimo allestito con statue di cera al Musée Grévin.16 Ma anche il caso, inutilmente controverso, di Le jardinier et le petit espiègle* (più noto con il titolo Arroseur arrosé), ispirato a Louis Lumière dal fratello più piccolo, Edouard, che aveva certamente veduto — se non le tavole stesse — qualcuna delle numerose illustrazioni ispirate alle tavole di Herman Vogel dal titolo L'arroseur, pubblicate a Parigi nel 1887 dalla Librairie Quantin sul modello delle imma­ gini di Epinal per l’infanzia, e che raccontano la stessa stona del film prodotto dai Lumiète ma ambientata per strada e con altri personaggi. Anche le immagini che abitano dentro il mascherino che dà forma alla nostra figura sono direttamente importate dalla lanterna magica o da altre forme di spettacolo ottico e popolare allora in voga. Come altrettante immagini già ricomparse sugli schermi delle origini (come immagini divenute di cinema delle origini), sono ancora panorami di città, eclissi di sole, vedute astronomiche, curiosità scientifiche, immagini di insetti in­ granditi al microscopio (sempre il catalogo di Molteni del 1884 include anche trenta ve­ dute di «applications du microscope»), o ancora immagini vagamente licenziose e ritenute grivoises dalla moda del tempo. Tutti soggetti che appartengono, di diritto, all’immagi­ nario visivo del XIX° secolo. Per guardarle, però, nel filmetto Toto aéronaute* l’intraprendente Totò impugna un telescopio. Per accedervi, cioè, per vedere il panorama del mare o dei tetti di Parigi, a Totò non basta una mongolfiera: gli occorre anche la mediazione di una macchina otti­ ca. Perché se sul piano tematico — lo abbiamo appena visto — il cinema si inserisce nel­ l’universo visivo del tempo senza apportare mutamenti sostanziali, ugualmente viene a sancire, di questo stesso repertorio tematico, nuove e più vantaggiose condizioni di visi­ bilità. Viene a ribadire che sono definitivamente cambiate le condizioni di accesso al vi­ sibile del mondo. E che questo cambiamento, cominciato molto prima del cinema, pro­ prio il cinema lo porta a compimento. Rendendo visibile, tra l’altro, l’immagine di un mascherino dentro il quale guardano individui voyeurs (e voyeuses) intenti, con eccita­ mento e determinazione, ad esercitare le proprie rinnovate capacità visive. Il fatto di benenficiare non più solo di un organo preposto all’esercizio della vista per accedere fuori da sé, ma anche di una protesi ottica e meccanica finalmente capace di porre fine ai naturali limiti dell’occhio, è ciò che più accomuna questi personaggi voyeurs al loro spettatore contemporaneo. L’esercizio compiaciuto di una rinnovata “facoltà di sguardo”, attrezzata e arricchita dalla mediazione di una macchina, è il denominatore comune che unisce lo spettatore delle origini ai suoi molti prolungamenti cinematogra­ fici che, al pari di Totò, abitano i film dove compare per la prima volta la nostra figura.

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Vedere ed esperire il mondo — tutto il mondo, anche quello fino ad allora ritenuto inve­ dibile — è divenuto un gesto definitivamente possibile. Quindi visibile. E divenuto un gesto condiviso, comunemente esperito, sedimentato in un lungo periodo d’incubazione giunto infine a una svolta: quella di una fin de siede che sta consumando gli epigoni di un’autentica, incruenta, rivoluzione percettiva.

1.1.2. Le trasformazioni del visibile

Nel dibattito sulla nascita del cinema, c’è chi rivendica il primato tedesco dei fratelli Skladanowsky su quello francese, universalmente celebrato, dei fratelli Lumière, e chi invece, Per principio, nega che un tale primato possa appartenere a chicchessia, facendo risalire origine del cinema ben oltre l’invenzione della fotografia animata, oltre VArs magna lucis et umbrae (1646) di Athanasius Kircher, oltre i vetri animati per proiezione di Chri­ stiaan Huygens, oltre lo stesso mito della caverna di Platone (Repubblica, 514a-515d). Una cosa è certa: nella storia della cultura occidentale, le ricerche che conducono al­ l’invenzione del cinema appartengono di diritto a quel percorso del pensiero filosofico che, da Aristotele (Metafisica, 23) in poi, pone la vista al vertice delle umane capa­ cità percettive. Anche quando le attribuisce un valore illusorio piuttosto che conoscitivo; quando le rimprovera di soccombere alla fascinazione e all’inganno piuttosto che prati­ care la certificazione e l’osservazione. Anche nel dibattito tra iconoclastia e iconofilia, oggi tutt’altro che esaurito e in certo qual modo rievocato nella contrapposizione tra Charles Baudelaire e il dottor Frankenstein proposta da Burch (1987 e 1990).18 Questo dibattito, infatti, non mette in discussione il primato dell’occhio, semmai discute quali debbano essere i suoi mezzi e soprattutto i suoi fini. Non ne ridimensiona il ruolo nel­ l’accesso alla sfera del visibile (sia che si tratti di realtà sensibile o sovrasensibile; di ripro­ duzione del reale o di tramite verso una conoscenza di ordine differente o superiore), bensì ne elabora comunque il perfezionamento in direzione di un eccesso.19 Eccesso dai limiti fisiologici dell’occhio, dalle barriere imposte dall’esercizio della visione ordinaria. Sotto questo profilo, non importa tanto l’atto primigenio da cui discende la nascita del cinema; importano le trasformazioni del visibile in direzione di un superamento dei limiti naturali dello sguardo, da cui dipende la nascita di un nuovo spettatore. Importa­ no, cioè, quei mutamenti della percezione prodotti dalla mediazione di una macchina, capace di dilatare le potenzialità dell’occhio umano e di modificare al tempo stesso le condizioni di accesso al visibile del mondo. Le macchine della visione, come è noto, compaiono già nell’antichità più remota. Descrizioni del funzionamento della camera oscura si trovano in Aristotele, ottici e astro­ nomi dell’alto Medio Evo la realizzano e ne elaborano un perfezionamento battezzato lanterna viva,20 mentre già nella seconda metà del XV1IO secolo compare la lanterna ma­ gica. Così chiamata ufficialmente a partire dal 1688, la lanterna magica è destinata a un successo duraturo quanto diffuso, che si intreccia, lungo il XVI11° secolo, con la moda del vedutismo ottico e del Mondo Nuovo, dilagante in tutta Europa,21 e con quella del Panorama, brevettato nel 1787 dall’inglese Robert Barker e destinato a un largo successo negli anni a venire. Ma è soprattutto nel corso del XIX° secolo che il lento processo di trasformazione dello sguardo giunge a una svolta decisiva. Sia perché in quel periodo queste macchine della visione si perfezionano e si moltiplicano: parallelamente al pro­ gresso ottenuto dalla lanterna magica nella riproduzione del movimento, infatti, vengo­ no “inventati” la fotografia, il Diorama, un’infinità di giochi ottici quali il taumatropio, lo stroboscopio, il fenachistiscopio (o fantascopio), lo zootropio, lo stereoscopio, il calei­

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doscopio, il prassinoscopio... Sia perché il loro destino si intreccia con i mutamenti cul­ turali prodotti dall’avvento del progresso industriale. In particolare, incrociano sul loro cammino l’avvento della ferrovia, e il conseguente capovolgimento nella percezione del­ lo spazio e del tempo provocato da questa macchina per eccellenza, che svolge un ruolo fondamentale in quel processo che è stato definito di “panoramatizzazione” dello sguar­ do.22 Questo processo, destinato a trasformare letteralmente le condizioni di visibilità del mondo, è inaugurato dalla ferrovia proprio agli albori del XIX° secolo. Chiudendo il secolo, a suo modo il cinema lo porta a compimento. Rendendo omaggio alla ferrovia fin dal suo immediato apparire (con l’/4mWe d un train à la Ciotat, certo — cfr. Aumont, 1989 - ma anche con un’infinità di altri titoli, perché proprio non si contano i panora­ mi ripresi da un treno in corsa, gli arrivi e le partenze filmati dalle più remote stazioni che arricchiscono i cataloghi della produzione cinematografica precedente il 1900). E celebrando, anche, la nascita di un nuovo spettatore, a ragione definito viaggiatore im­ mobile. Naturalmente, tutto il XIX° secolo è iscritto in questo vasto mutamento culturale; si è infatti trattato di un secolo oltremodo ricco di invenzioni che hanno tutte contribuito, ciascuna nel proprio ambito, a modificare radicalmente la tradizionale percezione dei li­ miti entro cui si circoscrive la naturale esperienza umana. Anche se il loro elenco è stato fatto più volte perché valga la pena di soffermarvisi, va ugualmente ricordato, sia pur brevemente, che oltre alla ferrovia in quegli anni fanno la loro apparizione il telegrafo, la radiotelegrafia, il telefono, l’automobile, il dirigibile,23 la bicicletta, assieme a molte altre innovazioni, inconcepibili fino a poco tempo prima, che giungono a porre le basi di un profondo cambiamento destinato a modificare radicalmente il modo di esperire l’uni­ verso circostante. In particolare, gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi anni del Nove­ cento — gli anni della nascita e dell’affermazione del cinema — sono anni di grande pro­ gresso scientifico e tecnologico. Solo il 1895> oltre al Cinématographe Lumière, vede na­ scere i raggi Roentgen; in anni vicini compare il radium (1898), il telegrafo senza fili (1899), la teoria dei quanta di Max Planck (1900), L’Interpretazione dei sopii di Sig­ mund Freud (1900). A suo modo, ciascuno di questi eventi contribuisce a modificare la percezione tradi­ zionale dello spazio e del tempo, superando così le naturali barriere dello sguardo. Il te­ lefono e il telegrafo senza fili rivoluzionano le comunicazioni a distanza, concorrendo anch’essi a modificare sia la percezione della distanza, sia l’esperienza delle relazioni spa­ zio-temporali. I raggi Roentgen aprono lo sguardo al corpo umano, superando una bar­ riera della visione ritenuta fino ad allora insormontabile. Analogamente, una nuova scienza chiamata psicoanalisi consente di accedere a una dimensione ignota come pure apparentemente inaccessibile dell’uomo e della sua mente, viaggiando al suo interno e annientando le distanze temporali della memoria. Quanto alla conquista del cielo, il di­ rigibile e l’aerostato si iscrivono nella continuità di quel vero e proprio cataclisma cultu­ rale inaugurato dalla mongolfiera, che ancor prima della ferrovia ha scompaginato, oltre alla tradizionale percezione dello spazio, l’abituale visione dello spazio e dallo spazio, al­ largandone in prospettiva la stessa accessibilità. È insomma in un clima di vera e propria rivoluzione percettiva, di frenetica estasi positivista dettata dalla più assoluta fiducia nel progresso scientifico e tecnologico, che il cinema fa la sua comparsa giungendo a estendere i confini dello sguardo oltre ogni pos­ sibile barriera. Oltre ogni limite naturale, appunto, sia esso spaziale o temporale, fisico o metafisico. L’antico miraggio della cultura occidentale che pone la vista al primo posto tra i sensi,24 il desiderio di sfuggire alle limitazioni del visibile ordinario, alla strettezza di un infinito apparente, si è infine realizzato grazie all’intercessione di una macchina. So­

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no saltate le gerarchie canoniche secondo le quali l’uomo era al centro dell’universo, e lo stesso corpo come unità di misura è stato sostituito da una macchina.25 Alle macchine della visione imperanti lungo il XVII° e il XVIII0 secolo se ne è aggiunta una — la mac­ china ferroviaria — che ha dato il colpo di grazia alle tradizionali modalità di accesso al visibile del mondo, forgiando uno sguardo nuovo: uno sguardo in movimento. È stato soprattutto Schivelbush (1977) che ha messo a fuoco il ruolo svolto dalla fer­ rovia nella trasformazione dello sguardo, che passa appunto per la mediazione di una macchina e per una rinnovata percezione dello spazio-tempo. Non solo, infatti, la ferro­ via rimodellizza la percezione del tempo (imponendo, tra l’altro, l’uniformazione dell’o­ ra) e dello spazio tradizionali,26 annullandone la continuità organicamente legata alla na­ tura per sostituirla con nuovi valori, quali la velocità e la macchina, appunto. Ma soprat­ tutto diviene il luogo in cui si elabora uno sguardo “panoramatico” (il termine è preso in prestito da Schivelbush a Dolf Stemberger, che a sua volta fa riferimento ai Panorami di Barker), in quanto il paesaggio che la ferrovia rende accessibile, dal finestrino di un tre­ no che scorre ad una velocità elevata, assume le fattezze di un panorama. Movimento e velocità impediscono che se ne colgano i dettagli, ma questo impedimento è compensa­ to da una visione d’insieme altrimenti inaccessibile. Una visione necessariamente indi­ stinta;27 ma anche una visione finalmente globale e onnicomprensiva. Sguardo in movimento. Sguardo onnivoro. Sguardo distratto (proprio come quello dell’«esaminatore distratto» di cui parlerà Benjamin per definire lo spettatore cinemato­ grafico). Se le analogie tra viaggio e spettacolo, tutte molto suggestive, sono colte in par­ te dallo stesso Schivelbush (1977: 42) e ampiamente confermate dall’abbondanza di di­ spositivi spettacolari che riproducono le condizioni del viaggio, quelle più propriamente rinvenibili tra ferrovia e cinema non sono di certo meno suggestive, e sono a loro volta confermate dalla fortuna di un genere delle origini, il travelogue, che fa delle vedute di viaggio la sua grande attrazione spettacolare.28 Così come sono confermate dal confron­ to tra cinema e viaggio ferroviario, non importa quanto frettoloso, abbozzato dalle cro­ nache del tempo che affrontano subito, sintomaticamente, la questione.29 L’analogia più rilevante è senz’altro quella messa a fuoco da Aumont (1989), che ve­ de nel treno «il luogo prototipo in cui si elabora, in pieno XIX° secolo, lo spettatore di massa» (Aumont, 1989: 44). Il viaggiatore immobile che vede scorrere davanti a sé un paesaggio simile a uno spettacolo, racchiuso nel quadro di un finestrino in tutto analogo a uno schermo. Un viaggiatore passivo e seduto. Anonimo e collettivo. Costretto all’im­ mobilità e però dotato ai ubiquità — un’ubiquità paradossale perché inattiva — grazie alla nuova mobilità del suo sguardo. Perché le trasformazioni dello sguardo indotte dalla fer­ rovia non investono solo la sua panoramatizzazione; Aumont ha giustamente rilevato come, lungo il XIX° secolo, sia la stessa mobilità dell’occhio ad essere messa in gioco. La mobilizzazione progressiva dello sguardo dello spettatore, che produce un occhio varia­ bile passando appunto per la modificazione della percezione dello spazio-tempo prodot­ ta dalla ferrovia, come per gli studi pittorici della fine del XVIII0 secolo e per lo spetta­ colo dei Panorami.30 A questo dato, decisivo, possiamo aggiungere alcuni elementi per così dire sussidiari ma di importanza non inferiore. Come il viaggio in treno, infatti, che meccanizza la per­ cezione esaltando una vista innaturale e mortificando i sensi dell’udito e dell’odorato, largamente attivi nell’esperienza di viaggio preferroviario, lo spettacolo cinematografico non ha odori né suoni — quello “muto”, infatti, ha solo rumori posticci. Come il viaggio in treno, di nuovo, che elimina la percezione dello spazio intermedio — lo spazio del viaggio — per am plificare quelli della partenza e dell’arrivo, il montaggio cinematografico elimina tutto ciò che di intermedio si frappone tra un’inquadratura e la successiva,

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che analogamente alla partenza e all’arrivo divengono le sole porzioni di spazio-tempo direttamente esperite dallo spettatore.31 Ma soprattutto possiamo aggiungere un dato ulteriore, decisivo aneli esso, perché co­ me il viaggio in treno il cinema apre lo sguardo del suo spettatore su un paesaggio modi­ ficato dal passaggio della macchina. La ferrovia, infatti, si intromette tra il viaggiatore e il paesaggio come un tutt’uno di cui fanno pane la locomotiva, le carrozze, le rotaie, nonché il telegrafo elettrico, con i suoi pali e i suoi fili, necessario al buon funzionamen­ to dell’insieme.32 In questo modo, però, produce un viaggiatore che accede appunto a un paesaggio modificato, nel suo aspetto esteriore, dal passaggio della macchina stessa. Un viaggiatore che non vede mai solo il paesaggio che sta attraversando, ma sempre an­ che parte della macchina (visibile nel paesaggio) che gli consente di attraversarlo. Nella fattispecie, oltre la cornice del finestrino, vede anche i pali e i fili del telegrafo, divenuti parte integrante del paesaggio e della ferrovia, al pari della locomotiva e delle rotaie. Lo spettatore elaborato dalla ferrovia, insomma, non è solo un viaggiatore immobile dotato di uno sguardo mobile; è anche qualcuno che percepisce un paesaggio che com­ pare oltre la macchina, poiché è visto attraverso di essa. È uno spettatore dotato di prote­ si (la macchina, appunto), che lascia una traccia di sé nell’immagine a cui consente di accedere. In fondo, è la traccia di questa protesi che la forma di rappresentazione dello sguardo elaborata dal cinema delle origini rende infine visibile. E l’immagine di un mascherino che si dà come il contrassegno significativo del suo stesso “passaggio”. Il segno dell’intro­ missione, tra l’occhio e il mondo, di una macchina della visione che fin da subito, e per diversi secoli, le arti figurative hanno prontamente rappresentato — pensiamo al dipinto di Jusepe de Ribera dedicato al senso della Vista (1616ca.), dove compare il telescopio costruito da Galileo nel 1609; o ancora alla serie dei Cinque sensi dipinta da Jan Bruegel a partire dal 1617, dove Allegoria della Vista e dell’olfatto compaiono telescopi da terra messi a punto in ambito olandese33 — senza però mai andare oltre, per così dire, la sua raffigurazione esteriore. Sia nel panorama delle arti figurative, dove sono numerosi i dipinti che rappresentano il senso della vista e il suo esercizio mediante lenti, specchi o Pantoscopi (si vedano, tra gli altri, i dipinti di Pietro Longhi e della sua scuola, oltre alle serie dipinte da Jan van Bijlert, Philipp Jacob Nickhl, Pier Francesco Mola, Pietro della Vecchia e numerosi altri).34 Sia nel panorama dell’iconografia popolare, che tra il XVIII0 e il XIX° secolo ha registrato ampiamente le nuove macchine della visione, nonché illu­ strato con dovizia di dettagli anche il gesto necessario per accedervi — mostrando, cioè, in numerose incisioni, dipinti, illustrazioni e persino suppellettili, una o più persone inten­ te a guardare nel visore di una qualche scatola ottica — senza mai registrare, però, oltre all’immagine “esterna” di un tale gesto e di una tale protesi ottica, anche l’impronta di questo gesto, e di questa protesi, sul visibile del mondo. Il cinema, invece, completa il quadro mostrando la protesi e la sua traccia. Grazie al montaggio — grazie all’eliminazione dello spazio intermedio già operata dalla ferrovia — elabora una forma di rappresentazione dello sguardo che è anzitutto la rappresentazione dell’impronta lasciata dalla macchina sul visibile del mondo. Grazie alla soppressione dello spazio e del tempo intermedi, eliminati dal montaggio, il cinema mostra in successione un personaggio che guarda oltre una macchina e l’immagine osservata dal personaggio medesimo attraverso la macchina, come vista attraverso la macchina. Non solo: grazie al­ l’eliminazione dell’ultima distanza — quella sociale35 — produce uno spettatore di massa che in questa forma di rappresentazione dello sguardo si fa infine soggetto — un soggetto voyeur^ ma anche voyeuse — per osservare le vedute attraverso un visore la cui traccia si materializza nel mascherino, visibile nell’inquadratura.

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È questo nuovo spettatore che il cinema celebra con la soggettiva, prima che diventi soggettiva. Nuovo perché dotato di protesi e di sguardo mobile, di un occhio variabile che ha definitivamente sconfitto i propri limiti naturali. E perché di massa: il cinema, infatti, ne ha bisogno fin da subito, e subito gli rende omaggio rappresentandolo mentre esercita la propria rinnovata capacità di sguardo. Talvolta, proprio nei film di viaggio, dove il miglior bagaglio, spesso, è appunto un inseparabile telescopio. E dove un viag­ giatore immobile, quando non scruta il mondo attraverso il suo prezioso strumento otti­ co, guarda verso di noi. Come si dice oggi: in macchina.

1.2 II posto dello sguardo «Quando gli attori in Voyage dans la lune si inchinano e ammicca­ no verso il pubblico, non si tratta, come è stato spesso suggerito, dell’ingenua incapacità di distinguere tra il palcoscenico e lo schermo. Si tratta di un riconoscimento esplicito, del rispetto ver­ so un pubblico, abituato alle convenzioni del teatro popolare, per il quale questi film erano realizzati.»

(John Frazer)

Nel cinema delle origini accade di frequente che chi è inquadrato guardi in macchina. Così di frequente da indurre a riflettere sulla natura di questo sguardo, divenuto nel tempo oggetto di un divieto tanto rigido quanto circostanziato, ma che nel primo cine­ ma appare invece profondamente connaturato alle modalità della rappresentazione in atto. Osservato da vicino, infatti, questo sguardo in macchina rivela una complessità e una varietà non riconducibili a un unico registro; tanto che si può persino tentarne un abbozzo di tipologia, poiché lo sguardo in macchina del primo cinema può essere di al­ meno tre tipi. Esiste lo sguardo furtivo del passante distratto o curioso; lo sguardo, per intenderci, del viaggiatore che scende dal treno in Arrivée d’un train à la Ciotat (Lumière, 1895). Casuale e fortuito, questo sguardo non è nulla più di un atto di curiosità rivolto verso la macchina da presa, e se oggi ci sembra possedere un vago senso di trasgressione è perché contravviene (ma solo oggi, per noi, che veniamo da quasi un secolo di divieto) a quella norma che prescrive, accortamente, di non guardare lo spettatore negli occhi. Esiste poi lo sguardo più o meno sfacciato di chi, sulla scena, chiede apertamente istruzioni sul da farsi (al regista, all’operatore, all’attore collega...). Un esempio palese ricorre in Sister Mary Jane's Top Note*, dove una messa in scena di certo improvvisata co­ stringe gli interpreti a cercare con lo sguardo i dovuti ragguagli per proseguire. Un altro esempio si ritrova in Belustigungen einiger badender Damen im Schilf*, dove pure una re­ gia che ci appare oggi maldestra istruisce gli attori nel corso delle riprese. Ma anche nel delizioso e accurato The House that Jack Built*, dove alla piccola protagonista sfriggono alcune occhiate in direzione della macchina da presa, in cerca delle ultime istruzioni sul comportamento da adottare. Anche in questi casi, più diffusi di quanto non si pensi, si tratta di uno sguardo interlocutorio rivolto dall’attore verso la macchina da presa e le sue più immediate appendici umane (operatore, produttore, attore collega...), che inter­ rompe il ritmo della rappresentazione senza però coinvolgere, nella frattura, lo spettatore in sala. Uno sguardo per noi imbarazzante, oggi, soprattutto per quel tanto di improvvisa­ zione che involontariamente denuncia. Quel tanto, talvolta, di non professionalità di que­ sto cinema che certo non doveva avere sempre buoni motivi per volersi professionale.

