La pratica del bene comune. Etica e politica in Charles Taylor e Alasdair Macintyre 9788899200268, 9788899200275

Come può essere pensata oggi la po- litica come pratica del bene comune? A partire da questa domanda l’autore propone un

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La pratica del bene comune. Etica e politica in Charles Taylor e Alasdair Macintyre
 9788899200268, 9788899200275

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La pratica del bene comune

Gianluca Cavallo è dottore in Filosofia e studente presso la Scuola di Studi Superiori dell’Università di Torino.

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aAccademia University Press

€ 14,00

9

788899 200268

Gianluca Cavallo

ISBN 978-88-99200-26-8

Gianluca La pratica Cavallo del bene comune Etica e politica in Charles Taylor e Alasdair Macintyre

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ccademia university press

Come può essere pensata oggi la politica come pratica del bene comune? A partire da questa domanda l’autore propone una lettura dell’opera di due fra i più noti filosofi viventi, mostrando l’attualità della critica “comunitarista” al liberalismo. Riconsiderando temi quali modernità, secolarizzazione, diritti e intersoggettività attraverso l’ottica di Charles Taylor e Alasdair MacIntyre si individuano i limiti della pratica politica liberale (e, seppur indirettamente, neoliberale) e si avanza la proposta di un modello alternativo che ha al suo centro l’idea del bene comune, come mezzo costitutivo per la vita buona di ciascun individuo.

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Come può essere pensata oggi la politica come pratica del bene comune? A partire da questa domanda l’autore propone una lettura dell’opera di due fra i più noti filosofi viventi, mostrando l’attualità della critica “comunitarista” al liberalismo. Riconsiderando temi quali modernità, secolarizzazione, diritti e intersoggettività attraverso l’ottica di Charles Taylor e Alasdair MacIntyre si individuano i limiti della pratica politica liberale (e, seppur indirettamente, neoliberale) e si avanza la proposta di un modello alternativo che ha al suo centro l’idea del bene comune, come mezzo costitutivo per la vita buona di ciascun individuo.

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La pratica del bene comune

Gianluca Cavallo è dottore in Filosofia e studente presso la Scuola di Studi Superiori dell’Università di Torino.

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aAccademia University Press

Gianluca La pratica Cavallo del bene comune Etica e politica in Charles Taylor e Alasdair Macintyre

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ccademia university press ISBN 978-88-99200-26-8

Gianluca Cavallo

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La pratica del bene comune

Etica e politica in Charles Taylor e Alasdair Macintyre

La pratica del bene comune Gianluca Cavallo

© 2015 Accademia University Press via Carlo Alberto 55 I-10123 Torino Pubblicazione resa disponibile nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0

Possono applicarsi condizioni ulteriori contattando [email protected] prima edizione febbraio 2015 isbn 978-88-99200-27-5 edizioni digitali www.aAccademia.it/cavallo http://books.openedition.org/aaccademia/ book design boffetta.com

Indice

Introduzione

VII

1. L’eredità complessa della modernità

3

2. Il fallimento della tradizione liberale

25

3. Crisi di legittimità e inadeguatezza del liberalismo

41

4. Libertà e democrazia in prospettiva repubblicana

55

5. L’etica delle virtù e la politica delle comunità

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Bibliografia

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Indice dei nomi

99

V

La pratica del bene comune Gianluca Cavallo

Introduzione

I nomi di Charles Taylor e Alasdair MacIntyre sono spesso associati a quell’eterogeneo gruppo di critici del liberalismo cui è stata assegnata l’etichetta di «comunitaristi»1. Se questa può cogliere qualche elemento comune al pensiero politico di entrambi gli autori, occorre però dire che il loro percorso intellettuale li ha visti ruotare intorno al medesimo polo già ben prima che fosse coniata, a partire cioè dagli anni Cinquanta e Sessanta, quando MacIntyre pubblicava sulla rivista «The New Reasoner» e Taylor sulla «University and Left Review». Le due riviste, che esprimevano l’esigenza di una «Nuova Sinistra» attenta alla dimensione umanistica del socialismo, si fusero nel 1960, dando vita alla «New Left Review», ancora oggi in attività2. Vi è un legame tra questa esperienza giovanile e quello che sarà il «comunitarismo» della 1. Cfr. Alessandro Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992; Michael Sandel (ed.), Liberalism and Its Critics, New York University Press, New York 1984. Per non appesantire troppo la lettura, si è cercato di ridurre al minimo il numero delle note, evitando i riferimenti non strettamente necessari. Per ulteriori approfondimenti, si rimanda quindi alla Bibliografia finale. 2. Traggo queste informazioni da Émile Perreau-Saussine, Une spiritualité libérale? Charles Taylor et Alasdair MacIntyre en conversation, «Revue française de science politique», LV (2005), n. 2, pp. 299-315.

VII

La pratica del bene comune Gianluca Cavallo

maturità dei due autori, poiché essa esprimeva già l’esigenza di ripensare il legame sociale, superando il materialismo e l’economicismo di un certo marxismo per tornare a insistere sulle fonti hegeliane del pensiero progressista, riscoperte anche mediante i Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx stesso, che, venuti alla luce nel 1932, cominciavano a essere discussi in Occidente proprio in quegli anni. L’aumento della ricchezza complessiva della società, lungi dal rappresentare una soluzione ai problemi delle classi subalterne, aveva creato nuove forme di alienazione e di individualismo, che dovevano essere affrontate con nuove categorie filosofiche. Secondo Perreau-Saussine, le principali opere dei due autori nascono proprio da questa fonte comune a entrambi: Dopo la virtù è una risposta alle domande della Nuova Sinistra: analizza la dissoluzione della ragion pratica sotto l’influenza dell’atomismo liberale e propone di ricostituire delle «comunità» degne di questo nome. L’opera principale di Taylor, Radici dell’io, riprende le questioni sollevate dalla «University and Left Review».3

VIII

Lo studioso francese evidenzia inoltre come «la nostalgia della “comunità” [fosse] uno dei tratti dominanti della prima Nuova Sinistra»4. Tuttavia dietro questa affinità si cela già l’origine della loro divergenza: i membri di «The New Reasoner», cui era legato MacIntyre, provenivano perlopiù dal partito comunista e non erano disposti a compromessi socialdemocratici, mentre questa opzione sembrava più plausibile secondo la linea della «University and Left Review». In realtà entrambi gli autori abbandoneranno il marxismo, ma andranno in direzioni diverse, che derivano da questa loro divergenza iniziale. La principale differenza tra i due autori emerge dalla rispettiva posizione che hanno adottato nei confronti del «comunitarismo». Charles Taylor non ha rifiutato l’appellativo di comunitarista, e ha specificato la sua posizione riferendosi alla tradizione dell’«umanesimo civico», facendo capo ad autori come Machiavelli e Mill (in parte) e soprattutto a Rousseau, Humboldt, Tocqueville, fino ad arrivare alla 3. Ivi, p. 302. 4. Ivi, p. 304.

Introduzione

Arendt5. Taylor sostiene che la sua posizione non è contraria al liberalismo tout court, quanto piuttosto a una specifica forma di esso, che in un luogo egli ha definito «liberalismo della neutralità»6. Al contrario, MacIntyre rifiuta l’appellativo «comunitarista» e si pone al di fuori dell’ampia sfera del liberalismo. Egli si situa consapevolmente nella alternativa tradizione aristotelico-tomista, il cui modello politico non sono gli stati nazionali moderni gestiti da una qualche forma di democrazia, quanto piccole comunità locali, gruppi di individui che condividono un bene comune quale scopo e ideale regolativo delle loro attività. Tali comunità sono il luogo dell’esercizio delle virtù, le quali, secondo l’insegnamento aristotelico, sono parte integrante del perseguimento attivo della «vita buona»7. In questo lavoro mi concentro sul pensiero politico che i due autori hanno maggiormente articolato, senza fare riferimento al primo periodo, legato all’esperienza della Nuova Sinistra. Il punto di partenza (capitolo 1) è dato dalla caratterizzazione della situazione contemporanea della vita politica e morale, per descrivere la quale entrambi gli autori si sono serviti di una complessa narrazione della modernità che ha permesso loro di andare oltre la mera constatazione e di giungere a un’ermeneutica complessiva in grado di dare ragione della nostra condizione attuale. Ripercorrendo questo itinerario storico-filosofico, emergeranno anche le due più autorevoli fonti dei nostri autori: Aristotele e Hegel. Potremmo sinteticamente dire, infatti, che per MacIntyre la modernità è la storia di un lungo congedo dall’aristotelismo, che andrebbe però riscoperto quale strumento indispensabile per articolare la nostra vita morale; mentre Hegel è un autore fondamentale per Taylor sia perché egli sembra in qualche modo ispirarsi al metodo della Fenomenologia per tracciare la storia della modernità, sia perché egli intende quest’ultima in termini espressamente hegeliani, cioè come il luogo di incontro di tendenze centrifughe che nondimeno 5. Citiamo qui soltanto Ruth Abbey, Charles Taylor, Communitarianism, Taylor-made. An interview with Charles Taylor, «The Australian Quarterly», LXVIII (1996), n. 1, pp. 1-10. 6. Charles Taylor, Il disagio della modernità (1991), Laterza, Roma-Bari 1994, p. 22. 7. Cfr. Kelvin Knight, Aristotelianism versus Communitarianism, «Analyse & Kritik», XXVII (2005), pp. 259-273.

IX

La pratica del bene comune Gianluca Cavallo

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devono essere valorizzate e il più possibile armonizzate tra loro: i principi della libertà e della coesione sociale, dell’espressivismo individualista e dell’olismo comunitario8. Nel secondo e terzo capitolo illustro la critica di entrambi gli autori al liberalismo, nella peculiarità di ciascuna nonché negli elementi comuni, per giungere infine (quarto e quinto capitolo) a discutere la loro proposta filosofica e politica. Il risultato della discussione delle loro tesi propenderà decisamente verso una filosofia aristotelica della potenzialità umana, in grado di definire i diritti dell’uomo meglio di quanto abbia fatto il liberalismo, nonché di mostrare l’impossibilità di un loro pieno riconoscimento al di fuori di un contesto intersoggettivo che favorisca attivamente lo sviluppo dei singoli. Come emergerà nel corso della disamina, questo contesto non può che essere quella che MacIntyre chiama una «rete di dare e ricevere»9. In conclusione, proporrò un abbozzo politico che vede a suo fondamento le comunità di piccole dimensioni, integrate in un più ampio contesto statale quale orizzonte ineludibile. Ringraziamenti

Questo libro nasce dall’approfondimento e dalla parziale rielaborazione dei temi trattati nella mia tesi di laurea; il mio primo ringraziamento va perciò al prof. Pier Paolo Portinaro per avermi seguito durante la preparazione dell’intero lavoro. Ringrazio poi in modo particolare la mia famiglia, senza il cui sostegno non avrei potuto compiere quelle esperienze di cui questo testo è un risultato, e Chiara, per la correzione degli errori di battitura e i consigli di stile. Vorrei infine esprimere un grato senso di riconoscimento nei confronti di tutte le persone con le quali ho avuto modo di discutere di tematiche direttamente o indirettamente inerenti a quelle che qui sono svolte, in particolare a coloro che sono legati all’associazione culturale Petite Plaisance. Il dialogo con ciascuno mi ha aiutato a maturare i miei convincimenti. Dedico il libro alla memoria di una di queste persone, il prof. Costanzo Preve, a cui in tanti dobbiamo molto.

8. Taylor è autore di un importante monografia sul filosofo di Stoccarda: Hegel, Cam­ bridge University Press, Cam­bridge 1975. Una versione limitata alla filosofia pratica e leggermente modificata rispetto all’originale è stata poi pubblicata con il titolo Hegel and Modern Society, Cam­bridge University Press, Cam­bridge 1979; trad. it. di Andrea La Porta, Hegel e la società moderna, Il Mulino, Bologna 1984. 9. Alasdair MacIntyre, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù (1999), Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 97.

La pratica del bene comune

Etica e politica in Charles Taylor e Alasdair Macintyre

Alla memoria di Costanzo Preve

La nostra destinazione nella società è un avanzamento comunitario, un avanzamento di noi stessi in virtù dell’uso del libero operare degli altri su di noi, e un avanzamento degli altri tramite l’incidenza del nostro operare su di essi come enti liberi. Fichte, La missione del dotto

La pratica del bene comune Gianluca Cavallo

1. L’eredità complessa della modernità

In che direzione ci muoviamo noi? Lontano da ogni sole? Non precipitiamo sempre di più? E all’indietro, di lato, in avanti, da ogni parte? Esistono ancora un sotto e un sopra? Non vaghiamo attraverso un nulla infinito? Nietzsche, La gaia scienza

La condizione attuale può essere descritta in termini di disorientamento morale, sia per quanto riguarda la singola individualità, sia la società nel suo complesso. Ciò significa che il soggetto oggi non ha più sicuri parametri di riferimento per orientare le proprie scelte in vista di un bene finale e si trova a dover fronteggiare esigenze fra loro opposte e inconciliabili che spesso hanno su di lui lo stesso potere. Ma questo disorientamento implica anche una perdita della propria identità: Taylor e MacIntyre sono concordi nel sostenere che l’identità individuale si definisce sempre e soltanto in relazione a un bene inteso aristotelicamente quale telos della vita e quindi come orizzonte di ogni singola azione, ordinata in vista di esso. Per rispondere alla domanda «chi sono io?» il soggetto fa necessariamente riferimento a ciò che è per lui di cruciale importanza. L’identità individuale, scrive Taylor, è definita dagli impegni e dalle identificazioni che costituiscono il quadro o l’orizzonte entro il quale posso cercare di stabilire, caso per caso, che cosa è buono e apprezzabile, che cosa devo fare, che cosa devo avversare o sottoscrivere.1 1. Charles Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna (1989), Feltrinelli, Milano 1993, p. 43. Di qui in poi citato con la sigla SS seguita dal numero di pagina dell’edizione italiana. Cfr. anche Id., La topografia morale del sé (1988), ETS, Pisa 2004.

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Il fatto di definirsi cattolico, o anarchico, o italiano, significa per l’individuo identificare un legame con un insieme di significati che forniscono la base dei suoi giudizi morali, quindi delle sue azioni, quindi del suo orientamento di vita2. Il disorientamento odierno non è tanto dovuto al fatto che non ci si possa più definire cattolici o anarchici o italiani, quanto piuttosto al fatto che vi è stata una proliferazione di possibilità differenti, tra le quali pare non esserci alcun superiore criterio di scelta. Nel mondo premoderno l’orizzonte morale era definito in maniera sostanzialmente univoca e universale dalla volontà di Dio, o dal significato ontico del cosmo, sulla cui base si reggeva anche l’ordine sociale, sicché orientarsi nello spazio morale era quasi scontato. L’individuo non aveva difficoltà a riconoscere ciò che era buono e aveva valore, distinguendolo da ciò che era male o non aveva rilevanza. Nel mondo moderno, al contrario, si è verificato l’emergere progressivo di nuove fonti morali, la cui universalità non è più scontata. Questo significa che l’individuo moderno deve far fronte a esigenze morali diverse, alcune delle quali aspirano all’universalità (ad esempio l’essere cattolico o anarchico), mentre altre sono ancorate al particolare (l’essere italiano). Il conflitto può perciò emergere a più livelli: tra particolarità e universalità (ad esempio tra le esigenze della felicità individuale e quelle della giustizia sociale), o tra pretese contrapposte di universalità (ad esempio tra l’essere cattolico e anarchico), nonché all’interno di ogni singola prospettiva che, dovendo fare i conti con alternative evidentemente possibili, diviene più fragile e incerta (ad esempio tra l’essere credente e l’essere ateo). Essere disorientati, in questo senso, significa non essere certi del proprio orientamento, avere difficoltà a sceglierlo e a giustificarlo, ciò che può anche condurre alla percezione di una totale perdita di senso3. Alasdair MacIntyre accentua la matrice aristotelica del discorso, sostenendo che il bene che dovrebbe orientare la 2. Cfr. SS, p. 44 3. Cfr. Charles Taylor, L’età secolare (2007), Feltrinelli, Milano 2009. Di qui in poi citato con la sigla SA seguita dal numero di pagina dell’edizione italiana. In queste righe ho cercato di riassumere considerazioni che Taylor svolge a cavallo tra SS e l’opera qui citata. I due libri sono in effetti strettamente intrecciati, come risulterà anche nel seguito.

L’eredità complessa della modernità

vita umana, ma che oggi non è riconosciuto, è in qualche modo radicato nell’essenza stessa del soggetto in quanto appartenente a una specie. Com’è noto, secondo Aristotele, il fine (telos) di ogni vivente è compiere l’opera che gli è propria (ergon), cioè quell’opera che è espressione della parte dell’anima che lo caratterizza (nel caso della specie umana, la razionalità). Il compimento di quest’opera coincide con la realizzazione dell’essenza (ousia) del vivente e quindi con la piena attualizzazione (energheia) delle potenzialità (dynamis) che gli sono proprie per natura. Ogni cosa, infatti, realizza pienamente la propria natura soltanto quando perviene all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere della cosa»4. Questa «natura» dell’uomo è per Aristotele ineludibilmente politica5 e sia Taylor che MacIntyre riconoscono che l’identità dell’io non può sorgere se non in un contesto comunitario. È infatti indispensabile un linguaggio condiviso che articoli gli orizzonti comuni che definiscono una cultura e inoltre è imprescindibile quella dialettica che si instaura fra soggetti razionali e dialogici e che può condurre al riconoscimento comune di ciò che è bene. Ma ciò ci porta a un secondo livello di disorientamento morale, che aggrava il primo: quello sociale. A livello collettivo, infatti, è del tutto assente un consenso su ciò che sia buono, come è evidente negli interminabili dibattiti tanto nella «società civile» quanto nel mondo accademico dei filosofi morali. La filosofia e la politica odierne sono incapaci di definire univocamente il bene e questo implica che non ci sia consenso nemmeno sulle regole della discussione, in quanto è chiaro che solo una determinata concezione del bene potrebbe stabilire dei limiti al dibattito e il modo da seguire per giungere alla deliberazione: se non si ha un fine almeno genericamente fisso, la discussione (che dovrebbe riguardare i mezzi utili a tal fine) sarà totalmente priva di appigli e l’unica regola sarà di seguire l’opinione della maggioranza6. Che questa opinione sia spesso distorta o ingiustificata e che le decisioni siano prese da una rappresentanza ristretta, spesso in disaccordo o indipendentemente dalla 4. Metafisica Θ, 6, 1048a 32. 5. Cfr. Etica Nicomachea I, 5, 1097b 11; Politica I, 2, 1253a 2. 6. Cfr. Alasdair MacIntyre, Toleration and the goods of conflict (1999), in Id., Ethics and Politics. Selected essays, vol. 2, Cam­bridge University Press, Cam­bridge 2006, pp. 205-223.

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volontà popolare, sono problemi dinanzi ai quali è bene chiudere entrambi gli occhi, in quanto non esiste alcuna soluzione alternativa. In tal modo la politica è degradata ad arbitrio, il dibattito a scontro, la democrazia a dittatura della maggioranza. Questa situazione sembra obbligarci al relativismo, se non addirittura al nichilismo, in quanto pare destituire di ogni fondamento qualsiasi pretesa di verità, o addirittura minare il senso profondo dell’esistenza umana. D’altro canto, essa può apparire liberatoria, in quanto pare lasciare finalmente spazio alle «differenze» precedentemente sopite o soppresse, alla libertà di scelta di ogni singolo individuo. Com’è noto, la condizione attuale è stata definita da più parti «postmoderna». Tuttavia, MacIntyre e Taylor, pur non essendo mai entrati nel vivo della discussione sul tema7, hanno elaborato alcune «grandi narrazioni» della modernità che sono alternative tanto a quelle che il postmodernismo ha rifiutato quanto a quella che, in fin dei conti, è il postmodernismo stesso. La contemporaneità è da essi vista come l’esito necessario di contraddizioni che erano presenti nella modernità fin dalle sue origini. La differenza sta nel fatto che Taylor – hegelianamente – considera la modernità come una conquista dell’umanità cui sarebbe sbagliato (oltre che impossibile) rinunciare, mentre MacIntyre tende a rifiutare tutto ciò che la caratterizza, considerandola un progetto fallito, ma proponendo una strada alternativa al postmodernismo, come emergerà chiaramente nel prosieguo del presente lavoro8. Come ho accennato nell’Introduzione, il metodo di Taylor richiama quello hegeliano della Fenomenologia dello Spirito. Nella sua monografia su Hegel il filosofo canadese caratterizza tale metodo nei termini di una «dialettica interpretativa»9, 7. Essi si sono limitati a riferimenti fugaci, esprimendosi però sempre criticamente nei confronti dei pensatori postmodernisti. Cfr. ad esempio Charles Taylor, SA e Alasdair MacIntyre, Enciclopedia, genealogia e tradizione. Tre versioni rivali di ricerca morale (1989), Editrice Massimo, Milano 1993. 8. Per un inquadramento storiografico dell’opera di MacIntyre, che prende in considerazione anche il postmodernismo, si veda Émile Perreau-Saussine, The Moral Critique of Stalinism, in Paul Blackledge, Kelvin Knight (eds.), Virtue and Politics. Alasdair MacIntyre’s Revolutionary Aristotelianism, University of Notre Dame Press, Notre Dame 2011, pp. 134151. 9. Charles Taylor, Hegel cit., cap. viii.

L’eredità complessa della modernità

per cui la filosofia avrebbe il compito di ricostruire il passato, le «avventure dello Spirito», in un modo che non sia né storicamente esaustivo né univocamente definibile. In altre parole, la filosofia si distinguerebbe dal metodo storiografico in quanto non interessata a un resoconto fedele dei «fatti» del passato, ma a una loro interpretazione che li inserisca in una linea evolutiva plausibile e in grado di fornire una possibile spiegazione (non però l’unica) della condizione presente. Ciò significa che la filosofia diviene in questo campo narrazione, che parte dal presente nel tentativo di spiegarlo e non da un punto del passato per giungere all’attualità. Soltanto comprendendo quali sono le differenti istanze presenti nella cultura del proprio tempo si può muovere verso il passato alla ricerca di elementi spirituali e materiali in grado di dare loro profondità e spessore, in vista di una migliore comprensione. Ciò che così si sarà ottenuto sarà un recupero di tutta la complessità e l’articolazione interna dell’orizzonte e degli impegni morali che stanno alla base della civiltà moderna e che una rappresentazione parziale e distorta ha contribuito in maniera cruciale a oscurare.10

Difficilmente Hegel intendeva a questo modo il suo progetto, in quanto lo riteneva capace di identificare i momenti necessari dello sviluppo dello Spirito. Tuttavia tale interpretazione non è del tutto incompatibile con l’originale e inoltre rappresenta una riappropriazione assai feconda del pensiero del grande filosofo. Del resto, se «la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo»11, non si può intendere il sapere assoluto hegeliano come hybris di una ragione che pretende di spiegare tutto e individuare insieme il fine e la fine della storia. Se la filosofia non può dire nulla sulla realtà non ancora compiuta, essa non può pronunciarsi sul futuro (sul/sulla fine). Essa ha piuttosto il compito di comprendere il presente nella sua verità, cioè come manifestazione del progresso inarrestabile dello Spirito verso la libertà. Questo implica una conoscenza storica che per Hegel probabilmente individuava svolte necessarie, mentre più modestamente 10. Paolo Costa, Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor, Unicopli, Milano 2001, p. 153. 11. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1820), Laterza, RomaBari 20106, p. 17.

