La produzione dello spazio [Voll. 1-2]

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Henri Lefebvre

LA PRODUZIONE DELLO SPAZIO prefazione di Leonardo Ricci

VOLUME PRIMO

MOIZZI EDITORE

Titolo originale: LA PRODUCTION DE L'ESPACE © by Editions Anthropos 1974

Collana diretta da Riccardo Mariani Traduzione di Mirella Galletti

© 1976 per l'edizione italiana: Moizzi Editore S.p.A, - Sede di Milano - Via Fiori Chiari, 12

INDICE

Prefazione

pag.

9

Capitolo primo Disegno dell'opera



25

Capitolo secondo Lo spazio sociale

»

85

Capitolo terzo Architettonico spaziale

»

173

Capitolo quarto Dallo spazio assoluto alla spazio astratto

»

227

Capitolo quinto Lo spazio contraddittorio

»

283

Capitolo sesto Dalle contraddizioni dello spazio allo spazio differenziale

»

337

Capitolo settimo Proposte e conclusioni

»

381

PREFAZIONE

Se mi affaccio alla finestra in una notte di luna la piazza che ho di fronte può apparire deserta. In quello spazio non c'è nessuno. Quello spazio è solo abitato dalla luce dei lampioni, dal chiarore della luna, dalle colonne e dagli architravi delle facciate dei palazzi, forse da altri occhi che, come i miei, alle tre del mattino, oltre le finestre aperte per il caldo guardano attenti o distratti ciò che quello spazio contiene. Poi da una stradina entra nella piazza un gatto, che, scelta con cura la pietra più fresca, ci si stende sopra con indolenza e pigrizia. Forse in attesa di una gatta. Quella stessa piazza di giorno, è totalmente diversa. Il sole abbassa il coperchio del cielo tanto che il « tetto » risulta più prossimo a noi. Un formicolare di uomini frammischiato a ruote di tante macchine in moto impedisce qualsiasi contemplazione estetica delle facciate dei palazzi, delle case e annulla pensieri a largo raggio sulla propria e altrui esistenza. Il pensiero viene limitato all'attenzione delle strisce bianche, al compito di latino, al prossimo lavoro· d'ufficio o d'officina. La stessa piazza anni fa poteva contenere strani uomini vestiti d'orbace e camicie nere con gagliardetti con su scritto « me ne frego ». Oggi uomini tripudianti per la vittoria della elezione del partito comunista con ben più allegra e festante e fiduciosa gioia per una società nuova. Il giorno dopo può contenere un assassino che spara ad un nemico personale o politico. Più tardi può contenere fra gli altri viventi un cadavere trasportato al cimitero. Come vedete, per un architetto o un urbanista, almeno per me, lo spazio di questa piazza muta. È mutato nel tempo. Fatto quindi da una spessa stratificazione di storie di uomini. Muta nell'oggi nel mutare dinamico fra contenitore e contenuti. Muta nel -fluire dei giorni, delle stagioni, degli anni. Non può essere una cosa in sé.

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Non è difficile fare la constatazione che questo spazio è un prodotto della natura e degli uomini. O meglio degli uomini che fan parte della natura. E poiché gli uomini hanno avuto e hanno pensieri diversi, cioè diverse ideologie possiamo anche dire che le loro diverse ideologie hanno prodotto questo spazio Se dallo spazio di questa piazza, passiamo allo spazio urbano, fino a dilatarlo a quello territoriale la constatazione di quanto dico è ancora più evidente. Perché sì lo spazio di un territorio e, se vogliamo, di tutta la terra è stato condizionato dalle risorse « naturali », soprattutto nei tempi lontani, in società agricole-pastorali, dato il rapporto diretto risorse-produzione ma altrettanto vero è che l'ideologia dominante, praticamente quella forza che deteneva il potere· e le risorse, produceva uno spazio a suo piacimento. E se oggi i territori sono divisi e alienati in zone, campagna-periferia-città, significa che la natura offriva all'uomo certe risorse, e che alcuni uomini le sfruttavano a loro piacimento. Così possiamo dire che questa suddivisione in zone che dividevano la classe borghese o artigianale dei centri storici, quella operaia della periferia, quella contadina della campagna, l'ha operata il potere, i vari poteri, rappresentati oggi da noi dal capitale. Il capitale quindi non solo si è appropriato della terra, e delle risorse e dei mezzi di produzione ma ha anche indirettamente prodotto o più esattamente obbligato gli abitanti a produrre lo spazio alienato in cui viviamo ed in cui siamo relegati. Per diverse strade, quella mia di architetto e urbanista, quelle di Lefebvre di filosofo e sociologo (o metafilosofo, come forse preferirebbe essere chiamato), la conclusione è la stessa. E il lettore mi voglia scusare di questa presentazione all'ultimo libro di Lefebvre, che non può essere fatta secondo un metodo analitico-critico perché non ne conosco il mestiere. Ma l'amico Henri mi perdonerà questa lacuna e forse ne sarà anche contento, perché talvolta è meglio essere capito dai non addetti ai lavori, piuttosto che vivisezionati dai cosiddetti amici che, per darsi un tono, trovano sempre il modo di tagliarti i panni addosso. In realtà fare una «introduzione» oppute una presentazione a questo libro di Lefebvre è inutile. Per due motivi essenziali. Il primo perché la sua prefazione Lefebvre l'ha già scritta da sé nel primo capitolo: « Disegno dell'opera», nel quale l'autore pone in modi diversi ma complementari il « progetto » del proprio lavoro. Talvolta _in forma poetica (« spazio di rappresentazione») nella quale concentra tutta la sua forza intuitiva ed esistenziale, talvolta con metodo rigoroso analitico-critico-filosofico (rappresen12

tazione dello spazio) nel quale, persino con troppo impegno, fino a diventare didascalico, vuol stabilire i livelli culturali del passato e del presente quasi per giustificare attraverso le « carenze » delle varie discipline la bontà del suo metodo, talvolta da buon marxista riferendosi principalmente alla « economia politica », talvolta denunciandone il limite per sostituirla con « l'economia politica dello spazio». Ed anzi da questo punto di vista spesso insiste, come se certi attacchi da cui si è dovuto difendere di non ortodossia se non di eresia, oppure certi silenzi degli ambienti politici delle sinistre ufficiali, non solo non gli fanno per niente piacere (come del resto a molti intellettuali) ma proprio perché in realtà la critica marxista per troppo tempo, dopo i primi momenti di rottura durante e subito dopo la rivoluzione, si è imprigionata in schemi deterministi creando ambiguità nel rapporto struttura-soprastruttura, mentre lui marxista in chiave dialettica ed in più consapevole di altri apporti conoscitivi, dovuti a discipline recentemente fondate (psicologia, sociologia, antropologia, ecologia, linguistica) oppure fortemente sviluppate (matematica, fisica), sa che lo « spazio sociale» è un fenomeno non « riducibile » ad una sola disciplina (che fra l'altro proprio perché ridotta e riduttiva serve al capitalismo ed al neocapitalismo), non riducibile quindi a sole forze economiche e produttive perché contenenti altre realtà dell'uomo, le forze amorose, sensuali, sessuali, nel «tempo» dal nascere al morire. Il seco,:ido è che per fare un'analisi appropriata del libro stesso bisognerebbe farne un altro, per dimostrare accordi e discordanze, consensi e dissensi, esprimere dubbi o incertezze. E questo, anche se oggi molti dei libri che si scrivono non sono altro che libri scritti sopra altri libri, non è il mio costume, e tantomeno la mia volontà. Non mi resta quindi che testimoniare di questo libro. Così come l'ho recepito non soltanto intellettualmente o politicamente ma anche sentimentalmente. Testimoniare quale apporto conoscitivo mi sembra dia, ad altri oltre che a me, sia in sé, sia rispetto ad altri libri che trattano di cose analoghe nel mondo d'oggi. E poiché il libro, nonostante sia un « collage » di esperienze di una lunga vita, di « confronti » palesi o nascostj con tutti gli altri che al mondo d'oggi producono cultura, di intuizioni poetiche personali, quindi si presenti in forme diverse (ora analitica-critica, ora letteraria, ora sintetica, ora quasi aneddotica e giornalistica) ed in tale diversità consiste anche la sua complessità e ricchezza, è estremamente elaborato ed organizzato, cercherò di cogliere sinteticamente nei vari capitoli i momenti che ritengo più originali pre-

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gnanti e «produttivi» di cultura e quindi di « spazio sociale». Introdursi o procedere nel libro di Lefebvre è un po' come introdursi a procedere nel Labirinto. Chi non ha il filo di Arianna è perduto. E poiché forse nessuna Arianna avrà dato al lettore alcun filo, per poterne uscire, bisogna riconoscere i vari « segnali » che lo stesso autore· lascia negli incroci più complicati, nei percorsi troppo simili per poter essere ricordati o riconosciuti. Segnali molto diversi. Ed in questo consiste la difficoltà. Perché i salti nel tempo e nello spazio, dalla filosofia all'arte, dalla scienza alla vita, dalla teoria alla prassi, dallo spazio percepito al concepito, al vissuto, spesso rappresentano vere e proprie acrobazie da funambolo. Al lettore, o forse a me stesso, cercherò di segnalare alcuni di questi segnali. Il Lefebvre inizia il suo libro con una esclamazione: lo spazio! La parola spazio è seguita da un punto esclamativo. In realtà dovrebbe contenere anche un punto interrogativo. Il punto interrogativo è rimandato solo di poche righe, preceduto da un aggettivo. « Lo spazio sociale? Queste parole fino a pochi anni fa avrebbero sorpreso ». Cosa è lo spazio? Cosa è lo spazio sociale? Che relazione è possibile fra loro? All'inizio del labirinto l'immagine del viso di Lefebvre, uomo di cultura professore universitario; direttore di un istituto di ricerca. La stessa immagine, riflessa in specchi, appare nei punti più oscuri. Dalle Categorie di Aristotele, a Cartesio, a Spinosa, a Leibniz, a Kant. La filosofia non basta a sciogliere gli interrogativi. Poi vengono i matematici moderni che si impadroniscono dello spazio (e del tempo) facendone il loro dominio. Due modi diversi per tentare di risolvere lo stesso problema. Ma sempre due spazi solo mentali. Come passare « dalle capacità mentali del genere umano, dalla logica, alla natura prima ed in seguito alla pratica, alla teoria della vita sociale che si svolge nello spazio». L'epistemologia tenta la sintesi di questi due spazi correggendo matematicamente la filosofia dello spazio. Ma la riflessione epistemologica accompagnata dagli spazi teorici dei linguisti porta al risultato di liquidare il soggetto collettivo, « il popolo come generatore della lingua ». Heghel e poi Marx affiancando allo spazio la nozione del tempo tentano un ponte tra spazio fisico mentale e sociale. Ci si accorge che lo spazio viene prodotto. Ma « lo spazio (sociale) non è una cosa fra le cose, un prodotto qualsiasi fra gli altri prodotti». 14

Nel criticare tutti i concetti possibili di spazio inventati o scoperti dal pensiero umano il Lefebvre non trascura nulla. Una specie di veloce antologia del sapere rispetto allo spazio. Filosofia, matematica, linguistica, economia, psicologia, antropologia, sociologia ecc. Da Aristotele a Kant. Da Heghel a Marx a Husserl. Da Chomsky a Saussure a Barthes. È come una frenetica lettura nell'« Universale Concreto» del sapere, per dimostrare la necessità di una nuova scienza, di una nuova teoria dello spazio che non separi spazio fisico, mentale, sociale. È forse questo l'aspetto più ambiguo di Lefebvre perché sulla cattedra universitaria, anche se quella di professore è la sua professione, non si sente completamente a suo agio e c'è tutto il '68 che rifiuta questo sapere ed in fondo questo sapere lo stesso Lefebvre lo rifiuta. Così, ad un tratto, mentre uno meno se lo aspetta, quasi ad attenuare quella maschera severa e pensosa, il volto muta e diventa cordiale. È sempre l'uomo di cultura, ma non più quello della cattedra. Quello dei tavolini dei bistrots e dei caffè di Parigi, dove la cultura si produce e non si distribuisce. È il Lefebvre che introduce improvvisamente con violenza nei vari capitoli lo « spazio vissuto ». · Quincey, Baudelaire, Victor Hugo o Lautréamont.· Lo spazio urbano vissuto fino al puzzo di sudore. Oppure contro la storia di Heghel lo spazio poetico e persino magico dei surrealisti. L'Amour fou di Bréton, il percorso tra il reale, l'infrareale e sovrareale di Bataille, lo spazio intero, mentale fisico e sociale colto tragicamente da Nietzsche. Oppure contro lo « spazio astratto» creato· dal capitalismo, contro lo spazio « prodotto » e non « opera » della società attuale, lo spazio «opera» di Venezia (« chi non è "intenditore" può, anche senza intendersene, viverlo come una festa»). Quello spazio capace di sintetizzare lo « spazio di rappresentazione » e la « rappresentazione dello spazio». E il Lefebvre aggiunge « con in più un pizzico di follia». Forse ciò è dovuto al fatto che questo spazio è nato come le piante ed i fiori nei giardini. Resta di fatto che a Venezia « il plusvalore ed il plusprodotto sociale si realizzavano e si spendevano » nella città. Oppure è l'intervento del tempo che ha trasformato questo spazio in spazio vissuto. « Il tempo, questo "vissuto", essenziale, questo bene fra i beni, non si vede, non si legge. Non si costruisce: si consuma, si estingue, e poi è la fine. Non lascia che tracce: si nasconde nello spazio fra i resti di cui ci si deve sbarazzare in fretta come di un pattume inquinante».

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Improvvisamente Marx dialetticamente opposto a Marx. I Grundrisse opposti al Capitale. « I Grundrisse insistono a tutti i livelli sulle Differenze, mentre il Capitale mette l'accento su una razionalizzazione omogenizzante a partire dalla forma quasi "pura" del valore (di scambio)». Le simpatie per Klee. Paul Klee lo ha dichiarato: « l'artista, pittore, scultore, architetto non mostra uno spazio, lo crea ». Ed anche, per uscire dai limiti di un pensiero occidentale, un colloquio con un « non identificato » filosofo orientale, che a volte ironizza e ridicolizza certi nostri valori occidentali. « Per noi esiste una percezione globale dello spazio e non rappresentazione di punti isolati». « Le vostre strade, le vostre piazze hanno nomi ridicoli, privi di qualsiasi rapporto con la gente e con le cose. Nomi di generali e di battaglie. Nessuna relazione fra significanti e significati » forse il filosofo orientale non conosceva i nomi delle vecchie strade o calli o campi delle città medievali). « Da noi non esiste l'opposizione "natura-cultura" che devasta l'occidente». « Da noi l'ordine dello spazio o la sua forma, la sua genesi o la sua attualità, l'astratto od il concreto, la natura e la società non sono separati». Fino a che entrano in gioco alcuni colossi dell'epoca moderna: Picasso, Frank Lloyd Wright, Le Corbusier. Il caso di Picasso. « Incontestabile genialità della genialità » « .•. Picasso, attivando e consumando l'arte intravede e prepara la dialettizzazione dello spazio: l'emergenza di un altro spazio (differenziale) ... » Ammessa la genialità, non mostra molta simpatia per il genio. Lo spazio di Picasso ha annunciato lo spazio della modernità, ma non l'ha prodotto. E sul piano umano, politico, sociale: « la tesi che si tratti di un artista rivoluzionario ( proprio in quanto raggiunge la gloria universale), è frutto di grossolana ingenuità, non fosse altro perché il "mondo comunista" non lo ha mai riconosciuto». Del resto quello spazio di Picasso « visualizzato al massimo, dittatura dell'occhio e del fallo, in cui la virilità aggressiva, il toro, il maschio mediterraneo, il "macismo" si erge fino alla propria parodia... » non è certo il presupposto di quello « spazio sociale » che prefigura il Lefebvre che deve acquistare una dolcezza uterina. Quanto a Wright e Le Corbusier, concesso loro il merito di avere distrutto la facciata, disarticolato lo spazio esterno, integrato lo spazio esterno con quello interno, preparata quindi una apertura verso un nuovo tipo di spazio, resta verso di loro una diffidenza fondamentale.

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« Che gli artisti possano essere cause e ragione dello spazio (architettonico, urbanistico, globale) è una ingenuità degli storici dell'arte, che mettono in secondo piano l'elemento e la pratica sociale... >>. « I pittori rivelarono la trasformazione sociale e polit.ica dello spazio, mentre l'architettura della stessa epoca (e qui il Lefebvre si riferisce soprattutto alla Bauhaus), il cui avvento fu·salutato come una rivoluzione, o ancora di più come la rivoluzione architettonica anti-borghese, si rivelò al servizio del potere e dello Stato, quindi riformista e conformista su scala mondiale ». Bisogna dunque arrivare allo spazio « differenziale » e qualitativo. Per poterci arrivare l'architetto dovrebbe potersi liberare dalla condizione prima che è quella del cliente, che per i propri interessi lo condiziona da .principio, talvolta senza che lui lo sappia. « La situazione dell'architetto è difficile. In quanto uomo di scienza, esso punta sulla ripetizione. In quanto artista ... punta sulle differenze». « Il suo destino è quello di vivere nel conflitto, nella ricerca disperata di un superamento della distanza fra conoscenza e creazione, che egli vede diventare sempre più profonda». Bisogna quindi passare dallo « spazio vero » della filosofia e della epistemologia alla « verità dello spazio » che si ricollega alla pratica sociale. Due citazioni. Nietzsche: « Bisogna che la nostra volontà di trovare il vero trasformi ogni cosa in una realtà che l'uomo possa pensare, vedere, udire. Bisogna portare il pensiero ai limiti dei nostri stessi sensi». Marx: « Che i sensi diventino strumento teorico». · Lefebvre conclude: « La via rivoluzionaria dell'uomo e l'eroica strada del superuomo si incontrano nello spazio». Ma subito, a questo intellettuale scapigliato e romantico, si sostituisce l'altro volto dell'intellettuale impegnato e politicizzato. Quello che tenta l'aggancio fra soprastruttura e struttura. E la maschera si fa più sofferente e piena di rughe profonde. È il Lefebvre che si impegna più profondamente con Marx, ma dietro Marx con le attuazioni fatte dal comunismo nei vari paesi relative allo spazio sociale. Che sempre ha bisogno di citare come fondamento per qualsiasi ricerca ma che vuole anche superare quasi per non farlo diventare, o che non diventi, o che sia già diventato, un mito. Un altro rivelatore di verità e creatore di dogmi anziché un ricercatore, uno che fa della scienza lo strumento metodologico della conoscenza, uno che pone la dialettica come necessità di qualunque forma di sapere. E sotto questo punto

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di vista questo combattimento è non solo proficuo ed esaltante ma quasi commovente. Lefebvre esplode: « Coloro che fanno lo spazio (contadini, artigiani) non sono coloro che lo gestiscono (preti, guerrieri, principi) servendosene per organizzare la produzione e la riproduzione sociale». « Il capitalismo ed il neocapitalismo hanno prodotto uno spazio astratto che contiene il mondo della merce » la sua « logica » le sue « strategie a scala mondiale, e contemporaneamente la potenza del denaro e dello Stato Politico ». Ma anche il socialismo non ha prodotto un nuovo spazio. Perché « una società comunista non esiste». « Una rivoluzione che non produce uno spazio nuovo non si compie fino in fondo, fallisce, non cambia la vita ... ». « Una trasformazione rivoluzionaria si misura a partire dalla sua capacità di intervenire creativamente sulla vita quotidiana, sul linguaggio, sullo spazio, anche se non necessariamente in modo uniforme ». « Cambiare la vita». « Cambiare la società» non significa niente se non c'è produzione di uno spazio appropriato, Ecco la vera forza di Marx: togliere le maschere alle cose per svelare i rapporti sociali. · « Quella roccia, quella nuvola e quel cielo blu, quell'uccello, quell'albero non possono mentire. La natura si offre così come è, crudele e generosa. Non inganna ... P, la realtà cosiddetta sociale ad essere doppia, multipla, plurima. In quale misura potrebbe assicurarci una realtà? Essa non lo è, e non l'ha. Contiene ed implica delle astrazioni terribilmente concrete (ancora e sempre: il denaro, la merce, lo scambio di beni materiali) e anche delle forme "pure" come quella dello scambio del linguaggio, del segno, della equivalenza, della reciprocità ... ». « Al giorno d'oggi si trovano dei "marxisti" che pensano che i problemi posti dallo spazio (il problema urbano, quello della gestione del territorio) mettono in secondo piano i veri problemi politici. Ora rapportare all'opera di Marx lo studio dello spazio eviterebbe malintesi grossolani ». Ma ecco di nuovo un superamento di Marx. « L'intenzione di Marx, nel Capitale era analizzare ed esporre il modo di produzione capitalista e della società borghese secondo uno schema binario (dialettizzato), cioè l'opposizione "capitalelavoro" e "borghesia-proletariato" che a sua volta implica l'opposizione "salario-profitto". Ma più avanti lo stesso Marx propone uno schema a tre termini: "la terra, il capitale, il lavoro". In altri termini la "rendita, il profitto, il salario"». 18

« A questo punto si ferma il Capitale, opera incompiuta. Perché?». « In Marx la natura è considerata fra le forze produttive. Oggi si impone una distinzione, non introdotta da Marx, fra Dominio ed Appropriazione della Natura». Ma in realtà tutte queste citazioni e controcitazioni su Marx nascondono ma anche denotano un significato diverso. Uno spazio nuovo, una società nuova possono essere costruite solo mediante la decentrazione totale e la gestione diretta degli abitanti. Ed è questa una meta che il comunismo deve ancora raggiungere. Ma questa mutazione non è sufficiente. « Credete davvero che l'uomo sia solo il prodotto dello spazio mentale? » Ma non abbiamo forse un corpo, un sesso? Quello che occupa lo spazio o lo vive o lo produce? Una risata allegra, violenta, impetuosa gli illumina il fondo degli occhi ... « Il cuore vissuto (fino al punto da provarne disagio e malattie) è stranamente diverso dal cuore pensato e percepito. E più ancora il sesso. Le localizzazioni non sono per niente accomodanti, ed il corpo vissuto, sotto la pressione della morale, arriva ad estraniarsi in un corpo senza organi, castrato e castigato». Per potere dominare l'uomo bisognava prima castrarlo. Per ridurlo schiavo, bestia da lavoro, forza lavoro, merce, bisognava prima impossessarsi del suo corpo. Dargli quindi spazi « concepiti» non « vissuti», spazi alienati ed astratti. « Il corpo è il punto di partenza e di arrivo». Ma quale corpo? ... Che cosa c'è in comune fra il corpo di un contadino attaccato al suo bue da tiro, al suo aratro e il corpo di un brillante cavaliere sul suo ·cavallo da guerra o da parata? I loro corpi differiscono quanto il corpo del bue da quello del cavallo! L'animale, nelle due situazioni, è il medium fra l'uomo e lo spazio. La differenza fra i due "media" si accompagna ad una differenza fra gli spazi. Come dire che il campo di grano è un'altra_ cosa del campo di battaglia». Come dire che lo spazio della fabbrica è altra cosa dello spazio della banca. Che il corpo dell'operaio è altra cosa del corpo del borghese. Per questo l'Ego è stato diviso dal corpo, impedendo quindi la sua relazione con gli altri corpi, con la Natura, distruggendo la capacità inventiva del corpo che non si può dimostrare ma che si sviluppa nello spazio impedendone i ritmi. E lo studio di questi ritmi, secondo il Lefebvre, potrebbe costituire una nuova scienza, la Ritmanalisi, che potrebbe sostituire la psicanalisi perché più concreta, più efficace, soprattutto perché più totale, in quanto partecipe della totalità dell'uomo e non di una parte già separata.

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Per quanto il sapere ed il potere non hanno mai concesso al corpo lo spazio del « piacere ». « A bisÒgni determinati corrispondono oggetti definiti. Al desiderio non corrisponde alcun oggetto, ma uno spazio in cui il desiderio possa realizzarsi: la spiaggia, la piazza della festa, il luogo del sogno ». « L'architettura del piacere e della gioia, dell'uso comune dei beni della terra, deve essere ancora inventata ». Nel passato solo alcuni esempi sporadici. In Granada l'Alhambra ed il giardino, alcuni castelli della Loira, forse alcune ville del Palladio. Ma anche questi del resto isolati, racchiusi in sé, per alcune élites. Spazio privato, e non spazio sociale. Oppure nei sogni della letteratura come l'abbazia di Thelene e i palazzi delle Mille e una notte. D'altra parte, l'invenzione di uno spazio della gioia. dove passare, forse, tuttora attraverso una élite, in quanto solo l'élite può rifiutare la società consumista. La massa non lo può. Deve accettare i modelli quantitativi ed .omogeneizzanti perché costretta a sopravvivere prima di vivere. E forse anche sono le donne a dovere inventare questo nuovo spazio per sostituirlo a quello fallico maschile fondato sulla violenza e sulla tristezza. In ogni caso « uno spazio nel quale ogni "soggetto" individuale e collettivo, ricostruito su queste nuove basi, potesse riscoprire l'uso ed il piacere, è uno spazio ancora in embrione, allo stato nascente». « Lo spazio del piacere, che sarebbe lo spazio veramente "appropriato", non esiste». « La spìaggia è l'unico luogo di piacere scoperto dalla specie umana nella natura». Finalmente « il corpo tende a comportarsi come Campo Differenziale, con i suoi organi dei sensi, dell'odorato e del sesso alla vista senza che l'occhio ne sia privilegiato, dunque come corpo totale, spezzando la sua .corazza temporale e spaziale prodotta dal lavoro, dalla divisione del lavoro, dalla localizzazione del lavoro e dalla specializzazione dei luoghi. Finalmente il corpo « tende ad affermarsi come "soggett0," e come "oggetto"». Forse lo spazio del tempo libero oggi, paradossalmente, è già uno spazio preparatorio allo spazio del piacere. « Come transizione fra i vecchi spazi, i monumenti, e la localizzazione per e mediante il lavoro da una parte, e gli spazi virtuali del godimento e della gioia dall'altra; lo spazio del tempo libero è lo spazio contraddittorio per eccellenza: vi si trovano i prodotti migliori e peggiori del modo di produzione esistente, il bubbone

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parassitario ed il ramo rigoglioso, la sua mostruosità e la sua promessa (non mantenuta) ». Dal bisogno al desiderio. « La parola "desiderio" designa l'insieme delle energie ancora disponibili per uno scopo, un fine. Quale? Non più la distruzione o l'autodistruzione in un momento di parossismo, ma la creazione: un amore, un essere, un'opera». Ma dentro questo spazio percepito e vissuto siamo proprio a totale nostro agio? Appare infine un volto illuminato, fisso ed estatico. Del saggio, del mistico, del profeta. « Certo, » sembra dire ed emanare « nella teoria dello spazio possiamo arrivare fino allo spazio della terra inteso come spazio planetario e globale di tutti gli uomini. Ed oltre? ». È questo l'aspetto più enigmatico, ma, secondo me, più reale del Lefebvre. Quest'uomo ansioso di conoscenza, ma che vuole raggiungere con tutto il corpo e non solo con una parte del corpo, che questa conoscenza vuole viverla non solo saperla, che vuole viverla con il corpo di tutti gli altri e non nella tragedia del propriocorpo solo. A conclusione della vita dell'uomo c'è la morte. Ma anche la morte bisogna viverla. Nell'ultimo capitolo « proposte e conclusioni » Lefebvre assume un tono che, ad alcuni, può apparire profetico. In senso negativo. Quasi che, nonostante il suo desiderio di appartenere al « corpo » ed allo « spazio sociale » ne volesse uscire, per ritornare ad essere un uomo antico o vecchio, cioè un intellettuale, che, se non vuole essere demiurgo, aspira ancora ad essere «guida». A me appare profetico ma in senso positivo. Certo se per profezia, come ormai nell'uso può apparire, intendiamo una predizione di cose future per ispirazione divina questo «tono» spiacerebbe anche a me. Ma significherebbe anche non avere capito niente di Lefebvre, come pensatore, come teorico e come uomo. Ma se profezia significa, come etimologicamente significa, soltanto « predizione » non vedo perché un uomo di tale talento, tenacia, ed anche umiltà, dopo avere studiato certi fenomeni con pazienza ed intelligenza, non possa predire qualcosa. Tanto più che questa profezia il Lefebvre stesso al termine del suo libro la chiama: « Un orientamento. Niente di più e niente di meno. Ciò che si chiama: uh senso. Cioè un organo che percepisce, una direzione pensata, un movimento vissuto che si apre un varco verso l'orizzonte. Niente che possa assomigliare ad un sistema». Ma in un'ultima analisi, in cosa consiste questa profezia o questo orientamento, che si discosti da ciò che è già conosciuto da 21

presentarsi in una forma tanto originale, da costituire una novità? Anzitutto mi pare evidente che oggi, proprio perché nessuno può percepire più la voce diretta di Dio, può permettersi il lusso di scoprire dal nulla una nuova via. Proprio perché ogni uomo è prodotto da uno « spazio sociale» le cose sono nell'aria e si avvertono come un odore, ma anche perché produttore di « spazio sociale » qualcuno può trasformare questo odore nella visione dell'oggetto che lo produce. « La rosa non sa del meraviglioso profumo che produce ». La rosa non sa quindi nettamente di ciò che proietta, cioè del suo progetto. Forse, nonostante l'intelligenza, la capacità analitica e critica, la cultura, il talento, Lefebvre è un po' come questa rosa. Il razionale per lui diventa la difesa dal suo irrazionale, paradossalmente Hegel e Marx la difesa da Nietzsche. Il Logos la difesa dall'Eros. Una mistica che parte dal corpo e non dall'anima. Dall'esistente e non dall'essente. Dallo svolgersi e dal farsi nel tempo. Questa profezia si può sintetizzare in queste parole: da una natura-natura ad una natura progettata. Da « una natura che dona invece di vendere e la cui crudeltà è difficilmente distinguibile dalla generosità ed in cui il piacere è difficilmente separabile dal dolore » ad una « natura seconda, che è insieme opera e prodotto, e che riunisce in sé l'arte e le scienze ». Da un « non-lavoro iniziale » ad un « non-lavoro finale » per mezzo dell'automazione. Da una natura dominata dal fallo maschile, che ha tutto violentato, spezzato, alienato ad una natura che riacquisti uno spazio uterino. Certo occorre ancora un lungo tempo, e tanti rischi, e dolore, con il pericolo che questa nuova natura «abortisca». Un grande e lungo e travagliato periodo di transizione dove si riunifichi tutto ciò che si è diviso, si sintetizzi tutto ciò che si è analizzato. Unificazione attraverso il confronto specifico « fra le più potenti delle "sintesi" (filosofiche), quella di H egei, e la sua critica radicale, operata a partire dalla pratica sociale da Marx, e a partire dall'arte da Nietzsche. E da entrambi a partire dal corpo». (( La filosofia occidentale ha tradito il corpo». « Oggi il corpo si ristabilisce con certezza come base e come fondamento. Al di là della filosofia, del discorso e della teoria del discorso ». Bisogna unire il sapere critico alla critica del sapere. « Tutto ciò che proviene dalla storia e dal tempo storico subisce una verifica. La "cultura", le coscienze dei popoli, dei gruppi

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e perfi.no degli individui non possono evitare la perdita dell'identità, che viene ad aggiungersi in loro ad altre angosce». « Niente e nessuno può evitare la prova dello spazio, questa ordalia moderna, che sostituisce il giudizio di Dio ed il destino dei classici ». « L'investimento spaziale non è un incidente fortuito, ma una questione di vita o di morte». « Alla fine come all'inizio di questo divenire, si trova la terra che, rappresentata finora come madre... liberata dal carattere religioso e primitivamente sessuale, la terra come pianeta, ·come spazio planetario, riprende il suo posto originale nel pensiero e nell'attività pratica ». Ma come arrivare a questa natura seconda, questo spazio planetario globale che contenga una società nuova? Attraverso la negazione attiva, il contro-progetto, il contro-piano. Non è certo più dall'autorità, dallo Stato, dalla politica che possiamo attenderci questo spazio nuovo. Ma attraverso l'intervento attivo e massiccio degli « interessati ». « Le formazioni politiche esistenti disconoscono lo spazio ed i problemi dello spazio ... perché sono un risultato della storia e ne costituiscono la continuità ideologica, ma non vanno oltre ». « Una trasformazione della società suppone la proprietà e la gestione collettiva dello spazio in un continuo intervento degli "interessati" con i loro molteplici interessi che possono essere anche contraddittori ». . L'obiettivo è dunque quello « di produrre lo spazio della specie umana come un'opera collettiva (generica) di questa specie, allo stesso modo in cui lo fu ciò che è stato chiamato e si chiama ancora "arte" ;>. Generalmente al termine di una prefazione viene formulato più o meno velatamente od apertamente un giudizio complessivo deldell' opera esaminata. Considero questo un cattivo costume, derivato forse dal cattivo costume del lettore èhe, limitandosi spesso alla lettura della sola prefazione, ha bisogno di farsi un'idea del libro che vorrebbe o dovrebbe leggere. Ma a prescindere da queste mie considerazioni personali credo che giudicare il libro di Lefebvre significherebbe non averlo capito. La realtà profonda del Lefebvre non è, secondo me, quella di creare un sistema rigoroso da sostituire a quelli già determinati e da considerarsi o consumati o carenti, ma di fornire una o più griglie attraverso le quali possano passare frammenti di esistenza, frammenti di « spazio sociale». Frammenti, ma tali, per chi ne è capace, da permettere di intra-

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vedere se non l'intero mosaico, almeno la struttura complessiva d'insieme. Questa visione è una visione ottimistica di una nuova natura, di un nuovo spazio sociale, di una nuova umanità. Dal paradiso terrestre all'origine, un paradiso donato da dio o dalla natura, ad un paradiso progettato o fatto dall'uomo con la natura. Ma nel caso di Lefebvre non si tratta d(uha utopia, come nel caso di utopisti rinascimentali o dell'ottocento. Per lui questo paradiso terrestre è topico. La terra, a scala planetaria ne è il tòpos. L'uomo, tutti gli uomini, gli abitanti. La sua non è un'aspirazione. È una predizione verificata su tutto "ciò che è stato percepito, pensato, vissuto. Giudicare una predizione? Non avrebbe senso. L'unica possibilità, per tutti coloro che lavorano nella stessa direzione, per tutti gli « interessati » ad un nuovo paradiso, è di « produrlo », nonostante tutti i rischi, con il minore dolore possibile. Leonardo Ricci

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Capitolo primo

DISEGNO DELL'OPERA

1. Lo spazio! Fino a pochi anni fa questo termine non evocava niente altro che un concetto geometrico, quello di una forma vuota. Ogni persona istruita lo completava immediatamente con un termine colto, come « euclideo », o « isotropo », o « infinito ». Il concetto di spazio competeva, nell'accezione generale, alla matematica, e soltanto ad essa. Lo spazio sociale? Queste parole avrebbero sorpreso. Si sapeva che il concetto di spazio aveva subito una lunga elaborazione filosofica; ma la storia della filosofia riassumeva anche l'emancipazione progressiva delle scienze, specialmente della matematica, dal loro tronco comune: la vecchia metafisica. Cartesio rappresentava la tappa decisiva dell'elaborazione del concetto di spazio, e della sua emancipazione. Egli aveva posto fine, secondo la maggior parte degli storici del pensiero occidentale, alla tradizione aristotelica, secondo la quale lo spazio e il tempo fanno parte delle categorie; nel senso che queste permettono di nominare e di classificare i fatti sensibili, senza tuttavia dar loro uno statuto preciso, cosicché esse si possono considerare sia come semplici modalità empiriche di raggruppamento di questi fatti, sia come generalità eminenti, superiori ai dati degli organi del corpo. Con la ragione cartesiana lo spazio entra nell'assoluto. Oggetto davanti al Soggetto, « res extensa » davanti alla « res cogitans », presente a quest'ultima, esso domina, perché li contiene, i sensi e i corpi. Attributo divino? Ordine immanente alla totalità delle e.sistenze? In questo modo si pose, dopo Cartesio, il problema dello spazio per i filosofi: Spinoza, Leibniz, i newtoniani. Fino a quando Kant non riprese, modificandola, la vecchia nozione di categoria. Lo spazio, concetto relativo, strumen'to di conoscenza e di classificazione di fenomeni, si stacca decisamente (con il tempo) dall'empirico: esso si riallaccia, secondo Kant, all'apriori della coscienza (del· soggetto), alla sua struttura interna e ideale, dunque trascendentale, dunque inafferrabile in sé.

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Queste lunghe controversie segnarono il passaggio dalla filosofia alla scienza dello spazio. Sono forse superate? No. Esse hanno ben altra importanza che non quella di momenti e tappe nel cammino del Logos occidentale. Si svolgevano forse nell'astrazione che il suo stesso declino assegna alla filosofia cosiddetta « pura »? No. Esse si riallacciavano a problemi precisi e concreti, fra cui queIIi delle simmetrie e dissimmetrie, degli oggetti simmetrici, degli effetti oggettivi di specularità e di specchio. Problemi che saranno ripresi nel corso dell'opera, e che si ripercuotono suII'analisi dello spazio sociale. 2. Poi vennero i matematici nel senso moderno, sostenitori di una scienza (e di una scientificità) staccata dalla filosofia, di una scienza che si considerava necessaria e sufficiente. Questi matematici si impadronirono dello spazio (e del tempo) e ne fecero il proprio dominio, anche se in maniera paradossale: inventando cioè tanti spazi, una infinità: spazi non euclidei, spazi curvi, spazi a x dimensioni e perfino a un numero infinito di dimensoni, spazi definiti da una deformazione o trasformazione, spazi di configurazione, spazi astratti, topologie, ecc. Molto generale e molto specifico, il linguaggio matematico distingue e classifica con precisione questi innumerevoli spazi (non essendo concepibile, sembra, senza qualche difficoltà, l'insieme, o spazio degli spazi). E non essendo così necessariamente evidente la relazione fra la matematica e la realtà (fisica, sociale), si creò fra di esse un abisso. I matematici che provocavano questa « pvoblem.at:ca » la lasciavano poi ai filosofi, che trovavano così il modo di ristabilire la loro posizione compromessa. Per cui lo spazio diventò, o meglio ridiventò, quello che una tradizione filosofica, il platonismo, aveva contrapposto alla dottrina delle categorie: una « cosa mentale» (Leonardo da Vinci). La proliferazione delle teorie (topologie) matematiche aggravava il vecchio problema, detto « della conoscenza». Come passare dagli spazi matemat:ci, cioè dalle capacità mentali del genere umano, dalla logica, alla natura prima e in seguito alla pratica, alla teoria della vita sociale, che si svolge nello spazio? 3. Da questi precedenti (la filosofia dello spazio riveduta e corretta dai matematici), una scienza moderna, l'epistemologia, ha ereditato e accettato un certo statuto dello spazio come « cosa mentale », o « luogo mentale». Tanto che la teoria degli insiemi, presentata come logica di tale luogo; ha affascinato non soltanto i filosofi, ma anche gli scrittori e i linguisti. Da ogni parte hanno proli-

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ferato « insiemi » (a volte pratici I o storici 2 e « logiche » associate secondo uno schema che tende a ripetersi, « insiemi » e « logiche » che non hanno più niente in comune con la teoria cartesiana. Mal formulato e, a seconda degli autori, miscuglio di coerenza logica, coesione pratica, autoregolazione e rapporto delle parti col tutto, generazione del simile dal simile in un insieme di luoghi, logica del contenente e del contenuto, il concetto di spazio mentale da allora si generalizza senza che nessun guardrail gli assegni dei limiti. Si parla continuamente di spazi di tutti i generi: spazio letterario 3, spazi ideologici, spazio onirico, topiche psicanalitiche, ecc. Ora, in queste ricerche cosiddette fondamentali o epistemologiche, l'« assente » non è solo l'« uomo », ma anche lo spazio, di cui tuttavia si parla ad ogni pagina 4. « Una cultura è anche lo spazio nel quale il soggetto può prendere posizione per parlare degli oggetti di cui tratta il ·suo discorso », dichiara tranquillamente Foucault (Archeologie du Savoir, p. 328) 5, senza domandarsi di quale spazio sta parlando, e come egli salti dal piano teorico (epistemologico) a quello pratico, dal p:ano mentale a quello sociale, dallo spazio dei filosofi a quello delle persone che si occupano degli oggetti. Scientificità (che è stata definita dalla riflessione cosiddetta « epistemologica» sul sapere acquisito) e spazialità, si articolano « strutturalmente » secondo una connessione presupposta, evidente per il discorso scientifico, ma mai definita concettualmente. Il discorso scienfico, senza paura di gìrare a vuoto, confronta lo statuto dello spazio e quello del « soggetto», l'« io» pensante e l'oggetto pensato, riprendendo così le posizioni del Logos cartesiano (occidentale), che invece alcuni pensatori consideravano chiuse 6• La riflessione epistemologica, insieme agli sforzi teorici dei linguisti, arriva ad un curioso risultato: ha liquidato il soggetto collettivo, il popolo come generatore di tale lingua, portatore di tali sequenze etimologiche; ha messo da parte il soggetto concreto, sostituto del dio che diede un nome alle cose; gli ha anteposto il « si » impersonale, generatore del linguaggio in generale, del sistema. Tuttavia occorre un 1 J.-P. Sartre, Critique de la raison dialectique, I,« Théorie des ensembles pratiques », Gallimard, 1960; ed. it. Critica della ragione dialettica, Milano, il Saggiatore, 1963. 2 M. Clouscard, 'L'Etre et le code, Procès de production d'un ensemble précapitaliste, Mouton, 1972. 'M. Blanchot, L'Espace littéraire, ried. Gallimard, 1968; ed it. Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1967. • Cfr. la raccolta intitolata Panorama des sciences humaines, N·.R.F., 1973, in cui questo è ancora il difetto minore. • Cfr. anche p. 196, « Le parcours d'un sens », p. 200, « l'espace des dissensions », ecc. • Cfr. J. Derrida, Le vivre et le phénomène, P.U.F., 1967.

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soggetto; ed è allora il soggetto astratto, il Cogito filosofico che ricompare. Di qui lo svecchiamento con la formula « neo » della vecchia filosofia, neo-hegeliana, neo-kantiana, neo-cartesiana, attraverso Husserl, che pone senza scrupoli eccessivi l'identità quasi tautologica del Soggetto che conosce e dell'Essenza concepita, inerente al « flusso » (del vissuto), e di conseguenza l'identità quasi « pura » del sapere formale col sapere pratico 7 • Non ci si può dunque meravigliare che il grande linguista N. Chomsky reintegri il Cogito (soggetto) cartesiano 8, quàndo afferma l'esistenza di un livello linguistico in cui non si può concepire ogni frase semplicemente come la serie finita di elementi di un certo tipo, generata « da sinistra verso destra » da un meccanismo semplice, ma che occorre scoprire un insieme finito di livelli ordinati « dall'alto al basso » (cfr. Structures syntactiques, trad. frane., p. 27). Chomsky postula senza alcuna altra forma di processo uno spazio mentale dotato di proprietà definite: direzioni e simmetrie. Egli si concede generosamente il passaggio da questo spazio mentale del linguaggio allo spazio sociale, dove il linguaggio diventa pratico, senza misurare l'abisso che scavalca. Ugualmente J. M. Rey 9 : « Il senso si pone come il potere legale di sostituire i s:gnificati sulla stessa catena orizzontale, nello spazio di una coerenza regolata e calcolata precedentemente». Questi autori, e molti altri, che si presentano all'insegna di un rigore formale perfetto, commettono l'errore perfetto - il paralogismo dal punto di vista logico-matematico: lo scavalcamento di un intero territorio, eludendo la concatenazione, scavalcamento vagamente legittimato dalla nozione di « spaccatura » o di « rottura » utilizzata secondo r bisogni del momento. Essi interrompono la continu:tà di un ragionamento in nome di una discontinuità che la loro metodologia dovrebbe bandire. Il vuoto così costruito, e la portata di tale assenza, variano secondo gli autori e le specializzazioni; queste obiezioni non risparmiano né J. Kristeva e la sua « semiotikè » né J. Derrida e la sua « grammatologia », né R. Barthes e la sua semiologia generalizzata 10 • In questa scuola, diven'Cfr. la riflessione critica di M. Clouscard, L'ltre et le code, introduzione. In Materialismo e Empiriocriticismo, Lenin ha risolto brutalmente il problema, sopprimendolo: il pensiero dello spazio riflette lo spazio ogget· tivo, come una copia o una fotografia. 'La linguistique cartésienne, trad. frane., Seui!, 1969. 'L'enjeu des signes, Seuil, 1971, p. 13. . 10 E riguardano anche altri autori, direttamente o indirettamente. R. Barthes parla di Lacan in questi termini: « La sua topologia non è quella del dentro e del fuori, ancora meno dell'alto e del basso, ma piuttosto di un dritto ~ di u!1 rovescio in movi~ento, in cui il linguaggio ~cambia continuamente I ruoh e ruota le superfici attorno a qualcosa che s1 trasforma e inizialmente non è» (Critique et vérité, p. 27).

