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Che cos'è la ragione scientifica? È possibile tenere insieme razionalismo e storicismo? In una panoramica tra le pi

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Le Navi

Titolo originale: The Scientific Reason ©HIHSS e National Taiwan University Press, Taipei, 2008 Traduzione dall’inglese di Matteo Vagelli I edizione: ottobre 2017 © 2017 Lit Edizioni Srl Tutti i diritti riservati Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni Srl Sede operativa: Via Isonzo 34, 00198 Roma Tel. 06.8412007 – fax 06.85358676 [email protected] www.castelvecchieditore.com ristampa 87654321

anno 2017 2018 2019 2020

Ian Hacking

LA RAGIONE SCIENTIFICA

A cura di Gerardo Ienna e Matteo Vagelli Traduzione di Matteo Vagelli

IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI

di Matteo Vagelli

1. L’occasione Il percorso che ha portato un filosofo canadese di formazione analitica a occupare una cattedra al Collège de France è tutt’altro che banale e può essere utile tentare di ricostruirne almeno le tappe principali. Subito dopo essersi laureato in Matematica e Fisica all’università della British Columbia, a Vancouver, Ian Hacking lavora in Alberta, come apprendista geofisico, nei giacimenti di una compagnia petrolifera. La lettura de L’essere e il nulla di Sartre lo spinge verso la filosofia e verso quella che era percepita come una delle sue capitali mondiali: l’Università di Cambridge. È così che, nel 1956, Hacking fa il suo ingresso nella Whewell’s Court del Trinity College, già alloggio di Wittgenstein – a cinque anni dalla morte del filosofo austriaco e nello stesso anno della pubblicazione del suo Remarks on the Foundations of Mathematics. Ed è in effetti “all’ombra di Wittgenstein” che Hacking ottiene una laurea nel 1958 e un master nel 1961, entrambi in Filosofia, sotto la guida di Casimir Lewy1. Dopo aver pubblicato un primo libro dedicato allo sviluppo di un approccio assiomatico alla logica dell’inferenza statistica2, Hacking accetta brevi incarichi d’insegnamento negli Stati Uniti, nella stessa Cambridge e in Canada. Dal 1967 al 1969 insegna nel dipartimento di Filosofia della Makerere University a Kampala, in Uganda. È lì che egli s’imbatte negli scritti di Foucault, in particolare, nell’edizione inglese abbreviata di Folie et déraison (1961)3; un incontro che inciderà molto sul suo modo di fare filosofia, soprattutto a livello metodologico. Gli effetti si vedranno di lì a poco, con The Emergence

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of Probability (1975), il libro forse più conosciuto di Hacking, nel quale egli affronta nuovamente il tema del pensiero statistico, ma sotto una luce completamente diversa, storico-filosofica. Il risultato è una “archeologia della probabilità” di stampo foucaultiano, anche se il nome del filosofo francese non viene quasi mai citato4. La tappa successiva della carriera di Hacking è a Stanford, dove egli inizia a insegnare nel 1975, rimanendovi fino al 1982. Questi anni costituiscono un altro snodo fondamentale della sua carriera: a Stanford Hacking lavora a stretto contatto, da un lato, con filosofi della scienza come Nancy Cartwright e Patrick Suppes, dall’altro, con scienziati come Francis Everitt e Melissa Franklin5. Il biennio 1982-1983 Hacking lo passa al Zentrum für Interdisziplinäre Forschung di Bielefeld, dove incontra e discute di probabilità e statistica con Lorenz Krüger, ispiratore di quello che diventerà, nel 1994, il Max Planck für Wissenschaftsgeschichte di Berlino. A Bielefeld si gettano le basi per The Taming of Chance (1990), che analizza l’erosione della concezione classica del determinismo intrecciandola con l’emergenza della scienza statistica e dei suoi usi politici nel XIX secolo6. Gli anni Novanta sono segnati principalmente da due lavori, Rewriting the Soul (1995) e Mad Travelers (1998). Caratterizzati dall’interesse per ciò che Hacking chiama «malattie mentali transitorie» – come ad esempio il disturbo dissociativo dell’identità – queste opere sembrano marcare una svolta negli interessi e negli oggetti di indagine di Hacking. Dopo Stanford, Toronto rimarrà la sua sede accademica principale fino all’elezione al Collège de France, dove per lui, primo filosofo straniero a vedersi intitolata una cattedra, viene creata nel 2000 la “Chaire de philosophie et histoire des concepts scientifiques”. Lì, nell’istituzione dove lo hanno preceduto figure del calibro di Bergson, Merleau-Ponty e lo stesso Foucault, Hacking ha la possibilità di presentare, in sei corsi di lezioni frontali e in altrettanti seminari, una versione originale di molti temi cardine della sua produzione filosofica7. La serie di conferenze tenute da Hacking a Taiwan, che presentiamo qui per la prima volta in traduzione italiana, ha luogo dunque dopo la conclusione del progetto di insegnamento legato alla “Chaire” del Collège. I temi affrontati dalle lezioni del novembre del 2007, infatti, corrispondono ad alcuni dei maggiori assi di ricerca di Hacking (la teoria degli stili di ragionamento, lo stile di ragionamento matematico

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e di laboratorio, i dibattiti ontologici originati dalle scienze) e si nutrono degli esempi, dei riferimenti e de les mises à jour del suo periodo d’insegnamento francese. Poiché i corsi al Collège sono ancora inediti8, le lezioni che compongono i quattro capitoli de La ragione scientifica ci danno un’idea più precisa dell’insegnamento di Hacking a Parigi, offrendoci così una visione d’insieme, nonché un bilancio di una parte importante della sua filosofia. Non solo, essi ci offrono anche una prospettiva sugli sviluppi degli anni successivi, in quanto le lezioni di Taiwan mostrano l’evoluzione di molti dei temi sopra menzionati verso pubblicazioni ulteriori, che in molti casi Hacking considererà come definitive.

2. Sull’idea stessa di stile di ragionamento scientifico Hacking ha scritto su una varietà impressionante di temi, allargando spesso il fronte della discussione filosofica fino a includere concetti nuovi e risorse che fino ad allora erano estranee al dibattito. In più di un’occasione egli ha suggerito di raffigurarsi la propria produzione come lo spazio disegnato da tre principali vettori, concepiti come tre progetti filosofici indipendenti gli uni dagli altri: uno sulla filosofia della matematica, uno sui modi di plasmare le persone (making up people) e uno sugli stili di ragionamento scientifico9. Il progetto sulla matematica è quello di maggior durata, poiché affonda le proprie radici nel primo periodo di Cambridge e può ritenersi concluso con la pubblicazione di Why Is There Philosophy of Mathematics at All? (2014)10. Il secondo progetto verte, invece, su varie modalità storiche di costituzione della soggettività, trova in Making Up People (1986) e Looping Effects of Human Kinds (1995) due articoli teorici portanti e nelle due già citate monografie degli anni Novanta, Rewriting the Soul e Mad Travelers, due tra i suoi case studies principali11. Questo progetto risalta come quello più direttamente influenzato da Foucault e dalla sua idea di biopolitica. Se ne può infatti ricondurre l’origine a due articoli, entrambi dell’inizio degli anni Ottanta, il primo, intitolato Biopower and the Avalanche of Printed Numbers (letto a una conferenza a Berkeley, in onore e alla presenza di Foucault), che faceva il ponte tra l’anatomopolitica del corpo umano (la discipli-

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na del corpo come macchina) e lo studio della statistica a livello della specie umana. L’altro, The Invention of Split Personalities, è definito da Hacking «un’illustrazione della dottrina di Michel Foucault sulla costituzione del soggetto»12. Questo asse di ricerca si è arricchito, attraverso gli anni, di case studies sempre più numerosi e approfonditi, quali le personalità multiple, l’autismo, l’obesità, il concetto di sviluppo infantile e quello di soglia di povertà. Il terzo progetto, quello sugli stili, è nato, per così dire, in Italia, alla Domus Galilaeana di Pisa, nel 1978, quando Hacking racconta di aver sentito parlare per la prima volta lo storico oxoniense della scienza A.C. Crombie di «stili di pensiero scientifico»13. Hacking si propone di dare pieno sviluppo filosofico all’intuizione storiografica di Crombie, secondo la quale ciò che chiamiamo “scienza” è in realtà un insieme di metodi diversi: quello matematico o postulazionale, quello dell’esplorazione sperimentale, quello della costruzione ipotetica di modelli analogici, quello tassonomico, quello statistico-probabilistico e quello relativo alle modalità storicogenetiche di spiegazione. Sia lo schema tripartito menzionato in apertura di questo paragrafo, sia la proclamata autonomia dei tre progetti, non permettono, a mio modo di vedere, di inquadrare correttamente le diramazioni proteiformi dei lavori di Hacking. Un modo più proficuo di ricondurre a una prospettiva unitaria la varietà dei suoi interessi è quello di dare centralità al progetto degli stili: a causa delle sue implicazioni metodologiche, questo progetto sembra infatti avere un legame “strutturale” con tutti gli altri. Come si è visto, gli scritti più noti di Hacking sono dedicati alla probabilità e alla statistica: con quattro monografie e innumerevoli articoli questo potrebbe essere considerato come un progetto filosofico del tutto indipendente, se non fosse per il fatto che quello statistico rientra nella lista degli stili di ragionamento e pertanto il suo studio dialoga in maniera interessante con il progetto degli stili. L’asse di ricerca sulla matematica può essere visto come una parziale ridefinizione (in senso dimostrativo più che assiomatico) e un approfondimento del primo degli stili di ragionamento, mentre, il progetto relativo al “plasmare le persone”, come una particolare combinazione tra lo stile tassonomico e quello statistico. Hacking stesso descrive quello che battezza lo «stile di laboratorio», inizialmente pensato come un settimo stile da aggiungere alla lista originale, come l’unione degli stili

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dell’esplorazione sperimentale e della costruzione dei modelli analogici. Più che un progetto tra gli altri, quello sugli stili pare costituire un meta-livello per la riflessione di Hacking. La struttura delle lezioni che compongono La ragione scientifica sembra dar ragione a questa lettura: il primo capitolo, Sulle radici storiche della ragione scientifica, è una ricognizione generale sulla teoria degli stili. Esso apre sui due capitoli centrali, intitolati Da dove vengono gli oggetti matematici? e Lo stile laboratoriale di pensiero e azione, ciascuno dei quali illustra un preciso stile scientifico, ossia quello matematico, nel primo caso, e quello sperimentale, nel secondo. Il capitolo conclusivo, Realismi e antirealismi, è anch’esso strettamente connesso con la nozione di stile, in quanto tenta di presentare i dibattiti ontologici originati dalle scienze come conseguenze dell’introduzione di diversi stili di ragionamento scientifico. Se il progetto degli stili costituisce in un certo senso l’ossatura della filosofia di Hacking, seguendone l’evoluzione attraverso gli anni si possono rintracciare molti cambiamenti che si ripercuotono negli scritti positivi dedicati ad altri temi. Che cos’è cambiato, dunque, nei 30 anni che intercorrono tre le due pubblicazioni che aprono e che sembrano, per il momento, chiudere la riflessione di Hacking sul tema degli stili, ossia il manifesto filosofico Language, Truth and Reason (1982), e l’ultimo articolo, intitolato Language, Truth and Reason: 30 Years Later (2012)14? Dare una riposta esaustiva a tale interrogativo è difficile, se non impossibile, ma possiamo almeno proporre qualche elemento per meglio situare le lezioni di Taiwan del 2007 all’interno di questo percorso. L’articolo del 1982 inaugurava la «metafisica degli stili di pensiero» (l’espressione appartiene a Hacking), vale a dire una riflessione filosofica che, pur interagendo con la dimensione storica della spiegazione, mirava in ultima istanza a cambiare la nostra concezione di che cosa siano la verità, il significato e la verificazione (il titolo stesso Language, Truth and Reason richiamava quello di un classico del positivismo logico, ossia Language, Truth and Logic, di A.J. Ayer, pubblicato nel 1936). Hacking preferisce, in una prima fase, l’espressione «stili di ragionamento scientifico» a quella di Crombie, «stili di pensiero scientifico», e lo fa per enfatizzare la dimensione marcatamente pubblica del ragionamento, rispetto al pensare, che avviene invece prevalentemente nel-

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la testa di un individuo. Il ragionare include il pensare, ma anche il comunicare, l’argomentare e il mostrare. Parlare di ragionamento permetteva infine il riferimento alla possibilità di cogliere la ragione “in movimento”, in azione, contrapponendosi così all’analisi delle sue facoltà, per così dire, “a riposo”. Salvo qualche oscillazione occasionale15, Hacking mantiene questa denominazione fino al periodo del Collège de France, dove, nel 2003, tiene un corso intitolato Sugli stili di ragionamento scientifico. Il tema degli stili verrà poi ripreso anche nel ciclo conclusivo di lezioni del giugno del 2006, che chiuderà, riassumendola, l’esperienza dell’insegnamento in Francia. Dal punto di vista lessicografico le lezioni di Taiwan, la prima in particolare, marcano un cambiamento notevole: Hacking decide per la prima volta in quest’occasione di parlare di «stili di pensiero e azione» [styles of thinking and doing], ripristinando da una parte il termine “pensiero”, ma bilanciandolo dall’altra con il riferimento all’azione, al fare. Tra le ragioni di questa scelta, poi sancita in modo definitivo da Language, Truth and Reason: 30 Years Later, c’è sicuramente la volontà di smarcarsi rispetto a usi successivi dell’espressione «stili di ragionamento», cercando di mantere l’originalità della propria posizione16. Sebbene nel 2012 Hacking sostenga che «il programma [di ricerca sugli stili] resta uguale, cambia solo il nome», questa preferenza terminologica segnala in realtà un riorientamento generale del progetto degli stili, in una direzione che potremmo definire anti-metafisica. La «metafisica degli stili» annunciata nel 1982, sviluppata nel 1992 da ‘Style’ for Historians and for Philosophers e presente ancora nei corsi del Collège (lezione del 1 marzo 2004) si articolava attorno a due tesi fondamentali: la tesi delle novità (lezione del 14 gennaio) e la tesi della stabilizzazione degli stili (lezione del 21 gennaio). Le due tesi illustravano quelli che erano allora concepiti come i due principali criteri di identificazione di uno stile di ragionamento scientifico. Hacking riteneva in primo luogo che uno stile dovesse introdurre varie novità, tra cui nuovi tipi di oggetti, di entità, di classificazioni, di evidenza, di frasi, cioè nuovi candidati alla verità o alla falsità, di leggi o modalità e di possibilità17. Ma ciò non era sufficiente a identificare uno stile: per potersi definire tale ed essere in grado di persistere nel tempo, uno stile doveva in secondo luogo essere dotato di sufficienti «tecniche di auto-stabilizzazione». Con esse Hacking si riferiva a tutti quei meccanismi

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interni di regolazione che permettono ad uno stile di «auto-certificarsi» [self-authenticating] e «auto-giustificarsi» [self-vindicating], rendendosi così immune alle critiche esterne18. Erano dunque le tecniche di auto-stabilizzazione a rendere uno stile indipendente dalla sua storia, ad astrarlo cioè dalle negoziazioni microsociali contingenti dalle quali esso si trovava ad emergere e a farlo diventare un canone atemporale di oggettività. Mentre nei corsi al Collège si esprime ancora in questi termini, a Taiwan Hacking – nonostante l’apparente persistenza di certe intuizioni, come quelle relative alle nozioni di «auto-certificazione» e di «auto-giustificazione» di uno stile – pare invece aver abbandonato l’idea di fondo di una «metafisica degli stili», aprendo la strada alla riflessione successiva, in cui riconoscerà esplicitamente l’errore di aver tentato di stilare una lista di criteri d’identificazione19. Ridefinizione terminologica degli “stili” e abbandono della loro “metafisica” vanno di pari passo e questo duplice spostamento ha almeno due conseguenze che mi sembrano importanti. Una prima conseguenza riguarda la questione della verità. Il progetto degli stili aveva in origine un ascendente foucaultiano: esso sembrava muoversi nel solco di quella che Foucault chiamava una «storia della verità». In quanto standard di oggettività, uno stile aveva quella che Peirce chiamava «la virtù di produrre verità». Ecco un passaggio tipico in cui Hacking afferma la circolarità introdotta dagli stili: «La verità è ciò che noi cerchiamo di scoprire in un determinato modo, e che noi riconosciamo come la verità per come la scopriamo. Ma come facciamo a sapere che il metodo è buono? Perché persegue la verità»20. Questo significava che, pur non determinando la verità o la falsità di un dato enunciato (sono i dati o il modo in cui il mondo è fatto a stabilirla), uno stile era in grado di tracciare uno spazio di verità e di falsità nel suo complesso (cioè che Foucault chiamava la «positività» di un enunciato) e non si percepiva la possibilità di una verità residuale, oltre ai modi di «dire vero» che emergono nelle scienze. Adesso Hacking sembra propendere invece, sulla scorta di Bernard Williams (Truth and Truthfulness, 2002), per una definizione puramente formale della verità e per trasferire nel vocabolario della «veridicità» tutto quello che prima esprimeva in termini di verità. Ciò porta con sé una limitazione implicita del progetto degli stili alle moda-

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lità dell’esser veridici a proposito di qualcosa, vale a dire ai diversi modi di giungere alla verità, più che ai modi di produzione storica della verità stessa. Ne risulta che il vero non si identifica più pienamente, come sosteneva invece Canguilhem, con «il detto del dire scientifico»21. Nonostante ciò Hacking opera ancora in un’ottica foucaultiana quando, andando oltre Williams, invita a vedere gli oggetti delle nostre procedure di veridizione come definiti da quelle procedure stesse, anziché esistenti in maniera indipendente. Lo scarto, teorizzato da Williams ed evidente già nel titolo del suo volume, tra la nozione di verità (truth) e quella di veridizione (truthfulness) va purtroppo perduto nell’edizione italiana del suo testo, per il quale è stato scelto il titolo di Genealogia della verità, che esprime esattamente il contrario di ciò che Williams, e con lui Hacking, sembrano sostenere, ovvero, che non ci possa essere qualcosa come la ricostruzione storica della verità e del suo valore (infra, Lezione I, §13)22. La seconda conseguenza è il passaggio da una lista di stili non esaustiva e quindi potenzialmente aperta a un elenco definito ostensivamente e quindi relativamente chiuso. Il punto di partenza empirico e descrittivo costituito dalla lista degli stili individuati da Crombie era, come abbiamo visto, lo spunto per una riflessione normativa sui criteri generali d’identificazione di uno stile di ragionamento scientifico. Hacking si chiedeva quali caratteristiche dovesse avere un modo di pensare, quali novità o quali tecniche di stabilizzazione dovesse produrre, per poter dar luogo ad uno stile di ragionamento scientifico duraturo. Ciò apriva alla possibilità di applicare la stessa “metafisica” ad altri modi di pensare rispetto a quelli indicati da Crombie. Ed è proprio su questo punto che Hacking decide di tornare indietro, di appoggiarsi a una definizione meramente ostensiva degli stili e di invocare il “rasoio di Ockham” contro ogni ampliamento indebito della lista dei modi di ragionare che costituiscono la scienza23. È all’interno di questo quadro che bisogna comprendere l’introduzione, anch’essa presentata per la prima volta da Hacking a Taiwan, della metafora della cristallizzazione24. Una cristallizzazione è l’addensarsi attorno a un momento storico puntuale e una figura emblematica di uno o più cambiamenti nei modi di dire la verità a proposito di qualcosa. Talete, Galileo, Boyle sono tutti «pionieri emblematici». Ciascuno di essi rappresenta una particolare cristallizzazione di uno stile e

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marca l’introduzione di qualche cambiamento decisivo in un modo di pensare che è però di lungo corso e li precede (rispettivamente: l’introduzione della dimostrazione in Talete, del metodo ipotetico-deduttivo in Galileo e di quello laboratoriale in Boyle). Con questa metafora Hacking cerca una mediazione tra discontinuità e longue durée, smorzando quindi quello che era originariamente un accento, mutuato da Bachelard e Foucault, sulle “mutazioni” o “rotture epistemologiche” tra uno stile e l’altro o sugli «inizi improvvisi» di uno stile di pensiero. Hacking argomenta a questo proposito che Foucault stesso, ne L’archéologie du savoir (1969), aveva ricercato questa mediazione e curiosamente, nella seconda sezione, intitolata Méthode, del IV capitolo della sua Histoire de la sexualité I (1975), anche Foucault descrive la solidificazione delle relazioni di forza in rapporti di potere come una “cristallizzazione”. È da escludere, però, che Hacking avesse in mente Foucault per quanto riguarda la metafora della cristallizzazione. Considerando l’uso piuttosto diffuso di metafore geologiche nei suoi scritti («eruzione della probabilità», «valanga di numeri stampati», «erosione del determinismo»), è meno azzardato fare riferimento ai trascorsi di Hacking come geofisico.

3. L’animale matematico Se, nella prima lezione, Hacking fornisce un inquadramento generale, dedicato soprattutto alla sua “teoria degli stili di ragionamento”, nella seconda e nella terza egli prende in esame due stili particolari. Come già accennato, gli stili che sceglie di approfondire sono lo stile di ragionamento matematico e quello di laboratorio. In confronto alla produzione relativa agli altri progetti, le pubblicazioni di Hacking sulla matematica sono meno numerose e più sporadiche25. Una prima tappa del lavoro su questo tema, come abbiamo anticipato, viene svolta alla metà degli anni Cinquanta, con il dottorato a Cambridge, il quale consisteva di due parti. La seconda parte era un lavoro di logica modale (Strict Implication and Natural Deduction) che valse a Hacking lo Smith’s Prize in Mathematics del 1960 e fu in seguito pubblicata come What Is Strict Implication?26. La prima parte, invece, intitolata Proof, verteva sui concetti di dimostrazione e di ap-

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plicazione matematica. L’idea di fondo era che sono le idee di dimostrazione e di applicazione matematica il motivo principale per cui esiste – a partire da un periodo relativamente precoce della storia della filosofia occidentale – qualcosa come una filosofia della matematica. Hacking riceverà il dottorato da Cambridge nel 1962, ma non pubblicherà questa prima metà della tesi, dedicandosi invece, come abbiamo visto, alle ricerche sull’inferenza statistica. Gran parte di quelle prime riflessioni sulla dimostrazione è confluita in Why Is There Philosophy of Mathematics At All? (2014). Questo testo è il risultato di un percorso in cui le lezioni tenute a Taiwan giocano un ruolo non trascurabile. Un precedente importante per comprendere la seconda di queste lezioni è un articolo apparso in italiano nel 1995, nel quale Hacking unisce esplicitamente il progetto degli stili e quello della matematica27. Contrariamente a quanto sostenuto per lungo tempo, principalmente dagli esponenti del Circolo di Vienna, la matematica non viene considerata da Hacking come un linguaggio, bensì (sulla scorta di J.S. Mill) come una scienza tra le altre: le proposizioni matematiche sono semplicemente le proposizioni empiriche più generali e universali di cui siamo capaci. Questo punto di partenza permette a Hacking di far rientrare a pieno titolo la filosofia della matematica all’interno della filosofia della scienza e di applicare quindi al discorso matematico la «metafisica degli stili di ragionamento». Crombie, con il primo dei suoi stili di pensiero, definito “stile postulazionale”, intendeva, in senso molto ampio, la ricerca greca dei principi primi, includendovi tutte le discipline in qualche modo dipendenti dalla matematica, come l’astronomia, l’ottica, la musica e la cartografia. Hacking decide invece di restringere il campo al fenomeno della dimostrazione – prima geometrica, poi matematica – e all’esperienza filosofica a essa connessa. Il «nuovo continente della matematica» porta con sé necessità e conoscibilità a priori, o, per dirlo con le parole di Hacking: «la matematica ha la straordinaria facoltà di stabilire delle verità sul mondo indipendenti dall’esperienza»28. È poi di nuovo l’insegnamento a Parigi che consente a Hacking di riaprire il capitolo della matematica: verso la fine del già menzionato corso del 2002-2003, sugli stili di ragionamento scientifico, Hacking dedica due lezioni proprio agli «stili matematici» geometrico e algoritmico (lezione del 4 marzo 2003) e a due teorie della dimostrazione,

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quella di Imre Lakatos e quella di Ludwig Wittgenstein (11 marzo 2003). Oltre allo studio dei Remarks di Wittgenstein, l’incontro con Lakatos, avvenuto a Cambridge nel 1958, e la lettura delle bozze del suo Proofs and Refutations (1976), avevano giocato un ruolo importante nell’avvicinare il giovane Hacking alla filosofia della matematica. La lezione di Taiwan, intitolata Da dove vengono gli oggetti matematici?, si situa tra la fine dei corsi al Collège e le Descartes Lectures sulla matematica tenute all’Università di Tilburg nel 2010. Si tratta di un documento che anticipa e attesta l’evoluzione delle idee di Hacking fino alla loro pubblicazione in forma monografica nel 2014. A Taiwan, Hacking insiste sullo spostamento dell’accento dalla postulazione alla pratica della dimostrazione. L’eroe di questa lezione è quindi indiscutibilmente Talete («o chi per lui»), «emblematico pioniere» al quale il folclore attribuisce la scoperta del fatto che siamo in grado di effettuare delle dimostrazioni, ovvero delle argomentazioni che stabiliscono la verità dei fatti indipendentemente dal modo in cui il mondo è fatto. Per mitigare l’eurocentrismo di Crombie, Hacking dedicherà più spazio di quanto fatto in precedenza al pensiero matematico arabo e cinese. Tuttavia, a causa del ritrarsi della «metafisica», lo «stile algebrico di ragionamento», di origine araba, non è più considerato come uno stile a se stante, ma una cristallizzazione diversa rispetto a quella dimostrativa-postulazionale greca di un unico stile matematico29. Altra conseguenza del venir meno della metafisica degli stili è la preponderanza attribuita al lato cognitivo della scoperta della dimostrazione: The Shaping of Deduction in Greek Mathematics (1999) di R. Netz è assunto a paradigma di ciò che Hacking intende come storia cognitiva di uno stile scientifico. Alla domanda che sembra inseguirlo dagli anni di Cambridge su «che cos’è che rende la matematica matematica?», ovvero, che cos’è che conferisce alla matematica il suo tratto distintivo e che genera il thaumàzein, quel sentimento di meraviglia o ammirazione, proprio di molti filosofi occidentali, Hacking risponde: la pratica della dimostrazione. Per rendere conto dell’emergenza di tale fenomeno e di tale capacità, Hacking fa ricorso alla storia cognitiva e, parallelamente, «ad alcuni fatti fondamentali della storia naturale degli uomini» (Wittgenstein, Ricerche filosofiche, §415). Tutta la seconda lezione de La ragione scientifica è, in effetti, permeata dal tentativo di ricondurre i dibattiti sullo statuto degli enti matematici (numeri, forme, gruppi) in pri-

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mis all’introduzione di uno stile di ragionamento specifico, e poi a questioni di antropologia filosofica, di cui parleremo più avanti. Ciò permette di tracciare uno dei fili conduttori di Why Is There Philosophy of Mathematics at All?, il cui titolo originale doveva non a caso essere The Mathematical Animal30. Nonostante la centralità attribuita alle pratiche di dimostrazione e ai loro presupposti, Hacking non intende affatto ridurre l’esperienza della matematica a un solo fenomeno o a una sola attività. Al contrario – e qui risulta ancora una volta determinante il riferimento al Wittgenstein dei Remarks –, egli rimane fermamente convinto che non ci sia qualcosa come un’essenza della matematica, ma che questa consista in una serie di attività («un miscuglio variopinto di tecniche», secondo l’espressione di Wittgenstein) che vanno dalla postulazione alla dimostrazione, dal disegno all’intuizione e al calcolo. Si dovrebbe pertanto parlare più propriamente di “matematiche”, al plurale, così come dovremmo parlare delle “scienze”, anziché di scienza, al singolare. Nel 2010, le tre René Descartes Lectures tenute alla Tilburg University, in Olanda, danno a Hacking l’opportunità di esporre quella che forse rimarrà la versione più esaustiva mai fornita della sua filosofia della matematica. Il ciclo comprende tre lezioni, intitolate rispettivamente Why Is There Philosophy of Mathematics?, Meaning and Necessity – and Proof e Roots of Mathemathical Reasoning. Di questi tre interventi, solo il primo, rielaborato, confluirà in Why Is There Philosophy of Mathematics At All?. La seconda delle lezioni di Taiwan, invece, seppur in maniera cursoria e a tratti allusiva al punto da dare l’impressione di vaghezza, riesce a coprire sia il piano della prima sia della terza delle Descartes Lectures. Ma a Taiwan Hacking insiste soprattutto sulla dimensione pratica della matematica, sulla «matematica in azione» ed è, questo, un aspetto sul quale avrà modo di tornare in occasione della Howison Lecture intitolata Proof, Truth, Hands and Mind, tenuta all’università di Berkeley subito dopo il ciclo della Tilburg. In quella sede Hacking dirà esplicitamente di voler «pensare alla matematica in modo materiale» e di voler rendere sempre più conto del fatto che «pensiamo con le nostre mani»31.

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4. «The manipulative hand and the attentive eye» Se il progetto sulla matematica ha trovato la sua forma definitiva, monografica, solamente dopo 50 anni dalla sua prima formulazione (e dopo una serie di conferenze e di articoli sul tema), la ricerca sullo stile di laboratorio ha preso al contrario le mosse da un libro, originariamente concepito come un manuale introduttivo alla filosofia della scienza per gli studenti di Stanford. Representing and Intervening (1983) invitava i filosofi della scienza a dar vita a un vero e proprio movimento di «ritorno a Bacone», cioè un ritorno a una considerazione maggiore del ruolo dell’esperimento nell’economia della scienza. Un breve articolo, Experimentation and Scientific Realism, del 198232, conteneva già l’argomento sperimentale a favore dell’esistenza delle entità teoriche, ma è solo nel 1983 che Hacking dà una forma compiuta alle sue tesi, anche grazie a espressioni che sono diventate dei veri e propri slogan, come ad esempio «se puoi spruzzarli sono reali» e «l’esperimento ha una vita propria». Ad essere spruzzati, dando così la prova della loro esistenza, erano, nell’esempio ormai celebre, elettroni polarizzati, sparati da un emettitore standard su di una sfera di niobio per modificarne la carica. Quest’argomento di natura pragmatica è ripreso e aggiornato nella quarta e ultima lezione de La ragione scientifica, che tratta problemi ontologici legati allo statuto di entità astratte33. Nonostante sia concepito all’epoca del primo degli scritti di Hacking dedicato al progetto degli stili, Representing and Intervening non parla, nello specifico, di uno «stile di laboratorio» – per quanto il termine stesso e l’idea che la scienza sia costituita da un numero limitato di «stili di ragionamento» in evoluzione occorra nel testo del 1983. Per una ricognizione dei lavori sullo stile di laboratorio non si può comunque non partire da Representing and Intervening appunto per l’accento messo da quel testo su tutti quei casi di relativa indipendenza dell’esperimento nei confronti della teoria. L’espressione “stile di laboratorio” appare invece negli articoli dedicati alla teoria degli stili e lì l’accento è sull’attività di creazione di fenomeni legata alla sperimentazione: l’eroe di questo stile non è tanto Boyle quanto la sua pompa ad aria per creare il vuoto. La pompa di Boyle ci ha resi capaci di ampliare il corredo ontologico dell’universo introducendo oppure stabilizzando fenomeni ed effetti che non si so-

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no mai prodotti in natura o che non possono comunque presentarsi in forma pura senza le condizioni determinate da un setting sperimentale. Nel quadro della teoria degli stili, l’attività sperimentale è inoltre concepita da Hacking come quello stile che non solo permette la costruzione di strumentazioni sperimentali per produrre fenomeni ai quali applicare modelli ipotetici, ma che prevede anche un ulteriore livello di modellizzazione, quello che corrisponde alla teoria sull’apparato sperimentale stesso e sul suo funzionamento34. Sin da subito lo stile di laboratorio è pensato nei termini di una dialettica tra momento teorico e momento empirico, tra il concepire e lo sperimentare: se usassimo il laboratorio senza lo stile ipotetico-analogico saremmo solo formiche, mentre la costruzione di modelli analogici senza la sperimentazione ci renderebbe dei ragni, anziché delle api baconiane. Non è un caso se, nel 1992, lo stesso anno di ‘Style’ for Historians and for Philosophers Hacking fa uscire anche The Self-Vindication of Laboratory Science, con il quale tenta di rispondere indirettamente a tutti coloro che lo avevano accusato di svincolare totalmente l’esperimento rispetto alla teoria35. Quest’ultimo articolo costituisce un precedente interessante delle lezioni di Taiwan, in quanto lì Hacking unisce per la prima volta in maniera esplicita il tema del laboratorio con il progetto degli stili. La scienza sperimentale è forse quella che mette meglio in luce le due tesi della «metafisica degli stili»: nel laboratorio non solo si opera con entità teoriche spesso invisibili, ma si mettono in pratica dei meccanismi di auto-regolazione che rappresentano meglio di qualsiasi altra definizione astratta ciò che Hacking intende per «tecniche di autostabilizzazione» (infra, Lezione IV, §16). Al Collège de France Hacking accenna varie volte alla filosofia di laboratorio, nel corso sugli stili (Il laboratorio e i modelli teorici, del 28 gennaio 2003) e poi nell’ultimo corso, quello del 2005/2006 (lezione del 27 aprile). Prima di concludere la sua esperienza al Collège, Hacking è invitato, nel giugno 2005, al Max Planck Institut für Wissenschaftsgeschichte di Berlino, per parlare della sua filosofia dell’esperimento. Il suo intervento, intitolato Another New World Is Being Constructed Right Now: The Ultracold36 anticipa molti dei punti toccati nella terza lezione di Taiwan. Il condensato di Bose-Einstein e l’attività quantistica di atomi analizzati a temperature attorno allo zero assoluto sono i case studies scelti da Hacking per aggiornare i suoi argomenti sulla filosofia

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dell’esperimento e sulla creazione di fenomeni. Nel novembre del 2007, l’occasione del soggiorno a Taiwan è anche quella di visitare laboratori dell’ultra-freddo alla National Tsing Hua University e alla National Chung Cheng University. Rispetto al 1982 gli esempi sono quindi decisamente aggiornati ma la sostanza dell’argomento a favore del realismo delle entità teoriche è rimasta intatta, ovvero: il reale e il causale coincidono e non sembra esserci miglior modo di provare la realtà di una entità che quella di agire sui nessi causali in cui essa si trova coinvolta (essere è accadere e far accadere). L’argomento vale sia per il bosone di Higgs sia per le manipolazioni effettuate da Edmond Becquerel su quelli che riteneva essere dei raggi chimici: l’esistenza di tali raggi si sarebbe rivelata più tardi illusoria ma, nel 1840, ciò non gli impedì di scattare ottime fotografie del Jardin des Tuileries e della Senna (infra, Lezione IV, §14, p. 160). Si vede dunque come il cambio terminologico introdotto nella prima lezione assuma, nel caso dello stile di laboratorio, tutta la sua pregnanza. Hacking opta per «stile laboratoriale di pensiero e azione» [laboratory style of thinking and doing] in quanto l’espressione «stile di ragionamento» non basta a evocare l’unione de «la mano che manipola e l’occhio che scruta»37 [the manipulative hand and the attentive eye]. Tra le conseguenze del nuovo quadro metodologico illustrato nella Lezione I (e nel §2 del presente saggio), vi è anche il fatto che lo stile di laboratorio non è più considerato da Hacking come un settimo stile di ragionamento scientifico – unione dello stile dell’esplorazione sperimentale con quello della costruzione dei modelli analogici – ma come una cristallizzazione del solo stile sperimentale. Contrariamente a quanto succede nel caso della matematica però, il ritrarsi della “metafisica” non libera il campo per un radicamento cognitivo dello stile di laboratorio. Se Netz indicava la cristallizzazione dello stile matematico, sono Shapin e Schaffer, con il loro Leviathan and the Air-Pump (1985) a mostrare l’emergere della filosofia sperimentale ai danni della scientia dimostrativa di Hobbes. Il fatto che il tipo di background invocato in questo caso sia di natura sociologica, anziché cognitiva, permette a Hacking di ridefinire la sua distanza dai science studies e in particolare dall’approccio di Bruno Latour38. Ci si potrebbe infine chiedere perché Hacking, invitato a esporre nel modo più compatto e complessivo possibile la sua filosofia a un

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pubblico piuttosto distante da lui, in termini sia di formazione accademica sia di retaggio culturale, non si sia dedicato a temi da lui maggiormente trattati, come ad esempio lo stile statistico. Perché parlare di stile matematico e di stile di laboratorio? Non solo niente sembra accomunare laboratorio e matematica, ma gli stili corrispondenti sembrerebbero dover implicare due modi di pensare agli antipodi: la cieca manipolazione e la vuota teoria, l’empirismo e l’a priori, il contingente e il fugace con le verità eterne e immutabili. A questo proposito risulta illuminante ciò che Hacking dirà in apertura del suo Why Is There Philosophy of Mathematics at All?: «I filosofi tendono a sottolineare la “conoscenza” matematica, ma, come G.H. Hardy ha detto nella prima pagina della sua Apologia (1940), “la funzione di un matematico è quella di fare qualcosa, dimostrare nuovi teoremi, aggiungere qualcosa alla matematica”. Ho voluto porre l’accento su quel “fare”»39. La scelta di unire laboratorio e matematica sotto il segno «dell’intervento» marca quindi una sorta di “svolta pratica” con la quale Hacking, di fatto, salda le sue filosofie dell’esperimento e della matematica con il progetto degli stili, nel tentativo di allontanarsi da un certo tipo di storia delle idee e di procedere invece verso una «concezione più semplice e all’antica della storia: una storia non di quello che pensiamo, ma di quello che facciamo»40.

5. L’antropologia filosofica della ragione scientifica L’idea che la ragione scientifica, cioè la razionalità così come si dispiega nell’attività scientifica, abbia qualcosa di speciale e sia anzi la ragione par excellence, è un’idea positivistica, condivisa da Auguste Comte, Léon Brunschvicg, Abel Rey e molti altri filosofi della stessa schiera. Se per Brunschvicg lo studio della ragione è possibile solo a posteriori, quando questa è all’opera, per Bachelard “ragione scientifica” risulterebbe quasi un’espressione ridondante41. Anche per Hacking questo è un punto fermo: contrariamente a quanto sostenuto da Rorty, i discorsi non possono funzionare tutti insieme, «come parti di una conversazione umana indifferenziata» (infra, Lezione IV, §8, p. 152). Ciononostante, Hacking ha tentato, in particolare a partire dagli anni Duemila, di inserire la razionalità scientifica in un quadro sempre più

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ampio di stimoli e condizionamenti. È in quest’ottica che egli definisce quella presentata in queste lezioni come una «antropologia filosofica della ragione scientifica» (infra, Lezione II, §11, p. 89). L’idea di un’antropologia filosofica, per quanto appaia raramente nei suoi scritti, fa parte del bagaglio di Hacking almeno a partire dalla fine degli anni Settanta. Nella primavera del 1979 Hacking si trova a Delfi, in Grecia, e scrive il testo per una conferenza congiunta tra gli studenti dell’università di Berkeley e quella di Stanford. Il contenuto di quel testo diventerà l’intermezzo che divide la prima parte di Representing and Intervening, sul «Concepire», dalla seconda, sullo «Sperimentare». Hacking, come fa spesso, sceglie di ricorrere a una sorta di parabola o di mito delle origini, ma stavolta di sua invenzione: ciò che distingue l’essere umano dagli altri animali non è il suo essere razionale, né la sua abilità nel costruire strumenti, ma la sua capacità di fare rappresentazioni (homo depictor). Tuttavia, originariamente, il rappresentare era anch’essa un’attività materiale, d’intervento, che consisteva nella realizzazione di “copie”, raffigurazioni pubbliche che avevano la proprietà di somigliare a qualcos’altro. La rappresentazione origina quindi dall’intervento e non c’è modo di mettere in discussione la realtà di una rappresentazione finché non entrano in gioco sistemi di rappresentazione differenti. Ecco perché Hacking sostiene che «la realtà è soltanto un sottoprodotto di un fatto antropologico». «La realtà ha a che fare con la causazione, e le nostre nozioni sulla realtà sono formate a partire dalle nostre capacità di cambiare il mondo»42. Il tema dell’antropologia affiora anche negli scritti di Hacking dedicati agli stili: per spiegare la stabilità della scienza non bastano le tecniche di auto-stabilizzazione, ma occorre far riferimento anche ad alcuni fatti basilari, relativi agli uomini e al loro posto nella natura. Mentre «l’antropologia storica comparata del pensiero» di Crombie assomiglia molto all’etnologia (cioè a uno studio comparato di un aspetto profondamente influente della cultura occidentale), quella di Hacking è una «antropologia filosofica» che prende in esame quelle caratteristiche trasversali che rendono possibile la scoperta e il funzionamento degli stili. Meglio ancora, essa è una «tecno-logia filosofica» che prende per oggetto lo studio non, come s’intende di solito, dello «sviluppo, l’applicazione e lo sfruttamento delle arti, dei mestieri e delle scienze», ma delle tecniche di stabilizzazione, vale a dire, «lo stu-

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dio dei modi in cui gli stili di ragionamento forniscono una conoscenza stabile e diventano non tanto gli scopritori della verità oggettiva quanto gli standard dell’oggettività»43. In realtà, calibrando alcuni dei suoi argomenti ed esempi sulla Cina e sull’Estremo Oriente (la matematica procedurale cinese, l’invenzione della storiografia da parte di Sima Quian, le intuizioni ontologiche di Chuang Tzu e i laboratori di biotecnologie di Shanghai), anche Hacking mette in scena un certo tipo di etnologia, quella che Foucault definiva nel 1967 una «etnologia della nostra cultura»44. Sono infatti i presupposti, le ossessioni e quelli che Hacking chiama i «pregiudizi» della ragione «occidentale» a essere definiti, in controluce, tramite questo confronto. Perché il thaumàzein per la dimostrazione matematica si è verificato in Grecia e non in Cina? Se le argomentazioni e gli elementi forniti nell’ambito delle lezioni mancano a volte della solidità e della completezza dei suoi lavori monografici, gli interrogativi posti da Hacking in questa sede risultano importanti, tanto più che essi sono sollevati all’interno di un articolato quadro d’indagine che dimostra di essere in continua evoluzione. Hacking intitola l’ultima lezione al Collège, che chiude il progetto della Chaire, Una antropologia filosofica della ragione scientifica (5 maggio 2007), ed è ormai sotto questa denominazione generale che egli sembra voler far rientrare lo studio dei suoi stili. Ciò avviene solo pochi mesi prima del soggiorno a Taiwan, del novembre dello stesso anno. Nel corso delle lezioni lì tenute Hacking utilizzerà infatti a più riprese quest’espressione. Ne La ragione scientifica, con «antropologia filosofica» egli dice di intendere «un tipo di progetto erede di quello kantiano», nella misura in cui esso prova a riflettere «su alcuni aspetti della natura umana così come sono stati scoperti e coltivati da gruppi di persone, per poi essere codificati a livello sociale o addirittura di civiltà» (infra, Lezione II, §1, p. 74). Con «aspetti della natura umana», Hacking si riferisce qui a quelle capacità innate, specifiche degli esseri umani, che, coltivate in contesti speciali, si sono sviluppate fino a diventare ciò che conosciamo come le scienze. Sebbene Hacking adesso pensi che gli stili non abbiano un’essenza – ovvero, che non sia possibile indicare una lista di condizioni sufficienti e necessarie per indentificare uno stile – egli non intende rendere la loro identificazione totalmente arbitraria. Ecco perché, anziché in un criterio metafisico,

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Hacking cerca di radicare gli stili in un numero limitato di moduli cognitivi e abilità innate fondamentali e potenzialmente universali. Se Netz gli fornisce la storia cognitiva di cui Hacking ha bisogno per lo stile matematico-geometrico, Scott Atran (Cognitive Foundations of Natural History: Towards an Anthropology of Science, 1993) assolve alla stessa funzione per lo stile tassonomico, per l’idea cioè che certi modi di suddividere la realtà, di categorizzare gli oggetti, siano innati negli esseri umani e quindi trasversali in molte culture distanti geograficamente e diverse tra loro45. Nonostante Netz e Atran rimangano, per Hacking, niente più che «isole di storia cognitiva in un mare di ignoranza», egli vede i loro contributi come parte integrante di una «ecologia della ragione»46. Come si vede, il progetto sugli stili sembra aver perso qualsiasi commitment nei confronti della parola “stile”, soprattutto rispetto alle sue implicazioni normative: esso è diventato puramente descrittivo, passando da una logica “metafisica” a una concezione sempre più antropo-logica ed eco-logica del sapere scientifico. Hacking probabilmente non vedrebbe alcun contrasto, bensì soltanto una complementarità, tra il fatto che i nostri stili siano lo sviluppo di potenzialità innate in un «involucro genetico» (infra, Lezione II, §16, p. 97) e il fatto che essi tendano a dar luogo ad una “metafisica”. La teoria degli stili è stata formulata inizialmente per articolare una visione del “discorso scientifico” (memore per molti versi dell’analisi delle formazioni discorsive teorizzata da Foucault ne L’archéologie du savoir del 1969) che interagisse, risultando anche in larga parte alternativa, con la filosofia della scienza anglosassone, dominata da nozioni quali quella di schema concettuale, di Quine, o di paradigma, di Kuhn. Nel corso degli anni essa è stata percepita da Hacking come eccessivamente ancorata a una visione “proposizionale” della scienza e quindi vittima, tanto quanto i suoi competitors anglosassoni, di un certo «idealismo linguistico»47. È in questo contesto che va compreso l’aprirsi progressivo della dottrina degli stili: da un lato, alla dimensione dell’«intervento», dell’esperimento, ecc.; dall’altro, all’antropologia filosofica e ai contributi delle scienze cognitive come quadro esplicativo di riferimento. Anche se moduli e capacità cognitive sono viste più come condizioni di possibilità degli stili che come ciò a cui gli stili in ultima analisi si riducono (infra, Lezione I, §15, p. 64), mi sembra comunque possibile affermare che il progetto degli stili sia andato in un certo senso «naturalizzandosi», di-

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sperdendo nel corso degli anni parte del potenziale filosofico che lo contraddistingueva nelle prime fasi della sua elaborazione48. A questo punto potremmo sollevare una questione che abbiamo fino ad adesso soltanto sfiorato: perché Hacking sceglie di dare questa presentazione della sua filosofia, in quest’occasione? Più precisamente, perché il progetto sul «plasmare le persone» è assente da La ragione scientifica? In che misura il filo dell’antropologia filosofica che corre lungo alcuni degli scritti di Hacking è coerente con il progetto, d’ispirazione foucaultiana, relativo alle modalità storiche di costituzione della soggettività? A prima vista sembra tutt’altro che evidente la possibilità di tenere insieme l’idea di costituzione degli individui con il richiamo crescente alle capacità umane innate e si potrebbe quasi parlare, a questo proposito, di un Hacking vittima di una forma aggiornata di “sonno antropologico”, dal quale Foucault pensava di averci liberati. Se «dobbiamo reputare reale ciò che possiamo usare per intervenire nel mondo e per agire su qualcos’altro, oppure ciò che il mondo può usare per agire su di noi»49 perché il «plasmare le persone» attraverso la categorizzazione non rientra nello schema espositivo de La ragione scientifica, mentre le tecniche della matematica sì? La limitazione degli argomenti del ciclo di lezioni di Taiwan non è dettata solo da ovvie ragioni di tempo, ma anche da motivi di coerenza: Hacking riesce a offrire una visione sufficientemente coerente e relativamente unitaria di una porzione importante della sua produzione filosofica, quella costituita dall’insieme delle riflessioni sulla matematica, sulla scienza sperimentale e sulla teoria degli stili, al prezzo di escluderne un’altra, legata alla soggettività. Quello che continua a garantire centralità al progetto sugli stili è il problema fondamentale rispetto al quale esso tenta di articolare una risposta: la possibile integrazione tra filosofia e storia della scienza. Hacking ha contribuito a dare a questo problema una piega particolare, che ha influenzato profondamente molti tentativi di combinare storia e filosofia della scienza che oggi vanno sotto il nome di historical epistemology: come si può storicizzare la ragione senza relativizzarla, senza comprometterne la validità o limitarne le pretese e il raggio d’azione? Se in precedenza era la metodologia archeologica foucaultiana a rappresentare il viatico per eccellenza rispetto a questo tipo d’interrogativo, a Taiwan Hacking mostra di essere alla ricerca di nuove piste

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e modelli possibili. Ecco il perché del riferimento a Leibniz e a Bourdieu, e del loro accostamento, nel tentativo di dar vita a un “razionalismo bourdesiano” o a uno “storicismo leibniziano”. Hacking presenta non per niente queste lezioni come una “lunga glossa” al passo delle Meditazioni pascaliane in cui Bourdieu parla di una ragione che è sì storica, ma non per questo riducibile alla storia50. Se lo stile adottato da Hacking, in queste lezioni, fosse uno stile artistico, si tratterebbe di una “sprezzatura”: egli passa in rassegna tanti argomenti, dando l’impressione di non volere svolgere il proprio ragionamento in modo dettagliato o decisivo su nessuno dei temi trattati. In misura minore, questa è in realtà anche la cifra di molti dei suoi libri e forse del suo modo di fare filosofia. Ciò dà senza dubbio molta energia al suo gesto, permettendogli tra l’altro un’ampia libertà d’azione, oltre che la possibilità di spaziare tra molti temi e correnti filosofiche diverse. Ed è proprio il potere euristico e innovatore ad esser stato riconosciuto ai lavori di Hacking, che sono stati letti, criticati e applicati in campi di sapere molto diversi tra loro. Nonostante ciò, come ho cercato di mostrare, Hacking dà ne La ragione scientifica una versione di una parte importante della sua filosofia molto più coerente di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Quello che Hacking vi propone è un tour de force attraverso molti degli episodi salienti della storia della scienza antica e moderna. Se dovessimo paragonarlo a un evento del panorama epistemologico italiano, potremmo, per certi versi, accostarlo a quello proposto da Gargani ne Il sapere senza fondamenti (1975). Anche l’impostazione filosofica di Hacking – per dirla con le parole usate da A.I. Davidson – «consente di tracciare una linea di contatto tra la filosofia wittgensteiniana e una corrente notevole della filosofia francese contemporanea»51. In definitiva, ciò che Hacking tenta di fare in queste lezioni, è affrontare da un’angolatura diversa la stessa domanda che egli continua a porsi a partire dalla fine degli anni Cinquanta: che cos’è la ragione scientifica, ovvero che cos’è la scienza? Parafrasando ciò che il Wittgenstein dei Remarks dice a proposito della matematica, potremmo dire che, secondo Hacking, non c’è un qualcosa di definito, lì davanti ai nostri occhi, che possiamo chiamare “scienza”. La scienza è piuttosto un “miscuglio variopinto” di stili di ragionamento, o, per meglio dire, di stili di pensiero e azione, che occorre analizzare nel loro emergere e nel loro intreccio storico.

Nota del traduttore

In tutti i casi in cui non è presente una traduzione italiana di un testo citato ho fornito la mia. Dove ho ritenuto necessario farlo, ho aggiunto alcuni termini tecnici inglesi tra parentesi quadre. Le note del traduttore (Ndt) spiegano i motivi di alcune scelte legate alla resa italiana dei testi originali citati da Hacking. Sono state inserite delle note dei curatori (Ndc) laddove si è ritenuto che i limiti della spiegazione orale rendessero necessaria un’integrazione o l’esplicitazione di un riferimento. Desidero ringraziare il prof. J.J. Yuann, della National Taiwan University, organizzatore del soggiorno di Hacking a Taiwan e curatore dell’edizione originale del presente testo, per averne concesso i diritti, rendendo possibile questo volume. Ringrazio inoltre Alessia Di Benedetto e Gerardo Ienna per aver rivisto la traduzione; Luca Corti, Moreno Rocchi, Paolo Savoia, Amanda Swain e Gabriele Vissio per i consigli. La responsabilità degli eventuali errori rimane mia.

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Prefazione

I capitoli qui raccolti sono il risultato della riscrittura di una serie di quattro lezioni tenute a Taiwan nel novembre del 2007. Esse espongono un unico grande tema, ma, dal momento che le lezioni si sono tenute in luoghi diversi, il pubblico al quale esse si rivolgevano non era mai esattamente lo stesso. Ogni lezione è stata perciò concepita in maniera a se stante. Ho eliminato la maggior parte delle ripetizioni, ma non tutte, perché credo che nel corso dei quattro capitoli qualche riepilogo possa essere utile. Queste le sedi delle lezioni: Le Lezioni I e II sono state tenute allo Humanities Forum, Institute for Advanced Studies in Humanities and Social Sciences, National Taiwan University, il 9 e il 10 novembre 2007. La Lezione III si è tenuta allo Science, Technology and Society Workshop presso la National Tsing Hua University, il 12 novembre 2007. La Lezione IV al dipartimento di Filosofia della Soochow University, il 14 novembre 2007. In ognuna di queste occasioni i partecipanti sono stati eccezionali e alcuni dei cambiamenti significativi apportati a questa versione si devono proprio alle domande impegnative che ho ricevuto. Anche se durato poco più di due settimane, quello a Taiwan è stato per me un soggiorno indimenticabile. Ho imparato molto dal punto di vista accademico e della ricerca e, oltre ad aver incontrato persone interessate alla filosofia, ho fatto la conoscenza di scienziati che lavorano nei laboratori dedicati allo studio degli atomi freddi della National Tsing

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Hua University e della Chung Cheng University. Ho avuto anche la possibilità di incontrare clinici e ricercatori che lavorano sull’autismo all’ospedale della National Taiwan University di Taipei, così come alcuni ricercatori, clinici e genitori di bambini autistici a Taichung. È ancora vivido il ricordo di un lungo incontro pomeridiano con gli studenti e gli insegnanti di filosofia della National Chung Cheng University. Tutti coloro che mi hanno invitato e accolto sono stati incredibilmente generosi. Mi limiterò a ringraziare in modo particolare Chin-Mu Yang, Ruey-Lin Chen e, soprattutto, l’ideatore e artefice della mia visita, JeuJenq Yuann.

Dicembre 2007

Lezione I Sulle radici storiche della ragione scientifica

Queste lezioni trattano argomenti molto tradizionali del dibattito filosofico: la verità, la ragione, la conoscenza e le scienze. Questi temi sono antichi. Il mio ascendente filosofico è Leibniz e quindi, indirettamente, Platone, piuttosto che Aristotele. La prospettiva storicistica dei nostri tempi ci permette di aggiungere la consapevolezza che niente è fissato eternamente, a meno che non sia puramente formale. Tutto evolve; la maggior parte delle cose decade. Anche le costanti fisiche, come la costante di Planck e la velocità della luce, potrebbero non essere così costanti come si ritiene nel quadro di una fisica semplificata1. Molti filosofi non-analitici ritengono ovvio che anche la verità abbia una storia. Io sosterrò l’opposto, perché intendo la verità come un concetto formale. Tuttavia, i miei colleghi, i filosofi analitici, potrebbero temere che io mi spinga già troppo nell’altra direzione. Occorre cautela. Al fine di connettere verità e storia mi rifarò all’idea recente di Bernard Williams a proposito di ciò che egli chiama «veridicità» [truthfulness]. I modi di dire la verità hanno una storia, o ciò che Williams chiama una genealogia2. Al fine di connettere la ragione con la pratica parlerò di ragionamento, anziché di qualche astratta entità astorica, come la nobile ragione della filosofia più tradizionale. Questi cambiamenti non sono semplicemente di facciata: essi rappresentano nuovi modi di portare avanti il progetto di Leibniz di comprendere la verità e la ragione. Questi temi sono del tutto impersonali, ma mi concederò la libertà di fare anche qualche osservazione di tipo personale. La gente conti-

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nua a chiedermi come possa definirmi un filosofo analitico ed essere allo stesso tempo così a mio agio nel far uso del passato per capire il presente. Una piccola digressione suggerirà qualche elemento di risposta a questa domanda. Il mio approccio è allo stesso tempo radicale e semplice. Ritornerò più volte su questo punto. Da un lato, mi baso su dei truismi, dall’altro, li porto a conclusioni sul ragionamento che sono radicali, talmente radicali che talvolta mi troverò a dover dire che sì, intendo davvero ciò che sto dicendo. Rientra tra le particolarità del mio approccio il fatto che citerò spesso, fuori contesto, una frase molto nota di un filosofo morto molto conosciuto – Schlick o Husserl, per esempio, come anche i grandi filosofi canonici – sostenendo che è molto vicina a ciò che starò dicendo in quel momento. Così facendo non intendo fare appello al principio di autorità, perché non mi interessa affermare che tale filosofo ha inteso le sue parole nello stesso modo in cui le intendo io. Lo faccio piuttosto per suggerire il fatto che certe idee, in apparenza strane, sembrano essere in circolazione da molto tempo, anche se in forme leggermente diverse. Farò inoltre uso di luoghi comuni riguardanti la storia della scienza, più di quanto una persona rispettabile dovrebbe fare. Ritengo, infatti, che ci sia molta saggezza in certo folclore e che sia sbagliato dimenticarcene, anche quando questo viola le regole del rigore.