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si può dire che colga ermeneuticamente degli snodi fondamentali. Questo sarebbe il sapere assoluto: comprendere la realtà come esito di un’evoluzione. Se è per noi impossibile restare fedeli all’immagine hegeliana di Spirito, come incarnazione di Dio nella storia e nei popoli, nondimeno una versione snellita di questo concetto, privata del fondamento metafisico che Hegel gli ha assegnato, resta per noi disponibile e anche fecondamente utilizzabile. Ciò detto, ripercorrere qui tutta la narrazione tayloriana sarebbe inutile e prolisso; mi limiterò perciò a tracciarne le linee essenziali. In Radici dell’io Taylor ha inteso illustrare come si sia formata e sviluppata l’idea moderna di identità. La caratteristica principale da egli individuata è l’interiorizzazione delle fonti di senso, cioè la collocazione nella «mente» dell’individuo della scaturigine della conoscenza e della moralità. Per comprendere meglio cosa ciò significhi, è necessario accennare alla condizione premoderna, che può essere illustrata facendo riferimento a Platone. Egli non concepiva alcuna distinzione tra la ragione umana e l’ordine cosmico, fondato sulle Idee. Essere razionali significa per Platone comprendere quest’ordine e adeguarsi a esso; in questa prospettiva non può darsi il caso di un essere razionale che abbia nondimeno delle conoscenze sbagliate. Così vita buona è quella governata dalla ragione, non tanto come visione del corretto ordine all’interno della nostra anima, quanto, e specialmente, come visione del corretto ordine del tutto. (SS, 162)

Inoltre, conoscenza e moralità sono immediatamente unite, in quanto conoscere la Verità (ossia l’Essere, le Idee) significa cogliere l’ordine complessivo e quindi agire conformemente a esso, cioè correttamente. Il processo di interiorizzazione, che avviene in epoca moderna con Cartesio (il quale ha però un antecedente in Agostino), consiste nella sostituzione di questa concezione del dominio della ragione con un’altra […] in cui l’ordine che entra in gioco con l’egemonia della ragione non è qualcosa che si trova, ma qualcosa che si fa o che si crea. (SS, 164)

Cartesio afferma infatti l’origine soggettiva di ogni certezza conoscitiva e morale. La verità della conoscenza diventa rispecchiamento nella mente di ciò che è nella realtà ester-

L’eredità complessa della modernità

na. L’ordine e il significato non risiedono più nel cosmo, nell’intero di natura e spirito, ma vengono a essere intesi come il prodotto della razionalità soggettiva. Privato della sua pregnanza ontica, il mondo si presta perciò a divenire lo strumento dei fini soggettivi. In campo morale, le passioni dell’anima divengono oggetto di un sapere distaccato; la ragione le può controllare relegandole alla loro funzione strumentale, cioè al loro ruolo di indicatori naturali di ciò che è utile o dannoso. Il sé distaccato trova formulazione anche nella dottrina lockiana, dove diviene evidente la conseguenza politica di una simile impostazione di pensiero. L’io non è altro che un «punto inesteso», privo di qualsiasi sostanzialità: esso è totalmente desocializzato e destoricizzato, un «atomo sociale» che considera ormai anche la società come un mezzo strumentale in vista dei propri fini soggettivi. Cartesio e Locke sono perciò i fautori di una svolta nella storia del pensiero che ha plasmato l’immaginazione moderna al tal punto che oggi ci riesce spesso difficile pensare in termini non atomistico-strumentali. Come ha scritto Taylor, «le visioni atomistiche sembrano sempre più vicine al senso comune» (SS, 247), anche perché caratterizzano gran parte della pratica politica nei paesi occidentali12. Questo processo di interiorizzazione ha indubbiamente più di una causa, tra le quali va indicato il progresso scientifico del xvii secolo. Un crescente interesse per la natura e una sua conoscenza sempre più approfondita sicuramente favorirono il distacco dalle fonti morali precedenti, radicate nella credenza in Dio e soprattutto negli spiriti benigni e maligni che secondo l’immaginario medievale dominavano il mondo13. Taylor tuttavia si oppone a quelle che chiama «ricostruzioni storiche sottrattive»14 che partono dal presupposto che la religione sia falsità e superstizione e spiegano il suo declino nella società secolare sulla base dei progressi scientifici. Sicuramente la scienza ha posto e pone delle sfide alla fede, e certamente ha messo spesso in crisi quella fede più ingenua e attaccata alla lettera della Bibbia che caratterizzava il passato. Tuttavia non si può affermare in nessun 12. Per una trattazione più ampia dell’argomento, cfr., infra, cap. 3. 13. Su queste forme di credenza cfr. SA, cap. 1. 14. Cfr. SA, 43-47; 715-728; SS, 386-398.

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La pratica del bene comune Gianluca Cavallo

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modo che la scienza sia una confutazione della fede e perciò questa spiegazione del processo storico è inadeguata, nonché ideologica. L’interesse per la natura e un atteggiamento strumentale verso di essa furono anzi favoriti, inizialmente, da motivazioni teologiche: ritenere che il cosmo avesse un significato in sé poteva sembrare una limitazione inaccettabile all’onnipotenza divina. La creazione non può imporre alcuna regola al creatore, il quale, secondo Guglielmo di Occam, può anche agire contro quelle che per noi sono le leggi naturali. Ma se la natura perde i suoi scopi intrinseci, chiaramente essa si presta al controllo strumentale dell’uomo. E se questo era inizialmente inteso come subordinato al volere divino, fu poi facile eliminare l’orizzonte trascendente a favore delle potenzialità dell’uomo. Anche la Riforma protestante diede un impulso in questa direzione, nel suo sforzo di preservare l’assoluta alterità del divino e l’imperscrutabilità del suo disegno (SA, 132-134). La Riforma, infatti, con il suo rifiuto di ogni presunta vocazione «superiore» e la sua estensione del sacerdozio a tutti i fedeli, fu determinante per l’emersione di un altro aspetto cruciale della modernità, che Taylor chiama «l’affermazione della vita comune»15, cioè la valorizzazione di quegli «aspetti della vita umana che hanno a che fare con la produzione e la riproduzione, ossia il lavoro, la costruzione delle cose necessarie all’esistenza e la nostra vita di esseri sessuali, ivi compresi il matrimonio e la famiglia» (SS, 265). Ammettere la superiorità di certe forme di esistenza rispetto ad altre significherebbe concedere che sia possibile salvarsi mediante gli atti di devozione e preghiera, i sacramenti, la bontà delle intenzioni. La dottrina della giustificazione per sola fede escludeva tutto questo; se si aggiungeva poi anche la dottrina della predestinazione, che implicava che il successo mondano fosse considerato un possibile segno di salvezza, si comprende come tutto ciò ebbe come conseguenza l’attribuzione di un significato spirituale all’atteggiamento strumentale nei confronti del mondo. Questa tesi coincide sostanzialmente con quella weberiana secondo cui lo spirito del nascente capitalismo fu favorito da questa spinta verso

15. Questo è il titolo della terza parte di SS, capp. 13-17.

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una «ascesi intramondana» quale forma perfetta di vita per il credente16. L’affermazione della vita comune venne approfondita dalla concezione deistica della natura e della felicità umana, che si sviluppò nel corso del xviii secolo, secondo la quale l’ordine che Dio ha provvidenzialmente stabilito nell’universo è al servizio della felicità umana. Dio non ha più alcun mistero: i suoi progetti possono essere intesi dalla ragione umana, il cui compito è di portarli a compimento. E questo compimento coincide con la felicità umana: «gli uomini esistono per Dio, non Dio per gli uomini» (SS, 336). Questo «restringimento degli scopi della divina provvidenza» (SA, 285) giustificava la concezione ormai diffusasi dell’ordine cosmico e sociale come concatenazione di esseri utili l’uno all’altro, secondo il modello economicistico degli scambi di mercato che, regolati da una «mano invisibile», generano l’armonia complessiva17. Questa concezione antropocentrica dell’ordine provvidenziale era destinata ad aprire la possibilità dell’ateismo, in quanto rendeva ormai disponibile una fonte morale (l’ordine impersonale della natura e della società di mercato) che poteva benissimo fare a meno di Dio. La nascita del modo di produzione capitalistico e il correlato sviluppo dei commerci sono naturalmente cause concomitanti di questo processo complessivo, che non può essere spiegato adeguatamente né in termini puramente materialistici (secondo il metodo di un materialismo storico dogmatico), né solamente «idealistici» (secondo la connotazione negativa che a questo termine Marx ha attribuito in opere come L’ideologia tedesca)18. Il deismo settecentesco suscitò tuttavia numerosi critici: da una parte, si sosteneva che la fede deve implicare un rapporto personale con Dio, la donazione di sé e il sacrificio (questa fu la reazione ad esempio del welseyanismo [SA, 337]); dall’altra si criticava il deismo per il suo facile ottimismo e si intendeva restaurare una concezione più realistica e conflittuale della natura umana, che lasciasse spazio anche a una concezione del male e della depravazione (SS, 437-438). 16. Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), Rizzoli, Milano 1991. 17. Cfr. SA, 230-242. 18. Sull’eziologia storica, cfr. SA, 274-284; SS, 252-262.

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Rousseau è un rappresentante di questa seconda corrente critica. Egli non poteva tollerare l’idea illuministica per cui la ragione e il progresso della conoscenza sarebbero stati sufficienti per estirpare il male morale, e si erge come critico di quella civiltà che si era autoproclamata espressione di provvidenza, per metterne in risalto tutte le contraddizioni. La civiltà separa dalla natura, che è intesa da Rousseau come l’originaria fonte della moralità. Per il filosofo – scrive Taylor – «la coscienza è la voce della natura così come emerge in un essere che è entrato nella società ed è dotato di linguaggio e quindi di ragione» (SS, 441). Porgere l’orecchio alla voce della natura non significa quindi rifiutare la civiltà, ma armonizzare le sue istanze con quelle più profondamente umane, che vuol dire poi accordare all’uomo la vera libertà che gli spetta, e che coincide con l’autonomia in una società ben organizzata. La volontà generale del popolo, come descritta nel Contratto sociale, è espressione di questa autentica e libera natura degli uomini. Questo richiamo all’interiorità, ai sentimenti naturali, era destinato a sfociare in una ribellione ancora più radicale al razionalismo illuministico. Essa trovò espressione con il Romanticismo, di cui il primo rappresentante filosofico è identificato da Taylor in Herder, che concepì la natura come «una specie di grande corrente di simpatia che corre in tutte le cose» (SS, 452). L’espressivismo romantico nasce da un’esigenza spirituale di significato: il mondo meccanicistico e materialistico del Settecento, «la natura senza dèi» (die entgötterte Natur)19, appariva arido e vuoto, privo di un autentico valore per l’uomo. Con il Romanticismo (o almeno con un certo tipo di Romanticismo) si compie la ricerca di un senso di unità tra l’uomo e la natura e tra gli uomini tra loro. Il cosmo è inteso come permeato da un’unica fonte vitale o spirituale, che si estrinseca e si attualizza incarnandosi nei singoli, nei popoli e nella storia (Taylor riconduce a questo clima culturale anche la filosofia hegeliana del Geist)20. Dal punto di vista morale, questo significa che la realizzazione dell’individuo è data dall’attualizzazione della sua

19. Friedrich Schiller, Gli dei della Grecia, cit. in SA, 402. 20. Cfr. Charles Taylor, Hegel cit., capp. i-iii.

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natura, ma questa non è intesa aristotelicamente come caratteristica propria della specie, bensì come peculiare a ciascuno. Secondo Herder «ogni essere umano ha una misura sua propria e, quasi, un accordo distintivo e peculiare di sentimenti» (cit. in SS, 459). Il filosofo tedesco estende poi questa concezione anche ai popoli: ciascun Volk esprime la propria cultura peculiare mediante il linguaggio, l’arte e la storia (qui stanno le radici del nazionalismo ottocentesco). L’espressivismo è alla base anche di una concezione dell’arte interamente nuova, secondo la quale il compito dell’artista è esprimere le profondità interiori dell’uomo e della natura. Siccome però queste sono inoggettivabili, non possono che essere espresse mediante un linguaggio (poetico, figurativo, musicale) che crei il suo stesso oggetto, rivelandolo e nascondendolo al contempo (SA, cap. 10). L’esperienza estetica viene ad assumere un significato morale, aprendo un nuovo spazio per la «secolarizzazione». Quest’ultima, secondo Taylor, caratterizza l’intera età moderna. Ogni tappa che abbiamo descritto sin qui (Cartesio e Locke, Occam e la Riforma, il deismo e il romanticismo) costituisce un passo avanti nel processo di secolarizzazione, il quale non dev’essere inteso come il frutto di un presunto avanzare della razionalità, ma come la progrssiva individuazione di fonti della moralità indipendenti e alternative a Dio. Il deismo in questo senso costituisce un punto di svolta, in quanto ha aperto definitivamente le porte all’umanesimo antropocentrico; le varie forme di reazione al deismo, poi, hanno comportato un «effetto nova», cioè un’ulteriore moltiplicazione delle alternative morali e spirituali (SA, 381)21. Ciò non significa che non sia più possibile rintracciare nella fede una motivazione per l’azione morale, ma che il credente (al pari del non credente) non può più professare una fede ingenua e irriflessa, essendo piuttosto costretto a giustificarla a se stesso per aver motivo di sceglierla pur sapendo che esistono altre fedi, altre Weltanschauungen in grado di dare risposte alternative alle domande fondamentali che l’uomo si pone. 21. L’idea che il mutamento morale sia all’origine dei fenomeni di secolarizzazione (invece che il contrario) è stata espressa anche da MacIntyre nelle Riddell Memorial Lectures del 1964, poi pubblicate come Secularization and Moral Change, Oxford University Press, London 1967.

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La condizione attuale, che nelle sue linee essenziali comincia a profilarsi tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ha visto l’estensione all’intera società (e non soltanto, come prima, alle élite intellettuali) sia dell’ideale espressivista, secondo il quale ogni individuo è unico e si realizza dando forma alla propria vita in piena autonomia, sia della proliferazione delle risorse morali e spirituali (la «nova» si è trasformata in «supernova» [SA, 519]). A ciò si aggiunga la permanente influenza del modello di razionalità strumentale che è stato codificato tra Cartesio e Kant, con l’annessa concezione della società quale luogo dell’armonizzazione tra gli interessi rivali di individui concepiti atomisticamente. Ma prima di comprendere cosa tutto ciò comporti, è necessario svolgere ancora alcune considerazioni sulla forma che ha assunto l’espressivismo romantico divenendo parte dell’immaginario comune. Ciascun individuo si sente oggi chiamato all’auto-realizzazione, ma in una modalità che non tiene conto degli orizzonti comuni di significato e della genesi intersoggettiva dell’identità. L’ideale dell’autenticità è banalizzato e ripiegato sull’individuo egoistico e narcisista. A livello teorico, si tratta di una sintesi infelice tra i due opposti ideali dell’espressivismo e della razionalità strumentale: l’auto-realizzazione egoistica implica la strumentalizzazione dei legami dell’individuo con le altre persone e soprattutto con la società nel suo complesso; nonché la negazione di ogni istanza superiore all’io, sia essa proveniente dalla natura, dalla storia, dalla società o da Dio. Tutto ciò è supportato sia da una certa idea di liberalismo22, sia da un facile nietzcheanesimo relativista, secondo il quale ogni individuo ha il dovere di «superare la morale» e affermarsi liberamente23. Numerose sono le cause che possono essere evocate per spiegare questo mélange culturale. Sicuramente va menzionato l’accresciuto benessere e l’espansione dello stile di vita consumistico: Nel dopoguerra – scrive Taylor –, con la diffusione del benessere e di quelli che prima venivano considerati beni di lusso, è avvenuta una nuova concentrazione sullo spazio pri-

22. Su questo punto, cfr., infra, i due capitoli successivi. 23. Cfr. Charles Taylor, Il disagio della modernità cit., pp. 68-71.

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vato e sui mezzi disponibili per goderne fino in fondo […] La gente ha finito per concentrarsi sempre più sulla propria vita e su quella del proprio nucleo famigliare. Si è spostata verso nuove città o nuovi sobborghi, ha cominciato a vivere più per conto proprio, cercando di godere della gamma sempre crescente dei nuovi beni e servizi, dalle lavatrici ai pacchetti vacanza, e degli stili di vita individuali più liberi che questi nuovi beni offrivano. (SA, 596-597)

La cultura consumistica ha creato per la prima volta un settore di mercato dedicato ai giovani, in cui riversare merci che vanno dai capi d’abbigliamento ai brani musicali e che sono diventate elementi identitari del singolo. Le rivolte giovanili degli anni Sessanta e Settanta esprimevano una reale aspirazione all’autenticità, ed erano basate su una critica alla società esistente che per molti tratti ricordava quella romantica: il rifiuto della separazione tra ragione e sentimento, tra gruppi sociali, tra i diversi ambiti della vita (SA, 599). Questa spinta utopica e rivoluzionaria, che ebbe vasta influenza, nella sua radicalità non trovò realizzazione. Soltanto alcuni aspetti che la caratterizzavano entrarono a far parte della cultura successiva, ma questi, isolati e astratti dall’aspirazione complessiva, furono impoveriti e distorti. L’ideale espressivo si è perfettamente integrato nella società capitalistica, a tutti i livelli: quello del consumo, del carrierismo e dell’atteggiamento nei confronti della professione e della politica (ciascuno deve avere diritto di scelta). In altre parole, la rivoluzione di quegli anni ebbe successo nel dissolvere alcuni valori borghesi (ritenuti a torto o a ragione oppressivi), ma, dal momento che a ciò non fece seguito l’instaurazione di una società egualitaria, si ottenne il paradossale effetto di cancellare quelli che potevano essere gli ultimi argini morali alla follia capitalistica. In tal modo si è entrati in una fase in cui le logiche del capitalismo sussumono sotto di sé l’intera realtà simbolica e sociale24. Questo percorso tracciato da Taylor, che naturalmente è molto più complesso rispetto alla sintesi qui presentata, ci aiuta a comprendere quali siano le origini storiche di istanze ancora presenti nella nostra cultura e soprattutto a considerare ciascuna di esse in tutta la sua profondità: anche 24. Diego Fusaro, Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, Bompiani, Milano 2012, pp. 372 e ss.; Cfr. anche Costanzo Preve, Storia dell’etica, Petite Plaisance, Pistoia 2007.

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laddove esse si sono snaturate, banalizzate e contaminate, sono tuttavia espressione di esigenze morali proprie dell’uomo moderno (dello Spirito, potremmo dire) e perciò non possono essere ignorate. Per Taylor come per Hegel il grande portato della modernità è l’emersione della soggettività libera. Ma l’evento – agli occhi di Hegel – tragico della Rivoluzione francese, conclusasi con la negazione assoluta (la «furia del dileguare»)25, mostra come questa soggettività moderna non sia stata in grado di riempirsi di contenuto sostanziale. In seguito al tramonto dell’eticità greca l’individuo diviene categoria puramente astratta dell’intelletto, un puro «vacuum», al pari del Dio degli illuministi26. Hegel pensava che la Prussia sarebbe stata in grado di realizzare una forma statale (delineata nei suoi Lineamenti di filosofia del diritto) in grado di conciliare le istanze dell’individualità moderna (incarnate nel «sistema dei bisogni» e tutelate dal «diritto astratto») con quelle dell’unità etica concreta, rappresentata dallo Stato nel suo complesso. Il principio che avrebbe dovuto essere alla base di questa integrazione è espresso dal filosofo nei seguenti termini: il diritto degli individui per la loro destinazione soggettiva alla libertà ha il suo compimento nel fatto ch’essi appartengono alla realtà etica, giacché la certezza della loro libertà ha la sua verità in tale oggettività, ed essi nell’ethos posseggono realmente la loro propria essenza, la loro interna universalità.27

Taylor, analogamente, sostiene la necessità di una sintesi dialettica fra i diversi elementi emersi nella storia e vivi nel presente. L’individualità astratta è ancora oggi un principio caratterizzante della nostra realtà sociale: atomisticamente intesa (desocializzata e destoricizzata), essa è titolare di diritti che ne difendono l’integrità e la libertà. Ma questa libertà è intesa soltanto negativamente, come assenza di ingerenza pubblica e interferenza fra privati. L’armonizzazione degli interessi non è compresa in una dimensione superiore (l’eticità), ma resta sul piano orizzontale del «sistema dei bi-

25. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807), Bompiani, Milano 20082, p. 791. 26. Ivi, p. 751. 27. Id., Lineamenti cit., § 153.

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sogni». Al contempo, come abbiamo visto, è presente oggi un’istanza espressivista declinata in senso soggettivistico, che risente di un atteggiamento critico nei confronti dell’unilateralità della ragione strumentale, ma che al contempo si serve di essa per conseguire un’autorealizzazione che non include alcun bene superiore all’io. Questo espressivismo è palesemente contraddittorio, in quanto, come nota Taylor, «in un mondo in cui non ci fosse letteralmente nulla di importante al di fuori dell’autorealizzazione, nulla potrebbe rappresentare una realizzazione» (SS, 617). L’individualismo strumentale e l’espressivismo soggettivistico finiscono per avere le stesse conseguenze negative sull’unità «etica» (in senso hegeliano), in quanto tendono entrambe a erodere ogni legame comunitario. Sorge così una terza istanza della contemporaneità, quella genericamente definibile «comunitarista», che sostiene la necessità di recuperare un impegno pubblico per un bene comune che sia superiore agli interessi privati. Ma vi è anche chi ritiene che i comunitaristi non siano sufficientemente radicali e che occorra rifiutare la modernità sia nelle sue forme strumentali che in quelle espressivistiche (Taylor cita Leo Strauss [SS, 620], ma il discorso potrebbe valere anche per MacIntyre). Per quanto Taylor possa essere quasi interamente sovrapposto al comunitarismo, resta comunque uno scarto tra la sua posizione e tutte quelle qui presentate: egli ritiene innanzitutto, come abbiamo visto, che ogni elemento dell’identità moderna sia un bene e che privilegiarne un aspetto non debba significare in alcun modo la negazione di un altro. Ma soprattutto egli è convinto che nessuna di queste posizioni sia in grado di giustificare adeguatamente la morale. È vero che esiste un vasto consenso su alcuni importanti temi, quali il riconoscimento dei diritti umani, l’immoralità di certe pratiche, la bontà della forma democratica di governo. Tuttavia la loro formulazione non è univoca (e quindi non è definito ciò che esse implicano) e inoltre non è chiaro che cosa ci spinga a questo consenso, cioè se esso sia frutto di convenzione, di adesione irriflessa, di incapacità di vedere alternative, o se invece derivi da una profonda persuasione circa la loro verità. Con le parole di Taylor, l’ordine morale deve avere una «risonanza personale» (SS, 621), cioè necessita di un’adesione interiore. Se questa non si dà, l’unica

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giustificazione dei principi morali può venire soltanto dalla paura: dalla consapevolezza, cioè, che non rispettarli significherebbe essere pericolosamente anticonformisti, oppure divorati dai sensi di colpa, oppure incorrere in sanzioni penali. Tutt’altra cosa è la motivazione di chi «agisce sulla spinta dell’idea che tutti gli esseri umani sono eminentemente degni di essere aiutati, nonché trattati con giustizia e con il senso della loro dignità e del loro valore» (SS, 626). Ciò che non è chiaro nella situazione odierna di disorientamento morale è che cosa (o chi) possa persuaderci di questo valore forte della persona (cfr. SA, 872 ss.). Ciò che motiva un agente morale a compiere un’azione conforme a quel che riconosce come bene, è chiamato da Taylor «bene costitutivo», in quanto «costituisce» la bontà di tutti gli altri beni, detti «beni della vita», che vengono ad esso subordinati. Esempi di beni della vita possono essere le virtù, come la benevolenza e il coraggio, o valori come l’autonomia e il benessere materiale; beni costitutivi possono essere il sentimento della dignità umana, l’amore di Dio, la natura come fonte espressiva. Ciascuno di questi beni costitutivi «non agisce solo sulla ragione umana, bensì opera sul cuore degli individui, chiedendone un’adesione non parziale, ma completa»28. Dal punto di vista logico, il bene costitutivo, essendo una motivazione che agisce sul sentimento individuale, non può essere il fondamento dell’etica. Questa, intesa come discorso filosofico concernente il bene umano, dovrà basarsi su considerazioni di carattere universale ed essere razionalmente argomentabile. Il bene costitutivo può essere soltanto «il fulcro di un best account o resoconto migliore»29 dell’esperienza morale di un individuo. Per fare un esempio, si può argomentare razionalmente la validità della Regola d’oro, secondo la quale si deve fare agli altri ciò che vorremmo gli altri facessero a noi. In questa argomentazione non si può fare appello, secondo la prospettiva tayloriana, al sentimento, ma si dovrà partire dalla considerazione di che cosa significhi essere un individuo dotato di certi diritti che richiedono il riconoscimento reci-

28. Paolo Costa, Postfazione. Religione, modernità e secolarizzazione, in Charles Taylor, La modernità della religione, Meltemi, Roma 2004, p. 127. 29. Ivi, p. 130.

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proco30. Tuttavia, quando dovremo cercare di comprendere che cosa può spingere un individuo ad agire in conformità con questa regola, aderendo interamente ad essa, dovremo accontentarci del resoconto migliore possibile, senza poterlo dimostrare: potremo supporre, ad esempio, che solo chi apre se stesso all’amore di Dio, oppure che soltanto chi riconosce un valore incondizionato alla dignità umana, può agire eticamente. La storia della modernità secolare ci lascia in eredità questo interrogativo: qual è il bene costitutivo, la fonte morale che può spingere gli uomini all’agire etico? Taylor sembra ritenere che l’unica motivazione efficace per l’agire morale sia l’agape, cioè l’amore di Dio come descritto dal Nuovo Testamento. Essa è intesa da Taylor come la motivazione spirituale in base alla quale l’individuo di fede aderisce a un’etica della reciprocità, la quale, di per sé, ha un fondamento unicamente antropologico. Questa concezione, del resto, è in linea con la più originale riflessione teologica del Novecento, sia cattolica che protestante, a proposito della quale, infatti, si è parlato di «svolta antropologica», in quanto essa ha riconosciuto – per limitarci al campo dell’etica – che Dio può essere inteso, da coloro che credono, come il fine ultimo dell’azione, come il Bene supremo, ma non come la ragione del carattere vincolante dell’etica31. In generale, la svolta antropologica ha permesso alla teologia di riscoprirsi sorella della filosofia e ha aperto la possibilità per un rinnovato dialogo tra le fedi e con l’ateismo, di cui il Concilio Vaticano II costituisce, in area cattolica, un esempio importante, in cui Taylor si riconosce32. La proposta teistica di Taylor è formulata con la consapevolezza, tutta secolare, di essere solo una possibilità fra altre e di potersi giustificare solo mediante l’adesione personale e la fede. Essa tuttavia lancia una sfida ad altre forme di umanesimo, raccogliendo a sua volta la provocazione antiumanistica di Nietzsche: infatti, scrive Taylor, «solo se esiste

30. Cfr., infra, cap. 3. 31. Cfr. ad esempio Wolfhart Pannenberg, Fondamenti dell’etica. Prospettive filosofico-teologiche (1996), Queriniana, Brescia 1998. Si veda anche Rosino Gibellini, La teologia del xx secolo, Queriniana, Brescia 1992. 32. Cfr. l’intervista di Élodie Maurot, Taylor: non c’è Chiesa senza agape, «Avvenire», 26 luglio 2012, p. 22.

