La prima Lettera ai Tessalonicesi. Introduzione, versione, commento 8810206134, 9788810206133

La ricerca risponde all'intento di indagare sulle tracce dell'origine storica dell'evento Chiesa, nelle m

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La prima Lettera ai Tessalonicesi. Introduzione, versione, commento
 8810206134, 9788810206133

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La ricerca risponde all'intento di indagare sulle tracce dell'origine storica dell'evento Chiesa, nelle molteplici funzioni della sua vita, e sulle prime espressioni letterarie della sua autocomprensione, in attesa di giungere col tempo alle più compiute te­ matizzazioni ecclesiologiche. La Prima let­ tera ai Tessalonicesi è la risposta privile­ giata a tale scopo: è infatti il primo scrit­ to del Nuovo Testamento e, insieme, la pri­ ma preziosa traccia letteraria dell'evento Chiesa e della comprensione che ne ha Paolo.

È inoltre testimonianza viva della

fede, amore e speranza di cui è animata la comunità. Questa si manifesta così nel suo vero volto, nel quale risplendono sia la ric­ chezza del dono di Dio, Padre, Figlio e Spi­ rito, sia l'aperta disponibilità dell'aposto­ lo e degli stessi credenti a rendersene esi­ stenzialmente partecipi. Da qui il bisogno, anche per i cristiani di oggi, di rispec­ chiarsi in quella esemplarità che ha reso i cristiani di Tessalonica "typos", ossia mo­ dello "a tutti i credenti che sono nella Ma­ cedonia e nell'Acaia", favorendo il diffon­ dersi in ogni luogo della fama della loro fe­ de. Questo il senso dell'esortazione all'o­ perosità della fede, alla fatica dell'amore e soprattutto alla "speranza perseverante". L'esortazione è rivolta particolarmente a quei cristiani che, incapaci di cogliere do­ vunque i segni innovatori dello Spirito, di fronte alla prova diventano tristi come co­ loro

che

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"non

hanno

speranza"

(l Ts

LA PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI Introduzione, versione, commento di PAOLO !OVINO

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA

ai miei alunni

c 1992 Centro Editoriale Dehoniano via Nosadella, 6 - 40123 Bologna ISBN 88-10-20613-4 Stampa : Grafiche Dehoniane, Bologna 1992

Abbreviazioni

(Qui vengono date solo le abbreviaz ioni bibliografic he; per quelle delle fonti anti­ c he cf. GLNT, l, 21*-62*. Di alcuni periodici non si trova qui la sigla , perché il loro titolo è dato per esteso , o con lunghe abb reviazioni, nella Bibliografia) . ANRW ASE BEThL BHG

Bi BibTB BJ BJRL BNTC

BWANT BZ CBC CB .NT CBQ CEI

Aufstieg und Niedergang der Romischen Welt Annali di Storia dell'Esegesi Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium

Bibliotheca Hagiographica Graeca Biblica Biblica} Theology Bulletin Bible de Jérusalem Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester Black's New Testament Commentaries Beitrage zur Wissenschaft vom Al ten und Neuen Testament Biblische Zeitschrift ·

css

Cambridge Bible Commentary Coniectanea Biblica. New Testament Series Catholic Biblica] Quarterly Traduzione italiana della Bibbia a cura della Conferenza Epi scopale Italiana Corpus Inscriptionum Graecarum Corpus lnscriptionum Latinarum Commentaire du Nouveau Testament. Neuchàtel Commenti Spirituali al Nuovo Testamento Cursus Scripturae Sacrae

DBS DCBNT

Dictionnaire de la Bible , Supplément Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento

CIG CIL CNT(N) CSNT

­

6

Abbreviazioni

EB EC EKK ET EThL EThSt ETR

Études Bibliques Enciclopedia Cattolica Evangelisch-Katholischer Kommentar zum Neuen Testament Expository Times Ephemerides Theologicae Lovanienses Erfurter Theologische Studien Études Théologiques et Religeuses

FRLANT

Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und Neuen Testaments

GLNT

Grande Lessico del Nuovo Testamento

HC HNT HSNT HThR

Hand-Commentar zum Neuen Testament Handbuch zum Neuen Testament Die Heilige Schrift des Neuen Testaments Harvard Theological Rewiev

ICC IntB

lntemational Criticai Commentary of the Holy Scriptures Interpreter's Bible (J .W. Clarke)

JBL JThS

Joumal of Biblical Literature Journal of Theological Studies

KEK

Kritisch-Exegetischer Kommentar iiber das Neue Testament (Meyer)

LCNT LeDiv

London Commentary on the New Testament Lectio Divina

NCBC NIC NT NTD NTS NVB

New Century Bible Commentary New International Commentary on the New Testament Novum Testamentum Das Neue Testament Deutsch New Testament Studies Nuovissima Versione della Bibbia

PG

Patrologia Graeca (Migne)

RB RBibArg RivBib RNT RSPhTh

Revue Biblique Revista Biblica Argentina Rivista Biblica (Italiana) Regensburger Neues Testament Revue des Sciences �hilosophiques et Théologiques

Abbreviazioni

RSR RThom

Recherches de Science Religieuse Revue Thomiste

SB SBL SB(PC) SP

Studi Biblici Society of Biblica! Literature Sainte Bible (L. Pirot-A. Clamer) Sacra Pagina

ThZ TOB

Theologische Zeitschrift Traduction Oecuménique de la Bible

UTB

Urban Taschenbiicher

vs

Verbum Salutis

ZBK ZNTW ZSTh ZThK

Ziircher Bibelkommentar Zeitschrift fiir die Neutestamentlische Wissenschaft Zeitschrift fiir Sistematische Theologie Zeitschrift fiir Theologie und Kirche

7

9

Prefazione

Nel1971 iniz iai i miei corsi di esegesi del Nuovo Testamento nell'Istituto teo­ logico per la Sicilia occidentale «S. Giovanni Evangelista », che proprio in quel· l'anno avv iava il suo cammino, portatore di rinnovata speranza in risposta alle molte a tte se. Nel1981, l'erezione del medesimo Istituto in Facoltà teologica di Sicilia, co n specializzazione in eccle siologia, segn ò una tappa decisiva nel cammino intrapre­ so e un momen to di convergenza ecclesiale nella proge ttualità di un ambito mini­ steriale da tutti ritenuto rilevante per la crescita delle nostre c hie se e, a detta di s. santità Giovanni Paolo II che, nel1982, venne a visitarci, della stessa società sici­ liana. Un a uspicio che non pu ò certo essere disatteso, pena la perdita de lla stessa identità di questo nostro centro accademico . Dal punto di vista esegetico -biblico, ne ll'arco di questo ventennio, ho intensi­ ficato la ricerca sugli scritti paolini, iniziata ne lla Faculté de théologie catholique di Stra sburgo sotto la guida dell'indimentica to pro f Josep h Schmitt e, successiva­ mente, presso il Pontificio istituto biblico di Roma e l'Ecole biblique di Gerusa­ lemme. Neg li ultimi dieci an ni, in sintonia con le esigenze della nuova Facoltà e del suo orientamen to specialistico, la mia ricerca è andata ampliandosi a tu tto l'epi­ stolario neote stamentario e, in parte, agli Atti degli apo stoli, nel preciso in tento di indagare su lle tracce dell'origine storica dell'evento chiesa, nelle moltep lici «fun­ zioni» de lla sua vita, e delle conne sse, prime espre ssività letterarie della sua auto­ comprensione, per giungere infine a lle più compiute tematiz za zioni ecclesio­ logiche . Ne ll'an no di grazia 1991, c he ha aperto il secondo decennio della no stra gio­ vane Facoltà, ho completato questo mio lavoro che ade sso vede la luce, segno di que lla ricerca e di quella speranza. L'approdo alla prima lettera ai Tessalonice si si è imposto autonomame nte, quasi co ncepito e generato da lla mede sima attesa. Il primo scritto neo testamenta­ rio è anc he la prima , preziosa traccia dell'even to /comprensione chie sa, e la testi­ monian za viva della fe de -speranza -amore c he la animano. Concorrono a lla sua fo nda zione-crescita tu tte le componenti c he la configurano con il suo vero volto: la ricchezza del dono di Dio Padre, Fig lio e Spirito, da una parte, e l'aperta di-

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Prefazione

sponibilità dell'apostolo e della comunità a rendersene esistenzialmente partecipi, dall'altra. Da qui, il bisogno di immergersi in quel flusso vitale e di rispecchiarsi nell'esemplarità di quel modello che ha reso i cristiani di Tessalonica «typon a tuni i credenti che sono nella Macedonia e nell'Acaia», e ha consentito il diffondersi «in ogni luogo» della fama della loro fede. La nostra lettera viene incontro a tale desiderio, quando esorta alla fede «Ope­ rosa», all'a'more «faticoso» e soprattutto alla speranza «perseverante», proprio perché particolarmente rivolta a quei cristiani che, incapaci di cogliere in ogni traccia di morte i germi innovatori della vita e della risurrezione, diventano tristi «come quegli altri che non hanno speranza» (cf. 1 Ts 4, 13) . Ma essa svela piena­ mente il mistero di quella «tipicità>> esemplare quando constata: « Voi siete diven­ tati imitatori nostri e del Signore, accogliendo la Parola in mezzo a grande tribo­ lazione con la gioia dello Spirito Santo» (cf 1 Ts 1,6-8). Ai miei colleghi e ai nostri alunni faccio dono di questa mia amorevole fatica e della ferma speranza che la pervade, con i sentimenti della più viva riconoscenza per l'affabilità e l'attenzione di cui mi circondano. Palermo, Epifania 1992 Paolo !ovino

INTRODUZIONE

l.

TESSALONICA: PANORAMA

STORICO-AMBIENTALE

Tessalonica, fiorente città macedone sul Mare Egeo, anticamente ebbe il no­ me di Terma, per cui Termaico era detto in passato il golfo sul quale essa sorge. Da Tessalonica si snodava un'importante rete stradale, il cui asse principale era la via Egnatia , che proveniva da Dyrrachium (Durazzo) sull'Adriatico e raggiun­ geva Neapolis (Cavalla) sull'Egeo. Era considerata il prolungamento oltremari­ no della via Appia. La città aveva un retroterra di campagne fertilissime, irrigate da alcuni fiumi tra cui il Valdar; ma le sue caratteristiche erano quelle di una cit­ tà portuale . Il porto , tra i più grandi del Mediterraneo, fu oggetto di particolari cure da parte dei sovrani macedoni, e poi dei Romani che vi avevano dei docks (navalia : Livio, XLIV, 10,32) e lo portarono a notevole prosperità. Per la sua posizione geografica, fra la Tracia, la Macedonia e l' Acaia, e per il suo porto, Tessalonica non tardò a diventare un frequentatissimo punto d'incon­ tro tra occidente e oriente . Come raccordo della grande via Egnatia , essa diven­ ne sempre più, oltre che luogo di transito e centro di scambi commerciali, ali­ mentato dal traffico di tutto il bacino del Mediterraneo orientale e dalle varie at­ tività manifatturiere che vi prosperavano, specialmente quella della tessitura, anche crogiuolo di razze, culture e religioni. Vi confluivano uomini di qualsiasi provenienza e condizione, che finivano per scardiname il tessuto etnico , sociale e religioso, conferendole al tempo stesso un'inconfondibile fisionomia cosmopo­ lita. Insieme agli indigeni, convivevano infatti greci, romani, asiatici, egiziani. Vi si era solidamente insediata una numerosa e influente colonia giudaica bene­ ficiaria della più ampia libertà religiosa e di un'organizzazione che ricalcava i tratti salienti di quella della madre patria: sinagoga, tribunale, consiglio degli anziani, propri governatori. La presenza della sinagoga è confermata da scoper­ te archeologiche, che comunque sono di difficile datazione. È però certo che nel IV secolo d.C esisteva a Tessalonica una sinagoga giudaica, meglio, samaritana, come dimostra una lastra di marmo bianco con iscrizione bilingue in samaritano e greco. È pure certo che nella necropoli , a est di Tessalonica, vi furono sepolti

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Tessalonica: panorama storico-ambientale

dei giudei , come dimostrano due sarcofaghi con il simbolo del candelabro a sette bracci.1 In un contesto simile , erano inevitabili forti divaricazioni politiche e sociali che la laceravano all'interno, rendendola composita e contraddittoria. Alla clas­ se agiata dei nobili indigeni, degli armatori, dei commercianti , dei facoltosi arti­ giani, si contrapponeva la grande massa degli schiavi, dei marinai, degli operai, dei poveri in genere . Parallelamente, insieme a funzionari e burocrati a servizio dell'amministrazione romana, vi abitavano scienziati e letterati, retori itineranti e sacerdoti delle più disparate dottrine e religioni. A proposito della religiosità, nota P. Rossano: «La città presentava il volto delle principali città mediterranee del tempo . Le celebri iscrizioni rupestri del I sec. d.C. che si leggono nelle cave di pietra della vicina Filippi, costituiscono un punto sicuro di riferimento. . . Tre categorie di divinità: gli dèi olimpici e romani della cultura ufficiale ; gli dèi locali e indigeni della Tracia, e le divinità straniere immigrate dall' Egitto e dall'Asia Minore».2 Della variegata espressività religiosa di Tessalonica , costituiscono conferma i numerosi reperti archeologici (statue, monete, iscrizioni di vario genere). Basta notare i nomi di Dioniso, Athena, Ci­ bete , Afrodite , Diana, Venere genitrice , Demetra, Core , Osiride , Serapide, !si­ de, Anubis . . . Sembrano dominanti il culto di Serapide e delle altre divinità egi­ ziane. Diverse iscrizioni fanno chiaro riferimento al culto dei morti e degli dèi­ mani. Proprio del culto di Dioniso , strettamente legato alla credenza nell'aldilà, quindi praticato prevalentemente con riti funerari , conosciamo, oltre alla rituali­ tà, anche il nome di una sacerdotessa, Eufrosina. E ciò, grazie a un prezioso te­ sto pervenutoci: il cosiddetto Testamento della sacerdotessa di Tessalonica. Quanto al culto principale del dio locale Cabirio , purtroppo abbiamo poche no­ tizie. Stando a una testimonianza di Clemente Alessandrino, nelle feste di Cabi­ rio si onorava il fratricidio . Due fratelli, infatti, avrebbero ucciso un terzo fratel­ lo e, per evitare di essere scoperti e incriminati , avrebbero organizzato in suo onore un culto ai piedi dell'Olimpo. «I culti indigeni e orientali, non escluso quello delle divinità egiziane - pro­ segue Rossano - erano corrivi , o almeno indulgenti verso la licenziosità, vizio cronico del resto nella società pagana». Collocate in questo particolare contesto ambientale, risaltano con maggiore immediatezza le esortazioni di l Ts sulla mo­ rale sessuale , e più ampiamente sulle esigenze della conversione . Convertirsi, equivaleva infatti a staccarsi nettamente da un certo tipo di vita sociale, econo­ mica , familiare, e assumere una nuova idea-prassi di relazionalità interpersonale improntata a criteri nuovi di amore e di giustizia. Proprio queste opposte caratteristiche, di degrado socio-religioso e di co­ smopolitismo culturale, dovettero influire in maniera determinante sulla deci-

1 Cf. B. LIFSurrz-J. ScHJBY,

368-378. 2

«Une synagoghe samaritaine à Thessalonique», in RB 75(1968),

P. RossANo, Lenere ai Tessalonicesi, NVB,

Torino 1965, 1-7, in particolare 3-4.

Tessalonica: panorama storico-ambientale

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sione dell'apostolo Paolo di recarsi in quella città. Al suo zelo missionario , essa apparve oltre che campo privilegiato di conquista del vangelo, un propizio cen­ tro nevralgico di diffusione della fede nel mondo intero , quale effettivamente es­ sa divenne (cf. 1Ts 1 ,6ss) . Al momento del suo arrivo , Tessalonica aveva l'asset­ to urbanistico conferitole nel 315 a.C. da Cassandro, generale di Alessandro Magno , che , avendola ricostruita e ingrandita e cioè in qualche modo rifondata, le diede anche un nuovo nome: quello , appunto, ·della propria moglie , Tessalo­ nike , figlia di Filippo II, nata nel giorno della vittoria dei Macedoni sui Tessali . Stando a Strabone, la città raggruppò , allora, la popolazione di ben ventisei paesi e borgate diversi: la sua, sarebbe dunque stata una rifondazione per sinoikismo. Nel periodo macedone , la città godette una grande prosperità: l'attività por­ tuale vi si sviluppò considerevolmente ; furono costruite le mura di cinta e la stes­ sa cittadella. Al sopraggiungere degli eserciti romani, Tessalonica contribuì fat­ tivamente alla resistenza macedone contro Roma. Nel 169 a.C. respinse corag­ giosamente l'attacco , sia da terra che dal mare , del romano Q. Marcio Filippo. Ma nel 168 a.C. , malgrado l'eroica difesa dei generali Eumene e Atenagora, fu conquistata da Emilio Paolo nella battaglia decisiva di Pidna. Tessalonica entra­ va cosi nell'orbita di Roma. Una successiva rivoluzione diffusasi in tutta la Ma­ cedonia nel 149 a. C . , fu domata da Quinto Cecilio Metello. La situazione politico-amministrativa trovata da Paolo recava pertanto l'im­ pronta della giurisdizione romana. Dopo la battaglia di Pidna, Tessalonica era diventata «capoluogo» della seconda delle quattro «regioni autonome» della Macedonia, mentre dopo la sconfitta del 149 tutta la Macedonia fu trasformata in «provincia» romana. Infine , successivamente alla vittoria dei romani a Filippi (42 a.C. ) , Tessalonica divenne «città libera» e sede di un proconsole . Questa se­ rie di innovazioni giuridiche avevano finito per configurare in maniera decisiva il volto della città nella metà del primo secolo, quando , appunto , venne visitata per la prima volta dal vangelo «con potenza e con Spirito santo». La pax romana aveva consentito, oltre al miglioramento dell'immagine esterna della città , con un consistente ampliamento urbanistico e la costruzione di pubblici edifici, una crescente prosperità economica e civile-culturale , che la rendevano particolarmente accogliente . Cicerone vi si era già recato nel 58 a. C . , soggiornandovi per qualche mese e componendo qui l e sue lettere Ad Quintum fratrem e Ad A tticum . Della città ospite, da lui descritta come situata in gremio imperii nostri, elogiò , nel suo De Prov. consul. , 2, l'importanza civile , commer­ ciale e militare. Superata in importanza la stessa città di Filippi , aveva assunto presto il titolo di «metropoli», dandosi anche un ordinamento amministrativo molto avanzato , che comprendeva: un'assemblea del popolo (demos : cf. At 17, 15); un consiglio ( boule) che preparava le leggi e i decreti da sottoporre a vo­ tazione ; un collegio di politarchai (è incerto se in numero di due , di cinque, o di sei: cf. At 17 ,8) , assistiti da un tesoriere (tamias) . Fiera di tale ordinamento , del­ le proprie conquiste civili ed economiche e, in particolare, del proprio privilegio di «città libera» , custodiva gelosamente l'equilibrio politico raggiunto, difenden-

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Tessalonica: panorama storico-ambientale

dolo contro ogni attentato ed ema rginando

ogni possibile perturbatore. In que­ st'ottica è da considerare la stessa vicenda di Paolo riportata dagli Atti. Riteniamo utile, pertanto, avviare ora una serie di precisazioni storico-politi­ co-giuridiche che, a nostro avviso, consentono una più adeguata comprensione dei fattori che hanno determinato il formarsi progressivo di quell'ambiente nel quale l'apostolo ha operato, collaborando, a suo modo e per la sua parte, alla «condi­ scendenza» della Parola. Le vicende storiche che hanno contribuito a dare a Tessalonica l'assetto giuri­ dico conosciuto da Paolo, i cui echi si ripercuotono nella stessa prima lettera ai Tessalonicesi, traggono origine dalla situazione venutasi a creare alla morte di Alessandro Magno e si intrecciano con quelle dell'intera Grecia e della Macedonia in particolare. Per Macedonia, intendiamo la regione centromeridionale della pe­ nisola balcanica, spartita tra gli odierni stati : Grecia, Jugoslavia e Bulgaria. Corri­ sponde circa alla depressione compresa fra il massiccio del Rodope, il corso infe­ riore del Mesta e la catena del Pindo, allargandosi verso mezzogiorno, dove si apre, appunto, sul golfo di Tessalonica. Alla morte di Alessandro Magno (323), Antipatro conservò il regno di Mace­ donia e di Grecia. Morto Antipatro, il regno di Grecia passò a Demetrio Poliorce­ te , cui succedette, dopo che Pirro re deli'Epiro gli ebbe tolta la Macedonia (288), il figlio Antigono Gonata. Nel 272 questi era nuovamente padrone della Macedonia e della Grecia, ma la sua posizione era ormai indebolita per la formazione di nuove leghe tra cui l'etolica e l'achea. Una serie di guerre si svolse fra i successori di Anti­ gono Gonata e le due leghe. Alla fine Dosone, sconfitti i federati a Sellassia (222), riunì sotto di sé gran parte della Grecia in una nuova lega ellenica, alla quale parte­ ciparono anche gli achei, mentre etoli e ateniesi se ne tennero fuori. Alla fine del III secolo, Filippo V, successore di Dosone, in accordo con il re­ gno seleucide, si rivolse contro i tolomei di Egitto. Questo fatto provocò l'inter.. vento romano. Sconfitto a Cinocefale Filippo II (197) , la Macedonia diveniva stato vassallo dei romani e in Grecia veniva organizzato un sistema di leghe indipenden­ ti. Domata una ribellione scoppiata in Grecia, a capo della quale si era posto An­ tioco, e sconfitto Perseo, figlio di Filippo, a Pidna (168), la Macedonia venne divi­ sa - come ricordato sopra - in quattro stati vassalii di Roma, e ven t'anni dopo (148-147) ridotta a provincia, mentre gli achei, profittando della situazione torbida in Macedonia, sollevarono la Grecia. Intervenendo a domare la rivolta, i romani fecero della Grecia dapprima una parte della provincia di Macedonia (146) , e più tardi una provincia a sé con il nome di Acaia. L'indipendenza politica ellenica fini­ va così nell'impero di Roma. La Macedonia dunque, quando Paolo vi giunse insieme a Sila e Timoteo, pas­ sando dalla Troade a Samotracia e sbarcando al porto di Neapolis, per raggiungere la non lontana (15 km) Filippi3 e giungere poi a Tessalonica, era già da due secoli provincia romana. Per diversi anni travagliata dall'adunarvisi dei grossi eserciti di Bruto e di Cassio e di Antonio prima di Azio - proprio Tessalonica era stata quar­ tier generale dei pompeiani prima della battaglia di Farsalo (48 a.C.)- aveva final-

3 Le notizie sono riportate in At 15,40 e 16,3. 11: è proprio in questo versetto che il verbo pas­ sa dalla terza alla prima persona plurale.

Tessalonica: panorama storico-ambientale

17

mente ritrovato un periodo di pace e di prosperità. La stessa Tessalonica, che du­ rante la seconda guerra civile si era schierata a favore dei triumviri Ottaviano e Antonio, dopo la vittoria di Filippi (42 a.C.), proprio a riconoscimento di tale so­ stegno, ricevette da costoro, come abbiamo già visto, il riconoscimento di città li­ bera, governata da politarchi.4 Raggiunto come confine dello stato romano il Da­ nubio, la Macedonia poté, nell'ordinamento augusteo, esser lasciata all'ammini­ strazione del senato, come una delle province pacatae et inermes.5 Proprio sugli statuti giuridici romani delle province, con particolare riferimen­ to a quelle di Macedonia e di Acaia, e delle «città libere», con implicito riferimen­ to a Tessalonica, vorremmo ora soffermarci per continuare a delineare l'ambiente socio-politico-amministrativo conosciuto da Paolo agli inizi della nuova era, come emerso dalle vicende storiche analizzate. Per «provincia,. romana (in greco eparchia o eparchion) s'intende un territorio occupato dai romani e il cui governo veniva affidato a un ex-pretore, per le provin­ ce minori, o a un ex-console, per le maggiori. Da qui, la denominazione, sia sotto la repubblica che al tempo dell'impero, di province pretorie e province consolari. Questi governatori generalmente duravano in carica un anno e risiedevano col loro seguito in una città della provincia chiamata capitale o metropoli. La denominazione della provincia variò nel 27 a.C. , a seguito di una conven­ zione tra Augusto e il senato. Al senato toccarono le province centrali; a sé Otta­ viano riservò quelle periferiche, più esposte agli attacchi dei barbari.6 Da allora le province senatorie furono governate dai cosiddetti proconsoli, mentre le province imperiali erano rette da un «legato d'Augusto propretore» e si dividevano in due categorie: le consolari , più grandi, con governatori che disponevano di legioni e di pieni poteri militari; le pretorie, più piccole. Col tempo si ebbe anche una terza ca.. tegoria di province imperiali, costituite di territori più piccoli e conquistati di re­ cente: generalmente erano più difficili da governare, specie quando erano ancora in vita le dinastie che le avevano possedute. Chi le governava a nome dell'impera­ tore era un procuratore, donde il loro nome di province procuratorie. Se i procon­ soli duravano in carica solo un anno, raramente due, i governatori delle province imperiali scadevano per volontà dell'imperatore. A capo della provincia di Grecia, ormai chiamata Acaia, fu messo al tempo di Paolo un proconsole residente a Corinto7 che la governava a nome del senato , tranne che dal 15 al44 d.C. , quando, per esser annessa alla Macedonia, veniva am­ ministrata dall'imperatore. La Macedonia rimase per conto del senato negli anni 27 a.C. - 15 d.C. , poi fu provincia imperiale con capitale a Tessalonica, ma senza truppe. L'Epiro (capitale Durazzo) era amministrato da un procuratore; così pure la Tracia (capitale Eraclea) da Claudio in poi. Le denominazioni greche di queste magistrature sono dappertutto generiche: la più usata è h�ghem6n, «governatore», la più rara hyparchos, «comandante». Presso gli scrittori del Nuovo Testamento (NT), il titolo di heghemon è presente 19

4 Questo titolo è usato in At s Cf. D. Musn, Storia greca. Linee

17 ,6.8.

1990, 595-644 .

6 Cf. STRADONE 7 Cf. At 18,12.

17,3,25, 1973;

di sviluppo dall'età micenea all'età romaiUl,

DIONE CASSIO

53,12-15.

Roma-Bari

18

Tessalonica: panorama storico-ambientale volte. Il sostantivo astratto

h�ghemonia,

«governo», è invece hapax in Le 3,1 , e in­

dica non solo la dignità imperiale ma anche quella del governatore. Il verbo

heghe­ moneuein, «governare», è usato due sole volte nel NT: in Le 3,1 riferito a Pilato, e in Le 2,2 a Quirinio.8 Invece, per designare il proconsole, si ha anthypatos che è la sua esatta e frequentissima traduzione etimologica. Così vengono qualificati nel

NT il governatore di Cipro, quello dell'Acaia e quello dell'Asia.9

È

affermazione frequente dei documenti che ai governatori competesse, in

10 primo luogo e quasi esclusivamente, il ius gladii, cioè il potere di pronunciare sentenze capitali. Infatti, i romani lasciavano saggiamente al loro posto le autorità locali, le quali provvedevano in proprio all'amministrazione della giustizia. Le cit­ tà di provincia, quindi, conservavano i loro diritti e la più grande indipendenza era lasciata alle città libere

(autonomoi)

come Tessalonica.

Tale privilegio si collocava nell'ambito del secondo potere esercitato dai go­ vernatori romani: la riscossione delle imposte. Infatti, sotto i romani le città di pro­ vincia erano o «tributarie»

(hypoteleis)

o «libere» del tutto

(ateleis) ,

secondoché

pagassero o no dei tributi. Tra le città esenti o libere le più importanti erano, in­ dubbiamente, le città alleate, quelle cioè che mediante un patto si erano sottomes­ se a Roma e pertanto erano obbligate a non stipulare alleanze con altri stati, a non muover guerra per proprio conto e ad aiutare i romani in caso di guerra. In com­ penso si reggevano con leggi e amministrazione proprie ed erano indipendenti dai . governatori romani, i quali, anzi, ogni volta che ne attraversavano il territorio, do­ vevano deporre le insegne del loro grado.11

8 Del medesimo verbo fa uso GIUSEPPE FLAVIO per indicare i governatori della Siria (Ant. , 18,4,3 , il proconsole dell'Asia (Ant. , 14,10, 1 1 ) e il procuratore della Giudea (Ant. , 18,3 , 1 ) . I l termine è usato dal solo Luca e unicamente negli Atti: 13,7.8.12; 1 8 , 1 2 ; 19,38. 1° Cf. in merito le iscrizioni delle province delle Alpi e della Mauretania Cesareense ( CIL 9,5439): proc. . . jur(e) gladii, «procuratore con diritto di spada», (8,9367) e praeses . . . jure gla(dii) , «governatore con diritto di spada»; e si tenga presente che è ai governatori che gli Atti dei martiri fanno dappertutto pronunciare le sentenze capitali (cf. Bi 19(1938) , 46s) . Precisa, inoltre, U. Ho Lz­ MEISTER, Storia dei tempi del Nuovo Testamento, Torino 1950,67: «Molto meno numerosi sono i do­ cumenti che comprovano l'esclusività di questo diritto ristretto ai governatori. Già Teodoro Momm­ sen non poteva far appello se non a una testimonianza di Origene (Romisches Strafrecht, 239s): "La legge . . . non ha facoltà di giustiziare un omicida o di lapidare un'adultera, perché questo è riservato al potere romano" (In Rom. t.6, c.7; PG 14, 1073 A)». «Oggi si è in possesso dell'iscrizione di Augu­ sto ritrovata nel foro di Cirene, per cui resta provato che questo diritto era di competenza esclusiva del proconsole, che poteva definire le cause o di persona o per mezzo di giudici nominati da lui stes­ SO» (G. 0LIVIERIO, «La stele di Augusto rinvenuta nell'Agorà di Cirene», in Notiziario Archeologico del Ministero delle Colonie 4(1927) , 13-67. 11 Cf. HoLZMEISTER, Storia dei tempi del Nuovo Testamento, 141 , che cita MoMMSEN, Romi­ sches Strafrecht, 3/1 , 689, e cosl prosegue, sulla base delle testimonianze, oltre che di alcuni studiosi citati in nota, anche di TACITO , Anna/es 2,53, e PLINIO, Hist. Nat. 5 ,79: «Godevano di tale statuto: Atene, Durazzo , Rodi, Mopsuestia, Tiro e probabilmente anche Tarso . . . In posizione ancor più pri­ vilegiata erano le città "esenti e libere senza alleanza", che , non legate a Roma da patti di sorta, ave­ vano ottenuto la piena libertà, anche se teoricamente il privilegio era revocabile, come talvolta av­ venne di fatto. A questa categoria appartenevano Troade, Efeso, Smime, Seleucia di Siria e, per aver comprato la libertà da Pompeo (PLINIO, Hist. Nat. 5,79) , Antiochia di Siria. Ma non è raro il ca­ so che le fonti storiche chiamino libere quelle città che , pur non appartenendo a nessuna delle sud­ dette categorie, godevano di una grande libertà e si governavano da sé con magistrati liberamente eletti, quantunque a Roma continuassero a dar tributi e ai governatori sottomissione . Certo, la situa­ zione economica in tutta la Grecia, a partire dall'epoca imperiale, non doveva essere florida. STRA­ HONE nel l. VIII della Geografia ne fa una descrizione pietosa: devastata nel suo territorio, dove si erano combattute le ultime battaglie della repubblica (Farsalo, Filippi, Anzio) , decimata nella popo­ lazione, impoverita nelle ricchezze».

)

L'evangelizzazione di Tessalonica

19

Infine, riteniamo utile rilevare- anche ai fini dell'esatta valutazione della du­ rata del soggiorno di Paolo a Corinto , dopo il breve soggiorno ateniese - che l'en­ trata in carica dei governatori avveniva generalmente dopo l'inverno, quando i mari erano di nuovo aperti. 12 Chiudiamo questo nostro excursus sull'ordinamento provinciale stabilito da Augusto, notando che esso durò fino alla riforma di Dio­ cleziano (284-305). TI quadro di Tessalonica al momento dell'arrivo di Paolo si presenta dunque con molta chiarezza. La urbs celeberrima di Tito Livio , 13 già capitale della pro­ vincia romana di Macedonia e ora città libera, nonché sede proconsolare , aveva anche conservato il diritto di battere moneta, per cui poteva gravare sulle mone­ te imperiali il suo titolo di Tessalonikeon eleutherias . Il suo grande poeta Antipa­ tro la esalta con l'appellativo di meter pases Makedonies, «madre di tutta la Ma­ cedonia» . Il suo sistema politico-amministrativo le consentiva il massimo di par­ tecipazione democratica, mediante l'assemblea popolare e di intervento gover­ nativo, mediante la gestione del consiglio e dei politarchi , la cui presenza è con­ fermata, oltre che dal testo lucano di Atti , anche da un'iscrizione greca trovata a Tessalonica e datata 44-45 d.C. 1 4

2.

L'EVANGELIZZAZIONE DI TESSALONICA

«Durante la notte apparve a Paolo una visione : gli stava davanti un Macedo­ ne e lo supplicava: "Passa in Macedonia e aiutaci" . Dopo che ebbe avuto questa visione , subito cercammo di partire per la Macedonia ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore» ( At 16,9-10) . Da questa visione notturna di Paolo, di tenore teofanico, prende avvio l'attività evangelizzatrice della Macedonia nel corso del suo secondo viaggio missionario, dal 49 al 52 cir­ ca. L'autore di Atti , nei versetti immediatamente precedenti, e che teologica­ mente la introducono , lascia chiaramente intendere che la nuova tappa del cam­ mino del vangelo reca l'impronta della decisionalità imperscrutabile dello Spiri­ to, quasi una sua privilegiata scelta: «Attraversarono . . . la Frigia e la regione del­ la Galazia, avendo lo Spirito santo vietato loro di predicare la parola nella pro­ vincia di Asia. Raggiunta la Misia, si dirigevano verso la Bitinia , ma lo Spirito santo non lo permise loro ; così , attraversata la Misia, discesero a Troade» (16,6-8) , dove , appunto, ha luogo la suddetta apparizione.

12 Torna a puntualizzare, tuttavia: HoLZMEISTER, Storia dei tempi del Nuovo Testamento, 6869: «Essendo però capitato che molti procrastinassero a lungo la partenza, Tiberio . . . "ordinò ai go­ vernatori eletti di fresco di salpare entro il novilunio di giugno", cioè ai primi del mese (DIONE CAs­ SIO 57,14,5). Claudio, poi, ordinò, una prima volta nel 42 o nel 43 che si dovesse partire "prima del novilunio di aprile" (DIONE CASSIO 60,11,6); più tardi invece accordò una breve dilazione: "salpare entro il 15 aprile" (DIONE CASSIO 60,17,3)». 13 TITo LIVIO, XLV, 29,9,30 ,4; cf. STRABONE, VII, 331 fram. 48. 14 Cf. E. GABBA, Iscrizioni greche e latine per lo studio della Bibbia, Torino 1968, 68-70. Cf. ànche B. RIGAUX, Saint Paul. Les épitres aux Thessaloniciens, EB 41, Paris 1956, 11-20.

20

L'evangelizzazione di Tessalonica

Portatore del megsaggio evangelico sarà un gruppo di > (thlipsis-kopos-mochtos-hybri­ zo) (2 2a.b.9; 3,3.4.5 .7) dominano le sezioni centrali 2,1-12 e 2, 17-3 ,8. Nelle­ medesime sezioni, l'alternanza «Voi-noi» serve, oltre che a individuare la delimi­ tazione di entrambe , anche a sottolineare le caratteristiche di tale annunzio e di tale accoglienza. Così , se i verbi «sapete , ricordate» (quindi il «voi») sono note­ volmente presenti in 2, 1-12 (2,1 .5.9. 1 1 ) , il pronome «noi» e i verbi alla prima persona plurale si impongono nella sezione 2,17-3,8 (2, 17.18; 3 , 1 .3.4.5.6.7.8) . Infine, i l rendimento d i grazie, espresso per ben tre volte , s i presenta come vero «ambiente vitale» che sorregge la duplice «memoria» dell'apostolo e vivifica il suo attuale rapporto con la comunità.59 I due altri capitoli (4-5) di l Ts potrebbero intitolarsi: «Esortazioni su alcuni argomenti decisivi per la crescita della comunità». Emerge la seguente struttura, in parte già accennata, ma che adesso vorremmo completare sottolineandone elementi decisivi e articolazione interna. Introduzione (4, 1-2) . Gli elementi strutturali qui volutamente raggruppati , prima di essere ripresi e sviluppati in seguito, qualificano come autenticamente «introduttiva» questa sezione. In tal senso, si potrebbe inoltre parlare - come accennato sopra - di fondazione cristologica e di orientamento «teologico» di detto avvio alla trattazione parenetica. Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione (4,3-8) . La santificazione è l'orizzonte nel quale deve collocarsi ogni insegnamento parenetico. E ciò , in ,

59 Concordiamo pienamente con VANHOYE, «La composition.», 14-18, quando afferma che le relazioni interpersonali tanto intensamente sottolineate nella lettera non sono bilaterali, ma trilate­ rali, il terzo polo essendo «Dio nostro Padre e Gesù Cristo nostro Signore». Tale rapporto, già pre­ sente nell'indirizzo e nell'azione di grazie - come fa analiticamente notare il nostro autore - si esten­ de a tutto l'arco della prima e della seconda parte della lettera. Dopo la diade pronominale «noi­ voi», i termini più usati in 1Ts sono Theos (36 volte) e Kyrios (24 volte). Comprendiamo che , pro­ prio, sulla base di detta relazionalità, alcuni studiosi siano stati indotti a reperire nella lettera una composizione di tipo «retorico», particolarmente adatta alla «comunicazione», sforzandosi di indivi­ duare con artificiosa precisione le componenti della retorica classica: exordium, narratio, partitio, probatio, peroratio . Non sembra che dette analisi ricevano molto consenso. Oltretutto, si dimentica con una certa facilità che la retorica classica si interessava al genere «oratorio» non a quello «episto­ lare» (cf. la critica di VANHOYE, «La composition», 14-18, alle posizioni di JoHANSON, To Ali the Bre­ thren, e di K. TH IEME , «Die Struktur des Ersten Thessalonicher-Briefes», in O. BETZ-M. HENGEL-P. ScHMIDT, a cura, Abraham unser Vater: Festschrift O. Miche/, Leiden 1963, 451-452).

La prima lettera ai Tessalonicesi

47

ascolto della volontà e della chiamata di Dio. Tale santificazione deve partire dall'esclusione di ogni impudicizia in quanto radicalmente difforme dall'ambito divino di Colui che è il Santo per eccellenza e nel quale egli vuole introdurre co­ loro che chiama alla comunione con sé . Riguardo all'amore fraterno (4,9-12) . Il tono parenetico è sottolineato dalla ricorrenza del verbo «progredire» (perisseuo, v. 10) , mentre la motivazione teo­ logica è ribadita , oltre che dal richiamo all'insegnamento ricevuto («come vi ab· biamo già prescritto» , v. 1 1 ) , anche dall'originalissima formula hymeis theodi­ daktoi este, «voi siete discenti di Dio» (v. 9) . Riguardo a quelli che sono morti (4 ,13-18) . Si perviene, così, alla sezione centrale. Il verbo «esortare» (parakaleo, v. 18) solennemente espresso a chiusu­ ra del brano , ne ribadisce il tenore esortativo. Viceversa, il «crediamo che» del v. 14 e il kerygma, che segue, ne annunciano subito il radicamento cristologico. Mentre l'espressione «questo vi diciamo sulla parola del Signore» (v . 15) dice continuità nell'insegnamento. Riguardo ai tempi e ai momenti (5,1-11). Il precedente verbo «esortare» (pa­ rakaleo) riappare , e nella medesima posizione conclusiva (v . 1 1 ) . Il rinvio alla consapevolezza della propria fede viene ora espresso da «sapete» (v . 2) , mentre la volontà di svolgere un ruolo d'insegnamento è chiaramente ribadita dall'e­ spressione «Non avete bisogno che ve ne scriva» (v. 1). Infine, il collegamento tra parenesi e fondazione teologica, nel caso ecclesiologica , è più che evidente nel rapporto tra i due tipi di formule letterarie. Da una parte , «voi . . . non siete nelle tenebre» (v . 4) , «voi siete figli della luce e del giorno» (v . 5) , «noi non sia­ mo della notte né delle tenebre» (v. 5b) . Dall'altra , «dunque, non dormiamo . . . siamo vigilanti e sobri» (v . 6) . Come sottolineato precedentemente , la scomparsa della formula introdutto­ ria «riguardo a» (peri de) e la comparsa dei verbi , anch'essi introduttivi , «prego» (erotao) ed «esorto» (parakaleo) , segna il passaggio a nuove trattazioni . Vi supplichiamo riguardo a quelli preposti nel Signore (5 , 12-13) . La forza della qualifica «nel Signore» (en Kyrioi) conferisce autorevolezza dottrinale sia alla loro presidenza che alla loro fatica e alla loro attività di insegnamento. La stessa autorevolezza motiva pertanto l'esortazione a una degna, riconoscente ri­ sposta improntata ad amore sovrabbondante e a pace vicendevole . Esortazioni comunitarie conclusive (5 , 14-22) . La nuova serie di esortazioni molto concise che adesso si apre , appare come una sorta di ripresa, al tempo stesso sintetica e generalizzata, di altre precedentemente espresse. Introdotta da «esortare» (parakaleo), è in linea con la sezione precedente della quale sviluppa, precisandolo in dettaglio , l'agire nell'amore reciproco e verso tutti , specie i più deboli: «correggete . . . confortate . . . sostenete . . . siate pazienti». Il tema della pa­ ce viene ora ripreso in quello della gioia che ne è frutto privilegiato. Ricompare anche il grande tema del «ringraziamento» che sappiamo dominante in tutto l'arco della lettera: «Pregate incessantemente , in ogni cosa rendete grazie» ( 5, 17) . E insieme a esso - come accennato - i temi decisivi, dal punto di vista pa­ renetico, della «volontà di Dio a loro riguardo, in Cristo Gesù» (5, 18) e della «santificazione» come astensione da ogni sorta di male (5 ,22).