1. Imparare a imparare La mia idea fondamentale è che il ragionamento, i modi di conoscere e le tecniche della scoperta abbiano una storia. Non si tratta della storia della scoperta dei fatti, della formulazione delle teorie o dell’invenzione di tecnologie. Non solamente abbiamo acquisito una quantità stupefacente d’informazioni sul mondo e sul modo in cui cambiarlo: abbiamo anche dovuto imparare a conoscere. Questo ha implicato due cose. Abbiamo dovuto far affiorare vari tipi di abilità innate delle quali siamo forse da sempre in possesso, ma il cui esercizio non è spontaneo. E abbiamo dovuto far evolvere organizzazioni sociali all’interno delle quali quelle abilità potessero essere promosse.

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Da un lato, quindi, mi rivolgo alle scienze cognitive, allo studio delle capacità mentali. Dall’altro, faccio riferimento alla storia delle civiltà e delle loro istituzioni. Scelgo deliberatamente i termini “rivolgermi” e “fare riferimento”. Le scienze cognitive sono in pieno sviluppo, ma sono ancora nella loro infanzia. Si fanno molte affermazioni certe sul cervello e sulle sue abilità, ma in tutta sincerità la nostra conoscenza è ancora abbozzata e congetturale. Possiamo quindi solamente rivolgerci ad alcune congetture attuali relative alla cognizione. Sappiamo invece moltissimo sulla storia delle civiltà, anche se solo recentemente gli storici hanno iniziato a prendere sul serio il ruolo delle scienze al loro interno. Iniziamo a sapere molto sulla microstoria e la microsociologia di questo o quell’evento scientifico, ma a me interessa una prospettiva più ampia sul ruolo della ragione scientifica nella vita della nostra specie, una prospettiva che sia al contempo filosofica e antropologica. Mi riferirò quindi a delle storie sul passato, ma ciò che farò non sarà storia. Dovrei sottolineare sin dall’inizio che sono un filosofo che usa fatti del passato, ma non sono in alcun modo uno storico delle scienze. Per di più, uso il passato in direzione contraria, al fine di comprendere il presente. Si può dare di quest’idea una versione brillantemente aggiornata, chiamandola una “storia del presente”, per usare un’espressione di Michel Foucault, oppure la si può bollare come una “storia whig”, secondo la locuzione di Herbert Butterfield3. Ma a dire il vero non sto affatto facendo storia, mi capiterà soltanto di usarla. La dimensione cognitiva e quella culturale sono, quindi, quelle che tracciano lo spazio nel quale comprendere la ragione scientifica. Abbiamo molte abilità cognitive e la storia umana percorre molti sentieri diversi. Non dovrebbe sorprenderci, quindi, il fatto che ci siano molti modi di condurre la ricerca scientifica. Per esempio: – I matematici costruiscono, tra le altre cose, dimostrazioni deduttive. – Facciamo modelli teorici di aspetti della natura al fine di comprenderli o alterarli. – Le scienze di laboratorio non richiedono solamente “l’esperimento”, ma anche la costruzione di apparati che servono a provocare, e spesso creare, fenomeni. – I tassonomisti classificano gli esseri viventi secondo principi di

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strutturazione gerarchica, sebbene ciò che tali principi siano, in quanto tali, continua ad essere oggetto di accese discussioni. – Prendere decisioni in situazioni d’incertezza, pensare in termini di probabilità, è ancora un altro stile di pensiero scientifico distinto. – È una modalità genetica di comprensione, quella che viene applicata con successo soprattutto nelle teorie evoluzionistiche come la teoria darwiniana della selezione naturale, ma messa alla prova anche in discipline così diverse come l’analisi freudiana e la storiografia marxista. Questi sono modi distinti di conoscere, praticati in quelle che chiamiamo “le scienze”. Essi hanno storie che sono in una certa misura indipendenti le une dalle altre. Si basano su capacità cognitive a proposito delle quali, per il momento, è possibile avanzare solamente delle speculazioni. Sono diversi stili di pensiero scientifico, ognuno dei quali è stato sviluppato in un suo modo particolare, con le sue tempistiche e apportando il suo contributo al grande tessuto dell’immaginazione e dall’azione scientifica. Il fatto di basarsi sul disvelamento di potenzialità umane innate di tipo (tra gli altri) cognitivo, come sullo sviluppo d’istituzioni sociali all’interno delle quali esse fioriscono, non è proprio solo delle scienze. Un confronto del tutto scontato è quello con la musica. Le analogie tra la musica e ciò che adesso chiamiamo “le scienze” avevano attirato l’attenzione dei filosofi greci e sono state mantenute nel cursus educativo standard delle università medievali europee. Il “quadrivio” consisteva nell’aritmetica, nella geometria, nella musica e nell’astronomia. Oggigiorno consideriamo solo tre di queste discipline come scienze e abbiamo messo da parte la musica. Ciò è accaduto in parte perché, sebbene disponiamo di una “teoria musicale”, non pensiamo alla musica stessa come proposizionale, nello stesso modo in cui l’aritmetica, la geometria e l’astronomia sono invece espresse da frasi. In queste lezioni darò per scontato che la musica non sia uno stile di pensiero scientifico, anche se questa distinzione stessa potrebbe essere un fatto contingente della storia del pensiero. In effetti, dopo le nuove conoscenze del XVII secolo, le scienze si sono evolute in una direzione e la musica in un’altra. Le cose sarebbero forse potute andare diversamente. L’iniziale organizzazione europea, che metteva la musica a fianco dell’astronomia, non sembra esser mai stata un’opzione possibile in Cina.

LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA

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Nel contesto cinese, per rimettere in discussione i nostri preconcetti, potremmo citare la calligrafia come esempio di una scienza sviluppatasi a fianco dell’astronomia.

2. Stili di pensiero scientifico La deduzione matematica, l’indagine tassonomica, la costruzione di modelli ipotetici, l’esplorazione sperimentale, la vita di laboratorio, il ragionamento probabilistico, il modo di pensiero storico-genetico. Ho tratto l’idea di un ristretto numero di diversi stili di pensiero scientifico dallo storico della scienza A.C. Crombie. Mi sono imbattuto nelle sue idee nel 1978, in una conferenza a Pisa, e da quel momento non sono mai tornato indietro4. Egli si riferiva, secondo un modo tradizionale di pensare, all’evoluzione e alla crescita più o meno continua, fin dai tempi più antichi, di metodi di ragionamento scientifico. Voleva organizzare una storia della scienza globale su scala enciclopedica. Ambiva a produrre una “antropologia storica” della scienza europea. Questa è un’espressione pregevole, che suppongo egli abbia preso dallo storico francese del mondo mediterraneo antico, Jean-Pierre Vernant5. Non mi trovo del tutto in accordo col progetto di Crombie, ma ne ho varato uno mio. Come si vedrà all’inizio della seconda lezione, lo considero, in un certo senso, un progetto antropologico. Ma non nel senso di un’antropologia storica, quanto piuttosto come ciò che potremmo chiamare “antropologia filosofica”, il cui antenato diretto è naturalmente Kant. Nel 1994 Crombie riuscì finalmente a pubblicare il lavoro di una vita, i tre volumi di Styles of Scientific Thinking in the European Tradition: The History of Argument and Explanation Especially in the Mathematical and Biomedical Sciences and Arts6. Si tratta di tre tomi bizzarri e maniacali, dei quali, a parte me, nessun altro si è servito granché, ma che forse mi hanno involontariamente suggerito una nuova visione della verità e della ragione. Crombie parlava esattamente di sei stili di pensiero scientifico nella tradizione europea, ognuno dei quali si sviluppa secondo la propria traiettoria e la propria cronologia. Non intendo accordare nessun privilegio particolare alla sua precisa classificazione dei sei stili, come se si trattasse di una analisi definitiva della sto-

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ria della scienza occidentale, ma la trovo comunque un modello molto utile. Queste sono delle etichette per ognuno dei suoi stili: matematico, ipotetico, sperimentale, tassonomico, statistico e genetico. Nessuno di questi sei stili costituisce una disciplina scientifica. È importante evitare un possibile fraintendimento. Gli stili (nel senso di Crombie) non sono scienze, almeno non nel senso in cui parliamo attualmente della chimica o della paleontologia come di scienze. La maggior parte delle scienze usa la maggior parte dei sei stili di pensiero. Si prenda un esempio estremo. Il ragionamento tassonomico può sembrare del tutto avulso rispetto alla matematica, finché non si riflette sul fatto che alcuni dei teoremi più profondi riguardano la classificazione, come ad esempio la classificazione completa dei gruppi semplici finiti. Tali teoremi risalgono ai cinque solidi regolari che tanto stupivano Platone e i suoi successori. I biologi sistematici, invece, costruiscono alberi filogenetici basati sui fossili e ora anche su evidenze di tipo molecolare-genetico. Uno strumento standard di analisi è il metodo della massima verosimiglianza, sviluppato in statistica applicata e facente ricorso a principi matematici basilari ma profondi7. Come detto, la maggior parte delle scienze usa la maggior parte dei sei stili di ragionamento di Crombie. Probabilmente qualsiasi scienza sufficientemente sviluppata li usa tutti. Ciò vale sia per scienze relativamente di “basso profilo”, come la meteorologia o la mineralogia, sia per quelle che sono solitamente classificate più in alto nella scala gerarchica.

3. “La tradizione europea” Due aspetti del titolo di Crombie dovrebbero essere notati. C’è il sottotitolo: The History of Argument and Explanation Especially in the Mathematical and Biomedical Sciences and Arts. Non mi soffermerò su questo, sebbene esso presenti un accostamento inusuale della matematica e delle biotecnologie, per non parlare della giustapposizione piuttosto datata ma affascinante delle scienze e delle arti pratiche. Crombie aveva molto da dire sulla medicina, io invece non ne dirò niente. La considero una mia mancanza. Una seconda caratteristica di questo titolo è che Crombie scrive de-

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gli stili di pensiero scientifico nella tradizione europea. Egli immaginava, infatti, una “antropologia storica comparata” delle scienze, che confrontasse ciò che è successo in Europa con quello che è successo in Asia. Una serie recente di studi di Geoffrey Lloyd fa esattamente questo, prendendo la Grecia e la Cina antiche come due civiltà da confrontare8. Crombie, invece, non dice niente sulla scienza dell’Asia orientale o meridionale. Peggio, egli ha gettato un rapido sguardo solamente all’Asia occidentale e al Nord Africa, che sono state le fonti di gran parte del pensiero greco. Sebbene io prenda brevemente in considerazione alcune questioni di matematica cinese nella seconda lezione, anche il mio lavoro è profondamente eurocentrico. Se dovessi avvicinare maggiormente la mia presentazione alla scienza cinese, partirei da una pagina di Crombie e scriverei delle tradizioni matematiche e mediche orientali e occidentali. Preferisco invece mettere in risalto la scienza di laboratorio o ciò che chiamerò lo “stile laboratoriale di pensiero e azione” [the laboratory style of thinking and doing]. È il tema della mia terza lezione. Mostrerò che si tratta di un’invenzione culturale molto specifica, una cristallizzazione di una caratteristica molto generale della natura umana, vale a dire l’esplorare curioso e il maneggiare il mondo così come lo abbiamo trovato. Questo evento, verificatosi in Europa a metà del XVII secolo, ha reso la razza umana un parassita sulla faccia della terra, che divora gradualmente il pianeta e tutto ciò che esso contiene. Naturalmente il laboratorio, in quanto invenzione culturale, ha da tempo valicato i confini dell’Europa. I più importanti laboratori d’oggigiorno si occupano di biotecnologie e i più importanti laboratori in questo settore sono quelli finanziati da fondi di venture capital, in California, e quelli d’iniziativa statale, come a Shanghai. Ritornerò su quest’osservazione geopolitica alla fine della terza lezione.

4. Gli stili sono costituiti dai metodi e dagli oggetti Il mio intento è quello di trasformare la già peculiare storia di Crombie in una filosofia ancora più peculiare. Una sola frase di Crombie è sufficiente per realizzare il passaggio:

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Possiamo stabilire, nel movimento scientifico classico, una tassonomia di sei stili di pensiero scientifico, distinti secondo i loro oggetti e i loro metodi di ragionamento9.

Le parole che rendono possibile il passaggio sono oggetti e metodi di ragionamento. Esse sono di per sé innocue. Gli oggetti di cui si occupa lo stile matematico sono spesso chiamati, dai filosofi analitici, oggetti astratti, come numeri, forme, e gruppi. Gli oggetti dei quali si occupa lo stile tassonomico sono, per esempio, le specie e i generi della biologia sistematica, non semplici classificazioni di esseri viventi, che si trovano in tutte le lingue, ma oggetti che portano con sé la funzione precisa di sub- o super-ordinare gli altri oggetti dello stesso tipo.

5. Un semplice modello per organizzare il passato La lista iniziale dei sei stili di Crombie, caratterizzati ognuno dai propri oggetti di studio e metodi di analisi, aveva, per me, una sua plausibilità. All’inizio è stato utile avere uno storico che mi servisse un semplice catalogo su di un piatto d’argento. Oggi la comunità degli storici considera Crombie un cimelio, un collega bizzarro, molto erudito, ma che lavorava al di fuori della sfera delle pratiche storiografiche correnti. Ciononostante, quando ho iniziato avevo la possibilità di addossare ogni responsabilità rispetto a una lista di stili di ragionamento su di un eminente storico! Questa è più o meno la prima esposizione in cui mi sono imbattuto: L’attiva promozione e diversificazione dei metodi scientifici dell’Europa del tardo-medioevo e della prima età moderna rifletteva la crescita generale, nella società europea, di una mentalità incline alla ricerca, una mentalità condizionata e sempre più diretta, dalle sue circostanze, ad aspettarsi e a cercare attivamente problemi da formulare e da risolvere, invece di un consenso da accettare senza discussioni. Le varietà del metodo scientifico che furono in tal modo messe in circolazione possono essere distinte nel modo seguente:

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(a) la semplice postulazione stabilita dalle scienze matematiche; (b) l’esplorazione sperimentale e la misurazione di relazioni osservabili più complesse; (c) la costruzione ipotetica di modelli analogici; (d) l’ordinamento della varietà attraverso la comparazione e la tassonomia; (e) l’analisi statistica delle regolarità delle popolazioni e il calcolo delle probabilità, e (f) la derivazione storica dello sviluppo genetico. I primi tre metodi riguardano essenzialmente le scienze delle regolarità individuali, gli altri tre le scienze delle regolarità delle popolazioni ordinate nello spazio e nel tempo10.

Così si espresse Crombie in quella presentazione che sentii nel 1978. All’epoca non aveva ancora fissato la propria terminologia su «stili di ragionamento scientifico» – come si vede, egli dapprima parla di metodi, piuttosto che di stili, ma io terrò le due parole separate, in linea con la sua idea successiva che gli stili di pensiero scientifico sono costituiti da metodi di ragionamento e oggetti d’indagine. C’è una differenza più profonda tra questo paragrafo inaugurale del 1978 e il grande libro di Crombie del 1994. Nel paragrafo appena citato egli parla dell’Europa tardo-medievale e della prima età moderna – grossomodo il periodo che porta a ciò che altri storici della scienza europea hanno a lungo chiamato “la rivoluzione scientifica”. Nei tre volumi del magnum opus la narrazione inizia con la Grecia antica, dove, per Crombie, un insieme di istituzioni sociali ha dato vita a un modo di pensare all’interno del quale hanno preso avvio le scienze. L’impressionante lavoro del 1994 è organizzato attorno ai sei stili, ognuno dei quali è presentato come derivante da premesse antiche. Nel 1978, come mostrato dal passaggio sopra citato, Crombie pensava veramente ai suoi stili di pensiero scientifico come qualcosa che assume una forma definitiva molto più tardi. La mia innovazione principale, rispetto alla lista di Crombie, sarà il fatto di sottolineare che i suoi stili di lungo periodo del 1994 sono punteggiati da ciò che chiamo “cristallizzazioni”. Nel rilevare ciò, porrò

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l’accento sul periodo della prima età moderna nella storia europea. Questo potrebbe allentare una certa tensione tra la sua prima discussione degli stili di ragionamento scientifico e quella successiva. Senza diventare analitici o addentrarci in questioni relative al lungo o breve termine, dovremmo tener fede alla nostra prima impressione sulla lista dei sei stili. Semplicemente ogni stile sembra diverso, ha un aspetto diverso e potrebbe magari essere diverso. Ogni stile potrebbe riflettere l’uso di un gruppo diverso di capacità per cui la mente umana è ben predisposta. La lista dei sei stili di Crombie è un modello, cioè uno schema comodo da seguire. Ci sono innumerevoli modi di ritagliare qualcosa che si estende per migliaia di anni attraverso così tante civiltà scientifiche in evoluzione. Diversi sono i possibili quadri di analisi: basta pensare ai paradigmi di Thomas Kuhn, i programmi di ricerca di Imre Lakatos, i temi di Gerald Holton – e la lista potrebbe continuare. Il valore di ogni partizione sta nel modo in cui la si usa. Nessuno di questi quadri d’analisi è di per sé quello giusto e definitivo. In qualche occasione ho provato a dare definizioni precise di ciò che è uno stile di pensiero scientifico, definizioni che potessero convalidare la lista-modello di Crombie. È stato uno sbaglio, è meglio provare a vedere ciò che si può fare con la sua idea. Una versione della massima di Ockham ci fornisce qui una buona regola generale: la lista degli stili di pensiero scientifici non dovrebbe essere estesa al di là del necessario. Ogni stile indicato da Crombie è un organismo vivente che evolve. Egli ha usato questo modello come un modo per organizzare la storia della scienza. È stato ampiamente criticato e alcuni degli attacchi hanno colpito il nucleo del suo progetto storiografico11. Mi astengo dal fare critiche perché non sono interessato a questo catalogo in quanto tale. Il mio obiettivo è ripensare l’intera struttura del ragionamento scientifico a partire da quello che è, per me, un punto di vista leibniziano. Tale punto di vista, come vedremo, può anche dirsi antropologico, nel senso originario della Anthropologie di Kant. Con ciò intendo uno studio della specie umana, delle sue facoltà innate e delle sue pratiche concrete. È d’incomparabile aiuto il fatto di avere un modello, anche se fornito da uno storico ripudiato dalla generazione successiva di ricercatori. I lettori continueranno a chiedersi: «Come fai a prendere

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Crombie sul serio?». Risposta: «Perché ci ha dato un’utile pista da seguire, e perché è giusto pagare un debito intellettuale». Il modello ha senso se visto come una lista dei modi che riteniamo scientifici di scoprire cose sul mondo – ha senso come un kit base. Le descrizioni di Crombie sono talvolta datate. Egli ha svolto le proprie riflessioni nel periodo in cui la matematica era identificata col metodo assiomatico. Crombie riteneva la geometria euclidea una questione di postulati. Da ciò la sua caratterizzazione del primo stile della lista come stile della postulazione. Crombie era un uomo del suo tempo. Io sono uno del mio, mi sono formato durante l’esplosione della teoria della dimostrazione. Per me, la geometria greca è una questione di dimostrazione, non di postulati. Potrei citare storici che sostengono che la versione “assiomatica” standard che si dà di Euclide è più il frutto dell’organizzazione medievale dei testi che non ciò che gli antichi Greci facevano effettivamente. Significa che io ho ragione e Crombie ha torto? Questa è una questione per specialisti, che non è così importante nel quadro d’insieme. Che ci si concentri sui postulati o sulla dimostrazione, il ragionamento matematico e l’abilità di effettuarlo sono qualcosa che ognuno è in grado di riconoscere, anche se solo alcuni tra noi vi sono portati e altri no. Noi sappiamo quando qualcosa richiede la matematica. Questo è un fatto stupefacente, sul quale mi soffermerò nella seconda lezione. Perché chiamiamo tutto ciò matematica? Si tratta di così tante cose, un miscuglio variopinto di assiomi, dimostrazioni, disegni, intuizione, calcolo. Ma di fronte a noi c’è senza dubbio uno stile di pensiero indipendente, poco importa come lo si chiama.

6. Cristallizzazione La visione che Crombie ha della storia delle scienze europee lo porta a prediligere la continuità. Il mio istinto mi porta esattamente nella direzione opposta. Preferisco raccontare la storia di ogni stile con almeno un momento chiaramente definito di cristallizzazione, un momento che fissa il modo di andare avanti in futuro, che spesso avviene dopo secoli, magari millenni, di precursori incompleti. Ho acquisito quest’abitudine presto, ne L’emergenza della probabilità, pubblicato per

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la prima volta nel 1975, qualche anno prima di sentir parlare per la prima volta di Alistair Crombie e dei suoi stili. Il mio libro era un’archeologia del sapere, nel senso di Michel Foucault. È stata la prima archeologia in questo senso scritta in inglese e la prima in ogni lingua a utilizzare uno stile analitico. Questi aspetti sono spiegati nella nuova introduzione all’edizione del 2006 del libro12. Nel 1975 ho argomentato in favore della tesi secondo la quale ciò che è immediatamente riconoscibile come ragionamento probabilistico ha avuto inizio attorno al 1650. Nuovi tipi di enunciati iniziano a essere pronunciati dalle persone di tutta Europa e ci si trova a entrare in un mondo nuovo, un mondo dominato dal caso [chance], il mondo che abitiamo oggi, del quale la “società del rischio” di Ulrich Beck è solo uno degli aspetti più evidenti13. Certo, è possibile trovare anticipazioni di cose dette dopo il 1650 in molte altre epoche, in molti luoghi e sotto altri cieli. Nel libro originale ho menzionato l’impressionante padronanza di un ragionamento simil-probabilistico presente in un testo sanscrito classico, scritto più di due millenni fa, in India. Esistono sicuramente esempi paralleli in Cina, sui quali nessuno ancora ha attirato l’attenzione. Per trent’anni, gli studiosi hanno addotto esempi di anticipazioni dell’idea di probabilità in modo da refutare la mia tesi. Ciononostante, come spiego nella nuova introduzione a L’emergenza, io rimango fermo nella mia convinzione. Molti autori hanno individuato numerosi elementi appartenenti ad altri sistemi di pensiero nei quali è possibile riconoscere precursori esitanti delle nostre probabilità. Crombie stesso, nel presentare il suo quinto stile di pensiero scientifico, fa risalire le probabilità alla notte dei tempi. È possibile raccontare una storia del genere, ma la mia opinione è che ciò ci insegni poco, perché solo dopo il 1650 gli esseri umani hanno iniziato a mettere insieme i vari pezzi e a vedere che la fiducia in opinioni diverse e la frequenza con la quale le cose accadono hanno la stessa struttura soggiacente, vale a dire, la struttura delle leggi della probabilità matematica. Non mi soffermerò sulla probabilità che per un momento soltanto, ho dedicato troppo della mia vita a essa. Nel Dizionario di filosofia parodistico redatto da Dan Dennett molto tempo fa, il verbo “to hack” è definito come attenzione ossessiva per i dettagli, con il seguente esempio: «Egli ha passato anni facendosi strada [hacking] attraverso la giungla statistica»14. Ma lasciate che mi addentri ancora una volta nella giun-

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gla, solo per un momento. Molte delle verità relative alla probabilità non sono affatto temporali: sono semplicemente teoremi matematici del calcolo delle probabilità. Alcuni altri enunciati che usano la probabilità possono essere veri per ogni tempo e per ogni luogo, ad esempio i fatti concernenti l’emivita del radio. Altri sono invece coniugati, veri o falsi a seconda del momento. Ma, esagerando al fine di mostrare il problema, nessuno di questi enunciati, di nessuno dei tre tipi, poteva esser fatto prima del 1650. Non c’era modo di poter asserire queste verità; nessuna condizione per la loro verità o la loro verificazione era disponibile. I metodi per ragionare su di essi non erano ancora emersi. Non c’era, come dirò più avanti in questa lezione, nessuna veridicità riguardo ciò che chiamiamo probabilità fino alla data arbitraria del 1650. È chiaro il mio entusiasmo, ereditato da Gaston Bachelard, per le mutazioni nei sistemi di pensiero15. Ma si noti che ora non chiamo l’emergenza della probabilità nel 1650 una “mutazione”, e neanche una “rivoluzione”16. L’ho appena chiamata una “cristallizzazione”. Quando l’acqua congela, diventa una sostanza completamente nuova, il ghiaccio. Queste transizioni di fase, come le chiamano oggi i fisici, sono reversibili. Ma dal mondo probabilistico che adesso abitiamo non si può tornare indietro. Una cristallizzazione nell’evoluzione di uno stile di pensiero scientifico è a tutti gli effetti irreversibile. Aggiusterò quindi gli stili di Crombie su un mio schema, notando almeno una cristallizzazione. Non vedo nessuna tensione tra la cristallizzazione e la continuità. Il mio approccio verso il passato può anche essere l’opposto di quello di Crombie, ma gli opposti possono essere complementari. Qui potrebbe essere nuovamente utile richiamare Foucault, dal quale ho probabilmente mutuato questo modo di pensare. All’inizio de L’archeologia del sapere – il suo tentativo, a mio parere non molto riuscito, di descrivere la metodologia dei suoi primi scritti – egli richiama l’efficacia delle descrizioni braudeliane del passato imperniate sulla longue durée. Sono i climi, e non i re, a dettare legge. I grandi eventi nella storia del Mediterraneo sono, per esempio, l’abbattimento di gran parte degli alberi della Grecia per costruire navi. La grande battaglia navale di Salamina avrà pure cambiato il mondo, ma essa resta un mero incidente nella storia dell’abbattimento degli alberi. Trasformare la

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Grecia in una distesa di roccia brulla ha cambiato il clima e quindi le fortune dei popoli. Foucault ha detto chiaramente che la sua storia dei sistemi di pensiero, concepita in termini di mutazioni radicali e quasi istantanee, è del tutto coerente con tali narrazioni magistrali di secoli che si muovono lentamente. Non intendo assolutamente vincolarmi a una classificazione definitiva degli stili di pensiero scientifico, né optare in favore del continuismo di Crombie abbandonando il mio passato costellato di rotture. Sceglierò tuttavia di essere conservativo. Non c’è motivo di creare argomenti artificiali su come classificare fondamentali stili di ragionamento scientifico. Sarò parsimonioso, imitando la massima di Ockham. Sarò fedele ai sei stili di Crombie, ma li punteggerò di cristallizzazioni. Esse, insisterò su quest’aspetto, sono più importanti per comprendere il ragionamento scientifico rispetto alle lunghe e prolisse storie di predecessori. È solo quando uno stile si cristallizza che la gente capisce davvero come scoprire delle cose usando quello stile. Per ogni stile farò quindi notare almeno una discontinuità, come ad esempio nel caso di ciò che chiamo l’emergenza della probabilità. Non sono io a inventare questi punti: essi sono, al contrario, già leggendari e ognuno di essi può contare su di un proprio pioniere, o almeno su un nome noto. C’è Pascal. C’è Linneo, per la classificazione biologica. C’è inevitabilmente Galileo, per la modellizzazione ipotetica. È un caso che questi nomi rappresentino davvero persone reali. Ognuno di questi simboleggia un inizio profondamente nuovo, in cui un gruppo di esseri umani ha lavorato di concerto per escogitare un nuovo modo di andare avanti. Anziché riesumare la storia della scienza di vecchio stampo, con i suoi racconti incentrati sull’eroe della storia, mi avvalgo di eroi leggendari, con nomi che possono corrispondere a quelli di personaggi storici oppure no. Essi servono a designare le cristallizzazioni degli stili.

7. Rimpianti a proposito della parola “stile” Mi pento di aver iniziato a usare la parola “stile” perché essa ha acquisito troppe connotazioni diverse dopo che Heinrich Wölfflin l’ha introdotta nella storia dell’arte all’inizio del XX secolo17. La parola era

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molto in voga in Germania, anche nella forma composta Denkstil, stile-pensiero [thought-style] o stile di pensiero [style of thinking]. Compare nell’analisi di Oswald Spengler del declino dell’Occidente, pubblicata prima e dopo la fine della prima guerra mondiale. È stata molto importante, per esempio, per l’approccio alla sociologia di Karl Mannheim18. Tra i filosofi positivisti troviamo Rudolf Carnap, che parla di stili di pensiero, anche se questi non risultano centrali nella sua analisi19. I nazisti hanno fatto un gran parlare di uno stile di pensiero tipicamente ebreo20. Il crescendo di riferimenti agli stili di pensiero – in Mannheim, Carnap, così come tra i nazisti – accadeva negli anni Trenta. È il decennio di un libro che oggi riteniamo estremamente importante di Ludwik Fleck, tradotto come Genesis and Development of a Scientific Fact. L’edizione inglese omette il sottotitolo tedesco, Einführung in die Lehre von Denkstil und Denkkollektiv21. L’idea di Fleck di Denkstil è profondamente diversa dalla nozione di Crombie di uno stile di pensiero. Fleck si riferisce a un modo di pensare, un modo di scoprire che è praticato, in un dato momento, all’interno di una specifica comunità, di un collettivo di pensiero che evolve, muta o muore in un breve arco di tempo. Il collettivo di pensiero è un nome adatto per ciò che Thomas Kuhn, in maniera meno appropriata, ha chiamato una «matrice disciplinare», un corpo di lavoratori e i loro annessi in un dato campo d’indagine. I Denkstile di Fleck vivono relativamente poco, mentre gli stili di pensiero scientifico di Crombie si estendono più sulla longue durée. Essi si evolvono e si cristallizzano, certo, ma persistono attraverso un lungo periodo di tempo e sono usati, a gradi differenti, in tutte le discipline scientifiche e anche al di là di esse. Un motivo d’inquietudine rispetto alla parola “stile” è che essa aveva già un uso radicato in lavori di altissimo livello. Ed è esattamente nello stesso momento, diciamo il 1935, che essa veniva anche usata in modi assolutamente deprecabili. Era una parola di moda nella cultura tedesca, usata per scopi differenti. Fortunatamente ci ricordiamo solo i migliori di essi e abbiamo dimenticato i peggiori. Una seconda ragione d’insoddisfazione è che la parola “stile” ha un uso diffuso in molti contesti. Nelle scienze è del tutto naturale contrastare lo stile di un ricercatore famoso con quello di un altro. Tutta una serie di articoli sono stati pubblicati in questa direzione, dopo che ho

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scritto per la prima volta degli stili di ragionamento scientifico22. È un caso fortuito che io abbia appena usato l’espressione “stili di ragionamento”. Ho abbandonato questa locuzione, e sono tornato a quella originale di Crombie “stili di pensiero scientifico”. Questo lascia l’espressione “stili di ragionamento” ad altri, perché possano continuare a usarla a modo loro. Per esempio Arnold Davidson ha fatto propria la mia espressione “stili di ragionamento” nel suo acuto studio sulla perversione, ma egli ha inteso qualcosa di completamente differente rispetto a me23. Più recentemente, è uscito Styles of Reasoning in the British Life Sciences, dedicato alla prima metà del XIX secolo24. Forse mi capiterà ancora di menzionare l’espressione “stili di ragionamento”, ma non la userò più da qui in avanti. Accidentalmente essa è di dominio pubblico ed è lì perché altri la usino. Nessuno, che io sappia, parla di stili di pensiero scientifico eccetto Crombie e, sulla sua scia, me; l’espressione ci appartiene quindi ancora per un po’. Gli stili di pensiero scientifico, nel senso dei sei stili definitivi di Crombie, devono essere nettamente distinti da un concetto più generico di stile. Recentemente Geoffrey Lloyd ha usato “stile di indagine” [style of enquiry] come uno strumento analitico fondamentale nei suoi convincenti studi comparati sulla scienza greca antica e su quella cinese25. Probabilmente in futuro ci saranno molti altri usi della parola “stile” per mettere in risalto questo o quell’aspetto delle scienze. “Stile” potrebbe sembrare quindi una parola sovrautilizzata, sia negli anni Trenta sia adesso. Non è forse una vecchia scarpa alla cui agonia dovremmo porre fine? A volte penso di sì, ma, dopo tante ricerche di parole alternative e altrettante riflessioni, mi sento legato all’espressione di Crombie. Continuerò a parlare di stili di pensiero scientifico di lunga durata, punteggiati da momenti di cristallizzazione. La massima di Ockham assume un’utilità particolare. Se decidiamo di non aumentare la lista degli stili di pensiero scientifico al di là del necessario, evitiamo anche inutili dibattiti su come definire gli stili di pensiero – come se avessero un’essenza che deve essere scoperta – e possiamo così metterci direttamente al lavoro.

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8. Stili auto-certificanti Fino a qui tutto facile. Ora preannuncio un passaggio radicale: passo dalla storia alla metafisica, dall’antropologia storica all’antropologia filosofica, dalla piatta descrizione al tentativo di disfarsi dei dibattiti ontologici. Ritengo che quando si cristallizza, uno stile di pensiero scientifico introduca nuovi oggetti e nuovi criteri per la verità o la falsità degli enunciati che portano su quegli oggetti. Uno stile, con i suoi specifici metodi di ragionamento, non risponde a nessun criterio eccetto quelli da lui stabiliti. Esso non è valido perché ci aiuta a scoprire la verità in qualche ambito. È esso stesso a definire i criteri del dire-vero all’interno del suo ambito. Quindi in un certo senso ogni stile è autonomo e “auto-certificante” [self-authenticating]. Ciò suona senza dubbio radicale, ma è proprio ciò che intendo. Queste dottrine, per quanto sorprendenti, non sono del tutto nuove. Quando il positivismo logico raggiunse il suo apice, Moritz Schlick coniò lo slogan «il significato di un enunciato è il metodo della sua verificazione». Esso è stato subito modificato e poi abbandonato, ma ha più meriti di quanto non si creda comunemente. Schlick aveva in mente un metodo di verificazione che risultasse appropriato per un enunciato individuale, piuttosto che tipi molto generali di metodo. Senza sposare il suo rigido verificazionismo asseriamo che, finché non ci sono metodi di ragionamento che influiscono sulla verità o la falsità di un enunciato scientifico, la questione della sua verità o falsità non si pone. Il significato, come alcune forme semplicistiche di filosofia analitica hanno rimarcato, richiede la possibilità di applicare condizioni di verità. Traendo spunto da ciò che Bernard Williams chiama “veridicità”, concetto che spiegherò a breve, si può dire che gli enunciati scientifici diventino disponibili [come up for grabs] in quanto veri o falsi solo quando entra in gioco un metodo per ragionare sulla loro verità. Per la maggior parte degli enunciati ordinari le cose non stanno così. Tali enunciati hanno condizioni di verità, metodi di verificazione e così via, indipendentemente dagli stili di pensiero scientifico (per esempio, «il gatto è sullo zerbino»). Allo stesso modo la maggior parte degli oggetti non è introdotta nel discorso per il tramite di stili di pensiero scientifico (per esempio: bastoni e pietre).

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Occorre fare dei distinguo pedanti, che, riflettendoci meglio, sono banali. Per esempio, non mi verrebbe mai in mente di avanzare l’idea che gli enunciati sui dinosauri fossero falsi in un lontano passato solamente perché non potevamo asserirli26. Ciò sarebbe assurdo. L’enunciato «i dinosauri vagavano sulla terra durante il giurassico» è vero, ma non ha alcun senso dire che sia vera adesso, o che fosse vero un milione di anni fa. È un enunciato che la grammatica inglese – per parlare solo della mia lingua madre – coniuga al passato, ma non è affatto vero o falso solo in un determinato momento. Allo stesso modo non intendo sostenere che il teorema di Pitagora sia diventato vero solo quando la geometria ha iniziato a esistere come un insieme di conoscenze. Il teorema di Pitagora non è coniugabile temporalmente, non è vero o falso limitatamente a un momento.

9. Oggetti Ogni stile di pensiero scientifico introduce la propria classe di oggetti. Si pensi agli oggetti astratti (‘platonici’) della matematica, alle entità teoriche inosservabili al centro dei dibattiti recenti sul realismo scientifico, o alla biologia sistematica con i suoi taxa. Ogni stile è relativo al suo dominio, ma solo perché esso introduce gli oggetti che sono propri di quel dominio. Non li crea – sostenere ciò sarebbe assurdo – ma essi non hanno alcuno spazio nel pensiero al di fuori degli stili. Come corollario, le nuove classi di oggetti rendono possibili dibattiti ontologici interminabili nei rispettivi ambiti, per esempio tra il platonismo e l’antirealismo in matematica, o tra il realismo scientifico e i vari tipi di strumentalismo ed empirismo in fisica. I dibattiti ontologici all’interno delle scienze risultano da (a) l’introduzione di oggetti da parte degli stili di pensiero (b) il fatto che parliamo di questi oggetti utilizzando frasi nelle quali i nomi degli oggetti hanno la funzione di soggetti grammaticali, e (c), come già sottolineato da Nietzsche, la maggior parte delle lingue esige presupposti di esistenza per i termini che ricoprono la posizione di soggetto. Questo è certamente vero per le lingue europee e non è quindi così strano che questi dibattiti ontologici siano soprattutto di natura europea. Ritornerò su questa questione nella seconda lezione. L’ontologia è solo un

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risvolto delle lingue e della cultura europea che i pensatori cinesi dovrebbero ignorare? Così come gli enunciati ordinari sono indipendenti dagli stili di ragionamento, nello stesso modo i dibattiti ontologici più sedimentati non hanno niente a che vedere con gli stili. C’è un mondo esterno? Ci sono altre menti oltre alla mia? Oppure (un problema dibattuto in varie forme dai filosofi della logica): ci sono universali, classi, proprietà o esistono solamente gli individui? Tutti questi sono problemi ontologici, ma non hanno niente a che fare con gli stili di ragionamento scientifico. Ritengo queste dottrine sugli enunciati, sugli oggetti e sugli stili di pensiero scientifico profondamente razionaliste nel carattere, perfettamente conformi allo spirito del mio mentore Leibniz. Lungi dall’implicare qualche tipo di relativismo, la dottrina dell’auto-certificazione degli stili di pensiero contribuisce a spiegare ciò che chiamiamo “oggettività”. Bisogna essere circospetti, quasi a disagio quando si tratta dell’oggettività. Come Lorraine Daston e Peter Galison si sono prodigati a mostrare, il concetto epistemologico di oggettività ha un passato con luci e ombre, multiforme e polisemico27. I termini “oggettivo” e “oggettività”, insieme con i loro compagni “soggettivo” e “soggettività”, hanno acquisito i loro significati attuali nelle lingue europee solo all’epoca di Kant28. Quando parlo di oggettività intendo essenzialmente affermare che le verità scoperte dalle scienze sono vere, indipendenti da ciò che noi pensiamo o dal modo in cui le scopriamo. Ciò è del tutto coerente col dire che le loro condizioni di verità sono i prodotti degli stili di pensiero nel cui dominio essi ricadono.

10. Leibniz e Bourdieu Permettetemi un paragone insolito. Le Meditazioni pascaliane del 1997 sono, a tutti gli effetti, il testamento filosofico di Pierre Bourdieu29. Anche lui era molto interessato all’oggettività delle scienze, inclusa naturalmente la sua sociologia. A mio modo di vedere egli era eccessivamente ostile verso la maggior parte dei social studies of science, mentre io ritengo di aver appreso molto dai migliori esperti in science stud-

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ies, nonostante alcuni di loro pensino che io sia un vecchio guastafeste che non ha imparato niente30. Bourdieu era molto legato a una visione razionalistica – spesso si dimentica che i suoi primi lavori sono sia su Leibniz sia interamente leibniziani. Dal momento che è stato un uomo rilevante dei nostri tempi, egli era storicista. Nel capitolo delle sue Meditazioni intitolato I fondamenti storici della ragione egli ha scritto: «Dobbiamo riconoscere che la ragione non è caduta dal cielo, come un dono misterioso e destinato a rimanere inesplicabile, quindi essa è completamente storica; ma con questo non siamo in alcun modo costretti ad arguire, come si fa di solito, che essa sia riducibile alla storia». Egli ha proseguito dicendo che «È nella storia, e nella storia soltanto, che va cercato il principio dell’indipendenza relativa della ragione nei confronti della storia». Inoltre – e qui parafraso una frase eccessivamente francese – egli pensava che «la storia singolare della ragione si compie» in condizioni «assolutamente specifiche», «propriamente storiche», ma del tutto eccezionali31. Potrei presentare il mio uso degli stili di ragionamento scientifico come una lunga glossa a questo passo di Bourdieu. Perché è in condizioni del tutto specifiche che nuovi stili di pensiero iniziano a esistere e progrediscono. Questo tipo di storicismo, candidamente leibniziano, è molto vicino al mio. È l’esatto opposto del progetto finale di Husserl nella Crisi delle scienze europee. Le intuizioni storiche e scientifiche di Husserl sono estremamente importanti, ma il mio progetto è del tutto diverso dal suo, almeno nel modo in cui io lo interpreto. Egli pensava che avessimo fondamentalmente perso di vista ciò che stavamo realmente facendo nelle scienze perché abbiamo seppellito le nostre intuizioni originali sotto innumerevoli strati di sedimenti. Questa era la causa profonda della crisi, di cui i segni evidenti e superficiali erano lo Stato della Germania, cuore della cultura e della scienza europee, nel 1936. Il compito della fenomenologia trascendentale era quello di recuperare le intuizioni fondamentali e correggere il presente a partire da lì. Lo scopo nobile era quello di salvare la civiltà europea dal disastro. Per quanto io rispetti ciò che Husserl intendesse fare, credo che tutte le idee che si basino sul recupero di una comprensione originaria siano essenzialmente sbagliate, al di là dei possibili benefici politici32. Sceglierò comunque di battezzare la cristallizzazione di uno stile

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di pensiero come “galileiana”, e questo nome si rifà quasi direttamente a Husserl, il quale mi sembra aver avuto una straordinaria comprensione dei profondi cambiamenti della ragione scientifica all’epoca di Galileo.

11. Società Uno stile di ragionamento scientifico non risponde ad alcun criterio se non a quelli da lui stesso formulati. Ciò non significa che non abbia bisogno di alcun sostegno, come se fosse una sorta di abitante autonomo di ciò che Popper ha chiamato il Terzo Mondo, una reincarnazione degli inebrianti postulati di Platone e Frege. Sono le persone che pensano. Le persone ragionano, le persone scoprono. Le persone devono mangiare e, anche nel caso in cui siano ricche, hanno comunque bisogno di altre persone che prestino loro ascolto. Gli stili sono resi possibili dalle istituzioni. Lo studio comparato di Geoffrey Lloyd sulla scienza antica della Grecia e della Cina, menzionato sopra, è molto attento alle configurazioni istituzionali che hanno permesso a molti dei suoi “stili di indagine” di prosperare in questa società o nell’altra. Gli stili di pensiero scientifico nella tradizione europea sono pratiche sociali tanto quanto i Denkstile di Fleck. Sono meno locali e più duraturi, in parte perché sono basati su capacità cognitive fondamentali. Se si estinguono, ciò non avviene per refutazione, ma perché vengono abbandonati. Oppure possono diventare moribondi. Non c’è miglior esempio che la matematica greca, che si arenò completamente dopo Archimede. Si scrissero commenti in greco, arabo e latino, ma nessuna matematica nuova fu creata per un millennio. Le cose non sono andate molto diversamente in Cina. Ho affermato che gli stili di pensiero scientifico in un certo senso si auto-certificano. Forse questo implica che non possono essere destituiti per cause interne; non possono essere messi in discussione dall’interno, in quanto sono essi a fornire i propri canoni di correttezza. Ma è possibile che si perda interesse in essi, per molte ragioni. Forse si è smesso di creare matematica dopo Archimede perché nessuno aveva idee nuove. Oppure la generazione successiva si era semplicemente annoiata di trattare vecchie questioni, non se ne vedeva il beneficio. L’abban-

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dono di uno stile di pensiero scientifico può avvenire per le ragioni più banali. Il giuoco delle perle di vetro, di Hermann Hesse, è la parabola di una società costruita attorno a un’attività intellettuale molto semplice, gestita da istituzioni complesse33. Non è molto dissimile da alcuni aspetti delle scienze matematiche, ma il suo nucleo è la musica e inizia con l’arte della fuga. Alla fine, il Magister Ludi, il vero Archimede del gioco, decide che egli deve, per amor dell’umanità, abbandonare le istituzioni che rendono possibile il gioco delle perle di vetro. Dal nostro punto di vista, tale sistema, descritto da un grande scrittore pieno d’inventiva, è sufficientemente umano da essere affascinante, e tuttavia ha un’aria assurda. Hesse sapeva bene che alcuni dei suoi contemporanei guardavano alla matematica come a un gioco puramente formale. Oggi non solo i matematici puri, ma anche i teorici delle stringhe sono pagati con fondi pubblici. Fino a oggi, le innovazioni concettuali stupefacenti della teoria delle stringhe non hanno dato luogo a nessun tipo di conseguenze empiriche o verificabili. C’è sempre una piccola preoccupazione, in tali campi, che le risorse pubbliche possano esaurirsi e che in una generazione o due l’attività termini. Riporto di seguito alcune frasi prese da un’altra fonte inaspettata. J.M. Coetzee, come già anche Hermann Hesse, ha vinto il Premio Nobel per la letteratura. Le sue Tanner Lectures on Human Values presentano una lezione sugli animali di Elizabeth Costello, scrittrice australiana. Lei a sua volta rinvia a una lezione immaginata da Kafka nel 1917. Questa è tenuta da Red Peter, una scimmia che ha imparato a parlare. Si legge che «vista da fuori, da un essere che le è estraneo, la ragione non è che una grande tautologia. Certo, la ragione riconosce la validità della ragione in quanto principio primario dell’universo: che altro dovrebbe fare? Detronizzare se stessa? I sistemi razionali, in quanto sistemi di totalità, non hanno quel potere»34. Ma forse Costello potrebbe convincere tutti a smettere di pensare in quel modo. Di tanto in tanto si verifica, secondo le parole di Richard Bernstein, un’esplosione di rabbia contro la ragione35. Una di queste esplosioni è avvenuta alla fine degli anni Sessanta, quando la scienza era vista come uno strumento della guerra coloniale capitalistica. I giovani ribelli cercavano di saccheggiare i luoghi della ricerca. Tattica sciocca

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ma giusta: se vuoi criticare uno stile di pensiero non puoi farlo stando alle sue regole (perché in tal caso stai solamente pensando, e cercando di farlo meglio, secondo quello stile). Devi distruggere la sua base istituzionale. Per ragioni molto diverse, la rivoluzione culturale della stessa epoca ha distrutto con successo una generazione di scienziati cinesi. La ragione era odiata in Cina e in America all’incirca nello stesso momento. Forse la scienza avrebbe potuto arrestarsi del tutto, per sempre. Personalmente non credo che questa sia un’opzione, perché ho il sospetto che, dal momento in cui le persone sono entrate in possesso di modi di scoprire, esse continueranno a utilizzarle finché potranno. Solo l’idea che non ci sia nient’altro da fare, come dopo Archimede, può porre fine “volontariamente” a un modo di pensare. Ho la visione ottimistica che la coercizione, sia nella forma di una rivoluzione culturale, sia nella forma Americana del politically correct, andrà esaurendosi. Ma ammetto che si tratti di un certo tipo di ottimismo. La visione più pessimistica, invece, consisterebbe nel pensare che gli stili di pensiero scientifico abbiano gradualmente creato un parassita sulla faccia della terra: la razza umana. Le scienze ci hanno trasformati in un organismo che consuma sempre di più il proprio ambiente. È chiaro che un parassita deve essere più debole del suo portatore, perché, qualora dovesse ucciderlo, morirebbe anche il parassita stesso. La paura di un uomo-parassita-sulla-faccia-della-terra, che gradualmente uccide il suo portatore, potrebbe condurre la nostra razza a non impegnarsi più nelle scienze, per paura di porre fine a se stessa. Il pensiero scientifico potrebbe semplicemente finire…

12. La “Veridicità” di Bernard Williams Le condizioni storiche assolutamente specifiche, per ripetere l’espressione di Bourdieu, che intendo ricercare, non consistono nel reperimento di un fondamento della ragione, ma nella storicizzazione di concezioni leibniziane. Introduco un cambiamento che sembra capzioso, un gioco di parole. Passo da verità e ragione a veridicità e ragionamento. “Veridicità” non è una parola comune in inglese. Non è facile tradurla in cinese. La traggo dall’ultimo libro di Bernard Williams,

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Truth and Truthfulness: An Essay in Genealogy36. È il libro più interessante a memoria d’uomo sulla verità e il suo valore. Contiene molte cose e il mio uso di esso è selettivo. Voglio estendere la sua nozione di una genealogia della veridicità. L’uso metaforico che Williams fa di quest’idea di genealogia è preso direttamente da Nietzsche, con un accento un po’ diverso rispetto a quello di Foucault, che, come si sa, trasse l’ispirazione dalla stessa fonte. Williams ha prodotto due sotto-genealogie, una del dire-vero sul passato storico e l’altra sull’autenticità verso se stessi. I periodi presi in considerazione dai suoi capitoli su questi argomenti sono piuttosto diversi: l’Atene di Tucidide e la Parigi di Rousseau e Diderot. Egli ha scelto questi periodi per vari motivi. Per il loro interesse intrinseco. Per la loro importanza per il suo lavoro filosofico. Ma anche perché questi erano due tra gli ambiti più contestati di dir-vero durante le cosiddette “guerre culturali” [culture wars]. Uno dei suoi scopi era mostrare che la possibilità di dire il vero rispetto al passato (a) ha una storia (contrariamente ai pensatori dogmatici che concepiscono la storia come la semplice narrazione di fatti, fatti che potrebbero essere stati raccontati in qualsiasi momento, in qualunque luogo). E (b) questa è una storia di come l’oggettività a proposito del passato è emersa (contrariamente a quei pensatori dogmatici che sostengono che non c’è una verità storica oggettiva). Allo stesso modo, per il sé e l’autenticità, egli si è opposto a (a) coloro i quali insistono che si diano verità solo a proposito di esseri umani individuali, indipendenti dai contesti in cui queste vengono comprese, e (b) coloro i quali sostengono che non ci sia una verità oggettiva a proposito di una persona, solo le storie che le persone dicono su se stesse. Proverò a estendere l’idea di Williams alle scienze, a proposito delle quali, com’è noto, qualche anno fa c’è stato un dibattito simile tra (a) e (b) – oggettività come fatto temporale versus nessuna oggettività. Farò ciò connettendo l’approccio genealogico di Williams con l’idea di Crombie di una manciata di stili di pensiero in evoluzione.

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13. Silenzio a proposito della verità Williams non ha assolutamente scritto una genealogia della verità. Una cosa che non considererò, tuttavia, è la storia del concetto di verità, perché non credo ci sia alcuna storia del genere. Il concetto di verità medesimo – vale a dire, il ruolo assolutamente fondamentale che la verità riveste in relazione al linguaggio, al significato e alla credenza – non è variabile culturalmente, ma sempre e ovunque il medesimo (B. Williams, op. cit., trad. it., p. 61).

La verità, dunque, non ha storia, se non per il fatto che essa è coeva rispetto all’emergenza delle strutture linguistiche per trasmettere informazioni. Questa concezione è aristotelica e tarskiana. L’aggettivo “vero” ha molti usi, ma la verità è un concetto formale, essenziale per la semantica ma senza una semantica propria. Essa è trasversale rispetto ad ogni discorso di tipo informativo e non ha una genealogia. Aristotele sosteneva che «vero, invece, è dire che l’essere è e che il non-essere non è»37. Questa è un’affermazione vuota, formale, che tra l’altro esprime il fatto fondamentale che l’aggettivo “vero” si applica in primo luogo a ciò che si dice, ciò che si è detto o che può essere detto. C’è senza dubbio una storia di quando gli uomini hanno iniziato a parlare per dire cose in maniera informativa, per fare ciò che possiamo riconoscere come asserzioni. Ma, al di là di questa, non c’è una storia ulteriore della verità. Interpreto la massima di Aristotele come una versione precoce e altrettanto formale della teoria semantica della verità di Tarski. Il suo schema, «s è vero se e solo se p» chiarisce ciò che si trova già in Aristotele, ovvero, che l’aggettivo si applica alle frasi. La teoria dei metalinguaggi, alquanto pomposa, deriva da questo banale fatto grammaticale. Tarski stesso ha scritto che la sua teoria semantica risulta, non solo coerente con ognuna delle teorie “sostanziali” della verità [substantive theory of truth], cioè con ogni teoria che dice ciò che la verità “è” – teoria della corrispondenza, della coerenza o qualsiasi altra – ma anche in grado di esprimere la motivazione centrale di queste teorie. Questo è un modo per dire che la sua teoria è formale, scevra

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di contenuto. Ciò significa che, propriamente parlando, essa non è affatto una “teoria”. Nessun filosofo ha dedicato una parte maggiore della sua carriera al concetto della verità di quanto abbia fatto Donald Davidson. Egli ha pubblicato una dozzina di articoli diversi con “verità” (o “vero”) nel titolo. Essi vanno da Truth and Meaning, del 1967, a Truth Rehabilitated, del 200038. Un volume incompiuto è stato pubblicato dopo la sua morte, con il titolo Sulla Verità39. Niente sarebbe più insensato che cercare di riassumere in poche parole le riflessioni di Davidson sulla verità. Menzionerò solo ciò che è ovvio: che egli è sempre rimasto fedele a Tarski, che ha sempre rigettato le teorie “sostanziali” della verità, e che pensava che l’idea di verità fosse come un substrato roccioso che non può essere definito. Non avrebbe detto che la verità è un concetto puramente formale, non avrebbe detto che la verità non ha una dimensione semantica, perché non avrebbe ritenuto che questa fosse la maniera giusta di affrontare la questione. Tuttavia sono sicuro che la mia brusca espressione «la verità è un concetto puramente formale» deve molto a una riflessione su (oltre che a conversazioni con) Donald Davidson40. Per ragioni sia teoriche sia di convenienza non dirò niente di rilevante sulla verità41. Perché di “convenienza”? Perché la verità è stata una nozione talmente contestata tra i filosofi analitici, con le loro teorie della verità in competizione, che sarebbe imprudente avventurarsi in acque così profonde o presunte tali, sicuramente più profonde di me. Ho le mie opinioni su queste discussioni, come dimostra la mia dottrina sulla verità come nozione puramente formale, ma queste opinioni non sono rilevanti per la mia ricerca sugli stili di pensiero scientifici.