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l’agape o uno qualsiasi dei valori secolari che aspirano a succederle, Nietzsche ha torto» (SS, 627). Cosa significa questo? La sfida di Nietzsche si basa sull’intuizione che se la morale può avere soltanto una giustificazione negativa (cioè fondarsi in ultima istanza sulla paura) e non sull’affermazione positiva del valore della persona, «allora la pietà è distruttiva per chi la dona e degradante per chi la riceve» (SS, 627). Ma l’importanza di Nietzsche è ancora più grande, in quanto egli ha mostrato come il valore positivo dell’etica non possa essere fondato da nessuno dei criteri emersi nella modernità. Secondo MacIntyre la beffa che egli si è fatto di ogni sistema morale era l’esito necessario di una serie di fallimenti, dovuti all’inadeguatezza di tali criteri. La narrazione di Alasdair MacIntyre non comincia con Cartesio, ma con l’Illuminismo, che egli descrive come un progetto che era destinato a fallire per le premesse stesse del suo argomentare. Prima di tutto occorre ricordare che la cultura illuministica si caratterizza per un radicale rifiuto delle pretese normative delle teologia, la quale aveva dominato non soltanto il Medioevo, ma aveva continuato a svolgere un ruolo determinante anche nei secoli immediatamente successivi. I pensatori illuministi, con una forma di inedito «umanesimo esclusivo» (l’espressione è di Taylor), destituirono di validità il discorso teologico, considerato la causa di ogni intolleranza e di ogni abuso politico, e fondarono tutta la loro rivoluzionaria filosofia sulle capacità dell’uomo (questo sostanzialmente vale anche per il deismo). Anche per MacIntyre, quindi, l’età moderna è un’età di progressiva secolarizzazione. La peculiarità della sua narrazione sta nel porre l’attenzione sul fatto che la filosofia, distanziandosi dalla religione, non si allontanò soltanto dalla teologia, ma anche dall’aristotelismo che la accompagnava. Con quest’ultimo (rifiutato già da Hobbes e Cartesio) venivano a cadere, tra l’altro, l’etica delle virtù e l’idea di una natura umana orientata teleologicamente. I primi tentativi di rifondare la morale in completa autonomia rispetto alla teologia possono essere rintracciati in due delle figure più importanti della cultura europea del Settecento: David Hume e Denis Diderot. Hume era nato nel 1711 in Scozia, un paese in cui la vita pubblica era in larga misura influenzata dai suoi importanti centri universitari, dove i docenti di filosofia morale erano ancorati a

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una tradizione religiosa in cui si mischiavano elementi di teologia calvinista e di filosofia aristotelica. Hume si pose consapevolmente contro questa tradizione e visse gran parte della sua vita nella più «avanzata» Inghilterra, mutando il suo cognome da Home a Hume e rifiutando il carattere teologico della filosofia scozzese33. In questo modo, egli dovette cercare un nuovo fondamento per la morale, e tentò di farlo inaugurando quella che chiamò una «scienza della natura umana», empiricamente fondata secondo le prescrizioni metodologiche che la cultura scientifica del tempo trovava formulate nei Philisophiae naturalis principia mathematica (1687) di Isaac Newton e le premesse gnoseologiche che erano rintracciabili nel Saggio sull’intelletto umano (1690) di John Locke. Così Hume ritenne di aver rintracciato empiricamente la vera natura dell’uomo, costituita da passioni determinate che guidano l’azione dell’individuo. La razionalità pratica di stampo aristotelico non trova qui alcuno spazio, in quanto la ragione è considerata come semplice strumento per l’individuazione dei mezzi utili alla realizzazione di un fine indicato dalla passione, di modo che, secondo Hume, «la moralità è determinata dal sentimento»34. La correttezza morale della passione stessa è determinata in base a criteri e regole socialmente accettati e risultanti dall’«intreccio dei sentimenti» di coloro che compongono la società35. Hume sostiene che questa teoria, come qui l’abbiamo sintetizzata, potrebbe anche non essere vera, e tuttavia andrebbe preferita rispetto ad altre, in quanto utile a promuovere «gli interessi della società»36. È Hume stesso, dunque, a riconoscere come la sua teoria filosofica sia strettamente legata all’ambiente sociale dell’Inghilterra del suo tempo, ambiente che lui aveva consapevolmente scelto preferendolo a quello scozzese dove la nascita l’aveva collocato. Una ricerca empirica sulla natura umana non poteva che constatare la molteplicità delle passioni e degli interessi che spingevano 33. Cfr. Alasdair MacIntyre, Giustizia e razionalità (1988), Anabasi, Milano 1995, 2 voll., cap. 4 del vol. 2. 34. David Hume, Ricerca sui principi della morale (1751), Laterza, Roma-Bari 20092, appendice I. 35. Cfr. ivi, sez. V, parte II. 36. Ivi, Conclusione, parte II.

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gli uomini inglesi del tempo ad agire. Ma il metodo induttivo newtoniano non può funzionare per la realtà umana e sociale e ha come conseguenza quella di ritenere universalmente umano ciò che tale non è. Se le passioni che dominano gli uomini di una certa cultura particolare sono socialmente accettate, la loro approvazione presuppone una giustificazione morale; dunque esse non ne possono essere il fondamento. Questa inversione tra premessa e conseguenza mina il ragionamento alla base, ma se ne comprendono le ragioni se si considera il suo carattere fortemente ideologico37. Così, le passioni che Hume crede moventi dell’azione di tutti gli uomini di ogni tempo e luogo, altro non sono che «quelle di un erede soddisfatto della rivoluzione del 1688»38. A un fallimento analogo va incontro la teoria morale di Denis Diderot che, com’è noto, fu uno dei più importanti esponenti dell’illuminismo francese, ideatore e curatore dell’Enciclopedia. La sua teoria filosofica è teoreticamente meno elaborata di quella humeana, ma va tuttavia considerata, tenendo conto dell’importanza storica del suo autore e del clima intellettuale dell’illuminismo europeo. Molto sinteticamente, egli cerca di fondare una morale naturale basandola sugli istinti e i desideri dell’uomo, ma fallisce nel tentativo di dimostrare l’esistenza di desideri naturali distinti da quelli artificialmente imposti dalla società. MacIntyre sostiene in maniera convincente che la filosofia morale di Kant non fu altro che un’elaborazione di questo fallimento: constatata l’impossibilità di fondare con coerenza una teoria morale sulle passioni o sugli istinti, occorreva allora fondarla sulla ragione, e proprio questo egli tenta di fare. L’imperativo categorico è un principio formale che ingiunge al soggetto morale di agire sempre e soltanto in base a principi che potrebbero essere coerentemente universalizzati. Tuttavia, come mostra MacIntyre, potrebbero essere universalizzate senza contraddire l’imperativo categorico anche «molte massime immorali e futilmente amorali», come ad esempio «“Perseguita tutti coloro che sostengono false credenze religiose”» oppure «“Mangia sempre cozze nei lunedì di marzo”»39. 37. Cfr. Alasdair MacIntyre, Giustizia e razionalità cit., vol. 1, p. 98. 38. Id., Dopo la virtù (1981), Armando, Roma 2007, p. 82. 39. Ivi, p. 79.

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MacIntyre prosegue queste breve trattazione di storia dell’etica individuando in Kierkegaard l’erede di questi fallimenti, il quale ha cercato di fondare l’etica sulla libera scelta dell’individuo. Le opzioni che si presentano al soggetto stanno tutte tra loro in una relazione logica disgiuntiva: Aut-aut è il titolo della sua principale opera di etica. Ciò che sostanzialmente si sostiene in questo testo è che i principi che definiscono la vita etica devono essere adottati senza alcuna ragione, ma in base a una scelta che trascende la ragione, appunto perché è la scelta di ciò che per noi deve valere come una ragione.40

L’etica, così, viene esplicitamente destituita di qualsiasi fondamento. In quest’ottica Nietzsche appare come colui che ha riconosciuto con esattezza la vanità di tutti questi tentativi illuministici e post-illuministici di fondare la morale. Egli è dunque l’epilogo della modernità, ma secondo MacIntyre non è il nostro destino: abbiamo infatti la possibilità (e il compito) di riabilitare l’etica delle virtù, che appartiene a una tradizione di ricerca morale alternativa rispetto all’Illuminismo e che perciò è restata intaccata dai suoi fallimenti. Questi sono stati causati, piuttosto, proprio dal rifiuto dell’etica delle virtù, che ha i suoi rappresentanti in Aristotele e Tommaso d’Aquino. Naturalmente la modernità conta assai più numerosi tentativi di fondare l’etica, ma essi sono in qualche modo riconducibili a quelli qui presentati. Hume, Diderot, Kant e Kierkegaard in questo contesto vanno considerati quasi come «idealtipi», dal momento che possono essere considerati i maggiori filosofi che hanno tentato una fondazione dell’etica rispettivamente sulle passioni, sugli istinti, sulla ragione e sulla scelta. In questo senso, ad esempio, gli utilitaristi possono essere ricondotti al terzo idealtipo, anche se Kant fu un loro critico severo e si distanziò notevolmente da essi. Se le narrazioni di Taylor e MacIntyre raccontano qualcosa di vero, esse ci permettono di mettere a fuoco il problema principale (in termini etici e politici) della nostra epoca: la mancanza di un criterio condiviso per l’individuazione di ciò che è bene e quindi l’assenza di un motivo persuasivo 40. Ivi, p. 75.

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di fondazione dei principi morali. Questa è la ragione per cui fioriscono etiche proceduraliste liberali che credono di poter risolvere la questione senza fare riferimento a un’idea condivisa di bene. Ma questo modo di intendere l’etica è a sua volta figlio dell’Illuminismo ed è perciò destinato a reiterare un fallimento che Taylor e MacIntyre ritengono già compiuto. Vediamo quindi nel dettaglio la critica che i nostri autori hanno mosso al liberalismo.

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2. Il fallimento della tradizione liberale

Fra i membri di una Grande società, che in gran parte non si conoscono, non vi è accordo sull’importanza dei fini rispettivi. Friedrich A. von Hayek, Legge, legislazione, libertà

Per i liberali, la vita pubblica non può e non deve essere informata da alcuna specifica visione del bene, perché questo significherebbe imporre a tutti i cittadini dello Stato una visione etica che essi potrebbero anche non condividere e che perciò percepirebbero inevitabilmente come oppressiva. Nel peggiore dei casi, quest’idea del bene potrebbe giungere a essere imposta con la forza, a impoverirsi fino a divenire maschera ideologica di un regime dittatoriale. Occorre, allora, che lo Stato sia neutrale nei confronti di rivali concezioni del bene, le quali possono essere liberamente scelte da ogni cittadino, che avrà la facoltà di decidere quale vita sia per lui la migliore. Naturalmente dovranno essere posti dei limiti all’arbitrio individuale, ma questi, anziché avere una base etica sostanziale, avranno una base formale nell’idea di giustizia espressa dalle istituzioni. Se fra le diverse anime del liberalismo esistono motivi di discordia sulle regole della giustizia distributiva, tutti sono concordi nel ritenere che i principi fondamentali che devono informare la vita pubblica sono quelli espressi già dai primi teorici del liberalismo, secondo i quali lo Stato deve assicurare a ciascun cittadino la libertà di perseguire i propri scopi, purché questa non comprometta la possibilità altrui di fare lo

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stesso. Naturalmente, poi, questa libertà non dovrà rivolgersi contro le istituzioni dello Stato medesimo, poiché altrimenti sarebbe minata la base stessa della sua validità. Gli individui sono considerati titolari di specifici diritti in quanto individui e non in quanto membri di una comunità politica: lo Stato non li conferisce ai cittadini, i quali possono anzi rivendicare questi contro le ingerenze del potere, bensì né è solamente il garante (troviamo questi principi, per esempio, in Kant). I critici comunitaristi del liberalismo – e qui MacIntyre concorda pienamente con loro – hanno sostenuto che questa posizione sia ideologica, in quanto afferma di escludere qualsiasi concezione del bene, mentre ciò non è assolutamente possibile. Ciò è dimostrato dal fatto che proprio la libertà che essi intendono difendere è l’idea di bene che informa la loro dottrina. La contraddizione balza agli occhi quando, ad esempio, lo Stato deve prendere una decisione legislativa in materia di aborto: qualunque soluzione esso scelga non potrà che essere informata da una specifica concezione del bene (è bene che la vita del feto venga tutelata in quanto vita umana; oppure è bene che la donna abbia la libertà di gestire in autonomia la gravidanza). In realtà, John Rawls ammette che vi sia un’idea del bene alla base dello Stato liberale, tuttavia ritiene che essa sia una concezione non controversa e che lasci spazio alla libera scelta morale dei cittadini. Ma il caso dell’aborto, come ha sostenuto ad esempio Michael Sandel1, sembra mostrare che la questione non è così semplice. Inoltre, se anche fosse vero che la concezione del bene liberale non è controversa, questo potrebbe essere soltanto il frutto di una contingenza storica, che non giustifica l’erezione di un sistema di istituzioni e di leggi. Per MacIntyre le istituzioni liberali «impongono una concezione particolare della vita buona, del ragionamento pratico e della giustizia a coloro che, volenti o nolenti, accettano le procedure liberali e i termini liberali del dibattito». Il carattere ideologico dell’occultamento, da parte dei teorici, della loro concezione del bene è evidente: in ultima analisi «il bene primario del liberalismo non è né più né meno che il continuo sostentamento del sistema sociale e politico

1. Michael Sandel, Il discorso morale e la tolleranza liberale: l’aborto e l’omosessualità (1989), in Alessandro Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo cit., pp. 251-274.

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liberale»2. Ciò è dovuto al fatto che il dibattito su cosa sia giusto e bene è destinato al fallimento, poiché il liberalismo non ammette nessuna base per giudicare una concezione superiore a un’altra e, in questo modo, tacitamente presuppone che non esista ordinamento sociale migliore di quello da lui stesso sostenuto. In Giustizia e razionalità MacIntyre legge il liberalismo come una tra le molte tradizioni sociali e di ricerca che presentano concezioni rivali del bene. Per «tradizione» MacIntyre intende un insieme di ricerche filosofiche, legate ciascuna a specifiche circostanze storiche e sociali, tra le quali sia possibile tracciare una linea di continuità, basandosi sul fatto che gli autori appartenenti a una medesima tradizione condividono una specifica idea di che cosa significhi realizzare un ragionamento pratico corretto (ossia, individuare correttamente le premesse e le conseguenze di un’azione). La forma accettata di ragionamento pratico, naturalmente, presuppone specifiche concezioni di che cosa è bene, poiché è sempre ciò che è ritenuto bene a fungere da scopo dell’azione e quindi da premessa del ragionamento pratico. Inoltre, la conseguenza dell’accettazione di una determinata idea di bene e di ragionamento pratico avrà come conseguenza una specifica concezione di giustizia. Quest’ultima, infatti, è ciò che permette a ogni uomo di perseguire il bene. Ma una tradizione non è un corpo stabile di dottrine: ciascun momento storico porrà delle sfide pratiche a quanto sostenuto in sede teorica dai suoi membri, che dovranno far fronte a queste sfide se vorranno dimostrare che la tradizione cui essi si riferiscono è ancora viva, capace di avere un significato per i contemporanei. Inoltre una tradizione dovrà fronteggiare le obiezioni e i tentativi di confutazione avanzati da appartenenti a storie rivali e, infine, dovrà fronteggiare problemi interni al proprio bagaglio storico-concettuale e risolvere apparenti contraddizioni3. Ma come nasce una tradizione? Interpretando gli scritti di MacIntyre possiamo affermare che ogni filosofia nasce come

2. Alasdair MacIntyre, Giustizia e razionalità cit., vol. 2, p. 167. 3. Questi temi sono affrontati da MacIntyre in diversi luoghi. Citiamo i più estesi: Ivi, pp. 173 ss.; Id., Précis of Whose Justice? Which Rationality? (1991), in Kelvin Knight (ed.), The MacIntyre Reader, Polity Press, Cam­bridge 1998 / Univeristy of Notre Dame Press, Notre Dame 1998, pp. 105-108.

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ideologia, cioè come espressione di specifiche strutture sociali (su questo punto MacIntyre si mantiene fedele a Marx, anche se a questo nome egli affianca quello di Collingwood). Ogni ideologia ha tre caratteristiche: primo, individua certi aspetti della natura o della società che servono a spiegare la condizione presente ma che sono ritenute essere valide come leggi generali (un esempio è lo stesso materialismo dialettico di Marx). Secondo, afferma che il mondo è fatto in un certo modo e che quindi bisogna agire in un certo modo. Di conseguenza, l’ideologia implica delle considerazioni sullo status da assegnare ad affermazioni morali e valutative, nonché sulla forma del corretto ragionamento pratico. Perciò l’ideologia si sovrappone in parte al terreno della filosofia. In terzo luogo, un’ideologia non solo è ritenuta vera dai membri di un determinato gruppo sociale, ma è creduta tale in un modo che parzialmente definisce la loro stessa esistenza all’interno del mondo (si può pensare, come esempio, ai tesserati di un partito comunista). Così, l’ideologia copre anche parte del territorio della sociologia4. La filosofia deve essere sempre consapevole di questa sua origine particolare (così come la storia della filosofia deve essere condotta tenendo conto di questi fondamentali aspetti), ma al contempo essa implica una pretesa di verità e pertanto il suo sforzo costante deve essere quello di emanciparsi dalla particolarità per poter valere universalmente. MacIntyre è un avversario del relativismo, che ritiene insostenibile. La motivazione più elementare, ma efficace, per rifiutarlo è che esso non è creduto vero da nessuno tra i sostenitori di posizioni rivali, i quali, se credessero alla verità del relativismo (ma il relativismo può pretendere per sé la nozione di verità che nega agli altri?), non avrebbero più alcuna ragione per sostenere le loro posizioni e il dibattito con gli avversari5. Per comprendere come la filosofia possa rivendicare la verità, occorre tornare al concetto di tradizione, dato che ogni filosofia esiste all’interno di una tradizione. Abbiamo visto che questa implica: (1) una concezione del bene, su cui si 4. Alasdair MacIntyre, The end of ideology and the end of the end of ideology, in Id., Against the Self-Images of the Age. Essays on Ideology and Philosophy, Duckworth, London 1971, pp. 5-7. 5. Cfr. Id., Moral relativism, truth, and justification (1994), in Id., The Tasks of Philosophy. Selected Essays, vol. 1, Cam­bridge University Press, Cam­bridge 2006, pp. 52-73.

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fonda (2) uno specifico modello di ragionamento pratico; il tutto giustifica (3) una specifica idea di giustizia. Ma abbiamo anche rilevato come ogni tradizione nasca in uno specifico contesto sociale e abbia (almeno inizialmente) il carattere di ideologia. Ciò significa che il contesto sociale è determinante per 1, 2 e 3 e che queste possono essere ritenute vere soltanto se riescono a dimostrare la loro validità indipendentemente dalla loro genesi particolare. Prima di vedere cosa questo significhi, può essere utile fare alcuni esempi. Lo Stato liberale e l’economia di libero mercato sono specifiche strutture sociali che determinano (o sono legittimate da) la prevalenza dell’idea che (1) il bene sia ciò che ciascun individuo ritiene tale, entro i limiti della giustizia. Questo è infatti il modello dell’economia politica, per cui ciascun individuo è libero di scegliere le merci disponibili sul mercato, di stipulare liberi contratti di lavoro, di perseguire obiettivi diversi per giungere a posizioni sociali differenti, eccetera (l’insegnamento di Marx è qui imprescindibile). Una siffatta concezione del bene, come frutto della scelta individuale, fonda (2) un ragionamento pratico che serve a individuare i mezzi adeguati al raggiungimento di un fine scelto in base alla preferenza soggettiva. Esso avrà più o meno la seguente forma: «“Voglio che accada questo e questo. Non vi è nessun altro modo che mi consenta ciò che preferisco. Fare la tal cosa non frustrerà nessuna preferenza che sia tanto forte quanto questa o più forte di questa”»6. In base a queste premesse, (3) la giustizia sarà ciò che permette a ogni individuo di svolgere questo ragionamento e quindi non potrà implicare una specifica concezione del bene, perché così facendo inficerebbe una delle premesse del ragionamento pratico. Consideriamo un secondo caso. Una comunità di medie dimensioni, ad esempio la polis aristotelica, informata dalla pratica politica di cittadini che riconoscono nello spazio pubblico la dimensione adatta alla loro libertà, conduce alla prevalenza dell’idea che (1) il bene sia qualcosa il cui perseguimento può avvenire soltanto all’interno di una comunità, dove il dibattito razionale definisce i termini in cui il bene stesso deve essere inteso. Questo esige che l’interesse perso-

6. Id., Giustizia e razionalità cit., vol. 2, pp. 161-162.

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nale venga subordinato all’idea del bene, che non può essere soltanto individuale. La prevalenza dell’individuo sul collettivo (ad esempio nella forma della pleonexia) condurrebbe infatti al disgregamento della comunità cittadina e graverebbe sull’individuo rendendogli impossibile l’essere felice. Questa concezione del bene è alla base di (2) una forma di ragionamento pratico che vale a individuare i mezzi volti all’ottenimento di questo bene comunitariamente definito. Esso avrà una forma di questo genere: “Siccome il bene per l’uomo è questo e questo, in queste specifiche circostanze dovrò fare la tal cosa”. Si noti che il ragionamento implica sia l’individuazione di un bene ultimo, sia l’ordinamento di beni parziali (dipendenti dalle circostanze) in base a quello7. Poste queste premesse, (3) la giustizia sarà ciò che permette agli uomini di individuare e di perseguire insieme ciò che è bene. Naturalmente gli esempi non sono stati scelti a caso: il primo corrisponde all’ossatura della filosofia espressa dalla tradizione liberale, mentre il secondo a quella espressa dalla tradizione aristotelica, cui MacIntyre appartiene. Questi esempi ci insegnano che se l’ordine di derivazione dal bene alla giustizia è corretto, dato che l’idea del bene ha una forma ideologica, allora anche l’idea di giustizia avrà tale forma. Reclamare la verità per la propria posizione filosofica significa perciò dare ragione di quattro elementi: (A) una specifica forma sociale, (B) un’idea del bene, (C) uno schema di ragionamento pratico, (D) una concezione di giustizia. Dare ragione di (A) significa fondare una risposta positiva alle domande «è praticabile?» e «è coerente con (B) (C) e (D)?». Dare ragione di (C), che implica (B) nelle sue premesse, significa poter rispondere positivamente a «è conseguente?», mentre dare ragione di (D) significa dotarsi degli strumenti per rispondere affermativamente a «è coerente con (B)?» e «permette a (C) di concludersi con un’azione coerente?». Quando si ha a che fare con un’ideologia la reale giustificazione di (B) (C) e (D) è fornita da (A), per quanto il discorso ideologico tenda a occultarlo. Emanciparsi dalla particolarità della genesi, al contrario, significa per la filo7. Cfr. Alasdair MacIntyre, Rival Aristoteles: 1. Aristotle against some Renaissance Aristotelians, 2. Aristotle against some modern Aristotelians (2000), in Id., Ethics and Politics cit., pp. 3-40. Il riferimento è alle pp. 32-33.