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Infine, esiste lo sguardo dell’attore che, sulla scena, si dirige in macchina per rivolgersi espressamente allo spettatore in sala: per salutarlo, interpellarlo,36 per commentare gli eventi insieme con lui, per comunicargli le proprie intenzioni o sensazioni, per acco­ glierlo e farsi accogliere, nonché per ringraziarlo di aver pagato il biglietto d’ingresso. Sono moltissimi i film delle origini in cui questo tipo di sguardo in macchina, ac­ compagnato solitamente da una gestualità esplicita che chiama in causa la partecipazio­ ne dello spettatore, è diffuso al punto da sfiorare il rito. Specie nel caso di quei titoli che adottano la formula del numero di varietà filmato (qui si vedano, ad esempio, Die Springer*Music Hall Artist*\ Die Berhum te Lowenbandigerin*, Cochon danseur*, The Musical Eccentric*...). Su un fondale simile alla tela di un palcoscenico — e che anzi spes­ so è quello di un vero palcoscenico — l’attore (acrobata, pittore, cantante, giocoliere, pre­ stigiatore, ballerino...) entra in scena salutando in direzione della macchina da presa, vale a dire dello spettatore in sala, esegue il suo numero, saluta di nuovo esibendosi il più delle volte in un inchino, ed esce di scena. Questa pratica è così radicata che la si può trovare ancora alla fine del primo decennio del nostro secolo, in film che per una completa esibizione del numero di varietà, o di prestidigitazione, ricorrono alla succes­ sione di più inquadrature (cfr. qui, ad esempio, Animated Cotton* del 1909). O in un genere popolare come le facial expressions (su cui torneremo), derivato per l’appunto dal music hall, e che consiste nella ripresa filmata di un numero di varietà, al fine di per­ mettere all’attore di esibire in direzione dello spettatore in sala (identificato con la mac­ china da presa) buffe espressioni facciali per ottenere effetti comici (cfr. qui, tra gli altri, Ah!La barbe*). In ciascuno di questi casi, la macchina da presa viene considerata dall’at­ tore come se occupasse il posto ideale di uno spettatore di teatro, situato a una media distanza di fronte alla scena, e rivolto costantemente verso di essa.37 Se questo sguardo ci disorienta, oggi, non ci deve però stupire affatto. Nel cinema narrativo successivo all’età delle origini, muto o classico, moderno o contemporaneo che sia, lo sguardo in macchina costituisce certo un divieto universalmente noto, supposto proteggere, tra le altre cose, la privilegiata condizione del voyeur riservata allo spettatore cinematografico, che può appunto guardare senza esser visto guardare. All’epoca del pri­ mo cinema, però, non c’era motivo perché le cose stessero così. Il divieto, infatti, impo­ sto dai produttori intorno agli anni Dieci proprio per tutelare l’«illusione ipnotica»38 dello spettatore, costringendo gli attori ad ignorarlo (ad ignorare la macchina da presa) durante la recitazione, nasce affinché lo spazio e il tempo rappresentati sullo schermo di­ vengano definitivamente uno spazio e un tempo altri rispetto a quelli della sala in cui si trova lo spettatore. Nasce, cioè, affinché lo schermo si trasformi in luogo di rappresenta­ zione di uno spazio-tempo filmico^ circolare e chiuso, dove uno sguardo rivolto allo spet­ tatore in sala diverrebbe sguardo rivolto verso un non-luogo, verso un fuori campo ina­ gibile per l’azione: interpellarlo, allora, significherebbe non solo smascherare il voyeuri­ smo dello spettatore, ma anche violare l’inviolabile impermeabilità dello spazio filmico, svelarne la natura artificiale. Nel cinema delle origini, al contrario, dove un tale spazio filmico, circolare e chiuso, non esiste, questo sguardo che oggi — e solo oggi — chiamiamo “in macchina” non sma­ schera nulla, né evoca alcun ipotetico fuori campo dell’azione, bensì invoca proprio lo sguardo dello spettatore, la cui supposta presenza e partecipazione è a quel tempo parte integrante della messa in scena. A questo sguardo, infatti, lo spettatore delle origini è as­ solutamente abituato,39 perché comune, appunto, al teatro popolare, al vaudeville, al va­ rietà, al music hall... In una parola, è comune a tutte le forme di intrattenimento popo­ lare che confluiscono nel cinema delle origini, e che presuppongono una relazione di contiguità spazio-temporale tra l’attore e il suo pubblico.

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Del resto, anche nel cinema classico e contemporaneo evocato poc’anzi le cose sono più complesse e circostanziate — per non parlare di certo cinema moderno, che fa ap­ punto un uso esplicitamente trasgressivo e provocatorio di questo sguardo in macchina. Il fatidico divieto, cioè, il tabù, come ha chiarito Casetti, «non è assoluto, ma relativo ai riferimenti attivati; e non investe lo sguardo in macchina in sé, ma le sue possibilità di inserimento in un quadro d’insieme» (Casetti, 1986: 38). Si danno infatti generi (come ad esempio il musical o il burlesque) o particolari situazioni narrative (come la stessa soggettiva) in cui il divieto non viene attivato, e lo spazio fuori campo evocato dallo sguardo in macchina si integra perfettamente nell’universo complessivo della diegesi.40 Il cinema delle origini, tuttavia, non è precisamente uno dei quadri d’insieme in cui il divieto non viene attivato. Più esattamente, e proprio perché nel cinema delle origini lo sguardo dell’attore rivolto al pubblico in sala è un fatto corrente e comune alle moltis­ sime forme spettacolari che vi convergono, il divieto dello sguardo in macchina non esi­ ste in assoluto, e non potrebbe comunque, in alcun contesto, essere attivato o trasgredi­ to. Non esistono ancora, infatti, le condizioni che hanno motivato nel tempo la sua in­ troduzione. Tra l’altro, come già si è accennato, non esiste la messa in scena di uno spa­ zio e di un tempo filmici interamente alternativi allo spazio (e al tempo) fisico “reale” occupato dal pubblico: la messa in scena, cioè, di uno spazio e di un tempo diegetici di­ stinti non solo fisicamente ma anche idealmente dallo spazio e dal tempo della sala in cui si trova lo spettatore. Certo nel cinema delle origini esiste racconto, benché in misura e gradualità diverse (una questione ancora aperta su cui necessariamente torneremo in III. 1.). Spesso esiste anche finzione, nel senso di simulazione, affabulazione, invenzione, allontanamento dal­ l’eventuale rappresentazione di un evento realmente accaduto. Alcuni tra i film che ab­ biamo incontrato sul nostro percorso presentano l’uno e l’altra. Ugualmente, però, an­ che in quei film che oltre a inscenare una finzione sono particolarmente compositi, strutturati e organizzati narrativamente, e in cui l’attore riveste i panni di un personag­ gio, di una dramatis persona, di un carattere (cfr. qui The Anarchist and His Dog*, Han­ ging Out the Clothes*, ecc.) spesso accade, nuovamente come nelle rappresentazioni di teatro popolare, che prima o dopo aver compiuto gesti significativi per la comprensione degli eventi mostrati, il personaggio si rivolga allo spettatore in sala (identificato con la macchina da presa) per commentare, mimare, sottolineare l’accaduto. Per eseguire, pro­ prio come a teatro, un a parte in piena regola. Questo sguardo in macchina è molto importante nell’economia del cinema delle ori­ gini. Non solo perché stabilisce apertamente i propri confini, che idealmente, appunto, includono la sala, ma anche perché è uno sguardo attraverso cui quel cinema assegna al proprio spettatore un posto*, esterno all’azione, eppure immediatamente attiguo ad essa, e già identificato, come si è visto, con la macchina da presa.41 Non è un dato di poco conto. In primo luogo perché assegnare allo spettatore un posto significa anche (soprattutto) assegnargli una visuale, che nel cinema delle origini è sempre la migliore possibile. Per intenderci, è la visuale solitamente riservata al posto oc­ cupato dal signore in platea, che il cinema (eliminando, anche, la distanza sociale) rende democraticamente accessibile a tutti, ovvero fruibile in egual misura da qualunque posto. Quindi una visuale essenzialmente esaustiva, poiché in grado di offrire a ogni spettatore una veduta completa e soddisfacente di quanto viene rappresentato. Per questo, si tratta solitamente di una visuale frontale — ma anche laterale o diagonale, qualora l’esaustività della rappresentazione lo richeda, come nel notissimo e a suo modo paradigmatico Ar­ rivée dun train à La dotati1 In ogni caso, si tratta sempre di una visuale comprensiva di tutto quanto fa l’interesse della scena, per consentire a ciascuno spettatore di osservare

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meglio che da ogni altro punto gli oggetti o gli eventi rappresentati. Come vedremo, è questa visuale esaustiva, e spesso anche frontale, che caratterizza immancabilmente le ve­ dute osservate da curiosi e voyeurs nei primi casi di rappresentazione dello sguardo messi a punto nel cinema delle origini. Perché sono appunto vedute organizzate per lo spetta­ tore in sala — di cui il personaggio non è che un prolungamento ideale — sempre e co­ munque dalla miglior visuale possibile. In secondo luogo, assegnare allo spettatore un posto, esterno alla scena ma immedia­ tamente attiguo ad essa, nonché identificato con la macchina da presa, è un dato che condiziona fortemente messa in scena e recitazione, per lungo tempo. Condiziona a lungo la messa in scena perché, nonostante disponga già di uno sguar­ do mobile, il signore in platea occupa un posto ancora immobile. Un posto appunto at­ tiguo alla scena, collocato a una distanza tanto precisa quanto fissa, e impossibilitato a spostarsi verso di essa. Lo spettatore che lo occupa, cioè, al pari della “quarta parete” che a suo modo rappresenta, non si muove né si avvicina al palcoscenico, non cambia posi­ zione, non cambia posto. Se del caso, perciò, è la scena che va verso di lui (in Le Jardinier et le petit espiègle*, quando deve sculacciare il ragazzo burlone uscito fuori campo, il giar­ diniere lo riporta in campo, davanti alla macchina da presa). È cioè la scena che inizial­ mente viene concepita per spostarsi verso lo spettatore. Clamorosamente, anche, e lette­ ralmente, come nel caso esemplare di How It Feels to Be Run Over*, dove per far provare al pubblico in sala la sensazione di venire travolti evocata dal titolo («to show large au­ diences what itfeels like to be run over», recita il catalogo) viene inquadrata un’automobi­ le che avanza verso la macchina da presa a tutta velocità, fino a “investire” lo spettatore seduto in platea: bucando, cioè, lo schermo, e continuando idealmente la corsa nello spazio della sala.43 Ma anche come nel divertente e non meno esemplare Ladies' Skirts Nailed to a Fence*, dove per mostrare allo spettatore i due diversi lati di una staccionata posta in mezzo a un prato, dove due comari chiacchierano animatamente, anziché spo­ stare la macchina da presa viene allestita davanti ad essa una simulazione del secondo la­ to (quello dove due burloni si divertono a inchiodare le gonne delle due comari al legno della staccionata medesima). O ancora, nuovamente, come in ciascuna delle vedute che compaiono al di là del mascherino nei nostri film, le quali appunto sono vedute esausti­ ve perché rivolte allo spettatore in sala (cfr. II.2.2.). E condiziona fortemente la recitazione perché nel cinema delle origini l’attore sa che rivolgendosi verso quel punto occupato dalla macchina da presa si rivolge allo spettatore in sala, come se non vi fosse soluzione di continuità. E naturalmente ne tiene conto. Così come ne tiene conto lo spettatore, che a sua volta sa di essere guardato. Questo ti­ po di sguardo in macchina, insomma, proprio del cinema delle origini, si basa sul mu­ tuo riconoscimento della presenza reciproca: dello spettatore per l’attore, e viceversa del­ l’attore per lo spettatore, perché di fronte a sé, dall’altro lato del vetro dell’obiettivo, c’è chi guarda e sa di essere contemporaneamente riguardato.44 La conseguenza più immediata di questo fatto è l’impossibilità che nello spettatore si crei subito l’«illusione ipnotica», evocata prima, di guardare senza esser visto guardare — un’illusione fondamentale, in futuro, del piacere voyeurista che il cinema riserverà al suo spettatore. Ma si tratta di un’impossibilità compensata da una relazione di uguaglianza, tra spettatore e personaggio, che sconfina in un invito esplicito all’identificazione. Tal­ volta proprio con il personaggio medesimo, in particolar modo nei film in cui compare la nostra figura, attraverso una gestualità mimica che sopperisce all’assenza di quell’iden­ tificazione “secondaria” (vale a dire con il personaggio, secondo Metz, 1977) che sarà propria di molto cinema successivo. E comunque sempre con la macchina da presa, poi­ ché l’attore, guardando in macchina per interpellare lo spettatore, ve lo identifica.45

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Perché la macchina da presa, per Fattore delle origini, è fin da subito, comunque e sempre, uno spettatore presente. Il più delle volte, è anche uno spettatore evocato, coin­ volto, imitato e presupposto, nello sguardo e nel corpo, dallo sguardo e dal corpo dell’at­ tore rivolto verso quel posto da cui lo stesso spettatore lo osserva. E per il quale osserva, nei film che andiamo a esaminare, il mondo da vicino.

Note al capitolo I.

1 Come già si è accennato nella nota 4 all’introduzione, l’ambiguità insita nel termine italiano “soggettiva” suggerisce la sovrapposizione di una funzione espressiva e psicologica a quella più propria­ mente percettiva e linguistica. Quest’ambiguità, inoltre, non è assente neppure in altre lingue. In fran­ cese, infatti, l’evocazione di una supposta soggettività dei personaggi di cui è rappresentato lo sguardo è suggerita sia dall’espressione caméra subjective, introdotta da Jean Mitry (1965) e fortemente intrisa di implicazioni psicologiche; sia dall’espressione pian subjectif, usata da Metz (1971 e 1972), che oltre a suggerire l’espressione della soggettività dei personaggi presenta anche l’inconveniente di evocare una sola inquadratura, piuttosto che una struttura suscettibile di essere composta da più piani. Lo stesso problema è posto dall’espressione inglese point-of-view shot, che evoca sia una sola inquadratura, sia un “punto di vista”, concetto che deve la sua fortuna proprio a un’ambiguità di fondo che alcuni studi in proposito hanno cercato di fugare (in particolare cfr. Aumont, 1983). Non sfugge a questi equivoci neppure l’espressione francese ocularisation, introdotta da Jost (1987), che pure si vorrebbe un concetto prioritariamente narratologico; essa, infatti, benché si distacchi dall’espressione del sapere (riservata al concetto genettiano di “fecalizzazione”) non è per questo disgiunta da finalità soggettive e psicologi­ che. 2 È noto il caso di Lady in the Lake (Robert Montgomery, USA 1946), liberamente tratto dall’o­ monimo romanzo di Raymond Chandler, in cui lunghissimi brani (alternati a inquadrature che mo­ strano il protagonista rivolgersi direttamente allo spettatore) sono interamente realizzati in soggettiva, nella convinzione - ingenua - che questa figura sia omologabile alla prima persona narrativa. Altret­ tanto leggendario è il progetto di Orson Welles, che voleva realizzare un film interamente in soggettiva tratto da Heart ofDarkness, di Joseph Conrad. Meno leggendario ma estremamente frequente è il caso di quelle soggettive che nei sedicenti documentari sulla vita degli animali vorrebbero raffigurare, per fa­ re un solo esempio, ciò che vede il lupo correndo nella steppa, grazie ad un abile montaggio che alterna inquadrature del lupo che corre nella steppa ad inquadrature realizzate con traballanti movimenti in avanti che sono supposti rappresentare lo sguardo dell’animale (omettendo un dettaglio tutt’altro che trascurabile per un “documentario”, e cioè che il lupo non vede come l’uomo...). 3 La letteratura teorica sulla soggettiva è oggi tra le più abbondanti. I testi classici sono senz’altro quelli di Jean Mitry (1965) - che a sua volta si rifa, tra gli altri, a Jean Epstein, Pierre Porte e Maurice Merleau-Ponty - e di Christian Metz (1972), che riprende da Mitry uri interessante definizione di “im­ magine associata”, rielaborata ancora in Metz (1991). Ma è soprattutto nell’ambito della recente narratologia che alla soggettiva sono stati dedicati interi studi, o copiose parti di essi. Cfr. in particolare Branigan (1984); Casetti (1986); Jost (1987), che ha introdotto la nozione di ocularizzazione', Vernet (1988), che parla di champ personnalisé. La definizione di piano-sguardo è proposta invece da Aumont (1989). Sulla problematica dello sguardo nel primo cinema si vedano in particolare gli studi raccolti in Gaudreault (a cura di, 1988). 4 Per l’importanza attribuita all’evoluzione delle tecnologie nei meccanismi della creazione artistica e immaginaria, cfr. gli studi, altrimenti distanti, di Schivelbush (1977), Fink (1978), Baxandall (1979) e Milner (1982). 5 Uriautentica svolta agli studi sul cinema delle origini è stata impressa dal simposio organizzato dalla FIAF (Fédération Internationale des Archives du Film) a Brighton nel 1978, dove furono mostra­ ti ai partecipanti circa cinquecento film realizzati tra il 1900 e il 1906. Gli atti di quel simposio sono oggi raccolti in due volumi (Holman, a cura di, 1982; e Gaudreault, a cura di, 1982). Il primo racco­ glie gli interventi dei partecipanti alle discussioni che hanno accompagnato la visione dei film, nonché i testi delle relazioni, in buona parte pubblicati anche sul n.29 dei Cahiers de la Cinémathèque dedicato

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a «Le cinema des premiers temps (1900-1906)» (a cura di Andre Gaudreault, 1979). Il secondo volu­ me (Gaudreault, a cura di, 1982) è invece un primo tentativo di filmografìa analitica dei film proiettati durante il simposio. 6 Una lettura più sfumata dell’evoluzione del linguaggio cinematografico, che anziché dividere le età del cinema in due tronconi (MRP e MRI) individua negli anni Dieci un cinema “della seconda epoca”, è proposta da De Kuyper (1992a) e (1992b). Sulla necessità di circostanziare l’operatività di una distinzione troppo rigida tra MRP e MRI si veda anche, qui, il paragrafo III. 1. 7 Per la nozione di «orizzonte di attesa» (Erwartungshorizoni), cfr. Jauss (1967). 8 Seguendo le orme di Foucault, sarebbe tutt’altro che inutile chiedersi perché, oggi, del cinema primitivo è necessario fare l’archeologia. Chiedersi perché, troppo a lungo ignorato dalle istituzioni del sapere - siano esse archivistiche o cinetecarie - oggi il cinema delle origini sia andato quasi interamente perduto. Una possibile risposta, ci pare, viene proprio dalle coordinate disegnate da Burch (1987) e (1990); il suo studio, infatti, induce a sospettare che se tali istituzioni hanno occultato la prima età del cinema, ciò potrebbe esser dipeso dal fatto che il cinema delle origini era troppo fortemente popolare, nel senso che si rivolgeva a un pubblico appartenente a strati sociali inferiori e incolti, che ne sovradeterminavano estetica e contenuti. In questa prospettiva, l’occultamento della prima età del cinema, o se vogliamo le ragioni della sua colpevole, mancata conservazione, sarebbero le stesse che nel tempo han­ no posto il Mode dì Rappresentazione Primitivo in rotta di collisione con il cinema a venire, e con le esi­ genze, ideologiche ed economiche insieme, di un allargamento del mercato a un pubblico più vasto e diremmo oggi - “generalista”. 9 II riferimento, naturalmente, è a Christian Metz (1971). Alla ricostruzione dell’orizzonte d’attesa iconografico dello spettatore, anche delle origini, lavora da tempo lo studioso Gian Piero Brunetta; si vedano in particolare Brunetta (1988) e (1992). 10 È nota la ricostruzione del vieux Paris, da parte di Albert Robida, per l’Esposizione Universale parigina del 1900. Sull’argomento, cfr. in particolare Toulet (1986), e Costa (1989). 11 Accade a Londra (cfr., tra gli altri, Zotti Minici, a cura di, 1988a). Per una storia della lanterna magica, o megalographica, si vedano almeno Mannoni (1994), e il contributo di Donata Pesenti Com­ pagnoni in Berretto, Pesenti Campagnoni (a cura di, 1996). 12 Alfred Molteni, erede di una lunga linea di fabbricanti d’ottica di origine italiana, fu conferen­ ziere e autore di importanti opere relative alla lanterna magica (Instructionspratiques sur l’emploi des appareils de projection, la ed., 1878; Empiei des projections lumineuses dans Tenseignementprimaire, Paris, A.Molteni, s.d.; Catalogue des tableaux sur verte en noir et en couleur pour Renseignement par les projec­ tions). Fu sostenitore convinto dell’impiego didattico della lanterna, e dal 1872 diresse la ditta familiare producendo materiale ottico specializzato. Sulla sua collezione si vedano in particolare Perriault (1981: 110-111) e Mannoni (1994: 269-271). 13 La bibliografìa in proposito è ricchissima; tra gli altri, si vedano i recenti studi di Mannoni (1994), e Mannoni, Pesenti Campagnoni, Robinson (1995). 14 Tra i numerosi contributi su questo affascinante tema, si vedano almeno Brunetta (1988) e (1992), Costa (a cura di, 1983) e (1991), Gunning (1979) e Toulet (1988). 15 Riprodotta in Gaudreault (a cura di, 1979). 16 Cfr. in Costa (a cura di, 1983) la riproduzione di sei scene. 17 Cfr. in proposito Sadoul (1947). Si veda in Pinci (1994: 42) il riferimento a lastre per lanterna magica e a illustrazioni per bambini sullo stesso argomento ritratto nel filmetto Lumière. Questo po­ polare soggetto, tra l’altro, non solo è stato riproposto più volte dagli stessi Lumière, ma anche copiato da altri, ad esempio da Bamforth con The Biter Bit (1900), e da Edison con Scarecrow Pump (1904). 18 Cfr. Burch (1987) e (1990), in particolare il primo capitolo. Per la questione affatto esaurita del­ l’opposizione tra iconoclastia e iconofilia, cfr. Perniola (1980). 19 Cfr. in proposito le suggestioni contenute in Costa, Brusatin (1981) e in Starobinski (1961). 20 Per un approfondimento sulla lanterna viva, cfr. Mannoni (1994: 37 sgg.). Sulle macchine della visione alTorigine” dell’invenzione del cinema la bibliografia è vastissima. Si vedano, in particolare, i “classici” Sadoul (1947-48), Ceram (1965), Deslandes (1967), Dagognet (1987), Mitry (a cura di, 1976), il più recente Pinci (1992), e gli ottimi studi di Mannoni (1994), di Mannoni, Pesenti Campa­ gnoni, Robinson (1995), di Berretto, Pesenti Campagnoni (a cura di, 1996), e di Zotti Minici (a cura di, 1996).