48

La prima lettera ai Tessalonicesi

Completano la struttura: una preghiera conclusiva (5 ,23-24) , alcune doman� de di chiusura e un augurio finale (5 ,25-28). 2.

Vocabolario e stile«J Il vocabolario di 1 Ts presenta alcune caratteristiche che lo differenziano da ·que1lo delle altre lettere paoline .61 Pur ritrovandosi in massima parte nelle «grandi lettere», più di 40 termini si connotano come hapax legomena, o del NT o dello stesso Paolo. Citiamo a titolo di esempio: exechein , «riecheggiare» (riferito alle pa­ role, in 1 ,8) ; anamenein , «aspettare» (associato alla figura del Figlio dell'uomo, in 1 , 10) ; propaschein , «soffrire prima» (2,2); trophos, «nutrice» (2,7) . Questi, tra gli hapax del NT. Tra quelli paolini: alethinos , «vero» (1 ,9) ; eisodos , «venuta» (2,2); hybrizein, «insultare» (2,2) ; hepios, «amorevole» (2,7) . Si trovano, inoltre, termi­ ni comuni a 1 Ts e a Paolo, ma assenti nel resto del NT: haghiosyne, «santificazio­ ne» (3 ,13 Rm 1 ,4; 2Cor 7 , 1 ) ; adialeiptos, «continuamente» (1 ,3; 2,13; 5 , 17 ; Rm 1 ,9) ; ekdikos, «vindice>> (4,6 Rrn 13,4); philothimeisthai, «farsi un punto d'onore» (4, 1 1 Rm 15 ,20; 2Cor 5 ,28) 62 In base a questi dati , appare evidente il tenore indiscutibilmente paolino del vocabolario di l Ts. Altre liste, che Rigaux cita da Milligan, testimoniano della dipendenza di Pao­ lo dall' AT greco . Si tratta tuttavia di termini che nel passaggio alla lingua del NT si sono rivestiti di significati nuovi . Così , per esempio: agape, «amore»; haghiazein, haghiasmos, haghios, «santificare , santificazione, santo» ; ananke, «angoscia» ; do­ xa, «gloria»; dou/euein, «Servire»; eirene, «pace» ; zao, «ViVO»; thefema, «VOlontà» ; thlipsis, «tribolazione» ; kauchesis, «vanto» ; peripatein, «camminare» (in senso fi­ gurato); pistis , >. Sul versante più direttamen­ te cristologico , non solo mancano le profonde penetrazioni del mistero di Cristo che, sulla sua persona e sulla sua opera, faranno le lettere ai Galati , ai Romani e ai Filippesi, ma non è nemmeno adeguatamente evidenziata la tematica centrale della «redenzione mediante la morte in croce e la risurrezione». Parallelamente, sono ignorati: l'antitesi «spirito-carne» , le diatribe, per esempio sulla «superiori­ tà del giudeo» e sull' «incolpevolezza del pagano», sulla «necessità del peccato perché sovrabbondi la misericordia di Dio>> ecc . . . ; le speculazioni sapienziali e le argomentazioni rabbiniche. Siamo infine ancora lontani dalle grandi sintesi ec­ clesiologiche sulla chiesa come «corpo», «tempio» , per non parlare di «sposa» , «mistero», «pleroma». Dei grandi filoni della riflessione teologica· paolina, solo l'escatologia domi­ na in l T s. Ma appunto perché l'annuncio degli ultimi tempi inauguratisi in Cri­ sto Gesù, con connesso tema del giudizio e della parusia, entrava a far parte in­ tegrante della predicazione apostolica quale sua prima, decisiva componente . La polemica antigiudaica, anch'essa dominante , è indirizzata contro i giudei in quanto oppositori del messianismo di Gesù, ma non ancora in quanto difensori della religione mosaica. Essa rinvia pertanto a una situazione storica molto ar­ caica. Ma, oltre all'aspetto contenutistico, l'impostazione stessa della lettera si distacca molto dalle successive: manca la divisione classica tra una prima parte dottrinale e una seconda esortativa; l'esposizione non è certo metodica e ordina­ ta; i singoli argomenti n�n vengono affrontati ex professo , in una sorta di tratta­ zione autonoma e completa, ma come di riflesso, per fornire indicazioni sul comportamento. Rimangono così quasi disperse nel flusso sovrabbondante di ri­ cordi , sensazioni, effusioni affettive, minacce , pressanti esortazioni . . . È stato scritto giustamente64 che i precedenti letterari di l Ts sono i discorsi missionari di Antiochia (At 13, 16-41), Listra (14, 15- 17) , Atene (17 ,23-31): «Essi non ridanno letteralmente la predicazione di Paolo ma non ne sono neanche molto lontani. . . Il primo pensiero paolino (espresso nella lettera ai Tessalonice­ si) è quindi appena abbozzato. Esso rimane nel filone della comune predicazio­ ne apostolica , ma porta già in sé tutte le idee nuove che si riveleranno negli scrit­ ti successivi». 65

64

Cf. DA SPINETOLI, Lettere ai Tessalonicesi, 236. Ci pare significativa, in tal senso, la lista dei vocaboli comuni alle grandi lettere e 1Ts, pre­ sentata in RIG 83: agnoein: «lasciare nell'ignoranza» (4 ,13); akatharsia: «impurità» (2,3 ; 4,7) ; ana­ pleroun: «riempire» (2, 1 6) ; areskein: «piacere» (2,4.15; 4,1); astenes: «debole» (5,14); dokimazein: «scrutare» (2,4) ; douleuein: «servire» (2,9) ; eid.Olon: «idolo» (1 ,9) ; eireneuein: «vivere in pace» (5 ,13); exoutheneuein: «disprezzare» (5,20) ; epipothein: '«desiderare» (3,6); eucharistia: , e un se­ condo da lui stesso definito: l'humus anticotestamentario che ha prodotto la pianta di 1Ts. Di mag­ giore interesse ci pare invece la lista dei termini di 1Ts, da lui definiti «assunti dal vocabolario della LXX», presentata nelle pp. 81 -82 e richiamata a p. 94. Si tratta del rilievo di 9 hapax sui 20 neotesta­ mentari di l Ts. 67 G.R. BEASLEY·MURRAY, Jesus and the Future. An Examination ofthe Criticism ofthe Escha­ tological Discourse, Mark 13 with Special Reference to the Liu/e Apocalypse Theory, London 1954. 68 Per esempio: H.A.A. KENNEDY. St. PQu/'s Conceptions of the Last Things , London 1904, e altri citati a p. 96. (fJ J . B . 0RCHARD, �Thessalonians aod the Synoptic Gospels», in Bi 19(1938), 19-42.

53

La prima lettera ai Tessalonicesi

interpretare l'espressione, attesta il suo desiderio di fedeltà , appunto, alla «tra­ dizione» ricevuta. Nel medesimo ambito doveva trovare adeguata collocazione anche l'inse­ gnamento escatologico-apocalittico del Signore Gesù. Ad esso l'apostolo sente ora di dover fare riferimento per consolidare la sua personale posizione, e quella dei suoi fedeli «contristati» per la morte dei loro congiunti in attesa della paro­ sia, dinanzi al dilagare delle proposte fuorvianti dell'apocalittica giudaica . Nes­ suna meraviglia , dunque , sul «tradizionalismo» delle esposizioni apocalittiche di lTs. Equivale anch'esso a garanzia di continuità e fedeltà. Può a ragione conclu­ dere B. Rigaux: «l numerosi esempi di somiglianza sottolineati prima (in riferi­ mento alle tavole comparative di cui sopra) tra espressioni paoline e sinottiche sono un'indicazione di valore . Essi permettono di misurare l'apporto della pre­ dicazione cristiana primitiva in fatto di dottrine , di formule , di focalizzazioni te· matiche, e di riconoscere la parte di originalità dei diversi autori» . 70 Più suggestivo appare il confronto fatto da E.G. Selwyn, 7 1 anch'esso ripreso da RJG 105- 1 1 1 . L'autore sostiene , come è noto, che le lettere ai Tessalonicesi e la prima lettera di Pietro sono opera di un unico autore . 72 A riprova della sua te­ si, presenta ben 14 tavole sinottiche, illustrative del rapporto l Pt e NT, e parti­ colarmente 1Ts e lPt. È inoltre sua profonda convinzione che , in entrambi i te­ sti, sia possibile ritrovare le tracce evidenti di un catechismo battesimale basato su un codice di santità cristiana , ispirato a Lv 19,2. 18.73 A conclusione dell'esa­ me di una seconda tavola sinottica sul tema «i figli della luce» /4 perviene alla conclusione che il brano appartiene ai loghia Jesu. Egli precisa, inoltre , che se l'allusione al battesimo vi è assente, come in tutta l Ts (ma riappare in Ef; lPt; Eb ), è perché vi domina l'insegnamento morale. Ma senza alcun dubbio - egli sostiene - il tema dei «figli della luce» appartiene alla stessa fonte : il catechismo battesimale. Si tratterebbe , pertanto, di una notazione escatologica confluita nell'etica: «Ciò che era escatologico nelle parole di Cristo - cita RJG 108 - è di­ ventato morale nella prospettiva di lTs e di l Pt». Interviene subito Rigaux insi· stendo sul carattere non secondario dell'escatologia del brano, e precisando a sua volta: «Quale che possa essere stata l'applicazione dell'immagine (peraltro ampiamente diffusa nel giudaismo , come hanno dimostrato i testi di Qumran) , all'etica, o all'escatologia , o alla vita sacramentale , o all'essenza stessa della vita cristiana, ciò dimostra che essa è troppo generica . . . Usata dal Signore - osserva giustamente il nostro autore è rimasta nella tradizione del cristianesimo primi­ tivo . Non si può andare oltre» . 75 -

70

RIG 105 . 71 E . G . SELWYN, The First Epistle of St. Peter, London 1952. 72 Secondo l'autore, si tratterebbe di Silvano, compagno di Paolo nel secondo viaggio missionario e suo collaboratore nell'evangelizzazione della Macedonia (lTs 1 1 ; At 15,40; 16-18) . 73 Cf. 1Ts 4,1-12 e par. in 1Pt, in RIG 105s. 74 1Ts 5,1-9 e par. in lPt, in RIG 107s. 75 RIG 108. ,

La prima lettera ai Tessalonicesi

54

In un'ultima tavola, Selwyn poile a confronto lTs 5,12-22 con alcuni brani paralleli di l Pt, 76 trovando anche qui un sostrato catechetico, ma precisando che si tratta di accostamenti più contenutistici che letterali . Ma è sul tema delle «per­ secuzioni» eh' egli individua le convergenze più rilevanti tra i due scritti. 77 Come in occasione delle prime conclusioni di Selwyn , anche a questo punto interviene direttamente Rigaux e, ampliando la riflessione alla globalità della suddetta analisi, si chiede: «Cosa concludere da simili accostamenti? Dov'è la dipendenza? Nei fatti , negli insegnamenti , nei testi? Tradizioni giudaiche, predi­ cazione cristiana, parole di Gesù , bisogni delle comunità , tutto finisce per fon­ dersi in unità . . . Non siamo convinti che tra l Ts e lPt ci sia dipendenza letteraria e non riteniamo sia necessario supporre dei "catechismi" per spiegare le conver­ genze . Il ricorso alle parole di Cristo . . . e la diffusione della parenesi cristiana in­ segnata da Paolo , motivano sufficientemente uno scritto che rappresenta una ri­ flessione posteriore sul kerygma, la parenesi e l'escatologia primitivi. Si tratta del duplice Sitz im Leben che si trova alla base stessa di tutto l'insegnamento del cristianesimo primitivo» . 78 Convergiamo con tali conclusioni, ma riteniamo che l'intuizione di fondo di Selwyn, al di là delle singole conclusioni , si vada rivelando esatta, oggi più che nel passato. E ciò , dal duplice punto di vista metodologico e contenutistico. In seguito alle analisi di questi ultimi decenni, vanno emergendo, con crescente ni­ tidezza, i contorni del Sitz im Leben «comunità primitiva» con l'individuazione di quelle «funzioni comunitarie» che hanno influenzato il sorgere delle prime unità letterarie, successivamente confluite nell'alveo della grande «tradizione». Proprio per fedeltà a tali piste d'indagine, si impone il momentaneo distacco dal tenore unitario e redazionale dei testi , per ritrovare , appunto , la vita del pre­ testo. Collocato in tale inusuale e non certo facile dimensione ermeneutica, l'e­ segeta finisce per scorgere a quel punto una previa , fondamentale unità, che non è dei singoli testi ma dell'humus o, se si preferisce , dell'unico grembo che li ha generati. Nessuna meraviglia, pertanto , se egli è costretto a considerare attra­ verso l'ottica di tale unità - come ha voluto fare Selwyn - lTs insieme a lPt, Ef, Col , Eb , lasciando intendere che l'indagine potrebbe estendersi ad altri testi neotestamentari. La condizione che riteniamo indispensabile è che vengano ri­ spettati gli intrinseci postulati di congruenza e organicità delle piste d'indagine , come ha fatto Selwyn sulle tracce della catechesi battesimale. In questo senso, valutiamo positivamente l'intuizione di questo autore e l'interna coerenza meto­ dologica e tematica della sua ricerca. 79 76

Cf. RIG 109. I punti di convergenza sono cosl riassunti da RTG 109: l. Le sofferenze che i destinatari del­ le due lettere devono subire sono state già sopportate da altre chiese. 2. Ciò fa parte della loro voca­ zione, quindi non possono provocare turbamento. 3. I credenti devono riporre la loro fiducia in Dio vindice della loro causa. 78 RIG 109. 79 Da un decennio, nella nostra Facoltà teologica di Sicilia, cerco, per la mia parte, di percor­ rere la pista della nascita della riflessione ecclesiologica nei testi neotestamentari indagando sul du­ plice binario della fondazione storica e dell'autocomprensione teologica. Trovo, in tal senso, alta­ mente significativa e produttiva la ricerca delle tracce «tradizionali)) , appunto, della parenesi primiti­ va. Ci riserviamo di dare documentata notizia dei risultati raggiunti in una successiva pubblicazione. 71

55

La prima lettera ai Tessalonicesi

4.

l Ts in rapporto a 2Ts

Solo per compiutezza di analisi, avviamo questa nuova indagine ma come di sbieco, ben consapevoli della necessità di una sua trattazione appropriata, diret­ ta e approfondita, nel contesto della presentazione di 2Ts, tenuto conto della problematicità di quest'ultima in merito alla sua autenticità e al suo rapporto cronologico con la prima. Le posizioni degli studiosi al riguardo sono controver­ se , e non è certo nostro intento dirimerle. Precisiamo tuttavia che, dal nostro punto di vista, è piuttosto riduttivo, nonché fuorviante , affrontare lo studio dei rapporti tra 1Ts e 2Ts unicamente nell'angolatura dei due problemi accennati. L'insistenza sui soliti argomenti, oltre che logora, appare sempre più impro­ duttiva. Condividiamo il disagio di tanti studiosi a tale riguardo. 80 Che una deci­ na di termini di 2Ts non si ritrovino altrove n eli'epistolario paolino , non è un ar­ gomento serio contro la sua autenticità: la nostra l Ts ne conta di più . Il fatto che nella medesima lettera il senso dato a certi termini non sia conforme a quello che si trova nelle altre lettere di Paolo , non è nemmeno questo indizio valido per ri­ fiutare all'apostolo la paternità di questa lettera. Le differenze di stile e di tono non intercorrono solo tra due lettere, ma tra esse e tutte le altre lettere paoline. Quanto poi al vocabolario paolino, bisogna riconoscere che esso deve aver subi­ to un'evoluzione . È comprensibile quindi che i termini non compaiano sempre con il medesimo valore. Viceversa, riteniamo utile e produttivo, il confronto attento delle due lette­ re. È la pista che intendiamo seguire , offrendola quale puro dato , autonoma­ mente indicativo della sua intrinseca problematicità. In coerenza con tale scelta metodologica, sia nel presente contesto che nel corso del nostro commento , evi­ teremo di trarne esplicite valutazioni in merito all'autenticità e alla cronologia di 2Ts. E ciò per rispettare l'autonomia della ricerca del biblista che presenterà, in questa medesima collana, la seconda lettera ai Tessalonicesi. Le somiglianze letterarie sono rilevanti: lTs

1 ,2-3 2,12 3,13 3 , 1 1-13 2,9 5 ,23 5 ,28

2Ts

1 ,3 1 ,5 1 ,7 2,16-17 3,8 3,16 3,18

Espressioni e interi versetti sembrano ripresi dalla prima lettera. Non impo­ nendosi la necessità di ipotizzare una diretta dipendenza dell'una dall'altra, qualche studioso penserebbe a un breve lasso di tempo intercorso tra le due



Se ne fa interprete la TOB, 612.

56

La

prima lettera

ai

Tessalonicesi

lettere . Ma - ci si chiede - se il tempo fosse cosl breve , bisognerebbe supporre un cambiamento brusco nella situazione di Tessalonica , che la lTs non lascia in alcun modo prevedere. Inoltre , sarebbe oltremodo difficile comprendere come l'apostolo , rivolgendosi alla stessa comunità nello spazio di qualche settimana, sia potuto passare dal tono caloroso di lTs a quello solenne e distaccato di 2Ts. Passiamo dalla forma al contenuto e dalle convergenze alle diversità. Tutti gli studiosi rilevano che l'insegnamento dato in 2Ts, particolarmente in 2,1-12 sulla fine dei tempi, con esplicito riferimento al ritardo della parusia, non si concilia con quello di lTs (cf. 1 , 10; 2,19; 3 , 19 ; 4,1 1-18; 5 , 1-3) sulla venuta im­ provvisa e imminente del «giorno del Signore». Notano inoltre che, mentre lTs prospetta un passaggio immediato da una pace apparente alla rovina, la seconda lettera insiste sulla gradualità di tale passaggio attraverso tappe successive. Li­ mitiamoci a considerare , a tal proposito , che l'apocalittica giudaica ha sempre congiunto i due temi del carattere improvviso della parusia e dei segni premoni­ tori, come dimostrano i testi evangelici (cf. Mc 13 e par . ) . D'altronde , appare ovvio che l'incertezza stessa dell'evento abbia potuto spingere a parlarne in mo­ di diversi. Tra i fautori della non autenticità di 2Ts si è schierato , com'è noto, W. Tril­ ling che, ribadendo una posizione precedentemente formulata , 8 1 così si esprime: «L'accettazione dell'autenticità è inverosimile, quella della non autenticità, an­ che in considerazione di tutti i singoli rilievi, è da prendere come sicura» . 82 A ta­ le conclusione , l'autore perviene in base all'esame , per lui decisivo , del proble­ ma del rapporto letterario tra i due scritti , e formula cosl la sua ipotesi : «La 2Ts non può essere accolta come uno scritto originario di Paolo , ma dev'essere con­ siderata lo scritto pseudoepigrafico di un autore sconosciuto di epoca posterio­ re» . 83 Sulle motivazioni che avrebbero spinto detto autore anonimo a comporre il suo scritto, indirizzandolo proprio «ai Tessalonicesi» e non ad altri destinatari, Trilling esclude l'intento di una contrapposizione-sostituzione di lTs e, a suo di­ re , anche l'ipotesi di una correzione dell'escatologia di l Ts non coglierebbe il ve­ ro punto focale del problema. Sarebbe meglio partire dal fatto che 2Ts si rifà a una precisa concezione per la quale i suoi sostenitori potevano richiamarsi a lTs. Con ciò , l'autore di 2Ts avrebbe raggiunto lo scopo di far accogliere il suo scritto come un insegnamento ulteriore e sicuramente necessario. Il presumibile rap­ porto di 2Ts 2,2 con l Ts sarebbe così un primo indizio che 2Ts è stata concepita come lettera «ai Tessalonicesi». 84 Trilling completa la sua analisi presentando, in tale direzione , tre possibili «motivi di convenienza» (Konvenienzgrunde) . La nostra lettera tratta in senso 81

Cf. W. TRILLING, «Untersuchungen zum 2. Thessalonicherbrief», in EThSt 27(1972), 158. W. TRILLING, «Authentizitat», in Der Zweite Brief an die Thessalonicher, EKK XIV, 22-26, Zùrich-Einsiedeln-Koln-Neukirchen-Vluyn 1980, in particolare 24. 83 TRILLING, «Authentizitat», 23. 84 TRiLLING, «Authentizitat», 24-25. 82

L' «insegnamento»

della prima lettera

ai

Tessalonicesi

57

stretto un solo tema. Tornava utile, al rigu ardo, prendere una breve lettera di Paolo come modello. 1Ts veniva opportunamente incontro, perché trattava la tematica della parusia in maniera più ampia di ogni altra lettera paolina. Nella 2Ts viene già tematizzato l' «apostolico» come realtà fondamentale della chiesa primitiva post-paolina . Il giudizio di Trilling su tali «motivi» è pesante: «Né sin­ golarmente, né insieme possiedono una forza dimostrativa. Tuttavia - prosegue - essi possono aiutare a capire il modo di procedere dell'autore e la individuazio­ ne del destinatario» . 85 Appare più convincente la posizione della TO B: «L'insegnamento sugli ulti­ mi tempi, dato da Paolo in quella circostanza (lTs 4 , 13-5,3; lCor 15 ,20-24) , non lasciava alcun posto a un periodo di apostasia e alla venuta di un anticristo. È chiaro che la seconda lettera è scritta fondamentalmente per esporre detto sce­ nario apocalittico (2Ts 2 , 1-12) . Se si trattava di precisare o di rettificare un pre­ cedente insegnamento , perché presentarlo come un semplice richiamo di un in­ segnamento che , orale o scritto, insisteva sulla venuta del giorno del Signore "come ladro nella notte"?». 86 Dopo aver precisato che il problema non è certo di fondamentale importanza e che 2Ts può benissimo rispondere alla situazione delle comunità cristiane angosciate per il ritardo della parusia, così conclude : «Che un redattore cristiano, un responsabile di una comunità, impregnato del­ l'insegnamento paolino , abbia ritenuto necessario , appellandosi all'autorevolez­ za deH'apostolo, correggere una falsa e pericolosa interpretazione dell'attesa del ritorno del Cristo, è molto probabile, e spiegherebbe bene l'origine delle diffi­ coltà di coerenza rilevate sopra . . . Comunque sia, 2Ts ha svolto un ruolo impor­ tante nella storia della chiesa scoraggiando ogni possibile fuga dall'impegno di lotta dei cristiani nel mondo e ricordando loro che la speranza cristiana è inscin­ dibile dalla vigilanza quotidiana». 87 5.

L'«INSEGNAMENTO» DELLA PRIMA LETTERA

Al

TESSALONICESI

Il primo scritto del NT è anche la prima testimonianza di fede-speranza­ amore della chiesa nascente . Nella semplicità della sua formulazione dottrinale, esso propone le grandi consapevolezze che configurano il volto autentico del cri­ stiano e ne animano il cammino: l'amore di Dio che chiama, la signoria del Cri­ sto del quale si attende ardentemente il ritorno, l'azione travolgente dello Spiri­ to nell'annuncio della Parola e nella vita della comunità, la certezza nella risur­ rezione, la perseveranza nella persecuzione, l'impegno nell'amore vicendevo­ le . . . Una testimonianza dunque che si trasforma in invito rivolto ad ogni comu­ nità e a ogni credente a vivere, nel proprio tempo, della stessa speranza con lo stesso ardore.

85 TRILLING, «Authentizitat», 25. 86 Cf. TOB, 613 (nostra traduzione). ff1

TOB, 613

(nostra traduzione) .

58

L'«insegnamento» della prima lettera ai Tessalonicesi Per rispettare il tono unitario della lettera e Ja centralità della sua «esortazio­ ne» (paraklesis) ,88 abbiamo voluto porre a titolo della presente, ultima tappa della nostra introduzione a l Ts, il termine «insegnamento» che più compiutamente la qualifica. Per lo stesso motivo, intendiamo evitare una presentazione frammenta­ ria e/o indebitamente sistematica di tale insegnamento. Indubbiamente rimane possibile l'enucleazione di particolari linee tematiche,89 ma ci si chiede: in base a quali criteri si scelgono dette linee? A quali condizioni è metodologicamente possi­ bile e contenutisticamente produttiva la selezione stessa? Le domande sono ov­ viamente indizio di un reale disagio. Per il primo problema, difficilmente si può eliminare il limite della soggettivi­ tà, della gratuità, se non della casualità. E ciò non andrebbe certo nella linea del ri­ spetto della variegata organicità del testo, oltre che della compiutezza del suo mes­ saggio. È proprio il pericolo della frammentazione. Per il secondo, la possibilità-efficacità è data unicamente dalla fedeltà allo sta­ tuto della teologia «biblica», evitando le facili e ricorrenti confusioni metodologi­ che con la «Sistematica» e , nel caso specifico di lTs, dal rispetto della sua originali­ tà in rapporto , per esempio, alle grandi lettere paoline. Selezionare un tema in un testo biblico può essere un attentato alla sua unità, specie quando si dà vita a un processo di vera e propria «sistematizzazione» e/o si ha la pretesa di far convergere in esso la globalità del messaggio. Tale intervento, più che gratuito è metodologicamente errato, perché in stridente contrasto con la genesi vitale del testo , con la sua identità testimonia/e e con la sua stessa finalità in­ terpellativa. E ciò accade quando si interviene dall'esterno, quando ci si proietta sul testo , anziché cercare di collocarlo nel suo Sitz im Leben, di coglierne l'intrin­ seca testimonianza e la connessa proposta dialogica. lTs risponde in pieno a questi postulati connaturali , al punto tale che si configura come autentica lettera «predi­ cata» più che «pensata come scritto» , «funzionale» e dinamica più che statica e «contemplativa» , «relazionale» più che «dottrinale» . Ne costituiscono prova evi­ dente, oltre al tono d'insieme intensamente «comunicativo», l'alta ricorrenza dei pronomi personali nella diade «noi-voi» e dei verbi esortativi , in tutta la gamma della loro espressività semantica, e addirittura la sua stessa impostazione, non an­ cora rigidamente divisa in parte dottrinale e parte parenetica. Ci pare pertanto al­ quanto indebita una «selezione» tematica del suo messaggio, che non tenga conto di tutti questi postulati.

88 Il verbo parakaleo («esorto») è presente in lTs 2,1 1 ; 3,2-7; 4,1. 10.18; 5,1 1 . 14; mentre il so­ stantivo paraklesis («esortazione»), in 2,3. Il senso è molto ampio: «parlare, proclamare , insegnare» e si riferisce ad una attività missionaria che mira ad una accoglienza non priva di coraggio. La parola si fa dunque invito, esortazione, incoraggiamento, consolazione nel senso di riprendere forza e, ap­ punto, coraggio. Gli stessi apostoli possono a loro volta essere «incoraggiati» dai loro convertiti (3,2.7), come questi ultimi possono > (Diodoro). Anche il sostanti­ vo eucharistia, «riconoscenza, gratitudine, grazie» , è presente in lppocrate, Demostene, Menandro, . Diodoro, Polibio. 14 a. Didaché, IX, 1,5; IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ephes. XIII, l ; Philad. , 4; Smir. ' VIII , l .

1 ,2b-3a

87

zione paolina, oltre che in continuità perfetta con i testi eucaristici menziÒnati sopra. L'eucaristia apparirà l'azione di grazie per eccellenza appunto perché in­ dicativa in sommo grado della comunione dell'uomo con Dio realizzata in Cristo Gesù . Il riferimento esplicito al Kyrios sarà fatto da Paolo alla fine della presen­ te azione di grazie, ma è ovvia, nell'attuale linguaggio , la risonanza del termine e della prassi eucaristica a lui ben nota e direttamente riportata nel testo di l Cor 11 ,24 . L'avverbio pantote1 5 «sempre , continuamente», esprime in termini temporali l'intensità e la totalità del rapporto esistenziale e ministeriale con Dio insito nel ringraziamento . La continuità della preghiera sottolinea , infatti, la fedeltà nel rapporto, in risposta dialogica, appunto , alla fedeltà di Dio che porta a compi­ mento la sua promessa . Non è un caso che sia ancora Paolo il maggior fruitore del termine {ben 27 volte) , associandolo molto spesso al ringraziamento , o gene­ ricamente alla preghiera. Nel contesto dei nostri due versetti , tale accostamento appare indissolubile , al punto che subito dopo , quando nel v. 2b l'apostolo ritor­ nerà a parlare di preghiera, immediatamente sentirà il bisogno di far riapparire un avverbio simile, adialeiptos: «ricordandovi nelle nostre preghiere continua­ mente». L'espressione «per tutti voi», che completa l'annuncio tematico, è anch'essa in qualche modo esigita dalla coerenza del linguaggio paolino. Infatti, nelle sue azioni di grazie (con la sola eccezione di Fm 4) è sempre unita a eucharisteo e a pantote (assente solo in Rm 1 , 10) . È la sottolineatura della componente univer­ salistica, in armonia con l'intensità del rapporto orante e con la sua estensione nella totalità del tempo. Non può sfuggire , in tale prospettiva unitaria, la voluta assonanza, pantote . . . panton , che finisce per collegare anche foneticamente i due concetti . Che si tratti poi di tutti i credenti di Tessalonica, senza alcun forza­ to riferimento a un'ipotetica e indimostrata divisione al loro interno , sembra ab­ bastanza evidente. Paolo ha dinanzi l'unità della giovane chiesa che è in Dio e nel Signore Gesù Cristo , ed è la globalità del suo cammino che lo preoccupa, presa com'è dalla tentazione dell'apocalittica giudaica che rischiava di dirottarne il percorso così lodevolmente avviato. 16 vv. 2b-3a: Sviluppo tematico.

v . 2b: Memoria nella preghiera . La comparsa del primo participio subordina­ to «ricordandovi» , relativo al ricordo nelle preghiere , si accompagna con nota­ zioni che , in qualche modo, lo contestualizzano . Cosi , se già lo stesso verbo «far memoria» evoca di per sé il richiamo intenso e costante, appunto la ripresenza insita nella preghiera, con la preposizione «nel» si passa quasi a localizzarne lo 15 L'avverbio è ellenistico. Raro nella LXX (Sap 1 1 ,2 1 ; 19,18), è frequente nel NT: 7 volte in 27 in Paolo; mai negli Atti né nelle lettere cattoliche. 16 L'uso della particella peri, costante nelle azioni di grazie (cf. Rm; lCor) , preferita alla più pertinente hyper (cf. tuttavia Fil l ,3; e anche la «benedizione» di 2Cor) non pone alcun problema, considerato che la differenza tra le due tendeva a scomparire.

Gv;

88

Commento

·spazio, mentre con il plurale «nostre preghiere» e soprattutto con l'avverbio «continuamente» si insiste decisamente sulla sua ripetitività e continuità. Con ciò , tali notazioni raggiungono anche lo scopo di evidenziare non tanto vaghi e generici atteggiamenti , ma atti concreti e ripetuti di preghiera. Appare chiaro , da questo stesso punto di vista , che è impossibile separare l'avverbio dal suo na­ turale contesto, per accostarlo al mnemoneuontes , «memori» , che segue . 17 A parte il fatto che il participio del v. 3a segna l'avvio di un nuovo sviluppo di pensiero, e questa volta si tratterà di precisare le motivazioni profonde del «ri­ cordo nelle preghiere», negli altri testi paolini paralleli l'avverbio adialeiptos, «continuamente», è sempre associato alla preghiera (cf. Rm 1 ,9s: «incessante­ mente faccio ricordo di voi . . . sempre nelle mie preghiere»; e anche lTs 2,13: «ringraziamo Dio continuamente») . Il testo di Rm ha anche il vantaggio di pre­ sentare , come nella nostra azione di grazie, quella che possiamo chiamare la contestualizzazione ampia del «far memoria» : si apre con l'avverbio in questio­ ne , si incentra l'attenzione sul verbo , fa seguire pantote («sempre») da epi («in») e con il plurale ton proseuchon («le preghiere») . 18 v. 3a: Il ricordo vivo della fede operosa, dell'amore faticoso, della speranza perseverante. La ripresa paolina del participio precedentemente usato ,19 con la leggera variante di una maggiore concisione imposta dal più preciso «ricordo», crea continuità nel progresso di pensiero. Il «ricordo», che costituisce il tutto del versetto, è incentrato decisamente su fede-amore-speranza. I termini che quali­ ficano la triade , più che individuarne risvolti operativi conseguenti, ne identifi­ cano l'intrinseca natura . Per tale motivo, abbiamo preferito tradurli, come la TOB, con altrettanti aggettivi. In tal senso, ha ragione Rigaux quando afferma, a proposito di tou ergou tes pisteos («dell'opera della fede») , che «non si tratta tanto delle opere prodotte dalla fede dei tessalonicesi , ma dell'azione , dell'atti­ vità dei tessalonicesi nella stessa accoglienza del messaggio cristiano, cioè di Ge­ sù Cristo». 20 In ultima analisi , si tratta qui di definire la fede come operosità e vita, e non come formalismo verbale. Lo stesso principio vale anche per le altre due compo­ nenti . Tale definizione della triade risalta con ancora maggior forza se la si collo­ ca nel contesto storico-esistenziale che Paolo ha ben «presente alla memoria» 17 Non condividiamo pertanto né la traduzione della CEI: «Ricordandovi nelle nostre preghie­ re, continuamente memori . . . », né quella di ScHLIER, L'apostolo, 24 nota 9: «adialeiptos, incessante­ mente, continuamente, senza interruzione e simili, può essere messo in relazione con la prima o con la seconda frase participiale». 8 1 Paolo indica la preghiera con i termini proseuche (Rm 1 ,10; 12,12; 15,30; lCor 7,5; Fil 4,6; Fm 4,22) e deesis (Rm 10, 1 ; 2Cor 1 , 1 1 ; 9,14; Fil l ,4 . 19; 4 6) Questo secondo aggiungerebbe al pri­ mo la sfumatura della «domanda» connessa all'invocazione, una nota quindi di maggiore concretez­ za. Una distinzione che sembra riproporre , a livello di sostantivi, quella esistente tra i verbi proseu­ chethai e deisthai. 19 Sulle ricorrenze del verbo mnemoneub nelle iscrizioni giudaiche delle sinagoghe col signifi­ cato affine al nostro di «pregare a favore di qualcuno», cf. P. SroHLMACHER, Das paulinische Evan­ gelium, 1: Vorgeschichte, Gottingen 1968, 104 nota 2. 20 RIGAUX, Saint Pau/, 362. ,

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nel momento in cui scrive alla sua giovane comunità. L'apostolo dirà poco oltre come proprio l'operosità, la fatica e la perseveranza hanno dato il vero volto alla fede-amore-speranza di quella comunità che , fin dal suo primo incontro con il vangelo, fu costretta a scontrarsi con il duro dramma del rifiuto e dell'opposi­ zione. «Della vostra fede operosa» . 21 Se è vero che ergon qualifica la fede, è altret­ tanto vero che solo la pistis può dare identità a ergon . A tale scopo, riteniamo utili alcune precisazioni sulla «fede» paolina. Indubbiamente, nell'uso di un te­ ma di tanta rilevanza l'apostolo non può non attingere al patrimonio comune della tradizione cristiana, come d'altronde lascia chiaramente intendere lo stesso tenore arcaico e sicuramente pre-paolino della formula che stiamo analizza ndo. Tuttavia, sono soprattutto gli accostamenti tematici , talvolta sinonimici, che la­ sciano intravedere l'originalità paolina nell'uso del termine. È noto che gli ebrei hanno scelto il gruppo semantico caman ( solidità , sicurezza) per indicare l'e­ sperienza unica del rapporto Dio-uomo basato, appunto , sulla solidità della pro­ messa divina e, parallelamente , sulla sicura fiducia de Il 'uomo . Proprio questo aspetto di relazionalità reciproca hanno voluto sottolineare i traduttori greci del­ l' AT con l'assunzione della famiglia di pisteuo, «credere» . Co n simili presupposti, diventa normale per i l NT, e per Paolo i n particola­ re, definire con il solo termine «i credenti» tutti i cristiani (cf. già in 1Ts 1 ,7; 2,10.13), coloro cioè che sono entrati in rapporto vitale con Cristo perché incor­ porati nella sua morte e nella sua risurrezione e, grazie alla mediazione salvifica del Figlio di Dio e del dono dello «Spirito di filiazione adottiva», inseriti ne1l'am­ bito della stessa vita divina. Il passaggio dalla fede quale relazionalità costitutiva dell'identità cristiana alla fede quale testimonianza-annuncio , e quindi alla diffu­ sione di detta relazionalità, fu per Paolo altrettanto ovvio. Così , il termine fede diventa sinonimo di vangelo in Gal l ,23 : «Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere» . Questo uso in Gal chiarifica ulteriormente l'accostamento , da noi evidenziato sopra , di pistis con ergon, dove il nostro ergon si presenta come sinonimo di annunzio , esattamente come pistis lo è di vangelo. All' interno della stessa 1Ts c'è un altro aspetto con=

21 C. SPICQ, Notes de lexicographie MO-testamentain, Gottingen 1978, Il, 697-703, pur facendo continui rinvii dai testi profani a quelli biblici, osserva che nessun testo profano può fornire un paral­ lelo alla «fede» antico- o neo-testamentaria. Partendo dai testi più antichi, nota che l'uso di pistis «fede» nei papiri è spesso giuridico, col significato di , è oscura. Non si pronunziano in merito né BLASS-DEBRUN­ NER, Grammatica ; né E. BOISACQ, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Paris 1923, né P. CHANTRAINE, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Paris 1968. SPICQ, Notes, 15-30, oltre a fornire un'interessante rassegna bibliografica sul termine fino agli anni sessanta, ne presenta l'iter storico. D verbo agapao compare per la prima volta in Omero. In epoca clas­ sica è usato agapesis, ma il sostantivo agapé è ignorato prima della LXX. Prima della nostra era è atte­ stato esclusivamente nel giudaismo ellenistico e sempre con significato religioso. Nessun papiro ne atte­ sta la presenza prima di Gesù Cristo. In base a questi dati, il nostro autore conclude sull'appartenenza del ternùne agapé, derivato da agapa6 (e non da agapbis) alla koine. L'uso della LXX gli ha conferito pregnanza teologica, ma il ternùne esisteva anche nella lingua pagana, malgrado non ne sia attestato l'u­ so prima della nostra era. Cf. A. CERESA-GASTALDO, «AfAnH nei documenti anteriori al Nuovo Testa­ mento>), in Aegyptus (1951 ), 302-303; m . , «AfAnH nei documenti estranei all'influsso biblico», in Rivi­ sta di filologia e di istruzione classica (1953), 347-356; C. SPICQ, «Le Lexique de l'amour dans les Papy­ rus», in Mnemosyne (1955), 32; Agapé. Prolégomènes à une étude de théologie néo-testamenta/RE, Lou­ vain-Leiden 1955; Agapé dans le Nouveau Testament. Analyse des textes, l, EB, Paris 31966.