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tata sempre più dogmatica (stimolata dal successo), si ammette correntemente questo sofisma fondamentale: lo spazio di origine filosofico-epistemologico si feticizza, e il mentale avvolge il sociale con concetti fisici. Se è vero che alcuni di questi autori sospettano dell'esistenza o dell'esigenza di una mediazione 11 , la maggior parte di loro passa immediatamente dal piano mentale a quello sociale. Una forte corrente ideologica (che tiene molto alla propria scientificità), esprime in modo mirabilmente incosciente le rappresentazioni dominanti, dunque quelle della classe dominante, forse agg:randole o dirottandole. Una certa « pratica teorica » genera uno spazio mentale illusoriamente esterno all'ideologia. Per un inevitabile circolo vizioso, questo spazio mentale diventa a sua volta il luogo di una « pratica teorica » distinta dalla pratica sociale, che si erige ad asse, cardine o centro del Sapere 12 • Doppio vantaggio per la « cultura » esistente: essa sembra tollerare e addirittura favorire la veridicità di questo « spazio mentale » in cui si verificano tanti piccoli avvenimenti, utilizzabili sia positivamente, sia polemicamente. Come questo spazio mentale si avvicini singolarmente a quello nel quale operano, nel silenzio dei loro uffici, i tecnocrati, lo vedremo più avanti 13 • Quanto al Sapere definito così a partire dall'epistemologia, e più o meno sottilmente distinto dall'ideologia o dalla scienza che si evolve, non potrebbe forse discendere direttamente dal Concetto hegeliano e dal suo matrimonio con la Soggettività, erede della grande famiglia cartesiana? L'identità quasi logica presupposta all'interno dello spazio mentale (quello dei matematici e dei filosofi dell'epistemologia) scava un abisso fra questi ire termini: mentale, fisico, sociale. E se qualc;he funambolo salta il precipizio, dando un bello spettacolo e un sottile brivido agli spettatori, la riflessione cosiddetta filosofica, quella dei filosofi specializzati, in generale non tenta nemmeno più il « salto mortale». Si accorgono almeno del vuoto? Distolgono gli occhi. La filosofia professionale abbandona la problematica attuale del sapere e la « teoria della conoscenza » per un ripiegamento riduttivo sul sapere assoluto, o preteso tale, quello della storia della 11 Non è il caso di C. J.,évi-Strauss, che in tutta la sua opera identifica mentale e sociale mediante la nomenclatura (dei rapporti di scambio) fin dagli inizi della società. Al contrario, J. Derrida anteponendo la ,, grafia » alla «fonia», la scrittura alla voce, o J. Kristeva richiamandosi al corpo, cercano una transizione (l'articolazione) fra lo spazio mentale da essi preliminarmente posto, dunque presupposto, e lo spazio fisico-sociale. 12 Questa pretesa è evidente in ogni capitolo della raccolta già citata: Panorama des sciences humaines. "Cfr. H. Lefebvre: Vers le Cybernanthrope, ried. Denoel 1972.

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filosofia e della scienza. Un tale sapere si separerebbe sia dall'ideologia sia dal non-sapere, cioè dal « vissuto ». Impossibile ad effettuarsi, questa separazione ha il vantaggio di non turbare un banale « consenso », cui si mira implicitamente: chi potrebbe respingere il Vero? Ciascuno sa, o crede di sapere, di cosa tratta quando inizia un discorso su verità, illusione, menzogna, apparenza e realtà. 4. La riflessione epistemologica-filosofica non ha dato un asse a una scienza che si cerca da molto tempo attraverso un grandissimo numero di pt1bblicazioni e lavori: la Scienza dello spazio. Le ricerche arrivano o a descrizioni (senza raggiungere il momento analitico, e ancora meno quello teorico), o a frammentazioni e suddivisioni dello spazio. Ora molte ragioni inducono a pensare che descrizioni e suddivisioni non forniscano che inventari di ciò che è dentro lo spazio, al massimo un discorso sullo spazio, ma mai una conoscenza dello spazio. In mancanza di una conoscenza dello spazio, si trasferisce al discorso, al linguaggio come tale, e cioè allo spazio mentale, una buona parte degli attributi e delle « proprietà » dello spazio sociale. La semiologia pone alcuni problemi delicati, nella misura in cui questa conoscenza incompleta si dilata e non conosce i limiti, che invece è necessario, anche se difficile, assegnarle. Se si applicano a degli spazi (urbani, per esempio) cod:ci elaborati a partire da testi letterari, tale applicazione resta descrittiva; non è difficile dimostrarlo. Infatti, sforzandosi di costruire una codificazione un proced:mento capace di decifrare lo spazio sociale - non si rischia di ridurre quest'ultimo ad un messaggio e il frequentarlo ad una lettura? Cosa che elude storia e pratica. Tuttavia c'è stato, fra il XVI (il Rinascimento e la città del Rinascimento) e il XIX secolo, un codice contemporaneamente architettonico, urbanistico e politico, linguaggio comune agli abitanti delle campagne e delle città, alle autorità, agli artisti, che permetteva non soltanto di « leggere » uno spazio ma anche di produrlo. Se questo codice è esistito, come si è generato? E dove, come e perché è sparito? Queste domande dovranno trovare in seguito una risposta. Quanto alle suddivisioni e frammentazioni, esse sono infinite. E indefinibili. Dato che la suddivisione passa per una tecnica scient;fica (una pratica teorica) che permette di semplificare e distinguere degli « elementi » nel flusso caotico dei fenomeni. Ma lasciamo da parte per ora l'applicazione delle topologie matematiche, e ascoltiamo gli esperti parlare di spazio pittorico, spazio di Picasso, spazio delle Demoiselles d'Avignon e di Guernica. Altri

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esperti parleranno di spazio architettonico, spazio plastico, spazio letterario, come parlerebbero del « mondo » di quel tale scrittore, di quel tale creatore. Gli scritti specializzati informano i loro lettori su ogni tipo di spazio, appunto, specializzato: spazio del tempo libero, del lavoro, del gioco, dei trasporti, delle infrastrutture, ecc. Certi non esitano nemmeno a parlare di « spazio malato » o di « malattia » dello spazio, di spazio folle o spazio della follia. Ci sarebbe una molteplicità infinita di spazi, gli uni sugli altri (o gli uni dentro gli altri): geografici, economici, demografici, sociologici, ecologici, politici, commerciali, nazionali, continentali, mondiali. Senza dimenticare lo spazio della natura (fisica), quello dei flussi (energie), ecc. Prima di confutare dettagliatamente e precisamente questo o quel procedimento accettato con un pretesto di « scientificità », ecco una osservazione preliminare: la molteplicità infinità delle descrizioni e suddivisioni li rende sospetti. Non vanno nel senso di una tendenza molto forte, forse dominante all'interno della società esistente (del modo di produzione)? In questo modo di produz:one, il lavoro della conoscenza, come il lavoro materiale, si suddivide indefinitamente. Inoltre la pratica spaziale consiste nel proiettare « sul campo » tutti gli aspetti, elementi e momenti della pratica sociale, separandoli, senza tuttavia abbandonare per un solo momento il controllo globale, cioè l'assoggettamento dell'intera socletà alla pratica politica, al potere dello Stato. Come vedremo, questa prassi implica ed approfondisce più di una contraddizione, ma non è ancora il momento di parlarne. Se questa analisi si confermerà valida, la scienza dello spazio in questione: a) equivale all'uso politico (« neo-capitalistico >>, se si tratta dell'Occidente) del sapere, di cui si sa che si integra in modo sempre più « immediato » alle forze produttive, e in modo « mediato » ai rapporti sociali di produzione; b) implica una ideologia che maschera tale uso, come pure i conflitti inerenti all'impiego interessato al massimo di un sapere apparentemente disinteressato, ideologia che non si chiama col suo nome, e si confonde con il sapere, per coloro che accettano tale prassi; c) contiene, nel migliore dei casi, una utopia tecnologica, simulazione o programmazione del futuro (del possibile) nel quadro del reale, cioè del modo di produzione esistente. Operazione che si compie a partire da un sapere integrato-integrante al modo di produzione. Questa utopia tecnologica, che riempie i romanzi di fantascienza, si ritrova in tutti i progetti che riguardano lo spazio: architettonici, urbanistici, di pianificazione. 33

Queste tesi dovranno in seguito essere rese più esplicite, consolidate con argomentazioni e dimostrate. Se saranno verificate, sarà principalmente perché esiste una verità dello spazio (anal;si accompagnata da una relazione che dimostri tale verità globale) e non costituzione o costruzione di uno spazio vero, sia generale, come lo pensano gli epistemologi e i filosofi, sia part:colare, come lo considerano gli specialisti di questa o quella disciplina scientifica dello spazio. Secondariamente, questo significa che occorre invertire la tendenza dominante, quella che va verso la frammentazione, la separazione, la frantumazione, subordinata ad un centro o ad un potere centrale, portata avanti dal sapere in nome del potere. Questa inversione non si compirà senza difficoltà; e non sarà sufficiente, per compierla, sostituire delle preoccupazioni globali a quelle « specifiche ». Si può presumere che essa mobiliterà molte forze. E sarà bene motivarla, orientarla nel corso della sua stessa realizzazione, tappa per tappa. 5. Pochi oggi rifiuterebbero di ammettere l'« influenza» dei capitali e del capitalismo sui problemi pratici riguardanti lo spazio, dalla costruzione di edifici alla destinazione degli investimenti, alla divisione del lavoro sul pianeta intero Ma che cosa intendono per « capitalismo e per « influenza »? Alcuni pensano al « danaro » e alle sue capacità di intervento, o allo scambio commerciale, alla merce in generale, dal momento che « tutto » si compra e si vende. Altri si riferiscono più nettamente agli attori del dramma: « società » nazionali e multinazionali, banche, impresari, autorità. Qualsiasi agente capace di intervenire avrebbe la propria « influenza». Si mette così fra parentesi contemporaneamente l'unità del capitalismo e la sua diversità, dunque le sue contraddizioni. Se ne fa o una semplice somma di attività separate, o un sistema ormai costituito e chiuso, coerente perché capace di durare, e solo per questo. In realtà, il capitalismo si compone di molti elementi. Il capitale fondiario, il capitale commerciale, il capitale finanziario, ciascuno con possibilità più o meno grandi, intervengono nella pratica in un determinato momento, non senza conflitti fra capitalisti di uno stesso tipo, o di tipi diversi. Queste diverse specie di capitali (e di capitalisti) formano, assieme ai vari mercati che si compenetrano - quello delle merci, quello della manodopera, quello del sapere, quello stesso dei capitali, quello del suolo - il capitalismo. Vi è chi dimentica facilmente che il capitalismo ha inoltre un altro aspetto, certamente legato al modo di funz:onare del denaro, dei diversi mercati, dei rapporti sociali di produzione, ma distinto 34

in quanto dominante; l'egemonia di una classe. Il concetto di egemonia introdotto da Gramsci per prevedere il ruolo della classe operaia nella costruzione di un'altra società, permette anche di analizzare l'azione della borghesia, in particolare per quanto concerne lo spazio. Il concetto di egemonia addolcisce quello un po' pesante e brutale di « dittatura » del proletariato, dopo quella della borghesia. Esso designa molto più che una influenza, e perfino più che l'uso continuo della violenza repressiva. L'egemonia si esercita sulla società intera, cultura e sapere compresi, e spesso per interposte persone: politici, personalità e partiti, ma anche molti intellettuali e studiosi. Essa si esercita dunque sulle istituzioni e sulle rappresentanze. Oggi la classe dominante conserva la propria egemonia con tutti i mezzi, ivi compreso il sapere. Il legame fra sapere e potere diventa evidente, ma ciò non impedisce una conoscenza critica e sovversiva, anzi definisce la differenza concettuale fra un sapere al servizio del potere e un conoscere che non riconosce il potere 14. Ma in che modo l'egemonia tralascerebbe lo spazio? Questo allora non sarebbe altro che il luogo passivo dei rapporti sociali, l'ambiente della loro riunificazione consolidata, o la somma dei processi della loro ricostituzione? No. Dimostreremo più avanti il carattere attivo (operativo, strumentale) dello spazio; sapere e azione, nel modo di produzione esistente. Dimostreremo che lo spazio serve, e che l'egemonia si esercita per mezzo dello spazio costituendo, con una logica implicita e con l'uso del sapere e delle tecniche, con un « sistema ». Generando uno spazio ben definito, lo spazio del capitalismo (il mercato mondiale) si libera di alcune contraddizioni? No. Se cosi fosse, il sistema potrebbe legittimamente aspirare all'immortalità. Alcuni spiriti sistematici oscillano fra le imprecazioni contro il capitalismo, la borghesia, le loro istituzioni repressive, e un'attrazione e un'ammirazione infinite. Essi attribuiscono a questa totalità non chiusa (ad un punto tale da aver bisogno di violenza) la coesione che le manca, facendo della società « l'oggetto » di una sistematizzazione che essi si accaniscono a rendere definitiva, completandola. Se fosse vero, questa verità crollerebbe. Da dove proverrebbero, allora, le parole e i concetti che permettono di definire il sistema? Questi non ne sarebbero che gli strumenti. " Differenza conflittuale e di conseguenza differenziante fra sapere e conoscere, che M. Foucault nel suo Archéologie du savoir dissimula, ponendola soltanto all'interno di uno « spazio del gioco» (p. 241) e nella cronologia la ripartizione del tempo (p. 224 e sgg.).

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6. La teoria che si cerca e non .si trova per mancanza di un momento critico, e che per questo ricade in un sapere parcellizzato, questa teoria si può definire per analogia come « teoria unitaria ». Si tratta di scoprire o di creare l'unità teorica fra « campi » separati, allo stesso modo delle forze molecolari, elettromagnetiche e gravitazionali in fisica. Dl quale campo si tratta. Dapprima di quello fisico, la natura, il cosmo, poi di quello mentale (compresa la logica e l'astrazione formale), e infine di quello sociale. In altri termini, la ricerca concerne lo spazio logico-epistemologico - lo spazio della pratica sociale - quello che occupano i fenomeni sensibili, senza escludere il fantastico, i progetti e le proiez:oni, i simboli, le utopie. Si può formulare l'esigenza di unità diversamente, così accentuandola. Il pensiero riflessivo a volte confonde, a volte separa i « livelli » che la pratica sociale distingue, ponendo così il problema dei loro rapporti. L'abitare, l'abitazione, l'« habitat», come si dice, riguardano l'architettura. La città, lo spazio urbano, appartengono ad una specializzazione: l'urbanistica. Quanto allo spazio più esteso, il territorio (regionale, nazionale, continentale, mondiale) esso è specifico di una diversa competenza, quella dei pianificatori, degli economisti. A volte dunque queste « specializzazioni » si compenetrano, come un telescopio azionato a bacchetta da un agente privilegiato, il politico. A volte si separano le une dalle altre, abbandonando ogni progetto in comune e ogni comunanza teorica. Si dovrebbe por fine a questa situazione con una teoria unitaria; d'altra parte l'analisi critica non si esaurisce nelle considerazioni precedenti. La conoscenza della material:tà della natura definisce dei concetti al più alto livello di generalità e di astrazione scientifica (dotata di un contenuto). Anche se le connessioni fra tali concetti e le realtà fisiche corrispondenti non sono ancora determinate, si sa che queste connessioni esistono, e che i concetti e le teorie che esse implicano non si possono né confondere né separare: l'energia, lo spazio, il tempo. Quello che il linguaggio comune chiama « materia », o « natura », o « realtà fisica » - di cui le analis_i prima considerate distinguono e persino separano i momenti - ha ritrovato una unità sicura. La «sostanza» di questo cosmo (o di questo « mondo ») al quale appartengono la terra e la specie umana con la propria coscienza, questa « sostanza », per usare il vecchio vocabolario della filosofia, ha delle proprietà che· si rlassumono in questi tre termini. Se si dice « energia » bisogna dire anche che essa si sviluppa in un certo spazio. Se si dice spazio, bisogna anche dire cosa lo occupa e come: lo sviluppo dell'energia attorno a dei

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«punti», e in un determinato tempo. Se si dice « tempo» bisogna anche aggiungere cosa si muove o cambia. Lo spazio considerato separatamente diventa vuota astrazione; e lo stesso l'energia e il tempo. Se da una parte questa « sostanza » è difficile a concepirsi, e ancor più ad immaginarsi a livello cosmico, si può comunque dire che la sua evidenza salta agli occhi: i sensi e il pensiero non afferrano altro. La conoscenza della pratica sociale, la scienza globale della realtà detta umana, procedono forse da un modello derivato dalla fisica? No. I tentativi in questo senso si sono sempre conclusi con insuccesso 15 • La teoria fisica. proibisce alla teoria sociale di adottare certi metodi, come, in particolare, la separazione dei livelli, dei campi e delle regioni. Essa propone metodi unitari che riuniscano gli elementi sparsi. Serve da !:mite, non da modello. La ricerca di una teoria unitaria non impedisce affatto, anzi al contrario, i conflitti all'interno della conoscenza, le controversie e le polemiche. Anche in fisica e in matematica! Persino nella scienza che i filosofi credono « pura » perchè la purificano dei suoi momenti dialettici, ci sono moti conflittuali. Che lo spazio fisico non abbia alcuna « realtà » senza l'energia che vi si sviluppa sembra ormai acquisito. I modi di tale sviluppo, le relazioni fisiche fra i centri, i nuclei, le condensazioni, e, dall'altra parte, le periferie, restano congetturali. La teoria dell'espansione suppone un nucleo iniziale, un'esplosione primordiale. Questa unicità originale del cosmo ha sollevato molte obiezioni causate dal suo carattere quasi teologico (teogonico), F. Hoyle le contrappone una teoria molto più complessa: l'energia si sviluppa in tutte le direzioni, !'infinitamente piccolo come l'infinitamente grande. Un centro unico del cosmo, originale o finale, è inconcepibile. La energia-spazio-tempo si condensa in una molteplicità infinita di luoghi (spazi-tempi locali) 16 • Nella misura in cui la teoria dello spazio cosiddetto umano può riallacciarsi ad una teoria fisica, non potrebbe riallacciarsi a quest'ultima? Si considera lo spazio prodotto dell'energia, che a sua volta non si può paragonare a un. contenuto che occupa un contenente vuoto. In questo modo si rifiuta un causalismo ed un finalismo impregnati di astrazione metafisica. Il cosmo offre già una molteplicità di spazi qualificati, la cui diversità dipende comunque da una teoria unitaria, la cosmologia. 15 Compreso il modello di C. Lévi-Strauss basato sulla classificazione degli elementi di Mendelejeff e sul calcolo combinatorio generale. 1• F. Hoyle, Aux frontières de l'astronomie.

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Questa analogia ha dei limiti. Non c'è nessuna ragione per accostare le energie sociali alle energie fisiche, i campi delle forze cosiddette « umane » ai campi delle forze fisiche. Questo riduzionismo sarà esplicitamente rifiutato, come tutti i riduzionismi. Tuttavia le società umane, alla pari dei corpi viventi umani e non, non si possono concepire fuori del cosmo (o se si vuole del « mondo »); la cosmologia non può emarginarle senza conoscerle, come uno Stato nello Stato! 7. Come definire allora la separazione che mantiene distanti gli uni dagli altri i diversi spazi: fisico, mentale, sociale? Distorsione? Scarto? Taglio? Rottura? Il nome poco importa. Quello che conta è la distanza che separa lo spazio « ideale », dipendente dalle categorie mentali (logico-matematiche), dallo spazio « reale » della pratica sociale. Quando invece l'uno implica, pone e suppone l'altro. Quale base di partenza scegliere per una ricerca teorica ·che chiarisca e superi questa situazione? La filosofia? No, in quanto « parte in causa » e « partito preso » della situazione stessa. I filosofi hanno contribuito a scavare l'abisso elaborando rappresentazioni astratte (metafisiche) dello spazio, come lo spazio cartesiano, la « res extensa » assoluta, infinita, attributo div~no colto in una unica intuizione in quanto omogeneo (isotropo). E tanto più si deve rimpiangere questo fatto considerando che la filosofia inizialmente aveva rapporti molto stretti con lo spazio « reale », quello della città greca, legami poi spezzati. Questa obiezione non impedisce comunque il ricorso alla filosofia, ai suoi concetti e alle sue concezioni. La rifiuta soltanto come punto di partenza. E la letteratura? Perchè no? Gli scrittori hanno raccontato molto, specialmente luoghi e paesaggi. Ma da quali testi partire? Perché da questo e non da quello? Céline sfrutta molto bene il linguaggio quotidiano per descrivere lo spazio di Parigi, i sobborghi, l'Africa. Platone nel Crizia e altrove descrive meravigliosamente lo spazio cosmico e quello della città, immagine del cosmo. Quincey, ispirato, inseguendo per le vie di Londra l'ombra della donna sognata, o Baudelaire nei suoi Tableaux parisiens, hanno espresso lo spazio urbano altrettanto bene di Victor Hugo o Lautreamont. Ma nel momento in cui l'analisi si propone di cercare lo spazio nei testi letterari, lo scopre ovunque e in ogni parte: sottinteso, descritto, proiettato, sognato, riflesso. Da quali testi, considerati privilegiati, potrebbe partire un'analisi « testuale »? Poiché si tratta di spazio socialmente « reale», l'architettura e i suoi testi sarebbero inizialmente più indicati della letteratura. Ma che cos'è 38

l'architettura? Per definirla, occorre aver già analizzato e poi esposto lo spazio. Non si potrebbe partire da nozioni scientifiche generali altrettanto generali di quella di testo, come per esempio da quelle di informazione e comunicazione, messaggio e codice, insieme di segni, nozioni in corso di elaborazione? Ma allora l'analisi dello spazio rischierebbe di rinchiudersi in una disciplina specifica, cosa che non evidenzierebbe le dissociazioni, anzi le aggraverebbe. Non resta che fare appello a nozioni universali, derivanti apparentemente dalla filosofia, e che non rientrano in nessuna specializzazione. Ma tali nozioni esistono? Quello che Hegel chiamava l'universale concreto ha ancora un senso? Bisognerà dimostrarlo. Per ora è possibile notare che i concetti di produzione e produrre presentano l'universalità concreta richiesta. Elaborati dalla filosofia, essi la superano. Se una qualsiasi scienza specializzata, come l'economia politica, se ne è impadronita nel passato, essi sono sfuggiti tuttavia a tale usurpazione. Riprendendo il senso più vasto che avevano in certi testi di Marx, i concetti di produrre e di produzione hanno perduto in parte quella precisione illusoria attribuita loro dagli economisti. Non sarà facile riprenderli, né metterli in moto. « Produrre lo spazio» sono parole che sorprendono: la schematizzazione secondo la quale lo spazio vuoto preesiste a ciò che lo occupa, conserva ancora grande attrattiva. Quali spazi? E cosa significa « produrre», in rapporto allo spazio? Occorrerà fornire a questo contenuto dei concetti elaborati, dunque formalizzati, senza tuttavia cadere nell'illustrazione e nell'esemplificazione, occasioni di sofismi. Occorrerà quindi fornire esposizione completa di tali concetti, e dei loro rapporti da una parte con la massima astrazione formale (lo spazio logico-matematico), e dall'altra con il piano pratico-sensibile e lo spazio sociale; altrimenti l'universale concreto si dissocierà e ricadrà nei suoi momenti hegeliani: il particolare (nel nostro caso gli spazi sociali descritti o sezionati), il generale (logico e matematico), il singolare (i «luoghi» considerati come naturali, dotati solamente di una realtà fisica e sensibile). 8. Ognuno sa di cosa tratta quando parla di una « camera » di un appartamento, di un « angolo » della strada, del « centro » commerciale o culturale, di un «luogo» pubblico, ecc. Queste parole del linguaggio quotidiano distinguono, senza isolarli, degli spazi, e descrivono uno spazio sociale. Esse corrispondono ad un uso di tale spazio, quindi ad una pratica spaziale che esse descrivono e compongono. Sono termini che si susseguono secondo un certo

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ordine. Non occorre forse prima inventariarli 17, poi cercare il paradigma che dà loro un significato e la sintassi che li organizza? A meno che non costituiscano un codice sconosciuto che il pensiero possa ricostruire è promulgare. A meno che la riflessione non possa costruire, partendo da questi elementi (le parole), e da questo marealtà non contiene e non riguarda che il discorso sull'oggetto. QuelIn entrambi i casi, la riflessione costruirebbe un « sistema dello spazio ». Ora, da esperienze sc:entifiche precise, si sa che un tale sistema non porta che indirettamente all'« oggetto», e che in realtà non contiene e non r:guarda che il discorso sull'oggetto. Quello che ci proponiamo non ha lo scopo di produrre un (il) discorso sullo spazio, ma di dimostrare la produzione dello spazio stesso, riunendo i diversi spazi e le modalità della loro genesi in una teoria. Queste brevi note delineano una risposta ad un problema che occorrerà, in seguito, esaminare con cura per sapere se è recepibile o se non rappresenta che un oscuro interrogativo sulle origini. Il linguaggio precede (logicamente, epistemologicamente, geneticamente), accompagna o segue lo spazio sociale? Ne è la condizione o la formulazione? La tesi della priorità del linguaggio non è sostenibile; infatti le attività che segnano il suolo, che lasciano delle tracce, che organizzano gesti e lavori in comune, non avrebbero forse priorità (logica, epistemologica) sui linguaggi ben regolati, ben articolati? Può darsi che sia necessario scoprire dei rapporti ancora nascosti fra lo spazio e il linguaggio, la « logicità » inerente all'articolazione che funziona fin dall'inizio come spazialità e che riduce il dato qualitativo espresso caoticamente con la percezione delle cose (il piano pratico sensibile). In che misura si legge uno spazio? Lo si decodifica? La domanda non avrà tanto presto una risposta soddisfacente. In effetti, se le nozioni di messaggio, codice, informazione, ecc., non permettono di seguire la genesi di uno spazio (proposito annunciato precedentemente, che ·aspetta argomenti e prove), tuttavia uno spazio prodotto si può descrivere, si può leggere. Esso implica un processo significante. E anche se non esiste un codice generale dello spazio, intrinseco invece al linguaggio e alle lingue, può darsi che èodici particolari si siano stabiliti nel corso della storia e abbiano provocato effetti diversi, in modo che i « soggetti » interessati, membri di questa o quella società, potessero accedere nello stesso tempo al loro spazio, e alla loro qualità di « soggetti » che agiscono in questo spazio, comprendendolo (nel senso più pieno del termine), 17

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Cfr. Matoré, L'espace humain, 1962.

Se ci fu (certamente a partire dal XVI fino al XIX secolo) un linguaggio codificato sulla base pratica di un certo rapporto fra città, campagna e territorio politico, fondato sulla prospettiva classica e sullo spazio euclideo, perché e come è saltata questa codificazione? Occorre forse sforzarsi di ricostruire un tale linguaggio comune ai diversi membrl della società: utenti e abitanti, autorità, tecnici, (architetti, urbanisti, pianificatori)? La teoria non può formarsi, e formularsi, che a livello di una sovracodificazione. La conoscenza non si assimila che con l'abuso di un linguaggio « ben fatto ». E si pone al livello di concetti. Essa non consiste dunque né in un linguaggio privilegiato, né in un metalinguaggio, anche se questi concetti si addicono alla scienza del linguaggio in quanto tale. La conoscenza dello spazio non può rinchiudersi in partenza in queste categorie. Codice dei codici? Se si vuole; ma questa funzione « di secondo grado » della teoria non chiarisce gran che. Se ci sono stati dei codici dello spazio che caratterizzavano ogni pratica spaziale (sociale), se queste codificazioni sono state prodotte contemporaneamente allo spazio corrispondente, la teoria dovrà spiegare la loro genesi, il loro intervento, il loro esaurimento. Lo spostamento dell'analisi, in rapporto ai lavori degli specialisti in questo campo, è chiaro: invece di insistere sul rigore fonnale dei codici, si dialettizzerà il concetto, che si collocherà in un rapporto pratico e nella interazione dei « soggetti » con il loro spazio e i loro dintorni. Si tenterà di mostrare la genesi e la scomparsa delle codificazioni-decodificazioni. Se ne metteranno in luce i contenuti: le pratiche sociali (spaziali) inerenti alle forme. 9. Il surrealismo è considerato oggi diversamente rispetto ad un mezzo secolo fa. Sono sparite certe pretese: la sostituzione della poesia alla politica e la politicizzazione della poesia, l'idea di una rivelazione trascendente. Questa scuola letteraria non è tuttavia riducibile solo alla letteratura (che inizialmente essa disprezzava), dunque ad un semplice avvenimento letterario, legato all'esplorazione dell'inconscio (la scrittura automatica), di tendenza sovversiva al principio, ma recuperata in seguito con tutti i mezzi: le glosse, le esegesi, i commentari, la gloria e la pubblicità, ecc. I surrealisti più importanti tentarono di decifrare lo spazio interiore, e si sforzarono di chiarire il passaggio da questo spazio soggettivo alla materia, corpo e mondo esterno, e alla vita sociale. Cosa che conferisce al surrealismo una portata teorica prima insospettata. Questo tentativo unitario che annunciava una ricerca in seguito offuscatasi, si rivela ne L'amour fou di A. Bréton. La me41

diazione dell'immaginario e della magia (« Cosl, per fare apparire una donna, mi sono sorpreso ad aprire una porta, chiuderla, riaprirla - dopo aver constatato che non bastava infilare una lama in un libro, scelto a caso, partendo dal postulato che una certa riga della pagina sinistra o destra mi avrebbe fornito, in modo più o meno indiretto, un'indicazione intorno alla sua dispozione di spirito, o confermato il suo arrivo imminente o mancato - poi ricominciare a spostare oggetti, cercando di disporli, gli uni rispetto agli altr;, in posizione insolita, ecc. », cfr. A. Bréton, L'amour fou, ed. it. Torino, Einaudi, 1974, pag. 16) è una bizzarria che non toglie nulla al valore precursore dell'opera 18 • Ma i limiti che hanno portato al fallimento questo tentativo poetico sono abbastanza evidenti. Non che manchi alla poesia surrealista una elaborazione concettuale che ne chiarisca il senso (i testi teorici, manifesti od altro, non mancano certo, e ci si potrebbe persino domandare cosa resterebbe del surrealismo senza questa abbondanza). I difetti intrinseci di questa poesia sono più gravi. Essa privilegia il visuale oltre il vedere, si mette raramente « in ascolto», e curiosamente trascura la musicalità del « dire » e più ancora della « visione » centrale. « E come se d'improvv~so la tenebra profonda dell'esistenza umana fosse squarciata, come se dal momento che la necessità naturale consente a fare una cosa sola con la necessità logica, le cose fossero restituite alla trasparenza totale, collegate come da una catena di vetro cui non manchi un solo anello» (ivi, pag. 48). Il progetto hegeliano originale (secondo lo stesso Bréton, cfr. pag. 6) non si realizza se non nel corso di un sovraccarico affettivo, dunque soggettivo, dell'« oggetto » (amato) per mezzo di una sovraesaltazione dei simboli. Ipotizzando, seppure in sordina, la fine hegeliana della storia,. attraverso la loro poesia i surrealisti non fornirono che un metalinguaggio lirico della storia, una fusione illusoria del soggetto con l'oggetto in un metabolismo trascendentale. Metamorfosi verbale, anamorfosi, anaforizzazione del rapporto fra i « soggetti » (le persone) e le cose (il quotidiano), il surrealismo sovraccaricava il senso, e non cambiava niente. Per il semplice fatto che non poteva dallo scambio (dei beni) passare allo uso, attraverso la sola virtù del linguaggio. Come quella dei surrealisti, anche l'opera di G. B.11taille ~ vista oggi in una luce diversa. Anch'egli avrebbe voluto, fra l'altro, legare lo spazio dell'esperienza interiore a quello della natura fisica (al di sotto della coscienza: l'albero, il sesso, l'acefalo) e a quello sociale (quello della comunicazione, della parola). Come i surrea18

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Lo stesso vale, dopo tanti anni, per molte poesie di :Eluard.

listi, ma per una strada diversa dalla sintesi immaginata, Bataille definisce un percorso fra il reale, l'infra-reale e il sovra-reale. Quale strada? Quella tracciata da Nietzsche, l'eruttivo, il distruttivo. Bataille accentua le differenze, crea dei vuoti invece di colmarli; ma fa scaturire anche il lampo di una intuizione-intenzione esplosiva, che va da un punto all'altro, dalla terra al sole, dalla notte al giorno, dalla vita alla morte. Ma anche dalla logica all'eterologica, dal normale all'etero-nomico (ben al di qua e al di là dell'a-nomico). Lo spazio intero, mentale, fisico e sociale, si coglie tragicamente. Se ci sono un centro e una periferia, il centro ha la sua tragica realtà, quella del sacrificio, della violenza, dell'esplosione. Come, a suo modo, la periferia. Esattamente all'opposto dei surrealisti e di Bataille, nella stessa epoca, un teorico della tecnica intravedeva una teoria unitaria dello spazio. J. Lafitte, troppo dimenticato, affidava ad una « meccanologia », scienza generale dei dispositivi tecnici, l'esplorazione della realtà materiale, della conoscenza e dello spa~q sociale 19 • Lafitte continuava certe ricerche di Marx, riassunte' da K. Axelos 20 • Egli non disponeva degli elementi e dei concetti indispensabili, non conoscendo l'informatica e la cibernetica, e di conseguenza la differenza fra macchine informatiche e macchine ad energie massive. Ma non per questo viene diminuito il merito di J. Lafitte di aver reso attuale l'ipotesi unitaria, con un « rigore » caratteristico dell'ideologia tecnocratico-funzionale-strutturale, rigore che arriva fino alle tesi più azzardate, a concatenazioni concettuali degne della fantascienza. E l'utopia tecnocratica! E cosi che questo autore introduce come esplicative della storia analogie fra le « macchine passive », dunque statiche, e l'architettura e i vegetali, mentre le « macchine attive », più dinamiche, più « riflesse» corrisponderebbero agli animali. A partire da· questi concetti, J. Lafitte costruisce delle serie evolutive che occupano lo spazio, e riproduce audacemente la genesi della natura, della conoscenza, della società: attraverso lo sviluppo armonico di questi tre grandi cesure, serie contemporaneamente divergenti e complementari (op. cit., p. 92 e sgg.). L'ipotesi di Lafitte ne preannunciava molte altre dello stesso genere. Questo pensiero, che riflette la tecnicità, pone in primo piano l'esplicito, il dichiarato - non soltanto il razionale, ma l'intellettuale - scartando d'un colpo il laterale, l'etero-logico, ciò 19 Cfr. Réf[exions sur la science des machines, comparso nel 1932, ripubblicato nel 1972 (V rin, Paris, con una prefazione di J. Guillerme). 20 Marx, penseur de la tee/inique, Editions de Minuit, 1961.

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che è dissimulato nella prassi e, contemporaneamente, il pensiero che scopre ciò che si dissimila. Come se tutto, nello spazio del pensiero e del sociale, si riducesse al confronto « faccia-a-faccia ». 10. Se è esatto che la ricerca di una teoria unitaria dello spazio (fisico, mentale, sociale) si delineò qualche decina di anni fa, perché, e come, è stata abbandonata? Perché troppo vasta, emergente da un caos di rappresentazioni da una parte poetiche, soggettive, speculative, e dall'altra segnate dal marchio della positività tecnica? O forse perché sterile? ... Per capire cos'è successo bisogna risalire fino ad Hegel, questa « piace de l'Étoile » dominata dal Monumento filosofico-politico. Secondo l'hegelismo, il Tempo storico genera lo Spazio in cui si sviluppa e regna lo Stato. La storia non realizza l'archetipo dell'essere razionale in un individuo, ma in un insieme coerente di istituzioni, di gruppi e di sistemi parziali (il diritto, la morale, la famiglia, la città, il mestiere, ecc.), insieme che occupa un territorio nazionale, dominato da uno Stato. Il tempo dunque si determina e si fissa nella razionalità immanente allo spazio. La fine hegeliana della storia non implica la scomparsa del prodotto della storicità. Al contrario: questo prodotto, che risulta da una produzione alimentata dalla conoscenza (il concetto), e orientata dalla coscienza (il linguaggio, il Logos), questo prodotto necessario afferma la propria sufficienza. Esso persevera nell'essere, attraverso la propria potenza. Ciò che scompare è la storia, che si trasforma da azione in memoria, da produzione in contemplazione. Il tempo? Non ha più senso, dominato dalla ripetizione, dalla circolarità, dalla instaurazione di uno spazio immobile, luogo e centro della Ragione realizzata. Dopo questa feticizzazione dello spazio agli ordini dello Stato, la filosofia e l'attività pratica non possono che tentare la restaurazione del tempo 21 • Marx lo fa in modo rigoroso, ricuperando il tempo storico come tempo della rivoluzione. Con sottigliezza, ma anche in maniera astratta e incerta, perché parziale, lo fanno Bergson (durata psichica, immediatezza della coscienza), la fenomenologia husserliana (flusso « eracliteo » dei fenomeni, soggettività dell'Io) e una certa corrente filosofica 22 • Nell'hegelismo anti-hegeliano di G. Lukacs, lo spazio definisce "Cfr. H. Lefebvre, La fin de l'histoire, :Éd. Minuit, 1970, e gli studi di A. Kojève su Hegel e l'hegelismo. 22 Alla quale si rifanno M. Merleau-Ponty e G. Deleuze (Anti-CEdipe, p 114; ed. it. Anti-Edipo, Torino, Einaudi, 1975.)

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tanto la reificazione quanto la falsa coscienza. Il tempo ritrovato, dominato dalla coscienza di classe che si innalza fino alla vetta sublime, da cui, con un rapido sguardo, coglie i meandri della storia, spezza la supremazia spaziale 23 • Soltanto Nietzsche ha mantenuto la supremazia spaziale e la problematica della spazialità: ripetizione, circolarità, simultaneità di ciò che appare diverso nel tempo e nasce in tempi diversi. Nel divenire, ma contro il flusso del tempo, ogni forma definita lotta per stabilirsi, per mantenersi, sia che appartenga al campo fisico, mentale o sociale. Lo spazio nietzschiano non ha più nulla in comune con lo spazio hegeliano, prodotto e residuo del tempo storico. « Io credo allo spazio assoluto, che è il substrato della forza, e che la delimita e la modella». Lo spazio cosmico contiene delle forze e delle energie, e da esse deriva. Come lo spazio terrestre e sociale. « Dove è lo spazio è l'essere » 24. Le relazioni fra la forza (l'energia), il tempo e lo spazio djventano problematiche. Per esempio, non si può né concepire un iniz:o (un'origine), né astenersi dal pensarlo. « Ciò che si interrompe concorda con ciò che segue », dal momento che si elimina l'attività, del resto indispensabile, che distingue e definisce le differenze. Un'energia, una forza, non si riconosce che per i suoi effetti nello spazio, per quanto « in sé » (ma come afferrare « in sé », con l'intelletto analitico, una qualsiasi «realtà», energia, tempo, spazio?) le forze differ:scono dai loro effetti. Come lo spazio nietzschiano non ha niente in comune con lo spazio hegeliano, così il tempo nietzschiano, teatro della tragedia universale, spazio-tempo della morte e della vita, ciclico, ripetitivo, non ha niente in comune con il tempo marxista, storicità, spinta in avanti dalle forze produttive, orientate in senso positivo (ottimista) dalla razionalità industriale, proletaria, rivoluzionaria. Ora, cosa succede nella seconda metà del XX secolo, alla quale « noi » assistiamo: a) lo Stato si consolida a livello mondiale. Esso grava sulla società (le società) con tutto il suo peso; pianifica, organizza « razionalmente » la società utilizzando conoscenze e tecniche, imponendo misure analoghe, se non omologhe, indipendentemente dalle ideologie politiche, dal passato storico, dall'origine sociale delle

23 Cfr. J. Gabel, La fausse conscience, l!d. Minuit, 1962, p. 193 e sgg. E, naturalmente, G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, Sugar, 1967. 14 Cfr. la raccolta intitolata (a torto) La volontà di potenza, Milano, F.lli Bocca, 1937, frammenti 315, 316 e sgg.

persone al potere. Lo Stato schiaccia il tempo riducendo le diffe. renze a delle ripetizioni, a delle circolarità (battezzate « equilibrio », « feed-back », « controlli », ecc.). E lo spazio che prevale è quello dello schema hegeliano. Questo Stato moderno si pone e si impone come centro stabile, definitivo, delle società e degli spazi (nazionali). Fine e senso della storia, come l'aveva percepito Hegel, appiattisce il sociale e il « culturale ». E il regno di una logica che annulla conflitti e contraddizioni: neutralizza ciò che resiste: è castrazione, annientamento. Entropia sociale? Escrescenza mostruosa divenuta normalità? Il risultato è davanti a noi. b) Nonostante tutto, in questo spazio le forze si agitano. La razionalità dello Stato, delle tecniche, dei piani e dei programmi, suscita la contestazione. La violenza sovversiva dsponde alla violenza del potere. Guerre e rivoluzioni, sconfitte e vittorie, scontri, agitazioni, il mondo moderno corrisponde alla visione tragica di Nietzsche. La normalità statale impone anche la trasgressione continua. Il tempo? Il negativo? Essi riemergono in modo esplosivo. La loro nuova, tragica negatività si manifesta come violenza incessante. Le forze che si agitano sollevano il coperchio della pentola: cioè lo Stato, e il suo spazio. Le differenze non hanno anèora detto la loro ultima parola. Anche vinte, esse sopravvivono; si battono a volte ferocemente per affermarsi e trasformarsi attraverso dure prove. e) Nemmeno la classe operaia ha detto la sua ultima parola; continua il suo cammino, a volte sotterraneo, a volte alla luce del sole. Non ci si può sbarazzare tanto facilmente della lotta di classe, che ha assunto molteplici forme, diverse da quelle dello schema impoverito che porta questo nome, e che non si trova in Marx, nonostante che i suoi sostenitori lo pretendano. Può darsi che, in un mortale equilibrio, l'opposizione della classe operaia alla borghesia non diventi antagonismo, mandando a rotoli in questo modo la società, perché lo Stato marcirebbe nell'immobilità assoluta o si rinvigorirebbe troppo convulsamente. Può darsi che la rivoluzione mondiale scoppi dopo un periodo di latenza - o che scoppi una guerra planetaria delle dimensioni del mercato mondiale - . Può darsi... Sembra che i lavoratori, nei paesi industriali, non scelgano né la strada della crescita e dell'accumulazione indefinita, né quella della rivoluzione violenta che. porta alla scomparsa dello Stato, ma quella dell'esaurimento del lavoro stesso. Un semplice esame delle possibilità mostra che il pensiero marxista non è scomparso e non può scomparire. Comincia allora il confronto fra le tesi e le ipotesi di Hegel, Marx e Nietzsche. Non senza fatica. Quanto al pensiero filosofico

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e alla riflessione sullo spazio e sul tempo si sono scissi: da una parte la filosofia del tempo, della durata, essa stessa suddivisa in riflessioni e valorizzazioni parziali: il tempo storico, il tempo sociale, il tempo psichico, ecc.; dall'altra parte la riflessione epistemologica che costruisce il suo spazio astratto, e riflette su.gli spazi astratti (logico-matematici). La maggior parte degli autori, se non tutti, si installano comodamente nello spazio mentale (dunque neo-kantiano o neo-cartesiano), dimostrando cosi che la « pratica teorica » si riduce alla riflessione egocentrica dell'intellettuale occidentale specializzato, e di conseguenza alla coscienza completamente divisa (schizoide). Bisogna far scoppiare questa situazione. A propos:to dello spazio, bisogna proseguire il confronto fra le idee e gli enunciati che fanno luce sul mondo moderno, anche se non lo guidano. Prendere questi enunciati non come delle tesi o ipotesi isolate, come « pensieri » da studiare, ma come figure profetiche che si collocano sul limitare dell'epoca moderna 25 • Ecco lo scopo di questa opera sullo spazio. 11. Si tratterebbe dunque di costruire una teoria critica dello spazio esistente, da sostituire alle descrizioni e alle suddivisioni che accettano tale spazio - come alle teorie critiche della società in generale, dell'economia politica, della cultura, ecc.? No. Sostituire l'utopia tecnologica con una utopia negativa e critica dello spazio, come dell'« uomo» o della « società», non è più sufficiente. La teoria critica, anche spinta alla contestazione più radicale, (sia « puntuale », cioè riferita a questo o quel « punto » debole, sia globale) ha fatto il suo tempo. Sarà allora necessario assegnarsi come primo compito quello della distruzione metodica dei codici concernenti lo spazio? No,

25 Mettendo le carte in tavola fin da ora, ecco (con un po' di ironia, · ma non troppa) alcuni riferimenti: le opere di Charles Dodgson (pseudonimo: Lewis Carroll), in particolare Symbolic logie, The game oj logie e Logique sans peine piuttosto che Through the looking glass, Alice in Wonderland. - Le jeu des per/es de verre, di Hermann Hesse, specificamente p. 126 e sgg. della traduzione, sulla teoria del gioco e del suo doppio rapporto. col linguaggio e lo spazio, spazio del gioco o nel quale il gioco si sviluppa, la Castalie. - Herman Weyl, Symetrie et mathématique moderne, 1952, tr. fr. Flammarion, 1964. - Nietzsche, cfr. Das Phi/osopher Buch, soprattutto i frammenti sul linguaggio e « l'introduzione teoretica sulla verità e la menzorna », p. 185 della traduzione francese. Osservazione importante: i testi citati, sia quelli precedenti che quelli che seguiranno, vanno considerati in rapporto alla pratica spaziale e ai suoi livelli: pianificazione, « urbanistica », architettura.

