La politica estera delI’Italia. Dallo Stato unitario ai giorni nostri

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La politica estera delI’Italia. Dallo Stato unitario ai giorni nostri

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Storia e Società

Giuseppe Mammarella Paolo Cacace

La politica estera dell’Italia Dallo Stato unitario ai giorni nostri

Editori Laterza

© 2006, 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006 Nuova edizione ampliata 2010 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9312-1

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

PREFAZIONE

Oggetto di questo libro è l’analisi critica di un secolo e mezzo di politica estera italiana, dalla proclamazione dell’Unità ad oggi. La storiografia sui rapporti internazionali dell’Italia è abbondante e in genere di buona qualità, ma decisamente specialistica. Copre momenti particolari o anche fasi della storia nazionale, ma trattazioni sistematiche della nostra politica estera durante tutto il suo corso si contano sulle dita di una mano. Il nostro obiettivo non è solo quello di colmare una lacuna a uso dello studioso e dello studente, anche se ciò sarebbe già di per sé impegnativo e importante, ma soprattutto quello di esaminare un aspetto della storia e della politica del nostro paese e di esprimere una valutazione complessiva su tale aspetto, frequentemente oggetto di giudizi negativi da parte di osservatori italiani e stranieri. Nonostante che da qualche tempo si parli, e non senza motivazioni, di declino dell’Italia, la storia nazionale dagli anni del Risorgimento alla prima Repubblica è la storia di un grande successo, quella di un paese che – malgrado un passato di forti affermazioni economiche e culturali – al momento della proclamazione dell’Unità era vistosamente arretrato rispetto al resto dell’Europa occidentale, con un reddito pro capite che all’incirca era un quarto di quello della Gran Bretagna, allora di gran lunga la nazione europea più ricca, ma che nell’arco di poco più di un secolo riesce a raggiungere, e in taluni momenti a superare, il gruppo delle nazioni leader del continente. Naturalmente quello del reddito pro capite non è il solo metro per misurare la crescita e il valore di un paese; anche sul versante del progresso sociale e culturale il bilancio è ugualmente attivo. Dove invece è più difficile esprimere una valutazione positiva è sul piano dell’azione internazionale, quello su cui misurare il com-

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Prefazione

portamento del nostro paese nei confronti degli altri Stati che costituiscono la comunità mondiale. Anzi, può stupire che l’Italia abbia raggiunto così alti livelli di benessere e di realizzazioni economico-sociali nonostante l’incerto e talvolta drammatico percorso della sua politica estera. Fin dalle origini la politica del nuovo Stato – malgrado la presenza di un apparato diplomatico di buon livello – parte da premesse sbagliate sulla valenza delle sue risorse politiche e umane, nell’affannosa e sovente velleitaria ricerca di uno status internazionale che per una serie di ragioni storiche non le si addiceva e non poteva essere il suo. L’impostazione della politica internazionale, già impropria alle origini, si conferma con le contraddizioni del periodo crispino e triplicista, culmina con l’aggressività della seconda parte del ventennio fascista e con il dramma della seconda guerra mondiale e dell’8 settembre, e in una certa misura lo prepara e lo rende quasi inevitabile. Negli anni che seguono il secondo Risorgimento nazionale, sui quali abbiamo condotto un’analisi più puntuale, la politica estera dell’Italia si fa più cauta, più realistica, talvolta più rispondente ai propri interessi preminenti anche in presenza di una situazione internazionale che non lascia molte alternative rispetto alla politica dei blocchi in cui il mondo è diviso. Tuttavia anche in questa fase permangono o riemergono i vizi d’origine, la discontinuità delle scelte e dell’impegno, l’improvvisazione e la mancanza di una chiara visione dell’interesse nazionale. Ma c’è soprattutto una evidente interdipendenza tra la politica estera e le vicende della politica interna che ci ha obbligato a dare alle stesse un trattamento più ampio e circostanziato di quanto non abbiamo fatto per il periodo post-risorgimentale e per quello fascista in cui la politica estera, nel bene e nel male, manteneva una sua maggiore autonomia dalle vicende interne. Con la fine della guerra fredda e con l’avanzamento dei processi di globalizzazione, la politica estera italiana entra nuovamente in crisi fino a rischiare l’inconsistenza e l’irrilevanza. Oggi essa oscilla tra un’acritica adesione alle politiche della superpotenza America, a cui pur ci lega una lunga comunanza di valori e di esperienze, e un’adesione episodica e priva di progettualità ai problemi dell’integrazione europea. I grandi temi, dall’incontro

Prefazione

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con le nuove culture alle realtà economiche dei paesi emergenti, restano confinati sul piano del dibattito culturale in un’ottica angusta e carente di prospettive, e comunque non riescono a tradursi in politiche coerenti. Il declino del paese nasce anche dal declino della sua politica estera, incapace di scegliere i ruoli e gli indirizzi nella definizione degli interessi nazionali, quelli storici e quelli più immediati, e di proiettare sul piano internazionale una immagine positiva, consona allo status di una media potenza regionale con interessi globali. Siamo convinti che il ritorno a una fase di crescita e di ragionevole influenza richiederà, insieme alle riforme della società e dello Stato, quelle delle politiche e in primo luogo della politica estera, dei suoi metodi e delle sue tecniche. È sulla base di questa convinzione che, a conclusione del nostro lavoro, abbiamo dedicato un capitolo ad alcune riflessioni sulle condizioni e sugli strumenti di una politica estera rinnovata, nella speranza di dare un contributo al suo riesame e al suo rilancio. Giuseppe Mammarella

Paolo Cacace

LA POLITICA ESTERA DELL’ITALIA DALLO STATO UNITARIO AI GIORNI NOSTRI

I LA POLITICA ESTERA DELL’UNITÀ (1861-1870)

1. Il riconoscimento internazionale Già all’indomani del 17 marzo 1861, giorno della proclamazione del Regno con il conferimento del titolo di re d’Italia a Vittorio Emanuele II, la diplomazia del nuovo Stato si trovò impegnata a ottenere quel riconoscimento richiesto dal diritto internazionale, ma soprattutto necessario per la creazione di rapporti politici e commerciali, lo scambio di ambasciatori, la partecipazione alla vita e all’attività della comunità delle nazioni nonché per assicurare la stabilità e la sicurezza dei confini. Non si trattava di una mera formalità e il successo dell’operazione aveva un margine di incertezza. Se da alcuni governi il Risorgimento italiano era stato seguito con favore e simpatia per l’attrazione esercitata dalla grande tradizione di storia e di cultura di cui il nuovo paese si proponeva erede, ad altri il successo raggiunto con tanta rapidità e agli occhi di alcuni con troppa spregiudicatezza ispirava diffidenza, suggeriva qualche remora e molta cautela. Tra gli Stati simpatizzanti c’era l’Inghilterra, che al processo unitario aveva dato sostegno e incoraggiamento; il suo riconoscimento fu eccezionalmente rapido (già il 30 marzo), insieme a quello della Svizzera. Seguirono gli Stati Uniti, il 13 aprile, il giorno che segnava l’inizio di quella tragedia nazionale che sarà la guerra civile americana; poi l’impero ottomano, gli Stati scandinavi, l’Argentina e il Messico1. 1

Per un esame approfondito del problema del riconoscimento cfr. E. Anchie-

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La politica estera dell’Italia dallo Stato unitario ai giorni nostri

La Francia, che nell’ultima fase del Risorgimento – quella della seconda guerra d’Indipendenza – era stata la grande e insostituibile alleata, dopo qualche esitazione, comunicò il suo riconoscimento il 15 giugno 1861. Russia e Prussia si fecero attendere più di un anno, fino al luglio 1862. Dei grandi paesi restavano la Spagna, che darà il suo riconoscimento solo nel 1865, e l’Austria che lo negherà fino al 1866 e sarà costretta a concederlo in conseguenza della sconfitta nella guerra contro i prussiani, come parte del Trattato di pace con l’Italia. Naturalmente, simpatie e antipatie rappresentavano solo una parte dell’atteggiamento verso il nuovo Stato; molto di più pesavano le ragioni politiche. L’Inghilterra, che aveva seguito le vicende risorgimentali passo dopo passo attraverso il suo ambasciatore a Torino, sir James Hudson, era favorevole al nuovo Stato in previsione del ruolo che esso avrebbe potuto svolgere nel contenere l’influenza francese nel Mediterraneo, che per Londra rivestiva grande importanza strategica e che, con il taglio dell’istmo di Suez allora in corso (verrà completato nel 1869), sarebbe diventato la più rapida via di comunicazione con le terre dell’impero in India e nel Sud-Est asiatico. Più complesse le ragioni delle esitazioni francesi. Il governo di Parigi e Napoleone III erano visibilmente contrariati per gli sviluppi del caso italiano, dopo la pace di Villafranca dell’11 luglio 1859, le cui clausole erano state accettate da Vittorio Emanuele II, ma subito contestate. La vicenda italiana, che era apparsa così promettente per lo stesso Napoleone III, perdurando gli accordi di Plombières, si stava rivelando un vero e proprio errore storico. Un conto era un grande Stato piemontese accresciuto della Lombardia e – se le cose fossero andate secondo i piani – anche del Veneto, «un Regno dell’Alta Italia con undici milioni di abitanti circa»2, e una penisola riorganizzata secondo la tripartizione concordata a Plombières, che in qualche misura riproduceva quella realizzata dal primo Napoleone; un altro conto era ritrori, Il riconoscimento del regno d’Italia, in Atti del XL Congresso di storia del Risorgimento italiano, Torino 26-30 ottobre 1961, Roma 1963, pp. 17-45. 2 L’assetto dato all’Italia verso il 1810 da Napoleone I prevedeva la divisione della penisola in tre parti. La prima, che comprendeva il Piemonte, la Liguria e la Toscana, era stata annessa alla Francia; la Lombardia, il Veneto e la Romagna costituivano il Regno d’Italia destinato al figlio di Napoleone, il re di Roma; e infine il Regno di Napoli era stato assegnato a Gioacchino Murat, uno dei

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varsi alla frontiera orientale una nazione unificata, con ventisei milioni di abitanti e che per di più non nascondeva ambizioni espansionistiche nel Mediterraneo. La coscienza dell’errore commesso non arrivava, tuttavia, fino al punto di sconfessare l’aiuto fin lì prestato. Sarebbe stato molto più grave per l’immagine della Francia e del suo imperatore cercare di disfare a così breve scadenza ciò che essi avevano contribuito a costruire. Pertanto, subito dopo la morte di Camillo Benso conte di Cavour, avvenuta il 6 giugno 1861, che per alcuni sembrò comportare il rischio di disfacimento dello Stato unitario appena costruito, anche la Francia concesse il riconoscimento, pur riconfermando l’intenzione di mantenere le proprie truppe a Roma, già sotto la minaccia delle iniziative garibaldine. Indifferenza e diffidenza spiegavano l’atteggiamento attendista e dilatorio della Russia e della Prussia per la vecchia ruggine contro il principio di nazionalità di chi si considerava ancora vincolato ai valori della Santa Alleanza. Ma più in generale l’invasione dell’esercito piemontese del territorio dello Stato della Chiesa, dopo l’ultimatum alla Santa Sede dell’11 settembre 1860, aveva suscitato la disapprovazione dei conservatori europei, nonché la prevedibile indignazione dei cattolici. In quella circostanza la Russia e la Francia avevano addirittura richiamato i propri ambasciatori da Torino e lo stesso aveva fatto la Spagna. Molti imputavano al nuovo Stato di avere attentato alla stabilità europea e temevano, secondo un vecchio pregiudizio, che la penisola incubasse disordini e rivoluzioni. Il governo italiano e più ancora la sua diplomazia non risparmieranno gli sforzi per rassicurare e garantire, ma i sospetti e la diffidenza resteranno forti per qualche tempo e non si estingueranno mai del tutto. Apertamente ostili e dichiaratamente nemici del nuovo Stato erano l’Austria e il papa. La perdita di una delle più ricche province dell’impero per l’una e di due terzi del territorio per l’altro erano ragioni sufficienti a radicare un’ostilità destinata a confermarescialli di Napoleone. A Plombières era stato concordato uno schema simile che, oltre al Regno dell’Alta Italia, prevedeva un Regno dell’Italia centrale, un Regno delle due Sicilie lasciato nelle sue dimensioni storiche e uno Stato della Chiesa ridotto a Roma e ai territori circostanti. Da Il Carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, vol. I, Plombières, Bologna 1926, pp. 103-14.

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marsi e ad aumentare per via delle due principali rivendicazioni del giovane Regno a loro carico, e cioè Venezia e Roma. Nel corso del suo primo decennio di vita i rapporti con l’Austria e quelli con il papa rimarranno al centro delle preoccupazioni dei governanti della nuova Italia. 2. Cavour e l’eredità cavouriana Sui meriti della politica estera cavouriana è stato detto tutto. Di Cavour come di Garibaldi è impossibile parlare male. Se è pur vero che le vicende degli anni ’59-’60, con l’eccezionale successione di avvenimenti favorevoli, hanno accreditato il mito dello «stellone», vale riconoscere che senza la preparazione politica e diplomatica condotta da Cavour, dall’intervento piemontese in Crimea agli accordi di Plombières, non ci sarebbe stata una seconda guerra di Indipendenza, con quel che ne seguì. La fama di Cavour riceve un ulteriore consolidamento dalla considerazione che egli si conquistò all’estero presso i governi e le opinioni pubbliche e dalla consacrazione postuma di grande statista che ne fece la storiografia europea e inglese in particolare. Ma se i risultati della politica cavouriana furono eccezionalmente favorevoli, non tutti i passaggi della sua diplomazia appaiono ineccepibili. Al congresso di Parigi, a conclusione della guerra di Crimea, Cavour andò con aspettative del tutto ingiustificate di guadagni territoriali, e muovendosi con eccessiva precipitazione si alienò, pur temporaneamente, il favore del governo inglese e del suo rappresentante alla conferenza, George Clarendon, il quale, dopo aver preso le difese della causa italiana, si raffreddò di fronte alle evidenti intenzioni di Cavour di provocare nuove conflittualità di cui avvantaggiarsi. Le speranze del conte di essere affiancato dall’Inghilterra, nel suo disegno di provocare l’Austria alla guerra, erano chiaramente infondate. Più tardi Clarendon parlerà di una «cricca di Cavour» e della sua «politica senza scrupoli»3. La proposta di arbitrato 3 Cit. da D. Mack Smith, II Risorgimento italiano. Storia e testi, Roma-Bari 1987, p. 388.

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avanzata dagli inglesi alla vigilia della seconda guerra di Indipendenza, che per un momento rischiò di bloccare il corso degli eventi, denunciava i sospetti per la politica cavouriana nonché le preoccupazioni di Londra per l’eccessiva influenza francese nella penisola. Le difficoltà caratteriali di Cavour, manifestatesi nel corso di tutta la sua vita politica, raggiunsero l’espressione più clamorosa nella reazione alla pace di Villafranca e nello scontro successivo con re Vittorio Emanuele II4. La richiesta al sovrano di continuare la guerra contro l’Austria senza l’aiuto dei francesi può sembrare solo una manifestazione poco meditata del suo stato d’animo, nel momento in cui vedeva crollare il piano lungamente preparato, ma la speranza che in quella situazione l’Inghilterra avrebbe dichiarato guerra all’Austria, così come per qualche tempo aveva sperato che sarebbe avvenuto nel 1856, era un nuovo clamoroso errore di valutazione. Resta in tutta la politica di Cavour un aspetto avventuristico che riemergerà di quando in quando nel corso della storia del paese e che darà alla politica estera italiana un carattere di improvvisazione e di rischio tale da suscitare nei nostri partner occasionali sospetto e sfiducia. Avventurosa – e apertamente impopolare – era stata la decisione presa da Cavour dopo qualche iniziale perplessità di inviare l’esercito in Crimea, in un momento in cui le scelte di Vienna non erano ancora maturate: come venne osservato anche allora dai fautori di una politica più prudente, se l’Austria si fosse unita alla coalizione anglo-francese, i piemontesi si sarebbero trovati a combattere a fianco dei soldati asburgici. 4 Vedi il rapporto del colonnello inglese R. Cadogan a lord John Russell sul contenuto della conversazione avuta dallo stesso Cadogan con Vittorio Emanuele II. Cfr. Mack Smith, Il Risorgimento italiano cit., pp. 527-28; nello stesso testo, a p. 686, vedi anche il rapporto dell’ambasciatore inglese a Torino James Hudson a lord Russell. Scrive Hudson: «Il re proseguì parlando di Cavour e della sua morte recente; egli [il re] rendeva pienamente giustizia alle sue molte e grandi qualità di cuore e di mente, ma non poteva chiudere gli occhi sul fatto che la sua grande arte di governo era a volte molto rischiosa per lo Stato. Nella sua passione, disse Sua Maestà, ha a volte buttato all’aria tutte le sedie della stanza. Mi chiamava traditore o peggio, ma io sapevo che questo era semplicemente effetto di collera e rimanevo seduto tranquillamente scrivendo le mie annotazioni sulla particolare questione che aveva provocato quell’eccesso di collera per leggergliele poi, quando si fosse calmato».