14. Veridicità a proposito del passato Con veridicità, Williams intende il fatto di dire la verità a proposito di qualcosa. Ciò ha due aspetti. La persona veridica è sia sufficientemente accurata sia sufficientemente sincera. Queste sono virtù relativamente indipendenti. Williams si è posto il problema di come e quando è diventato possibile essere accurati e sinceri a proposito di qualcosa. Una genealogia della veridicità a proposito di X avrà due rami, i cui ritmi possono essere molto diversi. Il capitolo che Williams dedica

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alla storia si concentra sull’accuratezza e quello sulla conoscenza di sé sulla sincerità. Dal momento che ciò che mi interessa sono le scienze mi dedicherò all’accuratezza, sebbene sarebbe importante osservare anche ciò che accade alla sincerità nel contesto scientifico. Williams disprezzava le idee generali e vaghe. La trasformazione della concezione occidentale del dire-vero a proposito del passato è avvenuta in un momento preciso, all’epoca di un singolo uomo e della sua opera. E quell’uomo, nella tradizione europea, era Tucidide. Tucidide è diventato emblematico, una sorta di icona, che segnala l’inizio della pratica storiografica nel mondo mediterraneo. Nessun uomo è solo: c’è Tucidide, ci sono i suoi uditori e i suoi lettori, all’interno di quell’universo sociale molto specifico che era Atene. C’è un altro universo sociale specifico in cui la scrittura della storia è apparsa all’incirca nello stesso modo che in Grecia: l’antica Cina. L’invenzione della scrittura è una precondizione per la storia, nel modo in cui la intende Williams, quindi la Cina è il luogo giusto dove cercare un cambiamento concettuale decisivo, simile a quello avvenuto nel Mediterraneo al tempo di Tucidide. Un candidato ovvio è Sima Qian (145-86 a.C. circa) o forse suo padre, Sima Tan. Non si deve pensare che in Cina e in Grecia si sia verificato esattamente lo stesso tipo di cambiamento nelle concezioni del passato. I Sima, padre e figlio, hanno avuto per molto tempo un alto status sociale a corte, uno status che non aveva una controparte in Grecia al tempo di Tucidide. La storia bimillenaria scritta da Sima Qian è diventata il paradigma, quasi in senso letterale, della storiografia cinese – il modello storiografico seguito per secoli. Si potrebbe sostenere che si tratti di una storia sociale e culturale sconosciuta in Occidente fino al XX secolo. Non è un’affermazione nuova, quella che indica in Tucidide il primo vero storico dell’Occidente. Anche Hume sosteneva la stessa cosa. Ogni generazione di studiosi dà la propria spiegazione su cos’è che rende questo momento della storiografia così particolare. Williams ne dà una versione in termini di veridicità: quello che è avvenuto è «in ultima analisi, un mutamento relativo alla concezione del dire la verità sul passato». Questa è una mossa fondamentale per le parti storiche della genealogia della veridicità che Williams propone. È un operatore logico la cui forma è rappresentata da questo schema, che chiamerò (*):

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(*) Un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità su X. Ciò fa sembrare che X sia dato e senza tempo, X = il passato, o, nel caso dell’emergenza dell’autenticità, X = il sé. No. Nuovi modi di dire la verità a proposito di X cambiano le nostre concezioni di X stesso. Williams parla del passaggio «da una concezione “locale” a una “oggettiva” del passato» (p. 153). Riporto qui alcuni altri frammenti relativi alla nuova idea di storia: 1) Il tempo storico fornisce una struttura rigida e determinata per il passato (p. 153). 2) […] questo mutamento significativo ebbe luogo nel V secolo a.C., l’invenzione del tempo storico in Occidente […] (p. 159), 3) Tale mutamento porta con sé una crescita di potere esplicativo? Sicuramente sì; e questo nei termini della concezione di spiegazione che chiunque può avere (p. 159). 4) Questo vuol dire che quelli che operano nel nuovo stile, che hanno la concezione “oggettiva” del tempo, sono più razionali o, ancora, più informati degli altri? No, se questo implica (come di solito si pensa) che chi era all’interno della pratica tradizionale fosse confuso o credesse qualcosa di falso (p. 160). 5) L’invenzione del tempo storico è stato un avanzamento intellettuale, ma non tutti i progressi di natura intellettuale constano della confutazione di un errore o della scoperta di confusioni (p. 160).

Non andrò oltre, quanto detto basta a capire il punto centrale. Si potrebbero integrare le osservazioni di Williams notando che ci possono essere concezioni completamente diverse del passato e non solo quelle che si evolvono nelle nostre nozioni occidentali. L’antropologo Michael Lambek ci ha dato uno splendido esempio dal Madagascar, dove un popolo esprime il proprio senso del passato attraverso cerimonie che coinvolgono gli spiriti in un complesso gioco di ruolo42. Tutto ciò ci risulta così estraneo che il più fedele razionalista tra di noi sosterrà che «noi siamo più razionali o meglio informati» degli «altri». Non sono d’accordo, anche se, qualora essi dovessero avere una cronologia completamente diversa da quella occidentale, potrei esser costretto ad ammettere che non parlano del passato (così come lo com-

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prendiamo noi). Il genio di Lambek ci rende possibile la comprensione della razionalità di quest’altra concezione del dire-vero a proposito del passato. Una nuova concezione del passato, e, in corrispondenza di ciò, nuovi tipi di enunciati a proposito di esso, sono diventati disponibili. È necessario che ogni evento accada prima, dopo, o in concomitanza con ogni altro evento. Williams ritiene che autori precedenti, incluso Erodoto, non fossero vincolati da questa idea. Ma ovviamente non intende suggerire l’idea sciocca che gli eventi stessi siano entrati in un ordine databile solo al tempo di Tucidide! Lo schema estrapolato da Williams è del tutto formale e può essere applicato in maniera trasversale. Lo ripeto: (*) un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità su X. Il frammento (2) qui sopra suggerisce un secondo schema: (**) Questo importante cambiamento è avvenuto nel secolo Y, e il suo emblema è Z. Dove X = il passato, Y = il V secolo a.C. e Z = Tucidide. Per usare la terminologia suggerita sopra, Tucidide è un pioniere leggendario, un’icona attorno alla quale si sono cristallizzate nuove maniere di dire la verità a proposito del passato. Qui c’è una discontinuità netta, inserita all’interno di una pratica più lunga e continua, che consiste nel parlare della conoscenza collettiva dei tempi andati.

15. Matematica Lo schema di Williams può essere applicato alle scienze. Probabilmente egli non sarebbe stato d’accordo. Nel suo Ethics and the Limits of Philosophy, Williams ha tenuto le scienze separate da questioni umanistiche a proposito dei valori43. Vediamo, comunque, come ciò potrebbe essere fatto. Iniziamo dalle relazioni geometriche. Chi potrebbe stare al posto di Tucidide? Ecco la leggenda: «In colui che per primo dimostrò il triangolo isoscele (si chiami Talete o come altro si vuole)

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si accese una luce», così scrive Kant44. In questo paragrafo Kant sconfina nella poesia parlando dell’ingresso «sulla via sicura della scienza», «la via regia». Kant la chiama la «rivoluzione intellettuale» che ha fatto emergere la dimostrazione matematica. È stata la scoperta della nostra capacità di effettuare dimostrazioni matematiche, o, per meglio dire, geometriche. L’emblematico pioniere della cristallizzazione della dimostrazione geometrica è Talete, il che non significa che una tale figura storica sia certamente esistita. Secondo la leggenda, quando X = relazioni geometriche e Y = nella prima parte del VI secolo a.C., allora Z = Talete. Abbiamo bisogno di due cose per comprendere gli stili di pensiero scientifico: da un lato, lo studio delle capacità mentali, dall’altro, la storia delle civiltà e delle loro istituzioni. Quali elementi culturali furono necessari per supportare una scoperta relativa alle nostre capacità cognitive? Per rispondere occorre domandarci perché la dimostrazione fosse così diffusa nella Grecia antica. C’era molta matematica in Babilonia e certamente anche in Cina. I Cinesi avevano dei meravigliosi strumenti computazionali, ma nessuna dimostrazione come quella sviluppata da Euclide. Perché? La risposta preferita da Reviel Netz inizia con il fatto, ben noto, che gli ateniesi fossero il popolo più argomentativo mai conosciuto45. Essi non tolleravano nessuna autorità più alta di loro stessi, quando si trattava di risolvere una disputa. In Crombie si trova una descrizione simile dell’importanza dell’argomentazione, anche se egli non si riferiva specificamente alla dimostrazione e alla deduzione come farò invece io nella seconda lezione. La Cina ci fornisce un contrasto. Estremizzando: un problema poteva essere risolto per editto, non c’era quindi un particolare interesse per le dimostrazioni persuasive – per la «durezza della “necessità” logica» di cui parla Wittgenstein. Ad Atene, invece, le dimostrazioni sembravano avere lo strano potere di stabilire delle verità di proprio pugno, per coloro che potevano studiarle. Ciò era importante per le pratiche di risoluzione delle dispute che si attuavano in Grecia. Tutto questo non aveva lo stesso peso in Cina. Esistono molte prove a supporto della tesi secondo la quale il pensiero spaziale, geometrico, coinvolge capacità cognitive diverse rispetto al ragionamento aritmetico, combinatorio e algoritmico. Introduciamo un’altra leggenda per lo stile algoritmico o combinatorio di pen-

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siero, la leggenda di al-Khwārizmī (780-850 circa) che svolgeva la sua opera presso la Casa della Sapienza di Baghdad e a cui si deve il nome stesso di ‘algoritmo’. Il titolo di uno dei suoi libri ci ha dato la parola ‘algebra’. Ecco che abbiamo una nuova X, una nuova Y e una nuova Z: un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità sui numeri e altre quantità, questo importante cambiamento ha avuto luogo nel IX secolo e il suo emblema è al-Khwārizmī. Questa è una cristallizzazione diversa rispetto a quella che è avvenuta all’epoca del leggendario (o immaginario?) Talete. Si noti che sia nel caso del pensiero geometrico sia in quello combinatorio, nuovi metodi di ragionamento, tra cui la dimostrazione, rendono possibile un livello totalmente nuovo di “potere esplicativo”. Si veda il punto (3) sopra. E, per ripetere il punto (4), ciò non significa che quelli che operavano all’interno del nuovo stile, che avevano raggiunto la concezione “oggettiva” dello spazio o del calcolo, fossero più razionali o meglio informati dei loro predecessori. Kant potrebbe averci visto giusto, nell’Estetica trascendentale, quando ha situato aritmetica e geometria in scomparti separati della mente. Egli ha collegato la prima alla successione di unità discrete nel tempo e l’altra all’esperienza delle configurazioni spaziali. In qualsiasi modo si vogliano descrivere, è qui piuttosto plausibile il richiamo all’idea di “moduli mentali” – capacità fondamentalmente distinte inerenti al cervello umano. Chiaramente c’è un grande dibattito, tra gli scienziati cognitivi, sugli usi della modularità. Questi vanno dalla «modularità a tutto tondo» di cui parla Dan Sperber46 alla concezione di Jerry Fodor, che ha dato inizio all’applicazione della modularità dalla grammatica di Chomsky a un ambito più vasto47. Fodor parla di quella di Sperber come di una «modularità impazzita»48. È possibile, comunque, che parlare con moderazione di moduli rappresenti una parabola efficace, mentre le nostre indagini sul cervello proseguono. Come dice Bernard Williams a proposito dei moduli, da qualche parte in Truth and Truthfulness: «Perché no?». Perché no, specialmente se c’è una consapevolezza di lunga data, che precede anche Kant, a proposito dell’esistenza di ciò che sembra corrispondere a una pluralità di facoltà? I sostenitori dell’elaborazione a parallelismo distribuito delle informazioni [parallel distributed processing] diranno che ci sono risposte molto valide alla domanda «perché no?». Nel caso del ragionamento

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tassonomico c’è una tradizione radicata che mette in risalto l’idea di moduli classificatori innati, specialmente quando si tratta di classificare esseri viventi. Quindi l’immagine, per lo stile di pensiero tassonomico, è quella di uno stile che si staglia su di uno sfondo modulare. Ma esistono anche modelli cognitivi alternativi. Un articolo recente illustra la tesi secondo la quale tutti i fenomeni dimostrati per i moduli classificatori innati sono meglio descritti da un processore generale del tipo parallelo-distribuito49. Ma supponiamo che il programma di ricerca sui moduli dia dei buoni risultati. Nessun singolo modulo corrisponderà esattamente a uno stile di pensiero. Ogni stile richiede molti moduli e di diversi tipi. Lo stile di laboratorio, che introdurremo a breve, richiede una combinazione della coordinazione della mano e dell’occhio, di capacità deduttive e molto altro. Si ricordino le due virtù associate con la veridicità. C’è uno standard completamente nuovo di accuratezza a proposito delle relazioni geometriche, al punto che “accuratezza” non sembra più essere la parola giusta. Dall’altro lato la sincerità sembra rimanere fuori perché la dimostrazione diventa il solo criterio di correttezza in questo nuovo ambito. Oppure, dal punto di vista sociale, ciò che conta non è che il geometra sia sincero, ma che gli iniziati vedano che l’argomentazione del geometra costituisce effettivamente una dimostrazione. Possiamo rigettare la visione kantiana tradizionale di un genio-della-storia [genius-in-history], secondo la quale «In colui che per primo dimostrò il triangolo isoscele […] si accese una luce». Come se un solo uomo avesse fatto tutto! Occorre una comunità perché ci sia una pratica della dimostrazione. Ma non c’è altro standard, di ciò che è una dimostrazione corretta, al di fuori della dimostrazione stessa. Le dimostrazioni sono auto-certificanti. Molte dimostrazioni che sono state proposte si sono rivelate fallaci, ma lo standard per decidere se un ragionamento è valido o fallace è la dimostrazione stessa. Nel caso della geometria, abbiamo un nuovo modo di dire la verità, e di accertarci che sia la verità – cioè la dimostrazione. Nella citazione (4) Williams parla di «operare all’interno del nuovo stile». Forse è casuale, ma è utile che Crombie e Williams abbiano usato la stessa problematica parola, “stile”.

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16. Avvertenza a proposito di “X” I due esempi di Williams propongono un tema plausibile a proposito del quale si verifica un cambiamento relativo alle concezioni: il passato, oppure il sé. Anche nel mio primo tentativo di estensione verso le scienze non è stato un problema individuare un nome semplice e breve per la “X” a proposito della quale si è prodotto un cambiamento nella concezione: gli oggetti geometrici, o le relazioni geometriche – o la geometria stessa, volendo. Un cambiamento nelle concezioni di qualcosa può essere talmente radicale che dopo di esso non si dispone subito di un nuovo nome che indichi il cambiamento applicandosi indistintamente tanto al passato quanto al futuro. Mi associo ai molti storici, scienziati e filosofi che individuano in Galileo colui che segna indelebilmente il cambiamento radicale in atto nella sua epoca. Dio ha scritto il Libro del Mondo in caratteri matematici e decifrarlo era il compito della filosofia naturale. Sembra piuttosto chiaro che un mutamento abbastanza radicale abbia avuto luogo nella prima metà del XVII secolo. Ma un mutamento nelle concezioni di che cosa? Uno dei mutamenti avvenuti al tempo, e in parte grazie al lavoro, del Galileo storico, è stato quello relativo alle concezioni del moto. Ma qualcosa di più radicale si andava cristallizzando e cioè un mutamento relativo alla concezione del dire la verità a proposito della Natura stessa. La verità deve essere detta nel linguaggio della matematica, con enunciati che devono poter esser controllati (per utilizzare le parole di Crombie) per il tramite dell’osservazione. E non solo dell’osservazione. Alexandre Koyré e, attraverso di lui, Crombie, preferivano un Galileo platonico che non faceva esperimenti50. I telescopi andavano bene, vi si potevano osservare i cieli, ma gli esperimenti, quelli no. C’è voluto un dilettante devoto e collezionista di libri per stabilire che Galileo ha effettivamente costruito un piano inclinato enorme per controllare la sua straordinariamente semplice teoria dei gravi. I critici di Stillman Drake hanno obiettato che nessun cronometraggio della caduta sull’enorme piano, dalla partenza all’arrivo, poteva essere effettuato con tale accuratezza, a quei tempi. Nient’affatto, ha detto Drake: il canto monofonico gregoriano offriva un sistema di cronometraggio sorprendentemente accurato51.

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17. Lo stile galileiano (I) Nel caso della cristallizzazione di ciascuno degli stili di scoperta c’è un «mutamento radicale relativo alle concezioni del dire la verità su qualcosa». Husserl può essere letto come qualcuno che propone esattamente quest’idea a proposito della matematizzazione del mondo che egli attribuiva a Galileo. Autori successivi, i cui ambiti di competenza sono apparentemente così diversi come quelli del cosmologo Steven Weinberg e del grammatico Noam Chomsky, hanno attribuito l’espressione “stile galileiano” a Husserl. Gli ambiti di competenza di questi ultimi non sono così distanti come potrebbe sembrare, perché la cosmologia e la grammatica sono scienze dove l’esperimento (in qualsiasi definizione restrittiva della parola) non è possibile: si devono fare modelli teorici e confrontarli con l’osservazione. Lo stile galileiano è la cristallizzazione di ciò che Crombie ha chiamato lo stile della modellizzazione ipotetica e chiaramente il suo emblematico pioniere è Galileo. Anche Crombie ha dato a Galileo un posto d’onore nella storia di questo stile, anche se non come iniziatore, in quanto egli riconosceva una lunga catena di precursori che utilizzavano il “metodo delle ipotesi” e la costruzione di modelli, sia intellettuali sia analogici. Mi atterrò alla massima di non ampliare il catalogo degli stili di pensiero scientifici. Non sosterrò che ciò che Husserl e poi Weinberg e Chomsky hanno chiamato lo “stile galileiano” è un nuovo stile di pensiero scientifico. Meglio dire che è la cristallizzazione definitiva di ciò che Crombie ha chiamato (c) la costruzione ipotetica di modelli analogici. In seguito parlerò spesso di stile galileiano, perché questa espressione si riferisce a un aspetto specifico di (c): la costruzione ipotetica di modelli. Galileo serve quindi come pioniere. Si noti quanto è facile scaricare le responsabilità. Né Husserl (nel caso di Galileo) né Kant (in quello di Talete) sono usati come un’autorità. Il mio trucco retorico è piuttosto quello di suggerire: ecco qui, abbiamo ripetuto questo fatto di tanto in tanto, da tempo immemore, solo non abbiamo notato che lo stavamo facendo.

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18. Lo stile di laboratorio Poi c’è lo stile sperimentale indicato da Crombie: (b) l’esplorazione sperimentale e la misurazione di relazioni osservabili più complesse. Questo stile probabilmente non ha un inizio preciso. Gli uomini sono sempre stati curiosi, hanno sempre osservato, armeggiato, esplorato, perfino misurato. Un nuovo modo di dire la verità ha però preso il via quando una comunità, ad esempio quella di Robert Boyle, non si è limitata a studiare i modelli ipotetici, a controllarli con l’osservazione e la misurazione, ma ha anche creato strumenti e apparecchiature per interferire con il corso della natura al fine di strapparle i segreti più nascosti. Qui X = (per esempio) le minuscole parti inosservabili della natura, ciò che i filosofi hanno in tempi recenti chiamato entità teoriche. La scienza di laboratorio implica una determinata pratica di veridicità che inizia con il creare strumenti che funzionino; si può persino iniziare a parlare di apparecchiature veridiche. Dal punto di vista meccanico parliamo più comunemente, e giustamente, di strumenti affidabili, una strana combinazione tra le virtù della sincerità e dell’accuratezza indicate da Williams. La descrizione classica di questo evento può essere trovata in Leviathan and the Air-Pump: Hobbes, Boyle and the Experimental Life di Steven Shapin e Simon Schaffer52. Una delle caratteristiche straordinarie di questo libro è che il protagonista principale non è una persona ma uno strumento, la pompa ad aria. Gli altri attori, Boyle e Hobbes, sono scelte decisamente azzeccate. Il libro include la traduzione di una disquisizione di Hobbes, pubblicata nel 1662. Hobbes era consapevole del fatto che Boyle stesse cambiando la concezione del dire la verità a proposito della materia (e del vuoto), usando strumenti per creare nuovi fenomeni ed elaborando enunciati che rispondessero ai fenomeni prodotti dalla strumentazione. Ritengo che questa sia una delle, o forse la cristallizzazione fondamentale di (b) lo stile sperimentale. In futuro, specialmente nel corso della terza lezione, quando mi riferirò allo stile laboratoriale di pensiero e azione, non starò ampliando la lista dei sei stili di Crombie, ma mi starò riferendo a questa particolare cristallizzazione dello stile (b) di Crombie. In che cosa è consistita, esattamente, questa cristallizzazione? Su questo punto Shapin e Schaffer forniscono un aiuto inestimabile, pre-

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sentandoci la storia di Hobbes che combatte invano il nuovo laboratorio di Robert Boyle. Ci sono già abbastanza fenomeni pubblici nel mondo, diceva Hobbes in tono di rimprovero. Non abbiamo bisogno di altri fenomeni, prodotti in gran segreto e controllati solo dai membri di una società altrettanto segreta (la Royal Society di Londra). Hobbes sapeva che un nuovo stile di pensiero stava per emergere e ne era contrariato. La sua obiezione principale era, forse, che mentre la geometria era aperta a tutti coloro che vi lavoravano, ed era contraddistinta dalla certezza, la nuova fisica era una faccenda per iniziati che lavoravano in privato e producevano conoscenza solamente probabile, opinio, e non scientia. Ma egli diceva anche chiaramente che Dio ci ha fornito abbastanza fenomeni e non abbiamo bisogno che qualcuno come il signor Boyle ce ne dia altri, di natura dubbia. Non è necessario scegliere Boyle come icona della cristallizzazione dell’esperimento nello stile di laboratorio. Gli stessi nuovi criteri di una verità controllata attraverso fenomeni artificiali stavano emergendo dappertutto in Europa. Boyle è però comodo perché un grande vecchio e sapiente come Hobbes intravide i segni premonitori e li salutò con disprezzo. Schaffer e Shapin ne Il Leviatano, e il solo Shapin nel suo libro A Social History of Truth53, insistono sul fatto che a rendere possibile la scienza di laboratorio sia stata la fiducia reciproca invalsa tra i membri della piccola nobiltà che formavano la Royal Society. Ci si fidava del fatto che un nobile riportasse con sincerità i fenomeni che egli stesso aveva prodotto e osservato. Che la tesi di Shapin sia storicamente esatta o meno, egli attira in modo interessante la nostra attenzione sull’assunto (revocabile) che chiunque riporti un’indagine sperimentale dica la verità. La nostra pratica di peer review ha ereditato in maniera trasversale gran parte di quella presunzione di sincerità, in tutte le scienze, compresa la matematica. Adesso chiediamo a colleghi di fare revisioni, mentre una volta ci si affidava ai pari [peers], vale a dire gli aristocratici inglesi e i nobili latifondisti. Ogni volta che s’incontrano altri «mutamenti relativi alla concezione del dire la verità su X» in momenti storici determinati, si trova anche una figura di proporzioni quasi leggendarie – Tucidide, Rousseau/Diderot, Talete, Galileo, Boyle. Per X=le specie e i taxa più alti della sistematica, la leggenda si addensa attorno a Linneo. Per X=probabilità attorno a Pascal.

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La dottrina dell’eroe della storia è stata ridicolizzata da ogni storico della scienza a memoria d’uomo. Ma c’è sempre un fondo di verità nel folclore. Il fatto che ci sia una leggenda e un pioniere comodo ed emblematico per la cristallizzazione di ogni stile di pensiero scientifico mostra come la tradizione riconosca già che ogni stile cristallizzato rappresenti un’innovazione radicale. Quest’innovazione può, per facilitare la narrazione, essere associata con un gigante. Ogni gigante, lo ripeto, è solamente un prestanome. Non c’è bisogno che ciò mi venga ricordato. Una parte essenziale della tesi sostenuta ne L’emergenza della probabilità era precisamente che una nuova concezione della probabilità sembra saltar fuori, quasi in maniera spontanea, dopo il 1650, in gran parte dell’Europa. Pascal è al tempo stesso l’emblema tradizionale di tale fatto e una semplice comparsa. 19. Logica Per logica s’intende ormai logica deduttiva, nel senso di logica formalizzata del primo ordine. C’è una tradizione più antica, secondo la quale la logica fissa le regole del ragionamento. Peirce ha diviso la logica in tre parti, deduzione, induzione e abduzione, o ciò che nel XIX secolo veniva chiamato il metodo delle ipotesi. A Peirce piacevano le triadi ed era del tutto cosciente che questa logica triadica stessa rientrasse nella triade medievale, il trivio, le basi fondamentali dell’educazione, vale a dire grammatica, logica e retorica. Deduzione, induzione e abduzione non sono stili di pensiero scientifico, nel senso in cui ne parlo in queste lezioni. Esse sono certamente fondate su delle capacità cognitive umane, anche se la loro espressione varia da linguaggio a linguaggio, da cultura a cultura. Peirce avrebbe potuto aggiungere la classificazione come un quarto ramo della logica, ugualmente fondata su alcune capacità cognitive. Tutte e quattro sono universali umani [human universals], non semplicemente perché sono accessibili a tutti, ma perché sono lo sfondo sul quale il discorso umano può avere luogo. Esse non hanno un vero e proprio inizio. Sono parte della nostra natura animale. Popper diceva che le amebe fanno induzioni: così è, se vi pare. Nessuno dei quattro rami della logica figura tra i “metodi di ragionamento” propri degli stili di ragionamento scientifico. Essi sono in

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effetti presupposti, a vari gradi, da ogni stile. Evidentemente gli stili geometrici e algoritmici sono collegati più strettamente alla logica deduttiva rispetto ad altri stili. Lo stile galileiano, lo stile della modellizzazione ipotetica indicato da Crombie, è una conseguenza dell’abduzione. Lo stile di pensiero probabilistico si basa sulle nostre capacità induttive. Lo stile tassonomico sulla classificazione spontanea. Ciò che Bourdieu ha definito «la storia particolare della ragione», vale a dire le scoperte culturali che sono avvenute in situazioni assolutamente specifiche e locali, è possibile solo sullo sfondo di ciò che Peirce chiamava logica.

20. Tre proposizioni radicali Questa filosofia non può essere presentata in poche parole. Il compito consiste nel porre l’attenzione su specifici stili di pensiero scientifico. In queste lezioni prenderò in esame in maniera dettagliata solamente gli stili (a) e (b), lo stile matematico nella seconda lezione e lo stile sperimentale, cristallizzatosi come lo stile di laboratorio, nella terza. Alcuni aspetti generali del progetto possono comunque essere messi in luce già da adesso. Ecco alcune delle implicazioni filosofiche di questo approccio. I) Gli stili sono auto-certificanti Ogni modo di scoprire introduce i propri criteri di evidenza, prova e dimostrazione. Ognuno di essi determina i criteri del dire-vero che si applicano nel proprio campo. Ciò porta a una tesi piuttosto radicale a proposito della veridicità e dell’oggettività. Gli stili scientifici sono in un certo senso auto-certificanti. Per ogni stile c’è una classe di enunciati che sono candidati alla verità o alla falsità solo nel contesto di quello stile. L’unico modo di scoprire se essi sono veri o falsi è usare lo stile appropriato. I criteri di veridicità sono determinati dallo stile. Tutte le proposizioni individuali sono soggette a errori. Ragionando in accordo con uno stile si possono sempre commettere degli sbagli. Ma è all’interno del quadro tracciato da un determinato stile che è possibile stabilire che un errore è stato commesso.

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Uno stile di pensiero scientifico può appassire, fallire o estinguersi. In tal caso non siamo più propensi a chiamarlo scientifico. La sparizione di uno stile è sempre causata da forze esterne. Secondo questa teoria, uno stile di pensiero prende avvio con la consapevolezza che le capacità innate possono essere usate in nuovi modi di scoprire qualcosa. Questo è ciò che tradizionalmente viene ritenuto parte della storia “interna” della scienza. Ma ciò che mantiene in vita un modo di scoprire deve essere il suo uso all’interno di un contesto culturale. Ciò è parte di una storia “esterna”. L’auto-certificazione è interna, la persistenza esterna. II) Dibattiti ontologici Ogni nuovo stile scientifico introduce una nuova classe di oggetti da studiare, o, per meglio dire, una nuova X nello schema (*) di Williams. Ma questo non è tutto. Ogni nuova classe di oggetti stimola una discussione ontologica, spesso descritta nei termini di un’opposizione tra il realismo e qualche tipo di anti-realismo. Queste discussioni sono solamente le conseguenze degli stili di pensiero. Si prendano ad esempio le controversie matematiche tra i cosiddetti platonici e i costruttivisti. Oppure l’opposizione tra coloro i quali sostengono che le entità teoriche inosservabili sono reali, e quelli, da Auguste Comte a Bas van Fraassen, che lo negano. Nella sistematica, alcuni affermano che le specie sono reali, ma non i taxa più alti. Altri insistono invece che i generi, le classi e gli ordini sono reali, sono parte dell’ordine naturale. E così via. Ogni dibattito ontologico avviene all’interno di uno stile scientifico corrispondente. Ciò succede perché ogni stile di scoperta crea i propri oggetti. Ci troviamo ai confini di una teoria della natura dei dibattiti ontologici classici nelle scienze. III) Fondamenti cognitivi e storia culturale Terzo, ognuno di questi modi di effettuare scoperte è basato su capacità tipicamente umane, incluse quelle cognitive e quelle psicologiche. Indubbiamente queste capacità sono il prodotto dell’evoluzione tramite selezione naturale. Esse sono universali. Ma gli stili scientifici sono essi stessi il prodotto di una innovazione ed evoluzione culturale. Gran parte di questi processi sono avvenuti

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nelle regioni del Mediterraneo – il Nord Africa, l’Asia occidentale e la Grecia – e più tardi in Europa. Ogni stile ha un inizio storico, che a volte esiste solo in una forma leggendaria, e la sua traiettoria di sviluppo. Le scienze cognitive e le neuroscienze sono tentativi adeguati per comprendere le capacità alla base di questa storia; esse contribuiscono a spiegare come ciò che si è evoluto in momenti specifici in regioni diverse del mondo si è diffuso fino a diventare parte del nostro patrimonio umano universale. Da una prospettiva diversa, si dovrebbe vedere lo studio degli stili di pensiero scientifico come parte della «storia naturale degli uomini» (Wittgenstein, Ricerche filosofiche, §415), o come parte di un’antropologia filosofica.

Lezione II Da dove vengono gli oggetti matematici?

1. Antropologia filosofica Queste lezioni vogliono apportare un contributo all’antropologia, intesa in un senso piuttosto classico. In inglese con “antropologia” s’intende principalmente lo studio di particolari popoli o gruppi sociali, spesso delimitati dalla lingua e/o dalla regione. È diventato un sinonimo di etnografia. Al tempo della pubblicazione della sua Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (‘Antropologia dal punto di vista pragmatico’) Kant pensava invece allo studio della natura umana, anche da un punto di vista sociale1. L’Anthropologie contiene non per niente interi capitoli su come organizzare una buona cena! Michel Foucault ha indicato questo libro come un testo che segna una rottura netta nel pensiero europeo. L’Uomo, sostiene Foucault, ha iniziato a riflettere su che cosa significa essere Uomo. Da lì il titolo del capitolo di uno dei suoi libri, L’uomo e i suoi duplicati, cioè l’Uomo sia come soggetto sia come oggetto d’indagine2. Questo modo di pensare la nostra specie, argomenta ancora Foucault, è diventato possibile solo verso la fine del XVIII secolo in Europa, e in un modo diverso rispetto a epoche e luoghi precedenti. Ciò che Hume aveva proposto nel suo grande Treatise on Human Nature, pubblicato ottant’anni prima, non era, secondo Foucault, la stessa cosa. Non m’interessa qui difendere le affermazioni relative alla data o alle caratteristiche di questa presunta rottura radicale. Per continuare a usare ancora per un momento parole fuori moda, mi piace la coppia indicata da Galton, “natura” e “educazione” [nature and nurture], in

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quanto essa separa i due aspetti fondamentali dell’antropologia. Galton stesso ha scritto in maniera sarcastica che il suo distico è solamente «un utile gioco di parole»3. Ciò che egli intendeva con “educazione” comprende più del seno e del grembo materno, ad esempio ciò che succede per strada o che passa in televisione. Galton si riferiva essenzialmente alla natura e all’educazione degli individui, un tema che rientrava nell’ambito delle discipline vagamente raggruppate sotto il nome di psicologia. Per quanto riguarda invece gli esseri umani in gruppi, alcuni preferiscono parlare di natura e cultura. Per parafrasare Galton, la natura è ciò con cui le persone sono nate, quello che portano con loro nel mondo; mentre la cultura è tutto ciò che li riguarda come persone che vivono in società dopo il loro concepimento e la loro nascita. Chiaramente si tratta di una distinzione debole, ma è un’indicazione utile. È un gioco di parole, ma è efficace, se impiegato come tale e non come un fatto ben noto e dato per acquisito. A causa degli usi successivi del termine antropologia, chiamiamo antropologia filosofica un tipo di progetto erede di quello kantiano. Vorrei quindi che queste lezioni fossero un contributo all’antropologia filosofica, nella misura in cui esse riflettono su alcuni aspetti della natura umana così come sono stati scoperti e coltivati [nurtured] da gruppi di persone, per poi essere codificati a livello sociale o addirittura di civiltà. Mi riferisco in particolare a quelle capacità innate negli esseri umani, e apparentemente solo in loro, che sono state coltivate in tempi e luoghi piuttosto specifici fino far parte di quella gamma di doti, attività, tecniche e campi di sapere che chiamiamo “le scienze”. 2. La matematica come miscuglio variopinto di tecniche Uso intenzionalmente il plurale, filosofia “delle scienze”, anziché parlare di filosofia della scienza4. Questa pratica è del tutto normale in francese e lo era anche nell’inglese del XIX secolo, per esempio quando William Whewell scrisse i tre volumi della History of the Inductive Sciences (1837) e i due volumi della Philosophy of the Inductive Sciences (1840). Non bisogna dare per scontato che ci sia una cosa definita come la scienza o la tecnoscienza. Non c’è neanche una cosa definita come la matematica; c’è piuttosto ciò che Wittgenstein ha chiamato il «miscuglio variopinto di tecniche della matematica»5.

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Si pensi a come sono diverse tra loro l’aritmetica, che tutti noi abbiamo imparato da bambini, e la dimostrazione del teorema di Pitagora, che molti di noi hanno appreso da adolescenti, o, collegata a questo teorema, la dimostrazione, nel Menone platonico, di come si costruisce un quadrato doppio rispetto a un quadrato dato. Si pensi poi all’idea matematica avuta da Fermat quando scrisse quello che sarebbe poi diventato il suo ultimo teorema e alle idee dimostrative [proofideas] che stanno dietro alla scoperta, effettuata da Andrew Wiles, della dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat. Si pensi poi alla matematica usata per modellare il comportamento degli atomi. Mi sono recentemente interessato agli atomi che si trovano a temperature molto basse, praticamente allo zero assoluto. Cerco di leggere parte della matematica che ci permette di capire perché si comportano in modo così straordinario. Questa matematica è di vecchio stampo, presa dalla cassetta degli attrezzi di un fisico, e molta di essa è in circolazione da un secolo; la differenza principale è che adesso possiamo usare computer molto potenti, in grado di elaborare soluzioni approssimate a equazioni complesse che non possono essere risolte in maniera esatta, così come di costruire simulazioni che ci permettono di stabilire strette relazioni tra la teoria e l’esperimento. Si pensi poi agli economisti, anche loro alle prese con l’elaborazione di modelli, ma che sono incapaci di comprendere il ragionamento di un fisico almeno quanto gran parte dei fisici è incapace di trovare un senso nell’econometria moderna. Ci si chieda poi: perché mai chiamiamo tutto questo “matematica”? Ho il sospetto che ci siano diversi tipi di risposte utili a questa domanda. Alcune di esse saranno di carattere matematico, mentre altre potrebbero avvalersi di altre risorse. Mi riterrei soddisfatto se, tra di voi, qualcuno che si ricordasse di questa lezione tra cinque anni, pensasse tra sé: «Tutto ciò che mi ricordo è che mi ha spinto a interrogarmi sulla ragione per la quale attività così diverse, che riguardano tanto i modi di fare che i modi di pensare, sono tutte chiamate matematica». Sarei ancora più soddisfatto se poi pensaste: «Questa è, già di per sé, una questione filosofica importante!». Inizio con queste osservazioni perché dovrei iniziare dal punto in cui i filosofi, almeno a partire da Platone, hanno sempre iniziato, con un aspetto particolare della matematica, e cioè con i teoremi della geometria, stabiliti tramite dimostrazioni perspicue. Vorrei avvertirvi in anticipo che questo punto di partenza consolidato è, da un lato, essenziale

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per la mia filosofia antropologica, ma, dall’altro, esso corrisponde solo a una piccola parte di quel miscuglio variopinto di tecniche che è la matematica.

3. Natura Ci sono buone ragioni per pensare che gli stili di pensiero scientifico, che mi hanno portato a parlare della “ragione scientifica”, siano basati su capacità cognitive “innate” [built-in]. Queste fanno parte della nostra eredità umana collettiva. Non c’è niente di relativo, di storico o di culturalmente dipendente a loro proposito (questo almeno è ciò che assumo, senza argomentare qui in maniera dettagliata). Senza alcun dubbio sono state delle spinte evolutive a favorire queste potenzialità, ma non si deve dare per scontato che esse abbiano avuto un valore adattativo per la selezione naturale. I modi in cui esse sono emerse possono essere connessi, non tanto con la loro utilità immediata, ma col fatto che esse sono le conseguenze di adattamenti autenticamente funzionali nello sviluppo di umani e animali. Ciò significa che le diverse capacità cognitive che risultano essenziali per la ragione scientifica potrebbero essere emerse come ciò che Stephen Jay Gould e Richard Lewontin hanno chiamato “pennacchi”6. Ci sono, in effetti, specialisti che insistono per una spiegazione dello sviluppo delle capacità matematiche nei termini della psicologia evoluzionistica, cosa che io non ritengo semplicemente possibile. Non credo che l’abilità nel fare ciò che chiamiamo matematica abbia avuto, in un primo momento, un valore adattativo. È chiaro che l’abilità di potersi muovere all’interno del nostro mondo a tre dimensioni è essenziale per la sopravvivenza e che l’abilità di fare inferenze e conti elementari aiuterebbe gli uccelli, gli animali e quindi anche le persone a cavarsela, ma tutto ciò non ci fa ancora entrare nel mondo della matematica7. Rimane, nonostante ciò, un’ipotesi plausibile quella secondo cui, se c’è una parte del cervello che svolge il ragionamento matematico, essa si sarà sviluppata in quella regione che ha permesso ad animali precedenti di contare. Chomsky ha suggerito per molto tempo che, così come c’è una capacità innata negli uomini di acquisire la grammatica, così ci sono anche le capacità umane innate di ragionare matematicamente. Egli, per

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come lo capisco io, ipotizza che le capacità matematiche siano conseguenze (pennacchi?) delle capacità linguistiche. Altri scienziati cognitivi ritengono che ci sia un modulo specifico per la matematica e che il cervello umano sia, secondo i loro termini, “programmato” [hard-wired] per il pensiero matematico o comunque aritmetico8. Vorrei sottolineare che, quando parlo della capacità umana di ragionare in maniera matematica, mi riferisco a qualcosa che è molto più complesso della semplice abilità di contare o di saper distinguere qualche figura. C’è ovviamente un’immensa varietà regionale tra i popoli di tutto il mondo e molta variabilità cognitiva all’interno di una singola famiglia. L’abilità di ragionare in maniera matematica varia certamente molto più da persona a persona di quanto non vari quella del bambino di cogliere il linguaggio parlato attorno a lui, ma, secondo questo modo di vedere le cose, essa fa ugualmente parte della mente umana. Diversi popoli non riescono a fare molto di più che contare, eseguire meccanicamente calcoli aritmetici e riconoscere qualche figura. Non ho idea se questa sia una questione di scelta o di limitazione intrinseca. Sembra del resto plausibile immaginare che ci sia un modulo o un gruppo di moduli dedicati principalmente all’orientamento spaziale e all’immaginazione di configurazioni spaziali, e che ciò sia connesso con la nostra abilità di ragionare geometricamente. Sembra plausibile, quindi, immaginare che ci sia anche un altro modulo, o un gruppo di essi, dedicato al ragionamento numerico e combinatorio, e che, nei suoi stati più avanzati, questo dia luogo a una capacità algebrica. Possiamo vedere Kant come qualcuno che ha riconosciuto questo fatto, anche se noi non descriviamo più i fenomeni alla sua maniera. Egli distingueva l’aritmetica dalla geometria e sosteneva che ciò che egli chiamava «conoscenza sintetica a priori» derivasse dall’appercezione trascendentale di unità temporali discrete, mentre quella della geometria derivasse dall’appercezione trascendentale dello spazio. Certo, alcuni popoli sembrano particolarmente portati per il ragionamento combinatorio, mentre altri lo sono per quello geometrico, come se un gruppo fosse meglio dotato di un certo tipo di moduli e l’altro gruppo di altri moduli. Alcuni ricercatori sostengono che le donne processino le informazioni spaziali in modo differente dagli uomini. Questo è un fatto che potrebbe rientrare nella narrativa dei moduli, ma bisogna essere cauti: lo

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scopo di queste storie è illustrativo, sono delle storie delle origini [just-so stories]. Esse ci suggeriscono modi di guardare ai fatti, ma sono solo raffigurazioni. Possono anche essere raffigurazioni utili, nella misura in cui non ci illudiamo di sapere effettivamente molto a proposito di tali moduli o di tali capacità. Trovo che queste storie illustrative a proposito delle abilità innate siano utili come indicatori, per segnalare la nostra ignoranza. Non sono poi così distanti dai modi in cui Kant stesso presentava le sue intuizioni. Secondo questa rappresentazione, tali capacità fanno parte della nostra eredità umana universale, all’interno della quale ci sono molte variazioni individuali. La scoperta e la pratica di queste capacità umane sono qualcosa di diverso. Esse accadono all’interno di storie specificamente umane, in circostanze storiche contingenti, e fanno parte della storia delle civiltà. Non c’è, inoltre, nessuna ragione per pensare che tali capacità, anche una volta scoperte, saranno poi effettivamente messe a frutto nella stessa maniera in culture differenti, anche se tutto fa pensare che, se una società volesse apprendere le capacità cognitive di un’altra, potrebbe farlo.

4. La storia folcloristica della scoperta di una potenzialità umana Concentriamoci adesso sulla scoperta della nostra capacità di pensiero geometrico, iniziando con la geometria. Ho già menzionato Kant, ma egli ha molto di più da dirci. Essendo un filosofo, ho sempre conosciuto quel brano enfatico sulla matematica che Kant scrisse nell’introduzione alla seconda edizione della sua Critica della ragion pura. Ho già citato alcune di quelle parole nel corso della prima lezione e le ho usate per introdurre l’idea di un nuovo modo di dire la verità sulle forme geometriche. Ora citerò quel paragrafo per intero. Ci serve a ricordarci che al più complesso dei nostri filosofi, il saggio di Königsberg, piacevano le belle storie. Non dimentichiamoci inoltre che il fatto che egli abbia raccontato questa storia non implica che essa sia vera in senso letterale. Kant era eurocentrico in modo imbarazzante. Intendo ciò sia in senso letterale sia figurato. Egli pensava che l’esempio di una scoperta rivoluzionaria in cima ai pensieri dei suoi lettori fosse la scoperta della

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rotta navale attorno all’Africa in direzione dell’Asia – dove gli europei saranno in grado, per un certo periodo, di sfruttare le civiltà dell’Est. Kant parlava degli Egizi come di predecessori dei Greci, ma non sapeva nulla della matematica cinese antica. Egli scriveva, è bene tenerlo a mente, nel 1787, due anni prima dell’evento che l’Europa considera come la sua rivoluzione fondamentale, quella francese. Quindi la rivoluzione, sia essa politica, geografica o intellettuale, era nell’aria. Egli scrive: La matematica, sin dai tempi più remoti a cui risale la storia della ragione umana, si è messa sulla via sicura della scienza con i Greci, un popolo che merita tutta la nostra ammirazione. Non si deve pensare, però, che l’aver trovato questa via regia, o meglio l’averla spianata davanti a se stessa, sia stata per la matematica un’impresa facile come per la logica, dove la ragione ha a che fare solo con se stessa: credo piuttosto che essa sia andata per lungo tempo a tentoni (soprattutto presso gli Egizi), e che la sua trasformazione in scienza vada attribuita a una rivoluzione, attuata dalla felice idea di un singolo uomo, mediante un tentativo a partire del quale non ci si potette più sbagliare sulla strada che si doveva prendere, e fu imboccato e tracciato, per ogni tempo e con un’estensione infinita, il cammino sicuro della scienza. La storia di questa rivoluzione del modo di pensare – molto più importante della scoperta della via che doppiava il famoso Capo di Buona Speranza – e del fortunato che la attuò, non ci è pervenuta. Tuttavia, la leggenda tramandataci da Diogene Laerzio, il quale nomina il presunto scopritore degli elementi minimi delle dimostrazioni geometriche – elementi che, secondo il giudizio comune, non hanno neppure bisogno di dimostrazione –, prova un fatto, e cioè che il ricordo del cambiamento prodotto dalla prima traccia nella scoperta di questa nuova via dovette apparire ai matematici di tale importanza da restare indimenticabile. In colui che per primo dimostrò il triangolo isoscele (si chiami Talete o come altro si vuole) si accese una luce: egli capì infatti che non doveva seguire passo passo ciò che vedeva della figura, o anche solo nel concetto di essa, quasi che da ciò potesse apprendere le sue proprietà, ma che doveva produrla tramite ciò che egli stesso aveva già pensato e rappresentato in essa a priori, secondo concetti (per costruzione); e che per sapere con sicurezza qualcosa a priori, egli non doveva attribuire alla cosa se non quello che se-

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guiva necessariamente da ciò che egli stesso, in conformità col suo concetto, vi aveva posto9.

Volendo fare una parodia di Kant, potremmo dire che egli sta immaginando la prima lampadina matematica che si è accesa nella testa di qualcuno. Talete non è altro che una leggenda, ciò che serve non è “un uomo”, ma una comunità, almeno una piccola rete di collaboratori, insegnanti e discepoli, che sfruttino la possibilità di effettuare una dimostrazione e che condividano tra loro argomentazioni stupefacenti. Come chiunque altro al giorno d’oggi, rigetto totalmente l’individualismo kantiano, sebbene ci sia in esso qualcosa di profondamente importante. La capacità cognitiva è in prima istanza individuale e gli esseri umani hanno dovuto imparare a servirsi di tale capacità. Ciò che manca nell’affermazione di Kant è il riconoscimento esplicito del fatto che la pratica di tale capacità è condivisa. Ciò che conta è lo sviluppo di quell’intuizione che la leggenda attribuisce a Talete, lo sviluppo delle pratiche della prova. Kant si fa prendere la mano dal lirismo quando parla dell’entrare «sulla via sicura della scienza», la «via regia». Kant chiama quest’evento una «rivoluzione intellettuale» ed esso consiste nell’emergenza della dimostrazione matematica. Per me c’è stata, prima, la scoperta della nostra capacità di fare dimostrazioni matematiche, o meglio, dimostrazioni geometriche, e poi è venuto il riconoscimento dell’importanza di questa scoperta e lo sviluppo di una comunità che venerava le dimostrazioni. Ma c’è stato anche un mutamento relativo alla concezione degli oggetti geometrici. Abbiamo acquisito una nuova maniera di dire la verità su di essi – dimostrando fatti a proposito di essi.

5. La veridicità a proposito degli oggetti geometrici Nella prima lezione ho presentato lo schema genealogico del dire la verità a proposito di qualcosa. La cristallizzazione di uno stile di pensiero può produrre: (*) Un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità su X.

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Seguendo l’esempio di Williams a proposito di Tucidide, il pioniere del nuovo modo di dire la verità a proposito del passato, ho suggerito un secondo schema: (**) Questo importante cambiamento è avvenuto nel secolo Y, e il suo emblema è Z. Chiaramente, il leggendario pioniere della geometria è Talete, un’icona che è stata probabilmente anche una figura storica, ma il cui nome è, con altrettanta probabilità, solo un punto sul quale molte leggende si sono accumulate. Ciò che colpisce è la misura in cui il folclore sembra aver riconosciuto il bisogno di un tale accumulo di miti. La storia di Kant riguarda: (*) Un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità sugli oggetti geometrici. (**) Questo importante cambiamento è avvenuto nel VI secolo, e il suo emblema è Talete. Il nuovo modo di dire la verità sugli oggetti matematici consisteva nel dimostrare le relazioni tra di essi, e di farlo a priori. Perché quest’abilità dovrebbe esser mantenuta, istituzionalizzata?

6. Greci polemici Geoffrey Lloyd ha attirato l’attenzione su un aspetto della vita delle città-Stato greche; Reviel Netz ha approfondito ulteriormente questo tema10. Le città-Stato erano organizzate in molti modi diversi, ma Atene rivestiva un’importanza centrale. Era una democrazia di cittadini maschi e liberi. Era una democrazia per pochi, che non rispecchia in alcun modo ciò che noi, oggi, riteniamo essere una democrazia. Tra questi pochi però non c’era nessun dittatore. Era l’argomentazione a regnare sovrana. Gli ateniesi sono stati il gruppo d’individui auto-governati più costantemente dediti all’argomentazione di cui si abbia notizia. Oggi leggiamo Aristotele per la sua logica, non per la sua retorica. I Greci inve-

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ce lo leggevano per la sua retorica; la sua logica era strettamente per l’Accademia. Il problema delle discussioni su come amministrare la città e combattere le sue battaglie era che non c’erano argomenti decisivi. O forse essi risultavano decisivi solo in virtù delle abilità dell’oratore o dell’avidità del pubblico. Ma c’era un tipo di argomento per il quale l’oratoria sembrava essere irrilevante. Qualsiasi cittadino era in grado di seguire un’argomentazione geometrica, come anche qualsiasi schiavo che venisse incoraggiato e guidato nel dedicarcisi per il tempo necessario. Egli poteva arrivare a vedere da solo, o magari con una quantità minimale di istruzioni, che un’argomentazione fosse valida. Poteva anche creare l’argomentazione stessa, scoprirla da solo. In geometria le argomentazioni parlano da sole a una mente che è capace di indagare. I cinici sostengono che tutto ciò sia pura e semplice fantasia. Che cosa vuol dire “una quantità minimale” di istruzioni? L’istruzione è solo un tipo di retorica, un tipo di oratoria. Si prenda il caso classico, quello della dimostrazione che si trova nel Menone su come raddoppiare un quadrato. Ci viene detto che il giovane schiavo scopre la tecnica da solo, senza aiuti. In effetti, Socrate è talmente affascinato da quella conoscenza che non si acquisisce tramite l’osservazione e l’esperienza, che fa l’ipotesi inverosimile che il ragazzo debba averla appresa in qualche esistenza precedente. La dimostrazione di un teorema sarebbe una prova a favore dell’immortalità dell’anima! Questo è ciò che intendo quando parlo dello sbigottimento del filosofo di fronte all’esperienza del comprendere o del fare una dimostrazione. Certo, il giovane schiavo è guidato dalle domande allusive di Socrate, ma poi si verifica questo fenomeno straordinario, accessibile quasi a qualsiasi lettore attento del Menone, che consiste nel fatto di vedere che il quadrato costruito sulla diagonale è il doppio del quadrato dato. La possibilità di tracciare un diagramma è essenziale per questa percezione, tanto a livello psicologico che storico. Ma, insieme al diagramma e ciò che viene detto su di esso, c’è un nuovo tipo di esperienza, un nuovo tipo di convincimento basato solamente sulla percezione di quella nuova verità. E quindi? Lloyd nota che questo fenomeno è qualcosa di davvero impressionante per i membri di una società dedita all’argomentazione, che non ha bisogno di un dittatore e le cui ultime istanze non sono altro che la conversazione e la persuasione. Da questo punto di vista, la so-

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cietà dell’antica Grecia era forse un unicum tra le civiltà di cui si ha conoscenza. Ritornerò sul tema degli studi comparati e farò dei confronti con la matematica nell’antica Cina. Prima però diamo un’occhiata all’impatto della scoperta della dimostrazione sulla filosofia europea.

7. La matematica è stata importante per alcuni (e solo per alcuni) filosofi Un profondo impegno nella riflessione sulla natura della matematica si trova in alcuni filosofi della tradizione occidentale, ma non in tutti. In quanto occidentale, la mia ossessione per la matematica mi è sempre sembrata “naturale”. L’ho data per scontata. In effetti, quando ero giovane pensavo fosse il vero e proprio segno distintivo dei filosofi profondi! L’implicazione funziona in un senso solo. I filosofi profondi (pensavo) erano ossessionati dalla matematica, ma molti tra coloro che erano ossessionati dalla matematica non erano profondi. In effetti, molti filosofi della matematica sono noiosi, aridi e sterili, si dedicano a programmi di ricerca degenerativi. Pensavo comunque, con l’entusiasmo tipico della gioventù, che ogni filosofo veramente profondo fosse mosso dai fenomeni della matematica, dall’esperienza del fare matematica. Non c’è neanche bisogno di dire che mi sbagliassi, ma era comunque utile pensare al perché e al come la matematica fosse importante per alcuni, e solo per alcuni filosofi della tradizione europea. Questo è l’argomento di una lezione che ho tenuto nel 1998, dal titolo What Mathematics Has Done to Some and Only Some Philosophers11. Uno dei suoi risultati è stato quello di far interrogare così tanti filosofi sulla provenienza degli oggetti matematici – la domanda del titolo di questa lezione. Questi sono alcuni tra i nomi che ho menzionato in quella lezione di nove anni fa: Platone, Descartes, Leibniz, Kant, Russell e Wittgenstein, ai quali adesso aggiungo Husserl12.

8. L’ossessione per la matematica Secondo Bertrand Russell, «la domanda posta da Kant all’inizio della sua opera filosofica, “come è possibile la matematica pura?”, è una

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domanda interessante e difficile, a cui ogni filosofia non puramente scettica deve trovare una risposta»13. Russell esagerava. Molti filosofi che non sono puramente scettici non hanno avuto alcun interesse per la domanda di Kant. Non gli è mai venuta in mente, o comunque non li ha colpiti come qualcosa d’importante. Non vorrei risultare impopolare, ma è facile pensare a filosofi occidentali canonici di qualsiasi epoca che non si sono minimamente occupati di matematica. Ecco perché parlo di “alcuni, e solo alcuni”. Tuttavia il senso dell’osservazione di Russell è giusto. Molti dei filosofi che tutt’oggi leggiamo sono stati profondamente colpiti dalla matematica e sono arrivati al punto di cucire molta della loro filosofia sulla loro visione della conoscenza matematica, della realtà matematica, degli oggetti matematici, o, ciò che credo sia cruciale, della dimostrazione matematica. Perché così tanti filosofi cercano di rispondere alla domanda di Kant? E, d’altra parte, perché molti altri non lo fanno? Ritengo che la risposta abbia qualcosa a che vedere con l’esperienza del praticare qualche tipo di matematica. Che cos’ha di particolare quella sensazione immediata che si prova di fronte a questa o quell’altra parte della matematica, per affascinare così tanto questo o quell’altro filosofo? Si ricordi l’idea di miscuglio variopinto di tecniche. È solo un certo tipo di ragionamento matematico, a mio modo di vedere, a suggerire l’idea di oggetti matematici e di verità a priori. È essenzialmente l’esperienza della dimostrazione e delle idee in essa implicate che spinge i filosofi a prendere la matematica seriamente. Parlo di questa o quella “parte della matematica” perché si dovrebbe guardare alla matematica in azione – quindi alle dimostrazioni più che ai teoremi, alla comprensione viva più che alle verità quiescenti, alla scoperta tanto quanto alla conoscenza. Per trovare un matematico creativo si dovrebbe guardare a quelle idee dimostrative che aprono nuove direzioni, più che alle mere dimostrazioni che risolvono un problema. Le esperienze connesse con la matematica viva hanno guidato i filosofi, che ne hanno tratto pietre angolari. Ciò è vero non solo di un Descartes o di un Leibniz, filosofi-matematici, ma anche di osservatori esterrefatti, come un Platone o un Wittgenstein. Che cosa ha colpito i filosofi? Bertrand Russell ci ha detto cosa lo preoccupava nel 1912: «Questo apparente potere di anticipare fatti relativi a cose di cui non abbiamo nessuna esperienza è certo sorpren-

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dente»14. Il nome che diamo al fenomeno che ha sorpreso Russell è “conoscenza a priori”. Questa, e parole come “verità necessarie” – o l’espressione di Wittgenstein «la durezza della necessità logica» – non esprimono tanto una proprietà della matematica quanto un’esperienza che fanno alcuni di noi svolgendo o comprendendo le dimostrazioni di alcune proposizioni. Queste nozioni filosofiche fantasiose derivano dall’esperienza della dimostrazione. Alcuni filosofi hanno tratto inferenze piuttosto straordinarie dalla possibilità della matematica. Socrate e l’immortalità dell’anima sono solo un esempio di tali inferenze azzardate. Dovremmo riflettere in modo immediato e quasi ingenuo sui fenomeni elementari che li hanno affascinati, in modo da comprendere quella domanda: «Com’è possibile la matematica pura?». Troppo spesso indulgiamo in sottigliezze o tecnicità senza domandarci che cosa ci preoccupi veramente. Ci sono due gruppi di filosofi che sono stati profondamente sconcertati da alcuni aspetti della matematica. Alcuni hanno un atteggiamento inflazionistico, altri deflazionistico. A partire dalla loro esperienza della matematica, due dei filosofi inflazionisti, Platone e Leibniz, hanno tratto conclusioni straordinarie praticamente su tutto. L’inflazione conduce i filosofi a proporre tesi grottesche. La deflazione, invece, spinge i filosofi a dire cose sulla matematica stessa che sono in larga parte considerate come assurde. John Stuart Mill portò avanti una grande battaglia contro l’inflazionismo. Sosteneva che non ci fosse alcuna differenza, in principio o in pratica, tra le verità matematiche e altre generalizzazioni empiriche. Molti matematici trovano ciò assurdo, ma in tempi recenti questa tesi ha trovato dei difensori15. Descartes è una figura molto complessa. Per quanto concerne la matematica egli sembra un deflazionista iperbolico. Pare aver sostenuto che Dio potrebbe far risultare cinque la somma di due più due. La maggior parte dei filosofi trova ciò talmente incomprensibile da supporre che egli non possa aver inteso proprio questo (io penso invece di sì: prendo molto sul serio i filosofi esterrefatti dalla matematica). Tuttavia, Descartes attribuiva un’importanza iperbolica alla dimostrazione perspicua: bisognava poter comprendere la dimostrazione tutta in una volta, afferrarla con la mente. Wittgenstein è altrettanto complesso e forse più frainteso di Descartes. Basti pensare ad alcune tra le più curiose delle sue Osservazio-

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ni sopra i fondamenti della matematica, che troppe persone leggono come volte a sostenere che le verità matematiche non sono fissate o determinate da altro che dalla pratica sociale. Russell era un nominalista troppo raffinato per poter prendere sul serio questioni dirette a proposito degli oggetti matematici. La parte più innovativa della sua vita come filosofo la dedicò a un approccio indiretto, mostrando che tali oggetti sono «costruzioni logiche». Da ciò il suo tentativo deflazionistico, chiaramente fallimentare, di dimostrare che gli oggetti matematici esistono solo in quanto costruzioni logiche: il progetto stupefacente dei Principia Mathematica. Uno degli aspetti positivi dell’impegno di Russell in favore del “logicismo” fu di articolare la dottrina in una forma sufficientemente precisa perché Kurt Gödel potesse refutarla in maniera definitiva16. Husserl era inflazionista in un modo molto diverso rispetto a Platone. Egli pensava che la crisi, nel 1936, della civiltà europea, crisi di cui il regime nazista era una delle manifestazioni più disgustose, poteva essere superata recuperando un contatto diretto con l’esperienza originaria, la Ursprung, della geometria17. Un’altra parte del suo progetto consisteva, del resto, nel tentativo di rientrare in contatto con lo stile galileiano di pensiero – uno degli argomenti della terza lezione, Lo stile laboratoriale di pensiero e azione. Se parlo, inaspettatamente, proprio di questi grandi uomini, è perché essi sono i miei eroi personali. Russell è stato l’eroe della mia infanzia intellettuale. Nella mia adolescenza intellettuale Wittgenstein mi ha stretto in una morsa di ferro dalla quale non mi sono mai liberato. Nella prima lezione ho accennato al fatto di chiamare il mio approccio alla ragione “leibniziano”; Leibniz è stato un amore giovanile che ancora vagheggio. Solo durante la maturità ho compreso che Descartes è il pensatore più profondo. In età avanzata, sono a volte affascinato da Husserl. Ma soprattutto, questi sono i filosofi che prendo sul serio, oltre agli dèi, Platone, Aristotele e Kant.