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sofia che è (B) a dover fondare la validità di (C) e (D) e, in conseguenza di questo, anche di (A). Perciò la dimostrazione della validità di (B) è fondamentale (ed è anche la più complessa). MacIntyre nega che possa esistere qualcosa come una giustificazione definitiva di (B): non si può mai avere la certezza di aver raggiunto la verità, anche se è possibile, almeno in linea di principio, stabilire quale tradizione è vera-fino-a-prova-contraria. Naturalmente, nulla esclude che la prova contraria possa anche non giungere. L’unica dimostrazione che è possibile fornire di (B) è di tipo dialettico. Come Aristotele spiega nei Topici, la dialettica è un metodo utile all’indagine filosofica, in quanto permette sia di saggiare la consistenza di specifici assunti, sia – ed è il caso che qui ci interessa – di mettere in atto un processo diaporematico (cioè di soluzione delle difficoltà) quando «ci si trovi in presenza di due asserzioni opposte di ugual forza probante»8. Il procedimento dialettico in questione consiste nel dedurre le conseguenze di entrambe le affermazioni che pretendono la verità e di verificare se si incorre in una contraddizione; occorrerà poi risalire alle premesse per vedere se sono state dedotte correttamente e se le premesse sono vere (dato che è sempre possibile che la conclusione vera sia stata dedotta da premesse false). MacIntyre, tuttavia, non si basa soltanto sull’epistemologia aristotelica, ma attinge anche alla filosofia della scienza di Kuhn e Lakatoš. Egli estende alle tradizioni di ricerca morale il concetto di «rivoluzione scientifica» del primo e il concetto di «programma di ricerca» del secondo. Tuttavia, sostiene che entrambi questi concetti, siano essi applicati alle scienze naturali, a quelle sociali o alla storia della filosofia, possono essere efficaci soltanto se inseriti all’interno di una «narrativa drammatica»9. Questo significa che sia per rendere intelligibili i mutamenti di paradigma, sia per valutare un programma di ricerca è necessario che l’appartenente a uno di questi sia in grado di scrivere una storia della propria disciplina che possa rendere conto sia del perché il vecchio modo di guardare alle cose era inadeguato e destinato a fallire, sia perché

8. Marcello Zanatta, Introduzione alla filosofia di Aristotele, Rizzoli, Milano 2010, p. 141. 9. Alasdair MacIntyre, Epistemological crises, dramatic narrative, and the philosophy of science (1977), in Id., The Tasks of Philosophy cit., pp. 3-23.

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il nuovo metodo è in grado di risolvere quei problemi che hanno portato alla «rivoluzione». La nozione di narrativa drammatica, applicata alle tradizioni filosofiche, significa perciò che una tradizione, per dimostrarsi superiore alle rivali, e quindi per sostenere la verità della sua concezione del bene, deve essere in grado di scrivere una storia che renda conto: (1) di come essa sia stata in grado di risolvere i problemi a essa interni senza intaccare la validità dei principi fondamentali da essa stessa accettati; (2) di come sia stata in grado di adattarsi ai cambiamenti sociali riuscendo a fornire risposte adeguate ai problemi via via emergenti dalla realtà esterna; (3) del perché una tradizione rivale debba essere considerata inadeguata e destinata a fallire, mentre proprio quei problemi per quella letali siano risolvibili nei propri termini. Il terzo punto è forse il più complesso, in quanto richiede all’appartenente a una specifica tradizione di «mettersi nei panni» del suo rivale, cercando di utilizzare le sue stesse categorie filosofiche nel rispondere alle più diverse sfide. In altre parole, il membro di una tradizione dev’essere in grado di scrivere anche la storia della tradizione rivale e di mostrare come essa sia fallita nei punti (1) e/o (2). Si può dire che lo sforzo compiuto da MacIntyre in numerosi suoi saggi e libri sia esattamente quello di scrivere tutte queste storie nel tentativo di dimostrare la verità della concezione aristotelico-tomista del bene in opposizione alla tradizione liberale, che egli considera fallita. Per quanto chi scrive sia convinto della superiorità della tradizione aristotelica su quella liberale, l’idea che sia possibile dimostrare la verità di una tradizione su tutte le altre è sicuramente eccessiva (cioè infondata). Innanzitutto, MacIntyre evita di specificare un punto fondamentale, cioè quali siano i criteri che permettono di identificare gli appartenenti a una medesima tradizione. Egli non ci fornisce alcun chiaro criterio, ad esempio, per rispondere a domande come «il repubblicanesimo appartiene alla tradizione liberale?» oppure «Bruni e Piccolomini appartengono alla tradizione aristotelica?»10, oppure

10. Bruni e Piccolomini sono due autori aristotelici rinascimentali, criticati in Alasdair MacIntyre, Rival Aristotles cit.

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«esiste una tradizione cattolica? Se sì, il tomismo è una parte di essa o una tradizione autonoma?»11. Inoltre, posto che si riescano a identificare, sembra plausibile supporre che due tradizioni, appartenenti a due mondi culturali completamente diversi, siano capaci entrambe di soddisfare i requisiti di razionalità che la teoria di MacIntyre richiede. Ma questo non le renderebbe meno incompatibili. Il metodo proposto da MacIntyre andrebbe, oltreché perfezionato nell’indicazione dei criteri identificativi delle tradizioni, anche ristretto a un unico mondo culturale, nel senso che soltanto tradizioni rivali che debbano affrontare gli stessi problemi in termini di realtà sociale possono competere nel dimostrarsi una superiore all’altra. Questo non significa rinchiudersi nell’etnocentrismo e privarsi della possibilità di dialogare con mondi differenti dal nostro. Al contrario, significa rinunciare alla pretesa che una tradizione nata in un contesto culturale (la civiltà Occidentale) possa dimostrarsi superiore a una tradizione nata in un altro. Vi potrà essere, in una cultura diversa dalla nostra, una tradizione che con un armamentario concettuale completamente diverso dal nostro sia rappresentativa di una concezione del bene umano che noi, dal nostro punto di vista, pur non condividendola e non potendola fare nostra, riconosciamo come degna di valore. Quest’idea, inoltre, non è incompatibile con una prospettiva aristotelica. Secondo quest’ultima, com’è stata delineata anche da MacIntyre, ciò che rende valido un ordinamento sociale è che esso permetta di perseguire il bene di ogni uomo all’interno di una comunità ben ordinata. Se questo fine è raggiunto, allora si può sostenere che tale comunità realizza la medesima verità riconosciuta con categorie aristoteliche, anche se probabilmente vi sarà giunta in tutt’altro modo. La conclusione di MacIntyre, secondo la quale se vi è una tradizione vera allora essa deve essere l’unica vera ed essere superiore a tutte le altre, deriva dalla concezione realista della verità come corrispondenza, che egli fa propria, ereditandola naturalmente da Aristotele e Tommaso d’Aquino. Ma io credo che la teoria realistica della verità non abbia alcuna rilevanza per la teoria morale, ammesso e non

11. La domanda sorge spontanea al conoscitore dell’opera di MacIntyre che si trovi a leggere il suo ultimo libro: God, Philosophy, Universities. A Selective History of the Catholic Philosophical Tradition, Continuum, London 2009.

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concesso che ce l’abbia per la filosofia in generale. Questo perché essa è una teoria riguardante la nostra conoscenza del mondo esterno, mentre non vi è alcun mondo di res morali da rispecchiare con la nostra conoscenza. Inoltre la stessa teoria delle tradizioni, che nega un’acquisizione definitiva della verità, sembra piuttosto incompatibile con il realismo. Se la verità fosse corrispondenza, che cosa giustificherebbe il mutamento di paradigma? La verità filosofica va piuttosto intesa in un senso che è a metà hegeliano e a metà aristotelico. Vero è – come insegna Hegel – ciò che corrisponde al suo concetto. Ma, contrariamente a quanto pensava Hegel, la verità del concetto non è identificabile una volta per tutte da uno Spirito giunto alla trasparenza nell’autocoscienza. Piuttosto, la verità del concetto deve essere l’oggetto della disputa dialettica, in seguito alla quale si dovrà definire come vero tutto ciò che a esso corrisponde. In altri termini, anziché tentare di adeguare l’idea alla realtà, si dovrà adeguare la realtà all’idea. Nel nostro caso, anziché cercare una realtà (quale?) che renda vero il nostro concetto di Bene, dovremo chiarire dialetticamente la natura di questo Bene e considerare vera ogni realtà che a esso corrisponde. Così, le due tradizioni incompatibili di cui si parlava sopra, potranno essere considerate entrambe vere se entrambe corrisponderanno al concetto di Bene, senza che questo implichi un’identità culturale12. Chiaramente questa posizione, oltre che a Hegel, deve molto al primo dei grandi idealisti, cioè Platone, più di quanto debba ad Aristotele. Anzi, essa è espressamente divergente dalla teoria della verità che rintracciamo negli scritti dell’Organon. Tuttavia in quei testi (ad eccezione parziale delle Categorie) egli tratta di logica formale, non di ontologia o di morale. Nella Metafisica, per contro, è dato rinvenire anche i segni di una teoria ontologica della verità. È vero che non esiste una trattazione integrale di questa nel corpus aristotelico, tuttavia vi sono interpreti che hanno sostenuto la plausibilità di una lettura che vada in questa direzione13. Inoltre, la proposta che ho delineato non è incompatibile con i fondamenti filosofici 12. Per una simile concezione della verità, cfr. Costanzo Preve, Lettera sull’Umanesimo, Petite Plaisance, Pistoia 2012, p. 123. 13. Cfr. ad esempio Paolo Crivelli, Aristotle on truth, Cam­bridge University Press, Cam­ bridge 2004.

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aristotelici, né con la filosofia di MacIntyre. Volendo salvare la tradizione aristotelico-tomista come egli la descrive, si potrebbe sostenere che la teoria della verità come corrispondenza è il frutto di una lettura incompleta di Aristotele e, in base agli stessi strumenti offerti dalla tradizione, è giunto il momento di scalzarla a favore di una teoria metafisica più impegnativa e coerente14. Ma torniamo alla critica di MacIntyre al liberalismo. Questo, come si è visto, nega di basarsi su una concezione del bene. Svelato il carattere ideologico di questa pretesa, MacIntyre dimostra che il liberalismo considera bene la vita che gli individui conducono all’interno del suo ordinamento sociale, perseguendo fini diversi e anche incompatibili. Ma, come ogni teoria politica, il liberalismo necessita anche di una teoria sociale della giustizia, cioè deve fondare dei principi di giustizia distributiva. Molti tentativi sono stati fatti, all’interno della tradizione liberale, per fornire giustificazioni a diversi metodi distributivi, appellandosi a principi incompatibili tra loro (come l’utilità o il dovere), o di definire il significato della società politica, a volte giungendo a conclusioni divergenti anche partendo dalle medesime premesse (ad esempio quelle contrattualiste, se pensiamo alla divergenza tra Locke e Rousseau). L’inconcludenza del dibattito su che cosa sia socialmente giusto non è un carattere contingente, dovuto magari all’insipienza dei filosofi universitari impegnati nella discussione. Essa è piuttosto un carattere strutturale del liberalismo, il quale «è una serie di accordi a essere in disaccordo» (a set of agreements to disagree)15. La società liberale è fondata su due principi incompatibili, secondo i quali «ogni individuo è inteso sia come qualcuno impegnato nel perseguimento dei propri interessi personali, qualunque essi siano, sia come qualcuno che corrispondentemente richiede protezione da coloro similmente impegnati»16. Ogni teorico morale del liberali-

14. Interpretare Aristotele e Tommaso come teorici della corrispondenza tra ragione e realtà, inoltre, non tiene adeguatamente conto del fatto che è soltanto con la modernità che si dà una netta contrapposizione tra soggetto e oggetto. 15. Alasdair MacIntyre, A Partial Response to my Critics, in John Horton, Susan Mendus (eds.), After MacIntyre: Critical Perspectives on the Work of Alsdair MacIntyre, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1994, p. 292. 16. Ibidem.

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smo è impegnato a risolvere questo conflitto di principi, ma l’inconcludenza del dibattito si manifesta a ogni tentativo. Ciò che tutti i teorici liberali sono concordi nel rifiutare è una concezione dell’essere umano «come partecipante per sua natura a forme di comunità orientate a un singolo, anche se complesso, bene»17. Si tratta delle concezioni che fanno capo a Platone, Aristotele, Tommaso. Il problema è che proprio negando questa base i teorici liberali sono impossibilitati a dare risposta a cosa sia giusto. Se il giusto è una forma del bene, o quanto meno ciò che preserva il bene, allora è impossibile determinare cosa sia giusto se si nega la possibilità di comprendere cosa è bene per l’uomo. Qui è necessario fare un chiarimento, perché sembra esserci una contraddizione. Si è detto che il liberalismo in realtà presuppone una concezione del bene; ora invece si dice che il liberalismo non può risolvere i suoi conflitti perché manca di tale concezione. Per chiarire la questione distingueremo il «bene» (con la minuscola) dal «Bene» (già prima, inavvertitamente, ci siamo serviti della maiuscola). Il liberalismo ha una concezione del primo, ma non del secondo. In base al primo i teorici liberali sostengono che sia «bene» che ciascuno possa seguire le proprie aspirazioni, i propri piani di vita, i quali, secondo certi standard esterni, potranno essere anche immorali, ma, finché non violano le regole della giustizia, devono essere tutti accettati. La giustizia presupposta da questa concezione non implica nulla al livello sociale, ma sostiene semplicemente che nessuno deve interferire con l’altro nel perseguimento dei propri scopi. Questa concezione debole di «bene» è compatibile con il fiorire di divergenti e incompatibili idee di cosa sia «Bene». Con questo termine maiuscolo, indichiamo ciò è considerato essere adatto allo sviluppo della vita buona per l’uomo, nel senso aristotelico del termine. In una società liberale, potranno convivere coloro che ritengono che il perseguimento dell’interesse privato sia il «Bene», con coloro che ritengono che quest’ultimo sia individuabile dal calcolo sociale volto a determinare la maggiore utilità per il maggior numero, con quelli che sostengono che il «Bene» sia l’azione disinteressata, compiuta unicamente per rispetto al dovere morale;

17. Ibidem.

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con quelli che identificano il «Bene» in una vita appartata, lontana dagli affanni politici e quelli che lo identificano con la partecipazione politica, ecc. È chiaro però che non esiste nessun principio per stabilire quale concezione del «Bene» sia quella corretta; quindi non esiste nessun principio per stabilire in che cosa debba consistere la giustizia sociale (ricordiamoci dalle pagine precedenti che la concezione del Bene è alla base di quella della giustizia). Ora, un liberale replicherà a questa accusa affermando che essa non centra il bersaglio, in quanto egli è disposto a riconoscere le conclusioni senza alcun problema. Il fatto che il dibattito sia interminabile e che nessuna concezione sostanziale del Bene prevalga, per lui non è affatto un problema. Anzi, egli è liberale proprio perché valuta positivamente questi aspetti. I contenuti della giustizia sociale, secondo lui, non possono essere derivati da una concezione del Bene, ma devono essere determinati dalla preferenza espressa dalla maggioranza. Questa tuttavia è una tesi che può essere sostenuta al massimo da un politico liberale e non da un filosofo liberale. Ogni filosofo è infatti impegnato a sostenere la verità delle sue tesi, a meno che non sia un coerente relativista (ammesso che ciò sia possibile), ma questo non è certo il caso di Rawls o Nozick, né di Locke, né di Kant, né di tanti altri filosofi liberali. Ma se la critica di MacIntyre si è mossa fin qui su un terreno puramente filosofico, sarà sul medesimo campo che i liberali dovranno rispondere. E qui sembra proprio che MacIntyre abbia pienamente ragione: una filosofia liberale esente da un interminabile dibattito non potrà mai esistere. In questo senso, il liberalismo come tradizione di ricerca ha fallito. Che conseguenze ha per la politica il fallimento filosofico del liberalismo? Innanzitutto esso significa che la politica liberale ha la sua unica fonte di legittimità nella volontà popolare, in quell’espressione della maggioranza cui faceva appello il difensore del liberalismo che abbiamo immaginato qualche riga più in su. In secondo luogo, questo significa che la politica è abbandonata all’arbitrio dei cittadini ed ha perciò una base interamente relativistica. Affrontiamo le due questioni separatamente. La giustificazione politica sulla base della volontà popolare non è che un’ideologia, il cui carattere di falsa coscienza emerge oggi in tutta la sua evidenza. Se mai vi è stata una

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forma di direzione della politica da parte delle masse delle democrazie moderne, la qual cosa è alquanto discutibile, quel che è certo è che ormai solo i più strenui e accaniti ideologi possono continuare a sostenere una cosa simile. Da ogni parte politica, infatti, è giunta l’ammissione, richiesta dai più elementari principi di onestà intellettuale, che le masse elettorali sono diventate quasi completamente impotenti. È inutile spiegarne lungamente le cause, che sono note a tutti. Limitiamoci a un rapido e incompleto elenco: distorsione mediatica dell’opinione pubblica, perdita della sovranità nazionale degli Stati, emergenza di una classe capitalistica transnazionale che determina gli spostamenti di ricchezza e le politiche economiche degli Stati, capitalismo selvaggio e globalizzato, crescente complessità delle interazioni globali, disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni e allontanamento dalla vita politica, ecc. Si potrebbe obiettare che l’attuale configurazione dello Stato democratico non è l’unica ammessa dal liberalismo e che un’azione risvegliata delle masse potrebbe portare a un cambiamento istituzionale; tuttavia questa obiezione non risolve il problema, perché se l’osservatore politico potrebbe continuare a sostenere che questa sarebbe la volontà della maggioranza, e che andrebbe rispettata in quanto tale, quella massa non potrebbe avere altro motivo di organizzarsi e agire se non alleandosi a una concezione del Bene che vorrebbe vedere incarnata nelle istituzioni. Per quanto riguarda il relativismo, osserveremo con MacIntyre che esso implica la cancellazione della distinzione tra rapporti manipolativi e non manipolativi18. La nostra vita politica (e anche nei luoghi di lavoro), in altri termini, invece di essere caratterizzata da un dibattito razionale, è basata su un agonismo sofistico che inevitabilmente riduce la giustizia al volere del più forte. L’aggettivo «sofistico» naturalmente rimanda ai Sofisti greci, il che ci ricorda come questi problemi della democrazia fossero già perfettamente chiari all’epoca. Per renderci conto di cosa tutto questo implichi, sarà sufficiente allora leggere Platone. Anziché essere determinata dal volere della maggioranza, la direzione della politica e della giustizia sociale è determi-

18. Cfr. Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù cit., pp. 55-68.

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nata piuttosto dalla «forza»: vince chi è in grado, tramite i media, di manipolare l’opinione altrui, di convincerlo tramite un discorso persuasivo (sofistico e non veritiero). Vince chi ha più denaro, chi è più scaltro, chi è più fortunato. Chiaramente questo non significa che se ogni cittadino credesse alla verità e agisse di conseguenza i mali del mondo scomparirebbero. Piuttosto, ciò che si vuol sostenere è che l’ordinamento politico e sociale in cui viviamo non ha alcuna legittimità, se non per coloro che ritengono la politica dei Sofisti il miglior modo per condurre la società in cui vivono. Questo ci impone di ripensare le forme della nostra convivenza, i beni che perseguiamo quotidianamente, il nostro modo di intendere la politica, in direzione di un cambiamento radicale. A questo scopo la filosofia non è certo sufficiente (né, se intesa in senso stretto, si può dire che sia necessaria), ma certamente aiuta a chiarire i termini della questione.

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3. Crisi di legittimità e inadeguatezza del liberalismo

L’universale, questo spirito morto frantumato negli atomi della molteplicità assoluta degli individui, è un’uguaglianza in cui Tutti hanno il valore di Ciascuno, valgono cioè come persone. Hegel, Fenomenologia dello Spirito

Possiamo far cominciare la critica al liberalismo che muoveremo seguendo Taylor dallo stesso punto da cui siamo partiti in compagnia di MacIntyre: cioè con la negazione della presunta neutralità dello Stato liberale. Esso è un prodotto della modernità e, in quanto tale, incarna i valori che da essa sono emersi. Come abbiamo visto parlando di Hegel, con la modernità è nata un’esigenza del tutto nuova, legata alla libertà del soggetto individuale. Il mondo naturale e sociale non è più all’origine del significato della vita umana, ma diviene il mezzo mediante il quale questa può realizzarsi. Il liberalismo è pienamente coerente con questo aspetto della modernità: rifiutando qualsiasi concezione unitaria del Bene (che, in termini aristotelici, presuppone un concetto metafisico come quello di una «natura normativa», che è proprio quanto il soggetto moderno è giunto a rifiutare), si fa fautore di un’«etica delle regole»1 che si pretende neutrale. Tuttavia Taylor, in linea con i comunitaristi e con MacIntyre, ritiene che questa neutralità rispetto al bene sia sol-

1. Charles Taylor, Le just et le bien, «Revue de Métaphysique et de Morale», XCIII (1988), n. 1, p. 37.

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tanto apparente. Infatti, la giustificazione che si può offrire delle stesse regole procedurali dovrà consistere «in una certa comprensione della vita umana e della Ragione, in una dottrina antropologica, e quindi in una concezione del bene». La «logica della “natura” del “telos” e del “bene”»2, che sembrava essere stata rifiutata dalla modernità, ha allora soltanto cambiato contenuto, e in questo mutamento essa è stata (ideologicamente) nascosta. Per il soggetto moderno, il bene è agire liberamente sulla base della propria ragione. Questo può essere interpretato in diversi modi, a seconda di quale dottrina antropologica si abbracci. Si potrà ritenere che la ragione è strumentale rispetto alla passione che determina i fini (Hume e, con alcune varianti, molti pensatori liberali); oppure che essa fornisce la legge per valutare ogni massima delle nostre azioni in modo da imporci di seguire quelle massime che possono essere considerate conformi al dovere morale (Kant); ancora, si potrà ritenere che la ragione deve calcolare le conseguenze delle azioni compiute nel perseguimento dei nostri desideri, in modo da massimizzare la felicità (utilitarismo); oppure, che agire in base alla propria natura voglia dire riconoscere l’eccesso nei nostri desideri come una corruzione eteronoma della nostra libertà, causata dalla società (Rousseau). Come sottolineato da MacIntyre, questa è la natura del dibattito su cosa sia bene. Secondo Taylor tutte queste interpretazioni concordano su quattro punti fondamentali che definiscono la natura di un soggetto libero. Egli è considerato: (1) uguale a ogni altro essere libero; (2) titolare di diritti che garantiscono la sua libertà; (3) capace di realizzare i suoi propositi nella vita privata e di (4) influenzare il governo della società e la direzione complessiva di questa nel suo controllo della natura3. A differenza di MacIntyre, Taylor non ritiene completamente sbagliata questa idea di natura umana. Egli tiene per valida l’aspirazione moderna all’autodeterminazione in base a un’«etica dell’autenticità». Tuttavia i filosofi liberali, a suo avviso, non sono stati sufficientemente fedeli a questo ideale e hanno finito col cadere in contraddizione. Allo stesso modo 2. Ivi, p. 40. 3. Id., Legitimation Crisis?, in Id., Philosophy and the Human Sciences. Philosophical papers 2, Cam­bridge University Press, Cam­bridge 1985, pp. 274-275.