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Rischiosa, al limite della temerarietà, la politica condotta attraverso la Società nazionale che provocò le sollevazioni in Toscana, Emilia e Romagna tra l’estate e l’autunno del ’59, e che portò non solo alla deposizione delle dinastie regnanti, ma all’esautorazione del potere papale in alcune province, e tutto ciò in aperta violazione degli accordi di Villafranca che prevedevano il ritorno dei vecchi regnanti sui troni dell’Italia centrale. Il rischio era di riaccendere la guerra senza poter contare sull’aiuto di Napoleone III, ma anzi con la possibilità di trovarsi contro sia l’Austria che la Francia in difesa del papa. Ancora, durante la vicenda della conquista del Mezzogiorno, la linea dell’ambiguità seguita da Cavour nei confronti dell’impresa di Garibaldi darà alla fine i suoi frutti ma contribuirà a creare quel difficile rapporto tra Nord e Sud del paese che rimarrà una costante nella storia nazionale. Per il bene e per il male la politica cavouriana consegnava al Regno di Vittorio Emanuele II e ai governi che si succedettero, dopo la sua improvvisa scomparsa, una eredità di rapporti, di impegni politici e di comportamenti da cui la politica estera italiana non potrà prescindere per almeno un ventennio. Se si esclude la parentesi del ’66 con l’alleanza prussiana, dalla morte di Cavour alla stipula della Triplice Alleanza, la politica estera italiana ruoterà attorno a due temi fondamentali: quello dei rapporti con la Francia e quello del conflitto con il papato. La genialità di Cavour era stata quella di aver fatto la grande politica a livello europeo in nome di un piccolo paese che non disponeva né di un esercito né di una diplomazia a livello delle nazioni con cui il conte aveva stabilito rapporti e che aveva coinvolto nel suo gioco politico. Invece del piccolo Piemonte sempre alla mercé di potenti vicini, l’Europa si trovava davanti un paese di ventisei milioni di abitanti, povero di risorse ma in una collocazione strategica di grande importanza, posto al centro del Mediterraneo, in una posizione favorevole alla mediazione dei rapporti tra il mondo orientale e quello occidentale. Questa collocazione, il tipo di politica che l’aveva portato all’Unità, nonché i ricordi della grandezza passata che avevano alimentato il patriottismo risorgimentale spingevano il nuovo Stato e la sua classe dirigente verso una politica che aspirava a misurarsi con quella delle grandi potenze europee.

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Ma della grande potenza l’Italia aveva solo la popolazione che cresceva rapidamente, grazie soprattutto alla prolificità del Meridione. Il reddito restava notevolmente inferiore a quello dei maggiori paesi europei talché, fatto uguale a 100 il prodotto pro capite dell’Italia, quello inglese era uguale a 230, quello francese a 170 e quello tedesco a 115. Con un’economia essenzialmente agricola (54 per cento del prodotto ma 70 per cento della popolazione addetta all’agricoltura) il Regno d’Italia partecipava alla produzione manifatturiera mondiale in settima posizione con il 2,4 per cento (1870), mentre quella della Gran Bretagna raggiungeva il 31. Scarsa l’industria, quasi esclusivamente concentrata in Piemonte, in Liguria e in Lombardia (l’85 per cento del totale), precarie e mal distribuite le infrastrutture, soprattutto le ferrovie, altissimo l’analfabetismo (attorno al 74 per cento) che, mentre in Piemonte e in Lombardia era attestato al 52-53 per cento, in Sicilia e in Sardegna raggiungeva il 90 per cento5. Per quasi tutto il primo decennio di vita la situazione finanziaria del nuovo Stato restò sull’orlo della bancarotta e nel maggio del 1866 il governo fu costretto a introdurre il corso forzoso con l’abolizione della convertibilità in oro dei biglietti di banca. Al peso costituito dai debiti dei vecchi Stati italiani assunti dal Regno al momento dell’Unità, si aggiungevano le forti spese della guerra condotta contro il cosiddetto brigantaggio che, dal 1861 al 1865, aveva visto mezzo esercito italiano dislocato nel Sud, e più tardi quelle non meno pesanti della guerra del 1866. In conclusione, al momento del suo ingresso nella comunità internazionale il paese era in sensibile ritardo rispetto a quelli dell’Europa occidentale e centrale con cui aveva scelto di confrontarsi e si sarebbe ritrovato a competere. Anche se il divario non era incolmabile, il recupero avrebbe richiesto un lungo periodo di raccoglimento, almeno un ventennio, per quell’opera di assimilazione tra condizioni e culture profondamente diverse, la costruzione delle infrastrutture necessarie per uno Stato moderno e la formulazione di quello spirito unitario che crea senso di appartenenza e lealtà nei confronti del proprio paese e ne costituisce il maggior sostegno. 5 Istat (Istituto centrale di statistica), Sommario di statistiche storiche italiane: 1861-1955, Roma 1958, p. 213.

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La classe dirigente che assunse la guida dell’Italia dopo la morte di Cavour, mezza piemontese, mezza lombarda e toscana, era cosciente dei compiti e delle difficoltà che l’attendevano, ma sui suoi programmi di costruzione e di crescita economica e civile continuavano a pesare in modo eccessivo, per le risorse e le capacità del nuovo Stato e del suo governo, il problema della sicurezza e quello dei confini. Il primo riguardava le minacce che provenivano da una possibile rivincita austriaca e dai tentativi del papato di recuperare le perdite materiali e morali inflitte dal Risorgimento. Il secondo comportava non solo l’impegno naturale a difendere i confini raggiunti, ma anche quello di allargarli per completare il programma di costruzione nazionale. Così difesa e offesa, politica di conservazione dei confini acquisiti e politica di espansione degli stessi per il raggiungimento degli obiettivi storici si assoceranno e spesso si confonderanno riflettendosi su di una politica estera che alternerà fasi di remissività e di sottomissione alle influenze del momento a rivendicazioni intempestive e difficili da conseguire. Mancando all’azione internazionale il supporto di una forza armata competitiva con quella dei vicini, la politica del nuovo Stato dovrà puntare – come già nella secolare esperienza piemontese – sulle alleanze suggerite, più che dalle affinità politiche e ideologiche, dagli interessi e dalle situazioni che, necessariamente mutevoli, renderanno problematiche e insicure le amicizie e le stesse alleanze. Nella difficile ricerca di un ruolo e soprattutto di una collocazione certa e riconosciuta nella famiglia delle nazioni, l’Italia potrà contare su di una diplomazia di qualità decisamente superiore alle dimensioni e alle risorse del paese. Uomini come il marchese Emilio Visconti Venosta, ministro degli Esteri nell’arco di quasi un quarantennio (considerato, naturalmente, il lungo intervallo dei governi della sinistra), il conte Carlo Felice di Robilant, ambasciatore a Vienna, il conte Edoardo De Launay, ambasciatore a Berlino, e il conte Costantino Nigra, ambasciatore speciale, e non solo, presso Napoleone III e molti altri, costituirono un gruppo di diplomatici di eccellenti qualità, quale raramente il paese – che a ragione ha sempre vantato una diplomazia di buon livello – avrà nel corso della sua storia. Con la loro abilità, il loro patriottismo, la conoscenza del mondo, della cultura e degli ambienti in cui si muo-

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vevano raggiungeranno un livello di autorevolezza che supplirà almeno in parte alle carenze del giovane Stato e gli consentiranno di mantenere presso le corti e le cancellerie europee uno status superiore alle sue risorse e alle sue potenzialità. 3. Roma o Venezia? Nel primo decennio di vita del nuovo Stato, Roma e Venezia rappresenteranno gli obiettivi quasi esclusivi di una politica che se da un certo punto di vista era definibile come interna, in quanto il raggiungimento di questi obiettivi veniva considerato fondamentale per il completamento dell’unità del paese, investivano la politica estera in quanto erano condizionati dalla situazione internazionale, in particolare dalla volontà di Francia e Austria. Cavour aveva affermato che l’Italia sarebbe andata a Roma solo con il permesso della Francia; e in effetti ogni progetto di soluzione del conflitto tra l’Italia e la Santa Sede (i più significativi saranno quello dello stesso Cavour e quello di Bettino Ricasoli, suo successore alla presidenza del Consiglio) sarà sottoposto all’esame e all’approvazione del governo francese e in particolare dell’imperatore. Sono gli anni in cui la Francia esercita quasi un protettorato sul nuovo Stato mal sopportato da molti, sia nel governo che nel paese, ma accettato come inevitabile. L’atteggiamento di Napoleone III verso l’Italia continua anche in questa fase ad essere benevolo, pur mantenendo la sua garanzia alla Santa Sede con l’assicurazione della presenza militare francese a Roma. L’imperatore sembra incline a favorire l’Italia, ma la sua azione è condizionata da una parte dai cattolici francesi fedeli al papa e al mantenimento del potere della Chiesa, e dall’altra dalla scarsa simpatia per il nuovo vicino da parte degli ambienti di corte e della stessa imperatrice Eugenia e di una lobby politico-militare che, dopo l’annessione di Nizza e della Savoia, pensa a nuovi compensi territoriali (Sardegna, Liguria) nel tentativo di stringere la tutela francese sul nuovo Stato. La posizione italiana in questi anni è indebolita – oltre che dall’improvvisa scomparsa di Cavour – dalla guerra contro il brigantaggio e più in generale dall’instabilità del Sud, scosso da continue proteste politiche e sociali. Fomentato e finanziato da Fran-

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cesco II (rifugiatosi a Roma dopo la caduta di Gaeta), sostenuto apertamente dal clero cattolico locale, il «brigantaggio» meridionale, che in realtà dà vita a una vera e propria insurrezione e a una guerriglia condotta e repressa con ferocia, resterà una grossa spina nel fianco di tutti i governi fino a quando, nel 1865, non sarà completamente debellato. Fino ad allora la vita del nuovo Stato appare precaria a tal punto che alcuni moderati piemontesi, tra cui Massimo D’Azeglio, cominceranno a porre la questione «del tenere Napoli o non tenerla»6, cioè di lasciare le regioni meridionali al loro destino. Ben presto si diffonde in Europa l’aspettativa che il giovane Regno possa sfasciarsi. Lo stesso Napoleone III sembra convinto della necessità di dargli una diversa organizzazione continuando a considerare opportuna la divisione del paese secondo lo schema concordato a Plombières. La Chiesa, a sua volta, sicura del sostegno francese e ancora fiduciosa nella possibilità di una reazione europea a suo favore, respingerà ogni proposta di accordo. La prima è quella che lo stesso Cavour avanzò subito dopo la costituzione del primo governo del Regno, in due famosi discorsi alla Camera, il 25 e il 27 marzo 1861. Dopo aver riconfermato l’esigenza irrinunciabile di Roma capitale, il conte chiedeva alla Chiesa di abbandonare il potere temporale «che non è più garanzia di indipendenza» in cambio di «una libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche» e cioè: garanzie al papa di esercitare le sue funzioni, e piena libertà alla Chiesa di svolgere il suo magistero nel quadro «di una libera Chiesa in un libero Stato»7. Seguiva l’impegno a corrispondere al papa una cospicua rendita annua. L’offerta di Cavour trovò eco presso il governo francese, il quale tuttavia avanzò una proposta alternativa che manteneva al papa il territorio della regione laziale e chiedeva all’Italia l’impegno a «non attaccare e a impedire con l’uso della forza ogni attacco proveniente dall’esterno»8. 6 Lettera di M. D’Azeglio a C. Matteucci del 2 agosto 1861, in M. D’Azeglio, Scritti e Discorsi politici, vol. III, Firenze 1931-38, pp. 399-400. 7 Per ambedue i discorsi vedi C. Cavour, Discorsi parlamentari, a cura della Camera dei deputati, vol. XI, Roma 1872, pp. 314-38. 8 Cit. da G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. V, Milano 1968, p. 104.

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Le due posizioni erano lontane. Cavour proponeva la rinunzia del papa al potere temporale, Napoleone III voleva conservarglielo almeno per il momento; al governo italiano, tuttavia, conveniva prendere tempo e, anche per dimostrare ai cattolici europei uno spirito conciliativo, accettò di negoziare. La morte di Cavour cambiava il quadro a sfavore dell’Italia. Bettino Ricasoli, succeduto allo statista piemontese, rilanciava il negoziato ricalcando le proposte di Cavour, ma a questo punto la Francia e il Vaticano le lasciavano cadere. Napoleone III non voleva urtare i cattolici francesi sempre più sfavorevoli a un accordo che penalizzasse il papa e la Chiesa privandoli del potere temporale, mentre nella curia romana prevalevano le posizioni degli elementi più ostili all’Italia che facevano capo al cardinale Giacomo Antonelli. L’offensiva del brigantaggio, che aveva raggiunto proporzioni allarmanti nel corso dell’estate del 1862, sembrava suggerire le possibilità di un collasso del governo e dello Stato, e ciò favoriva la linea degli intransigenti. A questo punto nella situazione italiana, già difficile, si inseriva una iniziativa del re Vittorio Emanuele II che la rendeva più complessa e potenzialmente pericolosa. Il sovrano, scettico sulla possibilità di raggiungere un accordo su Roma capitale a breve scadenza, puntava invece sull’acquisizione di Venezia con il ricorso a un nuovo conflitto contro l’Austria. Come già aveva fatto durante l’ultima fase della seconda guerra d’Indipendenza con le sue intese con Garibaldi all’insaputa di Cavour, il re ambiva a condurre una politica personale al di sopra dei suoi ministri. Approfittando di un movimento liberale in Grecia contro il re Ottone e in Ungheria contro l’Austria, Vittorio Emanuele stava pensando a una fantasiosa operazione in tre atti. Il primo prevedeva un intervento a sostegno dei liberali greci per sostituire re Ottone con un Savoia che avrebbe dichiarato guerra all’impero ottomano insieme alla Serbia; in un secondo tempo una spedizione garibaldina in Dalmazia avrebbe incoraggiato e sostenuto una ipotetica rivolta ungherese; a conclusione era previsto l’intervento dell’esercito italiano contro l’Austria con il sostegno e la partecipazione della Francia. Era un tentativo di ricostruire l’alleanza dimostratasi così vantaggiosa nel 1859, nel quadro di una operazione tanto complessa quanto cervellotica che rischiava di mettere a ferro e fuoco i Bal-

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cani e il Vicino Oriente e sfociare in una guerra generale. Napoleone III, a cui venne presentato il piano, lo respinse categoricamente non senza ammonire Vittorio Emanuele II a usare maggiore prudenza. Ma intanto Garibaldi, che aveva cominciato a raccogliere volontari per la spedizione in Dalmazia, veniva nominato presidente dell’Associazione emancipatrice italiana, che organizzava una serie di comitati fautori di un’azione per Roma capitale. Nel maggio 1862, i volontari per l’avventura dalmata, raccolti a Sarnico, venivano arrestati per essere rilasciati alcuni giorni dopo sotto la pressione di forti manifestazioni popolari e delle proteste dello stesso Garibaldi, che ormai si era impegnato nell’organizzazione della nuova spedizione contro Roma. Arrivato in Sicilia alla fine di giugno, Garibaldi passò l’estate a raccogliere volontari, sostenuto dall’Associazione emancipatrice e da un vasto movimento popolare che sorse attorno allo slogan «O Roma o morte». Alla fine di agosto partiva dalla Sicilia con 2.000 volontari, sbarcava in Calabria ma veniva fermato ad Aspromonte da reparti dell’esercito comandati dal colonnello Emilio Pallavicini. Nello scontro che ne seguì rimasero sul campo sette garibaldini e quattro militari. Lo stesso Garibaldi, ferito a un piede, venne arrestato, mentre alcuni soldati dell’esercito regolare che si erano aggregati al Generale vennero fucilati con l’accusa di diserzione. Queste vicende si intrecciavano con quelle non meno turbolente a livello parlamentare. Alla fine di febbraio il governo Ricasoli si era dimesso per le crescenti difficoltà tra il re e il suo primo ministro che, ostile al piano reale della guerra contro l’Austria per Venezia, sosteneva piuttosto le agitazioni democratiche per Roma capitale, suscitando le reazioni della Francia, non estranea alle sue dimissioni. Lo sostituì Urbano Rattazzi, che godeva da sempre della fiducia di Vittorio Emanuele II ed era gradito alla Francia e ben accetto a Napoleone III, di cui era amico personale. In un primo tempo Rattazzi sembrò sostenere l’avventura balcanica voluta dal re; ma poi, davanti all’atteggiamento poco favorevole di Parigi, dopo un rimpasto del proprio governo attuato su pressione francese che portò agli Affari esteri il generale Giacomo Durando, tipico conservatore piemontese alquanto scettico all’idea di Roma capitale, cambiò indirizzo e insieme a Vittorio Emanuele II – che per il momento aveva accantonato il progetto