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anche in ·assenza di reciprocità. Da qui, la necessità di assumere un quarto termi­ ne: agape, un amore che comporta un aspetto di conoscenza e, per essa, di sti­ ma, spesso con una sfumatura di preferenza , un rispetto profondo che stimola all'ammirazione e che si trasforma in adorazione quando ha Dio come oggetto. Nei testi paolini , agape si applica sia all'amore di Dio per Gesù e per gli uomini che all'amore degli uomini per Dio e per gli altri uomini)).23 La dimensione orizzontale , fraterna dell'amore, qui sottolineata da Paolo, trova il suo elemento qualificante nella «fatica» (kopos) . Ribadiamo che l'inter­ pretazione di kopos e del suo rapporto con agape deve seguire le medesime piste letterario-tematiche e storiche poco sopra percorse in merito all'identificazione di ergon e del suo rapporto con pistis. Trattandosi anche qui di un genitivo sog­ gettivo, si impone la lettura: «l� fatic� _ç!z�. �J'am9re». La confluenza dell'amore nella fatica non esaurisce certo la ricchezza semantica, oltre che catechetica, di agape, piuttosto è il tentativo di collocare quel tipo di fatica concreta, storica­ mente ed esistenzialmente vissuta dai tessalonicesi , nel suo orizzonte proprio, che è appunto l'amore. Continua, dunque , la geniale operazione di linguaggio intrapresa da Paolo: incarnare la triade, contrastandone ogni possibile tentativo di isolamento nel formalismo e/o nel sentimentalismo astratto. A tale scopo, il termine kopos si rivela quanto mai pertinente, per indicare la concretezza di un amore che è connotato anche dal suo aspetto penoso , sofferto , spesso ingrato, ma che trae autenticità e forza dall'esempio di Colui che , per amore , è giunto fi­ no al dono della sua stessa vita . Non a caso il medesimo termine sarà spesso usa­ to da Paolo , in questa stessa nostra lTs, per qualificare il compito apostolico (cf. 2,9; 3,5). «Della vostra perseverante speranza» . 24 Quest'ultimo accostamento qualifi­ cante l'identità cristiana è, tra tutti , quello che ha più precisi agganci con la tra­ dizione biblica antico-testamentaria. L'area semantica del qwh («aspettare, de­ siderare))) , esprimeva bene la tensione costante del semita verso il possesso di una felicità definitiva , per la cui conquista era disposto a sopportare, con forza e pazienza, ogni sorta di difficoltà del presente. Inevitabile, pertanto, il legame tra 23

TRJMAILLE, .:La première lettre», 17. Cf. C. SPICQ, «Hypomone, Patientia»,

in RSPh Th 19 (1930) , 95- 105; FESTUGIERE, «un:o­ �· dans la tradition grecque» , in RSR 2 1 ( 1931), 447-486; P. GoiCOECHEA, De conceptu uno�ovrf apud Paulum, Romae 1965 . Le conclusioni dei primi due studi sono così sintetizzate da RIGAU X , Saint Pau/, 365 : il verbo hypomeno ha assunto nel sistema morale di Platone un significato ben preci­ so: «restare saldi» di fronte a un nemico agguerrito; in questo «Star saldi» si dimostra la «forza d'ani­ mo>) (karteria) che si addice a un «vero uomo)) (andreia) (FESTUGIERE, «Uxo�ovrf», 477). Questo stesso autore osserva che per Platone e Aristotele la hypomone che si accompagna alla speranza, quindi alla fiducia in un aiuto , non è autentica hypomone (480 nota 6). Nella Stoa, la hypomone è ri­ tenuta una forza contro i mali, la malattia e la stessa morte. Gli autori che più hanno indagato sull'u­ so del termine neli'AT sono: W. MEIKLE, «The Vocabulary of Patience in the Old Testament», in ET 19( 1920), 219-225 ; e SPICQ, Notes . La pazienza è espressa in ebraico da 'dk che la LXX traduce con makrotymia , applicandola sia a Dio (Nm 14,18; Es 34,6; Sap 15,1 ecc.) che agli uomini (Pr 14,29; 1 5 , 1 8 ; Ger 1 5 , 1 5 ecc.). Nella LXX, hypomone ha - secondo le conclusioni di SP1cp, «Hypo­ mone>), 98 - come suo principale sostrato semitico qwh ( attendere, desiderare). 24

=

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Commento

attesa perseverante e speranza, e anche , parallelamente, la proiezione della dia­ de nella prospettiva escatologica. Nella traduzione greca dell'AT si constata, inoltre, una certa fluttuazione: elpis («speranza») traduce molti termini ebraici che sono anche resi con hypomone (hypo-meno , letteralmente equivale a «sotto­ stare a», quindi «sopportare»). Ciò motiva il rapporto quasi sinonimico dei due termini e, in alcuni brani delle lettere paoline , il loro interscambio. In ogni caso, si vuole sempre insistere su un'attesa fiduciosa e costante che nutre la speranza dell'uomo credente orientandolo verso Dio e la sua promessa salvifica. Paolo è l'autore neotestamentario che ne fa il più ampio uso (hypomone: 16 volte su 32 negli altri scritti ; elpis: 36 su 47 , mai nei Vangeli) . Il suo concetto di speranza, pur conservando la valenza biblica di attesa paziente e fiduciosa, si fonda direttamente sul mistero pasquale di Cristo. Oggetto della speranza conti­ nua ad essere il futuro escatologico, ma nella nuova consapevolezza che solo al­ lora sarà dato di vivere in pienezza ciò che , a titolo di caparra, è stato già donato su questa terra, grazie alla nostra incorporazione nella risurrezione del Cristo . Pertanto, la speranza aggiunge all'attesa la certezza di ricevere ciò che si spera. Nella nostra lettera , in particolare , essa è totalmente orientata alla parusia del Signore nostro Gesù Cristo e a tutto ciò cui essa darà accesso: «essere sempre con lui», «gloria e regno di Dio» , «gioia». Si comprende, in questa luce, come la speranza sia diventata l'anima della preghiera cristiana, nella quale non si chiede se non il compimento del dono già accolto. Anche il concetto paolino di hypomone, come quello di «speranza», si rive­ ste di ulteriori significati cristologici, che ne completano la valenza ecclesiologi­ ca, già presente nella tradizione sinottica� Nella parabola del seminatore , Gesù ne aveva già fatto uso per indicare la fermezza che i discepoli avrebbero dovuto mostrare in caso di minaccia alla loro fede: «Il seme caduto nella terra buona so­ no coloro che , dopo aver ascoltato la parola . . . , la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza (hypomone)» (Le 8,15). Ancora più esplicita­ mente , a conclusione del suo insegnamento sulla persecuzione futura: «Con la vostra perseveranza (hypomone) guadagnerete la vostra vita» (Le 2 1 , 19) , un lo­ ghion parallelo a quello di Matteo e Marco: «Colui che persevererà (ho hypo­ meinas) sino alla fine sarà salvato» (Mt 24 ,13; Mc 13,1�). Sulla base di tale inse­ gnamento del Maestro, non è stato difficile per Paolo avviare la sua riflessione sul mistero pasquale di Cristo che: Parola seminata, ha prodotto frutto con la sua perseveranza; con la medesima perseveranza , ha guadagnato la sua vita, e infine, perseverando sino alla fine è stato salvato dai lacci di morte. L'apostolo arricchi­ va così , tramite l'accostamento perseveranza-Cristo, la sua rilettura personale della figura del Servo sofferente di JHWH , colui che «maltrattato , si lasciò umi­ liare e non apri. la sua bocca . . . come agnello condotto al macello , come pecora muta di fronte ai suoi tosatori» (Is 53,7). 25 25 In un'interessante nota su: «L'origine della triade fede, speranza, carità», RossANo (Lenere

ai Tessalonicesi, 67) , afferma: «Sono termini che s. Paolo ha trovato già definiti nella predicazione

cristiana; ne avrebbe trovato anche l'associazione per indicare le componenti essenziali della vita cri· stiana, oppure l'associazione dei tre termini fu opera sua? È una domanda alla quale non è dato ri­ spondere con sicurezza».

93

1 ,3b

3b: Fondazione cristologica ed escatologica. Lo straordinario sbocco dell'azid­ ne di grazie, per quanto improvviso, ne costituisce , in realtà, l'inevitabile coro­ namento. Dopo una così accurata delineazione dell'identità cristiana, era natu­ rale il richiamo alla formula centrale della professione di fede della comunità primitiva: Gesù Cristo nostro Signore e Dio nostro Padre. Non accettiamo, per­ tanto , lo smembramento di detta formula compiuto da tanti traduttori che han­ no voluto accostare l'ultima frase: «dinanzi a Dio e Padre nostro» al participio iniziale del v. 3 , e quindi alla memoria dell'apostolo . La fede , l'amore e la spe­ ranza devono essere vissuti, come si precisa poco più avanti nella stessa lettera, «dinanzi a Dio e Padre nostro», per prepararsi degnamente all'incontro definiti­ vo con lui, «al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (lTs 3 , 13). Con ciò, l'apostolo sta dando l'ultima pennellata alla suddetta delineazione, evidenziandone l'intrinseca prospettiva escatologica. Ancora meno convince lo sganciamento della speranza dalla triade , per di­ ventare la sola portatrice del collegamento con la frase successiva: «del Signore nostro Gesù Cristo», sia che si voglia far riferimento alla sola speranza del Cri­ sto , sia che ci si voglia riferire alla speranza del credente riposta in lui. Ha ragio­ ne Da Spinetoli quando precisa al riguardo: «l genitivi delle lettere paoline sono sempre inafferrabili , perché non delimitano ma ampliano la prospettiva dell'au­ tore». 26 È anche vero che, dal punto di vista grammaticale , la specificazione in questione può riguardare la sola speranza . Tuttavia, abbiamo ripetute volte no­ tato come, nella presente azione di grazie, l'apostolo prenda in esame tutta la vi­ ta cristiana. Ed è proprio detta totalità ch'egli vuole , ora , riallacciare alla sua ba­ se e al suo punto di partenza con un'espressione che, sulla scia della BJ, potreb­ be tradursi: fede-amore-speranza «che sono l'opera di nostro Signore Gesù Cri­ sto» . Nella medesima opera, Dewailly e Rigaux notano: « È preferibile collegare questo genitivo alle tre virtù , ma il senso resta ampio: Gesù è, al tempo stesso, autore e oggetto, origine e scopo della fede , dell'amore, della speranza. Que­ st'ultima è menzionata alla fine perché tutta la lettera si colloca nella prospettiva escatologica» . 27 Rimane da precisare in che senso Paolo intenda parlare della triade come opera di Cristo. Intanto , sembra chiaro il riferimento alla triade in quanto vissu­ ta dal credente e non da Gesù Cristo. Tuttavia , questa triade definita «di Gesù Cristo» è certamente qualcosa di diverso dalla fede in Gesù Cristo, o dell'amore a Cristo, o della speranza in lui . Mentre queste ultime formulazioni indicano l'atteggiamento dell'uomo che si relaziona a Cristo, la prima evoca, invece , espressamente il piano salvifico di Dio nel quale egli intende far penetrare l'uo­ mo per giustificarlo. Il personaggio Gesù Cristo non è presentato come colui che riceve l'adesione della fede , dell'amore e della speranza, ma molto di più come colui che li suscita, in quanto realizzatore nel mondo di questo disegno divino, che è giustificazione e salvezza, cioè possibilità di comunione con Dio. Cristo è

v.

26 n

O. DA SPINETOU, Lettere ai Tessalonicesi, DEWAILLY-RIGAux, Les Epftres, 36.

Roma 1970, 234.

94

Commento

pertanto un soggetto attivo, ma la sua azione qui sottolineata non è quella di cre­ dere, amare e sperare, bensì quella di fondare e motivare la fede , l'amore e la speranza, conferendo loro i lineamenti del suo stesso volto . Cosl, la nostra azione di grazie che , nelle sue prime battute si preannunciava come un tentativo di descrizione del volto del cristiano, giunta a conclusione, trova nelle radici della stessa fede il vero approdo della sua ricerca . Pervenendo , con ciò , ad enucleare compiutamente il suo messaggio : ogni volto del credente è autenticamente tale solo nella misura in cui lascia intravedere i chiari lineamenti del volto di Gesù Cristo Signore . 2.

AMPLIAMENTO DELL'AZIONE DI GRAZIE (1 ,4-10)

Della pertinenza del titolo del presente brano, oltre che della sua stessa col­ locazione strutturale nell'ambito di lTs , abbiamo riferito a suo tempo. Ribadia­ mo soltanto, per puntualizzare le tappe del nostro cammino esegetico, che in l ,4-10 continuiamo a muoverei all'interno del primo stico di un parallelismo apertosi con l'azione di grazie di l ,2-3 , e che troverà il suo culmine nel racconto della testimonianza evangelica di Paolo a Tessalonica, in 2,1-12. Il secondo stico prenderà avvio dalla conferma dei motivi di ringraziamento , in 2, 13-16, e si completerà con il racconto della dolorosa esperienza della lontananza dell'apo­ stolo dalla sua comunità, in 2, 17-3 , 1 3 . Indubbia la centralità delle sezioni 2,1-12 e 2 , 17-3,13, ma, altrettanto decisivo appare il ruolo coinvolgente del rendimento di grazie (cf. anche 3 ,9-13), vero motivo conduttore della prima parte di lTs. Il collegamento , di più , la forte saldatura con l'azione di grazie è resa eviden­ te dalla presenza del participio eidotes «ben consapevoli» all'inizio del v. 4, che completa la triade di participi subordinati retti dal verbo principale «rendiamo grazie»28 del v. 2. Viceversa, il medesimo participio, per la sua nuova valenza se­ mantica , segna l'avvio dello sviluppo dell'azione di grazie , determinando il pas­ saggio dalla «memoria» orante dell'apostolo, fortemente sottolineata dai due precedenti participi, alla «consapevolezza» dell'elezione divina nei confronti dei suoi destinatari . La particella hoti, «infatti, poiché» , del v. 5 motiverà tale preci­ sa consapevolezza fino al v. 10, ma, mentre nel v. 5 soggetto unico è l'accadi­ mento del vangelo tra i tessalonicesi, accompagnato dalla testimonianza aposto­ lica di Paolo, nei vv. 6-10 diventano soggetto gli stessi credenti («voi») , colti nel loro impegno di «imitazione» di tale evento . La particella consecutiva hoste, «così da» , all'inizio del v. 7 segna, a sua volta, il passaggio a un nuovo aspetto del ruolo dei tessalonicesi in ordine alla diffusione del vangelo , e quindi ad ulte­ riore riprova della loro elezione . Infatti, mentre i vv . 5 e 6 quasi si fronteggiano, proponendo la diade classica nel linguaggio missionario: dono-accoglienza, con il v. 7 si passa alla risonanza nel mondo cristiano dell'esemplarità della fusione di

va

28 RossANO, Lettere ai Tessalonicesi, 60, proprio in forza di tale inizio del v. 4, parla della nuo­ sezione come di una esplicitazione del motivo del ringraziamento a Dio.

1 ,4

95

detta diade nella comunità di Tessalonica. I vv. 9-10, infine , con la comparsa di un nuovo soggetto «essi stessi» , riferito a tutti coloro che, raggiunti da tale testi­ monianza, se ne fanno partecipi annunciatori , assumono una diversa connota­ zione. Intanto, come avremo modo di precisare, il tenore arcaico dei termini e la presenza di espressioni stereotipe li configurano come citazione condensata di temi portanti nella predicazione missionaria della chiesa in ambiente pagano. Inoltre , la loro forma sintetica e quasi riassuntiva non lascia dubbi sul loro carat­ tere conclusivo di tutto il brano. Appare, cosi, abbastanza chiara la strutturazione dei nostri versetti: 4: Collegamento con l'azione di grazie e avvio del suo sviluppo con la presentazione del tema dell'elezione. vv. 5-10: Esplicitazione del tema dell'elezione : - accadimento del vangelo, testimonianza di Paolo e accoglienza della co­ munità ( vv. 5-6) ; - conseguente irradiazione dell'esemplarità dei credenti di Tessalonica nel mondo cristiano (vv. 7 -8) ; - il mondo cristiano diffonde l'annuncio della testimonianza dell'apostolo e della comunità (vv. 9-10) . v.

1,4 Ben consapevoli, come siamo, fratelli amati da Dio, della vostra elezione. 5

Infatti il nostro vangelo non si è presentato a voi soltanto con la parola ma anche con potenza, con Spirito santo e con perfetto compimento, come sape­ te siamo stati tra voi , per il vostro bene. 6 E voi siete diventati imitatori nostri e del Signore, accogliendo la Parola in mezzo a grande tribolazione con la gioia dello Spirito santo, 7 Così da diventare modello a tutti i credenti che sono nella Macedonia e nel­ l'Acaia. 8 Da voi infatti la parola del Signore è risuonata non solo in Macedonia e in Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è talmente diffusa dappertutto che non abbiamo bisogno di parlame. 9 Cosi, ognuno narra quale è stata la nostra venuta tra voi e come vi siete con.. vertiti a Dio dagli idoli, per servire il Dio vivo e vero , lO e per attendere dai cieli il suo Figlio che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, colui che ci libera dall'ira che viene. a.

Il tema dell'elezione (v. 4)

«Ben consapevoli» . La consapevolezza della fede , cui Paolo fa qui riferimen­ to , precisa meglio il senso del suo ricordo-preghiera. La triade fede-amore­ speranza vissuta dinanzi a Dio , lo spinge infatti alla contemplazione dell'amore stesso di Dio quale origine dell'elezione, e quindi anche della corrispondente lo­ data risposta di fedeltà dei tessalonicesi. Ciò è parimenti motivato dal fatto che il termine Dio si presenta, dal punto di vista strutturale , quale parola-aggancio tra il v. 3: «dinanzi a Dio» e il v. 4: «amati da Dio».

96

Commento

· «Fratelli amati da Dio». La più antica apparizione dell'appellativo «fratelli» dato ai cristiani, non è certo la prima in ordine di tempo . Il maestro Gesù ne aveva fatto motivo di insegnamento ai suoi discepoli con specifico riferimento all'accettazione di Dio come Padre . Sulla medesima linea, tutto il NT e Paolo in particolare, che in 1Ts ne fa il più ampio uso (14 volte), annettono ad adelphoi, «fratelli», il senso pieno della fondamentale relazionalità dei credenti con Dio Padre e con il suo Messia, Gesù Cristo Signore , che rende i suoi discepoli parte­ cipi della sua stessa filiazione . La densità contenutistica del termine è ancora più fortemente sottolineata dalla vicinanza del secondo appellativo: «amati da Dio» . Entrambi si trovano insieme solo nel nostro testo (cf. anche 2Ts 2,13), e insisto­ no sulla vera natura di una «fratellanza» che non può esser data da vincoli di san­ gue, di razza, o anche di amicizia, ma unicamente dalla comunanza di vita in­ stauratasi mediante l'accoglienza-fede dell'amore paterno di Dio, rivelatosi nel dono salvifico del Figlio unigenito. È implicito che detta, ripetuta appellazione dei credenti, connota già da sola il rapporto di grande affettività che lega l'apo­ stolo alla sua giovane comunità . «La vostra elezione» . 29 Il collegamento tra l'amore di Dio e l'elezione del suo popolo è imposto a Paolo dalla ricca e articolata riflessione anticotestamentaria (cf. Dt 7,6; Sal 135,4; ls 41 ,8-9 ; 42,1-7 ; da confrontare con Rm 8,28-29; l Cor 1 ,26-3 1). L'elezione, che aggiunge alla semplice chiamata una più spiccata con­ notazione preferenziale , era considerata come il privilegio per eccellenza di Israele . Ora , tale privilegio del popolo dell' AT viene trasferito a una comunità cristiana e di origine pagana (cf. Rm 1 1 ,28, alla luce di Dt 4,37). L' ampio uso che Paolo farà in seguito dell'area semantica dell'ekloghe, «elezione», si muove­ rà sempre su questo asse portante. Ne conseguirà una sorta di rilettura globale del piano divino di salvezza, che trova nell'eudokia di Dio (il suo «amore di be­ nevolenza») la sua vera origine, prima della fondazione del mondo , e nella glori­ ficazione il suo scopo (cf. 1Cor 2,7). Le varie fasi della sua realizzazione , guidata unicamente dalla «volontà» di­ vina, sono descritte nel testo di Rm 8,29-30. L'apostolo comincia col fondarsi, come nel nostro testo , sulla comune consapevolezza (oidamen) di fede che i cre­ denti sono stati chiamati conformemente al piano divino: «Sappiamo che tutto 29 Il termine eklogh� è già presente in PLATONE, Rep. , 3; GIUSEPPE FLAVIO, Bellum , 2,165. Cf. anche: Salmi di Salomone 1 ,4; Lettera di Aristea 33. È assente nella LXX. Nell'AT l'azione di sce­ gliere è espressa dal verbo biJ,r ed è riferita unicamente a Dio. Anche la comunità di Qumran si è ap­ propriata del termine, in base alla sua consapevolezza di essere la comunità santa di JHWH, rive­ stendolo tuttavia di quell'accezione esclusivista e settaria che le era connaturale (cf. lQS 1 ,4; 4,22). Mentre Giuseppe Flavio e i Salmi di Salomone usano il termine per indicare la scelta che l'uomo fa del proprio destino, nel NT (7 volte in tutto: l in Atti; 5 in Paolo; l in 2Pt), conformemente all'uso anticotestamentario, è sempre un'azione divina. In Paolo compare dunque altre quattro volte: Rm 9,1 1 ; 1 1 ,5.7.28 e sempre in relazione alla scelta che Dio ha fatto· di Israele fra gli altri popoli per farlo suo popolo. Nota ScHLIER, L'apostolo, 27, che l'elezione dei cristiani è ciò che in lCor 1 ,26ss è detta la loro «vocazione». Essa si compie nella chiamata che è stata loro rivolta. Per l'efficacia di questa chiamata essi erano già gli eletti. Eklektoi (Rm 8,33) sono infatti i cristiani in quanto kl�toi (Rm 1 ,6.7; lCor 1 ,2.24) .

1 ,5-10

97

concorre al bene di colore che amano Dio , che sono stati chiamati (kl2tois) se­ condo il suo disegno» (v. 28) . L'iter di tale disegno (prothesis) prende avvio dal­ la prognosis ( «preconoscenza>>) , passa attraverso la prooresis ( «predestinazio­ ne» ), approdando quindi alla klesis («chiamata») e alla connessa dikaiosis ( «giu­ stificazione») , orientandosi infine verso il suo naturale sbocco: la doxa ( «glo­ ria») : «Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto (data la valenza semitica del verbo, traduce meglio U. Vanni, [NVB): "ha fatto oggetto delle sue premu­ re") li ha anche predestinati (lo stesso autore ha: "predeterminati") ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fra­ telli ; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati ; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati ; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati» . Comprendiamo così che i chiamati-eletti , oltre a fare i l loro ingresso diretto nell'ambito del piano divino , hanno avuto affidato, per ciò stesso, il compito ben definito di contribuire a delinearne la connaturale fisionomia cristologica e co­ munionale. Ciò sarà possibile grazie alla loro fedele conformazione (sum­ morphe) all'immagine del Figlio di Dio. Resi, così, figli nel Figlio, tutti i credenti potranno scoprirsi fratelli tra loro. L'elezione si presenta, pertanto, come vita nella fede mediante la proposta dell'annuncio evangelico. Paolo può parlare di elezione proprio perché sa che tale proposta-chiamata è stata entusiasticamente accolta, come preciserà subito . La componente escatologica dell'elezione rima­ ne certo nell'orizzonte paolino, ma non entra nella formulazione del nostro te­ sto . In questo primo approccio, l'apostolo ha voluto dare al tema tutto il suo spessore teologico conferitogli dalla grande tradizione biblica . Israele e chiesa vengono così considerati unitariamente per quanto riguarda l'identica, sovrana iniziativa di Dio che elegge, ma diversamente per quanto riguarda la nuova, grande fase dell historia salutis: ora, egli elegge coloro che ama, senza più limi­ tarsi a un solo popolo. La sua, sarà ormai un'elezione di grazia (cf. Rm 1 1 ,5), e gli eletti saranno l'Israele di Dio (cf. Gal 6, 16) . '

b.

Esplicitazione del tema dell'elezione (vv. 5-10)

vv. S-6: Accadimento del vangelo, testimonianza di Paolo, accoglienza dei tessa­

lonicesi. «Infatti, poiché» . La congiunzione hoti che introduce la frase subordinata, sembra avere valore causale . Paolo , che si è detto certo dell'elezione dei suoi , passa adesso a darne le motivazioni: il vangelo è stato annunziato con potenza e Spirito santo , e voi lo avete accolto con gioia. D'altronde , come fa ben notare Rigaux, non mancano brani paralleli nell'epistolario paolino dove ritorna la me­ desima formulazione: siamo certi della vostra elezione perché . . . (cf. Rm 5,4-5 ; 8,28-29 ; Fil 4, 15-16) .30 30

RIGAUX, Saint Paul, i n loco.

98

Commento

«Il nostro vangelo».31 Non è nostra intenzione presentare la decisiva valenza semantica del termine vangelo , considerandone sia la prospettiva diacronica che quella sincronica. Si possono in tal senso consultare utilmente le trattazioni , per esempio del GLNT. Come per le precedenti analisi, vogliamo limitarci a eviden­ ziarne le specificità semantiche emergenti sia dalla novità dell'uso che Paolo ne sta facendo in questo suo primo scritto , sia dal preciso contesto nel quale lo sta collocando. Nessun dubbio che l'apostolo voglia far riferimento alla missione conferitagli da Dio (cf. lTs 2,4) e pertanto all'annuncio da lui portato a Tessalonica. Altret­ tanto chiaro è, tuttavia, che tale annuncio è considerato come strumento nelle mani di Dio per la sua chiamata e la sua elezione. Non si tratta dunque soltanto della predicazione, quanto piuttosto di tutta la nuova economia salvifica (cf. Gal 1 ,7). Che Paolo la indichi con il nome di vangelo , è del tutto naturale, considera­ to che tale annuncio non era altro che la continuazione della predicazione e del­ l'opera di Gesù stesso. L'apostolo Paolo , scelto da Dio per porsi al suo servizio (cf. Rm 1 , 1 ; 1Cor 1 , 17), difendendone l'unicità (cf. Gal 1 ,6-10), ne propone an­ che il contenuto. Si tratta della rivelazione del Figlio Gesù Cristo (cf. Rm 1 , 1-4) , risuscitato dai morti dopo la sua crocifissione (cf. l Cor 2,2; 15, 1-5). È lui, infat­ ti , che ha instaurato a beneficio di tutti i peccatori, giudei o pagani (cf. Rm 3 ,2224) , l'economia della giustizia (cf. Rm 1 , 16) che i profeti avevano annunziato (cf. Rm 16 ,25-26). Sarebbe , tuttavia, errato dare senso univoco al termine van­ gelo usato da Paolo. Intanto , si è già constatato che Gesù ne è, al tempo stesso, soggetto e contenuto. Inoltre , spesso esprime insieme l'attività di Paolo e il suo messaggio (cf. 2Cor 2,12; 8,18; 1 ,5 . 12; 4,3-15 ; Fm 1 3 ; · e nella nostra lettera: 1Ts 3 ,2) . Infine, il vangelo produce la salvezza in colui che lo accoglie con fede (cf. Rm 1 , 16- 17; 10, 14-15 ; Fil 1 ,28) e gli ubbidisce (cf. Rm 1 ,5 ; 10,16). Vedremo su­ bito che , conformemente al costante parlare di Dio, anche e soprattutto la paro­ la del vangelo è un evento che , incarnandosi nella storia, la trasforma radical31 Paolo usa ben 60 volte il termine «vangelo», molto più che tutti gli altri autori neotestamen­ tari. Anche la varietà dell'uso è una sua precisa caratteristica: «il nostro vangelo», come nel nostro testo e 2Cor 4,3 (cf. 2Ts 2,14), ma anche: «il mio vangelo» (Rm 2,16; 16,25 ; cf. 2Tm 2,8); «il vangelo di Dio» (lTs 2,2.8.9; Rm 1 , 1 ; 15,16; 2Cor 1 1 ,7); «il vangelo di Cristo» (1Ts 3,2; Gal 1 ,7; 1Cor 9,12; 2Cor 2,12; 9,13; 10,14; Rm 15,19; Fil 1 ,27) ; «il vangelo del suo Figlio» (Rm 1 ,9) . Il copista può essere stato indotto in errore proprio da tanta varietà nel trascrivere «vangelo di Dio»: S C anziché «il nostro vangelo». Già in bocca allo stesso Gesù il sostrato semitico bsr ripreso dall' AT divenne presto termine tecnico del messaggio cristiano. Secondo il parere degli studiosi, esso sarebbe entrato nella lingua del NT sotto l'influsso di Is 52,7, da cui dipende il Sal 93,2. Paolo non sente nemmeno il bisogno di spiegarlo, tanto era ormai acquisito nella mens prima che nel linguaggio della chiesa nascente. In base al nostro testo, appare chiaro che per lui il vangelo è un nomen actionis, l'opera stessa della predicazione che salda in unità inscindibile l'azione dell'annunzio e il suo stesso oggetto. In questo senso, Paolo può dire che è stato messo a parte per il vangelo di Dio (predicazione e conte­ nuto), o che il vangelo è una forza per la salvezza (Rm 1 , 16). Questa forza non proviene certo da lui ma da Dio stesso, attraverso Cristo, mediante lo Spirito. Ma in quanto portatore di tale messaggio salvifico, quella forza intrinseca in qualche modo appartiene anche a lui e fonda la sua stessa autore­ volezza apostolica. In quest'ottica bisogna comprendere la puntualizzazione del nostro versetto: «Non si è presentato a voi soltanto con la Parola, ma con potenza, con Spirito santo e con perfetto compimento».

1 ,5-6

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mente, imprimendole l'impronta indelebile di Cristo, dal quale , nel quale , verso il quale tutto ormai trae origine e scopo. «Non si è presentato a voi soltanto con la parola».32 L'antitesi che si apre in questo inizio del versetto 5 ruota attorno al verbo ghinomai usato al passivo, eghenethe, al posto del medio , egheneto . L'attenzione è posta interamente sul­ l'accadimento di un evento guidato dall'alto. La particella eis sottolinea l'idea di movimento , di trasformazione, mentre il pronome «VOi» ne indica lo sbocco per­ sonale e comunitario: la salvezza insita nell'annuncio evangelico riguarda innan­ zitutto persone credenti radunate in popolo santo , per le quali si sono compiute le promesse di Dio. La traduzione da noi scelta: «si è presentato» vorrebbe evi­ denziare proprio il carattere interpersonale di tale incontro salvifico, ma è inclu­ siva dei significati connessi: «farsi, accadere, attuarsi». La contrapposizione dell'antitesi si sviluppa tra una «parola» che si esclude se considerata nella sua solitudine, e una trilogia di termini che, strappandola appunto dal suo isolamento, ne ampliano la portata semantica e delineano com­ piutamente i connotati dell'evento: «potenza, Spirito santo e convinzione» . Non ci persuade la traduzione corrente: «non . . . �oltanto a parole», lasciando inten­ dere che la compiutezza avverrà con i fatti. Il contrasto non è tra l'astrazione del­ la parola e la concretezza dei fatti, ma tra l'inefficacia di parole e fatti soltanto umani e l'efficacia fattuale , sacramentale appunto, della parola di Dio che è an­ che evento salvifico . «Ma con potenza,33 con Spirito santo e con perfetto compimento» . n primo elemento che qualifica l'aspetto positivo dell'antitesi è la dynamis, «potenza», al 32 Riteniamo errato interpretare l'espressione ouk . . . en log6i monon alla luce delle successive riflessioni paoline. In 1Cor Paolo polemizza contro la falsa sapienza dei greci che si esprime nell'ab­ bondanza e nell'eleganza delle parole. In Rm e Gal contrappone parole e opere puntando decisa­ mente sulla fusione delle due componenti più che sulla loro divaricazione, soprattutto insistendo sul­ l'operosità della fede. Qui, si tratta di presentare compiutamente la portata del termine vangelo. Paolo ha parlato a Tessalonica, ma i suoi destinatari devono adesso capire che il vangelo va ben oltre le parole; esso non consiste soltanto in un annuncio privo di vita, anzi esso è tale proprio perché è portatore della pienezza della vita. Ciò afferma l'apostolo con il suo modo abituale, antitetico, di esprimersi : prima presenta l'aspetto negativo di una determinata idea e successivamente quello posi­ tivo. E non c'è alcun dubbio che la «parola», subito rimossa, rimpicciolisca progressivamente fino a scomparire del tutto di fronte alla «potenza», allo «Spirito Santo» e al «perfetto compimento». 33 RIGAUX , Saint Pau/, 375, indagando sull'iter del termine, nota che il senso di «forza» , origi­ nariamente attitudine, «potenza» presente nel termine dynamis, è attestato già in ARISTOTELE, Meta­ {tsica, 8,6, senso che sarebbe rimasto nelle espressioni kata, para, hyper dynamin; da lì l'applicazio­ ne agli esseri viventi e intelligenti, potenze corporee e spirituali, parti della forza del mondo. Nella LXX, dynamis è la potenza celeste di Dio, la sua onnipotenza operante, l'origine della forza dei suoi unti. Si trova la dynamis unita alla «salvezza» nel Sal 139,7, a «sapienza» in Gb 1 1 ,6.20; 12,13 e a «Spirito» in Sap 5,25; 1 1 ,20. È noto che per Filone, logos, sophifl, dynamis sono ipostasi divine . L'es­ sere divino è forza, e da lui emanano le forze che governano il mondo. Il NT e Paolo in particolare, malgrado la vicinanza con dette riflessioni, si riallacciano alla predicazione profetica dell'AT, per il quale il Messia doveva essere accompagnato dalla fortezza. ls 1 1 ,2 annuncia che si sarebbe posato su di lui lo spirito di consiglio e «di fortezza» . In Is 9,5 è definito «eroe potente»: Mi 5,5 presenta il futu­ ro pastore che farà pascolare il gregge «con la forza del Signore». Il nostro autore annette particolare importanza al confronto tra il nostro testo e quello di Mi 3,8 dove si dichiara che JHWH è pieno di forza, di giudizio e di coraggio per proclamare a Giacobbe il suo fallimento e a Israele il suo peccato.

100

Commento

singolare , esattamente come il precedente termine negativo di contrasto , logos «parola» . A una parola umana si contrappone una potenza subito accostata a Spirito santo . Proprio l'originalità di detta formulazione dissuade da un'interpre­ tazione di dynamis riferita a segni prodigiosi, come avviene nell'uso plurale del termine per indicare, nei Vangeli, i miracoli che accompagnano il parlare di Ge­ sù e, parallelamente, negli Atti e nelle stesse Lettere paoline , il sorgere delle chiese. Nei casi in cui Paolo accosta il termine dynamis, al singolare, a Spirito , la po­ tenza non ha niente a che vedere con i miracoli in senso stretto . In 1Cr 2,4 Paolo riprende l'antitesi parola-potenza e Spirito, con esplicito riferimento al medesi­ mo contesto della predicazione a Corinto: «La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza» . In Rm 15,13 c'è un augurio in qualche modo conclu­ sivo dell'ampia trattazione precedente : «Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede , perché abbondiate nella speranza per la potenza dello Spirito santo». Poco più oltre , in Rm 15,19, dopo essersi presentato quale «mini­ stro di Gesù Cristo tra i pagani , esercitando l'ufficio sacro del vangelo di Dio . . . », Paolo ribadisce con forza: «Questo è in realtà il mio vanto in Gesù Cri­ sto di fronte a Dio. Non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse opera­ to per mezzo mio , per condurre i pagani all'obbedienza , con parole e opere , con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito» . Quest'ultimo testo , come si constata, è particolarmente vicino al nostro. Pertanto, più che a un ri­ chiamo delle dynameis-miracoli, bisogna pensare a un diretto rinvio alla conce­ zione anticotestamentaria della «potenza celeste di Dio», secondo la quale la po­ tenza è un attributo talmente vicino a Dio da potersi sostituire al suo stesso no­ me . Più esattamente, la potenza è Dio stesso in azione (cf. Dt 3 ,24 ; Gdt 13,14; 1Cr 29, 1 1 ; Gb 37 ,14; Sap 1 ,3 ; Sal 20,13; 76, 14) , e Dio agisce per mezzo del suo Spirito . L' AT aveva presentato gli accostamenti «potenza-Spirito» (cf. Sap 1 1 ,20) , unitamente agli altri «potenza-salvezza» e «potenza-sapienza>> , per insi­ stere sempre sull'apparizione dell'onnipotenza di Dio capace di distruggere al­ l'improvviso l'empio che confida nelle sole sue forze , o di portare salvezza a chi si affida al Signore. Paolo individua innanzitutto nella risurrezione di Gesù la manifestazione di tale potenza divina (cf. 1Cor 6,14; 2Cor 13,4; Rm 1 ,4) . Solo in coerenza con detta manifestazione e quale irradiamento della sua luce , il vange­ lo diventa anch'esso una «dimostrazione di Spirito e di potenza» (1Cor 2,4) . In base alle considerazioni fatte , si può affermare che la formula del nostro testo costituisce la prima comparsa nelle lettere di Paolo, e quindi in tutto il NT, Di questa forza di JHWH erano ripieni gli uomini di Dio, e Luca rappresenterà il Messia come parti­ colarmente rivestito di tale potenza, tanto che inizia il suo ministero pubblico «con la potenza dello SpiritO>> (4,14). E, aggiungiamo noi, Paolo e gli apostoli al suo seguito. Sul versetto in esame, cf. P. RoSSANO, «La parola e lo Spirito. Riflessioni su l Tess. l ,5 e l Cor 2,4-5», in Mélanges Bibliques B. Rigaux, Paris 1970, 437-444; E. CHARPENTIER, «L'action de grilce du Pasteur. l Th l , l -5b>>, in As­ semblées du Seigneur 60( 1975), 10-15; A. HuTIER, ) (47 -48) . 53 Su questo argomento, cf. J. ScHMITI, Jésus Ressuscité dans la prédication apostolique. Etude de théologie biblique, Paris 1 949; lo . , «La prédication apostolique. Les formes, le contenu», e «Le Kerygme et l'histoire de Jésus», in J .J. WEBER-J. ScHMITI, Ou en sont les études bibliques? Les grands problèmes actuels de l'exégèse, Paris 1968, 107- 133 e 213-233; m . , «Résurrection de Jésus dans le kérygme, la tradition, la catéchèse» , in DBS X, Paris 1982, 487-582. A proposito dei discorsi missionari di Atti, e in particolare del discorso di Paolo ad Antiochia ( 1 3 , 1 6-41 ) , l'autore osserva che, malgrado la presenza di alcune notazioni redazionali , Luca si è certamente servito dell'insegna­ mento paolino. Infatti, il tema del Cristo risorto, autore della giustificazione e contenuto della pro­ messa, è oggetto specifico del vangelo paolino; l'interpretazione di ls 55,3 e del Sal l6,10b riflette un metodo del tutto rabbinico ritrovabile solo in un predicatore giudeo-cristiano, come appunto Paolo; l'utilizzazione del testo noto di Abacuc ai fini della parenesi e dell'apologetica contraddistingue pro­ prio l'esegesi paolina. Per cui, il nostro autore ribadisce la sua convinzione che i discorsi missionari di Atti riproducono una tradizione kerygmatica arcaica e testimoniano direttamente la predicazione primitiva, con l'unità del suo oggetto e la diversità dei suoi modelli . E, polemizzando con H. CoN­ ZELMANN (Die Apostelgeschichte), Tiibingen 1963) e WILCKENS (Die Missionsreden, Schmitt cosi conclude: «Porre 1Cor 15,3b-5 contro il valore dei dati lucani è falso. La parad6sis citata da Paolo fu certamente la regola dell'istruzione impartita dall'apostolo agli uditori giudei e greci. Ma essa appa­ re troppo frammentaria e anche troppo incompleta per essere il criterio con cui l'esegeta si propor­ rebbe di valutare in modo assoluto la verità dei discorsi contenuti negli Atti e delle formule keryg­ matiche riportate 11el resto delle lettere e nei sinottici. Gli articoli principali (la croce redentrice, la risurrezione e la prova scritturistica) si ritrovano nella predicazione gerosolimitana ed ellenista» (SCHMITI, «La prédication», 120) . ,

114

Commento

solo Signore Gesù Cristo , per meno del quale tutto esiste e per mezzo del quale siamo anche noi». È appena il caso di notare che Io Shemac è notevolmente pre­ sente ; la struttura parallela della confessione di fede è anch'essa bipartita; le due parti sono anche qui collegate da un kai («e») ; il secondo membro del paralleli­ smo è costruito sul primo , dipendendone in buona misura; il pronome personale «noi» riferito ai credenti in Cristo, aprendo e chiudendo la confessione , quale procedimento di inclusione, unifica le due parti e afferma l'unitarietà della stes­ sa storia salvifica; infine , il protagonismo di Dio Padre è sottolineato dalle pre­ posizioni che gli si riferiscono: ek ( origine , provenienza) e eis ( scopo, fine, orientamento), mentre si sottolinea con forza il ruolo di mediazione del Cristo con la duplice ripetizione della preposizione che lo riguarda: dia («mediante») . =

3.

=

RICORDO DELLA PRESENZA DI PAOLO A TESSALONICA (2,1-121)

Sulla centralità della presente sezione all'interno della prima parte di lTs ab­ biamo riferito in fase di presentazione della struttura della lettera. Il collega­ mento con la precedente azione di grazie ampliata è espresso dalla formula ag­ gancio «la nostra venuta tra voi» (2, 1 e 1 ,9) . Parimenti , la ricomparsa del mede­ simo tema ringraziamento nella sezione successiva: «Per tale motivo , noi non cessiamo di rendere grazie a Dio» (2,13), sembra riannodare le fila di un discor­ so interrotto, ma sarebbe più esatto dire ampliato , dal nostro brano . Numerosi elementi contribuiscono a definirne l'unità interna. Il verbo «voi sapete», apre e chiude il brano (v . l e v. 11), e viene ripreso al suo interno (cf. v. 5) , anche nella forma parallela «ricordate» (v. 9) . Il termine «vangelo» (2 ,2.8.9) - costantemente accostato all'idea di sofferenza variamente espressa con thli­ psis, «tribolazione»; kopos , «fatica»; mochtos , «sofferenza» ; hybrizesthai, «esse­ re insultato»; pascho , «soffrire»; agon , «lotta» - (2, 1 .2a .b.9), ne costituisce co­ me il tema centrale. Le formule antitetiche continuamente ricorrenti: «non . . . ma» (2,1-2.8), «non . . . né . . . ma» (2,3-4) , «mai . . . invece» (2,5-7) , escludendo ogni ambiguità, delineano con molta precisione la coerenza evangelica della te­ stimonianza dell'apostolo . Infine, l'alternanza insistente dei pronomi personali «noi-voi», o dei verbi alla prima e seconda persona plurale , esprime da sola l'af­ flato comunionale che pervade l'evocazione paolina. La struttura emergente risponde allo schema A B B1 A1• Nei vv . 1-2 (A) si ricorda l'annunzio nella lotta: «Abbiamo attinto nel nostro Dio il coraggio di annunziare a voi il vangelo in mezzo a grande lotta» (v . 2) . Nei vv. 3-4 (B), con la comparsa delle prime coppie di antitesi, si esclude tut­ ta una serie di contro-testimonianze del vangelo, e se ne precisa la linea di fedel­ tà mediante la formula riassuntiva: «Non per piacere agli uomini, ma a Dio che prova i nostri cuori» (2,4) . Nei vv . 5-8 (B1), insistendo sulla forma antitetica, si ripropone subito la me­ desima fedeltà, ma non più orientata a Dio, quanto direttamente alla comunità:

115

2,1-2

«Mai con parole di adulazione . . . o con intenti di cupidigia . . m a come una ma­ dre che cura premurosamente i suoi figli» (2 ,5-7) . I vv. 9-12 (A 1 ) riprendono il tema iniziale dell'invito a ricordare l'annunzio dato nella sofferenza, ma con l'aggiunta di una precisa richiesta : «Voi ci siete te­ stimoni, e anche Dio, come ci siamo comportati tra voi . . . in modo retto, giusto e irreprensibile» (2, 10) . .