9. Due prospettive su uno straordinario libro sulla matematica greca Alcuni, ma soltanto alcuni, filosofi occidentali sono stati così profondamente impressionati dalla matematica che essa ha lasciato un’im-

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pronta permanente su una parte o su tutta la loro filosofia. Non voglio citare quei filosofi che sono totalmente indifferenti alla matematica, che fanno filosofia come se la matematica non avesse alcuna importanza per alcuna riflessione filosofica degna di questo nome. Essi sono molto più che deflazionisti: non prendono sul serio le pretese filosofiche della matematica e pensano che queste non siano neanche degne di deflazione. Ammiro alcuni di questi filosofi, ma non molti, e non parlerò di quelli morti che non possono rispondermi. Sono stato fortunato a individuarne uno vivente, un amico, e voglio elogiarlo nonostante mi trovi, non tanto in disaccordo, quanto su una direzione opposta a quella da lui intrapresa. Mi riferisco a Bruno Latour, uno dei fondatori degli attuali science studies. Egli preferirebbe, credo, non essere chiamato filosofo, in inglese, anche se egli è certamente un philosophe, nel senso in cui la parola è usata nel francese contemporaneo. Nel 1979 egli ha scritto, insieme a Steve Woolgar, Laboratory Life, la prima rilevante etnografia del laboratorio. Forse egli non disdegnerebbe il titolo di antropologo filosoficamente orientato, nello stesso modo in cui io sarei onorato dell’etichetta di filosofo antropologicamente orientato. Latour ha recentemente scritto un eccellente studio critico18 su un libro che ho già menzionato: The Shaping of Deduction in Greek Mathematics: A Study in Cognitive History. L’autore, Reviel Netz, è uno storico israeliano della matematica antica, piuttosto giovane, formatosi all’Università di Cambridge e che ora lavora a Stanford. Il libro è stato pubblicato nel 1999. Perché Latour ne fa una recensione otto anni dopo? La scusa è l’uscita dell’edizione economica. La verità è che è venuto a sapere dell’esistenza del libro solo recentemente e ne è rimasto enormemente colpito19. La frase di apertura recita così: Questo è, senza dubbio, il libro più importante apparso nei science studies dalla pubblicazione de Il Leviatano e la pompa ad aria di Shapin e Schaffer.

Si riferisce al libro sottotitolato Hobbes, Boyle and the Experimental Life, pubblicato nel 198620. Avrà un ruolo centrale nella mia terza lezione, sullo stile laboratoriale di pensiero e azione. Ed ecco un fatto straordinario: sono completamente d’accordo con il giudizio di Latour. Se si esclude il lavoro di Latour dalla competizio-

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ne, allora direi “senza dubbio” che quei due libri, uno sulla deduzione e l’altro sull’esperimento, sono i due più importanti contributi ai science studies. Punto. Ma dico ciò per ragioni esattamente opposte a quelle di Latour! C’è un punto che condividiamo. Come tutti i lettori di Netz, siamo entrambi sbalorditi dal suo tour de force per ricostruire i diagrammi mancanti nei testi greci che sono sopravvissuti, e dalla sua dimostrazione che essi sono essenziali tanto per i manuali di Euclide quanto per la creatività di Archimede. Ma io e Latour ci concentriamo su intuizioni fondamentalmente differenti di Netz. Entrambi siamo nel giusto quanto ai nostri centri d’interesse, ma siamo spinti da essi in direzioni differenti.

10. Una parentesi sui “science studies” Prima un’avvertenza. Ho imparato molto dal campo dei science studies, che è apparso negli anni Settanta, ma non ho mai detto di aver contribuito a esso, neanche sotto il vecchio nome di SSK (Social Studies of Knowledge21), o sotto quello, ancora attuale, di SST (Society, Science and Technology). Latour è stato uno dei padri fondatori di quel campo, inaugurando un programma-base di ricerca ancora attivo, che corrisponde al nome, per intenderci, di teoria delle reti scientifiche22. Questo programma è parallelo al lavoro di Barry Barnes e David Bloor, al quale spesso ci si riferisce col nome di Scuola di Edimburgo o di “programma forte della conoscenza scientifica”. La maggior parte di coloro che lavorano in questo ambito guardano a me, nella migliore delle ipotesi, come a un’anomalia eccentrica, e la cosa non mi dispiace affatto. Quindi, se è del tutto appropriato, per Latour, selezionare due dei più importanti libri dei science studies degli ultimi ventuno anni, io non sono invece qualificato per fare altrettanto. Sceglierei comunque gli stessi due libri indicati da lui. Vorrei dire che, per i miei scopi, per lo sviluppo di un’antropologia filosofica della ragione scientifica, il libro di Netz è (senza dubbio) il libro più importante ad essere uscito nell’ambito dei science studies dalla pubblicazione di Il Leviatano e la pompa ad aria di Shapin e Schaffer. Latour esprime un pensiero parallelo: per i suoi scopi, questi sono i due libri più importanti per i science studies degli ultimi ven-

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tun anni. Tra i suoi scopi c’è la teoria delle reti, e sfrutta a pieno un gioco di parole, intitolando la sua analisi critica The Netz-Works of Greek Deductions.

11. Ritorno sul paradosso a due facce Dopo aver specificato che sono un filosofo che non si cimenta in quegli studi specialistici giustamente chiamati science studies, ritorniamo al paradosso: Latour e io pensiamo che questi due libri, The Shaping e Il Leviatano, siano i due libri più importanti, più utili, ad esser usciti nell’ambito dei science studies. Ma pensiamo ciò per ragioni diametralmente opposte. Posso aggiungere, tuttavia, che capisco perfettamente il punto di vista di Latour. Egli è affascinato dalla descrizione di Netz della matematica greca in azione. La rete dei corrispondenti di Archimede attorno al Mediterraneo era un network stupendamente delimitato, all’interno del quale la matematica fu creata, resa stabile e fatta prosperare. Più o meno allo stesso modo, la Royal Society di Londra era un network in evoluzione, i cui membri contribuivano alla creazione e alla stabilizzazione della nuova scienza della metà del XVII secolo. Ciò che conta per me nel libro di Netz è però riassunto nel sottotitolo, A Study in Cognitive History. Latour ignora proprio quello che a me interessa, la “storia cognitiva”. La mia antropologia filosofica della ragione scientifica prevede che gli stili di pensiero scientifico siano basati su potenzialità innate, molte delle quali sono cognitive, e che devono essere scoperte nel corso della storia umana. Netz ha scritto esattamente lo studio che mi serve, una descrizione di come sia emerso il potenziale per la dimostrazione deduttiva in geometria, non a partire da qualche figura leggendaria come Talete, ma da ciò che è possibile inferire sulla base dei testi esistenti.

12. Platone nel bene e nel male La mia lista di filosofi occidentali che furono sconvolti dalla matematica iniziava con Platone. Latour vede le cose diversamente. Egli non pensa che si debba descrivere Platone come qualcuno sconvolto dalla

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matematica, egli non fu una vittima passiva. Egli fu piuttosto uno sfruttatore, un aguzzino. Platone ha sequestrato la matematica. Ha volontariamente frainteso la nuova scienza. Latour sostiene che «una strana operazione di incanalamento (per non dire di sequestro), da parte dei filosofi platonici, di un insieme di capacità strettamente specialistiche, ha nutrito dall’interno minuscole reti di esperti cosmopoliti di geometria greca», permettendo ai platonici di creare una fascinazione nei confronti di, per citare di nuovo, «nozioni come “dimostrazione”, “modellizzazione”, “dimostrazione”, “calcolo”, “formalismo”, “astrazione”». Scrive Latour: Per la grande sorpresa di coloro che credono al Miracolo Greco, la caratteristica fondamentale della matematica greca, secondo Netz, è che essa è totalmente periferica rispetto alla cultura, anche a quella decisamente elevata. La medicina, la giurisprudenza, la retorica, le scienze politiche, l’etica e la storia sì, la matematica no. […] Con un’eccezione: la tradizione platonico-aristotelica. Ma che cosa ha preso questa tradizione (molto piccola all’epoca) dai matematici? […] solo una caratteristica fondamentale: che potrebbe esistere un modo di convincere che è apodittico e non retorico o sofistico. La filosofia ha estrapolato dalla matematica non una pratica pienamente sviluppata, ma solo un modo per differenziare sé stessa attraverso la maniera giusta di ottenere la persuasione.

Latour ritiene l’analisi di Netz un esempio perfetto di una conoscenza sostenuta da un network di creatori e distributori di quella stessa conoscenza. Nessun esempio mostra ciò meglio del caso di Archimede, il quale, lavorando poco fuori Siracusa, in Italia, creò e sostenne una modalità completamente nuova di comprensione. In un libro scritto a scopo divulgativo, Netz lo paragona in modo convincente a Galileo, ma si spinge anche oltre. Archimede è lo scienziato più importante che sia mai vissuto23.

Parafrasando ciò che Whitehead disse a proposito di Platone, Netz continua:

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La caratteristica generale più certa della tradizione scientifica europea è che essa consiste in una serie di note aggiuntive ad Archimede.

Innanzitutto egli sostiene che la statica di Galileo abbia preso in prestito, piena d’ammirazione, ciò che conosceva di Archimede, e che la dinamica galileiana derivi direttamente dal matematico greco. Non metterò in discussione l’uso di Latour del circolo di Archimede – una manciata di matematici sulle sponde del Mar Mediterraneo, il cui punto centrale è Alessandria – come esempio perfetto della network theory. Il mio interesse per questi due grandi libri, Il Leviatano e The Shaping, è completamente diverso. Nel caso di Netz, la mia lettura è più vicina alle intenzioni dell’autore rispetto a quella di Latour. Nel caso di Shapin e Schaffer, come dirò nella prossima lezione, la lettura di Latour è certamente più vicina alle intenzioni degli autori rispetto alla mia. Latour minimizza l’aspetto di Netz indicato nel sottotitolo, Cognitive History. Lo stesso fa la maggior parte dei lettori, che tende a notare solo che il libro di Netz è un’ottima ricostruzione dei diagrammi mancanti nei testi antichi. Per me esso è anche la prima descrizione della scoperta di una capacità cognitiva umana fondamentale, l’abilità di fare prove dimostrative. La storia dei diagrammi è assolutamente parte integrante di questa descrizione.

13. Il mutamento relativo alle concezioni del dire la verità È Platone il responsabile dell’ossessione filosofica occidentale per la matematica? Sì e no. Certo, egli ha la responsabilità di aver suggerito l’idea, inculcata poi dagli aristotelici, che ogni ragionamento filosofico dovrebbe acquisire il carattere apodittico di una prova matematica. Ho sostenuto, seguendo la pista di Lloyd e Netz, che gli Ateniesi, amanti della discussione, fossero impressionati dall’apparente abilità di risolvere le questioni senza far ricorso alla retorica. La dimostrazione sembrava appunto una nuova maniera di risolvere un certo tipo di questioni. Il (*) mutamento relativo alle concezioni del dire la verità sugli oggetti geometrici ebbe quindi un grande impatto, non solo sui rivali in una disputa, ma anche sull’uomo che disprezzava il dibattito democratico, cioè Platone.

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Bernard Williams ha posto l’accento sulla nuova maniera di dire la verità a proposito del passato. A mio modo di vedere, il nuovo modo di dire la verità sugli oggetti geometrici ha avuto un effetto molto più profondo sulla civiltà occidentale, e non necessariamente in senso positivo. Le persone iniziarono a convincersi che l’unica maniera giusta e definitiva di ragionare fosse quella deduttiva. Probabilmente è solo durante la “rivoluzione scientifica” che è stato possibile scrollarsi di dosso quest’idea terribile. Non credo comunque che la fascinazione filosofica occidentale per gli oggetti matematici e la verità matematica sia dovuta solamente a Platone e ai platonici. L’esperienza di una dimostrazione perspicua è essa stessa un fatto notevole, ed è proprio questa che ha colpito così tanto i filosofi.

14. La dimostrazione, non gli assiomi, né il calcolo Si è discusso molto, a partire dal XIX secolo e per buona parte del XX, se la matematica fosse assiomatica e se il suo nucleo fosse il cosiddetto “metodo assiomatico”. Tuttavia, anche all’apice dell’interesse per i metodi formali, c’erano sempre pensatori che insistevano sul fatto che le idee matematiche, incluso ciò che chiamiamo le “idee dimostrative”, fossero fondamentali. Questa concezione fa ormai parte della scienza divulgativa: i divulgatori scientifici dicono al mondo che ciò che la dimostrazione di Andrew Wiles della congettura di Fermat ha messo in luce è l’introduzione di un nuovo modo, molto generale, di fare matematica. Wiles ha risolto il problema di Fermat, ma ciò è solo un aneddoto in confronto al fatto di aver indicato un gran numero di nuove direzioni e aver connesso ambiti precedentemente non collegati. Lo stesso si dice, in tempi più recenti, per ciò che riguarda la dimostrazione di Perel’man (e altri) della congettura di Poincaré. È importante ripetere che non c’è solamente una cosa: la matematica. La gente non si chiede sufficientemente spesso, a proposito di una pratica o di un problema: «Perché la riconosco immediatamente come una domanda matematica?». Wittgenstein usava quest’espressione fantastica: «Il miscuglio variopinto delle matematiche». La vecchia aritmetica di base, quella di cui si servivano i bottegai prima che le calco-

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latrici provocassero la perdita delle loro abilità, era considerata “matematica”. Lo stesso vale per le scoperte relative alla dimostrazione [proof-discoveries]. Che cos’hanno in comune due attività come queste? Non c’è alcuna “necessità matematica” nel calcolo. Nonostante la mia consapevolezza a proposito del “miscuglio”, l’aspetto della matematica che produce la maggior parte dei rompicapo e dei disaccordi è il fenomeno della dimostrazione perspicua, dimostrazione che puoi comprendere, sembra, tutta in una volta, e vederla nella sua totalità. Il tipo di dimostrazione che Descartes pensava essere quella definitiva o addirittura la sola possibile. In qualche modo, il semplice pensare non ci è mai sembrato sufficiente per risolvere i problemi. Oppure, per porre la cosa nell’altro senso, qualche filosofo ha ritenuto che alcuni tipi particolari di pensiero costituissero la gloria della mente umana e il nucleo della natura umana. Tali filosofi hanno ritenuto ciò proprio perché sembriamo in grado di risolvere alcuni problemi semplicemente pensando. Per dimostrazione non intendo affatto il buon vecchio calcolo. Intendo quelle dimostrazioni che ci danno non solo la sensazione che il teorema sia vero, ma anche quella di comprendere perché lo è. Grazie a esse compiamo quell’esperienza familiare che ci fa gridare «a-ah!», sulla quale Martin Gardner ha posto l’accento, l’esperienza di vedere, di afferrare che cosa segue da che cosa. Recentemente ho dovuto sommare un certo numero di spese per farmi rimborsare – ho fatto una lista di circa 12 numeri. Ho ottenuto 3 risultati differenti con la mia calcolatrice tascabile, dimostrandomi davvero maldestro. Ho quindi svolto la somma a mano, “riportando 3” e tutto il resto. Alla fine ero sicuro di aver ottenuto la risposta giusta, ma sicuramente non capivo perché era la risposta giusta. Era solo l’esito di operazioni meccaniche apprese da bambino. Ma in quelle occasioni, ormai rare, in cui comprendo una nuova idea dimostrativa, l’esperienza è totalmente diversa. Wittgenstein era particolarmente interessato in ciò che egli chiamava una dimostrazione perspicua. Forse Descartes pensava che quelle fossero le uniche dimostrazioni degne di questo nome. Non c’è nessuna “necessità” nel calcolo. Si ottiene un certo risultato semplicemente seguendo determinate procedure per le quali siamo stati educati da bambini. Facciamo un confronto con l’utilizzo della metropolitana. Sto imparando a orientarmi a Taipei. Un bel giorno mi trovo

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vicino alla fermata di Shipei e mi viene voglia di andare allo zoo. Guardo quindi la mappa e vedo che per prima cosa devo prendere la linea Hsintien, poi cambiare alla stazione centrale di Taipei, proseguire sulla linea Bannan, uscire a Chunghsio Fuhsing e prendere la linea Mucha verso sud, fino a raggiungere la fermata Taipei Zoo. Potrei commettere un certo numero di errori, perché sono uno straniero, ma se invece faccio tutto giusto e non ci sono problemi sulla metro, allora arriverò allo zoo. Calcolare è esattamente questo, e non c’è alcuna necessità in ciò. A nessuno verrebbero mai in mente le idee di verità a priori, di necessità logica o di oggetti matematici riflettendo sulla metropolitana di Taipei.

15. Due concezioni della dimostrazione Una volta ho iniziato un saggio con un’ottima frase d’apertura «Leibniz sapeva che cosa fosse una dimostrazione. Descartes no»24. Ma avrei potuto dire il contrario, perché ci sono due concetti distinti di dimostrazione. Uno è quello di prova perspicua, che corrispondeva all’idea cartesiana, e, penso, all’ideale platonico. L’altro è quello di dimostrazione come calcolo, chiarito in maniera esaustiva dalla logica simbolica del XX secolo. Gli oggetti matematici sono nati dalla dimostrazione perspicua, non dal calcolo. Fin dall’inizio, nel Mediterraneo si è diffusa la sensazione che in matematica si studiasse un tipo speciale di oggetti, a proposito dei quali fosse possibile scoprire un tipo speciale di verità. Questi oggetti sono “là fuori”, come si dice – e questo “là fuori” significa due cose. Prima di tutto, essi non sono qualcosa di mentale, ma hanno un’esistenza indipendente dalle menti umane, quindi là fuori, fuori dalle menti umane. Dall’altro lato essi non si trovano nello spazio o nel tempo. Ecco quindi il problema: se non sono là fuori, nello spazio, allora dove sono? Le sfere matematiche sono, in un certo senso, come dei cuscinetti a sfera, ma anche molto diversi da essi. Da ciò derivava il timore reverenziale che si aveva, nei tempi antichi, nei confronti di certi teoremi, ad esempio, sui solidi regolari. E quando pensiamo ai numeri e ai gruppi finiti, non abbiamo neanche più la tentazione di localizzarli nel mondo spazio-temporale. Il platonismo è spesso chiamato realismo, per via di alcune fissazioni della filosofia occidentale. Le chiamo fissazioni

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perché il platonismo è, in realtà, un super-realismo, che si pone in una relazione con la realtà ordinaria non dissimile dalla relazione che sussiste tra il super-naturale e il naturale.

16. Una seconda cristallizzazione all’interno dello stile matematico? Gli studiosi hanno messo in luce che la matematica esisteva in Asia occidentale e in Nord Africa molto tempo prima di Talete. Il mio tema è stato quello della cristallizzazione dello stile matematico, con un nuovo modo di dire la verità sugli oggetti geometrici. Ci sono altri eventi che possono aver dato luogo a una cristallizzazione simile? Introduco volentieri un’altra leggenda, relativa, in questo caso, alla scoperta degli algoritmi e dell’algebra, la leggenda di al-Khwārizmī (780-850 circa), che lavorava alla Casa della Sapienza di Baghdad e dal quale deriva il nome stesso di ‘algoritmo’. Il nome non è molto conosciuto, ma, per dare un’idea della sua importanza, la Iranian Research Organization for Science and Technology ha assegnato per circa venti anni l’International Khwārizmī Prize, il suo riconoscimento più alto nell’ambito della scienza e della tecnologia. È chiaro che molte cose straordinarie sono successe nelle scienze in quella civiltà persiana particolarmente fiorente del IX secolo. Vi prosperavano la medicina, la chimica e molti altri saperi. Coloro ai quali piacciono i grandi racconti della world history a proposito di imperi e battaglie dovrebbero includere la Battaglia del fiume Zab (750) come una delle quattro o cinque più grandi battaglie della storia del mondo. Il Grande Zab è un immissario del Tigri, la cui sorgente è situata sulle montagne turche. Fino a quel momento Damasco era il centro politico e culturale dell’Islam e la cultura islamica era essenzialmente ellenistica. Dopo il 750, quando gli Abbasidi sconfissero gli Omayyadi, l’Islam diventò orientale, radicato dunque non in Grecia ma in Persia. La capitale del nuovo impero persiano fu costruita dal nulla nel 763: era Baghdad. Durante il secolo successivo essa diventò il luogo più interessante del pianeta dove esercitare l’immaginazione scientifica. Così come Kant speculava a proposito di Talete (o chi per lui), io speculo su al-Khwārizmī come l’origine dello stile di ragionamento combinatorio, algoritmico o calcolatorio nella tradizione “occidentale”.

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Seguendo le linee dello schema di Williams otterremmo quindi: (*) Un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità sulle quantità. (**) Questo importante cambiamento è avvenuto nel IX secolo, e il suo emblema è al-Khwārizmī. Perché parliamo di inizi leggendari? Perché il folclore potrebbe rivelarci di più sul sentire comune profondo rispetto alla storia della scienza sistematica. Si può indicare la storia di un pioniere leggendario per ogni stile di pensiero scientifico. Per la probabilità la leggenda ci parla di Pascal. Per la modellizzazione teorica abbiamo Galileo – Husserl parlava dello stile galileiano molto prima che Crombie entrasse in scena. Per la sperimentazione potrei menzionare il grande chimico-alchimista Geber. Questo è il nome latino per Abū Mūsa Jābir ibn Ḥayyān (721 ca. – 815 ca.), un precursore della chimica che ha lavorato principalmente a Kufa, a sud dell’odierna Baghdad. Naturalmente ci sono delle controparti cinesi. Per lo stile di laboratorio la mia leggenda preferita, come si vedrà nella terza lezione, è quella di Robert Boyle e della pompa ad aria – proprio l’argomento tanto ammirato da Bruno Latour, ma per ragioni radicalmente diverse dalle mie. In ognuno di questi casi c’è un’intuizione culturale relativa al modo di fare qualcosa, al modo di scoprire qualcosa. In ognuno di quei casi ad essere scoperta è una potenzialità umana. Una branca della scienza cognitiva moderna insiste sul fatto che possediamo capacità innate relative ad ambiti specifici. I cinici sostengono che questa sia solo la resurrezione della psicologia delle facoltà di epoca moderna, di moda in Spagna attorno al 1600. Certamente i dettagli sono un po’ approssimativi per giustificare l’attuale entusiasmo rispetto all’interpretazione di strumenti ancora molto grezzi, come le scansioni Rmn e Pet per lo studio del flusso di sangue al cervello. Ma starò al gioco, in parte perché mi sembra, sulla base di vecchie e diffuse prove aneddotiche, che l’abilità di comprendere le dimostrazioni, specialmente quelle di stile geometrico, faccia ricorso a capacità cognitive diverse dal ragionamento combinatorio. Ciò nonostante, è stato necessario scoprire come ragionare anche in modo combinatorio e algoritmico.

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A questo proposito mi trovo d’accordo con Jean-Pierre Changeux, un neurobiologo sul quale dirò qualcosa di più a breve. Durante un colloquio per un posto di lavoro per il quale concorrevo, egli ha usato un’espressione che, per quanto ne sappia, non ha mai utilizzato nei suoi scritti – il nostro «involucro genetico» [genetic envelope] – cioè le nostre capacità cognitive ereditarie, che possono essere sviluppate in vari modi, oppure no25. Concepisco l’abilità di fare dimostrazioni come qualcosa che è rimasto a riposo per molto tempo nell’involucro genetico del cervello umano, fino a quel gruppo di persone attorno a Talete o qualunque sia il suo nome. Egli ha sfruttato la possibilità di dimostrare qualcosa a proposito del triangolo. Qui c’è tutta una storia da raccontare. Per il mio modo di vedere, il lavoro più entusiasmante è quello che ho già indicato, di Reviel Netz. Insisto ancora sul suo sottotitolo, A Study in Cognitive History. Netz mi ha detto che tutti leggono la sua storia come incentrata sui diagrammi mancanti nei testi antichi. Ma ciò su cui egli ha veramente scritto è la scoperta della capacità cognitiva di utilizzare diagrammi e parole. Si può capire adesso perché il libro di Netz mi affascini così tanto. Vorrei che qualcuno scrivesse un libro dal titolo Gli algoritmi di Baghdad. Uno studio di storia cognitiva.

17. Gli oggetti matematici Uno dei dibattiti più duraturi nella storia della filosofia occidentale è quello relativo agli oggetti matematici e alle verità matematiche. I cosiddetti platonici ritengono che gli oggetti abbiano un’esistenza indipendente dalla mente e dalla materia26. Altri pensatori hanno invece per molto tempo sostenuto il contrario: essi sono in realtà il prodotto della mente umana. In una versione più recente, essi sono visti come i prodotti della sociologia collettiva o, in alternativa, della struttura del cervello umano. Per una discussione abbastanza recente si veda Conversations about Mind, Matter, and Mathematics dei miei colleghi parigini Alain Connes (vincitore della Medaglia Fields nel 1982) e JeanPierre Changeux (neuroscienziato cellulare)27. Come ci si potrebbe aspettare, Connes argomenta in favore dell’idea che gli oggetti matematici sono semplicemente lì, in attesa di essere scoperti, mentre Chan-

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geux difende la tesi secondo la quale essi sono i prodotti, organizzati fisiologicamente nel cervello, del sistema cognitivo umano. La mia opinione su questo dibattito rientra nell’approccio generale illustrato nella prima lezione. I miei “stili di pensiero scientifico” includono uno stile galileiano, uno stile di laboratorio, uno stile tassonomico e, non c’è bisogno di dirlo, uno stile “geometrico” e uno “stile combinatorio” (i nomi non sono importanti, sono dei meri indicatori). Una delle tesi che propongo è che ogni stile di ragionamento nasce a partire da capacità umane, principalmente ma non interamente cognitive. Queste capacità sono scoperte e sviluppate in momenti specifici della storia. Un’altra tesi è che ogni stile di ragionamento “introduce” nuovi tipi di oggetti, e nuovi modi di dire la verità. Questa non è una tesi relativistica ma una teoria sulle origini dell’oggettività. È ovvio che, come alcuni dei grandi filosofi che ho menzionato, io sono stato assolutamente impressionato da una caratteristica, che Connes dice essere propria della matematica, molto difficile da spiegare. Spesso è possibile, mediante sforzi considerevoli, giungere a una lista completa di oggetti matematici definiti da condizioni molto semplici. Intuitivamente, si crede che la lista sia completa, e si cerca in generale di dimostrare che è esaustiva. Accade però che spesso si trovino altri oggetti proprio cercando di dimostrare che la lista era conclusa. Prendiamo l’esempio della teoria dei gruppi finiti28.

In un primo momento i matematici hanno pensato che ci fossero solo sei tipi di gruppi finiti, un elenco che è stato completato verso la fine del XIX secolo. Verso la fine del XX secolo sono stati scoperti esattamente altri 20 tipi – i gruppi sporadici. E questi sono davvero gli ultimi, fine della storia. L’ultimo gruppo finito ad esser stato trovato si chiama il mostro, ed è proprio ciò che il suo nome indica, con più di (8) x (10!) elementi. Assumendo che non ci sia un qualche errore nascosto nella dimostrazione, sembra che questo gruppo assurdo sia stato lì da sempre, in nostra attesa, con un’espressione mostruosa sulla faccia. Questo è uno dei fenomeni che fa sorgere il bisogno di una filosofia della matematica e poi di un’ontologia platonistica. È importante distinguere due cose diverse che Changeux e i suoi colleghi neurobiologi stanno cercando di fare. Una è di dare una de-

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scrizione delle operazioni che il cervello effettua quando facciamo matematica. Com’è possibile per questa complessa organizzazione di neuroni compiere questo tipo di lavoro? Nessuno negherebbe l’enorme interesse di questo tipo di ricerca, che è ancora agli albori. C’è poi un altro tipo di ricerca, la psicologia cognitiva, che è tutt’altra cosa rispetto alla scienza del cervello. Essa parla di abilità cognitive specifiche che trovano le loro basi nella struttura del cervello di carne e sangue, abilità che sono, nel senso di Chomsky, modulari. Ma nessuno dei due assi di ricerca arriva a cogliere l’esperienza che si ha facendo una dimostrazione, l’esperienza del vedere che il risultato deve seguire necessariamente, o del sentire gli oggetti lì, come in nostra attesa. Essi eludono completamente quella che chiamo l’esperienza del fare matematica. Latour, che ci ha insegnato tutto sulla scienza in azione, osserva nei dettagli qualche caso di matematica in azione, ma si basa, a mio modo di vedere, su una gamma troppo ristretta di esempi. Egli perde così di vista quel miscuglio variopinto di tecniche in cui consiste la vita matematica, alcune delle quali includono l’esperienza della dimostrazione. 18. Allargate i vostri orizzonti! Discuterò vari tipi di realismo nella quarta lezione. In connessione con la matematica, “realismo” è una denominazione polivalente per Platone e i suoi seguaci. Il dibattito tra Connes e Changeux è un dibattito sul realismo. Ma attenzione: ci sono dibattiti sul realismo anche all’interno di altre scienze. Per gran parte del XX secolo c’è stato un dibattito sulle entità teoriche della fisica, se esse siano reali o se siano solo strumenti che aiutano il nostro pensiero. Anche oggi che siamo in grado di contare gli atomi in una trappola ultra-fredda, ottenendo così la sensazione di osservare fenomeni quantistici macroscopici come, per esempio, una funzione d’onda macroscopica, è comunque possibile farsi portatori di una tesi antirealista, positivista. Bas van Fraassen, uno dei filosofi della scienza più brillanti e noti, continua a fare esattamente questo. Egli insiste sul fatto che le nostre teorie siano al più «empiricamente adeguate», ma che non dovremmo asserire o credere che ci siano veramente 16 atomi nella trappola. Allo stesso modo, si consideri la tassonomia sistematica in biologia. Sin dai tempi di Linneo si discute se le specie, i generi, le famiglie, le

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classi, gli ordini, siano “reali” o se siano solo modi di organizzare l’incredibile complessità del mondo naturale; un problema tradizionalmente fastidioso per le piante e che dà luogo a un caos totale per i funghi e i loro tipi, per non parlare dei batteri. Ecco perché, nella prima lezione, ho parlato dei dibattiti ontologici come di una conseguenza degli stili di pensiero scientifico. In ognuno di questi casi gli oggetti sono introdotti dallo stile. Si è sempre creduto che questi dibattiti non avessero alcun legame tra di loro. Vi invito ad allargare i vostri orizzonti e a vederli come molto simili tra loro.

19. Antropologia comparata della ragione Crombie, in primis uno storico delle scienze del Basso Medioevo, del Rinascimento e della prima età moderna, ha esplicitamente intitolato il suo magnum opus: Styles of Scientific Thinking in the European Tradition. Pongo l’accento sull’aggettivo “europea”. Crombie non era in realtà del tutto eurocentrico. Egli osservava come i viaggi tra il suo Paese natale, l’Australia, e quello d’adozione, l’Inghilterra, con i relativi scali in Asia, lo avessero spinto a contemplare una «antropologia storica comparata della ragione». Trovo quest’ultima un’idea utile, anche se appena abbozzata. Sono già stato in Asia altre volte, ma questa è la prima che mi trovo a discutere del mio approccio al ragionamento scientifico. Mi trovo, più specificamente, sul confine orientale dell’Asia. Mi spetta di riflettere sulle evoluzioni scientifiche, molto diverse, che sono avvenute, da un lato, in Asia occidentale (includendo l’antica Mesopotamia), in Africa del Nord, nel Mediterraneo, nell’Europa del Nord, quindi nelle Americhe e, dall’altro lato, in Asia orientale. Devo iniziare dicendo che non sono affatto interessato alla questione seguente, che piace sollevare ad alcuni occidentali: «Come è possibile che le scienze moderne siano il prodotto dell’Europa occidentale, a partire dal XVII secolo, mentre le scienze cinesi non sono mai decollate nello stesso modo e neanche la matematica antica cinese è servita da trampolino per la matematica moderna?». Sembra una domanda interessante. Ma ho il sospetto che non sia né più né meno interessante della domanda: «Perché la matematica medi-

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terranea antica raggiunse il suo apogeo con Archimede per poi subire una battuta d’arresto, senza un singolo atto di matematica creativa (esagerando un po’) fino a che una tradizione piuttosto differente, combinatoria, emerse, dapprima a Baghdad, per entrare poi in contatto con il pensiero geometrico greco e dare luogo a uno stupefacente nuovo inizio?». Queste domande, sul perché o sul come sia possibile che grandi eventi siano successi, o non lo siano, in passato, sono totalmente al di là delle mie competenze. Ma, può darsi che proprio a causa della mia ignoranza io tenda anche un po’ ad ignorarle, trovandole non molto sensate. Una volta erano un buon punto di partenza. Ma, ormai, i grandi eventi in questione sono visti come i risultati di così tante contingenze che nessuna domanda plausibile quanto al loro “perché” può ricevere una risposta adeguata. Credo sia una delle molte ragioni per cui Geoffrey Lloyd, che attualmente dirige il Needham Research Institute di Cambridge, in Inghilterra, solleva questioni diverse da quelle sollevate dal grande pioniere degli studi occidentali sulla scienza cinese, Joseph Needham. Lloyd ha recentemente adottato un linguaggio in apparenza simile, ma in realtà diverso, da quello di Crombie e dal mio: egli parla di «stili di indagine» nel mondo antico29. Egli si dedica in particolare a domande relative ai tipi di istituzione all’interno delle quali certi tipi di indagine possono essere coltivati, a differenza di altri. Il titolo di questa lezione è una domanda filosofica: «Da dove vengono gli oggetti matematici?». Si tratta di una domanda standard per la filosofia occidentale, da Platone a oggi. Era certamente una domanda per la filosofia greca antica. Non sembra, invece, essere una domanda per la filosofia cinese antica, che pure aveva una lunga tradizione matematica. Potremmo chiederci: «Perché no?». Più in generale, possiamo chiedere: «Perché la matematica ha segnato così profondamente il pensiero filosofico occidentale, almeno sin dai tempi di Platone?». Forse non è una questione così frivola. Forse ci sono cose significative da dire a questo proposito sulla matematica antica greca e su quella cinese, ognuna radicata nelle sue circostanze locali e storiche. Forse il miscuglio variopinto di tecniche in cui consiste la matematica è parte della risposta: il tipo di matematica sviluppata dalle prime civiltà del Mediterraneo rende possibile una concezione degli oggetti matematici, mentre i tipi di matematica sviluppati più o meno alla stes-

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sa epoca in Cina non lo fanno. Ciò è coerente con un altro tipo di risposta, ovvero che la grammatica delle lingue dell’Ovest favorisce l’insorgere di domande sugli oggetti matematici più di quanto non lo facciano le grammatiche delle lingue dell’Est. Entrambe queste risposte sono coerenti con ancora un altro tipo di risposta: le istituzioni all’interno delle quali la matematica era praticata in Cina e le funzioni pubbliche alle quali questa assolveva, erano piuttosto diverse da quelle attorno al Mar Mediterraneo. Questi tre modi di rispondere sono qualcosa di più che semplicemente coerenti tra loro: tutti e tre i tipi di risposta, e altri possibili, possono e forse devono essere usati insieme e in maniera efficace, se si pensa che la domanda sia degna di una risposta. La domanda, lo ripeto, è: «Perché i filosofi occidentali sono sempre stati ossessionati dalla matematica, mentre quelli orientali no?».

20. La matematica cinese antica Non so leggere il greco e neanche il cinese. Tutta la mia conoscenza è di seconda mano. Il testo che assumo come canonico è The Nine Chapters30, di cui sono apparse recentemente edizioni scientifiche sia in francese sia in inglese. Conosco la versione francese perché ho scambi frequenti con uno dei suoi curatori, la storica della matematica cinese, Karine Chemla, che lavora a Parigi. C’è stato un grande progetto in Europa e in America per riscoprire la scienza antica al di là di quella visione, propria del XIX secolo, che faceva parlare Kant dei Greci come di «un popolo che merita tutta la nostra ammirazione». Questo è il “miracolo greco” di cui parla Latour con un’ironia sferzante. Per molto tempo sono stato testardo e conservativamente europeo, pro-greci. Dopo aver esaminato alcune parti de The Nine Chapters, direi a Chemla che la lampadina della dimostrazione non si è mai accesa sulla testa di nessuno degli autori da lei studiati. Essi non hanno mai capito né concettualizzato la possibilità di fare una dimostrazione deduttiva! Non hanno mai avuto quell’esperienza «a-ah!» che è il nucleo del fenomeno che chiamiamo matematica. Hanno risolto problemi tramite approssimazioni successive, ma non hanno mai dimostrato niente! Sistemi di approssimazione ingegnosi, un accenno di matematica puramente computazionale, ma niente dimostrazioni. O almeno così credevo.

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Mi è servito un po’ di tempo per unire la mia reazione con le intuizioni di Lloyd e Netz. Le prove dimostrative avevano un valore sociale nella società ateniese perché fornivano un paradigma di ciò che significava risolvere una discussione. In un mondo più autoritario le discussioni erano risolte dal ricorso ai superiori; l’artigiano voleva un sistema che funzionasse. I matematici cinesi all’incirca contemporanei di Archimede s’interessavano a problemi simili, ma non avevano nessuno da convincere tra il pubblico. Il loro mondo era gerarchico, la società era autoritaria, spesso in maniera benevola. Un maestro attento si accontentava di un processo che funzionasse. Si potrebbe dire che i Cinesi avessero ragione e che i Greci, con le loro dimostrazioni, avessero torto. “Approssimazione” è in un certo senso la parola chiave del pragmatismo, nel senso di William James. Secondo questa visione, ciò che vogliamo è un insieme di procedure che alla fine condurrà i lavoratori attenti a conclusioni che saranno grossomodo le stesse, così che nessuna autorità ne risulterà indebolita. Questa descrizione è molto abbozzata e semplicistica, ma è un punto dove possiamo fermarci. Per continuare con un contributo più serio, seguirei alcuni dei temi illustrati in un articolo recente di Chemla, un articolo con un titolo molto lungo: Geometrical Figures and Generality in Ancient China and Beyond: Liu Hui and Zhao Shand, Plato and Thabit ibn Qurra31. Lo considero un contributo notevole per spiegare il passaggio di Kant che ho citato, [E]gli capì infatti che non doveva seguire passo passo ciò che vedeva della figura, o anche solo nel concetto di essa, quasi che da ciò potesse apprendere le sue proprietà, ma che doveva produrla tramite ciò che egli stesso aveva già pensato e rappresentato in essa a priori, secondo concetti (per costruzione) […].

Una differenza fondamentale tra la geometria cinese e quella greca è che la prima analizzava la proprietà delle figure tramite approssimazioni e tutta una serie di procedure, mentre la seconda faceva lo stesso grazie a dimostrazioni perspicue. È possibile sostenere che la lunga storia della matematica occidentale potrebbe rivelarsi, nel lungo periodo, soltanto una fastidiosa deviazione rispetto al futuro della matematica. Perché tutto ciò di cui abbiamo bisogno nelle nostre relazioni con il mon-

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do materiale è ciò che sminuiamo chiamando “approssimazioni”. Non necessitiamo mai di soluzioni esatte per le equazioni differenziali. Abbiamo solo bisogno di risposte approssimativamente adeguate. In futuro la computazione rapida sostituirà la dimostrazione e la matematica orientale, anziché quella occidentale, sarà vista come quella che era nel giusto fin dall’inizio. Lo stile di pensiero geometrico di Crombie non è stato altro che un punto di partenza sbagliato per l’impresa scientifica, un mero incidente storico? L’articolo di Chemla appena menzionato fornisce un esempio definitivo a sostegno di questa posizione. Chemla prende appositamente come esempio “il teorema pitagoreo”. Beh, so cos’è quel teorema – o così credevo. Ma è molto difficile anche solo riconoscerlo nei testi cinesi discussi da Chemla. Non c’è esattamente un “oggetto” lì pronto per esser percepito distintamente, neanche nei diagrammi di cui è possibile effettuare la ricostruzione. È tutto molto diverso rispetto alla matematica greca nella forma in cui ci è pervenuta, vale a dire in quell’insieme di opere che ha reso l’interpretazione di Kant inevitabile.

21. L’origine degli oggetti Le nuove classi di oggetti introdotte da, o con l’emergere di, nuovi stili di pensiero scientifico, rendono possibile gli interminabili dibattiti ontologici occidentali in quegli ambiti, per esempio tra platonismo e nominalismo in matematica, o tra realismo scientifico e vari tipi di strumentalismo ed empirismo. Penso che gli oggetti matematici non siano diversi, quanto a natura e origine, dalle entità teoriche o dai nuovi taxa della biologia sistematica. I dibattiti ontologici all’interno delle scienze sono quindi la conseguenza dell’introduzione di oggetti da parte di stili di pensiero. Ma c’è molto di più che questo in ballo, qualcosa di più eurocentrico. Nel linguaggio europeo noi parliamo di questi oggetti usando frasi in cui i nomi per gli oggetti svolgono la funzione di soggetti grammaticali. Questo ci conduce a un terzo punto, messo in luce da Nietzsche molto tempo fa: le lingue europee richiedono presupposti di esistenza per i termini nella posizione di soggetto. Le grammatiche europee generano ossessioni ontologiche.

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Queste osservazioni non si avvicinano neanche a ciò che affascinava veramente Kant e Russell, vale a dire perché, o come, possiamo avere una conoscenza a priori, perché sembra che possiamo scoprire alcune proprietà delle cose solamente pensando. Credo che quanto detto fin qui cominci ad articolare una risposta a questo gruppo di domande che abbiamo solo iniziato a ripensare in un modo che si rivelerà proficuo. Sfortunatamente non ho il tempo di svolgere questo tipo di riconsiderazione per intero in questa breve serie di lezioni32.

Lezione III Lo stile laboratoriale di pensiero e azione

1. Riepilogo Vorrei iniziare richiamando i punti principali della prima lezione. Due erano i punti di partenza, entrambi adattamenti di idee sviluppate da altri studiosi e per altri scopi. Uno è associato con lo storico della scienza A.C. Crombie, dal quale ho preso una breve lista di stili di pensiero duraturi. Il secondo è tratto dal filosofo Bernard Williams, ed è il concetto di veridicità. Ho espresso il mio accordo con Williams sul fatto che la verità non abbia una storia, ma la “veridicità” invece sì ed è per questo che le genealogie della veridicità sono possibili. Crombie era australiano e ha svolto la sua carriera a Oxford, in Inghilterra. Egli era principalmente uno studioso delle scienze europee del Basso Medioevo e del Rinascimento; il suo eroe, come quello di molti altri studiosi, era Galileo. Ma, contrariamente a ciò che si pensa comunemente, egli riteneva che la cosiddetta “rivoluzione scientifica” del XVII secolo non fosse un evento autonomo di quel periodo, quanto piuttosto l’evoluzione di alcune acquisizioni che avevano iniziato a dare i loro frutti nel XII secolo. Nell’epoca in cui l’influenza di Bachelard (in Francia) e di Kuhn (in America) era dominante, in cui i filosofi e gli storici vedevano il passato come una sequenza di mutazioni e di rivoluzioni, Crombie vedeva una miriade di continuità e di riprese. Egli riassunse il lavoro di una vita in tre volumi enormi, Styles of Scientific Thinking in the European Tradition, pubblicato quasi alla fine della sua vita, nel 1994. Crombie vi ha tracciato la traiettoria di ognuno di sei stili di pensiero, dall’antico mondo del Mediterraneo all’Europa moderna.

LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE

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Possiamo stabilire, nel movimento scientifico classico, una tassonomia di sei stili di pensiero scientifico, distinti secondo i loro oggetti e i loro metodi di ragionamento.

Abbiamo qui tre parole, stili, che sono distinguibili tramite i loro oggetti e tramite i loro metodi di ragionamento. Nel caso della matematica, abbiamo familiarità, da un lato, con la distinzione tra il metodo di ragionamento matematico e gli altri metodi e, dall’altro, con la distinzione tra gli oggetti astratti della matematica e gli oggetti della vita di tutti i giorni. Non si deve pensare che prima c’è uno stile di pensiero, che poi introduce una nuova classe di oggetti scientifici. Gli stili sono costituiti dai loro metodi e dal tipo di oggetto con il quale hanno a che fare. Ho sostenuto l’idea secondo la quale ogni stile di pensiero introduce una nuova classe di oggetti scientifici. Ho proposto, inoltre, che i dibattiti ontologici apparentemente irrelati che riguardano gli oggetti astratti, gli oggetti teorici non osservabili della fisica, o i taxa della biologia sistematica, sono tutti il risultato dell’introduzione di nuovi tipi di oggetti nel corso dell’emergenza, accettazione e uso di un nuovo stile di ragionamento all’interno di specifiche comunità. Ho insistito su un’estensione della nozione degli stili di pensiero scientifico di Crombie, vale a dire l’idea che all’interno di una lunga narrazione continua ci siano delle rotture distinte, che ho chiamato “cristallizzazioni”. Una cristallizzazione può essere avvenuta nella notte dei tempi, come quando ho affermato che l’idea di una prova dimostrativa ha cristallizzato modi di pensiero matematico a proposito degli oggetti geometrici, probabilmente nel VI secolo a.C. Nella seconda lezione ho detto che potrebbero esserci state cristallizzazioni successive, come quella che si verificò a Baghdad all’inizio del IX secolo, quando il pensiero algoritmico e quello algebrico furono compresi in modo chiaro per la prima volta. Queste nozioni sono poi combinate con l’idea di Williams che la veridicità a proposito di un argomento potrebbe avere una genealogia. Williams ci ha dato due esempi di discontinuità nette, una rispetto al dire la verità sul passato, l’altra rispetto al dire la verità su sé stessi. Ho proposto di generalizzare la sua idea e di applicarla alle cristallizzazioni che hanno luogo in stili di pensiero scientifici distinti. Per ogni cristallizzazione si danno due schemi:

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(*) un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità su X; (**) questo importante cambiamento è avvenuto nel secolo Y, e il suo emblema è Z. Per l’esempio di Williams concernente la storia, X = il passato, Y = il V secolo a.C., e Z = Tucidide. Questa figura rappresentativa fu una persona reale, della quale sappiamo abbastanza. È stato quello che ho chiamato un pioniere emblematico. Tali pionieri non devono affatto essere necessariamente dei personaggi storici, ma piuttosto delle figure a metà strada tra la verità e la finzione, tra la storia e la leggenda, a proposito delle quali un certo cambiamento radicale è stato riconosciuto dalla tradizione e nelle convinzioni comuni. Nel caso della seconda lezione, X = oggetti geometrici, Y = il VI secolo a.C., e Z = Talete. Talete potrebbe essere una figura puramente leggendaria, o, nel caso ci si riferisca a lui come a un personaggio storico, potrebbe non aver compiuto gran parte di ciò che gli viene attribuito. Egli è un emblema, ciò che ho chiamato un pioniere emblematico. Tucidide è più verità che finzione, ma Talete potrebbe essere più finzione che verità. Ho fatto notare nella seconda lezione che non dovremmo essere troppo scrupolosi nell’imitare le frasi di Crombie. Con la matematica tutto fila liscio, ci sono degli enunciati pre-ionici sugli oggetti geometrici rispetto ai quali “Talete” può cambiare la concezione di cosa significa parlare in maniera veridica, vale a dire effettuando delle dimostrazioni. Ma consideriamo ciò che è successo all’epoca di Galileo: nel momento in cui emergeva l’idea che Dio avesse scritto il mondo in caratteri matematici egli pose l’accento su un nuovo modo di pensare la Natura. Certo, all’epoca di Galileo avvenne un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità su X = movimento, ma il cambiamento è stato molto più ampio di questo.

2. L’esplorazione sperimentale e la modellizzazione ipotetica Il primo stile di Crombie era matematico, l’argomento della seconda lezione. Ho osservato alcune differenze fondamentali negli sviluppi della matematica nella Cina antica e nella Grecia antica, e ho proposto l’idea che quest’ultima abbia dato luogo a un’ossessione tutta occidentale

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per la conoscenza matematica, la verità matematica e gli oggetti matematici che è sconosciuta nelle altre tradizioni filosofiche. Ho suggerito che questo fosse dovuto all’attenzione per la dimostrazione perspicua nella matematica canonica greca; mentre la matematica cinese antica era maggiormente dedita al processo, tanto da sviluppare una serie notevole di tecniche di approssimazione. Il “mutamento nelle concezioni” del dire la verità è consistito nel fatto che, dopo l’epoca dell’uomo che chiamiamo Talete, le proposizioni geometriche potevano essere dimostrate. Crombie ha catalogato esattamente sei stili di pensiero scientifici tuttora validi. Il quarto, il quinto e il sesto hanno a che fare con le popolazioni e le classi. Li chiamo rispettivamente lo stile tassonomico, probabilistico e storico-genetico. Non dirò quasi niente su questi stili in queste lezioni, anche se ci sarebbe molto da dire! Ho sentito per la prima volta dei “sei stili” da Crombie, a una conferenza nel 1978, e ciò mi ha fatto ripensare le scienze in modo nuovo; il mio primo utilizzo dell’idea di stile è stato nel 1982 e da quel momento ho continuato ad approfondire questo tema1. Oggi mi concentrerò sul secondo e sul terzo degli stili di pensiero di Crombie, ma soprattutto sulla cristallizzazione del secondo stile, che mi porta a parlare dello stile di laboratorio. Riporto qui di seguito le descrizioni del secondo e del terzo stile che ho sentito quasi 30 anni fa: 2. La misurazione sperimentale e l’esplorazione di relazioni osservabili più complesse. 3. La costruzione ipotetica di modelli analogici. Lo stile laboratoriale di pensiero e azione non dovrebbe essere pensato come uno stile aggiuntivo, ma come una cristallizzazione del secondo stile, la sperimentazione. Esso entrò in risonanza con una cristallizzazione galileiana del terzo stile di poco precedente. 3. Riepilogo delle tre avvertenze Prima di procedere vorrei ripetere le tre osservazioni fatte nelle lezioni precedenti. (a) Un’avvertenza. Gli stili di pensiero scientifico non sono scienze o discipline scientifiche e non si escludono a vicenda. La biologia evo-

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lutiva usa molta (1) matematica, (2) misurazione ed esplorazione sperimentale, (3) modellizzazione ipotetica e analogia, (4) tassonomia, (5) probabilità e statistica, e tuttavia è il nostro esempio più riuscito di una scienza storico-genetica. La maggior parte delle scienze moderne utilizza gran parte degli stili di pensiero scientifico di Crombie. (b) Un’ipotesi cognitiva. Ho ipotizzato che ognuno degli stili di Crombie sia radicato in capacità umane innate, che sono scoperte, sfruttate e sviluppate in situazioni storiche specifiche. Gli stili risultano quindi tanto dalla cognizione quanto dalla cultura; sono i prodotti, da un lato, delle interazioni tra dotazioni specificamente umane che sono a loro volta i risultati della nostra eredità evolutiva e, dall’altro lato, di eventi e sviluppi storici specifici. In virtù dell’elemento cognitivo innato segue che, anche se uno stile di pensiero si è evoluto dapprima in una cultura storica a lui peculiare, esso può in seguito essere appreso da popoli di qualsiasi altra cultura che scelgano di farlo. (c) Gli stili di pensiero scientifico cambiano, si evolvono, si dividono e si uniscono in maniere storicamente complesse. Oggi non facciamo matematica nella stessa maniera dei cosiddetti “nove capitoli” della matematica cinese classica, con i loro commentari elaborati per secoli, tra i 2000 e i 1000 anni fa. Tuttavia riconosciamo quell’opera come “matematica”. Come già detto, all’interno degli stili che si evolvono potrebbero esserci rotture o cristallizzazioni; due di queste costituiscono il mio argomento di oggi.

4. Esplorazione e analogia: stili (2) e (3) Né lo stile (2), né il (3) della lista di Crombie sono particolarmente “europei”. Un modo di pensare la storia dell’astronomia cinese, per esempio, è di vederla come il diffondersi, sin dai tempi più antichi, di questi due stili di pensiero scientifico, ovvero la misurazione e l’osservazione di relazioni complesse da un lato, e la modellizzazione ipotetica dall’altro. La modellizzazione era tipicamente effettuata sui movimenti dei cieli. Considero anche le speculazioni ioniche sulla natura atomistica del mondo come una modellizzazione ipotetica. La differenza è che la modellizzazione astronomica era controllata per il tramite dell’osservazione, mentre l’atomismo consisteva inizialmente nella spe-

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culazione non controllata da parte di filosofi della natura particolarmente immaginativi. Crombie ha caratterizzato il suo secondo stile come «misurazione sperimentale ed esplorazione di relazioni osservabili più complesse». Mentre solo poche civiltà hanno sviluppato gran parte di ciò che ritengo degno del nome di “matematica”, credo che tutti i popoli si siano dedicati in varie attività degne di essere definite sperimentazione ed esplorazione. Ciò vale non solo per gli uomini ma anche per gli animali e gli uccelli. Fino a poco tempo fa si credeva che gli uccelli avessero dei “cervelli di gallina”, ma ci si è poi resi conto che i corvi, per esempio, sono piuttosto intelligenti, forse al livello delle scimmie antropomorfe più simili a noi. Dubito, comunque, che qualcuna delle attività degli uccelli sia degna del nome di misurazione; forse questa è una caratteristica esclusiva della nostra specie, propria, cioè, degli esseri umani. E, in effetti, molte civiltà umane si sono cimentate con la misurazione. All’inizio molti popoli sembrano aver usato parti del corpo umano come standard per strumenti trasportabili di misurazione, per esempio il piede reale, il braccio del prete dal gomito alla punta delle dita, oppure la lunghezza di un pollice umano esemplare. Non sono incline a vedere alcuna cristallizzazione separata, alcuna scoperta di un nuovo potenziale umano, nel lungo sviluppo della curiosità umana, dell’esperimento, dell’esplorazione o della misurazione.