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21 Sul Mondo Nuovo e il vedutismo ottico cfr. in particolare Brunetta (1988 e 1996) e Zotti Mini­ ci (a cura di, 1988a e 1996). Sui Panorami - oltre alle indimenticabili pagine di Benjamin (1955) - si vedano soprattutto Stemberger (1938), Barnes (1967), Buddemeier (1970), Ottermann (1980), Fiel­ ding (1983), Aumont (1984), Bordini (1984), Dubois (1993), Plessen (a cura di, 1993), e Frizot (1994). 22 L’espressione è di Dolf Stemberger (1938), che più precisamente parla di “panoramatizzazione del mondo” e di percezione “panoramatica”, per descrivere le modifiche nella percezione occorse in Eu­ ropa durante il XIXO secolo, secondo cui l’uomo sarebbe portato a vedere indistintamente ciò che è all’orig'me distinto. Questa espressione è ripresa da Schivelbusch (1977), nel suo studio sull’avvento del treno e sulla modificazione nella percezione dello spazio-tempo indotta dall’avvento e dalla diffusione del viaggio ferroviario. 23 II dirigibile è stato preceduto dalla mongolfiera, messa a punto dai fratelli Mongolfière intorno al 1783. Ma è soprattutto verso la seconda metà del XIXO secolo che i viaggi in aerostato e dirigibile si perfezionano e si intensificano, fino a sfociare nella messa a punto del dirigibile rigido ideato da Ferdi­ nand von Zeppelin nel 1895. 24 Al punto da elaborare tutta una trattatistica che preconizza, tra le delizie della vita eterna, l’accre­ scimento delle potenzialità visive dell’occhio. Ad esempio, Bartholomeus Rimbertinus (De deliciis sensibilibus paradisis, Venezia, 1498) distingue tre tipi di perfezionamento che il paradiso apporta alla vista dei semplici mortali, tra cui acutezza accresciuta e varietà infinita delle cose offerte alla visione; l’acu­ tezza accresciuta si basa su una maggior capacità di distinguere tra loro le forme e i colori, ma anche sul potere di penetrare le distanze e i solidi interposti tra l’occhio e l’oggetto dello sguardo. In proposito, cfr. anche Celsus Maffèus, De sensibilibus deliciis paradisi, Verona, 1504; e Petrus Lecepiera, Libro de locchio morale et spirituale, Venezia, 1496. Un’approfondita trattazione di questo aspetto si trova in Baxandall (1972), e in Costa, Brusatin (1981). Si veda anche, in Fermo-Pagden (a cura di, 1996), in che modo le arti figurative hanno rappresentato la gerarchia tra i cinque sensi elaborata dalla cultura occidentale. 25 A questo proposito, cfr. le suggestioni contenute in Zumthor (1993). 26 Non a caso, le cronache del tempo parlano inizialmente di una percezione più povera, più inna­ turale, meno libera (cfr. Schivelbusch, 1977: 25 sgg.). 27 Cfr. Stemberger (1938: 80), da cui Schivelbusch (1977: 64 sgg.) riprende e sviluppa l’idea della percezione indistinta come propria del XIX0 secolo. 23 In proposito, cfr. Musser (1983). Cfr. anche Fielding (1983), a proposito degli Hale’s Tour, un dispositivo spettacolare successivo al cinematografo, che si basa sulla simulazione del viaggio ferrovia­ rio. E Marinoni (1996b) per quanto riguarda il tema del viaggio nella tradizione della lanterna magica. 29 Cfr. le note scritte da H. Heine in Lutezio (parte seconda, LVU), secondo cui, annullando lo spa­ zio, la ferrovia avvicina i luoghi più lontani: «cosa sarà, quando verranno costruite le linee verso il Bel­ gio e la Germania, e allacciate alle ferrovie tedesche e belghe! Mi par di vedere i monti e i boschi di tut­ ti i paesi arrivare a Parigi. Odoro già il profumo dei tigli tedeschi. Alla mia porta scroscia il Mare del Nord» (tr. it. Torino, 1954, p.288). Analogamente, qualche anno dopo, il critico e romanziere Rémy de Gourmont parlerà negli stessi termini del cinematorgafo che, tecnologicamente più avanzato, me­ glio ancora di panorami e lanterne consente di «viaggiare per il mondo», di sperimentare in un lampo il contrasto deserto-oceano, gli audaci accostamenti di ambienti tra loro distanti, di visitare luoghi re­ moti sparsi per la terra assai meglio di qualunque altro mezzo precedentemente conosciuto. E René Doumic, addirittura, parlerà di partire per eccitanti «escursioni cinematografiche» (cfr. Rémy de Gour­ mont, “Cinématographe”, Mercure de France, 1° settembre 1907, pp. 124-127; e René Doumic, “L’Age du cinéma”, Revue des deux mondes, 1913, pp.919-922). Semepre a proposito di annullamento della di­ stanza, inoltre - benché riflettendo, un poco più tardi, su ambiti di riproduzione meccanica differenti da quello cinematografico — si veda il bel saggio di Paul Valéry (1928), che addirittura ipotizza una di­ stribuzione di «Réalité Sensible à domicile». 30 Aumont (1989) individua nella ferrovia una tappa decisiva per la costruzione di un “occhio variabile”, proprio dello spettatore che diventerà quello del cinematografo. Il treno, secondo Au­ mont, rimpiazza lo spettatore “ecologico” della pittura con uno spettatore dotato di ubiquità e di onniveggenza. 31 Per l’analisi di questo aspetto, cfr. Schivelbush (1977: 57 sgg.), secondo cui il treno trasporta lo

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spettatore anche verso la lettura - quindi verso la finzione, secondo Aumont (1989). A questo proposi­ to, cfr. qui II.2.4. 32 Schivelbush (1977: 25 sgg.) parla di unità macchina, che integra appunto nell’insieme rappresen­ tato dalla ferrovia anche il telegrafo, senza il quale viaggiare è difficile e rischioso. 33 II dipinto di Ribera (olio su tela, cm.l 14 x 89) si trova presso il Museo Franz Mayer di Città del Messico; L'Allegoria della Vista e dell'olfatto (olio su tela, cm. 175 x 263), di Jan Bruegel il Vecchio, si trova invece presso il Museo del Prado, a Madrid. 34 Per un’ampia rassegna sulla rappresentazione pittorica del senso della vista si veda Ferino-Pagden (a cura di, 1996). Numerose riproduzioni di dipinti, incisioni e suppellettili raffiguranti il gesto di guardare attraverso una macchina ottica si trovano in Zotti Minici (a cura di, 1988a), tra cui si vedano soprattutto i dipinti di Pietro Longhi; in Mannoni (1994, 1995 e 1996a); in Proio e Cari uccio (1978) e in Berretto e Pesenti Campagnoni (a cura di, 1996), relativamente ad alcuni oggetti e dipinti in pos­ sesso del Museo Nazionale del cinema di Torino. In particolare si vedano il dipinto di Giuseppe Gamberini raffigurante uno spettacolo di pantoscopio, olio su tela, cm 84 x 38, prima metà del secolo XVIII0; un dipinto di Giovanni Michele Graneri raffigurante tre “spettatori” intenti ad osservare attra­ verso un visore di pantoscopio, olio su tela, cm 20 x 29, secolo XVIII0; oltre a numerose incisioni, lito­ grafìe, statuine e persino un ricamo francese a piccolo punto risalente al secolo XVIII0, e raffigurante appunto due “spettatori” di pantoscopio intenti a guardare oltre il visore della macchina ottica. Di questa ossessione per una protesi suscettibile di intromettersi tra l’occhio e il mondo, dilatando le potenzialità dello sguardo, anche la letteratura del tempo reca traccia. Analisi affascinanti sull’impor­ tanza che l’ottica e la percezione visiva assumono in letteratura negli anni che precedono l’avvento del cinema si trovano in Milner (1982), per quanto riguarda la letteratura fantastica, e in Fink (1978) per quanto riguarda la letteratura americana. Inoltre, sulla visione come “eccesso” dai limiti della parola, a cui tendono le tecniche della visualizzazione ben note alla retorica classica e i suoi prolungamenti suc­ cessivi, cfr. Costa, Brusatin (1981). 35 Gli stessi luoghi di spettacolo in cui il cinema fa inizialmente la sua comparsa sono i più eteroge­ nei e indistinti, popolari e borghesi, variamente frequentati e comunque diffusissimi: fiere, baracconi, “sale del progresso”, Penny Arcades, vaudeville, music hall, nickelodeon, gallerie, Esposizioni universali, parchi giochi, boulevards, circhi, musei delle cere... (in proposito, cfr. tra gli altri Deslandes, 1963, e Bruno, 1993). In tali luoghi convivono, intercambiabili, tutte le attrazioni dell’epoca, che costituisco­ no un vero e proprio deposito di immaginario visivo da cui il cinema saccheggia a piene mani per im­ pinguare il proprio repertorio. 36 Per un approfondimento della riflessione su questi tre tipi di sguardo in macchina si veda Dagrada (1990b). Abbiamo escluso da questa tipologia lo sguardo che un personaggio rivolge verso la mac­ china da presa identificata con un altro personaggio, perché si tratterebbe di un caso particolare di sog­ gettiva, vale a dire di una configurazione propriamente estranea al cinema delle origini. Infatti, anche quando può sembrare oggi che lo sguardo di un personaggio interpelli la mdp come fosse un altro per­ sonaggio (in How It Feels to Be Run Over*, o in Explosion ofa Motorcar1*), si rivolge in realtà allo spetta­ tore in sala, come confermano i cataloghi del tempo, cfr. qui la nota 44; anche in The Big Swallow*, dove solo nella prima parte Sam Dalton si rivolge al fotografo (a sinistra della mdp!) mentre nella se­ conda parte, dopo aver mangiato il fotografo, si rivolge allo spettatore (vero destinatario di tutto lo “scherzo”). In Their First Snowball*, invece, il personaggio interpellato dallo sguardo delle bambine è presentato chiaramente nell’inquadratura precedente, ma il film è già del 1907, e la circolarità dello spazio “diegetico” proprio della rappresentazione fìlmica ha già fatto capolino (come testimonia, in questo stesso film, la complessa e variegata rappresentazione dello spazio). Per la nozione di interpellazione abbinata allo sguardo in macchina si veda soprattutto Casetti (1986). Per quanto riguarda il nostro primo tipo di sguardo in macchina, invece, oltre a Dagrada (1990b) si veda anche Chàteauvert (1996) che parla di «regard sur la caméra» per designare lo sguardo di un passante verso la macchina da presa durante un documentario. 37 Viene mantenuta, cioè, la staticità del point-ici teatrale; cfr. El-Nouty (1978: 55 sgg.). 38 L’espressione è utilizzata da Frank Woods (pseudonimo, The Spectator) in The New York Drama­ tic Mirror, 14 maggio 1910 (ora in Kauffmann, a cura di, 1972: 40). Sempre in Kauffmann (a cura di, 1972), si veda anche la riproduzione di altri brani critici d’epoca, che testimoniano l’introduzione del divieto e le motivazioni allora addotte. Qui ricordiamo solo che capostipite pare sia stata l’americana

34 Selig Polyscope Company, già intorno al 1909, mentre in Europa il processo fu più lento. Per un’approfondita trattazione della problematica dello sguardo in macchina in ambito più speci­ ficamente enunciazionale e narratologico si vedano, tra gli altri, Metz (1991), Casetti (1986), Vernet (1988), Farassino (1977). 39 Si noti che la tradizione spettacolare dell’“a parte” appartiene anche alla pittura, dove nel Quat­ trocento è emigrata attraverso la figura del festaiuolo, raccomandata dallo stesso Leon Battista Alberti nel suo trattato Della Pittura (1436). In proposito, cfr. le note di Baxandall (1972). 40 Cfr. in proposito Dagrada (1986) e Vernet (1988). 41 Un posto che non è ancora un ruolo, come accadrà in seguito. Sulla problematica del ruolo dello spettatore nel cinema di finzione cfr. in particolare i lavori di Odin (1982) e (1988). 42 È inesatto credere che nel cinema delle origini ogni inquadratura fosse ripresa frontalmente; l’u­ nico elemento comune a ciascuna immagine di quel cinema è infatti l’esaustività relativamente all’e­ vento o alla scena rappresentata, non sempre ottenibile con una ripresa frontale. Si veda in Aumont (1984) e (1989) un’interessante tipologia delle angolazioni, che prevede un «cadrage frontal» corrispon­ dente al punto di vista del signore in platea e connotato da comodità, confort, e un’evidente totalità della percezione; un «cadrage de biais», dal punto di fuga decentrato ma sottolineato, secondo il para­ digma istituito in Arrivée d'un train à La Ciotat, che permette di cogliere al meglio gli sviluppi di un avvenimento localizzato in profondità pur senza doversi implicare direttamente (in questo senso, que­ ste prime due figure frontale e de biais puntano in egual misura a dotare lo spettatore di una veduta esauriente). Infine un’angolazione fondata su un presupposto del tutto differente: quello dell’implica­ zione totale del cineasta nell’awenimento filmato, connotato da soggettività e parzialità, che si ritrova, secondo Aumont, nel cinema di Vertov. Da notare, per quello che riguarda il cinema delle origini, c’è il fatto che le due prime figure rappresentano comunque un vantage point, vale a dire un’angolazione che è migliore non in base a come è realizzata ma a ciò che rende visibile - vale a dire tutto. 43 II catalogo d’epoca della Hepworth Manufacturing Company descrive così l’efFetto auspicato: «...the car dashes full into the spectator, who sees “stars” as the picture comes to an end.» (cfr. Low-Manvell, 1948: 83). E le stelle, di nuovo, lo spettatore le vede letteralmente e frontalmente, dipinte su fondo ne­ ro, esattamente come letteralmente e frontalmente, in The Great Train Robbery (Porter, 1903) vede esplodere verso di sé (in macchina) il colpo sparato dal fuorilegge. Cfr. qui la nota 35, Jost (1992a) su How it Feels to Be Run Over*, e Burch (1990) e Blùher (1994) a proposito di The Big Swallow*. 44 Cfr. Gaudreault (1988b: 13), secondo cui «specateur et acteur soni à égalité. Tous deux regardent et se savent regardés» (sottolineatura dell’autore). 45 Sottolineiamo che l’identificazione dello spettatore con la macchina da presa, definita “identifi­ cazione primaria” da Christian Metz (1977), in quanto identificazione con il proprio sguardo riprodot­ to nelle coordinate prospettiche dell’immagine proiettata appartiene fin da subito al cinema delle origi­ ni (solo l’identificazione secondaria è il prodotto del processo di “centramento”, come vedremo meglio nel terzo capitolo). Lo stesso Christian Metz, d’altronde, non ha mai detto che l’identificazione prima­ ria con la macchina da presa sarebbe un prodotto dell’“Istituzione cinematografica dominante”, succes­ siva al cinema delle origini. Naturalmente, la macchina da presa a cui lo spettatore si identifica nel ci­ nema delle origini occupa un posto di tutt’altra natura rispetto a quello che occuperà in seguito (nel ci­ nema delle origini si tratta infatti di un posto per lo più fìsso - ad eccezione dei panorami e affini citati sopra - esterno alla scena ma immediatamente attiguo ad essa, ecc....). Perciò, solo l’idenrifìcazione con la macchina da presa successivamente al cinema delle origini conferirà allo spettatore, oltre alla già conquistata mobilità dello sguardo, anche l’ubiquità propria alla mobilità del punto di vista (cfr. qui il terzo capitolo).

IL Le frontiere del visibile

IL 1. Il cerchio e la serratura, o della facoltà di sguardo «Il “visibile” di un’epoca è ciò che i fabbricanti di immagini cerca­ no di captare per trasmetterlo, e ciò che gli spettatori accettano senza stupore»

(Pierre Sorlin)

Grandmas Reading Glass* (1900), del pioniere inglese George Albert Smith, è a tutt’oggi ritenuto tra i primi, se non il primo film, in cui compare la struttura che diverrà nel tempo la soggettiva.1 Eppure, è stato a lungo un film citato dalla maggior parte delle storie del cinema come uno dei più antichi esempi di primo piano; effettivamente vi compare, come già abbiamo visto, un bambino intento ad osservare alcuni oggetti attra­ verso una lente d’ingrandimento, che appaiono sullo schermo ingigantiti e incorniciati da un mascherino circolare. Il fatto curioso è che le stesse storie del cinema considerano i supposti primi piani di Grandmas Reading Glass* come inferiori ad altri, coevi, proprio a causa della lente d’in­ grandimento, interpretata come un facile espediente che sminuirebbe la portata dell’in­ venzione linguistica (del primo piano) anziché come strumento capace di superare i li­ miti dell’occhio e di trasformare lo sguardo in meravigliosa fonte d’artificio spettacolare. Non è colto, insomma, il ruolo della rappresentazione dello sguardo nella realizzazione di questi “primi piani”, che peraltro primi piani non sono. Naturalmente, ritenere Grandmas Reading Glass*come uno dei più antichi esempi di soggettiva, anziché di primo piano, non è necessariamente più corretto e cambia di poco le cose da un punto di vista conoscitivo. Se il concetto di soggettiva appartiene al lessico di una grammatica del cinema elaborata successivamente, anche il concetto di primo piano appartiene appunto allo stesso lessico, e designa la rappresentazione del volto umano a partire da una scala relazionale inesistente nel cinema delle origini. E se la ge­ nesi della soggettiva, intesa come figura di linguaggio, va ricercata meno nei suoi “primi casi” che nella progressiva messa a punto di quelle condizioni che ne consentono tanto l’emergenza e la codificazione quanto l’integrazione in un linguaggio lineare strutturato ed omogeneo, analogamente serve a poco cercare a tutti i costi nei film delle origini i “primi casi” di rappresentazione del volto umano ma serve, piuttosto, spostare la rifles­ sione intorno alla genesi del primo piano su un altro terreno: quello della sua effettiva integrazione in un’articolazione linguistica complessa come quella comportata dal lento processo di linearizzazione che sfocia, per l’appunto, nel linguaggio cinematografico che oggi conosciamo. Anche per questo, Grandmas Reading Glass* è semmai, a tutti gli effetti, uno dei pri­ mi e più antichi esempi non di primo piano o di soggettiva, bensì di quel “genere” di film che rappresentano uno sguardo, per spettacolarizzarlo mettendo in scena le nuove

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frontiere del visibile. Per esibirle come in un trucco. Come in un artificio ottico. Co­ munque per ostentarle come una conquista dell’occhio. Un “genere” composto da film, assai numerosi nel cinema delle origini, che mettono in scena, alternativamente, perso­ naggi curiosi intenti a guardare attraverso qualcosa, e gli oggetti osservati circondati da un mascherino che riproduce la forma di ciò attraverso cui guarda il personaggio. Vale a dire, per lo più, attraverso il bordo circolare di un qualche visore ottico, come appunto accade in Grandmas Reading Glass*, dove un bambino osserva alcuni oggetti attraverso una lente d’ingrandimento; oppure attraverso il buco di una serratura, come sottolinea la definizione prescelta da Hagan (1979),2 che ha battezzato Keyhole films l’insieme di queste pellicole dove accade spesso, anche, che un personaggio osservi alcune vedute ol­ tre il buco della serratura di una o più porte, e ciò che vede compare sullo schermo cir­ condato da un mascherino a forma di serratura. Riflettere, oggi, su un piccolo film come Grandmas Reading Glass* può avere un qualche valore conoscitivo precisamente perché si tratta — forse — del “primo” esempio di film che presenta le caratteristiche suddette; e perché si tratta comunque di un piccolo film del quale altri hanno ugualmente continuato, imitato, diffuso o reinventato queste stesse caratteristiche.

IL 1.1. La lente della nonna

Il primo piano è senz’altro una delle figure più citate dai cultori del mito della prima volta.3 La sua “invenzione” è stata attribuita più spesso a Griffith (che non ha bisogno di inventarlo per essere grande), ma naturalmente il primo piano non nasce con il cinema. Se inteso come rappresentazione del volto umano segmentato dal resto del corpo (ecce­ zion fatta per le spalle e una parte del busto), non solo da una cinquantina d’anni prima del cinema esiste già il ritratto fotografico, ma quest’ultimo, a sua volta, è stato abbon­ dantemente preceduto dal ritratto pittorico. Nel tempo la lanterna magica ne fa un cer­ to uso, e già alla fine dell’Ottocento il fonoscopio di Demeny — per citare solo uno dei casi più noti — proietta, ingrandite, facce intente a scandire semplici frasi a scopo didat­ tico (cfr., fra gli altri, Mannoni, 1994). L’eredità pittorico-fotografica è sicuramente raccolta in film come il famoso Repas de bébé* (1895) di Louis Lumière, che era - non dimentichiamolo - anzitutto amatore fo­ tografo; questa “veduta”, infatti, pur senza corrispondere a ciò che oggi consideriamo un primo piano (anche per il giardino che circonda visibilmente la famiglia di Auguste Lu­ mière intenta a consumare un’abbondante prima colazione), mostra il busto e il volto delle persone rappresentate escludendo scientemente il resto del loro corpo. E nei pri­ missimi anni del cinema inglese compare inoltre un tipo di ripresa definito facial expres­ sion (Low e Manveil, 1948: 74-75), che consiste nell’inquadrare solo il busto degli atto­ ri, allo scopo di metterne in risalto le espressioni facciali e produrre così effetti comici. Col tempo, Ie facial expressions divengono un vero e proprio genere, fatto di film com­ posti solitamente da una sola inquadratura, spesso interpretati da attori di vaudeville e rappresentati per lo più proprio durante spettacoli di vaudeville, nei music hall. Come genere, inoltre, riscuotono successo oltre Manica, al punto da essere prontamente imita­ te; in particolare in Francia, dove la casa di produzione Pathé annovera, tra le sue «.scenes comiques», numerose «grimaces» (cfr. tra gli altri Une bonne histoire, 1900; Masques et gri­ maces, 1902; ma anche, qui, Ah! La barbe*, La purge*, ecc.). La prima facial expression registrata da Gifford (1973) nella sua accurata cronologia del cinema britannico è Comic Faces* (settembre 1897). La realizza proprio George Al­

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beri Smith, ex fotografo ritrattista ed ex organizzatore di spettacoli con lanterne magi­ che, come del resto quasi tutti i pionieri della cinematografia inglese, che provengono appunto da esperienze professionali legate sia alla fotografìa, sia alla lanterna magica.4 Secondo la gran parte degli storici del cinema, d’altronde, sarebbe appunto questa pre­ cedente esperienza professionale nell’ambito della fotografia e della lanterna magica a spiegare il sorprendente anticipo dei film inglesi sulle altre cinematografie, per quanto riguarda la messa a punto di forme e strutture che saranno proprie del linguaggio cine­ matografico a venire.5 Ma per restare a Smith (sul cui eventuale contributo alla lineariz­ zazione torneremo), dopo aver realizzato Comic Faces egli diviene uno dei più prolifici registi di questo genere.6 Nel corso del 1900 realizza quasi una quindicina di facial ex­ pressions? ha infatti firmato un contratto con Charles Urban che lo impegna a stampare cinquanta film al giorno, e per far questo deve meccanizzare il procedimento di sviluppo e stampa e costruirsi uno studio, incrementando così l’intera produzione (cfr. Chanan, 1980: 231-232; e Barnes, 1988). Di questa quindicina, oltre che del resto della sua cospicua produzione fino a tutto il 1900, al pari di Grandmas Reading Glass* soprattutto due altri film sono particolarmente interessanti sotto il profilo della messa in scena dello sguardo: Grandma Threading Her Needle* e The Two Old Sports*. Si tratta appunto di due facial expressions, diverse tra loro ma entrambe ugualmente significative, pure realizzate nel corso del 1900. Più precisamente, se­ condo la cronologia stabilita da Gifford (1973), The Two Old Sports* sarebbe stato realizzato in febbraio (n°00277), mentre Grandmas Reading Glass* in settembre (n°00336), e Grand­ ma Threading Her Needle* (n°00392) poco dopo, ugualmente in settembre. The Two Old Sports* è un breve filmetto composto da una sola inquadratura nella quale due amici, inquadrati fino alla vita, sfogliano una rivista illustrata8 tenendola ben distesa davanti a sé, in posizione frontale; in questo modo, sulle due pagine della rivista rivolte verso la macchina da presa, lo spettatore può distintamente vedere la fotografia di una bella donna discinta, mollemente adagiata su di un sofà. Fin qui i due uomini resta­ no impassibili, ma non appena voltano la rivista, in modo da vedere loro, ora, le pagine che raffigurano la fotografìa della bella donna discinta (allo spettatore adesso toccano le due pagine qualsiasi che prima guardavano i due uomini) cominciano a scambiarsi com­ plici colpetti di gomito, ammiccando con malizia. Catalogato come facial expression senza dubbio in virtù delle eloquenti smorfie esibide dai due uomini alla fine, in realtà The Two Old Sports* merita tutto il nostro interesse per il ruolo giocato dallo sguardo nel risolvere brillantemente il problema di mostrare una successione nella simultaneità. Il problema di mostrare insieme, cioè, due personag­ gi intenti a guardare qualcosa e l’oggetto del loro sguardo, distribuendo l’azione (e il sa­ pere direttamente conseguente a quest’azione) in due tempi, con intelligenza, e persino con un po’ di suspense? ma realizzando una sola inquadratura fissa. Lo sguardo dei due old sports è centrale in questa breve storiella, e soprattutto è centrale il fatto che lo spet­ tatore sappia in anticipo cosa vedono i due personaggi per bene interpretare il loro im­ provviso cambiamento di umore e i maliziosi ammiccamenti. Non per questo però a Smith, che ha separato in due tempi l’azione, viene in mente di separare in due parti an­ che l’inquadratura, mostrando la rivista attraverso lo sguardo dei due personaggi. D’al­ tronde, perché mai avrebbe dovuto? Il film funziona benissimo così, e a suo modo di­ mostra che in quel sistema organizzato e autonomo che è stato il modo di rappresenta­ zione proprio del cinema delle origini non era necessario “inventare” espedienti partico­ lari, al fine di mettere in scena lo sguardo dei personaggi10 e servirsene per sviluppare una situazione pienamente narrativa (cfr. in proposito II.2.1.). Se qualche mese dopo Smith separa l’inquadratura, infatti, non è solo per mostrare

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in due tempi il personaggio che guarda e l’oggetto del suo sguardo, articolando così soggetto e oggetto in successione, bensì, a partire da una situazione molto diversa (e signifi­ cativamente per nulla narrativa), è per mettere in scena, più che uno sguardo, un trucco. Un meraviglioso ed eccitante artificio ottico. Il film in questione è appunto Grandmas Reading Glass*, in cui un bambino osserva, senza nessun motivo apparente e senza nessun nesso logico nel loro susseguirsi, alcuni oggetti attraverso la lente d’ingrandimento della nonna, che siede tranquillamente al suo fianco accanto a un tavolo e cuce. Ciascuno di questi oggetti compare quindi sullo schermo inquadrato al centro di un mascherino circolare su fondo nero, e soprattutto ingigantito: una pagina di giornale scorsa (attraverso la lente) da sinistra verso destra, il meccanismo di un orologio in funzione, un canarino in gabbia, l’occhio della nonna, il muso di un gattino. A voler adottare con rigore l’attuale terminologia della grammatica del cinema, nes­ suna delle visioni che il bambino si procura guardando attraverso la lente, e che com­ paiono sullo schermo incorniciate dal mascherino, corrisponde a ciò che oggi viene defi­ nito un primo piano.11 Semmai, sempre secondo l’attuale grammatica del cinema, si tratta di dettagli, vale a dire di ingrandimenti, che il bambino esibisce trionfalmente an­ cor prima di comparire in prima persona sullo schermo. Il film infatti inizia con l’imma­ gine del giornale circondato dalla lente, e solo dopo, nell’inquadratura successiva, si ve­ de il bambino appoggiare lente e giornale, prima di prendere dal taschino l’orologio per ripetere il trucco. Perché in ogni caso, per il bambino, di un trucco si tratta,12 di un arti­ ficio ottico reso possibile dall’impiego della lente d’ingrandimento. Pochissimo tempo dopo, infatti, Smith realizza Grandma Threading Her Needle* in cui un’altra nonna (inquadrata fino alla vita: siamo di nuovo in presenza di una facial expression), a un altro tavolo e con un altro cestino da lavoro alla sua sinistra, si accinge a cucire e cerca di mettere il filo nella cruna di un ago. Ma stavolta non ha nessuna lente, e il film affida il chiarimento della situazione alla gestualità ridondante dell’attore (qui la nonna è interpretata da Tom Green) che dopo un paio di tentativi infelici, accompagna­ ti da bronci e smorfie, riesce nel suo intento ed assume un’aria soddisfatta. Il tutto in una sola, autosufficiente inquadratura. Niente lente, insomma, niente trucco: niente ago e filo magicamente ingranditi. Neppure ben due anni più tardi, in Old Lady Tries to Thread a Needle* (1902), sempre di Smith, dove un’anziana signora deve ugualmente infilare un filo nella cruna dell’ago, fallisce un paio di volte, e quando infine riesce nell’intento ostenta un’aria di grande soddisfazione. Anche qui in una sola inquadratura, senza che lo sforzo di infilare il filo nella cruna dell’ago venga mostrato attraverso lo sguardo della donna (in questo film Eva Bayley), pur restando questo sforzo, e questo sguardo, il motivo d’attrazione della pellicola. Perché neppure qui la donna ha una lente, e ago e filo visti da lei sarebbero spettacolari solo se magicamente ingranditi attraverso uno strumento ottico. Proprio come accade agli oggetti osservati dal bambino in Grandmas Reading Glass*, dove ciò che di diverso compare — di diverso rispetto agli altri modi di rappresentazione dello sguardo che abbiamo visto sopra — è appunto il ricorso alla mediazione dello stru­ mento ottico. Il ricorso alla mediazione, cioè, di una macchina della visione che permet­ te di realizzare quel sorprendente (per il bambino, ma anche per lo spettatore in sala) in­ grandimento. È questa mediazione, ostentata e spettacolarizzata, che sta alla base delle magnified views (così le definisce il catalogo dell’epoca, da magnifier, vale a dire “lente”, “ingranditore”) che si trovano in Grandmas Reading Glass*. Una mediazione che le giu­ stifica, e che allo stesso tempo le esibisce per ciò che veramente sono, qui: un artificio percettivo, ottenuto grazie a uno strumento ottico, ed esibito come spettacolo.