2,1 Infatti voi stessi conoscete, fratelli, la nostra venuta tra voi: non fu certo 2

3 4 5 6

7 8 9 10 11

12

vana , ma, dopo aver prima sofferto ed essere stati insultati a Filippi, come vi è no­ to, abbiamo attinto nel nostro Dio il coraggio di annunziare a voi il vangelo di Dio in mezzo a grande lotta. E ciò, perché la nostra esortazione non è (ispirata) da errore, né da malafe­ de, né (presentata) con inganno, ma, come siamo stati messi alla prova da Dio perché ci venisse affidato il vangelo, così noi parliamo, non per piacere agli uomini , ma a Dio che prova i nostri cuori. Mai infatti ci siamo presentati con parole di adulazione, come voi ben sape­ te, o con intenti di cupidigia: Dio ci è testimone. E neppure abbiamo cercato gloria dagli uomini, né da voi né da altri , pur potendo imporci come apostoli di Cristo. Siamo stati invece amorevoli in mezzo a voi , come una madre che cura premurosamente i suoi figli. Così , desiderandovi ardentemente, accettavamo volentieri di condividere con voi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, tanto ci eravate cari. Voi ricordate infatti le nostre fatiche e le nostre sofferenze: lavorando giorno e notte per non essere di peso a nessuno di voi , vi abbiamo annunciato il van­ gelo di Dio. Voi ci siete testimoni, e anche Dio, come ci siamo comportati tra voi che ave­ te creduto in modo retto, giusto e irreprensibile. Sapete anche che, come fa un padre con i suoi figli , ciascuno di voi abbiamo esortato e incoraggiato e scongiurato, perché vi comportiate in maniera degna del Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria.

vv.

1-2: L'annunzio nella lotta . v. 1 : «Infatti voi stessi conoscete, fratelli, la nostra venuta tra voi . . ». L'avvio della nuova trattazione è saldamente collegato con il precedente tema dell'ele­ zione e, più particolarmente , con l'irradiazione della sua notizia del mondo inte­ ro grazie alla coerente testimonianza evangelica dell'apostolo e della sua comu­ nità: «Così, ognuno narra quale è stata la nostra venuta tra voi e come vi siete convertiti. . . » (1 ,9) . Il soggetto autoi, «Voi stessi» , in implicita contrapposizione a quello di 1 ,9 - «ognuno (autoi) narra la nostra venuta» - oltre a delimitarne la portata universalistica - non più «ognuno» ma «voi stessi» - introduce alla preci­ sazione del contenuto. La particella «infatti» esplicita la volontà di raccordo. L'invito al ricordo dei tessalonicesi espresso dal verbo «conoscete» è evocazione di consolidata esperienza, prima che semplice esercizio di memoria. Infine, l'og.

Commento

116

getto di tale richiamo del passato è formulato in maniera pressoché identica in entrambi i brani: «la nostra venuta tra voi» parallelo a «quale è stata la nostra venuta tra voi» in l ,9. La nuova eisodos esprime tuttavia l'idea di venuta, di pri.. mo impatto , mentre la prima sottolineava più quella di accoglienza. Parimenti, l'enfatico «tra voi» dice più l' arrivo che non la permanenza. Insomma, fin dal primo momento il vangelo è stato testimoniato dall'apostolo . Che si tratti in en­ trambi i casi del solo Paolo, appare evidente dai numerosi richiami, presenti nel nostro brano, alle esperienze da lui vissute in prima persona e al suo irripetibile rapporto generativo nei confronti della sua comunità. « . . . Non è stata vana, ma . . ». La prima antitesi del brano è posta a fondamen­ to di tutte quelle che seguiranno. Nella sua parte negativa si esclude l'insuccesso della venuta di Paolo a Tessalonica. La sua formulazione continua a riproporre il deciso collegamento con la sezione precedente. Infatti, riappare il verbo ghi­ nomai, «divenire , accadere», che aveva scandito i momenti della manifestazione dell'elezione divina nei vv. 1 ,5-7 . Il tempo perfetto, anziché aoristo , indica la continuazione di un evento che perdura appunto nei positivi risultati raggiunti . Anche la comparsa di kenos, «Vano» , richiama l'annunzio del vangelo avvenuto «non con parole soltanto, ma anche con potenza , con Spirito santo e con perfet­ to compimento» (1 ,5). Pertanto, conformemente a tutto il linguaggio paolino che accosta il termine anche alla carità (cf. l Cor 15,10) , al kerygma (cf. lCor 15,14), alla fede (cf. lCor 15, 14), kenos54 non assume solo il significato di «senza risultato». Il risultato fa un tutt'uno con il contenuto. Accostato dunque alla «venuta» dell'apostolo, esprime, al tempo stesso, il «perfetto compimento» del­ l'opera divina e il successo missionario. La parte positiva dell'antitesi che si apre con «ma» si presenta come esplicitazione della «non inutilità» affermata prima. Ma, mentre nell'azione di grazie l'attenzione era tutta rivolta all'operatività del vangelo sui credenti, ora la medesima operatività è considerata nel comporta­ mento dello stesso apostolo . .

v. 2: «Dopo aver prima sofferto ed essere stati insultati a Filippi, come vi è noto » . I due participi, aprendo una frase incidentale, non si connotano ancora come l'attesa opposizione a kenos. La parte positiva dell'antitesi è rinviata grammaticalmente al v. 2b: «abbiamo trovato il coraggio». Il primo dei due participi aoristi , propathontes («avendo prima sofferto»), hapax in tutta la Bibbia, può essere stato creato da Paolo per esprimere, oltre ad . . .

54 n te �mine kenos in senso metaforico indica l'assenza di verità, di forza, ma anche di effetto , risultato. Nel nostro testo, accostato all'eisodos, «venuta», dell'apostolo, sottolinea antitetica­ mente l'importanza e la pienezza di quella venuta portatrice del dono salvifico di Dio. Letteraria­ mente, si contrappone dunque a quanto espresso in 1,5, sui segni che hanno accompagnato la diffu­ sione del vangelo: la «potenza», lo «Spirito santo» e il «perfetto compimentO>>. L'espressione «non invano» richiamerebbe quindi il «non a parole soltanto».

di

2,1-2

1 17

un'anteriorità di tempo, anche una condizione previa all'annunzio evangelico, una sorta di necessaria purificazione nella sofferenza per render autentico e cre­ dibile l'annunzio dell'apostolo . Il significato è di maltrattamenti fisici , mentre il secondo participio, hybristhentes («essendo stati insultati»), fa generico riferi­ mento a insulti, offese e oltraggi di tipo morale. Posti accanto , descrivono quasi plasticamente la globalità di una situazione contrassegnata da una totale prostra­ zione umana, nella quale viene a manifestarsi la trionfante forza divina. 55 Ha ra­ gione Rigaux quando afferma che in entrambi i participi è insita una sfumatura concessiva («malgrado») , idonea a preparare l'irruzione del verbo eparresiasa­ metha , «abbiamo attinto il coraggio» . Del traumatico soggiorno d i Paolo a Filippi, del quale sono invitati a far me­ moria comunionale i cristiani di Tessalonica (kathos oidate) , parla Luca in At 16 ,22-40. In quella città Paolo, nonostante il suo status di cittadino romano, fu percosso in pubblico e senza processo, e poi gettato per la prima volta in prigio­ ne, per essere infine fatto uscire di nascosto. 56 Col carico di questa dolorosa e umiliante esperienza si era presentato a Tessalonica. ·

« . . . Abbiamo attinto nel nostro Dio il coraggio di annunziare a voi il vangelo di Dio in mezzo a grande lotta». Si giunge così all'esplicitazione della seconda parte , quella positiva, dell'antitesi. Il nuovo verbo, hapax nell'epistolario paoli­ no (con la sola eccezione di Ef 6,20) , ma presente in Atti , è di grande densità te­ matica. In Atti indica la grande libertà e il coraggio di cui danno prova i credenti nel proclamare pubblicamente il kerygma. In Paolo , il sostantivo equivalente parresia , ampiamente presente nell'epistolario, si connota come qualifica globa­ le dell'esistenza cristiana. Per cui , riferito al rapporto del credente con Dio , as­ sume il significato di sincerità di cuore, rettitudine, sicurezza interiore, fedeltà, mentre , considerato nei rapporti interpersonali , diventa sinonimo di libertà, co­ raggio, franchezza, sia nel parlare che nell'agire . Collocato nel nostro contesto e soprattutto accostato a en toi Theoi, equivale ad «attingere coraggio in Dio», co­ me ad un'unica, vera fonte che consente di tra��ettere la sua parola «con Spirito e potenza» . La matrice culturale alla quale Paolo attinge non è certo quella greca, dove il termine era ampiamente usato per indicare la libertà politica di azione e di paro15 La particella pro- anteposta al verbo pasch6, «Soffro » , indica anteriorità di tempo, ed è spesso usata da Paolo, come qui , in verbi composti: prographo, «prefiguro» (Ga1 3 , 1 ) ; proanghelizo­ mai, ad accogliere il messaggio cristiano. Questo invito - conclude - Paolo lo concepisce come opera di Dio

Commento

120

sono altri: kerysso, «annunzio» ; ed euanghelizo, «evangelizzo» . Non accettia­ mo , pertanto , che non si voglia fare il cammino inverso: rispettare innanzitutto la valenza «esortazione» tipica del termine paraklesis, e indagare sullo spessore semantico di cui Paolo lo riveste. Si scoprirebbe in tal caso che la paraklesis pao­ lina coinvolge sia la proclamazione del vangelo che le connesse esigenze etiche . Accingendosi a far memoria con i suoi interlocutori della globalità della sua te­ stimonianza tra loro , l'apostolo ha trovato opportuno far ricorso al termine più completo e più appropriato del suo linguaggio . Rinviamo la presentazione più esauriente del termine all'inizio della seconda parte della presente lettera. « . Non (è ispirata) da errore, né da malafede, né (presentata) con inganno». L'attenzione è subito condotta alla sorgente da cui sgorga (ek) l'atteggiamento dell'apostolo e al suo stesso canale di trasmissione (en). Si escludono una dupli­ ce fonte d'ispirazione e una modalità di presentazione: l'errore e la malafede da una parte , e l'inganno dall'altra . Piane. Termine raro nella LXX, come nel NT, dove tuttavia assume sempre il significato di «errore» nel cammino della verità della fede, e coinvolge , oltre alla dottrina, anche la coerenza della vita . Vi è connesso l'aspetto di seduzione, in forza dell'attrazione che l'errore esercita sullo spirito, determinando la scom­ parsa della percezione della sua intrinseca falsità. Paolo vuole prendere le di­ stanze da tutti quei missionari itineranti del suo tempo, falsi mestieranti della parola, che facevano balenare agli occhi del loro uditorio i vantaggi menzogneri di nuove dottrine alle quali essi per primi rifiutavano di aderire con la totalità del loro essere . Non è quindi da escludere che a questa apologia Paolo sia costretto da sospetti diffusi calunniosamente a Tessalonica dai suoi avversari. Akatharsia. Non è chiaro il significato di questo termine che indica l' «impu­ rità» . Può trattarsi di un'impurità rituale, come spesso accade nella Bibbia : as­ senza delle condizioni richieste per accostarsi alla divinità e compiere i gesti cul­ tuali, ma può anche trattarsi di impurità morale, come nei profeti e in Pr: la con­ dizione religiosa e , conseguentemente , morale dell'uomo che non obbedisce a Dio (cf. Is 5,6; Pr 6,16). Non si vede come possa qui trattarsi di impurità rituale. In lTs 4,7 ritorna la akatharsia e in un contesto , simile al nostro , dominato da un'esortazione nella quale si danno indicazioni per potere piacere a Dio : «Dio non ci ha chiamati aii'akatharsia ma alla santità», con il significato indubbio di un'attività sessuale illecita e non conforme al vangelo . Proprio questo uso del termine nella stessa lettera dissuade dal vedervi qui un'impurità soltanto mora­ le. D'altronde, nell'epistolario paolino, l'akatharsia appartiene alla stessa cate­ goria di vizi della quale fanno parte la porneia, «fornicazione», e l' aselgheia , «li­ bertinaggio» . Siamo persuasi che la triade di negatività esclusa da Paolo vada .

.

che si serve degli apostoli per diffondere la sua kl�sis, «chiamata,.. Così, è tutta la missione apostoli­ ca che viene indicata con questo termine. La parakl�sis non sarebbe dunque il vangelo nel suo conte­ nuto dottrinale o morale, ma la parola apostolica che esorta nell'accoglienza di entrambe le compo­ nenti. Qui, l'oggetto è molto ampio: la chiamata alla conversione e alla fede.

2,3-4

121

letta unitariamente, come radicale presa di distanza dagli atteggiamenti che sto­ ricamente contraddistinguevano i missionari itineranti ellenistici e che erano diametralmente opposti a quelli dell'apostolo . Proprio perché erano nell'errore, costoro vivevano nell'impurità e dissolutezza, sfruttando a tale fine il fascino che esercitavano le cosiddette nuove dottrine, seducendo altri in tale errore, e quindi ingannando (è il senso della terza negatività che subito segue : dolos) il loro stes­ so uditorio. Oude en doloi: «né (presentata) con inganno». Il passaggio è netto dalla par­ ticella ek indicante l'origine a en equivalente a b ebraico e indicante sia «per mezzo di» che «nel/con» . E in effetti, il rapporto tra plané-akatharsia e dolos, è proprio quello esistente tra causa ed effetto. I predicatori di cui sopra , che erano ispirati dall'errore e dall'impurità, di fatto non potevano poi che agire con ingan­ no. Il termine dolos è presente in Paolo solo qui, in Rm 1 ,29 e in 2Cor 12,16, e serve a indicare, parallelamente al nostro testo , o i falsi apostoli «ingannatori» o, antiteticamente , la sua fedeltà «Senza inganno» alla parola che egli annunzia. Il significato primo è di «trappola» ed esprime bene l'idea del predicatore che fa ricorso a tutte le arti dell'astuzia e dell'abilità oratoria per sedurre la sua preda. v. 4: «Ma, come siamo stati messi alla prova da Dio perché ci venisse affidato il vangelo , così noi parliamo : non per piacere agli uomini, ma a Dio che prova i nostri cuori». La particella «ma» segna il passaggio dell'antitesi alla presentazio­ ne positiva della ministerialità apostolica di Paolo. Dopo aver rimosso la causa di non inanità del suo annunzio , egli ne precisa la vera origine. A fondamento di tutto pone la consapevolezza di essere stato scelto e inviato da Dio. Questa frase è presentata come un paragone : «come . . . così», ma il paragone è di difficile in­ terpretazione, perché Paolo gli sovrappone altri paragoni impliciti . I verbi del primo membro del paragone sono al passato : dedokimasmetha, «siamo stati messi alla prova»; pistheuthenai, «venisse affidato». Quelli del se­ condo invece sono al presente : laloumen , «parliamo»; areskontes, «per piacere»; dokimazonti, «che prova». C'è dunque confronto tra passato e presente, e con­ seguente affermazione della conformità dello status presente all'evento del pas­ sato . Il vangelo, usato in senso assoluto , fa da cerniera tra le due fasi: noi parlia­ mo ( proclamiamo) oggi quel medesimo vangelo che, a suo tempo, ci fu affida­ to. Il verbo dokimazein «esaminare , discernere», appare anch'esso nei due membri del paragone , la prima volta al passato, la seconda al presente: l'aposto­ lo è stato «esaminato» da Dio nel passato, ma continua a esserlo nel presente. Appare chiaro che , in opposizione a quanto detto prima, nel primo membro del­ la frase, si vuole affermare con forza che Dio stesso è origine e fonte del vangelo che Paolo annunzia, continuando a esserne anche il garante in ogni tempo . Pao­ lo, a sua volta, fa di tutto , ed è il secondo membro della frase , per rimanere co­ stantemente fedele a Colui che è all'origine del suo mandato , sottoponendosi con immutata disponibilità al discernimento divino. L'idea espressa dal verbo dokimazein richiede ulteriore attenzione . Nella lingua greca profana, l'aggettivo del verbo in questione era termine tecnico atte=

122

Commento

stante l'autenticità di una moneta. Ben presto , acquisì il significato metaforico di uomini degni di fiducia perché esaminati e approvati. Per questo motivo , il ver­ bo significa il più delle volte «provare , esaminare». Nel linguaggio religioso del­ la LXX, il verbo dokimazein traduce sia questo concetto base che parte dal me­ tallo da provare nella sua autenticità per arrivare alla prova delle persone «scru­ tando bene reni e cuori», sia il concetto parallelo di «purificare il metallo con il fuoco» per ottenere una maggiore qualità . Ora, nell' AT quest'azione del purifi­ care-provare appartiene in proprio a Dio. Dalle sue mani l'uomo così trattato esce purificato e santificato , come radicalmente trasformato, quasi ricreato e re­ so idoneo a compiere una particolare missione. Ciò equivale a dire che il «di­ scernimento» divino esclude il riconoscimento di doti umane preesistenti. Paolo vede in quest'ottica la sua stessa chiamata sulla via di Damasco (cf. Gal l } , e ri­ conosce di non avere alcuna particolare «capacità» per essere stato reso «mini­ stro della nuova alleanza» (2Cor 3,7ss). È doveroso chiedersi , a questo punto, in cosa è consistita l'azione di Dio con il suo dokimazein riferito all'apostolo Paolo fin dal suo primo ingresso in Tessa­ Ionica. Diciamo subito che si tratta di renderlo partecipe delle sofferenze insiste nella passione di Cristo, o meglio, di trasformarlo in segno vivente di quella morte redentiva per farlo diventare autentico annunziatore e testimone di quella connessa risurrezione. È il grande tema della thlipsis («tribolazione») paolina, con tutta la ricchezza semantica e contenutistica presente nell'arco della produ­ zione letteraria dell'apostolo , a partire proprio da 1Ts. Ma è chiaro che tale pro­ fonda esperienza di assimilazione del mistero pasquale nella sua missione apo­ stolica , prima che esser narrata per iscritto , è stata da lui vissuta nella carne in una simbiosi costante tra sofferenza lacerante e gioia indicibile . Il testo di Ger 1 1 ,20,59 qui citato nell'espressione «a colui che prova i nostri cuori» , diventa per­ tanto chiaro alla luce di 2Cor 8,2: «nella lunga prova della tribolazione», dove la «tribolazione» ha valore di genitivo esplicativo della «prova-discernimento». «Non per piacere agli uomini» . In base a tale dato fondamentale , non poteva esserci assolutamente posto nella vita di Paolo per una ricerca del «piacere agli uomini», cioè del rendersi gradevole agli occhi del suo uditorio, come facevano i predicatori di facili dottrine. Solo lo sguardo scrutatore di Dio aveva valore per lui . «Piacere a Dio» era un ideale per ogni pio israelita. Equivaleva a compiere scrupolosamente la missione affidatagli, e per Paolo apostolo di Cristo, a rical­ care fedelmente la sua immagine con l'unico scopo di esser trovato degno da Co­ lui che «esamina e purifica i nostri cuori». Proprio l'espressione «piacere a Dio»60 fa da cerniera tra la triade: «né errore , né impurità, né inganno» e i vv. 5-8. 59 n testo di Ger 1 1 ,20 (LXX): Kyrie, krinon dikaia, dokimazon nephrous kai kardias: «Signo­ re , tu che giudichi rettamente, tu che scruti reni e cuori»; 12,3: dedokimakas ten kardian mou enan­ tion sou : «Tu hai scrutato il mio cuore davanti a te»; cf. 17,10; 20, 12; Sal 7,10; 26,2; 1Cr 28,9. «Il cuore - commenta ScHLIER, L'apostolo, 40 - è notoriamente l'uomo intero. È la fonte nascosta e il centro del suo pensare, volere e sentire, il luogo inaccessibile della sua commozione e della sua scel­ ta». 60 Il verbo aresko sottintende l'idea di «essere a servizio; rendere servizio» (cf. Rm 15,1.3, do­ ve l'opposizione è espressa con: «piacere agli altri uomini - piacere a se stessi». Che ci sia invece un

2,5-8

123

S-8 : Non per cupidigia ma per amore. vv . 5-6: «Mai infatti ci siamo presentati non con parole di adulazione, come voi ben sapete, o con intenti di cupidigia : Dio ci è testimone. E neppure abbiamo cercato gloria dagli uomini, né da voi, né da altri». Una nuova triade negativa in­ tegra la precedente, solo che l'attenzione è ora rivolta, non più all'origine del sentire profondo dell'apostolo, ma direttamente all'autenticità del suo rapporto con i destinatari del suo annunzio e della sua testimonianza. D'altronde , il «CO­ me voi ben sapete» restringe la triade al solo ambito dell'evangelizzazione in Tessalonica. Il verbo principale che regge tutta la costruzione è quel eghenethemen che abbiamo già incontrato nella breve evocazione di questa fase fatta nell'azione di grazie, e che continuiamo a tradurre: «ci siamo presentati», per indicare l'ingres­ so e la permanenza nello status di apostolo del vangelo (cf. Rm 16,7; lCor 2,3; 2Cor 3 , 7; Fil 2 ,7) . A tale verbo sono collegati due complementi , uno con en e l'altro col dativo, e il participio zetountes, «cercando» . La particella en anteposta a logos può indicare sia il mezzo che il luogo morale in cui si svolge l'attività di Paolo . Nell'un caso e nell'altro, il riferimento è alla predicazione . Con ciò, «non con parole» si pone sulla stessa linea dei termini che l'hanno preceduto: «venu­ ta>> (2, 1 ) , «annunziare» (2,2) , «esortazione» (2,3) , «parliamo» (2,4) . La formula en logoi kolakeias è chiara nel suo significato : comunque si qualifichi il genitivo kolakeias , soggettivo o oggettivo , Paolo afferma che la sua predicazione «non è stata mossa da sentimenti di adulazione». L'adulazione è ispirata da interesse, vuole ottenere dei vantaggi . Ma i tessalonicesi sanno bene che Paolo , e lo ricor­ derà subito dopo , ha rinunciato ad ogni umano interesse, e quindi non ha avuto alcun bisogno di far ricorso a «parole di adulazione». 61 È stato totalmente libero nella denuncia dei loro vizi e delle loro inadeguatezze. «Né con intenti di cupidigia: Dio ci è testimone» . Abbiamo già sottolineato il rapporto di interdipendenza tra l'adulazione e l'interesse. Coerente, dunque , l'esplicitazione paolina: avendo escluso il mezzo, passa a escludere il fine . Que­ sta volta, l'apostolo fa appello a Dio stesso: solo lui , infatti , che , come ha finito di affermare, è capace di «scrutare reni e cuori» può conoscere le sue intenziona­ lità profonde. L'influsso sapienziale, oltre a quello profetico, sembra evidente. In Sap l ,6 era stato detto: «Dio è testimone dei suoi (dell'uomo) pensieri, sorve­ gliante leale del suo cuore e uditore della sua parola» . La negatività esclusa è di peso: ne va dell'autenticità di un annunzio che , avendo Dio come soggetto e contenuto, non può non modellarsi sulla gratuità del suo dono . La prophasis è di per sé il «motivo» falsamente addotto , il «pretesto» . In Paolo , essa è opposta ad aletheia , «verità» (cf. Fil 1 , 18) , diventando quasi sinonimo di ipocrisia , falsità. vv.

«piacere agli uomini)) che non contraddire il ((piacere a Dio» è detto in lCor 10,31ss) . L'opposizione «piacere a Dio - piacere agli uomini» ricompare ancora, ma in altro contesto, in Gal 1 , 10. 61 Kolakeia nel NT è hapax, ma è presente nella LXX: cf. Gb 19,17; Sap 14,17. In ambiente greco era considerato uno dei massimi pericoli dei retori. L'intento di conquistare con la falsità iJ fa­ vore degli ascoltatori non poteva avere pertanto niente in comune con il vangelo.

124

Commento

La vicinanza con pleonexia , «cupidigia», precisa meglio il senso dell'intera espressione. Paolo è l'autore neotestamentario che usa di più questo termine (6 volte su 10) , collegandolo addirittura all'idolatria. Vuole con ciò indicare una vi­ ta lontana da Dio, in cui la «cupidigia» domina sovrana. Essa infatti sottomette l'uomo ai beni materiali come il pagano dinanzi al suo dio d'oro o di argento. Il­ luminante ci appare il testo di 2Cor 9,5 dove , parlando della colletta , Paolo la definisce un'euloghia , «benedizione», e non una pleonexia. La contrapposizione è dunque tra la liberalità , la gioia del dono e la frode o l'estorsione . In breve : en prophasei pleonexias equivarrebbe a «con cupidigia ipocritamente nascosta» , donde la nostra traduzione: «con intenti di cupidigia». 62 Paolo ritornerà su que­ sto argomento nel v. 9, e sarà ancora più deciso e polemico in l Cor 9,3-18, dove si dirà fiero di annunziare gratuitamente il vangelo. Solo dai filippesi infatti ha accettato un aiuto in denaro, ma perché in catene a causa del vangelo. «E neppure abbiamo cercato gloria dagli uomini». L'inizio della frase con un participio segna uno stacco grammaticale con i primi due elementi negativi del­ l'antitesi: si passa da un tono descrittivo a un tono più interpretativo. In effetti, la terza ed ultima negatività esclusa da Paolo è una conseguenza esplicativa delle precedenti . Chi parla e opera ipocritamente per vile interesse, vuole soddisfare il suo orgoglio personale , «ricercare una gloria» umana, attingere «dagli uomi­ ni» i motivi del suo vanto. 63 Già nel v. 4 aveva precisato che egli non parla «per piacere agli uomini , ma a Dio» . Ora, escludendo la ricerca della gloria umana, sia da parte dei tessalonicesi che da qualsiasi altra provenienza, ribadisce la par­ ticolare genuinità del suo ministero apostolico. È noto l'ampio sviluppo che Pao­ lo darà a questo tema nel resto del suo epistolario. Ma il termine che più gli tor­ nerà in mente sarà kauchesis, «vanto». L'uso qui di doxa, «gloria» , sembra assu­ mere una sfumatura quasi ironica. L'apostolo sa bene quale tipo di «gloria» è oggetto della sua instancabile ricerca, perché è quella stessa che lo ha investito sulla via di Damasco, ed è la medesima che egli vuole annunziare al mondo inte­ ro : quella unica e irripetibile che promana dalla risurrezione di Cristo Signore.

62 La fluidità del termine pleonexia è dovuta al fatto che esso assume spesso un senso ampio e generico, sicché, come definizione di uno degli antichi vizi capitali, è collegato ad akatharsia e anche a eid6latria, anzi come tale verrà definito in Col 3,5 e Ef 5,5. La pleonexia come avidità di possesso è ritenuta una forma di impurità perché manifestazione pratica della ricerca del proprio egoistico pia­ cere e dell'asservimento al mondo. 63 Anche il desiderio della fama era un difetto comune al retore classico medio. Il verbo z�tein, «ricercare», indica lo scopo o la modalità. Qui, seguito da ek, indica quasi plasticamente la fonte di provenienza della ricerca, mentre la particella successiva apo richiama l'idea dell'agente. Sul tema della contrapposizione tra l'apostolato di Paolo e il falso atteggiamento dei retori, cf. W. HoRBUR.Y. «I Thessalonians ii.3 as Rebutting the Charge of False Prophecy», in JThS n.s. 33(1982), 492-508. L'autore studia in particolare i quattro termini: paraklesis, piane, akatharsill e dolos nel contesto del dibattito sulla validità della profezia. In quest'ottica, propone una possibile parafrasi di lTs 2,3; «La nostra esortazione profetica non promana dalla seduzione verso l'apostasia, né dall'impurità spiri­ tuale che caratterizza il falso profeta; essa non è predicata con l'insincerità ingannatrice che vorreb­ be dissimulare la vergogna». Cf. anche A.M. DENIS, «L'Apòtre Paul, prophète "messianique" des Gentils. Étude thématique de l Thess. 11,1-6», in EThL 25(1957), 245-3 18.

2,5-8

125

v. 7: «Pur potendo imporci come apostoli di Cristo. Siamo stati invece amore­ voli in mezzo a voi, come una madre che cura premurosamente i suoi figli» . La frase concessiva che apre il v. 7a sviluppa il concetto di «gloria» del v. 6. Facendo riferi­ mento alla sua autorità di apostolo di Cristo, ricorda ai suoi che avrebbe potuto far valere i diritti connessi a tale carica. Rinunciandovi, Paolo dimostra la sua diversi· tà rispetto a quei retori pagani, avidi di consensi umani e sfruttatori dei loro udito­ ri , che egli non perde di vista nelle presenti puntate polemiche . Il termine baros ha un significato reale: «peso, carico», e uno metaforico: «imposizione, autorità)). Entrambi sono possibili. Nel primo significato, Paolo rivendicherebbe il diritto, cui farà riferimento in 1Cor 9, di «essere a carico)> della comunità . Nel secondo , ri­ corderebbe ai suoi che egli può «imporsi perché costituito in autorità)). Propendia­ mo per la seconda ipotesi. Mancano, in effetti , indizi storici di una possibile conte­ stazione del citato diritto apostolico in Tessalonica. Anche il contesto del brano va nella medesima direzione. Poco prima c'è stato il richiamo della «gloria» , un valo­ re certo morale più che materiale. Subito dopo , proprio in opposizione a tale baros cui si ha diritto ma che viene rifiutato , l'apostolo si approprierà della qualifica, an­ ch'essa certamente morale, di epios: «dolce , mite, gentile». È chiaro che nel NT, e in Paolo in particolare , i due sensi sono attestati : quello materiale di «essere a cari­ CO» (cf. 1Ts 2,9; 2Cor 1 1 ,9; 12,16), e quello spirituale di «far pesare la propria au­ torevolezza)) (cf. 2Cor 4,17; Gal 6,2). Con il v. 7b, si passa all'altro versante dell'antitesi, quello positivo. Al peso dell'autorità apostolica, Paolo oppone l'amorevolezza: «noi siamo stati amore­ voli in mezzo a voi». A questo proposito , i manoscritti di 1Ts non sono unanimi. Alcuni portano nepioi, «piccoli, bambinh) ; altri invece epioi, «gentili, amorevo­ li». L'autorità dei manoscritti e la critica testuale non possono, da soli , dirimere la questione. Molti studiosi ritengono che alcuni copisti non hanno voluto ripor­ tare epioi a causa della sua rarità nel testo biblico, preferendo scrivere il più noto nepioi, per altro graficamente molto vicino. Tuttavia , è ben difficile immaginare Paolo appropriarsi di tale termine, pur tematicamente denso. In 1Cor 3, 1-2 lo userà in senso negativo, per accusare i cristiani di Corinto di essere ancora ne­ pioi en Christoi, «neonati in Cristo», incapaci di nutrirsi del cibo solido dell'inse­ gnamento apostolico. L'aggettivo epios , assente nell'A T, è invece usato spesso nel greco profano. Il NT lo riporta solo in un altro testo , 2Tm 2,24 , nel contesto di una raccoman­ dazione a Timoteo, dunque a un uomo che ha responsabilità ed esercita un'auto­ rità, perché sia un vero pastore . La convergenza contestuale dei due soli testi del NT, si ricollega all'uso dei testi greci. Anche qui , l'aggettivo epios serve a quali­ ficare persone che rivestono un qualche ruolo di autorità: re , governanti o anche dei . 64 Non si tratta dunque di un generico atteggiamento, tipico di ogni uomo

64 TRIMAILLE, �La première lettre», in loco, nota che in una versione del libro di Ester, questo tipo di amorevolezza è opposto, dal re Artaserse, all'«orgoglio del potere», e Giuseppe Flavio la mette in relazione, nel re Tolomeo, alla sua «umanità filantropica» . Trimaille prosegue la sua analisi osservando che i padri della chiesa hanno visto giusto quando hanno accostato le parole di Paolo: «amorevole in mezzo a voi» alla parola di Gesù : «Io sono in m ezzo a voi come colui che serve» (Le 22,27), collocata in un contesto in cui i re e i signori fanno sentire pesantemente il loro potere. Un'a­ morevolezza, dunque, che deve qualificare il retto esercizio dell'autorità.

126

Commento

sensibile che si lascia ispirare da sentimenti di tenerezza, ma di un modo ben preciso di esercitare l'autorità, tenendo conto di coloro che sono sottomessi, ed escludendo ogni tipo di sopraffazione. L'ultima parte del v. 7 mostra come deve concretizzarsi appunto l'amorevo­ lezza nell'esercizio dell'autorità apostolica. Paolo fa ricorso all'immagine della madre, ma non in quanto genera figli, bensì in quanto li nutre e veglia su di loro finché non diventino capaci di affrontare da soli il cammino dell'esistenza. 65 L'immagine più specifica evocata dal termine trophos è dunque quella della «ba­ lia-nutrice».66 Con ciò, si crea continuità perfetta con il precedente epios. L'a­ morevolezza è plasticamente espressa dalla madre che esercita pienamente il ruolo materno nutrendo e curando i suoi figli. Non riteniamo che heautes («di lei») abbia un valore enfatico , nel senso che la nutrice , non necessariamente ma­ dre, nutrirebbe quei figli «come se fossero suoi». È un uso che , presente nel gre­ co classico, tende gradatamente a scomparire. Inoltre, l'espressione usata da Paolo: thalpei ta heautes tekna, «che cura i suoi figli» , sembra richiamare l'altra immagine dell'uccello che cova la sua nidiata (cf. Dt 22,6; Gb 39, 14) . 67 Pare evi­ dente che si voglia insistere sul rapporto di amore e di cura che solo una madre può avere verso i suoi figli. 65 Trophos è la nutrice già nel greco classico, e anche nella LXX : Gen 35,8 ecc. Ma in certe si­ tuazioni trophos è anche equivalente a m�t�r. Cf. A.J. MALHERBE, «"Gentle as a Nurce". The Cynic Background to the Thess ii» , in NT 12(1970), 203-217 ; J. GRIBOMONT, «FAcn SUMUS PARVULI: LA CHARGE APOSTOLIQUE (1 TH 2,1-12)», IN Pau/ de Tarse, Ap6tre de notre temps, Roma 1979, 31 1-338. È noto l'uso abbondante del termine «figlio/figli» a Qumran, sia per indicare il rapporto dei membri della comunità con Dio e con il suo piano di salvezza (cf. «Figli del suo beneplacito»: Frammento 15,9; 1QH 4,33; 1 1 ,9), sia come qualifica di appartenenza al mondo della verità (cf. «Figli della lu­ ce»: 10M 1 , 1 , in contrapposizione ai «figli delle tenebre» o «della perdizione»). Come qualifica del rapporto con il «Maestro di giustizia», cf. il famoso testo qi l OH 7,20-23, dove l'autore cosi si rivolge a Dio: «Tu mi hai posto come un padre per i figli della benevolenza, come un pedagogo per gli uomi­ ni del presagio. Hanno aperto la bocca come un lattante verso le mammelle della madre, e come un bambino sul seno di coloro che lo nutrono . . . Tu hai innalzato il mio corno contro tutti coloro che mi disprezzavano . . . la mia dominazione si estenderà su tutti i figli di iniquità». Anche qui , come nel no­ stro testo paolino, avviene l'appropriazione da parte dell'autore, di caratteristiche appartenenti in proprio a Dio, ma che egl,i tende ad imitare nell'assolvimento del suo compito di pastore e guida del­ la comunità. L'immagine poetica della nutrice-madre, come l'azione del verbo thalpo, sono inserite nell'ambito di un paragone volto a lumeggiare il termine �pioi «miti, amorevoli», attestato da A K L P e alcuni codici minuscoli, e accolta da Nestle e Merk. Detto paragone esplicativo non si compren­ derebbe se si dovesse accogliere la variante n2pioi «piccoli», proposta da B s· c· I D vg e altri, e ac­ colta da Westcott-Hort. 66 RossANO, Lettere ai Tessalonicesi, 14, dopo aver tradotto: «Come una nutrice circonda di affetto i suoi figli», commenta: «La comparazione di calda tonalità familiare evoca la madre nella funzione di nutrice dei propri figli . . . Non v'è motivo di limitare la metafora alla figura della semplice nutrice». 67 Il verbo thalpo ha il significato di: «tenere caldo» neli'Odissea; , in Paul de Tarse, Apotre de notre temps, Roma 1979; P. SANDERS, a cura, Paolo e il giudaismo palestinese. Stu­ dio comparativo su modelli di religione, Brescia 1986. Cf. infine il nostro studio: P. IoviNO, «Paolo: ,

,

132

Commento

v. 10: « Voi ci siete testimoni, e anche Dio, come ci siamo comportati tra voi che avete creduto in modo retto , giusto e irreprensibile». Dopo il richiamo della memoria, in questa terza parte (mnemoneuete) come nella prima (oidate) , riap­ pare anche il tema della «testimonianza» , anch'esso già presente in 2,5: Theos martys , «Dio è testimone» . Parallelamente , come nel v. 9 dell'attuale parte terza c'era stata una più precisa puntualizzazione del richiamo della sofferenza di 2,2 mediante il ricordo del faticoso lavoro manuale , così adesso c'è non solo un am­ pliamento della testimonianza con la chiamata in causa degli stessi tessalonicesi, ma anche un'attenta focalizzazione della testimonianza medesima mediante l'apporto di ben tre avverbi : hosios , «rettamente»; dikaios , «giustamente» ; amemptos, «irreprensibilmente». Anche il verbo ghinomai, «divenire , compor­ tarsi», che così qualifica il comportamento dell'apostolo , era già apparso , con la medesima forma , nella parte prima per escludere ogni contro-testimonianza ba­ sata sull' «adulazione» e sugli «intenti di cupidigia» e per introdurre la testimo­ nianza di Dio: oute . . . eghenethemen . . . oute. . . Theos martys, «non ci siamo pre­ sentati con . . . né con . . . Dio ci è testimone» (2,5) . Il «voi» enfatico che apre il versetto assume una forza rilevante, con il suo chiamare in causa i fedeli e Dio stesso . I tessalonicesi sono chiamati a testimo­ niare ciò che hanno potuto constatare ; Dio, invece , ciò che sa con assoluta cer­ tezza. I giudei e i pagani hanno potuto avere un giudizio diverso, ma i credenti sanno bene che il comportamento dell'apostolo è stato conforme all'annunzio. La triade che qui appare è in netto contrasto con quelle del v. 3 e dei vv. 5-6. Fondamentalmente essa è incentrata sulla giustizia. Infatti, il primo termine, ho­ sios, è spesso associato a «giusto» per indicare la norma di rettitudine alla quale deve ispirarsi l'agire umano , mentre il terzo, amemptos, indica il comportamen­ to di colui cui non può esser rimproverato nulla perché innocente . Hosios è un avverbio hapax in tutto il NT, a differenza dell'aggettivo hosios. Sulla base del significato su espresso, di un atteggiamento moralmente retto , e quindi di una disposizione interiore che va ben oltre l'osservanza esteriore cultuale o giuridi­ ca, l'aggettivo, applicato a persone, designa il vero uomo pio . Rigaux73 osserva che nella LXX è applicato solo a persone e non traduce mai qadosh, «Santo»; o zadik, «giusto» ; ma hasid, «colui che è fedele (all'alleanza)» . In tal senso, Dio è hosios per eccellenza (Sal 145,17; Dt 32,4) . Ma anche gli uomini che obbedisco­ no a Dio sono hosioi (Sal 50,5) , «i pii di JHWH» (Sal 149, 1-2 ; 74, 10) . Allo stato assoluto, indica sempre «i pii» (Sal l2, 1 ; 18,25 ; 32,6) . Un termine tecnico, dun­ que , dell'A T che non sembra sia stato adeguatamentt! valorizzato nel NT, ma che sicuramente è quanto mai pertinente alla definizione del comportamento dell'apostolo . Dikaios: «in modo giusto» . Il nuovo avverbio è da interpretare sulla stessa li­ nea del precedente. Esso non vuole cioè richiamare la virtù della giustizia o la

esperienza e teoria della missione», in Ricerche Storico-Bibliche 2(1990) 1 , 155-184. 73 RIGAUX, Saint Paul, in loco.