5. Misurazione Potrei comunque sbagliarmi a questo proposito. Forse c’è stata una cristallizzazione distinta, relativa alla misurazione, la seconda delle attività comprese nel secondo degli stili di pensiero scientifico di Crombie. Tale cristallizzazione consisterebbe nella realizzazione di unità trasportabili. Tuttavia, visto che le unità originarie, i piedi e i pollici umani, erano già decisamente trasportabili, quello in favore di unità trasportabili standard poteva essere solo un passaggio graduale e non una rottura netta in favore di unità trasportabili. In ogni caso, uno dei principali utilizzi della misurazione è la progettazione di edifici abitativi, devozionali o protettivi. La misurazione si rende necessaria nel momento in cui s’iniziano a costruire dimore per le famiglie, per i sacer-

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doti, per tenere lontano i nemici oppure per la vita dopo la morte. Si potrebbe quindi ragionevolmente ritenere che il primo vero bisogno di misurazione provenisse dai costruttori2. La proprietà della trasportabilità è scarsamente sottolineata nelle discussioni filosofiche sulla misurazione. Tuttavia, essa è l’essenza stessa della misurazione, essenza che continua ad essere alimentata grazie al lavoro dei moderni enti nazionali per la standardizzazione. Il metrocampione di Parigi è un tranello e un’illusione per i filosofi. Ciò che vogliamo è un metro campione dal quale trasportare altri metri sperimentali per un confronto. Pensiamo al volt come all’unità di misura del potenziale elettrico, ma chi si occupa dei campioni deve costruire un apparato che fornisca un volt trasportabile, vale a dire un’unità standard di potenziale elettrico che possa essere portata in un laboratorio o in un impianto elettrico qualsiasi all’interno di un paese3. L’intuizione di Einstein che il tempo non possa essere trasportato è una delle più grandi rivoluzioni scientifiche. Tutti indossiamo orologi e pensiamo che quella che ci portiamo appresso sia una frazione di tempo trasportabile. Ma basta accelerare gli orologi ed ecco che abbiamo la teoria della relatività ristretta. L’orologio atomico è interessante non per la sua precisione, ma perché si basa su fenomeni che, secondo le nostre previsioni, pervadono l’universo e non hanno quindi bisogno di esser trasportati.

6. Il metodo ipotetico-deduttivo Il terzo stile di Crombie è «la costruzione ipotetica di modelli analogici». Anche questo è uno stile facilmente riconoscibile, sul quale sono propenso a dire cose simili a quelle dette per l’esperimento e per l’esplorazione. L’analogia è la vera guida della vita4. La nostra risorsa principale sono le congetture. “Ipotesi” è solo una parola sofisticata per “tirare a indovinare in modo riflessivo”, un’attività che fa parte della natura umana. Popper si è spinto oltre e ha sostenuto che anche un’ameba è capace di fare più o meno lo stesso. Tutte le società umane incoraggiano il fare congetture e analogie e da lì sembra breve il passo verso la possibilità di fare modelli più elaborati dell’ambiente usando proprio quelle analogie e quelle congetture. Per dirla in breve non ve-

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do alcuna rottura precoce evidente, nessuna cristallizzazione indipendente in quest’aspetto della nostra natura animale. Sembra che Crombie, delineando il suo terzo stile, descriva qualcosa di molto familiare per i logici della scienza, vale a dire il ragionamento ipotetico-deduttivo. I manuali di filosofia della scienza del XX secolo, specialmente quelli d’inclinazione positivista o empirista, presentavano il metodo ipotetico-deduttivo come il nucleo stesso del ragionamento scientifico. Si fa un’ipotesi o una congettura I, che può contenere riferimenti a entità teoriche non osservabili. Si deducono conseguenze osservabili, spesso nella forma di una proposizione condizionale: se si danno le circostanze C, allora si ottiene il risultato R. Si può concepire un esperimento tale da produrre le condizioni C e osservare se si ottiene R o meno. Se R si ottiene l’ipotesi è confermata (Carnap) o corroborata (Popper). A mio avviso questo modo di vedere le cose trascura gli aspetti più interessanti del lavoro sperimentale, sul quale ritornerò tra un momento. Ha comunque il grande merito di essere logicamente trasparente. La forma logica si applica facilmente nelle circostanze più banali, quando non entrano in gioco entità teoretiche o inosservabili. Per esempio: sento un rumore ogni sera, dietro i muri della mia stanza. Faccio l’ipotesi che dei topi vivano lì. Lascio del formaggio fuori e deduco che, se ci sono topi nel muro, il formaggio l’indomani sarà sparito. Il formaggio sparisce, tutto tranne qualche briciola. Concludo che i topi ci sono davvero. La verifica conclusiva la ottengo quando monto una trappola e catturo un topo morto osservabile. L’inferenza, come tutte le inferenze non-deduttive valide, potrebbe essere sbagliata. Lo stesso esatto rumore continua dopo aver ucciso qualche topo. Oh no, ho degli uccelli che nidificano nel muro… Il ragionamento ipotetico-deduttivo, così come appena illustrato, non è certo la scoperta di una comunità di pensatori greci, cinesi o di qualsiasi altro paese. Immagino che gli esseri umani abbiano usato questo metodo di ragionamento sin dal momento in cui sono stati in grado di parlare e verosimilmente esso è utilizzato anche dagli animali. Esso consiste in ciò che Charles Sanders Peirce, il grande pragmatista americano, chiamava “abduzione” e autori più recenti hanno chiamato “inferenza alla migliore spiegazione” [inference to the best explanation]. Come anticipato nella prima lezione, Peirce pensava che la logica avesse tre parti, deduttiva, induttiva e abduttiva. Quest’affermazione è

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d’importanza fondamentale, essa non appartiene originariamente a Peirce, ma è stata compresa più chiaramente ed espressa in maniera più concisa da lui che da ogni altro suo predecessore. Come già detto, non considero nessuna di queste tre parti della logica come stili di ragionamento; le ritengo universalmente praticate dagli esseri umani, anche se la loro codifica in sistemi di logica è relativamente recente. Le considero parte della nostra eredità evolutiva e non come scoperte culturali dell’Europa della prima modernità, né della Cina o dell’Egitto antichi. La logica, nel senso della triade di Peirce, è un universale umano, e ciò che è universale ha tre aspetti, deduttivo, induttivo e abduttivo.

7. Ragionamento architettonico Ho accennato nella prima lezione a una certa tensione tra la prima (1978) e l’ultima (1994) esposizione della dottrina degli stili di Crombie. All’inizio il focus era sul suo campo di specializzazione, le scienze dell’Europa della prima modernità, cioè dal Basso Medioevo (XII secolo) al Rinascimento. Successivamente, egli si è soffermato di più sugli aspetti di continuità, e ha teso a ricondurre tutto al mondo dei Greci, dominato dall’argomentazione. Crombie indica un evento che considera come relativamente graduale, e che io invece, usando termini diversi e organizzando il discorso in maniera piuttosto differente dalla sua, presenterò come una cristallizzazione. Crombie compie quest’operazione a pagina 1087 (!) del secondo volume del suo libro. Lì egli esprime la sua opinione su ciò che è successo in una sola frase: Il particolare ambiente intellettuale e artistico dell’Europa della prima modernità ha contribuito a rendere il terzo stile, il metodo di modellizzazione ipotetica, una caratteristica ed efficace combinazione scientifica di esplorazione teorica ed esplorazione sperimentale.

Che ne fosse pienamente consapevole o meno, Crombie qui si riferisce alla combinazione dei metodi di due stili diversi. Cercherò di farlo rimanere fedele alla sua concezione originaria di stili distinti. Purtroppo non potrò dire molto sull’aspetto artistico, al quale Crombie attri-

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buisce giustamente molta importanza. Non dobbiamo dimenticare che una parte importante di questa sequenza locale, contingente, storica di eventi risiede negli sviluppi dell’architettura e nell’introduzione di tecniche specifiche di rappresentazione prospettica messe a punto in Italia e nelle Fiandre. Ciò è anche connesso con una visione teleologico-cristiana del mondo. Dio è l’architetto divino, e l’Uomo, nel suo tentativo di comprendere il mondo, non può far altro che cercar di capire come Dio lo ha fatto. Leibniz chiamava la modellizzazione teorica ragionamento architettonico: per capire come funziona il mondo è necessario riflettere sulla maniera in cui il creatore, l’architetto del mondo, ha conseguito i suoi risultati. Il frontespizio dei tre volumi di Crombie è indicativo a questo proposito. Mostra un disegno di “Dio il misuratore”, non semplicemente Dio nell’atto di misurare, ma Dio come architetto dell’universo. L’illustrazione è tratta da una Bibbia francese del XIII secolo e rappresenta il primo versetto del Vecchio Testamento, «In principio Dio creò il cielo e la terra». Dio sovrasta un universo di forma sferica tenendo in mano lo strumento per eccellenza dell’architetto, un compasso, uno strumento per disegnare cerchi e misurare o trasferire distanze. Tutto ciò ci rammenta la connessione tra la modellizzazione ipotetica e i modelli architettonici, e quindi con la misurazione. Come si vede, la distinzione tracciata da Crombie tra il primo e il terzo dei suoi stili si dissolve curiosamente e ciò è già indicato dalla singola frase che ho appena citato. Ciò significa forse che il suo catalogo di sei stili distinti è fasullo? Non penso. Credo che due cristallizzazioni riportino i sei sacri stili nei loro giusti rapporti. La cristallizzazione più importante del secondo stile – quella che ha cambiato il mondo – è ciò che chiamo lo “stile laboratoriale di pensiero e azione”, il cui emergere presento in questa lezione. La cristallizzazione del terzo stile è ciò che chiamerò “stile galileiano”.

8. Lo stile galileiano (II) È una specie di luogo comune nelle semplicistiche storie della scienza della prima modernità, il ritenere che, all’incirca all’epoca di Galileo,

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il metodo dell’analogia e della modellizzazione ipotetica abbia subito una sofisticazione notevole, una vera e propria mutazione. Il nome “stile galileiano” non me lo sono inventato. Steven Weinberg, il cosmologo vincitore del Premio Nobel, si è ricordato che Husserl aveva parlato di uno stile galileiano nel «fare modelli astratti dell’universo ai quali almeno i fisici attribuiscono un grado di realtà superiore rispetto al mondo ordinario della sensazione». Weinberg ha trovato quest’idea sorprendente «perché l’universo non sembra esser stato preparato avendo in mente gli esseri umani». Non mi soffermerò su quest’osservazione relativa all’universo e alla mente umana. Essa indica effettivamente un problema assillante. Perché siamo così bravi a modellizzare i complessi processi della natura? Tempo fa ho proposto un argomento un po’ incauto al riguardo, ovvero che abbiamo sviluppato processi di ragionamento che sono “autogiustificanti”5. Ciò significa che la mente umana affronta la complessità dell’universo in una maniera tale che le risposte che ottiene definiscono ciò che è vero a proposito dell’universo. Quindi l’universo non deve necessariamente esser stato concepito avendo noi in mente perché noi potessimo decifrarlo. Dirò qualcosa a proposito di questi problemi nella quarta lezione, su “Realismo e anti-realismo”. Come detto, credo che la mia proposta fosse per certi versi illuminante, sebbene decisamente forzata. Una proposta molto più radicale fu avanzata da Charles Sanders Peirce. È una di quelle proposte che pochi filosofi prendono sul serio. A volte penso di essere il solo a farlo! Egli l’ha battezzata col nome piuttosto sinistro di «amore evolutivo». L’idea suggerita da Peirce è che la mente e l’universo si siano evoluti in maniera armonica: la mente umana si sarebbe assestata su determinate strutture preesistenti in un universo stabile, tramite processi analoghi a quelli per cui l’universo stesso si è assestato su leggi stabili. La mente risuonerebbe quindi per questo motivo con l’universo. Prendo quest’idea sul serio, ma non ci credo. Per tornare dalla metafisica alla cosmologia, il grammatico Noam Chomsky ha ripreso l’osservazione di Steven Weinberg, insistendo sul fatto che «attualmente non abbiamo alternativa se non seguire lo “stile galileiano”, almeno nelle scienze naturali». Ciò è necessario, in particolare, per sviluppare la teoria della grammatica universale, almeno nell’opinione di Chomsky. Lo storico I.B. Cohen ha proseguito su que-

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sta strada, confrontando lo stile galileiano, con riferimento a Husserl, con ciò che egli ha chiamato lo «stile di Newton»6. Nella Crisi, completata verso il 1936, Husserl disse molte cose su Galileo e molte anche sulla nozione di stile. (Come notato nella prima lezione, Stil era una parola in voga nel mondo di lingua tedesca negli anni Trenta). Ma non riesco a trovare il punto esatto in cui Husserl usi l’espressione “stile galileiano”. Quando l’espressione è entrata in uso Cohen, Chomsky e Weinberg lavoravano tutti nello stesso ambito e le loro strade s’incrociavano abbastanza spesso, anche senza che essi lo notassero. Nonostante i riferimenti a Husserl, questo senso specifico dell’espressione sembra esser stato ideato a Harvard verso la fine degli anni Settanta, anziché da Husserl nel 1936. Nonostante Husserl non abbia usato l’espressione esattamente in questo modo, la sua lunga discussione di Galileo nella Crisi va dritta al punto della questione, meglio di quanto non lo facciano gli autori di Harvard. Husserl ha posto l’accento sull’uso di modelli matematici per comprendere l’universo, nella sua parte celeste e, soprattutto, in quella terrestre: a ciò seguì l’ipotesi rivoluzionaria sull’unicità del mondo e sul fatto che i cieli e la terra funzionino secondo la stessa meccanica, descrivibile in termini matematici. Husserl riteneva questo un momento fondamentale nella storia della civiltà europea: la matematizzazione del (unico) mondo. Egli ebbe l’idea che solo risalendo a quel momento storico gli europei sarebbero potuti scampare al disastro che stava per abbattersi su di loro. Non condivido quest’idea, ma ciò ci ricorda quanto seriamente essa fosse presa da Husserl. Ritornando all’enfasi di Crombie sulla teologia, la creazione e l’architettura, non si deve dimenticare che Galileo insisteva sul fatto che Dio avesse scritto il Libro della Natura nel linguaggio della matematica. Galileo si considerava alle prese con ciò che Leibniz avrebbe poi chiamato «ragionamento architettonico». Il fatto che Weinberg e Chomsky abbiano invocato lo stile galileiano è istruttivo. Essi non sono semplicemente dei grandi scienziati. Sono scienziati in campi totalmente differenti, che hanno però qualcosa in comune. Esagerando, nessuno dei due ha la possibilità di maneggiare i fenomeni in esame, possono solo osservarli. In questo senso sono come gli astronomi dei tempi antichi. Uno dei due è un cosmologo, l’altro un grammatico. Tradizionalmente, tutto ciò che si può fare in co-

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smologia è proporre modelli: non si possono fare esperimenti sul cosmo. Weinberg è l’autore di un libro fantastico, The First Three Minutes – sono i primi tre minuti dell’universo e non possiamo fare esperimenti su di essi, sebbene i nostri modelli cosmologici siano costruiti sulla base di innumerevoli risultati sperimentali. Ciò nonostante, per esagerare fino alla parodia, in cosmologia tutto ciò che si può fare è sviluppare modelli e confrontare tra loro le conseguenze dei modelli tramite osservazioni. Allo stesso modo, in grammatica, non è possibile sperimentare (esagero di nuovo), si possono solo confrontare tra loro le previsioni scaturite dai nostri modelli grammaticali osservando ciò che la gente dice o intende dire. La cosmologia e la grammatica sono insomma paradigmi di scienze ipotetiche non laboratoriali. Sono paradigmi perfetti per lo stile (3) di Crombie, nella sua forma più pura. I.B. Cohen, lo storico, ha fatto un’osservazione più precisa, che si sposa bene con l’idea di Crombie di una combinazione di metodi di ragionamento avvenuta nel XVII secolo. Cohen parla di «due livelli ontologici», uno proprio della matematica, l’altro della misurazione. Si ricordi che lo stile (2) di Crombie consiste (in parte) nel metodo della misurazione. Il suo stile (3) è, non solo il metodo della modellizzazione, ma anche, con Galileo, il metodo della modellizzazione matematica, come sottolineato da Husserl. Non m’interessa molto, al momento, se sia più giusto parlare, come fa Cohen, di una combinazione tra due livelli ontologici, o, come Crombie, di una combinazione dei metodi di due stili di pensiero scientifico. Il punto importante è la combinazione. Ma non è semplicemente una questione di combinare la misurazione con la modellizzazione. Ciò che noi ora chiamiamo comunemente “il metodo scientifico” è il risultato di una combinazione dello stile galileiano con lo stile di laboratorio. Vale a dire, la combinazione tra la cristallizzazione del terzo stile e la cristallizzazione del secondo. E in che cosa consiste? Nella modellizzazione e nella creazione di fenomeni in laboratorio. Prima di passare a questo, dovremmo tentare la formulazione del nostro schema (*) per lo stile galileiano. C’è stato, ritengo (*) un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità a proposito della natura; (**) questo cambiamento significativo è avvenuto all’inizio del XVII secolo e il suo emblema è Galileo.

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9. Una nuova «Forma di Vita» Nella seconda lezione, sulla matematica, ho citato un saggio ancora inedito di Bruno Latour, nel quale egli discute un libro di Reviel Netz sulla matematica antica. Latour dice che, questo è, senza dubbio, il libro più importante apparso nei science studies dalla pubblicazione de Il Leviatano e la pompa ad aria di Shapin e Schaffer.

Quest’ultimo è, in effetti, un libro molto noto nei science studies, pubblicato più di venti anni fa, il cui sottotitolo è Hobbes, Boyle and the Experimental Life7. Ho detto nella seconda lezione di essere completamente d’accordo con Latour su quali siano i due libri più importanti pubblicati in quest’ambito negli ultimi ventun anni – tuttavia lo sono per ragioni completamente opposte rispetto alle sue. Ho spiegato ciò in connessione con la matematica. In questa lezione risulterà chiaro perché anch’io ammiri così tanto questo lavoro sulla sperimentazione, sebbene lo usi per fini completamente diversi da quelli di Latour. Ci si può fare un’idea delle ragioni dell’interesse di Latour per il libro dal sottotitolo della sua traduzione in francese, che egli ha reso possibile attraverso il suo stesso editore. Non è più sottotitolato Hobbes, Boyle and the Experimental Life. Il sottotitolo è diventato Hobbes et Boyle entre science et politique8. Non c’è niente di sbagliato in questo, ma di fatto questa scelta riorienta l’attenzione. Il sottotitolo inglese suggerisce per di più uno dei temi centrali nel libro. Shapin e Schaffer fanno un uso massiccio del concetto wittgensteiniano di «forme di vita». Il loro intento è quello di mostrarci come e quando è apparsa la forma di vita sperimentale. Essi ci insegnano che il programma sperimentale di Boyle era, nei termini di Wittgenstein, un nuovo «gioco linguistico» e una nuova «forma di vita». Essi dicono che faremo un uso ampio ma informale delle nozioni wittgensteiniane di un «gioco linguistico» e di una «forma di vita». Intendiamo accostarci al metodo scientifico in quanto integrato entro modelli d’attività. Proprio come per Wittgenstein «la parola “giuoco linguistico” è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività,

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o di una forma di vita», così noi tratteremo le controversie intorno al metodo scientifico come dispute su modelli diversi dell’agire e dell’organizzare le persone a fini pratici (p. 18) Il programma sperimentale era – per usare espressioni di Wittgenstein – un «gioco linguistico» e una «forma di vita» (p. 28)

Sono un lettore di Wittgenstein troppo prudente per seguire i nostri due autori nel loro uso delle sue parole, ma la loro è una direzione degna di essere presa in considerazione. Per «programma sperimentale» essi intendono qualcosa di più che il laboratorio di Boyle a Oxford; essi si riferiscono al programma di sperimentazione sviluppato in Europa nel XVII secolo. L’esplorazione sperimentale, intesa in senso ampio, si è sviluppata in tutto il mondo, in società diverse e in momenti diversi. Se dovessi adattare le parole di Wittgenstein ai miei scopi, suggerirei che la cristallizzazione dello stile laboratoriale di pensiero scientifico ha reso possibile un nuovo gioco linguistico all’interno di una nuova forma di vita. Con lo sviluppo di questo stile, altri “giochi linguistici” sono entrati in circolazione. Ci sono studi eccellenti su quel genere, all’epoca in piena evoluzione, costituito dalla pubblicazione di testi in riviste scientifiche o in luoghi simili9. Internet ha cambiato nuovamente tutto. La pre-pubblicazione online è ormai la norma e anche le riviste più autorevoli pre-pubblicano gli articoli, a volte mesi prima che appaiano in forma cartacea. Dubito che Wittgenstein li avrebbe chiamati “giochi linguistici”, ma la sua espressione è ora a disposizione di tutti. Il problema è che è un’espressione talmente potente da dare l’illusione di una comprensione profonda di ciò di cui stiamo parlando. Alcuni, come Schaffer e Shapin, usano l’espressione in modo preciso. Molti altri no. Preferisco lasciarla al Wittgenstein storico. Analogamente, si potrebbe dire che le “forme di vita” in cui lo stile di laboratorio è praticato siano cambiate. Potremmo avere la tendenza a enfatizzare troppo i laboratori di ricerca. Il laboratorio in realtà è stato, a partire dal XVIII secolo, un ramo del commercio e dell’industria. Esso ha reso possibili cambiamenti geopolitici anche radicali: si pensi allo sviluppo della chimica tedesca, nel XIX secolo, grazie alla capacità di padroneggiare i coloranti sintetici. Se non fosse stato per la

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malvagità della politica, tale capacità, unita ai progressi nella lavorazione dell’acciaio e delle munizioni, avrebbe potuto dare alla Germania un ruolo ancora più centrale nella storia mondiale di quanto non abbia avuto. Anche i laboratori di ricerca hanno subito enormi cambiamenti. Si è scritto molto sulla big science10 incarnata dal Progetto Manhattan e sulle sue conseguenze per l’amministrazione della scienza americana. In tempi più recenti la biotecnologia ha cambiato totalmente il panorama scientifico e le forme di vita al suo interno. Ritornerò molto brevemente su questo punto alla fine di questa lezione. Adesso riprendo il tema della pompa ad aria da dove l’avevo lasciato.

10. Un nuovo attore: non una persona, ma un dispositivo sperimentale Bruno Latour ha scritto un importante saggio su Il Leviatano e la pompa ad aria, che fa da prolegomeno al suo We Have Never Been Modern, che sarebbe uscito poco dopo11. Anch’io ho scritto una recensione del libro l’anno seguente, mostrando di averne tratto una lezione molto diversa dalla sua12. Vorrei sottolineare ancora una volta che ciò che ho imparato dai due contributi più importanti nel campo dei science studies negli ultimi ventun anni non è incompatibile con ciò che ha appreso Latour. Tutt’altro. Sono gli accenti rispettivi ad essere profondamente diversi. È il segno della grandezza di un autore il fatto che lettori diversi possano imparare cose diverse dalle stesse parole. Nella mia recensione, scritta quasi due decadi fa, mi dicevo assolutamente esterrefatto da ciò che avevo appreso dal libro di Shapin e Schaffer. Parlerò così tanto del loro libro in questa lezione che mi riferirò a loro come a S&S. Li ho ammirati perché il loro libro era qualcosa di veramente nuovo; come dissi allora, essi mettevano in luce «un nuovo tipo di personaggio, un nuovo tipo di luogo, un nuovo tipo di scrittura, un nuovo tipo di fatto e un dibattito la cui conclusione fu rivoluzionaria». Il nuovo protagonista non è una persona ma un dispositivo sperimentale. Esistevano già tantissimi strumenti per misurare o esaminare i fenomeni più nel dettaglio. L’eroe di questo libro è qualcosa di diverso, uno

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strumento che crea effetti che non esistevano precedentemente in maniera isolata. Esso ha inaugurato la scienza di laboratorio. Prima della pompa ad aria ci si limitava a spiegare i fenomeni fornitici dalla natura, tipicamente quelli celesti. Dopo, un nuovo tipo di scienza doveva rispondere a un nuovo padrone, i fenomeni fugaci opera di artificio. Il nuovo luogo discusso in questo libro si è sviluppato fino a diventare il laboratorio che anche noi conosciamo, il sito per la manifattura dei fenomeni – o, se questo suona troppo paradossale, per la loro purificazione. Il laboratorio era uno spazio aperto e chiuso allo stesso tempo. Doveva essere pubblico, perché, secondo la dottrina che vi si andava sviluppando attorno, ogni lavoro svolto nel laboratorio doveva poter essere eseguito da chiunque fosse dotato di adeguate capacità e controllato da chiunque fosse un buon osservatore. Doveva essere privato, perché solo un gruppo autoselezionato di persone poteva sapere cosa vi si facesse, come far funzionare il tutto, o anche solamente stabilire se la strumentazione stesse funzionando o meno. Il laboratorio nascente portava anche con sé un determinato modo di scrivere prosa scientifica, prosa che doveva supplire la testimonianza diretta. Doveva darti l’impressione di esser stato davvero lì. L’effetto si raggiungeva non aggiungendo tratti contingenti, ma eliminandoli. Il nuovo modo di scrivere era persuasivo perché era presentato in un modo semplice e disadorno, come se fosse la descrizione esatta di ciò che chiunque avrebbe potuto vedere, senza interpretazione. Parlava di dati di fatto facendoci pensare che essi fossero qualcosa di normale, al di là di ogni controversia. Questo libro è in parte dedicato al modo in cui si stabilì ciò che conta come “dato di fatto”. I dati di fatto fanno parte del gioco – della forma di vita sperimentale.

Ero predisposto a leggere S&S in questo modo perché nel 1983 avevo pubblicato il mio libro Representing and Intervening. La seconda parte del libro, Intervening, era un appello ai filosofi perché prendessero gli esperimenti seriamente. La filosofia delle scienze, specialmente delle scienze fisiche, era stata per decenni totalmente dominata dalla teoria. Basti pensare a Carnap, Popper, Kuhn o van Fraassen. L’esperimento era una mera appendice della teoria. Popper affermava apertamente ciò che tutti in quest’ambito tendevano a dare per scontato, e cioè che lo sperimentatore non potesse neanche iniziare il proprio lavoro finché il teorico non avesse compiuto il suo. Gli esperimenti ser-

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vivano a verificare, corroborare o articolare le teorie, oppure a mostrare che esse erano empiricamente accettabili. Pensavo di pormi alla testa di un “movimento di ritorno a Francis Bacon”, ignorando che tale movimento fosse in realtà già ben avviato. Latour e Woolgar avevano già pubblicato la loro etnografia del laboratorio e Shapin e Schaffer stavano completando Il Leviatano e la pompa ad aria. Di lì a poco Peter Galison avrebbe pubblicato How Experiments End13.

11. Un luogo nuovo: il laboratorio Le parole sono spesso utili indicatori di eventi. Nella storia europea, la parola “laboratorio” è entrata a far parte delle maggiori lingue di quel continente poco dopo il 1600, probabilmente nel 1605 in inglese e nel 1620 in francese. Il laboratorio è innanzitutto un luogo, una struttura architettonica. Per citare la prima definizione dell’Oxford English Dictionary, che organizza le sue definizioni in modo cronologico, esso è un «edificio a parte, per condurre ricerche pratiche di scienza naturale, originariamente e specialmente in chimica e per l’elaborazione o la manifattura di prodotti chimici, medici o simili». Il dizionario francese corrispondente, Le Trésor de la langue française, riporta: «Locali attrezzati con le installazioni e le strumentazioni necessarie per la manipolazione e l’esperimento, effettuati nel quadro della ricerca scientifica o per l’analisi delle medicine o dei materiali, per test tecnici o per la formazione scientifica e tecnica». S&S osservano, tra l’altro, il rapido aumento nel numero di luoghi identificati come laboratori, a Londra, poco dopo il 1600. Ciò indica che una nuova parola era ormai entrata nell’uso, ma anche che un nuovo tipo di luogo stava emergendo. Questo fenomeno era una conseguenza della ricerca alchemica. S&S sottolineano le differenze tra i laboratori e i gabinetti alchemici. Il nuovo laboratorio dev’essere un luogo pubblico (p. 61). Non è un gabinetto all’interno del quale gli uomini esplorano i segreti della natura e tengono le loro scoperte nascoste. Tuttavia, come rilevato da S&S, questi nuovi luoghi non erano aperti a qualsiasi tipo di pubblico, ma solo a un’élite i cui componenti iniziarono a identificarsi come i membri delle nuove società scientifiche, come i loro collaboratori, gli impiegati e gli aspiranti che speravano di entrare nelle loro fila.

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Mi piacciono alcune delle parole della definizione francese di laboratorio appena citata. Un laboratorio è un luogo attrezzato con installazioni e strumentazioni necessarie alla manipolazione. La parte del mio libro dedicato alla scienza sperimentale si chiama Intervening, e l’intervento è molto simile alla manipolazione. Come ho sottolineato in particolare nel capitolo 13, il laboratorio è anche un luogo per la «creazione di fenomeni», che avviene grazie alla strumentazione costruita espressamente con questo proposito. Ciò è esattamente quello che fece Robert Boyle con la sua pompa ad aria. Egli creò un fenomeno che non era quasi mai esistito in una forma efficacemente riproducibile prima d’allora, cioè il vuoto all’interno di un recipiente. Il suo non fu il primo vuoto di questo tipo. Torricelli aveva avanzato l’ipotesi secondo la quale, se si porta una colonna di liquido in un recipiente di vetro su di una montagna e si osserva il livello del liquido che si abbassa, ciò che stiamo guardando è il vuoto, vale a dire uno spazio vuoto al di sopra del liquido. Poi vennero i famosi emisferi di Magdeburgo14. È abbastanza sorprendente la quantità di sforzi e di denaro che l’Europa della prima modernità fu disposta a investire per creare il vuoto, che non aveva alcun valore pratico. Boyle ci investì il suo patrimonio personale e il governo britannico la considerò una tra le principali attività di ricerca, finanziandola generosamente. Anche altri strumenti furono finanziati senza riserve, per esempio il cronometro, ma ciò era a causa di una diretta rilevanza commerciale. Il cronometro avrebbe permesso alle navi inglesi di navigare, e quindi di poter sfruttare il globo, in maniera più affidabile. Esse avrebbero potuto raggiungere luoghi distanti e ritornare col bottino da quelle regioni che erano viste come l’Ovest, il Sud e l’Estremo Oriente. La prosperità e lo sviluppo industriale dell’Europa moderna dipendevano dal commercio, quindi da un impero coloniale e di conseguenza anche dal cronometro, per il calcolo delle latitudini. Resta tuttavia difficile comprendere il motivo, a livello pratico, di un ingente dispendio di ricchezza nazionale per la realizzazione di un vuoto di qualità migliore.

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12. La creazione di fenomeni Quando ho parlato della creazione di fenomeni mi sono reso conto che questa sarebbe potuta sembrare una grossolana esagerazione. Ho sostenuto che siamo in grado di far iniziare a esistere fenomeni che non esistevano in precedenza in nessuna parte dell’universo. Ma ho dovuto riconsiderare la cosa e concedere che sarebbe meglio dire che purifichiamo o che realizziamo dei fenomeni. Ho detto che il laser era un nuovo tipo di fenomeno che semplicemente non esisteva prima del 1950 in nessuna parte nell’universo. Molti fisici hanno protestato, ma penso ci sia una consapevolezza crescente del fatto che questo modo di guardare le cose abbia un senso. Su quello che è l’oggetto attuale del mio interesse, gli atomi a bassissime temperature e il condensato di Bose-Einstein, oggi si possono leggere frasi di questo tenore: «Questo stato della materia non sarebbe potuto esistere naturalmente nell’universo. Il campione nel nostro laboratorio è quindi l’unico frammento di questa sostanza nell’universo, a meno che non ci sia un laboratorio in qualche altro sistema solare». È ciò che si legge in un comunicato stampa rilasciato dal primo laboratorio che ha prodotto questo nuovo stato della materia, il condensato di Bose-Einstein, nel luglio 199515. Definire «un nuovo frammento di materia» un fenomeno che esiste per così breve tempo e in condizioni straordinariamente artificiali sembra anche a me un’esagerazione. Ma è senz’altro un nuovo fenomeno. Nel giro di un anno un altro laboratorio ha prodotto lo stesso stato della materia e adesso, dodici anni dopo il primo evento, molti laboratori sono in grado di farlo, come ad esempio il laboratorio del professor Yu alla National Tsing Hua University, o quello del professor Han alla National Chung Cheng University. Gli atomi a bassissime temperature possono sembrare molto distanti da Robert Boyle e dalla sua pompa ad aria per creare il vuoto. Io li vedo invece come una conferma, come uno degli attuali e innumerevoli punti di arrivo dello stesso stile di laboratorio. I vecchi alchimisti sognavano di trasmutare i metalli base in oro. Essi fecero numerose scoperte empiriche nel corso dei loro vani tentativi sperimentali. Boyle ha mutato il sogno della trasmutazione nella creazione di nuovi fenomeni. Oggi possiamo dire di aver realizzato il sogno degli alchimisti. Nel

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1995 siamo stati capaci di trasmutare una sostanza, in questo caso il rubidio, in un nuovo stato della materia, il condensato di Bose-Einstein; non un gas, non un liquido, non un solido, ma qualcosa di nuovo nella storia dell’universo.

13. Quello che Thomas Hobbes vide chiaramente A volte è il primo passo quello che conta. Boyle è l’emblematico rappresentante di quel primo passo. Molti altri sperimentatori, anche se non moltissimi, stavano facendo la stessa cosa all’incirca nello stesso momento, in differenti parti d’Europa. Scelgo Boyle per due ragioni. Una è totalmente casuale, vale a dire il fatto che S&S abbiano scritto quel libro. L’altra non lo è. Un uomo, e un uomo soltanto, capì ciò che Boyle stava facendo e si oppose con veemenza. Quell’uomo era un vecchio burbero, il filosofo Thomas Hobbes. Visto ciò che ho detto a proposito di Stillman Drake e di Galileo come costruttore di apparati strumentali nel secondo capitolo, si può, se si preferisce, usare Galileo come icona, non solo per lo stile galileiano, ma anche per quello di laboratorio. Galileo si dovette confrontare col cardinale Bellarmino, il quale non ci ha lasciato però niente su cui poter riflettere in quest’occasione. Boyle ha avuto Hobbes. S&S mostrano come il lavoro di Boyle fosse contestato fin da subito, sia sul piano scientifico sia su quello filosofico. L’avversario, in questo dibattito, era l’altro uomo del sottotitolo del libro, Hobbes, Boyle and the Experimental Life. Hobbes era il vecchio filosofo, ideatore della teoria europea dello Stato. Il libro di Hobbes che inaugurò la scienza politica moderna, Il Leviatano, ha fornito parte del titolo del libro di S&S sulla pompa ad aria. Latour, come tutte le persone ragionevoli, vede in Hobbes l’autore del Leviatano e, come tale, il rappresentante di una nuova epoca, di un nuovo tipo di società politica. In Canada, così come in gran parte del mondo di lingua inglese, ogni matricola del corso di scienze politiche deve provare a leggere Hobbes, che non è affatto semplice per via del linguaggio, che oggi sembra arcaico o inintelligibile a ragazzi cresciuti con la televisione. Latour legge brillantemente S&S come due autori che mettono in luce il modo in cui la cosiddetta modernità ebbe inizio, con una divisione tra il sociale e il na-

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turale, con un insieme di competenze e di possibilità d’intervento pertinente al primo campo, e un altro insieme (piuttosto differente) pertinente al secondo. Da lì il sottotitolo del libro nell’edizione francese: Tra scienza (Boyle) e politica (Hobbes). Latour rigetta quella divisione in favore di ciò che egli chiama la «Cosmopolitica» e si batte per un «parlamento delle Cose». Io ho in mente un progetto molto più modesto e faccio un uso molto più modesto di Hobbes. Nel 1660 Boyle aveva 33 anni e Hobbes 72, che, casualmente, è anche la mia età. Se mi trovassi in disaccordo, su principi fondamentali, con un giovane brillante, talentuoso e ben documentato di 33 anni come potrei spuntarla? Sarei messo a tacere come un vecchio parruccone, e probabilmente a ragione. Boyle era il futuro. Uno dei contributi più importanti del libro di S&S è che in un’appendice Schaffer ha tradotto quello che prima era solamente un pamphlet latino ignoto ai più, scritto da Hobbes per attaccare Boyle. Hobbes aveva capito esattamente ciò che Boyle stava facendo e non poteva tollerarlo. Egli aveva previsto il fatto che la strumentazione di laboratorio per generare fenomeni sarebbe stata qualcosa di radicalmente nuovo. Ed era assolutamente contrario. Questa non era una diatriba sul peso relativo dell’evidenza empirica contro la dimostrazione deduttiva. La questione era più profonda e più significativa. Che cosa conta come evidenza? È ciò che troviamo tra noi, che portiamo a casa da posti lontani, tracciamo nei cieli, o è invece ciò che facciamo con le strumentazioni in laboratorio?16. Non ci sono già abbastanza fenomeni, chiede Hobbes, «nel cielo sublime e un mare e una terra tanto vasti?». Il suo interlocutore replica che: «Esistono alcuni effetti naturali decisivi, che noi conosciamo solamente grazie a principi generali e all’impegno attento; in qualcuno di questi, la – diciamo così – perizia tecnica della natura, ovvero la sua modalità operativa, si manifesta in modo più lampante che in centomila di questi fenomeni quotidiani» (p. 439). “Artificio”17 è esattamente la parola giusta. Boyle aveva inventato un apparato sperimentale, dispositivi artificiali, per ottenere il vuoto. L’importanza dei dispositivi meccanici nell’immaginazione scientifica dell’Europa della prima modernità è stata a lungo sottolineata. C’era un famoso orologio nella città di Strasburgo, nel quale uomini artificiali sfilavano in corteo annunciando le ore. Nella mia versione della storia, la pompa ad aria diede un nuo-

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vo scopo agli artifici, quello di creare nuovi fenomeni. Hobbes lo aveva capito, lo temeva e lo detestava. L’interlocutore esplicita uno dei fondamenti logici, quasi mai enunciato, della scienza di laboratorio. Era valido negli anni Sessanta del XVII secolo e lo è tuttora nel nostro decennio, 450 anni più tardi. «Tali sono appunto i nostri esperimenti: la scoperta della causa di uno soltanto di essi può essere applicata a una serie infinita di fenomeni comuni» (p. 439). Hobbes chiede cinicamente: quali sono questi fenomeni ordinari di numero infinito? Oggi aggiungeremo, alla maniera beffarda di Hobbes: «E dicci di più su come realizzi questo meraviglioso atto di adattare i tuoi magnifici nuovi fenomeni a una causa comune!». Nello stesso dialogo Hobbes previde anche l’autorità del laboratorio stesso. Il Gresham College, che divenne la Royal Society di Londra, la madre di tutte le accademie scientifiche moderne, si fregiava di garantire la possibilità di assistere alla dimostrazione dei fenomeni. Grazie a ciò, tutto era pubblico, così che non si potessero avere dubbi su quello che avveniva. Hobbes chiede malignamente: «Visto che costoro si riuniscono, mi pare, in un pubblico edificio, non può assistere alle sedute chiunque altro lo voglia, ed esprimere, come loro, il proprio parere sulle esperienze viste?». «Penso di no», vien fatto rispondere a Boyle (p. 438). Solo una ristretta élite aveva accesso a questi laboratori, collegi e società. I club chiusi non sono una novità. L’accusa di Hobbes verte sulla tensione tra la retorica della verifica pubblica e il fatto dell’appartenenza privata e attentamente controllata. Quest’aspetto è sviluppato a lungo da S&S, ed è diventato uno dei migliori contributi del loro libro ai social studies of knowledge. Esso è ulteriormente sviluppato da Steven Shapin nel suo importante libro, citato nella mia prima lezione, A Social History of Truth18. Shapin sostiene che sia stato il presupposto della reciproca fiducia e affidabilità all’interno di una ristretta élite della popolazione di Londra, ovvero la piccola nobiltà, ad aver reso possibile la scienza moderna. La sincerità era uno dei presupposti dell’impresa e richiedeva una configurazione sociale per esser messa in atto. È impressionante come l’attuale pratica di peer review per le riviste scientifiche abbia assorbito gran parte di quell’assunzione di sincerità in modo trasversale, in tutte le scienze, la matematica inclusa. Ora chiediamo ai nostri colleghi di effettuare del-

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le revisioni, mentre una volta ci affidavamo ai pari [peers], cioè ad aristocratici inglesi e nobili proprietari terrieri.

14. Il mutamento concettuale decisivo Come dovremmo completare gli schemi (*) e (**) di Williams per la cristallizzazione dello stile di esplorazione sperimentale e misurazione nello stile di laboratorio? Dato il mio punto di vista, incentrato sulla creazione di fenomeni, non si tratta primariamente di un mutamento nei modi di dire la verità, ma nei modi di scoprire qualcosa, modi che conducono a loro volta a un mutamento relativo alla concezione del dire la verità sul mondo. Il nuovo modo di scoprire consiste nel costruire un apparato sperimentale per creare un nuovo fenomeno e per esibire fenomeni purificati. C’è stato quindi (*) un mutamento nelle concezioni di che cosa significa scoprire cose sulla natura, e quindi di dire la verità su di essa; (**) questo cambiamento significativo è avvenuto nel XVII secolo e il suo migliore emblema è Boyle. Boyle è stato il pioniere del laboratorio, oggi continuiamo a fare ciò che faceva lui, ovvero costruire apparati strumentali per purificare o produrre nuovi fenomeni. A volte i fenomeni vengono creati per testare teorie esistenti, a volte essi precedono qualsivoglia comprensione teorica. Anche testare le teorie non è ciò che si crede abitualmente, lo scopo è piuttosto quello di ottenere una comprensione più accurata del fenomeno previsto. A volte ci sono ciò che in Representing and Intervening ho chiamato «famiglie felici», quando entrambi gli aspetti, teorico e sperimentale, lavorano mano nella mano – come accade comunemente oggi nella maggior parte dei casi. Ecco un esempio tratto dal mio interesse attuale. Le sostanze superconduttrici sono state prodotte per la prima volta nel laboratorio di Kamerlingh Onnes in Olanda, nel 1908. Esse hanno condotto alla superfluidità, prodotta da Kapica al laboratorio Cavendish di Cambridge, nel 1937. Nessuno ebbe una comprensione teoretica profonda di questi fenomeni fino al 1957, quando fu concepita la teoria di Bardeen, Sch-

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rieffer e Cooper. Al contrario, Einstein aveva avanzato l’idea di ciò che adesso si chiama la “condensazione di Bose-Einstein di un gas ideale” nel 1925. Nessuno è però riuscito a creare il fenomeno corrispondente fino al 1995. Inoltre, la condensazione di Bose non è stata creata per testare la teoria di Einstein, ma piuttosto come parte di un lungo programma di ricerca per capire come ciò potesse esser fatto. Il coronamento di questa ricerca è stata una conquista tecnica del laboratorio, vi sono stati impiegati apparati sperimentali talmente ingegnosi da valere un Premio Nobel. Ora qualsiasi gruppo di circa sei persone può ripetere l’esperimento, ricorrendo alle stesse attrezzature e alle stesse idee. A dire il vero nel laboratorio del professor Yu quasi tutta la creazione del condensato di Bose-Einstein della National Tsing Hua University è stata eseguita da un solo studente di dottorato, Hung-Wen Cho, il cui soprannome inglese è “Motore”. Questa è un’analogia interessante con il punto sottolineato da S&S: la pompa ad aria di Boyle costò una fortuna in termini di ricerca e sviluppo e dal punto di vista dell’impiego delle menti scientifiche più potenti dell’epoca. Tuttavia, nel giro di due decenni era possibile acquistarne un’imitazione di scarsa qualità in una bottega parigina all’incirca al prezzo relativo di un moderno computer portatile economico. Realizzare il condensato nel 1995 significò la vittoria del Nobel, che fu condiviso tra due laboratori. Ora un dottorando di prim’ordine, non importa dove nel mondo, con un supporto relativamente modesto, può fare la stessa cosa.

15. Ontologia: le entità teoriche Venti o trenta anni fa, le entità che saltano fuori dalle teorie, ma che sono inosservabili, erano il tema portante della filosofia della scienza generale, ed esse suscitano ancora oggi molti dibattiti. Si discuteva di tali entità all’interno della controversia sul realismo scientifico, che sarà il tema della quarta e ultima lezione (anche se declinato al plurale, “realismi” e “anti-realismi”). Ho sostenuto che i dibattiti ontologici sulle scienze siano il risultato dell’introduzione o della cristallizzazione di stili ragionamento scientifico. Gli atomisti greci avevano entità teoriche inosservabili in abbondanza e queste erano dotate di proprietà non banali, come ganci e ca-

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vità, per esempio. Popper riteneva che quella fosse metafisica, non scienza. Sono tendenzialmente d’accordo con Popper, ma non perché io accetti il suo criterio forte di demarcazione, per il quale essere scientifico significa essere testabile. Gli atomisti greci hanno prodotto una serie magnifica di speculazioni, che hanno dato forma al nostro pensiero sin dall’inizio, ma semplicemente non c’era una ragione valida per credere alle loro storie. Molti fisici, forse la maggior parte di essi, hanno sostenuto tesi strumentaliste a proposito degli atomi e delle molecole fino all’inizio del XX secolo. La maggior parte dei genetisti potrebbe aver avuto un approccio strumentalista a proposito dei geni e dei cromosomi fino alla metà del XX secolo. Questi sono dibattiti interni alle scienze, non posizioni ontologiche come il realismo e l’anti-realismo. L’anti-realista sulle entità teoriche dice che tali entità non esistono, o che non abbiamo mai ragioni sufficienti per asserirne l’esistenza. Il dibattito ontologico nasce dalla combinazione del secondo e del terzo stile di Crombie. Le entità occorrono all’interno delle teorie, chiaramente, e quindi potremmo concentrarci sul suo terzo stile, vale a dire la modellizzazione teorica e analogica, con una particolare attenzione sulla sua cristallizzazione, lo stile galileiano. Ma il grande numero di entità teoriche di cui si discute lo status ontologico si deve alle teorie che tiriamo in ballo per comprendere i fenomeni suscitati o creati dallo stile di laboratorio. Dirò di più su quest’aspetto nella quarta lezione. Occorre qui notare, comunque, che la produzione, da parte di Boyle, del vuoto all’interno di un recipiente, era in parte tesa a stabilire la realtà degli “atomi e del vuoto”. Una volta che si fosse creato il vuoto si sarebbe stabilita anche l’esistenza degli atomi, almeno all’interno della filosofia corpuscolare della natura di Boyle.

16. Il vuoto Boyle ha fatto due cose. Ha realizzato uno strumento che produceva un vuoto parziale in un contenitore, sconfiggendo grazie a ciò la natura, se si crede nel detto «la natura ha paura dello spazio vuoto». Egli è anche riuscito a convincere tutti che ciò fosse esattamente quello che egli aveva fatto. I science studies tendono a porre l’accento sulla

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dimensione sociale e quindi, nel caso presente, a enfatizzare il secondo degli aspetti appena menzionati, il quale è infatti analizzato in maniera brillante da S&S. Io sono decisamente materialista e quindi sono interessato all’oggetto materiale, la pompa ad aria in quanto tale e i suoi cloni, che presto divennero disponibili a poco prezzo in tutta Europa. E sono interessato al fenomeno che essa ha creato, il vuoto (parziale) in un recipiente. C’è un paradosso incredibilmente istruttivo qui, talmente potente che a volte penso che la natura ci giochi ancora dei brutti scherzi, nascondendoci sempre ciò che tiene nelle sue maniche. L’idea di un segreto della natura è molto profonda e potente, e sta senza dubbio al centro dell’emergenza della tradizione scientifica nell’antico mondo mediterraneo, in Egitto, in Mesopotamia, in Grecia. Sono rimasto molto impressionato dal libro di un mio collega parigino, Pierre Hadot: Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura19. Credo che sia una versione della storia di ciò che chiamo “scoprire”, che iniziò molto prima che la razza umana si avventurasse in qualcosa di riconoscibile come scientifico. Il libro inizia con un motto incomprensibile di Eraclito: «La natura ama nascondersi»20. Il paradosso è che Boyle, cercando di produrre il vuoto all’interno di un recipiente, sembra aver compiuto un gesto inutile per non produrre assolutamente niente. Ciò che fece fu, senza dubbio, importante per la sua epoca. Egli sostenne strenuamente la cosiddetta filosofia corpuscolare, che concepiva l’aria come composta di piccole sfere, gli atomi, che rimbalzano a destra e a sinistra nel vuoto. Era quindi importante mostrare che l’idea del vuoto fosse coerente. Ma, al di là questo, non è forse vero che il vuoto è il nulla? In termini classici il vuoto è il nulla. Intendo dire per la fisica classica del XIX secolo, prima dell’avvento della meccanica quantistica. In termini classici, il vuoto allo zero assoluto è il luogo in cui non succede nulla dentro al nulla. Ma l’immagine classica dell’universo è sbagliata. Dal punto di vista della meccanica quantistica, il vuoto è pieno di fluttuazioni quantistiche. Il manuale classico sul vuoto dice, nella prefazione: Secondo le idee attuali non esiste il vuoto, nel senso ordinario di un placido nulla. C’è invece un vuoto composto da fluttuazioni quantistiche21.

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Forse c’è un fondo di verità in quest’affermazione da parte di un fisico che scrive sulla scienza con entusiasmo, pur essendo incline a invocare un Creatore dell’Universo in alcuni dei suoi scritti più conosciuti. In un libro che porta il titolo, tipicamente sopra le righe, di Superforce, P.C.W. Davies scrive, Il vuoto rappresenta la chiave per la completa comprensione della natura22.

Forse ha ragione! Ancora più straordinario di quanto appena riportato è il fatto che il vuoto sia un luogo brulicante di attività quantistica quando si trova allo zero assoluto. Cioè dove si trova il Condensato di Bose-Einstein, intrappolato dagli strumenti di laboratorio in una nuvola termica di altri atomi a circa zero nanokelvin. Vale a dire a circa 10-9 gradi dallo zero assoluto, ciò che giustamente si chiama l’ultrafreddo. Questo ci riporta ad Eraclito. Che splendido posto pare aver scelto la Natura per nascondere i suoi segreti, nel vuoto allo zero assoluto! Questa è un’altra ragione per mettere Boyle e la sua pompa ad aria nel pantheon. Il vuoto, che sembra essere il nulla assoluto, ha un’importanza che va ben oltre i più audaci sogni del suo creatore.