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IL 1.2. Storia delleforme e storiografia del cinema

Oltre che in base alle precedenti esperienze professionali di fotografo ritrattista e lanternista, George Albert Smith e la sua produzione cinematografica vengono di norma giu­ dicati all’interno di una valutazione più complessiva della loro supposta scuola di appar­ tenenza: la cosiddetta «scuola di Brighton». Questo, anche quando di tale scuola non si vuol riconoscere l’effettiva esistenza, o quando se ne prendono le distanze. L’etichetta «scuola di Brighton», è noto, risale a Sadoul (1947), ed è stata oggetto di critiche e ridimensionamenti da parte di altri storici, primo fra tutti Deslandes (1967). Altrettanto nota, del resto, è la volontà di polemica di Deslandes nei confronti di Sadoul per il poco rigore storico-filologico delle sue ricerche, che fece addirittura insinuare a Deslandes che la definizione «scuola di Brighton» è forse importante per la storiografia del cinema, ma per la storia del cinema certamente non lo è (Deslandes, 1967: 365). Se abbia avuto ragione Sadoul, a sostenere che i pionieri che lavorarono con Smith a Brigh­ ton tra il 1896 e il 1910 costituirono una scuola, oppure se abbia ragione Deslandes a sostenere il contrario, è ancora oggi oggetto di una diatriba che ci pare viziata, oltre che da una polemica di vecchia data, anche da un pregiudizio di fondo, che potremmo defi­ nire il pregiudizio “del precursore”, vale a dire quell’atteggiamento teso a giudicare l’ope­ ra di un cineasta in base a criteri che non appartengono al suo tempo bensì al nostro, e secondo cui il suo valore dipende direttamente dall’aver saputo o meno anticipare il no­ stro presente. Scartando perciò la questione “scuola o non scuola”, vorremmo ugual­ mente avanzare un’ipotesi tesa a mettere in evidenza l’importanza di un piccolo film co­ me Grandma's Reading Glass*, non per la storia del cinema, o per la sua storiografia, ben­ sì per la storia delle forme del linguaggio cinematografico. Un’importanza che resterebbe tale anche se la «scuola di Brighton», per la storia del cinema, importante non fosse. Si è detto che Grandma's Reading Glass* è un film citato dalla maggior parte delle storie e dei manuali sul cinema come uno dei più antichi esempi di primo piano. Anche in questo caso, capostipite della tendenza fu Sadoul (1947). La tesi di Sadoul è che Smith, «dopo aver impiegato il montaggio come mezzo d’espressione» in film come The Little Doctor* e The Mouse in the Art School, «lo trasforma in trucco (...) e giustifica così il primo piano con l’impiego della lente», realizzando At Last! That Awfid Tooth. Dopo di che «la novità è capita da tutti e Smith sviluppa il trucco in tre film che avranno un successo mondiale e saranno plagiati da Zecca» (Sadoul, 1947: 412); i tre film in que­ stione sarebbero, sempre secondo Sadoul: Grandma's Reading Glass*, As Seen Through a Telescope* e Durante la notte, ovvero il poliziotto e la sua lanterna (così nella traduzione italiana del testo: si tratta di After Dark, or the Policeman and his Lantern)}0 Ora, questo breve brano di Sadoul reclama la correzione di alcune inesattezze stori­ che, senz’altro responsabili delle sue principali inesattezze interpretative. Infatti The Lit­ tle Doctor* (giugno 1901; vi compare a tutto schermo il muso di un gattino) e The Mou­ se in the Art School (giugno 1902; vi compare - sembra - il muso di un topolino) sono entrambi posteriori, come del resto At Last! That Awful Tooth (luglio 1902; vi compare un dente ingrandito attraverso una lente circolare) a Grandma's Reading Glass*', il quale è effettivamente seguito da As Seen Through a Telescope* (settembre 1900, n°00337) e, molto tempo dopo, da After Dark; or the Policeman and His Lantern (novembre 1902). Grandma's Reading Glass*, dunque, non fu una «marcia indietro» (Sadoul, 1947: 412) per giustificare il primo piano mediante un trucco. Né fu un film di primi piani; neppure nel modo in cui lo furono in precedenza, ad esempio, le numerose facial expres­ sions di chiara discendenza pittorico-fotografica, e per le quali Smith, ex ritrattista foto­ grafo, non era mai ricorso all’espediente della lente.14

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Soprattutto, Grandmas Reading Glass* non fu un film di primi piani (né di facial ex­ pressions) perché fu semmai un film di magnified views, vale a dire di ingrandimenti, che a voler imbastire a tutti i costi un improprio parallelo con l’attuale lessico della gramma­ tica cinematografica, a cui già si è accennato, corrispondono piuttosto, nella loro conce­ zione e manifestazione, a ciò che si designa attualmente con il nome di dettagli. Non si tratta di una precisazione pedante: la distinzione tra primo piano e dettaglio, benché spesso trascurata ancora di recente, ricopre infatti una differenza sostanziale. Il concetto di primo piano investe esclusivamente la figura umana e comporta essenzial­ mente un processo di segmentazione/estrapolazione (del volto dal resto del corpo, come dallo spazio circostante), senza necessariamente investire la “grandezza” del volto, che nel primo piano — come pure nelle facial expressions — altro non è se non quella naturale del ritratto, profondamente radicata nella cultura figurativa occidentale.15 Il dettaglio, invece, non concerne esclusivamente la figura umana, anzi di quest’ultima investe solo quelle parti del corpo diverse dal volto (o più piccole di esso, come gli occhi o la bocca), ed è sempre precipuamente un fatto di ingrandimento, in quanto tale percepito comun­ que come innaturale. Perché nel primo piano la dimensione del volto venga percepita come un elemento significativo (peraltro non necessariamente disturbante) deve instaurarsi, attraverso il montaggio (quindi attraverso il processo di linearizzazione cui facevamo cenno in IL 1.1.) un esplicito confronto con altre immagini di scala differente. Più in generale, nella grammatica del cinema narrativo deve codificarsi la cosiddetta «scala dei piani». Senza questo confronto relazionale, la dimensione di un volto raffigurato in primo pia­ no non è percepita come peculiare. Neppure nel cinema delle origini, i cui cataloghi d’e­ poca, nel caso di film a una sola inquadratura che rappresenti un volto in primo piano o mediante inquadrature ravvicinate, parlano di full size ofthe screen, di facial expression, e mai di magnified view.}6 Il dettaglio, invece, non ha bisogno del confronto per essere percepito come ingran­ dimento. Perché esso è, in sé, «abnormal».I7 È strutturalmente un ingrandimento, in quanto tale inabituale, innaturale, a suo modo sorprendente e, nel cinema delle origini, sempre attrattivo di per sé. Naturalmente il confronto relazionale con altre immagini non può che accentuarne l’impatto spettacolare auspicato. Anche nel cinema delle origi­ ni, che per di più in questi casi mette sempre in scena lo strumento ottico che “magica­ mente” lo produce (come in Grandmas Reading Glass*), e proprio per questo ne amplifi­ ca la dimensione innaturale. Ma nel cinema delle origini si danno magnified views anche senza confronto relazionale tra più inquadrature: Spiders on a Web* (due ragni circondati da un mascherino circolare su fondo nero) è una magnified view benché composto da una sola inquadratura; A Corner of an Eye (l’occhio della nonna circondato da un ma­ scherino circolare, ingrandito rispetto ai parametri di rappresentazione del volto nel ri­ tratto, ed estrapolato da Grandmas Reading Glass* per essere commercializzato da solo con un nuovo titolo) è una magnified view composta da una sola inquadratura. Eppure, anche in questi casi, sebbene manchi il confronto relazionale tra più inquadrature, l’ef­ fetto spettacolare dell’ingrandimento è sottolineato, iconograficamente, dalla traccia vi­ sibile della macchina ottica che lo ha reso possibile, vale a dire dal mascherino, visibile su fondo nero, iscritto nell’immagine. Sono appunto le magnified views che costituiscono la principale attrattiva spettacola­ re di Grandmas Reading Glass*. Sono gli ingrandimenti resi possibili dall’uso dello stru­ mento ottico, che dilata le potenzialità dell’occhio umano (non a caso, è Cocchio della nonna che il nipotino osserva con la lente!) e conferisce alle vedute un alone magico, trasformandole per lo spettatore in un meraviglioso artificio. Sono gli ingrandimenti resi

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possibili anche - non dimentichiamolo — dall’“invenzione” di quella macchina ottica per eccellenza che è il Cinématographe, in grado di proiettare immagini fotografiche grandi (più grandi di quelle vedibili nella piccola scatola in legno fabbricata da Edison; come il Bioskop del fratelli Skladanowsky, il Phonoscope di Demeny...), il cui impatto spettacolare, in questo piccolo film, è assicurato proprio dalla dimensione dello scher­ mo. Il catalogo è esplicito in proposito; spiega infatti che: « This, the first ofa series ofmo­ st unique pictures, was conceived and invented by us. Grandma is seen at work at her sewing-table, while her little grandson is playfully handling her reading-glass, focussing same on various objects, viz., a newspaper, his watch, the canary, grandma's eye, and the kitten, which objects are shown in abnormal size on the screen when projected. The conception is to produce on the screen the various objects as they appeared to Willy while looking through the glass in their enormously enlarged form. The big print of the newspaper, the visible working ofthe mechanism of the watch, the fluttering ofthe canary in the cage, the blinking ofgrandmas eye, ant the inquisitive look of the kitten, is most amusing to behold. The no­ velty ofthe subject is sure to please every audience.» (Sottolineatura nostra).18 Ciò per cui Sadoul sottovaluta il film, allora, vale a dire l’espediente della lente, è in­ vece il suo vero motivo d’interesse. Riproducendo nello spettatore la meraviglia procura­ ta dalle vedute circolari (come queste) ottenute mediante strumenti ottici o macchine della visione come la stessa lanterna magica, vedute grandi come quelle proiettate sullo schermo del cinematografo, la lente di Grandmas Reading Glass* ottiene con l’ingrandi­ mento un uguale effetto di spettacolare artificio mostrando oggetti «in abnormal size on the screen when projected». Curiosamente, anche gli studiosi che si sono occupati in seguito di Smith, pur con i dovuti riaggiustamenti e le correzioni storiche, trattando questo film hanno tendenzial­ mente cercato di metterne in evidenza i limiti, anziché i motivi d’interesse.19 E sempre a causa della lente, interpretata riduttivamente come un espediente la cui presenza sminuisce la portata dell’invenzione linguistica, sia essa del primo piano , della soggettiva, o dell’articolazione di montaggio. Ma accostarsi con questo genere di aspettative a Grandmas Reading Glass* equivale a pretendere di valutarne l’importanza in base a criteri che non appartengono al suo tem­ po. Equivale, cioè, a giudicarlo condizionati dal “pregiudizio del precursore”. O se si preferisce, fatte le debite proporzioni, corrisponde a pretendere di giudicare la pittura primitiva alla luce della prospettiva rinascimentale.20 Se nella pittura primitiva la pro­ spettiva impiegata non è un limite ma la testimonianza di un diverso modo di concepire ed organizzare lo spazio rappresentato, analogamente in questo film la lente non è un li­ mite ma la testimonianza di un diverso modo di concepire e rappresentare lo sguardo — e il visibile dell’epoca attraverso quello sguardo. Per questo, l’importanza di un film come Grandmas Reading Glass* non va ricercata nel fatto che abbia o meno anticipato consapevolmente alcune figure del linguaggio ci­ nematografico a venire; sarebbe d’altronde una forzatura, perché dal punto di vista della linearizzazione il film di Smith non rappresenta una tappa verso la codificazione co­ sciente di quella forma di rappresentazione dello sguardo che oggi chiamiamo soggetti­ va. Anche dopo Grandmas Reading Glass*, infatti, Smith ripete questa figura solo in pre­ senza di uno strumento ottico (come in As Seen Through a Telescope*, o in At Last that Awful Tooth, stando alla descrizione riportata dai cataloghi), o di strumeni affini ugual­ mente concepiti per amplificare le limitate potenzialità dell’occhio umano (come la luce artificiale di una lanterna in After Dark, or the Policeman and His Lantern). Mentre in film come il noto The Sick Kitten * realizza piani ravvicinati senza mascherino, e sinto­ maticamente senza implicazione alcuna dello sguardo dei personaggi, in assoluta conti-

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nuità con la tradizione della lanterna magica.21 L’importanza di Grandmas Reading Glass*', invece, va rintracciata nell’aver dato for­ ma — una forma propriamente cinematografica - alle radici ottiche della rappresentazio­ ne dello sguardo nel cinema. Nell’essere, per questo, appieno nel suo tempo, e nell’averne saputo cogliere le trasformazioni del visibile.

IL 2. Indizi per un paradigma «Le immagini di un film contengono ciò che è “visibile” per i contemporanei, o ciò che, “invisibile” fino ad allo­ ra, sta per divenire visibile» (Pierre Sorlin)

Grandma's Reading Glass* viene subito copiato. Nel 1901 esce in Francia, presso Pathé, una Loupe de grand-maman (attribuito a Ferdinand Zecca, e significativamente classifi­ cato come «scène à trues»),21 mentre l’anno successivo negli Stati Uniti esce Grandpa's Reading Glass (cfr. Niver, 1968: 29), dove un anziano nonnetto, seduto a un tavolo cir­ condato dai suoi nipotini, legge con l’aiuto di una lente; incuriositi, i nipotini impugna­ no la lente del nonno, e guardano attraverso di essa alcuni oggetti che compaiono sullo schermo, come in Grandma's Reading Glass*, ingranditi e circondati da un mascherino circolare.23 Ma non è solo l’ottica a catalizzare la voga voyeurista di fine secolo che trova nel cinema uno sbocco consustanziale; parallelamente all’ottica, infatti, anche un’altra modalità della visione — la modalità voyeurista per eccellenza alla quale già si è accen­ nato: quella di chi guarda di nascosto, oltre il buco di una serratura - si materializza in numerosi film che mettono in scena personaggi intenti a spiarne altri, del tutto ignari, oltre il buco di una serratura, per l’appunto, o attraverso un foro nella parete. E seb­ bene la comparsa dell’ottica nel panorama iconografico del primo cinema sembri pre­ cedere la comparsa della serratura — forse significativamente, almeno per quanto ri­ guarda il cinema europeo, dove come si è visto pare sia l’inglese Grandma's Reading Glass* a svolgere il ruolo di capostipite (cfr. II.2.4.) - già nel corso del 1901 la Pathé mette in circolazione una prima versione del fortunato Par le trou de la serrure*, subito seguito da filmetti analoghi dove il mascherino circolare cede il passo a quello a forma di serratura. Queste due facce dello stesso genere — per le quali nel corso di questa ricerca usere­ mo alternativamente l’espressione “film a strumeneto ottico” e “film a buco di serratu­ ra”, per non trascurare l’importante differenza che caratterizza queste due distinte figure iconografiche24 — in Europa conoscono uno sviluppo considerevole soprattutto tra il 1900 e il 1906, articolandosi inizialmente intorno a una struttura che consiste nel mo­ strare esclusivamente uno o più personaggi intenti ad osservare attraverso qualcosa, alter­ nando l’immagine di chi guarda all’immagine dell’oggetto del suo sguardo, proprio co­ me in Grandma's Reading Glass*. E successivamente mescolandosi - ma sarebbe meglio dire alleandosi,25 più o meno provvisoriamente — con strutture diverse e parallele (l’inse­ guimento, il travelogue, la divulgazione scientifica...) fino a stemperarsi, verso la fine del decennio, dentro film progressivamente più compiuti e narrativizzati. Certo non si trat­ ta di un processo evolutivo propriamente cronologico e senza scarti, tanto che ancora dopo il 1906 non è impossibile trovare film interamente articolati intorno alla struttura

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della sola alternanza tra personaggio che guarda e oggetto del suo sguardo (cfr. qui, ad esempio, Les Joyeux microbes*, del 1909). Ma la popolarità di questi film sembra indi­ pendente dalla comune irregolarità della loro evoluzione; ed è tale al punto da alimenta­ re la tipizzazione cinematografica di veri e propri topoi, primo fra tutti quello del perso­ naggio che guarda attraverso (attraverso un visore ottico, la luce di una lampada, il buco di una serratura, un foro nella parete — come nell’iconografia popolare del XVIIIO e XIX° secolo qui confluita...) che col tempo vengono sfruttati in alcuni film come situa­ zione di partenza, anche senza ricorrere a un montaggio che alterni più inquadrature, al fine di produrre effetti comici e ricavarne divertenti parodie. Come in Les locataires d'à coté*, dove una coppia di giovani innamorati trova il modo di raggirare uri altra coppia di anziani guardoni. O ancora in La musique adoucit les moeurs*, dove due artisti si spia­ no a vicenda per vendicarsi delle reciproche molestie. In ogni caso, e indipendentememte dalla struttura di questi film, il modo di rappre­ sentazione dello sguardo qui messo in scena alterna sempre e comunque immagini di un personaggio intento a guardare attraverso qualcosa, separatamente alle immagini dell’og­ getto, mutevole, del suo sguardo. Articola, cioè, soggetto e oggetto in una successione di due o più inquadrature. Proprio per questo motivo, per il fatto cioè di distribuire l’azione in più inquadratu­ re (mostrando così la protesi e la sua traccia), per lo spettatore del tempo comprendere questi film non va da sé. Fino al 1902 o 1903, infatti, la maggior parte dei film è ancora composta da una sola inquadratura, e nel panorama produttivo del 1900 Grandma's Reading Glass* costituisce a suo modo un’anomalia, almeno dal punto di vista del mon­ taggio. Certo, prima del 1900 esistono film composti da più inquadrature,26 ma si tratta di film che assemblano veri e propri tableaux autonomi, spesso venduti separatamente (val­ ga per tutti l’esempio delle numerose Passioni). E sono numerosi, anche, quei film composti da una sola inquadratura che pur senza designare figurativamente uno sguardo lo presuppongono esplicitamente, per la presen­ za di un mascherino (Spiders on a Web*), per il taglio insolito dell’inquadratura (Photo­ graph From an Area Window*), ed anzi esortano lo spettatore — come si evince dai cata­ loghi — a leggere l’immagine come “vista da”. Basti citare, tra i molteplici casi di film gi­ rati da un treno in movimento (come il noto Kiss in the Tunnel*), un film Pathé del 1899, Voyage dans un train? che il catalogo dell’epoca descrive come: « Vue panoramique donnant Tillusion au spectateur de quelquun regardant par la portière dun wagon et voyant se dérouler le paysage si accidente compris entre Nogent etJoinville». Analogamente, sono numerosi i film composti da una sola inquadratura che esibi­ scono uno sguardo al fine di sfruttarne, benché in diversa misura, le potenzialità dram­ maturgiche. Come in Explosion ofa Motorcar*, dove un poliziotto si serve di un telesco­ pio per osservare i corpi di alcuni viaggiatori catapultati in aria in seguito a un incidente automobilistico, senza che però lo spettatore sia ammesso a condividere il suo sguardo oltre l’oculare dello strumento ottico. Come in Métamorphoses dun fiancé*, dove tutto l’intrigo ruota intorno a ciò che i diversi personaggi vedono di sé e degli altri, incrocian­ do divertenti discrepanze. O come nei numerosi esempi di Coucher de la mariée*, che immancabilmente includono, nello spazio rappresentato sullo schermo, un personaggio intento a spiare la novella sposa insieme a quest’ultima che si spoglia per la notte.28 O ancora come nel già visto The Two Old Sports*, dove i due amici intenti a sfogliare una rivista illustrata sono visibili, per lo spettatore, contemporaneamente all’oggetto del loro sguardo, in una sola e autosufficiente inquadratura. I film in cui compare la nostra figura, invece, comprendono tutti, necessariamente,

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più d’una inquadratura, e soprattutto stabiliscono tra le immagini una relazione inedita, mostrando separatamente il personaggio che guarda e l’oggetto del suo sguardo. Se lo spettatore del tempo comprende questi film senza difficoltà, se li accoglie senza stupore, come direbbe Sorlin (1977) — e persino con favore, a giudicare dalle numerose imitazioni e clonazioni — è perché vi riconosce qualcosa. Vi riconosce, anzitutto, un re­ pertorio di vedute che ricopre l’intero spettro del suo immaginario visivo, mettendo in scena lo spettacolo del mondo, come abbiamo già visto. Un repertorio che include pa­ norami di città, vedute astronomiche, curiosità scientifiche, scenette erotiche, ingrandi­ menti spettacolari, ombre in movimento. Ma vi riconosce, anche, il gesto necessario per accedere a un tale spettacolo del mondo. Perché questi film mettono tutti in scena un’esperienza molto familiare allo spettatore a cui sono destinati. Mettono in scena, in modo più o meno esplicito, la sua stessa esperienza percettiva di spettatore “ordinario” (nel senso attribuito a questo termine da Schefer, 1980), pre-cinematografico e cinematografico, che nelle fiere po­ polari come tra le pareti domestiche si è abituato a guardare attraverso*, attraverso il visore ottico del Mondo Nuovo come attraverso le fessure dello zootropio; attraverso il prisma di specchi del prassinoscopio come attraverso la lente di un telescopio o di un microscopio; attraverso l’oculare del mutoscopio come di quello del kinetoscopio. In una parola: attraverso ogni sorta di macchina della visione in grado di dilatare le capacità percettive dell’occhio umano per consentirgli di accedere a vedute meravi­ gliose e impossibili da osservare altrimenti. Di queste macchine della visione, come già si è visto, il cinema rappresenta allo stesso tempo il momento di sintesi e il punto d’arrivo. Guardare attraverso è ormai divenuto un gesto accessibile a tutti. Quindi un gesto visibile per tutti. Questi film, a modo loro, registrano ufficialmente l’avveni­ mento. Osserviamoli con attenzione. Non solo rappresentano un personaggio che guarda sempre attraverso qualcosa, seguito dall’oggetto del suo sguardo. Nel farlo, anche, adot­ tano alcune caratteristiche che analizzate distrattamente potrebbero apparire, oggi, biz­ zarre anomalie. Particolarità talvolta disturbanti, che tuttavia costituiscono altrettanti sintomi attraverso cui risalire a un vero paradigma indiziario29 da cui ha origine la forma di rappresentazione dello sguardo successivamente codificata nell’ambito del linguaggio cinematografico istituzionale. Un paradigma di elementi rivelatori, benché talvolta incu­ neati nelle pieghe degli scarti e delle differenze rispetto a ciò che diverrà nel tempo la soggettiva, e impercettibili al punto da passare inosservati; altre volte, invece, in perfetta continuità con ù futuro di questa figura, ma troppo palesi e per questo sfuggenti, o assi­ milabili a pure eccentricità. Esaminati con attenzione, però, ciascuno di questi elementi risulta in perfetta sinto­ nia con le aspettative dello spettatore al quale questi film sono destinati. Uno spettatore che proviene dalla stessa esperienza percettiva qui messa in scena, e che la vive ancora (che vive ancora il cinema) come artificio ottico, come curiosità scientifica, come mera­ viglioso viaggio immobile in grado di transitarlo verso vedute mobili o comunque ecci­ tanti e spettacolari. Proprio come quelle osservate qui.