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al contrario. Questi codici, legati al sapere o alla pratica sociale, stanno da molto tempo scomparendo. Non ne restano che i cocci: parole, immagini, metafore. C'è un avvenimento, capitale quanto inavvertito, al punto che è necessario ricordarlo ogni momento; verso il 1910 lo spazio comune al buon senso, al sapere, alla pratica sociale, al potere politico, contenuto del discorso quotidiano come del pensiero astratto, centro e canale dei messaggi, lo spazio della prospettiva classica e della geometria, elaborato nel Rinascimento a partire dall'eredità greca (Euclide e la logica) e incorporato nella città attraverso l'arte e la filosofia dell'Occidente, questo spazio comincia a vacillare. Riceve tanti shocks e subisce tante aggressioni, che anche all'interno di un insegnamento tradizionale riesce a conservare soltanto con molta difficoltà una realtà pedagogica. Lo spazio euclideo e prospettico scompare come referente, assieme agli altri luoghi comuni (la città, la storia, la paternità, il sistema tonale in musica, la morale tradizionale, ecc.). f: un momento cruciale. D'altra parte è facile capire che lo spazio del « buon senso», lo spazio euclideo e prospettico, così come l'algebra e l'aritmet:ca elementari, come la grammatica, come la fisica newtoniana, non possono sparire in un attimo senza lasciare tracce nelle coscienze, nella cultura e nella pedagogia. Non si tratta più di distruggere dei codici a favore di una teoria critica, ma .di spiegare la loro distruzione, di constatarne gli effetti, e (forse) di costruire un nuovo codice, mediante una sovracodifìcazione teorica. Questa operazione, già indicata precedentemente, si precisa come inversione della tendenza dominante, e nqn come una sostituzione. Come ai tempi di Marx (e questo sarà largamente mostrato, se non dimostrato), l'inversione consiste nel passare dai prodotti (studiati da vicino e da lontano, descritti, numerati) alla produzione. Questa inversione di tendenza e di senso non ha niente in comune con la conversione dai significati ai significanti, effettuata in nome di una preoccupazione intellettualistica di teoria « pura ». Il regresso del significato, l'emarginazione dell'espressività, il richiamo ai soli significanti formali, precedettero l'inversione di tendenza che va dai prodotti all'attività produttrice. Queste operazioni la simulano soltanto, riducendola ad una serie di interventi astratti sul linguaggio e, in fin dei conti, sulla letteratura. 12. Lo spazio (sociale) è un prodotto (sociale). Questo enunciato potrebbe sembrare una tautologia, quindi un'evidenza. Tuttavia vale la pena di esaminarlo da vicino e di considerarne le implicazioni e le conseguenze, pr:ma di accettarlo. Che lo spazio

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abbia assunto, nel modo di produzione attuale e nella « società in atto », una specie di realtà propria, allo stesso titolo e con lo stesso processo globale della merce, del denaro, del capitale, anche se in modo diverso, è un postulato che molti rifiutano. Alcuni, di fronte a questo paradosso, chiederanno prove; visto che lo spazio così prodotto serve come strumento sia di pensiero che di azione, sia come mezzo di produzione che, contemporaneamente, di controllo, dunque di dominio e di potere - ma visto anche che sfugge parzialmente a coloro che se ne servono. Le forze sociali e politiche (dello Stato) che lo generano, tentano di dominarlo senza mai riuscirvi; gli stessi che spingono la realtà spaziale verso una specie di autonomia impossibile a controllarsi, si sforzano poi di impoverirla, di immobilizzarla per asservirla. Questo spazio sarebbe dunque astratto? Sì. Ma nello stesso tempo anche «reale», come la merce e il danaro, astrazioni concrete. Sarebbe concreto? Sì, ma non come un oggetto, un prodotto qualsiasi. È forse strumentale? Certamente, ma, come la conoscenza, va al di là della strumentalità. Si ridurrebbe allora ad una proiezione. - alla « oggettivazione » di un sapere? Sì e no: il sapere oggettivato in un prodotto non coincide più con la conoscenza teorica. Lo spazio contiene dei rapporti sociali. Come? Perché? Quali? Ecco l'esigenza di un'analisi minuziosa, e di un lungo discorso generale. Con l'introduzione di idee nuove: prima di tutto quella di una diversità, di una molteplicità di spazi, distinti dalle frammentazioni e dalle suddivisioni all'infinito. Il tutto rapportato a ciò che si chiama « storia», e che dovrebbe a sua volta riceverne un chiarimento. Quando lo spazio sociale cessa di confondersi con lo spazio mentale (definito dai filosofi e dai matematici), con lo spazio fisico (definito dal lato pratico-sensibile e dalla percezione della « natura »), rivela la sua specificità. Che questo spazio sociale non consista in una collezione di cose, in una somma di fatti (sensibili), come un vuoto o un involucro riempito di diverse materie, che esso non si riduca ad una « forma » imposta ai fenomeni, alle cose, alla materialità fisica, occorrerà dimostrarlo. Il carattere sociale dello spazio, finora soltanto presupposto (ipotesi), si confermerà come tale nel corso dell'esposizione. 13. Cos'è che dissimula questa· verità dello spazio (sociale), cioè il suo essere un prodotto (sociale)? Una doppia illusione, in cui ognuna delle due facce rimanda all'altra, ·la rinforza, la protegge: l'illusione della trasparenza e quella dell'opacità (l'illusione « realistica »).

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a) illusione della trasparenza. Lo spazio? Luminoso, intelligibile, offre il proprio campo libero all'azione. Ciò che si realizza nello spazio stupisce il pensiero, poiché è la sua stessa incarnazione in un progetto (o disegno; ed è certamente significativo che queste due parole siano così simili) 26 • Il progetto è un mediatore fedele fra l'attività mentale che inventa e l'attività sociale che realizza; il progetto manifesta nello spazio. L'illusione della trasparenza si confonde con quella dell'innocenza dello spazio, che appare privo di trabocchetti e di nascondigli profondi. Ciò che è simulato e nascosto, dunque pericoloso, si oppone alla trasparenza, che si può invece cogliere con un solo sguardo dell'occhio dello spirito, che illumina ciò che contempla. La comprensione otterrebbe di far passare, senza ostacoli insormontabili, l'oggetto recepito dalle zone oscure alle zone illuminate; lo sposterebbe sia attraversandolo con un raggio penetrante, sia metamorfosandolo, con qualche pi;ecauzione, da oscuro in luminoso. In questo modo più o meno coinciderebbero lo spazio sociale e lo spazio mentale, cioè lo spazio dei luoghi pensati e quello dei luoghi parlati (luoghi comuni). Per quale via? Per quale magia? Dopo l'intervento della parola e della scrittura, ciò che è cifrato si decifra facilmente: si decifra, si dice e si crede, per semplice spostamento e per semplice illuminazione, cambiando di luogo, senza nessun'altra modificazione, se non topologica. Perché formulare così l'equivalenza nella spazialità fra ciò che è conosciuto e ciò che è trasparente? Perché è il postulato di una ideologia molto diffusa (fin dalla filosofia classica) nella « cultura » occidentale, ideologia che valorizza la parola e sopravvaluta la scrittura, a svantaggio della pratica sociale, che viene occultata. Al feticismo e all'ideologia della parola corrispondono il feticismo e l'ideologia della scrittura. Per alcuni, in modo esplicito o implicito, la parola è l'artefice della chiarezza della comun:cazione, scova ciò che si nasconde e l'obbliga a mostrarsi, o l'annienta con maledizioni mortali. Per altri invece la parola non basta; occorre la prova e l'operazione supplementare della scrittura, generatrice di maledizioni e consacrazioni. L'atto di scrivere, al di là dei suoi effetti immediati, implicherebbe una disciplina capace di cogliere l'« oggetto » per e mediante il « soggetto », colui che scrive e parla. In entrambi i casi la parola e la scrittura si considerano pratica (sociale), in cui l'assurdità e la mancanza di chiarezza, sempre unite, si sciolgono senza che svanisca l'« oggetto». La comunicazione porta l'oggetto dall'incomunicabile (non avento l'in26

so

N.d.T.: dessein

= progetto;

dessin

= disegno.

comunicabile nessun'altra es:stenza che quella di un residuo sempre scacciato) al comunicato. I postulati di tale ideologia, che identifica conoscenza, informazione e comunicazione, e afferma la trasparenza dello spazio, hanno fatto credere per molto tempo che mediante la comunicazione si sarebbe potuta verificare una trasformazione r:voluzionaria. « Dire tutto! ». « Parola ininterrotta! Scrivere tutto! La scrittura trasforma il linguaggio, dunque la società ... La scrittura come prassi significante!'» Da allora rivoluzione e trasparenza tendono ad identificarsi. L'illusione della trasparenza, per riprendere per un attimo il vecchio I:nguaggio dei filosofi, si rivela come un'illusione trascendentale: come una sagoma che funzioni per un proprio potere magico, ma che nello stesso tempo rimandi ad altre sagome, cioè ai suoi alibi e alle sue maschere. b) l'illusione realistica. Illusione dell'ingenu:tà e degli ingenui è stata denunciata da filosofi e teorici del linguaggio con vari nomi e sotto vari pretesti: naturalità, sostanzialità. Secondo i filosofi della vecchia e buona tendenza idealistica, la credulità tipica del senso comune comporta un'erronea convinzione: le « cose » hanno maggior consistenza del « soggetto », del suo pensiero, dei suoi desideri. Respingere questa illusione significa aderire al pensiero « puro », allo Spirito, al Desiderio.;. Cosa che dall'illusione realistica rimanda a quella della trasparenza. Per i linguisti, i semantici, i semiologhi, una certa ingenuità ammette la « realtà sostanziale » del linguaggio, quando questo si definisce per mezzo della forma. La lingua diventa una specie di « sacco di parole » dal quale, supponendo una corrispondenza fra « oggètto » e parola relativa, si pensa di poter estrarre ogni volta la parola che più si addice alla cosa. Nel corso di ogni lettura, l'immaginario e il simbolico, il paesaggio, l'orizzonte che limita il percorso del lettore, sono illusoriamente considerati « reali », perché i caratteri veri del testo, tanto la forma significante quanto il contenuto simbolico, sfuggono all'incoscienza dei « naifs » (da notare che da questa illusione, i « na:fs » sanno trarre dei piaceri che vengono dissipati dal sapere che dissipa le illusioni!' La scienza sostituisce al piacere innocente della naturalità fittiz:a o reale, per esempio, qualcosa di più raffinato e sofisticato, la cui delizia è tutta da dimostrare). L'illusione della sostanzialità, della naturalità, dell'opacità spaziale, comporta una propr:a mitologia. L'artista dello spazio opera in una realtà dura e massiccia, proveniente direttamente da Madre-Natura. Scultore più che pittore, architetto più che musicista o poeta, egli lavora su di una materia che gli resiste, gli sfugge.

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Lo spazio, pur non essendo quello del geometra, possiede tuttavi: le qualità e proprietà fisiche della terra. La prima illusione, quella della trasparenza, si avvicina all'idea lismo filosofico, la seconda al materialismo (nàturalista e meccanicista). Tuttavia queste illusioni non si combattono alla manierE dei sisteml filosofici, che si chiudono come delle corazze e cercane di distruggersi. Ognuna delle due illusioni contiene l'altra e la sostiene. Il passaggio, l'oscillazione intermittente dall'una all'altra, ha dunque la stessa importanza di ognuna delle due, considerate separatamente. I simbolismi derivati dalla natura offuscano quella chiarezza razionale che l'Occidente ricava dalla sua storia, da un conquistato dominio sulla natura. L'apparente traslucidità, catturata da oscure forze storiche e politiche in declino (lo Stato, la nazionalità) ritrova certe immagini derivate dalla terra e dalla natura, dalla paternità, dalla maternità. Il razionale si naturalizza, e la natura si ricopre di nostalgie che sostituiscono la ragione. 14. Per presentare programmaticamente ciò di cui parleremo in seguito, possiamo fin da ora enumerare alcune implicazioni e conseguenze dell'enunciato iniziale: lo spazio (sociale) è un pro-

dotto (sociale). Prima implicazione: lo spazio-natura (fisico) si allontana. Irreversibilmente. Certamente è stato e rimane terreno comune di partenza: l'origine e l'originario del processo sociale, forse la base di ogni« originalità». Certamente, non scompare di punto in bianco dalla scena. Sfondo del quadro, qualcosa di più di uno scenario, esso resiste, e ogni dettaglio, ogni oggetto della natura si valorizza, diventando s:mbolo (il più piccolo animale, l'albero, l'erba, ecc.). Origine e fonte di sostentamento, la natura ci ossessiona, come l'infanzia e la spontaneità, attraverso il filtro della memoria. Chi non sente il bisogno di proteggerla, di salvarla? O di ritrovarne l'autenticità? Chi vuole distruggerla? Nessuno. Ma nonostante questo tutto cospira contro di lei. Lo spazio-natura si allontana: un orizzonte alle spalle di coloro che si voltano indietro. Esso fugge il pensiero. Cos'è la Natura? Come si può coglierla quale era, prima della presenza e dell'intervento degli uomini, con i loro strumenti devastatori? La natura, questo mito potente, si muta in finzione, in utopia negativa: non è più che la materia prima sulla quale hanno operato le forze produttive delle diverse società per produrre il loro spazio. Resistente, certo, e infinitamente profonda, ma vinta, in via di esaurimento, di distruzione ... 15. Seconda implicazione: ogni società (quindi ogni modo di

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produzione con le sue specifiche differenze, le società particolari in cui si rispecchia il concetto generale) produce un proprio spazio. La Città antica non può essere considerata come un insieme di persone e cose nello spazio; e nemmeno immaginata a partire da un certo numero di testi e d'.scorsi sullo spazio, anche se alcuni, come il Crizia e il Timeo di Platone, o il libro A della metafisica aristotelica, ci forniscono conoscenze insostituibili. La Città ha avuto la sua prat:ca spaziale; ha forgiato il suo spazio, cioè lo ha appropriato. Di qui l'esigenza nuova di uno studio dello spazio che lo colga come tale, nella sua genesi e forma, col suo tempo o tempi specifici (i ritmi della vita quotidiana), coi suoi centri e il suo poI:centrismo (l'agorà, il tempio, lo stadio, ecc.). La città greca non è che un esempio. Avendo ogni società il suo proprio spazio, esso si propone come « oggetto » di analisi per un discorso teorico globale. Ogni società? Sì, ogni modo di prodttzione che implichi certi rapporti di produzione, anche notevolmente diversi fra loro. Incontreremo, come si vedrà in seguito, molte difficoltà: ostacoli, lacune e vuoti. Cosa sappiamo, in Europa, sulla base dei concetti occidentali, del modo di produzione asiatico, del suo spazio, delle sue città e del rapporto fra città e campagna? Conosciamo forse gli ideogrammi che, sembra, esprimono questo rapporto raffigurandolo? Più generalmente, la nozione stessa di spazio sociale, per la sua novità, per la complessità delle realtà e delle forme che rappresenta, oppone una certa resistenza all'analisi. Lo spazio sociale contiene, assegnando loro dei luoghi p:ù o meno appropriati, i rapporti sociali di riproduzione, cioè bio-fisiologici fra i sessi e le età, con l'organizzazione specifica della famiglia, e i rapporti di produzione, cioè la divisione e l'organizzazione del lavoro, quindi le funzioni sociali in ordine gerarchico. Queste due concatenazioni, produzione e riproduzione, non si possono separare: la divisione del lavoro si ripercuote e si perpetua nella famiglia; inversamente, l'organizzazione familiare interferisce con la divisione del lavoro; tuttavia, lo spazio sociale distingue, per « localizzarle », queste attività. E non sempre ci riesce! Più precisamente, fino al capitalismo, i due livelli, quello della riproduzione biologica e quello della produzione socio-economica, si compenetrano, e avvolgono la riproduzione sociale, cioè la riproduzione della società che si perpetua nel succedersi delle generazioni, nonostante i conflitti, gli scontri, le lotte e le guerre. Che lo spazio, in questa continuità, giochi un ruolo decisivo, dovrà essere dimostrato. Col capitalismo, e soprattutto col neo-capitalismo « moderno », 53

la situazione si complica. Sono tre i livelli che interagiscono: quello della riproduzione biologica (la famiglia); quello della riproduzione della forza-lavoro (la classe opera:a in quanto tale); quello della riproduzione dei rapporti sociali di produzione, cioè dei rapporti costitutivi della società capitalista, sempre (e sempre meglio) voluti e imposti come tali. Il ruolo dello spazio in questa tr:plice concatenazione dovrà essere analizzato in modo specifico. Per rendere più complessa la situazione, lo spazio contiene anche alcune rappresentazioni di questa duplice o triplice interferenza dei rapporti sociali (di produzione e riproduzione). Per mezzo di rappresentazioni simboliche li mantiene in uno stato di coesistenza e coesione; li esibisce trasferendoli, quindi li dissimula in maniera simbol:ca, con l'aiuto e sullo sfondo della natura. Le rappresentazioni dei rapporti di riproduzione consistono in simboli sessuali, femminili e maschili, uniti o no a quelli dell'età, giovinezza e vecchiaia. Simboli che più che mostrare dissimulano, in quanto questi rapporti si dividono in relazioni frontali, pubbliche, dichiarate e quindi codificate, e relazioni nascoste, clandestine, represse, che definiscono delle trasgressioni, in particolare per quanto concerne non tanto il sesso in quanto tale, ma piuttosto il p:acere sessuale, con le sue condizioni e conseguenze. Lo spazio contiene dunque questi intrecci molteplici, in luoghi e posti precisi. Anche le rappresentazioni dei rapporti di produzione, che implicano rapporti di potere, si realizzano nello spazio, che le contiene sotto forma di edifici, monumenti, opere d'arte. Le relazioni frontali, spesso brutali, non imped:scono completamente l'esistenza di aspetti clandestini e sotterranei; non esiste potere senza complici, e senza polizia. In questo modo prende corpo una triplicità sulla quale ritorneremo a più r:prese: a) la pratica spaziale, che ingloba produzione e riproduzione, luoghi specifici e insiemi spaziali propri ad ogni formazione sociale, e che garantisce la continuità in una relativa coesione. Questa coesione implica, per quanto riguarda lo spazio sociale e il rapporto di ogni membro di tale società col proprio spazio, una certa competenza e al tempo stesso una certa performance ri. b) le rappresentazioni dello spazio, legate ai rapporti di produzione, all'« ordine » che impongono e, attraverso questo, alle conoscenze, ai segnali, ai codici, alle relazioni « frontali ». "Termini propri della linguistica (di N. Chornsky), che tuttavia non indicano alcuna subordinazione della teoria dello spazio alla linguistica.

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e) gli spazi di rappresentazione, che presentano (con o senza codificazione) dei simboli complessi, legati all'aspetto clandestino e sotterraneo della vita sociale, ma anche all'arte, che potrebbe eventualmente essere definita non come codice dello spazio, ma come codice degli spazi di rappresentazione. 16. Nella realtà lo spazio sociale « incorpora » gli atti sociali dei soggetti, insieme collettivi e individuali, che nascono e muoiono, soffrcino e agiscono. Per loro lo spazio è nello stesso tempo la vita e la morte: vi crescono, vi incontrano dei divieti e se li raccontano, e 'quando muoiono il loro spazio contiene la loro tomba. Per la conoscenza e davanti ad essa, lo spazio sociale funziona - col suo concetto - da strumento di analisi della società. Uno schema semplicistico da scartare subito è quello della corrispondenza termine per termine (puntuale) fra gli atti e i luoghi sociali, fra le funzioni e le forme spaziali. Questo schema « strutturale », proprio perché grossolano, non ha ancora smesso di assillare le coscienze e la cultura. Generare (produrre) uno spazio sociale appropriato, nel quale la società generatrice prenda forma presentandosi e ripresentandosi, per quanto non coincida mai con esso e per quanto il suo spazio costituisca sia la sua culla che la sua tomba, tutto questo non si fa in un giorno. E un processo. La capacità pratica di questa società e i suoi poteri sovrani devono (e questa parola esprime una necessità che occorrerà spiegare) poter disporre di luoghi privilegiati: i luoghi religiosi e politici. Trattandosi di società precapitalistiche (che riguardano più l'antropologia, l'etnologia o la sociologia che l'economia politica), occorrono luoghi ove si compiano unioni sessuali e assassini simbolici, dove si rinnovi il principio di fecondità (la Madre), dove si uccidano i padri, i capi, i re, i preti e qualche volta gli dei; in modo che lo spazio possa essere contemporaneamente consacrato e liberato dalle potenze benefiche e malefiche: trattenendo di esse ciò che favorisce la continuità sociale, ed estirpando ciò che le rende troppo pericolose. ! necessario che lo spazio, contemporaneamente naturale e sociale, pratico e simbolico, appaia popolato (significante e significato) da una « realtà » superiore, per esempio la Luce (del sole, della luna, degli astri), opposta alle tenebre, alla notte, dunque alla morte; luce identificata col Vero, con la vita, dunque col pensiero e col sapere, e attraverso incerte mediazioni col potere esistente. Cosa che traspare nei racconti mitici, tanto occidentali che orientali, ma che non si realizza che ne, e mediante, lo spazio (religiosopolitico). Come ogni pratica sociale, anche la pratica spaziale è

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vissuta prima che concepita; ma la supremazia speculativa del concepito sul vissuto fa scomparire, assieme alla vita, anche la pratica, e trova difficilmente una risposta all'« inconscio» del vissuto in quanto tale. Inoltre, la famiglia (per lungo tempo molto numerosa anche se limitata) deve essere sconfessata come centro unico (unica sede) della pratica sociale, ciò che provocherebbe la dissoluzione della società, ma allo stesso tempo conservata e mantenuta, come «base» di rapporti personali e diretti, legati alla natura, alla terra, alla procreazione, quindi alla riproduzione. Infine è necessario che la morte sia contemporaneamente prefigurata e respinta: « localizzata » essa stessa, ma al di fuori dello spazio vero e proprio, rimandata all'infinito per riscattare (purificare) la finitezza nella quale si svolge la pratica sociale e nella quale regna la legge che ha definito questo spazio. Lo spazio sociale è quello della società. L'uomo non vive solo di parole; ogni « soggetto » si situa in uno spazio in cui si riconosce o si perde, in cui gioisce, o che modifica. Paradosso: per accedervi, colui che vi si trova già (bambino, adolescente) deve superare delle prove, il che crea all'interno dello spazio sociale degli spazi r;servati, dei luoghi d'iniziazione. Senza dubbio, tutti i luoghi sacri-maledetti, legati alla presenza-assenza degli dei e della loro morte, delle potenze nascoste e del loro esorcismo, sono dei luoghi riservati. Per cui nello spazio assoluto il luogo dell'assoluto non esiste (sarebbe un non-luogo), e lo spazio religioso-politico diventa una strana combinazione, un insieme di luoghi sfuggenti e riservati, dunque misteriosi. Quanto alla magia e alla stregoneria, anch'esse hanno i loro spazi specifici, che si oppongono, presupponendolo, a quello religioso-politico: spazi altrettanto riservati e sfuggenti, maledetti, più che benedetti o benefici. Al contrario di certi spazi lucidi, anch'essi consacrati (alla danza sacra, alla musica, ecc.), che sono considerati sempre come benefici, piuttosto che maledetti e malefici. Lo spazio sociaie avrebbe dunque come ultima ragion d'essere il proibito, il non-detto nelle comunicazioni fra i membri della società - lo sfasamento fra i corpi e le coscienze, e la difficoltà dello scambio - la dislocazione dei loro rapporti più immediati (quello del bambino con la madre) e della loro stessa corporeità, poi la restituzione mai pienamente compiuta di questi rapporti in un « ambiente », in una serie di luoghi specificati da divieti e prescrizioni? In questa linea, si può spiegare lo spazio sociale a partire da un doppio divieto: quello che allontana il bambino (maschio) dalla

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madre, perché l'incesto è proib:to, e quello che lo allontana dal suo stesso corpo perché il linguaggio, componendo la coscienza, decompone l'unità immediata del suo corpo; perché il bambino (maschio) subisce simbolicamente la castrazione, e il suo fallo si oggettiva per lui come realtà esterna. Per cui resp~nge la Madre, il suo sesso e il suo sangue nel sacro-maledetto, essendo con lei il piacere sessuale affascinante e inaccessibile. Questa tesi 28 presuppone l'anteriorità logica, epistemologica, antropologica del linguaggio r:spetto allo spazio. E nello· stesso tempo, essa pone all'origine della società i divieti (fra gli altri, la proibizione dell'incesto) e non l'attività produttiva, e, mentre spiega 1? genesi dello spaz:o della parola (e della scrittura), sostiene, senza addurre alcuna prova l'esistenza di uno spazio oggettivo, vuoto e neutro. Si vedrà poi che questi presupposti non servono, perché non tengono conto della pratica sociale-spaziale, se non in una società immaginaria, modello o tipo ideale, che tale ideologia costru:sce e impudentemente identifica con tutte le società « reali ». Tuttavia l'esistenza nello spazio della verticalità fallica (che ha origini lontane ed ha tendenza ad accentuarsi) richiede un'interpretazione. Come in generale il muro, la recinzione, la facciata, che definiscono una scena (dove avviene qualcosa) e contemporaneamente l'osceno, che non deve e non può avvenire all'interno di questo spazio, l'inammissibile, il malefico, il proibito, che hanno il proprio spazio nascosto al di qua o al di là di una frontiera. Spiegare tutto per mezzo della psicanalisi e dell'inconscio porta ad un· riduttivismo ed un dogmatismo insopportabili; come del resto la sopravvalutazione dello « strutturale ». Tuttavia esistono delle strutture, ed esiste un « inconscio », e la reintroduzione di ciò che è sempre stato d:sconosciuto dalla coscienza potrebbe ridare un equilibrio a questa ricerca: se per esempio si potesse verificare che ogni società, e in modo particolare ogni città, ha una vita sotterranea e rimossa, dunque un «inconscio», l'interesse, ora in decl:no, per la psicanalisi, potrebbe rinvigorirsi. 17. Lo sviluppo di un'altra implicazione dell'ipotesi proposta richiederà uno sforzo ancora maggiore. Se lo spazio è un prodotto, la conoscenza riprodurrà ed esporrà questa produzione. L'interesse e l'« oggetto» si sposteranno dalle cose nello spazio alla produzione dello spazio stesso, formula che richiede ancora molte spiegazioni. I prodotti parziali localizzati nello spazio (le cose) da una parte, e i discorsi sullo spazio dall'altra, non sono che indicazioni e testi28

Che emerge dagli scritti di Lacan e della sua scuola.

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monianze di questo processo produttivo (che comprende, senza tuttavia ridurvisi, dei processi significanti). Non è dunque più questo o quello spazio che ha importanza, ma lo spazio come globalità o totalità, da studiarsi non più soltanto con procedimenti analitici (che potrebbero fornire soltanto suddivisioni e frammentazioni infinite, subordinate all'intenzione analitica), ma nella sua genesi all'interno della conoscenza teorica e mediante questa. La teoria riproduce, con una vera e propria concatenazione di concetti, il processo generatore: non soltanto dal di fuori (in modo descrittivo), ma dal di dentro, come globalità, passando senza tregua dal passato al presente (e viceversa). In effetti la storia e le sue conseguenze, il « diacronico », l'etimologia dei luoghi, cioè quello che avvenendo ha modificato luoghi e regioni, tutto questo si inscrive nello spazio. Il passato ha lasciato tracce ed inscrizioni, scrittura del tempo. Ma questo spazio è sempre, oggi come ieri, uno spazio presente, dato come un tutto attuale, con le sue relazioni e connessioni in atto. Di modo che la produzione e il prodotto si presentano come due facce inseparabili, e non come due rappresentazioni separabili. Una obiezione: in questa o quell'epoca, in una determinata società (antica-schiavista, medievale-feudale, ecc.), i gruppi sociali attivi non hanno « prodotto » il loro spazio come si produce un vaso, un mobile, una casa, un albero da frutto. In che modo, allora? La domanda, molto pertinente, copre i «campi» considerati. Effettivamente, nemmeno il neo-capitalismo o capitalismo tecnocratico, nemmeno i pianificatori e i programmatori producono uno spazio in piena e totale conoscenza delle cause, degli 'effetti, delle ragioni e delle implicazioni. Gli esperti di varie « discipline » potrebbero tentare di rispondere a questa domanda. L'ecologo partirà dagli ecosistemi in natura; dimostrerà come l'azione dei gruppi umani perturbi l'equilibrio di tali ecosistemi, e come gli equilibri stessi si ristabiliscano, nella maggior parte dei casi, quando si tratta di società « pre-tecnicistiche » o « archeo-tecnicistiche »; esaminerà in seguito i rapporti fra città e campagna, gli scompensi portati dalla città, la possibilità di un nuovo equilibrio o la sua impossibilità. Avrà così chiarito e spiegato dal suo punto di vista la genesi dello spazio sociale moderno. Gli storici procederanno diversamente, a seconda del metodo e della tendenza; quelli che studiano i fatti stabiliranno il quadro cronologico delle decisioni concernenti il rapporto delle città col loro territorio, la costruzione dei monumenti; altri ricostruiranno l'ascesa e il declino delle istituzioni che diedero luogo agli edifici; altri ancora studieranno economicamente gli scambi

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fra le città e il territorio, città e città, gli Stati e le città, ecc. Per andare pi.ù in là, continuiamo con l'elaborazione dei concetti già indicati. a) la pratica spaziale di una società secerne il suo spazio; lo pone e lo suppone; in una interazione dialettica: lo produce lentamente e sicuramente, dominandolo e appropriandosene. La pratica spaziale di una società si scopre all'analisi, attraverso la decifrazione del suo spazio. Cos'è, nel neo-capitalismo, la pratica spaziale? Essa associa strettamente nella percezione dello spazio la realtà quotidiana (l'uso del tempo) e la realtà urbana (i percorsi e le reti che collegano i luoghi di lavoro, della vita « privata », del tempo libero). Associazione sorprendente in quanto contiene in sé la separazione più profonda fra i luoghi che collega. La competenza e la « performance » spaziale propri ad ogni membro di questa società non sono valutati che empiricamente. La pratica spaziale « moderna » è dunque definita dalla vita quotidiana di un abitante HLM 29 in periferia, caso limite e significativo, anche se non autorizza a escludere le autostrade o la politica degli spazi aerei. Una pratica spaziale deve possedere una certa coesione, che non significa comunque coerenza (intellettualmente elaborata, concepita, e dunque logica). · b) le rappresentazioni dello spazio, cioè lo spazio pensato, quello degli esperti, dei pianificat9ri, degli urbanisti, dei tecnocrati specializzati, di certi artisti dall'atteggiamento più o meno scientifico, che identificano il vissuto con il percepito e con il concepito (ciò che viene perpetuato dalle dotte speculazioni sui numeri: il numero d'oro, i moduli, i «canoni»). È lo spazio dominante in una società (un modo di produzione). Le concezioni dello spazio tendono (con qualche riserva, su cui· occorrerà ritornare) verso un sistema di segni verbali, dunque elaborati intellettualmente. c) gli spazi di rappresentazione, cioè lo spazio vissuto attraverso le immagini e i simboli che l'accompagnano, spazio degli « abitanti » e degli « utenti », ma anche di certi artisti e forse anche di coloro che descrivono e sono convinti di descrivere soltanto: gli scrittori, i filosofi. È lo spazio dominato, dunque subìto, che l'immaginazione tenta di modificare e di occupare. Esso ricopre lo spazio fisico utilizzando simbolicamente i suoi oggetti. Gli spazi di rappresentazione tendono dunque (con le stesse riserve precedenti) verso sistemi più o meno coerenti di simboli e segni non verbali. 29

Habitation Loyer Modéré (N .d.T .) . Casa popolare.

L'autonomizzazione (relativa) dello spazio come « realtà » risultante da un lungo processo - soprattQtto nel capitalismo e nel neo-capitalismo (d'organizzazione) - introduce nuove contraddizioni. Le contraddizioni dello spazio saranno messe a fuoco in seguito. Qui vogliamo soltanto indicare il rapporto dialettico all'interno di questa triplicità: il percepito, il pensato, il vissuto. Triplicità: tre termini, e non due. Un rapporto che implica due termini si riduce ad una opposizione, ad un contrasto, ad una contrarietà; si definisce attraverso un effetto significante: effetto d'eco, di ripercussione, di specchio. La filosofia ha superato con difficoltà i rapporti dualistici: il soggetto e l'oggetto, la « res cogitans » e la « res extensa » di Cartesio, l'Io e il Non-Io dei kantiani, post-kantiani e neo-kantiani. Il « binarismo » non ha più niente a che vedere con le concezioni manichee della lotta accanita fra due principii cosmici; una volta trasferito a livello mentale, esso ha abbandonato la vita, il pensiero, la società (i fatti fisici, mentali, sociali, vissuti, percepiti e concepiti), tutto ciò che costituisce l'attività vivente. Dopo lo sforzo titanico di Hegel e Marx, la filosofia è ricaduta nelle opposizioni cosiddette « pertinenti », trascinando con sé molte scienze specializzate (o da queste trascinata), e determinando i criteri dell'intelligibilità mediante opposizioni e sistemi di opposizioni, con il pretesto della trasparenza. Un sistema di questo genere non avrebbe né materialità né residui; sistema perfetto, si offre all'ispezione mentale come un'evidenza razionale. Il paradigma avrebbe questo potere magico: metamorfosare l'oscurità in trasparenza, spostare l'« oggetto» dall'ombra verso la luce senza deformarlo, con la sua pura e semplice formulazione. In una parola, decifrare. Il sapere si mette al servizio del potere con un'incoscienza ammirevole, sopprimendo le resistenze, le ombre e i loro « esseri ». Per capire lo spazio sociale nei suoi tre momenti, bisogna tornare ai corpi. Dal momento che il rapporto con lo spazio di un «soggetto» membro di un.gruppo o di una società, implica il suo rapporto col proprio corpo, e viceversa. La pratica sociale considerata globalmente suppone un uso del corpo: l'impiego delle mani, delle membra, degli organi sensoriali, i gesti del lavoro e quelli delle attività esterne al lavoro. :B il percepito (base pratica della percezione del mondo esterno, nel senso proprio della psicologia). Le rappresentazioni del corpo derivano da un miscuglio di acquisizione scientifica e di ideologie: l'anatomia, la psicologia, le malattie e i rimedi, i rapporti del corpo umano con la natura, i suoi dintorni e l'« ambiente». Il vissuto corporale raggiunge esso stesso un alto grado di complessità ed estraneità, perché la « cul-

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tura » vi interviene, come illusione dell'immediatezza, nella simbologia e nella lunga tradizione giudaico-cristiana, di cui la psicanalisi svela alcuni aspetti. Il « cuore » -vissuto (fino ai disturbi e alle malattie) è stranamente diverso dal cuore pensato e percepito. E più ancora il sesso. Le localizzazioni non sono per niente facili, e il corpo vissuto, sotto la pressione della morale, arriva ad estraniarsi in un corpo senza organi, castrato e castigato. La triplicità percepito-pensato-vissuto (spazialmente: pratica dello spazio - rappresentazione dello spazio - spazi di rappresentazione) diminuisce la sua portata se le si conferisce lo statuto di un « modello» astratto. O essa investe il concreto (e non l'« immediato»), oppure non ha che un'importanza limitata, quella di una mediazione ideologica fra le tante. Che il vissuto, il pensato e il percepito debbano ricongiungersi, in modo che il «soggetto», il membro di un determinato gruppo sociale, possa passare dall'uno all'altro senza perdervisi, ormai è indispensabile. Possono dunque essi costituire una coerenza? In circostanze fevorevoli, può darsi. Certamente deve esistere un linguaggio comune, un consenso, un codice. Si può suppore che la città occidentale, dal Rinascimento italiano fino al XIX secolo, abbia avuto questa fortuna. La rappresentazione dello spazio sottomise e dominò lo spazio di rappresentazione (di origii:i.e religiosa), ridotto a figure simboliche come il cielo e l'inferno, il diavolo e gli angeli. Pittori, architetti, teorici toscani elaborarono una rappresentazione dello spazio, la prospettiva, -partendo da una pratica sociale; essa stessa era il risultato, come vedremo, di un cambiamento storico capace di modificare il rapporto « città-campagna », nonostante che il senso comune, costretto in parte al silenzio, conservasse quasi intatto uno spazio di rappresentazione ereditato dagli Etruschi attraverso i secoli della romanità e della cristianità. La linea dell'orizzonte, la fuga e l'incontro « all'infinito » delle parallele, determinarono una rappresentazione nello stesso tempo intellettuale e visiva, che comportava la supremazia dello sguardo in una specie di « logica della visualizzazione ». Questa rappresentazione, elaborata per lunghi secoli, entrò nella pratica architettonica e urbanistica: le prospettive, il codi.ce. Per terminare questa indagine e dimostrare, nei limiti del possibile, la teoria qui elaborata, bisognerebbe general;zzare, estendendole a tutte le società, a tutte le epoche, a tutti i « modi di produzione», le distinzioni proposte. Ci accontenteremo di qualche argomento, senza sperare di assolvere il compito fino in fondo. Le rappresentazioni dello spazio sarebbero intrise di un sapere (conoscenza e ideologia insieme) sempre relativo, e in trasformazione. 61

Esse quindi sarebbero oggettive ma modificabili. Vere o false? Non sempre questa domanda ha un senso preciso. La prospettiva è vera o falsa? Anche se certamente astratte, le rappresentazioni dello spazio entrano nella pratica sociale e politlca poiché i rapporti stabiliti fra gli oggetti e le persone nello spazio rappresentato derivano da una logica che prima o poi le fa scoppiare in quanto incoerenti. Gli spazi di rappresentazione, più vissuti che pensati, non si riducono mai né a coerenza né .a coesione. Intrisi di immaginazione e di simbolismo, hanno come origine la storia, quella di un popolo, o quella di un individuo appartenente a quel popolo. Gli etnologi, gli antropologi, gli psicanalisti studiano, che lo sappiano o no, questi spazi di rappresentazione; il più delle volte dimenticando di confrontarli con le rappresentazioni dello spazio che coesistono, si accordano, interferiscono con essi, trascurando in questo modo ancora di più la pratica spaziale. Questi studiosi vi riconoscono facilmente ciò che li interessa: ricordi d'infanzia, sogni, immagini e simboli uterini (buchi, corridoi, labirinti). Lo spazio di rappresentazione si vive, si parla; ha un nocciolo o centro affettivo, l'Ego, il letto, la camera, l'alloggio o la casa; o ancora la piazza, la chiesa, il cimitero. Contiene i luoghi della passione e dell'azione, i luoghi delle situazioni vissute, dunque implica immediatamente il tempo. Per cui può ricevere le qualificazioni più svariate; direzionale, situazionale, relazionale, poiché esso è essen• zialmente qualitativo, fluido, dinamizzato. Se generalizzassimo la distinzione, dovremmo riconsiderare tutta la storia. Cioè dovremmo studiare non soltanto la storia dello spazio, ma quella delle rappresentazioni, così come quella dei nessi che esistono tra di loro, con la pratica, con l'ideologia. Quindi fare la storia della genesi di questi spazi, e soprattutto fare la storia delle loro connessioni, distorsioni, spostamenti, interferenze, e dei loro legami con la pratica spaziale delle società (modi di produzione). Si può dare per scontato che le rappresentazioni dello spazio abbiano una portata pratica, che si inseriscano in trame spaziali, impronte di conoscenze e ideologie attive, modificandole. Le rappresentazioni dello spazio assumerebbero in questo modo un'importanza considerevole e un'influenza specifica nella produzione dello spazio. Come? Attraverso la costruzione, cioè attraverso l'architettura, concepita non come edificazione di quell'« immobile» isolato, palazzo, monumento, ma come un progetto che si inserisce in un contesto spaziale e in una trama, il che richiede delle « rappresentazioni» che non si perdano nel simbolico o nell'immaginario. D'altra parte, gli spazi di rappresentazione non sono produttivi 62

se non di opere simboliche, spesso uniche, a volte determinanti un indirizzo « estetico », che si esauriscono entro un certo limite di tempo, dopo aver suscitato una serie di espressioni e di incursioni nell'immaginario. Questa distinzione deve essere usata con molte precauzioni. Essa potrebbe introdurre facilmente delle dissociazioni, mentre si tratta al contrario di reintegrare l'unità produttiva. Inoltre, non è sicuro a priori che possa essere generalizzata. L'Oriente (la Cina) ha conosciuto la differenza fra gli spazi di rappresentazione e le rappresentazioni dello spazio? Non è affatto certo. :t possibile invece che i suoi ideogrammi contengano indissolubilmente una presentazione dell'ordine del mondo (spazio-tempo), e una appropriazione dello spazio-tempo concreto (pratico e sociale) nel quale si sviluppano i simbolismi, si realizzano le opere d'arte, si costruiscono gli edifici, i templi e i palazzi. Più avanti ritorneremo su questa domanda, senza tuttavia potervi rispondere, per mancanza di una conoscenza precisa dell'Oriente. Al contrario, partendo dalla Grecia e da Roma, tenteremo di mostrare la genesi di questa distinzione, la sua portata e il suo senso nell'Occidente, e per quello che concerne la pratica occidentale. Può darsi del resto che essa non si mantenga inalterata fino all'epoca moderna, o che si verifichino ribaltamenti della situazione (la produttività degli spazi di rappresentazione, per esempio). Certi popoli (diciamo, per esempio, gli Andini del Perù, epoca Chavin) ebbero una rappresentazione dello spazio, di cui testimoniano templi e palazzi 30 , e uno spazio di rappresentazione che figura nelle opere d'arte, scritture, stoffe, ecc. Che relazione ci sarebbe fra questi due aspetti di una stessa epoca? La conoscenza si accanisce oggi a ricostruire concettualmente questa connessione, che non cons:steva affatto nell'applicare alla « realtà » un sapere preesistente. Di qui l'estrema difficoltà di questa ricostruzione: i simboli, che si sentono e si presentono, sfuggono in quanto tali al nostro sapere astratto, senza corpo, senza temporalità, sofisticato, efficace ma « irreale » in rapporto a certe « realtà ». Cosa c'è nella distanza, o nell'interstizio, fra le rappresentazioni dello spazio e lo spazio di rappresentazione? Una cultura? Certamente, ma la pienezza della parola inganna. Il lavoro artistico? Sicuramente, ma di chi, e come? L'immaginazione? Può darsi, ma perché, e per chi? 30 Cfr. F. Herbert Stevens, L'art de l'Amerique du sud, Arthaud, 1973, p. 55 e sgg. Per capire lo spazio medievale, rappresentazione dello spaziospazio di rappresentazione, leggere Le grand et le Petit Albert e soprattutto Le Traité des in{luences astrales, ried. Albin Miche!, 1971.