17. Il laboratorio di biotecnologie Posso benissimo prendermi in giro da solo: ho appena compiuto l’impresa di connettere, in un tutto senza soluzione di continuità, il mistico antico Eraclito e la scienza di laboratorio più recente. Dovrei tirare le somme ritornando alla realtà. Sarebbe bene concludere pensando ai laboratori moderni, che sono molto diversi da quelli che discendono da Robert Boyle. Passerò dalla fisica alla biologia, e da un tempo remoto a quello presente23. E non è la biologia ciò verso cui dovremmo dirigere la nostra attenzione, ma la biotecnologia. Sfortunatamente non so niente sulla biotecnologia. Penso come un fisico. È per questo che all’epoca della scrittura di Representing and Intervening parlavo con i fisici. La fisica nel 1983 era ancora la regina delle scienze naturali. Nel 1962 sapevo già in quale direzione stessimo andando, ma non era un futuro che faceva per me. Il mio primo lavo-

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ro dopo la laurea fu a Cambridge, in Inghilterra, e durante quel periodo, due colleghi più anziani del mio stesso college furono insigniti dei premi Nobel assegnati quell’anno per la medicina e la biologia, per il Dna e l’Rna. Mi ricordo che mi presero per matto quando, pochi anni più tardi, in un consesso di umanisti, dissi che era proprio in quell’ambito che stavano per accadere le cose più interessanti. Quindi, già prima degli anni Settanta andavo dicendo: «Dimenticate il passato: queste nuove idee e tecniche cambieranno il mondo!». Nella seconda metà degli anni Settanta, chiunque dotato di buon senso, umanista o meno, se ne era reso conto. Ciò nonostante, non ho cambiato la mia strada. Per questa ragione oggi so meno di biotecnologia di quanto non sappia un bravo studente delle superiori. In questo, sfortunatamente, non sono poi così diverso da molti dei miei colleghi filosofi più giovani. La biotecnologia sta cambiando il mondo. Quando, decine di anni fa, Bruno Latour e Steve Woolgar realizzarono la loro etnografia di un laboratorio biochimico premiato col Nobel, lavorarono in un luogo di tipo accademico molto tradizionale. Latour riteneva che il prodotto principale del laboratorio fossero iscrizioni, e che fossero quelle, alla fine, a garantire la stabilità della scienza. Io mi opponevo, sostenendo che il prodotto principale del laboratorio fosse una nuova sostanza, un peptide sintetico, l’ormone di rilascio della tireotropina [Thyrotropin Releasing Factor]24. Il mio ottuso materialismo e il suo idealismo visionario erano lampanti anche all’epoca! Ma quei tempi sono ormai lontani. Nel 1974, nel bel resort di Asilomar, sulla costa californiana, si tenne una conferenza tra tutti coloro che, nel mondo, lavoravano sul Dna ricombinante. Volevano linee guida etiche per stabilire quali tipi di ricerca fossero ammessi per evitare di creare mostri, batteri, per esempio, che avrebbero potuto distruggere tutte le coltivazioni mondiali di riso. A quel tempo essi lavoravano ancora con campioni sperimentali che non superavano l’ordine del litro. Nel giro di pochi anni, come uno dei partecipanti (uno dei vincitori del Premio Nobel che ho menzionato, e che all’epoca presiedeva l’European Research Council) ebbe modo di ricordare, autocisterne di quel materiale venivano spedite in giro per il mondo. Nuove tecniche entrarono in gioco e la velocità della ricerca aumentò di diecimila volte. Ci sono luoghi, in tutto il mon-

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do, dove edifici di dieci piani sono occupati da nient’altro che macchine per il sequenziamento del genoma. Ciò che si fa in quei posti renderà ricche, tra le altre, l’industria sanitaria e quella agraria. I risultati non sono iscrizioni, ma sostanze e tecniche. La ricerca iniziale è stata svolta in laboratori universitari. Le imprese finanziate da fondi di venture capital hanno iniziato a formarsi in California all’inizio degli anni Settanta. Ora si può dire che siano loro a controllare il settore; certamente una parte importante del lavoro continua ad essere svolta nei laboratori universitari, ma spesso è il venture capital che traccia la strada. Su questi aspetti dovrebbero aggiornarsi e svolgere le proprie analisi i ricercatori dei science studies di oggi. In questo caso è stato invece un antropologo a tracciare la strada. È un antropologo nel senso classico, formatosi con Pierre Bourdieu e che in seguito ha giocato un ruolo importante nell’introduzione del lavoro di Michel Foucault al pubblico americano. Mi riferisco a Paul Rabinow, professore di Antropologia alla University of California, a Berkeley25. Raccomando fortemente il lavoro di Rabinow a chiunque nei science studies sia interessato alle recenti biotecnologie. Egli è un modello per tutti noi. Rabinow collabora spesso con Nikolas Rose, sociologo della London School of Economics, che ha creato lì un grande centro di ricerca chiamato Bios, che si definisce come un centro multidisciplinare per la ricerca sugli sviluppi contemporanei delle scienze della vita, della biomedicina e della biotecnologia. Recentemente Rabinow ha visitato laboratori di biotech a Shanghai, e userò alcune delle cose che mi ha detto in ciò che segue. Perché le imprese finanziate dai fondi di venture capital della California non sono la fine della storia; ci aspetta (se non è già in corso) un’ondata di lavori provenienti dagli enormi laboratori di Stato della Cina. Si può essere tentati di chiamarlo “capitalismo di Stato”, a causa delle similitudini, sul piano pratico, con il venture capitalism californiano. Non vale la pena discutere se la California adotti il modello capitalistico mentre Shanghai pratichi quello socialista, o quello del capitalismo di Stato. Il punto è che, dalla prospettiva dei science studies, siamo di fronte a un nuovo modo di fare scienza. Stiamo parlando di un nuovo tipo di laboratorio? Ciò che stupisce molti dei visitatori degli stabilimenti biotecnologici di Shanghai è l’immenso potere personale che detengono i dottori di ricerca o comun-

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que i ricercatori a metà della loro carriera. Gli scienziati vanno ancora spesso in America o in Europa per formarsi e perfezionare le loro capacità, ma un numero crescente di loro torna indietro. Mi ricordo una conversazione avuta anni fa con un mio collega di Parigi, Philippe Kourilsky, all’epoca direttore dell’Istituto Pasteur di Parigi, il primo centro di ricerca francese per la ricerca biomedica fondamentale. Era appena rientrato da Shanghai, dove aveva officiato all’apertura di una specie di clone o di franchising dell’Istituto Pasteur, costruito a lato del vecchio quartiere francese di Shanghai, preservando alcune delle eleganti facciate del XIX secolo. Ma quelle facciate sono una semplice illusione: all’interno di quel complesso stavano creando, mentre lui era lì, un’enorme impresa legata alla ricerca, in nuovi e straordinari edifici, e in tempi brevissimi per gli standard francesi. «Sorpasseranno completamente tutto quello che facciamo in meno di dieci anni», mi disse Kourilsky. In America la ricerca biotecnologica continua ad essere svolta, in modo misto, da laboratori universitari tradizionali e da imprese finanziate da fondi di venture capital. Ma, specialmente negli Stati Uniti, sono sempre più queste ultime a fare il lavoro più all’avanguardia. Alcune di esse si sono sviluppate fino al punto di diventare delle grandi corporazioni: Genentech, Celera, Symbio. C’è una grande differenza tra il laboratorio capitalistico e il laboratorio universitario. La si può far risalire a ciò che ho detto riguardo alla fiducia e ai nobiluomini inglesi del XVII secolo – il sistema del peer review. Tutto ciò che succede in ambito accademico è governato dal sistema del peer review. Non solo ciò che viene accettato come conoscenza e pubblicato, ma anche tutta la ricerca che è finanziata. Scrivere e riscrivere progetti di ricerca è una delle principali attività dei ricercatori accademici. Per di più, ciò che viene chiamato peer review, al livello dei finanziamenti, non è in realtà affatto peer review. Non è un processo di revisione tra pari, che è ciò che si intende per “peer”. È più spesso la revisione di giovani ricercatori da parte di vecchi ex ricercatori di successo. Essi forniscono, in effetti, ogni tipo di consiglio. Sono vecchi uomini saggi che determinano chi, nelle nuove generazioni, verrà supportato. Esagero. Non sono né tutti saggi, né tutti vecchi e neanche tutti uomini, ma certamente molti tra loro sono uomini e molti sono vecchi. Una delle figure di spicco della venture biotechnology avrebbe affermato che «il più

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grande ostacolo per l’innovazione scientifica e tecnologica è il sistema di peer review per il finanziamento dei progetti di ricerca». Le imprese private sono diverse. Lì la misura del successo è data da un prodotto brevettabile. Ho parlato di un nuovo tipo di attività che è iniziata 400 anni fa, la creazione deliberata di nuovi fenomeni. Se solo Boyle fosse stato capace di brevettare la sua pompa ad aria, a quei tempi egli sarebbe rientrato di cento volte dei suoi investimenti. Se si confronta con il laboratorio universitario, il mondo della ricerca finanziata da fondi di venture capital può sembrare spietato. Molti tradizionalisti lo disapprovano. A volte si fa corrispondere una “generazione” a un lasso di tempo di 33 anni. All’interno di una tale generazione il capitale privato ha trasformato la ricerca biotecnologica. Le università tentano febbrilmente di stargli dietro, aprendo uffici brevetti. Questi uffici sono de facto, se non de iure, quanto meno sullo stesso piano di dipartimenti accademici ordinari, nella scala gerarchica universitaria. E quindi, che dire della tecnoscienza dell’Asia orientale? Essa cambierà l’attuale generazione della bioscienza tanto quanto il venture capital ha cambiato quella precedente. E qui, per ricollegarmi al mio tema precedente sull’origine del peer review, dovremmo esser ben consapevoli del potenziale della trasformazione del mondo capitalistico in un mondo in cui la ricerca è governata da uno Stato con immense risorse. Ciò è lampante in quello che ufficialmente è il regime “comunista” o comunque socialista al di là degli Stretti, la Repubblica Popolare. La differenza con il capitale occidentale non è il capitalismo, ma la quantità quasi illimitata di lavoratori scientifici attuali o potenziali e il metodo di gestione del lavoro che si è già impadronito della fetta più grossa della produzione di base occidentale. Il trasferimento della produzione, dapprima da Taiwan, dalla Korea e dal Giappone verso la Repubblica Popolare, si è moltiplicato al di là di ogni limite. Praticamente tutti i giocattoli per bambini venduti in America sono “made in China”. Gli stessi metodi di produzione, cioè imprese molto grandi organizzate in piccole unità produttive, con uno spirito di squadra locale, vengono adesso applicati alla ricerca biotecnologica. Ci sono solo due criteri per il successo in questo tipo di ricerca, in contrasto con il lato dello sviluppo o della produzione della nuova tecnoscienza. Il sistema peer review è necessario, certo, e normalmente è

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garantito in abbondanza dalle migliori riviste scientifiche americane. Se un articolo viene accettato lì, un ricercatore e il suo team hanno ottenuto le credenziali necessarie. Il secondo criterio è quello del prodotto brevettabile. In un sistema statale, il denaro può essere erogato a fiumi direttamente ai gruppi di ricerca. Molti di essi non rispettano i due criteri appena menzionati. Forse saranno scartati e i lavoratori assegnati a compiti minori per il resto delle loro vite, non diversamente da quanto accade in una società capitalistica spietatamente efficiente. Le differenze sono (1) nella forza lavoro potenziale dei ricercatori, per la quale non c’è un tetto massimo, e (2) nell’organizzazione e nel morale dei team all’interno di strutture più ampie. Ho menzionato l’espressione “forma di vita” e mi sono rifiutato di farne largo uso. Tuttavia, siamo di fronte a una nuova forma di scienza che si svolge all’interno di ciò che pare naturale chiamare una nuova “forma di vita”. È una questione di risorse immense, combinate con, in realtà, un tipo piuttosto diverso di gestione finanziaria rispetto a quella a cui eravamo abituati. Tutto ciò può essere organizzato più facilmente da uno stato egemonico che da un qualsiasi altro tipo di regime. Abbiamo un metro di paragone, il Progetto Manhattan, attraverso il quale il governo degli Stati Uniti elargì somme incalcolabili del patrimonio nazionale in maniera piuttosto indiscriminata, nell’ottica di ottenere risultati che un decennio prima avrebbero richiesto mezzo secolo di ricerca. Il risultato immediato fu la bomba. L’effetto di lungo termine sull’organizzazione della scienza è noto a tutti i sociologi delle scienze col nome di big science. Forse si tratta di una nuova forma di vita scientifica. Ma quel “big” potrebbe in realtà rivelarsi minuscolo in confronto a ciò che potrebbe succedere nel Sud-Est asiatico nell’arco di una generazione.

18. Due tipi di laboratorio? Ho già usato la parola “laboratorio” per ciò che io chiamo lo “stile laboratoriale di ragionamento”. Anche se ho messo in luce ciò che facciamo nel laboratorio molto più della maggior parte dei filosofi, resto

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ancora aggrappato a un approccio proposizionale alle scienze. La scienza genera conoscenza, che è espressa tramite proposizioni. Ho descritto gli stili di ragionamento scientifico nei termini della loro capacità di far cambiare le concezioni dell’essere veridico a proposito di qualcosa. Boyle ha prodotto il vuoto, ma anche nuovi modi di dire la verità a proposito di tali entità teoriche. S&S ci insegnano che la parola “laboratorio” in inglese è apparsa insieme a una maniera di far scienza e una forma di vita che iniziarono nel XVII secolo. Parlare di laboratori alchemici precedenti è, dal loro punto di vista, un anacronismo. Certo, i laboratori di chimica iniziavano ad apparire, ma essi non erano affatto una semplice continuazione del gabinetto degli alchimisti. Ma forse i nuovi laboratori biotecnologici arriveranno a farci vedere le cose in maniera diversa. I gabinetti alchemici servivano a produrre sostanze nuove e spesso miracolose. Ciò è esattamente quello a cui servono i laboratori di biotecnologie. Essi non servono primariamente a scoprire ciò che è vero, ma a scoprire come fare cose. Il loro scopo è quello di fare; dire la verità è un mero strumento nel complicato processo di trasformazione di vecchie sostanze in nuove. E sì, questo è un modo di pensare scientifico – per ripetere l’espressione chiave di Crombie. Ma è un modo di pensare nuovo.

Lezione IV Realismi e antirealismi

1. Plurali Ci si sarebbe potuti aspettare che questa lezione s’intitolasse “Realismo e antirealismo”, ma ciò su cui voglio porre l’attenzione è il fatto che un numero molto alto di dottrine filosofiche porti questi nomi. Mi concentrerò sui realismi e gli antirealismi che sono connessi con le scienze, ma anche in quel caso abbiamo il “realismo scientifico” sulle entità teoriche non osservabili e tipi di realismo chiamati “platonismo” in matematica e che in realtà faremmo meglio a chiamare “realismo matematico”. Anche se i miei interessi saranno circoscritti, è importante dare uno sguardo al quadro d’insieme e iniziare menzionando quei dibattiti sui quali non ho qui niente di costruttivo da dire. Ciò non significa che non ci sia niente da dire, in generale, al loro riguardo. Questa lezione è stata presentata alla Soochow University, all’epoca in cui quell’università aveva un gruppo di ricerca che lavorava da tre anni esattamente sotto questa denominazione: “Realismo e Antirealismo”. Da quanto ho capito, diversi tipi di realismo e antirealismo erano presi in esame, quindi il mio accento sui realismi, al plurale, risultava particolarmente pertinente in quel contesto. 2. Non “realismo” contro “nominalismo” La storia della filosofia occidentale è caratterizzata da una serie di dibattiti che inizia con Platone e Aristotele e che continua ancora oggi. I più intensi sono stati, a mio modo di vedere, prima quelli tra i

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grandi filosofi arabi della Mesopotamia e dell’Africa del Nord, poi quelli tra i filosofi scolastici cristiani dell’Europa del Medioevo. La loro posta in gioco può essere descritta in modi diversi e molte erano, in effetti, le sfaccettature oggetto di discussione. Tutti questi dibattiti hanno due lati, uno ontologico e uno grammaticale. Tradizionalmente l’enfasi viene posta sull’aspetto ontologico, su questioni a proposito di ciò che esiste. Tuttavia, sia i filosofi islamici sia quelli scolastici cristiani, hanno spesso orientato la discussione in senso grammaticale, così come i filosofi analitici del XX secolo hanno fatto in senso semantico. In ontologia si è sempre tentati di imboccare la strada di quella che Quine ha chiamato l’«ascesa semantica», passando da una discussione sulle cose a una discussione sui nomi delle cose. Uno dei vantaggi dell’ascesa semantica, almeno per i pensatori del XX secolo, è che essa permette di pensare che «sia tutta una questione di parole». A volte il risultato è positivo e nobile, come nel caso del “principio di tolleranza” di Rudolf Carnap. Carnap ha avanzato la tesi che le questioni ontologiche siano esterne alla conoscenza e abbiano a che fare con la scelta di una lingua. Questioni dotate di senso emergono solo nel quadro di una lingua che porta (o meno) con sé presupposizioni di esistenza1. La critica di Quine ha naturalmente reso impraticabile questa semplice tolleranza, sebbene essa rimanga un tema presente in molta parte della filosofia analitica. Per quanto mi riguarda, cerco di evitare l’ascesa semantica, che aggira i problemi filosofici senza risolverli. Io non intendo risolverli, ma penso che sia utile capire come determinati problemi siano emersi. Un modo di porre la questione ontologica è quella di prendere la giustizia come esempio. Platone, nella Repubblica – il suo lavoro classico di filosofia politica, dedicato al concetto di giustizia – fa chiedere in continuazione a Socrate che cosa sia la giustizia. Gli interlocutori fanno a Socrate vari esempi di giustizia, ma egli continua a protestare che si tratti solamente esempi, non della giustizia in sé. Quelli allora propongono definizioni della giustizia, alle quali egli contrappone due tipi di controesempi. Ci sono casi che soddisfano la definizione, ma che sono esempi di azioni o di accordi ingiusti. Egli cita anche esempi di azioni o accordi giusti, ma che non soddisfano le definizioni. A volte si è tentati di dire che tutto si riduce alla domanda: «C’è qualcosa che accomuna tutte le azioni e gli accordi giusti, oltre al fatto che noi li riconosciamo come giusti o che essi vengono semplicemente chia-

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mati giusti?». Il nominalista estremo dice «No!». Le azioni giuste non hanno niente in comune, tranne il fatto che l’equivalente greco dell’aggettivo “giusto” viene applicato a ognuna di esse. Non c’è nessuna proprietà dell’esser giusto in aggiunta alla parola “giusto” e al suo uso (in qualsiasi lingua si stia parlando). È chiaro che questa parentesi, necessaria, a proposito della lingua, fa già sorgere la domanda sulla relatività di questi interrogativi rispetto al linguaggio, perché l’uso di parole più o meno inter-traducibili in differenti lingue si può dire sia lo stesso solo in modo approssimativo. Lasciamo questi cavilli da parte per il momento. Un tale nominalismo estremo potrebbe essere chiamato nomismo [name-ism]. Non molti filosofi sono stati disposti a enunciare e difendere un nomismo estremo, ma alcuni ci sono andati vicino. Penso al fondatore inglese della scienza politica, Thomas Hobbes, nel XVII secolo, e al pragmatista americano Nelson Goodman, nel XX secolo. All’estremo opposto dello spettro troviamo il realismo estremo, per il quale la giustizia è, in sé, un’entità reale, al di sopra dei singoli accordi, giudizi o atti che sono giusti. La giustizia non è semplicemente la classe di tutte le entità giuste, ma qualcosa che esiste in sé, indipendentemente da qualsiasi azione, accordo, decisione o da ogni altra singola entità alla quale si possa pensare. Non è semplicemente un ideale per il quale battersi, ma qualcosa che esiste realmente, per quanto non si possa mai raggiungere. Questo è un tipo di realismo. Ha un tratto ontologico: esso riguarda ciò che esiste, o, per calcare ancor più la mano, ciò che esiste veramente. Questo non è un tipo di discussione che conduce direttamente all’ascesa semantica, anche se la tolleranza di Carnap è senza dubbio richiesta. I tempi sono cambiati. Ho parlato con un filosofo britannico molto noto che si occupa di realismo e gli ho chiesto se qualcuno parlasse ancora dell’opposizione tra realismo e nominalismo. Mi ha risposto di «no» seccamente, in quel modo piuttosto brusco con cui gli accademici sono abituati a rispondere alle domande noiose di studenti inetti della triennale. Che cosa pensava quindi, quel filosofo, dei dibattiti tra realismo e antirealismo? Per una risposta, si veda più avanti la sezione su Michael Dummett. Non credo che la risposta brusca di questo filosofo fosse giustificata. Questo fatto potrà non piacerci, ma filosofi molto diversi tra loro continueranno a porre problemi ontologici e diranno di discutere l’op-

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posizione tra realismo e nominalismo. Il nominalismo è giustamente considerato come un tipo di antirealismo. Ma dal momento che mi occupo delle scienze, eviterò per quanto possibile questo tipo di opposizione tra realismo e antirealismo, che può essere espresso in termini di universali. Ecco perché ho intitolato questa sezione Non “realismo” contro “nominalismo”.

3. Universali In alcuni casi, le entità astratte e reali che il realista afferma esistere vengono chiamate universali. Ecco perché ciò che si discute in questi dibattiti tra realisti e nominalisti prende a volte il nome di “problema degli universali”. Questo modo di porre le cose appartiene alla scolastica e dirige la nostra attenzione verso la grammatica e la semantica, allontanandola dall’ontologia. In effetti, la parola latina tradotta con “nominalismo” sembra esser stata inventata da studiosi iberici nel 1492, l’anno in cui gli spagnoli finanziarono Colombo, capitano della prima nave europea a raggiungere le “Indie Occidentali” e l’America Centrale. Bertrand Russell fornisce una piacevole e apparentemente semplice discussione di questo problema ne Il mondo degli universali, capitolo IX del suo manuale, I problemi della filosofia. «Esaminando le parole comuni», scrive, «vediamo che, in linea generale, i nomi stanno a indicare i particolari, mentre altri sostantivi, aggettivi, preposizioni e verbi stanno a indicare gli universali». Poco più in là aggiunge candidamente che «vedendo che quasi tutte le parole che si trovano in un dizionario indicano altrettanti universali, apparirà strano che quasi nessuno, eccettuati gli studiosi di filosofia, si renda mai conto dell’esistenza di queste entità»2. Il lettore di Bertrand Russell potrebbe chiedere cosa accadrebbe se il nostro linguaggio non fosse suddiviso in questo modo, in sostantivi, cioè in nomi comuni, verbi, eccetera. Saremmo lo stesso propensi a dire che quasi tutte le parole nel dizionario “stanno a indicare” universali? È in qualche misura sensato porre questo problema, se parliamo cinese anziché una qualsiasi lingua europea? In altri contesti, Bertrand Russell stesso ha sostenuto che molta parte della filosofia occidentale fosse semplicemente messa fuori pista dal suo essere totalmente prigioniera della grammatica del soggetto-predicato e della corrispon-

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dente metafisica del soggetto-attributo. C’è ora una letteratura secondaria notevole su questo argomento, nelle riviste filosofiche di lingua inglese. Uno di questi contributi è quello del professor Wenzel della National Chi Nan University3. Il suo lavoro filosofico fa estesi riferimenti a un recente studio antropologico da parte di Nisbett4. Ma il suo vero debito è ammesso con orgoglio: egli pensa che la riflessione più chiara a proposito del linguaggio e del pensiero, specialmente in riferimento al cinese e al tedesco, si trovi in un lungo saggio scritto nel 1827 dal filosofo e filologo Wilhelm von Humboldt (1767-1835)5. Wenzel sta lavorando a un libro sull’argomento. Non intendo prendere qui una posizione su questi problemi, ma penso sia importante riflettere sulla questione seguente: le radici dei dibattiti sul realismo non si trovano forse, non tanto in aspetti universali della natura e della mente umana, ma in strutture linguistiche particolari? Più nello specifico, non si potrebbe pensare che i problemi che caratterizzano l’opposizione tra realismo e nominalismo emergano dalle strutture delle lingue europee? Nietzsche probabilmente pensava di sì.

4. “L’ontologia ricapitola la filologia” Quine usava questo aforisma come epigrafe per il suo libro del 1960, Word and Object. Egli lo attribuisce a James Grier Miller, uno dei padri fondatori della Teoria dei Sistemi. In realtà ho sentito quest’espressione prima del libro di Quine, nel corso delle lezioni tenute all’università di Cambridge da John Wisdom, nell’autunno del 1956, ma Grier potrebbe in effetti averla coniata. La teoria dei sistemi non era però esattamente il genere di cose di cui si occupava Wisdom e non credo che egli avesse mai sentito parlare di Grier. Per chiunque abbia coniato per primo quest’espressione, si trattava chiaramente, o meglio, inevitabilmente, di una battuta. Deriva da un motto proposto da Ernst Haeckel nel 1868: «L’ontogenesi ricapitola la filogenesi». Haeckel fu uno strenuo difensore della selezione naturale di Darwin, nonché il suo profeta e portavoce in Germania. L’“ontogenesi” è la crescita di un organismo, per esempio di un uomo, da uovo fecondato a feto, da neonato ad adulto. La “filogenesi” è la storia evolutiva di una specie. Haeckel sosteneva che la crescita degli organismi individuali seguisse, a partire dal concepi-

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mento, gli stessi schemi secondo cui si evolve la specie alla quale quell’organismo appartiene. Questa è stata, un tempo, un’idea molto diffusa, al contrario di adesso. Ad ogni modo, il nostro aforisma filosofico è un gioco di parole a partire da quello biologico. Il motto suona bene, ma che cosa significa? Quine probabilmente intendeva che, scegliendo una grammatica e una lingua appropriate, non ci sarebbe bisogno di adottare che un’ontologia molto semplice. Sfoltite la vostra sintassi e la vostra semantica e la filosofia seguirà in silenzio i vostri ordini. Il motto diviene così adatto alla varietà di nominalismo proposta da Quine. Si potrebbe, comunque, usare l’aforisma per avanzare un tipo molto diverso di suggerimento: i problemi ontologici sono le conseguenze della grammatica del linguaggio parlato dal filosofo. Questo non significa che io sottoscriva la tesi della “relatività ontologica” di Quine. Quine riteneva che l’ontologia fosse relativa a un linguaggio. Io non propongo alcuna tesi rispetto all’ontologia, suggerisco qualcosa sull’origine o sulla fonte dei problemi ontologici. Faccio quindi un passo indietro rispetto alle filosofie di Quine e dei suoi oppositori e propongo qualcosa che potremmo chiamare “la relatività linguistica dei problemi filosofici”6.

5. Contro l’eccesso di relatività linguistica: Nietzsche e Chuang Tzu La relatività linguistica è un’idea decisamente allettante con cui giocare. Le persone, alla loro seconda o terza esposizione alla filosofia, amano cimentarsi col relativismo di questo e altri tipi. Anche se sono solidale con questo tipo di approccio, non voglio esagerare. Alcune preoccupazioni o istinti filosofici sembrano essere piuttosto universali. Uno di questi è la fascinazione per i nomi. Essa sembra trascendere le differenze grammaticali ed essere riconoscibile in culture la cui espressione linguistica è molto diversa da qualsiasi cosa io riesca a comprendere bene. Senza andare troppo lontano, è possibile trovare, in molte civiltà, filosofi perplessi a causa dei nomi e che tendono a fare osservazioni decisamente notevoli su di essi. Citerò solamente due affermazioni, uno dal tedesco del XIX secolo, e una dal cinese di più di 2100 anni prima. Entrambe sembrano concernere i nomi e la realtà –

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e quindi, in qualche modo, il realismo e l’antirealismo. Prima Nietzsche, ne La gaia scienza: §58. Solo come creatori! Questo mi è costato sempre e mi costa ancora il più grande sforzo: comprendere, cioè, che sono indicibilmente più importanti i nomi dati alle cose di quel che esse sono. La fama, il nome, l’aspetto esteriore, la validità, l’usuale misura e peso di una cosa; in origine, perlopiù, un errore e una determinazione arbitraria buttati addosso alle cose come un vestito e del tutto estranei alla sostanza e perfino all’epidermide della cosa stessa; mediante la fede che si aveva in tutto questo e il suo progressivo incremento di generazione in generazione, sono gradatamente, per così dire, concresciuti con la cosa e si sono radicati in essa fino a divenire la sua carne stessa: fin dal principio l’apparenza ha finito quasi sempre per diventar la sostanza, e come sostanza si è resa operante. Chi pensasse che il rinvio a quest’origine e a questo nebbioso involucro dell’illusione basterebbe ad annientare questo mondo tenuto per sostanziale, questa cosiddetta “realtà”, non sarebbe altro che un bel pazzo! Solo come creatori noi possiamo annientare! Ma non dimentichiamo neppure questo: che basta creare nuovi nomi e valutazioni e verosimiglianze per creare, col tempo, nuove “cose”7.

Uno dei punti principali dell’aforisma è, come dice il titolo stesso, «solo come creatori». Uno dei suoi sotto-temi è quindi il fatto che possiamo disfare un’idea da noi nominata solo creando un concetto positivo e mettendolo al suo posto. La decostruzione fine a se stessa è un gioco auto-indulgente. Ma è per l’altra idea in esso contenuta che porto l’attenzione su questo passaggio: un numero indicibilmente più grande di conseguenze deriva dal modo in cui le cose sono chiamate più che da ciò che esse sono. Ed è sufficiente creare nuovi nomi, nuove valutazioni e nuove probabilità per creare nuove “cose”. Sebbene con qualche cautela, mi trovo in accordo con Nietzsche quando si tratta di nomi di tipi di persone. Ho usato questo passaggio in un articolo nel quale ho espresso la mia posizione attuale su uno dei miei interessi, totalmente differente, ovvero la classificazione delle persone e l’interazione delle classificazioni con le persone stesse8. Ma, salvo ulteriori specificazioni, non sono incline ad applicare lo stesso tipo di ragionamento quando si tratta dei nomi delle cose. Le persone, non

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c’è bisogno di dirlo, sono “cose”, ma, nel loro caso, sono il modo in cui una persona si concepisce e il modo in cui essa viene concepita dalle altre persone a fare la differenza. Se mi si vuole etichettare in qualche modo, ritengo d’essere decisamente materialista a proposito delle cose non senzienti, come diventerà sempre più chiaro verso la fine di questa lezione. L’aforisma di Nietzsche mi è quindi congeniale solo quando si tratta dei nomi dei tipi di persone; esso non propone una dottrina attraente per le cose. Vorrei porre accanto a quello di Nietzsche un piccolo passaggio di Chuang Tzu, tratto dai cosiddetti The Inner Chapters. Da quanto mi risulta, si presume che questi capitoli siano stati scritti dal filosofo taoista in persona e non siano il frutto del lavoro di qualche commentatore successivo. Prenderò due frasi davvero degne di nota, in traduzione, estrapolandole dal contesto: (1) Il nome è l’ospite della realtà9. Soffermiamoci a riflettere su quest’affermazione. È una bella frase, indipendentemente da ciò che Chuang Tzu intendesse, o dalla correttezza o meno della traduzione dal cinese di 2300 anni fa. Pierre Hadot ha detto che «scrivere la storia del pensiero significa a volte scrivere la storia di una serie di errori di interpretazione»10. Egli ha raccontato la storia di una sentenza ancora più vecchia, attribuita a Eraclito: «La natura ama nascondersi». È importante per la storia della filosofia cinese sapere che cosa Chuang Tzu intendesse esattamente, ma, qualsiasi cosa egli volesse dire, quella frase è straordinariamente potente anche da sola, fuori dal suo contesto. Pensiamo comunemente che gli errori d’interpretazione siano qualcosa di terribile. Dobbiamo scoprire quello che il saggio intendeva veramente! Certo che si dovrebbe, ma si dovrebbero anche incoraggiare gli errori d’interpretazione innovativi e durevoli. La Natura stessa sembra evolvere grazie a errori di trascrizione del codice genetico che si rivelano fecondi. L’errore d’interpretazione può, a seconda dei casi, rivelarsi più creativo rispetto a un’interpretazione che è tutt’al più semplicemente affidabile. Qualsiasi cosa io dica a proposito del fatto che il nome è l’ospite della realtà sarà probabilmente un errore d’interpretazione di

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quella che forse è una cattiva traduzione di una frase antica, magari trascritta in maniera scorretta. Ciò non mi disturba affatto. Così com’è (1) è splendida e ha il merito di farti riflettere. La leggo, prima di tutto, come un forte impegno verso un tipo di realtà, totalmente indipendente, anzi, precedente rispetto al nominare, classificare e a qualsiasi altra attività intellettuale umana. La realtà è semplicemente lì e a volte accoglie questo o quel nome come appropriato, ma solo come un ospite. Quest’idea non è esattamente il “realismo”, in nessuno dei sensi filosofici ai quali ho accennato prima. Potremmo dire che essa è realista in senso proprio, o anche in senso mistico, perché esprime un profondo rispetto per ciò che esiste. Qualche pagina dopo, tuttavia, si legge un’altra frase, che sembra essere un’espressione radicale di nominalismo: (2) Il nominare le cose le rende reali11. Questo sembra proprio Nietzsche! Ma ciò che segue cambia immediatamente il tono. Perché reale? Reale perché reale. Perché irreale? Irreale perché irreale. Quindi il reale è in origine nelle cose stesse e ciò che è sufficiente è anch’esso originariamente lì, nelle cose. Non c’è niente che non sia reale e niente che non sia sufficiente12.

Prenderò quest’ultimo brano come l’espressione di un “realismo realmente reale” [really-real realism], o, meglio, di un “realismo reale” [really-realism]. Contrariamente al realismo della scolastica, che esprime un impegno verso la “realtà” degli universali, dei concetti e delle classi, questi aforismi sembrano manifestare un rispetto profondo per una realtà che risulta di per sé compiuta, indipendentemente da ciò che gli umani fanno o pensano. Forse un filosofo analitico di lingua inglese del XXI secolo vede (1) e (2) come compatibili nel modo seguente: una realtà compiuta precede qualsiasi concettualizzazione. Quando un nome è l’ospite benvenuto di quella realtà, esso seleziona una certa cosa, o un certo tipo di cosa, che grazie a ciò diviene reale perché è un ospite di quella realtà compiuta. Lo stesso filosofo potrebbe suggerire che l’antico saggio pen-

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si alla realtà compiuta come alla ragione per ciò che diciamo e sappiamo sulle cose, rifiutando però allo stesso tempo il tentativo, tipico dell’Illuminismo europeo, di fornire fondamenti alla conoscenza. Questo rende Chuang Tzu e Nietzsche sorprendentemente vicini. Questa piccola parentesi indica che non prendo troppo sul serio l’idea che i problemi filosofici siano relativi a un gruppo linguistico. Per evitare fraintendimenti, specifico che non prendo troppo seriamente neanche l’idea che il filosofo tedesco e quello cinese, separati da due millenni, abbiano avuto esattamente le medesime preoccupazioni.

6. L’ontologia generale e le scienze speciali Per ritornare al mio tema principale, ho detto di non voler parlare troppo dell’opposizione tra realismo e antirealismo in generale. Questo perché mi occuperò di questioni relative all’esistenza che originano dalle scienze. Per esempio, attorno al 1970 i filosofi analitici della scienza iniziarono a parlare di “realismo scientifico”. La domanda che essi avevano in mente era se le entità teoriche inosservabili, come ad esempio quelle postulate dalla fisica, esistessero o meno. I realisti scientifici dicevano di sì, un’entità esiste se una teoria che la riguarda risulta essere vera, anche se l’entità è inosservabile per principio. Gli antirealisti scientifici – come i positivisti e gli strumentalisti – sostenevano che le entità non esistessero. Esse sono solo strumenti per il pensiero; i termini che usiamo per esprimerle non denotano entità che esistono veramente. Bertrand Russell ha formulato quest’idea in maniera precisa, sostenendo che, in tutti i casi in cui è possibile, dovremmo sostituire entità inferite con costruzioni logiche. Apro qui una parentesi per dire che il positivismo può essere mortale. Il positivismo classico, introdotto in Francia da Auguste Comte negli anni Trenta del XIX secolo, è stata una filosofia viva, dotata di chiese che avrebbero dovuto rimpiazzare quelle della religione organizzata. Sono stato in una di queste chiese, nella capitale della provincia più meridionale del Brasile, Porto Alegre. La piazza principale di quella capitale è una piazza come molte altre, con un imponente palazzo di governo, una cattedrale ecc., ma nel centro c’è un monumento al positivismo e al progresso, alto svariati metri. Negli anni Ottanta, dopo la

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restaurazione del governo elettivo, i primi due governatori appartenevano al partito positivista. Il secondo di essi morì di vaiolo perché non credeva nei germi e non era vaccinato. Egli non credeva che le entità teoriche esistessero veramente. Un positivismo più moderato e riflessivo evita questo pericolo. L’empirismo costruttivo di Bas van Fraassen sostiene solo che non possiamo asserire che questa o quell’entità teorica esista. Non si dovrebbe credere che esse esistano, perché non abbiamo ragioni per credere o asserire che esistano. Ancora peggio, nella maggior parte dei casi non potremmo avere tali ragioni, per quanto adeguate a livello empirico siano le nostre teorie. Ma abbiamo comunque il permesso, secondo quest’esigente filosofia, di agire come se le teorie fossero vere – cioè, quando le teorie sono empiricamente adeguate. Quando le teorie sul vaiolo sono empiricamente adeguate dovremmo vaccinarci contro il vaiolo ed evitare la morte che attende il positivista eroico. Mi piacerebbe sostenere che i dibattiti sul realismo nelle scienze particolari non hanno molto a che vedere con i dibattiti ontologici più generali o con i problemi sugli universali. Certamente van Fraassen non sembra esattamente un nominalista medievale classico come Guglielmo di Ockham. Ma ho delle difficoltà a procedere oltre su questa strada, ed è perché rimango legato alla visione tradizionale secondo la quale la matematica è una scienza. Il “platonismo” in matematica è una versione della dottrina realista a proposito degli oggetti matematici e l’anti-platonismo è una dottrina anti-realista. Entrambe, come ho sostenuto nella seconda lezione, sono le conseguenze dell’introduzione dello stile di ragionamento matematico. Eccoci di nuovo all’ontologia, perché gli oggetti astratti della matematica erano uno dei pilastri dell’intera filosofia realistica di Platone. Per un’ottima conferma di quanto sopra, ritorniamo all’utile manuale di Russell, I problemi della filosofia. Nella seconda lezione, Da dove vengono gli oggetti matematici?, volevo mostrare come la filosofia europea fosse stata ossessionata dalla matematica sin dall’inizio. Ho iniziato la discussione citando dai Problemi di Russell: «La domanda posta da Kant all’inizio della sua opera filosofica, “come è possibile la matematica pura?”, è una domanda interessante e difficile, a cui ogni filosofia non puramente scettica deve trovare una risposta»13. Questo passaggio è tratto dall’ottavo capitolo, sulla conoscenza a priori, il capitolo immediatamente precedente a quello sugli universali con il qua-

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le ho iniziato questa lezione. Quel capitolo si conclude con un accenno al «prossimo capitolo, dove vedremo che esso [l’esame di ciò che sappiamo degli universali] risolve il problema della conoscenza a priori, dal quale fummo condotti la prima volta a prendere in considerazione gli universali»14. Russell vedeva quindi l’opposizione tra realismo e antirealismo, nella misura in cui questa riguarda la realtà ontologica degli universali, come intrinsecamente connessa con il realismo e l’antirealismo a proposito degli oggetti matematici. Da un punto di vista storico egli aveva senza dubbio ragione. Non posso quindi tenere i problemi metafisici generali così lontani dalle scienze come avrei voluto. 7. Il tipo di antirealismo di Dummett Non ho ancora finito con l’elenco dei tipi di realismo dei quali non parlerò (ma dei quali finisco in realtà per parlare anche troppo). Michael Dummett ha iniziato la sua carriera come logico e filosofo della matematica. È stato attirato verso la matematica da un profondo interesse per l’intuizionismo e per il costruttivismo, tuttavia, egli si è al tempo stesso opposto alle posizioni espresse da Wittgenstein nelle Osservazioni sopra i fondamenti della matematica. Dummett distingueva nettamente la negazione del principio del terzo escluso dalla negazione della bivalenza, la dottrina secondo la quale le proposizioni devono avere uno di due valori di verità. Egli ha trasformato il realismo in una tesi sulla bivalenza. Dummett applicava questa nozione in maniera trasversale. Si consideri un uomo, ormai morto, che non ha mai avuto in vita sua l’opportunità di dimostrare o anche solo di lasciar intendere se fosse coraggioso o meno. In questo caso, secondo Dummett – e sono tendenzialmente d’accordo con lui – la proposizione «egli era un uomo coraggioso» non è vera. Tuttavia, per la stessa ragione, neanche la proposizione «egli non era un uomo coraggioso» è vera. Così, secondo la concezione dummettiana del realismo come impegno verso la bivalenza, egli è un antirealista a proposito del coraggio di quest’uomo. Dummett si è avvicinato a varie dottrine anti-realiste a proposito della storia e, in generale, ha incoraggiato un tipo di discorso anti-realista dell’anti-bivalenza che, non molti anni fa, ha iniziato a diffondersi in

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modo particolare tra i filosofi britannici. Anche in questo caso, si tratta di un anti-realismo sul quale non mi soffermerò.

8. Un’allusione a Richard Rorty L’ultimo Richard Rorty, che fece un tour di lezioni a Taiwan qualche anno fa, pensava che l’intera famiglia di dibattiti tra i realisti e gli antirealisti fosse fuori strada. Pensava in particolare che quelli in corso negli anni Ottanta in America fossero senza senso. Mi ricordo di avergli sentito dire, durante una conversazione, in quello che per lui era un tono di voce piuttosto rancoroso: «Il realismo è Mickey Mouse». Nello slang di quei tempi ciò significava “troppo facile”, che l’intera discussione non era degna di un fumetto per bambini. Forse dovrei dire una parola qui sul mio approccio alla filosofia di Rorty. Questo perché mi è stato detto che il libro basato sulle sue lezioni qui a Taiwan ha ricevuto una vasta e positiva accoglienza15. Sono sempre stato indeciso sul giudizio da dare al suo modo di fare filosofia. Non sono d’accordo col suo far funzionare insieme più tipi di discorso, come parti di una conversazione umana indifferenziata. Certo, è importante che la conversazione prosegua e nella maniera più incondizionata possibile. Ma io credo di avere un istinto molto diverso da quello di Rorty: io sono uno che separa, che divide, un analista; non credo che il tracciare delle distinzioni sia un fine in sé, ma senza distinzioni nessun fine può esser perseguito. Metto sempre tutto al plurale nei titoli! Esempio: non parlo di “realismo” ma di “realismi”. Mi è stato chiesto di scrivere un soffietto editoriale per l’ultimo libro di Rorty, il quarto volume della sua collezione di saggi pubblicata dalla Cambridge University Press e apparsa quest’anno, appena prima che morisse. Ho impiegato molto tempo per scrivere 60 parole che esprimessero la mia ammirazione senza nascondere le mie perplessità. Alla fine, la casa editrice ha deciso di mettere solo un soffietto sul retro del libro, il mio. Citerò me stesso, perché queste parole hanno richiesto davvero molto lavoro: Penetranti e decisamente piacevoli alla lettura, questi saggi insistono fino allo sfinimento sul leitmotiv di John Dewey: la filosofia conta davve-

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ro qualcosa quando cambia ciò di cui vogliamo parlare e il modo in cui lo facciamo. Nel dettaglio, questi saggi mi sembrano poter essere o beatamente corretti oppure sbagliati in modo irritante: il fatto che essi riescano a causare una tale reazione mi fa sospettare di molta della filosofia a cui sono affezionato16.

Questo è quello che penso, anche rispetto al suggerimento che i dibattiti sull’alternativa realismo/antirealismo siano “Mickey Mouse”. Rorty mi disse ciò venti o trent’anni fa. All’epoca mi dette fastidio, nonostante fossi incline a pensarla allo stesso modo e nascondessi a me stesso il fatto di sentirmi in accordo con lui. Oggi sono ancora più d’accordo. Mi sento anche maggiormente propenso a usare l’epiteto di Nelson Goodman e parlare d’irrealismo per esprimere una certa indifferenza nei confronti dei tradizionali dibattiti tra realisti e antirealisti.

9. L’atteggiamento ontologico di Arthur Fine Rorty parlava di Arthur Fine come del suo «filosofo della scienza preferito»17. L’articolo di Fine, The Natural Ontological Attitude, inizia con la frase: «Il realismo è morto»18. Rorty ne riassume correttamente il punto centrale: Fine afferma che «non dovremmo essere né realisti né antirealisti, che l’intero problema del realismo e dell’antirealismo dovrebbe esser lasciato da parte». Sono d’accordo sul fatto che vada lasciato da parte. Ma questo problema non si lascerà mettere in soffitta tanto facilmente. Senza dubbio, Fine, con «il realismo è morto», intendeva richiamare Nietzsche. In qualunque modo stiano le cose nel caso di Dio, tuttavia, i dibattiti sulla sua esistenza non sono spariti dal pensiero occidentale nel momento in cui Nietzsche scrisse il suo famoso aforisma. Ho pensato fosse utile arrivare a un qualche tipo di comprensione del richiamo che i realismi e gli antirealismi esercitano in filosofia. Questo è stato uno dei temi delle mie prime tre lezioni. Chiamiamola “la tesi delle conseguenze” [the by-product thesis]: nei dibattiti ontologici che affliggono le scienze, i vari tipi di oggetti che sono rigettati dagli antirealisti, gli oggetti nudi e crudi, la cui esistenza è invece asserita dai realisti, sono tutti conseguenze degli stili di pensiero scientifici che li hanno introdotti.

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Non credo che il realismo sia morto. Non m’interessa né ucciderlo né tenerlo in vita artificialmente. Sono solo curioso di sapere perché continuino a spuntare così tanti tipi di realismo. Ma qui restringo la portata della mia domanda: perché i dibattiti sul realismo continuano a proliferare tra i filosofi che riflettono sulle scienze, mentre non tangono minimamente gli scienziati che lavorano nei rispettivi campi di specializzazione?

10. Che ne è del mio argomento per il realismo delle entità? Il mio libro del 1983, Representing and Intervening, era diviso in due parti da ciò che chiamo una “rottura”. La seconda parte conteneva un argomento a favore del realismo delle entità teoriche inosservabili. Pensavo forse allora che il realismo fosse importante? No. Ho cambiato idea? Nient’affatto. Mi si permetta prima di evidenziare un paio di righe dalla seconda pagina del libro. Da tempo le dispute tanto sulla ragione quanto sulla realtà hanno polarizzato l’interesse dei filosofi della scienza […]. Si tratta di questioni importanti? Ne dubito. Noi vogliamo sapere che cosa è realmente reale e cosa è veramente razionale. Eppure si vedrà che per parte mia trascuro la maggior parte delle questioni relative alla razionalità, e che sono realista solo in base a ragioni del tutto pragmatiche19.

Si tratta di questioni importanti? Ripeto, ne dubito. Certo, ne dubito ancora, venticinque anni dopo che queste parole sono state pubblicate. Quando prima ho parlato di Rorty, il grande neo-pragmatista dei nostri tempi, ho mancato di dire che sono io stesso un “pragmatista”, vale a dire un membro patentato della filosofia di Peirce-James-Dewey. Ho detto che se c’è un senso in cui sono realista è per ragioni pragmatiche, non per via del pragmatismo. Peirce è uno dei miei eroi, proprio come Dewey è sempre stato d’esempio per Rorty. Ho mostrato tutto ciò in un articolo recente, in cui spiego perché non sono un pragmatista20. Il mio libro era un appello in favore dell’esperimento. La frase chiave era «la sperimentazione ha una vita propria», indipendente dalla teoria. La prima parte del libro spiegava diligentemente, in maniera ac-

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cessibile ma accademicamente corretta, ciò che era necessario sapere sui dibattiti filosofici recenti riguardanti la scienza teorica. Quando il libro venne pubblicato i filosofi mancavano semplicemente d’interesse per l’esperimento. Volevo aprire una porta. Il realismo scientifico era una vera e propria moda negli anni Ottanta: ho usato l’accesa controversia sul realismo scientifico come un perno su cui far leva con la mia difesa degli esperimenti. Ho avuto fortuna. A mia insaputa, un sacco di giovani ricercatori stavano a iniziando ad aprire, a modo loro, la stessa porta. Alla fine di quel decennio l’esperimento era assolutamente in voga tra i filosofi, gli storici e soprattutto i sociologi della scienza. Non c’era quindi alcuna contraddizione, nella mia mente, tra il mio argomento sperimentale per il realismo scientifico e ciò che ho detto a pagina 2, dove dubitavo che i dibattiti che vertono sul realismo (o sulla razionalità) fossero importanti. A volte vorrei aver chiesto a Rorty il permesso di citare il suo commento, «il realismo è Mickey Mouse».

11. In che cosa consisteva l’argomento sperimentale? (a) Se (NON “solo se”) Molte persone ricordano una frase che si trova nelle prime pagine del libro: «Se puoi spruzzarli, allora sono reali». Questa frase si riferiva a una pistola a elettroni che spruzzava elettroni polarizzati per ottenere certi effetti ben noti su di una sfera super-fredda, super-conduttiva e super-fluida di niobio. Un numero sorprendente di lettori, in un primo momento, intese non solamente quanto sopra, ma anche che «le entità sono reali solo se puoi spruzzarle». Non ho mai pensato questo. Non mi è semplicemente mai venuto in mente, ed è per questo che non ho mai preso precauzioni rispetto al fatto che qualcuno potesse pensarlo. Ernan McMullin era un filosofo della scienza sincero, che mi ha confessato, scusandosi, che aveva in effetti fatto proprio quest’errore di lettura. Più in generale, la mia idea principale era che i dibattiti allora correnti sul realismo scientifico non risultassero mai risolutivi perché condotti al livello della teoria e spesso al livello della semantica. Essi si

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svolgevano sempre come se i dibattenti avessero sottoscritto quella che John Dewey chiamava «la teoria della conoscenza dello spettatore». Come se tutto quello che facciamo nelle scienze fosse guardare e parlare, senza mai fare niente. La mia tesi di fondo era quindi che, solo liberandosi dalla teoria dello spettatore e iniziando a comprendere che la scienza implica il fare tanto quanto il ragionare, si poteva perdere interesse nei dibattiti che prosperavano negli anni Ottanta.

12. Qual era l’argomento sperimentale? (b) L’argomento più forte (NON quello definitivo) Il mio argomento sperimentale si trova al capitolo 16. La prima frase di quel capitolo dice: Il lavoro sperimentale fornisce l’evidenza più forte a favore del realismo scientifico.

Continuavo così: Ciò non è dovuto al fatto che si sottopongano a controllo le ipotesi sulle entità. È dovuto al fatto che le entità che in linea di principio non possono essere “osservate” sono manipolate regolarmente per produrre nuovi fenomeni e per indagare altri aspetti della natura. Sono attrezzi, strumenti, che non servono a pensare ma a fare (p. 310).

E via di seguito. Ho continuato fino a rendere questa riflessione piuttosto convincente, almeno secondo il mio parere. La mia intenzione è sempre stata quella di evitare il punto di vista dello spettatore. Sono stato in laboratorio, a osservare un team di sperimentatori. Ho provato a partecipare, facendo del mio meglio (che non è molto) per essere un osservatore partecipativo. Ho quindi fatto l’esperienza di pensare a come far usare alla strumentazione una certa entità al fine di ottenere qualcos’altro. Si noti che nella prefazione del libro ringrazio un collega che mi ha accolto nel suo laboratorio per imparare a usare un microscopio e per rompere un sacco di vetri nel tentativo di destreggiarmi. Oggi ho un

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assistente di ricerca, un dottorando dell’Università di Toronto, Eran Tal, che, supportato da due dottorandi in fisica, sta facendo esattamente la stessa cosa in un laboratorio di ottica quantistica che usa atomi freddi. Non ho mai pensato che l’argomento sperimentale fosse qualcosa di più che l’argomento più forte in favore del realismo scientifico, come dico in quella frase d’apertura. L’argomento può, in un caso particolare, risultare convincente, può essere persuasivo, ma non per questo esso è definitivo. Ho pensato, invece, che se un’entità non è ancora arrivata al punto di poter essere manipolata al fine di servire da strumento per scoprire qualcosa a proposito di qualcos’altro, allora non abbiamo ancora un argomento convincente per sostenere la sua esistenza. Non ho detto che in quelle circostanze non abbiamo alcun argomento, o che non possiamo ragionevolmente pensare che tale entità esista. Di sicuro non intendevo dire che «senza manipolazione, l’entità non esiste».

13. Un buon argomento può sempre avere una conclusione falsa Coloro che insegnano la logica elementare devono ricordare ai loro studenti che ottimi argomenti possono, talvolta, portarci fuori strada. L’argomento più forte che abbiamo a favore del realismo delle entità non deve necessariamente essere decisivo. Spesso i critici tirano in ballo vecchie storie come controesempi: il flogisto o l’etere onnipervasivo dei primordi della teoria elettromagnetica. Non mi sembra affatto ovvio che queste “entità” ipotetiche venissero manipolate per interferire con e conoscere meglio altri oggetti, o che si progettassero strumenti per sfruttare al massimo le capacità di utilizzarle. Mi si lasci quindi prendere un (contro-) esempio che conosco molto più dettagliatamente e che rispecchia meglio la forma del mio argomento. Il mio enunciato, sopra citato, sull’«evidenza più forte», potrebbe essere ambiguo. Il realismo scientifico non è una dottrina passe-partout per la quale ogni entità proposta da una teoria qualsiasi è “reale”. È la dottrina per cui, quando si sta usando una certa entità per indagarne altre, non ha senso parlare di antirealismo a proposito di quella prima entità. Non che si sia ragionevolmente convinti che essa sia reale e quindi che la dottrina generale che porta sulla realtà di (determinate) entità

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teoriche sia vera. Il punto di vista dello sperimentatore può essere espresso da quello che potremmo chiamare un argomento performativo. Il mio realismo sperimentale originario consiste in questo: (α) Il lavoro sperimentale fornisce l’evidenza più forte a favore della realtà di un’entità teorica inosservabile. Ho sempre pensato al realismo di questa o di quell’entità usando il mio esempio arcinoto dell’elettrone, o, in maniera più interessante, gli elettroni polarizzati. Adesso penso che non avrei dovuto parlare affatto di “evidenza”, perché ciò lascia pensare che si stia “inferendo” l’esistenza di un’entità che usiamo. Per dirla in breve, questa parola suggerisce un ritorno alla teoria della conoscenza dello spettatore di John Dewey. La scienza non è uno sport per spettatori. È un gioco che va giocato e quelli che giocano a hockey non inferiscono l’esistenza del disco: lo colpiscono, lo spostano, lo mirano, spesso lo mancano ma a volte ci segnano dei goal. Siccome ho scritto in termini di “miglior evidenza”, la maggior parte dei commentatori si è rifiutata di abbandonare il banco dell’accusa. Essi sostengono che il mio argomento sia un caso d’inferenza alla migliore spiegazione. Niente di più lontano da ciò che intendevo. Sono gli spettatori quelli che articolano spiegazioni21. Scelgo in modo arbitrario un articolo recente che riunisce due errori d’interpretazione della mia idea in una singola frase. Mauricio Suárez etichetta la mia «affermazione metafisica» come un caso di: Realismo sperimentale metafisico: la manipolazione è una condizione sufficiente per la realtà; x è reale se x può essere manipolato22.

Prima di tutto, ripeto che ho parlato di «evidenza più forte», non della possibilità di manipolare come una condizione sufficiente o una dimostrazione della realtà di x. C’è poi un punto molto più importante per il mio modo di pensare: la mia formulazione non parlava di manipolare e basta. Ciò che ho scritto è riportato qui sopra. Ho parlato di entità che sono manipolate regolarmente per produrre nuovi fenomeni e per indagare altri aspetti della natura. Sono attrezzi, strumenti, che non servono a pensare ma a fare.

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La manipolazione fine a se stessa non è molto diversa da uno sport per spettatori. Ho parlato del manipolare con uno scopo, o meglio, con più scopi: produrre nuovi fenomeni, indagare altri aspetti della natura, scoprire qualcosa. Inoltre non si deve dimenticare l’avverbio regolarmente. Una manipolazione isolata per tentare di produrre un nuovo fenomeno non è abbastanza. Suárez trova difficoltà nel distinguere una versione metafisica da una versione epistemologica del realismo sperimentale. Nel realismo sperimentale epistemologico, «la manipolazione è una condizione necessaria e sufficiente per la giustificazione causale [causal warrant]: la nostra credenza che x esiste acquisisce questo tipo speciale di giustificazione se e solo se noi crediamo di manipolare x». Se devo scegliere tra le due tesi, le mie intenzioni erano e sono metafisiche, non epistemologiche. Il fatto che abbia malauguratamente scelto di parlare di evidenza può suggerire che avessi qualche affermazione epistemologica in mente. In realtà stavo parlando di evidenza in favore di un’affermazione metafisica. Si ricordi, comunque, il mio dubbio circa la reale importanza delle questioni metafisiche! 14. Il migliore ma non quello definitivo Avrei preferito non aver espresso (α) in termini di evidenza, ma così è stato e devo conviverci. (α) non dice, neanche a proposito di un qualunque caso particolare, che l’evidenza è decisiva, solo che è convincente. Per questo gli esempi che menzionano l’uso del flogisto per produrre vari effetti – e con esso tutti gli esempi simili – non indeboliscono affatto il mio argomento. Non conosco abbastanza la storia del flogisto per sapere ciò che Priestley o chi per lui pensava di stare facendo. Ma sono pronto ad accettare sulla fiducia che il suo lavoro sperimentale gli abbia fornito una prova convincente per la realtà del flogisto. Questa non era però, purtroppo, decisiva. L’esempio che vorrei portare è tratto dai primi tempi della fotografia. Edmond Becquerel (1820-1891) faceva parte di una grande dinastia; suo figlio fu tra i vincitori del Premio Nobel per la scoperta della radioattività e suo padre fu uno dei grandi pionieri dell’elettrochimica. Nel 1839, all’età di 19 anni, Edmond presentò un articolo che, considerato retrospettivamente, può essere visto come la prima dimostra-

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zione dell’effetto fotoelettrico23. All’epoca, gli effetti base della fotochimica erano spiegati facendo l’ipotesi che il sole emettesse due tipi di radiazione, i raggi di luce e i raggi chimici. Ciò veniva insegnato nelle lezioni e nei manuali dell’École polytechnique, la cattedrale francese della matematica e della fisica. Edmond usava i raggi chimici per produrre differenze di potenziale elettrico e continuò con esperimenti sempre più creativi in questo senso. Sono sicuro che fosse convinto della realtà dei raggi chimici precisamente perché poteva usarli per indagare altri fenomeni, come il potenziale elettrico, e soprattutto per poter cambiare le proprietà di varie emulsioni di cloruro in ciò che oggi chiamiamo fotografia. Nello stesso anno, il 1839, Daguerre spiegava il segreto del suo meraviglioso processo per produrre immagini, il dagherrotipo; nel 1840, il giovane Edmond Becquerel in persona usava i raggi chimici per produrre immagini eccezionali – fotografie – di ponti sulla Senna, i giardini delle Tuileries, etc. Egli disponeva di un argomento convincente per l’esistenza di queste entità teoriche, i raggi chimici. Purtroppo, come molti argomenti convincenti, non era decisivo24. Ma questo non è un controesempio di (α) circa l’evidenza più forte a favore del realismo scientifico di questa o quell’entità. Il mio argomento non si riferiva al fatto di prendere in considerazione qualche esperimento, si riferiva alla manipolazione. Era prima di tutto una spiegazione della convinzione che hanno gli sperimentatori del fatto che talvolta le entità che essi usano sono tanto reali quanto le loro mani sinistre. A questo si può rispondere: sappiamo bene che gli scienziati la pensano così, e allora? Io dico che non è solo che pensano così; essi hanno una ragionevole convinzione basata su ciò che sono in grado di fare con varie entità. Ho fatto riferimento, in particolare, all’ingegneria: ciò che avevo in mente era la progettazione e la costruzione di un apparato strumentale finalizzato alla possibilità di agire su di un’entità, ad esempio gli elettroni polarizzati, o i raggi chimici.

15. Quando non è possibile interferire Ho scritto, in seguito, un articolo sulle lenti gravitazionali, proprio nel momento in cui esse facevano notizia, vale a dire nel 1986, dopo che furono localizzate le prime quattro di tali lenti25. L’effetto “lente gravi-

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tazionale” [gravitational lensing] è una conseguenza della teoria della relatività generale. Supponiamo che ci sia una stella di massa enorme, a grandissima distanza. Supponiamo anche che ci sia una sorgente luminosa ancora più lontano, dietro alla prima stella. La luce che proviene da quella sorgente sarà deviata dalla stella, magari da entrambi i suoi lati, proprio come la luce è deviata dal riflesso quando passa attraverso una lente di vetro adatta. Se siamo abbastanza fortunati e le condizioni sono quelle giuste, le lenti gravitazionali ci forniranno un’opportunità straordinaria per rendere oggetti distanti “più vicini”, nel senso metaforico in cui si dice a volte di un telescopio che avvicina un oggetto lontano. Ho preso le lenti gravitazionali come un esempio perfetto di qualcosa col quale noi non possiamo interferire, qualcosa che semplicemente non possiamo manipolare. Einstein, sulla base di un calcolo fatto sul retro di una busta da lettere, aveva concluso che non saremmo mai stati in grado di localizzare una lente gravitazionale. Questo era per lui qualcosa di magnifico. Avremmo saputo che questo fenomeno accade dappertutto nell’universo, senza mai poterlo vedere! Einstein si sbagliava. Nel 1980 le lenti gravitazionali iniziarono ad essere localizzate; adesso sono qualcosa di assolutamente normale. Esse vengono utilizzate per conoscere meglio l’universo lontano (confesso che alcuni degli usi professati sono un po’ esagerati, più per accaparrarsi dei fondi che per studiare l’universo lontano). Ma nonostante ciò non possiamo ancora interferire con le lenti, non possiamo metterle a fuoco, sebbene possiamo fare cose ingegnose con la luce deviata che ci regalano. Si confrontino le lenti con i raggi cosmici, straordinarie fonti di fasci ad alta energia a basso costo, utilizzati già negli anni Trenta per scoprire le particelle subatomiche. In questo caso si possono manipolare i fasci, ma non le sorgenti. Terminavo quell’articolo forse con troppa leggerezza, suggerendo che si potesse essere in un certo senso fenomenisti a proposito delle lenti gravitazionali, prendendole come entità teoriche che si adattano in modo ammirevole ai fenomeni e riescono a spiegarli. Ho avanzato tale proposta anche per i buchi neri – a proposito dei quali saremo sempre in una posizione duhemiana, nella quale il meglio che possiamo fare è “salvare (risolvere) i fenomeni”. Questo perché in questo caso siamo dei meri spettatori, spettatori dello scompiglio che pensiamo essi possano portare.