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IL 2.1. Autonomia

È stato notato che questi film presentano una costruzione analoga al procedimento sin­ tattico della paratassi, che unisce le diverse proposizioni di una frase mediante coordina­ zione, anziché subordinazione, in perfetta sintonia con il funzionamento delle arti po­ polari da cui il primo cinema maggiormente impingua il proprio repertorio (Gunning, 1979). Effettivamente, sia Grandmas Reading Glass*y sia Ce que je vois de mon sixième*, Les cartes lumineuses*, La file de bain indiscrete*, Par le trou de la serrure*, The Inquisitive Boots*', Les Joyeux microbes*, The Unclean World*, Curiosité dune concierge*, Lamour à tous les étages*, ed anche La loupe de grand-maman (Pathé, 1901) e Ce que Ton voit de la Bastille (Pathé, 19O5),30 sono composti da una successione di inquadrature senza alcun legame tra loro al di fuori del personaggio che guarda e funge da vero e proprio collante tra le diverse vedute. In Grandmas Reading Glass*, ad esempio, tra le inquadrature del bambino che osser­ va i diversi oggetti attraverso la lente, e le inquadrature che rappresentano questi stessi oggetti ingranditi oltre la lente, non si instaura un vero rapporto di subordinazione. Né vi è una logica più o meno consequenziale che detta l’ordine cronologico tra le vedute. Intendiamoci: il legame tra le inquadrature c’è, ed è rappresentato appunto dal perso­ naggio del bambino che guarda attraverso la lente d’ingrandimento. Ma si tratta di un legame di pura coordinazione analogo, fatte le debite proporzioni, a quello introdotto tra due proposizioni dalla congiunzione “e”, anziché di un legame di subordinazione analogo a quello introdotto, sempre tra due proposizioni, dalla congiunzione “affinché”. Le inquadrature, cioè, sono e restano tra loro relativamente autonome, e il carattere so­ stanzialmente indipendente degli ingrandimenti è confermato proprio dal fatto che po­ teva benissimo accadere che fossero commercializzati separatamente. È accaduto, ad esempio, all’immagine dell’occhio della nonna, distribuita anche da sola con il titolo Corner ofan Eye.ÒX Certo si potrebbe pensare che l’autonomia di queste vedute dipenda essenzialmente dalla povertà narrativa della situazione rappresentata dal film, in cui non succede nulla, appunto, al di là dell’atto di guardare. Soprattutto, non succede nulla in conseguenza al­ l’atto di guardare (per questo non c’è ipotassi). Ed effettivamente, se rapportiamo l’azio­ ne che si svolge in Grandmas Reading Glass* alle condizioni minimali poste da Propp (1928)32 perché si dia racconto, appare chiaro che il film di Smith non le soddisfa. Se­ condo queste condizioni, infatti, è necessario che una situazione di equilibrio iniziale venga perturbata, e successivamente ristabilita; ma Grandmas Reading Glass* non com­ porta nessuna rottura dell’equilibrio iniziale, che di fatto è mantenuto per tutta la breve durata del filmetto. Eppure, questa autonomia delle vedute appartiene anche a film dall’impianto narra­ tivo più sviluppato, come Un coup d’oeilpar étage*, Un drame dans les airs*, nonché il già citato Toto aéronaute*. Questi ultimi titoli, infatti, inseriscono la serie di inquadratu­ re del personaggio intento a osservare qualcosa (da una serratura in Un coup d’oeil par étage*, da uno strumento ottico in Un drame dans les airs* e in Toto aéronaute*) all’inter­ no di una cornice narrativa che effettivamente soddisfa le condizioni proppiane perché si dia racconto: un incendio poi domato dai pompieri in Un coup doeil par étage*, la stessa escursione aerea finita malamente in Toto aéronaute*, il temporale cui segue la ca­ duta in mare e il salvataggio in barca in Un drame dans les airs*. Ugualmente, però, pur all’interno di questa cornice narrativa sufficientemente strutturata, le inquadrature che rappresentano lo sguardo dei personaggi comportano, tra di loro e in relazione al resto

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del film che le contiene, la stessa disposizione e soprattutto la stessa autonomia. Né, d’altronde (a parziale eccezione di quanto accade in Un coup d’oeilpar étage*, che analiz­ zeremo per questo in IIL2.1.), la rottura dell’equilibrio narrativo iniziale, o il suo ristabi­ limento, possono essere in qualche modo ricondotti al contenuto delle vedute. Allo stesso modo, altri film dall’andamento narrativo decisamente più articolato, in cui ugualmente compare un gruppo di inquadrature che rappresentano lo sguardo di un personaggio, mantengono con queste vedute una relazione di assoluta indipendenza. Le immagini che rappresentano lo sguardo dei personaggi, insomma, anche qui hanno po­ co o niente a che fare con il resto del racconto. Accade, ad esempio, in La peine du talion*, L’éclipse de soleil en pieine lune*, Le tour du monde dun policier*, Le rève de rostronome*, dove le vedute che rappresentano lo sguardo dei personaggi si danno come un segmento autonomo e compatto, piazzato nel mezzo del film alla stregua di un vero e proprio inserto. E l’isolamento dal racconto che le circonda ne mette ancor più in risalto l’indipendenza e l’autonomia. Ciò è particolarmente evidente proprio nel caso in cui queste inquadrature si confi­ gurino come un autentico film nel film. Prendiamo l’esempio del citato Le tour du mon­ de dyun policier*, Si tratta di un titolo che non solo rispetta pienamente le condizioni perché vi sia racconto: l’equilibrio iniziale, infatti, è rotto dal furto compiuto da uno dei due protagonisti, e il suo ristabilimento è ottenuto mediante le diverse peripezie affron­ tate dal poliziotto che insegue il ladro in una sorta di giro del mondo. Ma oltre a rac­ contare una vera e propria storia, con un inizio e una fine ben costruiti, i suoi protago­ nisti assumono anche tutto lo spessore di due personaggi principali dalle caratteristiche psicologiche sufficientemente delineate (il ladro è in realtà un gentiluomo caduto in di­ sgrazia, lo stesso poliziotto ha modo di accorgersene e in un certo senso premia la sua si­ gnorilità rinunciando ad arrestarlo...).33 Eppure, questo film include al suo interno un inserto di vedute panoramiche, osservate attraverso un binocolo da uno dei due prota­ gonisti, assolutamente autonome rispetto al contesto d’inserimento. Certo, sono vedute che illustrano le tappe del viaggio intorno al mondo compiuto dal poliziotto per inse­ guire il ladro: il canale di Suez, il deserto africano, Yokohama, l’America pellerossa. Ma sono vedute presentate in modo del tutto svincolato dallo svolgimento del racconto, tut­ te insieme una dopo l’altra, con un vero taglio da travelogue (il genere che a quel tempo corrisponde vagamente al documentario di viaggio), e il loro interesse prescinde decisa­ mente dal quadro del film in cui sono inserite. Così come la loro autonomia è ribadita proprio dalla modalità di questo inserimento. Questo tipo di costruzione risulta quantomeno anomala se rapportata al cinema che conosciamo oggi. Sia perché nel cinema successivo all’età delle origini le inquadrature che rappresentano lo sguardo di un personaggio instaurano generalmente un rapporto di su­ bordinazione con l’inquadratura che rappresenta il personaggio che guarda, così come nei confronti dell’intero contesto in cui sono inserite. Sia perché, comunque, difficilmente presentano una tale autonomia e indipendenza dal quadro d’insieme che le contiene, da­ to che questo comporterebbe necessariamente una rottura della continuità a cui invece generalmente il linguaggio cinematografico aspira. Detto altrimenti, le soggettive tenden­ zialmente presentano una costruzione di tipo ipotattico, e quand’anche si inserissero in un dato contesto secondo le modalità della costruzione paratattica, mitigherebbero l’as­ senza di subordinazione presentando ugualmente un certo grado di congruenza.34 Probabilmente, però, ciò che a noi oggi sembra incongruo, qui, ciò che ci appare sbi­ lanciato e ininteressante, è invece in perfetta sintonia con le aspettative e con i codici culturali e interpretativi dello spettatore cui Grandmas Reading Glass*, Le Tour du monde dunpolicier*, e tutti gli altri titoli citati sopra sono destinati. Uno spettatore che non si

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aspetta dalla successione di queste immagini un’implicazione di tipo narrativo; che di certo non distingue tra narrazione, finzione, documentano, in base ai criteri a noi oggi familiari e però inesistenti all’epoca del primo cinema; che soprattutto non si interessa ad un possibile rapporto tra il personaggio che guarda e l’oggetto del suo sguardo, ma si appassiona completamente al valore attrattivo e alla spettacolarità della singola veduta.35 Per questo motivo, allora, le inquadrature autonome che compaiono in questi film, lungi dall’essere povere (più povere di ciò che vediamo oggi), scarsamente drammatizza­ te (meno drammatizzate di quanto non lo sarebbero oggi), sono esattamente il genere di inquadrature che lo spettatore del tempo si aspetta di vedere, e che in ogni caso è in gra­ do di apprezzare. Questa disposizione, insomma, questa autonomia, questa stessa po­ vertà drammatica, è esattamente ciò che corrisponde al suo orizzonte di attesa: nulla più che la semplice esibizione di diverse vedute, interessanti in sé, ottenute grazie alla media­ zione di uno strumento ottico oppure osservate attraverso un qualsiasi altro espediente suscettibile di renderle accessibili allo sguardo. Delle vedute meravigliose perché ingrandite. Come una semplice pagina di giornale, o il meccanismo di un orologio in funzione (Grandmas Reading Glass*), anche grazie al grande schermo del cinematografo, dove acquistano lo stesso potenziale di spettacolarità della veduta, ben più eccezionale in assoluto, della personificazione di Giove, Marte o Saturno (Leclipse de soleil en pieine lune*, Voyage sur Jupiter*). Delle vedute eccitanti perché abitualmente inaccessibili. Come le numerose scene di vita quotidiana osservate oltre il buco di una serratura. Scene tutte attrattive in egual misura, perché in egual misura intime e segrete, che si tratti del seducente rituale di una bella donna che si pettina prima di coricarsi (Par le trou de la serrure*), di innocenti bambini che giocano con le piume di un cuscino (Un coup d’oeilpar étage*), o ancora di un’eccentrica signora che culla amorevolmente il suo cane (The Inquisitive Boots*). Delle vedute esaltanti perché impregnate dell’immaginario visivo popolare del tem­ po. Come i numerosi panorami di città visti dall’alto (Ce que Ton voit de mon sixième*, Ce que Ton voit de la Bastille, Dream of a Rarebit Fiend*), magari da una mongolfiera in volo (Un drame dans les airs*, Toto aéronaute*)', o di paesi lontani, più o meno esotici, che evocano l’idea del viaggio in continuità con la popolare tradizione dei panorami (Le tour du monde dunpolicier*). Delle vedute interessanti perché scientifiche o supposte tali. A loro modo didattiche, come l’immagine di una farfalla che muove le sue ali colorate (Lapeine du talion*), quel­ la di frenetici vermi e batteri (Le dejeuner du savant*), o addirittura l’ingrandimento di un capello (Ueau merveilleuse*), in continuità con le proiezioni educative di lanterna magica di cui a volte queste vedute tracciano la divertente parodia (Les Joyeux microbes*, The Unclean World*, The Love Microbe*). Delle vedute esilaranti, infine, perché riprese dai più popolari numeri di varietà, co­ me lo svelamento della fausse femme ( The Inquisitive Boots*, Par le trou de la serrure*).36 Oppure, più semplicemente, delle vedute in movimento. Osservate comunque dalla miglior visuale possibile.

II.2.2. Visuale C’è un altro elemento che si impone per la propria anomalia, se confrontiamo questi film e le loro vedute autonome con il modo in cui oggi viene realizzata una soggettiva. Quest’ultima, infatti, nel rappresentare lo sguardo di un personaggio ne rispetta le con­ dizioni percettive riproducendo anche, necessariamente, la distanza che separa il perso­

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naggio dall’oggetto del suo sguardo, nonché la direzione da cui il personaggio guarda — pena il non essere più una soggettiva. Distanza e direzione, cioè, sono due autentiche condizioni sine qua non perché si possa parlare di soggettiva,37 che rappresenta appunto non solo cosa un personaggio guarda (questo lo fa già un raccordo sullo sguardo), ma anche come guarda quella tal cosa (da lontano, dall’alto, di sbieco, ecc.). Nelle vedute rappresentate in questi film, invece, in nessun caso distanza e direzione vengono rispettate. Se accade spesso, cioè, che venga riprodotto il mascherino (su cui torneremo in II.2.4.) che simula lo strumento ottico o il buco della serratura attraverso cui il personaggio guarda, non accade mai che la veduta rappresentata sia inquadrata dalla stessa distanza che separa il personaggio dalla veduta in questione, né che rispetti l’incidenza angolare del suo sguardo. Tanto che non viene mai osservata nessuna verosi­ miglianza nella rappresentazione della dimensione degli oggetti visti, né nell’angolazione da cui sono inquadrati. Accade in Grandma's Reading Glass*, dove non c’è nessuna proporzione tra l’ingran­ dimento del meccanismo dell’orologio e quello, ad esempio, del muso del gattino. O tra l’occhio della nonna ingigantito a tutto schermo e il canarino inquadrato insieme con la sua stessa gabbia. Eppure, il ragazzo impugna la stessa lente, e dalla stessa distanza, per osservare sia l’occhio sia il canarino in gabbia, così come ciascun altro degli oggetti che attirano la sua curiosità. Analogamente, in Un drame dans les airs* non c’è proporzione tra la dimensione dei tetti della città di Parigi inquadrati dall’alto, e quella delle imbarcazioni che veleggiano nel mare aperto inquadrate subito dopo; né c’è proporzione tra la dimensione di queste ultime e quella degli scogli ingranditi nella veduta successiva. Ancora: in Aux bains de mer* un vecchio guardone punta il suo telescopio verso i quattro punti dell’orizzonte (come recita il catalogo dell’epoca), ma la dimensione delle barche tra le rocce che l’uo­ mo riesce a scorgere nelle prime vedute è sproporzionata rispetto a quella delle graziose bagnanti che osserva alla fine sulla spiaggia. Questa alterazione nelle dimensioni di persone e oggetti osservati da un personaggio non si verifica solo nelle vedute riprodotte nei film a strumeneto ottico, benché in que­ sti film l’effetto d’ingrandimento sia quasi sempre suggerito dall’uso di una lente apposi­ ta, e giustifichi in ogni caso la riproduzione di dimensioni “abnormi” rispetto ai parame­ tri “correnti” (lo abbiamo visto in IL 1.2.). Anche nel caso dei film a buco di serratura è riscontrabile tale alterazione, ed anzi se nei film a strumento ottico questa avviene uni­ camente sotto forma d’ingrandimento, che può risultare più o meno sproporzionato ri­ spetto alle altre vedute osservate nel corso della stessa pellicola, nel caso dei film a buco di serratura può invece accadere davvero di tutto. Nel senso che le vedute rappresentate possono risultare ingrandite ma anche rimpicciolite, spostate o addirittura capovolte ri­ spetto alla posizione da cui il personaggio le osserva. Le scene che compaiono al di là di una serratura, infatti, sono puntualmente scene osservate da una visuale che non appar­ tiene mai al person aggio che le guarda, alterando sistematicamente i più rudimentali pa­ rametri di direzione e distanza successivamente così importanti, a cui si è accennato so-

PraE ciò che accade, ad esempio, in Un coup d'oeilpar étage*, dove il portinaio spia dap­ prima un eccitatissimo uomo d’affari che sbraita al telefono seduto alla sua scrivania, e compare sullo schermo inquadrato fino ai gomiti (come se la scrivania fosse piazzata proprio davanti alla porta da cui il portinaio lo osserva, e frontalmente rispetto alla ser­ ratura). Al secondo piano osserva tre bambini che giocano con le piume dei cuscini nella loro stanza da letto, inquadrata in campo totale (come se in quell’elegante appartamento borghese ci fosse una camera da letto al posto dell’ingresso, e se stavolta la serratura della

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porta fosse esattamente collocata alla distanza debitamente necessaria per osservare tutti e tre i bambini mentre giocano nella grande stanza). Poi spia dalla porta situata al terzo piano un’anziana donna seduta a un tavolo, intenta a giocare con il suo gatto, che com­ pare in piano ravvicinato (di nuovo come se la donna si trovasse immediatamente di fronte alla serratura da cui il portinaio la osserva, situata frontalmente). Infine, giunto in soffitta vede l’ultimo inquilino lottare contro le fiamme di un incendio, in una stanza inquadrata in campo totale (e in posizione frontale). O ancora, accade in The Inquisitive Boots*, dove non solo il cameriere addetto alla lucidatura delle scarpe osserva i bizzarri clienti dell’albergo dove presta servizio, i quali compaiono sullo schermo in una serie di vedute ora in campo medio, ora in campo totale, come se si trovassero appostati frontal­ mente davanti alla serratura, e sempre alla giusta distanza richiesta per osservarli al me­ glio; ma addirittura, qui, nell’ultima veduta la porta da cui il cameriere è supposto osser­ vare l’azione è bene in vista in campo, nella parete di destra. Eppure, è proprio dall’altro lato di quella porta che il cameriere sta guardando, tanto che nonappena il personaggio spiato ode alcuni rumori provenienti da quella direzione, si china a spiare a sua volta e spruzza dell’acqua nel buco della serratura travolgendo il cameriere, che nell’inquadratu­ ra immediatamente successiva cade a terra bagnato... Un caso ancora più clamoroso è rappresentato senz’altro dal delizioso Curiosité dune concierge*. Anche in questo film, non solo la portinaia in questione osserva oltre la serra­ tura della porta d’ingresso di ben cinque appartamenti cinque diverse vedute variamente distanti: una giovane donna innamorata che prima di dormire saluta la fotografia del suo beneamato (come se il letto fosse subito al di là della serratura); due sorelline nel lo­ ro letto, mentre una di loro recita le preghiere prima di addormentarsi (in un piano an­ cora più ravvicinato, inquadrato frontalmente); una vecchia coppia di avari che spranga con ogni mezzo la porta d’ingresso prima di riporre sotto le coperte il gruzzolo dei ri­ sparmi (in un piano stavolta più largo); una coppia di coniugi che litiga per gelosia (in campo medio); infine una moglie die accoglie a bastonate il marito rientrato ubriaco (nuovamente in campo medio). Ma in almeno due casi osserva vedute che compaiono sullo schermo inquadrate da una visuale capovolta rispetto a quella che può averne lei stessa, vale a dire con la porta d’ingresso da cui la donna osserva piazzata nel bel mezzo dell’inquadratura, sul fondo, al lato opposto rispetto a quello in cui si trova invece la macchina da presa (e da cui è osservata la scena: accade nella terza e nella quinta vedu­ ta). Durante la terza veduta, infatti, la porta d’ingresso che i due avari sprangano è in­ quadrata sul fondo. E nella quinta veduta, il marito ubriaco rientra in casa dapprima at­ traversando il pianerottolo davanti agli occhi divertiti della portinaia, quindi completan­ do il gesto di varcare la soglia (da cui la portinaia si è apprestata a spiare) nell’inquadra­ tura successiva, dove la porta è però inquadrata frontalmente, nel bel mezzo del campo sul fondo (dove si trova perciò la portinaia, e da dove non è osservata l’azione). E anche in Lamour à tous les étages* avviene qualcosa di analogo: quando lo studente giunge al pianerottolo del secondo piano, vede arrivare una giovane donna che varca la soglia della porta da cui subito si appresta a spiare; nell’inquadratura successiva, però, vediamo la donna entrare in campo da sinistra, in continuità con il movimento visto prima, ma da una visuale che non può logicamente appartenere al ragazzo, che si trova a sua volta (fuori campo) a sinistra, oltre la porta a spiare. Tuttavia, anche in questo caso sbaglieremmo se pretendessimo di interpretare questa “anomalia” come un errore, come un’ingenuità dettata magari dall’incapacità di rappor­ tarsi correttamente agli attuali parametri della rappresentazione filmica dei raccordi sullo sguardo, sul movimento o sulla direzione. Al contrario, c’è invece in questa “anomalia” (che è tale solo per noi, oggi) non un errore ma una diversa concezione delle modalità di

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rappresentazione, in sintonia con le attese dello spettatore del tempo. Se osserviamo con attenzione ciascuna di queste vedute, infatti, ci accorgeremo che le alterazioni nelle dimensioni, o nella direzione da cui personaggi e oggetti sono rappre­ sentati, non avvengono mai per caso. Ed anche se contravvengono (per noi, oggi) alla logica che regola la distanza e la direzione da cui il personaggio le osserva, ugualmente rispondono a un’altra logica, che è quella di esibirne sempre e sistematicamente la visua­ le migliore. Rispondono, cioè, alla volontà precisa di offrire allo spettatore in sala non una visuale verosimile rispetto a quella che è supposto avere il personaggio che guarda (situato a una certa distanza dalla scena, a una data angolazione, ecc.), bensì la miglior visuale possibile di quanto viene rappresentato. Perché il destinatario ultimo di queste ve­ dute non è il personaggio, ma lo spettatore in sala. E per lo spettatore in sala l’interesse di queste vedute risiede appunto nel loro carattere autonomamente eccitante, attrattivo, spettacolare, ma anche completo ed esauriente (cfr. 1.2.). In queste vedute, ciò che viene rappresentato non è ciò che vede il personaggio che guarda, come verosimilmente lo guarda (da vicino o da lontano, di tre quarti, ecc.), per­ ché non è questo che importa allo spettatore del tempo. Viene invece rappresentato ciò che il personaggio guarda, come lo spettatore del tempo si aspetta di vederlo. Vale a dire da una visuale il più possibile esaustiva, per questo solitamente frontale (è il caso di qua­ si tutte le vedute osservate nei film analizzati qui, indipendentemente dalla posizione da cui le osserva il personaggio); ravvicinata, qualora sia importante la possibilità di osser­ vare la scena da vicino (nel caso di facial expressions, di azioni che includono particolari piccanti, o dettagli eccitanti, come ad esempio in alcune vedute di Inquisitive Boots*, Curiosité d’une concierge*, Un coup d’oeilpar étage*...)', oppure in campo medio o addi­ rittura totale, qualora la rappresentazione dell’azione richieda, invece, uno spazio più ampio per includere diversi personaggi (accade, ad esempio, nella quarta veduta di Cu­ riosité d’une concierge*). Anche se questo comporta il ricorso a disproporzioni all’interno dello stesso film, o se cambia la dimensione degli oggetti senza che il personaggio modi­ fichi la distanza che lo separa da essi. Come in Grandmas Reading Glass*, dove il canari­ no “ingrandito” dalla stessa lente è molto più piccolo dell’occhio della nonna, perché l’interesse dell’occhio è nell’essere ingigantito a tutto schermo, mentre quello del canari­ no è nell’essere inquadrato dentro l’intera sua gabbia. La visuale che caratterizza le vedute esibite nei film a strumento ottico o a buco di serratura, insomma, è sempre quella che consente allo spettatore di osservare al meglio la veduta rappresentata. Quella che più di ogni altra permette di cogliere gli elementi di at­ trazione contenuti nell’immagine in movimento. Come il movimento, per l’appunto.