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greco-dalmata – sembrò sostenere la nuova impresa garibaldina per Roma. La relativa facilità con cui Garibaldi operò in Sicilia nel preparare l’intervento fa pensare che il governo e il re, il quale aveva un’antica simpatia per l’eroe, non l’avessero scoraggiato. Ma poi, tuttavia, di fronte ai moniti di Napoleone III che minacciava di usare la forza per impedire la spedizione garibaldina, il governo si vide costretto a cambiare atteggiamento e il 3 agosto 1862 un proclama di Vittorio Emanuele sconfessava il tentativo garibaldino, ma rassicurava gli italiani sul futuro di Roma capitale: «Guardatevi dalle colpevoli impazienze... quando l’ora del compimento della grande opera sarà giunta la voce del re si farà udire da voi»9. 4. Una politica estera ambigua Si concludeva così, in modo poco brillante, il primo tentativo di raggiungere i confini storici che gli uomini del Risorgimento consideravano indispensabili per completare la costruzione del nuovo Stato. L’episodio chiariva che l’acquisizione di Roma manu militari era non solo impossibile ma decisamente inopportuna fino a quando la Francia avesse mantenuto la sua protezione al papa. Il rischio di operazioni come quella condotta da Garibaldi, la cui riuscita era fortemente improbabile, era che esse fornissero alla Francia il pretesto per riconsiderare l’assetto della penisola: una tentazione a cui Napoleone III non era insensibile. Più in generale, la crisi successiva a un fallimento avrebbe potuto mettere in discussione addirittura l’esistenza del giovane Regno e comunque dare nuovo vigore agli assalti dei suoi nemici. Bene aveva fatto il governo italiano a impedire all’ultimo momento la marcia di Garibaldi e dei garibaldini verso la Città eterna, ma il gravissimo errore del governo e di Vittorio Emanuele II era stato quello di incoraggiarla se si accetta la tesi – probabile anche se non documentabile – che il re e Rattazzi fossero a conoscenza delle intenzioni di Garibaldi o comunque non le avessero bloccate sul nascere. Ma più ancora che nell’episodio di Aspromonte, la politica del sovrano e del suo governo era al di là di ogni giustificazione per 9

Ivi, p. 195.

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uno Stato che, appena arrivato sulla scena internazionale, mirava a farsi accettare come membro della comunità delle nazioni. I progetti reali di intervento concepiti, cambiati e poi abbandonati con leggerezza, fondati su una scarsa conoscenza dei fatti e delle situazioni, promossi su azioni trasversali come quelle affidate a Garibaldi, testimoniavano come gli uomini del Risorgimento mantenessero nelle loro funzioni di governo le abitudini cospiratorie e avventuristiche che avevano caratterizzato le origini del movimento d’indipendenza. Davanti a un’Europa che aspettava di giudicarci e dove rispetto alle simpatie iniziali prevalevano adesso riserve e giudizi meno benevoli, l’attivismo scomposto e temerario del nuovo governo era pericoloso e autolesionista. Il compito di uomini come Garibaldi e Mazzini (che, scettico sull’avventura romana, aveva sostenuto il tentativo di sollevazione in Trentino come parte dell’operazione greco-dalmata-ungherese voluta dal re) si era esaurito con la proclamazione del Regno. Era arrivato il momento di porre mano con serietà e continuità ai problemi della costruzione del nuovo Stato e ciò sul versante internazionale avrebbe richiesto un basso profilo, o comunque una tranquilla navigazione volta a fugare i sospetti dell’opinione europea nel momento in cui prevalevano gli umori della conservazione. Compito dei governi post-risorgimentali sarebbe stato quello di mostrare all’Europa che l’Italia non era quella terra di cospiratori e di rivoluzionari che una certa visione romantica del nostro Risorgimento aveva accreditato all’estero, ma che aspirava a inserirsi nel concerto europeo e a rispettarne le regole. Compito difficile per una parte dei nostri governanti che, data la facilità con cui si era svolto il processo unitario specie nella sua ultima fase, credevano che i restanti obiettivi fossero a portata di mano e fossero raggiungibili con la stessa facilità. Un pericolo non secondario per il presente e per il futuro era poi quello chiaramente emerso della confusione dei poteri in materia di politica estera tra il re e il suo stesso governo, una prova di come anche il sistema istituzionale fosse ben lungi da un equilibrio stabile. La prassi del presidente del Consiglio di assumere anche il portafoglio degli Esteri, inaugurata da Cavour e adottata da Ricasoli e da Rattazzi (almeno fino al rimpasto impostogli dalla Francia), portava necessariamente o in rotta di collisione, come nel caso di

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Ricasoli, o in una posizione di eccessiva acquiescenza, come nel caso di Rattazzi, rispetto a un sovrano che per il ruolo che aveva svolto negli anni cruciali del Risorgimento credeva che la politica estera fosse di sua esclusiva competenza. D’altra parte, non va dimenticato che l’articolo 5 dello Statuto albertino attribuiva al sovrano piena libertà d’azione nel campo della politica estera10. Ne nascevano malintesi, confusione ed evidenti conflitti di potere. Tipico del modo di agire di Vittorio Emanuele II fu la missione affidata a Rattazzi di illustrare a Napoleone III il progetto di intervento in Grecia, Dalmazia, Ungheria all’insaputa dell’allora presidente del Consiglio, Ricasoli. Quando la notizia, ma non il contenuto, dell’incontro di Rattazzi con Napoleone III si diffuse in Italia, molti ne dedussero che i giorni di Ricasoli erano contati. Bisognerà attendere il rafforzamento del Parlamento e la naturale evoluzione dei rapporti costituzionali tra il re e il suo primo ministro e tra costui e il Parlamento perché la politica estera esca almeno parzialmente dalla esclusiva sfera di intervento del re per entrare nell’ambito dei rapporti Parlamento-governo. Al sovrano resterà intero il potere decisionale in materia di forze armate, e l’ultima parola nelle più importanti scelte di politica internazionale, trattati di particolare importanza, dichiarazioni di guerra; ma la conduzione della politica estera diventerà sempre più compito di un presidente del Consiglio e di un ministro degli Esteri sottoposti al controllo parlamentare. Intanto nei primi anni del Regno la scarsa chiarezza dei meccanismi istituzionali renderà le linee di politica estera incerte e poco trasparenti. Paradossalmente la politica estera del nuovo Stato risentirà di due condizioni diverse, anzi opposte. Da una parte, l’assunzione di rischi eccessivi e la permanenza di quello spirito garibaldino che aveva realizzato grandi conquiste nella fase eroica del movimento unitario, dall’altra la timidezza e l’eccessiva acquiescenza nei confronti della Francia, lo Stato protettore. La prima condizione si esaurirà o si 10 L’articolo 5 dello Statuto albertino afferma che «al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il capo supremo dello Stato; comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato li permettano ed unendovi le comunicazioni opportune». E precisa: «Solo i trattati che importassero un onere alle finanze o variazioni di territorio dello Stato non sarebbero validi senza l’assenso delle Camere».

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attenuerà fortemente con l’esperienza amara e umiliante delle sconfitte del 1866, la seconda dovrà aspettare la scomparsa di Napoleone III e la svolta di Sedan. Un altro dato che emerge dalle vicende di quei primi anni è il peso della piazza, e cioè l’influenza che una minoranza attiva e organizzata era in grado di esercitare sulla politica estera dei governi; anche questo era un retaggio del Risorgimento che, lungi dall’attenuarsi col passare del tempo, era destinato a crescere e a rimanere una costante della storia nazionale. Nonostante l’arretratezza culturale del paese, che almeno fino all’arrivo del socialismo vedrà le masse popolari emarginate dalla vita politica, la società italiana riuscirà a esprimere una minoranza di estrazione borghese o piccolo-borghese di cultura superiore alla media, alla base, e di buon livello, ai suoi vertici, che prenderà parte attiva nelle vicende nazionali; è un fenomeno che almeno fino ai primi anni del Novecento resta confinato ai grandi centri urbani e scarsamente presente nelle città di provincia, mentre è quasi del tutto assente nelle campagne. Nel primo ventennio di vita del Regno non coinvolgerà più di qualche decina di migliaia di persone, ma grazie alla diffusione dell’associazionismo riuscirà a esercitare un’influenza significativamente superiore rispetto al numero dei cittadini coinvolti. Più tardi, col procedere del progresso culturale e civile, con la formazione di una più robusta coscienza nazionale, la minoranza attiva si trasformerà in un movimento che troverà nel paese un’eco sempre più vasta. È il caso del movimento irredentista, che farà da contrappunto alla nostra politica estera e che, allo scoppio del primo conflitto mondiale, si fonderà col movimento nazionalista a favore dell’intervento. Per il momento più che le forze moderate saranno quelle democratiche, garibaldini ed ex mazziniani, a sostenere le iniziative per l’acquisizione di Roma e Venezia. Nell’Associazione emancipatrice, che oltre alla lotta per Roma capitale chiederà «il concorso di armi cittadine per promuovere e assicurare l’unità e la libertà della patria»11, cioè la costituzione di una guardia nazionale, troviamo personaggi come Francesco Crispi, Aurelio Saffi, Giovan11 Cit. da R. Composto, Democratici e Società sulla via di Aspromonte, in «Rassegna Storica del Risorgimento», 1964, p. 212.

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ni Nicotera, Benedetto Cairoli, Agostino Bertani, quasi tutti ex mazziniani, alcuni dei quali dopo il 1876 diventeranno esponenti della sinistra al potere e sostenitori di una politica estera espansionistica. Vittorio Emanuele II si dimostrerà particolarmente sensibile al consenso del movimento patriottico e ciò contribuisce ad accreditare la tesi che, almeno in una prima fase, Garibaldi abbia trovato incoraggiamento presso il re e il governo per l’impresa destinata ad approdare all’Aspromonte. Sembrerebbe confermarlo anche il tono accorato del proclama reale del 3 agosto 1862 in cui si disapprovava l’iniziativa garibaldina, ma si confermava il sostegno alla causa della liberazione di Roma «quando l’ora del compimento della grande opera sarà giunta». Va detto che non tutti consideravano Roma capitale una esigenza irrinunciabile. Alcuni moderati piemontesi e lombardi, tra cui Massimo D’Azeglio, Giacomo Durando e Stefano Jacini, temevano che la conquista di Roma avrebbe avuto un prezzo troppo alto per il paese, e comunque paventavano quanto effettivamente accadde dopo il 1870: Torino e il Piemonte persero potere e influenza nella vita del Regno12. Ma Roma capitale era un obiettivo rimasto vivo durante tutto il Risorgimento, quasi un dogma e casa Savoia era irrimediabilmente legata alla sua realizzazione.

5. La Convenzione di settembre L’acquiescenza nei confronti della Francia non nasceva solo dal ruolo che Napoleone III e l’esercito francese avevano giocato nel processo unitario durante la seconda guerra d’Indipendenza; molti pensavano che l’imperatore fosse l’unico in grado di poter ottenere Roma (e magari Venezia) per l’Italia e che, nell’attesa che si creassero le condizioni, fosse necessario tenere a bada il Vaticano ed evitare che riuscisse a mobilitare il mondo cattolico europeo contro l’Italia. 12 Cfr. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I, Bari 1965, pp. 314-20.

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Negli uomini che governavano il paese il timore delle minacce vaticane era reale ma eccessivo e per certi aspetti paralizzante per l’azione di governo e in particolare per la sua politica estera. Le probabilità che il Vaticano riuscisse a creare una coalizione di Stati pronta a rischiare una guerra per restituire alla Chiesa i territori perduti erano nella realtà alquanto limitate. Anche paesi come l’Austria, che pur sensibili agli interessi del Vaticano avevano interessi propri da difendere, erano riluttanti a mettere a repentaglio i precari equilibri europei. Il mondo tedesco era alla vigilia di grandi rivolgimenti e l’Austria non si trovava in una posizione particolarmente forte sotto la pressione delle periodiche crisi che si manifestavano alla periferia dell’impero. Paradossalmente, contro l’eventualità di un intervento delle potenze cattoliche a favore del papa giocarono, in una prima fase, la stessa debolezza e l’immagine di precarietà del nuovo Stato, attanagliato da una parte dalla difficile situazione finanziaria e dall’altra dagli assalti del brigantaggio e della protesta sociale delle popolazioni meridionali. Le previsioni che il giovane Regno non avrebbe retto a lungo rendevano inutile e rinviavano ogni più diretta iniziativa nell’attesa che le difficoltà interne e il tempo lavorassero contro la sua sopravvivenza. Quando la situazione italiana si stabilizzò, con il brigantaggio vinto e debellato e con il viatico dell’alleanza con la Prussia per la guerra del 1866, era troppo tardi: l’intervento sarebbe stato meno giustificabile e comunque più incerto. Una svolta importante nel conflitto per Roma capitale si verificò con la Convenzione del 15 settembre 1864 tra Francia e Italia (la firma dell’accordo ebbe luogo a Parigi). Non era una soluzione definitiva, anche se tale era considerata dal governo francese, ma raffreddava notevolmente il contrasto. Con essa il governo italiano si impegnava al trasferimento entro sei mesi della capitale da Torino a una città da scegliere, a non effettuare e a impedire ogni attacco al territorio pontificio e ad accollarsi una parte del debito pubblico dello Stato della Chiesa. La Francia, a sua volta, prometteva di ritirare le truppe di stanza a Roma entro due anni per dar tempo allo Stato pontificio di organizzare un proprio esercito che il governo italiano si impegnava a riconoscere13. 13 La possibilità di un trasferimento della capitale era stata sollevata nel corso di un colloquio informale tra Napoleone III e Gioacchino Pepoli, ambascia-

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La clausola del trasferimento della capitale doveva restare segreta ed era considerata un atto di rinuncia a Roma capitale. Tale era l’intendimento dei francesi e anche in Italia molti la interpretarono nello stesso modo, ma in realtà era una soluzione che accantonava temporaneamente la questione, come apparve chiaro sei anni dopo con la breccia di Porta Pia. La Convenzione del 15 settembre 1864 era il frutto di una gestione più cauta della questione romana da parte del governo italiano, presieduto da Marco Minghetti dal marzo 1863 e con ministro degli Esteri quell’Emilio Visconti Venosta che, poco più che trentenne, prendeva il timone della politica estera italiana su cui per quasi un quarantennio eserciterà una profonda influenza. Discepolo di Cavour, di cui sposerà la pronipote Luisa Alfieri di Sostegno, Visconti Venosta interpreterà con saggezza e perseguirà con flessibilità gli obiettivi della destra piemontese che vedeva nella Francia di Napoleone III il proprio costante punto di riferimento ed entrerà in rotta di collisione con i progetti e con la politica di Otto von Bismarck14. Tuttavia, anche in concomitanza con la Convenzione di settembre la condotta del governo non mancava di qualche ambiguità. Una grave malattia di Pio IX, nei primi mesi del ’64, fece pensare a una prossima scomparsa del grande e controverso papa (ma in realtà Pio IX morirà nel ’78 lo stesso anno di Vittorio Emanuele II) e l’eventualità veniva interpretata dal movimento democratico per Roma capitale come l’occasione da non perdere per una soluzione di forza. Anche il governo sembrò in un primo tempo assecondare questa linea al punto da trattare con il movimento patriottico romano moderato affinché il moto, laddove si fosse manifestato, non fosse restato sotto l’influenza dei radicali. Ma sarà ancora una volta Napoleone III a sconvolgere i disegni degli uni e degli altri proponendo già nell’aprile la ripresa dei negoziati tra Torino e Parigi. L’isolamento internazionale della tore straordinario e amico dell’imperatore. Fu Pepoli ad avanzare l’idea del trasferimento della capitale da Torino a Firenze come segno dell’abbandono del progetto di Roma capitale, in cambio del ritiro delle truppe francesi da Roma. 14 Emilio Visconti Venosta è stato ministro degli Esteri per cinque volte: dal marzo 1863 al settembre 1864; dal giugno 1866 all’aprile 1867; dal dicembre 1869 al marzo 1876; dal luglio 1896 al giugno 1898; dal maggio 1899 al febbraio 1901. Sulla politica di Visconti Venosta cfr. F. Cataluccio, La politica estera di E. Visconti Venosta, Firenze 1940.