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la pratica sociale del liberalismo si è pericolosamente impoverita, giungendo anch’essa in contraddizione con i principi in essa originariamente incarnati4. Vediamo come questo possa essere avvenuto. Le istituzioni moderne (lo Stato e il mercato capitalistico) nascono, almeno in linea di principio, come incarnazioni di quei quattro principi che abbiamo appena elencato. L’odierno modo di vivere e la società contemporanea sono eredi di quelle concezioni e di quelle istituzioni. Per comprendere se le istituzioni sono legittime, allora, occorre comprendere se esse effettivamente permettono all’uomo di realizzare la sua libertà o se questo termine non è più nient’altro che un residuo ideologico. La mancanza di legittimità sarebbe una questione filosofica e morale, ma avrebbe inevitabilmente una rilevanza politica5. Il sistema capitalistico entro il quale viviamo è basato sulla crescita dei profitti. Anche questo, almeno in parte, risponde a un’esigenza moderna, in quanto esprime una possibilità di realizzazione del punto (3). Essere impegnati in un’impresa economica al fine di massimizzare i propri profitti significa essere liberi di realizzare i propri scopi personali, sia in termini lavorativi che in termini di soddisfazione dei bisogni e dei piaceri mediante il denaro acquisito. Questo naturalmente implica il lavoro subordinato, il cui scopo dovrebbe parimenti essere una realizzazione delle aspirazioni umane alla libertà. Eppure gran parte del lavoro compiuto dagli uomini è privo di questo significato, rivelandosi spesso un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi primariamente umani, implicando noia, fatica, obbedienza. Anche in questo caso la lezione di Marx resta insuperata. Si potrà replicare che questi sono caratteri necessari del lavoro, ma sembra invece che sia l’esigenza, implicita nel sistema capitalistico, di massimizzare i profitti a qualsiasi costo a impedire una riorganizzazione delle attività lavorative che possa portare a una democratizzazione all’interno dei luoghi in cui si svolge, una riduzione dell’orario o magari una rotazione tra tutti i cittadini nel compimento dei lavori più pesanti. La crescita è intesa in termini meramente quantita-

4. Questi temi sono affrontati anche in Id., Il disagio della modernità cit. 5. Id., Legitimation Crisis cit., p. 277.

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tivi, subordinando a sé qualsiasi bene umano che possa porle dei limiti. Taylor ritiene che questi evidenti caratteri della nostra società non siano il prodotto alienante di una «formula imposta sulle masse di lavoratori dalla classe dominante»6, come potrebbe essere sostenuto da un marxista ortodosso. Piuttosto, sono proprio quei lavoratori alienati e quegli uomini il cui bene è stato subordinato alle leggi del profitto a dare un tacito assenso al sistema. L’uomo alienato ma critico verso il sistema impersonale che lo domina, e l’individuo soddisfatto della sua condizione di consumatore non sono due figure diverse. La stessa natura della libertà moderna implica questo carattere contraddittorio. Se il lavoro ha il carattere disumanizzante che ha, il lavoratore è comunque disposto a non reclamare maggiori diritti, perché questo significherebbe doversi impegnare in una partecipazione democratica sul luogo di lavoro, dedicando ad essa tempo ed energie. L’individuo preferisce accettare le sue condizioni di lavoro per poter essere più libero in altri contesti, dove ritiene di poter realizzare maggiormente se stesso. L’importanza dello spazio privato è una fondamentale componente dell’ideale moderno di libertà e realizzazione, e il soggetto può sentirsi meglio come consumatore che come partecipante alla direzione di un’impresa produttiva. Analogamente il meccanismo irrazionale di una crescita fine a se stessa viene accettato dal momento che questa permette l’afflusso di ricchezze, la varietà e l’aumento dell’offerta dei beni di consumo, mediante i quali il soggetto ritiene di realizzare la sua buona vita. Questo ci porta a un’ulteriore contraddizione: l’oggetto di consumo è una merce che viene presentata dalle agenzie pubblicitarie come portatrice di una promessa di felicità; essa sembra essere indispensabile alla determinazione dell’identità personale. Ma naturalmente si tratta di un linguaggio volto alla manipolazione, alla quale l’individuo si sottopone per poter perseguire il suo ideale di vita privata7. Questa descrizione della condizione odierna svolta da Taylor si addice perfettamente al periodo del «boom di consumi»

6. Ivi, p. 279. 7. Tutto questo discorso è svolto da Taylor ivi, pp. 278 ss.

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durante il quale egli scrive (gli anni Ottanta). Nel periodo di crisi che attraversiamo attualmente la situazione si è fatta ancora più paradossale. Infatti l’ideale della realizzazione individuale nella costruzione di una vita privata sulla base del consumo di beni sembra essere rimasto invariato, nonostante sia diminuita per molti la possibilità di concretizzarlo. Anche se fosse possibile ritornare a qualcosa di simile, il discorso di Taylor vale a mostrarci l’assurdità di una simile speranza, in quanto la società dei consumi è una società profondamente contraddittoria, in base agli stessi criteri dell’individualismo moderno. Taylor non è un critico moralizzatore: come si è visto, egli ritiene che il modello di vita consumistico incarni un fondamentale aspetto della costruzione dell’identità moderna. Tuttavia è la medesima libertà soggettiva a richiedere che il lavoro sia meno alienante, che la crescita sia sottomessa a considerazioni sulla giustizia e sul bene umano, che le merci di cui ci serviamo non abbiano una forma feticizzata, ma siano considerate per quel che sono. Il modello consumistico, perciò, è quantomeno parziale. Secondo Taylor la contraddizione insita nell’attuale ordinamento sociale non è priva di soluzione. Così sarebbe se le parti contendenti avessero uguale forza. Ma egli ritiene che la visione affermativa (quella che ritiene che esistano spazi di libertà) non sia vincolata a sostenere incondizionatamente il capitalismo. Essa lo sostiene solo in quanto esso appare una condizione per la libertà. La visione positiva è pertanto vulnerabile di fronte a quella negativa. Se questa mostra che l’aspirazione moderna alla libertà è frustrata, o che può esistere un’alternativa che meglio soddisfi le medesime esigenze, allora sarà superiore. E se sarà così, questo significa che l’ordinamento politico e sociale in cui viviamo perde la sua legittimità. La filosofia politica di Taylor sembra costruita per mostrare che è proprio così e per delineare la possibilità di un’alternativa. Di quest’ultima si parlerà nel prossimo capitolo; ora compiamo un altro passo nella comprensione del carattere contraddittorio della modernità. Una delle caratteristiche salienti della condizione attuale è la disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni e quindi il calo della partecipazione politica. In generale, si può dire che il processo democratico fallisce; Taylor ha individuato quelle che a suo avviso sono le ragioni principali.

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Il primo motivo è il crescente senso di alienazione dei cittadini di «società grandi, centralizzate e burocratiche»8. La macchina della politica sembra funzionare senza tenere in considerazione gli interessi del popolo, non solo perché il governo centralizzato è troppo lontano, ma anche perché esso sfugge al controllo democratico e diviene preda del potere economico in mano a potenti lobby, le quali a maggior ragione sono fuori dal potere dei cittadini. Una seconda ragione del fallimento del processo democratico è la divisione interna alla comunità politica, la quale a sua volta può avere diverse cause. Una di queste è la disparità eccessiva in termini di ricchezza e potere tra diversi strati della popolazione. Oggi la dicotomizzazione marxista del mondo sociale (diviso in proletari e borghesi) sembra piuttosto inadeguata, così come il concetto stesso di «classe», in quanto questa presuppone, secondo l’insegnamento di Lukács, una coscienza comune che oggi non è presente. Molto più genericamente, il conflitto può nascere nel momento in cui «i cittadini meno avvantaggiati percepiscono che i loro interessi sono sistematicamente impediti o negati»9. Un’altra causa di divisione all’interno del tessuto sociale può essere dovuta alla sensazione, da parte di un gruppo culturale, di non ricevere l’adeguato riconoscimento. Gli esempi storici vanno dal caso dei neri americani considerati inferiori ai bianchi alla negazione della parità dei sessi; oggi si possono citare i casi del Québec, all’interno del quale numerosi cittadini richiedono l’indipendenza, e degli omosessuali che richiedono il diritto al matrimonio. Queste forme di esclusione possono condurre alla frammentazione, in quanto il gruppo che percepisce l’ingiustizia non è più disposto a considerarsi parte di una comunità politica e l’appello a questo concetto suona alle loro orecchie come un’offesa. Tutti questi fattori contribuiscono a generare l’impotenza politica, in quanto le persone divengono «sempre meno capaci di formare un proposito comune e di portarlo a termine»10. Il fallimento del processo democratico è particolarmente importante in quanto va a inficiare ben tre su 8. Id., The Dangers of Soft Despotism, «The Responsive Community», III (1993), n. 4, p. 22. 9. Ivi, p. 24. 10. Ivi, p. 26.

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quattro dei fondamentali aspetti della libertà moderna. Le disparità culturali o economiche impediscono di realizzare il primo requisito, quello della eguaglianza (intesa come eguaglianza delle opportunità e di trattamento giuridico). Ma questo significa anche che i diritti di specifici gruppi sociali non vengono adeguatamente riconosciuti e tutelati, mancando così il secondo requisito della libertà. Infine, è immediatamente evidente come l’impotenza politica sia la negazione della capacità da parte degli individui di influenzare la politica della società in cui vivono (che è il quarto requisito della libertà). Questo discorso ci porta alla conclusione che l’unica libertà rimasta all’individuo è quella concernente il proprio spazio privato, al massimo famigliare, il quale può essere arricchito dall’accesso ai beni di consumo. Ma questo è un evidente impoverimento del concetto di libertà. Inoltre, anche questa residua libertà privata è ormai sempre più frustrata dalle condizioni di vita al tempo dell’odierna crisi. Ancora una volta, si può dire che il risultato non sia causato unilateralmente dalla volontà di una classe dominante potente e malvagia, in quanto gli stessi individui che si ritrovano con una libertà monca sono in parte gli artefici della loro condizione, dato che la mancanza di controllo democratico sulla vita politica è in buona parte imputabile al loro disinteresse verso lo spazio pubblico. Ma il fatto che essi siano corresponsabili, non rende la situazione meno drammatica. Se è vero, come ritiene Taylor, che le istituzioni moderne hanno tratto la loro legittimità dal fatto che potevano garantire (o erano ritenute capaci di farlo) i quattro requisiti essenziali alla libertà di un soggetto autonomo e se è vero che oggi questi sono negati dalle strutture del nostro ordinamento, allora la società è in contraddizione con se stessa e ha perso i fondamenti della sua legittimità11. Taylor, perciò, seguendo una strada diversa da MacIntyre, è giunto anch’egli alla conclusione che il liberalismo ha fallito dal punto di vista politico. Vedremo subito che i nostri autori concordano anche sul fatto che il liberalismo ha fallito anche dal punto di vista filosofico. Secondo Taylor esiste un legame strettissimo tra teoria e

11. Id., Legitimation Crisis cit., p. 288.

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pratica sociale. Egli ritiene che lo «spirito oggettivo» (l’ambiente culturale e istituzionale di una data epoca, secondo la sua interpretazione di Hegel)12 non sia un’entità autonoma che possa essere studiata con i metodi delle scienze naturali. Esso è piuttosto il prodotto e insieme il presupposto dell’agire degli individui e costituisce l’orizzonte di significati entro i quali essi comprendono se stessi e le loro relazioni. Perciò ogni pratica sociale implica l’uso di un determinato linguaggio che non ha significato all’esterno di essa. Viceversa, una pratica sociale non può esistere se il linguaggio che la sostiene viene a mancare13. In ogni cultura vi sarà perciò un certo numero di «significati intersoggettivi»14, nel senso che il contesto in cui un individuo è inserito non può essere compreso se non mediante la condivisione di significati riguardanti le pratiche in cui essi sono coinvolti (Taylor nega con Wittgenstein l’esistenza di un linguaggio privato). Ma oltre a questi esistono anche dei significati più forti, i quali sono indispensabili per la coesione di una comunità, e che Taylor chiama «significati comuni»15. Essi sono beni non soltanto condivisi da ogni individuo, ma anche consapevolmente ritenuti tali e perseguiti collettivamente. Essi sono ad esempio quei valori culturali che definiscono l’identità di un gruppo e che vengono attivamente difesi e perseguiti (l’esempio del canadese Taylor, come spesso accade, rimanda alla realtà degli abitanti francofoni del Québec)16. Possiamo ricomprendere entro la categoria di significato comune anche quei quattro valori fondanti della libertà moderna che abbiamo considerato già più volte. Adesso si capisce meglio cosa significhi per Taylor una crisi di legittimità: essa consiste nella divergenza (sempre crescente) tra la pratica sociale e i significati comuni che inizialmente la sostenevano17. Questi significati comuni pos12. Cfr. Id., Hegel cit., pp. 380 ss. 13. Id., Interpretation and the sciences of man (1971), in Id., Philosophy and the Human Sciences cit., pp. 15-57. Si vedano in particolare le pp. 33-34. 14. Ivi, p. 36. 15. Ivi, p. 39. 16. Si noti che un significato comune non implica necessariamente una concordia unanime tra coloro che lo perseguono; ad esempio la libertà costituisce un significato comune per gli abitanti del Stati Uniti, eppure essi divergono fra loro su come questo debba essere compreso ed applicato. Cfr. Charles Taylor, Interpretation and the sciences cit., p. 39. 17. Cfr. Ivi, pp. 43-52.

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sono essere meglio compresi se dalla credenza diffusa degli appartenenti a una determinata cultura ci si sposta al livello filosofico (o di teoria sociale). La filosofia, infatti, esprime ciò che costituisce lo sfondo spesso inespresso delle credenze più diffuse. Ora, se sussiste una stretta interrelazione tra significati comuni, pratiche sociali e teoria filosofica, questo ci porta alla seguente conclusione: se determinate pratiche sociali falliscono nella realizzazione di quei beni richiesti dai significati comuni, ciò significa che la filosofia che sta alla base dell’auto-comprensione dei partecipanti alle pratiche e che, di conseguenza, informa di sé le pratiche stesse, è mal formulata. Infatti è al livello di filosofia/teoria sociale che si avanza la pretesa che determinate forme sociali siano adeguate al perseguimento di determinati fini che vengono valutati come buoni. Una teoria sociale non può essere considerata vera verificando se corrisponde alla realtà, poiché essa stessa è costitutiva di questa realtà. Il metodo di verifica per una filosofia sociale può essere soltanto pratico18, secondo quanto già Marx aveva espresso nella seconda delle sue Tesi su Feuerbach. La qual cosa, peraltro, serve anche a comprendere il modello offerto da MacIntyre di tradizioni rivaleggianti: la verità di una tradizione (o anche di più di una) può essere solo una questione pratica. È chiaro, dunque, il motivo essenziale per cui, anche nell’ottica di Taylor, si debba considerare fallita la filosofia liberale. Ma per completare il quadro, cerchiamo di capire perché essa fosse destinata a fallire. La filosofia politica liberale si basa su un’ontologia atomistica19, in base alla quale il soggetto è considerato un’entità in sé compiuta, titolare di diritti indipendentemente da qualsiasi appartenenza sociale. Di conseguenza, egli non ha nessun particolare «obbligo di appartenenza» (obligation to belong) nei confronti della società in cui vive. Quest’ultima, piuttosto, è soltanto il frutto di un accordo tra individui liberi e razionali che riconoscono l’utilità di unirsi per perseguire con maggiore efficacia i propri interessi. Lo Stato, dunque, è inteso strumentalmente, come ciò che difende la libertà di 18. Id., Social Theory as practice, in Id., Philosophy and the Human Sciences cit., p. 104. 19. Le considerazioni che seguono fanno riferimento a Id., Atomism (1979), in Id., Philosophy and the Human Sciences cit., pp. 187-210.

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ognuno dalle ingerenze degli altri. La società è intesa come il mezzo per sviluppare delle facoltà che l’individuo potrebbe anche sviluppare in piena autonomia, se lo «stato di natura» bastasse a garantire la sicurezza della vita e della proprietà. Taylor contesta questa concezione dei diritti individuali, mettendo in evidenza come il motivo che noi abbiamo per accordare un diritto a qualcuno è che lo riconosciamo dotato di una facoltà che comanda il nostro rispetto. Così, noi non attribuiamo il diritto a scegliere il proprio piano di vita a un albero, perché riconosciamo soltanto all’uomo una specifica capacità – la ragione – che richiede il nostro rispetto in quanto caratteristica della natura propria dell’uomo. In generale, è il riconoscimento delle capacità (o, in termini aristotelici, delle potenzialità) specificamente umane che definisce chi sono i titolari di certi diritti e qual è il contenuto di questi stessi. Ciò significa che l’agente A ha un diritto naturale (e non meramente legale) a X, se fare o godere di X è una parte essenziale della manifestazione delle capacità specificamente umane (CSU). Ad esempio, se si riconosce come una delle CSU la razionalità, allora attribuiremo ad A il diritto naturale alla vita e a uno sviluppo non impedito della sua razionalità. Allo stesso modo, l’agente A ha un diritto naturale a X se X è causalmente necessario alla manifestazione di una CSU. Ad esempio, il diritto a una qualche forma di proprietà come condizione per lo sviluppo della libertà. Tutto ciò ha importanti conseguenze. In primo luogo, il fatto che noi riconosciamo che un diritto appartiene naturalmente agli esseri umani, significa che esso comanda un riconoscimento incondizionato. In secondo luogo, questo riconoscimento deve implicare qualcosa che vada oltre il semplice precetto negativo di non interferire con A nel godimento dei suoi diritti, cioè richiede che vengano positivamente favorite nel loro sviluppo quelle CSU che sono alla base dei diritti stessi. Ora, le CSU possono essere sviluppate dall’uomo in quanto tale, come vuole l’atomismo, o richiedono qualcosa di più? Per rispondere a questa domanda occorre notare che l’attualizzazione delle CSU può essere impedita non soltanto da fattori esterni (come l’interferenza da parte di altri agenti), ma anche da fattori interni. Ad esempio la paura può impedirci di esercitare il nostro diritto di scelta; l’ignoranza può ostacolarci nello sviluppo della razionalità; la malattia può

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mettere a rischio la nostra vita; una disabilità può inficiare il nostro diritto a partecipare liberamente alle pratiche della vita sociale20. Taylor nota come il mancato riconoscimento di queste banali considerazioni è dovuto all’accettazione di una «facile psicologia morale» propria dell’empirismo, secondo la quale le capacità umane sono dati di fatto, piuttosto che potenzialità da sviluppare21. Ma poiché questa psicologia è falsa, è evidente che lo sviluppo delle CSU può avvenire soltanto in un contesto sociale e culturale in cui, per riferirci agli stessi esempi, possa essere coltivato il coraggio di fare una scelta in comunione con altri individui che si trovino ad affrontare un problema simile al nostro, o che ci incoraggino con i loro consigli ed esempi di vita; in cui l’ignoranza possa essere curata da un’adeguata educazione; la malattia da un giusto trattamento medico; la disabilità dalla solidarietà di chi ci è vicino. Una comunità che offra queste possibilità non può essere considerata semplicemente in termini strumentali. Essa ci richiede proprio quell’obbligazione di appartenenza che l’atomismo negava. Infatti l’esercizio dei diritti individuali è possibile solo all’interno di una specifica cultura e società. Il «punto cruciale» avanzato da Taylor è il seguente: dal momento che un individuo libero può mantenere la sua identità soltanto all’interno di una società/cultura di un certo tipo, egli deve preoccuparsi della forma di questa società/cultura come totalità. Egli non può […] preoccuparsi soltanto delle sue scelte individuali e delle associazioni formate in base a queste scelte a dispetto della rete in cui tali scelte possono essere aperte o chiuse, arricchite o impoverite. È importante per lui che certe attività e istituzioni si sviluppino nella società. È ancora più importante per lui quale sia il contegno morale (moral tone) dell’intera società – per quanto toccare questo tema possa essere scioccante per molti libertarians – poiché la libertà e la diversità umana possono fiorire soltanto in una società dove vi sia un generale riconoscimento del loro valore.22

20. Richiamo qui gli esempi della malattia e della disabilità che non compaiono in Taylor, ma valgono ad arricchire il suo argomento. Essi sono tratti da, e sono pienamente comprensibili solo sullo sfondo di, Alasdair MacIntyre, Animali razionali dipendenti cit. 21. Charles Taylor, Atomism cit., p. 197. 22. Ivi, p. 207.

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Questa conclusione di Taylor implica che la buona società in cui l’individuo può sviluppare le proprie capacità deve essere una comunità in cui ciascuno si prende cura dell’altro. Gli esempi che abbiamo fatto sopra dimostrano come lo sviluppo di un individuo dipenda da specifiche relazioni, perciò ogni individuo che riconosca agli altri i medesimi suoi diritti (e questo è ciò che richiede la giustizia, anche secondo gli atomisti), dovrà al contempo prendersi cura dell’altro affinché anch’egli possa sviluppare le CSU. Con quanto detto in queste considerazioni sull’atomismo, abbiamo visto come Taylor contesti l’ontologia sociale del liberalismo e, quindi, come consideri fondamentalmente errata la sua concezione del soggetto. Passiamo adesso alla critica che egli muove nei confronti dell’idea liberale di libertà23. Quest’ultima è definita in termini negativi, come assenza di costrizione e di intralcio: per essere libero l’individuo deve (1) poter scegliere liberamente ciò che ritiene sia bene per lui, senza che una determinata condotta gli venga imposta da un’autorità esterna; (2) poter perseguire il bene così scelto senza ostacoli di tipo sociale o economico. Tuttavia, come abbiamo visto nel caso dell’esercizio dei diritti (che è espressione di libertà), gli ostacoli possono provenire anche dall’interno dell’agente stesso. Quando noi riflettiamo sulle circostanze di un’azione siamo infatti propensi a ritenere libero un individuo che agisce in base ad un’autentica autonomia di ragionamento, ma questa richiede «autocoscienza, autocomprensione, discriminazione morale e autocontrollo»24. Solo in questo modo la libertà può essere intesa correttamente, nei termini di direzione autonoma dell’azione. Queste condizioni possono venir meno, ad esempio, se il soggetto fallisce nel discriminare i fini che egli ricerca, o se perde l’autocontrollo, se si auto-inganna, se ha paura o se è fuorviato da una falsa coscienza. Naturalmente tutto questo può avere le sue cause sociali, ma il punto importante è che la libertà non può essere definita meramente nei termini della capacità di agire in base alla volontà che di volta in volta guida il soggetto, il quale dovrà invece essere

23. Le considerazioni che seguono fanno riferimento a Id., What’s wrong with negative liberty? (1979), in Id., Philosophy and the Human Sciences cit., pp. 211-229. 24. Ivi, p. 215.

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capace di comprendere se questa volontà è autenticamente sua, o se invece è stata in qualche modo condizionata. Abbiamo visto sopra, seguendo MacIntyre, che la pratica politico-sociale liberale è informata da un relativismo che cancella la distinzione tra rapporti manipolativi e non-manipolativi, aprendo l’arena pubblica all’azione di moderni sofisti. Se applichiamo questa considerazione al discorso di Taylor, dovremo concludere che la pratica politica liberale non può essere espressione di vera libertà. Infatti la politica sofistica tende a manipolare l’opinione, a condizionare l’esito della maggioranza senza rispetto per la libera razionalità di ogni agente. Si può obiettare che questa è una condizione ineliminabile della vita politica, in quanto una completa trasparenza nei rapporti pubblici e una perfetta razionalità nella deliberazione sono ingenue chimere. Questo è certamente in parte vero, tuttavia è necessario dotarsi degli strumenti filosofici per distinguere un rapporto manipolativo da uno non-manipolativo, in modo da tendere (se non la si può raggiungere) alla deliberazione il più possibile razionale. Ma la filosofia liberale, con la sua concezione negativa della libertà, non ci fornisce questi strumenti. Una seconda importante critica che Taylor muove alla libertà negativa comporta un’ulteriore riflessione sui moventi dell’azione umana. I liberali sostengono infatti che l’uomo abbia il diritto di agire in base al proprio desiderio, purché questo sia compatibile con la giustizia. Ma un essere razionale maturo non ha soltanto desideri, ma ha anche desideri di «secondo ordine», cioè «desideri riguardo ai desideri»25. Con ciò Taylor intende che noi generalmente discriminiamo qualitativamente tra diversi desideri, giudicandoli «più alti o più bassi, nobili o rozzi, integrati o frammentati, significativi o triviali, buoni o cattivi»26. L’esercizio della razionalità richiede di mantenere una certa distanza da essi, in modo da poterli valutare indipendentemente dalla loro forza attrattiva. Questo suona molto platonico-aristotelico, ma anche un liberale riconoscerà che un uomo che non sappia dare una gerarchia ai propri desideri non può condurre una vita ordi-

25. Ivi, p. 220. 26. Ibidem.

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nata, in quanto non riuscirà a raggiungere nessun obiettivo prima di averne trovato un altro al momento più attrattivo. Dovremo perciò ammettere che la libertà non può essere disgiunta dalla possibilità di comprendere qual è il nostro vero bene. Se un liberale accetta tutto questo, tuttavia, potrà sempre reclamare che è pur sempre l’individuo a essere l’ultimo arbitro su cosa questo vero bene sia. Ma Taylor nega la validità di questa posizione di salvataggio. Perché – egli sostiene – siamo costretti ad ammettere la possibilità che l’individuo si sbagli in questa valutazione. Negare questo significherebbe assumere che ogni individuo è perfettamente razionale in isolamento, cosa che abbiamo dimostrato falsa nel nostro discorso contro l’atomismo. La libertà, allora, come l’esercizio dei diritti (le due cose, in realtà, sono state distinte solo per comodità espositiva), non può essere un affare individuale, ma può essere realizzata soltanto all’interno di un tessuto comunitario che incarni una concezione del bene. Questo ci porta, infine, a una considerazione circa l’impossibilità, già rilevata per altra via da MacIntyre, di identificare dei criteri per la giustizia distributiva in base ad una concezione atomistica. Infatti i liberali basano le loro teorie della giustizia distributiva sulla base della priorità dei diritti individuali rispetto alla società. Ma se quest’ultima è stata dimostrata da Taylor fallimentare (in quanto i diritti hanno un significato solo all’interno della società), allora ogni concezione che su questa si basi sarà insostenibile27. Siamo così giunti, ancora una volta, a considerare la filosofia liberale sostanzialmente insostenibile.

27. Cfr. Id., La natura e la portata della giustizia distributiva (1985), in Alessandro Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo cit., pp. 77-114. Qui Taylor discute le teorie liberali della giustizia distributiva facendosi difensore di una visione aristotelica del bene umano, posta a fondamento della giustizia.