II.2.3. Movimento

Se accade che non si osservi nessuna verosimiglianza nella rappresentazione delle dimen­ sioni degli oggetti visti, raramente accade che un oggetto visto sia immobile ed anzi, fat­ ta eccezione per un solo film Pathé (L’eau merveilleuse*), dove un barbiere osserva fissa­ mente un capello ingigantito oltre una lente d’ingrandimento, in nessun altro caso tra tutti quelli qui riscontrati accade mai che gli oggetti osservati restino immobili. Si muovono le ali delle farfalle ne La peine du talion*, vermi e batteri ne Le déjeuner du savant*, gli insetti di The Unclean World*, i microbi dell’amore in The Love Microbe*, e i disegni (animati!) di Les Joyeux microbes*. Si muovono i personaggi spiati in L’amour à tous les étages*, Curiosité d’une concierge*, The Inquisitive Boots*, Un coup d’oeilpar éta­ ge*, Ce que l’on voit de mon sixième*, A Search for Evidence*, Par le trou de la serrure*,

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Aux bains de mer*, Eine lustige Geschichte*, La fille de bain indiscrete*, Ce que Von voit de la Bastille. Si muove maliziosa la mano del ciclista per allacciare la scarpa della sua ac­ compagnatrice in As Seen through a Telescope*. E si muovono gli astri osservati in Voyage sur Jupiter*, o in Eclipse de soleil en pieine lune*. Ancora: si muove la bandiera osservata dal capitano in The Battle ofChemuplo Bay*, si muovono rivoluzionari e soldati in La révolution en Russie*, così come i ragnetti di Spiders on a Web*, che nessuno osserva ma che sono inquadrati, in movimento, al centro di un mascherino circolare su fondo nero. E in Grandmas Reading Glass* si muove l’oc­ chio della nonna come il canarino in gabbia, il gattino come l’orologio (si muove cioè il suo meccanismo perfettamente funzionante), e si muove persino la pagina del giornale, sulla quale la macchina da presa effettua un leggero movimento panoramico verso de­ stra, spettacolarizzando così la simulazione del movimento dell’occhio del ragazzino che sta osservando al di qua della lente. Come la pagina del giornale di Grandmas Reading Glass*, del resto, in Ce que Von voit de mon sixième* si muove l’immagine dei tetti di Parigi, sempre grazie a una panora­ mica che la macchina da presa effettua per simulare il movimento dell’occhio del voyeur al di qua del telescopio. E ancora, allo stesso modo si muove il panorama osservato in Aux bains de mer*, in Un drame dans les airs*, in Toto aéronaute*, e in Le tour du monde d'un policier*. Se l’autonomia dell’inquadratura oggi ci colpisce immediatamente come un’anoma­ lia disturbante, rispetto a ciò che diverrà in seguito la soggettiva, e se l’alterazione nella dimensione di quanto viene rappresentato si impone presto ad una osservazione attenta, qui siamo invece in presenza di un indizio meno palese (o forse troppo), e comunque non palesemente percepibile in quanto tale. La rappresentazione del movimento, infatti, è per noi oggi un elemento a cui il cinema ci ha abituato così massicciamente da con­ dannarlo a passare inosservato. Oggi, infatti, è quanto di più ovvio il cinema possa mo­ strare, quindi quanto di meno spettacolare, di meno appariscente, di meno rilevante e attrattivo in sé. Non doveva essere così, però, per lo spettatore destinatario di questi film. Per quello spettatore, infatti, c’è nella semplice rappresentazione del movimento un coefficiente di spettacolarità superiore a quello di qualsiasi altra possibile attrazione. Non dimentichiamo che la grande “novità” del cinema fu per l’appunto la riproduzione meccanica delle immagini fotografiche in movimento. Sono decine e decine d’anni di sperimentazione sulla scomposizione e sulla ricomposizione meccanica del movimento che sfociano nell’invenzione del cinema, che rende la rappresentazione del movimento definitivamente visibile. Al di là delle singole specificità e finalità, infatti, alla base del­ l’invenzione del cinematografo si trovano essenzialmente due gruppi di ricerche, a lungo autonome e solo apparentemente divergenti, relative appunto alla riproduzione del mo­ vimento. La prima riguardante l’elaborazione di un meccanismo capace di fissare e ana­ lizzare il movimento umano e animale, scomponendone le diverse fasi. La seconda, in­ vece, riguardante l’elaborazione di un meccanismo in grado di ricomporre le fasi di uno stesso movimento (disegnato o fotografato) in una sintesi, riproducendo così la perce­ zione della sua continuità. Quale che ne fosse il fine, però, che si trattasse di Muybridge o di Marey, di Plateau o di Robertson, di scienza o di spettacolo, di lanterne magiche, fotografia o stereoscopia, ciascuna di queste ricerche era animata da un comune spirito convergente: quello di riprodurre meccanicamente un fenomeno percettivo naturale, per superarne ancora una volta i limiti, per oltrepassare i ristretti confini della visione ad oc­ chio “nudo” (è appena il caso di ricordare che alla base delle più famose sperimentazioni di Muybridge c’è il desiderio di vedere quanto è invedibile naturalmente, e cioè se, cor­ rendo, i cavalli alzano contemporaneamente tutte e quattro le zampe).

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Di nuovo, perciò, queste vedute registrano ciò che era divenuto visibile per lo spetta­ tore grazie al cinema, e alle esperienze percettive che lo avevano preceduto. O meglio: esibiscono nuove modalità di visione, e di fruizione, del repertorio iconografico prece­ dente il cinema, rese visibili attraverso il cinema. Con la rappresentazione del movimento in sé (in Ce que Ton voit de mon sixième*, Un drame dans les airs*, Ce que l'on voit de la Bastille, The Inquisitive Boots*, Un coup d’oeilpar étage*, A Search for Evidence*, Par le trou de la serrure*, Eine lustige Geschichte*, La file de bain indiscréte*, Curiosité d'une concierge*, L'amour à tous les étages*...). Con la rappresentazione del movimento da vicino, perché ingrandito in Grandma's Reading Glass*, La peine du talion*, Spiders on a Web*, Le dejeuner du savant*, As Seen through a Telescope*, The Unclean World*, The Love Microbe*, Voyage sur Jupiter*. E con la rappresentazione del movimento come artificio, come trucco, come pura si­ mulazione della mobilità acquisita dall’occhio umano. Una simulazione al cinema otte­ nuta assai presto, com’è noto, grazie ad ingegnosi espedienti di fortuna tra cui spicca quello di piazzare la macchina da presa su una barca per registrare in movimento lo spa­ zio circostante (per primo l’avrebbe fatto, stando allo stato attuale della ricerca, l’opera­ tore Alexandre Promio, a Venezia per i Lumière).38 Ma anche su un treno in corsa, come accade già all’inizio del 1896 per filmare le inondazioni di Lione, e successivamente i numerosi panorami che prendono spesso il titolo di Panorama en chemin de fer, in Fran­ cia, o di Phantom Ride in Gran Bretagna (l’espressione inglese significa letteralmente “corsa fantasma”, e designa appunto le riprese effettuate con la macchina da presa piaz­ zata su una locomotiva in corsa). Di questo genere, davvero molto popolare (ricordiamo almeno i numerosi Voyage dans un train, Pathé 1897/99; Panorama à l'arrière d'un train, Pathé 1897/99; View From an Engine Front, Hepworth 1899; Phantom Ride: Chamonix, R.W.Paul 1900...), esistono addirittura varianti “erotizzate”, come il notissimo The Kiss in the Tunnell*, che nella versione realizzata da Smith racchiude l’inquadratura di una coppia che si bacia nell’intimità di uno scompartimento, tra altre due inquadrature che mostrano, dall’alto di un treno in corsa, l’entrata e l’uscita da una galleria... Anche in questo caso, tuttavia, dai cataloghi d’epoca risulta che si trattava di un film «to be joined into tunnel portion ofa Phantom Ride», durante le esibizioni del cinematografo nelle fie­ re.39 Un effetto spettacolare fine a se stesso, quindi, teso a sollecitare la fantasia dei visi­ tatori. Al pari di quanto doveva risultare spettacolare camminare sul tapis roulant per il pubblico di visitatori dell’Exposition Universelie parigina del 1900, e osservare in movi­ mento lo scenario circostante. Poiché, come osserva Io stesso Alexandre Promio nei suoi preziosi “Carnet de route' (parzialmente riprodotti in Pinel, 1994: 80), se una cinepresa immobile può riprodurre cose e persone in movimento, una cinepresa mobile può confe­ rire movimento a oggetti e cose comunemente immobili: è così che lo spazio — le vette alpine, i tetti di una grande città, una distesa di campagna — diviene in sé un’attrazione spettacolare. Come in Ce que l'on voit de mon sixième*, appunto, e in Aux bains de mer*, Un drame dans les airs*, Toto aéronaute*, Le tour du monde d'un policier*, Ce que l'on voit de la Bastille, Dream ofa Rarebit Fiend*... Ma c’è ancora un altro aspetto da considerare, poiché quanto si è detto a proposito della costruzione paratattica, e dell’esaustività della visuale, vale anche per la rappresen­ tazione del movimento. Verosimilmente, infatti, lo spettatore del tempo non si aspetta che in questi film il movimento svolga un ruolo “linguistico” o narrativo, o sia in qual­ che modo funzionale all’azione rappresentata, bensì ne apprezza l’esibizione fine a se stessa. Lo spettatore di Grandma's Reading Glass*, come del resto il suo protagonista, non approfitta del movimento panoramico per leggere ciò che è scritto sulla pagina del giornale; e quand’anche lo facesse, non potrebbe trarne alcuna conclusione pertinente

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rispetto a quanto vedrà in seguito (diversamente da quanto accadrà ai protagonisti di Bertie Buys a Bull Dog* una decina d’anni più tardi). Semplicemente, quel movimento panoramico aumenta l’impatto spettacolare dell’inquadratura.40 Lo spettatore del tempo non si aspetta neppure che il movimento svolga una qualche funzione linguistica o narrativa in quei casi che invece oggi tenderemmo a leggere come soggettivi. Costa (1987 e 1989), infatti, ha dimostrato come il suggestivo effetto di “al­ lunaggio” realizzato da Méliès in Voyage dans la lune (1902) sia in realtà un passaggio particolarmente complesso, ripreso dalla successione dei tableaux dello spettacolo allesti­ to da Méliès nel 1891 al teatro Robert Houdin, Les farce de la lune à un mètre ou les mésaventures de Nostradamus, che non prevedeva nessun viaggio nello spazio (cfr. Deslandes, 1963), e dove quell’effetto funzionava piuttosto come l’esibizione di un artifìcio ot­ tico. Osserviamo il film di Méliès con attenzione: ci accorgeremo che il movimento rap­ presentato in Voyage dans la lune non simula l’avvicinamento alla luna di chi la guarda (dall’interno della navicella), semmai simula l’avvicinamento della luna verso chi guarda (nella navicella ma anche e soprattutto in sala). La cornice di nuvole che circonda l’im­ magine resta ferma, infatti, mentre la luna, dentro questa cornice circolare come un ma­ scherino, diviene progressivamente più grande. Non per un errore — come potremmo pensare oggi — o per condizionanti limiti tecnici. Ma perché per Méliès, come per lo spettatore del tempo, non aveva importanza che quel movimento rappresentasse l’avvici­ namento alla (o della) luna. Importava invece l’effetto meraviglioso del movimento in sé. Importava l’impatto del trucco capace di aumentare il coefficiente di spettacolarità di una veduta che si dà come la stupenda esibizione di una fantasia visionaria (al pari, del resto, delle vedute che rappresentano lo sguardo dell’astronomo in Eclipse de soleil en pieine lune*). Una fantasia ripresa, qualche anno dopo, assolutamente identica, in Voyage à travers [’impossible (1904), dove Méliès ripete il trucco questa volta con un sole giallo e splendente, circondato da una cornice di nuvole immobili; anche qui il sole “si avvici­ na”, diventando sempre più grande dentro un’immutata corona di nuvole, e permette così a uno speciale treno solare, proveniente dalla terra, di entrare nella sua grande bocca antropofaga. È d’altronde significativo il fatto che questo stesso movimento di Voyage dans la lune sia stato “copiato” almeno due volte, da Chomón e Zecca in Excursion dans la lune*, e da Velie e Zecca in Rève à la lune*, e che in nessun caso ne sia stata modificata la dina­ mica. In Rève à la lune* compare anche la stessa cornice di nuvole che in Voyage dans la lune circonda la luna e rimane immobile mentre il satellite progressivamente ingrandi­ sce; ma neppure qui Velie e Zecca “correggono” il trucco, nonostante in questo caso ci sia un solo uomo, e non una navicella, che guarda la luna — o meglio, la sogna — e suc­ cessivamente si infila sgambettando nella sua bocca spalancata. La descrizione del film che compare nel supplemento di maggio del Catalogue Pathé del 1905, anzi, è assai elo­ quente in proposito; ci spiega infatti che: «La lune elle-mème attendrie de ses efforts s’approche de lui et lui accorde l’hospitalité»*x Questo avvicinamento della luna, esplicitamente dichiarato, rivela bene allora quan­ to la rappresentazione del satellite rimandi qui a una sua concezione ancora magica, an­ che per questo scopertamente antropomorfìzzata — e “umanizzata”, se diamo retta al ca­ talogo che descrive una luna compassionevole, che si dirgige verso chi l’ama. Il movi­ mento che qui unisce la luna all’uomo, cioè, non corrisponde alla rappresentazione scientifica dell’ingresso dell’uomo in uno spazio, altrettanto scientifico, dove la luna è vi­ sta come corpo celeste a tutti gli effetti; né corrisponde a uno spostamento dell’uomo, capace di mutare le condizioni di visibilità del satellite in direzione scientifica. E invece

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un movimento della luna, che si avvicina all’uomo entrando nello spazio terrestre della sua fantasia, svelandone una concezione ancora giocosa e spettacolare.42 Come giocoso e spettacolare è il mascherino circolare — simile a quello di un visore ottico — che circonda il re sognatore in Voyage sur Jupiter* per suggerire l’effetto del suo allontanamento (non­ ché avvicinamento) da Saturno verso Giove, al pari della cornice di nuvole che circonda la luna in Voyage dans la lune e in Rève à la lune*, o il sole in Voyage a travers ^impossible. Anche in questi casi, perciò, sbaglieremmo se credessimo di dover interpretare il mo­ vimento eseguito dalla luna (o dal sole, o ancora dallo stesso re in Voyage sur Jupiter*) come un “errore”, o un’imprecisione nella rappresentazione dello sguardo del personag­ gio. Perché anche qui, ancora una volta, siamo di fronte soprattutto all’esibizione di un elemento attrattivo e spettacolare. Alla messa in scena di un evento straordinario. Alla sua ostentazione in forma di trucco. Un trucco stupendamente smascherato come tale in The Unclean World*, dove un uomo, mentre sta mangiando, trova un corpo estraneo nel cibo e subito si appresta a guardare di che si tratta attraverso la lente di un microscopio. Ma l’inquadratura succes­ siva, circondata da un mascherino circolare su fondo nero, mostra due insetti sgambet­ tanti che un paio di mani capovolgono, svelando così che non si tratta di veri animali, bensì di due giocattolini meccanici; le mani, ora, li caricano mediante un’apposita chia­ vetta.43

II.2.4. Mascherino Lo scalpitare degli insetti svelato come trucco in The Unclean World* è circondato, come abbiamo appena visto, da un mascherino circolare su fondo nero. La figura del cerchio costituisce la cornice iconografica più ricorrente nei film a stru­ mento ottico, e qui certo simula l’oculare del microscopio attraverso cui l’uomo osserva gli ignoti intrusi che gli hanno rovinato il pranzo. Tuttavia sarebbe ingenuo, oltre che ri­ duttivo, interpretare questa cornice come una premura “realistica”. Lo stesso cerchio, in­ fatti, compare anche in film come Pauli*, Spiders on a Web*, Voyage sur Jupiter*, When the Devil Drives*, dove nessuno guarda e dove non c’è traccia di alcun microscopio o strumento ottico. O in Bertie Buys a Bull Dog*, dove due coniugi leggono ad occhio nu­ do un annuncio sul giornale, che compare sullo schermo circondato da un mascherino su fondo scuro. O ancora in Faust*, dove Margherita guarda un crocifisso — anch’essa ad occhio nudo — che compare sullo schermo circondato da un mascherino. Oppure non compare dove invece dovrebbe, come in Eclipse de soleil enpieine lune*. Questo mascherino circolare è una presenza iconografica che è senz’altro necessario collegare anzitutto con l’aspetto ottico e meccanico del visibile che tali immagini regi­ strano, e che rimanda alla strumentazione — all’idea stessa della macchina — suscettibile di rendere questo genere di vedute possibili: lenti, telescopi e microscopi, certo, ma an­ che obiettivi e visori. Nel primo capitolo abbiamo già visto abbondantemente come la ricerca scientifica precedente all’invenzione del cinematografo sia sfociata nella messa a punto di congegni ottici e meccanici che nella maggior parte dei casi procurano una vi­ sione di forma circolare, quando non direttamente osservabile attraverso visori circolari. Il loro elenco è noto, e potenzialmente infinito: si potrebbe cominciare col ricordare che anche l’occhio umano è “circolare”, e che Leonardo da Vinci non manca di rimarcarlo in un passo dei Codici {Codice D, f.8, recto) dove mette appunto in relazione occhio umano e camera oscura, parlando di «spiraculo rotondo». Che è circolare la lente del te­ lescopio messo a punto da Galileo, agli albori del XVIIO secolo; o che un cerchio circon­

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da i disegni con cui Huygens progetta, una cinquantina d’anni dopo (più esattamente, nel corso del 1659), i vetri per proiezioni animate che daranno vita alla lanterna magica. O ancora, che più tardi sono circolari le vedute di giochi ottici come il kaleidoscopio, il taumatropio, lo stroboscopio, il fenachistiscopio, lo zootropio, lo stereoscopio, lo stereofantascopio...44 E si potrebbe finire magari ricordando che nel tempo sono circolari non solo la maggior parte delle lastre per lanterna magica, ma anche le cronofotografie di Marey, l’obiettivo del suo fucile cronofotografico, gli schermi luminosi contro cui ven­ gono proiettati i giochi d’ombre per bambini eseguiti con le mani,45 gli stessi spettacoli di teatro d’ombre (cfr. Bordar e Boucrot, 1956). Ma fermiamoci qui; perché al di là del legame facilmente documentabile tra la figura del cerchio e la maggior parte delle vedute riprodotte meccanicamente tra il XVIIO e il XIX° secolo, ciò che importa per la nostra riflessione è soprattutto l’impatto magico che caratterizza un tale legame, l’alone fantastico che assume agli occhi dello spettatore del tempo, assimilando le vedute circondate da un mascherino circolare a un evento vaga­ mente stregonesco. Al risultato di un processo che affonda le proprie radici nel confine ancora labile che separa la magia dalla scienza fino all’inizio di questo secolo. Lo stesso progresso tecnologico, ottico e scientifico, infatti, fino all’inizio del nostro secolo è anco­ ra vissuto come una sorta di “magia scientifica” (pensiamo a ciò che ci suggerisce sul­ l’immaginario tecnologico del tempo un divertente filmetto come Put a Penny in the Slot*y dove inserendo un solo penny in alcune macchinette è possibile ottenere di tutto, dal battesimo automatico alla rasatura meccanica). E la stessa luce “artificiale”, poco im­ porta se elettrica o a gas, in alcuni film appartenenti al nostro genere si sostituisce sinto­ maticamente allo strumento ottico rendendo da sé magicamente visibili una serie di ve­ dute inaccessibili alla luce “naturale”: immagini licenziose che si materializzano grazie al­ le emanazioni luminose di una lampada in Les cartes lumineuses*, la strada di notte resa visibile da una lanterna in Afier Dark; or the Policeman and His Lantern, o ancora il sar­ donico volto del diavolo illuminato nell’uovo trasparente in La Poule aux Oeufi d'or*.^ Anche per questo spessore di “magia scientifica”, allora, o di “scienza magica”, prevale qui una dimensione di artificio fantastico e spettacolare. Una dimensione stigmatizzata nella figura del cerchio, che spiega bene la valenza di trucco, ottico e meccanico, che in questo modo lo stesso mascherino circolare trasmette alle immagini che circonda, per il personaggio che guarda come per lo spettatore in sala. Ripensiamo un istante a come comincia Grandma's Reading Glass* un mascherino circolare su fondo nero all’interno del quale compare la pagina ingigantita di un giorna­ le (volendo vi si legge distintamente, grazie a una leggera panoramica, un articolo a pro­ posito di un nuovo tipo di sandwich), a cui fa seguito, ma solo dopo, l’immagine del ra­ gazzo che posa lente e giornale. Allo stesso modo comincia Ce que l'on voit de mon sixiè­ me*, vale a dire con un’immagine circondata da un mascherino circolare su fondo nero all’interno del quale è possibile osservare due innamorati alla finestra di una mansarda; anche qui, segue l’immagine di un uomo, telescopio alla mano, che punta il suo stru­ mento altrove. Di nuovo: Aux Bains de mer* comincia con un mascherino binoculare su fondo nero, all’interno del quale si vede il mare; segue quindi l’immagine di un bagnan­ te che abbassa il suo binocolo, dopo di che lo rialza puntandolo altrove. Anche a proposito di questo inizio potremmo avere, oggi, qualche perplessità. Po­ tremmo infatti ritenerlo un’illogica anomalia per un film delle origini. Potremmo sup­ porre che manchi una prima, didascalica inquadratura, che mostra il ragazzo prendere la lente e il giornale (o l’uomo prendere il telescopio, o il villeggiante impugnare il suo bi­ nocolo), come peraltro accade in molti film di questo genere. Oppure potremmo sup­ porre che la successione delle inquadrature sia stata manomessa nel tempo, ed essere for-

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temente tentati di correggerla; è stato fatto, del resto, proprio con il film Grandma's Rea­ ding Glass* in almeno due occasioni,47 nelle quali appunto si è voluto correggere il mon­ taggio anteponendo all’immagine del mascherino quella in cui si vede il ragazzo impu­ gnare la lente d’ingrandimento. Eppure, in Gramdmas Reading Glass* non manca nessu­ na inquadratura iniziale, e l’ordine giusto delle vedute è proprio questo. Ancora una vol­ ta, allora, anche questo mascherino iniziale non è un “errore” o un’anomalia, ma l’esibi­ zione di un artificio; il suo contrassegno tecnologico subito svelato come tale dall’esibi­ zione dello strumento ottico nella seconda immagine presentata allo spettatore in sala, al quale l’artificio è destinato. Proprio come le mani che girano la chiavetta smascherando gli insetti giocattolo in The Unclean World* (e come il telo che, cadendo, svela il trucco della danza in Topsy-Turvy Dance by Three Quarker Maidens*, sempre di Smith). Anche qui, insomma, siamo di fronte a un procedimento perfettamente in sintonia con l’orizzonte di attese di uno spettatore predisposto ad accogliere questo genere di ve­ dute come altrettante attrazioni spettacolari, travestite da fantastici artifici ottici e mec­ canici. Un orizzonte di cui fa parte — lo abbiamo visto — anche il gesto di chinarsi per guardare attraverso, per osservare come di nascosto, oltre un “foro”, una o più immagini luminose e in movimento. E l’esplicitazione di questo gesto che viene riprodotta nella messa in scena dell’altro mascherino, a forma di serratura, la cui presenza iconografica ricorre alternandosi con il cerchio nei film in cui compare la nostra figura. Di fronte a una serratura, infatti, il per­ sonaggio voyeur si china per guardare proprio come lo spettatore del XVII1° e XIX° seco­ lo soleva chinarsi per guardare attraverso l’oculare del Mondo Nuovo e delle macchine ottiche, o esattamente come più tardi si chinerà lo spettatore del kinetoscopio di Edison.48 E forse non è un caso che il mascherino a forma di serratura sia assente nel primo cinema inglese, dove domina invece il cerchio, insieme con la solidissima tradi­ zione ottica della lanterna magica, e compaia invece anzitutto nel primo cinema francese (e americano), dove sono soprattutto le vues d’optique e il Mondo Nuovo (e il Kineto­ scopio di Edison, nei nickelodeon), registrate dall’iconografia popolare ricordata più volte, che preparano il terreno al Cinématographe Lumière. Se il funzionamento sintattico di questi due diversi mascherini è per lo più simile (paratassi, visuale esaustiva, movimento, alternanza, gestualità ridondante e finale puni­ tivo ricorrono nella messa in scena di entrambi), la valenza semantica che li caratterizza è invece pro fondamente differente. L’ottica, infatti, come il cinema prima del cinema, affonda le proprie radici nella sperimentazione meccanica che precede il cinematografo, e apre lo sguardo alle meraviglie del visibile. La serratura, invece, come di lì a poco il ci­ nema, è proiettata verso la finzione — e la narrazione — che il voyeur osserva senza esser vi­ sto, sfondando dell’invedibile l’ultima e più segreta barriera. In altre parole: il cerchio è ancora e sempre promessa di spettacolo; la serratura, inve­ ce, è già promessa di racconto. E sufficiente scorrere le vedute osservate oltre la serratura dei film analizzati qui per ottenere una rapida conferma: spunti di storie, micro racconti potenziali, articolati e in­ terpretati sempre da personaggi fortemente stereotipati - il campagnolo ingenuo, il cit­ tadino eccentrico, la vecchia malata, l’edonista gaudente, l’anziana signorina, il bambino burlone, la fausse femme, l’uomo d’affari... Personaggi a tutto tondo, perfettamente in grado di reggere lo sviluppo di un intrigo, che per di più fingono di non sapersi osserva­ ti. Raramente, infatti, guardano in direzione della serratura, e quando accade è solo per esibire uno sguardo “vuoto”, nel senso inteso da Vernet (1988); e in nessun caso inter­ pellano il loro spettatore diegetico (quando ne “scoprono” la presenza, d’altronde, in The Inquisitive Boots* e in Par le trou de la serrure*, lo puniscono - cfr. II.2.7.).