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Francia, che aveva visto compromessi i rapporti con la Russia per il sostegno dato da Parigi alla rivolta polacca e il fallimento del progetto napoleonico di un’alleanza con l’Austria, nonché le difficoltà incontrate dai francesi nella spedizione in Messico a sostegno dell’imperatore Massimiliano, indussero Napoleone a tentare una mossa che alleggerisse la sua posizione in Europa e gli permettesse di ritirare le truppe da Roma. La questione del trasferimento della capitale, che il governo stava seriamente considerando già da tempo per ragioni di opportunità (Torino era troppo decentrata rispetto al baricentro politico ed economico del paese), fu la carta decisiva che permise una rapida conclusione del negoziato. La scelta di Firenze, che all’atto della firma della Convenzione era già stata fatta, fu accolta con favore dalla maggioranza degli italiani, ma suscitò le violente proteste dei torinesi, soffocate brutalmente dall’esercito con ventiquattro morti tra i dimostranti e più di 100 feriti che costarono le dimissioni, imposte dal re, a Minghetti, sostituito dal generale Alfonso La Marmora. Già il 19 novembre, ad appena due mesi dalla firma della Convenzione, la Camera approvava il trasferimento della capitale e nel febbraio 1865 anche re Vittorio Emanuele lasciava Torino per la città toscana. La questione romana, a cui la Convenzione di settembre sembrava aver dato soluzione, veniva riaperta dal nuovo tentativo di Garibaldi di occupare Roma nel settembre 1867, interrotto dopo l’effimera vittoria di Monterotondo per la mancata insurrezione dei patrioti romani. Anche in questa circostanza il governo, diretto allora da Rattazzi, verrà accusato di fare il doppio gioco e, dopo aver incoraggiato Garibaldi, sarà costretto ad arrestarlo, quando il governo francese – appellandosi alla Convenzione del ’64 – invierà a quello di Firenze un ultimatum con la minaccia di un intervento a favore del papa. La minaccia si realizzava con l’invio di un corpo di spedizione che, sbarcato a Civitavecchia, entrava in azione a Mentana dove i garibaldini venivano duramente sconfitti, battuti dagli chassepots, i nuovi fucili a retrocarica dei francesi. Solo il crollo del Secondo impero, nel settembre del 1870, a Sedan, realizzerà il disegno coltivato per un decennio smentendo la profezia di Cavour che Roma sarebbe diventata capitale solo con l’assenso della Francia. Al contrario, proprio l’occupazione di Roma, che avveniva mentre i prussiani entravano a Parigi, metterà

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fine al protettorato francese sul Regno e aprirà una lunga fase di difficili rapporti tra Italia e Francia destinata a incidere profondamente sulla direzione della politica estera italiana.

6. L’alleanza con i prussiani e la terza guerra d’Indipendenza Venezia entrava a far parte del Regno d’Italia nel 1866, frutto dell’alleanza con la Prussia nell’infausta (per noi) guerra contro l’Austria. Oltre alle operazioni militari, infausta era stata anche l’azione della diplomazia che l’aveva preparata. Un sondaggio del luglio 1865 del cancelliere prussiano, Ottone di Bismarck, attraverso il suo ambasciatore a Firenze, Guido von Usedom, sull’atteggiamento dell’Italia nel caso di una guerra tra la Prussia e l’Austria, coglieva di sorpresa il governo di La Marmora, che per una abitudine troppo spesso invalsa in quegli anni gestiva anche gli Affari esteri e il relativo ministero. La sorpresa di La Marmora era ingiustificata, giacché l’idea prussiana di una alleanza con l’Italia contro l’Austria risaliva addirittura al 1862, quando lo stesso Bismarck ne aveva parlato all’ambasciatore italiano a Berlino De Launay. Alla nuova avance di Bismarck, La Marmora rispose che l’Italia avrebbe deciso solo dopo essersi consultata con la Francia. La risposta confermava la ben nota situazione di dipendenza da Parigi da parte del governo italiano e non era tale da incoraggiare Bismarck, che decise di stabilire un rapporto diretto con Napoleone III, con cui ebbe un incontro a Biarritz qualche mese dopo. Davanti alle esitazioni del governo di Firenze, il cancelliere decideva di interpellare colui che sembrava detenere le sorti della politica estera italiana. Napoleone presumibilmente incoraggiò Bismarck nel suo progetto nella speranza di ottenere compensi per la Francia sul Reno e lo stesso fece con il governo italiano che nel frattempo aveva iniziato, senza troppa fortuna, a sondare il governo austriaco sulla possibilità di ricevere il Veneto in cambio della neutralità italiana e di una forte indennità15. 15 Nei preliminari dei colloqui svoltisi a Vienna tra il conte Alessandro Malaguzzi e il presidente del Consiglio austriaco, conte Richard Belcredi, si parlò di un miliardo di lire.

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Ma agli inizi del nuovo anno la tensione nei rapporti tra Austria e Prussia aumentava, e ai primi di marzo Bismarck proponeva al governo italiano un’alleanza militare; il capo di Stato maggiore prussiano Helmut von Moltke come condizione per una guerra vittoriosa all’Austria insisteva sulla partecipazione italiana, che avrebbe distratto dal fronte principale del conflitto, quello austro-tedesco, una parte dell’esercito austriaco. Il governo italiano accettava la proposta e l’8 aprile 1866 firmava un trattato di alleanza con Berlino che, in cambio dell’ingresso italiano in guerra al fianco della Prussia, prevedeva la cessione di Venezia, della regione veneta e della provincia di Mantova. In quanto al Trentino, reclamato dagli italiani, Bismarck sarebbe stato disposto a sostenere la richiesta se il nostro esercito lo avesse conquistato durante il conflitto: era una promessa vaga che, tuttavia, costituiva un incentivo per l’Italia. L’accordo sarebbe decaduto se nell’arco di tre mesi la Prussia non si fosse mossa; una clausola che poneva l’Italia alla mercé delle decisioni di Bismarck poiché non prevedeva l’intervento della Prussia a nostro favore nel caso di un attacco austriaco. Napoleone III era stato informato delle trattative attraverso l’ambasciatore Nigra quasi passo per passo, poiché ambiva a svolgere il ruolo di mediatore nella speranza di ottenere un qualche successo di prestigio di cui aveva urgentemente bisogno dati i costi e le difficoltà dell’avventura messicana16 e pertanto si manteneva in contatto con tutti i futuri belligeranti. All’indomani della firma del trattato con la Prussia il governo italiano si vide proporre da quello di Vienna la cessione del Veneto qualora l’Italia fosse rimasta neutrale nel caso di guerra tra Austria e Prussia. Il Veneto – precisava Vienna – sarebbe stato ceduto alla Francia che a sua volta lo avrebbe trasferito all’Italia. Era un’acquisizione senza colpo ferire e senza le inevitabili perdite di una guerra combattuta. L’offerta era allettante ma per accettarla il governo italiano avrebbe dovuto tradire gli impegni presi con la Prussia. Per superare il profondo imbarazzo posto dal drammatico dilemma e per guadagnare tempo, il governo italiano propose 16 Dopo il ritiro delle truppe francesi, Massimiliano d’Austria veniva processato e fucilato a Queretaro il 19 giugno 1867.

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l’organizzazione di una conferenza internazionale tra Austria, Prussia e Italia che, tuttavia, sfumò ben presto di fronte alla volontà prussiana di stringere i tempi. Ma i colpi di scena non erano finiti: proprio alla vigilia delle operazioni militari i governi francese e austriaco firmavano un trattato segreto, ma di cui presto si conoscerà il contenuto, in cui Vienna, in caso di vittoria, prometteva compensi territoriali alla Francia a spese della Prussia e si impegnava a cedere il Veneto a Napoleone perché lo trasferisse all’Italia in cambio dei buoni uffici dell’imperatore per indurre gli italiani alla neutralità o comunque a condurre la guerra contro l’Austria senza troppo impegno, cosa che lo stesso Napoleone puntualmente raccomandava all’ambasciatore Nigra. «Sarebbe stato utile ed opportuno» – disse l’imperatore – «che l’Italia non facesse la guerra con troppo vigore»17. Oltre ad essere umilianti per il governo italiano, i maneggi dell’imperatore alimentavano la diffidenza degli alleati prussiani, diffidenza che il governo italiano non contribuì a dissipare ritardando di qualche giorno la dichiarazione di guerra e l’inizio delle operazioni militari, quando il 17 giugno 1866 la Prussia decise di attaccare. Più che in obbedienza alle esortazioni di Napoleone, le operazioni militari italiane si svolsero tra la confusione dei comandi divisi tra i generali La Marmora ed Enrico Cialdini – che sarà l’elemento principalmente responsabile della sconfitta di Custoza – e l’improvvisazione e l’incompetenza dell’ammiraglio Carlo Persano, successivamente processato e condannato per la sconfitta di Lissa. La battaglia navale, che si svolse il 20 luglio di fronte all’isola dalmata, provocò l’affondamento della cannoniera «Palestro» e della nave ammiraglia «Re d’Italia». Data la superiorità della flotta italiana, che disponeva di navi moderne e più potenti di quelle austriache, la sconfitta era umiliante18. La grande vittoria prussiana nella battaglia di Sadowa, una delle prime dei tempi moderni, decideva la guerra. La Prussia stipulava un armistizio e la pace con l’Austria senza nemmeno consultare l’Italia, che dovette trattare direttamente con Vienna. FirmaCit. da Candeloro, Storia dell’Italia moderna cit., vol. V, p. 283. Umiliante era il telegramma che l’ammiraglio austriaco, Wilhelm von Tegethoff, inviava a Vienna per annunciare la vittoria: «Uomini di ferro che su navi di legno hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro». 17 18

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to nella capitale asburgica il 3 ottobre, un mese dopo quello di Praga tra Austria e Prussia, il Trattato di pace italo-austriaco prevedeva la cessione del Veneto all’imperatore Napoleone III che l’avrebbe trasferito all’Italia. Era una clausola che ottemperava all’accordo stipulato tra Parigi e Vienna alla vigilia del conflitto e riprendeva il Trattato di pace tra Vienna e Berlino firmato a Praga, ma che costituiva un altro colpo per l’orgoglio nazionale italiano anche se prevedeva il riconoscimento dello Stato italiano fino ad allora negato dall’Austria. Il Trentino, dove i volontari di Garibaldi, operando contro l’esercito austriaco, avevano colto l’unico successo di tutta la sfortunata campagna, restava all’Austria, lasciando acceso un conflitto che alimenterà il movimento irredentista per quasi mezzo secolo. Le vicissitudini della terza guerra d’Indipendenza avranno un’influenza forte e duratura sullo spirito nazionale. L’umiliazione delle sconfitte, per terra e per mare, l’affronto di ricevere i frutti della vittoria altrui attraverso quella Francia che si atteggiava a Stato protettore e controllore creeranno un diffuso senso di frustrazione e alimenteranno il desiderio di un riscatto. Il Risorgimento, che si avviava a conclusione con la terza guerra d’Indipendenza, era stato avaro di quei successi militari che per molti erano inseparabili da una grande affermazione civile e politica. La mancanza di una significativa vittoria sul campo peserà sul futuro della politica estera nazionale alimentando un sentimento che, dopo il 1870 e l’annessione di Roma, si trasformerà da patriottico in nazionalista. Arrivata al potere dopo il 1876, la sinistra liberale e democratica si farà interprete di questo sentimento, largamente diffuso tra quelle classi medie emergenti destinate a rafforzarsi e a diventare sempre più influenti sul piano politico con la crescita economica del paese, l’allargamento del suffragio, una maggiore articolazione del sistema politico e un significativo progresso culturale.

II L’ITALIA NELLA GRANDE ALLEANZA (1871-1900) 1. «Indipendenti sempre, isolati mai» «L’Italia è un Paese la cui più grande aspirazione è la sicurezza e la pace; essa ne ha bisogno dopo le sue lunghe agitazioni, per costituire le sue forze politiche, sociali ed economiche [...]. Roma unita all’Italia è l’ultima tappa del nostro faticoso viaggio.»1 Così Emilio Visconti Venosta scriveva nel marzo 1871 al conte De Launay, ambasciatore a Berlino. Tuttavia nella stessa lettera il Visconti Venosta – che nel 1863 aveva pronunziato una frase destinata a rimanere celebre negli annali della diplomazia italiana: «Indipendenti sempre, isolati mai»2 – lamentava l’«incertezza dell’avvenire» derivante da una certa solitudine ora che, dopo la caduta del Secondo impero, era venuto meno non solo il «protettorato francese», ma anche quel punto di riferimento che per più di un decennio la Francia aveva continuato a offrire al giovane Stato. In effetti, se è vero che i primi cinque anni dopo la presa di Roma saranno dedicati dai governi della destra primariamente alle vicende interne, già in questo periodo si prepara la politica estera del futuro che segna una svolta nelle alleanze dell’Italia e si manifestano i primi interessi coloniali in direzione dell’Africa. Nel maggio del ’67 era stata fondata a Firenze la Reale società 1 Documenti Diplomatici Italiani (Ddi), Serie II, vol. II, Roma 1966, pp. 246-48. 2 Discorso di Emilio Visconti Venosta alla Camera, il 26 marzo 1863. L’intervento del ministro è successivo all’insurrezione polacca contro la Russia zarista. Egli sostiene la necessità per l’Italia di procedere d’intesa con la Francia e l’Inghilterra.

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geografica italiana, che promosse l’esplorazione dell’altopiano eritreo3. Tre anni dopo veniva trattato dall’armatore genovese Raffaele Rubattino, l’acquisto della baia di Assab che doveva diventare la prima testa di ponte italiana in Africa. Ma era soprattutto verso la Tunisia, in cui viveva una numerosa e attiva comunità italiana, che si appuntavano le attenzioni del nostro governo, il quale già nel 1869 – in occasione del negoziato, destinato ad abortire, per un’alleanza tra Francia, Austria e Italia in funzione anti-prussiana – aveva ottenuto il via libera alla creazione di una amministrazione coloniale in terra d’Africa. La pausa seguita alla presa di Roma servì all’Italia a riorientare la sua politica estera. La neutralità italiana, prontamente dichiarata allo scoppio del conflitto franco-prussiano, aveva suscitato a Parigi un profondo risentimento che i volontari garibaldini, andati a combattere a fianco dell’esercito francese, non riuscirono ad attenuare. Napoleone III aveva insistentemente richiesto la partecipazione italiana alla guerra contro la Prussia e il cauto ma netto rifiuto del nostro governo fu considerato come un atto di ingratitudine o addirittura come un vero e proprio tradimento da parte del paese che alla Francia doveva in qualche misura la propria esistenza e la propria sicurezza. La decisione del nuovo governo repubblicano francese, sostenuto come quello di Napoleone III dai monarchici e dai clericali, di confermare la sua protezione al papa fino al punto di mantenere una nave francese, l’«Orénoque», nel porto di Civitavecchia, nell’eventualità che il pontefice avesse deciso di lasciare Roma, non contribuiva certo a migliorare i rapporti tra Roma e Parigi, anzi poteva costituire una minaccia nel caso di una ripresa della conflittualità internazionale. Ma dopo il 1870 la politica europea si avviava verso la stabilità. La nascita della potenza tedesca che Bismarck amministrerà con saggezza diventando il pacificatore del continente non offriva alla Santa Sede grandi margini di movimento. 3 Fondata per iniziativa di un diplomatico, Cristoforo Negri, la Reale società geografica italiana raccolse in breve circa 400 soci tra politici, diplomatici e accademici. A imitazione di analoghe istituzioni europee promosse l’espansionismo coloniale collegando interessi geografici con quelli politici ed economici. Trasferita a Roma la sede sociale, a partire dal 1872 la Società pubblicò un «Bollettino annuale» e poi un periodico denominato «Memorie della Reale società geografica».