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Mi stavo facendo prendere la mano, come si vedrà dal fatto che quell’articolo sull’astrofisica termina citando una poesia. Mi sarei dovuto fermare un po’ prima, dicendo semplicemente che le lenti gravitazionali erano, all’epoca, una novità assoluta per l’astronomia osservativa, di un potenziale immenso, ma che l’argomento sperimentale per il realismo non vi si sarebbe mai potuto applicare. L’argomento più forte a favore del realismo non poteva essere quindi invocato. Non intendevo asserire in maniera positiva l’antirealismo delle lenti gravitazionali. Non volevo affermare che esse non sono sicuramente reali! Mi scuso con tutti quelli che hanno pensato che ciò che volessi dire fosse che non dovremmo credere che esse siano reali. Intendevo solo che abbiamo ragioni più convincenti per asserire l’esistenza degli elettroni polarizzati che non per le lenti gravitazionali.

16. L’autogiustificazione delle scienze di laboratorio26 Ho pubblicato un articolo con questo titolo dopo che ho iniziato a sviluppare il mio adattamento filosofico dell’idea degli stili di pensiero scientifico di Crombie. A quanto pare è stato recentemente tradotto in cinese. L’articolo non riguardava il realismo o l’antirealismo. In effetti, esso è stato scritto con la ferma convinzione che i dibattiti sul realismo fossero la conseguenza dell’emergenza delle scienze di laboratorio. Se si volesse applicare l’epiteto di Nelson Goodman, “irrealista”, a quell’articolo, lo accetterei con riluttanza. Perché con riluttanza? Perché l’irrealismo ha un che di antirealismo, e ormai non voglio essere né realista né antirealista. Forse mi crogiolo nell’illusione che Representing and Intervening fosse un lavoro realista, mentre questo articolo è antirealista. In realtà nessuno dei due è probabilmente nessuna delle due cose. L’argomento era che l’esperimento, la teoria e l’apparato sperimentale costituiscono delle risorse plastiche, un concetto che ho ripreso da Andrew Pickering. Ognuno di essi può essere plasmato e adattato per aggiustarsi sugli altri. Duhem aveva già mostrato come la teoria potesse essere modellata per rendere conto dei risultati sperimentali recalcitranti, ma anche come si potesse modellare una descrizione del-

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l’esperimento in modo da preservare la teoria. Ho aggiunto a ciò che ci sono molti strati di teoria e di esperimento, incluse le teorie che riguardano la strumentazione e il substrato materiale, cioè la strumentazione fisica. Tutti questi strati vengono cambiati e modificati nel tentativo di “ottenere” un risultato sperimentale. Il risultato è una specie di autogiustificazione [self-vindication] che non è circolare in modo vizioso; in effetti, essa è incredibilmente difficile e spesso impossibile da ottenere. Quando essa risulta impossibile si origina quella ricerca che non viene mai pubblicata e che è cancellata dalla storia. Ed è, in effetti, la maggior parte della ricerca a esser cancellata.

17. La stabilità delle scienze Uno degli intenti di quell’articolo era affrontare il tema della stabilità delle scienze. I filosofi sono stati testimoni di un’epoca rivoluzionaria, in senso letterale, per le nostre concezioni dello spazio, del tempo e della causalità. Ma – diciamo dopo il 1950 – le rivoluzioni hanno smesso di accadere in fisica. Come se ci fossimo finalmente messi sulla strada giusta. Ho sostenuto, inoltre, che d’ora in poi non ci saranno più rivoluzioni, solo sorprese. Quest’ultima era una tesi minore, all’interno di una lunga discussione sugli esperimenti nell’ultra-freddo. In quest’occasione posso solo rinviare in maniera cursoria a queste idee. È mia convinzione che la fisica stessa stia cambiando in modo da rendere la mia tesi sull’autogiustificazione sempre più evidente. Ecco una frase recente che ho notato, riguarda gli atomi freddi: […] i nostri risultati indicano il fatto che [il modello di Bose-Hubbard] è sufficiente per spiegare tutte le proprietà scoperte nell’esperimento e che l’esperimento è stata una realizzazione chiara del modello, secondo le attese27.

Il modello è corretto perché spiega come l’esperimento si è svolto e l’esperimento è ben riuscito perché rispecchia il modello. Serve altro per poter parlare di autogiustificazione?

DA DOVE VIENE LO STILE DI HACKING? UN PONTE FRA SCIENCE STUDIES ED EPISTEMOLOGIA STORICA

di Gerardo Ienna

Come definire e caratterizzare la ragione scientifica? Questa è la domanda fondamentale nella quale, per necessità, ogni filosofo, storico o sociologo delle scienze si è imbattuto almeno una volta nel suo percorso intellettuale. Nelle lezioni di Taiwan del 2007, Ian Hacking cerca di tirare le fila di alcune fra le maggiori linee del suo percorso intellettuale. Uno dei concetti cardine della sua filosofia, cui è dedicato ampio spazio in La ragione scientifica, è il concetto di “stile” che costituisce, esso stesso, in buona parte lo “stile” hackingiano. In parte, come si è visto, una ricostruzione delle radici storiche di questo termine sono state fornite dallo stesso autore sia nel testo che presentiamo, sia in altre occasioni. Ma da dove viene questo stile? All’interno di quali dibattiti si inserisce? La potenzialità di questo concetto, così come l’ha strutturato Hacking, è quella di riuscire a costruire dei ponti che mettano in comunicazione vari orientamenti teorici risolvendo tensioni interne agli studi sulla scienza che prima risultavano difficilmente conciliabili. Le poste in gioco sono variegate e le voci che si sono avvicendate dagli anni Novanta a oggi, riguardo a una possibile ricostruzione archeologica1 del concetto di stile, ne hanno indicato una pluralità intrinseca forse anche grazie alla genericità e plasticità del termine. Per esempio Arnold I. Davidson (autore molto vicino a Hacking) elabora un percorso genealogico che porta dal concetto di stile nella storia dell’arte, con il ricorso all’opera di Heinrich Wölfflin e altri, passando per Michel Foucault, per arrivare fino all’epistemologia di Hacking2. Jean Gayon, dal canto suo, risale internamente alla tradizione della storia della scien-

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za fino a Pierre Duhem3. Pierre Bourdieu invece, affascinato dalle potenzialità del concetto anche in campo sociologico, evidenzia l’utilizzo fattone da Karl Mannheim4 che effettivamente adopera lo stesso termine tedesco di Ludwik Fleck: Denkstil5. Lo stesso Hacking cita Stephen Weinberg, Bernard I. Cohen e Noam Chomsky fra i sostenitori del fatto che Edmund Husserl parli già di uno stile galileiano; oppure di Oswald Spengler che propone l’idea di stile occidentale6; per non parlare dei richiami più canonici ad Alistair C. Crombie e Fleck che sono riconosciuti, ormai universalmente, come i riferimenti intellettuali egemonici su queste tematiche. Ci sono almeno due fattori poco evidenziati invece negli studi sul concetto di stile, sui quali vorremmo cercare di porre l’attenzione per darne un’adeguata interpretazione. Da un lato è stata sottovalutata l’intima relazione con l’epistemologia storica francese (al di là dell’esplicito riferimento foucaultiano) e in special modo al concetto di regionalismo epistemologico cui il concetto di stile risulta esser una diretta continuazione e risposta. Dall’altro invece, è il suo inserimento all’interno dei dibattiti dei cosiddetti Science (and Technology) Studies, ai quali Hacking partecipa – a modo suo – elaborando risposte eterodosse a partire proprio dai suoi riferimenti teorici variegati. La stessa traiettoria intellettuale di Hacking si è costituita a partire da questo tipo di strategia distintiva di messa in comunicazione, da un lato, di tradizioni filosofiche apparentemente inconciliabili come quella analitica e anglofona (relativa alla sua formazione) e quella continentale (del suo avvicinamento ai testi foucaultiani e dell’epistemologia storica) e, dall’altro, di varie discipline come la storia, la sociologia e la filosofia delle scienze. Vediamo dunque di ricostruirne il percorso. Nel 1980 Martin Hollis e Steven Lukes decidono di curare una raccolta di saggi dedicata al rapporto fra razionalità e relativismo7 preoccupati dalla crescente centralità conquistata dal programma forte in epistemologia, sviluppato alla Science Studies Unit di Edimburgo8 da Barry Barnes, David Bloor, David Edge e gli altri con il programma della Sociologia della Conoscenza Scientifica (SSK), connotata da un estremo relativismo. Hacking decide di accettare l’invito di Hollis e Lukes a partecipare al progetto in corso di preparazione per il quale scriverà il celebre testo Linguaggio, verità e ragione9 che segnerà l’inizio di quello che ha poi chiamato in seguito The Style Project. I curatori organiz-

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zarono l’ordine dei contributi a partire dal “più relativista” al più “razionalista”, aprendo il volume con Relativism, Rationalism and Sociology of Knowledge di Barnes e Bloor, seguito immediatamente dal contributo di Hacking (il quale rimase estremamente sorpreso di come era stato interpretato il suo posizionamento filosofico)10. Già in questo testo, viene rintracciata in Crombie la primaria fonte di ispirazione riguardo alla formulazione del concetto di stile. Quest’ultimo autore è stato il primo a parlare di stili di pensiero, attorno ai quali è costruita la monumentale opera Styles of Scientific Thinking in the European Tradition del 1994, cui erano però precedute alcune formulazioni a partire dagli anni Settanta in occasione di paper e convegni11. In particolar modo Hacking dichiara di aver ascoltato una conferenza di Crombie su quel tema a Pisa, nel 1978, a seguito della quale lui stesso ha cominciato a ragionare sul termine “stile”12. Ciò che proponeva Crombie in quell’intervento, e poi in maniera più estesa nel testo del 1994, è l’individuazione e classificazione di sei stili di pensiero, metodi scientifici che si sono costituiti nello sviluppo delle scienze:

Schema riassuntivo di comparazione fra gli stili di pensiero di Crombie e gli stili di ragionamento di Hacking.

I primi tre stili rappresentano essenzialmente l’analisi delle regolarità individuali, mentre gli ultimi tre riguardano piuttosto l’analisi delle regolarità delle popolazioni ordinate nello spazio e nel tempo13. Crombie non fornisce una chiara definizione analitica del concetto di stile di

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pensiero, accontentandosi piuttosto di darne una connotazione e descrizione che Gayon ha definito ostensiva14. È piuttosto a Hacking che si deve «quella che a oggi è la caratterizzazione dello stile di ragionamento più promettente dal punto di vista filosofico», cui arriva «combinando a modo suo la lezione di Foucault e quella di A.C. Crombie»15. Come ha sottolineato Vagelli nel saggio introduttivo16, l’apporto di Hacking alla formulazione di una teoria degli stili è fondamentale e rappresenta a tutti gli effetti in cosa consista, per la sua filosofia, la ragione scientifica. In tal senso, bisogna prima di tutto sottolineare lo shift linguistico da lui messo in opera dagli stili di pensiero formulati da Crombie, agli stili di ragionamento: Ci sono molti altri motivi che mi hanno fatto optare per il ragionamento rispetto al pensiero. […] “Ragionamento” evoca anche la Critica della ragion pura. Il mio lavoro è una continuazione del progetto kantiano di spiegare come sia possibile l’oggettività. […] Kant non pensava che la ragione scientifica fosse un prodotto storico e collettivo. Noi sì. I miei stili di ragionamento, eminentemente pubblici, sono parte di ciò che dobbiamo capire se vogliamo afferrare il significato di “oggettività”. E questo non certo perché gli stili sono oggettivi (ovvero perché avremmo trovato il modo più imparziale per giungere alla verità), ma perché hanno stabilito ciò che conta come oggettivo (le nostre verità vengono raggiunte solo se conduciamo certi tipi di ricerche e rispettiamo degli standard particolari)17.

A livello storiografico, una volta che il termine “stile” ha trovato la sua applicazione in epistemologia, storia, filosofia e sociologia delle scienze, si è cercato di procedere a ritroso, nel tentativo di ricercare un capostipite simbolico di questa tradizione. Universalmente si sono potuti riconoscere nell’opera di Fleck Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Per una teoria dello stile e del collettivo di pensiero18 del 1935, i prodromi iniziatici di questo dibattito. È opportuno segnalare che l’opera in questione è rimasta pressoché sconosciuta almeno fino a quando Thomas Kuhn non l’ha citata e presa come punto di riferimento ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche del 1962 (di cui Hacking ha curato l’edizione del cinquantesimo anniversario) prendendo il concetto di collettivo di pensiero come spunto per costruire

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la sua nozione di paradigma. Lo stesso Kuhn ne introdurrà la prima edizione inglese nel 1979 su impulso di Robert K. Merton, curatore dell’edizione insieme a Thaddeus J. Trenn per la University Chicago Press19. Il curatore dell’edizione francese della Genesi è stato Bruno Latour, che ne ha corredato l’edizione con una postfazione in cui viene messo evidenza che: «Fleck sviluppa un programma di ricerca che assomiglia incredibilmente al “programma forte” messo a punto quarant’anni dopo da David Bloor, Barry Barnes, Harry Collins, Steve Shapin e molti altri»20. In questa maniera si è così costituita ex post la figura di Fleck come quella di un “precursore” degli Science (and Technology) Studies, santificata dalla maggior parte degli handbook, delle introduzioni e delle varie genealogie21 del campo che sono state pubblicate negli ultimi anni e che affermano il suo ruolo di capostipite di una certa tradizione22. Ciò che mostra con chiarezza la nozione di stile nell’utilizzo di Fleck è, in primo luogo, che presuppone una certa pluralità e collettività. Nel descrivere la storia della sifilide infatti, l’autore mette in evidenza le differenze che si possono evincere nell’approcciarsi a quel determinato oggetto di studio a seconda che si utilizzi uno stile batteriologico, uno stile clinico, uno stile dermatologico o uno stile socio-politico23. Dall’altro canto, lo stesso Hacking, che risale alla matrice fleckiana del termine, tiene a sottolineare la relativa differenza rispetto al suo utilizzo e a quello di Crombie. Con “stile di pensiero” Fleck intendeva parlare di qualcosa di meno generale di quello di cui si occupa Crombie, qualcosa di limitato a una disciplina o a un campo di ricerca. In ogni caso, uno stile di pensiero è impersonale, caratteristico di un’unità sociale detta “collettivo di pensiero”. È la “totalità della preparazione e della prontezza nei confronti di un modo particolare di vedere e di agire” (Fleck, 1979, p. 64). Fleck voleva descrivere ciò che è possibile pensare, un Denkstil rende alcune idee possibili e altre impensabili. Io e Crombie ci concentriamo sulle estremità dello spettro di questi usi possibili, e quindi abbiamo individuato pochi stili di pensiero e ragionamento24.

Quali sono dunque le caratteristiche degli stili di ragionamento scientifico? E quali gli apporti di Hacking alla strutturazione del concetto? In

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primo luogo è necessario sottolineare che esistono diversi stili di ragionamento (già il termine stile implica questo pluralismo connotativo del carattere della ragione scientifica) e che questi hanno un piano di emergenza storica ben precisa, con distinte traiettorie di maturazione. In secondo luogo, le proposizioni che per esser convalidate hanno bisogno di un ragionamento possiedono una positività, la possibilità di essere vere-o-false solo in conseguenza dello stile di ragionamento in cui occorrono. Da ciò ne consegue che molte delle categorie di possibilità, di ciò che può essere vero o falso, sono contingenti rispetto agli eventi storici, ovvero allo sviluppo di determinati stili di ragionamento. In questo senso, se ne può inferire che esistano altre categorie di possibilità rispetto a quelle che sono emerse nella nostra tradizione. Su quest’ultime è però impossibile ragionare per determinare se siano migliori o peggiori delle nostre, in quanto, le proposizioni su cui ragioniamo traggono senso solo dallo stile di ragionamento in esse impiegato. Le proposizioni non hanno un’esistenza indipendente dai modi di ragionare su di esse25. In questo senso quindi, per Hacking, ogni nuovo stile di ragionamento introduce una serie di novità, fra cui: nuovi oggetti, nuove forme di evidenza, nuovi enunciati, nuovi modi di esser candidati alla verità o falsità, leggi o ogni nuova modalità di possibilità26. In questo modo di definire il concetto di stile risulta chiaro un forte rimando a uno stilema foucaultiano, verso il quale l’autore non ha mai negato, ma anzi ha sottolineato, la sua filiazione intellettuale. La domanda che dobbiamo porci però è: ma di quale “Foucault” si serve Hacking per elaborare il suo concetto di stile? Si tratta infatti di quella parte del pensiero foucaultiano maggiormente legata alla storia interna dell’epistemologia francese ovvero in quella parte debitrice delle elaborazioni teoriche di Bachelard e di Canguilhem. La discontinuità storica e la spazializzazione delle forme di sapere operata ne L’archeologia del sapere e ne Le parole e le cose ne è un chiaro simbolo, di cui il concetto di episteme ne è la concretizzazione. L’archeologia, concepita come una «comparazione sempre limitata e regionale»27, e la ricerca, «non tanto della genesi delle nostre scienze quanto di uno spazio epistemologico proprio a un periodo particolare»28, sviluppata nello «studio strettamente regionale»29 de Le parole e le cose rimandano a questa tradizione epistemologica. Questo tema, che va sotto il nome di regionalismo epistemologico, trova la sua prima formulazione esplicita nella filosofia di Bachelard e

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un suo prolungamento nelle teorie di Canguilhem per esser poi recepito, in un secondo momento, da Louis Althusser e Michel Foucault30. Nelle scienze sociali invece, è principalmente a opera di Pierre Bourdieu, Chamboredon e Passeron che questo tema viene recepito. Fin dalla prima formulazione del concetto di stile in Linguaggio, verità e ragione, sia in quelle successive come Lo “stile” per gli storici e i filosofi, Hacking esplicita con chiarezza il suo rimando alle metafore regionaliste utilizzate da Althusser in Lenin e la filosofia31 scrivendo: «A volte vengono usate parole più drammatiche di quella di “stile”, come quando Althusser scrisse che Talete ha aperto un nuovo continente, quello della matematica, che Galileo ha aperto quello della dinamica e Marx quello della storia»32. Il regionalismo consiste nell’elaborazione di un programma filosofico – in opposizione alla tensione generalista in epistemologia proposta dal Circolo di Vienna – che consiste nel sottolineare la diversità delle scienze o la pluralità, la singolarità, addirittura l’irriducibilità dei diversi domini della scienza, ossia mettere in risalto le variazioni storiche nel corso dell’evoluzione di una stessa scienza e le peculiarità inerenti alle diverse scienze. Nelle sue versioni più radicali, il regionalismo epistemologico può arrivare fino a sposare la tesi della pluralità delle logiche: ogni scienza, o per parlare con Althusser, ogni continente scientifico o, per parlare come Foucault, ogni episteme ha le proprie leggi logiche e le proprie regole d’inferenza33.

È rilevante notare come ci sia una differenza di lessico fondamentale, rivelatrice di questo diverso orientamento teorico, fra il linguaggio filosofico contemporaneo inglese e quello francese. Da un lato, vi è una chiara opposizione fra le espressioni inglesi Philosophy, History o Sociology of science, il cui genitivo declinato al singolare lascia intendere una concezione unitaria del procedimento scientifico, e quello francese di Philosophie, Histoire o Sociologie des sciences, che invece è teso a render l’idea di una certa pluralità delle discipline scientifiche. In questo senso, il regionalismo epistemologico risulta esser quindi una tendenza interna e comune a tutta la filosofia francese34 già a partire da un livello linguistico. Dall’altro lato, nelle formulazioni dell’inglese contemporaneo, il concetto di epistemology rappresenta lo studio della teo-

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ria della conoscenza in generale, dove invece il suo (non)corrispondente francese épistémologie fa riferimento esclusivamente alle teorie sulle varie conoscenze scientifiche. Bachelard, opponendosi alle tesi sostenute dai neo-positivisti del Circolo di Vienna, sostiene il carattere intrinsecamente storico della ragione, che produce pluralismi razionali o razionalismi aperti. In particolare, in Il razionalismo applicato, viene sviluppata l’idea che la ragione tenda a declinarsi in maniera differente secondo i campi d’indagine. Si formano così razionalismi specifici a ogni zona del sapere, e metodi a essa correlati, che creano un’organizzazione regionale del sapere (richiamandosi alle ontologie regionali husserliane) come ad esempio il razionalismo meccanico o il razionalismo elettrico. Il razionalismo viene dunque frammentato, associandosi alla materia che esso stesso informa, tramite l’idea portante di fenomenotecnica, che permette di concepire il vettore epistemologico come orientato dal razionale al reale. Un vettore dunque realizzante, che percorre una traiettoria che va dal reale percepito, all’esperienza realizzata dalla scienza. Questo porta però a porre il problema filosofico della relazione fra i vari razionalismi regionali con il razionalismo generale. Bachelard chiarisce che ci sono due modi per concepire questo rapporto: il primo consiste nel definire la razionalità a priori in maniera che debba valere per tutte le esperienze presenti, passate e future. Questo modello epistemologico è definito dall’autore «fissista»: con una tale pretesa di universalità, esso resta molto vicino alle soluzioni solipsistiche dell’idealismo, che viene dunque chiaramente rifiutato dall’autore35. Bachelard è interessato invece a mettere in rilievo quelle pratiche del lavoro scientifico (da qui il razionalismo applicato) che rendono possibile un modello di razionalismo in grado di far dialogare le varie regionalità in un approccio definito razionalismo integrale o integrante. La prima caratteristica di questa forma di epistemologia integrante è il suo esser costruita a posteriori rispetto alle epistemologie regionali, attraverso la messa in relazione dei fenomeni che obbediscono a dei tipi di esperienza ben definiti (il che la oppone fin da subito alla prima forma elencata). La seconda possibilità di risoluzione della tensione regionalista/generalista rimanda invece alla natura sociale della conoscenza scientifica che Bachelard struttura in maniera dialettica. La riflessione scientifica non si può ridurre dunque a uno sforzo del

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soggetto singolo e isolato, essa è al contrario essenzialmente culturale, storica e sociale. L’uomo non è più solo davanti all’oggetto scientifico. Bachelard insiste molto sul carattere collettivo e sociale della definizione della ragione, sostenendo un co-razionalismo inteso come il razionalismo de l’union des travailleurs de la preuve. Il razionalismo integrale deve dunque essere un razionalismo dialettico che decide la struttura in cui deve impegnarsi il pensiero per informare un’esperienza […]. Non si pone più dunque il problema di definire un razionalismo generale che raccoglierebbe la parte comune dei razionalismi regionali. Si ritroverebbe per questa via solo il razionalismo minimo utilizzato nella vita comune. Si cancellerebbero le strutture. Si tratta al contrario di moltiplicare e di affinare le strutture, ciò che dal punto di vista razionalista deve esprimersi come un’attività di strutturazione, come una determinazione della possibilità di multipli assiomatici per affrontare il moltiplicarsi delle esperienze36.

In questo tipo di tensione teorica si può vedere fin da subito la relazione organica con il concetto di stile hackinghiano. Si deve sfuggire dalla tentazione di ridurre le varie declinazioni regionali (o stilistiche) della ragione scientifica a quella razionalità minima del senso comune, si deve piuttosto procedere per moltiplicazione al fine di far emergere le strutture della razionalità scientifica integrata. Inoltre, connessa alla metafora della regione, Bachelard struttura anche la nozione di frontiera epistemologica che rappresenta, in primo luogo, il limite stabilito fra la conoscenza scientifica e quella del senso comune (rottura epistemologica) e, in un secondo senso, rinvia contestualmente allo spostamento costante del limite della conoscenza che determina la possibilità di uno sviluppo del pensiero scientifico37. Bachelard pur avendo proposto, come si è visto, un regionalismo epistemologico tale per cui a ogni regione della scienza corrispondono delle forme di razionalità specifica, non applica mai la nozione di frontiera alla questione della divisione fra discipline (il regionalismo nella sua declinazione ha a che fare solo con l’individuazione di zone della razionalità). Canguilhem, erede diretto della filosofia bachelardiana, prosegue questa impostazione regionalista dell’epistemologia operando però delle sottili differenze. Da questo punto di vista, Canguilhem assume un ruo-

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lo significativo rinnovando lo stile francese in epistemologia regionalizzando anche la storia delle scienze38 declinata, per queste ragioni, al plurale. Per Canguilhem infatti, ogni regione della storia delle scienze possiede un suo oggetto proprio, che è differente dall’oggetto della disciplina in questione, e una propria metodologia e mezzi per studiarlo. Pertanto fare una storia della fisica oppure della biologia comporta delle differenti poste in gioco e maniere per approcciarsi ai temi in questione. Questa metafora spaziale della regione è direttamente connessa con altri termini, come déplacement, frontière, filiation, place occupé, che figurano nei testi di Canguilhem. In questo tipo di approccio, le scienze sono rappresentate su un piano. Così come esistono regioni della razionalità, allo stesso tempo esistono le regioni della scienza. Ogni regione ha dunque delle frontiere determinate dagli oggetti e dai metodi propri a ciascuna di esse che compongono quindi uno spazio di specificità disciplinari. Il razionalismo, sottoposto all’analisi storica, cambia forma riuscendo comunque a sopravvivere come potere d’istituzione di rapporti normativi e non come osservazione di rapporti essenziali inclusi nella realtà delle cose (il vettore epistemologico va dal razionale al reale). Nella stessa maniera, nelle opere di Canguilhem, l’espressione frontiera è spesso utilizzata. Nella raccolta La connaissance de la vie, per esempio, egli riprende in un passaggio, a proposito del vitalismo, l’idea bachelardiana di frontiera epistemologica, e nello stesso senso parla di frontiera a proposito della distinzione fra normale e patologico e, in tutta la sua opera, utilizza metafore spaziali esplicative per render ragione di problemi epistemologici. In Sur l’histoire des sciences de la vie depuis Darwin, utilizza anche la nozione di frontiera quando deve descrivere il limite ambiguo fra la biologia e le altre discipline. Questa declinazione del regionalismo in termini disciplinari viene ripresa e applicata nell’ambito dell’epistemologia delle scienze sociali da Bourdieu, Chamboredon e Passeron in Il mestiere di sociologo. È a partire da questa impostazione epistemologica che si sviluppano le successive ricerche dello stesso Bourdieu39 e dei post-bourdieusiani40 nell’ambito della sociologia dei campi accademici e disciplinari. D’altronde, a partire soprattutto dalla sua elezione al Collège de France, Hacking comincia a integrare nella sfera dei suoi riferimenti intellettuali anche quelli ai fondamenti filosofici del sistema bourdieusiano41. In special modo, è il modello di

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storicismo – definito da Hacking leibniziano – proposto dal sociologo francese che risulta essere un luogo di incontro fra i due. Nel capitolo delle sue Meditazioni intitolato I fondamenti storici della ragione egli ha scritto: «Dobbiamo riconoscere che la ragione non è caduta dal cielo, come un dono misterioso e destinato a rimanere inesplicabile, quindi essa è completamente storica; ma con questo non siamo in alcun modo costretti ad arguire, come si fa di solito, che essa sia riducibile alla storia». Egli ha proseguito dicendo che «è nella storia, e nella storia soltanto, che va cercato il principio dell’indipendenza relativa della ragione nei confronti della storia». Inoltre – e qui parafraso una frase eccessivamente francese – egli pensava che «la storia singolare della ragione si compie» in condizioni «assolutamente specifiche», «propriamente storiche», ma del tutto eccezionali. Potrei presentare il mio uso degli stili di ragionamento scientifico come una lunga glossa a questo passo di Bourdieu.42

La domanda su cui si snoda l’ultimo corso al Collège di Bourdieu consiste nel chiedersi come sia possibile che la scienza sia un prodotto della storia e allo stesso tempo sia in grado di produrre verità transstoriche. La tensione a storicizzare la ragione senza relativizzarla è il cuore pulsante dell’epistemologia storica43 (e del regionalismo epistemologico) che viene riattualizzata sia da Hacking sia da Bourdieu proprio in funzione di antidoto rispetto agli esiti sempre più relativisti degli Science (and Technology) Studies44. Anche Passeron, dopo la sua rottura con Bourdieu, nel percorso intrapreso in Le raisonnement sociologique ha provato a declinare il regionalismo epistemologico all’interno delle scienze sociali ricercando lo stile proprio alle scienze sociali nell’elaborazione dello spazio non-popperiano dell’argomentazione45. Anche qui, pensare la storia delle scienze nei termini hackinghiani di stile permette di superare una serie controversie classiche a proposito della ricerca di una definizione epistemologica di disciplina scientifica tali per cui, per esempio: Gli stili di pensiero scientifico non sono scienze o discipline scientifiche e non si escludono a vicenda. La biologia evolutiva usa molta (1) matematica, (2) misurazione ed esplorazione sperimentale, (3) modellizza-

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zione ipotetica e analogia, (4) tassonomia, (5) probabilità e statistica, e tuttavia è il nostro esempio più riuscito di una scienza storico-genetica. La maggior parte delle scienze moderne utilizza gran parte degli stili di pensiero scientifico di Crombie46.

Le discipline altro non sono che configurazioni storiche particolari che selezionano, all’occorrenza, alcuni fra gli stili di ragionamento per elaborare le loro pratiche discorsive (che si producono, riproducono e cristallizzano nel tempo). Operando un passaggio da un tipo di metafora cartografica come quella di regione a una di tipo stratigrafico come quella di emergenza47 Hacking traduce il dibattito e le domande del regionalismo epistemologico nei termini del concetto di stile mantenendone al suo interno le caratteristiche fondamentali: in primis, l’idea di pluralismo, poi quella di collettività e, infine, quella di una certa direzionalità del vettore epistemologico. Una volta emersi gli stili di ragionamento pongono in essere «nuovi oggetti, nuove forme di evidenza, nuovi enunciati, nuovi modi di esser candidati alla verità o falsità, leggi o ogni nuova modalità di possibilità». Hacking cerca dunque di rispondere alla domanda sulla natura della ragione scientifica sfruttando le teorizzazioni sviluppate all’interno della tradizione dell’epistemologia storica per la ricerca di una via intermedia fra il logicismo positivista e neo-positivista sviluppato nel programma del Circolo di Vienna (cui si opponevano già Bachelard e gli altri) senza cadere però nell’estremità opposta proposta dal relativismo soggiacente alle varie tradizioni interne agli Science (and Technology) Studies. Quest’ultimi sono rappresentati da un lato dal programma forte (di cui si è parlato in apertura) e dall’altro dalla proliferazione di quegli studi sui saperi situati (fra cui gli studi di laboratorio) che conducono a una estrema frammentazione dei saperi scientifici. Nell’individuazione di questa terza via – tramite appunto il ricorso all’epistemologia francese – ne va della definizione stessa del concetto di stile che permette di definire la ragione scientifica. Hacking spinge così oltre il suo limite anche l’épistémologie historique à la française strutturando l’idea di un’ontologia storica48 o (meta)epistemologia storica che consiste nell’adozione di un nominalismo dinamico al fine di descrivere i fenomeni di emergenza di nuove pratiche discorsive, di oggetti, di possibilità di esser candidati alla ve-

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rità o falsità. L’ontologia storica permette di dare una descrizione dei fenomeni – siano essi oggetti, pratiche, schemi categoriali, tipi di persone, ecc. – secondo i tre assi foucaultiani del sapere, del potere e dell’etica. Infatti il concetto di stile permette a Hacking di tener insieme in un rapporto integrante (per dirla con Bachelard) la pluralità delle varie tipologie di razionalità scientifica (senza per questo cadere in una forma di riduzionismo). Per esempio, come si è visto nel testo delle lezioni che compongono La ragione scientifica, lo stile di laboratorio è un tema particolarmente caro a Hacking, che vede nella figura di Robert Boyle, e nella costruzione della pompa ad aria, la sua genesi mitica49. D’altronde Hacking si era già legittimato all’interno delle tematiche care agli Science (and Technology) Studies con la pubblicazione di Representing and Intervening del 1983: La seconda parte del libro, Intervening, era un appello ai filosofi perché prendessero gli esperimenti seriamente. La filosofia delle scienze, specialmente delle scienze fisiche, era stata per decenni totalmente dominata dalla teoria. […] Latour e Woolgar avevano già pubblicato la loro etnografia del laboratorio e Shapin e Schaffer stavano completando Il Leviatano e la pompa ad aria. Di lì a poco Peter Galison avrebbe pubblicato How Experiments End50.

Nella Lezione III, dedicata a Lo stile laboratoriale di pensiero e azione, tenendo presente la lezione di Shapin e Schaffer del Leviatano e la pompa ad aria, Hacking indaga la dialettica fra strumentazione e manipolazione che definisce la creazione di fenomeni in laboratorio51, integrando le riflessioni del 1983 con le sue recenti osservazioni nei laboratori che operano sperimentazioni sugli atomi a bassissime temperature. Tramite un’analisi puntuale dei singoli stili di ragionamento52 – e delle loro possibili intersezioni – Hacking ha l’occasione di mettere in atto quell’approccio integrante bachelardiano che mira a definire la ragione scientifica nella sua pienezza ex post, e non ex ante rispetto alla presa in analisi del funzionamento delle varie regioni, delle varie episteme o dei vari stili della razionalità. In molti fra i testi che Hacking dedica al concetto di stile si fa riferimento al panorama intellettuale positivista e del neo-positivista ma, in particolar modo, vogliamo ora portare l’attenzione alla forma contemporanea di quest’opposizione

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all’unità della scienza che si è sviluppata in ambito anglosassone. Nell’ambito degli Science (and Technology) Studies il tema è stato ripreso sotto il label di disunity of science all’interno del quale Hacking è stato ampiamente coinvolto (sia come riferimento intellettuale sia come autore). In particolare il tema in questione è stato dibattuto intorno agli anni Novanta grazie a un workshop dal titolo Disunity and Contextualism tenutosi alla Stanford University cui ha fatto seguito la pubblicazione di una raccolta di saggi dal titolo The Disunity of Science. I curatori Peter Galison e David J. Stump hanno avviato questo progetto con l’obiettivo di fare il punto sullo stato dell’arte a proposito dei crescenti attacchi alla retorica dell’unità negli Science (and Technolgy) Studies cercando di coinvolgere voci autorevoli ma con orientamento teorico distinto all’interno del campo come per esempio, oltre a Hacking, Arnold I. Davidson (anche lui partecipa con un paper sullo stile), Steve Fuller, Mario Biagioli, Simon Schaffer, Karin Knorr-Cetina, Donna J. Haraway e altri. In questo contesto, “l’unità” o la “ricerca dell’unità” sembra esser definita come un problema “filosofico” per “filosofi” quando, al contrario, le scienze sono intrinsecamente dis-unite. Hacking consolida ulteriormente il suo posizionamento eclettico all’interno degli Science (and Technology) Studies nel 1999 con The Social Construction of What?53 in cui viene proposta un’analisi filosofica delle varie forme possibili di costruttivismo sociale, ripartendo appunto dal relativismo del “programma forte” con cui abbiamo aperto questo saggio. La traiettoria intellettuale, tutt’altro che allineata agli standard canonici, sia degli Science (and Technology) Studies sia dell’épistémologie historique consente a Hacking di avere una capacità innovativa in entrambi i programmi di ricerca, grazie alla sua capacità eclettica di arricchirne i dibattiti apparentemente incommensurabili fra loro. Il programma della (meta)epistemologia storica o dell’ontologia storica è il loro punto d’incontro. Il posizionamento eterodosso di Hacking, a cavallo di vari campi disciplinari e accademici – fra la storia, filosofia e sociologia delle scienze; fra gli Stati Uniti e il vecchio continente; fra la filosofia analitica e quella continentale; fra il mondo anglofono e quello francofono, ecc. – gli permette di mettere a punto un approccio integrante capace di superare le false dicotomie cristallizzate nei vari dibattiti intellettuali. La tematica degli stili risulta esser il trait d’union, fra

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tutte le fasi e parti del pensiero dell’autore, che permette di tenere insieme le ultime riflessioni sulla matematica con quelle sui laboratori, passando per il progetto making up people, ecc54. Per queste ragioni Hacking è ormai un punto di riferimento d’obbligo sia nell’ambito degli studi sociali sulle scienze55 sia in quelli dell’epistemologia storica56 grazie alla sua capacità di risolvere le aporie cui conducono le letture comparate delle diverse tradizioni disciplinari della storia, filosofia e sociologia delle scienze d’estrazione sia anglofona sia francofona.

Note

Ian Hacking e la scienza come “miscuglio variopinto” di stili 1. Casimir Lewy (1919-1991), filosofo inglese di origini polacche, allievo di G.E. Moore e studente di Wittgenstein, si è occupato di logica, anche se scarse sono le sue pubblicazioni. Una descrizione di Lewy come insegnante si può trovare nell’obituario scritto da Hacking e pubblicato come Casimir Lewy 1919-1991 nei «Proceedings of the British Academy», vol. 138, 2006, pp. 170-177. 2. I. Hacking, Logic of Statistical Inference, Cambridge University Press, Cambridge, 1965. 3. Gli aspetti biografici di questo saggio sono tratti principalmente da una lunga intervista biografico-intellettuale rilasciata da Hacking per «Iride», nel 2014: M. Vagelli, Ian Hacking, The Philosopher of the Present. An Interview by Matteo Vagelli, «Iride. Journal of Philosophy and Public Debate», vol. 27, issue 72, 2014, pp. 239-269. 4. Una delle definizioni alle quali Hacking è più affezionato è proprio quella di «archeologo del probabile», dal titolo di un’intervista rilasciata per «Sciences et avenir», numero speciale sulla probabilità, settembre-ottobre 2001, pp. 9-16. I debiti di Hacking nei confronti dell’archeologia foucaultiana sono espressi nell’introduzione alla seconda edizione de The Emergenge of Probability (Cambridge University Press, Cambridge, 2006). 5. Al gruppo dei filosofi si aggiungeranno di lì a poco anche Arnold I. Davidson e Peter Galison. Francis Everitt (Stanford University) dirige Gravity Probe B (Gp-B), una missione satellitare lanciata nel 2004. Melissa Franklin (Harvard University) è il Mallinckrodt Professor of Physics dell’università di Harvard, lavora sulle collisioni adroniche prodotte al Fermi National Accele-

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rator Laboratory di Chicago e collabora all’esperimento Atlas per il Large Hadron Collider (Lhc) del Cern, in Svizzera. 6. The Taming of Chance è stato incluso dalla Modern Library nella lista dei 100 più importanti libri di saggistica scritti nel XX secolo, in compagnia delle opere di altri filosofi quali John Dewey, William James, Thomas Kuhn e Karl Popper. 7. Per una descrizione dei corsi e dei seminari di Hacking al Collège si veda E. Delille e M. Kirsch, Natural or interactive kinds? Les maladies mentales transitoires dans les cours de Ian Hacking au Collège de France (2000-2006), «Revue de synthèse», vol. 137, 2016, pp. 85-115. 8. Se si eccettua Plasmare le persone. Corso al Collège de France (2004-2005), a cura di A. Bella e M. Casonato, Quattroventi, Urbino, 2008. Questa traduzione di una parte dei materiali del corso 2004-2005 (peraltro prosecuzione ideale di quello del 2001-2002, già dedicato al tema della costituzione storica dei soggetti) non sembra però attenersi ai canoni dell’edizione scientifica adottati in casi simili, come ad esempio quello della pubblicazione dei corsi al Collège di Foucault. 9. M. Vagelli, Ian Hacking, The Philosopher of the Present, cit., p. 245. 10. I. Hacking, Why Is There Philosophy of Mathematics At All?, Cambridge University Press, Cambridge, 2014. 11. I. Hacking Making Up People, in T.L. Heller et al. (a cura di), Reconstructing Individualism, Stanford University Press, Stanford, 1986, pp. 222236, apparso anche in Hacking, Ontologia storica, cit., pp. 99-114; Looping Effects of Human Kinds, in D. Sperber et al. (a cura di), Causal Cognition. An Interdisciplinary Approach, Oxford University Press, Oxford, 1995, pp. 351-383. 12. I. Hacking, Biopower and the Avalanche of Printed Numbers, in «Humanities in Society», n. 5, pp. 279-295; The Invention of Split Personalities, in Human Nature and Natural Knowledge, A. Donagan et al. (a cura di), D. Reidel, Dordrecht, 1986. Hacking specifica che il testo di quest’ultimo saggio è stato scritto nel 1981 e inviato per pubblicazione nell’estate del 1982. 13. Per un contesto d’uso più ampio della parola e del concetto di “stile” in storia, filosofia e sociologia della scienza si veda il saggio di Ienna che conclude questo volume. 14. I. Hacking, Language, Truth and Reason», in M. Hollis e S. Lukes (a cura di), Rationality and Relativism, pp. 48-66, Blackwell, Oxford, 1982 (trad. it., in Ontologia storica, Pisa, ETS, 2010, pp. 211-232); Language, Truth and Reason: 30 years later, in «Studies in History and Philosophy of Science», vol. 43, pp. 599-609. Martin Pickavé (Associate Professor and Canada Research Chair in Medieval Philosophy, University of Toronto), in occasione dell’assegnazione, al Quirinale, del Premio Balzan 2014 a Hacking, ha detto

NOTE

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che «prima della sua attuale malattia, il professor Hacking stava lavorando agli ultimi ritocchi al manoscritto di un libro intitolato Styles of Scientific Thinking: Thruthfulness and Reason» (http://www.balzan.org/en/prizewinners/ianhacking/rome-forum-hacking-pickave). 15. I. Hacking, Styles of Scientific Thinking or Reasoning: A New Analytical Tool for Historians and for Philosophers, in K. Gavroglu et al. (a cura di), Trends in the Historiography of Science, Kluwer, Dordrecht, 1993. 16. Infra, Lezione I, §7. A.I. Davidson (Sex and the Emergence of Sexuality, «Critical Inquiry», vol. 14, n. 1, Autunno 1987, pp. 16-48) è stato il primo ad aver raccolto e ad aver sia elaborato a livello teorico sia applicato a livello storico la nozione di stili di ragionamento di Hacking, in relazione con lo «stile psichiatrico di ragionamento» emerso nel XIX secolo. Questo e altri studi di Davidson sono poi confluiti nel suo The Emergence of Sexuality (2001). L’uso fatto da Davidson ha, tra l’altro, messo pienamente in luce molte delle implicazioni foucaultiane implicite nella teoria degli stili. Per un confronto tra gli stili di Davidson e quelli di Hacking si veda P. Singy, Gli ‘stili di ragionamento’ di Arnold Davidson, in «Iride. Filosofia e discussione pubblica», n. 45, 1995, pp. 437-442 e M. Setaro, L’epistemologia storica dei concetti: una questione di stile. Confronto a distanza tra Ian Hacking e Arnold I. Davidson, in «Medicina & Storia», vol. 19-20, pp. 221-234. 17. I. Hacking, ‘Style’ for Historians and for Philosophers, cit., p. 11 (Hacking, Ontologia storica, cit., p. 189). 18. Ogni stile introduce le proprie tecniche di auto-stabilizzazione e Hacking, anziché fornire una definizione generale di questo concetto, si limita a illustrarlo tramite esemplificazioni. La statistica, ad esempio, certifica se stessa sottoponendo le proprie proposizioni a test statistici (ivi, p. 14-15; Hacking, Ontologia storica, cit., pp. 251-252). 19. I. Hacking, Language, Truth and Reason: 30 Years Later, cit., p. 601; Cfr. infra, Lezione I, §7, pp. 46-48. 20. I. Hacking, La metafisica degli stili di ragionamento scientifico, «Iride», n. 4/5, 1990, p. 12. 21. G. Canguilhem, Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita, La Nuova Italia, Scandicci, 1992, p. 12: «La veridicità o il dire-il-vero della scienza non consiste nella riproduzione fedele di qualche verità inscritta da sempre nelle cose o nell’intelletto. Il vero è il detto del dire scientifico». 22. Ciò apre una porta sul dibattito, riapertosi recentemente, sulla verità e sulla sua storia, soprattutto in Francia e in modo particolare attorno a Foucault: J. Bouveresse, Nietzsche contre Foucault. Sur la vérité, la connaissance et le pouvoir, Marseille, Agone, 2016 e più in generale P. Engel e R. Rorty, A quoi bon la vérité?, Bernard Grasset, Paris, 2005.

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23. Infra, Lezione I, §7. Non è tanto il già citato «stile psichiatrico di ragionamento» studiato daA. Davidson ad aver fatto cambiare idea a Hacking, quanto il tentativo semi-provocatorio da parte di Barry Allen di applicare lo schema di Hacking alla “demonologia” tra il XV e il XVII secolo (B. Allen, Demonology, Styles of Reasoning, and Truth in «International Journal of Moral and Social Studies», vol. 8, n. 2, 1992, pp. 95-121). Se la “metafisica” di Hacking era così “permissiva” da risultare calzante anche per modi di ragionare palesemente non scientifici come la demonologia, essa perdeva agli occhi del suo ideatore gran parte del suo valore. 24. Infra, Lezione I, §6. 25. Tra i contributi più importanti, apparsi nel corso degli anni: I. Hacking, Leibniz and Descartes: Proof and Eternal Truth, «Proceedings of the British Academy», vol. 59, 1973, pp. 175-188, ristampato in Hacking, Ontologia storica, cit., pp. 200-213; Rules, Scepticism, Proof, Wittgenstein in I. Hacking (a cura di) Exercises in Analysis: Essays by Students of Casimir Lewy, Cambridge University Press, Cambridge, 1985, pp. 113-124; What mathematics has done to some and only some philosophers in Smiley, T.J. (a cura di), Mathematics and Necessity, British Academy, London, 2000, pp. 83-138; Les preuves et la nécessité chez Wittgenstein in J. Bouveresse, S. Laugier, J.-J. Rosat (a cura di), Dernière Wittgenstein, Dernières Pensées, Marseille, Agone, 2002, pp. 265-288; What Makes Mathematics Mathematics?, in J. Lear, A. Oliver (a cura di), The Force of Argument: Essays in Honour of Timothy Smiley, Routledge, London, 2009, pp. 82-106. 26. I. Hacking, What Is Strict Implication?, in «Journal of Symbolic Logic», vol. 28, n. 1, 1963, pp. 51-71. 27. I. Hacking, Immagini radicalmente costruzionaliste del progresso matematico, in A. Pagnini (a cura di), Realismo e antirealismo. Aspetti del dibattito epistemologico contemporaneo, La Nuova Italia, Firenze, 1995, pp. 59-92. 28. I. Hacking, ‘Style’ for Historians and for Philosophers, cit., p. 6 (I. Hacking, Ontologia storica, cit., p. 239). Sulla metafora althusseriana del “continente” della matematica scoperto da Talete si veda il saggio di Ienna alla fine di questo volume. 29. Cfr. I. Hacking, Styles of Scientific Thinking or Reasoning, cit., p. 36. 30. M. Vagelli, Ian Hacking, The Philosopher of the Present, cit., p. 245. 31. Il passo in questione è citato in Hacking, Why Is There Philosophy of Mathematics at All, cit., p. xiv. La Howison Lecture è invece apparsa in spagnolo: Pruebas, verdad, manos y mente, in J. Aguirre, L. Jaramillo (a cura di) Cuadernos de Epistemología, número 5. Reflexiones en torno a la filosofía de la ciencia y la epistemología, Popayán, Universidad del Cauca, Columbia, 2011, pp. 11-37.

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32. I. Hacking, Experimentation and Scientific Realism, in «Philosophical Topics», vol. 13, n. 1, Spring, 1982, pp. 77-87. 33. Questa lezione si basa in gran parte, come detto, sulla ricostruzione e la ricontestualizzazione dell’argomento sperimentale per il realismo di Representing and Intervening (1983), ma anche sulle riflessioni dedicate da Hacking al costruzionismo in The Social Construction of What? (1999). 34. I. Hacking,’Style’ for Historians and for Philosophers, cit., p. 6 (I. Hacking, Ontologia storica, cit., p. 240). 35. Per questo tipo di critica alla filosofia dell’esperimento di Hacking si veda in particolare D.B. Resnik, Hacking’s Experimental Realism, in «Canadian Journal of Philosophy», vol. 24, n. 3, pp. 395-411. 36. I. Hacking, Another New World Is Being Constructed Right Now: The Ultracold, Max Planck für Wissenschaftsgeschichte, Preprint, n. 318, 2006, pp. 15-43. Di questo testo è stata pubblicata una versione, leggermente rimaneggiata, in francese: I. Hacking, La philosophie de l’expérience: illustrations de l’ultra-froid, «Tracés», n. 11, 2006, pp. 195-228. 37. I. Hacking,’Style’ for Historians and for Philosophers, cit., p. 4 (Hacking, Ontologia storica, cit., p. 236). 38. In un saggio di prossima pubblicazione cerco di mostrare come anche il rinvio a riferimenti comuni, come quelli a Bachelard e al concetto di fenomenotecnica, abbia esiti radicalmente opposti (che per brevità potremmo definire come realisti in un caso, irrealisti nell’altro) in Hacking e in Latour (M. Vagelli, Bachelard, Hacking e il realismo tecnoscientifico, in Il senso della tecnica. Saggi su Bachelard, P. Donatiello, F. Garofalo, G. Ienna (a cura di), Esculapio, Bologna, in corso di stampa). 39. I. Hacking, Why Is There Philosophy of Mathematics At All?, cit., p. xiii. 40. I. Hacking Conoscere e sperimentare, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 22 (ho modificato leggermente la traduzione italiana per rendere meglio ciò che Hacking intende in questo passaggio). 41. G. Bachelard: «La scienza istruisce la ragione. La ragione deve obbedire alla scienza, alla scienza più evoluta, alla scienza in evoluzione», La filosofia del non, Armando Editore, Roma, 2002, p. 150. 42. I. Hacking, Conoscere e sperimentare, cit., pp. 156, 173. 43. I. Hacking, ‘Style’ for Historians and for Philosophers, cit., pp. 18-19 (I. Hacking, Ontologia storica, cit., pp. 256-257). 44. M. Foucault, Qui êtes-vous, professeur Foucault?, (1967), in Dits et écrits, Gallimard, Paris, 2004, vol. 1, p. 633. Foucault parla di una «analisi dei fatti culturali che caratterizzano la nostra cultura», analisi che conduce «situandosi all’esterno della cultura alla quale apparteniamo, ad analizzarne le condizioni

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formali per farne la critica, non nel senso di ridurne i valori, ma per capire come essa abbia potuto effettivamente costituirsi». Il riferimento ai «fatti culturali» può sembrare vago, ma, sollecitato dall’intervistatore, Foucault si affretta a precisare: «Quindi lei fa una etnologia della nostra cultura?». «Sì, o almeno della nostra razionalità, del nostro discorso». 45. I. Hacking, Ontologia storica, cit., p. 256; Language, Truth and Reason: 30 Years Later, cit., p. 607. 46. Hacking trae quest’idea da A.W. Crosby, Ecological Imperialism: The Biological Expansion of Europe 900-1900, Cambridge University Press, Cambridge, 1986. 47. Cfr. Vagelli, Ian Hacking. The Philosopher of the Present, cit., pp. 249250. Per la nozione di idealismo linguistico si veda I. Hacking, Why Does Language Matter to Philosophy?, Cambridge University Press, Cambridge, 1975. 48. Per una critica del progetto degli stili che sottolinea l’aspetto della loro naturalizzazione si veda M. Kusch, Hacking’s Historical Epistemology: A Critique of Styles of Reasoning, «Studies in History and Philosophy of Science», vol. 41, 2010, pp. 158-173. 49. I. Hacking, Conoscere e sperimentare, cit., p. 173. 50. Infra, Lezione I, §10, p. 53. Sul rapporto con Bourdieu rinvio al saggio di Ienna alla fine di questo volume. 51. È così che A. Davidson definisce l’opera di Gargani. Cfr. A.I. Davidson, Dai giochi linguistici all’epistemologia politica, in A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Mimesis, Milano-Udine, 2009, p. 7; sullo stesso argomento, si veda anche M. Vagelli, Le problème du fondement et l’épistémologie historique italienne, «Archives de Philosophie», n. 78, 2015, pp. 509-515.