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4. Libertà e democrazia in prospettiva repubblicana

Ad un governo monarchico o ad uno dispotico non occorre molta probità per mantenersi o sostenersi. La forza delle leggi nell’uno, il braccio del principe ognora levato nell’altro, regolano o reggono ogni cosa. Ma in uno Stato popolare occorre una molla in più, la quale non è altri che la virtù. Montesquieu, Lo spirito delle leggi

Il punto di partenza per delineare una teoria sociale alternativa al liberalismo non può che cominciare, per Taylor, dalla ridefinizione delle condizioni alle quali una società possa essere detta libera, cioè realmente rispondente alle esigenze di autenticità del soggetto moderno. Come si è detto nell’Introduzione, Taylor si richiama alla tradizione dell’«umanesimo civico» di Machiavelli, Mill, Rousseau, Mostesquieu, Tocqueville e altri, il cui pensiero egli vede focalizzato proprio su una definizione di libertà alternativa a quella negativa proposta dal «liberalismo della neutralità» (quale esemplificato, ai nostri giorni, da Isaiah Berlin). Essi partono dal presupposto che ogni società richiede degli sforzi da parte dei suoi appartenenti, che consistono nel contribuire alla fiscalità, alla difesa, ecc. In generale, ogni individuo deve sacrificare parte della sua libertà strettamente individuale, perciò dei suoi interessi, in nome non soltanto della libertà altrui, ma soprattutto di quell’organismo il cui respiro essi condividono: lo Stato. Ora, se questi sacrifici venissero imposti con la forza, chiaramente non vi sarebbe alcuna libertà per i cittadini (la libertà negativa infatti non è rifiutata, ma integrata da una versione positiva). Occorre allora che essi compiano questi gesti in maniera spontanea, ma perché ciò possa avve-

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nire è necessario che essi considerino lo Stato una res publica, un autentico bene comune, cioè che si identifichino con le istituzioni e le leggi che regolano la vita pubblica. Questo, a sua volta, presuppone che tali istituzioni e leggi non siano percepite come un che di imposto, di alieno, di limitante, ma come la forma perfetta di espressione della loro libertà. In altre parole, la Repubblica richiede un forte senso di identità e una qualche forma di autogoverno1. Il senso di identità richiama l’idea di «significato comune», di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, e implica il fatto che lo spazio pubblico deve essere considerato un progetto collettivo consapevolmente perseguito, valorizzato e difeso. Questo tipo di azione comune è quella definita da Montesquieu «vertu», un «impulso» che «trascende l’egoismo nel senso che le persone sono effettivamente legate al bene comune, alla libertà generale» (queste parole sono di Taylor, non di Montesquieu)2. Un altro nome per questa virtù è patriottismo3. In una prospettiva liberale, non esistono autentici «beni comuni», ma soltanto «beni convergenti». Questi ultimi sono quei beni assicurati dallo Stato, dei quali ciascuno gode individualmente; nessun cittadino potrebbe permetterseli da solo, ma questa è l’unica ragione per cui essi sono pubblici (un esempio è la difesa). Una concezione similmente strumentale naturalmente lascia ampio spazio a free-rider, alla noncuranza del bene pubblico, eventualmente anche alla mancata copertura di alcuni strati sociali, se questi riescono a essere mantenuti ugualmente sotto controllo. Al contrario, i beni comuni sono tali da non poter essere goduti individualmente, in quanto parte del loro valore consiste proprio nella condivisione. Nella prospettiva di Taylor, la Repubblica è un esempio di questo tipo di beni4. La necessità di un’identificazione patriottica ci collega immediatamente a un altro tema, quello del pari riconoscimento per tutti i cittadini e le culture all’interno di uno spazio sociale (il tema è molto caro al 1. Cfr. Charles Taylor, Il dibattito fra sordi di liberali e comunitaristi (1989), in Alessandro Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo cit., p. 145. 2. Ivi, p. 146. 3. Ibidem. Cfr. Id., Why Democracy Needs Patriotism (1994), in Joshua Cohen (ed.), For Love of Country. Debating the Limits of Patriotism, Beacon Press, Boston 1996, pp. 119-121. 4. Charles Taylor, Il dibattito fra sordi cit., pp. 147-151.

Libertà e democrazia in prospettiva repubblicana

filosofo in quanto legato a questioni dibattute nel suo nativo Québec), perché se questo viene a mancare, si creano quelle fratture sociali che impediscono ai cittadini di considerare la Repubblica come un progetto collettivo. L’ideale dell’autenticità, che caratterizza il soggetto moderno, vale anche per i popoli: la radice filosofica è la stessa, ed è individuabile in Herder. Qui è la genesi del moderno nazionalismo, «sia nella forma benigna sia in quella maligna»5. Quest’ultima è, naturalmente, quella esclusivista, aggressiva, fascista; la prima è invece quella che informa di sé le Rivoluzioni francese e americana e che è espressa da Herder stesso, il cui nazionalismo «universalista» sostiene che tutti i Völker (popoli) sono degni dello stesso rispetto6. Il problema della politica del riconoscimento sta nella difficoltà della conciliazione di due sue divergenti pretese: da un lato, il riconoscimento della pari dignità a tutti gli individui e le culture, ciò che implica il diritto di ciascuno alla libertà; dall’altro, il riconoscimento della peculiarità e quindi della differenza fra ogni individuo/cultura7. Questi principi sono destinati a dare origine a politiche conflittuali: quella basata sul primo osteggerà l’altra accusandola di essere discriminatoria; la seconda accuserà invece la prima affermando che essa nega l’identità a favore di un’omologazione imposta in nome di una presunta neutralità che in realtà rispecchia la cultura egemone8. Taylor opta in favore della seconda piuttosto che della prima, anche se naturalmente nessuna delle due può essere del tutto sostituita dall’altra, se non si vuole degenerare in un nazionalismo del tutto inospitale. Il modello tayloriano vuol essere invece ospitale, in grado di riconoscere e valorizzare le differenze di un mondo multiculturale. Per fare questo è necessario innanzitutto riconoscere quelle libertà fondamentali riconosciute anche dai liberali, ma poi andare oltre all’astrattezza procedurale, includendo nella vi-

5. Jürgen Habermas, Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento (1992), Feltrinelli, Milano 20082, p. 16. 6. Charles Taylor, Democrazia ed esclusione (1999), in Charles Taylor, La democrazia e i suoi dilemmi, Diabasis, Parma 2014, p. 78. 7. Cfr. Jürgen Habermas, Charles Taylor, Multiculturalismo cit., pp. 24 ss. 8. Ivi, p. 29.

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ta politica una concezione del bene comune da difendere (in tal caso si tratta appunto delle identità culturali)9. Quanto poco neutrali siano le procedure è evidente se si pensa al caso francese: proibire alle donne islamiche di indossare il velo in nome della laicità dello Stato significa negare il riconoscimento a una specifica cultura in nome del prevalere di un’altra. Le istituzioni repubblicane dovrebbero essere invece il luogo in cui tanto i musulmani, quanto i cristiani, gli atei, eccetera, possano sentirsi tutelati nella loro specificità, nel rispetto di quella altrui. Oggi «non possiamo più avere una religione civile – né basata su Dio, né sulla laïcité e i diritti dell’uomo, né, invero, su una qualsiasi visione particolare»10. Una grande sfida oggi, secondo Taylor, è mantenere intatto un senso di patriottismo democratico che possa valere per diverse culture. Una condizione essenziale perché questo possa avvenire – ciò che costituisce un’altra grande sfida – è mantenere intatto un senso di solidarietà tra i popoli che si trovano a convivere. Naturalmente l’aspetto culturale è soltanto uno dei modi in cui il riconoscimento va inteso: la solidarietà deve essere estesa anche all’aspetto politico ed economico. Riconoscere la libertà a una persona/gruppo/ popolo di esprimere liberamente la propria cultura meramente in termini di apparenza esteriore (ad esempio, concedendo alle donne islamiche di indossare il velo) significa mancare di riconoscere la profondità di ciò che una cultura implica e che, per trovare espressione adeguata, necessita di tutti i mezzi della democrazia: primi fra tutti la possibilità di partecipare alla politica repubblicana e di ricevere un adeguato trattamento in termini economici11. Anzi, è soltanto quando queste ultime condizioni sono soddisfatte che l’identificazione patriottica di diversi gruppi sociali può emergere: come è stato detto nel capitolo precedente, la frammentazione sociale rende sospetta l’idea di comunità politica. 9. Cfr. ivi, pp. 46-47. 10. Id., Solidarity in a Pluralist Age, «The Project Syndicate», 27 settembre 2010, http:// www.project-syndicate.org/commentary/solidarity-in-a-pluralist-age (url visitato in data 8 agosto 2013). Sull’islamofobia si rimanda anche a Id., Block Thinking, «The Project Syndicate», 10 settembre 2007, http://www.project-syndicate.org/commentary/block-thinking (url visitato in data 8 agosto 2013). 11. Cfr. Id., Democrazia e solidarietà (2000), in Charles Taylor, La democrazia e i suoi dilemmi cit., pp. 35-50.

Libertà e democrazia in prospettiva repubblicana

La politica del multiculturalismo può quindi trovare sensata applicazione soltanto grazie alla «libertà repubblicana», la quale non può essere imposta senza riguardo alle identità culturali, come dimostra l’esempio storico della Rivoluzione francese: quando i suoi principi tentarono di essere esportati dall’armata rivoluzionaria, «la sensazione di non essere parte di – o rappresentati da – quel popolo sovrano in nome del quale si stava facendo e difendendo la Rivoluzione» provocò la reazione di paesi come Germania e Italia. Divenne chiaro che «per possedere l’unità richiesta dall’azione collettiva, un popolo sovrano, per avere l’unità necessaria a un’azione collettiva, avrebbe dovuto avere un’antecedente unità, o cultura, storia, o (più comunemente in Europa) lingua»12. È dunque necessaria una base identitaria per il patriottismo repubblicano, anche se quest’ultimo nega la fedeltà assoluta richiesta dalla versione degenerata del nazionalismo, condizionandola piuttosto alla sussistenza di un autogoverno dei cittadini13. Naturalmente il mondo multiculturale e globalizzato impone l’arduo tentativo di ridefinire costantemente questa identità, rendendola flessibile, aperta, ospitale, adatta, cioè, ai comandi della solidarietà. Del resto, voler fossilizzare i caratteri di un’identità significa, per Taylor, negare la storia. Infatti quest’ultima è fatta di mutamenti politici e culturali che avvengono anche in seguito alle migrazioni14. I rischi onnipresenti di un’esclusione dalla vita democratica, che può avvenire in molti e diversi modi, rendono questo compito impossibile da risolvere definitivamente. Ma – sostiene Taylor – «non esiste alternativa» alla «condivisione dello spazio identitario»: con ciò bisogna intendere la negoziazione di un’identità politica accettabile da tutti, che sia magari persino il frutto di un compromesso tra le differenti identità personali o di gruppo che vogliono/devono convivere nell’ordinamento politico. Ovviamente alcune cose dovranno restare non negoziabili, penso ai principi fondamentali delle costituzioni repubblicane: la democrazia stessa e i diritti umani, tra gli altri. A questa fermezza si deve affiancare, però, il ricono-

12. Id., Democrazia ed esclusione cit., p. 56 (tr. modificata) 13. Cfr. Id., Nationalism and Modernity (1997), in Id., Dilemmas and Connections. Selected Essays, The Belknap Press of Harvard University Press, Cam­bridge (Mass.) 2011, pp. 81-104. 14. Cfr. Id., Democrazia ed esclusione cit., p. 79.

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scimento che tali principi possono essere realizzati in modi molto diversi e non potranno mai essere applicati neutralmente […].15

Il riconoscimento dell’altro può avvenire soltanto se vi è uno sforzo, da parte di entrambi, di comprensione reciproca. Esso non implica che si debba rinunciare alla propria identità per «mettersi nei panni» dell’altro, in modo da comprendere la sua cultura, il suo stile di vita, il suo modo di ragionare e di rapportarsi al mondo. Questo, infatti, sarebbe impossibile. Ciascuno di noi è formato da una cultura dalla quale non può mai staccarsi completamente e si rapporta all’altro sempre a partire da una pre-comprensione che «dà forma ai nostri giudizi senza che ce ne accorgiamo»16. Questo non significa che l’altro sia destinato a restarci per sempre estraneo o che i nostri pregiudizi etnocentrici siano destinati inevitabilmente a fargli violenza. Innanzitutto, nel tentativo di comprendere il diverso, si è costretti ad articolare, per contrasto, alcuni aspetti della propria cultura che erano prima dati per scontati, lasciati inespressi. Ciò può portarci a ritenere inadeguati alcuni di questi, o quanto meno può far emergere la consapevolezza che essi non rappresentano l’unico, né necessariamente il migliore, modo di intendere o fare le cose. Così, «la comprensione dell’altro cambia la comprensione di noi stessi» (other-understanding changes self-understanding)17. Secondo Taylor, che nell’articolare questo discorso riconosce il suo debito nei confronti di Gadamer, noi possiamo «liberare» e «lasciar essere» gli altri solo articolando un contrasto tra la loro e la nostra comprensione di aspetti della vita e del mondo. Si procede perciò per comparazione, anche implicita. Naturalmente questo non è semplice, in quanto proprio quell’aspetto della vita o del mondo che noi riteniamo essere il significato di diversi comportamenti è in realtà modellato diversamente dai comportamenti stessi. Ma riconoscere questo limite può permetterci di continuare il nostro sforzo di comprensione, consapevoli del fatto che esso non può mai essere condotto a termine, in quanto non vi è mai

15. Ivi, pp. 85-86. 16. Id., Comparison, History, Truth (1990), in Id., Philosophical Arguments, Harvard University Press, Cam­bridge (Mass.) 1995, p. 149. 17. Ibidem.

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la certezza di non aver distorto ciò che non ci appartiene. Lo scopo è giungere a quella «fusione di orizzonti» di cui parla Gadamer, la quale, tuttavia, non implica mai la negazione del proprio orizzonte, per quanto possa comportarne una notevole modificazione. Gli orizzonti di A e B possono quindi essere distinti all’istante t e la loro mutua comprensione imperfetta. Ma A e B vivendo insieme possono arrivare a un unico orizzonte a t+n.18

Solo mediante il costante sforzo di giungere a questo risultato la democrazia può superare i motivi di esclusione ed essere finalmente inclusivista. Occorre ora comprendere, più concretamente, a quale modello di democrazia repubblicana Taylor fa riferimento. Un importante aspetto della vita politica della modernità è quella che è stata chiamata «società civile», entro la quale il cittadino ha spazio per la sua libertà. All’origine del pensiero politico moderno, con i contrattualisti, troviamo una definizione di società civile che la caratterizza come una sfera preo non-politica. Essa è il luogo degli interessi individuali e la scienza che ne descrive le dinamiche è l’economia politica19. Inoltre essa è il luogo in cui si forma l’opinione pubblica, che assume un ruolo anche politico, in quanto legittima o condanna il potere, ma che rimane pur sempre in uno spazio autonomo, non prendendo parte all’attività di governo. Quest’ultimo è perciò semplicemente inteso come il mezzo per gli interessi della società civile, e può essere fatto cadere se esso fallisce nel servire ai suoi scopi. A quest’idea, che appartiene a quel liberalismo criticato da Taylor, è opposta quella di pensatori come Montesquieu, Hegel, Tocqueville. Hegel ha compreso che la civil society20, governata unicamente dalla «mano invisibile» del mercato, è destinata a generare disordine e ingiustizia, rompendo così l’unità dello Stato. Per questo Hegel ritiene necessario che la società civile si organizzi in gruppi (le corporazioni) che 18. Id., Understanding the Other: A Gadamerian View on Conceptual Schemes (2002), in Id., Dilemmas and Connections cit., p. 33. 19. Cfr. Id., Invoking Civil Society, in Id., Philosophical Arguments cit., pp. 204-224. 20. Uso il termine inglese per non fare confusione con il concetto hegeliano di «società civile». La civil society corrisponde piuttosto a quello che Hegel ha chiamato «sistema dei bisogni», cercando di integrarlo nella sfera dell’eticità.

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fungano da intermediari con lo Stato, unendo gli interessi privati all’interesse generale21. Ma il modello cui Taylor preferisce ispirarsi è quello di Tocqueville, erede di Montesquieu. Secondo Tocqueville, la civil society, essendo attenta solo all’interesse privato, rischia di lasciar degenerare la democrazia in un despotisme doux, che si realizza quando, mancando qualsiasi forma di autogoverno, i cittadini vengono governati da un potere «immenso e tutelare»22 in cui falliscono tutti gli scopi della democrazia stessa. Onde evitare questo risultato, la partecipazione politica è indispensabile e deve essere organizzata in forme praticabili. Tocqueville ritiene indispensabili allo scopo le associazioni volontarie dei cittadini, dove l’autogoverno diviene pratica quotidiana, anche per scopi non immediatamente politici. Esse non possono essere di grandi dimensioni, ma devono moltiplicarsi su tutto il territorio e a diversi livelli del corpo politico. Quest’ultimo, poi, deve essere decentralizzato, in quanto l’autogoverno non può essere praticato a livello nazionale, ma soltanto sulla scala più ridotta del locale23. Queste associazioni devono anche essere il luogo in cui si forma l’opinione pubblica, la quale deve assumere però un significato politico attivo e non soltanto un ruolo di controllo nei confronti del governo. Ogni componente – singolo o gruppo – della sfera pubblica è legato agli altri dall’esistenza dei media: giornali, radio, internet, eccetera, sono il luogo principale di emersione dell’opinione pubblica, e costituiscono uno «spazio metatopico»24 di elaborazione e scambio di idee in cui due persone che non si sono mai viste possono giungere alla stessa visione sulle cose. Si tratta di una visione semplificata, ma comunque valida; la discussione razionale che permette di arrivare a un esito condiviso è un ideale verso il quale tendere cercando di arginare i rischi dovuti al suo controllo e manipolazione da parte del potere politico o economico, o da qualche combinazione dei due, nonché alla natura stessa dei media, che non permettono mai una totale trasparenza, 21. Cfr. Charles Taylor, Invoking civil society cit., p. 222. 22. Alexis de Tocqueville, La democrazia in America (1835-40), Rizzoli, Milano 1999, p. 733. 23. Charles Taylor, Invoking civil society cit., pp. 221-223. 24. Cioè, non legato ad alcun luogo fisico particolare. Il termine è utilizzato ivi, ad esempio a p. 271.

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e agli agenti ingaggiati nella discussione, la cui imperfetta razionalità può lasciar spazio a falsità e pregiudizi25. Naturalmente tutto ciò presuppone che i cittadini maturino un interesse nei confronti della comunità di cui sono parte. Solo se essi considerano l’autogoverno come un bene comune da realizzare collettivamente, e quindi se stessi come agenti di questo collettivo, allora sono in grado di vederne gli ostacoli e di lottare per superarli. Chiaramente, affinché vi sia quest’identificazione comune, è necessario che i cittadini si sentano uniti, ma ciò è impossibile finché persistono ampie differenze di reddito. Le più stridenti diseguaglianze causate dal sistema capitalistico alle sue origini sono state in parte sanate da decenni di lotte partitiche e sindacali, ma il neoliberalismo emerso negli ultimi decenni (per combattere il quale, a mio avviso, il liberalismo classico non ha alcuno strumento) è stato alla base di pratiche che hanno polverizzato la coesione sociale, acuito il disagio e nel contempo privato i regimi democratici del loro potere di controllo sulle dinamiche della speculazione finanziaria, che è giunta a mettere sotto ricatto interi Stati. Il modello repubblicano di Taylor potrebbe essere sostenuto soltanto da un’economia di mercato fortemente controllata dalla politica. Il filosofo canadese nega che sia auspicabile una totale pianificazione, in stile sovietico, e propone un modello ideale di economia mista ancora mai sperimentato nella storia, in cui «una massa di imprenditori privati di piccole dimensioni coesisterebbe a fianco di gradi imprese pubbliche» gestite democraticamente dai lavoratori; il tutto «coordinato da un mercato che sarebbe gestito secondo una logica di pianificazione», elaborata da uno Stato decentralizzato26. Senza decentralizzazione del potere, infatti, non può esistere un reale autogoverno dei cittadini, ma questo richiede anche una decentralizzazione della sfera pubblica. «Il modello che qui sembra funzionare – scrive Taylor – è uno in cui sfere pubbliche più piccole sono inglobate (nested) in quelle più grandi, in modo che ciò che succede in quelle più piccole

25. Cfr. Id., Liberal Politics and the Public Sphere, in Id., Philosophical Arguments cit., p. 260 e p. 273. 26. Id., Democrazia e comunità (1988), in Charles Taylor, La democrazia e i suoi dilemmi cit., p. 32.

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condizioni l’agenda della sfera nazionale»27. In questo modo ciascuno avrebbe la possibilità di far valere le proprie istanze e di prendere parte, seppure in modo indiretto, alla deliberazione razionale volta al bene comune, così come definito dalla maggioranza in seguito alla discussione. Spostando lo sguardo dalla teoria di ascendenza tocquevilliana alla realtà contemporanea, Taylor vede con favore l’emergere in essa di movimenti di rivendicazione (advocacy movements), come quelli femministi o ecologisti, che influenzano la vita politica. Essi dovrebbero essere l’espressione viva di tutta la società civile e funzionare in simbiosi con il sistema partitico, di modo che «persone e idee possano passare dai movimenti sociali ai partiti e viceversa»28. Il problema dei movimenti sociali è che essi tendono a non includere le loro rivendicazioni in una visione politica più ampia, bensì a concentrarsi su singole questioni e soltanto per il periodo necessario a risolverle (a volte, nemmeno questo), diffidando della politica dei partiti, che essi vedono come meccanismi decrepiti e non realmente rappresentativi. Questo mutamento nel modo di intendere l’efficacia democratica è dovuto anche al tramonto delle precedenti ideologie con cui interi gruppi sociali potevano identificarsi: ad esempio la classe operaia, che era un gruppo sociale (anche se con caratteristiche diverse da quelle ad essa attribuite dal marxismo), poteva identificarsi con l’ideologia della rivoluzione proletaria. Oggi ogni cittadino si allea piuttosto con coloro che di volta in volta condividono una specifica lotta. Inoltre, l’opulenta società dei consumi ci ha abituato a intendere l’ideale dell’autenticità in una maniera impoverita, portando gli individui a identificarsi soltanto con se stessi o con gruppi formati in base a identici gusti di consumo, mettendo in secondo piano l’importanza della partecipazione politica e, come dicevamo nel capitolo precedente, anche nell’epoca dell’odierna crisi questa distorsione non ha perso del tutto la sua forza. Tutto ciò ci impone di riconsiderare la politica, ma una strada da percorrere per raggiungere gli obiettivi proposti da Taylor non è ancora visibile, né egli pretende di indicar-

27. Id., Liberal politics cit., p. 279. 28. Ivi, p. 286.

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la. Possiamo forse sperare che gli esiti disastrosi della crisi sociale imposta da un capitalismo per nulla in crisi risveglino nei cittadini la consapevolezza che senza autogoverno non vi è reale democrazia e che soltanto questa può mettere in questione le cieche dinamiche del capitalismo e del potere politico che si confonde con esso. Alcune nuove forme di solidarietà prendono vita in questo frangente storico disastroso. Ad esempio reti di acquisto solidale a filiera corta, organizzazioni interne a stabili occupati da famiglie sfrattate, fino ad arrivare al famoso caso del supermercato modenese organizzato collettivamente, nel quale anziché pagare i prodotti acquistati si rende servizio, a turno, all’interno del supermercato stesso29. Ma vi sono anche nuove forme di organizzazione politica: i movimenti occupy, le mobilitazioni a difesa dei beni comuni, ecc. C’è da sperare che tutte queste esperienze, accomunate da una simile sensibilità, sappiano coagularsi in un più vasto progetto politico. Il dissenso verso un sistema che ha perso la sua legittimità si fa ormai sentire con una certa frequenza, anche al livello della produzione intellettuale, determinando nel complesso un clima politico che di recente Alain Badiou ha definito di «rivolta latente», e che potrebbe sortire «un esito imprevedibile rispetto alle nostre mortifere “democrazie”»30. È giunto ora il momento di domandarsi in che relazione stia il repubblicanesimo tayloriano con il liberalismo della neutralità. Abbiamo visto che Taylor, come gli altri comunitaristi, critica quest’ultimo in quanto non dà conto di alcun bene comune, ma soltanto di beni individuali o «convergenti», ossia dati dalla somma delle preferenze. Taylor ammette che, su questioni sostanziali, gruppi diversi hanno «visioni divergenti del bene comune»31. Tuttavia il modello di sfera pubblica da lui prospettato vorrebbe far fronte a questo problema, permettendo una reale partecipazione di tutti i cittadini all’autogoverno, in modo tale che la decisione politica

29. Marta Castigliani, Nasce il supermercato per i disoccupati: lavoro in cambio della spesa gratis, «Il Fatto Quotidiano», 25 marzo 2013, http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/25/nasce-supermercato-per-disoccupati-lavoro-in-cambio-della-spesa-gratis/541802/ (url visitato in data 15 settembre 2013). 30. Alain Badiou, Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali (2011), Adriano Salani, Milano 2012, p. 38. 31. Charles Taylor, Democrazia e comunità cit., p. 13.