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La Germania di Bismarck, impegnata nel Kulturkampf contro la Chiesa cattolica, non era certo disponibile a sostenere le rivendicazioni papali; anzi il cancelliere arriverà a chiedere al governo italiano di limitare ulteriormente la libertà di movimento del papa con una modifica in senso meno liberale della legge sulle Guarentigie, che, pur rifiutata dal Vaticano, continuerà per il governo di Roma a regolare i rapporti tra l’Italia e la Santa Sede fino ai Patti lateranensi del 1929. Anche l’Austria, ormai legata al carro tedesco, non costituiva più come nel passato una sicura alleata della Chiesa per una politica di rivendicazioni. Inoltre i rapporti tra la casa d’Asburgo e casa Savoia erano buoni e migliorarono ulteriormente dopo la visita ufficiale di Vittorio Emanuele II a Vienna nel settembre 1873, in occasione dell’Esposizione universale. Pertanto, perdurando l’isolamento della Francia, le preoccupazioni dei nostri politici per le trame vaticane erano sostanzialmente ingiustificate. Nei confronti dell’Austria il problema era piuttosto quello dei confini che un incipiente movimento irredentista continuava a rivendicare. Una nota del governo di Vienna, nel maggio 1874, chiariva al di là di ogni equivoco che l’Austria non avrebbe mai accettato di cedere all’Italia «popolazioni che le sono linguisticamente vicine» per via del rischio di provocare «un movimento centrifugo delle nazionalità poste ai confini dell’Impero»4. Ne andava dell’unità dell’impero multinazionale e multiculturale austriaco. Quindi l’amicizia con l’Austria aveva un prezzo: l’abbandono delle rivendicazioni territoriali sulla frontiera orientale. Qualche settimana dopo, in un discorso agli elettori del suo collegio, Visconti Venosta, ancora ministro degli Esteri, sembrava prenderne atto e aggiungeva che l’obiettivo della politica estera italiana era quello di «riuscire a far parlare poco di sé»5, un concetto che sottintendeva l’intenzione di dedicare maggiore attenzione ai problemi interni, ma anche quella di far decantare la politica estera italiana dopo un decennio difficile al fine di riconquistare le simpatie dell’Europa messe a dura prova da un’azione internaziona4 A. Sandonà, L’irredentismo nelle lotte politiche e nelle contese diplomatiche italo-austriache, vol. I, Bologna 1932, p. 163. 5 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. II, Bari 1965, p. 595.

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le apparsa come eccessivamente avventuristica e movimentata. Un basso profilo avrebbe giovato al consolidamento interno non meno che a quello esterno. Uomini come Emilio Visconti Venosta erano convinti che gli interessi del paese richiedessero una pausa e la costruzione di una immagine diversa da quella mostrata nei primi dieci anni di vita del Regno. L’occasione per il collaudo di questa politica sarebbe arrivata qualche anno dopo con un nuovo capitolo della tormentata questione orientale. Nella primavera del ’77 la Russia dichiarava guerra alla Turchia aprendo una nuova crisi balcanica. L’Italia proclamava prontamente la sua neutralità, ma all’interno della sinistra, al potere da ormai un anno, gli elementi più radicali, guidati da Francesco Crispi, ministro degli Interni del secondo governo Depretis, si mobilitarono nella speranza che la crisi offrisse all’Italia nuove opportunità, nell’eventualità di possibili guadagni austriaci nei Balcani. Era la politica dei compensi, già patrocinata da Cesare Balbo nel suo libro Speranze d’Italia, mai abbandonata e ora riconfermata nonostante la nota austriaca del maggio 1874. Pochi mesi dopo gli inizi delle ostilità russo-turche, dopo l’avanzata zarista su Costantinopoli, la Turchia era costretta alla pace di Santo Stefano che praticamente lasciava la Russia arbitra dei Balcani. Inaccettabili per l’Inghilterra e l’Austria, le conquiste russe, turbative degli equilibri europei, rischiavano di innescare una nuova guerra ben più vasta che – secondo i disegni inglesi – prevedeva la creazione di una coalizione anti-russa tra Londra e Vienna con la partecipazione italiana. Il progetto restava oggetto di negoziati tra le cancellerie, senza tuttavia arrivare a un accordo. A rompere l’impasse interveniva la proposta avanzata da Bismarck di una conferenza che si tenne poi a Berlino nel luglio del 1878. La conferenza, che mirava a mantenere gli equilibri esistenti nel Mediterraneo e nei Balcani, ridimensionava drasticamente le conquiste russe concedendo allo zar solo la Bessarabia e le province di Ardahan, Kars e Batum in Anatolia, mentre tutte le maggiori potenze ottenevano qualche vantaggio: l’Inghilterra l’occupazione di Cipro, all’Austria veniva concessa la Bosnia Erzegovina in «temporanea» amministrazione, la Francia riceveva il gradimento delle potenze europee per l’eventuale occupazione della Tunisia che i francesi, già in Algeria dal 1830, ambivano ad annettersi.

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Alla conferenza di Berlino l’Italia era rappresentata dal ministro degli Esteri del primo governo Cairoli (marzo-dicembre 1878), il conte Luigi Corti, un nobile lombardo di tendenze moderate che aveva accettato il posto di ministro a condizione che il governo non sostenesse la causa dell’irredentismo di cui lo stesso Cairoli e il ministro degli Interni Giuseppe Zanardelli erano noti simpatizzanti, come del resto gran parte degli uomini della sinistra. Corti andò a Berlino senza rivendicazioni e ritornò con «le mani nette», ma durante la conferenza si era sentito incoraggiare da Bernhard von Bülow, allora ministro degli Esteri tedesco, a occupare Tunisi; un’offerta che Bismarck aveva fatto già alla Francia il giorno prima. Corti lasciò cadere l’offerta evitando la trappola preparata dal cancelliere tedesco, che puntava a creare contrasti tra Francia e Italia per indurre quest’ultima a entrare nell’alleanza anti-francese patrocinata dalla Germania. Allo stesso modo Corti si comportò con il suggerimento britannico, pur espresso in termini alquanto vaghi, a considerare un’eventuale occupazione di Tripoli. In realtà, il congresso di Berlino si traduceva in una vera e propria sconfitta diplomatica per la sinistra alla sua prima, importante, prova di politica internazionale soprattutto perché aveva accettato senza contropartite un rafforzamento dell’Austria nei Balcani attraverso il controllo, ancorché temporaneo, della Bosnia Erzegovina e l’occupazione del Sangiaccato di Novi Bazar, situato tra la Serbia e il Montenegro. Ma se la politica delle «mani nette» era quanto suggeriva la diplomazia italiana cui Corti apparteneva (era stato ambasciatore a Costantinopoli), quella linea restava alquanto impopolare presso gli uomini della sinistra e presso il movimento irredentista che insistevano sulla politica dei compensi. Le critiche della sinistra per una politica così rinunciataria sfociarono in un’aperta contestazione del governo Cairoli, il terzo (novembre 1879-maggio 1881), accompagnata da numerose manifestazioni di piazza, quando improvvisamente nell’aprile 1881 la Francia mandava un corpo di spedizione a Tunisi, costringendo il locale bey ad accettare il protettorato francese (Trattato del Bardo del 12 maggio 1881). Alle accese proteste del movimento nazionalista si aggiungeva a quel punto il malumore della classe imprenditoriale che, incoraggiata dal governo, in Tunisia aveva fatto significativi investimenti creando una rete di importanti interessi.

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Il governo Cairoli, travolto da una mozione di censura, era costretto alle dimissioni. Riportando le forti reazioni popolari in Italia, la stampa francese parlò di «una crisi di nervi». La nostra stampa non fu da meno e «La Rassegna Settimanale» scrisse che l’insediamento nelle coste settentrionali dell’Africa da parte della Francia avrebbe comportato «la distruzione dell’avvenire politico dell’Italia come grande potenza». Ma aggiungeva: «Se non ci si poteva adattare all’avvenire di una nazione subalterna occorreva por fine al più presto all’isolamento dotandosi di alleati sicuri»6, e questi non potevano essere che gli imperi centrali. In effetti, il bilancio del primo quinquennio di politica estera della sinistra non si presentava in termini particolarmente lusinghieri poiché il «raccoglimento» era diventato isolamento in un’Europa caratterizzata da forti segni di dinamismo.

2. Le ragioni della Triplice L’occupazione francese della Tunisia fu il fattore che dette una forte incentivazione al processo che un anno dopo, il 20 maggio del 1882, doveva portare il paese in quella alleanza destinata a diventare il pilastro della nostra politica estera per più di un trentennio. Ma l’idea di un’alleanza italo-tedesca stava maturando da diverso tempo e durante gli anni Settanta era stata all’ordine del giorno di vari governi che si erano succeduti nel corso del decennio. Fortemente sostenuta dal ministro degli Esteri, Pasquale Stanislao Mancini, e dall’ambasciatore a Berlino, De Launay, la prospettiva di un accordo di lungo periodo con la Germania era vista con cautela da Visconti Venosta, che non voleva inimicarsi la Francia. Ma l’alleanza con la Germania troverà un convinto ed entusiastico sostenitore in Francesco Crispi le cui azioni e le cui idee segneranno un’intera stagione della politica italiana. Nato nel 1818 a Ribera in provincia di Agrigento, giovane avvocato a Napoli, ardente patriota mazziniano, Crispi fu un leader della rivoluzione del ’49. Esiliato prima a Torino poi a Malta, a 6 Cit. da E. Decleva, Il compimento dell’Unità e la politica estera, in Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, vol. II, Roma-Bari 1995, p. 187.

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Londra e a Parigi, nel 1860 diventò il braccio politico dell’impresa garibaldina dei Mille. Eletto al Parlamento nazionale, fu uno dei principali esponenti della sinistra e quando dopo il 1876 essa andò al potere diventò prima ministro e poi presidente del Consiglio per tre volte, nell’87, nell’89 e nel ’93. Negli anni tra l’Unità e la prima guerra mondiale Crispi è – insieme a Giovanni Giolitti, da cui era diversissimo per carattere, idee e interessi – la più incisiva figura di una classe politica priva di forti personalità, con una precisa collocazione nella storia del paese non tanto e non solo per le sue politiche, ma perché si pone alla fine di un percorso storico, quello risorgimentale, e ne preannuncia un altro, quello di una Italia che, sotto la spinta di un robusto quanto avventuroso nazionalismo, aspira a conquistare il rango di grande potenza. Crispi è al tempo stesso uno degli ultimi protagonisti del Risorgimento e un anticipatore di quel ciclo della storia nazionale che si conclude col fascismo da cui sarà salutato e celebrato come precursore. Di tutti gli uomini che si alternarono al timone del governo è quello che ha un’idea più precisa delle condizioni necessarie a una politica di potenza e dell’importanza della politica estera per un paese come l’Italia la cui posizione nella comunità internazionale in quegli anni è ancora incerta. Alla politica estera Crispi si dedica con una passione che rischia tuttavia di sconfinare nella passionalità e nel pregiudizio. Affronta lunghi viaggi tra le cancellerie d’Europa per avere informazioni e acquisire conoscenze di prima mano, si mostra sensibilissimo agli atti e alle parole dei suoi ministri tutte le volte che essi toccano problemi di carattere internazionale che egli sembra volersi riservare interamente, e nei due primi governi da lui presieduti terrà per sé il ministero degli Esteri malgrado l’iniziale diffidenza di re Umberto I che gli avrebbe preferito Nigra. Dimostrerà una esagerata ammirazione, che inevitabilmente si tradurrà in un rapporto di subordinazione oltre che politica anche psicologica, nei confronti di Bismarck e una altrettanto forte e passionale ostilità nei confronti della Francia, vista come il principale ostacolo alle ambizioni italiane. Un’alleanza con la Germania non poteva essere che in funzione anti-francese come parte della politica di Bismarck diretta a impedire quella revanche che dopo Sedan era il leit-motiv di ogni go-

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verno francese e che stava diventando l’ossessione dei nazionalisti d’Oltralpe. Si sapeva che all’Alleanza dei tre imperatori, stipulata tra Germania, Russia e Austria nel 1873, Bismarck avrebbe aggiunto volentieri quella con l’Italia sì da completare l’accerchiamento della Francia e da neutralizzare sul nascere ogni tentazione di rivincita. In Crispi, Bismarck trovava un’adesione totale alla propria politica. Un primo importante sondaggio sulle intenzioni tedesche fu compiuto nell’estate del 1877 proprio da Crispi, allora presidente della Camera. Nel corso dell’incontro con Bismarck che ebbe luogo a Friedrichsruhe, una località di montagna alla frontiera austriaca dove il cancelliere era solito villeggiare e dove si recò come a un pellegrinaggio, Crispi proponeva un’alleanza tra Italia e Germania in funzione anti-francese e anti-austriaca, ma la risposta del cancelliere tedesco fu inequivocabile. La Germania intendeva rimanere in buoni rapporti con l’Austria e pertanto se l’Italia ambiva a un’alleanza con la Germania doveva fare altrettanto. Se la Francia avesse attaccato l’Italia – una prospettiva che ossessionava Crispi – la Germania sarebbe venuta in soccorso, ma non avrebbe mai sostenuto le pretese italiane di compensi territoriali a spese dell’Austria. Se Vienna, come era nelle attese generali e come accadde alla conferenza di Berlino, si fosse allargata nei Balcani, l’Italia avrebbe potuto fare altrettanto prendendosi l’Albania. Era una proposta, questa di Bismarck, che sembrava corrispondere al principio delle compensazioni, ma che escludeva proprio quelle che interessavano all’Italia, dirottata verso un obiettivo, l’Albania, che, oltre a non essere allora di alcun interesse per il governo di Roma, lo avrebbe messo in conflitto con la Turchia. Più tardi, Bismarck darà in pubblico un giudizio alquanto negativo dell’incontro con Crispi e delle pretese italiane pronunciando la frase destinata a fare il giro delle cancellerie europee e cioè che gli italiani avevano un forte appetito ma denti deboli. Sullo stesso tono il plenipotenziario russo alla conferenza di Berlino, Aleksandr Gorcˇakov, si chiedeva con sferzante ironia «quale altra sconfitta aveva subito l’Italia per avanzare nuove richieste di compensi territoriali»7. 7

Cit. da S. Romano, Crispi, Milano 1986, p. 148.

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Era evidente che il clima generale non ci era favorevole e che sarebbe stato opportuno mantenere il basso profilo suggerito dal Visconti Venosta. Ma ciò che induceva il governo italiano a inghiottire il boccone amaro dell’alleanza con Vienna per guadagnarsi quella con Berlino era determinato anche da considerazioni di carattere interno. Tra la borghesia italiana e, più in generale, nell’opinione benpensante stava crescendo la preoccupazione per le spinte eversive e l’irrequietezza di forze estremiste che sembravano preannunciare nuove turbolenze per il paese dopo quelle subite negli anni della ribellione meridionale. L’alleanza costituiva una protezione nei confronti di minacce eversive interne e internazionali, ma segnalava anche l’abbandono o l’attenuazione da parte del governo italiano di quel principio di nazionalità che aveva sostenuto e giustificato il movimento risorgimentale, e più in generale quello di tutti i popoli che aspiravano all’indipendenza e alla liberazione da regimi assolutisti. Era in sostanza la scelta dell’ordine e del mantenimento dello status quo sociale e politico nel timore di una ipotetica rivoluzione sociale che aveva sempre turbato i sonni delle classi proprietarie italiane. Preminenti ragioni di politica estera, la condizione di relativo isolamento internazionale dell’Italia si associavano pertanto a motivazioni di politica interna e alle contingenti reazioni determinate dall’occupazione francese della Tunisia, inducendo l’Italia ad aderire a un’alleanza che, se accresceva la sicurezza del paese, ne limitava la libertà di azione e lo costringeva a rinviare sine die il raggiungimento delle sue principali ambizioni: l’ampliamento delle frontiere orientali e un ruolo nell’area balcanica dove, con l’amministrazione della Bosnia Erzegovina assegnatale dal congresso di Berlino, l’Austria acquisiva un’influenza predominante, disputata solo dalla Russia. Il trattato della Triplice era un patto difensivo che assicurava l’Italia nei confronti di un’aggressione francese e impegnava la stessa Italia all’intervento in caso di un attacco della Francia non provocato contro la Germania, ma anche di una eventuale aggressione francese e russa all’Austria. I contraenti si garantivano la reciproca neutralità nel caso che una delle tre potenze fosse costretta a entrare in guerra contro un’altra potenza. Inoltre il trattato prevedeva l’impegno di ciascuno dei contraenti a non entrare in un’allean-

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za diretta contro gli altri e l’obbligo di non concludere paci separate nel caso di una comune partecipazione a un conflitto. Dietro richiesta dell’Italia veniva escluso che l’alleanza potesse essere diretta contro l’Inghilterra, a conferma dei tradizionali vincoli di amicizia con quel paese, ma anche per la minaccia che la potente flotta britannica avrebbe rappresentato per le città costiere italiane in caso di conflitto. In realtà, l’amicizia verso l’Inghilterra resterà una costante nel periodo crispino e sarà consolidata da ulteriori accordi bilaterali. Stipulato per un quinquennio, il trattato della Triplice sarebbe dovuto restare segreto, ma ben presto veniva reso pubblico nelle sue linee generali creando un nuovo motivo di attrito con la Francia. Emergeva dal meccanismo del trattato la posizione sfavorevole dell’Italia che si trovava protetta nei confronti di un attacco francese, ma per essa il casus belli sarebbe scattato anche nel caso di un’aggressione franco-russa all’Austria.