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La distinzione proposta avrebbe un'importanza ancora maggiore se teoria e .pratica operassero, oggi, ciascuna per conto loro, elaborando l'una gli spazi di rappresentazione, e l'altra le rappresentazioni dello spazio. Per esempio, possiamo immaginare che Frank Lloyd Wright pensasse ad uno spazio di rappresentazione comunitario, derivante da una tradizione biblica e protestante, mentre Le Corbusier ha elaborato una rappresentazione dello spazio tecnidsta, scientista, intellettualistica. Può darsi che occorra spingersi più lontano, fino ad ammettere che i produttori di spazio hanno sempre agito secondo una rappresentazione, mentre gli « utenti » subivano ciò che si imponeva loro, ciò che si introduceva, in modo più o meno giustificato, nel loro spazio di rappresentazione. Come si effettuavano tali manipolazioni? Sta all'analisi rispondere. Se è vero che gli architetti (e gli urbanisti) hanno una rappresentazione dello spazio, da dove la ricavano? A vantaggio di chi essa diventa « operativa »? Se è vero che gli « abitanti » hanno uno spazio di rappresentazione, comincia a chiarirsi un curioso malinteso, ma ciò non significa che esso scompaia nella pratica sociale e politica. La nozione di ideologia, colpita da obsolescenza, va a rotoli, anche se la teoria critica ammette ancora la sua necessità. ~ un concetto che non è mai stato chiarito, e di cui si è sempre abusato: ideologia marxista, ideologia borghese, ideologia proletaria, rivoluzionaria, socialista ecc., (distinzioni incongrue fra l'ideologia in generale e le ideologie particolari, fra « apparati ideologici » e istituzioni del sapere, ecc. Cos'è un'ideologia senza uno spazio al quale si riferisca, che essa descriva, di cui utilizzi il vocabolario e le connessioni, di cui contenga il codice? Cosa sarebbe l'ideologia religiosa, in particolare quella giudaico-cristiana, se non si basasse sui luoghi e sul loro nome: la chiesa, il confessionale, l'altare, il santuario, la cattedra, il tabernacolo, ecc.? Cosa sarebbe la Chiesa senza le chiese? L'ideologia cristiana, portando con sé un giudaismo riconoscibile ma disconosciuto (Dio come padre, ecc.), ha creato degli spazi che assicurano la sua durata. Più generalmente, ciò che chiamiamo « ideologia » acquista consistenza solo quando interviene nello spazio sociale, nella sua produzione, per prendervi corpo. Di per sé, essa non consiste, forse, soprattutto in un discorso su questo spazio? . Se la conoscenza, secondo una formula celebre che deriva da Marx, diventa immediatamente e non più mediatamente una forza produttiva, e questo avviene a partire dal modo di produzione capi64

talistico 31 , il rapporto ideologia-conoscenza cambia. Il sapere assume il ruolo dell'ideologia. L'ideologia, in quanto distinta dal sapere, si caratterizza come retorica, metalinguaggio, dunque vaniloquio ed elucubrazione (e non come sistematizzazione filosoficometafisica, «culture» e «valori»). Di più: ideologico e logico possono essere confusi, nella misura in cui la rféerca ostinata di una coerenza e di una coesione estirpa le contraddizioni dall'alto - informazione e sapere - e dal basso - lo spazio della vita quotidiana. Una rappresentazione dello spazio ha potuto fondere ideologia e conoscenza all'interno di una pratica (sociale-spaziale). Esempio tipico la prospettiva classica, oppure, oggi, lo spazio dei pianificatori, della localizzazione, che assegna a ogni attività un luogo preciso. L'ideologia e il sapere, difficilmente distinguibili, rientrano nel concetto più largo di rappresentazione, che sostituisce da questo momento quello di ideologia. Questo concetto può servire come strumento (operativo) per l'analisi degli spazi, e nello stesso tempo per l'analisi delle società che li hanno generati, e che in questi spazi può ·essere colta. Nel Medioevo, la pratica spaziale comprendeva sia la rete dei · sentieri intorno alle comunità contadine, ai monasteri ai castelli, sia le strade che collegavano le città, le grandi vie dei pellegrinaggi e delle crociate. Le rappresentazioni dello spazio si rifacevano alle concezioni aristotel:che e tolemaiche, modificate dal cristianesimo: la terra, il « mondo » sotterraneo e il Cosmo luminoso, cielo dei giusti e degli angeli, abitato da Dio-padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. Una sfera fissa, in uno spazio finito, tagliato diametralmente dalla superficie terrestre, al di sotto della quale sono posti gli inferi, mentre al di sopra si trovano il Firmamento, la cupola che regge le stelle fisse, le sfere dei pianeti, spazio attraversato da messaggi e messaggeri divini, riempito dalla Gloria luminosa della Trinità: ecco la concezione dello spazio in San Tommaso e nella Divina Commedia. Negli spazi di rappresentazione, al centro del villaggio si trovava la chiesa, e poi il cimitero, il comune, la piazza e la torre. Per quanto riguarda gli spazi di rappresentazione, essi ponevano al centro la chiesa del villaggio, il cimitero, il palazzo municipale e i campi, o ancora la piazza e la torre della città, ques.ti spazi di rappresentazione interpretavano a volte meravigliosamente le rappresentazioni cosmologiche; come la strada di

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31 Cfr. Grundrisse, ed. it. Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1968.

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San Jacopo, copia terrestre della Via della cupola celeste che va dal Cancro al Capricorno, la Via Lattea, cosparsa dello sperma divino da cui nascono le Anime, che seguendo il pendio cadono sulla terra e trovano, se possono, la strada della redenzione: il pellegrinaggio che le porta a Compostela (il campo delle stelle). Anche il corpo, naturalmente, entrava nel gioco delle rappresentazioni dello spazio: « il Toro influenza il collo; i Gemelli le spalle; il Cancro le mani e le braccia; il Leone il petto, il cuore e il diaframma; la Vergine influenza lo stomaco; la Bilancia la parte inferiore dei reni; lo Scorpione gli organi propri della concupiscenza ... » dichiarava Alberto il Grande. Si può supporre che la pratica spaziale, le rappresentazioni dello spazio e lo spazio di rappresentazione intervengono in modi diversi nella produzione dello spazio: secondo le loro qualità e proprietà, secondo le società (modo di produzione) e le epoche. I rapporti fra questi tre momenti - il percepito, il pensato, il vissuto - non sono mai né semplici né stabili, e nemmeno« positivi», almeno non nel senso in cui questo termine si oppone al « negativo », all'indecifrabile, al non-detto, al proibito, all'inconscio. Questi momenti, e le loro mutevoli connessioni, sono dunque coscienti? Si, e tuttavia disconosciuti. Possiamo dichiararli « inconsci »? Sì, perché sono generalmente ignorati, e richiedono un'analisi per uscire dall'ombra, analisi che comporta un certo rischio di errori. Queste connessioni è stato necessario dirle, il che non equivale a saperle, nemmeno inconsciamente. 18. Se c'è una produzione e un processo produttivo di spazio, c'è storia; può così essere formulata la quarta implicazione. La storia dello spazio, della sua produzione in quanto « realtà », delle sue forme e rappresentazioni, non si confonde né con la concatenazione causale dei fatti cosiddetti « storici» (datati), né con la successione, con o senza finalità, dei costumi e delle leggi, delle idee o delle ideologie, delle strutture socio-conomiche o delle istituzioni (sovrastrutture). Le forze produttive (natura, lavoro e organizzazione del lavoro, tecniche e conoscenze) e, naturalmente, i rapporti di produzione, hanno un ruolo - da determinarsi nella produzione dello spazio. E quindi evidente che la transizione da un modo di produzione ad un altro presenta il più grande interesse teorico, in quanto essa è effetto di contraddizioni nei rapporti sociali di produzione, che non possono non iscriversi nello spazio, sconvolgendolo. Se ogni modo di produzione ha, per ipotesi, il suo spazio appropriato, durante la transizione si produce un nuovo spazio. Il modo di produ-

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zione considerato come dato compiuto (sistema chiuso) è considerato come un oggetto privilegiato; e il pensiero, avido di trasparenza o di sostanzialità, o di entrambe, ha una predilezione per per siffatto « oggetto ». Al contrario, le transizioni riveleranno la produzione di uno spazio nuovo, che soltanto in seguito verrà completato. Come accade per la città del Rinascimento, che è dissoluzione dei rapporti feudali e insieme crescita del capitalismo commerciale. Qui si costituisce quel codice cui si è fatto allusione, e la cui analisi (mettendo l'accento sul paradigma) occuperà più avanti un buon numero di pagine; esso, che era in formazione fin dall'antichità, (la città greca e romana, ma anche le ricerche di Vitruvio e dei filosofi), offrirà anche un linguaggio agli scrittori. Questo corrisponde alla pratica spaziale, e senza dubbio alla rappresentazione dello spazio più che agli spazi di rappresentazione, ancora impregnati di magia e di religione. Che il codice si stabilisca significa che la « gente » - abitanti, costruttori, politici - ha smesso di passare dai messaggi urbani al codice attraverso la decifrazione (decodificazione) della realtà, città e campagna, per andare dal codice ai messaggi attraverso la produzione di discorsi e di realtà adeguate. Questo codice ha dunque una storia, che è risultato dell'intera storia della città in Occidente. Esso ha permesso all'organizzazione urbana, sconvolta più volte, di diventare sapere e potere, quindi istituzione; e ha così avviato il declino, la fine dell'autonomia della c:ttà e del sistema urbano come realtà storica. Lo Stato si erge al di sopra delle città storiche: e ne farà esplodere la struttura, e il codice. La sovrastruttura non è la città in se stessa, e lo spazio, e il rapporto « città-campagna » in questo spazio, ma è il codice stesso con cui si fissarono l'alfabeto e la lingua della città, i segni elementari, il loro paradigma e i loro nessi sintagmatici. In termini meno astratti, le facciate si uniformano per determinare delle prospettive; gli ingressi e le uscite, le porte, le finestre, si subordinano alle facciate, alle prospettive; strade e piazze si dispongono ordinatamente intorno ad alcuni edifici, palazzi di capi politici e sedi di istituzioni (le autorità municipali hanno ancora una certa predominanza). Ai vari livelli, dalla dimora familiare al monumento, dallo spazio « privato » al territorio, i diversi elementi di questo spazio si dispongono e si compongono in una maniera insieme nota e sorprendente, che alla fine del XX secolo non ha ancora perduto il suo fascino. Il codice dello spazio poteva nello stesso tempo essere vissuto, capito e prodotto. Non soltanto forniva un metodo di lettura, ma riuniva segni verbali (parole, frasi, e il loro senso, risultante da un processo significante) e segni non-verbali (musica, suoni, richiami, costruzioni architettoniche). 67

La storia dello spazio non può accontentarsi di studiare questi momenti privilegiati: la formulazione, l'instaurazione, il declino e l'esplosione di un codice. Non può lasciare da parte il momento globale: i modi di produzione in generale, le società specifiche, con le loro particolarità, i loro avvenimenti, le loro istituzioni, che furono inglobate da questi modi: la storia dello spazio periodizzerà il processo produttivo in un modo che non coinciderà esattamente con le periodizzazioni ammesse. Lo spazio assoluto consiste in frammenti della natura, in luoghi scelti per le loro qualità intrinseche (caverne o sommità, sorgenti o corsi d'acqua), la cui consacrazione finisce per svuotarli di tali caratteristiche e particolarità naturali. Lo spazio-natura si popola di forze politiche. L'architettura sottrae alla natura un luogo, per assegnarlo, mediante un simbolismo, al politico (la statua di un dio locale o di una dea nel tempio greco, il santuario vuoto o contenente un semplice specchio in un tempio shintoista, ecc.). Un interno consacrato si oppone a un esterno naturale, e tuttavia gli corrisponde e gli assomiglia. Lo spazio assoluto nel quale si svolgono riti e cerimonie trae dalla natura alcune caratteristiche che vengono modificate, per essere incorporate nel cerimoniale: le età, i sessi, la genitalità (fecondità). Civico e religioso nello stesso tempo, lo spazio assoluto custodisce le discendenze, le famiglie, le relazioni immediate, trasferendole però alla città, allo Stato politico che si fonda sulla città. Le forze socio-politiche che occupano questo spazio hanno anche implicazioni amministrative e militari: non restano esclusi né gli scribacchini né gli eserciti. Coloro che fanno lo spazio (contadini, artigiani) non sono coloro che lo gestiscono (preti, guerrieri, scribi, principi) e se ne servono per organizzare la produzione e la riproduzione sociale. Sono questi ultimi che possiedono lo spazio prodotto da altri, e se ne appropriano per il loro piacere. Dallo spazio assoluto, religioso e politico, prodotto da comunità di lingua, di sangue e di territorio, deriva lo spazio relativizzato, storico. Tuttavia lo spazio assoluto non scompare: rimane come stratificazione o come sedimento dello spazio storico, supporto degli spazi di rappresentazione (simbolismi religiosi, magici, politici). Un movimento dialettico lo anima, lo spinge verso la sua fine e insieme lo perpetua: il vuoto e il pieno si combattono in esso. La pienezza invisibile dello spazio politico (quello della città come Città-Stato) s'instaura nel vuoto di uno spazio naturale sottratto alla natura, come l'« invaso » o la « navata» di una cattedrale. Più tardi la storicità spezzerà definitivamente la naturalità, instaurando sulle sue rovine lo spazio dell'accumulazione (di tutte

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le ricchezze e risorse: le conoscenze, le tecniche, il danaro, gli oggetti preziosi, le opere d'arte e i simboli). Di questa accumulazione, e soprattutto della sua fase originaria, nella quale è ancora difficile distinguere naturalità e storicità, Marx ha lasciato una teoria su cui occorrerà ritornare, perché essa resta incompleta. Un « soggetto » domina questo periodo: la città storica occidentale, e il territorio da essa dominato. In questa fase l'attività produttiva (il lavoro) cessa di confondersi con la riproduzione, che perpetua la vita sociale; se ne distacca, per diventare però preda dell'astrazione: lavoro sociale astratto, spazio astratto. Questo spazio astratto è la continuazione dello spazio storico, che a sua volta persiste come sedimentazione e supporto degli spazi di rappresentazione, ormai in via di esaurimento. Lo spazio astratto funziona « oggettualmente » come insieme di cose-segni, con i loro rapporti formali: il vetro e la pietra, il cemento e il ferro, gli angoli e le curve, i pieni e i vuoti. Questo spazio formale e quantificato nega le differenze, quelle derivanti dalla natura e dal tempo (differenze storiche), come quelle dei corpi, delle età, dei sessi e dei gruppi etnici. La significazione di un tale insieme rimanda ad una sovra-significazione che sfugge al senso: il funzionamento del capitalismo, insieme lampante e dissimulato. Lo spazio dominante, quello dei centri di potere e di ricchezza, si sforza di plasmare gli spazi dominati, le periferie, dove, con azioni spesso violente, ostacoli e resistenze vengono annientati. Le differenze si trasferiscono a simbologie, che prendono obbligatoriamente la forma di un'arte essa stessa astratta. In effetti, i simboli che risultano da un disconoscimento dei fatti sensibili, sensuali, sessuali, disconoscimento intrinseco alle cose-segni dello spazio astratto, si oggettivizzano in maniera derivata: apparenza fallica degli edificimonumenti, arrbganza delle torri, autoritarismo (burocratico-politico) immanente allo spazio repressivo. Tutto questo esige un'analisi approfondita. Una delle contraddizioni inerenti allo spazio astratto consiste nel fatto che esso rifiuta sia il sensuale che il sessuale, e tuttavia non ha altro riferimento attuale che la genitalità: fa cellula familiare (alloggio, appartamento, pavillon, villa, ecc.), la paternità e la maternità, presuppongono l'identità fra fecondità e piacere. La riproduzione dei rapporti sociali si confonde così, brutalmente, con la riproduzione biolog;ca, concepita essa stessa in una maniera semplice quanto grossolana. Nella pratica spaziale predomina la riproduzione dei rapporti sociali. La rappresentazione dello spazio, legata al sapere come al potere, non lascia che un posto minimo agli spazi di rappresentazione, ridotti ad opere, immagini, ricordi, il cui contenuto ripudiato (sensoriale, sensuale,

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sessuale) sfiora appena il simbolismo. Se il bambino può vivere in questo spazio ind~fferente all'età e al sesso (e anche al tempo), l'adolescente vi soffre, perché non vi scopre la propria realtà, né come immagine virile o femminile, né come immagine di un possibile piacere. L'adolescente non può affrontare né l'arroganza degli edifici, né l'esibizione dei segni, non può ritrovare le differenze, la naturalità, il sensoriale-sensuale, il sesso e il piacere, che attraverso la rivolta. Lo spazio astratto non si definisce soltanto con la scomparsa degli alberi, l'allontanamento della natura, o con i grandi vuoti statali e militari, le piazze-carrefours, i centri commerciali dove confluiscono le merci, il danaro, le automobili. Non si definisce a partire dal percepito. La sua astrazione non è affatto semplice: non è trasparente, e non si riduce né ad una logica né ad una strategia; questa astrazione non coindde né con quella del segno né con quella del concetto; essa opera negativamente. Questo spazio è la negatività in rapporto a ciò che lo precede e lo sorregge: il dato storico, religioso-politico. Esso opera negativamente anche in rapporto a ciò che vi nasce o vi si introduce, uno spazio-tempo differenziale. Non è affatto un «soggetto», e tuttavia agisce come un « soggetto », trasmettendo e conservando certi rapporti sociali, dissolvendone altri, opponendosi ad altri ancora. Questo spazio astratto funziona invece positivamente in rapporto alle proprie implicazioni tecniche, scienze applicate, sapere legato al potere. Esso è addirittura al tempo stesso il luogo, l'ambiente, lo strumento di queste «positività». Com'è possibile? Dovremmo forse definirlo attraverso l'alienazione reificante, come luogo della merce, diventato merce esso stesso, venduto al dettaglio e all'ingrosso? Può darsi, ma la sua « negatività » non va per questo trascurata. L'astratto non si riduce alla « cosa assoluta ». Lo statuto di questo spazio ci appare fin da ora estremamente complesso. Se dissolve, inglobandoli, gli antichi « soggetti », il villaggio, la città, esso si sostituisce a questi « soggetti », e si costituisce come spazio del potere, col rischio di provocare la sua eventuale (possibile) dissoluzione, a causa dei conflitti contraddizioni) che nascono al suo interno. Siamo dunque di fronte a uno pseudo-soggetto apparente, impersonale, astratto - lo spazio· sociale moderno - che nasconde, offuscandolo con la sua illusoria trasparenza, il vero « soggetto », il potere statale (politico). Su questo spazio, e dentro di esso, tutto è manifesto: tutto è detto e scritto. Quando invece c'è poco da dire, e ancor meno da vivere. Il vissuto è schiacciato, il pensato sovrasta. La storia si vive come nostalgia, la natura come rimpianto. L'orizzonte è alle spalle. L'affettività che assieme al sensoriale-

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sensuale rimane al di qua di questo spazio e non penetra in nessun simbolismo, ha infine trovato un nome per designare tanto un soggetto che la sua negazione da parte dell'assurda razionalità dello spazio: l'inconscio. · A proposito di questo spazio astratto, strumentale (quindi manipolato da tutti i tipi di « autorità», loro luogo e ambiente), prende forma una domanda, la cui importanza sarà messa in evidenza più avanti. Essa si riferisce al silenzio degli utenti. Perché subiscono senza ribellarsi troppo le manipolazioni dei loro spazi e della loro vita quotidiana? Perché le proteste restano limitate a « gruppi illuminati», dunque ad élites che in generale sono risparmiate dalle manipolazioni stesse? Questi ambienti privilegiati, marginali agli ambienti politici, fanno rumore· - e chiacchiere - senza grandi risultati. Perché le proteste non arrivano ai partiti politici cosiddetti « di sinistra »? Perché i politici più accorti pagano cosl cara la loro lucidità? 32 • Il peso della burocrazia è dunque già così forte da rendere impossibile ogni resistenza a livello politico? Le cause e le ragioni di questo sorprendente fenomeno sono molteplici. Sarebbe forse possibile questa strana indifferenza se l'interesse degli « utenti » non fosse distratto verso altre cose? se non ci fossero alibi predisposti alle loro rivendicazioni e richieste? se non ci fosse una sostituzione di questi obiettivi così fondamentali? Allo spazio sociale si sostituisce forse una sua porzione illusoriamente privilegiata, la parte decorata, descritta e imposta dagli scritti (letteratura e giornalismo) e accentuata dai media, in breve l'astrazione, dotata di una terribile forza riduttiva del « vissuto ». Appoggiato da un sapere acritico (positivo), sostenuto da una terrificante capacità di violenza, mantenuto da una burocrazia che si impossessa dei risultati del capitalismo in ascesa e li volge a proprio profitto, questo spazio astratto potrà durare per sempre? Se così fosse, si dovrebbe vederlo come il luogo e l'ambiente della massima abiezione, la stabilità finale prevista da Hegel, il _risultato dell'entropia sociale. Contro questa abiezione, non ci sarebbe altro rimedio che gli spasmi dell'Acefalo (Georges Bataille). La terra bruciata sarebbe l'ultimo baluardo della vitalità irriducibile. Ma in una prospettiva meno pessimistica, si può dimostrare che lo spazio astratto contiene delle contradd,zioni specifiche; queste contraddizioni dello spazio, sono in parte derivate dal tempo storico e poi modificate: a volte aggravate, a volte smussate. In mezzo a 32 Mi riferisco, fra gli altri, al PSU e al suo dirigente, Rocard, battuto alle elezioni del 1973 in Francia; ma anche a McGovem nel 1971, negli Stati Uniti.

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queste vecchie contraddizioni ne nascono di nuove, e forse capaci di portare lo spazio astratto verso la propria fine. La riproduzione dei rapporti sociali di produzione all'interno di questo spazio non può avvenire che attraverso un doppio movimento: dissoluzione dei rapporti esistenti e nascita di nuovi rapporti. Per cui lo spazio astratto, nonostante la sua negatività (o piuttosto a causa di essa), genera un nuovo spazio, che chiameremo spazio differenziale. Perché? Perché lo spazio astratto tende verso l'omogeneità, riduce le differenze (particolarità) esistenti, e perché il nuovo spazio non può nascere (prodursi) che dalla loro accentuazione. Esso ricongiungerà dunque ciò che lo spazio astratto ha disgiunto: le funzioni, gli elementi e i momenti della pratica sociale, porrà fine alle localizzazioni che spezzano l'unità del corpo (individuale e sociale), del corpo dei bisogni, del corpo della conoscenza. Al contrario, distinguerà quello che lo spazio astratto tendeva a confondere, ad esempio la riproduzione soc:ale e la genitalità, il piacere e la fecondità biologica, i rapporti sociali e i rapporti familiari (quando invece una differenziazione sempre più indispensabile li separa, per cui lo spazio del piacere, se riuscirà a prodursi, non avrà niente in comune con gli spazi funzionali, e soprattutto con quello della genitalità: cioè con le cellule familiari e la loro distribuzione in scatole sovrapposte, gli edifici « moderni », le torri, i « complessi urbani, ecc.). 19. Se ogni società produce uno spazio, il proprio spazio, ne derivano alcune conseguenze. Un'esistenza sociale » che si voglia e si dica « reale » senza tuttavia produrre il proprio spazio, rimane un'entità, una specie di astrazione molto particolare; non esce dall'ideologia, cioè dal « culturale ». Cade nel folklore e, pr:ma o poi, deperisce, perdendo nello stesso tempo la sua identità, la sua denominazione, la sua parte di realtà. E questo è già un criterio che ci permètterà di distinguere l'ideologia sia dalla pratica che dal sapere (di distinguere fra loro il vissuto, il percepito e il pensato, e di coglierli nei loro rapporti, nelle loro opposizioni e disposizioni, nel loro reciproco illuminarsi ed occultarsi). Senza alcune dubbio la società medievale (il modo di produzione feudale, con le sue varianti e le caratteristiche locali) ha creato il proprio spazio: uno spazio che si è stabilito su quello precedente, conservandolo come sedimento e supporto di simboli; e che, analogamente, persiste. Castelli, monasteri e cattedrali furono i punti strategici che aggiunsero al paesaggio, già trasformato dalle comunità contadine, le reti dei sentieri e delle strade. Fu lo spazio del take ofj, del decollo dell'accumulazione nell'Europa occidentale, con la città come origine, come culla dell'accumulazione stessa.

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Il capitalismo e il neo-capitalismo hanno prodotto lo spazio astratto che contiene il « mondo della merce », la sua « logica » e le sue strategie su scala mondiale, e insieme la potenza del danaro e dello Stato politico. Questo spazio astratto si appoggia sull'immensa rete delle banche, dei centri di affari, delle grandi unità di produzione, e sullo spazio delle autostrade, degli aeroporti, dei canali d'informazione. Ed è in questo spazio che la città, culla dell'accumulazione, luogo della ricchezza, soggetto della storia, centro dello spazio storico, è scoppiata. Il « socialismo» (quello che oggi si chiama così, in modo confuso; in effetti non esiste una « società comunista », e l'oscuro concetto di « comunismo » serve soprattutto a sostenere due miti solidali, quello dell'anticomunismo e quello della rivoluzione comunista, realizzata qua e là), il Socialismo di stato ha prodotto uno spazio? Questa domanda è molto importante. Una rivoluzione che non produce uno spazio nuovo non si compie fino in fondo; fallisce; non cambia la. vita; modifica soltanto le sovrastrutture ideologiche, le istituzioni, gli apparati politici. Una trasformazione rivoluzionaria si misura sulla sua capacità di intervenire creativamente sulla vita quotidiana, sul linguaggio, sullo spazio, anche se non necessariamente in modo uniforme. Tuttavia la domanda non richiede una risposta precisa. Merita lunga riflessione e pazienza. Non è impossibile che il periodo rivoluzionario, quello del cambiamento intenso, metta in moto le condizioni per un nuovo spazio, la cui realizzazione richiede poi un tempo molto lungo: un periodo di calma. Il prodigioso fermento creativo della Russia sovietica, fra il 1920 e il 1930, ha fallito nell'architettura e nell'urbanistica molto più che in altri campi; e anni sterili seguirono agli anni fecondi. Cosa significa questa sconfitta, questo insterilimento? Dove si trova oggi una produzione architettonica che si possa dire « socialista », o anche semplicemente nuova in rapporto alla corrispondente produzione capitalistica? A Berlino est, nell'ex Stalinallée, ribattezzata Karl Marxallée? A Cuba? A Mosca? A Pechino? A che punto è il confronto fra la società « reale », detta a torto o a ragione socialista, e il progetto di una nuova società, secondo le indicazioni di Engels e Marx? Come concepire e conformare lo spazio globale di una società « socialista »? In breve, a che punto è la prova mediante lo spazio, cioè per mezzo della pratica spaziale, delle società che si pongono in un modo di produzione « socialista »? E più precisamente ancora, che rapporto c'è fra l'intero spazio definito dai rapporti di produzione « socialisti » e il mercato mondiale originato dal modo di produzione capitalistico, che pesa sull'intero pianeta e che su scala planetaria impo-

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ne una divisione del lavoro, una ripartizione dello spazio, delle forze produttive che esso contiene, delle fonti di ricchezza e della sua circolazione? Domande diverse, alle quali oggi è difficile rispondere, per mancanza, di informazioni e conoscenze. E tuttavia, se non c'è invenzione architettonica, creazione di uno spazio specifico, si può parlare di socialismo o non si deve invece parlare di transizione mancata? Come vedremo meglio più avanti, si può dire che ci sono due direzioni, due vie al« socialismo». Nella prima, l'accento viene messo sullo sviluppo economico accelerato, a ogni costo, e per ragioni diverse (competizione, prestigio, potenza). Il socialismo di Stato si accontenta di una versione perfezionata dei processi di crescita capitalistici; mira su due punti strategici: grandi imprese, grandi città (nello stesso tempo enormi unità di produzione e centri di potere politico). Le conseguenzè di questo processo, cioè lo sviluppo ineguale aggravato, il ritardo di regioni e di interi strati di popolazione, sono considerati, in questa prospettiva, fatti trascurabili. Nella seconda via la strategia punta dapprima sulle piccole e medie imprese, e su città di dimensioni ridotte; si sforza di coinvolgere nello sviluppo l'insieme del territorio e della popolazione, senza separare lo sviluppo sociale da quello economico. L'urbanizzazione inevitabile della società non dovrebbe compiersi a scapito di interi settori, accentuando le disuguaglianze di crescita e d, sviluppo, ma dovrebbe procedere superando l'antitesi «città-campagna», e non degradando l'una a favore dell'altra, in un magma indistinguibile. La lotta di classe? Essa interviene nella produzione dello spazio, produzione di cui le classi, frazioni e gruppi di classi, sono gli agenti. La lotta di classe, oggi più che mai, si legge nello spazio. Anzi, è l'unico ostacolo che impedisce allo spazio astratto di estendersi a tutto il pianeta, cancellando letteralmente ogni differenza; essa soltanto ha la capacità di produrre delle differenze che non siano interne alla crescita economica, considerata come strategia, « logica » e « sistema » (differenze indotte o tollerate). Le forme che questa lotta può assumere sono oggi le più svariate e, sicuramente, le azioni politiche delle minoranze ne fanno parte. Nella prima metà del XX secolo, le riforme agrarie e le rivoluzioni contadine hanno rimodellato la superficie del pianeta; la maggior parte di tali modificazioni ha favorito lo spazio astratto, limando (e uniformando) lo spazio precedente, quello dei popoli e delle città storiche. In seguito, le guerriglie urbane e l'intervento delle « masse » fin dentro le città hanno esteso questa azione, soprattutto in America latina. Nel maggio 1968, in Francia, l'occupa74

zione e l'appropriazione del loro spazio da parte degli studenti prima, e degli operai poi, ha annunciato qualcosa di nuovo nel movimento. L'arresto, senza dubbio momentaneo, di questa riappropriazione dello spazio provoca un certo scoraggiamento. Soltanto i bulldozers e le bottiglie molotov potrebbero cambiare lo spazio esistente. Distruggere per costruire? Si, ma cosa? Rifare gli stessi prodotti con gli stessi mezzi di produzione? O distruggere anche i mezzi? Questo atteggiamento minimizza le contraddizioni della società e dello spazio esistente; ammette senza prove la chiusura del « sistema»; e, ricoprendo il sistema stesso di ingiurie, si lascia affascinare ed esalta sconsideratamente la sua potenza. Un tale gauchisme schizofrenico porta dentro di sé le proprie contraddizioni « inconscie ». Il richiamo alla spontaneità assoluta nella distruzione e nella costruzione implica anche la distruzione del pensiero, del sapere, delle capacità inventive, col pretesto che esse non permettono immediatamente una rivoluzione totale e assoluta, che del resto non si sa definire. Occorre tuttavia riconoscere che la borghesia conduce la propria lotta per lo spazio e nello spazio, conservando l'iniziativa. E questo risponde alla domanda precedentemente posta: la passività, il silenzio degli « utenti ». Lo spazio astratto funziona in modo altamente complesso. Così come il dialogo, questo spazio implica un tacito accordo, un patto di non-aggressione, una specie di contratto di non-violenza, cioè di reciprocità, di uso condiviso. Nella strada ogni passante è tenuto a non aggredire chi incontra: l'aggressore che trasgredisce questa legge compie un atto criminale. Un tale spazio suppone una « economia spaziale » omogenea, anche se distinta, all'economia verbale, che, valorizzando agli occhi di tutti certe relazioni in certi luoghi (negozi e boutiques, caffè, cinema, ecc.), suscita di conseguenza dei discorsi connotativi a proposito di questi luoghi, implica un « consenso » e una convenzione: in questi posti si evitano i guai, ci si propone di stare tranquilli, di trovarcisi bene, ecc. Quanto ai discorsi denotativi, cioè descrittivi, essi hanno un aspetto quasi giuridico, che implica anche esso un consenso: non ci si batte per occupare lo stesso luogo, si lasciano degli spazi disponibili, rispettando, nei limiti del possibile, il « buon vicinato », le distanze d'obbligo. Cosa che a sua volta comporta una logica e una strategia della proprietà dello spazio: « ciò che è tuo non è mio, luoghi e cose compresi ». E tuttavia ci sono dei luoghi comuni, dei posti il cui possesso e consumo non possono essere interamente privati, come i caffè, le piazze, i monumenti. Il consenso spaziale qui brevemente descri.tto fa parte della civiltà, come il divieto di certi atti grosso75

lani e offensivi (di fronte a bambini, vecchi, donne e a tutta la popolazione). Esso oppone dunque alla lotta di classe, come ad ogni violenza, un concetto di « non-ritorsione ». Ogni spazio è precedente alla comparsa dell'agente, del soggetto inividuale, e insieme collettivo in quanto sempre membro di un gruppo, di una classe, che tenta di appropriarsi di questo spazio. Questa esistenza presupposta condiziona la presenza, l'azione, il discorso di questo « soggetto », le sue competenze e il suo contributo; e tuttavia la sua presenza, la sua azione, il suo discorso negano, supponendola, questa stessa esistenza: essa diventa l'ostacolo, l'oggettività resistente, a volte imp!acabiimente dura, come nel caso dei muri di cemento, difficilmente modificabile, anche di poco, e per giunta salvaguardata nella sua integrità da drastici regolamenti. Una trama spaziale quindi non dà luogo soltanto ad atti sociali indipendenti e scollegati da essa, ma anche ad una pratica spaziale da essa determinata: cioè ad un uso collettivo e individuale. Dunque ad una concatenazione di atti che non si riconducono ad una pratica significante, anche se la contengono. Nel corso di questi atti· la vita e la morte non sono solo pensate, simulate, dette: sono vissute. Il tempo, dentro lo spazio, consuma, divora l'essere vivente: sacrificio, piacere o sofferenza. Ora, lo spazio della borghesia e del capitalismo, in quanto legato allo scambio (dei beni, delle merci, delle parole, degli scritti, ecc.), implica più di ogni altro il consenso. Occorre forse aggiungere che la violenza, in questo spazio, non sempre rimane nascosta e latente? :t una delle tante contraddizioni, quella fra la sicurezza apparente e la violenza che minaccia senza tregua e qualche volta, qui o là, scoppia. La vecchia lotta di classe fra la borghesia e l'aristocrazia ha prodotto spazi in cui questa lotta è chiaramente evidente: molte città storiche sono state modificate da questo conflitto, che ha lasciato tracce e risultati ev:denti in quanto tali. La borghesia politicamente vittoriosa ruppe lo spazio aristocratico del Marais, nel centro della Parigi storica, lo integrò alla produzione materiale, installò nei sontuosi palazzi dei laboratori, delle botteghe, degli appartamenti; degradò e animò alla sua maniera questo spazio, « popolarizzandolo». Oggi l'élitarismo, imborghesimento alla seconda potenza, vi prolifica: nelle grandi città storiche, la borghesia conserva ancora l'iniziativa. E la conserva su scala molto più grande, con l'esporta-· zione, per esempio, delle industrie « inquinanti » verso paesi poco sviluppati: verso il Brasile in America latina, o verso la Spagna in Europa, inducendo così delle differenze all'interno del modo di produzione. Il bacino del Mediterraneo diventa spazio per il tempo libero 76

dell'Europa industriale. t un caso notevole di una produzione dello spazio ottenuta attraverso differenze interne al modo di produzione; come spazio del tempo libero, e in un certo senso del non-lavoro (vacanze, ma anche convalescenze, riposo, pensionamento, ecc.) il Mediterraneo entra così nella divisione sociale del lavoro; vi si installa una neo-colonizzazione economica, sociale, architettonica, urbanistica. A volte questo spazio tende a superare le restrizioni neocapitalistiche che lo regolano; il suo uso esige delle qualità ecologiche: la disponibilità del sole e del mare, la prossimità fra centri urbani e abitazione provvisoria (hotels, villette); esige cioè una certa specificità qualitat.va, in rapporto ai grandi centri industriali dove domina il quantitativo allo stato puro. Se si accetta questa « specificità » senza critiche, esso potrebbe sembrare lo spazio di una spesa improduttiva, di un grande spreco, di un intenso e gigantesco sacrificio di cose, simboli, energie in eccesso: lo sport, l'amore, il_ rinnovamento più che il riposo. Questa centralità quasi sacrificale delle città del tempo libero si opporrebbe fortemente alla centralità produttiva delle città dell'Europa del Nord. Lo spreco, la spesa, si scoprono alla fine della catena temporale che va dai luoghi del lavoro e dallo spazio produttivista fino al consumo dello spazio, del sole e del mare, fino all'erotismo spontaneo o provocato, alla Festa delle vacanze. Lo spreco e la spesa non si pongono dunque all'inizi0 della catena, come evento originario, ma alla fine, attribuendo così un senso alla catena stessa. Quale illus:one! Quale falsa trasparenza, e che ingannevole naturalezza! Le spese improduttive sono organizzate con cura; centralizzate, attrezzate, gerarchizzate, simbolizzate, programmate, esse costituiscono il profitto dei tour operators, banchieri e promotori di Londra, Amburgo, ecc. In termini più precisi, e per riprendere concetti già noti, nella pratica spaziale del neocapitalismo, con i trasporti aerei, le rappresentazioni dello spazio permettono la manipolazione degli spazi di rappresentazione (gli spazi del sole, del mare, della festa, dello spreco e del consumo). Queste osservazioni hanno lo scopo di rendere più concreta fin da ora la nozione di produzione dello spazio, e di dimostrare come si conduce la lotta di classe sotto l'egemonia della borghesia. 20. « Cambiare la vita », « cambiare la società », non significa niente se non c'è produzione di uno spazio appropriato, Dai costruttivisti sovietici, fra il '20 e il '30, e dal loro fallimento, ci viene questo insegnamento: a rapporti sociali nuovi corrisponde un nuovo spazio, e viceversa. Questo enunciato, implicito nell'enunciato fondamentale, richiederà una lunga analisi. « Cambiare la vi77

ta! ». Questa idea, lanciata da poeti e filosofi, e formulata come utopia negativa, da un po' di tempo è diventata di interesse pubblico, cioè politico, e si diffonde degradandosi in parole d'ordine politiche: « vivere meglio», « vivere diversamente», « fa qualità della vita», « le condizioni della vita », ecc. Da qui, si passa naturalmente all'inquinamento, al rispetto della natura, all'« ambiente ». E il gioco è fatto: eluse la pressione del mercato mondiale, la trasformazione del mondo, la produzione di un nuovo spazio, l'idea ricade nella idealità, mentre invece si dovrebbe, gradualmente o per salti, portare alla luce una pratica spaziale diversa. Fin che la quotidianità rimarrà nello spazio astratto, costretta entro limiti molto concreti, fin che non ci saranno che miglioramenti tecnici di dettaglio (orario dei trasporti, velocità, comfort), fin che gli spazi (del lavoro, del tempo libero, dell'abitazione) resteranno separati, o saranno ricongiunti soltanto dall'istanza politica e sotto il suo controllo, il progetto di « cambiare la vita » resterà uno slogan politico, ora abbandonato, ora ripreso. Il pensiero teorico, che si dibatte in questa situazione cercando, non senza fatica, di aggirare gli ostacoli, avverte da una parte l'abisso delle utopie negative, la vanità della teoria critica, efficace soltanto sul piano verbale e delle rappresentazioni (ideologie), e dall'altra si scontra con le utopie tecnologiche altamente positive, con le prospettive e i programmi. Il pensiero teorico non può che constatare l'applicazione allo spazio (dunque ai rapporti sociali esistenti) della cibernetica, dell'elettronica, dell'informatica, per cercare di trarne qualche insegnamento. La via qui indicata si collega quindi a un'ipotesi strategica, cioè a un progetto teorico e pratico a lungo termine. Progetto politico? Sì e no. Da una parte esso implica una politica dello spazio, ma va oltre la politica, e presuppone un'analisi critica di ogni politica spaziale e di ogni politica in generale. Indicando la strada per produrre un altro spazio, quello di una vita (sociale) diversa, e di un diverso modo di produzione, il progetto supera lo scarto fra scienza e utopia, fra realtà e idealità, fra il pensato e il vissuto, e tende a superare la loro opposizione esplorando il rapporto d.alettico possibileimpossibile », dal punto di vista oggettivo e soggettivo. Il ruolo dell'ipotesi strategica nella conoscenza non ha più bisogno di essere dimostrato. La strategia punta la conoscenza, focalmente, su questo o quel punto, questo o quel nodo, su un determinato concetto o su un certo insieme di concetti; può riuscire o no, richiedere un tempo più o meno lungo, prima di dissolversi o di scindersi. Comunque, anche se in rapporto alle operazioni tattiche della conoscenza e dell'azione è relativamente duratura, essa resta 78

sempre momentanea, quindi soggetta a revisione. Il gioco strategico, prima o poi, viene scoperto. Ed allora il decentramento lacera tutto ciò che è stato costruito intorno ad un centro. Recentemente sono state lanciate parecchie operazioni tattiche e strategiche, aventi come scopo la stabilizzazione (l'establishment, potremmo dire ironicamente) di una fortezza inespugnabile del sapere. Alcuni studiosi, ingenui e astuti nello stesso tempo, hanno espresso la loro fede nella propria scientificità, mettendo in secondo piano le domande che la stessa scientificità pone: la supremazia attribuita al sapere e al vedere nei confronti del vivere. La più recente di queste operazioni strategiche tenta di centrare la conoscenza sulla linguistica e sulle discipline da essa derivate: semantica, semiologia, semiotica. Questa operazione fa seguito ad altri tentativi che avevano centrato la conoscenza sull'economia politica, la storia, la sociologia, ecc. Questa recente ipotesi ha prodotto un gran numero di ricerche, lavori ed opere, alcune di primo piano, altre invece, essendo la gerarchia sempre rivedibile e per niente eterna, sopravvalutate o sottovalutate. Questa certezza, proprio perché mirava alla costruzione di un centro definito e definitivo, è minata sia dall'interno che dall'esterno. Al suo interno essa evoca interrogativi ai quali non può rispondere: il problema del soggetto, per esempio. Lo studio sistematico del linguaggio e/o lo studio del linguaggio come sistema hanno distrutto il « soggetto » in tutte le accezioni del termine. Ed ecco che il pensiero speculativo raccoglie i cocci del suo specchio: occorre un « soggetto », e si ricorre ai vecchi « soggetti » dei filosofi: il Cogito cartesiano (ripreso da Chomsky, con le sue singolari proprietà: l'unicità delle strutture profonde del discorso, la generalità del suo campo di coscienza), o l'Ego husserliano, versione ammodernata del Cogito cartesiano. Ma questo Cogito non può mantenere la sua sostanzialità filosofica (meta-fisica), specialmente se si tenta di confrontarlo con l'inconscio, inventato proprio per sfuggirgli. :È qui che riacquista valore un'osservazione fatta in precedenza. In questa ipotesi ci si attribuisce generosamente lo spazio sociale e fisico, riducendolo allo spazio epistemologico (mentale), allo spaziÒ del « discorso », del Cogito cartesiano. Ci si dimentica che l'« io» pratico, indivisibilmente sociale e individuale, esiste in uno spazio dove possa riconoscersi, a meno di perdervisi. Saltando sconsideratamente dal mentale al sociale e viceversa, si trasferiscono al discorso (e particolarmente al discorso sullo spazio) le proprietà dello spazio in quanto tale. :È vero che si cerca una mediazione fra il mentale e il sociale nel corpo: la voce, i gesti. Ma 79

questo corpo astratto, preso soltanto come mediazione fra il « soggetto » e l'« oggetto », corrisponde poi al corpo pratico e carnale, preso come totalità, con tutte le sue qualità spaziali (simmetrie e d:ssimmetrie), e le sue proprietà energetiche (consumi, economie, sprechi)? Vedremo più avanti come sia sufficiente considerare il corpo nella sua totalità (pratico-sensibile) per focalizzare diversamente la conoscenza, per provocare uno spostamento del centro. La strategia del sapere centrata sul discorso elude la problematica più scabrosa: il rapporto fra sapere e potere. Per giunta, non risponde in maniera soddisfacente nemmeno per il pensiero speculativo al problema teorico che solleva: « gli insiemi, codificati o no, sistematizzati o no, di segni e simboli non verbali, derivano dalle stesse categorie degli insiemi verbali, oppure sono ad essi irriducibili? » Fra gli insiemi significanti non verbali occorre mettere la musica, la pittura, la scultura, certamente il teatro, in quanto comporta, oltre a un testo o a un pretesto, dei gesti, dei costumi, una scena, una messa-in-scena, in breve uno spazio. Gli insiemi non verbali si caratterizzano quindi attraverso una spazialità che non è ridµcibile alla « mentalità ». In un certo senso anche i paesaggi, rurali e urbani, ne fanno parte. Sottovalutare lo spazio, trascurarlo, ridurlo, equivale a sopravvalutare i testi, scritti e scritture, il leggibile e il visibile, riducendo a essi tutto l'intelligibile. L'ipotesi strategica qui considerata si presenta in questo modo: « I problemi teorici e pratici relativi allo spazio acquistano un'importanza sempre più grande. Essi non sopprimono, ma spostano i concetti e le tematiche concernenti la riproduzione biologica, la produzione dei mezzi di produzione e dei beni di consumo». Un modo di produzione non scompare prima di aver liberato le forze produttive e realizzato tutte le possibilità che contiene, ha scritto Marx. Affermazione che può essere considerata sia come un'evidenza, sia come un sorprendente paradosso. Un salto in avanti delle forze produttive - compiuto senza che i rapporti capitalistici di produzione siano scomparsi - sostituisce, o piuttosto sovrappone, alla produzione di cose nello spazio la produzione dello spazio. Questa a sua volta accompagna, almeno in alcuni casi osservabili e analizzabili, la pressione del mercato mondiale e la riproduzione dei rapporti capitalisti di produzione. La borghesia dispoticamente illuminata e il capitalismo hanno parzialmente controllato il mercato delle merci, servendosi dello spazio astratto come strumento, mentre il controllo del mercato dei capitali si dimostra più difficile (difficoltà cosiddette « monetarie »). Da una dominazione politica molto forte, dalla spinta delle forze produttive e da un controllo