2,9-12

1 33

dikaiosyne paolina, quanto soprattutto il comportamento globale dell'uomo che agisce in coerenza con la sua «rettitudine», e quindi in conformità alla legge del Signore che, in quanto hosios, ha interiorizzato. In tal senso , il suo diventa un agire «giusto» . L'avverbio è presente, con significato affine , anche se in negati­ vo, in Le 23 ,41 dove il buon ladrone riconosce di essere stato condannato «giu­ stamente», perché ha ricevuto «il giusto» per le sue azioni. Nell'inno cristologico di lPt 2,21b-25 , al v. 23 si dice di Gesù-Servo che «rimetteva la sua causa a colui che giudica giustamente» . Ma in lCor 15 ,34, il solo testo paolino di confronto, l'avverbio assume l'identico significato comportamentale di «convenientemente, come è giusto agire» : «Ritornate in voi, come conviene, e non peccate» . L'ultimo avverbio, amempt6s ( «irreprensibile» ) , completa l a triade nel senso che la dichiarazione di innocenza è la convalida globale e definitiva dell'atteggia­ mento retto e del comportamento giusto. Per questo suo aspetto di globalità è oggetto della preghiera instancabile di Paolo in questa lettera, dove appare sia come avverbio (cf. 5 ,23) che come aggettivo (cf. 3 , 13). Nella forma aggettivata è presente anche in Fil 2,15 e 3,6. Sembra pertanto un termine riservato alla chie­ sa macedone. In realtà, si tratta di una nota di tipo escatologico, che deve cioè qualificare il vero credente dinanzi a Dio, al momento della parusia. Infatti, la connotazione escatologica è presente in tutti i contesti dei brani citati , a parte Fil 3,6 dove Paolo si vanta di essere stato sempre irreprensibile, anche quando, fe­ dele all'ideale giudaico di camminare nelle vie del Signore, cercava di perseguire «la giustizia che deriva dall'osservanza della legge» . Nel nostro testo, al v. 1 2 conclusivo, Paolo ricorderà: «Vi abbiamo esortato a comportarvi in maniera de­ gna del Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria» . In 1Ts 3,13 pregherà Dio Padre e il Signore Gesù perché possano rendere i cuori dei suoi fedeli «irre­ prensibili nella santità . al momento della venuta del Signore nostro Gesù». Pari­ menti, in l Ts 5,23 : «Tutto ciò che è vostro . . . si conservi irreprensibile per la ve­ nuta del Signore nostro Gesù Cristo». In Fil 2,14ss nella parenesi applicativa del­ le linee cristologiche dell'inno di 2,6-1 1 : «Fate tutto senza mormorazioni. . . per­ ché siate irreprensibili . . Allora, nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano» . Certo , l'essere «senza macchia» (che prima , quando cioè era nel giudaismo, costituiva per Paolo merito di una conquista umana in forza del­ l'osservanza della legge), ora è diventato dono spirituale da richiedere con insi­ stenza. Il termine è rimasto quale invito perenne , rivolto «a coloro che hanno creduto», ad esser fedeli alla propria condizione escatologica.74 . .

.

vv. 1 1-12: «Sapete anche che, come fa un padre con i suoi figli, ciascuno di voi abbiamo esortato e incoraggiato e scongiurato , perché vi comportiate in maniera degna del Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria». La particella compa­ rativa enfatica kathaper, «come», apre una frase piuttosto tormentata dal punto di vista letterario. Manca un verbo finito che possa reggere i tre participi. Ciò la-

74 I tre termini ricorrono spesso nella

Prima Clementis.

Commento

134

scerebbe intendere èhe ci troviamo dinanzi ad un anacoluto paolino ' cosa non certo insolita. A causa della lunghezza della frase , Paolo avrebbe dimenticato di scrivere il verbo in questione. Ma potrebbe anche ipotizzarsi la dipendenza dal lontano eghenethemen (v. 10) . In tal caso , la traduzione a partire dal v. 10 sareb­ be: «Voi ci siete testimoni . . . come ci siamo comportati tra voi. . . esortando cia­ scuno di voi , come ben sapete , come fa un padre con i suoi figli , incoraggia ndovi e scongiurandovi. >> . A nostro avviso , si tratterebbe di una forzatura del testo, senza dire della gratuita eliminazione della particella «Come» che pure era pre­ sente nel v. 10. È più semplice, come propende Rigaux, ammettere l'anacoluto e intendere i participi come espressioni di modi di essere del verbo finito omes­ so. 75 Inoltre , il complemento diretto «ciascuno singolarmente» è posto all'inizio della frase. Appare indubbia la volontà di Paolo sia di mettere in risalto la cen­ tralità del suo insegnamento , sia di presentare quest'ultimo come un parlare di­ retto alla singola persona, al suo particolare bisogno di salvezza, al suo insosti­ tuibile cammino di ricerca della verità. La densità contenutistica dei tre principi è introdotta dalla suggestiva imma­ gine del padre che viene a collocarsi sulla medesima linea semantica di quella della madre-nutrice del v. 7. Come nel caso della madre , non è tanto il padre ge­ nitore che qui si vuole evocare, quanto il padre educatore. Li si trattava di nutri­ re con amorevole cura, come solo una madre sa fare , adesso al padre è attribuito il compito di mettere in opera tutti quei mezzi che consentono all'educatore di completare adeguatamente la cura dei suoi discepoli. 76 Se ne sottolineano tre ed equivalgono a descrizione , certo non esaustiva ma molto significativa, del com­ pito apostolico: parakalountes, paramythoumenoi, martyromenoi, «esortando, incoraggiando e scongiurando». Il verbo parakaleo, stando all'etimo, ha il suo primo significato nel «chiama­ re accanto a sé», e quindi in una sorta d'invocazione quasi di preghiera dell'al­ tro. Solo successivamente si è aggiunto il senso di «esortare», ma senza perdere la ricchezza semantica di quel rapporto interpersonale . La frequenza nell' uso del verbo e la molteplicità delle sue applicazioni hanno determinato la sua stessa fluidità , oltre che nella LXX dove significa indifferentemente: «consolare, inco­ raggiare , domandare», anche nello stesso NT, dove passa da un significato ridut­ tivo : «chiamare, invitare, pregare», a quello più intenso di «esortare , consola­ re» . In Paolo - ma su ciò ci soffermeremo più ampiamente all'inizio del c. 4, ­ pur conservando episodicamente anche i significati di «incoraggiare, consolare, . .

75

RIGAUX, Saint Paul, in loco. Spesso Paolo chiama «figli» i cristiani da lui evangelizzati: 1Cor 4,14; 2Cor 6,13; Gal 4,19. Nel versetto 12 successivo , l'apostolo, dopo aver descritto la cura «paterna» profusa nei confronti dei suoi «figli», mediante l'uso di tre verbi, fa riferimento anche a Dio tou kalountos: «che (vi) chia­ ma». Così B P H D G K L. Ma S A hanno tou kalesantos: >), nella «pace» e nel­ la «gioia nello Spirito santo». In 1Cor 4,20 si dice che esso non consiste «nella parola degli uomini», ma «nella potenza di Dio». Nel nostro testo, «gloria» e «Regno» sono interscambiabili, come dimo­ stra l'espressione «nella tua gloria» di Mc 10,37, parallela a quella di Mt 20,21 : «nel tuo Regno». Co­ si in K.L. ScHMIDT, ((basileia», in GLNT I , 184-185. Ciò è possibil_e perché entrambi i termini sono in qualche modo attributi divini o, meglio, manifestazioni di Dio. E noto che doxa è traduzione della LXX di kabod, ((gloria di Dio», nel senso della sua stessa presenza rivelatrice nella creazione (cf. Sal 19,2), nella storia salvifica (cf. 96,3) e nel tempo (cf. Es 40,34-35) . Valorizzata da Paolo nella sua di­ mensione escatologica, la ((gloria» è diventata la qualità divina comunicata ai credenti in Cristo. Co­ si, G. KITIEL, ((doxa», in GLNT II, 1348-1358. Quando si parla di «Regno» a Qumran, si tratta sem­ pre del ((Regno di Dio» (1QSb 4,25-26; 10M 6,6; 12,7-8; 14,16; 1QH 10,8) o della regalità di David e degli antichi re (IQM 1 1 ,3) o anche di quella del popolo (lQSb 5,21 ; 10M 12,3-16). Mai il termine «re» o uno dei suoi derivati è applicato al sommo sacerdote o al principe della congregazione. Cosl, in J. CARMIGNAC-E. CoTHENET H LIGNEE, Les textes de Qumran, Paris 1963, Il, 38 nota 3 1 . 78

-

.

2, 13-16

137

spazio e il tempo della operatività divina o, se si preferisce, lo spazio-tempo del­ la chiesa, quel particolare «raduno in risposta alla chiamata» che costituisce la fonte principale alla quale attingere l'orientamento per un «Cammino degno sul­ la via del Signore». Ma tale convocazione non raggiunge il suo culmine nella fondazione della chiesa: ciò avverrà quando la chiesa diventerà «regno di Dio» . In Paolo , nota Trimaille, il regno di Dio non ha, come nei vangeli , una dimen­ sione presente molto accentuata . Esso si colloca al termine della crescita e del divenire storico della chiesa (cf. 1Cor 15 ,22ss. 50: il regno di Dio seguirà alla ri­ surrezione dei morti) . 79 In realtà, aggiunge opportunamente Rigaux, mentre nei sinottici il regno di Dio è la nuova economia salvifica annunziata e realizzata da Cristo Gesù, in Paolo è realtà esistente e trascendente da sempre, una funzione di Dio e un luogo dove Dio regna.80 Il Regno, per Paolo , non è mai «in mezzo a noi» . È sempre oltre il mondo , oltre il male e il peccato. Se già ora la nostra cit­ tadinanza è in cielo , noi entreremo nel Regno solo mediante una trasformazione (cf. 1Cor 15 ,5a) . La vicinanza tra «Regno» e «gloria» era a questo punto inevita­ bile. Infatti, la gloria, essendo un attributo divino, non è una realtà diversa dal Regno : sarà la gloria del suo Regno, perché in esso sarà rivelata , in modo uni­ versale e definitivo, la presenza beatificante di Dio . Ai credenti non rimane che «vivere in maniera degna» di una simile chiamata che , incorporandoli in Cristo, li rende partecipi della vita stessa di Dio . Non possiamo chiudere l'analisi esegetica del presente brano senza sottoli­ neare l'intensa comunione di vita tra apostolo e comunità che in esso traspare. La scelta espressa da Paolo nel v. 8: «Accettavamo volentieri di condividere con voi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, tanto ci eravate cari», sembra trovare qui un'inconfondibile convalida nella concreta attuazione del suo attuale rapporto con la sua amata comunità. Ne danno ampia testimonianza, oltre alle espressioni e alle immagini di affettuosità usate , lo stesso dato lettera­ rio del continuo specchiarsi dei pronomi personali «noi-voi» (vv . 1 .2.6.7.8.9. 10.12), e soprattutto la forte presenza del «VOi» (14 volte in 12 ver­ setti di cui 8 nei vv. 9-12) introdotto da una serie di preposizioni, tutte indicative dell'atteggiamento appunto di offerta: «tra voi» (vv. 1 .2.9) , «in mezzo a voi» (v. 7) , «per voi» (v. 9) . Come a suo tempo accennato , con la sezione 2, 1-12 si chiude il primo stico di un ampio parallelismo che conferisce unità strutturale ai cc. 1-3, la prima parte di 1Ts. Il secondo stico, infatti , prenderà subito avvio in 2,13-16 e si completerà in 2, 17-3,13. Suoi pilastri portanti sono : il tema del ringraziamento che apre (l ,2-3) e chiude (3,9-13) l'insieme unitario, e quello della testimonianza con­ giunta dell'apostolo e della sua comunità (nel momento della prima venutà di Paolo a Tessalonica: 2, 1-12, e nel tempo della sua sofferta lontananza: 2,17-3 ,8) . Il primo tema sorregge e alimenta il secondo che, a sua volta, esplicita e motiva l'insistenza sul primo , trasformandolo in linfa vitale per la crescita continua del79 80

TRIMAILLE, «La première lettre�, in loco. RIGAUX, Saint Pau/, in loco.

138

Commento

l'apostolo e della comunità verso il momento della venuta del Signore Gesù con tutti i suoi santi. 4.

CoNFERMA

DEI

MOTIVI

DI RINGRAZIAMENTO (2,13-16)

Sul ruolo strutturale del presente brano , quale chiusura della cornice che in­ quadra il racconto evocativo della prima venuta di Paolo a Tessalonica (2,1-12) , abbiamo trattato sia in sede di analisi della struttura di lTs, sia nel contesto del­ l'esame delle posizioni di R. Pesch . Il parallelismo esistente tra l'azione di grazie della lettera in 1 ,2-3 , ampliata in 1 ,4-10, e la ripresa del tema ringraziamento , appunto in 2 , 1 3-16, ne è indizio certo. Entrambi i testi sono infatti aperti dalla nota formula «rendiamo grazie a Dio incessantemente» (2 ,13/1 ,2) . Insistono poi sull'accoglienza ed efficacità della parola di Dio (2 ,13: «l'avete accolto non quale parola di uomini ma . . . quale parola di Dio che opera in voi» ; cf. 1 ,5 : «il vangelo non si è presentato a voi soltanto con la parola ma anche con potenza . . . »). Fanno ugualmente riferimento al tema dell'imitazione (2 , 14: , ai vv . 15-16, equivalente a «i giu­ dei» ritenuti responsabili di gravissime colpe e, per tale motivo, destinatari del­ l'ira divina. Con ciò , si ritrovano le linee di forza che avevano guidato il movi­ mento dell' «azione di grazie», e del suo «ampliamento» , e che ora sorreggono il nostro brano: la chiesa di Tessalonica è nata dalla proclamazione della parola di Dio (1 ,5-6 e 2,13) ; a imitazione del Signore , degli apostoli , delle altre chiese (1 ,6-7 e 2,14) ; la comunità nascente cammina speditamente verso la salvezza, mentre i giudei persecutori vanno incontro alla collera di Dio (1 ,8-10 e 2, 15-16) . 2,13 Per tale motivo, noi non cessiamo di rendere grazie a Dio perché, avendo ri­ cevuto da noi la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto ascoltare , l'avete ac­ colta non quale parola di uomini , m a , com'è realmente, quale paro1a di Dio che opera in voi che credete. 14 Infatti voi , fratelli , siete diventati imitatori delle chiese di Dio che sono nella Giudea, in Cristo Gesù, poiché avete sofferto, da parte dei vostri compatrio­ ti, le stesse persecuzioni loro inflitte dai giudei. 15 Questi hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, e ora hanno perseguitato an­ che noi ; non piacciono a Dio e sono invisi a tutti gli uomini ; 16 a noi impediscono di predicare ai pagani perché siano salvati, riempiendo co­ si, sempre più, la misura dei loro peccati. Ma l'ira è già giunta su di loro in vi­ sta della fine.

Nell'analisi esegetica, cercheremo di far notare gli elementi di convergenza tra il nostro brano e l'azione di grazie ampliata di 1 ,2- 10 di fronte alla quale è specularmente collocato, unitamente a quelli di maggiore originalità e anche di esplicita antiteticità. v.

13: Ripresa della formula di ringraziamento e motivazione.

v. 13a: «Per tale motivo , noi non cessiamo di render grazie a Dio». La descri­ zione della presenza di Paolo a Tessalonica si era completata con il ricordo del­ l'esortazione rivolta ai fedeli , a coronamento dell'annunzio evangelico, a com­ portarsi «in maniera degna del Dio che . . . chiama al suo regno e alla sua gloria» (2 , 12) . Ma già all'inizio della trattazione, nell'azione di grazie di 1 ,2-3 , l'aposto­ lo aveva detto di esser continuamente memore nella sua preghiera di tale degno comportamento , sinteticamente espresso nella concreta attuazione della triade fede-amore-speranza, e successivamente precisato nell'esplicitazione della tria-

140

Commento

de dei soggetti dell'evento salvifico: la Parola che agisce «con· potenza»; l'apo­ stolo che si rende testimone con il suo comportamento «retto, giusto e irrepren­ sibile»; i credenti che , accogliendo la Parola, diventano «modello a tutti». Per­ tanto, l'espressione subordinata e consecutiva «per tale motivo» non può che collegarsi con tutto lo sviluppo evocativo di l ,2-12. D'altronde , la formula che segue: «non cessiamo di render grazie a Dio», riproponendo alla lettera quella di l ,2, non lascia alcun dubbio in tal senso. L'autore si vuole deliberatamente collegare a quanto ha costituito motivo dettagliato del suo rendimento di grazie. I due «e» - il primo di raccordo con ciò che precede, il secondo rafforzativo di «noi» - traducono anch'essi quasi plasticamente la volontà di richiamare e ripe­ tere quanto già espresso. v. 13b: «Perché, avendo ricevuto la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto ascoltare, l'avete accolta non quale parola di uomini, ma, com'è realmente, quale parola di Dio che opera in voi che credete». La congiunzione «perché» introduce la motivazione del ringraziamento e regge i due verbi che seguono: il participio paralabontes, «avendo ricevuto», e l'aoristo edexasthe, «avete accolto» , entram­ bi riferiti a parola. I due verbi sono quasi sinonimi, tuttavia sembrano comporta­ re una diversa sfumatura di significato proprio a causa della diversa formulazio­ ne della parola cui si collegano: «ricevo» si collega alla «parola dell'ascolto», mentre «accolgo» si collega direttamente alla «parola di Dio» . Con tutta eviden­ za, si vuole attribuire a quest'ultimo una notazione di maggiore intensità in rap­ porto all'azione espressa dal primo. Mentre il secondo identifica l'«accoglienza» quale atteggiamento di «ascolto» , pur con tutta la disponibilità richiesta dall'a­ scolto di una Parola che, trasmessa dagli apostoli, rimane sempre parola «di Dio», il primo la identifica quale atteggiamento di «accettazione» della specifica operatività della medesima Parola. L'espressione logos akoes par'hemon tou Theou è talmente sintetica che ap­ pare quasi incomprensibile, oltre che letterariamente intraducibile: «la parola dell'ascolto da parte nostra di Dio». In realtà, Paolo , con un procedimento che gli è abbastanza familiare, unifica due espressioni : parola dell'ascolto (tramite nostro) e parola di Dio. A koe assume qui , anche in base al contesto, significato attivo, indica cioè l'attività connessa all'atteggiamento di «ascolto». Paolo fareb­ be eco alla forma hiphil del verbo ebraico shamah col significato di «far ascoltare qualcosa a qualcuno» . E ciò , ispirandosi alla traduzione greca di Is 53 , 1 : «Signo­ re , chi avrebbe creduto al nostro "ascolto"?», cioè «alla nostra "predicazione"» . Questo testo è citato in Rm 10, 16-17, per trame la conclusione : «La fede dipen­ de dunque dall"'ascolto" (predicazione) e l'"ascolto" (predicazione) a sua volta si attua per la parola di Cristo». A tal proposito, ci pare opportuno rilevare co­ me il noto asserto teologico fides ex auditu sia frequentemente equivocato nel suo vero significato. La fede non nasce da «Ciò che è dato da ascoltare» , lascian­ do intendere che l'iniziativa sia di colui che si deciderebbe ad ascoltare. L'inizia­ tiva promana dal lato esattamente opposto, cioè da quella stessa potenza della Parola che viene annunziata da colui che promulga il messaggio. In merito alla

2,13

141

nostra espressione è dunque legittimo tradurre: «la Parola che noi vi abbiamo fatto ascoltare». 82 Questa Parola fatta ascoltare da uomini è , al tempo stesso, «parola di Dio». Questo è il vero centro di interesse di Paolo che, subito dopo , tornerà ad insiste­ re : «l'avete accolta non quale parola di uomini ma, com'è realmente, quale pa­ rola di Dio». Ma il vangelo può esser considerato parola di Dio solo quando se ne osservano i risultati , totalmente sproporzionati in rapporto alle risonanze del parlare soltanto umano. E il risultato sconvolgente è tutto lì: la fede dei tessalo­ nicesi , non solo iniziale , ma perseverante nella speranza e operosa nella carità. Torniamo così alla narrazione iniziale (cf. 1 ,5ss) dell'irruzione della Parola a Tessalonica, descritta da Paolo in termini di «evento (il verbo ghinomai)» del vangelo «Con potenza, con Spirito santo e con perfetto compimento». L'inciso «come è realmente» sottolinea l'identità propria di una Parola che, per sua stessa natura, è parola divina, e pertanto diametralmente opposta alla parola umana. Nelle lettere successive, l'apostolo avrà modo di tornare sull'ar­ gomento per precisare che, in ultima analisi , è la stessa potenza di Dio operante nella risurrezione di Gesù Cristo da morte , che adesso continua ad agire nel cuo­ re degli uomini al momento dell'annunzio evangelico per chiamarli alla fede . E, viceversa, quando l'uomo risponde al messaggio con atteggiamento di accoglien­ za, la sua risposta non è data all'apostolo, ma direttamente a Dio (dechomai, sia in 1 ,6 che in 2,13 ha come termine la parola di Dio) . L'espressione «che opera in voi che credete» del v. 13b conclude proprio perché rende manifesto il pensiero soggiacente alla sintetica densità delle prece­ denti formulazioni. Il pronome relativo in funzione di soggetto comincia col ri­ chiamare la centralità tematica della Parola. Il verbo «agire , operare» appartie­ ne al linguaggio paolino (18 volte su 21 ricorrenze) , e indica sempre una forza di­ vina, soprannaturale. Riteniamo sia da interpretarsi come medio , e quindi con senso attivo piuttosto che passivo (come invece vorrebbe Rigaux), in armonia con il contesto immediato e con tutta la tradizione biblica. Quest'ultima, com'è noto, insiste molto sull'operatività endogena della Parola che , uscita da Dio, non ritorna a lui senza aver compiuto la sua opera , poiché ha in sé la capacità di rinnovare tutto e di trasformare radicalmente colui che l'accoglie (cf. Ger 23 ,29 ;

82 Tendenzialmente sulla stessa linea interpretativa si colloca ScHLIER, L'apostolo , 46. Comin­ cia col constatare che akoe traduce nella LXX shemaa· nel significato di «cosa sentita, informazione, notizia», e ne deduce che il logos akoes è una parola che è stata udita e viene fatta udire. Contenuti­ sticamente, si riferisce a ciò che fin qui è stato detto ho logos oppure to euanghelion. Quanto alla provenienza, appare duplice: il genitivo «di Dio» dice che essa proviene da Dio, il par'hemon dice che essa viene ai tessalonicesi da parte dell'apostolo, che a sua volta l'ha udita da Dio. Quindi prose­ gue: «Viene a loro dalla sua bocca , nella sua lingua, come se fosse suo pensiero. Essi ricevono dun­ que la parola di Dio nella parola dell'uomo e cioè in una parola storica. E quindi , in secondo luogo, all'accettazione del vangelo da parte dei tessalonicesi . . . avvenne anche che essi questa parola d'uo­ mo l'hanno accolta in qualità di parola di Dio. Essi l'hanno "presa in consegna". L'apostolo come ta­ le gliel'ha "consegnata". Sia paralambanein che paradidonai sono termini che tanto nel mondo giu­ daico che in quello ellenistico definiscono fra l'altro la consegna e la presa in consegna della tradizio­ ne sacra, cf. per esempio Gal 1 , 12; l Cor 1 1 ,23; 15,1-3».

142

Commento

ls 49,2; Ef 6,17; Eb 4,12). Tuttavia, il senso del verbo va oltre: non si limita ad indicare l'intima efficacia della Parola accolta , ma anche la sua stessa iniziativa promotrice di doni e di forze capaci di improntare la vita del credente e di custo­ dirla. Proprio il suo essere e rimanere sempre parola di Dio , ne costituisce l'«e­ nergia» vitale che opera soprannaturalmente in quanti l'accolgono dalla bocca dell'uomo. 83 Luogo privilegiato di tale operatività sono appunto i credenti, ter­ mine sinonimo di «cristiani», non in quanto preesistenti all'intervento della Pa­ rola, ma in quanto a loro modo «attanti» della sua stessa operatività. La Parola infatti è messa in opera grazie alla loro fede . v. 14: Dimostrazione. «Infatti voi, fratelli, siete diventati imitatori delle chiese di

Dio che sono nella Giudea , in Cristo Gesù, poiché avete sofferto, da parte dei vo­ stri compatrioti, le stesse persecuzioni loro inflitte dai giudei». Le due riflessioni teologiche sull'efficacia della parola di Dio che abbiamo finito di esaminare ( 1 ,5 e 2,13), proseguono con un nuovo sviluppo introdotto , in entrambi i casi , da: «siete diventati imitatori». Sulla rilevanza teologico-parenetica del termine «imi­ tazione» e sul suo rapporto con il tema della sofferenza, ci siamo espressi nell'a­ nalisi di 1 ,5-6. Ma lì si trattava dell'imitazione «del Signore» e dello stesso Pao­ lo , audacemente accostati per la comune fedeltà alla parola di Dio, al disegno del Padre, e per la comune accettazione della sofferenza quale connaturale ri­ svolto di quella fedeltà. Nel nostro testo si tratta invece dell'imitazione delle chiese della Giudea. Con ciò , Paolo colloca i tessalonicesi nella linea di un pro­ cesso storico unitario e completo. Essi non sono i primi : prima di loro , ci furono il Signore , Paolo e gli altri apostoli e le chiese della Giudea.84 La loro esperienza La puntualizzazione è di ScHLIER, L'apostolo, 47. 84 È merito di CERFAUX, La teologia della chiesa, 84-85, aver segnalato che «chiese di Dio» è un titolo onorifico delle chiese palestinesi (en tej ioudaiai) . La Giudea designa, presso tutti gli autori contemporanei, tutto il territorio palestinese) . E un dato di fatto che Paolo non usi questa espressio­ ne per indicare la chiesa di Tessalonica, ma faccia ricorso alla parafrasi: «chiesa in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo». Non è nemmeno identificabile con l'altra usata, per esempio in 1Cor 1 ,2: «la chiesa di Dio che è in Corinto», per la sua netta valenza universalistica e per la sottolineatura dell'u­ nicità della chiesa. L'uso del plurale conferisce invece alla nostra formula il senso concreto di chiese locali. Detto plurale compare solo qui e in Gal l ,22: nella Macedonia e nell'Acaia. Paolo l'ha già ricordato nel brano parallelo dell'azione di grazie (cf. 1 ,7-8) e tornerà a ricordarlo in 2Cor 8 , 1 : «Vogliamo farvi nota , fra­ telli , la grazia concessa alla chiese della Macedonia: nonostante la lunga prova della tribolazione, la loro grande gioia e la loro estrema povertà si sono tramuta­ te nella ricchezza della loro generosità». Riteniamo di grande interesse il confronto fatto, a questo punto , da alcuni autori tra Paolo e la tradizione evangelica. È molto probabile , nota Trimaille,88 che il modo di esprimersi di Paolo in l Ts sull'accoglienza della Parola nella tri­ bolazione e la persecuzione denoti la sua conoscenza della parabola del semina­ tore (Mc 4,1-34 e par . ) . A proposito di quelli che «ricevono il seme sulle pietre», si dice che «Sono coloro che , quando ascoltano la parola, subito l'accolgono con gioia , ma non hanno radice in se stessi, sono incostanti e quindi, al sopraggiun­ gere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della Parola, subito si abbat­ tono» (Mc 4, 16-17) . Mentre «quelli che ricevono il seme sul terreno buono , sono coloro che ascoltano la Parola, l'accolgono e portano frutto» (v. 20) . Nei due te­ sti di 1Ts: 1 ,6 e 2, 13-14 si trova la medesima sfumatura di significato tra «ascolta­ re , ricevere, accogliere»; la stessa ricorrenza di termini chiave : «gioia», «tribola­ zione» , «persecuzione» . Sulla base di tale suggestivo accostamento Paolo avreb­ be fatto dei tessalonicesi, ancora una volta , il segno del «terreno buono» o, usando il suo linguaggio , del «perfetto compimento» dell'opera di Dio. Infatti , pur avendo accolto la Parola con gioia, come quegli uomini paragonati al terre­ no pietroso, la gioia dei tessalonicesi, contrariamente alla loro , recava l'impron­ ta dell'assoluta stabilità in quanto «gioia dello Spirito santo» (lTs 1 ,6) . Niente a che vedere dunque con la gioia effimera e incostante di chi si abbatte al soprag­ giungere della persecuzione. La tribolazione e la gioia nello Spirito diventano pertanto i contrassegni determinanti la fecondità del terreno, come d'altronde lo furono morte e risurrezione nell'evento salvifico di Cristo Gesù. I tessalonicesi, come quelli paragonati al terreno buono, hanno saputo ascoltare e accogliere la Parola malgrado la tribolazione e, così facendo, le hanno consentito di portare frutto: essa infatti «opera in voi che credete» (2, 13) . vv. 15-16: Ampliamento del tema «persecuzione dei giudei» . I vv. 15-16 costitui­ scono come un inciso sul ruolo dei giudei nell' ambito della storia della salvezza, sia nella fase passata che in quella attualmente presente che vede personalmente impegnato lo stesso apostolo Paolo. Altrove, egli farà grandi elogi dei suoi con­ nazionali , riconoscendo che sono mossi da zelo per il Signore e che godono di privilegi eccezionali (cf. Rm 9-1 1). Quanto poi fosse intimamente legato al suo mondo , ce lo dice egli stesso con accenti di grande rilevanza: «Vorrei essere io

88

TRIMAILLE, 4> ventura.

Devono temere il giudizio di Dio perché segnerà l'avvento della sua «ira» .

La puntualizzazione letteraria trova il suo corrispettivo nella valenza del da­ to storico. A unanime riconoscimento degli studiosi , quando Paolo scrive lTs, era ampiamente diffusa l'idea della prossimità della parusia, anche se intesa, co­ me avremo modo di osservare in seguito, alla luce dell'annunzio profetico e tra­ smessa con le medesime categorie di linguaggio. È dunque in quest'ottica del­ l'imminenza del giudizio connesso all'evento parusiaco, che Paolo inserisce , nei nostri versetti, la sua personale valutazione del popolo d'Israele che , nel suo in­ sieme, ha rifiutato il vangelo . Ogni giudeo, e anche Paolo prima della sua con­ versione , era convinto che il popolo di Dio, in forza dei suoi privilegi, non pote­ va essere esposto agli strali dell'«ira di Dio» . I nemici di Dio non potevano esse­ re che «gli altri». Ma, afferrato da Dio sulla via di Damasco, Paolo ha compreso che la comunione con Dio , portatrice di salvezza, passava ormai attraverso il rapporto vitale con Cristo. Dio salva per Cristo: soltanto coloro che credono in

146

Commento

lui sono la vera elezione di Dio e ad essi è destinata la gloria del Regno. Quanti invece rifiutano di credere in Gesù Signore diventano nemici di Dio e quindi og­ getto della sua «ira». Ma se, come rilevato sopra, la parusia di Gesù giudice su­ premo è imminente, allora la situazione di Israele incredulo è senza speranza: i giudei sono già sottoposti al giudizio dell'«ira» , perché la sentenza di condanna, sarebbe meglio dire di autocondanna, è già insita nel loro mancato rapporto con Cristo. Le considerazioni fin qui fatte , ci consentono di conciliare lTs con Rm, cioè i toni violenti e apodittici usati da Paolo contro i giudei nel nostro testo e quelli sereni e aperti alla speranza di Rm 9-1 1 : «Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio (di coloro che provengono alla fede dal paga nesimo) ; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» ( 1 1 ,28) . E poco prima: «l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato» ( 11 ,25) . La diversità di posizione espressa nei due testi può essere moti­ vata, più che da una gratuita valutazione di non autenticità di lTs 2, 13-16,89 da un'evoluzione del pensiero paolino in merito , verificatasi negli anni 51-57. Tale evoluzione può non essere stata determinata da un cambiamento di Israele nel suo insieme , perché i giudei hanno continuato a ostacolare il cammino del van­ gelo, né dal diverso tenore dei sentimenti di Paolo verso i suoi fratelli di razza, perché ha continuato ad amarli con sofferenza. Alla luce di quanto detto sopra, il cambiamento è stato motivato, molto probabilmente, dalla più intensa com­ prensione della storia della salvezza, ora attentamente esaminata nella sua com­ ponente universalistica, ma anche del valore del tempo , ora adeguatamente ap­ prezzato nel suo cammino storico, quale dilatazione dell'opera di Dio e proposta insistente e amorevole rivolta a ogni uomo perché, valorizzando il suo personale kairos, possa consentire a Dio di realizzare il suo piano . Un'ultima osservazione riteniamo rilevante ai fini dell'ermeneutica dei no­ stri vv. 15-16. Come si è potuto constatare, il brano in esame dev'essere letto al­ la luce di tutta la riflessione paolina sull'argomento e, oseremmo aggiungere , di tutto il NT. Sarebbe pertanto errata una lettura che considerasse il popolo di Israele globalmente colpevole e , peggio ancora, volesse trarne indicazioni prati­ che per giustificare oggi, per esempio , un atteggiamento antisemita totalmente contrastante con il vangelo e con il piano di Dio. È vero che numerosi testi paolini condannano l'incredulità dei giudei. In lCor Paolo distingue tra «coloro che si perdono» perché ritengono follia il lin­ guaggio del Messia crocifisso e coloro che stanno per essere salvati , cioè noi (cf. 89 Tra coloro che negano l'autenticità paolina del brano sono da annoverare K.G. EcKART («Der zweite echte Brief des Apostles Paulus an die Thessalonicher», in ZThK 58(1961 ), 30-44), B . A . PEARSON («l Thessalonians 2,13-16: A Deutero-Pauline Interpolation», in HThR 64(1971), 7994) , D. ScHMIDT («l Thess. 2: 13-16: Linguistic Evidence for an Interpolation», in JBL 102(1983), 269-279) . Sul rapporto di Paolo col giudaismo si vedano gli studi di K.P. DoNFRIED («Paul and Ju­ daism. l Thessalonians 2: 13-16 as a Text Case», in lnterpretation 38(1984), 242-253) e di R. PENNA, «Evoluzione dell'atteggiamento di Paolo verso gli Ebrei», in Lateranum 52(1986), 1-37).

2,15-16

147

1 , 18) ; e poco più avanti , torna a contrapporre quelli per i quali la croce è scanda­ lo (i giudei) e quelli che la ritengono follia (i pagani) da coloro che sono chiamati (1 ,23-24) . In 2Cor 3, nella riflessione sulle due alleanze, e in Gal e Rm, nella trattazione della problematica sulla giustificazione per mezzo della fede, egli condanna decisamente le posizioni giudaiche . Ma si trattava appunto di proble­ matiche ben delimitate , anche se fondamentali perché attinenti il passaggio dal­ l'antica visione soteriologica alla nuova. Quando , invece , in Rm 9- 1 1 , ripren­ dendo gli interrogativi rimasti sospesi di 3 , 1-4, l'apostolo affronterà il problema angosciante dell'atteggiamento globalmente negativo dei giudei di fronte al van­ gelo, egli darà vita ad una vera e propria focalizzazione dottrinale di tale proble­ ma, pervenendo ad una presentazione unitaria e completa . Secondo Rm 9-1 1 , la non accoglienza del vangelo nel mondo giudaico assume connotati inaspettata­ mente positivi . lnnanzitutto, c'è la realtà significativa di un Resto di Israele com­ posto da quei giudei che , essendo diventati cristiani , hanno consentito la conti­ nuità tra Israele e la chiesa . Ma soprattutto: «a causa della loro caduta la salvez­ za è giunta ai pagani» (Rrrì 1 1 ,1 1 ) . Così , Paolo, nella fase di maturità della sua riflessione, non più condizionato dal problema dell'imminenza cronologica della parusia, è portato a guardare molto lontano e vede ormai nell'incredulità dei suoi fratelli di razza una condizione provvisoria, ma necessaria, della missione presso i non giudei. Il ragionamento è simile a quello sviluppato nel c. 5 della medesima lettera ai Romani sulla disobbedienza di Adamo : essa non può essere valutata solo negativamente , visto che ha consentito l'accesso alla sovrabbon­ danza della grazia in Cristo Gesù . Lo stesso Gesù, stando alla tradizione evange­ lica , aveva formulato , al riguardo , una riflessione simile , quando aveva interpre­ tato l'esperienza di rifiuto opposto al suo annunzio, alla luce della missione pro­ ·fetica di Isaia, inviato per «l'indurimento del cuore» dei giudei : dunque , anch'e­ gli era stato indotto ad inserire tale rifiuto n eli'ottica del piano divino di salvezza universale. Riprendiamo, ora, l'esame delle accuse di Paolo. · «Hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti» . 90 L'uccisione di Cristo è la. prima, fondamentale colpa. L'ordine dei termini non è casuale : si mette in primo piano il titolo glorioso di Signore per far risaltare meglio la grave responsabilità dei giudei . Paolo si fa, in ciò , espressione di un dato proprio del linguaggio keryg­ matico e apologetico della chiesa primitiva: Pietro , nel suo primo discorso ke90 L'uccisione di Cristo accostata a quella dei profeti è un topos costante nella tradizione neo­ testamentaria. L'accusa, già formulata dallo stesso Gesù (cf. Mt 21 ,33-35; 23,29-31 . 34.37; Mc 12,5;

Le

13,34), è poi ripresa da Stefano (cf. At 7

,

52) e da Paolo (cf. Rm 11,3) .

Anche a Qumran era stata

mossa l'accusa ai padri di essere stati infedeli (cf. 1QS 1 ,21-26; lQH 4,30; CD 20-29). Il kai tous pro­ phetas («anche i profeti))), grammaticalmente collegato ad apokteinanton («hanno ucciso») tematica· mente potrebbe anche accordarsi a ekdiOxanton («hanno perseguitato») . Infatti, si parla della perse­ cuzione dei profeti in M t 5, 12, par. ; Le 11 ,49 e par. ; A t 7 ,52. Sulla significativa convergenza del no­ stro testo con Le 1 1 ,49, anche per via del comune richiamo escatologico , cf. !OVINO, Chiesa e Tribo­ lazione, 31-32.

148

Commento

rygmatico, aveva detto: «Sappia con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso>> (At 2,36) . L'acco­ stamento poi Gesù-profeti è ampiamente testimoniato da tutta la tradizione si­ nottica , ma, collocato nel presente contesto, finisce per assumere un preciso si­ gnificato teologico. Infatti, la ripresa della duplice accusa consente a Paolo di considerare il presente momento storico alla luce dell'esperienza del passato e di presentare, al tempo stesso , Cristo Gesù Signore come unico, vero centro di convergenza della storia salvifica di Dio . «E ora hanno perseguitato anche noi» .91 La seconda accusa, direttamente collegata alla prima con «e» , fa un tutt'uno con essa. È qui che il passato viene saldato con il presente. Elemento di sutura è proprio la contrapposizione al Maestro come ai suoi apostoli, quale costante ineliminabile dell'evento salvifico, ma anche contrassegno di autenticità del vero discepolo . Voluto, pertanto, l'au­ toinserimento di Paolo e con lui di tutta la comunità credente , nel solco fecondo del messianismo sofferente del Servo di JHWH , come altrettanto esplicitamente ribadita la collocazione dei suoi oppositori nell'unico, tenebroso ambito dei «ne­ mici di Dio». Ad esso appartengono tutti coloro che avendo rifiutato prima la voce dei profeti , hanno finito per rifiutare colui che era la parola stessa di Dio, e ora il vangelo di quanti oggi lo proclamano al mondo intero Cristo e Signore. «Non piacciono a Dio e sono invisi a tutti gli uomini». 92 Con la formula «pia­ cere a Dio» , a lui tanto familiare (cf. lTs 2,4; 4 , 1 ; Rm 8,8; 2 Cor 5,4) , Paolo esprime il senso vero del lavoro apostolico e lo scopo ultimo dell'impegno ope­ rativo di ogni uomo consapevole di avere in Dio la sua origine e il suo orienta­ mento. Con tanta maggiore forza emerge la negatività del «non piacere a Dio» che , unitamente all'essere «invisi a tutti gli uomini», esprime la terribile condan­ na di un atteggiamento peccaminoso che sembra riproporre lo sconvolgimento del peccato delle origini, quando i primi uomini hanno fatto l'amara esperienza della solitudine , nella rottura di quell'armonia con Dio, con il suo simile e con la realtà creata, che pure aveva contraddistinto la tappa del loro ingresso signoriale 91 Altri riscontri sulla continuità dell'odio dei giudei si trovano in: Mt 5,44; Le 21 , i 2; Gv 15 ,20; 16,1-3; Rm 12,14. C'è dunque una sorta di comunanza ininterrotta di sofferenza al cui centro è posto Gesù, e la cui espressione ultima è data dal «noi» ecclesiale. 92 L'espressione Theoi areskein, «piacere a Dio», è abbastanza usuale in Paolo (cf. l Ts 2,4; 4,1 ; Rm 8,8) . L'altra definizione: «avversi a tutti gli uomini» richiama la polemica antigiudaica di cui parla TACITO, Hist. V, 5: «Adversus omnes hostile odium)>. Osserva ScHLIER, L'apostolo, 49: «Natu­ ralmente i motivi per i quali i pagani e Paolo giudicano i giudei sono molto diversi. Per i pagani è scandalosa la loro adorazione di Dio, la loro legge e lo sono anche i loro privilegi e in genere la stra­ nezza della loro condotta di vita. Paolo invece ne condanna la disobbedienza al Dio della salvezza nel Messia crocifisso e la resistenza all'azione redentiice di Dio. Essi infatti - e questo dimostra ap­ punto che sono nemici degli uomini - pongono ostacoli alla salvezza escatologica dei pagani che l'a­ postolo persegue. Interferiscono volutamente nella divina economia della salvezza, che mira alla sal­ vezza del cosmo tramite il ketygma apostolico, cf. 1Cor 1 ,21. Vogliono impedire - ma certo non ne sono in grado - il giorno della salvezza che è giunto per erompere col vangelo, cf. 5,5; 2Cor 6,2; Rm 1 3 , 1 1 ; Fil 2,2».