3. Crispi e la politica di potenza Più che da una difesa contro un ipotetico nemico, l’adesione alla Triplice nasceva da una scelta di campo che denunciava nella classe dirigente italiana la coscienza della propria debolezza politica e militare. Il ricordo delle sconfitte subite nel 1866 era ancora vivo e sia re Umberto I che Crispi lamenteranno la scarsa attenzione che nel corso degli anni Settanta i governi di destra e di sinistra avevano riservato alle forze armate. È anzi significativo che proprio alla vigilia della stipula della Triplice il quarto governo Depretis farà approvare alla Camera, con ben 201 voti contro diciotto, un programma di spese militari straordinarie comprendente anche un progetto di riorganizzazione dell’esercito. L’idea di un’aggressione francese continuava a ossessionare Crispi che attribuiva alla Francia una naturale rivalità nei confronti dell’Italia per la sua politica mediterranea da sempre conclamata ma che in verità il governo di Roma conduceva timidamente. Attestati sul principio del mantenimento dello status quo mediterraneo, i vari governi italiani fecero cadere gli inviti venuti da più parti (Francia, Gran Bretagna, Germania e Austria) a «pren-

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dersi la Libia» come risposta all’insediamento francese in Tunisia e agli appetiti di Parigi per il Marocco. Inoltre, quando nel 1882 l’Inghilterra propose all’Italia un comune intervento in Egitto per sedare la rivolta di Arabi pascià, un «colonnello» nazionalista, il primo di una lunga serie, contro il dominio turco (ma in realtà come reazione ai tentativi anglo-francesi di stabilire in Egitto una testa di ponte per un’ulteriore espansione nell’area), il governo italiano declinò l’invito per timore di turbare gli equilibri mediterranei e di urtare la Francia che aveva anch’essa rifiutato la proposta inglese. Del resto, nel caso di un’aggressione francese non provocata, l’Italia, già prima della sua partecipazione alla Triplice, e a prescindere da essa, avrebbe potuto contare sull’aiuto della Germania secondo quanto Bismarck aveva assicurato a Crispi durante il loro primo incontro. Sarà piuttosto per l’adesione italiana alla Triplice che i rapporti con Parigi si guasteranno fino a quella guerra commerciale scoppiata alla fine degli anni Ottanta che penalizzerà gravemente l’esportazione di prodotti agricoli del Meridione, ma la cui maggiore responsabilità sarà da attribuire all’Italia. Sarà l’ottavo e ultimo governo di Agostino Depretis, di cui Crispi assumerà la guida alla morte dello stesso Depretis, a prendere l’iniziativa di denunciare il trattato commerciale del ’78 vantaggioso per l’Italia e non penalizzante per la Francia che restava il nostro maggior cliente8. Dieci anni dopo Crispi adotterà quella tariffa generale che, a partire dal 1888, metterà in difficoltà le esportazioni francesi verso il nostro paese provocando l’inevitabile reazione della Francia e segnando l’inizio di una guerra doganale tra i due paesi, a tutto svantaggio delle esportazioni dei prodotti agricoli italiani. 8 Il trattato, che veniva firmato dal governo Depretis il 6 luglio 1877, stabiliva una serie di tariffe protezionistiche a vantaggio della nostra industria tessile e siderurgica; soprattutto della prima, che vedrà accrescere i dazi d’importazione dei prodotti tessili di ben il 30 per cento. Le nuove tariffe doganali porteranno a un aumento delle esportazioni e a una diminuzione delle importazioni riducendo il deficit della bilancia commerciale. Gli ambienti industriali francesi non mancarono di protestare per la nuova tassa protezionistica e fecero pressioni sul governo perché riaprisse il negoziato con l’Italia, ma una soluzione di reciproca soddisfazione venne trovata con l’accordo dell’adozione della clausola della «nazione più favorita» che avrebbe regolato i reciproci rapporti commerciali.

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Così la protezione della nascente industria del Regno aveva come alto prezzo la crisi delle campagne meridionali dalle quali, proprio a partire da quegli anni, iniziava il doloroso esodo di centinaia di migliaia di famiglie spinte a cercare Oltreoceano le condizioni per la sopravvivenza. Uno dei primi atti di Crispi, dopo il suo insediamento alla presidenza del Consiglio nel luglio 1887, fu un nuovo pellegrinaggio a Friedrichsruhe per un incontro con Bismarck che questa volta lo accolse con tutti gli onori dovuti a un presidente del Consiglio e con l’attenzione dovuta ad un importante alleato. Alcuni mesi prima era stata rinnovata la Triplice e il ministro degli Esteri, Carlo Felice di Robilant, aveva ottenuto un netto miglioramento del trattato a favore dell’Italia anche grazie alle difficoltà in cui era venuto a trovarsi Bismarck a causa della presenza di Georges Boulanger in Francia e dell’atteggiamento minaccioso della Russia nei Balcani. Il più importante miglioramento era l’impegno di Vienna a prevedere compensi per l’Italia nel caso di acquisizioni territoriali da parte dell’Austria o della Germania con l’esclusione, però, dei territori di frontiera. Era – osserverà qualcuno dando prova di eccessivo ottimismo – l’applicazione del vecchio principio teorizzato da Cesare Balbo. Inoltre il nuovo trattato, che era stato suddiviso in due documenti separati, uno tra Italia e Austria sul tema dei compensi e l’altro tra Italia e Germania, prevedeva l’intervento austro-tedesco a favore dell’Italia nel caso che essa fosse stata costretta a entrare in guerra con la Francia se questa avesse tentato di estendere il suo controllo su Tripoli e sul Marocco. Era un’ulteriore garanzia di sicurezza per l’Italia e rifletteva le ricorrenti preoccupazioni di Crispi di una minaccia francese nel Mediterraneo. Il tema sarà oggetto delle conversazioni tra Bismarck e lo statista siciliano durante i due giorni della visita a Friedrichsruhe. Il presidente del Consiglio italiano riconfermò la fedeltà dell’Italia alla Triplice e arrivò perfino a proporre una convenzione militare tra Italia e Germania. In caso di guerra della Germania con la Francia e la Russia (i due paesi negli ultimi tempi si erano riavvicinati e nel 1891 avrebbero stipulato una formale alleanza), il governo italiano – in osservanza del trattato – avrebbe attaccato la Francia sulla comune frontiera alpina, e avrebbe mandato sul Re-

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no sei corpi d’armata e tre divisioni di cavalleria. Date le condizioni dell’esercito italiano, era dubbio che l’Italia potesse mantenere quell’impegno, ma Bismarck accettava l’offerta e la convenzione militare che integrava la Triplice Alleanza veniva firmata qualche mese dopo, nel febbraio del 1888. Inoltre, il 12 febbraio 1887, cioè pochi giorni prima del rinnovo della Triplice, l’ambasciatore italiano a Londra, Luigi Corti, e il ministro britannico Robert Salisbury avevano sottoscritto una serie di note che vincolavano i due paesi a un’«intesa mediterranea» che prevedeva, tra l’altro, l’appoggio italiano alla Gran Bretagna in Egitto e quello inglese all’Italia in Nord Africa e in particolare in Tripolitania-Cirenaica, in caso d’invasione di una terza potenza. Successivamente, anche l’Austria-Ungheria aderiva all’«intesa mediterranea» che veniva perfezionata in senso anti-russo da Crispi. Quello della necessità di una preparazione militare che al momento opportuno avrebbe permesso all’Italia di partecipare a una nuova guerra europea, ritenuta inevitabile e al tempo stesso indispensabile perché il nostro paese raggiungesse i suoi obiettivi di grande potenza, era un altro dei temi ricorrenti nelle uscite pubbliche di Crispi e nei suoi discorsi parlamentari. L’obiettivo era quello di costituire un esercito che potesse mobilitare fino a mezzo milione di uomini: un traguardo difficilmente raggiungibile per un paese come l’Italia, povero di risorse e ancora impegnato nella costruzione delle infrastrutture necessarie ad una nazione moderna. Ma durante i governi di Crispi le spese militari aumentarono fino a creare un serio problema di deficit di bilancio che sarà uno dei motivi della crisi del suo secondo governo, nel gennaio 1891. In quell’occasione, respingendo le accuse di Ruggero Bonghi che lamentando il pesante deficit di bilancio gli ricordava l’oculatezza della politica finanziaria della vecchia destra di Quintino Sella, Crispi rispondeva che la destra aveva potuto governare nei limiti fissati dal bilancio perché «allora non avevate né esercito né flotta» e che «si devono a voi i danni di una politica servile verso lo straniero». A questo punto il resoconto parlamentare parla di urla e vivissime proteste da parte dei deputati della destra9. 9 Cit. da Romano, Crispi cit., p. 218. Per la politica estera di Crispi vedi anche R. Mori, La politica estera di Francesco Crispi 1887-1891, Roma 1973.

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Sinceramente e profondamente patriottico, Crispi arrivò a combattere il movimento interventista, perché a suo giudizio rischiava di indebolire la Triplice, che egli considerava lo strumento fondamentale della politica estera italiana, anche se tutte le volte che l’Austria interveniva contro le manifestazioni di italianità da parte dei suoi sudditi di cultura italiana non faceva mancare le sue proteste. Per una ragione analoga fu all’inizio contrario alla politica africana perché distraeva attenzione e risorse dal Mediterraneo che egli considerava l’area di maggiore importanza per gli interessi nazionali, ma per ragioni di prestigio, dopo l’eccidio di Dogali, la sosterrà alla ricerca di una sicura rivincita10. Sarà proprio in Africa che la sua politica troverà il più clamoroso e definitivo fallimento.

4. L’avventura coloniale È significativa la coincidenza tra la firma della Triplice e l’inizio della penetrazione in Eritrea con l’acquisto da parte del governo, nel marzo dell’82, della baia di Assab dalla compagnia di navigazione Rubattino, divenuta Società di navigazione generale italiana dopo la fusione con la palermitana Florio. Assab, che avrebbe dovuto rimanere «stazione commerciale» secondo le stesse dichiarazioni del governo, divenne invece la base per ulteriori espansioni11. Nel dicembre 1884, un accordo italo-inglese poneva le basi per la conquista di Massaua e un paio di mesi dopo seguiva l’occupazione del territorio tra Massaua e Assab, ma in Parlamento si manifestavano le prime proteste da parte sia della destra per i costi 10 Cfr. G. Volpe, Italia moderna, vol. I, 1815-1898, Firenze 1973, pp. 209 sgg. Scrive Volpe: «La politica estera di Crispi, guardata nei suoi scopi positivi, puntava essenzialmente sul Mediterraneo [...]. Crispi era l’uomo della viva passione mediterranea [...]. Nel Mediterraneo Crispi vedeva le necessità fondamentali dell’Italia: sicurezza navale, tutela dei nuclei coloniali, civiltà da diffondere, traffici da sviluppare, tradizioni millenarie da mantenere o restaurare». 11 Dichiarazione del ministro degli Esteri, Pasquale Stanislao Mancini, nel corso del dibattito parlamentare alla fine di giugno 1882 che si concludeva il 4 luglio con la ratifica del Senato all’acquisto di Assab.

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dell’impresa sia dell’estrema sinistra per motivi politici e ideologici. Diventerà celebre lo slogan lanciato da Andrea Costa, primo e per qualche anno unico rappresentante in Parlamento del movimento socialista: «Né un uomo né un soldo». Ma ormai il governo non nascondeva l’intenzione di intraprendere una politica di conquiste coloniali con la giustificazione che, iniziata ormai la corsa delle maggiori potenze europee all’espansione territoriale, con la spartizione del continente africano in sfere di influenza, erano in gioco «le sorti dell’Italia come grande potenza»12. Nel gennaio dell’87 avveniva il primo drammatico episodio con il massacro di Dogali. Una colonna di 500 uomini al comando del colonnello Tommaso De Cristoforis veniva annientata dalle forze di ras Alula, un potente locale che rivendicava il villaggio di Saati a 30 km a sud di Massaua, e in cui, nonostante i ripetuti moniti, si era insediata una guarnigione italiana. Un anno prima una missione che si era recata dal negus Giovanni per rassicurarlo sulle intenzioni italiane era stata bene accolta. Ma in Abissinia, paese ancora feudale, il potere era esercitato dai ras locali e quello del negus era solo uno dei tanti comunque dipendente dal prestigio e dalla forza del titolare. Dopo Dogali – con l’avvento di Crispi al governo – la politica africana, apertamente contestata dalla maggioranza del paese, continua ad essere fortemente voluta da una minoranza di uomini politici, di militari e di accademici. Ma essa soffre di una fondamentale debolezza e cioè dell’indecisione dei governi sui programmi futuri: se il primo insediamento coloniale dovesse rimanere nelle dimensioni originali di una «stazione commerciale» da cui sviluppare rapporti economici e traffici con i territori circostanti o se l’occupazione dovesse estendersi a tutto l’impero etiopico (la denominazione ufficiale dell’Abissinia) attraverso una penetrazione politica e militare. Espressione della mancanza di un preciso programma sarà l’affermazione di Crispi, fatta nel corso di un approfondito dibattito sulla politica coloniale avvenuto in sede di discussione di bilancio. Il governo – affermava Crispi – non aveva avuto né aveva «l’intenzione di conquistare l’Abissinia», ma «non voleva ri12

Cit. da G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VI, Milano 1970, p. 303.

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nunciare a qualsiasi impresa che le circostanze, un caso anche fortuito, potessero consigliare per rifare la nostra posizione in Africa e ricondurre le nostre armi a quello splendore a cui tutti mirano»13. La vicenda coloniale fu viziata anche da un malinteso significativo della leggerezza con cui fu condotta; quello relativo al protettorato italiano sull’Abissinia che il nostro governo credeva di aver imposto con il Trattato di Uccialli, negoziato con il nuovo negus, Menelik, già ras dello Scioa successo a Giovanni alla sua morte. Il trattato, firmato nel maggio dell’89, era redatto in due versioni: aramaica e italiana. Riconosceva le conquiste italiane che da Massaua si erano, dopo Dogali, allargate fino a comprendere un più vasto territorio che diventerà la colonia Eritrea. Ma l’articolo 17 del trattato prevedeva la rappresentanza italiana dell’impero abissino in materia di politica estera, cioè lo status di protettorato, solo nella versione italiana e quando Menelik notificherà la sua ascesa al trono imperiale alle potenze europee direttamente, senza servirsi dei canali diplomatici italiani, il malinteso emergerà clamorosamente. Tutti i tentativi di far accettare a Menelik la sostanza dell’articolo 17 fallivano. Il governo italiano inaugurava allora una politica tendente a separare i capi più influenti dall’imperatore e, con promesse di vantaggi in armi e in danaro, ad attrarli nell’orbita italiana. Nel frattempo si svolgeva la più facile e incontrastata espansione nell’area somala con il protettorato sul Benadir e sui due sultanati di Obbia e Migiurtina. Nel 1893 Menelik denunciava il Trattato di Uccialli e in alleanza con ras Mangascià, padrone del Tigrè – che dopo essersi avvicinato all’Italia se ne era allontanato preoccupato dalla continua avanzata delle unità italiane nel suo territorio –, si creava una grossa coalizione di forze attorno al negus. Grazie ad aiuti francesi e russi in armi e in denaro (sono gli anni in cui i rapporti tra Parigi e Roma raggiungono il massimo della tensione), Menelik riusciva a mettere in campo un grosso esercito. Dopo l’assedio del forte di Macallè, costrette ad arrendersi davanti alla pressione degli etiopi e quindi in uno scontro anch’esso sfavorevole alle nostre 13

Ivi, p. 322.

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armi sull’Amba Alagi, il 1° marzo 1896, nella battaglia di Adua, le forze italiane, soverchiate dagli uomini di Menelik quattro volte superiori, subivano una disastrosa sconfitta. Restarono sul campo più di 4.000 tra ufficiali e soldati e 2.600 ausiliari delle unità indigene. Le perdite degli etiopi furono largamente superiori, ma l’esercito di Menelik rimaneva padrone del campo, mentre gli italiani erano costretti a ritirarsi. La notizia della sconfitta provocava violente dimostrazioni in tutta Italia, che in quegli anni stava vivendo una grave crisi economica e sociale. Il disastro di Adua segnava per vari anni l’eclissi dell’espansionismo coloniale, provocava la crisi del governo Crispi e la fine della carriera pubblica dell’uomo politico siciliano.