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insufficiente dei mercati risulta un caos spaziale a tutti i livelli, dall'unità di vicinato fino all'intero pianeta. La borghesia e il capitalismo riescono già ora faticosamente a dominare il loro prodotto e il loro strumento di dominio: lo spazio. Non possono ridurre la pratica spaziale (il corpo, il dato pratico-sensibile, la pratica sociale-spaziale) al loro spazio astratto. Appaiono e si manifestano nuove contraddizioni, quelle dello spazio. Il caos spaziale generato dal capitalismo, malgrado la potenza e la razionalità dello Stato, non diventa forse il suo punto debole, il suo corpo vulnerabile? Questa ipotesi strategica può influenzare o soppiantare le strategie politiche ormai generalmente accettate, e cioè la rivoluzione mondiale condotta politicamente da un solo paese, da una sola dottrina, da una sola classe, in una parola da un solo centro? II fallimento dell'ipotesi monocentrica ha fatto nascere, come si sa, un'altra ipotesi strategica, quella di una trasformazione portata a termine dal terzo mondo. In effetti non può trattarsi né di una sostituzione dogmatica di una ipotesi con l'altra, né di un superamento puro e semplice dell'opposizione « monocentrismo-policentrismo ». La trasformazione mondiale, detta, con l!Pa parola ormai entrata nell'uso comune,_ « rivoluzione», si rivela veramente mondiale (planetaria) 33 , dunque multipla e multiforme. E dal momento che la teoria si cala nella politica, essa si compie sia sul piano teorico che su quello politico, e si realizza con la tecnica, così come con la conoscenza e con la pratica. Elemento principale, attivo e/o passivo, possono essere stati, in una certa situazione, i contadini, in un'altra delle frange marginali, in un'altra ancora la classe operaia avanzata. In un determinato luogo la trasformazione del mondo assume un ritmo precipitoso e violento, mentre altrove procede in profondità, in modo apparentemente tranquillo, o pacifico. L'ipotesi strategica concernente lo spazio non esclude né il ruolo dei paesi cosiddetti « sotto-sviluppati », né quello dei paesi industrializzati e della classe operaia. Al contrario: essa pone come obiettivo fondamentale la ricomposizione degli aspetti dissociati, l'unità dei movimenti e degli elementi separati. Sforzandosi di concepire l'esperienza mondiale come tale - cioè come un insieme di situazioni diverse dello spazio· mondiale - questa ipotesi si pronuncia contro l'omogeneizzazione imposta dallo Stato, dal potere politico, dal mercato mondiale e dal mondo delle merci, omogeneizzazione che si realizza praticamente mediante e nello sl?azio. 33 Che non si riduce al « gioco mondiale » concepito da K. Axelos, nella sua meditazione filosofica, di derivazione eraclitea.

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L'ipotesi implica l'assunzione delle differenze, comprese quelle naturali, che considera separatamente dall'ecologia (regimi, paesi, luoghi, gruppi etnici, risorse, ecc.). ~ necessario forse dimostrare dettagliatamente che il « diritto alla differenza » ha un senso solo a partire dalle lotte reali combattute per differenziarsi, e che le differenze prodotte nel corso di queste lotte teoriche e pratiche differiscono a loro volta dalle caratteristiche naturali e dalle distinzioni indotte all'interno dello spazio astratto esistente? Sì. Solta11to un'analisi approfondita può evidenziare le differenze che meritano di essere mantenute, e sul cui potenziamento la teoria e l'azione possono puntare. Ricomporre un « codice » dello spazio, cioè un linguaggio comune per la pratica e per la teoria, per gli abitanti, gli architetti, gli scienziati, può essere considerato tatticamente uno dei compiti più immediati. Questo codice recupererebbe innanzitutto l'unità degli elementi dissociati: il pubblico e il privato, l'incontro e la differenziazione nello spazio: esso riunificherebbe i termini dispersi dalla pratica spaziale esistente, e dalle ideologie che la giustificano: il micro (la scala o il livello architettonico) e il macro (di pertinenza degli urbanisti, dei politici, dei pianificatori), il quotidiano e l'urbano, il dentro e il fuori, il lavoro e il non-lavoro (la festa), il durevole e l'effimero, ecc. Il codice sarebbe dunque composto da opposizioni pertinenti (paradigmatiche) riassunte dai termini dissociati, e da legami (sintagmatici) assunti in termini confusi nell'omogeneità dello spazio politicamente controllato. In questo senso, questo codice contribuirebbe ad invertire la tendenza dominante, e si inserirebbe nel progetto. Purché non si prenda il codice per una pratica!" E, di conseguenza, purché non si separi dalla pratica e dai mutamenti della pratica (del processo mondiale di trasformazione) la ricerca riguardante un linguaggio ... Questa elaborazione deve essa stessa sforzarsi di lavorare sul materiale paradigmatico, cioè sulle opposizioni essenziali, nascoste, implicite, non-dette, che orientano una pr_atica sociale, piuttosto che sui nessi espliciti, sulla concatenazione operativa dei termini, in una parola sui sintagmi (il linguaggio, il discorso comune, la scrittura, la lettura, la letteratura, ecc.). Questo codice ha una precisa relazione con un sapere. Raccoglie un alfabeto, un lessico, una grammatica, in un quadro (se così si può dire) globale; si pone in un rapporto di non-esclusione col non-sapere (ignoranza o non-comprens:one), cioè col vissuto e il percepito. E una conoscenza che si sa approssimativa, contemporaneamente sicura e malcerta; si relativizza ad ogni passo, procedendo (o tentando di procedere) in maniera autocritica, senza per 82

questo dissolversi in una apologia del non-sapere, della spontaneità assoluta o della violenza pura. Essa si pone fra il dogmatismo e il non-sapere. 21. Il metodo qui adottato si può chiamare « regressivo-progressivo ». Esso assume come punto di partenza le realtà attuali: il salto in avanti delle forze produttive, la capacità tecnica e scientifica di trasformare tanto radicalmente lo spazio naturale da minacciare la natura stessa. Gli effetti di questa potenza distruttiva e insieme costruttrice si possono constatare ovunque. Essi si assommano, in maniera spesso inquietante, con le pressioni del mercato mondiale. Naturalmente, in questo quadro globale, si dispiega pienamente la legge leninista della disuguaglianza: alcuni paesi sono all'inizio della loro produzione di cose (beni) nello spazio, e soltanto i paesi più urbanizzati e industrializzati utilizzano le nuove possibilità della tecnica e della scienza. La produzione dello spazio, una volta elevata fino al concetto e al linguaggio, reagisce sul passato e vi scopre aspetti e momenti sconosciuti. Il passato si chiarisce in maniera diversa, e di conseguenza si presenta in maniera diversa il processo che va da questo passato al momento attuale. Questo è il metodo proposto da Marx nel suo principale testo « metodologico ». Le categorie (cohcetti) che esprimono· i rapporti sociali esistenti nella società più avanzata, la società borghese, « permettono quindi di penetrare al tempo stesso nella struttura e nei rapporti di produzione di tutte le forme di società passate, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita, e di cui si trascinano in essa ancora residui parzialmente non superati, mentre ciò che in quelle era appena accennato si è sviluppato, ecc.» 34 • Questo metodo, a prima vista paradossale, è. invece molto vicino al buon senso: come capire una genesi, quella del presente, e il suo processo, le sue condizioni, senza partire da questo presente, senza andare da ciò· che è attuale a ciò che è passato, e viceversa? Non dovrebbe essere questo il necessario modo di pro-

34 Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia po. litica, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 33 e sgg. Ci sembra il caso di segnalare alcuni grossolani errori di Panorama des sciences sociales, che attribuisce questo metodo a J.P. Sartre. Ora, nel testo in cui quest'ultimo espone il proprio metodo, cita come sua fonte H. Lefebvre, Perspectives, in « Cahiers Internationaux de sociologie », 1953, articolo ripubblicato in Du Rural a L'Urbain, Anthropos, 1970. Cfr. di J. P. Sartre, Critique de la raison dialectique, p. 41 e 42, e Panorama, p. 89 e sgg. Il riferimento di quest'ultima opera ci sembra dunque doppiamente insufficiente, dal momento che il metodo indicato non è altro che quello del pensiero marxista.

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cedere dello storico, dell'economista, del sociologo, ammesso che questi specialisti abbiano una metodologia? Per quanto chiaro e preciso nella sua formulazione e nella sua applicazione, il metodo di Marx non è tuttavia privo di difficoltà. Queste difficoltà si avvertono già a partire dall'applicazione che Marx fa del suo metodo al concetto e alla realtà del lavoro. La difficoltà principale deriva dal fatto che nell'esposizione e nella ricerca si intrecciano i due movimenti, per cui la parte « regressiva » rischia di tamponare quella « progressiva », di interromperla o di oscurarla; l'inizio si ritrova alla fine, e la fine si presenta all'inizio. Questo costituisce una complessità supplementare per il disvelamento delle contraddizioni che spingono in avanti e di conseguenza, secondo Marx, verso la propria fine, ogni processo storico. :È la stessa difficoltà che incontriamo qui. Un concetto nuovo, la produzione dello spazio, è stato messo inizialmente in evidenza; esso deve « operare » o, come a volte si dice, « lavorare », facendo luce su processi dai quali non può separarsi, in quanto ne deriva. Occorre dunque servirsene lasciando che si dispieghi senza tuttavia ammettere, alla maniera degli hegeliani, la vita e la forza propria del concetto, la realtà autonoma del sapere. Alla fine, dopo aver fatto luce, attraverso la verifica, sulla propria formazione, la produzione dello spazio (concetto teorico e realtà pratica indissolubilmente legati) si espliciterà, e questa sarà la dimostrazione: una verità « in sé e per sé », compiuta e tuttavia relativa. La dialettizzazione del metodo è dunque portata avanti senza che la logica e la coerenza abbiano a soffrirne. Tuttavia ci sono dei rischi di oscur:tà e soprattutto di ripetizioni. Marx stesso non sempre li ha evitati. Egli li conosceva, a tal punto che l'esposizione del Capitale non segue esattamente il metodo esposto nei Grundrisse. La grande esposizione dottrinale parte da una forma, quella del valore di scambio, e non dai concetti posti in primo piano nell'opera precedente: la produzione e il lavoro. Il metodo annunciato nei Grundrisse si ritrova a proposito dell'accumulazione del capitale: Marx mantenne i propri propositi metodologici quando studiò in lngh:lterra il capitalismo più avanzato per comprendere gli altri paesi e lo stesso processo di formazione del capitalismo.

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Capitolo secondo

LO SPAZI O SOCIALE

l. Il progetto richiede un esame molto attento di questi termini e concetti: produzione dello spazio. Approfondimento tanto più necessario in quanto né l'uno né l'altro sono stati chiariti. Secondo l'hegelismo, la produzione ha un'importanza determinante. L'Idea (assoluta) produce il mondo; poi, la natura produce l'essere umano, il quale, a sua volta, attraverso le sue lotte e il suo lavoro, produce la storia, la conoscenza e la coscienza di sé, cioè lo Spirito che riproduce l'Idea iniziale e finale. In Marx ed Engels, il concetto di produzione non esce da una certa ambiguità, che costituisce anche la sua ricchezza. Esso ha due accezioni: una molto larga, l'altra ristretta e più preci~a. Nell'accezione più larga, gli uomini, in quanto esseri sociali, producono la Joro vita, la loro storia, la loro coscienza, il loro mondo. Non c'è niente nella storia e nella società che non sia acquisito e prodotto. La « natura » stessa, come si presenta nella vita sociale agli organi sensoriali, è stata modificata, dunque è stata prodotta. Gli esseri umani hanno prodotto forme giurid:che, politiche, religiose, artistiche, filosofiche, ideologiche. La produzione in senso lato comprende quindi molteplici opere, forme diverse, anche se non tutte portano il segno dei produttori e della produzione (come la forma logica, quella dell'astrazione, che è facilmente considerata atemporale e non-prodotta, cioè metafisica). Né Marx né Engels lasciano però il concetto di produzione nell'indefinito. Lo circoscrivono, ma a questo punto non si tratta più di opere in senso lato; non si tratta che di cose: di prodotti. Precisandosi, il concetto si avvicina all'accezione corrente, perciò banale, quella· degli economisti. Chi produce? Come? Più l'accezione si precisa e meno riguarda la capacità creativa, l'invenzione, l'immaginazione, ma soltanto il lavoro. « Un enorme progresso compl Adam Smith, rigettando ogni carattere determinato dell'attività,

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produttrice di ricchezza, e considerandola lavoro senz'altro ... Con l'astratta generalità dell'attività produttrice di ricchezza, noi abbiamo ora anche la generalità dell'oggetto, definito come ricchezza, e cioè il prodotto in generale, o, ancora una volta, lavoro in generale ... 1• La produzione, il prodotto, il lavoro, concetti che emergono simultaneamente, e che permettono di fondare l'economia politica, sono delle astrazioni privilegiate, delle astrazioni concrete: esse permettono di analizzare i rapporti di produzione. Quanto al concetto di produzione, diventa pienamente concreto e riceve il suo contenuto solo quando si risponde agli interrogativi che esso stesso apre: « Chi produce? Cosa? Come? Perché, e per chi?». Al di fuori di queste domande, e delle loro risposte, esso resta un'astrazione. In Marx ed in Engels il concetto non si forma mai. Soltanto molto più tardi l'economicismo tenterà di rinchiuderlo nella sua accezione più ristretta. « Il fattore che determina in ultima istanza la storia è la produzione e la riproduzione della vita reale >J scrive Engels a Bloch, il 20 Settembre 1890. Frase dogmatica e vaga: la produzione ingloba qui la riproduzione biologica, economica, sociale, senza alcuna precisazione. Quali sono secondo Marx ed Engels le forze produttive? Ne fanno parte la natura, innanzitutto, poi il lavoro, quindi l'organizzazione (la divisione) del lavoro, e infine gli strumenti impiegati, le tecniche, quindi la scienza. L'allargamento del concetto ne ha permesso interpretazioni così ampie da fargli perdere ogni contorno. Produzione di conoscenze, di ideologie, di scritture e significati, di immagini, di discorsi, di linguaggio, di segni e simboli, - lavoro onirico, lavoro dei concetti « operativi », ecc. - questi concetti hanno assunto una tale estensione che la loro comprensione si è diluita, dal momento che chi ha promosso queste estensioni utilizza abusivamente il procedimento che Marx ed Engels impiegarono con buoni intenti: estendere all'accezione allargata, filosofica, la positività di una accezione ristretta, scientifica (economica). Tornare su questi concetti sèmbra quindi particolarmente utile, per rivalutarli e dialettizzarli, nel tentativo di determinare con un certo rigore sia il rapporto « produzione-prodotto », sia le relazioni « opera-prodotto » e « natura-produzione ». Per anticipare in breve ciò che tratteremo più avanti, diciamo innanzitutto che l'opera ha qualcosa di insost:tuibile e unico, mentre il prodotto si può ripetere, in quanto risultato di atti e gesti appunto ripetitivi. La natura crea,

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Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., pag. 31.

ma non produce; essa offre delle risorse all'attività creatrice e produttrice dell'uomo sociale; ma fornisce anche dei valori d'uso, e ogni valore d'uso (ogni prodotto in quanto non scambiabile) ritorna verso la natura, o assume la funzione di bene naturale. La terra e la natura non sono ovviamente separabili. E la natura, produce? Sì, nel senso etimologico del termine: condurre e portare avanti, far uscire dalla profondità. Tuttavia, la natura non lavora; la sua caratteristica è di creare. E quello che crea, cioè « esseri » distinti, emerge e si presenta. Essa ne è inconsapevole (a meno di supporre nella natura un dio ordinatore, una provvidenza). Un albero, un frutto, un fiore non sono dei «prodotti», nemmeno in un giardino; la rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce. « Non si preoccupa di essere vista » (Angelus Silesius); non sa di essere bella, di avere un buon profumo, di presentare una simmetria di grado n, ecc. Come non approfondire, o riprendere, questi problemi? La «natura» non può operare seguendo la stessa finalità degli esseri umani; gli « esseri » che essa crea sono delle opere: hanno « qualcosa » di unico, pur appartenendo a una specie: questo albero, questa rosa, questo cavallo. La natura si presenta come il vasto terreno delle nascite: le « cose » nascono, crescono e maturano, appassiscono e muoiono. Un infinito si nasconde sotto questi termini. Violenta, generosa, avara, abbondante, sempre aperta, la natura si dispiega. Lo spazio-natura non è quello di una messa in scena. Perché? Non c'è un perché. Il fiore non sa di essere un fiore, né la morte sa di morire. Se si associa alla parola « natura » il suo antico prestigio metafisico e teologico, l'essenziale avviene in profondità. Chi dice «-natura », dice spontaneità. Ora, il meno che si possa dire è che la natura si allontana; e certamente si dovrà arrivare all'idea di un assassinio della natura perpetrato dall'anti-natura: l'astrazione, i segni e le immagini, il discorso, ma anche il lavoro e i suoi prodotti. Assieme a Dio, muore anche la natura. L' « uomo » la uccide, e forse nello stesso istante uccide se stesso. « L'uomo », cioè la pratica sociale, crea delle opere e produce delle cose. In entrambi i casi occorre del lavoro, ma per quanto riguarda l'opera il ruolo del lavoro (e del creatore in quanto lavoratore) sembra secondario, mentre esso domina nella fabbricazione di prodotti. Nel precisare il concetto filosofico (hegeliano) di produzione, appellandosi agli economisti e all'economia politica, Marx ha voluto mettere in evidenza una razionalità immanente al concetto

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stesso e al suo contenuto, l'attività. Questa razionalità lo dispensa dal fare appello a una ragione preesistente, divina o « ideale », dunque teologico-metafisica, o a una finalità ultima, posteriore all'azione produttrice, che orienti l'azione stessa. La produzione in senso marxista supera sia l'opposizione filosofica del « soggetto » e dell'« oggetto», sia le relazioni stabilite dai filosofi a partire da . questa separazione. In cosa consiste dunque la razionalità immanente alla produ~~ Nel fatto che essa dispone, in vista di un certo «obiettivo» (l'oggetto da produrre), una serie di atti che si susseguono; che compone, temporalmente e . spazialmente, un ordìiie di opera;io~Tche si concateiianòe Tcuì risulfatisr-irovano ~ :coesistere .. Fin dall'inizio dell'attività orientata verso tale._scopo, elementi spaziali (come i corpi, le membra, gli occhi), ma anche materiali (pietra, legno, òsso, cuoio, ecc.) e i mezzi (arnesi, armi, linguaggio, comandi e paroìe--:-cl'Òrdine), si mettono in movimento, e"l;intelfetto attivo stabilisce delle relazioni, secondo un ord;ne di simultaneità e di sincronismo, fra gH elementi dell'azione materialmente portata avanti. Pitt che le fii varianti o le costaiiff, è questo passaggio ·incessante dalla temporalità (successione, concatenizione) allaspazialitiì (simultaneità, sincronizzazione) .a definire ogni attività produttrice. Essa è inseparabile dalla finalità, quindi dalla-funzionalità (scopo e senso dell'azione, energie investite per la soddisfazione di un « bisogno ») e dalla struttura messa in moto (capacità, abilità, gesti e cooperazione nel lavoro, ecc.). Le relazioni forma.li che permettono la coesione degli atti nel loro ins;eme non sono separate dalle condizioni materiali dell'attività individuale e collettiva, sia che si tratti di spostare un masso, di cacciare della selvaggina, o di realizzare un oggetto, semplice o complicato che sia. La razionalità dello. spazio. non risulta, secondo questa analisi, da una qualità opropriétà deli'azione umàna in generale-, del lavoro umano in quanto tale, dell'« uomo» o àell'organizzaziòn-e·sociale; al ·contrario essa è l'origine e la fonte (non remota, ma flllJDediata, o piuttosto intrinseca) della razionalità attiva, origine nascosta, e tuttavia presupposta dall'inevitabile empirismo di coloro che si servono· delle proprie mani e dei propri attrezzi, che coordinano o combinano i propri gesti, utilizzano le proprie energie. Con tutte queste precisazioni, il concetto di produzione re~ta quell'universale concreto messo in evidenza da Marx partendo da Hegel, e in seguito così confuso e diluito da giustificare certe critiche, che del resto rivelano abbastanza presto il loro scopo tattico: la liquidazione di questo concetto, dei concetti marxisti in generale, e di conseguenza dell'universale concreto in quanto tale (a 90

vantaggio dell'astrazione e dell'irreale, generalizzati in una vertigine nichilista) 2• A destra, se così possiamo dire, il concetto di produzione difficilmente riesce a liberarsi dell'ideologia produttivista, e dell'economicismo grossolano e brutale che ha tentato di impadronirsene. A sinistra (o nel gauchisme), dove le parole, i sogni, i testi e i concetti lavorano e producono per conto proprio, si ha un quadro curioso di lavoro senza lavoratori, di prodotti senza produzione o di produzione senza prodotti, di opere senza creatori (senza « soggetti», né «oggetti»!). Le parole « produzione di conoscenza » hanno un certo significato, riguardante la genesi dei concetti: ogni concetto nasce e si sviluppa; ma senza gli atti e senza i discorsi degli esseri - dei « soggetti-» - sociali, chi potrebbe produrli? Uscendo da questi limiti, l'uso di formule come « produzione di conoscenza » comporta rischi gravi: o si pone il conoscere sullo stesso piano della produzione industriale, accettando la divisione del lavoro esistente e l'uso di macchine (informatiche), senza indagare oltre, oppure si toglie al concetto di produziòne, come a quello di conoscenza, ogni contenuto determinato, sia per l'« oggetto» che per il « soggetto », aprendo le porte alle elucubrazioni e ai deliri dell'irraz:onale. Ma lo spazio (sociale) non è una cosa fra le cose, .un prodotto qualsiasi fra gli altri prodotti; esso avvolge le cose prodotte, e comprende le loro relazioni nella loro coesistenza e simultaneità: ordine (relativo) e/o disordine (relativo); è il risultato di una setie e di un insieme di operazioni, e non può ridursi a semplice oggetto. Tuttavia, non ha affatto i caratteri di una finzione, di una irrealtà o « idealità » paragonabile a qtiella di un segno, di una rappresen• tazione, di un'idea, di un sogno; effetto di azioni passate, esso permette, stimola e proibisce delle az:oni. Fra queste azioni, alcune producono, altre consumano, cioè godono i frutti della produzione. Lo spazio sociale implica conoscenze molteplici: qual è dunque il suo statuto? Il suo rapporto con la produzione? Produrre lo spazio. L'accoppiamento di queste parole non aveva nessun senso, finché i filosofi regnavano sui concetti. Lo spazio dei filosofi può essere creato solo da Dio, come sua prima opera: il dio dei cartesiani (Cartesio, Malebranche, Spinoza, Leibnitz), o l'Assoluto dei post-kantiani (Schelling, Fichte, Hegel). E se più tardi lo spazio appare come una degradazione dell'« essere» che si dispiega nel tempo, questa svalutazione non cambia affatto il

z Cfr.

J, Baudrillard, Le miroir de la production, Casterman, 1973. 91

problema; relativizzato, svalutato, non per questo lo spazio perde i suoi legami con l'assoluto, con la durata (Bergson). Consideriamo una città, spazio forgiato, modellato e occupato da attività sociali, nel corso del tempo storico. Opera o prodotto? Pensiamo a Venezia. Se l'opera è unica, originaria e originale - se occupa uno spazio ma si riallaccia a un tempo, a una maturazione fra una nascita e un declino - Venezia non può non dirsi un'opera. Ecco uno spazio tanto fortemente espressivo e significativo, unico e unitario quanto una pittura o una scultura. Espressivo, o significativo, di cosa? Di chi? Si può dirlo, o cercare di dirlo, all'infinito; il contenuto e il significato sono inesauribili. Per fortuna, chi non è « intenditore » può, senza doverlo conoscere, viverlo come una festa. Chi ha voluto l'unità architettonica e monumentale, che va da ogni singolo palazzo fino a tutta la città? Nessuno, eppure Venezia, più di ogni altra città, testimonia l'esistenza, a partire dal secolo XVI, di un codice unitario, di un linguaggio comune in rapporo alla città. Questa unità è molto più profonda e più alta dello spettacolo offerto al turista; essa comprende la realtà della città e la sua idealità: la pratica, il simbolico, l'immaginario. La rappresentazione dello spazio (il mare, insieme dominato ed evocato), e lo spazio di rappresentazione (le curve squisite, il piacere raffinato, il dispendio sontuoso e crudele della ricchezza accumulata con tutti i mezzi) si rinforzano vicendevolmente; così come lo spazio dei canali e quello delle strade, l'acqua e la pietra, in un doppio intreccio, in un riflesso reciproco. Una teatralizzazione così raffinata, e così poco ricercata, una scenografia involontaria, congiungono e metamorfizzano il quotidiano con le sue funzioni. Con, in più, un pizzico di follia! Il momento della creazione si è dileguato, si avvicina quello della scomparsa. Vivente e minacciata, l'opera commuove colui che la usa per il proprio piacere e che, con questo uso, contribuisce, impercettibilmente, alla sua fine. Come succede per un villaggio, o per un bel vaso. Questi «oggetti» occupano uno spazio che non è prodotto come tale. Guardiamo ora questo fiore: « la rosa non sa di essere una rosa » 3. Certo, la città non si offre come un fiore che ignora la sua bellezza; persone, gruppi ben definiti l'hanno « composta ». Tuttavia essa non ha niente di intenzionale, esattamente come un « oggetto d'arte ». L'opera d'arte! Una tale qualifica sembra a molti l'elogio supremo; tuttavia fra l'opera di natura e l'intenzionalità dell'arte c'è un abisso. Che cosa furono, sostan3 Cfr. il commento di Heidegger al distico di Angelus Silesius, nel Principe de Raison.

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zialmente, le cattedrali? Degli atti politici. Le statue immortalavano uno scomparso, e gli impedivano di nuocere ai vivi. Tessuti e vasi avevano il loro uso. Quando appare l'arte, precedendo di poco il suo concetto, l'opera si degrada. Può darsi che nessuna opera sia stata creata per essere opera d'arte, per cui l'arte, e in modo particolare l'arte della scrittura - la letteratura - annuncerebbe il decl~no delle opere. Può darsi che l'arte, in quanto attività specializzata, abbia distrutto l'opera, per sostituirla lentamente e implacabilmente col prodotto, esso stesso destinato allo scambio, al commercio, alla riproduzione indefinita. Può darsi che lo spazio delle città più belle sia nato allo stesso modo delle piante e dei fiori nei giardini, come opere naturali, quindi uniche, anche se lavorate da esseri molto civilizzati? ... Tutto questo merita attenzione. Esisterebbe una trascendenza dell'opera, rispetto al prodotto? Gli spazi storici, quelli dei paesi e delle città, rientrerebbero dunque soltanto nella nozione di opera, opera di una collettività ancora vicina alla natura, e quindi non avrebbero molto a che vedere con i concetti di produzione e di prodotto, quindi con una « produzione dello spazio »? Ma in questo modo non si feticizzerebbe l'opera, introducendo delle cesure fra la creazione e la produzione, la natura e il lavoro, l'unico e il riproducibile, il diverso e il ripetitivo, e, alla fine, fra il vivo e il morto? In questo modo, si separerebbe brutalmente il dato storico da quello economico. Non c'è bisogno di una lunga osservazione delle città moderne, o delle periferie di nuova costruz;one, per constatare che lì tutto si assomiglia. La dissociazione più o meno spinta fra ciò che chiamiamo « architettura » e ciò che chiamiamo « urbanistica », cioè fra il « micro » e il « macro », fra questi interessi e queste due professioni, non ha accentuato le diversità. Al contrario: è tristemente evidente il fatto che il ripetitivo prevale sull'unicità, il fittizio e il sofisticato sullo spontaneo e il naturale, quindi il prodotto sull'opera. Questi spazi ripetitivi sono il frutto di gesti ripetitivi (i gesti di chi lavora) e di apparecchiature prodotte in serie, a loro volta addette alla ripetizione: macchine, bulldozer, betoniere, gru, martelli pneumatici, ecc. Ma questi spazi omologhi, sono anche interscambiabili? Sono omogenei proprio per poter essere scambiati, comprati, venduti, non esistendo fra di loro che differenze valutabili in danaro, quindi quantificabili (volume, distanze)? La ripetizione regna: uno spazio di questo genere, può ancora dirsi « opera »? Certamente è un prodotto, nel senso più rigoroso del termine: ripetibile, risultato di atti ripetitivi. Dunque, sicuramente, esiste una produzione di spazio, anche quando 93

questa produzione non assume la dimensione delle autostrade, degli aerodromi, delle opere d'arte. Inoltre possiamo notare che questi .spazi hanno un carattere visuale sempre più pronunciato. Sono fatti per essere visti: persone e cose, spazi e ciò che li riempie. Questo carattere dominante, la visualizzazione (più importante ancora dello « spettacolo », che del resto essa include), maschera la ripetizione: la gente guarda, confondendo la vita, la vista, la visione. Si costruisce a partire da dossiers e da piante, e l'acquisto è basato sulle immagini. La vista e la visione, che sono in Occidente le forme classiche dell'intelligibile, si mutano in trappole; esse rendono possibile, nello spazio sociale, la simulazione della diversità, il simulacro della luce intelligibile: la trasparenza. Riprendiamo il caso esemplare di Venezia: certo, spazio unico, meraviglia: opera d'arte? No, almeno secondo un punto di vista preconcetto. Venezia nacque dal mare, ma lentamente, non, come Afrodite, in un istante. All'origine, ci furono una sfida (alla natura, ai nemici), e uno scopo (il commercio). Lo spazio occupato sulla laguna, utilizzando paludi e bassifondi, con sbocchi verso il largo, non è scindibile da uno spazio più vasto, lo spazio degli scambi commerciali, che a quel tempo non erano ancora mondiali, ma diretti soprattutto al Mediterraneo e all'Oriente. Occorreva la continuità di un grande disegno, di un progetto pratico, di una casta politica: la talassocrazia, l'oligarchia mercantile. Dalle prime palafitte piantate nella laguna, ogni piazza è stata progettata e poi realizzata da certe persone: « capi » politici, il gruppo che li sosteneva, coloro che lavoravano per realizzarla. Una volta assolte le esigenze pratiche della sfida al mare - il porto, le strade marittime - ci furono le riunioni, le feste, i riti grandiosi (il matrimonio dei dogi col mare) e insieme l'invenzione architettonica. Qui si coglie il legame fra un luogo elaborato da una volontà e da un pensiero collettivo, e le forze produttive dell'epoca. Questo luogo è stato lavorato: piantare le p·alafitte, costruire i moli e le installazioni portuali, edificare i palazzi, tutto questo fu anche un lavoro sociale, compiuto in condizioni difficili, e subendo le decisioni costr~ttive di una casta che profittava largamente del suo potere. Non c'è dunque produzione attraverso l'opera? Il plusprodotto sociale, anteriore al plusvalore capitalistico, non ne era forse anche l'annuncio? Con questa differenza: a Venezia, il pluslavoro e il plusprodotto sociale si realizzavano, e si spendevano principalmente sul posto: nella città. L'uso estetico di questo plusprodotto, secondo i gusti di gente prodigiosamente dotata, e per di più altamente civilizzata nonostante la sua durezza, non può tuttavia occultare la sua origine: questo splendore oggi in declino riposa a suo modo sui

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gesti ripetitivi di muratori e carpentieri, di marinai e scaricatori, di nobili che si occupavano quotidianamente dei loro affari. Nonostante questo, tutto, a Venezia, racconta e canta la fantasia nel godere, l'invenzione nelle feste, nei piaceri, nei riti sontuosi. Se vogliamo mantenere la distinzione fra opera e prodotto, questa distinzione non ha che una portata relativa. Può darsi che si possa scoprire fra questi due termini una relazione più sottile, che non sia né un'identità né un'opposizione: ogni opera occupa uno spazio, Io genera, Io modella; ogni prodotto, occupando uno spazio, vi circola. Quale relazione esiste fra queste due modalità dello spazio occupato? Anche a Venezia, lo spazio sociale si produce e. si riproduce in connessione con le forze produttive (e i rapporti di produzione). Le forze produttive, nel corso della loro crescita, non si dispiegano in uno spazio preesistente, vuoto e neutro, oppure determinato soltanto dal punto di vista geografico, climatico, antropologico, ecc. Non c'è alcuna ragione che imponga di separare l'opera d'arte dal prodotto, fino a porre la trascendenza dell'opera. E se questo è vero, la speranza di trovare un movimento dialettico per cui l'opera attraversi il prodotto, e il prodotto non inghiotta la creazione nel ripetitivo, non è perduta. La natura - il clima e il luogo - e i precedenti .storici non bastano a spiegare uno spazio sociale. E nemmeno la «cultura». Per giunta, la crescita delle forze produttive non comporta la costituzione di uno spazio e di un tempo che ne siano il risultato, secondo uno schema causale. Mediazioni e mediatori vi si interpongono: gruppi attivi, moventi conoscitivi, ideologici, rappresentativi. Lo spazio sociale contiene oggetti molto diversi tra loro, naturali e sociali, reti e linee, canali di scambi materiali e d'informazione. Non è riducibile né ai singoli oggetti che contiene, né alla loro somma. Questi « oggetti » non sono soltanto delle cose, ma anche delle relazioni. In quanto oggetti possiedono particolarità conoscibili, hanno contorni e forme. Il lavoro sociale li modifica; li colloca diversamente negli insiemi spazio-temporali, anche quando ne rispetta la materialità e naturalità: il loro essere isola, golfo, fiume, collina, ecc. Ecco un altro esempio, ancora tratto dall'Italia. Perché? Perché' in questo paese la storia del precapitalismo è particolarmente ricca, e la preparazione dell'era industriale particolarmente significativa; anche se poi questo vantaggio è stato annullato, nel corso dei secoli XVIII e XIX, da una perdita di velocità e da un relativo ritardo. La Toscana. A partire dal XIII secolo circa, l'oligarchia urbana 95

(commercianti, borghesi) trasforma le proprietà feudali (i latifundia) che essa possiede per eredità o per acquisizione. Su queste terre essa instaura la « colonia parziaria »: sostituisce i servi con i mezzadri. Poiché riceve la sua parte di prodotto, il mezzadro ha più interesse a produrre dello schiavo e del servo. Il movimento che si innesca, e che a sua volta produce una nuova realtà sociale, non si basa né sulla città (l'urbano) né sulla campagna, ognuna considerata a sé, ma sul loro rapporto (dialettico) nello spazio, a partire dalla loro storia. La borghesia urbana vuole contemporaneamente nutrire gli abitanti delle città, investire nell'agricoltura, estendersi sull'intero territorio, alimentare il mercato dei cereali, delle lane, delle pelli, sotto il suo controllo. Essa trasforma cosl il paese e il paesaggio secondo un piano prestabilito e seguendo un modello: i poderi 4 dove abitano i mezzadri, si raggruppano attorno al palazzo in cui, occasionalmente, soggiorna il proprietario, e in cui risiede il fattore. Filari di cipressi collegano i poderi al palazzo. Cosa simbolizza il cipresso? La proprietà, l'immortalità, la perennità. Ed ecco che i filari di cipressi si inscrivono nel paesaggio, conferendogli nello stesso tempo una profondità e un senso. Gli alberi, i filari, intersecandosi, delimitano i terreni e li organizzano. Nel paesaggio si delinea una prospettiva che si conclude nella piazza urbana, fra le strutture che la circondano. La città e la campagna, e il loro rapporto reciproco, hanno generato uno spazio che i pittori (scuola di Siena, la pr:ma in Italia) evidenzieranno, formuleranno, svilupperanno. In Toscana, e altrove nella stessa epoca (nella Francia, che ritroveremo più avanti a proposito della « storia dello spazio »), non ci fu soltanto produzione materiale, e comparsa di nuove forme sociali, o semplicemente produzione sociale di realtà materiali; le forme sociali nuove non si sono « inscritte » nello spazio preesistente; lo spazio prodotto non fu né rurale né urbano, ma fu il risultato della loro relazione spaziale, nuovamente generata. Causa e motivo di questa trasformazione fu lo sviluppo delle forze produttive, dell'artigianato, dell'industria nascente, dell'agricoltura. Ma esso agisce solo attraverso il rapporto sociale « cittàcampagna », e di conseguenza attraverso i gruppi che dello sviluppo sono i motori: l'oligarchia urbana e una frazione dei contadini. Ne risulta una maggior ricchezza, dunque un maggior plus~ prodotto, e questo risultato reagisce a sua volta sulle condizioni che lo determinano. Il lusso, la costruzione dei palazzi e dei monumenti, permettono agli artisti, specialmente ai pittori, di espri' In italiano nel testo.