2,15-16

149

nel mondo . Alcuni commentatori hanno voluto rifiutare l ' autenticità paolina di questo versetto 15c. A loro dire , si tratterebbe della ripresa di una calunnia ab­ bastanza diffusa nell ' opinione pubblica dell'impero romano. Lo stesso Tacito se ne fa portavoce quando riporta che «domina . . . nei confronti di tutto ciò che è giudeo , un'ostilità piena di odio». Come abbiamo precisato sopra , non ritenia­ mo che tale opinione sia accettabile. > . Conseguentemente , rigettare le prescrizioni date «nel Signore», continuan­ do a vivere nell'impudicizia, nelle sregolatezze matrimoniali, nell'adulterio, si­ gnifica non lasciarsi più permeare dall'influsso santificatore dello Spirito, preclu­ dendosi, così , l'accesso a quella santificazione che è la pienezza della vita trinita­ ria nella quale ogni singolo credente è stato posto dal beneplacito divino. . .

3.

RIGUARDO ALL'AMORE FRATERNO (4,9-12)

Il presente brano apre la serie di trattazioni specifiche su singoli argomenti in risposta alle necessità concrete della comunità di Tessalonica. Ne costituisce in­ dizio formale il particolare avvio, del nostro come dei successivi argomenti, con­ traddistinto dalla formula «riguardo a», immediatamente seguita dall'enuncia­ zione del tema, qui la philadelphìa, «amore fraterno» . Letterariamente la phila­ delphìa trova più intensa precisazione tematica mediante il verbo agapao, «amo», nell'ambito del medesimo v. 9, non a caso emergente in connessione con l'originalissima definizione dei credenti quali theodidaktoi, «istruiti da Dio». Per introdurre tale tema, Paolo fa ricorso alla figura retorica della «preterizione» consistente nel fingere di passare sotto silenzio una cosa (non avete bisogno che ve ne scriva) che in realtà si dice , così da dare a essa maggior rilievo. Il v. lO con­ ferma che i tessalonicesi vivono effettivamente nell'amore fraterno che ha moti­ vato l'azione di grazie di 1Ts (1 ,3) e la gioia dell'apostolo (3 ,6-9). La vera pare­ nesi sull'argomento si sviluppa a partire dal v. lOb fino al v. 12. Compaiono qui i verbi tipici della parenesi: parakalein, «esortare»; peris­ seuein , «progredire>> ; peripatein , «comportarsi» . L'espressione del v . lOb «vi esortiamo a progredire sempre più» sembra svolgere un ruolo di cerniera: esorta al progresso nella philadelphìa precedentemente affermata e, al tempo stesso, ne introduce il particolare ambito contenutistico, direttamente formulato nel

·

154 RIGAUX, Saint Paul,

in loco.

204

Commento

successivo v. 1 1 . Detto ambito è triplicemente articolato, grazie alla triplice scansione del kai («e») : «farsi un punto di onore di vivere nella pace», «attende­ re alle proprie attività» , «lavorare con le proprie mani». Nessun dubbio dunque sul rapporto unitario tra il v. 11 e il v. lOb. La proposizione finale del v. 12, an­ ch'essa dipendente dal verbo parakaloumen , «Vi esortiamo» , del v. lOb , ripropo­ ne a mo' di conclusione sia il più intenso verbo parenetico peripateo, «cammino, mi comporto» , che il chreian echete, «avete bisogno» ; iniziale . Quest'ultimo ele­ mento di inclusione è ulteriore riprova dell'unità di tutto il brano. Dal punto di vista contenutistico, il v. 12 insiste sull'amore come «degno cammino» all'ester­ no e come autonomia all'interno della comunità, per non «essere di peso a nes­ suno». In breve: - il v. 9a introduce il brano formalmente e contenutisticamente sul tema del­ l'amore fraterno; - i vv. 9b-10a confermano l'agire nell'amore fraterno dei tessalonicesi; - i vv. lOb- 1 1 focalizzano l'ambito della parenesi sull'amore fraterno e richiamano l'insegnamento già dato; - il v. 12 conclude , riformulando la parenesi in termini di «Comportamento» degno all'esterno e autonqmo all'interno. 4 ,9 Riguardo all'amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi ,

infatti , avete imparato da Dio ad amarvi reciprocamente ,

10 e cosi vi comportate verso tutti i fratelli dell'intera Macedonia. Vi esortiamo,

fratelli, a progredire sempre più: 11 a farvi un punto d'onore di vivere nella pace,

ad attendere alle vostre attività, a lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo già prescritto, 12 affinché vi comportiate dignitosamente di fronte a quelli di fuori e non abbia­ te bisogno di nessuno. v. 9a: «Riguardo all'amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva» Il ter­ .

mine philadelphìa che apre questa nuova esortazione dell'apostolo , ha caratteri­ stiche proprie che , a nostro avviso meritano un'attenta analisi. È scarsamente rappresentato nel NT (5 volte , di cui 2 in Paolo , l in Eb, l in lPt, l in 2Pt) , come il sostantivo philadelphòs, «amico fraterno» (hapax nel NT: lPt 3 ,8) . Oltre al nostro testo , ritorna in Paolo solo in Rm 12,10: «amatevi gli uni gli altri con amore fraterno (tei philadelphìai eis allelous)». Il contesto e alcune formulazioni lo rendono molto vicino al nostro. Si tratta dell'esortazione a vivere all'interno della comunità con impegno concreto e fattivo ispirato da sentimenti di umiltà e amore : «Non siate pigri . . . Siate solleciti per le necessità dei fratelli , premurosi nell'ospitalità . . . Non rendete a nessuno male per male . Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. . . Vivete in pace con tutti» (12, 1 1 . 13. 17. 18) . In merito al tema dell'amore, come nel nostro testo , vi si ritrova l'accostamento agape-philadelphìa: «La carità (agape) non abbia finzioni . . . amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno (tei philadelphiai eis allelous philostorgoi) . In un contesto simile di esortazione all'operatività dell'amore, si colloca il te­ sto di Eb 13,1-4: «Perseverate nell'amore fraterno. Non dimenticate l'ospitali-

4,9a

205

tà . . . Ricordatevi dei carcerati. . . Il matrimonio sia rispettato da tutti e il talamo sia senza macchia . I fornicatori e gli adulteri saranno giudicati da Dio». Ritro­ viamo anche in questo nuovo testo quella particolare vicinanza con il nostro già rilevata prima. Addirittura, vi sono presenti anche gli elementi parenetici fonda­ mentali della precedente sezione: morale matrimoniale , impudicizia, richiamo del giudizio divino di condanna . Ma forse , il testo che più illumina il rapporto philadelphìa-agape è proprio quello di 2Pt l , 7. Dal v. 5 al v. 7 si presenta come una catena di atteggiamenti che devono contraddistinguere la risposta del credente al dono della partecipa­ zione alla vita divina. Ultimo anello di detta catena e suo stesso coronamento è appunto la diade philadelphìa-agape: «Per questo mettete ogni impegno per ag­ giungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l'amo­ re fraterno (ten philadelphìan), all'amore fraterno la carità (en de tei phila­ delphìai ten agapen )». Ci pare di poter fare le seguenti riflessioni sulle convergenti ricorrenze neo­ testamentarie del termine philadelphìa. Intanto , appartiene al linguaggio pare­ netico intracomunitario, pur aprendosi ai riflessi esterni della vita della comuni­ tà. Parallelamente , pur indicando il sentimento profondo di affetto che lega per­ sone accomunate da vincoli di fratellanza, tende a sottolineare l'estrinsecazione operativa di tale sentimento. Infine, collocandosi nell'ottica più completa dell'a­ gape, quest'ultima si configura come sua origine e scopo , nonché come suo vero spazio operativo. In realtà, già nel greco classico philadelphìa indicava l'amore fraterno in sen­ so reale, il rapporto cioè tra fratelli. 155 Nel mondo cristiano divenne subito espressione del rapporto tra fratelli nella comune fede in Cristo. Non si tratta dunque né del generico amore per gli uomini, riconducibile al concetto di filan­ tropia, ma nemmeno di quello specifico di agape. Quest'ultimo qualifica infatti 155 È nota l'opera di PLUTARCO, Peri philadelphìas. Cf. anche Luciano e Filone. GIUSEPPE FLA­ VIO, Bellum Il, 122 attesta che gli esseni si chiamavano «fratelli»; l'uso era comune anche al di fuori del giudaismo e del cristianesimo. PLATONE definisce «fratelli>> i connazionali (Menex. 239a); SENO­ FONTE gli amici (An. VII, 2,25) ; per PLOTINO . In Gv 6,45 , nel contesto del discorso sul pane nella sinagoga di Cafarnao , Gesù cita proprio questi due testi: «Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio . Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me» . 156 Lo stesso Paolo, presentando l'antitesi sapienza umana-sapienza divina, precisa in lCor 2,13: «Di queste cose noi parliamo , non con un linguaggio suggerito dalla sapienza uma­ na, ma insegnato dallo Spirito». Pertanto, se non il termine , certamente il tema di Dio didaskalos, «maestro», è noto alla tradizione biblica, antico e neotesta­ mentaria. Contenuto di tale insegnamento divino è appunto la reciproca agape. Qui, l'amore è colto nella sua dimensione di reciprocità interpersonale , ma nel v. 10 l'orizzonte si allarga fino ad abbracciare la totalità dei fratelli e la totalità di una regione, la Macedonia . Data la profondità del sentimento evocato dal verbo agapao , «amo», unico scopo (eis to) dell'insegnamento divino , e data l'ampiezza della sua prospettiva, riteniamo sia inutile chiedersi dove i tessalonicesi abbiano attinto simile insegnamento. Si tratta dell'insegnamento della Parola annunzia­ ta, testimoniata, letta, vissuta, celebrata e soprattutto ascoltata dalla viva voce dello Spirito che è in loro.

lOa: «E così vi comportate verso tutti i fratelli dell'intera Macedonia». Il pre­ sente versetto ci fa intendere perché il tema così importante dell'agape, di fatto non sia stato affrontato . I tessalonicesi hanno accolto l'invito di Dio loro mae­ stro , camminando nella sua luce. La fama è nota , e ne sono testimoni i fratelli della Macedonia . Sono elementi che avevamo incontrato già all'inizio della pre­ sente lettera , nell'azione di grazie. L'iperbole, perfettamente conforme allo stile complimentoso orientale, è pressoché identica, anche se un po' più moderata (cf. 1 ,7-8) . Il riferimento è alle altre due comunità cristiane della Macedonia: Fi­ lippi e Berea. Il brusco allontanamento di Paolo può aver stimolato i tessaloni­ cesi, in ciò favoriti dalla preminenza della loro città e dalla sua stessa posizione geografica e marittima , ad assumere l'iniziativa di concrete manifestazioni di co­ munione con queste due comunità cristiane sorelle. v.

lS6 Il termine theodidaktos è costruito come theo-pneustos (2Tm 3,16) riferito alla «Scrittura». Mentre il secondo definisce gli scritti e gli scrittori canonici, il primo indica tutti i cristiani in quanto appartenenti alla nuova alleanza, conformemente ai testi di Ger 31 ,34 e Is 54,13, ripresi in Gv 6,45. Theodidaktos si ritrova poi in Barn. 21 ,6; in ATENAGORA, Leg. 11 ,32; in TEOFILATIO, Ad Auto!. 11,9, e nei padri greci.

207 L'apostolo non è dunque tanto interessato a istruire i suoi sull'amore, quan­ to su alcuni aspetti ad esso collegati e sui quali i tessalonicesi erano particolar­ mente lacunosi. 10b- 1 1 : «Vi esortiamo, fratelli, a progredire sempre più (perisseuein mallon kai) : a farvi un punto d'onore di vivere nella pace (philotimeisthai hesychazein), ad attendere alle vostre attività (prassein ta idia) , a lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo già prescritto» . Della struttura sin tattica di questa sezione cen­ trale abbiamo già detto. Preferiamo pertanto soffermarci sul significato della tri· plice esortazione paolina e sull'ambiente vitale che l'ha determinata.

v.

Philotimeisthai, alla lettera: «ricercare onore». Verbo rarissimo nel NT, è noto al solo Paolo che , per altro, lo usa solo due volte (Rm 15 ,20 e 2Cor 5 ,9) e , in entrambi i casi, con i l significato di «farsi un punto d'onore di» . 157 I n R m 15 ,20 Paolo dice: «Mi sono fatto un punto d'onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo» ; in 2Cor 5 ,9, nel contesto di un'in­ tensa riflessione sul futuro escatologico : «Ci facciamo un punto d'onore, sia di­ morando nel corpo sia esulando da esso, di essere a lui graditi». L'implicita idea di ambizione tendente alla ricerca spasmodica dell'onore-g_loria-successo , pre­ sente nel greco classico , in seguito si è andata affievolendo. E rimasta solo l'idea dell'impegno profuso per il raggiungimento di un determinato scopo , come di­ mostra l'uso paolino. Traduzioni possibili sarebbero dunque: «esercitarsi con di­ ligenza, ricercare con impegno». Nei testi paolini, poiché si tratta della credibili­ tà della comunità cristiana e dell'autenticità del vivere cristiano, valori coinvol­ genti l'«onore» dell'identità credente, ci è parso opportuno tradurre: «farsi un punto d'onore di» . Il verbo connesso hesychaz6, «Vivere nella pace» , oggetto del primo messag· gio parenetico paolino, è hapax in Paolo, ma noto a Luca. 158 In Le 14,4 indica il 157 Il verbo philotimeomai e tutta l'area semantica del timi neotestamentario affo nda le sue ra­ dici nell'uso anticotestamentario di ben 12 vocaboli ebraici resi dalla LXX con time, principalmente fqar, jaqar, kabod, ·erek. I significati più importanti sono: l . «Onore»: in primo luogo quello spet­ tante a Dio (cf. Gb 34, 19) ; in secondo luogo quello che Dio concede agli uomini (cf. Es 28,2) ; infine, l'onore che si deve tributare agli altri (cf. Est 1 ,20) 2. «Pagamento in denaro» (cf. Gb 31 ,39) , in particolare l'onorario dovuto al medico per i suoi servigi. La somma di denaro che occorre per riscat­ tare il primogenito. 3. «Preziosi, tesoro» (cf. Ez 22,25). 4. «Tributo, tassa» (cf. 1Mac 1 0 ,29). 5. «Onore» e concetti affini, quali: charis, o doxa (cf. Dn 1 ,9; 2,37) . 6. «Dignità regale» (cf. Dn 5,20: Teod.). 7. «Comportamento nobile, onorevole» (cf. 2Mac 4,13). Anche il verbo tima6 rende per lo più kbd nelle forme pt'el e pu•at, e assume il significato di «onorare», ad esempio Dio (cf. Is 29,13), il re (cf. Sap 14,17), i genitori (cf. Es 20,12), gli anziani (cf. Lv 19,32), i poveri (cf. Pr 14,31), il tempio (cf. 2Mac 3,2). J . ScHNEIDER, , in Antonianum 55(1980), 327-35 1 . L'autore osserva come la morte e la risurrezione di Gesù che aprono e chiudono questo brano. e che indicano la compiutezza del messaggio paolino fin _dalla sua prima lettera, di fatto fondano la certezza della salvezza acquisita già nell'oggi.

4,14

221

spiegarsi solo con il fatto che Paolo sta ancora citando una frase stereotipa. La coerenza interna del pensiero appare con tutta evidenza se si pone attenzione al­ lo stile qui utilizzato , più evocativo-dottrinale che discorsivo-letterario. Cosi, la disarmonia letteraria dello spostamento di soggetto diventa coerenza logica se si pensa che lo stesso Dio che , fin dalle più arcaiche confessioni di fede è sempre protagonista dell'evento risurrezione di Cristo, lo è a maggior ragione del radu­ no finale con lui dei credenti incorporati alla sua morte e alla sua risurrezione . In tale prospettiva focalizzata sulla mediazionalità salvifica del Cristo e coinvolgen­ te la sorte futura dei credenti già morti , la particella dia deve necessariamente ri­ ferirsi a «si sono addormentati» e non a «Condurrà» che segue . 173 Si tratta cioè di precisare che quella loro morte reca l'impronta indelebile della morte di Cristo ; essi sono appunto «addormentati in Cristo» perché , per mezzo di lui, hanno ri­ cevuto redenzione e salvezza e, parallelamente, solo in relazione a lui , morte e vita possono acquistare pienezza di significato. L'espressione axei syn autoi costituisce lo sbocco di tutta la frase e il vero ap­ prodo dell'insegnamento paolino. Il verbo qui usato significa «condurre, far ve­ nire». Seguito da syn , aggiunge la notazione di «riunire, radunare». In tal senso, come è stato ben notato da Trimaille, 174 è forse il verbo più indicativo dell'espe­ rienza esodiale durante la quale Dio conduce il suo popolo appunto per radunar­ lo . Il medesimo autore cita in appoggio alla sua tesi tre oracoli profetici molto importanti recanti l'annuncio della restaurazione del popolo di Dio paragonata a un esodo. In tali testi , il verbo condurre è in parallelismo con il verbo radunare, a sua volta composto dal verbo condurre e dal prefisso con, donde «condurre perché stiano insieme , radunare , riunire» (Ger 3 1 ,8 ; Ez 36,24; Is 43 ,5) . 175 Rite­ niamo decisiva tale valenza esodiale e in qualche modo eçclesiale dell'espressio­ ne in esame ai fini dell'ermeneutica di tutto il brano. Sulla medesima linea viene a collocarsi l'accostamento cui abbiamo già fatto cenno tra la metafora del son­ no-morte e appunto l'idea di raduno. È nota l'espressione anticotestamentaria 173 Il significato dell'espressione koim�thentos dia tou l�sou è controverso. GHJNI, Lettere di Paolo, 212, così sintetizza le diverse posizioni: «quelli che si sono addormentati in Gesù: la maggior parte degli esegeti traducono così, ma alcuni (Schmiedel, Bornemann, Moffat, Masson, Schlier, Best, TOB ecc. ) , al seguito di Teodoro di Mopsuestia ed Eutimo Zigabeno, leggono la frase così: Dio per mezzo di Gesù condurrà con lui anche quelli che si sono addormentati. ScHLIER motiva la let­ tura col fatto che l'altra, quelli che si sono addormentati in Gesù, indicherebbe soltanto i martiri (L 'Apostolo, 87) . Controverso è anche il significato della preposizione dia: per causa di Cristo (cioè nel martirio: Lake); attraverso la potenza di Cristo (Frame) . Più accessibile il senso modale: nella fe­ de in Gesù (Cerfaux) ! nella comunione con Gesù (Oeple), in relazione a Cristo (Dupont). Rigaux traduce: par Jésu.s. La nostra posizione espressa nel commento vorrebbe tentare di interpretare il dia alla luce delle altre rilevanti preposizioni cristologiche paoline: en ed eis. 174 TRIMAILLE, «La première lettre», 58-59. 175 Riportiamo la traduzione della LXX dei verbi presenti nei tre testi citati per far notare la convergenza terminologica con il nostro. Ger 31 ,8: «Ecco io li riconduco (ago) dal paese del setten­ trione e li radunerò (synaxo) dall'estremità della terra» ; Ez 36,24: «Vi prenderò (l�mpsomai) dalle genti, vi radunerò (athroiso) da ogni terra e vi condurrò (eisaxo) sul vostro suolo»; ls 43 ,5: «Dall'o­ riente farò venire (axo) la tua stirpe , dall'occidente io ti radunerò (synaxo)». Ne deduce il nostro au­ tore: «Dans notre phrase, l'aboutissement de l'action de Dieu est exprimé par le simple "avec lui" (Jésus); mais, comme dans les textes cités, le verbe "conduire" est suivi de "avec" . Cela permet de comprendre: Dieu les conduira pour qu'ils soient avec Jésus, donc qu'ils "les réunira à Jésu"».

222

Commento

cui nella LXX si descrive la morte dei grandi personaggi d'Israele: «e si ad­ dormentò con i suoi padri», o più precisamente: «e fu riunito al suo popolo», do­ ve l'immagine del sonno si completa con quella di essere riunito al proprio popo­ lo . Ne deduciamo che l'azione di raduno promossa da Dio, di cui è portatrice l'e­ spressione axei syn , acquisterà pienezza di significato solo quando gli attuali dor­ mienti in Cristo , radunati con lui insieme a tutti gli altri credenti , formeranno un unico popolo celeste di risorti in lui . È quanto emergerà subito.

con

c.

Insegnamento esplicativo (vv. 15-1 7)

Essendo state poste le fondamenta, si apriva adesso per Paolo la possibilità di innalzare il solido e organico edificio del suo insegnamento. Il ritmo di questi tre versetti sembra essere scandito - come accennavamo sopra - dalle particelle «infatti», «poiché» (due volte ripetuta) nei vv . 15-16 e «con» (anch'essa presente per due volte) nel v. 17. Se le prime due evidenziano desiderio di collegamento e formulazione di contenuti (nel caso, descrizione dettagliata deiJa parusia), la terza è quella che veramente risponde all'angosciosa domanda degli interlocuto­ ri. Dal punto di vista letterario , sia i soggetti che i verbi ci introdurranno nel cuo­ re della problematica dei tessalonicesi . Così , nei vv. 15-16 emergono i soggetti : «noi» - qualificato da «i viventi , i rimasti» - e «i morti in Cristo» . Nel v. 17, la precedente, momentanea diversificazione del «noi» , si ricompone , grazie ap­ punto alla particella «con», nell'unità di un noi decisamente eccle.siaJe e cristolo­ gico. In armonia con i soggetti e con le loro configurazioni letterarie, emergono anche i verbi rispettivi . Al primo noi parziale del v. 15 corrisponde «non prece­ deremo», mentre a i morti in Cristo del v. 16, fa riscontro un secondo verbo «ri­ sorgeranno per primi» . Nel v. 17, invece , altri due verbi completano l'insegna­ mento qualificando il noi unitario con : «saremo rapiti» e «saremo» . Da un punto di vista strutturale, sembra pertanto che i vv. 15-16 facciano unità attorno al tema della parusia del Signore considerata in riferimento alla Ti­ composizione del tessuto ecclesiale apparentemente lacerato dal distacco della morte , mentre il v. 17 insiste più sullo sbocco finale comunitario di tale evento. vv.

IS-16: Noi e i ;,orti in Cristo nella parusia del Signore.

v. 15: Sulla parola del Signore. «Questo vi diciamo sulla parola del Signore (en logoi Kyriou) . . ». Non può sfuggire la solennità di un simile avvio. Vi si fa ri­ ferimento a una parola del Signore , e quindi a un parlare con autorità, che la­ sciano intendere sia la gravità del problema che l'urgenza dell'assenso. Trattan­ dosi dell'avvio alla presentazione di un'autentica apocalisse, cioè di una rivela­ zione del misterioso piano salvifico divino, l'apostolo non poteva rendersene messaggero autonomo. Si imponeva il ricorso al Signore Gesù , unico rivelatore del Padre e primo annunciatore della buona novella , oltre che suo stesso conte­ nuto. Nel caso particolare, logos Kyriou indica sia il vangelo in generale , confor­ memente all'uso che Paolo fa dell'espressione nella stessa 1Ts. (cf. 1 ,8) , sia, più specificamente, il messaggio apocalittico dello stesso Gesù . Ha ragione pertanto .

4,15-16

223

Rigaux nel ritenere che «parola del Signore» faccia qui globalmente riferimento a tale insegnamento, «del tipo di quello riportato dalla tradizione sinottica». 176 « Noi, i viventi, i rimasti in vista della parusia del Signore . . . ». È nota la dif­ ficoltà interpretativa che pone detta frase: chi sono esattamente questi «noi»? Quale il significato dei due participi apposti al «noi»? Appare evidente che Paolo considera due diverse situazioni , quella dei «noi» e quella di «coloro che si sono addormentati» . Si vanifica pertanto ogni velleità concordistica volta ad amalgamare le due situazioni. Osserviamo subito, tutta­ via, che stiamo parlando di «situazioni» non di «condizioni» . È altrettanto chia­ ro che i due participi , qualificando il «noi», non possono immediatamente appli­ carsi anche a «coloro che si sono addormentati». Si esclude con ciò la possibilità di una forzata estensione del loro significato a entrambi senza un'adeguata pun­ tualizzazione sugli elementi di somiglianza e di diversità. Riteniamo, infine, fuorviante il passaggio dall'interpretazione letteraria a quella più decisamente storica, sulla consapevolezza di Paolo di essere trovato o meno in vita al momen­ to della parusia. E ciò per un duplice motivo: si sorvola con eccessiva facilità sul­ la valenza dei due participi; si radicalizza , con chiaro intento apologetico, un problema - quello de li 'imminenza della parusia - che era affrontato dalla chiesa primitiva in prospettiva più profetico-escatologica che non storico-apocalitti­ ca. 177 La domanda, cioè, non verteva prevalentemente sul quando - preoccupa­ zione appunto dell'apocalittica - bensì sul come. Parallelamente, la prossimità del tempo del compimento rispondeva più all'esigenza di una costante e pronta preparazione - tipica del messaggio profetico - che non a una vicinanza tempo. . .

176 RIGAUX , Saint Paul, 539. Gli studiosi si pongono, a questo punto, la domanda: Di che «pa­ rola» si tratta? È forse un loghion del Signore pervenuto all'apostolo dalla tradizione della comunità, oppure risale a una rivelazione personale? L'ipotesi che si tratti di un loghion storico di Gesù è stata sostenuta da J. JEREMIAS, Unbekannte lesusworte, Giitersloh 3 1963 , 77-79, ma oggi viene fortemente contestata. In realtà, eRtrambe le risposte sono possibili, come si constata sia da lCor 7 ,10.12. 1 5 ; 9 , 1 4 ; R m 12,20, che d a 1Cor 15,5 1 ; 2Cor 12,1; Gal 2,2. Come già espresso nel commento, ci sembra tuttavia più condivisibile la posizione di DEWAILLY-RIGAUX, Les Epitres, 48 nota b: «Il n'est pas aisé de préciser l'origine et de reconstituer la forme première de cette parole de Jésus, bien que le di­ scours de Mat . , 24, ne soit pas sans ressemblance avec la description des vv. 15-17. Ce pourrait etre tout simplement un recours à l'autorité du Seigneur, commes les apocalypses en ont plus d'un (cf. Dn 7 , 1 . 1 3 . 16)». Un recente tentativo di individuazione di questa «parola del Signore» primitiva, è quello compiuto da G. LoHR, «1 Thess 4,15-17: Das "Herrenwort", in ZN1W 71(1980), 269-273. In ScHLIER, L 'apostolo, 89, ammette che nel timore dei tessalonicesi affiorano preoccupazioni di tipo apocalittico, pur riconoscendo che non si possono escludere radici pagane: la rassegnazione pagana alla morte. L'apostolo avrebbe interpretato dette radici alla luce appunto del pensiero giu­ daico apocalittico. A tale scopo, l'autore cita alcuni brani paralleli di scritti apocalittici che noi ri­ prendiamo. In 4 Esdr. 13, 16ss, l'apocalittico dice: «Guai a coloro che resteranno in quel tempo (quello della fine). Ma ancor prima guai a coloro che non resteranno ! Perché coloro che non reste­ ranno debbono essere tristi; certo, infatti , conoscono le gioie, che sono pronte per il tempo ultimo, ma essi non vi giungeranno. Ma guai anche a coloro che resteranno, perché vedranno grande tribola­ zione e molte miserie . . . Eppure è meglio averle anche nei pericoli, piuttosto che svanire dal mondo come una nube e non vedere le cose del tempo ultimo». Questa preoccupazione apocalittica compa­ re anche in 4 Esdr. 5,41s, dove inoltre la risposta si avvicina a quella di Paolo in quanto presuppone che il giudizio (di salvezza o di condanna) riguarderà tutte le generazioni della terra: «lo dissi: Ahi­ mè, Signore, la tua benedizione è solo per coloro che vivranno il tempo della fine. Ma che faranno i nostri antenati, e noi e i nostri posteri? Egli mi parlò: il mio giudizio sarà simile a una ridda (cf. Bar. sir. 5l, lss; ma anche Dn 12,1ss). In essa gli ultimi non sono indietro e i primi non sono davanti».

224

Commento

rale penneata di vaneggiamenti cosmologici e di collaterali fughe dall'impegnò storico, più sintomatici delle elucubrazioni apocalittiche. Anche in base a dette motivazioni, non ci crea difficoltà l'accostamento di «in vista della venuta» ai due participi, piuttosto che a «non precederemo» , cosa che evidentemente evite­ rebbe di far dire esplicitamente a Paolo che lui e i suoi lettori saranno ancora vivi al momento della parusia. L'unico problema della frase in esame rimane dunque quello del pieno significato dei due participi, particolarmente di «i rimasti» per­ ché esplicativo dello stesso «i viventi» e più direttamente collegato con «in vista della parusia», intuendo già come obbligante il ricorso alla linea profetica ed escatologica. I due participi sono al presente. Esprimono dunque una condizione attuale, uno status permanente , insomma una sorta d'identificazione del soggetto «noi» , peraltro maggiormente evidenziata dalla solenne ripetizione dell'articolo prepo­ sto a ognuno di essi . Come tali, non possono essere tradotti: «Noi che saremo vi­ venti . . . ». Lasciando per il momento da parte questo problema, non ci sono dub­ bi che il «nOi» paolino intenda riferirsi globalmente alla chiesa attualmente pelle­ grina, ai credenti in Cristo nel presente orientati al suo ritorno. 178 I participi di apposizione , proprio perché tali , non possono certo ridurre l'ampiezza di signifi­ cato del soggetto. «l viventi , i rimasti» si presentano pertanto come qualificazio­ ne della chiesa e dei credenti. Perileipomai, «rimanere», è un passivo e usato dal solo Paolo, qui e al v. 17, in tutto il NT. Un hapax dunque che l'apostolo acco­ glie e rispetta per la sua arcaicità e ricchezza di significato. La traduzione esatta sarebbe: «Coloro che sono stati lasciati». Nell' AT, a parte il significato comune di «restare» e, più significativamente «sopravvivere a una catastrofe , sfuggire a un grave pericolo di morte» (cf. Ag 2,3), nel linguaggio profetico equivale alla connotazione escatologica del Resto di Israele. Si fa riferimento cioè a coloro che JHWH farà accedere alla salvezza definitiva dopo il giudizio di condanna al qua­ le sottoporrà il suo popolo (cf. 2Cr 34 ,21 ) . Paolo assimilerebbe pertanto la chie­ sa e i credenti al Resto di Israele a cui è destinata la salvezza. Evidentemente , in lTs si è dinanzi a una prima , non ben definita traccia di un'arditissima riflessione teologica che troverà in seguito , specialmente in Rm , un suo più ampio e artico­ lato sviluppo. Sulla base di tale sostrato anticotestamentario - ritiene a ragione Trimaille179 - si comprende più facilmente che , per Paolo, coloro che sono rimasti in vista della parusia siano dei «viventi» . Infatti , il Resto nell' AT rappresenta la totalità del popolo, e la sua sorte simbolizza la sorte di tutti. Qui, detta totalità è costi178 L'interpretazione da noi proposta si ricollega idealmente all'esegesi di GIOVANNI CRISOSTO· MO, in PG LXII ,436; LXI,364, per il quale il «noi» non si riferirebbe a Paolo, ma a tutti i fedeli. Pari· menti, il «noi» dei corinzi - egli precisa - non si riferirebbe nemmeno a Paolo ma a coloro che allora saranno in vita. Fa notare a questo punto RIGAUX, Saint Paul, 540: «coloro che si collegano a Criso­ stomo fanno rilevare che questo modo di includersi nello stato d'animo e al posto dei suoi corrispon­ denti è usuale in Paolo (cf. lTs 5,5.8.9.10; Gal 5,25·26; Rm 14,10 ecc. ) . In grammatica si tratterebbe di una enallage di persona». 179 TRIMAILLE, «La première lettre», 59-60.

4,15-16

225

tuita dalla comunità dei credenti. I rimasti, i superStiti, i lasciati - completa il no­ stro autore - sono viventi perché è alla vita che tutti i credenti, anche morti, sono chiamati. 180 « . . Non precederemo coloro che si sono addormentati» . Phthano è un verbo noto nel greco ellenistico . Il suo significato basilare è quello di «precedere», an­ che se molto spesso si presenta con una connotazione di subitaneità che potreb­ be meglio esprimersi con «sopraggiungere improvvisamente», come nel caso di lTs 2,16. Nel nostro testo , considerata l'intrinseca valenza teologica , sembra conservare il significato primitivo di «precedere» 181 ma col valore metaforico dell'assenza di privilegi e quindi di priorità o di precedenze da parte dei viventi rimasti nei confronti di coloro che si sono addormentati. Tocchiamo così nel vi­ vo un elemento decisivo della complessa problematica dei tessalonicesi. La co­ mune appartenenza alla chiesa mediante l'unicità del battesimo, l'unicità dello Spirito e l'unicità della fede e, conseguentemente , la connessa parità fra tutti i suoi membri di fronte al compimento definitivo della salvezza al momento della parusia, non sarebbero state intaccate nemmeno dalla morte . Come abbiamo osservato sopra, la distinzione tra i due gruppi , i rimasti per la parusia e i morti , è un dato di fatto . Ma non viene con ciò minimamente intaccata l'unità della chiesa : anche i morti - notavamo - sono aperti alla vita e alla partecipazione al Resto, oltre che globalmente rappresentati da coloro che sono attualmente vi­ venti e rimasti, pertanto sono anch'essi destinati alla parusia. La momentanea di­ versità, di situazione più che di condizione o di status, sarà eliminata nei tempi previsti da Dio e secondo le modalità sue proprie: la forza vitale che fece trionfa­ re sulla morte del suo Figlio , quella medesima egli farà intervenire per sconfig­ gere la morte dei credenti nel suo Unto , sanando così la distinzione creatasi al­ l'interno della chiesa. .

180 HOLTZ, Der Erste Brief, 195-196, nota che l'espressione «i rimasti» può avere radici apoca­ littiche, ma può anche appartenere alla terminologia veterotestamentaria sul «Resto)). Una felice in­ tuizione, quest'ultima, purtroppo non adeguatamente valorizzata. Infatti, passa subito a precisare che nell'apocalittica giudaica essa è riferita chiaramente a coloro che attraverso ogni tipo di tribola­ zione diventano partecipi della salvezza: «L'attesa che questo Resto, ed esso solo, raggiungerà la sal­ vezza, in 4 Esdr. è fortemente sottolineata». Completa, infine, il suo pensiero affermando: «< rimasti non sono quelli che soggiacciono al normale destino ma quelli che, come eccezione, come Resto ri­ masto, raggiungono la parusia» . Dopo tali puntualizzazioni, formula con chiarezza la sua posizione: «Ma questo non è il pensiero di Paolo. Per lui piuttosto "Noi, i viventi" saranno "i rimasti" . . . Così il concetto . . è diventata denominazione neutrale di coloro che automaticamente e contemporanea­ mente fanno esperienza della parusia». Sfuggono pertanto al nostro autore sia il necessario collega­ mento tra le due espressioni, sia l'apporto tematico che può venire proprio dalla seconda. Egli com­ pleta infatti: «Il "noi" in sé è già sufficientemente precisato con "i viventi" . . . "i rimasti" in questo contesto non ha alcuna funzione propria, ma appare piuttosto persino improprio». STAAB, Lettera Prima, 50, al contrario, sottolinea: «"i rimasti" ha un carattere retrospettivo e non comporta l'affer­ mazione di uno scopo da conseguire in futuro. Nel v. 17 la parola ricorre senza alcuna aggiunta, e nell'intera letteratura greca essa non compare mai in unione con la preposizione "per" (i rimasti per qualcosa)» . 18 1 A differenza di lTs 2,16, qui phtano è usato nel senso classico di prophthan6, > di Abramo e di Davide (Gen 14,17; 2Re 19,16.21), ma soprattutto del popolo con Dio, dopo che Mosè l'ha invitato a uscire dal suo recinto per andargli incontro (eis sy­ nantésin tou Theou ; Es 19,10-18). Da ciò conclude Dupont: «Comment s'étonner dès lors que Paul parle à son tour d'aUer à la rencontre du Seigneur? Pour le faire il n'avait nul besoin de songer au cé­ rémonial des parousies hellénistiques, pas plus qu'il n'y songe en parlant de la trombette qui retenti­ ra à la fin des temps». A sua volta, Rigaux, rifiutandosi di optare per l'una o per l'altra ipotesi, affer­ ma testualmente: «On peut conclure des parallèles hellénistiques et bibliques que Paul a pu dépen­ dre de l'une et de l'autre source>> (548).

232

Commento

«. . . E cosl saremo sempre con il Signore». La· ricoinparsa dell a particella «con», questa volta accostata a «Signore» e non più ai credenti risuscitati , segna un nuovo definitivo apporto alla riflessione paolina sull'argomento. Infatti, l'in­ sieme della frase nella quale essa viene a collocarsi , unitamente al soggetto im­ plicito «tutti noi, membri della chiesa celeste», e al verbo «saremo» , preceduto dall'avverbio temporale «sempre», si presenta come la vera, decisiva rivelazione di tutto il brano, proprio in forza della novità dell'annuncio: «sempre con il Si­ gnore»! 194 La densità della presente formula parla da sola. La nota attentissima analisi di Dupont ne ha dato ampia dimostrazione . Per la nostra parte , vorremmo l imi­ tarci a rilevare la specificità dell'uso paolino , anche in considerazione degli svi­ luppi che si presenteranno nella lettera ai Romani. Per descrivere la multiforme sfaccettatura della relazionalità con Cristo, l'a­ postolo si serve di diverse preposizioni : en , «in , nel»; dia , «mediante»; meta, «COn»; eis, «verso» . Pur dovendo ammettere che l'uso di tali preposizioni non sempre è costante - conformemente allo stile della koine - si può tuttavia affer­ mare che , con la particella «COn» , Paolo fa sempre riferimento allo sbocco della vita cristiana terrena, sia che si tratti della morte individuale (cf. 2Cor e Fil ) , o anche della stessa parusia. La relazione da essa espressa è indicativa della comu­ nione-condivisione , suppone pertanto un rapporto con Cristo molto più intimo e intenso di quello suggerito dalla formula «in Cristo». Quest'ultima qualifica, in· fatti , più direttamente l'esistenza terrena del credente unito , mediante la fede, a Cristo morto e risuscitato, e conseguentemente proteso a vivere nell'amore e nella speranza. La preposizione syn si differenzia anche da meta , «COn», peraltro affine , usata spesso dai vangeli per indicare la vicinanza di vita terrena dei disce-

194

Secondo DuPONT, l:YN XPil:TQI , 1 11-112, l'idea dell'«essere con Cristo)) è presente nel

NT con una vasta gamma di significati dipendenti dai rispettivi contesti nei quali la formula viene a

collocarsi. Così , per esempio, la si ritrova nel tema del banchetto messianico (Le 14,15; Mt 8 , 1 1-12 ecc.), nel senso di «aver parte» (Gv 13,8), nei discorsi di addio (Gv 14,3; 17 ,24). E soprattutto, in contesto escatologico, nell'annuncio della venuta del Figlio dell'uomo «con i suoi santi» (Mt 25,31 ) . S u quest'ultimo tema si sofferma i l nostro autore per indagare sulla dipendenza letteraria della for­ mula. Secondo lui - l'opinione è riportata da RIGAUX, Saint Pau/, 549 - bisogna risalire a Dt 33,2 tra­ dotto dalla LXX ek dexiOn autou angheloi met'autou (CEI: «tutti i suoi santi sono nelle sue mani»), traducendo così un discusso testo masoretico. Da questo testo dipenderebbe Zc 14,5 : «Verrà il Si­ gnore mio Dio e con lui tutti i suoi santi)>. Da lì si passerebbe al NT, appunto a Mt 25,31, alla Dida­ ch� 16,7, all'Ascens. Js. 4,16 e 4 Esdr. 7,28. Quanto alla nostra formula syn Christoi, certo deve an­ ch'essa essere interpretata alla luce di tale sostrato anticotestamentario. ma secondo il nostro autore essa appartiene in proprio a Paolo. Più che la comunione personale con il Signore, indicherebbe la partecipazione alla sua gloria. Cosi Dupont formula il suo pensiero: «etre avec le Seigneur, c'est jouir de la felicité du royaume, de la gioire du Messie, des avantages de l'époque heureuse. Le judai­ sme disait déjà la meme chose de la venue du Seigneur et de la venue de ses saints "avec lui". Au contraìre, dans 2Cor 5,8 et Phil 1 ,23 etre avec le Christ, c'est rechercher la présence du Maitre pour elle-meme. Cette évolution dépendrait de l'hellénisme» (citato da RIGA U X , Saint Paul, 550) . Lo stes­ so Rigaux commenta subito dopo, e con molta foga: «La position du P. Dupont détache trop les for­ mules ·•e tre avec le Christ" et "vie avec le Christ'' de la vie , de la vie de l' Apòtre et des chrétiens, pour qui l'essence du christianisme est foi, amour et espérance en une personne, la personne de Jé­ sus-Christ, Messie , Seigneur et Fils de Dieu , etre vivant qui a donné sa vie pour les fidèles , qui est ressuscité pour eux, qui leur communique l'Esprit . . . qui leur donne comme certitude finale d'etre avec eux, de vivre avec eux».