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possa sempre essere il più possibile condivisa. Inoltre, poiché condizione per l’autogoverno è il sentimento patriottico (la vertu di Montesquieu) e questo può essere diffuso nel corpo sociale solo se questo è fortemente coeso, la democrazia prevede, nell’ottica del nostro filosofo, una serie di requisiti di eguaglianza e solidarietà. Solo in questo modo possono essere difesi i due beni autenticamente comuni, su cui non ci dovrebbe essere alcuna divergenza, in quanto propri di ciascuno: (1) la cultura della comunità stessa, che deve essere vitalizzata dall’intervento consapevole dei soggetti che la riconoscono come bene e (2) le istituzioni repubblicane, sede della libertà dei cittadini e dell’autogoverno. Eguaglianza e solidarietà si fondano sul riconoscimento reciproco dei diritti, il quale, come abbiamo visto alla fine del capitolo precedente, richiede che ciascuno si prenda cura attivamente dell’altro, in modo che questo possa sviluppare in pienezza le proprie capacità specificamente umane (CSU). Ma ciò non può essere garantito da un codice di leggi che cerchi di istillare negli animi un senso di mutua appartenenza alla comunità, in modo che ciascuno si comporti, almeno esteriorimente, secondo quanto l’etica prescrive. È necessaria una motivazione interiore, dettata dal riconoscimento di uno specifico «bene costitutivo»32. Taylor ritiene che «soltanto nella misura in cui ci apriamo a Dio» (SA, 881) siamo in grado di comprendere davvero il valore dell’altra persona. L’agape, che è non soltanto l’amore di Dio per noi, ma anche l’amore che Cristo comanda agli uomini, «non può essere ridotta a una regola generale»; essa «antepone a tutto la risposta viscerale a questa determinata persona» (SA, 930); «non è soltanto un servizio che un essere umano rende a un altro essere umano. Ha successo solo dove vi è qualcos’altro e qualcosa di più, dove nasce un vincolo d’amore: un legame in cui ciascuno è un dono per l’altro, in cui ciascuno dona e riceve» (SA, 881). Taylor ritiene che l’agape cristiana, o la karuna buddhista, o l’equivalente in altre religioni, sia ciò che può motivare un’azione disinteressata per il bene. Che cosa implichi questa motivazione non lo si può comprendere fintanto che lo si è sperimentato: non vi può essere una descrizione o una spie-

32. Cfr. supra, cap. 1

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gazione razionale, e di conseguenza non può essere in alcun modo dimostrato che le cose stanno così. Tutto ciò che si può fare è additare dei modelli, come Madre Teresa di Calcutta o San Francesco di Sales. Soltanto la fede può dare ragione di un simile sentimento, il quale costituisce per il credente la prova del suo legame con il trascendente. Ma anche il non credente, la cui motivazione all’agire etico è fondata unicamente sul senso di dignità della persona umana autonoma, si rapporta a queste questioni fondamentali a partire da una «fede», nel senso che la motivazione morale più profonda cui un soggetto può fare appello dipende, in buona misura, dalla visione globale della realtà che l’ambiente culturale in cui ha vissuto gli ha fornito. Ci si può sempre porre criticamente nei confronti di questa (come avviene nei casi di conversione o di abbandono della religione), o la si può abbracciare con crescente fiducia in seguito a determinate esperienze, ma, come l’ermeneutica filosofica insegna, «noi non giungiamo mai a un punto che sia al di là di qualsiasi anticipazione, di qualsiasi presentimento» (SA, 692). Quale che sia la motivazione morale profonda, Taylor ritiene che si debba andare «al di là del codice», per costituire una società che si configuri come un insieme di «reti di cura vivente» (SA, 932), in cui ciascuno «dona e riceve» (SA, 881). Ricostruendo il ragionamento svolto fin qui, possiamo affermare che, per Taylor, solo l’agape (o un suo equivalente in un’altra religione o secolare, precisazione che d’ora in poi lasceremo sottointesa) può fondare il riconoscimento dei diritti, che implica una relazione di reciproca cura, in cui ciascuno dona e riceve. Ma, siccome i diritti sono alla base di un ordinamento sociale democratico, allora solo l’agape può essere a fondamento di una reale democrazia attenta al bene comune. Dobbiamo perciò domandarci: è possibile che la politica dello Stato possa manter fede a questi principi, ossia che una democrazia moderna si configuri come una «rete di cura vivente»? Taylor è consapevole che la società umana, così come si presenta nella storia […] comporta inevitabilmente qualche forma di confisca degli ideali superiori a favore di interessi più angusti, e un insieme di altre imperfezioni. Non potrà mai esserci una fusione

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completa della fede e di una qualche particolare società, e il tentativo di raggiungerla è pericolosa per la fede.33

Di conseguenza, egli sembra suggerire che il modello di una società retta da legami di agape debba restare un’ideale regolativo sulla cui base assumere una «distanza critica da quella che potremmo giudicare come “la civiltà che finora è stata il male minore”» (SA, 934), ossia la democrazia liberale e, nel senso chiarito in questo capitolo, repubblicana34. L’alternativa, rifiutata da Taylor, consiste nel rimpiangere il passato e auspicare la restaurazione della Cristianità, la qual cosa però non potrebbe sortire gli effetti desiderati, perché non è possibile, né auspicabile, imporre la fede o la motivazione profonda che spinge gli uomini ad amarsi. Di fronte a quest’alternativa tra democrazia repubblicana e nostalgia reazionaria, la proposta politica di Alasdair MacIntyre si può intendere come una «terza via». Vediamo in cosa consiste.

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33. Charles Taylor, Una modernità cattolica? (1999), in Charles Taylor, La modernità della religione, Meltemi, Roma 2004, pp. 79-110. La citazione è tratta da p. 86. 34. Circa il ruolo delle religioni nella sfera pubblica di una società liberale si veda la posizione, decisamente laica, di Taylor in Jocelyn Maclure, Charles Taylor, La scommessa del laico (2010), Laterza, Roma-Bari 2013; cfr. anche Charles Taylor, Why we need a Radical Redefinition of Secularism, in Eduardo Mandieta, Jonathan VanAntwerpen (eds.), The Power of Religion in the Public Sphere, Columbia University Press, New York 2011, pp. 34-59.

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5. L’etica delle virtù e la politica delle comunità

La comunità cittadina non è costitui­ ta soltanto dall’identità del luogo, dall’astinenza dal danno reciproco e dalla garanzia dei rapporti commerciali, perché, sebbene queste cose siano imprescindibili per l’esistenza della città, tuttavia, anche se si realizzano tutte, non c’è ancora una città, ma questa è la comunità che garantisce la buona vita e alle famiglie e alle stirpi, e ha come fine una vita indipendente e perfetta. Aristotele, Politica

La proposta politica di MacIntyre è basata sulla tradizione aristotelica e tomista, sulla cui base egli cerca di chiarire in cosa consista il bene individuale all’interno di una comunità giusta. Quest’ultima, «senza le virtù della giusta generosità e della deliberazione condivisa» è sempre esposta «alla corruzione dalla limitatezza, dalla compiacenza, dal pregiudizio nei confronti di chi sta fuori e da un’intera gamma di altre deformazioni, comprese quelle che provengono dal culto della comunità locale»1. Il primo passo da compiere, perciò, sarà comprendere cosa sono le virtù e perché sono tanto importanti. Il testo di riferimento è After virtue, sicuramente l’opera più importante di MacIntyre. Qui possiamo rinvenire una triplice caratterizzazione delle virtù: esse sono ciò che permette agli individui (1) di conseguire i beni interni alle pratiche; (2) di ordinare la vita umana in vista della realizzazione del loro bene proprio; (3) di comprendere la storia da cui si proviene e le possibilità future da essa offerte2. Vediamo di com-

1. Alasdair MacIntyre, Animali razionali dipendenti cit., p. 140. 2. Cfr. i capp. 14 e 15 di Id., Dopo la virtù cit., pp. 225-272.

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prendere questi tre punti, cominciando con il chiarimento del termine «pratica», cui MacIntyre assegna un significato peculiare: Per «pratica» intend[o] qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, mediante la quale valori insiti in tale forma di attività vengono realizzati nel corso del tentativo di raggiungere quei modelli che pertengono ad essa e parzialmente la definiscono. […] [A]rti, scienze, giochi, la politica in senso aristotelico, la costruzione e la conservazione della vita domestica, cadono tutti sotto questo concetto3.

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Il fatto che una pratica sia un’attività «cooperativa» significa che essa non può essere condotta da un individuo isolato, ma soltanto mediante la collaborazione di almeno due persone, che hanno come obiettivo comune il compimento dell’attività stessa, nella forma migliore. La pratica, poi, è «socialmente stabilita», cioè risponde a delle regole riconosciute collettivamente e può esistere soltanto all’interno di una comunità. Si potrebbe dire che una pratica implica uno specifico gioco linguistico (nel senso di Wittgenstein), il quale, come si sa, non può sorgere privatamente, ma solo in un contesto culturale. Vediamo poi che MacIntyre attribuisce alle pratiche dei «valori insiti» in esse e dei «modelli» verso i quali l’attività tende. Entrambi questi aspetti possono essere ricondotti a quelli che poco dopo, nel medesimo luogo, l’autore classifica come «beni interni» alle pratiche, cioè quei beni la cui esistenza e il cui perseguimento sono mediati dall’attività svolta. Così, ad esempio, il gioco degli scacchi dà forma a specifici beni (come l’abilità nel prevedere le mosse dell’avversario o nel salvare la regina fino alla fine) che non hanno ragion d’essere all’infuori della pratica e che soltanto partecipando ad essa possono essere acquisiti. Inoltre, i partecipanti al gioco riconoscono dei «modelli» che incarnano l’eccellenza perseguibile all’interno della pratica. Nel nostro esempio, i giocatori di scacchi avranno come modello quel tale famoso che chiuse la partita nel minor numero di mosse. I modelli, così, definiscono anche il fine della pratica: ad esempio, la vittoria nel gioco. Ma vi sono anche dei «beni esterni», che sono quelli legati 3. Ivi, p. 232

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alle pratiche in maniera estrinseca e contingente. Il perseguimento di questi implica un uso strumentale della pratica, che può essere intesa come un mezzo per procurarsi prestigio, onore, denaro. Chiaramente i beni esterni sono indispensabili alla vita delle pratiche (come i beni materiali alla vita individuale, secondo Aristotele), tuttavia quando essi vengono intesi come il fine principale, se non l’unico, allora la pratica cessa di essere tale, in quanto ciò che la caratterizza propriamente sono i beni interni. I beni esterni, infatti, non rispettano la sua natura «cooperativa socialmente stabilita», in quanto sono tali che «tipicamente più qualcuno ne possiede, meno ne rimangono per altre persone»4. Restando al nostro esempio, è chiaro che la vittoria agli scacchi non può essere materialmente condivisa, tuttavia il suo perseguimento è riconosciuto come un valore da tutti, mentre se uno dei giocatori stesse giocando perché qualcuno segretamente gli ha promesso una somma di denaro in caso di vittoria, allora egli non sarebbe ingaggiato nella pratica in vista del perseguimento del fine proprio di essa, ma per un interesse strettamente personale. Questo ci conduce a una distinzione fondamentale, quella tra pratiche e istituzioni: le prime sono definite dai beni interni, le seconde dai beni esterni. È chiaro, infatti, che chi gioca a scacchi ha come fine la vittoria (in linea di principio), mentre il club che organizza le partite deve preoccuparsi di trovare il denaro per pubblicizzare l’evento, affittare il locale in cui si svolgerà, pagare i suoi dipendenti che arbitrano gli incontri, ecc. Ogni pratica deve essere sostenuta da un’istituzione, ma la natura di quest’ultima è tale da esporla al rischio che i beni esterni divengano il fine ultimo; al contrario, se i beni interni alla pratica prevalgono, allora l’istituzione sarà correttamente intesa quale mezzo per il sostentamento materiale dell’attività. Potremmo dire che una pratica richiede il rispetto di un «imperativo categorico» del tipo: «considera sempre la pratica in cui sei impegnato come un fine e mai come semplice mezzo». Questo ci permette di capire quale sia la relazione tra le pratiche e le virtù. Infatti, il conseguimento dei beni interni richiede di necessità almeno tre virtù fondamentali: la giusti-

4. Ivi, p. 235.

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zia, il coraggio e l’onestà5. La giustizia vuole che non ci impegniamo nella pratica solo per il nostro interesse, ma trattiamo allo stesso modo tutti coloro che vi partecipano; l’onestà richiede che io dichiari esplicitamente le mie intenzioni, senza perseguire scopi segreti, e che non inganni gli altri individui; il coraggio è la dimostrazione del valore che io attribuisco alla pratica e mi richiede la capacità di compiere dei sacrifici per essa. Ma è chiaro che il conseguimento dei beni interni richiede poi numerose altre virtù, come la saggezza pratica, che permette di discernere il momento giusto per l’azione giusta, la temperanza, che impedisce di imporsi sulla volontà altrui, l’amicizia, come legame fondamentale tra gli aderenti a una pratica che perseguono un fine comune, ecc. Ora, gli scacchi non hanno molta importanza nell’ambito di una teoria morale, ma è evidente che il catalogo delle virtù ci è fornito da Aristotele. E, infatti, anche «la politica in senso aristotelico» è una pratica. Ma per comprendere appieno cosa questa comporti, dobbiamo terminare la caratterizzazione delle virtù, passando al punto (2). Un individuo per vivere bene deve essere in grado di rispondere alla domanda: «che cos’è il bene per l’essere umano?». La risposta implica l’individuazione del Bene che deve informare di sé ogni singola attività della vita personale, il che significa che tale Bene non è una cosa che si possa acquisire una volta per tutte, né è un sentimento o una sensazione che caratterizzi aspetti specifici e passeggeri della vita. Esso è piuttosto ciò che ci permette di considerare buoni tutti i particolari della vita e di ordinare su una scala di priorità le nostre azioni. È soltanto guardando alla totalità unitaria di una vita umana che si può dire se essa abbia conseguito il Bene oppure no. Per questo Aristotele diceva di non considerare felice la vita di un uomo finché egli non sia morto. La vita umana deve quindi avere un’unità narrativa, che renda intelligibili tutti i suoi aspetti parziali come un insieme ordinato, appartenente alla stessa persona, che è dichiarata responsabile per ogni sua azione. Naturalmente questa narrazione comprenderà anche il mondo sociale e le singole persone con cui essa si trova in contatto in diverse occasioni della vita, e dovrà rendere intelligibili anche questi rappor-

5. Cfr. ivi, pp. 236-237.

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ti, alla luce di quell’unitarietà fornita dal Bene6. Tutto ciò richiede l’esercizio delle virtù, che «ci consentono di capire che cosa ancora e cos’altro sia la vita buona per l’uomo»7. Questa unità della vita umana è oggi resa inintelligibile dalle strutture del mondo sociale, che impongono una sua «compartimentalizzazione». Quest’ultima non corrisponde alla divisione dei ruoli, che infatti caratterizza qualsiasi società, ma significa che ogni sfera di attività viene a essere «governata dalle sue proprie norme specifiche in relativa indipendenza dalle altre sfere»8. L’unità narrativa della vita dell’individuo è dissolta nella molteplicità delle sue attività, sicché egli è una certa persona in famiglia, un’altra sul posto di lavoro, una terza nel gruppo sportivo, ecc. Con ciò egli rinuncia alla propria responsabilità, la quale può essere adeguatamente compresa soltanto se si mantiene una distinzione tra il ruolo specifico e la propria identità complessiva. Le virtù, che hanno un significato solo all’interno dell’unità narrativa, vengono confuse con le abilità tecniche, di modo che «ciò che è giudicato eccellente in un contesto legato a un ruolo può essere molto diverso da – e a volte anche incompatibile con – ciò che è giudicato eccellente in altri»9. L’individuo perde perciò la possibilità di distanziarsi criticamente da queste attività, per valutare se le richieste di ciascuna di esse siano compatibili con il perseguimento di una buona vita. Questo significa perdere la capacità di agire moralmente, e spesso senza esserne consapevoli. Ma questa ignoranza della propria condizione non può scusare il declino delle proprie responsabilità morali, in quanto si tratta di un’ignoranza di cui si è almeno in parte colpevoli10. L’esercizio autentico delle virtù richiede di inserire il ruolo occupato all’interno della storia della vita individuale, la quale a sua volta può emergere soltanto dalla storia della co6. Il tema dell’unità della vita come narrazione è trattato ivi, cap. 14. 7. Ivi, p. 266. 8. Id., Social structures and their threats to moral agency (1999), in Id., Ethics and Politics cit., p. 197. Sul tema della compartimentalizzazione sono importanti anche Id., Moral philosophy and contemporary social practice: what holds them apart? (1992), in Id., The Tasks of Philosophy cit., pp. 104-122 e Id., Riconsiderazione di alcuni progetti illuministi (1995), in Richard Kearney, Mark Dooley (a cura di), Questioni di etica. Dibattiti contemporanei in filosofia, Armando, Roma 2005, pp. 277-291. 9. Alasdair MacIntyre, Social structures cit., p. 200. 10. Sul rapporto tra ignoranza e responsabilità, cfr. Aristotele, Etica Nicomachea III, 2.

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munità. È quest’ultima, infatti, a definire in cosa consistano i ruoli e le responsabilità di ciascuno. L’identità individuale non può prescindere dal contesto sociale, anche se ciò non significa che si debbano accettare le limitazioni morali da esso imposte. «La ricerca del bene, dell’universale – scrive MacIntyre – consiste appunto nel superamento di tali particolarità. Tuttavia la particolarità non può mai essere semplicemente lasciata alle spalle o cancellata»11. Ciascuna pratica, sia essa artistica, scientifica, ludica o politica, porta con sé una tradizione che definisce il contesto all’interno del quale si trovano i suoi partecipanti. Ma le tradizioni non implicano l’ossequio nei confronti di un passato dogmaticamente appreso, bensì «implicano continui conflitti», che determinano l’evoluzione della tradizione medesima «mediante la critica e l’invenzione»12. Una tradizione si esaurisce e scompare, se non viene mantenuta in vita dall’esercizio delle virtù adeguate. Il terzo ruolo delle virtù, perciò, è quello di «sostenere quelle tradizioni che forniscono sia alle pratiche sia alle esistenze individuali il loro contesto storico necessario»13. Le virtù, dunque, sono ciò che può rendere buona la comunità e, di conseguenza, anche la vita individuale che fiorisce in essa. La politica, in senso aristotelico, è una pratica i cui «modelli» sono quelle persone sagge il cui comportamento definisce la natura stessa delle virtù14 e che hanno conseguito il Bene di una vita felice. La politica è, potremmo dire, la pratica del bene comune, la «più direttiva e architettonica»15, in quanto subordina a sé tutte le altre, ordinandole in maniera tale da rendere possibile il perseguimento del bene comune, il quale va identificato con la comunità stessa (non assolutamente, ma solo se retta dalla pratica politica virtuosa). Ogni azione o pratica subordinata al bene comune può essere considerata un bene interno alla pratica politica. Infatti ogni attività buona (sia essa pratica, poietica o teoretica) è un mezzo costitutivo del bene comune, il quale, a sua volta, è un mezzo

11. Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù cit., p. 269. 12. Ivi, p. 268. 13. Ivi, p. 269. 14. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 6, 1107a 1. 15. Ivi, I, 1, 1094a 27.

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costitutivo della buona vita per ogni uomo16. L’individuazione del bene per ciascun individuo, quindi, «è inseparabile sia dal conseguimento dei beni comuni delle pratiche sia dal contributo al bene comune della comunità intera»17. Lo Stato moderno non può in alcun modo essere il luogo di tale politica comunitaria. Secondo MacIntyre è impossibile, in esso, la formazione di uno spazio in cui le persone possano condurre un dibattito razionale intorno alla natura del bene comune. Non è possibile, in altre parole, quella «sfera pubblica» capace di influire sulla politica, come auspicato da Taylor, il quale si pone in questo quale erede dell’illuminismo kantiano, fallendo con esso. L’idea di Kant di un «uso pubblico» della ragione, secondo il quale il dibattito razionale delle idee avrebbe condizionato l’attività di governo, è stata frustrata dall’età post-illuministica, che ha visto declinare qualsiasi cosa le assomigliasse18. La politica dello Stato, secondo MacIntyre, è per sua stessa natura destinata a concentrarsi nelle mani di élites di politici di professione, ad assumere la forma di una complicata burocrazia e a essere intrecciata con il mercato capitalistico. Egli perciò condivide in gran parte le analisi del potere condotte da Max Weber, ma aggiunge ad esse una critica di sapore marxiano. In quest’ottica, «il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese»19. È soltanto il frutto di una «superstizione»20, secondo Marx, ritenere che la forza dirompente della civil society possa essere arginata dalla politica statale, che è invece ridotta a mezzo dal potere economico. Sulla base di questo assunto marxiano MacIntyre rifiuta un altro aspetto del pensiero di Marx e dei marxisti, che vede la conquista del potere politico come una tappa necessaria

16. Intendiamo con «mezzo costitutivo» quel mezzo da cui non si può prescindere se si intende raggiungere il fine. Per il liberalismo, al contrario, la società è un «mezzo strumentale» rispetto alla felicità individuale. 17. Alasdair MacInytre, Politics, Philosophy and the Common Good (1997), in Kelvin Knight (ed.), The MacIntyre Reader cit., p. 239 (il testo originale è stato pubblicato in italiano, ma non ci è stato possibile consultare tale versione, per la quale si rimanda alla Bibliografia). 18. Cfr. Id., Riconsiderazione di alcuni progetti illuministi cit. 19. Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista (1948), Einaudi, Torino 1998, p. 9. 20. Karl Marx, La sacra famiglia (1985), cit. in Id., Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, Feltrinelli, Milano 2007, p. 53.

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alla realizzazione della società comunista21. Secondo MacIntyre si tratta di un errore perché «coloro che conquistano il potere statale sono sempre alla fine conquistati da esso e, divenendo gli strumenti dello stato, diventano col tempo essi stessi gli strumenti di una delle diverse versioni del capitalismo moderno»22. MacIntyre, quindi, condivide quasi per intero l’analisi marxiana della società capitalistica, rifiutando però la strategia politica marxista23. Egli sostiene, ad esempio, che le relazioni contrattuali tra lavoratori dipendenti e proprietari, così come gli scambi sul mercato, non sono realmente liberi, ma vengono imposti ai soggetti più deboli dalla struttura stessa del capitalismo. Il mercato internazionale è oggi dominato dalle grandi corporations, che impongono le loro condizioni sia sul lavoro (a fronte di un potere sindacale indebolito, in quanto rinchiuso nei confini nazionali che il capitale ha varcato da tempo), sia sulle piccole imprese, spesso destinate a soccombere, come è evidente in questi anni di crisi. La libertà del mercato non coincide con quella degli individui che in e mediante esso agiscono. Un mercato libero in quest’ultimo senso sarebbe caratterizzato da piccole unità produttive e subordinato alle necessità umane. Questo è, secondo MacIntyre, il modello che può essere coerentemente accettato anche dalla dottrina sociale cristiana (quale espressa, per esempio, nella Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, o ancor prima dalla celeberrima Populorum progressio di Paolo VI), la quale condanna il capitalismo inteso come sistema di sfruttamento e di arricchimento illimitato. Un altro concetto fondamentale della dottrina marxiana che può trovare espressione nei termini di MacIntyre è 21. Nella teoria marx-engelsiana la conquista del potere da parte dei comunisti avrebbe realizzato la «dittatura del proletariato». Il marxismo ha troppo sovente frainteso questa espressione, occultando ad esempio quanto sostenuto da Engels, secondo il quale «dittatura» era piuttosto sinonimo di «egemonia», come dimostra il fatto che egli intendesse precondizione del suo instaurarsi la conquista della maggioranza parlamentare in una democrazia repubblicana. Per tutti questi temi si rimanda a K. Marx, Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo, Editori Riuniti, Roma 1976, che contiene anche scritti di Engels. 22. Alasdair MacIntyre, Three Perspectives on Marxism (1995), in Id., Ethics and Politics cit., p. 150. 23. Gli scritti giovanili dell’autore, che sono riconducibili al marxismo, sono ora raccolti in Paul Blackledge, Neil Davidson (eds.), Alasdair MacIntyre’s Engagement with Marxism: Selected Writings 1953-1974, Brill, Leiden 2008.

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quello di alienazione, che egli però ‘colora’ di aristotelismo. L’individuo è alienato dalla società capitalistica e dai rapporti di produzione che essa sostiene, non tanto perché cessa di considerare l’oggetto come il frutto della sua attività pratica, bensì perché esso non può più ritenerlo come il prodotto di un’azione collettiva in vista del bene comune24 e, perciò, viene a considerarlo come un che di estraneo e indipendente da sé25. Quest’integrazione aristotelica è in grado, come ha sostenuto Niko Noponen, di completare la concezione marxiana dell’alienazione, la quale era lacunosa in quanto non chiariva «da che cosa» l’individuo fosse alienato26. Siccome il fine del capitalismo è unicamente il profitto e l’abilità delle imprese nella concorrenza sui mercati, esso impedisce in moltissimi casi lo sviluppo delle pratiche, imponendo il perseguimento di beni esterni ad esse. Perciò l’individuo è alienato da: (1) forme di lavoro che siano buone, significative, importanti e apprezzabili in quanto tali; (2) comprensioni comuni, esperienze condivise, riconoscimento reciproco, e azione collettiva con altre persone; (3) relazioni personali con i compagni esseri umani; e conseguentemente (4) ciò che è essenziale e costitutivo dell’essere umano in generale, o natura umana.27

Secondo la prospettiva di MacIntyre, dunque, né lo Stato né il mercato capitalistico hanno alcuna legittimità, in quanto non sono giustificati da alcuna deliberazione comune e razionale e di conseguenza non si fondano su alcuna concezione del bene comune. La domanda che il nostro autore pone, dunque, è: «quale forma di vita sociale e politica rende questo possibile?»28. Essa dovrà prevedere uno spazio di discussione, ricerca e deliberazione che possa condurre democraticamente la vita politica, almeno nei suoi principi generali (l’applicazione di 24. Cfr. Alasdair MacIntyre, Three Perspectives cit., p. 148 e Id., The Theses on Feuerbach: A Road Not Taken (1993), in Kelvin Knight (ed.), The MacIntyre Reader cit., p. 225. 25. Cfr. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1932), in Id., Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 19744. 26. Niko Noponen, Alienation, Practices, and Human Nature. Marxist Critique in MacIntyre’s Aristotelian Ethics, in Paul Blackledge, Kelvin Knight (eds.), Virtue and Politics cit., p. 104. 27. Ivi, p. 105. 28. Alasdair MacIntyre, Politics, Philosophy and the Common Good cit., p. 247.