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mere a modo !oro il processo in atto, di mostrare ciò che vedono. Essi scoprcno e teorizzano la prospettiva perché uno spazio in prospettiva viene loro offerto: perché questo spazio è stato prodotto. L'opera e il prodotto si d:stinguono solo mediante una analisi retrospettiva; una separazione assoluta, una spaccatura, ucciderebbe il movimento generatore o, piuUosto, ciò che ce ne rimane: il suo concetto. Questa crescita, e il relativo sviluppo, avvenivano in mezzo a molti conflitti, lotte di classe (lotte fra aristocrazia e borghesia in ascesa, fra il « popolo minuto » e il « popolo grasso » nella città, lotte fra gli abitanti delle città e quelli delle campagne, ecc.). Questo quadro corrisponde, più o meno, alla « rivoluzione comunale » in una certa parte della Francia e dell'Europa; ma il legame dei diversi aspetti del processo globale è meglio noto in Toscana che altrove, più evidente, e dà risultati più lampanti. Alla fine di questo processo emerge una nuova rappresentazione dello spazio: la prospettiva visiva che appare nelle opere dei pittori, tradotta in forme dagli architetti, poi dai geometri. Il sapere nasce da una pratica, cui si aggiunge una elaborazione: formalizzazione, concatenazione logica. Nel corso di questo periodo, in Italia, in Toscana intorno a Firenze ed a ~:ena, gli abitanti di città e villaggi continuano a vivere il loro spazio in una certa maniera, emotiva, religiosa: si rappresentano un gioco di forze sacre e dannate che si combattono nel mondo, intorno a luoghi privilegiati che sono, per ognuno, il proprio corpo, la propria casa, il proprio territorio, ma anche la propria chiesa, e il cimitero che accoglie i propri morti. Questo spazio di rappresentazione è presente in molte opere (di pittori, di architetti); tuttav~a, alcuni artisti e studiosi giungono talvolta ad una rappresentazione dello spazio ben diversa: uno spazio omogeneo, ben delimitato, con la linea di orizzonte, il punto di fuga delle parallele. ·

2. Verso la metà del XIX secolo, in qualche paese « avanzato », una nuova realtà agita i popoli e stimola gli spiriti, perché pone molti problemi di cui non si intravede ancora la soluzione. Questa « realtà », per usare un termine convenzionale un po' grossolano, non si presenta all'analisi e all'azione in modo chiaro e d~stinto. Nella pratica essa viene chiamata: industria; per il pens:ero teorico si chiama invece: economia politica. Procedono, l'una e l'altra, di pari passo. La pratica industriale fa nascere una serie di nuovi concetti e di nuovi problemi; la rifless:one su questa pratica, legandosi alla riflessione sul passato (la storia) e ad una con97

siderazione critica delle innovazioni (la sociologia), fa nascere una scienza ben presto dominante: l'economia politica. Come procedono, in questa epoca, coloro che si attribuiscono delle responsabilità sul piano della conosce_nza (filosofi, scienziati, e principalmente gli « economisti ») o sul piano dell'azione (politici, ma anche « imprenditori » capitalistici)? Procedono in una maniera che sembra loro solida, irrefutabile, « positiva » (in relazione al positivismo che emerge in questo periodo). Gli uni contano delle cose, degli oggetti; descrivono sia delle macchine (come il geniale Babbage), sia i prodotti di queste macchine, insistendo sui bisogni cui corrispondono le cose prodotte, sui mercati che sono loro aperti: salvo poche eccezioni, si perdono nei dettagli, nei fatti; e si confondono, impegnandosi su un terreno che sembra loro solido (e che lo è). Al limite, le descrizioni di un qualsiasi mezzo meccanico o procedimento di vendita diventano scienza (ma c'è forse bisogno di aggiungere che, in questo campo, non ci sono stati molti cambiamenti da oltre un secolo?). Le cose ed i prodotti, misurati (rapportati ad una comune unità di misura, il danaro), non dicono la loro verità; anzi la nascondono, in quanto cose e prodotti. Parlano, naturalmente, alla loro maniera, col loro linguaggio di cose e prodotti, per proclamare la soddisfazione che arrecano e i bisogni che soddisfano; mascherano sia le quote di lavoro sociale che contengono, sia il lavoro produttivo, che i rapporti so~iali di sfruttamento-oppressione. Il loro linguaggio di cose, come ogni linguaggio, può servire a mentire come a dire la verità. La cosa mente; e mentendo sulla propria origine - il lavoro sociale - mistificandola, la cosa, diventata merce, tende a erigersi ~me assoluto. Il prodotto, e i canali che esso crea (nello spazio) si feticizzano, diventano più « reali » del reale, cioè dell'attività produttrice, impossessandosene. Come è noto, questo processo giunge al suo culmine con l'estensione su scala mondiale del mercato. L'oggetto nasconde qualcosa di molto importante, e lo nasconde tanto meglio quanto più il « soggetto » ha bisogno di lui, e ne ricava un piacere, illusorio o reale (ma come distinguere l'illusione dalla realtà, nel piacere?). L'apparenza e l'illusione non si trovano nell'uso e nel piacere, ma nella cosa, in quanto essa è supporto di segni e di significati menzogneri. Togliere la maschera alle cose per svelare i rapporti (sociali), ecco la forza di Marx, la conquista del pensiero marxista, indipendentemente dai punti di vista politici che vi si riferiscono. Beninteso, quella roccia sulla montagna, quella nuvola e quel c:elo blu, quell'uccello, quell'albero non possono mentire; la natura si offre cosi com'è: crudele, generosa. Non inganna: vi riserva più

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di un brutto tiro, ma senza mentirvi. La realtà cosiddetta sociale è invece doppia, multipla, plurima. In quale misura potrebbe assicurarci una realtà? Essa non lo è p:ù, e non l'ha più, così come

può esserlo un dato materiale. Contiene, implica, delle astrazioni terribilmente concrete (ancora e sempre: il danaro, la_ merce, lo scambio di beni materiali), ed anche delle forme « pure » come quelle dello scambio, del linguaggio, del segno, delle equivalenze, delle reciprocità, contratti, ecc. Secondo Marx, e nessuno ha mai potuto mettere in dubbio questa analisi fondamentale (se non ignorandola), la semplice osservazione delle cose, sia di un oggetto specifico, sia dell'« oggetto » in generale, trascura ciò che le cose contengono, dissimulandolo: i rapporti sociali e le forme di tali rapporti. Se trascura questi rapporti inerenti alle cose sociali, la conoscenza si perde: non può che constatare la varietà indefinita e indefinibile delle cose, e perdersi nelle classificazioni, descrizioni, frammentazioni. Per arrivare a questa rivoluzione e inversione di tendenza che ci rivela una direzione vera, Marx ha dovuto far crollare la certezza di un'epoca: la- grande fiducia nelle cose e nella « realtà ». Il « positivo » e il « reale » sono sempre stati buoni argomenti per il senso comune e per la vita quotidiana; Marx ha dovuto letteralmente dissolverli. Dobbiamo convenire che già i filosofi avevano fatto un buon lavoro, corrodendo le tranquille certezze del senso comune, ma toccò a Marx liquidare gli idealismi filosofici, il richiamo alla trascendenza, alla coscienza, allo Spirito, all'Uomo: oltrepassare la filosofia, salvando la verità. Il cammino di Marx è punteggiato, per chi lo legge ora, di polemiche troppo note, di cui da allora si è abusato: anche se spesso superflue, esse non hanno perduto ogni significato, malgrado le ducubrazioni ancora più superflue degli ortodossi. Già allora, molti si compiacevano dei progressi compiuti dalla razionalità (economica, sociale, politica), vedendo in essi, troppo facilmente, il passaggio ad una realtà « migliore ». Marx rispondeva loro dimostrando che si trattava, solo di una crescita delle forze produttive, che aggravava, invece di risolverli, i problemi cosiddetti « sociali » e « politici ». D'altra parte, a coloro che rimpiangevano i tempi passati, Marx mostrava le nuove possibilità che si aprivano proprio a causa dell'incremento delle forze produttive. Ai rivoluzionari avidi di azione totale e immediata, rispondeva con dei concetti; ai collezionisti di fatti replicava con teorie la cui portata « operativa » doveva· svelarsi soltanto più tardi: organizzazione della produzione in quanto tale, pianificazione. Marx doveva, da una parte, ripristinare i contenuti dai quali si 99

allontanava la tendenza preponderante, quella della classe dominante (non ancora percepita come tale). Quali contenuti? Il lavoro produttivo, le forze produttive, i rapporti e il modo di produzione. E, nello stesso tempo, contro le frammentazioni e suddivisioni in « fatti », in censimenti statistici, egli metteva in evidenza la forma più generale dei rapporti sociali, cioè la forma dello scambio, (il valore di scambio). Per meglio dire, non la forma unica, ma la generalità formale. Consideriamo ora uno spazio qualsiasi, un « intervallo », purché non sia vuoto: questo spazio contiene delle cose, e tuttavia non è una cosa, un « oggetto » materiale. Sarebbe dunque soltanto un « ambiente » fluido, una astrazione semplice, una forma « pura »? No. Esso ha un contenuto. Di questo spazio abbiamo detto che implica, contiene e dissimula dei rapporti sociali, pur non essendo una cosa, ma un insieme di relazioni fra le cose (oggetti e prodotti). Allora sarebbe, o tenderebbe a diventare, la Cosa assoluta? Certamente, dal momento che ogni cosa, diventata autonoma nel corso dello scambio (diventata merce) tende a diventare assoluta, ed è questa tendenza che, secondo Marx, definisce il feticismo (l'alienazione pratica nel capitalismo). Ma la Cosa non ci riesce mai; essa non può rendersi autonoma dall'attività, dall'uso, dal bisogno, dall'« essere sociale». E lo spazio, riesce a diventare assoluto? Questo è il punto centrale. Se guardiamo un campo di grano o di mais, sappiamo bene che l'aratura, la semina, le siepi o le recinzioni, designano dei rapporti di produzione e di proprietà. E che questo è molto meno vero per un territorio incolto, per una landa o una foresta. Dunque uno spazio che appart'.ene alla natura non entra nei rapporti sociali di produzione; come succede del resto per l'albero, o la roccia. Purtroppo la specificità di questi spazi in cui prevalgono particolarità naturali e oggetti dotati di tali particolar:tà si va perdendo, assieme alla natura stessa. Un « parco naturale», nazionale o regionale, è veramente naturale o è un fatto artificiale? La risposta è incerta; un tempo predominante, il carattere « natura » si va attenuando, fino a diventare subordinato. Mentre il carattere soc:ale dello spazio (i rapporti sociali che implica, contiene e dissimula) comincia a prevalere visibilmente. Tuttavia questo tratto caratteristico, la visibilità, non comporta la leggibilità dei rapporti sociali inerenti; al contrarlo, l'analisi di questi rapporti diventa così difficile che a volte sfiora il paradosso. Consideriamo una casa colonica: essa contiene e implica dei rapporti sociali: dà riparo a una famiglia, una certa famigl:a, di un certo paese, in una certa regione, di una certa zona; per giunta, 100

si inserisce in un paesaggio. Bella o povera, è insieme opera e prodotto, pur corrispondendo ad un tipo. Poco o tanto, fa parte della natura. ~ un oggetto intermedio fra l'opera e il prodotto, la natura e il lavoro, il simbolico e il significativo. Genera anche uno spazio? Certo. Questo spazio, allora, è naturale o culturale, immediato o mediato (da chi? per chi?), originale o artificiale? L'uno e l'altro ins'.eme. La domanda è troppo chiara, e la risposta ambigua, ma fra « natura » e « cultura », come fra opera e prodotto, esistono già rapporti molto complessi, ci sono delle mediazioni, così come fra il tempo e l'« oggetto » nello spazio. Paragoniamo fra loro diverse carte geografiche di una stessa regione o di uno stesso paese, la Francia, per esempio. La loro differenza salta subito agli occhi. Alcune, come quelle delle « bellezze naturali», hanno uno scopo chiaramente mistificatorio, accompagnato da un'abile retorica; indicano i luoghi in cui il consumo divorante completa il suo pasto coi resti della natura e del passato, c'.oè si nutre di segni, dei segni di ciò che è storico e di ciò che è originario. A voler credere a queste carte, il turista si sazierebbe di autenticità. Le legendae, codici che permettono la lettura di tali documenti, ingannano meglio delle cose: alla seconda potenza. Ma prendiamo ora una carta delle strade e vie di comun:cazioni francesi: ciò che essa rende noto - ciò che significa non tanto per l'occhio ingenuo, ma per chi l'analizza con.una certa accortezza, è nello stesso tempo chiaro e confuso. La Repubblica, una e indivisa, con al collare il suo nastro malefico, è attraversata da una diagonale: da Berre a Havre, passando per le valli del Reno, della Saone, della Senna, ecco la stretta zona super-industrializzata e super-urbanizzata che confina il resto della vecchia e cara Francia nel sottosviluppo e nella « vocazione turistica ». Quello che fino a ieri era un segreto di Stato, nascosto negli uffici dei burocrati, è diventato oggi (estate 1973) una banale verità. Ma è subito meno banale se si completano le carte turistiche con quelle delle installazioni mil:tari, nel Sud della Francia. Si potrà facilmente constatare come questa grande regione, votata, salvo settori ben definiti, al turismo e ai parchi nazionali, quindi al deperimento economico e sociale, sia strettamente controllata dall'esercito, che trova in queste regioni periferiche un ambiente adeguato alle sue diverse attività. Questi spazi sono prodotti. Prodotti a partire da una « materia prima » la natura. Sono i prodotti di una attività che implica l'economia, la tecnica, ma va oltre: sono prodotti politici, spazi strategici; « strategia » che comprende progetti e azioni molto diversi, che utilizzano insieme la pace e la guerra, il commercio delle 101

armi e le forze deterrenti in caso di crisi, l'impiego delle risorse proprie agli spazi periferici e di quelle provenienti dai centri (industrializzati, urbanizzati, statalizzati). Lo spazio non è mai prodotto come un chilogrammo di zucchero, o un metro di tela. E non è nemmeno la somma dei luoghi di questi prodotti: lo zucchero, il grano, la tela, il ferro. Sarebbe dunque uno sovrastruttura? No, ma piuttosto è la sua condizione e il suo risultato: lo Stato, e ognuna delle istituzioni che lo compongono, presuppongono uno spazio, e lo gestiscono secondo le loro esigenze. Lo spazio non è dunque una « condizione » a priori delle istituzioni, e dello Stato che le sovrasta. f:. un rapporto sociale? Lo è certamente, ma poiché è intrinseco ai rapporti di proprietà (la proprietà del suolo e della terra, in particolare), e legato, d'altra parte, alle forze produttive (che modellano questa terra, questo suolo), lo spazio sociale manifesta la propria polivalenza, la sua « realtà » insieme formale e materiale. Prodotto che si utilizza e si consuma, è anche mezzo di produzione: rete di scambi, flusso di materie prime e di energie, che modellano lo spazio e ne sono determinati. Questo mezzo di produzione, prodotto in quanto tale, non può separarsi né dalle forze produttive, dalle tecniche e dal sapere, né dalla divisione del lavoro sociale, che lo modella, né dalla natura, né dallo Stato e dalle superstrutture. 3. Dunque il concetto di spazio sociale si sviluppa allargandosi: si introduce all'interno del concetto ·di produzione fino a invaderlo, e a diventarne il contenuto forse essenziale. Esso genera allora un movimento dialettico specifico, che pur non abolendo il rapporto « produzione-consumo » attinente alle· cose (beni, merci, oggetti di scambio), lo modifica e lo amplia. Si comincia a intravedere una unità, fra i livelli, spesso separati, dell'analisi: le forze produttive e le loro componenti (natura, lavoro, tecnica, conoscenza), le strutture (i rapporti di proprietà), le sovrastrutture (le istituzioni e lo Stato stesso). Quante carte di carattere descrittivo (geografico) sarebbero necessarie per esaurire uno spazio sociale, per codificarne e decodificarne i contenuti e i significati? Forse non si potrebbero enumerare; anzi, compare qui il non-numerabile, una specie di infinito attuale, come nei quadri di Mondrian. E non sono soltanto i codici a cambiare (le legendae, le convenzioni di scrittura e di lettura), ma gli oggetti stessi, gli obiettivi e le scale. L'idea di un piccolo numero di carte, o di una carta esclusiva e privilegiata, può essere coltivata solo da una specializzazione che si afferma isolandosi. Sarebbe del resto difficile, o impossibile, oggi, un inventario 102

cartografico dei dati più importanti. Dove, come, da chi e per chi vengono raccolte e manipolate le informazioni? Come e per chi funziona il software? Ne sappiamo abbastanza per sospettare l'esistenza di uno spazio dell'~nformatica, ma non abbastanza per descriverlo o conoscerlo. Non esiste uno spazio sociale, ma più spazi sociali, anzi una molteplicità indefinita, di cui il termine « spazio sociale » indica l'insieme non-numerabile. Nel corso della crescita e dello sviluppo nessun spazio scompare. La scala mondiale non abolisce quella locale. Non si tratta di una conseguenza della legge dello sviluppo ineguale, ma di una legge propria. L'implicazione degli spazi sociali è una legge. Presi isolatamente, non sono che una astrazione; ma, astrazioni concrete, essi esistono « realmente » sotto forma di reti e linee, mazzi e fasci di relazioni. Per esempio, le reti di comunicazione su scala mondiale, quelle di scambio, di informazione. Ma quelle più recenti non relegano nel nulla sociale le vecchie reti, sovrappostesi l'una all'altra nel corso dei secoli, cioè i diversi mercati: il mercato locale, quello regionale, nazionale, internazionale - il mercato delle merci, quello del danaro e dei capitali, quello del lavoro, quello delle opere, simboli e segni - quello infine, ultimo venuto, degli spazi stessi. Ogni mercato, nel corso del tempo, si è consolidato e concretizzato in una rete: -i punti di vendita e di acquisto per gli scambi delle merci, sulle strade commerciali; le banche e borse dei valori per la rete bancaria e la circolazione dei capitali; il mercato del lavoro, ecc. Tutto ciò si materializza nella città, in edifici adeguati. Lo spazio sociale, e soprattutto lo spazio urbano, appaiono fin da ora nella loro molteplicità, paragonabili a quella di una « sfogliata » (come in un « millefoglie »), più che all'omogeneità-isotropia dello spazio matematico classico (eucl:deo-cartesiano). Gli spazi sociali si compenetrano e/o si sovrappongono. Non sono delle cose, limitate le une dalle altre che si urtano coi loro contorni, o il risultato delle loro inerzie. Certi termini, come « striscia » o « strato », non sono privi di inconvenienti: metafore più che concetti, essi avvicinano lo spazio alle cose, e di conseguenza rinviano il concetto all'astrazione. Anche le frontiere visibili (per esempio i muri, e ogni recinzione in generale) creano l'apparenza di una separazione fra spazi che sono insieme contigui e continui: lo spazio di una « stanza », di una camera, di una casa, di un giardino, separato dallo spazio sociale con muri e barriere, con tutti i segni della proprietà privata, non cessa per questo di essere spazio sociale; questi spazi non sono degli « ambienti » vuoti, dei contenenti separabili dal loro contenuto. Prodotti nel corso del tempo, 103

distinti. ma non dissociabili, non si possono paragonare né agli spazi locali di certi astronomi (Hoyle), né a delle sedimentazioni, ammesso che questa metafora sia più giusta di un paragone matematico. Forse dovremmo ricorrere alla dinamica dei fluidi: il principio della sovrapposizione di piccoli movimenti ci insegna che la scala, la dimensione, il ritmo giocano un grande ruolo. I vasti movimenti, i ritmi ampi, le grosse onde si urtano e interferiscono. I piccoli movimenti si compenetrano; ogni luogo sociale non può dunque essere compreso che secondo una doppia determinazione: trasportato, trascinato, a volte spezzato dai grandi movimenti - che produrranno delle interferenze - ma anche attraversato, penetrato dai piccoli movimenti che formano reti e trafile. Rimane ora da capire cos'è che produce i diversi movimenti, ritmi, frequenze, cos'è che sostiene e mantiene la gerarchia precaria di grandi e di piccoli, di strategie e di tattiche, di reti e di luoghi. La dinamica dei fluidi suggerisce una metafora che sembrerebbe contenere un'analisi e una spiegazione; ma, spinta oltre un certo limite, questa analisi si trasformerebbe in errore. Se c'è un paragone possibile fra i movimenti fisici (onde, tipi di onde, « quanta » associati, cioè classificazione di radiazioni secondo la lunghezza di onda) l'analogia che orienta l'analisi non può però reggere l'intera teoria. Questa comporta una conseguenza paradossale: più la lunghezza d'onda è corta, più la quantità relativa di energia contenuta nell'elemento semplice è elevata. Scopriremo anche per lo spazio sociale qualcosa di analogo a questa legge dello spazio fisico? Può darsi, se è vero che la « base » pratica e sociale conserva una esistenza concreta, se è vero che la contro-violenza che si alza per combattere questo grande movimento strategico ha sempre un'origine particolare e locale, l'energia di un « elemento » alla base, di un «movimento» elementare. Comunque sia, i luoghi non si giustappongono soltanto nello spazio sociale, in contrasto con quelli dello spazio-natura. Essi si interpongono, si compongono, si sovrappongono, e a volte si urtano. Ne risulta che la dimensione locale (quella « puntuale », determinata da questo o quel « punto ») non scompare assorbita dalla dimensione regionale, nazionale, mondiale. Il nazionale e il regionale avvolgono molti « luoghi »; lo spazio nazionale ingloba delle regioni; quello mondiale non soltanto avvolge spazi nazionali, ma ne provoca (fino a nuovo ordine) la formazione, causando un notevole fraz:onamento. Lo spazio sociale comincia a manifestare la sua ipercomplessità: unità individuali e particolarità, fissità relative, movimenti, flussi e onde, gli uni si compenetrano, le altre si affrontano. Il principio della compenetrazione e della sovrapposizione degli 104

spazi sociali comporta una indicazione preziosa: ogni frammento di spazio prelevato per l'analisi non contiene un rapporto sociale, ma una molteplicità che l'analisi stessa rivela. Del resto lo stesso accadeva per gli oggetti: corrispondendo a dei bisogni, essi erano il risultato di una divisione del lavoro, entravano nei circuiti di scambio, ecc. L'ipotesi iniziale, allargata e amplificata, può ora essere formulata in questi termini: a) Es;ste una certa analogia fra la situazione attuale (pratica e teorica) e quella che tendeva a stabilirsi nella metà del XIX secolo. Un insieme di nuovi problemi (una «problematica», come si dice nel vocabolario dei filosofi) sposta quelli vecchi, vi si sostituisce e vi si sovrappone, senza tuttavia abolirli. I marxisti cosiddetti più ortodossi -negheranno questa situazione, poiché essi si attengono solidamente all'esame della produzione nel senso abituale: produzione di cose, di « beni », di merci. Al massimo ammetterebbero che, essendo la « città » un mezzo di produzione (qualcosa di più dei « fattori produttivi » che raccoglie), esiste un conflitto fra il carattere sociale di questa produzione e la proprietà privata dei luoghi. Cosa che volgarizza sia il pensiero che la critica. Sembra che alcuni arrivino persino a dire che i problemi relativi allo spazio, alla città, alla terra e all'urbano oscurano la ·« coscienza di classe», e nuociono alla lotta di classe. Questa sciocchezza merita forse che ci dilunghiamo su di essa? No, tuttavia più avanti ci torneremo sopra. b) La problematica dello spazio è fondamentale; dal momento che implica quella relativa all'urbano (la città e la sua estensione), e al quotidiano (i consumi programmati), essa sposta la problematica relativa all'industrializzazione. Senza tuttavia abolirla, dal momento che i rapporti sociali preesistenti sussistono, e che il problema nuovo consiste precisamente nella loro riproduzione. e) Ai tempi di Marx, la scienza economica (i tentativi· per costituire in scienza l'economia politica) si perdeva nell'enumerazione e descrizione di prodotti (oggetti, cose). Già allora gli specialisti si dividevano i compiti, servendosi di concetti o pseudo-concetti che ancora non si chiamavano « operativi » ma che tuttavia permettevano di classificare e di enumerare le « cose », di ordinarle su dei livelli mentali. A questo studio delle cose considerate « in sé », indipendentemente le une dalle altre, Marx sostituì l'analisi critica dell'attività produtt:va stessa (lavoro sociale, rapporti e modo di produzione). Riprendendo e rinnovando l'iniziativa dei fondatori della scienza cosiddetta economica (Smith, Ricardo) egli vi aggiunse la

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analisi critica del capitalismo, portando così la conoscenza ad un livello più elevato. d) Forse che un procedimento analogo non si impone anche oggi? A questo punto, lo spazio deve essere analizzato come lo fu. rono allora le cose nello spazio: evidenziando al suo interno i rapporti sociali. La tendenza dominante frammenta e suddivide lo spazio, enumera contenuti, cose, oggetti diversi, mentre varie specializzazioni se lo dividono e agiscono su di esso spezzettandolo, creando barriere mentali e chiusure pratico-sociali. Così l'architetto avrebbe in dotazione (privata) lo spazio architettonico, l'economista lo spazio economico, il geografo il suo « luogo », il suo « bene » al sole nello spazio, e così via. La tendenza ideologicamente dominante ritaglia seèondo la divisione del lavoro sociale parti e particelle dello spazio, e si rappresenta le forze che lo occupano come un ricettacolo passivo. Invece di mettere in evidenza i rapporti sociali impliciti negli spazi (compresi i rapporti di classe), invece di occuparsi della produzione dello spazio e dei rapporti sociali inerenti a questa produzione (che introducono in essa delle contraddizioni specifiche, risultanti dalla contraddizione fra proprietà privata dei mezzi di produzione e carattere sociale delle forze produttive), si ricade nella trappola dello spazio « in sé»: nella trappola della spazialità, del feticismo dello spazio. Come allora si cadeva nelle trappole dello scambio, del feticismo delle merci e della « cosa » considerata isolatamente, presa « in sé ». e) Non c'è alcun dubbio che la problematica dello spazio nasca dallo sviluppo delle fom; produttive (termine più esatto che quello di «sviluppo» in generale, astrazione satura di ideologie). Le forze produttive e le tecniche permettono di intervenire a tutti i livelli dello spazio: locale, regionale, nazionale, planetario. Viene modificato lo spazio intero (geografico e storico) senza però abolirne le implicazioni, i « punti » iniziali, i primi focolai e nodi, i luoghi (località, regioni, paesi) posti ai diversi livelli dello spazio sociale, che sostituisce allo spazio-natura uno spazio-prodotto. Dallo spazio prodotto, dallo spazio della produzione (produzione delle cose nello spazio), il pensiero speculàtivo passa alla produzione dello spazio in quanto tale, dovuta alla crescita (relativamente) permanente delle forze produttive, ma nel quadro discontinuo (relativamente) dei rapporti e dei modi di produzione. Ne risulta che per cogliere il concetto proposto, cioè la produzione dello spazio, occorre innanzitutto dissipare le ideologie che mistificano l'uso delle forze produttive all'interno dei modi di produzione in generale, e in particolare del modo di produzione esistente. Occorre dunque distruggere le ideologie della spazialità (astratta), le suddivisioni e rappresenta106

zioni dello spazio, cioè le ideologie che non si presentano come tali, ma si dichiarano scienza. Questa critica deve la sua difficoltà e complessità al fatto che si occupa allo stesso tempo sia delle forme (mentali) dello spazio, sia dei suoi contenuti pratici (sociali). f) La scienza dello spazio si cerca da anni, attraverso diverse strade: la filosofia, l'ecologia, l'epistemologia, la geopolitica, l'analisi dei sistemi (analisi dei sistemi decisionali e di quelli conoscitivi), l'antropologia, l'etnologia, ecc. Questa scienza virtuale, molto vicina, non si raggiunge mai. Un supplizio di Tantalo, per gli studiosi. Cominciamo ora a capire perché. La conoscenza dello spazio oscilla fra descrizione e frammentazione; si descrivono delle cose nello spazio o dei pezzi di spazio; si ritagliano degli spazi parziali nello spazio sociale. Si presenta così uno spazio geografico o etnologico, uno spazio della demografia, uno dell'informatica, ecc. Oppure uno spazio pittorico, uno spazio musicale, uno spazio plastico, dimenticando che così si procede nel senso di una frammentarietà voluta non soltanto dal linguaggio e dagli specialisti, ma dalla società esistente, che ritaglia sé stessa in spazi eterogenei all'interno di una totalità severamente controllata, dunque in questo senso omogenea: gli spazi per l'habitat, per il lavoro, per il tempo libero, gli spazi dello sport, del turismo, dell'astronautica, ecc. L'attenzione si perde e disperde in considerazione sulle cose nello spazio (le cose, prese a parte, rapportate a se stesse, al loro passato, ai loro nomi), oppure sullo spazio vuoto (separato da ciò che contiene): una volta, dunque, sugli oggetti nello spazio, l'altra, invece, sullo spazio neutro, privo di oggetti. Si tratta dunque di una conoscenza dirottata verso aspetti parziali e rappresentazioni, integrata, senza saperlo, alla società esistente, operante all'interno dei suoi quadri. Spesso si abbandona il globale, accettando la frammentarietà e raccogliendo le briciole; altre volte si « totalizza » arbitrariamente, a partire da questa o quella specializzazione. Occorrerà dimostrare la differenza fra la « scienza dello spazio », cercata o sognata, e la conoscenza della sua produzione, che, diversamente dalle varie interpretazioni e rappresentazioni, ritroverà il tempo (innanzitutto quello della produzione) dentro e attraverso lo spazio. g) Questa conoscenza ha una portata retrospettiva ed una portata di prospettive. Se tale ipotesi fosse verificata, avrebbe conseguenze, per esempio, sulla storia, e sulla conoscenza del tempo. Permetterebbe di capire meglio in che modo le società diedero origine al loro spazio e al loro tempo (sociali), cioè ai loro spazi di rappresentazione e alle loro rappresentazioni dello spazio. Inoltre dovrebbe permettere, non una previsione del futuro, ma un apporto 107

di elementi per una prospettiva del futuro: per il progetto di un altro spazio e di un altro tempo in un'altra società, possibile o impossibile ...

4. Critic_;a dello spazio? Proposto aprioristicamente, questo progetto rischierebbe di passare per un paradosso intellettualmente scandaloso. Ha forse un senso parlare di critica delhspazio? Si può criticare qualcosà o qualcuno, ma lo spazio non è né l'una, né l'altro. Come direbbe un filosofo, non è né un soggetto né un oggetto. Come abbordarlo? Esso sfugge alla presa dello spirito critico, quello spirito che sembra aver raggiunto i suoi limiti con la « teoria critica», versione affievolita del marxismo. E non potrebbe essere questa la ragione per cui non esiste ancora, accanto alla « critica d'arte », alla « critica letteraria », alle critiche teatrali, musicali, ecc., una critica architettonica ed urbanistica? Apparentemente la sua esistenza si impone: il suo « oggetto » ha per lo meno altrettanta importanza, e interesse, che gli altri oggetti estetici di consumo corrente; si tratta, come si dice, del « quadro di vita ». Ma la critica letteraria, pittorica, teatrale ha per oggetto delle persone, delle istituzioni: pittori, mercanti di quadri, gallerie, esposizioni, musei oppure editori, scrittori, il mercato del consumo culturale. Lo spazio architettonico ed urbanistico sembra fuori portata. Sul piano teorico i suoi nomi sono prestigiosi: leggibilità, visibilità, intelligibilità; sul piano sociale si pone come l'intangibile risultato della storia, della società e della cultura, in esso riunite. L'assenza di una critica ·dello spazio deriverebbe allora soltanto dalla mancanza di un linguaggio adeguato? Può darsi, ma questa mancanza stessa nasce da ragioni che bisogna scoprire. Tuttavia se· gli spazi non nascono né dall;immagine mitica di una trasparenza pura, né dal mito inverso, l'opacità naturale; se mistificano ciò che contengono attraverso significati, non-significati e sovra-significati; se a volte mentono come le cose, pur non essendo cose, la critica dello spazio ha un senso. Questa critica potrebbe anche svelare apparenze che non sono affatto ingannevoli. Prendiamo, per esempio, una casa, una strada. Questa casa di sei piani ha un aspetto tanto stabile da poter essere considerata un simbolo della stab:lità: cemento armato, linee nette, fredde, rigide. Costru:ta verso il 1950, quindi non ancora tutta metallo e cristallo. Ci accorgiamo però che la sua rigidità non resiste all'analisi. Infatti, se immaginiamo di spogliare questo edificio del suo rivestimento di cemento, delle sue pareti sottili quasi come tende, cosa rimane? Un flusso di energie che lo percorrono e lo attraversano da parte a parte: l'acqua, il gas, l'elettricità, il telefono, le 108

onde della radio e della televisione. La fissità si risolve in un nodo di mobilità, di condutture che portano ed evacuano. Un'immagine più esatta di un disegno o di una foto mostrerebbe la convergenza di queste onde e flussi, e rivelerebbe, contemporaneamente, in questo « immobile», cosa apparentemente statica, una doppia macchina analoga ad un corpo attivo: macchina ad energia massiva, macchina informatica. Gli abitanti della casa percepiscono, recepiscono, manipolano queste energie, che la casa stessa consuma in modo massiccio (per l'ascensore, per la cucina e il bagno, ecc.). Come del resto la strada intera, rete di canalizzazioni che costituiscono una struttura, hanno una forma globale e delle funzioni da compiere; come la città, che consuma ed esaurisce energie colossali, sia fisiche che umane, e risplende e brucia come un braciere. Una rappresentazione il più possibile esatta di questo spazio sarebbe dunque molto diversa dallo spazio di rappresentazione presente nella mente di chi lo abita, e che, comunque, fa parte integrante della pratica sociale. Ne consegue un errore, o forse un'illusione: la messa al bando dello spazio sociale, che elude il proprio carattere pratico per diventare una specie di assoluto alla maniera dei filosofi. In modo che l'« utente», di fronte a questa astrazione feticizzata, si astrae spontaneamente da se stesso, dalla propria presenza, dal proprio corpo. Lo spazio astratto, feticizzato, genera a sua volta l'astrazione pratica dell' « utente », che non si percepisce in tale spazio, e quella della riflessione, che non concepisce la critica. Bisognerebbe, al contrario, rovesciare la tendenza, e mostrare che l'analisi critica dello spazio « vissuto » pone dei problemi molto più gravi che questa o quella attività importante ma parziale, come la letteratura, la lettura e la scrittura, la pittura, la musica. Lo spazio? Non è fatto per il « vissuto », né è un semplice « sfondo » paragonabile a quello di un quadro, né una forma o contenente quasi indifferente, destinato solo a ricevere ciò che vi si mette. Lo spazio è la morfologia sociale; è, per il « vissuto », ciò che per l'organismo vivente è la sua stessa forma, strettamente legata alle sue funzioni e strutture. Pensare lo spazio come uno « sfondo » o una scatola, nella quale mettere qualsiasi cosa, purché il contenuto sia più piccolo del contenente, il quale a sua volta non ha altra funzione che quella di conservare il contenuto: questo è certamente l'errore iniziale. Errore? Ideologia, piuttosto. Ma allora, chi diffonde questa illusione ideologica? Chi se ne serve? Perché e come? Contentarsi di vedere uno spazio senza pensarlo, senza concentrare in un atto mentale ciò che si dà in maniera dispersa, partire dai dettagli senza mai raggiungere l'insieme della « realtà », pensare 109

i contorni senza coglierli nei loro rapporti all'interno del contenente formale, ecco l'errore teorico, la cui denuncia potrebbe forse portare alla scoperta di qualche grande illusione ideologica! È ciò che si proponevano le cons:derazioni precedenti, quando hanno tentato di dimostrare che lo spazio « neutro », « oggettivo », fisso, trasparente, innocente o apparentemente indifferente, non è solo la comoda sistemazione di un sapere inoperante, o un errore che si può eludere parlando di « ambiente », di ecologia, di natura o di antinatura, di cultura e così via. È un insieme di errori, un complesso di illusioni. Al limite, ci si dimentica totalmente che esiste un soggetto totale che agisce per mantenere e riprodurre le proprie condizioni, cioè lo Stato (che si appoggia su classi sociali, e su frazioni di classi). E ci si dimentica anche che esiste un oggetto totale, lo spazio politico assoluto, lo spazio strategico, che cerca di imporsi come realtà, quando invece non è che una astrazione, anche se dotata di enormi poteri in quanto luogo e centro del Potere. Di qui l'astrazione del1' «utente» e del pensiero cosiddetto critico, che dimenticano se stessi di fronte ai grandi Feticci. Questa verità può essere raggiunta per p:ù vie. Bisogna intraprenderne una, e rifiutare gli alibi e le fughe (anche quelle in avanti!). Normalmente lo studio dello spazio «reale», cioè sociale, viene demandato a degli specialisti, e a delle specializzazioni: ai geografi, urbanisti, sociologi, ecc.; mentre la conoscenza dello spazio «vero», cioè mentale, sarebbe competenza dei matematici e dei filosofi. Doppio o mult:plo errore. Innanzitutto la scissione fra il « reale » e il « vero » evita fin dall'origine il confronto fra la pratica e la teoria, fra il vissuto e il concetto, defraudando entrambe le parti in causa. In secondo luogo, il rinvio alle specializzazioni costituisce un tranello, perché le specializzazioni risalgono ad un'epoca precedente a quella «moderna», a prima che il capitalismo assorbisse, per util:zzarlo, lo spazio intero, e che, d'altra parte, le scienze e le tecniche potessero permettere la produzione dello spazio. L'illusione più grande sarebbe infatti quella di considerare architetti, urbanisti e pianificatori come esperti dello spazio, giudici supremi della spazialità. Gli « esperti » non si accorgono di indebolire cosi la domanda di fronte all'offerta, superando di gran lunga le speranze dei manipolatori di coscienze! Quando invece occorre;rebbe evidenziare e stimolare la domanda, anche se essa flette, mentre l'offerta si impone in modo oppressivo-repressivo. Il rinvio agli specialisti del «vissuto», della morfologia del quotidiano, non sarebbe questo l'errore ideologico? Se si guarda lo spazio che ci circonda, cosa si vede? Il tempo? Lo si vive, ci si è dentro. Non si vedono che movimenti. Nella na110

ture. il tempo si coglie nello spazio, nel cuore, nel seno dello spazio: l'ora O\Ò~ giorno, la stagione, l'altezza del sole sull'orizzonte, la posizione della luna e delle stelle nel cielo, il freddo e il .caldo, l'età degli esseri viventi. Prima che la natura venga localizzata nel sottosviluppo, ogni luogo contiene la propria età e la traccia del tempo che l'ha generato, come il tronco di un albero. Il tempo si inscrive nello spazio, e lo spazio-natura non è che la scrittura tragica e lirica del tempo-natura. Non parliamo, come certi filosofi, di degradazione della durata, o di semplice risultato dell'« evoluzione». Ora, il tempo scompare nello spazio sociale della modernità; non compare che sugli apparecchi di misura, essi stessi isolati e specializzati: gli orologi. Il tempo vissuto perde forma e interesse sociale, salvo il tempo di lavoro. Lo spazio economico si subordina il tempo: e lo spazio politico lo svuota, in quanto minaccia e pericolo (per il potere). Il primato del dato economico e più ancora di quello politico comporta la supremazia dello spazio sul tempo. Potrebbe anche darsi che la mistificazione concernente lo spazio riguardi in verità, e ancora più intimamente, il tempo: ancora più vicino, più fondamentale dello spazio. Il tempo, questo « vissuto » essenziale, questo bene fra i beni, non si vede, non si legge. Non si costruisce: si consuma, si estingue, e poi è la fine. Esso non lascia che tracce; si nasconde nello spazio, sotto i resti che lo ingombrano e di cui ci si deve sbarazzare in fretta come di un pattume inquinante. Questa eliminazione apparente del tempo è forse uno dei tratti caratteristici della modernità, e la sua portata è certo più rilevante di una semplice cancellatura di tracce, di correzioni, su di un foglio di carta. Se è vero che il tempo si misura in danaro, che si compra e si vende come un oggetto qualunque (il tempo è danaro!), allo stesso modo di un oggetto può anche scomparire; non è più nemmeno una dimensione dello spazio, ma uno sgorbio che uno schizzo ben fatto può sostituire. Questa eliminazione riguarda anche il tempo storico? Sì, ma soltanto a titolo simbolico. :È il tempo di vivere, il tempo come bene irriducibile, che la logica della visualizzazione e della spazializzazione eludono, ammesso che una logica vi sia. Elevato dai filosofi a dignità ontologica, il tempo è ucciso dalla società. In che modo una operazione cosi inquietante e mostruosa può essere compiuta senza scandalo? E in che modo può sembrare « normale »? Il fatto è che essa si inserisce perfettamente nelle norme sociali, nelle attività normative. La « leggibilità-visibilità-intelligibilità », questo. trio o triade o trinità modèrna, non sta forse all'origine di. molti errori, o, peggio ancora, di menzogne? Ci ritroviamo dunque a questo punto lontano dal pratico-sociale,

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dentro le vecchie distinzioni fra apparenza e realtà, verità e menzogna, illusione e rivelazione, in una parola nella filosofia? Sì e no. Non c'è alcun dubbio che questa analisi critica sia un'estensione della filosofia; è già stato detto chiaramente. Tuttavia l'« oggetto» della critica si sposta: si tratta ora di attività pratiche e sociali, che apparentemente contengono e «mostrano» la verità, ma che in realtà ritagliano lo spazio e « mostrano » i risultati menzogneri di tale operazione. Si pretende di mostrare lo spazio per mezzo dello spazio stesso. Questa operazione, che si chiama « tautologia », usa e abusa di un metodo ben noto, il cui abuso è altrettanto facile del suo uso: il passaggio dalla parte al tutto (metonimia). Consideriamo alcune immagini: fotografie, pubblicità o films. Può un'immagine rivelarci un errore concernente lo spazio? Difficilmente. Se l'errore, o l'illusione, c'è, l'immagine lo trattiene lo rinforza; per quanto «bella» sia, essa non può che inserirsi nell'« ambiente» incriminato. Se l'errore consiste nel frammentare lo spazio - e l'illusione sta nell'ignorare questa disgregazione - nessuna immagine potrà denunciarlo. Al contrario: l'immagine frammenta, è essa stessa un frammento di spazio. Taglio-montaggio, ecco la prima e ultima parola dell'arte delle immagini. L'errore e l'illusione risiedono anche nell'occhio e nello sguardo degli artisti, nell'« obbiettivo » del fotografo, nella matita e nel foglio del disegnatore. L'errore si introduce negli oggetti che l'artista d:stingue e raggruppa; e l'illusione, quando c'è, diventa parte integrante-integrata e determinante-determinata del mondo ottico e visuale, che feticizza l'astrazione, imponendola come norma, e separa la forma pura dal suo contenuto impuro, ~ioè dal tempo-vissuto, il tempo quotidiano, quello dei corpi, del loro opaco spessore, del loro calore, della loro vita e della loro morte. A suo modo, l'immagine uccide. Come tutti i segni. Tuttavia, a volte, la tenerezza e la crudeltà di un artista trasgrediscono i limiti della immagine e qualcosa affiora, un'altra verità e un'altra realtà, diversa dall'esattezza, dalla chiarezza, dalla leggibilità e dalla plasticità; e come per l'immagine, lo stesso può succedere per i suoni, per le parole, il mattone e il cemento, per tutti i segni 5• Questo spazio produce strani effetti. Scatena il desiderio che si lancia nella sua trasparenza, e si impossessa di questo campo (apparentemente) libero. Ma eccolo ricadere, perché non trova né oggetti desiderabili che lo aspettano, né frutti del suo atto. Si protende vanamente verso la pienezza, e si soddisfa di parole, retorica del desiderio. Dopo una tale delusione lo spazio sembra vuoto. Le parole 5 Cfr. Politique-Herbo, 29 Giugno 1972, la presentazione di un reportage fotografico di H. Cartier-Bresson.