5. La politica di raccoglimento Con la scomparsa di Crispi dalla scena politica e con la sconfitta di Adua si concludeva il primo tentativo di dar vita a una politica esplicitamente finalizzata, pur nella sua inadeguatezza, a far dell’Italia una grande potenza. Più che di una generazione politica o di un gruppo dirigente era stato l’obiettivo di un uomo, che tuttavia aveva trovato simpatie e adesioni in alcuni ambienti della società italiana, all’interno della sinistra democratica, del movimento irredentista, dell’esercito e, con qualche riserva, della corte. Ma insieme alle simpatie, quella politica aveva trovato anche resistenze nella maggioranza di una classe politica che alle relazioni internazionali aveva sempre riservato scarsa attenzione, nella diplomazia che grazie al rapporto col mondo esterno era in grado di valutare le difficoltà che si opponevano al raggiungimento di quegli obiettivi e l’insufficienza delle risorse di cui il paese disponeva, e più in generale in quelle classi medie che, pur manifestando il loro patriottismo, guardavano con diffidenza e preoccupazione ai costi e alle conseguenze di politiche troppo assertive. Un netto rifiuto e una attiva opposizione venivano poi dalle classi lavoratrici, in fase di ascesa e di organizzazione nel paese, in nome di un crescente internazionalismo in parte retaggio mazziniano, in parte di ispirazione socialista e in minor misura marxista.

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Gli ultimi venti anni del secolo sono anni di gravi difficoltà per la maggioranza degli italiani14. La crisi dell’agricoltura, il cui prodotto costituiva ancora la metà di quello nazionale (47,6 per cento nel 1891), in larga parte conseguenza della guerra doganale con la Francia che assorbiva il 40 per cento delle esportazioni agricole, incideva in modo sensibile sui già bassi livelli di vita delle campagne, mentre l’industria, di cui proprio in questi anni si gettavano le basi, non faceva ancora avvertire i suoi benefici. Le difficoltà italiane erano rese ancor più serie dalla grande depressione che colpiva quasi tutte le nazioni europee; che tuttavia si esauriva attorno al 1895 segnando l’inizio di una fase espansiva destinata a durare più di un decennio. I suoi effetti si avvertivano nel nostro paese solo col nuovo secolo. Quello vecchio si conclude in Italia con una serie di gravi episodi di crisi politica e sociale che accompagnano i primi anni di vita del socialismo: gli anni Novanta si aprono con scontri tra lavoratori e polizia per la festa del 1° maggio 1891 e, nel 1893, con la rivolta dei Fasci siciliani, e si concludono nel 1898 con un’ondata di violente proteste in tutta Italia che a Milano vengono soffocate dall’artiglieria del generale Bava Beccaris. A Milano si contano ottanta morti secondo i dati ufficiali, quasi 300 secondo i partiti di opposizione e migliaia di arresti. Il momento di maggiore crisi interna coincide, da una parte, con quella della politica africana, ma anche, dall’altra, con l’inizio di una nuova fase, più dinamica e potenzialmente più instabile sul versante europeo. Lo scenario creato da Bismarck dopo Sedan, che aveva visto la Francia isolata dalla rete di alleanze stipulate dal grande cancelliere, è in via di evoluzione, e dopo il licenziamento dello stesso Bismarck (1890) viene segnato da un nuovo corso espansionistico e aggressivo della politica tedesca inaugurata da Guglielmo II. Dal 1891 il riavvicinamento tra Francia e Russia, che l’anno successivo si trasformava in patto militare, creava il nucleo attor14 Sulla crisi di fine secolo e sulle origini del socialismo la bibliografia è ricchissima. Insieme a B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1956, a Volpe, Italia moderna cit., vol. III, 1910-1914, Firenze 1973 e a Candeloro, Storia dell’Italia moderna cit., voll. VI-VII, vedi V. Levra, Il colpo di Stato della borghesia. La crisi di fine secolo in Italia 1896-1900, Milano 1975 e R. Colapietra, Il Novantotto: la crisi politica di fine secolo 1896-1900, Milano 1959.

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no al quale si costruirà l’altro grande blocco di alleanze, l’Intesa, nella cui direzione un passo ulteriore verrà compiuto con l’accordo franco-britannico nel 1904. Dopo il primo rinnovo della Triplice nel 1887, un secondo nel 1891 – negoziato dal governo guidato da Antonio Starabba, marchese di Rudinì, subentrato a Crispi nel biennio 1891-93 – segnava una nuova modifica del trattato a favore dell’Italia: il riconoscimento tedesco di eventuali interessi italiani in Africa settentrionale dove la Germania avrebbe appoggiato l’Italia «in ogni azione sotto forma di occupazione o altra presa di garanzia che quest’ultima dovesse intraprendere in queste stesse regioni in vista di un interesse di equilibrio o di legittimo compenso»15. Era non solo un’estensione delle garanzie dell’alleanza a un eventuale conflitto tra Francia e Italia in Africa settentrionale già prevista nella Triplice dell’87, ma in prospettiva il via libera a una eventuale azione italiana in Tripolitania. Un terzo rinnovo della Triplice, questa volta automatico per sei anni, in base all’articolo 14 del trattato, aveva luogo nel 1896, all’indomani di Adua, ma a questo punto l’alleanza aveva perso gran parte del suo smalto agli occhi dei governanti italiani. Nel corso dell’impresa etiopica l’alleanza non era stata di nessuna utilità all’Italia, e non aveva in nessun modo equilibrato l’azione dei governi francese e russo che avevano sostenuto la resistenza di Menelik con aiuti di armi e denaro. Inoltre il crescente antagonismo tra Germania e Gran Bretagna e l’alleanza francorussa accrescevano per l’Italia i pericoli di una guerra in cui il nostro paese si poteva trovare a fronteggiare un’offensiva franco-britannica. L’allora presidente del Consiglio di Rudinì era convinto, nel 1896, che la Triplice fosse diventata «una cosa molto anonima» e che nel corso dei sei anni «si sarebbe naturalmente estinta»16. Lo stesso Crispi, dopo la sua uscita di scena, fece sapere che se fosse rimasto a capo del governo ne avrebbe proposto l’abbandono. Va tuttavia riconosciuto che quello successivo ad Adua non era il momento di cambiare politica e che nel periodo più difficile attraversato dal paese, sia sul piano economico che su quello socia15 Per la storia della Triplice e le sue modifiche vedi L. Salvatorelli, La Triplice Alleanza. Storia diplomatica 1877-1912, Milano 1939. 16 D. Farini, Diario di fine secolo, a cura di E. Morelli, Roma 1962, p. 539.

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le, l’Italia trovava nella Triplice un solido ancoraggio e un deterrente sia sul versante interno che su quello esterno contro ogni avventura. In questi anni la partecipazione alla Triplice dava al Regno anche il beneficio di uno status politico oltre che giuridico; non quello di grande potenza che Crispi aveva ricercato, ma quello di potenza associata ai «Grandi» e come tale partecipe, anche se in una posizione e in un ruolo di secondo piano, delle azioni e dei vantaggi che essi garantivano. Durante la rivolta anti-turca a Creta nel 1897 l’Italia parteciperà all’azione militare dei principali paesi europei diretta a ristabilire l’ordine nell’isola e a impedire che essa fosse annessa dalla Grecia con il conseguente impatto sugli equilibri nell’area mediterranea e balcanica. Nel 1900 a fianco di Russia, Inghilterra, Francia e Germania, l’Italia parteciperà all’occupazione di alcune basi commerciali e strategiche in Cina nella vicenda successiva alla rivolta xenofoba dei Boxer. La partecipazione delle truppe italiane (circa 2000 uomini agli ordini del colonnello Vincenzo Garioni) alla spedizione internazionale sotto il comando del generale tedesco Alfred Graf von Waldersee varrà all’Italia l’assegnazione di una concessione nella città di Tien Tsin, che rimarrà sotto sovranità italiana fino alla seconda guerra mondiale. Sono episodi che danno qualche soddisfazione all’amor proprio nazionale e che servono al paese per confermare una presenza sul piano internazionale al più alto livello. Negli anni successivi alla sconfitta di Adua la diplomazia italiana si muove con maggiore discrezione. Il decennio dominato dalla politica crispina, nonostante l’attivismo del presidente del Consiglio, si è concluso con una perdita di immagine all’esterno che però, proprio grazie al legame con la Triplice, non avrà conseguenze troppo negative e comunque provvederà a limitarle Emilio Visconti Venosta che riprende in mano il timone della politica estera italiana con la consueta prudenza e competenza fino al 1901 quando lascia definitivamente la Consulta. È lui, il venerabile marchese, che imprime il cosiddetto «colpo di timone» alla politica estera post-crispina muovendosi lungo due direttrici precise. Anzitutto incontra a Monza il collega austriaco, conte Agenor Goluchowski (6-7 novembre 1897) raggiungendo

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un’intesa sui Balcani e sull’Oriente che prevede – oltre al mantenimento dello status quo – la creazione di uno Stato indipendente albanese in caso di disgregazione dell’impero ottomano17. Quindi avvia contatti segreti con il nuovo ambasciatore francese a Roma, Camille Barrère che portano, il 4 gennaio 1901, a uno scambio di note che sancisce il reciproco «disinteresse» nel Mediterraneo: la Francia per la Tripolitania-Cirenaica, l’Italia per il Marocco18. Il che equivale a un reciproco nulla osta a intervenire, che rilancia i rapporti bilaterali dopo un lungo periodo di gelo. D’altra parte, il segno di cambiamento della politica francese era stato rappresentato proprio dalla nomina, nel 1898, di Barrère, un diplomatico di grande abilità, destinato a rimanere a lungo a Palazzo Farnese (fino al 1924) e a influire sensibilmente sulle scelte italiane nei mesi precedenti il nostro ingresso nella prima guerra mondiale. In verità, più che realizzare una svolta, la politica estera italiana subito dopo Crispi si limiterà a operare una certa revisione dei propri obiettivi che a qualche osservatore sembrerà preludere a scelte alternative, ma che in realtà si ridurrà ad affrontare alcuni temi di interesse nazionale, più immediati e pressanti come sul versante delle relazioni con la Francia la questione dei rapporti commerciali e dello status giuridico ed economico degli italiani in Tunisia in scadenza nel 1896, e su quello dei rapporti con la Russia, il comune interesse a contenere il dinamismo austriaco nei Balcani. Se spinta oltre quei limiti quella politica poteva preparare e realizzare una nuova scelta di campo, ma in realtà essa non andò oltre qualche «giro di valzer». L’epoca giolittiana che si apriva dopo la crisi di fine secolo era favorevole a qualche diversivo e a una maggiore elasticità di posizioni, ma non a una scelta epocale quale sarebbe stato l’abbandono della Triplice. Inoltre un cambiamento politico di tale importanza, allora come in altri momenti 17 Le intese verbali del 1897 vengono rese note da Visconti Venosta nel dicembre 1900 ma il ministro austriaco ne fornisce una versione diversa. Cfr. E. Serra, Note sull’intesa Visconti-Venosta-Goluchowski per l’Albania, estratto da «Clio», n. 3, 1971. Cfr. anche P. Pastorelli, Albania e Tripoli nella politica estera italiana durante la crisi d’Oriente del 1897, in «Rivista di studi politici internazionali», 1961, 3, pp. 370-421. 18 Un’ampia e documentata ricostruzione in E. Serra, Camille Barrère e l’intesa italo-francese, Milano 1950, pp. 96-100.

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dell’epoca post-risorgimentale, trovava il suo ostacolo insormontabile nel continuo avvicendamento di uomini e di governi che rendevano quasi obbligata la continuità di una politica come quella legata alla Triplice.

6. Il «giro di valzer» e la svolta di Vittorio Emanuele III Negli anni tra la fine del vecchio secolo e l’inizio del nuovo le maggiori novità si manifestano – com’era prevedibile – nei rapporti con la Francia. Oltralpe si attenuano i timori e le reazioni suscitate dalla politica anti-francese di Crispi, e l’accordo tra Roma e Parigi del 1896 sulla Tunisia, che riconosceva il ruolo della numerosa colonia italiana, arrivata in quegli anni a ben 70.000 presenze (1906) e le attribuiva ampia autonomia, segna l’inizio di nuovi e più amichevoli rapporti tra i due paesi. Segue nel novembre 1898 la stipula di un nuovo trattato di commercio che, pur mantenendo le strutture protezioniste che avevano provocato la guerra commerciale, aumentava sia pur di poco gli scambi bilaterali e poneva fine alla guerra tariffaria imperversata negli ultimi anni. Ma il volitivo ministro degli Esteri del governo Zanardelli, il marchese e industriale milanese Giulio Prinetti, ex costruttore di biciclette, andò oltre e nel 1902, con uno scambio di note con il governo di Parigi, negoziò un vero e proprio trattato di contro-assicurazione che prevedeva la neutralità italiana non solo nel caso in cui la Francia fosse aggredita (e ciò era in armonia con gli impegni assunti con la Triplice), ma anche nel caso in cui fosse la Francia ad attaccare per reagire a una grave provocazione e – data la difficoltà di definire le circostanze che avrebbero fatto scattare l’obbligo di neutralità – l’impegno del governo italiano assumeva un carattere ambiguo, tale da mettere in discussione i suoi impegni triplicisti. In effetti non mancarono le reazioni da parte della Germania. In pubblico il cancelliere Bernhard von Bülow, che conosceva bene l’Italia essendo stato ambasciatore a Roma e avendo sposato la figlia di Minghetti, sdrammatizzò i fatti ricorrendo all’immagine diventata celebre di un occasionale «giro di valzer» con un altro

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ballerino di cui, in un solido matrimonio, il marito non doveva essere geloso. In privato, tuttavia col rappresentante italiano a Berlino, Michele Lanza, Bülow usò un linguaggio molto più risentito. Ma i «giri di valzer» dell’Italia non si limitarono alla Francia. Prinetti negoziò un accordo con la Gran Bretagna che ripristinava e rilanciava le intese mediterranee del 1887. Di più, nel 1909, in occasione di una visita dello zar Nicola II in Italia, l’Italia e la Russia stipulavano un accordo, detto di Racconigi dal nome del castello piemontese in cui si svolse il negoziato, che prevedeva il mantenimento dello status quo nonché consultazioni e azioni comuni nell’area balcanica, e per il futuro la partecipazione di ambedue i contraenti ad accordi che Russia e Italia dovessero concludere con una terza potenza. Appena qualche mese dopo l’Italia stipulava con l’Austria un trattato dello stesso tenore, per cui «ciascuno dei due governi si impegnava a non contrarre con una terza potenza un accordo qualsiasi concernente le questioni balcaniche senza che l’altro governo vi partecipi su di un piede di uguaglianza assoluta»19. Così l’Italia manteneva un rapporto di alleanza con le potenze della Triplice, ma anche di amicizia, di collaborazione e consultazione con i nemici della stessa Triplice arrivando al limite del doppio gioco. Per di più l’allora ministro degli Esteri italiano, Francesco Guicciardini (entrato a far parte del ministero Sonnino nel 1909), decideva di non informare il governo russo sui termini dell’accordo con l’Austria come invece avrebbe dovuto fare secondo gli impegni presi a Racconigi. Questa diplomazia apertamente contraddittoria rifletteva il lento logoramento del rapporto con la Triplice che in certe fasi poneva ambasciatori e ministri in una condizione di vero e proprio disagio. Comunque, non va dimenticato che un’aliquota di doppiezza esisteva nel comportamento di tutte le diplomazie del tempo dovuta soprattutto alla segretezza dei patti, che rendeva i contraenti sicuri di poter giocare contemporaneamente su più tavoli. Se è vero, infatti, che Tommaso Tittoni, predecessore di Guicciardini alla guida della Consulta, aveva assunto con il collega austriaco 19

L. Albertini, Le origini della guerra del 1914, vol. I, Milano 1943, p. 333.

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Alois Lexa von Aehrenthal un impegno inconciliabile con il patto italo-russo, è altrettanto vero che il ministro dello zar, Alexandr Izvolskij, aveva portato con sé a Racconigi il testo degli accordi austro-russi del 1903 conclusi dal governo di Vienna all’insaputa degli alleati della Triplice. E, ancora, il kaiser Guglielmo II non si era certo comportato come un ineccepibile gentiluomo quando, nel 1905, aveva cercato in tutti i modi di concludere un trattato bilaterale con lo zar Nicola II in violazione della Triplice. Per quanto riguarda l’azione diplomatica italiana in questo periodo – e almeno fino all’avvento del fascismo – va tenuto presente il ruolo sovente cruciale di re Vittorio Emanuele III. È lui – grazie anche ai poteri che gli sono attribuiti dallo Statuto albertino – il deus ex machina della politica estera italiana20. Egli si destreggia nei primi tre lustri del secolo tra gli impegni del triplicismo e le aperture all’Intesa. È un percorso contorto, sovente contraddittorio, quello che conduce il «piccolo re» in sintonia con il suo carattere scontroso e introverso. Ma, ad esempio, dietro il «sistema Prinetti del 1902» (così definito da Gaetano Salvemini)21, che crea le basi per l’impresa libica e corregge il tiro della nostra politica estera in senso francofilo, c’è la forte influenza di Vittorio Emanuele III che alimenta la «svolta» dei primi del Novecento con una fitta trama di missioni all’estero e di contatti diplomatici con i principali capi di Stato europei. Ormai l’appartenenza alla Triplice si stava rivelando non più una garanzia di protezione e di sicurezza come era alle origini, ma un ostacolo a una politica più flessibile e più dinamica quale avrebbe potuto essere quella di un paese come l’Italia che in quegli anni stava crescendo a ritmi eccezionali sia sul piano economico che su quello civile e culturale e stava acquistando sicurezza e fiducia in se stesso. Dopo l’uscita di scena di Bismarck e l’adozione da parte dell’imperatore Guglielmo II di una politica avventurosa che provo20 G. Artieri, P. Cacace, Elena e Vittorio, mezzo secolo di regno tra storia e diplomazia, Milano 1999, pp. 193-250. Per l’attenzione con cui Vittorio Emanuele III segue la politica estera cfr. le testimonianze raccolte da E. Serra, Vittorio Emanuele III diplomatico, in «Nuova Antologia», settembre-dicembre 1952, pp. 428-36. 21 G. Salvemini, La politica estera italiana dal 1871 al 1915, a cura di A. Torre, Milano 1970, p. 356.