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questi potrebbe anche essere delegata a persone specifiche). Questo impone di riconoscere che uno dei beni comuni del gruppo sociale, anzi, quello fondante, sarà la verità, intesa quale scopo della deliberazione stessa, che dovrà tendere a ciò che è bene per l’uomo29. Perché la verità possa essere perseguita, la sua ricerca deve trovare «qualche posto continuativo e significativo nelle nostre vite». Occorre, inoltre, anteporla a qualsiasi interesse, che potrebbe indurre la deliberazione a stagnare su una posizione di comodo. Ogni persona impegnata nella deliberazione deve perciò essere il più possibile priva di desideri, pregiudizi o interessi personali che potrebbero indurla a prediligere i beni esterni rispetto a quelli interni della pratica politica. Ma la razionalità della ricerca richiede anche che ogni agente abbia buoni motivi per fidarsi dell’altro e per non averne paura: la mancanza di fiducia potrebbe creare delle divisioni e delle fratture, mentre la paura potrebbe indurre un soggetto a sottomettersi al volere di un altro. Perciò sarà necessario che tutti i partecipanti alla deliberazione si impegnino a essere onesti e veritieri, a mantenere le promesse fatte e a seguire una norma che vieti di danneggiare gratuitamente la vita, la libertà o la dimensione privata altrui. Proseguendo su questa linea, secondo MacIntyre, si scopre che le condizioni necessarie, i «principi primi»30, della ricerca razionale sono esattamente quei precetti della legge naturale individuati da Tommaso d’Aquino31. Da questa ricerca, pertanto, dovranno essere esclusi coloro che violano queste leggi, cioè coloro che non hanno alcun interesse al conseguimento del bene comune, ma il cui scopo è palesemente quello di influenzare l’esito della decisione per realizzare i propri interessi32. Secondo il grande filosofo medievale la legge naturale è qualcosa che tutti gli uomini, in quanto esseri razionali, 29. Id., Aquinas and the extent of moral disagreement, in Id., Ethics and Politics cit., pp. 64-82. Le considerazioni che seguono fanno riferimento a questo testo. Cfr. anche Id., Natural law as subversive: the case of Aquinas (1995), in Id., Ethics and Politics cit., pp. 41-63. 30. I principi primi si scoprono, ma non si dimostrano. Essi possono essere difesi soltanto mediante la confutazione di chi intende negarli, mostrando come questi sia impossibilitato a sostenere una reale ricerca della verità. 31. Il tema della legge è trattato da Tommaso in Summa Theologiae, Ia-IIae, 90-108. I precetti della legge naturale emergono poi nella discussione tomistica delle virtù, ivi, IIa-IIae, 1-170. 32. Alasdair MacIntyre, Toleration and the goods of conflict cit., pp. 214-216.

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possono riconoscere; la legge positiva, il cui compito è dare attuazione ai principi generali di quella naturale, è razionale soltanto se non si discosta da essa. Ogni individuo, perciò, ha il diritto di non rispettare la legge positiva che violi i precetti della ragione, a meno che il non rispettarla implichi azioni anch’esse contrarie alla legge naturale. Ora, è chiaro come le leggi su cui si regge il nostro ordinamento sociale siano ben lontane dall’essere un’applicazione di tali precetti. Perciò MacIntyre ritiene che essi siano la base di una rinnovata concezione della pratica politica, che rifiuti il modello dominante33. Una comunità che possa essere gestita democraticamente dai frutti di una deliberazione comune non può che essere di piccole dimensioni, di modo che le persone che ne fanno parte possano incontrarsi in uno spazio fisico (e non «metatopico»). Ma ciò che più conta è, come abbiamo visto, che questo luogo deliberativo sia regolato dalla «legge naturale». In altre parole, la comunità deve permettere lo sviluppo delle virtù, condizione per perseguire la vita buona per l’uomo. Soltanto in una simile comunità la politica può essere intesa come una pratica «cooperativa», partecipando alla quale ogni persona può imparare a definire che cosa è bene per sé e qual è il bene comune. Lo sviluppo delle virtù, però, richiede ancora qualcosa di più, che va oltre la politica e che riguarda la condizione animale dell’uomo34. Nel periodo della sua infanzia, la sua educazione e crescita dipendono interamente dai genitori, in primo luogo, poi dai parenti e da tutti coloro con cui viene in contatto nei primi anni della sua vita. La sua formazione, naturalmente, procede nei più vasti ambienti della scuola, del luogo di lavoro, della compagnia amicale, ed è partecipando a queste attività sociali che egli diviene in grado di sviluppare quelle che MacIntyre chiama le «virtù della razionalità pratica indipendente». È la rete delle relazioni intersoggettive che permette all’individuo di comprendere cosa significhi impegnarsi in una pratica e perseguire i beni interni ad essa, nonché ordinare ogni sua attività in vista di un Bene comples33. Cfr. Sante Maletta, MacIntyre and the Subversion of Natural Law, in Paul Blackledge, Kelvin Knight (eds.), Virtue and Politics cit., pp. 177-194. 34. Le considerazione che seguono sono basate su Alasdair MacIntyre, Animali razionali dipendenti cit., pp. 63 ss.

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sivo. Questo non significa che gli educatori e, in generale, tutti gli individui della comunità con cui veniamo in contatto, siano modelli di virtù dai quali colui che cresce in un simile contesto possa apprendere. Ma ciò non fa che sottolineare un ulteriore aspetto delle virtù: senza di esse non possiamo essere buoni educatori. Una volta divenuti adulti questo rapporto di dipendenza nei confronti degli altri non viene meno, perché siamo sempre esposti all’errore nel giudizio relativo sia alla bontà dei fini che ci proponiamo di perseguire, sia a quella dei mezzi, sia al comportamento altrui (e la fonte di questi errori può essere sia morale che intellettuale). Inoltre il percorso complessivo della nostra vita è tale per cui in ogni momento ci troviamo, senza poterlo prevedere, a un diverso gradino di una «scala di disabilità nella quale tutti noi siamo collocati»35. Con questo MacIntyre intende una cosa semplicissima, cioè che nessun individuo è indipendente, in quanto ci sono cose che egli non capisce o non sa fare o, più gravemente, può trovarsi a dover affrontare malattie e disabilità fisiche di diverso grado, transitorie o anche permanenti (magari fin dalla nascita). Questo richiede che in una comunità buona gli individui sviluppino anche le «virtù della dipendenza riconosciuta», che sono alla base di quei comportamenti di cura dell’altro, senza i quali non potrebbero fiorire nemmeno le virtù del ragionamento pratico. La comunità buona si dovrebbe configurare, perciò, come «una rete di relazioni di dare e ricevere»36. Ciascuno di noi, infatti, è quello che è perché ha ricevuto la cura degli altri: genitori, educatori, amici, conoscenti che hanno non solo aiutato lo sviluppo delle nostre capacità pratiche, intellettuali e morali, ma che ci sono a fianco nei momenti più tragici, rappresentati dalle varie forme di disabilità, accordandoci quel riconoscimento che ci permette di comprendere che, nonostante la disabilità, noi siamo sempre la stessa persona e abbiamo sempre la stessa dignità. Questa dipendenza ci impone un obbligo morale a dare agli altri la stessa cura che noi abbiamo ricevuto, o sappiamo dovremmo o potremmo voler ricevere un giorno in futuro. Questo tipo di reciprocità

35. Ivi, p. 73. 36. Ivi, p. 97.

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va oltre la giustizia comunemente intesa, poiché implica la disponibilità a dare senza tener conto di quanto noi abbiamo già ricevuto o riceveremo e, inoltre, a dare senza riguardo a chi si dona, poiché nella rete di relazioni in cui siamo inseriti capita spesso che si riceva da qualcuno e si debba donare a un altro, per poi magari ricevere ancora da un terzo, e così via. La «virtù della dipendenza riconosciuta» per eccellenza è quella che Tommaso d’Aquino chiama misericordia, che è «afflizione o dispiacere per la sofferenza di qualcun altro»37 e che ci muove ad aiutarlo. In altre parole, una buona comunità dovrà essere retta dal riconoscimento che ciascuno è il «prossimo» di ogni altro. Il lettore avrà notato come MacIntyre arrivi a questa conclusione senza far riferimento al cristianesimo. Egli fornisce quindi una giustificazione razionale per un’etica dell’amore reciproco, in modo più efficace di quanto non faccia Taylor. Tuttavia il discorso, svolto da quest’ultimo, circa la motivazione che spinge l’individuo ad agire conformemente all’etica ci porta a domandare se la misericordia possa essere una virtù autonoma o se, invece, debba essere considerata insieme ad un «bene costitutivo» più elevato. In effetti, per Tommaso d’Aquino, alla cui filosofia MacIntyre fa riferimento per giungere alle sue conclusioni, «la misericordia deriva dalla carità» (misericordia consequitur ex caritate)38. Essa, infatti, presuppone il superamento dell’interesse personale che è reso possibile dalla carità, che ci apre alla disponibilità per l’altro. «Di conseguenza, la misericordia non è una virtù specifica» (Ergo misericordia non est specialis virtus)39. Si noti che in Tommaso il termine «caritas» non è altro che la traduzione del greco «agape», ed è definita nella Somma teologica del pensatore medievale come «un’amicizia dell’uomo con Dio, fondata sulla compartecipazione della beatitudine eterna». Nello stesso luogo il filosofo precisa che questa compartecipazione non è basata sui beni di natura, ma sui doni della grazia. Perciò la carità supera le capacità della natura […] [essa] non può trovarsi in noi per natura, né essere acquisita con le forze naturali, ma è dovuta all’infusione dello Spirito Santo, che è l’amore del Padre e del 37. Ivi, p. 123. 38. Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 30 39. Ibidem.

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Figlio, e la cui partecipazione a noi offerta è precisamente la carità creata.40

Lo stesso MacIntyre, nel suo ultimo libro, dedicato alla tradizione della filosofia cattolica, chiarisce che per Tommaso ovunque vi sia una genuina virtù, essa è informata dalla carità e vi opera la grazia. Sicché una comprensione puramente secolare della vita morale è sempre inadeguata e incompleta, sia per quanto riguarda il suo fine, la visione di Dio […], sia per quanto riguarda il tipo di carattere di cui si ha bisogno per ottenere quel fine.41

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Come ha scritto un critico in una recensione a questo testo, MacIntyre, dopo aver fornito nelle sue opere precedenti una giustificazione puramente filosofica della superiorità della tradizione aristotelico-tomista, è giunto implicitamente a riconoscere che determinate questioni possono essere affrontate e comprese soltanto da un punto di vista teologico42. Anche per MacIntyre, dunque, l’agape cristiano è l’unica motivazione efficace all’agire morale. Ciononostante entrambi gli autori sostengono la possibilità di pervenire razionalmente a un’etica della reciprocità a partire da considerazioni sulla natura dell’essere umano, costitutivamente dipendente dagli altri. Dove Taylor parla di «reti di cura vivente» in cui ciascuno «dona e riceve», MacIntyre parla di «reti di relazioni di dare e ricevere» in cui ciascuno si affligge per la sofferenza altrui. Integrando i rispettivi discorsi, si può affermare che il riconoscimento delle capacità specificamente umane (che abbiamo siglato CSU) va di pari passo con lo sviluppo delle virtù della dipendenza riconosciuta. Entrambi gli autori, infine, concordano nel ritenere che lo Stato moderno non può dar luogo a una politica comunitaria di questo tipo. Tuttavia, mentre Taylor riteneva di dover scegliere tra il compromesso con il «male minore» e la restaurazione della Cristianità, il discorso di MacIntyre ci permette di uscire da questa dicotomia e di affermare che è

40. Ivi, IIa-IIae, q. 24 41. Alasdair MacIntyre, God, Philosophy, Universities cit., p. 92. 42. Cfr. Thaddeus J. Kozinski, After Philosophy, «First Principles», 1 gennaio 2008, http:// www.firstprinciplesjournal.com/ articles.aspx?article=1852 (url visitato in data 12 agosto 2014)

L’etica delle virtù e la politica delle comunità

possibile dar vita a reti di «dare e ricevere», in comunità di dimensioni ridotte. MacIntyre, nel rifiutare la politica dello Stato moderno, non si allinea a quei pensatori anarchici che ritengono si possa prescindere da esso, ma riconosce che anche le comunità di piccole dimensioni possono sorgere soltanto al suo interno. Non soltanto perché esse sono formate da individui che si defilano dal sistema dominante senza farlo crollare con un’azione rivoluzionaria organizzata, ma anche perché lo Stato fornisce dei servizi da cui non possono prescindere. MacIntyre cita ad esempio la sicurezza pubblica43, cui vorrei aggiungere tutte quelle risorse che confluiscono in un paese mediante l’ausilio delle relazioni internazionali, i commerci, la politica estera dello Stato, nonché i beni pubblici che esso gestisce. Insomma, anche per i membri di una comunità la politica dello Stato continua ad avere una certa rilevanza, per numerosi motivi, non ultimo l’esigenza etica di migliorare, secondo ciò che si ritiene giusto, l’ambiente politico in cui vivono tutti coloro che, pur non essendo membri della nostra immediata comunità, sono pur sempre degni di quel rispetto umano che implica il riconoscimento della loro esigenza di giustizia. Credo perciò che l’ideale politico cui guardare sia quello di aderenti a singole comunità che non scelgano un autoisolamento per timore di influenze nefaste, ma che continui­ no ad agire nel più vasto contesto sociale in cui sono inseriti. All’interno di quest’ultimo, l’azione politica condotta sulla base di quanto proposto da Taylor potrebbe essere la migliore soluzione. Una simile politica può sembrare largamente utopica e, in effetti, è esattamente così. Ma, come ha scritto MacIntyre, si tratta di «un utopismo del presente, non [di] un utopismo del futuro»44, intendendo con ciò che esso non è una fantasticheria, ma si basa su quelle possibilità presenti che «sono sempre di gran lunga maggiori di quanto l’ordine costituito possa concedere»45. Del resto, anche se MacIntyre non vi fa alcun riferimento, esiste già un gran numero di comunità 43. Alasdair MacIntyre, Animali razionali dipendenti cit., p. 130. 44. Id., How Aristotelianism Can Become Revolutionary: Ethics, Resistance and Utopia, in Paul Blackledge, Kelvin Knight (eds.), Virtue and Politics cit., p. 16. 45. Ivi, p. 17.

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in tutto il mondo, alcune religiose, altre semplicemente spirituali, altre ancora decisamente secolari46. Sono per lo più accomunate da un forte senso ecologico (alcune sono infatti denominate «ecovillaggi») e da una pratica democratica che in alcuni casi si distanzia dal metodo di contare i voti e stabilire una maggioranza – cui siamo abituati – basandosi piuttosto sul metodo del «consenso», secondo il quale ogni membro dell’assemblea ha facoltà di porre il veto sulle decisioni della maggioranza, bloccandone l’attuazione. Tuttavia l’opzione comunitaria non è disponibile per tutti: è difficile immaginare, ad esempio, come una grande metropoli possa scindersi in piccole comunità. Ciononostante, anche nella vita quotidiana delle persone è sempre possibile, almeno potenzialmente, fare esperienza di quelle che MacIntyre ha chiamato «pratiche»: in alcuni casi sul luogo di lavoro, nei gruppi sportivi, ricreativi, artistici, oppure in quei contesti di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente (ad esempio lo stabile occupato). Dalla partecipazione a queste pratiche può nascere una comprensione di cosa significhi attuare una politica come pratica del bene comune e di come questa sia ostacolata dalle strutture economiche e sociali esistenti47, il che può portare a uno sforzo inteso a rimodellare gli spazi sociali della propria vita quotidiana, a sottomettere le istituzioni alle pratiche (cioè i beni esterni ai beni interni), e così via. Ogni individuo, perciò, dovrebbe agire nella propria quotidianità in base a quell’imperativo di cui abbiamo detto: «considera sempre la pratica in cui sei impegnato come un fine e mai come semplice mezzo». Naturalmente, anche la politica istituzionale dei sindacati, partiti e movimenti può contribuire alla realizzazione di questi obiettivi. Riconoscere gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di una politica comunitaria autentica è sicuramente il primo passo per oltrepassarli. Le speranze di poterla praticare nella vita quotidiana di ciascuno non sono molte, ma si annidano negli anfratti nascosti della realtà. Occorre solo scovarle, e dare loro attuazione.

46. Si vedano per esempio Volker Peters, Martin Stengel (eds.), Eurotopia. Intentional Communities and Ecovillages in Europe, Volker Peters Verlag, Poppau 2005; Manuel Olivares, Comuni, comunità, ecovillaggi. In Italia, in Europa, nel mondo, Malatempora, Roma 2008. 47. Cfr. Alasdair MacIntyre, How Aristotelianism cit., p. 16.

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1) Opere di Alasdair MacIntyre e Charles Taylor Si riportano di seguito, in ordine cronologico per ciascun autore, soltanto le opere concernenti i temi trattati nel testo; per una bibliografia completa, che comprende anche vaste indicazioni, in costante aggiornamento, di bibliografia secondaria (pressoché complete per quanto riguarda la produzione in lingua inglese) si rimanda ai seguenti siti internet: – http://www3.nd.edu/~rabbey1/ - Notre Dame University, Charles Taylor Bibliography (url visitato in data 30 settembre 2014) – https://metranet.londonmet.ac.uk/depts/lgir/research-centres/casep/research-resources/ macintyre-publications/macintyres-books.cfm – London Metropolitan University – Alasdair MacIntyre’s books (url visitato in data 30 settembre 2014) Alasdair MacIntyre, Secularization and Moral Change, Oxford University Press, London 1967. −, The end of ideology and the end of the end of ideology, in Id., Against the Self-Images of the Age. Essays on Ideology and Philosophy, Duckworth, London 1971 / University of Notre Dame Press, Notre Dame 1978, pp. 3-11. −, Epistemological crises, dramatic narrative, and the philosophy of science, «The Monist», LX (1977), n. 4, pp. 453-472; ora in Id., The

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Indice dei nomi

99 Abbey, Ruth, ixn, 93 Agostino d’Ippona, santo, 8 Alvayay, Rodrigo, 89 Arendt, Hannah, ix, 93 Aristotele, ix, 5, 23, 31, 33, 34, 35, 69, 71, 72, 73n, 74n, 93 Badiou, Alain, 65, 65n, 93 Bauer, Joanne R., 91 Baum, Gregory, 93 Bell, Daniel A., 91 Berlin, Isaiah, 55, 93 Bhargava, Rajeev, 91 Blackledge, Paul, 6n, 76n, 77n, 79n, 83n, 88, 94 Borradori, Giovanna, 86 Brennan, Geoffrey, 90 Bruni, Leonardo, 32 Cartesio, Renato, 8, 9, 13, 14, 20 Casanova, José, 93, 94 Castigliani, Marta, 65n, 94 Cohen, Joshua, 56n, 91 Cohen, Robert S., 86 Collingwood, Robin George, 28 Constant, Benjamin, 96 Costa, Paolo, 7n, 18n, 94

Cristo, 66 Crivelli, Paolo, 34n, 94 Davidson, Neil, 76n, 94 Delaney, Cornelius F., 86 Diderot, Denis, 20, 22, 23 Dooley, Mark, 73n, 87 Engels, Friedrich, 75n, 76n, 95 Ferrara, Alessandro, viin, 26n, 54n, 56n, 86, 89, 90, 94, 97 Fichte, Johann Gottlieb, 94 Francesco di Sales, santo, 67 Fraser, Nancy, 94 Fusaro, Diego, 15n, 94 Gadamer, Hans-Georg, 60, 61 Gibellini, Rosino, 19n, 94 Giovanni Paolo II, papa, 76 Gordon, Peter E., 94 Gormally, Luke, 87 Gould, Carol C., 86 Gray, John N., 89 Groffier, Ethel, 90 Gutmann, Amy, 90, 95

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Habermas, Jürgen, 57n, 90, 94 Hayek, Friedrich A. von, 25, 95 Heft, James L., 91 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, IX, 7, 8, 16, 34, 41, 48, 61, 95 Herder, Johann Gottfried, 12, 13, 57 Hibbs, Thomas S., 95 Hobbes, Thomas, 20 Horton, John, 35n, 87, 91, 95 Humboldt, Wilhelm von, viii Hume, David, 20, 21, 21n, 22, 23, 42, 95 Kant, Immanuel, 14, 22, 23, 26, 37, 42, 75 Kearney, Richard, 73n, 87 Kerr, Fergus, 95 Kierkegaard, Søren, 23 Knight, Kelvin, ixn, 6n, 27n, 75n, 77n, 79n, 83n, 86, 87, 88, 94, 95 Kontos, Alkis, 88 Kozinski, Thaddeus J., 82, 95 Kuhn, Thomas, 31

100

Lakatoš, Imre, 31 Laslett, Peter, 88 Lingua, Graziano, 95 Locke, John, 9, 13, 21, 35, 37 Lukács, György, 46 Machiavelli, Niccolò, viii, 55 MacIntyre, Alasdair, vii-x, 3-6, 13n, 17, 20, 21n, 22-24, 26-28, 30-33, 35, 37, 38, 41, 42, 47, 49, 51n, 53, 54, 6870, 73n, 74-88. Maclure, Jocelyn, 68n Madsen, Richard, 91 Maletta, Sante, 79n Malpas, Jeff, 92 Mandieta, Eduardo, 68n, 93, 95 Marx, Karl, viii, 11, 28, 29, 43, 49, 75, 76n, 77n, 95 Maurot, Élodie, 19n, 95 McKim, Robert, 91 McLean, George F., 93 McMahan, Jeff, 91 Mendus, Susan, 87, 91, 95 Mill, John Stuart, viii, 55 Montesquieu, Charles-Louis de Secondat duca di, 55, 56, 61, 62, 66, 96 Newton, Isaac, 21 Nietzsche, Friedrich, 3, 19, 20, 23, 96 Noponen, Niko, 77 Nozick, Robert, 37

Occam, Guglielmo di, 10, 13 Olivares, Manuel, 84n, 96 Pannenberg, Wolfhart, 19n, 96 Paolo VI, papa, 76 Paradis, Michel, 90 Pazé, Valentina, 96 Pelczynksi, Zbigniew, 89 Perreau-Saussine, Émile, viin, viii, 6n, 97 Peters, Volker, 84n, 96 Peterson, Grethe B., 91 Pezzano, Giacomo, 96 Piccolomini, Francesco, 32 Pirni, Alberto, 96 Platone, 8, 34, 36, 38, 96 Portinaro, Pier Paolo, x, 96 Preve, Costanzo, x, 15n, 34n, 96 Rawls, John, 26, 37, 55, 96 Redhead, Mark, 96 Reynolds, Frank E., 90 Rosenblum, Nancy R., 90 Rousseau, Jean-Jacques, viii, 12, 35, 42 Ruiz, Carlos, 89 Runciman, Walter G., 88 Ryan, Alan, 88, 89 Sandel, Michael, viin, 26, 96 Schiller, Friedrich, 12n Sen, Amartya, 89 Smith, Nicholas H., 97 Stengel, Martin, 84n, 96 Strauss, Leo, 17 Taylor, Charles, vii-ix, xn, 3, 4n, 5, 6, 8-10, 12-20, 23, 24, 41, 42, 44, 45, 47-68, 75, 81-83, 85, 88-94 Teresa di Calcutta, Madre, 67 Tocqueville, Alexis de, 61, 62, 97 Tommaso d’Aquino, santo, 23, 33, 35n, 36, 78, 81, 82, 93 Tracey, David, 90 VanAntwerpen, Jonathan, 68n, 93, 95 Viroli, Maurizio, 97 Walsh, Cliff, 90 Weber, Max, 11n, 75, 97 Williams, Bernard, 89 Wittgenstein, Ludwig, 48, 70, 97 Zanatta, Marcello, 31n, 97

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La pratica del bene comune

Gianluca Cavallo è dottore in Filosofia e studente presso la Scuola di Studi Superiori dell’Università di Torino.

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Gianluca La pratica Cavallo del bene comune Etica e politica in Charles Taylor e Alasdair Macintyre

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Come può essere pensata oggi la politica come pratica del bene comune? A partire da questa domanda l’autore propone una lettura dell’opera di due fra i più noti filosofi viventi, mostrando l’attualità della critica “comunitarista” al liberalismo. Riconsiderando temi quali modernità, secolarizzazione, diritti e intersoggettività attraverso l’ottica di Charles Taylor e Alasdair MacIntyre si individuano i limiti della pratica politica liberale (e, seppur indirettamente, neoliberale) e si avanza la proposta di un modello alternativo che ha al suo centro l’idea del bene comune, come mezzo costitutivo per la vita buona di ciascun individuo.

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ccademia university press

Gianluca Cavallo

ISBN 978-88-99200-26-8

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788899 200268