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In The Inquisitive Boots*, addirittura, il potenziale narrativo di ciascuna veduta trova il modo di snodarsi nei pochi secondi che ha a disposizione, percorrendo ad una ad una le “tappe” del racconto secondo Propp (1928), inscenando la rottura e il ristabilimento dell’equilibrio iniziale (cfr. II.2.1.); tanto che nell’ultima scenetta osservata dal cameriere sono addirittura due le azioni sviluppate e distribuite l’una nell’altra: la cura della sordità efficacemente portata a termine, e la vendetta contro il cameriere spione, smascherato proprio grazie al ritrovamento dell’udito. In Lamour à tous les étages*, invece, sfilano in successione vedute appartenenti a diversi generi (erotico, comico, thriller, quest’ultimo articolato in un inizio, uno svolgimento, e una conclusione efficace al punto da spaven­ tare lo stesso studente spione). Mentre in Curiosité dune concierge* ciascuna scena si prende tutto il tempo necessario ad articolare un vero e proprio racconto (pensiamo so­ prattutto alla quarta veduta, dove una moglie gelosa e visibilmente insoddisfatta scopre una lettera d’amore nella tasca della giacca del marito, lo sveglia, e lo aggredisce con vio­ lenza), scatenando così la partecipazione attiva della portinaia. La quale, al pari di una lettrice di romanzi in serie, non manca di riconoscere in ogni nuova “puntata” un pezzo della propria vita vissuta, né soprattutto di commentarla in direzione dello spettatore in sala; tanto che dopo aver osservato la quarta scena suddetta, estrae dal corpetto una let­ tera indicando allo spettatore che è proprio come quella trovata dalla moglie tradita nel­ la giacca del marito. Ma c’è di più. Su un piano strettamente iconografico, tanto quanto il cerchio riman­ da soprattutto alla componente ottica che rende queste vedute possibili, alla rotondità della macchina protesi posta tra il mondo e il leonardesco “spiraculo” oculare, il masche­ rino a forma di serratura rimanda invece alla componente erotica propria del voyeuri­ smo puro, dove la promessa di racconto è anche e soprattutto promessa di piacere: il piacere di guardare senza esser visti guardare. Non a caso, da Autour d’une cabine in poi, non si contano gli intrighi a sfondo vaga­ mente licenzioso che ruotano intorno alla messa in scena di una serratura — e di uno sguardo che simbolicamente la penetra.49 Molti tra i primi film a buco di serratura sono più o meno esplicitamente erotici (oltre al già visto Lamour à tous les étages*, ricordiamo un altro film Pathé, del 1908, Collection de cartes postales-, una produzione italiana del 1906 dal titolo II pompiere di servizio, diretta da Gaston Velie per la Cines; e almeno due titoli americani di produzione Biograph, Through the Keyhole in the Door, del 1903, e The Boarding House Bathroom, del 1905).50 Per non parlare delle serie decisamente por­ nografiche, di datazione incerta ma di certissima destinazione postribolare - qui si veda Moral* — dove pure è di scena il mascherino a forma di serratura. Ancora una volta, è importante ricordare che la messa in scena del voyeurismo eroti­ co è largamente presente nelle pratiche iconografiche e spettacolari immediatamente precedenti alla nascita del cinema (esistono intere “sceneggiature” di spettacoli erotici per teatri d’ombre, tra cui un Pierrot pornography, cfr. Bordar e Boucrot 1956: 35 e 163 sgg.), che a loro volta ospiteranno il cinema al loro interno proiettando proprio filmetti erotici. Più spesso, si tratterà di film ripresi da questi stessi spettacoli; tanto che il più noto film erotico di quegli anni, Le coucher de la mariée*, altro non è che la fedele ri co­ struzione di una pantomima interpretata da Mile Willy, «créatrice du “Coucher de la mariée” à l’Olympia», che esisteva anche in formato da cartolina postale illustrata e prodotta in serie. Quest’ultimo titolo, di cui si conoscono numerose varianti, e altrettante versioni,51 è non a caso, secondo Burch (1987 e 1990), il prototipo del film di voyeurismo in senso proprio: mostra una donna spogliarsi davanti allo sguardo complice di un uomo — no­ minalmente il marito — che si impegna a non guardare ma naturalmente guarda di na­

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scosto. Burch vede qui, nella dinamica degli sguardi, alcuni nodi esemplari per la futura evoluzione di ciò che egli chiama Modo di Rappresentazione Istituzionale. Lo sguardo dell’uomo che “proietta” la donna (cfr. Fischer, 1983), anzitutto; ma anche lo sguardo in macchina della donna che si rivolge allo spettatore in sala, interpellando il pubblico co­ me lo farebbe una spogliarellista di cabaret. E poi lo sguardo in macchina dell’uomo, che a sua volta interpella il pubblico maschile a testimone del suo sguardo. Alla luce di quanto visto sopra, possiamo aggiungere almeno due considerazioni. In primo luogo, guardando di nascosto la donna mentre si spoglia, l’uomo non solo si costituisce in voyeur, ma duplica lo sguardo dello spettatore in sala rendendolo voyeur a sua volta. Così, ammiccando allo spettatore in sala, l’uomo gli dice una cosa molto im­ portante (che non sempre possono dire i personaggi che osservano attraverso strumenti ottici, mentre possono sempre coloro che guardano da un buco di serratura); gli dice che sta facendo come lui: cne sta guardando senza esser visto guardare. Fa notare allo spettatore, insomma, quella straordinaria condizione privilegiata propria del cinema, di cui lo spettatore ancora non è cosciente — ma qui il suo vicario sulla scena lo diviene — che consiste appunto nel fatto di guardare senza esser visto guardare. In secondo luogo, proprio qui l’uomo osserva uno spettacolo che ha già i crismi della finzione e del racconto, come poco più tardi le vedute osservate oltre una serratura. Del racconto perché allo spogliarello della donna segue generalmente la punizione dell’uomo (cfr. qui II.2.7.). Una punizione simbolica per eccellenza, che viene a infrangere letteral­ mente l’iniziale equilibrio della rappresentazione, e che in alcune versioni di questo sog­ getto si materializza nella caduta del paravento dietro cui si nasconde l’uomo, o dello stesso talamo nuziale che precipita addosso alla giovane coppia. E ci sono già i crismi della finzione perché, a differenza delle immagini di città osservate dall’alto, o degli in­ grandimenti pseudoscientifici esibiti come uno spettacolo fine a se stesso nei film a stru­ mento ottico, qui il voyeur osserva sempre un altro personaggio (come nei film a buco di serratura, appunto) che sa di esser visto eppure finge di non saperlo. Tanto che, sintoma­ ticamente, gli ammiccamenti della donna vanno al pubblico in sala, e non a quello “die­ getico” composto dall’uomo che la osserva, al pari dei rari sguardi in direzione della ser­ ratura dei personaggi osservati, che mai interpellano il loro voyeur diegetico bensì esibi­ scono quello sguardo “vuoto” di cui si è detto sopra, destinato unicamente allo spettato­ re in sala. Certo non mancano le commistioni tra un mascherino e l’altro; da As Seen Through a Telescope* a Aux Bains de mer* sono infatti riscontrabili alcuni casi di mascherino a strumento ottico che apre alla finzione come al racconto; solitamente, proprio quando anche qui il voyeur guarda un altro personaggio di nascosto. Ma nella maggior parte dei casi lo strumento ottico si rivolge altrove, e le vedute osservate oltre un visore hanno quasi sempre un taglio che oggi definiremmo, pur tra mille precauzioni, “documentari­ stico”, sia esso scientifico o geografico; e benché ovviamente manipolate, si danno allo spettatore proprio come ingrandimenti, o come documenti di viaggio, la cui materia consustanziale è appunto lo spettacolo del mondo. Diversamente, sempre la serratura apre lo sguardo all’affabillazione, alla “materia di cui son fatti i sogni”. Attraverso uno strumento ottico, guardano generalmente avventurieri da una mon­ golfiera in volo (Un drame dans les airs*, Toto aéronaute*}, scienziati più o meno credibili (Le dejeuner du savant*, Ce que l'on voit de la Bastille, La peine du talion*, Les Joyeux mi­ crobes*, The Unclean World*, The Love Microbe*}, pomposi astronomi (Voyage sur Jupi­ ter*, Eclipse de soleil en pieine lune*, ed anche il Nigadimus protagonista di Viaggio in una stella, una produzione Cines del 1906 diretta da Gaston Velie), e aspiranti bircoleurs (Grandma's Reading Glass*, Grandpa's Reading Glass, La loupe de grand-maman, L'eau

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merveilleuse*, At Last! That Awful Tooth), Il voyeur “ordinario”, invece, sceglie di preferenza la serratura e le sue varianti più fruttuose: fori nelle pareti (L’ìndiscret mystifié*, Les locataires d’à coté*, Eine lustige Geschichte*), pertugi tra porte e infissi (La fille de bain indiscréte*, Photograph From an Area Window*) ed ogni altro espediente in grado di farlo guardare senza esser visto guardare. Perciò sono di turno preferibilmente domestici, valletti, camerieri, portinai, rappresen­ tanti per eccellenza di una popolazione popolare e curiosa, che nella società europea d’i­ nizio secolo, rigidamente gerarchizzata (cfr. Lefebvre, 1988), possiede l’ubiquità necessa­ ria per poter spiare di porta in porta l’intera collettività borghese (Par le trou de la serra­ re*, The Inquisitive Boots*, Un coup d’oeilpar étage*), candidandosi così al ruolo di pub­ blico, massicciamente popolare, e però fortemente attratto dalla rappresentazione di in­ trighi anche borghesi. Ma sono di scena anche giovani e facoltosi studenti (pensiamo a L’amour à tous les étages*, o ad Eine Lustige Geschichte*). E sono di scena donne voyeuses (Curiosité d’une concierge*, A Search for Evidence*, La fille de bain indiscréte*),51 già da un secolo avide lettrici di letteratura popolare pubblicata in serie (cfr. Bruno, 1993). È di scena, insomma, un viaggiatore immobile già massificato e seriale, come le porte che qui sfilano, identiche e ripetitive, una dopo l’altra. Analogamente, è riscontrabile un ulteriore punto di convergenza tra i due mascherini, su cui conviene concludere con uriultima, importante considerazione. Quanto detto in apertura di questo paragrafo a proposito del cerchio, infatti, vale anche per la serratu­ ra, la cui presenza iconografica non può certo essere ridotta a una semplice premura “realistica”. Anche perché lo stesso mascherino a forma di serratura non compare con impeccabile regolarità in tutti i film la cui cornice lo richiederebbe. A questo proposito, infatti, la cosa importante da rilevare non è tanto l’effettiva regolarità, o la verosimi­ glianza delle diverse forme rappresentate (circolare, a serratura, ma anche binoculare nel caso lo strumento usato sia un binocolo, come in Aux Baians de mer*, Haleys Comet*, The Airship Destroyer*, Le tour du monde d’un policier*). Non è neppure la regolarità del­ la sua ricorrenza. Semmai, è proprio la sua irregolarità. Come si è detto, capita infatti che il mascherino non compaia nonostante la situazione lo richieda. Ad esempio nel già evocato Eclipse de soleil en pieine lune*. E in L’amour à tous les étages*, in Curiosité d’une concierge*, e in Un coup d’oeilpar étage*, dove studente, portinaia e portinaio guardano attraverso il buco della serratura di ciascuna porta, ma l’inquadratura che segue e che rappresenta il loro sguardo non presenta nessun mascherino. Allo stesso modo ci sono film in cui, benché nessuno guardi in modo esplicito, o nessuno tra chi guarda faccia uso di strumenti di alcun genere, alcune inquadrature sono ugualmente circondate da un mascherino; accade, ad esempio, nei già visti Pauli*, Spiders on a Web*, The Corner of an Eye, Les troisphases de la lune*, Bertie Buys a Bull Dog*, Léontine et Rosalie au théàtre*, Faust*, When the Devil Drives*. Ne Le ore di una mondana (Cines, 1906), dove: «si suc­ cedono come in un caleidoscopio le diverse fasi della giornata di uri avvenente, elegante si­ gnora» (sottolineatura nostra), vale a dire dentro un mascherino circolare.53 E in The In­ quisitive Boots*, dove il cameriere addetto alla lucidatura delle scarpe guarda attraverso il buco della serratura di ben sei porte, ma il mascherino a forma di serratura compare solo le prime tre volte. Questa irregolarità, sintomatica, rivela che il mascherino è impiegato qui in quanto segno — un segno che nel caso di The Inquisitive Boots* dopo tre apparizioni non serve più e “decade” dalla sua funzione di esplicitazione dello sguardo. Si codifica in questi film, cioè, l’impiego del mascherino in quanto segno di una presenza mediatrice tra l’oc­ chio e il mondo, da intendersi peircianamente come segno a tutto tondo, vale a dire in egual misura icona, simbolo e indice.54 Icona perché “somigliante” alla forma circolare

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del visore ottico, alla forma “a serratura” di una serratura, alla forma binoculare di un bi­ nocolo o di un doppio visore. Simbolo perché “convenzionale” rispetto a ciò che l’oc­ chio umano effettivamente vede se posto davanti a un visore ottico, a una serratura o a un binocolo - è appena il caso di sottolienare che un mascherino dai contorni relativa­ mente netti, su fondo tendenzialmente nero o scuro, rappresenta solo per convenzione, integrando gli scarti nella somiglianza, sia l’oggetto visore, serratura e binocolo, sia ciò che di quell’oggetto può vedere un personaggio postovi di fronte, a una distanza molto ravvicinata. E indice perché “traccia” non tanto dello sguardo che lo attraversa, quanto della macchina che si intromette tra l’occhio e il mondo. Contrassegno significativo del suo “passaggio”, della sua indispensabile mediazione per accedere alle nuove frontiere del visibile (cfr. I.I.2.). Un segno che progressivamente antropomorfizzerà le sue forme, accantonando la macchina per significare lo sguardo attraverso le sue più immediate e umane appendici. Già qui, del resto, il mascherino è talvolta affiancato da mani, dita, cornici di specchi... Pensiamo a Grandmas Reading Glass*, dove compaiono anche le dita del bambino che tengono l’orologio; a The Unclean World*, dove compaiono le mani che capovolgono gli animali giocattolo; a Les cartes lumineuses*, dove compaiono le mani disegnate del ragaz­ zo che impungano le carte; a La poule aux oeufi d’or*, dove pure le dita del personaggio sono disegnate, così come è ritagliato nel cartone l’ovale dello specchio in cui il protago­ nista de La purge* osserva lo stato della sua lingua... Vedremo tra breve come, sotto un profilo strettamente formale, due sono le catego­ rie del linguaggio cinematografico che permettono di definire e localizzare una soggetti­ va: una relativa al montaggio (all’alternanza tra soggetto e oggetto dello sguardo), 1 altra relativa alle marche interne all’immagine che sono supposte rappresentare lo sguardo di un personaggio. A proposito di queste ultime (che includeranno di qui a poco la traccia delle coordinate prospettiche da cui ha origine lo sguardo), qui basti aggiungere che se nel tempo sarà possibile realizzare una soggettiva trascurando la regolare alternanza tra soggetto e oggetto, vale a dire omettendo le inquadrature che rappresentano il personag­ gio che guarda, ciò potrà accadere solo perché l’inquadratura che rappresenta il suo sguardo conterrà in sé indizi sufficienti per presupporne la presenza (occhiali, ombra del corpo, volto riflesso in uno specchio, movimento, rumore dei passi, voce, amplificazione del battito cardiaco...). Indizi che nel corso del tempo si aggiungeranno al mascherino, fino a sostituirlo, per simulare, all’interno di un’inquadratura, la mediazione di una macchina posta tra l’occhio e il mondo.

II.2.5. Alternanza Unitamente alla presenza iconografica del mascherino, tra le peculiarità formali più pa­ lesi di questi film va segnalata indubbiamente la struttura dell’alternanza. Di fatto, salvo rare eccezioni, fino al 1905 praticamente tutti i film in cui compare questa forma di rappresentazione dello sguardo si articolano intorno a una struttura che consiste nel mo­ strare esclusivamente uno o più personaggi intenti ad osservare attraverso qualcosa, alter­ nando l’immagine di chi guarda all’immagine dell’oggetto del suo sguardo. Così accade in Grandmas Reading Glass*, ma anche in Grandpa’s Reading Glass, Ce que Ton voit de mon sixième* (1901), As Seen Through a Telescope* (1900), L’eau merveilleuse* (1901), La fitte de bain indiscrete* (1902), The Unclean World* (1903), L’amour à tous les étages* (1904), Les cartes lumineuses* (1905), Le dejeuner du savant* (1905), The Inquisitive Boots* (1905), Par le trou de la serrure* (1901 e 1905), Curiosité dune concierge* (1905).

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E ancora, nel 1909, in Les Joyeux microbes*. E benché non si possa affermarlo con certez­ za, è ragionevole supporre che fossero così strutturati anche La loupe de grand-maman e Ce que l'on voit de la Bastille. Anche sulla natura di questa alternanza vale la pena di riflettere. Di primo acchito, infatti, potremmo riscontrarvi un’apparente contraddizione con l’autonomia dell’inqua­ dratura analizzata in IL2.1. La struttura dell’alternanza è una forma di montaggio alla base della linearizzazione. Non a caso, Metz (1966) le accorda ampio spazio contem­ plandola tra le articolazioni di montaggio che compongono la sua «grande sintagmati­ ca»; e sia Bellour (1980), sia Colin (1989), nel tempo ne rielaborano una lettura altret­ tanto sintagmatica per metterne in evidenza il potenziale narrativo e unificatore, anziché quello isolante e disgiuntivo che caratterizza la costruzione paratattica dei nostri film. Proprio dell’alternanza è il ricongiungimento delle parti, in una sorta di «colpo di forza rappresentativo» (Bellour, 1980) che mira a collegare, unificare, costituire in unità ciò che è disgiunto spazialmente e temporalmente. Perché l’alternanza, in quanto articola­ zione cardine del linguaggio cinematografico, e diversamente dalla semplice giustapposi­ zione tra inquadrature più o meno autonome, è fatta per essere suturata dalla riunione dei motivi alternanti in un’inquadratura comune — mediante il salvataggio dell’ultimo minuto proprio del finale “alla Griffith”, oppure mediante il riassorbimento ideale o simbolico del montaggio parallelo, altrettanto griffithiano. Qui, invece, non c’è alcuna riunione dei motivi alternanti. Almeno non sempre, e soprattutto non subito.55 Sotto il profilo spaziale, addirittura, la maggior parte dei film a strumento ottico non oppone neppure spazi disgiunti. Gli oggetti contemplati in Grandmas Reading Glass*, infatti, occupano lo stesso spazio-tempo del bambino che li contempla, esattamente come i vermi e i batteri osservati dallo scienziato in Le déjeuner du savant*, o gli insetti giocattolo in The Unclean World*. E quand’anche soggetto e og­ getto occupassero spazi disgiunti, come nel caso dei film a buco di serratura che effetti­ vamente alternano sempre un corridoio e più stanze d’albergo, più pianerottoli e diversi appartamenti (ma può accadere anche in un film a strumento ottico, come Ce que l'on voit de mon sixième*, dove il voyeur spia da un tetto nelle stanze dei vicini), raramente si assiste ad una riunificazione delle parti. Quando tale riunificazione si verifica, semmai, è perché siamo di fronte a una costruzione che ha ceduto il passo all’ipotassi, integrandosi più o meno compiutamente in una dinamica narrativa lineare (pensiamo a ciò che acca­ de nel finale di A Search for Evidence*, o in Aux bains de mer*, che analizzeremo meglio nel prossimo capitolo). Questa alternanza, insomma, non è affatto garanzia di sutura, di unificazione diegetica, almeno fino a quando (e fino a dove) non si consumi effettivamente un ricongiun­ gimento tra le parti. Non solo: a ben guardare quest’alternanza non è neppure garanzia di centramento, nel senso inteso da Burch (1990). Attraverso l’articolazione delle parti alternanti, cioè, non si verifica qui la messa in scena di uno spazio circolare al centro del quale possa collocarsi lo sguardo dello spettatore. Come già si è visto a proposito della visuale (cfr. II.2.2.), qui tra la veduta del personaggio voyeur e gli oggetti del suo sguardo non si instaura alcun tipo di “raccordo” spazialmente strutturato (sia esso sull’asse, in avanti, in controcampo), neppure quando la direzione verso cui guarda il personaggio sembra confermata dalle coordinate prospettiche della veduta, o comunque non appare vistosamente smentita. Perché, anche in questi casi, un’analisi attenta rivela che quanto ha potuto essere scambiato, dal nostro sguardo odierno, per un raccordo sull’asse in avanti (ad esempio in As Seen Through a Telescope*, dove un vecchio guardone occupa la parte anteriore del campo e spia la caviglia di una bella dama in profondità), in realtà non corrisponde all’esatta direzione verso cui è puntato il telescopio esibito dal voyeur.