4,18

233

poli con Gesù o, come visto in lTs 3,13, l'accompagn amento del Signore da par­ te dei santi . Con syn si vuole invece indicare la partecipazione piena, anche nella propria dimensione corporea, alla risurrezione del Cristo. In tal senso, parlava­ mo sopra di sbocco definitivo dell'esperienza cristiana. Certo, una simile unione a Cristo alla fine dell'itinerario di fede cristiano è resa possibile da un rapporto deilo stesso tipo situato alle radici stesse dell'esi­ stenza cristiana, quello appunto di tipo battesimale. È quanto ribadirà l'apostolo nella lettera ai Romani, incentrata, appunto, più che sull'escatologia come l Ts, sull'esistenza dell'uomo giustificato. Nel testo battesimale di Rom 6,4-8 c'è forse la più alta concentrazione dell'uso della preposizione syn collocata in verbi com­ posti di grande rilevanza teologico-sacramentale: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù , siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti con lui (synetaph2men) . . . Se siamo stati completamente uniti a lui (symphytoi) . . . Il nostro uomo vecchio è stato crocifis­ so con lui (synestaurothe) . . . Se siamo morti con Cristo (syn Christoi) , crediamo che anche vivremo con lui (syzesomen)». Possiamo dunque a ragione concludere che il compimento della vita cristia­ na, consistente nella condivisione-compartecipazione della gloria del Signore ri­ sorto, è la manifestazione piena di ciò che , come in un codice genetico, era di fatto già inscritto in ogni credente mediante il sigillo battesimale. d.

Conclusione parenetica .(v. 18)

«Esortatevi dunque a vicenda con queste parole». Il verbo parakaleo , con la densità sua tipica - come da noi esaminata all'inizio della seconda parte di l Ts conferisce al presente versetto conclusivo la sua esatta configurazione tematica e letteraria. L'apostolo, consapevole che l'esortazione è uno dei suoi compiti prin­ cipali in quanto fondatore della chiesa in Tessalonica, tende a porre in quell'otti­ ca tutto l'insegnamento precedente . Elementi costitutivi dell'esortazione sono ­ ribadiamolo - il riferimento all'autorevolezza della parola del Signore e l'appel­ lo (ricordiamo che , etimologicamente, il termine dipende dal verbo «chiamare») all'applicazione nella vita concreta del patrimonio di fede evocato . Esprimendosi con «queste parole» , Paolo intende pertanto ancorare con for­ za il suo insegnamento alla «parola del Signore» richiamata nel v. 15, e precisare al tempo stesso che, solo grazie a tale ancoraggio , la sua può diventare una vera esortazione . Scopo ultimo dell'esortazione è, infatti, la crescita della comunità. Ed è proprio il verbo «crescere» che fa da filo conduttore di tutta questa sezione. L'espressione «gli uni gli altri» completa egregiamente l'idea dell'esortazione per la crescita, aggiungendo alle note di ascolto e di attualizzazione della Parola, quella di reciprocità e condivisione , condizioni indispensabili della circolarità esigita da una vera comunione ecclesiale. Non si può tuttavia ignorare che l'ulti­ mo versetto della pericope riprende l'invito del primo : «non siate tristi>> ; «esor­ tatevi confortandovi» . Così, l'esortazione conclusiva finisce per assumere - co­ me accennato sopra - quella connotazione che pure le è propria di incoraggia-

234

Commento

mento-consolazione-conforto (cf. 2 , 1 1 ; 3, 7) . È come se tutta la paraclesi ( «esor­ tazione») apostolica, fondata sulla tradizione autorevole e normativa della paro­ la del Signore , richiedesse per sua stessa natura, a conclusione di tutta la tratta­ zione - da notare la congiunzione deduttiva hoste, equivalente a dio1 95 - di esse­ re ora spiegata, attualizzata e trasmessa mediante il reciproco incoraggiamento nel momento critico della perdita della cristiana speranza.

5.

RIGUARDO

Al TEMPI E AI MOMENTI

(5,1-11)

Il presente brano offre non pochi punti di contatto con il precedente. Sia il genere letterario, per entrambi quello apocalittico , sia la stessa articolazione in­ terna, basata in ambedue i brani sul dato comune della fede e sul connesso inse­ gnamento parenetico rispondente alle esigenze della comunità, testimoniano di un accurato lavoro letterario condotto con coerenza all'interno della sezione unitaria 4, 13-5 , 1 1 . Un primo sguardo sinottico ci consentirà di cogliere con im­ mediatezza gli elementi di convergenza che globalmente li accomunano. - L'esortazione è introdotta dalla preposizione «riguardo a» , ed è rivolta ai «fratelli»: 5,1

4,13 - Si fa appello alla fede e alla speranza:

5,8

4,13-14 - Si cita direttamente la confessione di fede:

4,14

5,9b-10

«Noi crediamo che Gesù è morto ed è risuscitato»

«Gesù Cristo . . . è morto per noi»

- Si stimola alla coerenza della fede:

4, 14-15

5,5.8

«Se noi crediamo. . . Noi vi diciamo sulla parola del Signore»

«Voi siete figli della luce e figli del giorno. . . essendo noi del giorno»

195 La particella hoste, �dunque», che apre il v. 18, introduce una deduzione , per cui è sinoni­ ma di dio, «perciò)) (cf. 5 , 1 1 ) o di toigaroun, «perciò)), già incontrato in 4,8, o più semplicemente di dia touto, >. La seconda esortazione incentrata sull' «aver stima>> è invece qualificata dall'invito ad avere nei loro confronti un amore sovrabbon­ dante , motivato dalla dedizione profusa nel loro lavoro. L'imperativo conclusi­ vo «Vivete in pace tra voi» sembra una sorta di augurio finale, in qualche modo riassuntivo del breve brano parenetico. 5 , 12 Vi preghiamo, frateili , di aver riguardo per quelli che faticano in mezzo a voi,

che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono:

13 trattateli con stima e con sommo amore, a causa della loro opera. Vivete in

pace tra voi.

12: I destinatari di quest'esortazione, come di quella successiva, sono chia­ mati «fratelli» . È , come è noto , un appellativo della comunità cristiana nel suo

v.

264

Commento

insieme, particolarmente espressivo dell'affettuosità dei rapporti che legano i suoi membri, ma anche della comune convergenza verso il Dio di Gesù Cristo, da questi rivelato come Padre . In entrambi i casi , Paolo si rivolge dunque a tutta la chiesa, non a una parte di essa, come hanno voluto sostenere alcuni studiosi, soprattutto in merito alla seconda esortazione . In tale direzione va anche la tri­ plice insistenza sul «voi»: hymas , en hymin , hymon , hymas . Il verbo eidenai, «sapere, conoscere» , assume il significato semitico di «rico­ noscere».241 Qui , si tratta di «riconoscere l'autorità , obbedire» . Si vuole sottoli­ neare cioè una modalità di conoscenza capace di instaurare un tipo di rapporto ben configurato . Con lo stesso significato, il verbo era apparso in lTs 1 ,4 (eido­ tes) , in riferimento alla «conoscenza» dell' «elezione» da parte dei credenti. In tal senso, è accostabile a epighighn6sk6 , «riconosco» {cf. lCor 16, 18) . I tre participi che seguono sono introdotti da un solo articolo. Ciò significa che i soggetti da es· si indicati non sono tre diverse categorie di persone, ma un'unica categoria, quella indicata dal secondo participio che si connota, oltre che come funzione , come vero e proprio titolo: proistamenous. In effetti, il verbo composto proistamai potrebbe significare sia «pre-siedere, governare, essere a capo di» , sia «prendersi cura di , proteggere». 242 La scelta non è semplice; la maggior parte dei traduttori propendono per la prima . Anche noi ci associamo a questa scelta , ma non comprendiamo la presunta antiteticità 241 Delle 320 ricorrenze neotestamentarie di oida, quasi sempre con il significato di «sapere», solo in alcuni testi si ha il- significato affine di «conoscere» (cf. Mc 14,71 ; Mt 26,72; 2Cor 5, 16). Rara­ mente si incontra il senso individuato nel nostro testo di «riconoscere, apprezzare» (cf. Ef 1 , 18: «af­ finché riconosciate (eis to eidenai) qual è la speranza della sua chiamata». Un altro parallelo si trova in Ignazio, Sm. , 9 , 1 : « È bene rispettare Dio e il vescovo (kal6s. . . eidenai)». 242 La forma media intransitiva proistamai è attestata nel greco classico, col significato appun­ to di «mettersi a capo, farsi avanti», al perfetto «presiedere» (Omero, Polibio, Platone, Erodoto) . L a LXX, come visto sopra, fa sua questa valenza del verbo, assumendone l a connessa sfumatura di «proteggere, sostenere» oppure «aiutare a progredire, promuovere» (cf. Is 43 ,24) . Il verbo tuttavia può indicare anche la semplice «Occupazione» del soggetto con l'oggetto in questione. In tal caso, as­ sume il significato di «Curare, assistere, provvedere, trattare» (cf. Pr 26, 17). Nel NT proistemi è usa­ to 8 volte, sempre in forma intransitiva, e solo in Paolo e nelle lettere pastorali. Nella maggior parte dei casi, sembra avere il significato di «guidare», ma il contesto suggerisce anche quello di «prendersi cura». Ciò diventa chiaro se si considera che, nel linguaggio epistolare su menzionato, l' «assistenza» di cui si parla competeva proprio a coloro che «Stavano a capo» delle giovani comunità. Sulla figura significativa del mebaqqer, «ispettore>>, in Qumran, per alcuni studiosi da identificare con il paqtd, «presidente>> , menzionato in 1QS, per altri invece distinto da quest'ultimo cf. , a titolo indicativo, 1QS 6, 14.20: «Ognuno che da Israele (si mostrerà) volenteroso di aggregarsi al consiglio della co­ munità, costui sarà esaminato da colui che presiede, da colui che è alla testa dei molti . . . Quando avrà compiuto un anno in mezzo alla comunità . . . faranno avvicinare anche i suoi beni e il suo lavoro alla mano di colui che è ispettore sul lavoro dei molti». La figura dell'«ispettore dell'accampamento» è de­ scritta, come è noto, in CD con caratteristiche che richiamano quella del buon pastore di Ez 34,12. 16. «Questa è la regola per l'ispettore dell'accampamento. Istruirà i molti nelle opere di Dio, insegnerà a essi le sue meravigliose gesta e narrerà davanti a loro gli eventi eterni con franchezza. Verso di loro sarà comprensivo come un padre verso i suoi figli e ricondurrà tutti i dispersi come un pastore il suo gregge. Scioglierà tutte le catene che li avvincono, affinché nella sua assemblea non vi sia più né oppresso, né affranto. Egli esaminerà le azioni, l'intelligenza, la forza, il coraggio e i beni di chiunque aderisce alla sua assemblea . . . Nessuno si arroghi il diritto di introdurre qualcuno nell'as­ semblea senza il parere dell'ispettore dell'accampamento . . Nessuno faccia contratto di acquisto o di vendita senza renderlo noto all'ispettore dell'accampamento (13,8-16) . .

5,12

265

delle due traduzioni , come se il ruolo di «presidenza» fosse qualcosa di total­ mente altro in rapporto a quello di «aver cura, proteggere». Inoltre , riesce in-· comprensibile la contrapposizione , non meno drastica, tra titolo e funzione, co­ me se un titolo non comportasse di per sé la qualifica di una precisa funzione. E, nel caso nostro, come se il titolo di «presidenza» non potesse essere adeguata­ mente qualificato dalla funzione del «prendersi cura, proteggere». In realtà, è un dato di fatto che i tre participi siano collocati sullo stesso piano operativo, configurando così come funzionali le azioni a essi connesse. 243 Secondo non po­ chi studiosi, non si capirebbe perché il secondo participio dovrebbe staccarsi da una simile linea unitaria, per indicare non un'opera da compiere , ma l'individua­ zione di un ruolo, quello appunto di «presiedere, governare» . E anche nell'e­ ventualità che ciò si imponesse, resterebbe da chiarire ai loro occhi perché detto participio, così specifico e nettamente diverso dagli altri due , non sia stato posto all'inizio della triade, indicando così sia la sua originalità di titolo, sia la conver­ genza ad esso degli altri due , inequivocabilmente indicativi di «funzioni» e non di «titoli» . In tal caso , «faticare» e «ammonire» si sarebbero chiaramente confi­ gurati come compiti svolti proprio in conseguenza dell' «essere stati costituiti in autorità». La discussione - ripetiamo - è inficiata da un'interpretazione doppia­ mente riduttiva del termine «titolo» : innanzitutto , perché solo questa sarebbe la valenza semantica dei «presidenti», in secondo luogo , perché detto titolo ver­ rebbe considerato come sganciato dalla sua corrispondente funzione. Trimaille244 ha notato giustamente che il nostro testo va interpretato alla luce della lista parallela di Rm 12,6b-8: «Chi ha il dono della profezia la eserciti se­ condo la misura della fede. Chi ha un ministero attenda al ministero; chi l'inse­ gnamento , all'insegnamento; chi l'esortazione, all'esortazione . Chi dà , lo faccia con semplicità; ho proistamenos , lo faccia con diligenza. Chi fa opere di miseri­ cordia, le compia con gioia». Anche qui , il medesimo participio appare in una li­ sta di funzioni esercitate da alcuni a servizio della chiesa, come per altro chiara­ mente detto in 12,4: «Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione». Confessiamo di rimanere piuttosto scettici sulla fondatezza logica, nonché storico-letteraria e tematico-ecclesiale , della seguente argomentazione del no243 HoLTZ, Der Erste Brief, 244, si fa portavoce della problematica in questione, quando affer­ ma che il termine vuole sottolineare soltanto la funzione e, contestualmente, che non si può ancora presupporre il passaggio dalla funzione ai suoi diretti portatori. Puntualizza inoltre: «La denomina­ zione dei vescovi e diaconi di Fil 1 , l , come la terminologia di servizio posteriore delle lettere pasto­ rali, vietano di pensare solo allo sviluppo relativo ai presbiteri» . Sul medesimo argomento, e con po­ sizione opposta, cf. l'attenta analisi di RosSANO, Lettere ai Tessalonicesi, 1 17-1 18. L'autore cosl con­ clude: «La documentazione che si può recare sul significato e valore del termine "coloro che presie­ dono" nell'ambiente ellenistico e nell'A T non lascia dubbio che esso indichi un'autorità vera e pro­ pria; il parallelismo infine con le associazioni religiose ellenistiche, da una parte, e con l'organizza­ zione gerarchica di Qumran , dall'altra, e quanto conosciamo circa la costituzione della chiesa di Ge­ rusalemme e la stessa pratica missionaria di Paolo, inducono necessariamente a riconoscere che ci troviamo qui di fronte a una gerarchia vera e propria, sebbene in una forma iniziale e ancora priva, ma solo per quello che ci risulta, di una designazione tecnica». 244 TRIMAILLE, «La première lettre», in loco.

266

Commento

stro autore: «Se si trattasse di una "presidenza'', questo titolo sarebbe stato � sto all'inizio della serie , con la profezia, il ministero o l'insegnamento. Invece lo si incontra al penultimo posto , tra chi dà� distribuisce e chi fa opere di misericor­ dia. Anche qui, il significato di prendersi cura , proteggere sembra adattarsi me­ glio al contesto». Intanto , perché , trattandosi di una lista di funzioni a servizio della comunità, privilegiare l'una in rapporto all'altra? L'intento di Paolo è di in­ sistere sull'unicità e organicità del corpo, emergente dalla complementarietà di tutte le membra, non certo di esaltare l'importanza di un membro in rapporto a un altro . Parallelamente, le funzioni di tutte le membra sono descritte nella loro comune convergenza verso l'unico scopo che è appunto l'edificazione dell'unico corpo. In tale ottica, sono considerate tutte sullo stesso piano di circolarità e convergenza, pur nella specificità del loro singolo apporto. Inoltre, perché collo­ care la presidenza accanto a profezia, ministero e insegnamento sarebbe stato più onorifico della collocazione accanto a «dare» e «fare opere di misericordia»? La lista di Rm 12 non sembra seguire un ordine di dignità, anzi non sembra pro­ prio presentare una lista di titoli ma, come nel nostro testo , solo di funzioni : ac­ canto all'indubbia preminenza della «profezia» , tuttavia non preceduta dalla più rilevante dignità di «apostolo» , c'è la genericità della diakonia , «ministero» , se­ guita dall'altrettanto generica funzione della didaskalia , «insegnamento» . Non siamo ancora alla gerarchica formulazione di Ef 4,1 1 : «Apostoli, profeti, evan­ gelisti , pastori, maestri». Più interessante ci pare lo sguardo alle ricorrenze del verbo proistamai nel­ l' AT (LXX) . Nei pochi casi in cui ritorna, il verbo assume entrambi i significati indicati . Oltremodo significativo il testo di 2Sam 13, 17, dove il verbo designa il servo come «colui che presiede, nel senso che ha cura della casa»: «(Amnòò, do­ po l'oltraggio ai danni della sorella Tamar) chiamato il giovane che aveva cura della casa (ton proestekota tou oikou autou) , gli disse: caccia fuori costei e spran­ gale dietro il battente !». In l Mac 5, 19, si tratta parimenti di «governare» ma sempre nel senso di «aver cura , proteggere» : «Governate questo popolo (proste­ te tou laou toutou) , ma non attaccate battaglia contro i pagani» . In conclusione, appare chiaro che i due significati, non solo non si contrappongono, ma anzi si richiamano reciprocamente. D'altronde , sia nell' AT che nel NT, c'è continuità perfetta nell'intendere il ruolo di autorità in seno al popolo di Dio nel senso di «prendersi cura, farsi carico, proteggere», esattamente come fa il pastore con il suo gregge, a immagine di Dio pastore prima , e di Gesù Cristo Signore , pastore grande delle pecore poi . Ma non è questo l'esplicito richiamo che viene fatto, nel nostro testo , dall'espressione «nel Signore» qualificante il titolo-servizio dei proistamenoi? La traduzione da noi proposta: «coloro che vi sono preposti nel Signore» vorrebbe farsi carico sia di detta pregnanza biblica del concetto di autorità, sia della fluidità della riflessione ecclesiale che , nel momento in cui Paolo scrive la presente lettera, è ancora tutta orientata all'individuazione più delle funzioni at­ te all'edificazione del suo corpo, che non all'attribuzione di precisi ruoli e di tito­ li connessi.

5,12

267

«Coloro che faticano in mezzo a voi» Abbiamo voluto iniziare la nostra ana­ lisi dal secondo participio, tous proistamenous, perché il più importante della triade e oggetto di maggiore attenzione da parte della critica . In realtà , questo che appare per primo orienta con precisione la lettura degli altri due. Il verbo kopiao è usato da Paolo per indicare prevalentemente le «fatiche» connesse al­ l'apostolato, un titolo-funzione di indubbia preminenza nella chiesa, fino a di­ ventarne prerogativa indiscussa. Già in 1Ts 2,9, Paolo , ricordando appunto la sua azione apostolica di evangelizzazione di Tessalonica, aveva aiutato i suoi a ricordare le sue «fatiche e sofferenze (ton kopon hemon kai ton mochthon)». E , poco oltre, i n 3 , 5 , ribadisce che s i è deciso a inviare presso d i loro Timoteo «per­ ché non fosse resa vana la sua fatica (ho kopos hemon)». In l Cor 1 5 , 10, a pro­ lungamento del noto testo kerygmatico e spinto dal desiderio di collegare la sua apparizione a quella di tutti gli apostoli , sapendo di fondare così la sua autorevo­ lezza apostolica , affermerà addirittura la superiorità di tale sua fatica in rappor­ to a quella degli stessi apostoli : «Ho faticato (ekopiasa) più di tutti loro, non io però , ma la grazia dì Dio che è con me» . Sulla qualità di tale fatica, espressiva dell'amore e riflesso della gratuità del dono divino, Paolo è altrettanto esplicito. In tutto l'arco del suo epistolario insi­ ste sulla disponibilità a donare la sua stessa vita per amore dei suoi fedeli , non ri­ sparmiandosi giorno e notte , affrontando ogni sorta di avversità. La forza che lo anima è una ferma speranza da lui espressa in Fil 2,16-17: «Nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato» . Tale dedizione alla fede egli propone all'imitazione dei credenti . Così, nella stessa lTs 1 , 3 , ko­ pos diventa nota qualificante l agape, «amore», dei tessalonicesi . E nel brano parenetico 4 ,9-12, la dura fatica del «lavoro fatto con le proprie mani», presup­ posto necessario per l'edificazione del segno della chiesa mediante l'amore. .

'

«E vi ammoniscono» , alla lettera: «rimettono ordine nello spirito». 245 Il riferi­ mento è al richiamo delle esigenze della conversione al Dio di Gesù Cristo , de­ nunciando tutte le possibili deviazioni (cf. l Ts 5 , 14). Il verbo , appartenente al linguaggio parenetico e spesso in connessione con «insegnare», cioè con l'attivi245 Nella LXX, il verbo nouthete6 (= noun thithhni, «porre nel cuore, nell'animo�) ha lo stes­ significato del greco comune: «correggere, influire su qualcuno correggendolo». In l Re 3,13, ren­ de kaha, «criticare, rimproverare»; in Gb 4,3, traduce invece jasar, «incitare ammonire>> . Così an­ che, parlando di Dio, in Sap 1 1 ,10; 12,2.26. Nel NT, noutheteo, nouthesia, ricorrono nell'ambiente paolino. Il sostantivo assume valenza pedagogica nel codice domestico di Ef 6,4: è la «parola di am­ monimento» che deve correggere, ma senza irritare e amareggiare. In 1Cor 10, 1 1 , sono gli stessi giu­ dizi divini ad assumere significato pedagogico-salvifico come esempi da tener presenti «per nostro ammonimento». Il verbo invece indica un compito e una funzione del pastore d'anime: I'«ammoni­ mento», in base al quale egli cerca di distogliere i fedeli dal male e di istillare nell'animo ciò che è giusto. Detto compito, che nel nostro testo è svolto dai pastori della comunità, in realtà deve essere svolto da tutti i membri, mediante l'opera del mutuo servizio fraterno, prendendosi cura gli uni degli altri (come si afferma subito dopo, in 1Ts 5 , 1 4 ; cf. Rm 15,14; Col 3 , 16). I vv . 12-13 sono stati oggetto di attento studio da parte di P.R. TRAGAN, «Un texte ancien sur l'organisation de I'Eglise, l Thess 5,12-13», in Stud. Anse/m. 61(1973) , 149-180. In genere, sui procedimenti e la terminologia parene­ tica di Paolo in lTs, la sua fedeltà alla tradizione e l'originalità della sua formulazione, cf. A.J. MAL­ HERBE, «Exortation in First Thessalonians», in NT 25(1983), 238-256.

so

268

Commento

tà di istruzione nella fede� indica un nuovo ruolo di coloro che detengono autori .. tà: mettere in guardia contro possibili ripensamenti o ricadute nel cammino di conversione. 13: « Trattate/i con stima (h�gheisthai) e con sommo amore, a causa della loro opera. Vivete in pace tra voi» . La n�ova proposizione retta, come la precedente, da «Vi preghiamo», dev'essere interpretata alla luce del contesto del brano. Co­ me il primo verbo eidenai, «riconoscere», veniva specificato dal suo complemen· to oggetto «i preposti nel Signore», così anche il nuovo verbo hegheomai, «COn· durre e/o stimare>>,246 trae pienezza di significato, oltre che dal medesimo com­ plemento oggetto , ora espresso dal pronome , anche dalla modalità di tale «com­ portamento»: «con amore», e dalla sua stessa motivazione : «a causa della loro opera». Ora, mentre il primo verbo si limitava a esortare al «riconoscimento», il nuovo verbo va oltre , insistendo sulla «Stima». In tal senso, esso è accostabile al­ l' espressione di Rm l ,28 echein en epignosei, «avere vera conoscenza». L'esercizio del ministero di coloro che detengono autorità, che faticano e che ammoniscono, non è certo facile . Per renderlo più fattibile , Paolo esorta tut·· ti ad avere nei loro confronti una sincera stima e un amore sovrabbondante. Quest'ultima componente non è definita dalla philadelphìa , «amore fraterno» , ma da quell ' agape che reca l'impronta dell'iniziativa stessa di Dio . Questa stima e questo amore, inoltre , non sono motivati da particolari doti appartenenti ai «preposti nel Signore», ma unicamente da to ergon auto n, cioè dal loro stesso ministero, indispensabile alla crescita della santa chiesa. Si comprende da ciò quanto importante sia la prerogativa di un mandato accolto ed esercitato «nel Si­ gnore». Cosl, vengono con chiarezza delineati i tratti che devono contrassegnare il rapporto autorità·fedeli all'interno della comunità cristiana. A una prima tria­ de che identifica il servizio ecclesiale di coloro che esercitano il compito della guida - la fatica, la presidenza, l'ammonizione - fa riscontro la triplice risposta dei fedeli : riconoscimento , stima, amore . v.

«Vivete in pace tra voi» . Il passaggio del nuovo verbo all'imperativo segna uno stacco con quelli precedenti e apre tutta una serie di imperativi che prose­ guiranno fino al v. 22. Ciò significa che l'esortazione dell'apostolo non si collega necessariamente alla trattazione precedente, non ha di mira cioè un'ipotetica 246 F. B'OcHSEL, «hegheomai» , in GLNT IV, 10-12, fa notare subito la duplicità di significati del verbo: l) «condurre, guidare», 2) «stimare, credere ritenere»; e precisa: «Nel primo significato il termine si presenta nel NT solo nel participio presente, mentre lo troviamo usato nella seconda ac­ cezione negli Atti , nelle lettere di Paolo, nel Pastore di Erma, nella lettera agli Ebrei, in quella di Giacomo, nella 2Pt; non lo si trova invece negli scritti giovannei, compresa l'Apocalisse». In riferi­ mento diretto a 1Ts 5,13, commenta: «L'espressione hegheisthai hyperekperissos va intesa (come in Thuc. 2,89 ,9 . . . ) ritenere, stimare come particolarmente importante. Non è necessario presumere che il valore medio ("giudicare'') abbia subito uno slitt amento in bonam partem, assumendo il significato di "stimare altamente" , quantunque ciò possa venir suggerito per analogia da eidenai del precedente v. 12. La disposizione delle parole non permette il collegamento hegheisthai en agape». È utile osser­ vare, infine, che con hegoumenoi si designano i capi della comunità (cf. Eb 13,7.17.24) .

5,14-22

269

composizione di dissidi istauratisi all'interno della comunità , per esempio tra «parassiti» e «impegnati nel lavoro» ai quali Paolo avrebbe ordinato di «fare pa­ ce». L'invito è a «conservare , mantenere la pace» quale valore fondamentale della comunità. Paolo vuole collocare .tutto l'insegnamento sul piano superiore di quella pace che è dono dall'alto , ma che esige piena disponibilità all'acco­ glienza e impegno fattivo per la sua continua crescita, perché origine e scopo della stessa comunità radunata dal Padre e arricchita dalla sovrabbondanza dei beni messianici del suo inviato. D'altronde, Gesù stesso aveva concluso il suo «insegnamento comunitario» con il medesimo invito : «siate in pace gli uni con gli altri» (Mc 9,50) . L'invito all'eirene («pace») ecclesiale, nella pienezza del suo significato, non può certo ignorare i «preposti» tema centrale dell'esortazione. La matrice cultu­ rale greca dei tessalonicesi non doveva certo vederli molto propensi ad accoglie­ re le direttive e, più ancora, gli «ammonimenti» di quei tali che erano stati pre­ posti alla guida di tutta la comunità. Considerando inoltre la giovane vita della chiesa di Tessalonica, e non essendoci nemmeno una tradizione ben consolidata in merito , era inevitabile che sorgessero contrasti, rifiuti , risentimenti. Il richia­ mo conclusivo alla pace , quasi direttamente emergente dall'esortazione sul cor­ retto modo di rapportarsi alle guide della comunità , raggiunge lo scopo di far in­ tendere che non può esistere pace in essa senza il necessario rispetto di coloro che sono garanti del segno della sua unità e della sua «comunione» . La stima, l'amore e la pace tra fratelli, proprio perché doni dall'alto, devono accomunare tutti i membri della chiesa santa di Dio , a partire da coloro che le sono stati «pre­ posti nel Signore». 7.

ESORTAZIONI COMUNITARIE CONCLUSIVE (5 ,14-22)

L'inizio del nuovo brano è identico a quello del brano precedente , con l'uni­ ca variante del verbo : «Vi esortiamo (parakaloumen)» al posto di «Vi preghiamo (erotomen)». L'esortazione è sorretta da una lista di imperativi - ben 14! - che ne connotano l'autorevolezza del tono e la varietà dei contenuti. L'insieme è tut­ tavia facilmente divisibile in due parti: vv . 14-15 e vv. 16-22, ognuna delle quali si conclude con una contrapposizione tra bene e male . Si legge infatti al v. 15: «nessuno renda a un altro male per male, piuttosto ricercate sempre il bene»; e ai vv. 21-22: «ritenete ciò che è buono . Astenetevi da ogni sorta di male». La prima parte concerne globalmente la vita cristiana quotidiana, la seconda prende in esame il raduno comunitario per il culto e la preghiera. Comune a en­ trambe è l'esortazione di Paolo alla fedeltà agli atteggiamenti proposti e l'invito alla necessaria relazionalità verso «tutti», «sempre», «incessantemente», «in ogni cosa» . Alcuni studiosF47 individuano una nuova motivazione per la divisione tra i vv. 14 15 e i vv. 16-22 . Ritengono cioè che gli inviti presenti nei primi due verset-

247 Giovanni Crisostomo, Teodoro di Mopsuestia, Teofilatto, Tommaso e, sulla loro scia, Bor­ nemann, Knabenbaur, Findlay, Vosté, Masson .. pensano che siano rivolti ai «preposti nel Signore». Ma la maggioranza degli studiosi ritengono che essi siano indirizzati a tutta la comunità.

Commento

270

ti siano rivolti, non a tutta la comunità, ma al gruppo dei responsabili già men­ zionati nei vv. 12-13. Non ci pare una tesi fondata. Intanto , già nell'avvio del brano ci si rivolge a tutti i fratelli ( credenti) . Inoltre , al v. 16 nessun indizio la­ scia supporre un possibile cambiamento di uditorio. Infine , Paolo rivolge questa sua lettera, come tutte le altre , direttamente alla comunità ecclesiale, per com­ pletare la sua opera di evangelizzazione mediante l'ammaestramento e la pare­ nesi. Normalmente non si rivolge mai a un gruppo particolare di ministri. Anche se certi compiti sono assolti da alcuni, il loro ministero è considerato come assol· to dalla chiesa nel suo insieme. =

5,14 Vi esortiamo, fratelli, correggete gli indisciplinati, incoraggiate i pusillanimi,

sostenete i deboli , siate pazienti con tutti.

15 Guardate che nessuno renda a un altro male per male, piuttosto ricercate

sempre il bene vicendevole e verso tutti . 16 Siate sempre lieti. 17 Pregate senza interruzione. 18 In ogni cosa, rendete grazie. Questa è la volontà di Dio a vostro riguardo, in Cristo Gesù. 19 Non spegnete lo Spirito. 20 Non disprezzate le profezie. 21 Esaminate ogni cosa: ritenete ciò che è buono. 22 Astenetevi da ogni sorta di male.

a.

Esortazioni per la vita cristiana (vv. 14-15)

14: «Correggete gli indisciplinati». Il termine ataktos, hapax nel NT, indica «chi è al di fuori dell'ordine ; indisciplinato)) . Nella koine , l'uso del verbo atak­ teo, dell'aggettivo ataktos e dell'avverbio ataktos è costante nell'indicare ogni ti­ po di trasgressione del dQvere, il disordine della vita in generale. Spicq , dopo averne esaminato brevemente l'uso in Filone, nel linguaggio militare; politico e morale , conclude : «Ataktos è in definitiva chi è difettoso nell'azione, irregolare, contro la norma ; e siccome, nella vita cristiana , !"'ordine" è fissato da Dio o dai capi della chiesa ,- l'irregolarità può indicare sia una nota discordante , sia un'in­ frazione della legge e un disordine morale . . . Si può pensare a mancanze contro la carità fraterna, a tendenze che fomentano la discordia, al rifiuto di accettare gli usi e la disciplina della chiesa)). 248 v.

248

SPJCQ, Notes, 159. Nel NT l'aggettivo si trova solo nel nostro testo , l'avverbio in 2Ts 3,6. 1 1 3,7. Nelle due lettere, il riferimento è all'agire umano, specialmente alla sfera etica, e anche a quella politica nel senso più ampio del termine. Si tratta - come accennato sopra - di «colui che si pone al di fuori dell'ordine necessario e stabilito». Il significato specifico del verbo: «astenersi dal lavoro», attestato anche al di fuori del cristianesimo, non sottolinea tanto la pigrizia, quanto «il comportamento disordinato rispetto all'obbligo» del lavoro. La TOB (nota ee) osserva: «Le sens de ce terme est difficile à préciser. Il est possible que Paul vise ici ceux qui ne travaillent pas . . . ; ou bien des gens qui vivent dans I'agitation en pensant que la venue du Seigneur est imminente». A Qumran, «la svogliatezza nel servizio della giustizia)) (alla lettera: «la debolezza delle mani nel servizio))) è menzionata come secondo frutto dello «Spirito d'ingiustizia)), subito dopo la superbia e prima del­ l'empietà e menzogna ( lQS 4,9) . e il verbo i n 2Ts

5,14

271

«Incoraggiate i pusillanimi». Composto dal raro verbo denominativo my­ theomai, «parlare, raccontare , conversare» , e dal prefisso para , il verbo para­ mytheomai assume , in epoca ellenistica, il significato di «consigliare, incoraggia­ re , consolare, rappacificare» in situazioni di prova, di difficoltà, di dispiacere . In questo senso , molti giudei di Gerusalemme erano venuti da Marta e Maria per consolarle in occasione della morte del loro fratello (hina paramythesontai. . . ; Gv 1 1 ,19.31). Nel linguaggio paolino, il verbo e i sostantivi derivati hanno signi­ ficato tecnico, indicativo della parenesi a base dottrinale, e fonte di persuasione e di incoraggiamento . Già in 1Ts 2,12 avevamo incontrato: «Abbiamo esortato, incoraggiato ( kai paramythoumenoi) e scongiurato perché vi comportiate in ma­ niera degna del Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria» . Con ciò , l'apo­ stolo non solo aveva collocato nel suo naturale contesto la paramythia , ma l'ave­ va al tempo stesso individuata in quel modo di parlare dolcemente , con calma, che rassicura e pacifica, particolarmente atto ad appianare i contrasti all'interno della comunità. In 1Cor 14,3, dirà che il profeta, per il suo stesso carisma, dispo­ ne di una forza divina di persuasione, che contribuisce a costruire solidamente la chiesa cristiana: «Chi profetizza, invece, (contrariamente a «chi parla con il do­ no delle lingue») parla agli uomini per loro edificazione , esortazione e conforto (kai paramythian)». Nel nostro testo, tutti i fratelli devono farsi carico di tale , delicata ma decisi­ va opera d' «incoraggiamento» nei confronti di coloro che sono qui designati col termine oligopsychoi, «i pusillanimi» , anch'esso hapax nel NT, ma frequentissi­ mo nella LXX . 249 Si tratta di «pusillanimi o timidi», vittime della paura , del dub­ bio , degli scrupoli , o che mancano di fortezza dinanzi alle difficoltà della vita quotidiana o nelle persecuzioni . Il testo di Is 57 ,1S, molto vicino al nostro, può illuminare il senso profondo della parenesi paolina: «Così parla l'Alto e l'Eccel­ so : . . . In luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati , per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi (kai oligopsychois didous makrothymian)». Per Paolo , chiamato da Dio fin dal seno materno a essere apostolo del suo vangelo , si tratta dunque di continuare a svolgere l'azione stessa di Dio manifestatasi nell'opera del suo Figlio unigenito, inviato quale medico a curare non i sani ma i deboli e i peccatori. 249 n termine oligopsychoi è piuttosto vago. «Pusillanimi» sono da intendere anche quelli che

si creano preoccupazioni

immotivate secondo 4, 13, ma soprattutto quelli che si perdono d'animo di­ nanzi alle tribolazioni della comunità. In tal senso, differiscono dagli astheneis, «deboli», che verran­ no subito menzionati , ma che sembrano più chiaramente definiti in rapporto alla fede. Nel testo da noi citato di CD 13,10, si dice che compito del mebaqqer è anche quello di «sciogliere tutte le catene che avvincono» i suoi figli �affinché non vi sia più oppresso né affranto»: ci pare che queste categorie di persone rientrino nella semplificazione paolina del nostro testo. Anche nella Regola della comuni­ tà si ribadisce lo stesso concetto della forza/debolezza, sia al negativo che in positivo: «Il sostegno della mia destra è su di una solida rupe: la via dei miei passi non vacillerà davanti a nulla. Giacché proprio la verità di Dio è la rupe dei miei passi, e la sua potenza il sostegno della mia destra» ( 1 1 ,4-5); mentre poco prima aveva affermato: «Con un consiglio accorto nascondo la conoscenza, e con astuta conoscenza la circondo di una siepe come solida frontiera per custodire la fedeltà e un ro­ busto giudizio verso la giustizia di Dio. Suddivido lo statuto secondo la misura dei tempi . . . giustizia, amore benigno verso gli scoraggiati e mani forti verso quelli dal cuore timido, per insegnare l'intelli­ genza agli spiriti smarriti» (10,25- 1 1 , 1a).

272

Commento

«Sostenete i deboli» . n verbo antechomai, usato nel greco biblico sempre allo stato medio e seguito dal genitivo delle persone , conserva il significato base di «tener davanti, tener fermo , reggere , sostenere». Frequente è anche l'uso meta­ forico. 250 La categoria di credenti bisognosi di «sostegno» è quella degli asthe­ neis, «senza vigore, deboli , fiacchi, infermi». Anche qui , il significato è metafo­ rico , come si evince dalle trattazioni di lCor 8-9 e Rm 14-15. Si tratta di coloro che non riescono a tradurre, con la necessaria fortezza d'animo, la fede in vita. La gamma di significati diventa così molto ampia, abbracciando sia i cristiani de­ boli nella fede perché ali 'inizio del loro cammino , e quindi ancora bisognosi di un più intenso ammaestramento , sia coloro che , pur già progrediti nella fede, trovano una pietra d'inciampo nell'attuale orientamento della chiesa. Il dono in­ novatore dello Spirito ha, infatti , determinato la rottura di ogni barriera e l'a­ pertura di orizzonti di un'ampiezza insospettata. Così , non pochi cristiani si sen­ tono frastornati da quello che ritengono un eccesso di libertà cristiana. Alcuni di loro sono tormentati da una coscienza angusta, tendente allo scrupolo, ma, sul versante opposto , possono esserci anche coloro che non hanno ancora definiti­ vamente tagliato i ponti con un passato di tipo giudaico o pagano , e quindi sono bisognosi di una più profonda conversione. In ogni caso, Paolo insisterà sempre perché la comunità si faccia carico delle loro difficoltà e non pervenga mai ad as­ sumere nei loro confronti un atteggiamento di disprezzo o di sufficienza. In forza di tale sua ampiezza semantica , il termine asthenes finirà per assu­ mere in Paolo un significato inaspettatamente positivo, con valenze cristologi­ che e soteriologiche , riferito cioè a Cristo-Servo crocifisso per la sua debolezza e divenuto , per ciò stesso, salvatore dell'umanità . Siamo convinti che proprio det­ to uso cristologico ha consentito , inoltre , l'autoapplicazione del termine da par­ te dello stesso Paolo. Con ciò, egli ha inteso collocare il suo stesso apostolato nell'ottica della «debolezza» della croce , antitetica a ogni sapienza umana. Di 250 Antechomai nel senso di «)))'endersi cura» è presente nella LXX, e sempre allo stato medio, seguito dal genitivo, col significato di «tener davanti a sé» nel proprio interesse, «a propria difesa». Ma ha anche il significato di: «interessarsi a, darsi da fare per» e soprattutto «tener fermo» (cf. per esempio: Dt 32,41 ; Pr 3,18; Sof 1 ,6). Anche nel NT il verbo compare solo allo stato medio, ma con 1o spostamento di accento dal proprio interesse a quello altrui. In Tt l ,9, con oggetto di cosa, signifi­ ca «darsi da fare per, prendere a cuore», nel caso specifico la predicazione , con fedele conformità al­ la dottrina tramandata. Così, in H. HANSE, «antecho>> in GLNT III, 135 1 . A Oumran è i l «maestro d i giustizia» che h a i l preciso compito d i «prendersi cura» della comu­ nità. In riferimento agli elementi più bisognosi della sua assistenza, cf. lQH 2,8-10: «Hai reso saldi i miei passi nel dominio dell'empietà . . . sono diventato una medicina per tutti coloro che si convertono dall'iniquità, prudenza per i semplici e carattere saldo per quanti hanno il cuore incostante>> . In lQH 8,36-37 è sempre il «maestro di giustizia» che, prostrato dalla prova, ritrova in Dio la forza di poter affrontare la sua missione nei confronti dei suoi discepoli: «Avevi fortificato la lingua nella mia boc­ ca, essa non si ritrasse , e nulla poté far tacere la voce . . . poiché mia è la lingua dei discepoli per fare rivivere lo spirito dei vacillanti, per sostenere con la parola colui che era debole». L'accostamento con Gesù, il Maestro per eccellenza, diventa suggestivo in 1QH 18, 12-15: «Hai aperto la mia fonte per rimproverare alla creatura d'argilla la sua vita , e le colpe di colui che è nato da donna . . . per apri­ re la tua fonte di verità alla creatura che hai sostenuto con la tua potenza, affinché essa sia in confor­ mità della tua verità, messaggero della tua bontà annunziando la buona novella ai poveri secondo l'abbondanza delle tue misericordie . . . consolando quanti hanno lo spirito contrito e sono afflitti, con la gioia eterna». Cf. anche i testi riguardanti il compito del mebaqqer e/o paqfd da noi citati.