La ragione scientifica Lezione I 1. Per una ricognizione generale sull’argomento l’articolo di riferimento è J.-P. Uzan, The Fundamental Constants and Their Variation: Observation and Theoretical Status, in «Reviews of Modern Physics», vol. 75, 2003, pp. 403-455. 2. B. Williams, Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, Fazi, Roma, 2005. Si veda la mia recensione in «Canadian Journal of Philosophy», vol. 34, 2004, pp. 137-148. 3. Sir Herbert Butterfield ha scritto uno dei primi libri di testo sulla storia della scienza europea nella prima modernità, basato sulle lezioni tenute per

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gli studenti dell’Università di Cambridge nel 1948 (H. Butterfield, Le origini della scienza moderna, il Mulino, Bologna, 2008). Il suo punto di riferimento principale era Alexandre Koyré. Ma la sua fama è dovuta alle sue storie politiche e sociali dell’Inghilterra; egli disprezzava i “Whig” – di cui il filosofo e storico David Hume è il miglior esempio – che descrivevano il passato come una serie di eventi che ottengono un senso solo nella misura in cui conducono a, e sono “ratificati” da, un presente glorioso. 4. Gli atti furono pubblicati in J. Hintikka, D. Gruender, e E. Agazzi (a cura di) Theory Change, Ancient Axiomatics, and Galileo’s Methodology: Proceedings of the 1978 Pisa Conference on the History and Philosophy of Science, 2 vol., D. Reidel, Dordrecht, 1981. 5. “Historical anthropology” non ha un utilizzo corrente in inglese, l’espressione francese “anthrolopologie historique”, invece, è ben conosciuta dagli studiosi che lavorano in quella lingua. Ha avuto inizio con gli storici della cosiddetta Scuola delle Annales e in particolare con il nuovo modo, proposto da Vernant, di studiare le civiltà antiche della Grecia e di altre aree del Mediterraneo. L’espressione è attualmente utilizzata per battezzare corsi universitari, gruppi di ricerca e così via, ed è una voce del tutto comune nelle enciclopedie francesi, come ad esempio la Universalis. 6. Alistair C. Crombie, Styles of Scientific Thinking in the European Tradition. The History of Argument and Explanation Especially in the Mathematical and Biomedical Sciences and Arts, Duckworth, London, 1994 [In italiano è uscito un piccolo volume che riassume alcune delle idee fondamentali dell’opus magnum di Crombie: Stili di pensiero scientifico agli inizi dell’Europa moderna, Bibliopolis, Napoli, 1992 (Ndc)]. 7. Per un’analisi e una riformulazione di questo metodo rimandiamo ai primi lavori di Hacking sulla statistica e in particolare a I. Hacking, Logic of Statistical Inference, Cambridge University Press, Cambridge, 1965, capitolo 5 (Ndc). 8. G.E.R. Lloyd, Grecia e Cina: due culture a confronto. Mondi antichi, riflessioni moderne, Feltrinelli, Milano, 2008. 9. A.C. Crombie, op. cit., vol. I, p. 83. 10. A.C. Crombie, Philosophical Perspectives and Shifting Interpretations of Galileo, in Hintikka et al. (a cura di), Theory Change, cit., pp. 271-284. 11. R. Iliffe, Rational Artistry, in «History of Science», n. 36, 1998, pp. 329-357, un ampio resoconto critico di Crombie, Styles of Scientific Thinking in the European Tradition. Per recensioni più brevi, R. Ariew, in «Isis», vol. 86, pp. 82-83; A.J. Meadows, in «New Scientist», n. 23, luglio 1994, p. 38; K. Magruder, in «Sixteenth Century Journal», n. 26, 1995, pp. 406-410. 12. I. Hacking, The Emergence of Probability, Cambridge University Press, Cambridge, 1975; 2a ed., con una nuova introduzione, Cambridge University

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Press, Cambridge, 2006; trad. it., L’emergenza della probabilità. Ricerca filosofica sulle origini delle idee di probabilità, induzione e inferenza statistica, il Saggiatore, Milano, 1987. A causa della grave incompetenza della filiale di New York della casa editrice, la nuova introduzione non è né numerata né indicata nel sommario. 13. Il termine “società del rischio” è diventato quasi un cliché dei nostri tempi grazie a Ulrich Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2013. 14. Hacking fa qui riferimento a The Philosophical Lexicon, un dizionario umoristico di filosofia iniziato da Daniel Dennett nel 1969 e attualmente curato da Asbjørn Steglich-Petersen. Il dizionario, i cui lemmi sono costituiti da neologismi formati a partire da nomi di filosofi perlopiù contemporanei, è accessibile online: www.philosophicallexicon.com (Ndc). 15. Sottolineo “ereditato”. Per i filosofi anglofoni della mia generazione era chiaramente la Struttura di Kuhn del 1962 a dominare ogni discussione. Ma il mio specifico entusiasmo per le rotture nei sistemi di pensiero derivava da Le parole e le cose di Michel Foucault (Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, BUR, Milano, 2016). Questo a sua volta è riconducibile agli influenti scritti di Gaston Bachelard (1884-1962), che occupavano gran parte dello spazio delle librerie parigine degli anni Sessanta. 16. Sulla questione specifica delle rivoluzioni nella storia della probabilità si veda il mio Was There a Probabilistic Revolution 1800-1930? in L. Krüger et al. (a cura di), The Probabilistic Revolution, Vol I: Ideas in History, Cambridge, MIT Press, Cambridge Mass., 1987, pp. 54-58. 17. H. Wölfflin, Concetti fondamentali della storia dell’arte, Abscondita, Milano, 2012. 18. Per i riferimenti si veda il mio ‘Style’ for Historians and Philosophers, in «Studies in History and Philosophy of Science», vol. 23, 1992, pp. 1-20, ristampato in I. Hacking, Ontologia storica, Edizioni ETS, Pisa, 2010, pp. 233-258. 19. R. Carnap, La costruzione logica del mondo. Pseudoproblemi nella filosofia, UTET, Torino, 1997. 20. Non ho tenuto traccia di tutte le fonti alle quali mi riferisco, ma ricordo bene lo shock di quando le ho trovate sfogliando alcune pagine di giornalismo scientifico tedesco pubblicate negli anni Trenta. 21. L. Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Per una teoria dello stile e del collettivo di pensiero, il Mulino, Bologna, 1983. 22. Il lavoro a cui mi riferisco è Language, Truth and Reason, in M. Hollis e S. Lukes (a cura di), Rationality and Relativism, Blackwell, Oxford, 1982, pp. 48-66. La tappa successiva dello sviluppo è il mio articolo sullo “stile” del 1992, si veda la nota 18 qui sopra [Per un esempio di uso “personalizzante”, con-

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trario a quello “generalizzante”, del concetto di stile in filosofia della scienza, Hacking si riferisce qui a lavori come quello di K. Gavroglu, Differences in Style as a Way of Probing the Context of Discovery, «Philosophia», vol. 45, 1990, pp. 53-75. Gavroglu confronta lo stile del laboratorio di James Dewar (18421923) e quello di Heike Kamerlingh Onnes (1853-1926), entrambi impegnati in ricerche relative alla fisica delle basse temperature. Su questo punto si veda Ontologia storica, cit., p. 235 (Ndc)]. 23. A.I. Davidson, L’emergenza della sessualità. Epistemologia storica e formazione dei concetti, Quodlibet, Macerata, 2010. 24. J. Elwick, Styles of Reasoning in the British Life Sciences: Shared Assumptions, 1820-1858, Pickering & Chatto, London, 2007. 25. Egli ha dapprima usato il mio vecchio termine “stile di ragionamento”, esattamente per lo scopo appena menzionato, ma ha poi optato velocemente per la sua terminologia: «Due stili radicalmente differenti di ragionamento matematici» in G.E.R. Lloyd, prefazione a K. Chemla e S. Guo, Les neuf chapitres. Le classique mathématique de la Chine ancienne et ses commentaires, Dunod, Paris, 2004, p. xi. 26. Nel 1985 circa Nelson Goodman disse in pubblico: «Ian, intendi suggerire…» [che i dinosauri ecc.]. E io ho detto «no!». Mi piace che a pormi questa domanda per la prima volta sia stato il più grande pragmatista dell’epoca, il più grande nominalista di tutti i tempi, lo stesso uomo a cui spesso si attribuisce ciò che egli stesso pensava come manifestamente assurdo, vale a dire la somma reductio ad absurdum di ogni insensata versione delle sue stesse sensate idee. 27. L. Daston e P. Galison, Objectivity, Zone Books, New York, 2007. 28. O poco prima, per esempio I. Watts, Logic, London, 1724: «La certezza oggettiva è quando una proposizione è certamente vera in se stessa; e soggettiva, quando siamo certi della sua verità» (II. ii. § 8). 29. P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano, 1998. 30. Per le mie riflessioni sui science studies in connessione con Bourdieu si veda I. Hacking La science de la science chez Pierre Bourdieu, in J. Bouveresse e D. Roche (a cura di), La Liberté par la connaissance. Pierre Bourdieu (19302002), Odile Jacob, Paris, 2004, pp. 147-162. 31. P. Bourdieu, op. cit., p. 115. 32. Spiego questo in connessione con la matematica e la Ursprung husserliana in Husserl on the Origins of Geometry, in D. Hyder e H.J. Rheinberger, Science and the Life-World. Essays on Husserl’s Crisis of the European Sciences, Stanford University Press, Stanford, 2010, pp. 64-82. 33. H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, Mondadori, Milano, 2006. 34. J.M. Coetzee, La vita degli animali, Adelphi, Milano, 2000, p. 35.

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35. R. Bernstein, The Rage Against Reason, in E. McMullin (a cura di), Construction and Constraint, Notre Dame University Press, Notre Dame, 1988, p. 216. 36. B. Williams, Genealogia della verità, cit. 37. Aristotele, Metafisica, libro Γ, 1011 b 25; trad. it., di G. Reale, Luigi Loffredo Editore, Napoli, 1968. 38. Faccio qui riferimento solo agli articoli contenuti nei cinque volumi di saggi pubblicati da Oxford University Press. 39. Laterza, Roma-Bari, 2006. 40. Il capitolo più lungo nel mio Linguaggio e filosofia (Raffaello-Cortina, Milano, 1994) s’intitola La verità di Donald Davidson. 41. Mi limito quindi a esprimere in termini di veridicità gran parte di ciò che ho detto sulla verità nei due articoli menzionati alle note 18 e 22. 42. M. Lambek, The Weight of the Past: Living with History in Mahajanga, Madagascar, Palgrave, London, 2002. 43. L’etica e i limiti della filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1987. 44. I. Kant, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano, 2004, p. 29 (B xi). 45. R. Netz, The Shaping of Deduction in Greek Mathematics: A Study in Cognitive History, Cambridge University Press, Cambridge, 1999. Anche Geoffrey Lloyd è favorevole a questa descrizione in Grecia e Cina: due culture a confronto. Mondi antichi, riflessioni moderne, cit. 46. D. Sperber, In Defense of Massive Modularity, in Dupoux, E. (a cura di) Language, Brain and Cognitive Development: Essays in Honor of Jacques Mehler, MIT Press, Cambridge, 2002, pp. 45-48. 47. J. Fodor, La mente modulare. Saggio di psicologia delle facoltà, il Mulino, Bologna, 1988. 48. J. Fodor, Modules, Frames, Fridgeons, Sleeping Dogs, and the Music of the Spheres, in J.L. Garfield (a cura di), Modularity in Knowledge Representation and Natural-language Understanding, MIT Press, Cambridge, 1987, pp. 25-36. 49. T.T. Rogers e J.L. McClelland, Semantic Cognition: A Parallel Distributed Processing Approach, in «Behavioral and Brain Sciences», vol. 31, issue 6, December 2008 , pp. 689-714 [Il modello di Parallel Distributed Processing (Ppd) è una teoria cognitiva “connessionista”, che riguarda il modo in cui si acquisiscono e si connettono tra loro informazioni, immagini, sensazioni, formando dei “nodi” all’interno di una rete neuronale. Il paradigma della rete può entrare in conflitto con la visione modulare della mente: se le informazioni sono immagazzinate e scambiate all’interno di una rete diventa difficile identificare zone o moduli mentali con una funzione unica e specifica. La teoria connessionista, pur non escludendo il richiamo ai “moduli”, li concepisce comunque non come un insieme dato e innato di facoltà, ma come strutture co-

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determinate dalla predisposizione genetico-neuronale e dell’ambiente. Lo psicologo James McClelland è considerato tra i fondatori di questa teoria ed in italiano è possibile consultare David E. Rumelhart-James McClelland, PDP. Microstruttura dei processi cognitivi, il Mulino, Bologna, 1991 (Ndc)]. 50. Hacking fa riferimento alle tesi sostenute da Koyré principalmente nel testo dal titolo Studi Galileiani, Einaudi, Torino, 1976 (Ndc). 51. S. Drake, Galileo’s Discovery of the Law of Free Fall, in «Scientific American», vol. 228, n. 5, 1973, pp. 84-92 e S. Drake, Galileo, una biografia scientifica, il Mulino, Bologna, 1988. Drake presenta Galileo come un induttivista che scopre la legge che regola il moto dei corpi in caduta libera sulla base del modo in cui una palla cadeva nel suo apparato sperimentale. Non concordo con questa lettura. Suggerisco comunque che egli abbia fatto ricorso a qualcosa di più rispetto alla semplice osservazione per controllare i suoi calcoli matematici: usava ciò che succedeva al suo strumento di laboratorio. Un caso classico, forse, di metodo ipotetico-deduttivo. 52. Princeton University Press, 1986 (trad. it., Il Leviatano e la pompa ad aria: Hobbes, Boyle e la cultura dell’esperimento, La Nuova Italia, Scandicci, 1994). 53. A Social History of Truth: Civility and Science in Seventeenth-Century England, University of Chicago Press, Chicago, 1994.

Lezione II 1. Edizione originale tedesca, 1976 (trad. it., Antropologia dal punto di vista pragmatico, Einaudi, Torino, 2010). 2. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., capitolo IX. 3. F. Galton, English Men of Science: their Nature and Nurture, Macmillan, London, 1874, p. 12. 4. Come spiego nel mio articolo The Disunities of the Sciences, in P. Galison e D.J. Stump (a cura di), The Disunity of Science. Boundaries, Contexts and Power, Stanford University Press, Stanford, 1996, pp. 37-74. 5. L. Wittgenstein, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Einaudi, Torino, 1988, II, §46. 6. S.J. Gould e R.C. Lewontin, I pennacchi di San Marco e il paradigma di Pangloss. Critica del programma adattazionista, Einaudi, Torino, 2001. Un pennacchio è una caratteristica architettonica, spesso decorativa, che si è sviluppata, quasi in maniera non intenzionale, a partire da una caratteristica funzionale della progettazione di un edificio. 7. Quindi, nonostante l’interesse per il lavoro di Stephen Dehaene, scienziato cognitivo, non sono d’accordo con il titolo del suo libro, The Number Sense: How the Mind Creates Mathematics, Oxford University Press, Oxford,

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1987. Per quanto mi riguarda, egli ci insegna qualcosa rispetto alla connaturalità [innateness] del contare, ma non rispetto a quella del ragionamento matematico. 8. B. Butterworth, What Counts: How Every Brain Is Hardwired for Math, Free Press, New York, 1999. 9. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 29. 10. R. Netz, Shaping Deduction in Greek Mathematics, cit. 11. Si tratta della Dawes Hicks Lecture alla British Academy, pubblicata in «Mathematics and Necessity», edito da T.J. Smiley, British Academy, London, 2000, pp. 83-138. 12. Omisi Husserl perché la lezione si concentrava su problemi centrali per la filosofia analitica. Ho parzialmente rimediato a quell’omissione nell’articolo Husserl on the Origins of Geometry citato alla nota 32 della Lezione I. 13. B. Russell, I problemi della filosofia, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 99. La domanda di Kant è formulata nella Critica della ragion pura, cit., p. 97 (B 20). 14. Ivi, p. 100. 15. P. Kitcher, The Nature of Mathematical Knowledge, Oxford University Press, Oxford, 1983. 16. Le mie idee sui punti essenziali del programma logicista, e sulle sue motivazioni, si trovano in What Is Logic?, in “Journal of Philosophy”, vol. 86, 1976, pp. 285-319. 17. E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die transzendentale Phanomenologie, completata nel 1936 e tradotta come La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano, 2015. 18. B. Latour, The Netz-Works of Greek Deductions, in «Social Studies of Science», vol. 38, n. 3, 2008, pp. 441-459. 19. Il caso vuole che sia stato io a parlargli del libro, è per questo che egli mi dedica gentilmente il suo saggio. 20. Si veda la nota 51 della Lezione I. 21. Con l’acronimo SSK s’intende più frequentemente l’espressione “Sociology of Scientific Knowledge” con la quale ci si riferisce comunque alla stessa corrente cui fa accenno Hacking nel testo (ovvero quella iniziata da Bloor e Barnes a Edimburgo), (Ndc). 22. Qui Hacking fa riferimento alla cosiddetta Actor-Network-Theory (ANT). Questa è una teoria sociologica sviluppata (già a partire dagli anni Ottanta) principalmente da Michel Callon, Bruno Latour e John Law che consiste nell’operare una simmetrizzazione fra umani, non-umani e pratiche discorsive. Per il lettore interessato si veda in special modo la formulazione dell’ANT di Latour in Reassembling the Social. An Introduction to Actor-NetworkTheory, Oxford University Press, Oxford, 2005 (Ndc).

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23. R. Netz e W. Noel, Il codice perduto di Archimede, Rizzoli, Milano, 2007, p. 46. 24. I. Hacking, Leibniz and Descartes: Proof and Ethernal Truths, «Dawes Hicks Lecture to the British Academy», 1973, pubblicato nei «Proceedings of the National Academy of Sciences» (vol. 94, 1997) e ristampato in Ontologia storica, cit., pp. 259-275. 25. Il concetto di “involucro genetico” [enveloppe génétique] è in realtà un concetto molto presente negli scritti di Changeux, si veda a questo proposito: L’uomo neuronale, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 249 (pubblicato originariamente in francese, L’homme neuronal, Paris, 1983) e L’uomo di verità, Feltrinelli, Milano, 2003, ad esempio al capitolo 6, §8. Quest’ultimo libro è originariamente uscito in francese e in inglese: L’homme de vérité, Odile Jacob, Paris, 2002; The Physiology of Truth, Harvard University Press, Cambridge, 2002 (Ndc). 26. L’idea è antica, ma la denominazione, in connessione con la matematica, è invece moderna. Deriva da quel Paul Bernays da cui prende il nome la teoria degli insiemi Neumann-Bernays: P. Bernays, Sur le platonisme dans les mathématiques, in «L’Enseignement mathématique», n. 34, 1935, tratto da una lezione tenuta nel 1934 e tradotta da Charles Parsons per Paul Benacerraf e Hilary Putnam, Philosophy of Mathematics: Selected Readings, 1964, 2a ed., Cambridge University Press, Cambridge, 1983, pp. 258-271. 27. J.-P. Changeux e Alain Connes, Pensiero e materia, Bollati Boringhieri, Torino, 1991. 28. Ivi, pp. 25-26. 29. G.E.R. Lloyd, Grecia e Cina, cit., p. 92. 30. K. Chemla e S. Guo, Les neuf chapitres. Le classique mathématique de la Chine ancienne et ses commentaires, Dunod, Paris, 2004, Tomo I, p. 116. Cfr. Shen Kangsheng, John N. Crossley, Anthony W.-C. Lun, The Nine Chapters on the Mathematical Art: Companion and Commentary, Oxford University Press, Oxford, 1999. 31. In «Science in Context», vol. 18, 2005, pp. 125-166. 32. Per un’idea su come andare avanti, si vedano i miei corsi al Collège de France on line su http://www.college-de-france.fr/site/ian-hacking/_course.htm, in particolare le lezioni Démonstration e La stabilité des styles de pensée scientifique (corso 2005-2006, Raison et véracité – Les choses, les gens, la raison).

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Lezione III 1. Si vedano le note 18 e 22 della Lezione I. 2. Il “linguaggio primitivo” dei costruttori, con il quale Wittgenstein apre le Ricerche filosofiche, può essere primitivo per loro, ma qualcuno deve pur aver tagliato su misura le lastre che essi chiedono di passarsi l’uno all’altro. Il taglio su misura potrebbe forse esser fatto senza parlare, ma ciò ci ricorda l’immensa complessità sociale e culturale che è presupposta anche dal più semplice e sensato racconto sul linguaggio umano. 3. Mi sono reso conto per la prima volta che la trasportabilità è l’essenza della misurazione quando ho fatto visita a Churchill Eisenhart nel vecchio Bureau of Standards di Gaithersburg, in Virginia (il Bureau è ora lo U.S. National Institute of Standards and Technology). 4. La frase del vescovo Butler, che la probabilità «è la vera guida della vita» è molto nota; lo è meno il fatto che questa frase si trovi all’inizio dell’introduzione al suo Analogy of Religion, Natural and Revealed (1763). 5. L’autogiustificazione delle scienze di laboratorio, in A. Pickering (a cura di), La scienza come pratica e cultura, Edizioni di Comunità, Torino, 2001, pp. 33-76. Mi è stato detto che a Taiwan questo articolo è stato recentemente tradotto in Cinese. 6. I riferimenti alle discussioni di Weinberg, Chomsky e Cohen si trovano nei miei due articoli sugli stili ripubblicati in Ontologia Storica, cit., in particolare alle pp. 214-215 e 234-235. 7. S. Shapin e S. Schaffer, op. cit. 8. S. Shapin e S. Schaffer, Léviathan et la pompe à air: Hobbes et Boyle entre science et politique, Editions la découverte, Paris, 1993. 9. C. Bazerman, Le origini della scrittura scientifica. Come è nata e come funziona l’argomentazione del saggio sperimentale, Transeuropa, Bologna, 1991. 10. Per big science, in sociologia e storia della scienza, si intende quel tipo di cambiamento radicale nel modo di produzione scientifica avvenuto nel XX secolo con la nascita del progetto Manhattan. L’espressione big science descrive almeno tre fattori che determinano la peculiarità di questo periodo storico: grandi opere di ricerca scientifica finanziate con denaro pubblico; applicazione tecnologica su larga scala dei risultati scientifici della ricerca di base da parte di grandi entità private (come le multinazionali, ecc.); ricerca e applicazione tecnica in campo militare. Il termine si oppone a quello di little science con il quale si intende l’opera di singoli ricercatori (o di piccoli gruppi). In particolar modo, il primo a introdurre il termine è stato il fisico Alvin Weinberg in un articolo pubblicato su Science. Nelle scienze sociali si deve

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invece a Derek de Solla Price la più celebre descrizione del fenomeno in questione in Little Science, Big Science, Columbia University Press, New YorkLondon, 1963 (Ndc). 11. B. Latour, Postmodern? No, Simply Amodern! Steps Towards an Anthropology of Science, in «Studies in the History and Philosophy of Science», vol. 21, 1990, pp. 145-171. 12. I. Hacking, Artificial Phenomena, in «British Journal for the History of Science», n. 24, 1991, pp. 235-241. La mia recensione arrivava decisamente in ritardo. La rivista si sentiva giustamente in colpa per aver pubblicato una recensione ignorante e compiaciuta dell’edizione con copertina rigida, e ha colto così l’occasione dell’edizione paperback per dare una seconda occhiata al libro. 13. P. Galison, How Experiments End, The University of Chicago Press, Chicago, 1987. Per una ricognizione sulla proliferazione degli studi sul laboratorio a partire dagli anni Ottanta si veda I. Hacking, Philosophers of Experiment, in «PSA: Proceedings of The Biennial Meeting of the Philosophy of Science Association» (1970-994), vol. 2, 1988, pp. 147-156 (Ndc). 14. Con “emisferi di Magdeburgo” si fa riferimento all’esperimento effettuato da Otto von Guericke (1602-86) per provare l’esistenza della pressione atmosferica: due emisferi cavi collegati tra loro oppongono un’elevata resistenza al distacco quando si estrae l’aria dallo spazio cavo formato dalla loro unione. Un tiro di otto cavalli per parte rese possibile la realizzazione dell’esperimento (Ndc). 15. Physicists create a new state of matter at record low temperature, pubblicazione del National Institute of Standards and Technology e della University of Colorado, 13 luglio 1995. 16. Hobbes ha posto questa domanda nel Dialogus physicus, pubblicato nel 1661, una risposta piccata al libro di Boyle New Experiments Physico-Mechanical, pubblicato nel 1660 (Boyle a sua volta confutò Hobbes nel 1662). Questo dialogo non è stato tradotto nell’edizione francese di S&S, contribuendo all’allontanamento dal lato materiale, che io invece sottolineo, in direzione del lato sociale del libro. 17. Con il termine “artificio” [artifice] Schaffer rende l’espressione latina che nella versione italiana è tradotta come ‘perizia tecnica’ (Ndc). 18. S. Shapin, op. cit. 19. Einaudi, Torino, 2006. 20. Si veda la mia recensione in «London Review of Books», 10 maggio, 2007, che spiega alcune delle ragioni per le quali penso che questo libro sia così importante. È disponibile online su http://www.lrb.co.uk/v29/n09/hack01_.html. 21. Peter W. Milonni, The Quantum Vacuum: An Introduction to Quantum Electrodynamics, Academic Press, Boston, 1997, p. 104.

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22. P.C.W. Davies, Superforce, Simon and Schuster, New York, 1985, p. 104. 23. Questa lezione è stata preparata per un workshop di un giorno su “Science, Technology and Society”. Il professor Ruey-Lin Chen, che mi ha invitato a questo workshop, mi ha scritto che «alcuni amici negli Sts suggeriscono che dovrei chiederle di parlare del modo in cui lei “immagina” la tecnoscienza dell’Asia dell’Est, alla fine della lezione per la comunità Sts». Ciò che dico qui a proposito della biotecnologia di Stato in Cina è una versione rimaneggiata di ciò che ho detto in risposta a questa richiesta. 24. I. Hacking, The Participant Irrealist at Large in the Laboratory, in «British Journal for the Philosophy of Science», vol. 39, n. 3, 1988, pp. 277-294. 25. P. Rabinow, T. Dan-Cohen, A Machine to Make a Future: Biotech Chronicles, Princeton University Press, Princeton, 2005; P. Rabinow, Pensare le cose umane, Meltemi, Roma, 2008; P. Rabinow, French DNA: Trouble in Purgatory, Chicago, 1999; e il mio preferito: Fare scienza oggi. PCR: un caso esemplare di industria biotecnologica, Feltrinelli, Milano, 1999.

Lezione IV 1. R. Carnap, Empiricism, Semantics, and Ontology, in «Revue internationale de philosophie», n. 4, 1950, pp. 20-40. 2. B. Russell, I problemi della filosofia, cit., pp. 110-111. 3. C.H. Wenzel, Chinese Language, Chinese Mind? in C. Kanzian e E. Runggaldier (a cura di), Cultures: Conflict-Analysis-Dialogue (Proceedings of the 29th International Ludwig Wittgenstein Symposium, 2006), Ontos, Frankfurt am Main, 2007, pp. 296-314. 4. R.E. Nisbett, The Geography of Thought: How Asians and Westerners Think Differently… and Why, Free Press, New York, 2003. Per un riassunto delle critiche ai tipi di risultati raggiunti da Nisbett si veda G. Lloyd, Cognitive Variations: Reflections on the Unity and Diversity of the Human Mind, Clarendon Press, Oxford, 2007 (e la mia recensione di quest’ultimo nella «London Review of Books», primo novembre 2007). 5. Le idee sistematiche di Wilhelm von Humboldt sull’eterogeneità delle lingue si trovano nella sua celebre monografia, On Language: On the Diversity of Human Language Construction and its Influence on the Mental Development of the Human Species, Cambridge University Press, Cambridge, 1999. (Tradotto da Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues und ihren Einfluss auf die geistige Entwiceklung des Menschengeschlechts, 1836). Wenzel invece si riferisce a un testo meno noto, una lettera scritta nel 1827 a Jean-Pierre Abel-Rémusat, che era stato professore di cinese al Collège de Fan-

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ce a Parigi a partire del 1814, la prima cattedra di cinese in Europa. Lettre à M. Abel-Remusat: Sur la nature des formes grammaticales en general et sur le genie de la langue chinoise en particulier, Dondey-Dupre, Paris, 1827 (ristampato in Elibron Classics, 2005). Wenzel fornisce i riferimenti al tedesco e ad altri studi su questa lettera. 6. Per altri significati di “relatività linguistica” si vedano articoli enciclopedici come quello di C. Swoyer nella Stanford online encyclopedia, http://plato.stanford.edu/archives/sum2015/entries/relativism/, oppure L. Boroditsky, Linguistic Relativity, in L. Nadel (a cura di), Encyclopedia of Cognitive Science, Macmillan Press, London, 2003, pp. 917-921. 7. F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. V, tomo II, Adelphi, Milano, 1965, §58, pp. 78-79. 8. Kinds of People: Moving Targets, in «Proceedings of the British Academy», vol. 151, 2007, pp. 285-318. 9. C. Tzu, The Inner Chapters, Counterpoint, Washington DC, 1998, p. 7 [in italiano il passo in questione si può trovare in Tao. I grandi testi antichi, UTET, Torino, 2003, capitolo 3, Chuang-Tzu – Il vero libro di Nan-Hua, p. 352 (Ndc)]. Giusto per puntualizzare, P. Lagerkvist (1891-1974), Premio Nobel per la letteratura nel 1951, ha pubblicato il suo romanzo autobiografico Guest of Reality (Gäst hos Verkligheten, Aldus/Bonnier, Stockholm, 1967) nel 1925. Per una discussione di C. Tzu ancora più fuori dal contesto della mia si veda M. Berkson, Language: The Guest of Reality – Zhuangzi and Derrida on Language, Reality and Skillfulness, in P. Kjellberg e P.J. Ivanhoe (a cura di), Essays on Skepticism, Relativism, and Ethics in the Zhuangzi, State University of New York Press, Albany, 1996, pp. 97-126. 10. Pierre Hadot, Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura, Einaudi, 2006, p. 12. [laddove il traduttore italiano sceglie “controsensi” ho preferito lasciare “errori d’interpretazione”, per adeguarmi al seguito dell’argomentazione di Hacking (Ndt)]. 11. Ho lasciato il calco italiano della traduzione inglese, che mette meglio in luce gli scopi di Hacking. La traduzione italiana UTET riporta invece: «le cose si ammettono chiamandole per nome», op. cit., p. 360, mentre in quella Adelphi (Zhuang-zi, Milano, Adelphi, 1992, p. 24) si trova: «è nominandole che le cose sono» (Ndt). 12. Anche in questo caso tengo il calco dall’inglese, laddove l’italiano sembra scostarsi di molto: «Che ammetto? Ammetto ciò che mi sembra ammissibile. Che non ammetto? Non ammetto ciò che non mi sembra inammissibile. Certamente nelle creature v’è qualcosa di ammissibile e di approvabile, nessuna è inammissibile o inapprovabile» (UTET, op. cit., p. 360); cfr. Adelphi, p. 24: «Come dire sì a una cosa? Si dice sì a una cosa che è. Come dire no a

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una cosa? Si dice no a una cosa che non è. Come giudicare ciò che è possibile? Si considera possibile una cosa che è possibile. Come giudicare ciò che non è possibile? Si considera impossibile una cosa che non è possibile. Ogni cosa ha la sua verità; ogni cosa ha la sua possibilità. Non c’è nulla che non abbia la sua verità; non c’è nulla che non abbia la sua possibilità» (Ndt). 13. Si veda la nota 13 della Lezione II. 14. B. Russell, op. cit., p. 119. 15. R. Rorty, Hope in Place of Knowledge: The Pragmatics Tradition in Philosophy, Institute of European and American Studies, Academia Sinica, Taipei, 1999. 16. Quarta di copertina dell’edizione paperback, Richard Rorty, Philosophy as Cultural Politics, Philosophical Papers IV, Cambridge University Press, Cambridge, 2007. 17. Ivi, p. 133. 18. A. Fine, The Natural Ontological Attitude, in The Shaky Game: Einstein, Realism and the Quantum Theory, University of Chicago Press, Chicago, 1986. 19. I. Hacking, Conoscere e sperimentare, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 4. 20. On Not Being a Pragmatist: Eight Reasons and a Cause, in C. Misak (a cura di), New Pragmatists, Oxford University Press, Oxford, 2007, pp. 32-49. 21. Alcune delle critiche sono: D. Resnik, Hacking’s Experimental Realism, in «Canadian Journal of Philosophy», vol. 24, 1994, pp. 395-412; R. Reiner e R. Pierson, Hacking’s Experimental Realism: An Untenable Middle Ground, in «Philosophy of Science», vol. 62, n. 1, 1995, pp. 60-69 [Per “inferenza alla migliore spiegazione” s’intende generalmente una regola d’inferenza secondo la quale, tra le varie spiegazioni potenziali di un dato fenomeno, la migliore di esse è anche quella vera. Due dei più noti argomenti tratti da questa regola sono l’argomento del successo scientifico, secondo il quale la scienza ha successo (soprattutto a livello strumentale) perché converge verso la verità e quello della coincidenza: sarebbe un “accidente cosmico” se gli strumenti scientifici riuscissero a manipolare così efficacemente alcune entità che in realtà non esistono. Per un esempio del primo argomento si veda R.N. Boyd, Scientific Realism and Naturalistic Epistemology, in «PSA 1980», vol. 2, pp. 613-662; per una versione del secondo invece J.C. Smart, Between Science and Philosophy, Random House, New York, 1968. Cercando di prevenire alcune critiche a questo poposito, Hacking aveva già spiegato il suo scetticismo nei confronti di tutti gli argomenti riconducibili all’inferenza alla migliore spiegazione in Conoscere e sperimentare, op. cit., pp. 62-68 (Ndc)]. 22. M. Suárez, Experimental Realism Defended: How Inference to the Most Likely Cause Might be Sound, in S. Hartmann, C. Hoefer, L. Bovens (a cura di), Nancy Cartwright’s Philosophy of Science, Routledge, London, 2008.

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23. E. Becquerel, Recherches sur les effets de la radiation chimique de la lumière solaire, au moyen des courants électriques, in «Comptes rendus hebdomadaire des séances de l’Académie des Sciences», vol. 9, 1839, pp. 145-149. Cfr. E. Becquerel, La Lumière, ses causes et ses effets, 2 voll., Firmin Didot Frères, Paris, 1867-68, vol. II, p. 122. L’esperimento è stato riprodotto da Jérôme Fatet; si veda il suo seminario online datato 26 gennaio 2005, Edmond Becquerel: La naissance de l’actinomètre électrochimique. 24. Daniela Monaldi me lo ha fatto notare dopo aver letto ciò che avevo scritto a proposito di Becquerel nel preprint Another New World Is Being Constructed Right Now: The Ultracord, Max Planck Institute for the History of Science, Berlin, 2006. 25. Extragalactic Reality: The Case of Gravitational Lensing, «Philosophy of Science», vol. 56, 1989, pp. 555-581 [Per una critica di questa discussione di Hacking dell’effetto “lente gravitazionale” alla luce del suo argomento sperimentale a favore del realismo delle entità teoriche si veda D. Shapere, Astronomy and Antirealism, in «Philosophy of Science», vol. 60, n. 1, 1993, pp. 134-150. Shapere fa notare che l’applicabilità dell’argomento sperimentale in astrofisica dipende dal senso che Hacking intende attribuire al verbo “manipolare”: dal momento che utilizziamo le lenti gravitazionali per misurare le distanze, operiamo con esse, ci serviamo di esse come di strumenti, siamo allora legittimati a ritenerle reali anche se non possiamo effettuare esperimenti su di esse]. 26. I. Hacking, L’autogiustificazione delle scienze di laboratorio, cit. 27. S.R. Clark and D. Jaksch, Signatures of the Superfluid to Mott-Insulator Transition in the Excitation Spectrum of Ultracold Atoms, in «New Journal of Physics», vol. 8, 2006, pp. 160-178, a p. 177.

Da dove viene lo stile Hacking 1. Con la parola “archeologica” voglio intendere tutto quell’insieme di ricostruzioni che sono andate al di là dell’utilizzo del termine all’interno della storia della scienza o di quelle, seppur interne alla disciplina, non del tutto contenutisticamente attinenti alla formulazione che ci interessa in questo contesto. 2. A.I. Davidson, Stili di ragionamento: dalla storia dell’arte all’epistemologia della scienza, in L’emergenza della sessualità, Quodlibet, Macerata, 2010, pp. 171-190. 3. J. Gayon, De la catégorie de style en histoire des sciences, in «Alliage», n. 26, 1996, pp. 13-25.

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4. Si veda Il problema di una sociologia della conoscenza, in K. Mannheim, Sociologia della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2000, pp. 123-194. 5. P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 84. 6. Cfr. i due saggi di I. Hacking: Linguaggio, Verità e Ragione e Lo “Stile” per gli storici e i filosofi entrambi contenuti in Ontologia Storica, Edizioni ETS, Pisa, 2010. 7. Hacking riferisce la data del 1980 in Linguaggio, Verità e ragione, op. cit. p. 211. La raccolta verrà pubblicata ufficialmente in M. Hollis e S. Lukes (a cura di), Rationality and Relativism, Mit Press, Cambridge Mass, 1982. 8. Con gli autori provenienti dalla Scuola di Edimburgo Hacking condivideva l’interesse per la filosofia di Wittgenstein (si veda il saggio di Vagelli contenuto in questo volume, infra, pp. 7-27). 9. M. Hollis e S. Lukes (a cura di), Rationality and Relativism, cit., pp. 4866; ripreso in Ontologia storica, cit., pp. 211-232. 10. Cfr. Linguaggio, Verità e Ragione, cit., p. 211. 11. Hacking applica dunque il concetto di stile a partire dal 1980, ben prima della formulazione definitiva da parte di Crombie nel 1994. 12. Infra, Lezione I, §2, p. 37 e seguenti. 13. M. Kusch, Hacking’s Historical Epistemology: A Critique of Styles of Reasoning, in «Studies in History and Philosophy of Science», n. 41, 2010, pp. 158-173. 14. Cfr. J. Gayon, op. cit. 15. A.I. Davidson, op. cit., p. 175. 16. Si veda infra, p. 27. 17. I. Hacking, Lo “stile” per storici e filosofi, cit., pp. 236-237. 18. Si pensi per esempio che la prima edizione americana di questo testo risale al 1979, a cura di Brenn e Merton e con un’introduzione di Kuhn. 19. E. Campelli, Un rapporto imaginabilis? Ludwik Fleck e Thomas Kuhn, in «Sociologia e Ricerca Sociale», n. 53/54, 1997, pp. 7-52. 20. B. Latour, Postface: Transmettre la syphilis. Partager l’objectivité, in L. Fleck, Genèse et développement d’un fait scientifique, Les Belles Lettres, Paris, 2005, p. 253. 21. Fleck sarà uno fra i riferimenti intellettuali comuni a Hacking e agli Science (and Technology) Studies. La rivista di bandiera del settore, «Social Studies of Science», animata da David Edge, di Edimburgo, ha dedicato in varie occasioni spazio alla figura di Fleck così come ha fatto, più tardi, la rivista «Minerva» (e in maniera minore «Science Technology & Human Values»). Si veda inoltre: S. Jasanoff, Genealogies of STS, in «Social Studies of Science», vol. 43, n. 3, 2012, pp. 435-441; M. Bucchi, Scienza e società. Introduzione alla so-

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ciologia della scienza, il Mulino, Bologna, 2002; a cura di Jasanoff, S. et al., Handbook of Science and Technology Studies, SAGE, London, 1995; D.J. Hess, Science Studies. An Avanced Introduction, New York University Press, New York, 1997, p. 84. 22. Lo stesso è avvenuto per altri autori come ad esempio Boris Hessen. Si veda G. Ienna e G. Rispoli, Boris Hessen al bivio fra scienza e ideologia, in B. Hessen, Le radici sociali ed economiche della meccanica di Newton, Castelvecchi, Roma, 2017, pp. 5-44. 23. Cfr. J.-F. Braunstein, L’histoire des sciences. Méthodes, styles et controverses, Vrin, Paris, 2008. 24. I. Hacking, Lo “stile” per storici e filosofi, cit., p. 235-236. 25. Cfr. Linguaggio, verità e ragione, cit. 26. Cfr. Lo “stile” per storici e filosofi, cit. 27. M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, BUR, Milano, 2011, p. 146. 28. Si tratta delle parole usate nella prefazione all’edizione inglese (The Order of Things). M. Foucault, Dits et écrits, 2 voll., Gallimard, Paris, 1994, p. 9. 29. M. Foucault, Dits et écrits, cit., p. 8. 30. Cfr. J.-F. Braunstein, Bachelard, Canguilhem, Foucault. Le “style français” en épistémologie, in Wagner, Pierre (a cura di), Les philosophes et la science, Gallimard, Paris, pp. 920-963. 31. Questo testo di Althusser è stato riconosciuto anche da altri studiosi come debitore del regionalismo epistemologico. (Cfr. J.-F. Braunstein, Bachelard, Canguilhem, Foucault. Le “style français” en épistémologie, cit.). Inoltre si noti che buona parte della filosofia di Althusser è stata fortemente influenzata dai dispositivi teorici bachelardiani. 32. Linguaggio, verità e ragione, cit., p 214, che riprende L. Althusser, Lenin e la filosofia seguito da: Sul rapporto fra Marx e Hegel; Lenin di fronte a Hegel, JacaBook, Milano, 1969, pp. 25-26. 33. P. Jacob, Il regionalismo epistemologico: una tendenza della filosofia contemporanea delle scienze in Francia, in «Rivista di filosofia», vol. 83, n. 2, 1991, p. 287. 34. Si possono rintracciare tensioni regionaliste anche in altri autori oltre a quelli da noi citati; per approfondimenti si veda P. Jacob, op. cit. 35. Cfr. G. Bachelard, Il razionalismo applicato, Edizioni Dedalo, Bari, 1975. 36. G. Bachelard, Il razionalismo applicato, cit. 37. Su queste tematiche si vedano i saggi contenuti in P. Donatiello, F. Ga-

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lofaro, G. Ienna, (a cura di), Il senso della tecnica. Saggi su Bachelard, Esculapio Editore, Bologna, 2017. 38. In L’objet de l’histoire des sciences, contenuto in Études d’histoire et de philosophie des sciences concernat les vivants (Vrin, Paris, 1968), Canguilhem esplicita con chiarezza che non esiste una storia della scienza declinata al singolare ma una storia delle scienze regionalizzate. In questo senso è possibile notare una continuità con Auguste Comte. 39. È probabile che Bourdieu sia stato uno dei sostenitori di Hacking per la sua elezione nel 2000/2001 al Collège de France (insieme a Jacques Bouveresse) per la cattedra di “Philosophie et histoire des concepts scientifiques”. In P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, cit., (testo del suo ultimo corso al Collège, anch’esso del 2000-2001) l’autore infatti evoca spesso la figura di Hacking: per il riferimento al concetto di stile si veda Il mestiere di Scienziato, p. 84. Si noti inoltre che, nel dedicare il suo ultimo corso a Jules Vuillemin (p. 11), Bourdieu dice: «Vuillemin si trova in quella tradizione francese di filosofia della scienza che ha trovato un’incarnazione in Bachelard, Koyré, Canguilhem e che è portata avanti oggi da alcuni studiosi, tra queste stesse mura», dove il riferimento è chiaramente diretto a Hacking. 40. Si fa qui riferimento principalmente agli studi di J.-L. Fabiani, Y. Gingras, J. Heilbron, É. Brian e altri. 41. Oltre al testo che presentiamo qui (infra, Lezione I, §10), anche nei corsi al Collège il riferimento a Bourdieu assume una posizione centrale. 42. Infra, Lezione I, §10, p. 52. 43. Cfr. il saggio introduttivo di Vagelli, infra, p. 26. 44. Bourdieu decide di dedicare il suo ultimo corso al Collège al campo scientifico proprio perché preoccupato dalle tendenze degli studi contemporanei sulla scienza. Da un lato, gli sconvolgimenti del Sokal Affaire richiedevano un intervento diretto per riabilitare l’immagine delle scienze sociali in genere all’interno del campo scientifico. Dall’altro il relativismo estremo proposto da Latour (che parlava da un pulpito interno allo stesso campo accademico francese) otteneva sempre più sostenitori. In tal senso, non escludiamo che Bourdieu abbia sostenuto la candidatura di Hacking al Collège proprio in funzione anti-latouriana (anche quest’ultimo avendo tentato più volte di avvicinarsi a quest’istituzione). 45. Anche J.-C. Passeron, a seguito della lettura dei testi di Crombie e di Hacking, ha cominciato a utilizzare il concetto di stile. In tal senso, a partire dagli scritti successivi alla prima edizione di Le Raisonnement Sociologique del 1991, il sociologo francese ha usato questo termine per connotare il suo tipo di ricerca sullo spazio argomentativo delle scienze sociali. Queste riflessioni sul concetto di stile vengono elaborate in una serie di testi preparatori alla ristrutturazione de Le Raisonnement Sociologique per la sua seconda edizione del 2006.

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46. Infra, Lezione III, §3, pp. 109-110. 47. In verità già utilizzata da Bachelard (ma in maniera meno strutturante) e ampiamente in Foucault. 48. Ontologia storica, in Ontologia storica, cit., pp. 11-43. 49. Specifica Hacking che il nome di Boyle, come quello di Talete o Galileo, sono dei meri indicatori simbolici per individuare a livello mitologico la genesi di uno stile di ragionamento. 50. Infra, Lezione III, §10, p. 122. 51. Anche qui è possibile vedere una certa affinità con il concetto di fenomenotecnica bachelardiana. 52. Come si è visto nel saggio di Vagelli, Hacking ha analizzato da vicino anche altri stili di ragionamento (infra, p. 10-11). 53. In italiano tradotto come La natura della scienza. Riflessioni sul costruzionismo, McGraw-Hill, Milano, 2000. Segnaliamo in particolare l’edizione francese Entre science et réalité. La construction sociale de quoi?, La Découverte, Paris, 2001 uscito nella collana di Latour e Callon (Anthropologie des sciences et techniques) in cui sono stati pubblicati (oltre ad alcuni fra i testi dei due direttori di collana) anche un’antologia dell’ambito degli Science (and Technology) Studies e alcuni testi classici come Léviathan et la pompe à air di Shapin e Schaffer. 54. Su questo punto si veda l’introduzione di M. Vagelli a questo volume, infra, pp. 7-27. 55. A. Pickering (a cura di), Science as Practice and Culture, University of Chicago Press, Chicago, 1992; Jasanoff, S. et al. (a cura di), Handbook of Science and Technology Studies, cit.; M. Biagioli (a cura di), The Science Studies Reader, Routledge, New York, 1999; S. Sismondo, An Introduction to Science and Technology Studies, Blackwell Publishing, Chichester, 2004. 56. J.-F. Braunstein, Bachelard, Canguilhem, Foucault. Le “style français” en épistémologie, cit., e L’histoire des sciences. Méthodes, styles et controverses, cit.; Max Planck Institute for the History of Science, Epistemology and History from Bachelard and Canguilhem to Today’s History of Science, Preprint 434, Conference, 2012; H.-J. Rheinberger, On Historicizing Epistemology, Stanford University Press, California, 2010.

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Indice dei nomi

A Agazzi, Evandro, 189, 213, 217 al-Khwārizmī, 63, 95, 96 Archimede, 53-55, 88-91, 101, 103, 195, 219 Ariew, Roger, 189, 211 Aristotele, 33, 57, 81, 86, 140, 192, 211

Boyle, Robert, 14-15, 19, 67-68, 87, 96, 119-20, 124-33, 137, 139, 179, 193, 196-97, 205, 220 Butler, Bishop, 196 Butterfield, Herbert, 35, 188-89, 212

C Carnap, Rudolf, 47, 113, 122, 141-42, 190, 198, 212 B Bachelard, Gaston, 15, 22, 45, 106, 172, Changeux, Jean-Pierre, 97-99, 195, 213 Chemla, Karine, 102-04, 191, 195, 212 174-75, 178-79, 187, 190, 203-05, Cho, Hung-Wen, 130 207, 210, 221-24 Chomsky, Noam, 63, 66-76, 99, 116Bardeen, John, 129 17, 168, 196, 212 Barnes, Bary S., 88, 168-69, 171, 194 Chuang, Tzu, 24, 145, 147, 149, 199, Bazerman, Charles, 196, 211 212 Beck, Ulrich, 44, 190, 211 Coetzee, John Maxwell, 54, 191, 213 Becquerel, Edmond, 21, 159-60, 201, Cohen, Bernard I., 116-18, 168, 196, 211 198, 213 Bellarmino, Roberto, 126 Comte, Auguste, 22, 71, 149, 204 Bernstein, Richard J., 54, 192, 211 Bloor, David, 88, 168-69, 171, 194, 221 Connes, Alain, 97-99, 195, 213 Cooper, Leon N., 130 Bose, Satyendra N., 20, 125-26, 130, Crombie, Alistair C., 10-11, 14, 16-17, 133, 163 23, 37-48, 56, 62, 64-67, 70, 96, 100Bourdieu, Pierre, 27, 51-52, 55, 70, 01, 104, 106-15, 117-18, 131, 139, 135, 168, 173, 176-77, 188, 191, 162, 168-71, 178, 189, 202, 204, 202, 204, 212, 216, 221, 223 211, 213, 218 Bouveresse, Jacques, 185-86, 191, 204, 207, 209, 216, 223

226

D Daguerre, Louis-Jacques-Mandé, 160 Darwin, Charles R., 144, 176 Daston, Lorraine, 51, 191, 213, 215 Davidson, Arnold I., 27, 48, 167, 180, 183, 185-86, 188, 191, 201-02, 207, 210, 213, 222 Davidson, Donald, 58, 192, 213-14 Davies, 133, 198, 214 Dennett, Daniel, 44, 190 Descartes, René, 17-18, 83, 84-86, 9394, 186, 195, 208, 215 Dewey, John, 152, 154, 156, 158, 184 Diderot, Denis, 56, 68 Drake, Stillman, 65, 126, 193, 214 Dummett, Michael, 142, 151

E Einstein, Albert, 20, 112, 125-26, 130, 133, 161, 200, 214 Eisenhart, Churchill, 196 Elwick, James, 191, 214 Eraclito, 132-33, 147 Erodoto, 61 Euclide, 43, 62, 88

F Fermat, Pierre de, 75, 92 Fine, Arthur, 153, 200, 214 Fleck, Ludwik, 47, 53, 168, 170-71, 190, 202, 214, 222, 224 Fodor, Jerry, 63, 192, 214 Foucault, Michel, 7-10, 13, 15, 24-26, 35, 44-46, 56, 73, 135, 167, 170, 172-73, 184-85, 187-88, 190, 193, 203, 205, 207-08, 215, 221-22 Frege, Gottlob F.L., 53

LA RAGIONE SCIENTIFICA

G Galileo, Galilei, 14-15, 46, 53, 65-66, 68, 90-91, 96, 106, 108, 115, 117-18, 126, 173, 189, 193, 205, 213-14, 217 Galison, Peter, 51, 123, 179-80, 183, 191, 193, 197, 213, 215-16, 223 Gardner, Martin, 93 Garfield, Jay L., 192, 214 Geber (Abū Mūsa Jābir ibn Ḥayyān), 96 Gödel, Kurt, 86 Goodman, Nelson, 142, 153, 162, 191 Gould, Stephen Jay, 76, 193, 215 Gruender, David, 189, 213, 217 Guo, Shuchun, 191, 195, 212

H Hadot, Pierre, 132, 147, 199, 217 Haeckel, Ernst, 144 Han, Dian-Jiun, 125 Hesse, Hermann, 54, 191, 217 Hintikka, Jaakko, 189, 213, 217 Hobbes, Thomas, 21, 67-68, 87, 119, 126-28, 142, 193, 196-97, 220 Hollis, Martin, 168, 184, 190, 202, 208, 215, 223 Holton, Gerald, 42 Humboldt, Wilhelm von, 144, 198, 217 Hume, David, 59, 73, 189 Husserl, Edmund, 34, 52-53, 66, 83, 86, 96, 116-18, 168, 191, 194, 217 Hyder, David, 191, 217

I Iliffe, Robert, 189, 217

J James, William, 103, 154, 184

INDICE DEI NOMI

K Kafka, Franz, 54 Kant, Immanuel, 37, 42, 51, 62-63, 66, 73, 77-81, 83-84, 86, 95, 102-05, 150, 170, 192, 194, 217-18 Kapica, Pëtr, 129 Kourilsky, Philippe, 136 Krüger, 8, 190, 215 Kuhn, Thomas, 25, 42, 47, 106, 122, 170-71, 184, 190, 202, 218, 222

L Lakatos, Imre, 17, 42 Lambek, Michael, 60-61, 192, 218 Latour, Bruno, 21, 87-91, 96, 99, 102, 119, 121, 123, 126-27, 134, 171, 179, 187, 194, 197, 202, 204-05, 218, 224 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 27, 33, 5152, 83, 84-86, 94, 115, 117, 186, 195, 208, 215 Lewontin, Richard, 76, 193, 215 Linneo, Carl, 46, 68, 99 Lloyd, Geoffrey E.R., 39, 48, 53, 8182, 91, 101, 103, 189, 191-92, 195, 198, 218 Lukes, Steven, 168, 184, 190, 202, 208, 215, 223

M Magruder, Kerry, 189, 218 Mannheim, Karl, 47, 168, 202, 224 McClelland, James L., 192-93, 219 Meadows, Arthur J., 189, 218 Miller, James G., 144 Milonni, Peter W., 197, 218

N Needham, Joseph, 101

227

Netz, Reviel, 17, 21, 25, 62, 81, 87-91, 97, 103, 119, 192, 194-95, 218-19 Nietzsche, Friederich W., 50, 56, 104, 144-49, 153, 185, 199, 207, 219 Nisbett, Richard E., 144, 198, 219

O Ockham, William of, 14, 42, 46, 48, 150

P Pascal, Blaise, 46, 68-69, 96 Peirce, Charles S., 13, 69-70, 113-14, 116, 154 Pickering, Andrew, 162, 191, 196, 205, 214, 216, 224 Pitagora, 50, 75 Planck, Max, 8, 20, 33, 187, 201, 205, 209, 216, 224 Platone, 33, 38, 53, 75, 83-86, 89-91, 99, 101, 140-41, 150 Popper, Karl, 53, 69, 112-13, 122, 131, 184

R Rabinow, Paul, 135, 198, 219 Roche, Daniel, 191, 216, 223 Rogers, Timoty T., 192, 219 Rorty, Richard, 22, 152-55, 185, 200, 208, 219 Rose, Nikolas, 135 Rousseau, Jean-Jacques, 56, 68 Russell, Bertrand, 83-86, 105, 143, 149-51, 194, 198, 200, 219

S Schaffer, Simon, 21, 67-68, 87, 89, 91, 119-21, 123, 127, 179, 180, 196-97, 205, 220

228

Schlick, Moritz, 34, 49 Shapin, Steven, 21, 67-68, 87-88, 91, 119-21, 123, 128, 171, 179, 196-97, 205, 220 Sima, Qian, 24, 59 Sima, Tan, 59 Spengler, 47, 168 Sperber, Dan, 63, 184, 192, 209, 220 Suárez, Mauricio, 158, 159, 200, 220

T Tal, Eran, 157 Talete, 14-15, 17, 61-63, 66, 68, 79-81, 89, 95, 97, 108-09, 173, 186, 205 Tarski, Alfred, 57, 58 Torricelli, Evangelista, 124 Tucidide, 56, 59, 61, 68, 81, 108

U Uzan, Jean-Philippe, 188, 220

V Van Fraassen, Bas, 71, 99, 122, 150 Vernant, Jean-Pierre, 37, 189

LA RAGIONE SCIENTIFICA

W Watts, Isaac, 191, 220 Weinberg, Steven, 66, 116-18, 168, 196, 220 Wenzel, Christian H., 144, 198-99, 220 Whewell, William, 7, 74 Whitehead, Alfred North, 90, 219 Williams, Bernard A.O., 13-14, 33, 49, 55-61, 63-65, 67, 71, 81, 92, 96, 10608, 129, 188, 192, 216, 220 Wisdom, John, 144 Wittgenstein, Ludwig, 7, 17, 18, 27, 62, 72, 74, 83-86, 92-93, 119-20, 151, 183, 186, 193, 196, 198, 202, 208, 209, 221 Wölfflin, Heinrich, 46, 167, 190, 221 Woolgar, Steve, 87, 123, 134, 179, 218

Y Yu, Ite Albert, 125, 130

Indice

IAN HACKING E LA SCIENZA

“MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI di Matteo Vagelli COME

5

1. L’occasione 2. Sull’idea stessa di stile di ragionamento scientifico 3. L’animale matematico 4. «The manipulative hand and the attentive eye» 5. L’antropologia filosofica della ragione scientifica

7 9 15 19 22

Nota del traduttore

28

LA RAGIONE SCIENTIFICA

29

Prefazione

31

Lezione I 1. Imparare a imparare 2. Stili di pensiero scientifico 3. “La tradizione europea” 4. Gli stili sono costituiti dai metodi e dagli oggetti 5. Un semplice modello per organizzare il passato 6. Cristallizzazione 7. Rimpianti a proposito della parola “stile”

33 34 37 38 39 40 43 46

8. Stili auto-certificanti 9. Oggetti 10. Leibniz e Bourdieu 11. Società 12. La “Veridicità” di Bernard Williams 13. Silenzio a proposito della verità 14. Veridicità a proposito del passato 15. Matematica 16. Avvertenza a proposito di “X” 17. Lo stile galileiano (I) 18. Lo stile di laboratorio 19. Logica 20. Tre proposizioni radicali Lezione II 1. Antropologia filosofica 2. La matematica come miscuglio variopinto di tecniche 3. Natura 4. La storia folcloristica della scoperta di una potenzialità umana 5. La veridicità a proposito degli oggetti geometrici 6. Greci polemici 7. La matematica è stata importante per alcuni (e solo per alcuni) filosofi 8. L’ossessione per la matematica 9. Due prospettive su uno straordinario libro sulla matematica greca 10. Una parentesi sui “science studies” 11. Ritorno sul paradosso a due facce 12. Platone nel bene e nel male 13. Il mutamento relativo alle concezioni del dire la verità 14. La dimostrazione, non gli assiomi, né il calcolo 15. Due concezioni della dimostrazione

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16. Una seconda cristallizzazione all’interno dello stile matematico? 17. Gli oggetti matematici 18. Allargate i vostri orizzonti! 19. Antropologia comparata della ragione 20. La matematica cinese antica 21. L’origine degli oggetti Lezione III 1. Riepilogo 2. L’esplorazione sperimentale e la modellizzazione ipotetica 3. Riepilogo delle tre avvertenze 4. Esplorazione e analogia: stili (2) e (3) 5. Misurazione 6. Il metodo ipotetico-deduttivo 7. Ragionamento architettonico 8. Lo stile galileiano (II) 9. Una nuova «Forma di Vita» 10. Un nuovo attore: non una persona, ma un dispositivo sperimentale 11. Un luogo nuovo: il laboratorio 12. La creazione di fenomeni 13. Quello che Thomas Hobbes vide chiaramente 14. Il mutamento concettuale decisivo 15. Ontologia: le entità teoriche 16. Il vuoto 17. Il laboratorio di biotecnologie 18. Due tipi di laboratorio? Lezione IV 1. Plurali 2. Non “relativismo” contro “nominalismo” 3. Universali 4. “L’ontologia ricapitola la filologia” 5. Contro l’eccesso di relatività linguistica: Nietzsche e Chuang Tzu

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6. L’ontologia generale e le scienze speciali 7. Il tipo di antirealismo di Dummett 8. Un’allusione a Richard Rorty 9. L’atteggiamento ontologico di Arthur Fine 10. Che ne è del mio argomento per il realismo delle entità? 11. In che cosa consisteva l’argomento sperimentale? 12. Qual era l’argomento sperimentale? 13. Un buon argomento può sempre avere una conclusione falsa 14. Il migliore ma non quello definitivo 15. Quando non è possibile interferire 16. L’autogiustificazione delle scienze di laboratorio 17. La stabilità delle scienze

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DA DOVE VIENE LO STILE HACKING. UN PONTE TRA SCIENCES STUDIES ED EPISTEMOLOGIA STORICA

di Gerardo Ienna

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Note

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Bibliogragfia

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Indice dei nomi

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