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O che quanto potrebbe essere assimilato a una sorta di “controcampo” (pensiamo ai casi in cui lo spazio dove ha luogo l’azione appare capovolto rispetto alla posizione occupata dal voyeur, in The Inquisitive Boots* e Curiosité d'une concierge*) non lo è certo rispetto alla direzione dello sguardo esibito dal personaggio intento a guardare, e risulta invece un ennesimo modo per mostrare allo spettatore in sala la scena dalla visuale migliore. Sembrerebbe allora più corretto parlare di giustapposizione, di accostamento, espres­ sione che sottolinea invece la separazione, la dislocazione, l’autonomia della singola ve­ duta dall’insieme in cui è inserita. Eppure, se così facessimo, ancora una volta trascure­ remmo l’essenziale. Non solo perché questa dislocazione è oltremodo coerente con la lo­ gica, qui dominante, di mostrare vedute riprese dalla miglior visuale possibile per lo spettatore in sala, in barba alla direzione dello sguardo del voyeur (cfr. II.2.2.). Ma, so­ prattutto, perché la separazione qui ha un significato ben più profondo: permette di re­ gistrare ciò che parallelamente alla riproduzione del movimento, allo spettacolo del mondo, alle meraviglie rese accessibili dalle macchine della visione, il cinema realizza e rende infine visibile: un soggetto che guarda e l’oggetto, disgiunto, del suo sguardo. Gra­ zie al montaggio, appunto; grazie alla separazione dell’azione in più spazi — o in più por­ zioni di uno stesso spazio (grazie eliminazione dello spazio intermedio... ). Un montag­ gio che, tra le altre cose, permette di registrare anche ciò che il cinema ha cambiato, questa volta radicalmente, rispetto alle più analoghe forme spettacolari precedenti e coe­ ve basate sulla copresenza di attore e spettatore. Non dimentichiamo, infatti, che il cine­ ma è la prima forma spettacolare che mette in scena un attore — un attore “vero” — appa­ rentemente presente eppure assente dalla sala dove si trova lo spettatore; un attore di­ sgiunto dallo spazio verso cui rivolge la propria recitazione. Le forme di spettacolo che precedono il cinema e vi convergono presuppongono contiguità fisica tra attore e spetta­ tore. Il cinema, invece, benché erediti regole e codici di una recitazione basata su tale contiguità fisica, non la produce più. Certo il cinema delle origini la simula, la presup­ pone, tanto che l’attore interpella lo spettatore continuamente (lo abbiamo visto in I.2.). Ma non la realizza, e questo montaggio lo mostra. Mostra un’alternanza che è anche frutto della separazione spaziale tra lo spettatore e la scena — tra un soggetto e l’oggetto del suo sguardo È frutto della messa in scena di uno spazio che, se ancora non è circola­ re e chiuso, è però già separato da quello della sala dove siede lo spettatore. Uno spazio dove soggetto e oggetto, abitualmente uniti, sono appunto disgiunti. In questo modo, di nuovo, questo montaggio che non congiunge ma disgiunge, che accosta elementi di cui sottolinea la specificità e l’autonomia, che separa il personaggio dall’oggetto del suo sguardo, è perfettamente in sintonia non solo con le attese del suo pubblico, che certo non guarda questi film aspettandosi ipotassi, sutura, montaggio li­ neare o ricongiungimenti di sorta. È in sintonia anche con il significato che il cinema assume nell’evoluzione del panorama spettacolare del tempo. Anche per questo, però, va al di là di una semplice funzione di giustapposizione pari a quella riscontrabile, ad esempio, nella successione dei quadri nelle Passioni, in quanto ugualmente scaturisce da un legame tra le parti, vale a dire tra soggetto e oggetto di uno stesso sguardo, esibito e reiterato, nonché suggellato dalla ricorrenza della “macchina” (della protesi e della sua traccia). E in questo senso è già alternanza: un’alternanza non ancora lineare, né sintagmatica o ipotattica, ma paratattica, appunto, dove il ricorso alla mediazione di uno strumento funge da elemento di congiunzione, di legame tra le parti. Un legame il cui riconoscimento passa per l’identificazione indotta nello spettatore con un personaggio separato da ciò che guarda, come lo spettatore stesso lo è dallo schermo, e che duplica sullo schermo ciò che lo spettatore fa in sala. Un legame, insomma, tra lo spettatore e un personaggio di cui riconosce il gesto, simile al suo, di guardare ombre in

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movimento, che impara ad avvertire come separate da sé. Ora, uno dei procedimenti che mettono in evidenza questo legame tra spettatore e personaggio — tra un soggetto che guarda e le vedute esibite in questi film — è proprio la reiterazione dell’alternanza tra le inquadrature che mostrano il personaggio intento a guardare, e le in quadrature che mostrano gli oggetti del suo sguardo. Anzi, la peculiarità di questi film risiede appunto nel tipo di situazione, sempre molto eloquente, che viene messa in scena, e intorno a cui si costruisce la struttura di quest’alternanza paratattica. L’elemento di congiunzione tra le inquadrature, come si è visto, è fornito dalla “macchi­ na” — strumento ottico, luce artificiale, serratura o altro — che si costituisce come il pun­ to nello spazio da cui lo sguardo ha origine e funge da collante tra i due spazi. Con que­ sta “macchina”, i personaggi esibiscono tutti i gesti necessari per prepararsi a guardare (e per cessare di guardare) prima e dopo ogni veduta. E spesso capita, appunto, che l’alter­ nanza soggetto-oggetto sia ripetuta più volte (accade in Grandmas Reading Glass*, Ce que Von voit de mon sixième*, Le dejeuner du savant*, La fille de bain indiscrete*, Les Joyeux microbes*, Les cartes lumineuses*, The Inquisitive Boots*, Par le trou de la serrare*, Lamour à tous les étages*, Curiosité d’une concierge*...). In Grandma’s Reading Glass*, ad esempio, la lente d’ingrandimento costituisce il punto di congiunzione tra le inquadrature che alternano le immagini del ragazzo che sta guardando, alle immagini degli oggetti del suo sguardo. Ma c’è di più; il ragazzo prepara meticolosamente ogni veduta: prende dal taschino l’orologio e lo apre, dopo averlo guardato appoggia la lente e rimette l’orologio nel taschino, quindi indica alla nonna il canarino nella gabbia e riprende la lente, dopo aver guardato anche il canarino riappog­ gia la lente e punta l’indice sul viso della nonna (che si toglie il monocolo), poi riprende la lente e la porta in direzione dell’occhio della nonna, e così via fino alla fine del film. In Un coup d’oeilpar étage*, The Inquisitive Boots*, Par le trou de la serrare*, Curiosité d’une concierge*, il punto di congiunzione tra le diverse vedute (e i diversi spazi) è costi­ tuito dal buco della serratura, mentre portinai e camerieri si abbassano e si rialzano da­ vanti a ciascuna porta prima e dopo l’esibizione di ogni veduta che rappresenti l’oggetto del loro sguardo. Ne Le déjeuner du savant*, come in Les joyeux microbes*, il punto di congiunzione è costituito dal microscopio, e in entrambi i casi lo scienziato e il medico si abbassano per guardare attraverso il suo visore, e si rialzano dopo avervi guardato. In Un drame dans les airs* il punto di congiunzione è costituito dal telescopio, e i due av­ venturieri cambiano la direzione del loro sguardo indicando con le braccia tese in corri­ spondenza del diverso paesaggio osservato (Parigi dall’alto a sinistra, il mare a destra), prima e dopo ciascun panorama, e si sporgono in fuori prima di guardare il mare più da vicino. Lo stesso accade in Ce que l’on voit de mon sixième*, Aux bains de mer*, Toto aéro­ naute*. E, allo stesso modo, è a più riprese che si vede il collezionista di farfalle ammira­ re le sue vittime attraverso la lente ne La peine du talion*, il ragazzo guardare le sue Car­ tes lumineuses*, l’inserviente del bagno pubblico osservare dall’alto i suoi clienti ignari, lo studente spiare i suoi vicini di casa in L’amour à tous les étages*. In fondo, questa alternanza paratattica tra soggetto e oggetto — tra personaggio che guarda e oggetto del suo sguardo — è la stessa che si trova alla base della soggettiva. È una delle due categorie del linguaggio cinematografico, viste sopra, che permettono di definire e localizzare questa figura dello sguardo. Ed è codificandola e integrandola con la pratica del “buon” raccordo che la soggettiva è giunta fino a noi. Anche sul pia­ no dell’esecuzione materiale, come messa a punto di un procedimento di montaggio che comporta l’inserimento di un’inquadratura (quella che rappresenta l’oggetto dello sguardo) nella continuità di un’altra inquadratura (quella che mostra il personaggio mentre guarda).

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Col tempo, parallelamente all’autonomia dell’inquadratura, alla spettacolarizzazione del movimento, all’esibizione del mascherino, anche quest’alternanza evolverà in una di­ rezione propriamente funzionale al processo di linearizzazione, trasformandosi in figura di congiunzione (ipotattica, diegetica, simbolica) a tutti gli effetti. Più precisamente, in­ tegrerà al suo interno la dinamica della sutura, per meglio permettere allo spettatore di includersi nella catena filmica come soggetto, a mezzo del suo sguardo. Ma nonostante un tale processo evolutivo, benché discontinuo, abbia inizio assai presto, ugualmente, per ora, ad istruire lo spettatore in proposito ci pensa soprattutto la mimica dell’attore.

II.2.6. Gestualità Abbiamo già visto come una convenzione della scena popolare del tempo voleva che gli attori, ben consapevoli dell’esistenza del pubblico in sala, vi si rivolgessero per salutarlo o per commentare gli eventi rappresentati, dimostrando così di considerarlo il vero, co­ stante e partecipe interlocutore della loro recitazione (cfr. qui, 1.2.). Ed abbiamo visto come, in conseguenza di questa forte tradizione, anche nel cinema delle origini i perso­ naggi tendenzialmente guardassero in macchina per rivolgersi allo spettatore in sala, di­ mostrando così di tenere in conto la sua presenza. In questi film, tuttavia, dove accade spesso che i voyeurs interpellino lo spettatore in sala, avviene anche qualcosa di più, e di più specificamente legato alla rappresentazione dello sguardo e alla sua esplicitazione. Avviene cioè che i personaggi che guardano attraverso qualcosa — strumenti ottici, serra­ ture, pertugi o altro, indifferentemente — esibiscano prima e dopo ciascuna veduta tutti i gesti necessari per accedervi, come abbiamo appena riscontrato nel paragrafo preceden­ te. Non solo: oltre ad esibirsi in questo rituale, dopo aver guardato (oltre un visore, oltre una serratura) gli stessi personaggi ripetono puntualmente, mimandolo, tutto ciò che hanno appena visto. E lo ripetono, appunto, rivolgendosi in direzione dello spettatore in sala. In Un coup d’oeilpar étage*, ad esempio, il portinaio vede oltre la serratura della por­ ta del primo piano un uomo d’affari seduto dietro la sua scrivania, il quale urla e strepita al telefono e finisce per malmenare l’apparecchio; dopo aver guardato, il portinaio si ri­ volge allo spettatore (alla macchina da presa) e mima l’agitazione dell’uomo così come il suo litigio con il telefono. Oltre la serratura della porta del secondo piano, lo stesso por­ tinaio vede tre bambini a letto che giocano con i cuscini e fanno svolazzare in aria le piume dell’imbottitura; e di nuovo, dopo aver guardato il portinaio si rivolge allo spetta­ tore e mima sia il gioco del bambini, sia le piume volteggianti (per inciso, prima di con­ tinuare a salire manda un bacio in direzione della porta oltre la quale si trovano i bambi­ ni, come la portinaia di Curiosité d’une concierge*). Oltre la serratura della porta del ter­ zo piano, infine, il portinaio vede una vecchia signora che accarezza un gatto; un’ultima volta, dopo aver guardato, il portinaio si rivolge allo spettatore e accarezza un gatto im­ maginario mimando la vecchia che è appena comparsa nell’inquadratura precedente — e che il portinaio ha appena visto, insieme con lo spettatore. Lo stesso accade in Ce que l’on voit de mon sixième*, dove il voyeur eccitato mima le forme della bella e giovane donna che ha appena visto spogliarsi con l’aiuto del suo tele­ scopio. In La fille de bain indiscréte*, dove la ragazza ripete i gesti compiuti da tutti i clienti del bagno pubblico che custodisce. In Le déjeuner du savant*, dove lo scienziato esibisce smorfie di disgusto per i vermi e i batteri osservati al miscroscopio, di cui mima a gesti il frenetico formicolio. In Par le trou de la serrure*, dove il cameriere prima di chi­ narsi a spiare oltre la prima serratura si indica gli occhi, rivolto verso la macchina da pre-

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sa, quindi guarda e dopo aver guardato ripete puntualmente a gesti tutto ciò che ha vi­ sto. In Lamour à tous les étages*, dove lo studente esegue a sua volta tutto ciò che vede oltre le varie serrature. In Curiosité dune concierge*, dove la portinaia mima e commenta ciascuna veduta, talvolta duplicandola mediante l’esibizione di elementi della propria vi­ ta vissuta. In Grandmas Reading Glass*, dove alla fine il ragazzo — che pure non guarda mai in macchina! — spalanca le braccia per sottolineare «how big» (lo si può leggere sulle sue labbra), vale a dire quanto sembra «grande» il gatto visto attraverso la lente d’ingran­ dimento della nonna. E in The Inquisitive Boots*, dove addirittura il cameriere addetto alla lucidatura delle scarpe si esibisce in una mimica eloquente che anticipa le vedute per lo spettatore; sia scegliendo nel mucchio le scarpe che consentono di indovinare se oltre la porta designata si trovi un uomo oppure una donna, sia chinandosi a spiare un istante prima di cedere lo schermo alla serratura, e anticipando a gesti ciò che ha già visto e che presto vedrà anche lo spettatore. Infatti, si tocca un piede prima di cedere il passo all’im­ magine di un uomo con un piede fasciato; mima una capigliatura con i boccoli prima di richinarsi a spiare un bizzarro essere che indossa una parrucca; dondola una culla imma­ ginaria prima di guardare nuovamente oltre la serratura una donna che culla nienteme­ no che un cane (ed allarga le braccia, incredulo, dopo aver visto che si tratta di un ani­ male!); e così via. È appena il caso di sottolineare quanto per noi, oggi, l’esibizione di questa gestualità risulti ridondante. Ripete, infatti, esattamente ciò che in qualità di spettatori abbiamo appena veduto nell’inquadratura precedente. Un’ultima volta, però, conviene riflettere sulle attese di un pubblico a cui questi film erano destinati, e che verosimilmente non interpreta affatto questa gestualità come ridondante bensì vi riconosce, specularmente, gli stessi gesti e la stessa reazione che il pubblico medesimo ha appena avuto in sala. Qui, infatti, la mimica dell’attore non solo ripete o anticipa ciò che è appena comparso — o comparirà — sullo schermo, ma soprattutto esibisce allo spettatore la sua (dello spet­ tatore) reazione provocata dalle vedute: una prevedibile reazione di stupore (per la di­ mensione del muso del gattino visto attraverso la lente d’ingrandimento in Grandma's Reading Glass*)', di tenerezza (ricordiamoci del bacio che il portinaio manda in direzione della porta oltre la quale si trovano i bambini in Un coup d'oeilpar étage*, al pari della portinaia in Curiosité d'une concierge*)', di eccitamento (per le forme sinuose della giova­ ne donna che si spoglia in Ce que l’on voit de mon sixième*)', di meraviglia (per le bellezze del panorama di Parigi visto dall’alto in Toto aéronaute*)', di paura (per il furto a cui assi­ ste involontariamente lo studente in L'amour à tous les étages*), di disgusto (per i vermi e i batteri nel cibo di Le déjeuner du savant*)', di incredulità (per la donna che culla un ca­ ne in The Inquisitive Boots*). Questa gestualità per noi ridondante, insomma, è invece per lo spettatore del tempo una rassicurante conferma della propria reazione, ottimamente stigmatizzata nel filmetto inglese prodotto da RJW.Paul nel 1901, The Countryman and the Cinematograph, dove un campagnolo, ritratto in piedi davanti a un grande schermo, danza alla proiezione di una ballerina, fugge davanti a un treno che avanza, e ammicca malizioso davanti a un uomo che importuna la sua giovane domestica... Si tratta, quindi, di una convenzione della scena con temporanea, che funziona al tempo stesso come un invito all’identifica­ zione (cfr. 1.2.). Un invito che passa per una recitazione “antica” (antica per noi, oggi, se confrontata con i modi in cui la gestualità dell’attore cinematografico evolverà nel tem­ po), ma in perfetta sintonia con le attese del tempo, e che consente al personaggio di co­ stituirsi in voyeur duplicando non solo lo sguardo ma anche la reazione, a questo sguar­ do, dello spettatore in sala. Ancora: un invito all’identificazione che passa per l’esplicitazione del gesto di guardare senza esser visti guardare, che il voyeur segnala e spesso spie­

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ga, ogni volta che lo può, allo spettatore suo complice (in Par le trou de la serrure* il do­ mestico si indica gli occhi prima di chinarsi a spiare, come peraltro già fanno in alcuni dipinti ottocentesthi gli spettatori del Mondo Nuovo). Un invito che passa, infine, per l’esplicitazione della mediazione di una macchina, che consente appunto di guardare co­ me “di nascosto”, e che l’attore esibisce con consapevole compiacimento. Poiché quella di poter guardare senza esser visti guardare, già lo si è visto, è una condizione privilegiata propria del cinema: questi film la rendono esplicita invitando lo spettatore a identificar­ si, per l’appunto, con il personaggio di cui duplicano lo sguardo. Allo stesso tempo, però, è anche una gestualità che sottolinea, al pari dell’alternanza vista sopra, l’esistenza di un legame tra il personaggio e queste vedute; vale a dire, di nuovo, tra soggetto e oggetto. Conferma (allo spettatore) che i personaggi hanno visto (con lo spettatore) esattamente tutto ciò che è appena apparso nell’inquadratura prece­ dente. E una gestualità che a sua volta esplicita, cioè, l’esistenza di un legame tra le ve­ dute e il personaggio, tra il soggetto e l’oggetto di uno sguardo. Esplicita l’esistenza di un personaggio vedente. O, se vogliamo, di un soggetto che guarda, e che si dà come pro­ lungamento dello spettatore sulla scena. Oggi, per noi, questa gestualità è ridondante non solo singolarmente, ma soprattutto perché inserita in un contesto dove convivono un’alternanza reiterata tra soggetto e og­ getto, e l’esibizione ostentata di un mascherino e della sua “macchina”. E questo insie­ me, per noi, a risultare complessivamente ridondante. Quando ciascuno dei procedi­ menti che abbiamo visto qui sarà definitivamente codificato, quando diverrà una delle molte regole della soggettiva, non sarà più utilizzato in modo ridondante. Questa ge­ stualità, che appartiene anche ai film che risolvono la messa in scena di uno sguardo in una sola inquadratura,56 alla maniera dei vari Coucher de la mariée*, di The Two Old Sports*, o ancora di Explosion ofa Motorcar*, e che nei film dove compare la nostra figu­ ra è riscontrabile molto a lungo nel tempo — talvolta anche oltre il 1910 (cfr. Eine Fliegenjagd*) — è forse la sola di queste caratteristiche a non sopravvivere in alcun modo al tramonto dell’età delle origini. Alla mimica ripetitiva dell’attore,57 infatti, si sostituirà l’essenzialità che conosciamo nella recitazione e nelle soggettive di oggi. E la gestualità ridondante scomparirà del tutto.

II.2.7. Punizione Così il supplemento del maggio 1902 al catalogo Pathé descrive il contenuto del filmet­ to Chez le photographed per annunciarne l’“uscita”: « Un bonhomme vient pour se faire photographier. Mais cest en vain que l’opérateur cherche à le faire tenir en place, la curiosité le pousse à vouloir voir ce qui se passe dans lobjectif Aussi ne tarde-t-ilpas à en ètre puni, car il regoit dabord du blanc et du noir puis ensuite un jet d’eau en pieine figure.» (Sottoli­ neatura nostra). Non si tratta di un’eccesso; neppure di un’eccezione. Si tratta di una re­ gola. Anch’essa anomala, per noi oggi, eppure ugualmente del tutto in sintonia con le attese del tempo. È la regola della “punizione finale”, appunto, che qui occorre al cliente di un fotografo, colpevole di aver spinto la sua curiosità al punto da voler guardare (den­ tro una macchina!) per esercitare al meglio la propria facoltà di sguardo. Certo, il finale punitivo appartiene di diritto a tutto il cinema delle origini; si tratta infatti di un vero e propio topos, di uriautentica convenzione dell’universo spettacolare del tempo. Non si limita, cioè, a colpire la sola figura del voyeur, che peraltro il cliente di questo film Pathé incarna egregiamente, ma ricorre in innumerevoli altri casi e generi. Derivato dal circo, secondo Burch (1983: 116; 1987 e 1990), e dai numeri di music hall

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che a loro volta ne derivano, al cinema compare fin dal 1895 in Le jardinier et le petit espiègle* (ritornando identico pochi anni dopo in Arroseur et arrosé), che peraltro a sua volta presenta, come abbiamo già visto, un sorprendente parallelismo con una stampa per ragazzi pubblicata nel 1887 dalla Librairie Quantin (cfr. Sadoul, 1947: 216 sgg.). Più tardi emigra nel burlesque su pellicola, ma già nei primissimi anni di vita del cinema davvero non si contano i film in cui il burglar o il clochard esattamente come il borghe­ se o il monello burlone, viene immancabilmente punito, magari al termine di un inse­ guimento spettacolare protratto fino all’inverosimile (cfr. qui, tra gli altri, Stop Thief.*). La punizione del voyeur, tuttavia, esemplificata splendidamente in Chez le photographe, merita un discorso a sé. Anche perché compare non solo in filmetti decisamente antichi come questo, composto da una sola inquadratura (cfr. qui anche Les Locataires d’à coté*), o in titoli tardi come La musique adoucit les moeurs*, oltre naturalmente ai va­ ri Coucher de la mariée*. Bensì compare, spessissimo, come rituale corollario nei film a strumento ottico, dove appunto il voyeur viene punito ogni volta che il suo sguardo in­ discreto si spinge oltre il lecito. Come in As Seen Through a Telescope*, ad esempio, dove un vecchio guardone spia con un telescopio la caviglia sottile di una giovane donna, e viene colpito in testa dal suo accompagnatore che lo fa cadere a terra; o anche in Ce que lon voit de la Bastille, dove lo scienziato che ha scalato la Bastiglia per osservare Parigi dall’alto si lascia tentare dal panorama, ben più eccitante, godibile attraverso le finestre aperte dei suoi concittadini parigini, e precipita nel vuoto insieme con la colonna che lo sorregge. E naturalmente compare quasi regolarmente in conclusione dei film a buco di serratura: ricordiamo solo The Inquisitive Boots*, dove il domestico spione viene colto in flagrante e “innaffiato” per punizione da un cliente dell’albergo. Ben prima del cinematografo, del resto, questo finale punitivo che colpisce il voyeur è a suo modo annunciato nella deliziosa Pantomime à trois personnages dal titolo Autour d’une cabine (1893-4), oggi una tra le poche sopravvissute pantomime luminose del Théàtre Optique di Emile Reynaud. Si tratta, infatti, di una pantomima che raffigura un borghese indiscreto vestito di tutto punto che si china a spiare attraverso il buco della serratura di una cabina, dove una giovane donna è entrata per mettersi in costume da bagno. Per inciso, notiamo che mentre spia l’uomo rivolge qualche occhiata soddisfatta verso il pubblico in sala, battendosi una mano sulla coscia (proprio come il voyeur del Coucher de la mariée*). Ma subito arriva il terzo personaggio della pantomima, un altro bagnante, acompagnatore ufficiale della donna, che lo sorprende e gli rifila un poderoso calcio nel didietro, facendolo allontanare. Inoltre, questo finale non è solo molto diffuso nei film in cui ricorre la nostra figura, ma sempre in questi film risulta anche essere uno dei più violenti (l’astronomo di Eclipse de soleil en pieine lune*, addirittura, muore; i due guardoni di Les locataires d’à coté* de­ vono allontanarsi dalla loro casa).59 E soprattutto come uno dei più inquietanti. Perché immotivato, almeno apparentemente, se non da un implicito e imperscrutabile divieto di guardare che da Edipo in poi attraversa la cultura occidentale. Anche perché la colpa, qui, non è di guardare e basta, ma di guardare a mezzo di una macchinai La punizione per una simile audacia, allora, non è solo lo scotto da pagare per l’esercizio di uno sguar­ do indiscreto che la morale comune non vuole resti impunito; è la blanda manifestazio­ ne popolare di un divieto che ha senz’altro radici lontane — ancora più lontane del circo e del music hall - e che forse non è del tutto estraneo al vago senso di trasgressione che il voyeur dimostra celebrando qui la propria rinnovata facoltà di sguardo. Sondare l’origine di un tale divieto meriterebbe certo uno studio a sé. La «curiosità» che sarà fatale al protagonista di Chez le photographe, infatti, ha a sua volta radici lonta­ ne, in quel «piacere dello sguardo» che Sant’Agostino60 nelle sue Confessioni, all’inizio

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del V° secolo, chiama appunto curiositas. Come ha radici lontane la demonizzazione del­ la macchina come frutto del Male (Grivel, 1988), della macchina come “invenzione del diavolo” — così fu definito il cinematografo al momento della sua comparsa in molti am­ bienti religiosi della cultura occidentale.61 Per la stessa cultura religiosa occidentale, del resto, la perfezione dello sguardo non è di questo mondo, bensì è riservata al Paradiso (si vedano in proposito i trattati di Bartholomeus Rimbertinus, De deliciis sensibilibus para­ disi, e di Celsus Maffeus, De sensibilibus deliciis paradisi).61 Perseguirla su questa terra, osare ambire ad accedere alle meraviglie del visibile riservate alla vita eterna, per di più con l’aiuto di una macchina, è un imperdonabile atto di superbia — un atto di hybris Ì)Ppt