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esprimono questo vuoto: spazi incomprensibilmente (a meno di una lunga riflessione) desolati e desolanti: « Niente è permesso, niente è proibito » ha scritto un abitante. Spazi estranei: omogenei, razionali, e in quanto tali oppressivi e tuttavia smembrati. Spazi senza frontiere, scomparse anche fra città e campagna, fra le periferie e i centri, fra i sobborghi e i nuclei urbani, fra lo spazio delle macchine e quello dell'uomo, fra l'infelicità e la felicità! Ma, nonostante questo, tutto è separato, proiettato isolatamente su « lotti » e « isolati »: le « attrezzature », gli edifici, l'habitat, gli spazi, come l'attività produttiva nella divisione sociale e tecnica del lavoro, sono specializzati. Di questo spazio, si può dire che presuppone e propone una logica della visualizzazione; ma dal momento che una « logica » che dirige una serie operazionale diventa una strategia, cosciente e incosciente, di tale « logica della visualizzazione » converrà mostrare la formazione e l'impiego. L'orgogliosa verticalità delle case-torri, degli edifici pubblici, e in particolar modo di quelli statali, inserisce nel quadro visivo una arroganza fallica, o meglio, fallocratica, che si mostra e si esib:sce perché in essa ogni spettatore percepisca l'autorità. La verticalità e l'altezza hanno sempre rappresentato spazialmente la presenza di un potere capace di violenza. In rapporto agli spettatori questa spazializzazione molto particolare, per quanto possa a molti sembrare « normale » o « naturale », iinplica una doppia « logica », e quindi una doppia strategia. La prima, quella della metonimizzazione, consiste in un passaggio incessante, provocato e imposto, dalla parte al tutto (in un edificio composto di volumi sovrapposti, di « scatole da abitare », lo spettatore e l'abitante, che tendono a coincidere, colgono immediatamente il rapporto della parte col tutto, e si colgono in questo rapporto). Questo passaggio compensa, attraverso una graduale estensione della scala, la dimensione irrisoria dei volumi, e pone, presuppone, impone una omogeneità nella separazione degli ambienti, diventando, al limite, logico, dunque tautologico: lo spazio contiene lo spazio, il visibile contiene il visibile, e la scatola si incastra nella scatola. La seconda « logica » implicita in questa spazializzazione è una logica (strategia) della metafora o, piuttosto, della metaforizzazione. I corpi viventi, quelli degli « utenti », sono presi nell'ingranaggio delle parti dello spazio anche per mezzo di analogon, per usare un termine filosofico: cioè immagini, segni, simboli. Trasportati fuori di sé, trasferiti, i corpi viventi si svuotano attraverso gli occhi: richiami e sollecitazioni varie propongono ai corpi viventi dei doppi di se stessi, più bélli, sorridenti e felici: e li svuotano nella misura in cui questa proposta corrisponde a un « bisogno », che essa stessa

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d'altra parte contribuisce a creare. L'entrata delle informazioni, l'arrivo massiccio dei messaggi, incontrano questo movimento inverso: l'evacuazione, dall'interno dei corpi stessi, della loro vita e del loro desiderio. La stessa automobile funzione come analogon: estensione del corpo, e insieme casa ambulante che accoglie dei corpi alla deriva. Le parole, la dispersione dei frammenti del discorso non basterebbero, senza gli occhi e lo spazio esistente, a giustificare questo « transfert » dei corpi. Metafore e metonomie. Questi concetti ben noti sono presi. in prestito dalla linguistica; ma non trattandosi qui di parole, bensì di spazio e pratica spaziale, un tale prestito esige un esame approfondito delle relazioni fra spazio e linguaggio. Uno spaz:o determinato, dunque circoscritto, accetta una cosa e ne respinge un'altra (nella nostalgia, a volte, o nella semplice interdizione). Esso afferma, respinge, nega. Ha alcuni attributi propri del « soggetto », e certi altri dell' « oggetto ». Come una facciata, d:spone di un potere molto forte: ammette nel visibile alcuni atti, sia sulla facciata stessa (balconi, davanzali, ecc.), sia a partire da essa (sfilate nella strada, ecc.); e relega nell'osceno altri atti, che avvengono appunto dietro la facciata. Cosa che richiederebbe già una psicanaLsi dello spazio. A proposito della città e delle sue astensioni (periferie e sobborghi), abbiamo a volte incontrato le espressioni « malattia dello spazio », « spazio malato », che permettono a certuni - architetti, urbanisti, pianificatori - di dirsi « medici dello spazio », o di suggerire questa idea, generalizzando così delle rappresentazioni particolarmente mistificatrici: la città moderna non sarebbe il risultato della società capitalistica (o neo-capitalistica), ma di una malattia della società. Queste formule sviano la critica dello spazio, e sostituiscono all'analisi critica schemi poco razionali, e insieme molto reazionari. Al limite, l'intera società e l'« uomo» in quanto essere sociale possono essere considerati delle malattie della Natura. :E: una tesi filosoficamente difendibile: non è proibito pensare che l'uomo è un mostro, uri. errore, un fallimento su un pianeta fallito. Ma dopo? Da una simile filosofia, come da molte altre, non deriva che nichilismo. 5. Perché non prendere, hic et nunc, una decisione: quella di ispirarsi al Capitale di Marx, non per ricavarne una serie di citazioni, o per lanciarsi in una ennesima esegesi, ma per trattare dello spazio seguendo il piano di questa opera? Ci sono molti motivi e rag:oni che spingono verso questa direzione, compresa l'analogia con la problematica del XIX secolo. Al giorno d'oggi si trovano 114

dei « marxisti » che pensano che i problemi posti dallo spazio (i problemi urbani, quelli della gestione del territorio), mettono in secondo piano i veri problemi politici; ora, rapportare all'opera di Marx lo studio dello spazio eviterebbe malintesi grossolani. Niente si presenta in modo più chiaro del piano del Capitale, e le numerose letture e riletture (tra cui quelle che più si attengono alla lettera sembrano le migliori) lo hanno messo in evidenza. Nei lavori preparatori Marx ha messo a punto concetti essenziali, per esempio il concetto di lavoro (sociale). In tutte le società è esistito il lavoro, così come le sue rappresentazioni (pene, punizioni, ecc.), ma il suo concetto non è emerso che nel XVIII secolo. Marx ci fa vedere come e perché. Ma, stabiliti questi preliminari, Marx passa all'essenziale, che non è una sostanza o una« realtà», ma una forma. Inizialmente ed essenzialmente, Marx scopre una forma (qùasi) pura, quella della comunicazione dei beni materiali, cioè dello scambio. Forma quasi log:ca, vicina ad altre forme «pure», e del resto in rapporto con queste: l'identità e la differenza, l'equivalenza, la coerenza, la reciprocità, la ricorrenza, la ripetizione. La comunicazione e lo scambio dei beni materiali si distinguono dalla comunicazione e dallo scambio dei segni (linguaggio, discorso), ma non se ne separano. La forma « pura » ha una struttura polare (valore di scambio-valore di uso), e delle funzioni che vengono esplicitate nell'opera di Marx. Questa astrazione concreta si sviluppa nel pensiero come si è sviluppata nel tempo e nello spazio, fino alla pratica sociale: il danaro, il lavoro e ciò che lo determina (il suo movimento dialettico: individuale e sociale, diviso e globale, particolare e medio, qualitativo e quantitativo). Tale sviluppo, più fecondo, per i concetti, della deduzione classica, e più docile dell'induzione o della costruzione, arriva, come si sa, fino al plus-valore; il perno non cambia: paradosso dialettico, un quasi-vuoto o una 'luasi-assenza, la forma dello scambio che regge la pratica sociale. Ora, la forma dello spazio sociale è nota: astrazione concreta, è emersa in vari momenti (le filosofie, le grandi teorie scientifiche) dalle rappresentazioni dello spazio, e dagli spazi di rappresentazioni. :E: stata messa in evidenza recentemente. Anch'essa, come quella dello scambio, si avvicina alle forme logiche; richiede un contenuto, e non può essere concepita senza un contenuto; ma, chiaramente, si concepisce per astrazione, al di fuori di ogni contenuto definito. La forma dello scambio materiale non dice cosa viene scambiato, ma stipula soltanto che « qualcosa » che abbia un uso è anche oggetto di scambio; come la forza della comunicazione non-materiale non dice quale segno si comunica, ma che è necessario un repertorio di segni distinti, un messaggio, un canale, un codice; come infine

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la forma logica non dice ciò che è coerente e pensato, ma solo che occorre una coerenza perché ci sia pensiero. La forma dello spazio sociale è l'incontro, l'unione, la simultaneità. Ma cos'è che si riunisce ed è riunito? Tutto quello che c'è nello spazio, tutto c:ò che è prodotto dalla natura e dalla società sia dalla loro cooperazione che dal loro conflitto. Tutto: esseri viventi, cose, oggetti, opere, segni e simboli. Lo spazio-natura riunisce e disperde; pone, gli uni accanto agli altri, gli spazi e ciò che li occupa. Lo spazio sociale implica la concentrazione, attuale e possibile, in un punto o attorno a esso; cioè la possibile accumulazione (virtualità che si realizza in determinate condizioni). Questa affermazione si verifica nello spazio del villaggio e si conferma nello spazio urbano, che ci rivela i segreti, ancora nascosti, dello spazio sociale nel villaggio. Lo spazio urbano riunisce le folle, i prodotti sul mercato, gli atti e i simboli; li concentra e li accumula. Dicendo « spazialità urbana » si sottintende anche un centro e una centralità, non importa se attuale o possibile, saturata, lacerata, assalita, cioè: centralità dialettica. Si potrebbe dunque elaborare questa forma, evidenziarne la struttura (centro-periferia), le funzioni sociali, i rapporti col lavoro (i diversi mercati), quindi con la produzione e la riproduzione, coi rapporti di produzione precapitalistici e capitalistici, il ·ruolo delle città storiche e del tessuto urbano moderno, ecc. E insieme mostrare i processi dialettici legati al rapporto fra la forma e i contenuti: le esplosioni, le saturazioni, i conflitti, e gli attacchi portati dai contenuti respinti verso le periferie. In sé e per sé, lo spazio sociale non ha tutti i caratteri della « cosa », opposta all'attività creatrice. In quanto spazio sociale, esso è insieme opera e prodotto: realizzazione dell\< essere sociale ». Ma in determinate condizioni esso assume i caratteri feticizzati e autonomizzati propri della cosa (della merce e del danaro). Un disegno così ambizioso non manca di argomenti; tuttavia, al di là della sua stessa ampiezza, suscita qualche obiezione. Innanzitutto il piano del Capitale non è il solo piano che si è qui preso in considerazione; esso corrisponde a un obiettivo nell'esposizione, più che nel contenuto: a una formalizzazione rigorosa ma depauperante, in quanto riduttiva. Esiste, nei Grundrisse, un altro progetto, un altro piano e una maggiore ricchezza. I Grundrisse insistono a tutti i livelli sulle differenze, mentre il Capitale mette l'accento su una razionalità omogeneizzante, a partire dalla forma quasi « pura» del valore (di scambio): nei Grundrisse la forma non passa in secondo piano, ma si va di contenuto in contenuto, per poter generare le forme a partire dai contenuti. Un minor rigore, una 116

coerenza formale meno esasperata, e di conseguenza una formalizzazione e una assiomatizzazione meno elaborate, hanno per contropartita tematizzazioni più concrete specialmente per quanto concerne il rapporto (dialettico) fra città e campagna, fra realtà naturale e realtà sociale. Nei Grundrisse Marx tiene conto di tutte le mediazioni storiche, come la comunità di villaggio, la famiglia, ecc.,6 per cui il « mondo della merce » risulta meglio inserito nel suo contesto storico, e in quelle sue condizioni pratiche che il Capitale non ritrova (e in modo incompleto) che verso la fine. In secondo luogo, si sono verificati, da un secolo a questa parte, cambiamenti e novità; oggi, esaminando i concetti e le categorie fondamentali di Marx (la produzione, per esempio), è necessario introdurre categorie che lo stesso Marx non ha preso in considerazione che verso la fine della sua vita; come la riproduzione dei rapporti di produzione, che si sovrappone alla riproduzione dei mezzi di produzione e alla riproduzione allargata (quantitativamente) dei prodotti, pur rimanendone distinta. Ora, la riproduzione, considerata come concetto, implica altri concetti come la ripetitività, la riproducibilità, ecc., che non hanno trovato posto nell'opera di Marx, come del resto i concetti di urbano, di quotidiano, di spazio. Se è vero che la produzione dello spazio corrisponde a un salto in avanti delle forze produttive (tecniche, scienza, dominio sulla natura), se è vero di conseguenza che, al limite (o meglio, superati certi limiti), seguirà un altro modo di produzione che non sarà _più né il capitalismo di Stato, né il socialismo di Stato, ma la gestione collettiva dello spazio, la gestione sociale della natura, il superamento della contraddizione « natura-antinatura », allora non è più possibile utilizzare soltanto le categorie « classiche » del pensiero marxista. In terzo luogo (ciò che seguirà contiene e sviluppa ciò che abbiamo fin qui detto), assistiamo, da un secolo, all'apparizione, fra le altre cose, di varie scienze, dette « scienze della società » o « scienze umane». I loro destini, perché ognuna ha il proprio destino, suscitano inquietanti interrogativi: squilibri di crescita, crisi, rapidi successi seguiti da bruschi declini. Gli specialisti e le istituzioni specializzate hanno lo scopo di negare, combattere e ridurre al silenzio ciò che può loro nuocere; ma invano: si sono avute cadute clamorose, e capitomboli catastrofici. Gli economisti credettero di liberarsi delle prescrizioni marxiste sostituendo alla ,critica una « mode!!istica » - considerando l'economia politica come scienza della

'Cfr. H. Lefebvre, La pensée marxiste et la ville, Casterman, 1972.

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penuria. La loro scienza è crollata fragorosamente, malgrado tutte le loro precauzioni. La linguistica? Gli errori e i fallimenti saltano agli occhi, tanto più che la linguistica, dopo la storia, dopo l'economia politica, si era promossa a scienza suprema, scienza delle scienze, menter il suo contributo si limita a una decifrazione di testi e messaggi, a una codificazione-decodificazione. Ma « l'uomo » non vive solo di parole. La linguistica di questi ultimi decenni è metalinguaggio, analisi di metalinguaggi, e di conseguenza del ripetitivo a livello sociale; essa ci ha permesso di comprendere l'enorme ridondanza degli scritti e dei discorsi passati, e niente di più. Tuttavia queste scienze esistono, nonostante il loro procedere disuguale, e gli incidenti subiti lungo il cammino; mentre non esistevano al tempo di Marx, o esistevano soltanto virtualmente, allo stato embrionale; la loro specializzazione non era pronunciata, e i loro tentativi di dominio ancora inconcepibili. Queste scienze specializzate, isolate e imperialistiche nello stesso tempo (isolamento ed imperialismo non vanno forse insieme?), hanno una relazione con lo spazio mentale e sociale. Fra gli studiosi, alcuni hanno operato una cesura, una scelta, e hanno circoscritto il loro «campo»; altri, imitando i matematici, hanno costruito uno spazio mentale che permettesse loro di interpretare gli avvenimenti teorici e pratici (sociali) della storia in funzione dei loro principi, ottenendone delle rappresentazioni dello spazio. Di questo procedimento, di questo circolo vizioso, l'architettura fornisce parecchi esempi. L'architetto per svolgere il proprio lavoro si interroga sulla « specificità » dell'architettura, cerca dunque di legittimare il suo ruolo; alcuni ne deducono l'esistenza di uno « spazio dell'architettura » e di una « produzione architettonica » (specifica, beninteso). E il gioco è fatto. Questo rapporto (cesura-rappresentazione), per quanto concerne lo spazio, ha già trovato posto nell'ordine e nel disordine delle ragioni qui esaminate. Queste cesure e queste interpretazioni possono essere colte e comprese non in funzione di una « scienza dello spazio » o di un concetto totalizzante la spazialità, ma partendo dall'attività produttiva. Gli specialisti hanno elencato gli oggetti nello spazio; alcuni hanno catalogato oggetti derivati dalla natura, altri gli oggetti prodotti. Ora, sostituendo la conoscenza dello spazio (in quanto prodotto, e non in quanto somma di oggetti prodotti) alla conoscenza delle cose nello spazio, le enumerazioni e le descrizioni assumono un altro significato. Si può concepire un'economia politica dello spazio che rivaluti l'economia politica, che la salvi dal fallimento proponendole un nuovo oggetto: la produzione dello spazio. Rivalutan118

do la critica dell'economia politica (che per Marx coincide con la conoscenza dei fatti economici), si potrà dimostrare come l'economia politica dello spazio rischi di coincidere con le apparenze dello spazio, come àmbito mondiale di una stabilizzazione definitiva del capitalismo. Nello stesso modo si potrà procedere per la storia, per la psicologia, per l'antropologia, e via di seguito. Forse anche con la psicanalisi stessa! ... Questa prospettiva implica una precisa distinzione fra il pensiero e il discorso nello spazio, (in uno spazio preciso, datato e localizzato); il pensiero e il discorso sullo spazio, cioè le parole e i segni, le immagini e i simboli; e infine il pensiero dello spazio, che si basa su concetti elaborati. A sua volta questa distinzione presuppone un attento esame critico sia dei materiali utilizzati, le parole, le immagini, i simboli, i concetti, che dei mezzi, dei procedimenti e degli strumenti usati per tagliare e « montare » - nell'ambito della divisione del lavoro scientifico. In effetti, sfruttando elaborazioni concettuali tipiche di altri campi, si possono distinguere materiali e mezzi. I materiali, come la pietra, il mattone, il cemento, oppure i suoni, le gamme e i toni per la musica, sono indispensabili e duraturi. Il mezzo invece si consuma subito: occorre cambiarlo spesso; composto di strumenti e regole d'impiego, ha una limitata capacità di adattamento, per cui, quando nuovi bisogni si fanno sentire, occorre inventare dei nuovi mezzi. :È il caso del liuto, del pianoforte, del sassofono, in musica, o dei nuovi metodi e procedimenti, nelle costruzioni. Questa distinzione può avere una certa portata «operativa», poiché permette di distinguere l'effimero dal duraturo: ciò che, in questa o quella disciplina scientifica, può essere conservato o riutilizzato diversamente, e ciò che deve essere riposto e sostituito. In altre parole, un mezzo antiquato non si usa che marginalmente, e spesso soltanto a livello pedagogico. La riconsiderazione di queste suddivisioni e rappresentazioni, dei loro mezzi e dei loro materiali, non può limitarsi alle discipline specializzate; non potrà rispettare la filosofia, dal momento che i filosofi hanno proposto delle rappresentazioni dello spazio e del tempo. La critica delle ideologie filosofiche non potrà eludere l'esame delle ideologie politiche, perché esse riguardano lo spazio,· anzi, se ne occupano in prima persona; vi intervengono come strategie. L'efficacia delle strategie nello spazio e, soprattutto un fatto nuovo cioè il fatto che le strategie mondiali tentano di creare uno spazio globale, il loro, e di erigerlo ad assoluto, porta una ragione in più, e non di poco conto, all'esigenza di rinnovamento del concetto di spazio. 119

6. Ridurre è un procedimento scientifico, che si applica al caos e alla complessità delle constatazioni immediate. Inizialmente è necessario semplificare, ma poi occorre, appena possibile, restituire progressivamente ciò che l'analisi ha messo da parte, perché altrimenti l'esistenza metodologica si trasformerebbe in schiavitù, e dalla riduzione legittima si passerebbe al riduzionismo. Questo pericolo insidia senza tregua il sapere, e non esiste metodo capace di evitarlo, dal momento che esso si nasconde nel metodo stesso. Per quanto indispensabili, gli schemi riduttivi si trasformano in trappole. Il riduzionismo si insinua sotto la pretesa di scientificità: si costruiscono modelli ridotti (della società, della città, delle istituzioni, della famiglia, ecc.) e ci si attiene a essi. ~ così che lo spazio sociale si riduce allo spazio mentale, attraverso un'operazione « scientifica » la cui scientificità maschera l'ideologia. I riduzionisti tessono l'elogio incondizionato del procedimento intrinseco alla scienza, poi lo trasformano in comportamento, e in seguito in sapere assoluto, sotto la forma di una scienza delle scienze (epistemologia); e quando la riduzione metodologica richiede dialetticamente la reintroduzione di un contenuto, si esalta la forma ridotta, la logica interna del metodo, e la sua coerenza. A questo punto il pensiero critico (che è messo al bando dal dogmatismo) si accorge che la riduzione sistematizzata e il riduzionismo corrispondono ad una pratica politica. Lo Stato e il potere politico si vogliono e si fanno riduttori delle contraddizioni; quindi la riduzione e il riduzionismo appaiono come dei mezzi al servizio dello Stato e del potere: non in quanto ideologie, ma in quanto sapere; non al servizio di quello Stato o di quel governo, ma dello Stato e del potere in generale. Come potrebbero lo Stato e il potere politico ridurre le contraddizioni (i conflitti che nascono sempre di nuovo nello società) se non attraverso la mediazione del sapere, usando strategicamente un miscuglio di scienza e di ideologia? Che esista un funzionalismo riduttivo della realtà e della conoscenza delle società è oggi generalmente ammesso, anzi ci si lancia volent;eri nella critica di queste riduzioni funzionali. In questo modo però si omette, o per lo meno si passa sotto silenzio, il fatto che anche il formalismo e lo strutturalismo propongono, alla loro maniera, degli schemi riduttivi. Privilegiando un concetto, estrapolando, essi riducono; e, inversamente, la riduzione implica l'estrapolazione. Bisogna correggere, compensare: l'ideologia arriva al momento giusto, assieme al vaniloquio (il « discorso ideologico», per parlare in gergo) e all'abuso dei segni, verbali e non. La riduzione può andare molto lontano, fino a « calarsi » nella

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pratica. La gente, i gruppi e le classi diverse, subiscono - in modo disuguale - gli effetti di riduzioni molteplici che riguardano le loro capacità, le loro idee, i loro « valori » e in fin dei conti le loro possibilità, il loro spazio e il loro corpo. I modelli ridotti, costruiti da questo o quello specialista, non sempre sono vanamente astratti; costruiti in v~sta di una pratica riduttrice, possono arrivare, con un po' di fortuna, a imporre un ordine e a comporre tutti gli elementi, come accade ad esempio per l'urbanistica e l'architettura. Ed è la classe operaia che subisce particolarmente gli effetti dei « modelli ridotti »: di spazio, di consumo, e di « cultura », come si suol dire. Il riduzionismo mette un sapere (analitico e non critico), con le suddivisioni e interpretazioni che esso comporta, al servizio del potere; in quanto ideologia che non si dichiara come tale, che si confonde con la « scientificità », pur abusando del sapere e negando il conoscere, essa costituisce l'ideologia scientifica per eccellenza, dal momento che per definire un atteggiamento riduzionista è sufficiente passare da una metodologia a un dogmatismo, e di qui a una pratica omogenizzante, senza alcuna copertura scientifica. All'inizio, dal punto di vista metodologico, ogni disciplina procede riduttivamente; ma la disgrazia dello specialista è quella di installarvisi, di scavarla, e di trovarvi felicità e certezza. Lo specialista che ha delimitato il suo « campo » è sicuro che con ap·pena un po' di fatica potrà farvi crescere qualcosa; ciò che trova, o ciò che coltiva, sarà sempre definito dalle coordinate locali della sua specialità, e dalla sua posizione sul mercato del sapere. Ma questo lo specialista non vuole saperlo: egli giustifica la riduzione, costitutiva del suo campo, negandola. Ma quale scienza non ha rapporti, immediati o mediati, con lo spazio?

a) Noi sappiamo già che ogni disciplina si attribuisce il proprio spazio mentale e sociale, definendolo con una certa arbitrarietà, ritagliandolo dall'insieme « natura-società » e mistificando parzialmente l'operazione « taglio-montaggio » (taglio di un « campo », montaggio di enunciati e di modelli ridotti relativi ad esso, passaggio dal piano mentale al piano sociale). Tutto questo richiede l'aggiunta di argomenti che giustifichino, quindi che interpretino il taglio-montaggio. b) Il compito degli specialisti è di catalogare e classificare ciò che si trova nello spazio; constatare, descrivere, classificare gli oggetti che occupano lo spazio costituisce l'attività « positiva » di questa o quella specializzazione, per esempio la geografia, l'antropologia o la sociologia. Nel migliore, o forse peggiore, dei casi una spe121

cializzazione si occuperà degli enuciati sullo spazio, come accade per la teoria politica, l'« analisi dei sistemi»,- ecc. e) Gli specialisti oppongono un modello ridotto del sapere (che si limita ora alla constatazione degli oggetti nello spazio, ora alla produzione di enunciati sullo spazjo, frammentandolo) a un pensiero globale dello spazio (sociale), con il vantaggio supplementare di liquidare il tempo (riducendolo a una semplice «variabile»). Di conseguenza è molto probabile che gli specialisti che affrontano lo spazio sociale coi loro mezzi e i loro schemi riduttivi riescano ad opporsi al concetto di produzione dello spazio, e a una teoria relativa. Tanto più che il concetto e la teoria, minacciando direttamente i campi delle varie specializzazioni, potrebbero spezzare e forse abbattere i confini delle proprietà private. A questo punto perché non introdurre, in questa esposizione, un dialogo con un interlocutore insieme fittizio (immaginario) e reale (rappresentante le obiezioni)? · - I suoi argomenti non mi hanno convinto. Produrre lo spazio! Questo enunciato, e non voglio parlare di concetto perché le concederei troppo, è troppo oscuro: o lo spazio fa parte della natura, e allora le attività umane, sociali, vi si inscrivono, lo occupano, modificano i dati geografici e i tratti ecologici, lasciando alla conoscenza soltanto il compito di descrivere queste modificazioni; oppure lo spazio è un concetto, e in quanto tale fa già parte della conoscenza, dell'attività mentale, per esempio nella matematica, lasciando in questo caso alla riflessione scientifica il compito di esplorarlo, elaborarlo e svilupparlo. Nell'una e nell'altra ipotesi, comunque, non c'è produzione di spazio. - Mi scusi, ma questa dissociazione « natura-conoscenza » e « natura-cultura », questo dualismo « materia-spirito », del resto molto frequente, è inammissibile così come il suo inverso, la confusione. L'attività tecnologica e quella scientifica non si accontentano di modificare la natura; vogliono dominarla, e per dominarla tendono a distruggerla; la disconoscono. È un processo che è cominciato col primo utensile. - Lei data questo inizio dall'età della pietra: mi sembra un po' presto ... - Comincia col primo atto premeditato destinato a uccidere; con l'utensile e con l'arma, che procedettero di pari passo con il linguaggio. - Per lei l'« uomo» esce dalla natura; la conosce dal di fuori, e non la conosce che distruggendola. 122

- L'uomo? Ammettiamo pure questa generalizzazione. Certo, l' « uomo » nasce dalla natura, ne esce e si rivolta contro di essa, fino ad arrivare al penoso risultato cui assistiamo. - Questa devastazione della natura dipende dal capitalismo, secondo lei? - Per la maggior parte, sì. Tuttavia il capitalismo e la borghesia sono anche, se vogliamo, un buono pretesto per attribuire loro tutti i misfatti. Ma essi dove, e come, sono nati? - L'uomo! La natura umana! - No. L'uomo occidentale. - Lei accusa così l'intera storia occidentale, la ragione, il Logos, il linguaggio stessof - L'Occidente si è assunto, e sarebbe interessante, anche se secondario, sapere come e perché, il compito della trasgressione della natura, ma è andato oltre. O felix culpa!° Come direbbero i teologi. Sì, quel compito che Hegel chiama la potenza del negativo, la violenza, il terrore, l'aggressione permanente contro la vita. L'Occidente ha generalizzato, mondializzato la violenza, e con la violenza ha generato il mondiale. Lo spazio come luogo di produzione, come prodotto e produzione, è nello stesso tempo l'arma e il simbolo di questa lotta. Ma per essere portato a termine, e ormai non sarebbe possibile tornare indietro, questo compito titanico costringe oggi a produrre, a creare, qualcosa di diverso dalla natura; una seconda natura, appunto nuova e diversa. Quindi a produrre lo spazio, lo spazio urbano come prodotto e nello stesso tempo come opera, nel senso in cui lo fu l'arte. Se questo progetto fallirà, lo scacco sarà totale, e le conseguenze incalcolabili. 7. Ogni spazio sociale è il risultato di un processo i cui aspetti e mov:menti sono molteplici: significante· e non-significante, percepito e vissuto, pratico e teorico. In breve, ogni spazio sociale ha una storia, a partire da questa base iniziale: la natura, dato originale e originario perché dotato sempre e ovunque di particolarità (luoghi, climi, ecc.). Il rapporto di uno spazio con il tempo che l'ha generato si discosta, quando si parla specificatamente di storia dello spazio come tale, dalle rappresentazioni ammesse dagli storici. Per questi il pensiero opera un taglio nella temporalità immobilizzando il processo senza troppe difficoltà; poi frammentano e ritagliano, con la loro analisi. Ora, nella storia dello spazio in quanto tale, il dato storico, il diacronico, il passato generatore, si inscrivono incessantemente sullo spazio come su di un quadro; sopra e nello spazio c'è molto di più che le semplici tracce lasciate dagli avvenimenti; c'è l'iscrizio123

ne della società in atto, il risultato e il prodotto delle attività sociali. E c'è molto di più che una scrittura del tempo. Lo spazio generato dal tempo è sempre attuale, sincronico, e dato come un tutto; legami e connessioni interne collegano i suoi elementi, legami ~ connessioni prodotte anche esse dal tempo. Ecco un primo aspetto, il più semplice, di questa storia dello spazio che va dalla natura all'astrazione. Immaginiamo i tempi in cui ogni popolo già in grado di misurare lo spazio aveva proprie unità di misura riferite alle parti del corpo: pollice, gomito, piede, palmo, ecc. Gli spazi di un popolo, come le durate, dovevano essere incomprensibili per gli altri popoli. Le caratteristiche naturali dello spazio interferivano· con le nature caratteristiche dei popoli; ma quale inserimento del corpo, in uno spazio misurato in questo modo! Il rapporto del corpo con lo spazio, rapporto sociale la cui importanza non è più stata riconosciuta in seguito, aveva allora una immediatezza che si sarebbe poi alterata e perduta: lo spazio, il modo di misurarlo e di parlarne, presentava ai membri della società un'immagine e uno specchio vivente dei loro corpi. L'adozione degli dei di un altro popolo comportava anche quella del loro spazio, e delle loro misure: il Pantheon, per Roma, si-,_ gnifica sia la comprensione degli dei vinti che quella degli spazi, subordinati a uno spazio-modello, quello dell'impero e del mondo. Lo statuto dello spazio e della sua misura è cambiato con estrema lentezza, e il cambiamento è tutt'ora in corso; persino in Francia, paese del « sistema metrico », sussistono ancora curiose misure applicate ai vestiti e alle scarpe; la rivoluzione operata, come tutti sappiamo dalla scuola, dalla generalità astratta del sistema decimale, non ha tuttavia eliminato il sistema in dodicesimi che misura il tempo, i cicli, le curve, le circonferenze, le sfere. Le fluttuazioni della misura, e di conseguenza delle rappresentazioni dello spazio, accompagnano la storia generale, conferendole un certo significato: la tendenza al quantitativo, all'omogeneo, alla scomparsa dei corpi, che cercano allora rifugio nell'arte.

8. Per esaminare in modo più concreto la storia dello spazio, possiamo considerare il concetto di nazione e di nazionalismo. Come si può definire la nazione? I più la definiscono come una specie di sostanza nata dalla natura (un territorio dalle frontiere « naturali»), e ingranditasi nel tempo storico. Questa tesi attribuisce alla nazione una « realtà » consistente, forse tanto definitiva quanto definita. Essa si addice alla borghesia (perché giustifica il suo Stato nazionale e il suo comportamento) nel momento in cui consacra come verità eterna, in quanto « naturale », il patriottismo, cioè il na124

zionalismo assoluto. otto l'influenza staliniana anche il marxismo ha adottato la stessa posizione, o quasi (con un supplémento di storicismo). Altri teorici, invece, considerano la nazione e il nazionalismo come ideologia: invece che una « realtà sostanziale», o una persona morale, la nazione sarebbe una finzione proiettata dalla borghesia sulle proprie condizioni storiche e sulla propria origine, innanzitutto per esaltarle nell'immaginario, e poi per nascondere le contraddizioni di classe, e trascinare la classe operaia dentro questa fittizia unità. Partendo da questa ipotesi è facile ridurre i problemi nazionali e regionali a questioni linguistiche e culturali di importanza secondaria, e ritrovarsi così nell'ambito di un certo internazionalismo astratto. Ma il problema della nazione, così posto, sia partendo dalla naturalità che dall'ideologia, prescinde dallo spazio. I concetti si sviluppano in uno spazio mentale, che il pensiero finisce per identificare con lo spazio reale della pratica sociale e politica, mentre non ne dà che una rappresentazione, a sua volta subordinata a una rappresentazione del tempo storico. Considerata nel suo rapporto con lo spazio la nazione comprende due momenti, due condizioni: a) Un mercato, costruito lentamente nel corso di un tempo storico più o meno lungo, cioè un complicato insieme di rapporti commerciali e di reti di comunicazione, che subordina al mercato nazionale quelli locali e regionali, e contiene quindi dei livelli gerarchici. Là dove le città hanno dominato molto presto le campagne, la formazione (sociale, economica, politica) del mercato nazionale è abbastanza diversa da quella dei paesi in cui le città si sono sviluppate su un fondo contadino, rurale e feudale preesistente. Ma il risultato è più o meno lo stesso: uno spazio centralizzato, con una gerarchia di centri (essenzialmente commerciali, ma anche religiosi, « culturali », ecc.), di cui la capitale costituisce il centro principale. b) Una violenza, quella dello Stato militare (feudale, borghese, imperialistico, ecc.): il potere politico utilizza le risorse del mercato o la crescita delle forze produttive, e se ne impadronisce con scopi di potenza.

Rimane da chiarire il rapporto fra la crescita economica « spontanea », l'intervento della violenza, e i loro rispettivi effetti. In questa ipotesi i due « momenti » hanno unito i loro effetti per produrre uno spazio: quello di uno Stato-Nazione. Esso non può essere definito come una sostanzialità personalizzata, nè come una pura finzione (un « centro speculare ») ideologica, perchè ha un'altra modalità di esistenza, definita dal suo rapporto con uno spazio. Re125

sta inoltre da chiarire, oggi, la connessione di questi spazi col mercato mondiale, l'imperialismo e le sue strategie, le multinazionali e le loro aree. Consideriamo ora il problema di una materia in generale. Pro. durre un oggetto significa modificare una materia prima attraverso l'applicazione di una conoscenza, di un procedimento tecnico, di uno sforzo e di un gesto ripetitivo (di un lavoro). La materia prima deriva, direttamente e non, dalla natura: legno, lana, cotone, seta, pietra, metallo. Nel corso dei tempi, alle materie provenienti direttamente dalla natura si sono sostituiti materiali sempre più elaborati, e quindi sempre meno «naturali», e l'importanza delle mediazioni tecniche e scientiche è cresciuta costantemente - pensiamo al cemento armato, alle fibre artificiali, alla plastica. Nonostante questo le materie prime, cioè la lana, il cotone, la pietra, ecc., non sono scomparse. L'oggetto prodotto porta spesso qualche traccia del materiale e del tempo utilizzati, delle operazioni che hanno modificato la materia prima. Possiamo quindi ricostruirli. E tuttavia, le operazioni produttive tendono a cancellare le proprie tracce, alcune hanno proprio questo scopo, come la politura, la verniciatura, i rivestimenti, l'intonaco, ecc. Quando la costruzione è finita, le impalcature vengono tolte; d'altra parte le brutte copie vengono strappate, e il pittore sa bene la differenza tra lo schizzo e il quadro. Il fatto è che i prodotti, e perfino le opere, hanno anche questo aspetto specifico: quello di distaccarsi dal lavoro produttivo, a tal punto che lo si dimentica, e questo oblio - questo occultamento, direbbe un filosofo - rende possibile il feticismo della merce: la merce contiene dei rapporti sociali e insieme implica il loro mascheramento. Non è mai facile risalire dall'oggetto (prodotto o opera), alla attività (produttiva e/ o creativa); tuttavia solo questo cammino ci permette di chiarire la natura dell'oggetto, o se vogliamo, il rapporto dell'oggetto con la natura, e di ricostruire il processo della sua genesi e del suo significato. Qualsiasi altro metodo ricostruirebbe un oggetto astratto (un modello). Del resto non si tratta semplicemente di cogliere una struttura generandola, ma di generare riprodurre per mezzo e nel pensiero) l'intero oggetto, forme, strutture e funzioni. In che modo si percepisce (il « si » indica un « soggetto » qualsiasi) un quadro, un paesaggio, un monumento? La percezione dipende evidentemente dal « soggetto»: un contadino non percepisce il « suo » paesaggio allo stesso modo di un cittadino che vi passeggi. Immaginiamoci un colto collezionista che guardi un quadro: il suo occhio non è né quello di un professionista né quello di un profano; passa da un oggetto all'altro all'interno del quadro; poi 126

comincia ad afferrare i rapporti tra questi oggetti, si lascia prendere dall'effetto o dagli effetti voluti dal pittore e ne riceve un certo piacere, ammesso che questo sia lo scopo dell'opera. Ma egli sa anche che nel quadro le relazioni fra forme e colori sono rette dall'insieme, per cui passa dai singoli oggetti del quadro al quadro come oggetto, da ciò che ha percepito nello spazio pittorico a ciò che afferra di questo spazio, arrivando così a intuire o a capire quegli « effetti » che non sono il frutto della espressa volontà del pittore. Egli arriva allora a decifrare il quadro, a scoprire ciò che all'interno dei rapporti e delle proporzioni dell'insieme formale non è stato previsto. Le scoperte del nostro distinto collezionista si pongono al livello dello spazio (pittorico). A questo punto della sua ricerca estetica il « soggetto » si pone delle domande e cerca di risolvere un problema: la relazione fra gli effetti del significato tecnicamente voluto e gli effetti di significato involontari (di cui alcuni dipendono proprio da lui, da « colui che guarda »). Comincia così a risalire dagli effetti subiti fino all'attività produttrice di significato, per ritrovarla, e tentare (illusoriamente, forse) di immedesimarvisi. Come si sa, la percezione « estetica » si pone a questo punto su vari livelli. Non è difficile riconoscere, almeno in un caso fortunato, il movimento filosofico cui si rifà Marx, e il pensiero marxista. I filosofi greci (post-socratici) hanno analizzato la pratica sociale· della conoscenza, e riflettendo sul sapere ne hanno catalogato i procedimenti relativi agli oggetti della conoscenza. All'apice di questa elaborazione teorica si trova la dottrina aristotelica del discorso (logos) e delle categorie, che sono insieme elementi del discorso e apprendimento (classificazione) degli oggetti. Molto più tardi, in Europa, la filosofia cartesiana affina e modifica la definizione di Logos: la filosofia interroga il Logos e lo rimette in questione, gli domanda i suoi titoli, le sue attestazioni di nobiltà, il suo certificato di origine e il suo stato civile. Con Cartesio, la filosofia sposta domande e risposte, cambia il suo centro; passa dal « pensiero-pensato » al « pensiero-pensante », dagli oggetti all'atto, dal discorso su ciò che è conosciuto al metodo conoscitivo, introducendo un'intera « problematica» (e delle nuove difficoltà). Marx riprende questa strada, allargandola e perfezionandola. Non si tratta più, per Marx, soltanto delle opere della conoscenza, ma delle cose nella pratica industriale. Egli risale, sulle tracce di Hegel e degli economisti inglesi, dai prodotti fino all'attività produttiva in quanto tale; ogni realtà data nello spazio si spiega attraverso una genesi nel tempo. Ma una attività che si dispiega nel tempo (storico) genera (produce) uno spazio, e solo nello spazio assume 127

una « realtà » pratica e un'esistenza concreta. Questo schema, ancora imprecisato, Marx lo sviluppa partendo da Hegel. Questo si verifica per un paesaggio, per un monumento, per un insieme spaziale (dal momento che non è « dato » nella natura) come per un quadro, un insieme di opere e prodotti. Una volta decifrati, un paesaggio o un monumento rimandano a una capacità creativa e a un processo significante, approssimativamente datati: cioè a un fatto storico. Ma datati in senso occasionale, cioè riferiti al giorno dell'inaugurazione del monumento o della sua commissione da parte del tal notabile, oppure datati in senso istituzionale, riferiti al momento in cui una domanda pressante ha preteso che una certa organizzazione sociale fosse espressa da un edificio, la giustizia da un palazzo, la chiesa da una cattedrale? Né l'uno né l'altro. La capacità creativa è sempre riferita ad una comunità o collettività, ad un gruppo o ad una frazione della classe operante, ad un « agente». Anche se commissione e domanda riguardano gruppi diversi, non possono essere attribuiti né a un individuo né ad una entità, ma ad una realtà sociale capace di investirsi in uno spazio: di produrlo con i mezzi e le risorse di cui dispone (forze produttive, tecniche e conoscenze, mezzi di lavoro, ecc.). Se c'è un paesaggio, sono i contadini che lo hanno modellato, cioè delle comunità (villaggi) sia autonome, sia dipendenti da un potere (politico); se c'è un monumento, è un gruppo urbano, libero o dipendente da un potere (politico), che lo ha costruito. La descrizione, per quanto necessaria, non può bastare; sarebbe completamente insufficiente, per conoscere uno spazio, descrivere dei paesaggi rurali, poi dei paesaggi industriali, poi una spazialità urbana. Il passaggio dall'uno all'altro è essenziale. La ricerca della capacità produttiva e del processo creativo risale, nella maggior parte dei casi, fino _a un potere (politico). Come si esercita questo potere? Si limita a ordinare o pretende di « domandare »? Qual è il suo rapporto con i gruppi subordinati, i gruppi che « domandano», qualche volta « commissionano», ma che comunque sempre «partecipano»? È:. un problema storico: il problema di tutte le città, di tutti i monumenti, di tutti i paesaggi. L'analisi di uno spazio porta su questo rapporto dialettico: domanda-committenza, e gli interrogativi: « Chi? Per chi? Da chi? Come e perché? » Nel momento in cui il rapporto dialettico (dunque conflittuale) cessa, e non c'è che domanda senza committenza, o committenza senza domanda, in quel momento cessa anche la storia dello spazio, e, senza alcun dubbio, cessa anche la capacità creativa. Se una produzione di spazio esiste ancora, è certamente secondo un ordine del Potere: si produce senza creare, si riproduce. Ma la domanda può cessare? Il silenzio non è la fine. 128

Così, pur non essendo né un « soggetto » né un « oggetto », ma una realtà sociale, cioè un insieme di relazioni e di forme, lo spazio evoca una lunga storia, che non coincide con l'inventario degli oggetti nello spazio (quello che è stato recentemente chiamato: la cultura o civiltà materiale), né con le rappresentazioni e il discorso sullo spazio. Essa deve rendere conto sia degli spazi di rappresentazione che delle rappresentazioni dello spazio, ma soprattutto dei loro rapporti interni, e con la pratica sociale; si situa così fra l'antropologia e l'economia politica. Catalogare (descrivere, classificare) gli oggetti può portare un contributo alla storia classica, se lo storico si occupa dei modesti oggetti quotidiani, il cibo, gli utensili di cucina, i pasti e i piatti, oppure i vestiti, o la costruzione delle case: materie e materiali di fabbricazione, ecc. La vita quotidiana prende forma negli spazi di rappresentazione, o piuttosto dà loro forma. Quanto alle rappresentazioni dello spazio (e del tempo), esse fanno parte della storia delle ideologie (considerando ideologie non solo quelle dei filosofi e delle classi dirigenti, ma estendendo questo concetto, che troppo spesso è limitato alle idee nobili: filosofia, religione, morale). La storia dello spazio mostrerebbe la genesi (e di conseguenza le condizioni nel tempo) di queste realtà che certi geografi chiamano reticoli, subordinati a delle armature (politiche). Fare la storia dello spazio non significa scegliere fra « processo » e « strutture », fra cambiamento e invarianza, fra avvenimenti e istituzioni, ecc.; anche la periodizzazione sarà diversa da quella generalmente accettata. Questa storia non si dissocia, evidentemente, da una storia del tempo (diversa anch'essa da ogni teoria filosofica sul tempo in generale): il punto di partenza della ricerca non si colloca in una descrizione geografica dello spazio-natura, ma piuttosto nello studio dei ritmi naturali, delle modificazioni prodotte in questi cicli, e nella loro inscrizione nello spazio attraverso i gesti umani, iri particolare i gesti del lavoro. Il punto di partenza dunque sono i ritmi spazio-temporali della natura, trasformati da una pratica sociale. Inizialmente, si troveranno delle determinazioni antropoligiche, implicanti connessioni con le forme elementari dell'appropriazione della natura: numeri, opposizioni e simmetrie, immagini del mondo, miti, elaborazione nelle quali sono difficilmente distinguibili la scienza e i simboli, la pratica e la teoria, il denotativo e il connotativo (retorico), o ancora le suddivisioni (spaziature) e le interpretazioni (rappresentazioni dello spazio), le attività dei gruppi parziali 129

(famiglie, tribù, ecc.) e quelle delle società globali. Cosa c'è, inizialmente, dietro e sotto queste elaborazioni? I primi tracciati, i modi di orientamento dei cacciatori, dei pastori, dei nomadi, in seguito memorizzati, segnati e interpretati simbolicamente 7~ Sullo spazio-natura, sul flusso eracliteo degli avvenimenti spontanei, su questo caos (l'al di qua del corpo), l'attività mentale e sociale getta le sue reti e stabilisce un ordine che, lo vedremo, coincide, fino a un certo punto, con quello delle parole. Percorso da sentieri e reticoli, lo spazio-natura cambia; si può dire che l'attività pratica vi si inscrive, che lo spazio sociale si scrive sulla natura (come scarabocchio, forse), determinando una rappresentazione dello spazio. I luoghi sono segnati e segnalati denominati. Fra i luoghi, così come all'interno dei reticoli, ci sono dei vuoti, dei margini. Non sono soltanto gli Holzwege, i sentieri nella foresta, ma anche le praterie e i campi. Quello che importa, quello che dura, è il sentiero, più che quelli che lo percorrono: il reticolo di sentieri degli animali (selvaggi o domestici), della gente (nella casa, intorno alla casa nel borgo o nel villaggio, nei dintorni). Le tracce, ovunque distinte e ben segnate, indicano i « valori » relativi ai vari percorsi: il pericolo, la sicurezza, l'attesa, la promessa. :B un grafico (che non appare come tale agli « attori », ma che si rivela nell'estrazione della cartografia moderna) che assomiglia molto cii più a una tela di ragno che a un disegno. Possiamo dire che si tratta di un testo, di un messaggio? Diciamo che l'analogia non chiarisce molto, e che si tratta di trame, più che di testi. Le architetture possono dirsi delle archi-trame, se si considera un monumento o un edificio nel suo contesto, coi suoi dintorni, lo spazio popolato e la rete di percorsi, come produzione di questo spazio. Ma questa analogia chiarisce poi la pratica spaziale? :B un problema su cui dovremo tornare. Lo spazio e il tempo non si dissociano nelle trame: lo spazio implica un tempo, e viceversa. I reticoli di percorsi non sono mai chiusi. Da ogni parte si incontra lo strano e l'estraneo, la minaccia e l'aiuto, il nemico o l'amico. La distinzione astratta di chiuso e aperto non è pertinente. Quali modi di esistenza assumono questi percorsi ·nei momenti in cui la pratica sociale non li attualizza, quando entrano negli spazi 7 Cfr. pubblicazioni varie, fra cui: V. Paques, L'arbre cosmique, Paris, 1964; Frobénius, Mythologie de l'Atlantide, tr. fr. Payot, 1949; G. Balandier, La vie quotidienne au royaume de Konga, Paris, 1965; L. de Heusch, Structure et Praxis chez les Le/e de Kasai, L'homme, 1964. Cfr. anche: Semeiological Analysis o/ the tradizional Africa settlement, Ekistics, 1972, di A. Logopoulos, ecc.