5,15

273

più , ha voluto egli stesso farsi «debole con i deboli» esattamente come Cristo, per modellarsi sul suo esempio e riproporre, nella testimonianza della sua vita, l'icona del Cristo crocifisso. Il testo di lCor 9,19-23 - come abbiamo dimostrato in un nostro recente studio251 - fornisce un indizio molto forte in tal senso. «Siate pazienti con tutti» . A chiusura del v. 14, l'esortazione paolina si sgan­ cia dalle categorie di persone che hanno bisogno di cure particolari e si estende a tutti . Rigaux fa un'ampia trattazione dell'area semantica makrothymos , ma­ krothymeo, makrothymia, in quanto espressione del concetto anticotestamenta­ rio della «pazienza di Dio» che si colloca tra la «collera di Dio» , frutto della sua giustizia, e la sua «grazia», effetto della sua bontà. Dio è paziente perché perdo­ na, e la letteratura sapienziale esorta gli uomini a fare altrettanto. Nella lettera­ tura neotestamentaria, i sinottici - prosegue l'autore - hanno ripreso il termine e l'idea: in M t 18,23-25 , nella parabola del servo spietato , si invoca la pazienza mi­ sericordiosa del padrone , e in Le 6,36-38 si invita a essere misericordiosi come è misericordioso il Padre , a perdonare per essere perdonati, a dare per ricevere in misura sovrabbondante. Ma è soprattutto Paolo che, più degli altri , si appropria del termine makrothymia (10 volte su 14) , senza fargli perdere il collegamento con la «collera di Dio» (cf. 2 Cor 6,6) ; in connessione con «bontà» e «pazienza>> (cf. Rm 2,4) . Viene anche ribadito che «la pazienza di Dio deve diventare la pa­ zienza dei cristiani non per virtù o sapienza umana, ma come partecipazione a una qualità divina . Essa è infatti un frutto dello Spirito (Gal 5,22) ; è caratteristi­ ca dell'agape (lCor 13 ,4) ; è qualità dell'apostolo (2Cor 6,6) , insieme a «cono­ scenza» e «bontà» (Gal 5 ,22)».252 A conclusione della sua indagine , Rigaux sottolinea, a ragione, che questa terza espressione della parenesi paolina affonda le sue radici nell'AT, come d'al­ tronde le prime due. Trattandosi pertanto di consigli generali , essi fanno parte della predicazione ordinaria di Paolo, che li ha collocati nel contesto escatologi­ co del suo insegnamento. v. 15: «Guardate che nessuno renda a un altro male per male, piuttosto ricercate sempre il bene vicendevole e verso tutti» . ll v. 15, direttamente collegato al prece­ dente , ne sviluppa l'esortazione conclusiva , riproponendola nei noti termini evangelici antitetici. In realtà, è uno di quei passi che accostano decisamente Paolo alla tradizione delle «parole di Gesù», nel caso concreto all'insegnamento centrale sull'amore , programmaticamente formulato nel discorso della monta­ gna: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori . . . Se amate quelli che vi amano , quale merito ne avrete? Non fanno così anche i pubblicani? . . . Sia­ te perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 43-48). Paolo ritornerà sullo stesso tema , e con i medesimi termini, in Rm 12, 17-21 : «Non rendete a nes­ suno male per male . . . Non fasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il ma-

251

252

IoviNO, 4> ; «voi-pubblicani>> . Per Paolo in­ vece, il comportamento morale ruota attorno alla contrapposizione tra to aga­ thon, «il bene»; e to kakon, «il male» , ferma restando la decisa esclusione evan­ gelica della legge del taglione , qui espressa non dal generico «non odiare», ma dal più concreto «non rendere>> . Inoltre l'apostolo, ben consapevole che tale esclusione può avvenire solo mediante l'assunzione del modello di comporta­ mento divino , ha voluto agganciarla alla fonte stessa dell'agire misericordioso di Dio cioè la sua makrothymia .253 Con to kakon, «il moralmente cattivo» , si esclude quindi la ritorsione di tut­ to ciò che di male si è ricevuto, in quanto ispirato dalla cattiveria umana e con­ trario all'esigenza comunitaria fondamentale: il perdono delle offese. Con to agathon , «il moralmente buono>> , si stimola a porre tutte le proprie energie nei confronti dell'amore e delle sue caratteristiche di universalità e d'imparzialità, come necessaria apertura, non soltanto ai fratelli nella fede, ma a tutti gli uomi­ ni. L'espressione «ricercate sempre» sottolinea con forza la tensione che il cri­ stiano deve porre nella ricerca instancabile di commisurare il suo agire concreto al dono che gli è stato affidato dall'alto ,254 perché questo scopo fondamentale della sua esistenza credente cresca sempre più e porti frutti di vita eterna. b.

La comunità radunata in assemblea cultuale (vv. 16-22)

vv. 16-18: «Siate sempre lieti. Pregate senza interruzione. In ogni cosa, rendete grazie. Questa è la volontà di Dio a vostro riguardo, in Cristo Gesù». La seconda 253 Sulla «longanimità» come manifestazione dell'amore di Dio per i suoi fedeli, la comunità di Qumran ha elaborato testi di grande intensità, anche dal punto di vista poetico. Cf. 1QH 9,29-34. «Da mio padre tu mi hai conosciuto, dal seno tu mi hai chiamato, dal ventre di mia madre hai prov­ veduto a me, e dalle mammelle di colei che mi ha concepito la tua misericordia fu su di me . . . Il tuo giusto rimprovero accompagna la mia trasgressione . . . I miei passi sono accompagnati da abbondan­ za di perdoni, v'è una moltitudine di misericordie, allorché compi in me il tuo giudizio» . Cf. anche CD 2,4; «Dio ama la conoscenza e pone davanti a sé la sapienza e la saggezza . . . presso di lui è la lon­ ganimità e l'abbondanza di perdoni». L'uomo, a sua volta, deve praticare la longanimità: 1QS 4,3: «Lo spirito di verità illumina il cuore dell'uomo, appiana davanti a lui tutte le vie della vera giustizia, infonde nel suo cuore il timore dei giudizi di Dio, lo spirito di umiltà e longanimità, abbondante mi­ sericordia ed eterna bontà . . E in merito alla misericordia da usare all'interno della comunità, cf. il testo di lQS 5,26-6, 1 , da noi già compiutamente citato proprio per le forti assonanze evangeliche dell'insegnamento sulla carità: «Nessuno parli al suo fratello con ira . . . o con c�ore duro o con spirito malva o . Non lo deve odiare nell'incirconcisione del suo cuore . . . ». Il verbo dioko ha lo stesso significato di «perseguo, ricerco» in Rm 14,19: «Diamoci alle opere della pace e all'edificazione vicendevole» (cf. anche 9,30; 12,13); 1Cor 14, 1 : «Ricercate la ca­ rità»; Fil 3 , 12: «Mi sforzo di correre per conquistarlo (il premio)». Tuttavia, nelle ricorrenze neote­ stamentarie prevale il senso «perseguitare», riferito alla persecuzione religiosa che comporta la col­ pa dei persecutori (cf. Mt 10,23 ; 23,34; Gal 1 , 13; 1Ts 2,15). Connota pure la possibilità, per i perse­ guitati, di dar buona prova di sé (cf. 1Cor 4,12; 2Cor 4,9; Gal 5 , 1 1 ) . L'oggetto del dioko è dunque «il bene vicendevole e verso tutti». Identiche esortazioni Paolo rivolgerà ai romani: «Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene verso tutti gli uomini . . . Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male» (Rm 12,17.21). Anche la comunità di Qumran si è espressa in ter.

g!

».

5,16-18

275

parte del brano si apre· ·con una nuova triade di prescrizioni presentate come espressioni della volontà di Dio. La prima definisce il tono di «gioia» che devono assumere le riunioni assembleari , le altre due riguardano la «preghiera». Lo stacco con le precedenti esortazioni è rilevante: si passa dal predominio dell'a­ zione a quello della interiorizzazione. L'agire cristiano, per quanto necessaria­ mente proiettato all'esterno, non può disattendere il momento altrettanto deci­ sivo del lavorio interiore che ne costituisce come l'ambiente vitale di sostegno. Nella lotta tra bene e male, il credente può attingere forza e costanza solo nel suo porsi in atteggiamento orante dinanzi a Dio come unica fonte della sua pace e della sua gioia. In tal senso, riteniamo decisivo , dal punto di vista ermeneuti­ co , il richiamo della «volontà di Dio» . Gli atteggiamenti proposti da Paolo svela­ no tutta la ricchezza del loro significato se colti nell'ottica di Dio, se letti come espressione diretta del suo volere salvi fico , se visti insomma come ultima proie­ zione di quel dono dall'alto del quale si è fatto più volte menzione in questo no­ stro brano.

v. 16: «Siate sempre lieti» . La «gioia in ogni circostanza» appare dunque CO· me la prima caratteristica di un'assemblea cultuale. Paolo vi ha fatto ampio rife­ rimento nell'arco di questa stessa lettera (cf. 1 ,6) , consentendo l'esatta indivi­ duazione dei suoi intrinseci connotati: è la gioia di essere radunati dalla parola di Dio accolta nella fede ; la gioia di esperimentare l'azione sconvolgente dello Spi­ rito, di perseverare nella speranza e di amare fratelli e nemici . Ma è soprattutto «la gioia dello Spirito santo» provata «in mezzo a grande tribolazione», perch� consente di fare personale esperienza dell'incorporazione alla morte di Cristo, e quindi di potere motivatamente sperare nella compartecipazione alla sua gloria. Il «Sempre» non lascia dubbi sul carattere permanente di tale qualifica, distin· guendola nettamente dall'esaltazione emotiva, necessariamente passeggera, di un sentimento soltanto umano. vv. 17-18: «Pregate senza interruzione. In ogni cosa rendete grazie: questa è la volontà di Dio a vostro riguardo, in Cristo Gesù». Conformemente alla menta­ lità semitica, Paolo esprime il concetto di globalità accostando tempo e spazio. La dimensione spazi al e , precedentemente sottolineata dal «sempre» con riferi­ mento alla gioia, viene adesso ripresa da «in ogni cosa», ed è subito accostata a quella temporale , «senza interruzione»: questa volta, entrambe riferite alla pre­ ghiera . Un simile raccordo era già avvenuto nell'azione di grazie di questa lette­ ra (cf. 1 ,2) . La preghiera «incessante» diventa così atteggiamento qualificante in toto l'esistenza cristiana e somma concretizzazione della gioia del credente .255

mini analoghi: «A nessuno restituirò la ricompensa del male, ma perseguirò l'uomo con il bene» (lQS 10, 17-18); «Si ammoniranno l'un l'altro con verità, umiltà e amore benevolo verso ognuno» ( l QS 5 ,25) . 255 La centralità della preghiera nella vita di Qumran è un dato di fondamentale importanza. La stessa produzione letteraria degli Inni ne è segno inconfondibile. Sulla necessità della preghiera che informi pienamente la giornata, oseremmo dire - come sopra - la totalità del tempo e la globali­ tà dello spazio , rinviamo alla lettura di 1QS 9,26 -1 1 ,22, che citiamo solo in parte: «Nell'afflizione e nel bisogno benedirà (la persona piena di zelo) il suo fattore e in ogni evenienza celebrerà le sue ge­ sta; lo benedirà con il tributo delle sue labbra, in conformità dei tempi stabiliti da lui. All'inizio della

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Commento

Ciò è in sintonia perfetta con la mens del brano, interamente dominato dalla prospettiva dinamica del dono accolto che dev'essere continuamente richiesto perché, nella dialogicità della preghiera, il piano salvifico di Dio giunga a compi­ mento per ognuno , in ogni luogo e in ogni tempo. Infatti, gioia , preghiera e azione di grazie sono «la volontà di Dio , in Cristo Gesù».256 L'intensità dei due avverbi non vanifica certo la ritmicità della preghiera. È probabile che la comunità primitiva abbia fatto propria l'usanza giudaica, prati­ cata dallo stesso Gesù, di santificare la giornata mediante la ripetizione della preghiera al mattino , a mezzogiorno e alla sera. Che poi questa preghiera si tra­ sformi in «ringraziamento» è normale per una comunità (eis hymas) condotta amorevolmente a fare continuamente esperienza della provvida vicinanza di Dio Padre , dell'intercessione del suo Signore e degli innumerevoli doni dei quali la colma il santo Spirito. Touto, «questa» , che apre la frase conclusiva non solo del v. 18 ma di tutta la triade di esortazioni, conferisce unità all'insegnamento . L'orientamento del cri­ stiano , nel suo operare e nel suo pregare , è totalmente rivolto a Dio. Egli è chia­ mato fondamentalmente a «fare questa volontà» , a ricercarne le espressività, ponendosi sulla stessa lunghezza d'onda del Cristo suo Signore . In lui, infatti, ta­ le volontà si è pienamente ed emblematicamente manifestata ; tramite la sua ob­ bedienza, l'umanità intera ha dichiarato la sua disponibilità ad accoglierla ed è stata quindi santificata. dominazione della luce, durante il suo giro, e allorché si ritira nel soggiorno assegnatole, all'inizio delle veglie delle tenebre. . . all'ingresso dei tempi stabiliti per i giorni della luna nuova . . . All'inizio degli anni e nel giro dei loro tempi stabiliti. . . Durante tutta la mia esistenza uno statuto è scolpito sulla mia lingua: quale frutto di lode e compito delle mie labbra, voglio cantare con sapienza! Tutto il mio canto sarà per la gloria di Dio . . . All'ingresso del giorno e della notte voglio entrare nel patto di Dio e all'uscita della sera e del mattino pronunciare i suoi statuti. . . Quando mi siedo e quando mi alzo e quando giaccio sul mio letto voglio gioire per lui e benedirlo». 256 Il termine thelema riferito a Dio è ampiamente presente nella LXX, dove traduce spesso l'ebraico /Jp,�: in Sir 43 , 1 6 e Dn 4,35, è applicato al governo della creazione; in Sal 39,9; 1 02,2 1 ; 1 42,10, s i riporta l a formula: «fare l a volontà d i Dio», in 1 Mac 3,60, c'è u n interessante parallelo con la nota domanda del Pater. Sembra tuttavia che sia stato soprattutto l'uso rabbinico del tema e della formula citata, ad influenzare la terminologia neotestamentaria. La volontà di Dio è detta dai rabbi­ ni r�wn, e una formula costante della sinagoga è: «fare la sua (di Dio) volontà» o «fare la volontà del Padre dei cieli». Infine, nome, volontà e signoria ricorrono all'inizio della preghiera Qaddish (cf. STRACK-BILLERBECK, Kommentar, l, 467) . Nella riflessione paolina, il concetto neotestamentario della volontà di Dio quale eterno decreto di salvezza, è espresso mediante la preposizione kata. Co· sì , l'offerta di Cristo per i nostri peccati e tutta la sua opera di redenzione sono «secondo» la volontà di Dio. La densità teologica della suddetta preposizione verrà in seguito valorizzata nell euloghia di Ef 1 ,3-14. Qui, lo schema teologicamente completo è costituito dalla triade di preposizioni : en (in Cristo, il mediatore), kata (secondo la volontà di Dio, origine pretemporale della salvezza) ed eis (a lode della sua gloria) . Il rinvio a detta volontà fatto nei nostri testi di lTs, e quindi nella prima pro­ duzione letteraria neotestamentaria, sembra scartare volutamente l'individuazione di ciò che Dio concretamente vuole (da notare addirittura l'assenza dell'articolo) ; si presuppone, infatti, che que­ sta volontà non costituisca affatto un mistero: essa non può non orientare l'impegno del credente al­ Ia ricerca della glorificazione di Dio, che coincide appunto con la sua «Santificazione» . L a Regola della comunità d i Qumran, fin dall'inizio, colloca l a «volontà d i Dio» a l centro della sua proposta spirituale: «Tutti coloro che sono generosi verso la sua (di Dio) volontà, apportino tut­ to il loro sapere, il loro lavoro e i loro beni nella comunità di Dio, affinché nella fedeltà agli statuti di Dio sia purificato il loro sapere, il loro lavoro sia regolato nella perfezione delle sue vie, e i loro beni siano utilizzati secondo il disegno della sua giustizia» ( 1 , 1 1-13). '

5,19-22

277

Per tale motivo, Paolo sta richiamando per ben due volte il tema della «VO­ lontà di Dio» . Una prima volta in 4,13, accostato al tema centrale e globale della santificazione che ogni credente deve perseguire mediante un agire conforme al suo essere, cioè al suo status di santità sacramentale. Adesso, per avvertire che tale ricerca non deve essere intesa come iniziativa autonoma del credente , bensi come azione congiunta, dell'uomo che opera , gioisce , prega e ringrazia, e di Dio che vede , ascolta e risponde . Asse portante della struttura dialogica dell'uomo redento è Cristo Gesù, il cui ruolo è qui considerato nella globalità della historia salutis. La preposizione en accompagna e qualifica sempre in Paolo la mediazio­ nalità cristologica ; eis , normalmente riferito a Dio o a Cristo stesso quale orien­ tamento e meta del cammino credente , qui è invece riferito alla comunità (eis hymas), a sua volta scopo e sbocco dell'azione salvifica di Dio. 19-22: �Non spegnete lo Spirito. Non disprezzate le profezie. Esaminate ogni cosa: ritenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni sorta di male» . Cinque brevi frasi, ben legate tra loro, spostano l'insegnamento paolino sul campo delle mani­ festazioni dello Spirito . L'unità di forma e di contenuto è data dalla struttura an­ titetica di tutto il periodo : a due frasi negative , introdotte da me, «non», se ne contrappongono altre tre introdotte da de, «ma, invece , piuttosto». Parallela­ mente , i termini tematici delle prime due frasi: «Spirito» e «profezia» , e i verbi delle altre tre : «esaminare», «ritenere», «astenersi», ne dimostrano la conver­ genza tematica. Non è difficile scoprire lo Sitz im Leben della nuova esortazione . Paolo scri­ ve da Corinto, dove i fenomeni carismatici stavano diventando elemento qualifi­ cante la stessa identità della comunità ivi radunata. Egli stesso faceva frequente esperienza dei pregi e dei limiti di una simile, dirompente novità, e se ne farà portavoce fermo e deciso nella sua corrispondenza con quella comunità (cf. 1Cor 12- 14) . Ma , già all'inizio di questa lettera, facendo memoria dell'evangeliz­ zazione di Tessalonica, egli ha tenuto a ricordare innanzitutto il ruolo svolto dal­ la «Parola», dalla «potenza» e dallo «Spirito santo». Quindi, l'esperienza pneu­ matica contraddistingueva un po' tutte le comunità paoline , le quali , come erano accomunate da quella esperienza sconvolgente , potevano anche esserlo dai con­ nessi equivoci , deviazioni , abusi. È un dato di fatto che , a Tessalonica come a Corinto , Paolo insista sul medesimo criterio valutativo: panta de dokimazete, «esaminate tutto». Il risultato di tale discernimento può essere, ovviamente , du­ plice : buono o cattivo ; da qui , la necessità dell'opzione : bisogna scartare il male , ciò che è difforme dallo Spirito, e riconoscere il bene quale suo frutto . vv.

vv. 19-20: Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie» . Il significato proprio di sbennumi, hapax nel NT, è «spegnere il fuoco» . La LXX lo sua fre­ quentemente in senso metaforico per indicare l'idea di «distruggere , fare scom­ parire , disperdere» una discendenza (cf. 2Sam 14,7; Pr 10,7) , la prosperità (cf. Gb 1 8 ,5), il pensiero e la retta ragione (cf. Sap 2,3) , l'amore (cf. Ct 8,7) . Ma «Nessuno di questi usi - precisa Spicq257 - illumina il nostro testo. Secondo il 257

SPicQ,

Notes, 190.

278

Commento

contesto, si tratta dei carismi e l'imperativo pre"sente in forma negativa prescri­ verebbe di togliere l 'interdizione fatta agli ispirati di comunicare quanto hanno ricevuto dallo Spirito santo. Ma il singolare to Pneuma, «lo Spirito», non riguar­ da i carismatici, ma lo Spirito santo in persona, o meglio la sua ispirazione, che è come una fiamma luminosa e ardente». Spegnere lo Spirito equivale dunque a opporsi alla sua creatività che si esprime attraverso la manifestazione dei suoi carismi. Ciò accade, in particolar modo , quando subentra il disprezzo della pro­ fezia.258 La seconda esortazione, «non disprezzate la profezia» , si configura, dal pun­ to di vista letterario, come secondo membro di un parallelismo, i cui elementi ·«Spirito e profezia», «spegnere e disprezzare», richiamandosi reciprocamente , aiutano a comprendere compiutamente l'insegnamento paolino. Così , se la «profezia» viene individuata come espressione somma della presenza dello «Spi­ rito», l'azione del verbo «tenere per nulla; disprezzare» , aiuta a specificare il senso generico di «spegnere». Appare chiaro , pertanto , che qui Paolo non intende parlare acriticamente di ogni possibile manifestazione carismatica, ma esplicitamente della «profezia». Parallelamente , la sua insistenza sul «non spegnere» , interpretato dal «non di­ sprezzare» , può essere motivata dal minore interesse che la profezia riscuoteva rispetto a carismi più spettacolari, e certo meno rigorosi ed esigenti, quali la glossolalia. Pertanto, «profezia» equivale qui a «discorso parenetico» pronun­ ziato da colui , che è stato investito dal carisma profetico.259 Sull'argomento, co­ m'è noto, l'apostolo si soffennerà a lungo in 1Cor 12-14, ribadendo l'assoluta centralità dell'orientamento all'edificazione ecclesiale di ogni carisma, e formu­ lando un principio al quale si atterrano tutte le chiese: «Le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti , perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace» (lCor 14,32) . 258 Nel NT il verbo si incontra 6 volte, di cui 3 con senso proprio ( Mc 9,48; Mt 25,3; Ef 1 1 ,34) , 2 con senso metaforico (Mt 12,18-21 ; Ef 6,16), 1 con senso traslato: il nostro testo. A proposito di quest'ultimo, nota F. LANG, «sbennymi», in GLNT XI, 1440: «pneuma in questo caso è il concetto generale che comprende svariate forme particolari, per esempio profezia (v. 20) e glossolalia, e indi­ ca le manifestazioni straordinarie dello Spirito. Sbennymi significa in senso traslato "reprimere , limi­ tare" . . . Paolo ammonisce di non reprimere coscientemente gli effetti straordinari dello Spirito nella comunità». Abbiamo dimostrato in precedenza che, dal nostro punto di vista, l'interpretazione deve riguardare soprattutto quel tipo di presenza dello Spirito che è a fondamento della comunità (ascolto e accoglienza della Parola) e che ne determina l'edificazione o la crescita (il dono della profezia in particolare). Sull'aspetto escatologico della vita del cristiano in relazione alla presenza dello Spirito cf. M. DE MERODE, «L'aspect eschatologique de la vie et de l'Esprit dans les épitres pauliniennes», in EThL 51(1975) , 96- 1 12. L'autore degli Inni di Qumran cosl prega: «Dalla tua intelligenza, io so che è grazie al tuo be­ neplacito che io sono entrato nel tuo patto, che mi hai purificato per mezzo del tuo Spirito santo . . . » (14, 13). L'espressione «Spirito santo» o «Spirito di santità» ritorna negli Inni ancora in 16,2.7.12; 17,26; 7,6-7; 9,32; 12,12. A Qumran come nell'AT (cf. ls 6,10. 1 1 ; Sal 51 , 1 3 ; Dn 4,8.9. 18; 5,12; 6,4; Sap 1 ,5; 7,22; 9,17 ecc. ) e negli apocrifi (Giub. 1 ,21 ; Test. Neft. 10, 1 1 ; Salmi Sal. 17,42; 4 Esdr. 14,22) , indica l'azione santificatrice di Dio. 259 Cf. ZERWICK, Analysis, in loco. ScHLIER, L,apostolo, 1 14, precisa, a sua volta, che il signifi­ cato di exoutheneo, usato nel NT solo in Luca (3 volte) e Paolo (8 volte: Rm 14,3. 10; 1Cor 1 ,28; 6,4; 16,1 1 ; 2Cor 10,10; Gal 4,14), oscilla in Paolo tra «tenere in poco conto» e «rifiutare con disprez­ ZO» . . . «Un disprezzo della profezia però esiste già là dove non le si concede spazio, perché la si te­ me».

5, 19-22 .

279

vv. 21-22: «Esaminate invece ogni cosa: ritenete ciò che � buono, astenetevi da ogni sorta di male». L'avverbio avversativo iniziale indica chiaramente la svolta del pensiero paolino: in contrapposizione alla negatività dei verbi «spe­ gnere» e «disprezzare» si presenta ora la positività di dokimazo, 260 verbo cono­ sciutissimo sia in ambiente greco che nella stessa LXX. Il significato primo di «provare , mettere a prova, saggiare, sperimentare , esaminare», si è subito arric­ chito in Paolo , l'autore che più ne fa uso, del significato più specifico : «approva­ re ; giudicare degno, capace , buono , sicuro», come dimostra la nostra stessa let­ tera che testimonia la presenza di entrambi i significati (cf. 2,4ab ; 5,21). È evidente che Paolo vi annette importanza decisiva, quale norma basilare del giudizio morale . Infatti , il «discernimento» non si esercita soltanto nei con­ fronti del carisma profetico o di altri carismi, ma va applicato a ogni espressione del vivere cristiano. Perché ciò avvenga, è indispensabile che oggetto primo del discernimento sia la volontà stessa di Dio, cui si è fatto prima riferimento e come sarà apoditticamente affermato in Rm 12,2: «Trasformatevi rinnovando la vo­ stra mente, per potere discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» . Contemporaneamente , il credente è invitato a discernere la sua stes­ sa condotta, per trarne stimolo a sentimenti di umiltà e di responsabilità: «Cia­ scuno esamini la propria condotta e allora solo in se stesso e non negli altri trove­ rà motivo di vanto : ciascuno infatti porterà il proprio fardello» (Gal 6,4) . Solo in conseguenza di tale duplice sguardo: l'uno rivolto a Dio per ottenere quella «tra­ sformazione» che gli consenta di assumere l'ottica stessa di Dio, l'altro a se stes­ so per riconoscersi «portatore del suo fardello», il credente diventa idoneo a «di­ scernere» in Dio il bene e il male. Così , Fil 1 ,9-10: «Prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento , perché possiate distinguere sempre il meglio» . «Bene e male» emergono dunque quale espressione del giudizio valutativo della coscienza credente illuminata dallo Spirito di Dio che svela i segreti di ogni cuore e spinge al riconoscimento dell'unico vero Dio (cf. lCor 14,25). Cosi al tempo delle origini del mondo , così anche all'inizio dell'era nuova. Paolo ripro­ pone qui la chiusura della prima parte del suo insegnamento parenetico (cf. v. 260 Del gruppo semantico cui appartiene il verbo dokimazo: dokimos - «provato, fidato, capa­ ce, stimato, abile» se riferito a persona; «provato, genuino, prezioso)) se riferito a cosa - è presente nella grecità come nella LXX (cf. Gen 23 ,16; lCr 28, 18). Il contrario di dokimos , adokimos, si trova parimenti in Senofonte, Filone, ma anche in Is 1 ,22. Dokime , «prova, dimostrazione», non è attesta­ to prima di Paolo. Dokimazo , col significato di «provare, saggiare, esaminare», è documentato in tutta la grecità (Erodoto, Senofonte, Platone). La LXX traduce bl,n, «provare al crogiuolo» (cf. Sal 17 ,3; Zc 13,9). Nel NT è usato prevalentemente da Paolo e con lo stesso significato di «esaminare, vagliare» o, al passivo - come l'abbiamo già incontrato - «essere esaminato», e l'aggiunta di una con­ notazione positiva: «esser trovato degno>> ( lTs 2,4) , anche perché «passato alla prova>> della tribola­ zione. L' «esame)) attento dello spirito di chi chiede di entrare nella comunità di Qumran è conditio si­ ne qua non per la sua accoglienza: «Quando uno entra nel patto per agire in conformità di tutti que­ sti statuti e per unirsi all'assemblea santa, esamineranno il suo spirito nella comunità» (lQS 5,20) . E più avanti: « sarà esaminato da colui che presiede in merito alla sua intelligenza e alle sue azioni» (6, 14) . Sarà compito poi del «maestro di saggezza» determinare l'ordine gerarchico in base al cam­ mino di ognuno: cf. l QS 9,12-21 . . . .

Commento

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15). L'antitesi allora formulata con to ·agathon·to kakon , viene ora espressa da termini affini : to kalon-to poneron . Infatti to kalon , «il bene ; ciò che è giusto>> , è identico , in Paolo, al to agathon del v. 1 5 (cf. Rm 7,18; 12,9) ; e to poneron , qui preceduto da «da ogni forma di», richiama il to kakon. Entrambi gli aggettivi continuano a riferirsi alle manifestazioni inautentiche dello Spirito, quale effetto del tentativo di «spegnerlo» e «disprezzare» la sua profezia. Particolarmente ori­ ginali appaiono invece i due verbi che qualificano la nuova antitesi: katechete e apechesthe. Il verbo katechein , rafforzativo di echein , è scarsamente usato nel NT: 18 volte , di cui 10 in Paolo. 261 Il significato, in quest'ultimo , è quello di «ritenere; conservare ; custodire; possedere» un insegnamento (cf. lCor 1 1 ,2) , o, in senso negativo , «la verità nell'ingiustizia» (Rm 1 , 18). L'uso nel nostro testo è parallelo a quello di 1Cor 1 1 ,2: paradoseis katechete, «conservate le tradizioni». Com'è noto , questo verbo svolgerà un ruolo molto importante nella descrizione escato­ logica di 2Ts 2,6. Il verbo apecho , al medio e seguito da apo, «da» , era già ap­ parso in 4,3, con lo stesso significato di «astenersi da ; essere distante , lontano» , ed è un hapax in Paolo.262 In entrambi i casi , l'apostolo esorta a prendere decise distanze dal male . Solo adesso, infatti , a conclusione di tutta la parte parenetica, si precisa «da ogni sorta di male». La novità della formulazione paolina è tutta in quel heidos che, malgrado le forti assonanze platoniche , non ha qui il senso filo­ sofico di «idea, forma, specie, apparenza» , contraria alla realtà , e non è quindi da tradurre: «da ogni apparenza di male» . Nei pochi usi neotestamentari (2 volte in Luca ; l in Giovanni; 2 in Paolo) , e particolarmente nei due soli testi paolini, il termine conserva il significato etimologico di «visione; manifestazione». 263 In 261 Katecho è un ech6 intensivo: «tengo fermo, trattengo; contengo, accolgo». «Tra i vari signi­ ficati particolari - precisa HANSE, «antech6», 1354 - ve ne sono due che hanno importanza storico­ religiosa: l) «esser posseduto, entusiasmato», con i derivati, katoche (possessione , entusiasmo, estasi) , katokos e katochimos (posseduto, esaltato, rapito) quest'uso linguistico ha origine nel culto dionisiaco della Tracia, di natura estatica . . . con questo significato si trova frequentemente in Plato­ ne . . . 2) Del tutto indipendente dal precedente è l'uso di katochos e di katoche per designare "i pri­ gioni del dio e la prigionia divina, la clausura" del culto di Serapide. Si tratta, in questo caso, di una temporanea vita ascetica in comune, nell'ambito del tempio, un lontano parallelo della vita claustra­ le» . Sia nella LXX (50 ricorrenze) che nel NT, predomina nettamente il significato di «tener fermo, serbare». Il tema è posto a fondamento della costituzione stessa della comunità di Qumran che indi­ vidua la sua identità proprio nel suo esser «comunità del patto», fermamente ancorata all'osservanza della legge divina: «Questa è la regola per gli uomini della comunità che sono generosi nella conver­ sione da ogni male, nel rimanere saldamente in tutto ciò che egli ha prescritto secondo il suo benepla­ cito . . . e nella separazione dall'assemblea degli uomini ingiusti per costituire una comunità (nello stu­ dio) della legge e nei beni, sottomessi al parere dei figli di Sadoc . . . e al parere della maggioranza de­ gli uomini della comunità che stanno saldi nel patto» ( l QS 5 , 1 } . 262 Apecho, nel greco classico: «tengo lontano, proteggo; ricevo qualcosa; sono lontano»;· al medio: «mi tengo lontano, mi astengo». Nella LXX, ricorre pochissime volte il significato di «riceve­ re qualcosa (come dovuto)», mentre è frequente allo stato medio. Nel NT si ritrova l'identica situa­ zione della LXX. Nella comunità di Qumran, la stessa idea è espressa dal grande tema della «separa­ zione» che è il motivo e lo scopo della sua esistenza: «Colui che , nella sua vita, si impegna nel patto deve separarsi da tutti gli uomini dell'ingiustizia, da coloro che camminano sulla via dell'empietà. Costoro infatti non saranno annoverati nel suo patto, poiché non hanno anelato ai suoi statuti» (1QS 5, 10-1 . Per l'uso platonico di eidos nel senso.di «prototipo, idea, essenza di una cosa» cf. PLATONE, Symp. 210b ; Hi. I, 289d; Phaed. 102 b. 103 e; Theaet. 148 d; ma anche FILONE, Op. mund. 103; Vit.



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2Cor 5 ,7 : «camminiamo nella fede e non aneora in visione (eidous)»; 264 cf. Gv 5 ,37, che associa la percezione visiva a quella uditiva: «non avete un tempo udi­ to la sua voce (phonen) , né avete visto il suo volto (eidous )». Paolo esorta dun­ que ad astenersi dal male in ogni sua manifestazione , appunto «da ogni sorta di male». . Si completa così anche la parte parenetica della nostra lettera, dominata dal­ la costante ricerca della sintonia con la volontà di Dio manifestatasi , nel compi­ mento della storia salvifica, in Cristo Gesù, e che oggi continua a rendersi pre­ sente mediante il dono dello Spirito . La mens trinitaria permea di sé dunque il messaggio esortativo dell'apostolo. Nella molteplicità dei temi trattati, una costante assurge a comune denomi­ natore: la santificazione dei credenti. Da questo decisivo punto di avvio, coin­ volgente la centralità stessa del mistero redentivo, cioè la comunanza di vita tra colui che solo è santo e coloro che sono stati resi santi , si dipartono poi le linee maestre per il raggiungimento di tale meta: l'amore fraterno; la stima e l'amore verso i responsabili del cammino ecclesiale ma anche verso i più deboli ; la pace fra tutti; la ricerca del bene e l'allontanamento di ogni male; e soprattutto la gioia , la preghiera e il rendimento di grazie nelle riunioni assembleari. Così , la chiesa che si esorta è la medesima chiesa che si contempla nella sua dimensione orante . Comprensibile pertanto l'attenzione centrale portata all'esortazione­ contemplazione dell'identità escatologica del credente. L'attuale raduno è infat­ ti soltanto un'immagine di quel raduno celeste di risorti che avverrà nella paru­ sia, quando «i viventi , i rimasti» e gli «addormentati» saranno sempre con il SiMos. 2,76. Per il significato di «forma» contrapposta a «materia� (hyll) cf. ARISTOTELE, Phys. l, 4 187a 18; Metaph. 6,3 1029 a 29. G. KmEL, «eidos», in GLNT III, 126, a proposito di 1Ts 5,22 «Astenetevi da ogni sorta di ma­ le», precisa: «Da escludere senz'altro, in considerazione del v. 21, è la vecchia traduzione «evitate ogni apparenza cattiva». Il contesto assumerebbe poi contorni più netti e concreti se si potesse dimo­ strare l'ipotesi che vede in esso la citazione di un loghion di Gesù variamente attestato nella chiesa antica; il che è impossibile se si considera la risonanza del loghion e l'uso, attestato anche altrove, di eidos nel significato di genere «moneta». In tal caso i vv. 2lb e 22 rappresenterebbero l'applicazione positiva e negativa del principio esposto in 21a: «Esaminate tutto - come buoni cambiavalute -; trat­ tenete il buono e scartate tutti i tipi scadenti !». Nella LXX, il termine è usato come traduzione di mar'eh e to'ar. In riferimento a Dio, la LXX traduce il nome , che tende a sfociare in quello più pregnante di «vita». In effet­ ti , negli altri scritti neotestamentari, spirito equivale a sede della vita (cf. Le 13, 1 1 ; Mt 27 ,50; At 7,59) , delle emozioni , della volontà, della vita morale e reli­ giosa, della coscienza e dell'intelligenza (cf. Mc 2,8; 14,38; Le 1 ,47 .80; Gv 4,23 ; M t 5 ,3). Paolo dunque avrebbe scelto due termini per indicare l' «anima» quale principio interno dell'uomo , entrambi autonomi ed espressivi della mentalità se­ mitica, ma non identici: con spirito si indicherebbero le forze superiori dell'uo­ mo, con anima quelle inferiori. Mai si trova in Paolo la distinzione greca dell'a­ nima che abita il corpo , perché spirito, come anima e corpo, al di là delle diffe­ renziazioni specifiche , può indicare la globalità della persona umana. Ma è an­ che assente la distinzione tra spirito e anima equivalente a un'entità duplice. Il motivo per cui è stata introdotta questa duplice designazione del principio interno dell'uomo, è da ricercare nel sostrato ebraico soggiacente a spirito e cioè il ruah che si applica sia a Dio che agli uomini. Nel secondo caso , il termine indi­ ca l'anima in quanto elemento divino posto nell'uomo. Se tuttavia l'origine è da ricercare nel mondo giudaico, lo sviluppo che ne è seguito è di una tale ampiezza che finisce per staccarsene considerevolmente . Intanto il ruah JHWH è diventa­ to lo «Spirito santo»; inoltre , il ruah dell' uomo , santificato dal dono dello Spiri­ to, consente il passaggio salvifico dalla condizione «carnale» a quella «pneumati­ ca» . Siamo ben lontani - osserva ancora Rigaux - da quei greci che ritenevano lo spirito una sostanza della quale sono composti sia l'uomo che Dio e che si indivi­ dualizza nell' anima. Nella letteratura ermetica, lo spirito è al di sotto dell'ani­ ma. Mentre gli gnostici dividevano l'uomo in carne, corpo, anima, che sono gli elementi di questo eone , e lo spirito, che sarebbe invece di origine divina, anzi un essere divino. 272 Soma indica in primo luogo il «corpo umano» (cf. Rm 4,19; 1Cor 7,34) , del quale dice Paolo che non deve più essere strumento di peccato dal momento che , mediante il battesimo, è stato consacrato a Cristo e allo Spirito (cf. lCor 6, 12-20) . Conformemente alla visione antropologica semitica, «corpo» non equivale, tuttavia , a entità autonoma di un ipotetico composto umano . Per cui, soma indica anche - come accennato sopra - tutto l'uomo nella sua realtà con­ creta , esistenziale. Ma soprattutto il termine esprime il concetto di «persona umana» , intesa come luogo privilegiato di rapporti con Dio, con Cristo, con lo Spirito, con gli altri , con il mondo (cf. 2Cor 4 , 10; Rm 12,1). In questo senso, so­ ma è elemento unitario di confluenza delle molteplicità spazio-temporali, per­ manenza e continuità , punto d'incontro tra presente , passato e futuro. A questo 270 Cf. lCor 2 , 1 1 ; 5,3-5; opposto a soma e a sarx; 7,34, ancora opposto a soma; Rm 8,10, op. posto a soma. 271 Cf. lCor 15 ,45: psychl zosa. . . pneuma zoopoioun: �essere vivente . . . spirito datore di vi­ ta». 272 Per una visione dello status quaestionis sull'argomento, cf. l'ampia documentazione di RI­ GAUX, Saint Pau/, 596-600 .

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significato. bisogna collegare l'espressione soma tou Christou di lCor 10,16 rife­ rita alla persona di Cristo. Soma può anche assumere il significato religioso ne­ gativo di debolezza, di peccato, di morte (cf. Rm 6,6b; 7 ,24) , e quindi anche l'uomo peccatore, come carne (cf. Rm 8,13). Infine , dopo la risurrezione, il no­ stro «corpo» diventerà «spirituale» , cioè il processo di santificazione dei creden­ ti , avviato dallo Spirito santo dopo la risurrezione di Cristo, perverrà al suo com­ pimento nella persona intera di tutti i credenti. Ciò dimostra che per Paolo il «corpo» non è una realtà intrinsecamente cattiva. In realtà, la liberazione del­ l'uomo a opera di Cristo, non passa attraverso la rimozione del corpo ma unica­ mente attraverso la sua spiritualizzazione, conformemente al volere divino. 273 « . Si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo». Sull'importanza dell'avverbio amemptos ci siamo soffermati a suo tempo (cf. 3 13) , come anche sul concetto di parousia al quale è direttamente collegato. Nel brano centrale su «i tempi e i momenti» , riguardante appunto il comporta­ mento da assumere in vista dell'evento escatologico, Paolo aveva dichiarato: «Tutti voi siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo né della notte né delle tenebre . Pertanto, non dormiamo . . . . ma siamo vigilanti e sobri» (5,5-6) . È la luce di quel giorno che , in chiusura di lettera , viene evocata per ricordare a tutti che , allora, sarà resa impossibile non solo la compresenza di luce e di tene­ bre, ma anche la non rivelazione di ogni possibile ombra. La vigilanza e la so­ brietà sono adesso riespresse in termini di globale «irreprensibilità» . Ma l'avver­ bio, qui come nelle altre ricorrenze della medesima lettera (cf. 2,10; 3,13), non si rapporta solo alla parusia, ma serve a qualificare tutta la frase. Per cui, non si tratta tanto di esser conservati «irreprensibili» nel giorno del giudizio, quanto di vivere