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di rappresentazione? Sono percepiti dentro o fuori della natura? Né l'uno, né l'altro. La gente anima questi percorsi, questa rete di sentieri, con racconti, con « presenze » mitiche, geni, spiriti propizi e non, percepiti come esistenze concrete. Esistono forse miti e simboli al di fuori di uno spazio mitico e simbolico, determinato anche come spazio pratico? Certamente no. Del resto non è del tutto escluso che queste determinazioni antropologiche, trasmesse nel corso del tempo da un certo gruppo, riprese, spostate, trasferite, possano conservarsi. Tuttavia, prima di arrivare ad affermare l'esistenza di invarianti strutturali e di una ripetizione-riproduzione, è indispensabile un attento esame. Riprendiamo il caso di Firenze 8• Nel 1172 il Comune di Firenze ristruttura il suo spazio urbano per far fronte all'estensione della città, del suo traffico, della sua giurisdizione. Ci fu in questo caso progetto e globalità, e non soltanto ripercussione sulla città di una realizzazione architettonica parziale: una piazza, dei ponti e delle strade. Lo storico può seguire abbastanza bene il gioco della commissione e della domanda; la domanda viene da chi vuole beneficiare delle protezioni e dei vantaggi che la città accorda; la commissione viene da un'autorità ambiziosa, che può permettersi la sua ambizione. Le mura romane sono abbandonate. In luogo delle quattro porte tradizionali ci saranno da ora. sei porte principali, più quattro porte secondarie sulla riva destra dell'Arno, e tre porte Oltrarno sono ormai integrate nella città. Lo spazio urbano così strutturato riproduce un Fiore simbolico, la Rosa dei venti, e si configura secondo una « imago mundi ». Ma lo storico dello spazio non può attribuire a questo spazio di rappresentazione, che viene da fuori e da lontano, la stessa importanza che spetta agli sconvolgimenti che trasformano il « contado » 9 e i suoi rapporti col centro, dando luogo a una rappresentazione dello spazio. Ciò che, nei tempi più antichi, fu antropologicamente essenziale, diventa accidentale nel corso della storia. ·II dato antropologico entra nella storia come un materiale, trattato diversamente secondo le circostanze, le congiunture, le risorse, e il mezzo impiegato. 10 Il divenire storico, che richiede spostamenti, sostituzioni, trasposizioni, si subordina materiali e mezzi. In ToscaJ'la si passa da uno spazio di rappresentazione (l'immagine del mondo) 'Cfr. J. Renouard, Les villes d'Italie, testo ciclostilato, fascicolo 8, p. 20. ' In italiano nel testo. 1° Cfr. ibidem, le indicazioni sullo spazio in Toscana e le sue ripercussioni, nel Quattrocento, sull'arte e sulla scienza. Più avanti, a proposito dei libri d1 E. Panovsky, Architecture gothique et pensée scolastique, e di P. Francastel, Art et Technique, questi problemi saranno ripresi. Se si accetta di mettere l'accento sull'architettura, il miglior contributo resta ancora quello di Viollet-le Due: Entretiens sur l'architecture.

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a una rappresentazione dello spazio, la prospettiva. Questo permette di datare storicamente un avvenimento importante della storia considerata. La storia dello spazio andrebbe dal tempo in cui finisc.e il predominio dell'antropologia al tempo in cui comincia propriamente la produzione dello spazio come prodotto industriale: al tempo in cui la riproducibilità, la produzione e riproduzione dei rapporti sociali prevalgono deliberatamente sull'opera, sulla riproduzione naturale, sulla natura stessa e sui tempi naturali. Questa considerazione è importante. Questa storia ha un inizio e una fine, una preistoria e una post-storia. Una preistoria: la natura domina lo spazio sociale. Una post-storia: la natura, localizzata, si allontana. In questi limiti, la storia dello spazio è indispensabile. Il suo inizio e la sua fine non sono databili in modo cronachistico. L'inizio stesso ha coperto un periodo di cui restano parecchie tracce (nelle case, nei villaggi e nelle città). Nel corso di questo processo, che possiamo chiamare storico, si costituiscono dei rapporti astratti: il valore di scambio, che si generalizza, il danaro e l'uro (e le loro funzioni), poi il capitale. Queste astrazioni, rapporti sociali che implicano delle forme, assumono una doppia esistenza sensibile. Il mezzo e l'equivalente generale del valore di scambio, il danaro, esistono nel « pezzo » di moneta. Ma le relazioni commerciali che l'impiego del danaro presuppone e produce esistono socialmente solo come proiezione sul terreno: sono le reti di rapporti (strade, mercati) e i centri gerarchici, le città. f: necessario supporre, per ogni epoca, un certo equilibrio fra i centri (il loro funzionamento) e l'insieme. Potremo dunque parlare di « sistemi » (urbani, commerciali, ecc.), ma solo in quanto aspetti minori, implicazioni o conseguenze dell'attività fondamentale: la produzione dello spazio. Con il XX seçolo si entra nell'attualità; ma questi termini (il « secolo », il moderno e la modernità) nascondono sotto la loro familiarità più di enigma, e richiedono, per la loro approssimazione, un'analisi approfondita. Per ciò che riguarda lo spazio, sono avvenuti cambiamenti decisivi, dissimulati da invarianti, prolungamenti, ristagni, soprattutto negli spazi di rappresentazione. Consideriamo la Casa, la Dimora. Nelle grandi città, e più ancora nel « tessuto urbano » che prolifera attorno alle città come risultato della loro esplosione, la Casa non è altro che una realtà storico-poetica, che si riallaccia al folklore, o se vogliamo all'etnologia. Ora, questo ricordo ossessiona, e persiste nell'arte, nella poesia, nel teatro, nella filosofia. Di più: si cala nella terribile realtà urbana che si instaura nel XX secolo; la riveste di un'aura nostalgica e ne anima la critica. Tanto Heidegger che Bachelard ne parlano nei loro scritti in modo com132

mosso e commovente, e la loro importanza e influenza è fuori dub_bio. La Casa porta con sé l'impressione di uno spazio privilegiato, ancora sacro, quasi religioso, vicino all'assoluto. La Poetica dello Spazio di Bachelard, e la sua « topofilia » collegano gli spazi di rappresentazione, che egli percorre come in sogno (e che distingue dalle rappresentazioni dello spazio, elaborate dalla conoscenza scientifica), a questo spazio intimo e assoluto.11 Ciò che questi spazi di rappresentazione contengono raggiunge una dignità quasi ontologica; i cassetti, i bauli, gli armadi richiamano i loro corrispettivi naturali, percepiti dal filosofo-poeta come figure fondamentali: il Nido, la Conchiglia, l'Angolo, il Cerchio. In secondo piano, se cosi si può dire, si profila, materna e persino uterina, la Natura. La Casa è insieme cosmica e umana. Dalla cantina fino al granaio, dalle fondazioni fino al tetto, ha una densità allo stesso tempo fantastica e razionale, celeste e terrestre. Fra la Dimora e l'Io, il rapporto è quasi di coincidenza. La Conchiglia, spazio segreto e vissuto, è per Bachelard il prototipo dello « spazio » umano e della sua qualità. Quanto a Heidegger, e alla sua sua idea di un Costruire vicino al Pensare, della Dimora che contrasta con il nomadismo, e che un giorno si allea forse con esso per accogliere l'Essere, questa ontologia si riferisce a cose e non-cose un po' lontane, perché esse stesse vicine alla Natura: la Brocca 12, la casa contadina nella Foresta Nera 13 , il Tempio 14. Tuttavia lo spazio, il bosco, il s~ntiero non sono niente altro e niente più che degli « essere-là », degli essenti, dasein. E se il filosofo si interroga sulla loro provenienza, se si pone una domanda « storica », la direzione e il senso non lasciano dubbi: il tempo per Heidegger conta più dello spazio; l'Essere ha una storia, e la storia non è che la Storia dell'Essere. Questo lo porta ad una idea ristretta e restrittiva del Produrre: un fare-apparire, uno scaturire che introduce una cosa, come cosa presente, fra le cose già presenti. Queste considerazioni, quasi-tautologie, aggiungono poco alla mirabile ma enigmatica formula: « Abitare è il tratto fondamentale dell'essere, in virtù del quale i mortali sono ». E il linguaggio non è altro che la Dimora dell'Essere. Questa ossessione dello spazio assoluto attraversa la storia (storia spazio-spazio della storia-rappresentazione dello spazio-spazio di rappresentazione), e rimanda a un sapere descrittivo, che indietreggia davanti all'analisi e più ancora davanti alla esposizione globale del processo generatore. Alcune scienze specialistiche hanno Cfr. op. cit., p. 19. Cfr. Essais et conferences, p. 198. "Ibidem, p. 191. 1• Cfr. Holzwege, ed. it. Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968. 11

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voluto assumere questo ruolo, e fra le altre l'antropologia (al cui nome di battesimo si aggiunge'volentieri un predicato, per spedìcarne l'ambizione: culturale, strutturale, ecc.). Di qui l'assunzione e l'applicazione (spostando e/o estrapolando) al mondo moderno di considerazioni relative al villaggio (di preferenza bororo e dogon, qualche volta provenzale o alsaziano), o alla casa tradizionale. Perché queste considerazioni conservano un senso? Per varie ragioni. Innanzitutto la nostalgia. Molti, specialmente i giovani, fuggono la modernità, le città, la vita difficile, verso le campagne, il folklore, l'artigianato e l'allevamento artigianale. Altri si danno al turismo per vivere una vita d'élite, o che passa per tale, nei paesi sottosviluppati, quelli del bacino mediterraneo, per esempio. E non è una contraddizione dello spazio di poco conto il fatto che questa fuga diriga le orde dei turisti verso spazi urbani (Venezia! Firenze!), o rurali, che il loro stesso arrivo distrugge. Perché essi usano e consumano lo spazio. La brutale liquidazione nei confronti della storia e del passato, che si sta compiendo oggi, è portata avanti in modo disuguale. Interi paesi (quelli dell'area islamica, per esempio frenano la loro industrializzazione, per conservare le loro dimore, i loro costumi, i loro spazi di rappresentazione sconvolti dallo spazio e dalla rappresentazione dello spazio dell'industria. Altri, molto avanzati, si sforzano _perché dimore, spazio tradizionale, costumi e rappresentazioni rimangano invariati. Nel Giappone super-industrializzato e superurbanizzato la casa, la vita, gli spazi tradizionali di rappresentazione, resistono, e non a livello di folklore (sopravvivenza, messa in scena turistica e consumo del passato culturale) ma come « realtà» attuale e pratica. Cosa che confonde i visitatori, infastidisce i modernisti e i tecnocrati di questo paese, incanta gli umanisti, e corrisponde, anche se da lontano, all'infatuazione occidentale per i villaggi e le case di campagna. Da questa sorprendente persistenza deriva l'interesse del libro di Amos Rappoport sull'antropologia della Casa 15 • In effetti la casa del Perigueux merita la stessa analisi dell'igloo eschimese o della capanna del Kenia, classici cavalli di battaglia dell'antropologia. I limiti dell'antropologia sono tanto più evidenti quando questo autore cerca di generalizzare degli schemi riduttivi (perché binari: l'intimità valorizzata e/o devalorizzata dalla casa, ecc.), e non esita ad affermare che in Francia, tradizionalmente, non si (chi?) riceve in casa, ma al caffè o al bistrot. 15 Pour une anthropologie de la Maison, Dunod, 1971, pgg. 101, 113 sul Giappone, ecc.

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L'antropologia non può nascondere l'essenziale. Non è nel Kenia o fra i contadini francesi o di altrove che si scopre lo spazio attuale (del capitalismo moderno), e se ne evidenziano le tendenze. Mettere in primo piano questi studi significa delimitare la realtà, dirottare il sapere, girare le spalle alla « problematica » attuale dello spazio. Per afferrarla non è agli etnologi, etnologi o antropologi che bisogna rivolgersi. Occorre innanzitutto riconsiderare il mondo « moderno » stesso, nel duplice aspetto che esso riveste: capitalismo, modernità. La materia prima della produzione dello spazio non è, come per gli oggetti particolari, un materiale particolare; è la natura stessa, trasformata in prodotto, malmenata, oggi minacciata, forse devastata, e, colmo del paradosso, localizzata a colpo sicuro. Bisognerebbe poter datare ciò che si può chiamare il momento dell'emergenza. Quando e dove, come e perché la conoscenza negletta di una realtà disconosciuta, cioè l'esistenza dello spazio e della sua produzione, ha cominciato ad essere riconosciuta? Sì, questa emergenza possiamo datarla con precisione. Fu questo il ruolo« storico » del Bauhaus, che l'analisi critica dovrà a più riprese esaminare. L'apporto del Bauhaus non consiste in una « posizione dell'oggetto » nello spazio, né in prospettive dello spazio, ma in una concezione dello spaz:o, in un concetto globale. In quel- momento (verso il 1920, dopo la prima guerra mondiale) si scopre nei paesi avanzati (Francia, Germania, Russia, Usa) una connessione, già prevista praticamente ma non ancora razionalizzata, fra l'industrializzazione e l'urbanizzazione, fra luoghi di lavoro e luoghi dell'abitare. Penetrando nel pensiero teoretico, questo legame si trasforma abbastanza presto in progetto, e anche in programma. Il paradosso è che questa « programmatica » sarà considerata a volte come razionale e a volte come rivoluzionaria, quando invece si addice perfettamente allo Stato, sia a quello del capitalismo di Stato che a q1,1ello del social:smo di Stato. In seguito vedremo come quèsto sia invece evidente e banale. Il programma era, per Gropius come per Le Corbusier, la produzione dello spazio. Paul Klee lo ha dichiarato: l'artista, pittore, scultore o architetto, non mostra uno spazio, ma lo crea. Gli uomini del Bauhaus hanno capito che non si possono produrre delle cose, le une separate dalle altre nello spazio, mobili e immobili, senza tener conto dei loro rapporti e del loro insieme. Impossibile giustapporle le une alle altre in un ammasso, somma o collezione di oggetti. A partire delle forze produttive, i mezzi tecnici e la problematica attuale, cose e oggetti si possono produrre nelle loro relazioni, con le loro relazioni. Prima gli insiemi - i monumenti, le città, la mobilia - creati dai vari artisti dipendevano 135

da criteri soggettivi: il gusto dei prìncipi, l'intelligenza del mecenate, il genio degli artisti. Per accogliere questo o quell'oggetto (« mobile ») legato ad un costume di vita aristocratico, gli architetti costruivano dei palazzi, e, accanto, le piazze per il popolo e i monumenti per le istituzioni. L'insieme componeva uno spazio dotato di uno stile, spesso splendido, mai definito razionalmente, che nasceva e moriva senza una precisa ragione. Ma ormai, Gropius lo intuisce scoprendo il passato e illuminandolo del presente, la pratica sociale cambia. La produzione degli insiemi come tali corrisponde alla capacità delle forze produttive, a una razionalità. Non si tratta dunque più di introdurre isolatamente delle forme, delle funzioni, delle strutture, ma di dominare lo spazio globale inglobando le forme, le strutture, le funzioni di una concezione unitaria. Cosa che verifica una idea di Marx: l'industria apre sotto i suoi occhi il libro nel quale vengono via via inscritte le capacità creative dell'« uomo» (essere sociale). Gli uomini del Bauhaus, artisti associati per l'elaborazione di un progetto totale (quello di un'arte totale), hanno scoperto, con Klee 16, che l'osservatore può girare attorno a ogni oggetto nello spazio sociale - includendo negli oggetti le case, gli edifici, i palazzi e non soltanto fissarlo, e considerarlo da un punto di vista privilegiato. Lo spazio si apre alla percezione, al pensiero, come all'azione pratica. L'artista passa dagli oggetti nello spazio al concetto di spazio. Nella stessa epoca i pittori d'avanguardia approdano a risultati molto simili: un oggetto può essere colto simultaneamente in tutti i suoi aspetti, perché la simultaneità trattiene e riassume una successione temporale. Da questo derivano diverse conseguenze:

a) Una coscienza nuova dello spazio, che lo esplora (il surrounding, i dintorni di un oggetto) sia riducendolo intenzionalmente al disegno, al piano, alla superficie della tela, sia, al contrario, trattandolo per mezzo di fratture e rotture dei piani, per restituire sulla tela la profondità spaziale. Da cui deriva una dialettizzazlone specifica. b) La facciata scompare: volto che si offre a chi osserva, aspetto o lato privilegiato dei quadri e monumenti (il fascismo, al contrario, accresce l'importanza delle facciate, puntando ad una « spettacolarizzazione» completa, fin dal periodo 1920-1930). e) Lo spazio globale si colloca nell'astrazione, come un vuoto da riempire, un ambiente da popolare. Di cosa? La pratica sociale del capitalismo non troverà una risposta che più tardi. Lo si popolerà " «

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L'arte non riflette il visibile; essa mostra il visibile » (Klee, 1920).

di immagini, di segni, di oggetti commerciali. E ne deriverà questo pseudo-concetto: l'ambiente (di chi? Di cosa?). Lo storico dello spazio, affrontando l'epoca moderna, può affermare senza tema di errore il ruolo storico del Bauhaus. In quell'epoca (1920-1930), al di là dei grandi sistemi filosofici e delle grandi ricerche matematiche e fisiche, la riflessione sullo spazio e sul tempo si lega alla pratica sociale, e più precisamente alla pratica industriale e alle ricerche architettoniche e urbanistiche. Questo passaggio dall'astrazione filosofica all'analisi della pratica sociale merita di essere sottolineato. Nel corso di questo passaggio, i promotori del Bauhaus, che assieme ad altri lo provocarono, si credettero molto di più che degli innovatori: si credettero dei rivoluzionari. A mezzo secolo di distanza, questa qualità non si può attribuire che al Dada e ai dadaisti (e, con qualche precauzione e riserva, a certi surrealisti). ~ facile stabilire il ruolo storico del Bauhaus, ma è difficile mostrarne l'ampiezza e i limiti. Esso fu causa e ragione di un cambiamento di prospettive estetiche, oppure solo il sintomo di un cambiamento nella pratica sociale? Forse più quest'ultima cosa, contrariamente a ciò che pensa la maggior parte degli storici dell'arte, dell'architettura e della pittura. Cosa hanno prodotto le audacie del Bauhaus? L'architettura mondiale, omogenea e monotòna, dello Stato, capitalistico o socialista. Come, e perché? 17 • Se c'è una stor:a dello spazio, se c'è una specificità dello spazio secondo i periodi, le società, i modi e i rapporti di produzione, c'è anche uno spazio del capitalismo, cioè della società gestita e dominata dalla borghesia. Gli scritti e le opere del Bauhaus, di Mies Van der Robe fra gli altri, hanno dunque abbozzato, formulato, realizzato questo spazio? Ma il Bauhaus si pretendeva rivoluzionario! Bisognerà ritornare su questa ironia della « Storia». L'iniziat:va di una riflessione sulla storia dello spazio spetta a E. Giedeon 18 • Staccandosi dalla pratica, ma elaborando l'oggetto teorico, egli mette al centro della storia lo spazio, e non il genio creatore, lo spirito del tempo, le tecniche, ecc. Secondo Giedeon si sono succeduti tre periodi. Nel primo (Egitto, Grecia), i volumi architettonici sono concepiti e realizzati insieme con i loro rapporti sociali, quindi dal di fuori. Il Pantheon di Roma indica già un'altra concezione: lo spazio interno del monumento diventa preponderante. La nostra epoca cerca di superare l'opposizione esterno-interno, 17 Cfr. Miche! Ragon, Histoire mondiale de l'architecture et de l'urbanisme modernes, in particolare II, p. 147 e sgg. "Space, Time and Architecture, 1941.

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di pensare l'interazione e l'unità degli spazi. L'autore inverte la realtà dello spazio sociale. Il Pantheon, simbolo del Mondo (il Mundus), si apre verso la luce; l'Imago Mundi, la semisfera o cupola interna, simbolizza l'esterno. Quanto al tempio greco, esso racchiude uno spazio sacro e consacrato, quello del dio localizzato e del luogo divinizzato, centro politico della Città 19 • Da dove deriva l'illusione? Da un errore iniziale, che si ritrova un po' ovunque. Giedeon postula uno spazio preesistente, lo spazio euclideo, nel quale vengono a investirsi e a rendersi sensibili le emozioni e le aspettative umane. Lo spiritualismo intrinseco a questa filosofia lo spazio traspare anche in L'eterno presente, dello stesso autore (1964, ed. it. Feltrinelli, 1969), che non riesce a sbarazzarsi di questa ingenua oscillazione fra lo spirito e lo geometria. D'altra parte, egli non separa la storia da lui elaborata dalla storia dell'arte e dell'architettura, quando si tratta invece di ben altra cosa. L'immagine di uno spazio vuoto, popolato di messaggi visuali, è il limite anche del pensiero di Bruno Zevi, per il quale 20 lo spazio geometrico si anima in ragione dei gesti e degli atti di coloro che lo abitano. Molto opportunamente, egli richiama una verità; ogni edificio, ogni costruzione ha un interno. E non soltanto un esterno. Esisterebbe dunque uno spazio architettonico definito dalla relazione interno/esterno, strumento dell'architettura nella sua azione sociale. Ma non è forse sorprendente aver dovuto richiamare a questa dualità, alcune decine di anni dopo il Bauhaus, in Italia, paese classico dell'architettura? Questo significa che l'analisi critica della facciata non ha funzionato. Lo spazio è rimasto strettamente visuale, subordinato a una « logica della visualizzazione ». Per Bruno Zevi un elemento corporeo (gestuale), di cui l'educazione dell'occhio deve tener conto, è il supporto della percezione visiva dello spazio. Questo « vissuto » dell'esperienza spaziale, « incarnante » in quanto corporale, B. Zevi lo riporta al sapere, quindi alla « coscienza », e tuttavia, nel suo libro, la priorità dello spazio ottico (geometricovisuale) non è messa in dubbio dal suo contenuto. L'autore ne apprezza l'importanza soltanto sul piano pedagogico, nell'insegnamento dell'architettura e nella formazione degli esperti. Non porta il problema al livello teorico. Secondo Zevi, se lo sguardo non dominasse lo spazio, come potremmo giudicare « bello » e « brutto » uno spazio, e dare a questo criterio estet:co un valore primordiale? Come può uno spazlo costruito soggiogare o respingere! se non at-

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Cfr. Heidegger, Holzwege, cit. Cfr. Saper vedere l'architettura, Torino, Einaudi, 1948.

traverso l'uso 21 ? Le opere ricordate segnano senza dubbio una data nella storia dello spazio: la annunciano, ne indicano la problematica, ne tracciano la strada. Ma la storia dello spazio dovrà mostrare il crescente predominio dell'astrazione e del visuale, evidenziandone le connessioni interne. Essa della « log:ca del visuale » dovrà mostrare la genesi e il significato, cioè la sua implicita strategia, perché una « logica » particolare non è mai niente altro che la fallace denominazione di una strategia. 9. Dalla storia così concepita il materialismo storico riceve un allargamento e una verifica che lo trasformano. La sua obiettività si fa più profonda. Non si concentra soltanto sulla produzione delle cose e delle opere, sulla (doppia) storia di questa produzione; partendo dalla natura come « materia prima » e allargandosi allo spazio e al tempo, sviluppa il concetto di produzione, il cui prodotto, lo spazio, avvolge nello stesso tempo le cose (beni, oggetti) e le opere. Il riassunto della storia, il suo « compendio » e il suo « indice », non si trovano soltanto nelle filosofie, ma, al di là della filosofia, si trovano in questa produzione che contiene sia il concreto che l'astratto, storicizzandoli, invece di lasciarli nell'assoluto filosofico. Si porta a termine in questo modo la relativizzazione della storia, invece di farne un sostituto della metafisica (una ontologia del divenire). La preistoria, la storia e la post-storia ricevono un senso. Il periodo propriamente storico della storia dello spazio coincide con l'accumulazione del capitale, dalla sua fase primitiva fino al mercato mondiale, nel regno dell'astrazione, Quanto al materialismo dialettico, anch'esso ne riceve maggiore estensione, una verifica e trasformazione. Appaiono infatti nuovi movimenti dialettici: opera-prodotto, ripetizione-differenza, ecc. Il movimento dialettico immanente alla divisione del lavoro risulta approfondito dalla chiarificazione del rapporto fra l'attività produttiva il lavoro, globale in quanto lavoro sociale, ma nello stesso tempo diviso e parcellizzato) e questo prodotto, privilegiato, in quanto è anch'esso uno strumento: lo spazio. La « realtà » dello spazio come sostanza naturale e la sua « irrealtà » come trasparenza si dissolvono simultaneamente. Lo spazio appare come « realtà » in quanto luogo dell'accumulazione, della crescita, della merce, del capitale; ma questa « realtà » perde la sua apparenza sostanziale e autonoma quando l'analisi ripercorre la sua genesi: la sua produzione.

"B. Zevi, Saper vedere l'architettura, cit., pgg. 20-21, e le osservazioni di Ph. Boudon, L'espace architectural, Dunod, 1971, p. 27 e sgg.

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Resta una domanda, finora non espressa: qual è esattamente il modo di esistenza dei rapporti sociali? Naturalità? Sostanzialità? Astrazione. formale? Lo studio dello spazio permette di rispondere: i rapporti sociali di produzione hanno un'esistenza sociale in quanto hanno un'esistenza spaziale; essi si proiettano nello spazio, e vi si inscrivono mentre lo producono. Se così non fosse, resterebbero nell'astrazione « pura », cioè nelle rappresentazioni e di conseguenza nell'ideologia o, per dirla diversamente, nel verbalismo, nel vaniloquio, nelle parole. Quanto allo spazio stesso, poiché esso è insieme prodotto del modo di produzione capitalistico e strumento economico-politico della borghesia, presenta delle contraddizioni. La dialettica esce dal tempo, e si realizza; opera, in maniera imprevista, nello spazio. Le contraddizioni dello spazio, senza abolire quelle derivanti dal tempo storico, escono dalla storia, e nella simultaneità mondiale portano ad un altro livello le vecchie contraddizioni, smussandone alcune, aggravandone altre, mentre l'insieme contradditorio assume un nuovo significato e designa un'« altra cosa»: un altro modo di produzione.

10. Tuttavia, non tutto è stato detto circa l'inscrizione del tempo nello spazio, cioè sul processo temporale che genera. (produce) la spazialità, sia che si tratti dei corpi, della società, del cosmo, del mondo. La filosofia non ha lasciato che schemi molto poveri. Il mondo: sequenza di oscuri fenomeni che avvengono nelle tenebre. Il cosmo: simultaneità luminosa, L'eraclitismo: il flusso universale, sempre nuovo, trascina gli « esseri », e ogni loro stabilità non è che apparenza. Da cui il primato assoluto sia della differenza (novità, sempre, senza tregua, e tragicamente, novità), sia della ripetizione (sempre, ovunque, e comicamente, ripetizioni). Per gli uni, dunque, lo spazio è la decadenza, l'abbandono, l'espulsione dal tempo, che espelle dall'Essere (eterno); lo spazio, collezione di cose, separa, disperde, smembra; avvolge e mistifica la finitezza. Per altri, invece, lo spazio è la culla, il luogo di nascita, il centro delle comunicazioni e degli scambi della natura con la società: quindi sempre fecondo di tens:oni e/o accordi. Che un tempo, partendo da un germe (e di conseguenza da una origine relativa), si realizzi in uno spazio; che questa realizzazione, incontrando delle difficoltà, si fermi e si riposi; che durante queste pause il processo ritorni verso l'origine che porta in sé, per recuperare altre risorse; che riparta in seguito per proseguire fino alla estinzione; non sarebbe questo uno schema dello spazio e del tem-

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po, schema ancora troppo poco esplorato? Il feed-back, ammesso che esista, non metterebbe in azione un sistema attuale, ma una sincronizzazione con l'insieme diacronico, che non scompare in nessun « essere» vivente. La risorsa, la disponibilità, risalgono all'origine. 11. Per quanto concerne i rapporti fra il linguaggio e lo spazio, sono g:à state espresse alcune considerazioni. Non è accertato che i sistemi di segni non verbali discendano dagli stessi concetti e categorie dei sistemi verbali, e forse non sono nemmeno dei sistemi, poiché i rapporti fra elementi e momenti sono più di contiguità e similarità, che di sistematizzazione coerente. Tuttavia, il problema non è risolto. Nel discorso, come nello spazio, le parti si articolano: si includono, si escludono: nel linguaggio, come nello spazio, c'è un primo e un dopo, ma l'attuale predomina sia sul passato che sul futuro. Le seguenti domande sono dunque perfettamente ammissibili: « Gli spazi forgiati dall'attività pratico-sociale, i paesaggi, i monumenti, gli edifici, hanno dei significati? Lo spazio occupato da uno o più gruppi sociali può essere considerato come un messaggio? L'opera (architettonica o urbana) deve essere concepita come una modalità particolare dei mass-media? Uno spazio sociale può essere concepito come un linguaggio, come un discorso, derivante da una pratica definita, la lettura-scrittura? Alla prima domanda, bisogna rispondere: «sì». E chiaro. Per la seconda, invece, la risposta è più ambigua: « Sl e no». Uno spazio contiene un messaggio, ma è riducibile a questo messaggio? O non implica, forse, qualcos'altro: altre funzioni, forme, strutture, che non quelle del discorso? Bisognerà esaminarlo con cura. Quanto alla terza domanda, la risposta implicherà le più grosse riserve, e avremo modo di esplicitarle. La conoscenza del linguaggio e dei sistemi di segni (verbali e non verbali) sarà certo utile anche nei confronti dello spazio. Fino ad ora si aveva la tendenza a esaminare ogni frammento o elemento dello spazio a parte, ricollegandolo al suo passato, dunque etimologicamente. Oggi si studiano gli insiemi, configurazioni e strutture; ma questo al prezzo di un estremo formalismo, di una feticizzazione della coerenza nel sapere e della coesione nella pratica: al prezzo della logologia. Si arriva a pretendere che il discorso e il pensiero non la razionalità preesistente. Per altri invece i sensi e i segni non « esprimono» niente; sono arbitrari, e si collegano -secondo le esigenze di differenze indotte, all'interno di una convenzione. In questo senso la teoria dell'arbitrarietà si spinge cosi lontano da compromettere il linguaggio stesso, del quale bisogna ristabilire un supporto: il corpo, le pulsioni, ecc. L'ipotesi dell'intervento di un Logos preesistente, sostanzialeetemo, non impedisce comunque alla domanda di ripresentarsi altrove. Hegel e Marx, nelle loro analisi, arrivano a individuare delle «cose-non-cose», astrazioni concrete: per Hegel il concetto, per Marx la merce. La cosa (che per Marx è il prodotto di un lavoro sociale, destinato allo scambio e in questo senso dotato di un doppio valore, d'uso e di scambio) contiene e nello stesso tempo dissimula i rapporti sociali, di cui costituisce il supporto. Eppure, secondo Marx, la cosa in quanto merce ha cessato di essere cosa; o meglio, per quanto rimanga cosa, essa diventa un « oggetto ideologico » caricato di significazioni. Come merce, essa si risolve in relazioni: non ha più che un'esistenza astratta, a tal punto che si è tentati di vederla soltanto come segno, e segno di segni (il danaro). Il problema del supporto non è dunque completamente risolto dalla permanenza della materialità. La domanda inizialmente posta è riferita qui in modo specifico allo spazio sociale, questa cosa-non-cosa che non ha né una realtà sostanziale né una realtà mentale, che non si risolve in astrazioni e non consiste né in una colle:done di cose né in una somma di luoghi occupati. Esso non è uno spazio-segno, né un insieme di segni concernenti lo spazio, e non si realizza né nei segni astratti né nelle cose reali che contiene. La natura, lo spazio-natura o spazio fisico, è la base sulla quale, mediante trasformazioni che possono arrivare anche alla totale sostituzione e alla minaccia di distruzione, esso stabilisce degli strati successivi e intrecciati di reti sempre materializzate, e tuttavia distinte dalla loro materialità: dei sentieri, delle strade, delle ferrovie·, delle linee telefoniche, ecc. La teoria ha mostrato come nessuno spazio, compreso lo spazio naturale delle origini, scompaia nel corso del processo sociale, e come invece persista in « qualcosa » che non è una cosa. Ognuno di questi supporti. materiali ha una forma, una funzione, una struttura, delle proprietà, ma queste sono necessarie ma non sufficienti per definirlo, poiché in realtà ogni supporto che si instaura in un certo spazio non ha senso e fine che dentro e mediante questo spazio. 384

Ogni rete, ogni catena, quindi ogni spazio, è destinato a uno scambio e a un uso, e contemporaneamente, come prodotto, è usato e consumato sia produttivamente che improduttivamente. Esiste uno spazio della parola che suppone, come ognuno sa, le labbra, le orecchie, gli strati d'aria, i suoni, come proprie condizioni materiali, che tuttavia non sono sufficienti a definirlo come spazio di azioni e interazioni, di richiami a richieste, di espressioni e di potenza, di violenza latente e di rivolte; è spazio del discorso, che non coincide col discorso sullo spazio e nello spazio. Lo spazio della parola avvolge quello dei corpi, e si sviluppa da quello delle tracce, delle scritture, della prescrizione e dell'adesione. Per quanto riguarda la merce, è evidente che il supporto materiale della sua esistenza generale non sono né i chilogrammi di zucchero, né i "pacchetti di caffè, né i metri di tessuto; che bisogna prendere in considerazione anche i magazzini e i depositi dove queste cose vengono conservate, e i battelli, i treni, i camions che servono al loro trasporto, quindi anche gli itinerari; e che nemmeno esaminando questi oggetti uno per uno si può arrivare al mondo della merce, ad una definizione di questo insieme di oggetti per la quale non bastano né la nozione informatica di «canale», né quella di « classificatore», né tantomeno quella di « flusso ». Bisogna considerare che questi oggetti costituiscono delle reti e delle catene di scambio relativamente determinate in uno spazio, e che il mondo della merce non avrebbe nessuna « realtà » senza questi punti di attacco e di collegamento, senza il loro insieme. Punti che rappresentano quello che le banche e le reti bancarie rappresentano per il mercato dei capitali, per i trasferimenti di moneta, quindi per il confronto e la perequazione dei profitti, e per la ripartizione del plusvalore. All'apice di questo processo c'è lo spazio planetario con i suoi vari « strati», le sue reti, i collegamenti: il mercato mondiale e la divisione del lavoro da esso avvolta-coinvolta, lo spazio dell'informatica, quello delle strategie, ecc. Spazio planetario che comprende ai vari livelli quello dell'architettura, dell'urbanistica, della pianificazione spaziale. Il « mercato mondiale» non è un'entità sovrana o una realtà strumentale che l'imperialismo possa manipolare a suo gradimento~ e sotto il suo totale controllo. Per certi aspetti solido, e fragile per certi altri, esso si distingue in mercato delle merci e mercato dei capitali, in uno sdoppiamento che lo sottrare a una applicazione meccanica della logica e della coerenza. Sappiamo che la divisione tecnica del ·lavoro introduce delle complementarità (cioè delle operazioni razionalmente concatenate) mentre la divisione sociale ge385

nera delle disparità, delle distorsioni e dei conflitti in maniera considerata «irrazionale». I rapporti sociali di produzione non scompaiono nel « quadro» mo11-diale, anzi vi si riproducono. Per mezzo delle interazioni il mercato mondiale disegna configurazioni e inscrive sulla superficie terrestre gli spazi mutevoli delle contraddizioni e dei conflitti. I rapporti sociali, astrazione concreta, diventano reali in e mediante lo spazio. Il loro supporto è spaziale. La connessione « supporto-rapporto» richiede un'analisi caso per caso, e comporta una implicazione-esplicazione: una genesi, una critica delle istituzioni, sostituzioni, trasposizioni, metaforizzazioni, anaforismo, ecc. che hanno trasformato lo spazio. 2. Questi enunciati implicano-esplicano a loro volta il progetto di una conoscenza che sia contemporaneamente descrittiva, analitica e globale, e che, volendo cedere alla tentazione di darle un nome, potremmo chiamare «spazio-analisi», o «spazio-logia». Ma tale termine che, corrispondendo ad altri già in uso come « semio-analisi » o « socio-analisi » (per non parlare della psicanalisi), potrebbe offrire un certo vantaggio, comporta anche parecchi inconvenienti. Innanzitutto il rischio di mettere in secondo piano l'idea fondamentale. Questa conoscenza non deve fissarsi sullo spazio in quanto tale, né costruire dei modelli, dei tipi o dei prototipi di spazi, ma mostrare la produzione dello spazio. Mentre la scienza dello spazio (spazio-analisi) metterebbe in evidenza l'uso dello spazio, le sue proprietà qualitative, la conoscenza ha come momento fondamentale il momento critico (la critica del sapere): la conoscenza dello spazio implica la critica dello spazio. Inoltre l'ipotesi di una «. spazio-analisi » potrebbe nuocere, rendendolo oscuro, al progetto di una ritmanalisi che completi l'esposizione della produzione dello spazio. Lo spazio intero (sociale) parte dal corpo, anche se poi lo metamorfosa fino a dimenticarlo, e se ne separa fino ad ucciderlo. La genesi di un ordine futuro non può essere descritta che partendo dall'ordi1;1e più vicino, quello del corpo. Nel corpo stesso, considerato spazialmente, gli strati successivi dei sensi (dall'odòrato alla vista, consideraii come differenze in un campo differenziale) prefigurano gli strati dello spazio sociale e le loro connessioni. Il corpo passivo (i sensi) e il corpo attivo (il lavoro) si ricongiungono nello spazio. L'analisi dei ritmi deve servire alla necessaria e inevitabile restituzione del corpo totale. Per cui l'importanza della ritmanalisi è fondamentale e richiede molto di più che

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una metodologia e una concatenazione· teorica di concetti, e qualcosa di meglio che un sapere soddisfatto.

l. Questa nostra ricerca ed elaborazione teorica si presentano, in rapporto alla filosofia tradizionale, come metafilosofia. La metafilosofia, chiarendo i compiti, il linguaggio; gli scopi e le implicazioni della filosofia, ne mostra anche i limiti, e li supera, senza che della ricerca filosofica niente venga abolito, né le sue categorie, né la sua tematica, né la sua problematica. Ma la filosofia in quanto tale si è ad un certo punto arrestata, incapace di risolvere le contraddizioni che essa stessa aveva provocato; e per i filosofi lo spazio si è scisso, diventando sia l'intelligibile (essenza e trasparenza dell'assoluto spirituale) che l'inintelligibile (degradazione dello spirito, naturalità assoluta, fuori dello spirito), sia lo spazio-forma che lo spazio sostanza, sia il cosmo o lo spazio luminoso che il mondo o lo spazio tenebroso. La filosofia in quanto tale non può superare queste scissi~rti e divisioni che derivano dall'atteggiamento filosofico stesso, che è speculativo, contemplativo, sistematico, estraneo alla pratica sociale e alla critica politica attiva. Ma la metafilosofia, invece di dar seguito alle metafore della filosofia, le denuncia; il filosofo, « p:reso nella rete del linguaggio», nel momento in cui la riflessione si occupa del tempo e dello spazio abbandona il campo, invece di lasciarsi intrappolare. La critica della filosofia come ideologia non è cosa facile, poiché bisogna conservare il concetto di verità e la verità del concetto, che la degradazione e il fallimento dei sistemi filosofici trascinano nella loro rovina; essa rimane incompiuta in questa sede, ma sarà portata avanti altrove, attraverso il confronto specifico fra la più potente delle « sintesi », quella di Hegel, e la sua critica radicale, operata a partire dalla pratica sociale da Marx, e a partire dall'arte (musica, poesia, teatro) di Nietzsche. E da entrambi a partire dal corpo (materiale). L'ostacolo insormontabile della filosofia è sempre stato il problema del « soggetto» e dell'« oggetto», e del rapporto tra i due termini. Il « soggetto »? Concetto filosoficamente privilegiato in occidente, il Cogito, l'io pensante (empirico o trascendentale), si dissolve sia nella pratica che nella teoria. Eppure il problema del « soggetto » posto dalla filosofia, come quello del suo rapporto con l'« oggetto», resta fondamentale. Ma quale «oggetto», e quale « soggetto »? Sia l'uno che l'altro possono essere caricati di ide~ logia (di segni e significazioni). Quando la filosofia ha concepito 387

il soggetto senza oggetto, il puro « io » pensante (la « res cogitans »), e l'oggetto senza soggetto (il corpo-macchina, la« res extensa »), ha irrimediabilmente frantumato ciò che cercava di definire. Dopo Cartesio, il Logos occidentale ha vanamente tentato di riincollare i vari pezzi, e di ricomporre un montaggio. Ma l'unità del soggetto e dell'oggetto nell'« uomo» e nella «coscienza» aggiunse una finzione filosofica alla lista, già lunga, delle entità. Hegel si avvicinò molto al su