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cherà più di un momento di tensione (le due crisi marocchine del 1905 e del 1911 in cui l’Italia si schiererà dalla parte della Francia) aumentavano i rischi per l’Italia di essere coinvolta in una guerra generale. Inoltre i rapporti con l’Austria continuavano a svolgersi a fasi alterne, non senza momenti conflittuali dovuti in parte alle simpatie italiane per il movimento irredentista, ma anche alle iniziative balcaniche dell’Austria, di cui Vienna terrà all’oscuro l’alleato italiano. Le tensioni tra i due paesi diventavano particolarmente acute in occasione degli incidenti scoppiati prima in maggio e poi nell’ottobre del 1903 a Innsbruck tra studenti austriaci e trentini per una facoltà di diritto italiano nella locale università prima promessa e poi negata. Lo stesso anno Austria e Russia raggiungevano un accordo che prevedeva un’ampia collaborazione nell’area balcanica. L’Italia, che chiese di farne parte, venne esclusa per volontà di Vienna. L’incontro ad Abbazia tra il ministro italiano Tittoni e quello austriaco Goluchowski non allentò che temporaneamente la tensione creatasi tra Roma e Vienna. Una nuova grave espressione dell’ostilità austriaca fu la pubblicazione nel gennaio 1909 su di un giornale viennese di un articolo ispirato dal capo di Stato maggiore asburgico, il generale Franz Conrad von Hötzendorf, di cui erano noti i sentimenti anti-italiani, in cui si proponeva una guerra preventiva contro l’Italia approfittando del disastro creato dal terremoto di Messina del dicembre 1908 che, secondo l’estensore dell’articolo, avrebbe creato la paralisi del paese da cui l’Austria avrebbe dovuto «trarre freddamente partito»22. Ma il fatto più grave fu, nell’ottobre 1908, la decisione del governo di Vienna di procedere all’annessione della Bosnia Erzegovina che il Trattato di Berlino del 1878 le aveva attribuito in semplice amministrazione. Poiché la versione della Triplice negoziata nel 1887 prevedeva compensi territoriali per l’Italia se l’Austria avesse ampliato i propri possessi nell’area balcanica, era il momento di reclamare l’osservanza del patto. Il governo di Roma – attraverso il proprio ministro degli Esteri, Tittoni – si mosse ma tardivamente e senza troppa convinzio22 Cit. da L. Albertini, Venti anni di vita politica, Bologna 1950-53, vol. I, pp. 350-53.

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ne. Chiese il compenso previsto dalla Triplice, ma ottenne solo la fine dell’occupazione austriaca del Sangiaccato di Novi Bazar che risaliva anch’esso alle concessioni fatte dal Trattato di Berlino e per noi non costituiva alcun vantaggio e non modificava in nessun modo l’equilibrio turbato dall’annessione della Bosnia Erzegovina. Per chi sperava – e non erano pochi – in una rettifica della frontiera orientale, fu una cocente delusione.

III L’ITALIA E LA PRIMA GUERRA MONDIALE (1901-1921)

1. Il primo miracolo economico Gioacchino Volpe e Benedetto Croce, due storici di opposta estrazione, concordavano nel vedere, nei primi anni del Novecento, un’Italia in cammino verso gli obiettivi mancati nel primo quarantennio di vita1. Se ne accorgevano anche quegli osservatori stranieri che, rimasti delusi delle prove iniziali fornite dal paese, ne riconoscevano ora gli eccezionali progressi. Così uno studioso di problemi sociali, Ernest Lémonon, descriveva l’Italia in un libro frutto di una ricerca svolta su incarico del ministro dell’Industria francese, L’Italie économique et sociale, apparso a Parigi nel 1913: Per comprendere quale potrà essere in futuro la potenza dell’Italia è necessario confrontare quello che è oggi il Paese con quello che era nel 1860. Se lasciando da parte le diverse fasi che essa ha attraversato si prendono in esame soltanto il punto di partenza e quello di arrivo, si riveleranno molteplici progressi tali da sembrare che nessun’altra potenza ne possa fare di simili. E questi progressi si riscontreranno in tutti i settori, sia che si guardi all’attività sociale, sia che si guardi la situazione finanziaria e al bilancio dello Stato, sia che si considerino l’agricoltura, l’industria e il commercio2. 1 B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1956, p. 284. G. Volpe, Italia moderna, vol. II, 1898-1910, Firenze 1973, pp. 55 sgg. 2 E. Lémonon, L’Italie économique et sociale, Paris 1953 cit. in E. Ragionieri, Italia giudicata, dall’età giolittiana al delitto Matteotti 1905-1925, Torino 1976, p. 261.

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L’autore francese coglieva l’aspetto più significativo della crescita italiana di quegli anni: l’esplosione di quello che verrà definito il primo miracolo italiano dopo le esitazioni, gli alti e bassi e le drammatiche crisi degli anni precedenti. Le statistiche dimostravano che la congiuntura economica era cambiata già a partire dal 1896, proprio quando la crisi politica e sociale si stava avvicinando al culmine, ma gli effetti della svolta si faranno sentire solo dopo il 1900. Nel 1896 iniziava la prima grande industrializzazione del paese; tra il 1881 e il 1888 si era avuta una prima fase di sviluppo al 4,6 per cento di crescita annua, poco per una spinta iniziale, ridottasi drasticamente allo 0,3 annuo nel periodo della grande crisi dal 1888 al 1896. Il decollo si ebbe solo tra il 1896 e il 1908 con una crescita del 6,7 per cento all’anno, superiore a quella di qualsiasi altra nazione europea; poi il ritmo diminuì sensibilmente, ma le basi per un’industria moderna, pur in un paese che rimaneva povero di materie prime e di capitali, erano state poste. Tra il 1901 e il 1911 la popolazione aumentò di tre milioni, in realtà di quattro se si considera l’incremento demografico naturale (popolazione presente + saldo migratorio): un vero e proprio boom delle nascite che accompagnerà anche il secondo miracolo economico. Il reddito pro capite salì alle 2.259 lire di media annua contro le 1.906 lire del decennio precedente e il Pil da 74,9 miliardi a 96 pari al 30 per cento in più3. In pochi anni nasceva il primo nucleo d’industria pesante, quello attorno al quale ruoterà negli anni successivi gran parte dell’economia nazionale. La riorganizzazione del sistema bancario, dopo la crisi dei primi anni Novanta, e il risanamento dei conti nazionali che, grazie all’aumento della pressione fiscale e alle rimesse degli emigranti, andarono in attivo per quasi un decennio permettendo al governo di portare la spesa per i lavori pubblici dai 69 milioni del 1901 ai 465 del 1912 contribuirono a sostenere il processo di industrializzazione, ma capitali e tecnologie vennero in misura considerevole anche dall’estero, e in particolare dalla Germania, dalla Francia e dal Belgio. 3 Istat (Istituto centrale di statistica), Sommario di statistiche storiche dell’Italia: 1861-1975, Roma 1976.

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La congiuntura internazionale era favorevole e i capitali in cerca d’investimento abbondanti. La loro disponibilità e i bassi costi della manodopera nazionale furono la combinazione vincente dietro il miracolo economico, ma il dinamismo nazionale si dimostrò anche nell’apertura verso l’innovazione e nella disponibilità ad adottare nuove macchine e nuovi processi di produzione già sperimentati con successo all’estero4. Le fasi di grande sviluppo vengono abitualmente accompagnate o seguite da profonde trasformazioni nei valori e nei comportamenti della società. Ciò avviene anche negli anni del primo miracolo economico, che fa emergere e porta alla ribalta un ceto sociale in ascesa: la classe media. Debole e senza forti connotazioni durante il Risorgimento, essa si enuclea faticosamente nel corso degli anni Settanta e Ottanta, quando si creano le strutture amministrative del nuovo Stato e le basi di una prima, sia pure limitata, industrializzazione. Agli inizi del XX secolo la classe media italiana gode di un livello di vita modesto ma dignitoso ed è comunque determinata a migliorarlo, possiede solidi principi religiosi e patriottici, privilegia l’ordine e la disciplina, teme il socialismo a cui attribuisce una carica eversiva che lo stesso socialismo, almeno quello italiano, ha solo nei programmi e nelle occasionali proteste delle masse diseredate. Rimane piuttosto provinciale, ma si dimostra sempre più permeabile alle influenze d’Oltralpe; ama la Francia e sente il fascino della cultura e della moda francesi, ma guarda con ammirazione alla Germania per la sua disciplina e il suo dinamismo. La nascita tra gli italiani di un partito franco-britannico e di un partito tedesco è di questi anni: dividerà il paese fino al secondo conflitto mondiale con alterne prevalenze dell’uno e dell’altro. In politica la classe media è moderata, ma si dimostra sempre più insofferente alle inconcludenze e ai compromessi dei politici. Per qualche tempo si riconosce in Giovanni Giolitti e nella sua politica di mediazione ma presto, sotto l’influenza di una élite intellettuale critica e inquieta, ne vedrà i limiti e invocherà efficienza e pulizia. Si rivelerà estremamente vulnerabile ai miti del nazionali4 Cfr. G. Mammarella, Z. Ciuffoletti, Il declino. Le origini storiche della crisi italiana, Milano 1996, p. 62.

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smo, specie quando esso si ammanterà di una veste culturale come quella che gli darà il futurismo. Nazionalismo, futurismo e una diffusa ostilità nei confronti del sistema democratico e delle istituzioni parlamentari, che ebbe come autorevoli portavoce studiosi come Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto5, furono le dottrine e, come si dirà più tardi, le «idee emergenti» in quegli anni che – fatte proprie da una minoranza attiva, preparata e spesso prestigiosa – approfittarono del clamore che le accompagnava e si imposero sulle posizioni della maggioranza, trascinandola a sostenere imprese avventurose e pericolose per la conservazione di quegli equilibri che la politica giolittiana era riuscita a creare e a mantenere per diversi anni. La prima di quelle avventure fu la guerra di Libia. Gli entusiasmi che essa sollevò dimostrarono quanto il paese fosse cambiato. Mentre le prime imprese coloniali, quelle di Eritrea e Somalia, erano iniziate tra la distrazione generale e dopo le prime perdite avevano suscitato dimostrazioni popolari ostili, la partecipazione alla guerra di Libia fu entusiastica e coinvolse tutti i ceti, per cui anche il Partito socialista, inizialmente contrario, fu costretto ad adeguarsi almeno in parte al clima generale.

2. L’impresa di Libia A differenza della prima impresa africana, quella di Libia fu accuratamente preparata sul piano politico e diplomatico. A margine di quasi tutti i trattati e gli accordi raggiunti nel primo decennio del nuovo secolo, il governo italiano otteneva via libera all’occupazione della Libia. Ai suggerimenti generici degli anni Ottanta e Novanta (ma al momento del primo rinnovo della Triplice c’era stato il riconoscimento tedesco degli interessi italiani in Libia) seguivano accordi formali espressamente garantiti come quelli stipulati dal ministro degli Esteri Giulio Prinetti su indicazione del re. Così l’accordo italo-francese del 1902 sulla reciproca neutralità in caso di guerra riconosceva la piena libertà d’azione dell’I5 Di Gaetano Mosca vedi Scritti politici, Torino 1982, di Vilfredo Pareto Scritti Politici, a cura di G. Busino, Torino 1974. Per una polemica tra Mosca e Pareto vedi E. Ripete, Le origini della teoria della classe politica, Milano 1971, pp. 307 sgg.

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talia in Tripolitania e nella Cirenaica (la denominazione di Libia entrerà nell’uso comune successivamente) e della Francia in Marocco. Nello stesso anno il governo italiano raggiungeva un’intesa con Londra in cui si auspicava il mantenimento dello status quo in Tripolitania-Cirenaica, ma se esso fosse stato modificato si prevedeva che ciò sarebbe avvenuto senza compromettere i nostri interessi. In ogni caso, l’Italia dichiarava di non voler assumere «impegni che fossero ostili agli interessi britannici»6. La formula era ambigua, ma la sostanza non lasciava dubbi sull’assenso inglese alle aspirazioni italiane. Anche nei negoziati per il rinnovo della Triplice, nel 1902, il nostro governo otteneva da parte degli alleati non più (come nell’87) la generica benevolenza verso gli interessi italiani, ma l’impegno – anche se non privo di ambiguità – a non interferire in una eventuale azione a Tripoli. Questa volta la validità del trattato veniva prolungata per dodici anni, ma era prevista una eventuale denuncia dopo cinque anni. Infine con il Trattato di Racconigi, mentre l’Italia prometteva di considerare favorevolmente gli interessi russi nella questione degli Stretti, la Russia faceva altrettanto per gli interessi italiani in Cirenaica e Tripolitania. Alla decisione di andare in Libia, maturata nel corso degli anni, contribuì la seconda crisi marocchina, scoppiata quando la Germania si oppose all’annessione francese del Marocco. Con l’arrivo nel porto di Agadir, nel 1911, di un incrociatore tedesco, il «Panther», la crisi raggiunse il momento più pericoloso, ma poi si risolse rapidamente con la disponibilità del governo francese a concedere compensazioni alla Germania sotto forma di una larga fetta del territorio del Congo francese da aggregare al Camerun già tedesco7. 6 Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VII, Milano 1974, p. 282; E. Serra, L’intesa mediterranea del 1902. Una fase risolutiva dei rapporti italo-inglesi, Milano 1957, pp. 179-85. 7 I tedeschi avevano chiesto tutto il Congo francese che – scrive Denis Brogan nella sua Storia della Francia moderna, vol. II, Firenze 1965, p. 15 – «in mano alla Francia non era un patrimonio estremamente prezioso ma in mano alla Germania avrebbe legato il Camerun al Congo e avrebbe creato una frontiera comune con la grande colonia belga e se quella colonia fosse stata immessa sul mercato, la Germania avrebbe potuto impossessarsene e possedere così una fascia ininterrotta di territorio attraverso tutta l’Africa dall’Oceano Indiano alla

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Poiché la questione libica era sempre stata legata dal nostro governo a quella marocchina, era opportuno che l’Italia cogliesse l’occasione per realizzare i suoi progetti, ma nella lettera che il ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano, scrisse a Giolitti e al re per sostenere la necessità di un tempestivo intervento in Libia traspariva anche il timore di creare una nuova crisi turca e di dare all’Austria il pretesto per un nuovo intervento nei Balcani. D’altra parte – sosteneva San Giuliano – la soluzione della questione di Tripoli avrebbe favorito l’Italia sia nella rinegoziazione della Triplice «sia nei negoziati sui compensi determinati da eventuali mutamenti della situazione nei Balcani»8. Rimanevano poi le pressioni dell’opinione pubblica italiana «perché» – continuava San Giuliano – «è vivo e diffuso in Italia il sentimento, per quanto infondato, che la politica estera del governo è troppo remissiva e che gli interessi e la dignità dell’Italia non sono abbastanza rispettati ed è vivo e generale il bisogno che l’energia nazionale si affermi vigorosamente in qualche modo». Quel «sentimento» era reale e corrispondeva alla sensazione sempre più diffusa che il paese avesse bisogno dell’impegno in una impresa militare per offrire un obiettivo alle energie accumulate negli ultimi anni di crescita economica e civile. Un tema questo che, da leit-motiv del movimento nazionalista, si stava diffondendo anche negli ambienti moderati, e che dopo la Libia contribuirà a indurre una parte della nazione a sostenere la partecipazione alla prima guerra mondiale. C’era, beninteso, anche la speranza di rivincita dalla prima sfortunata esperienza africana e, più in profondità, la convinzione che il completamento dell’Unità e il ruolo di grande potenza che l’Italia stava cercando richiedessero una sicura affermazione militare. Così, tra la riluttanza e la prudenza della classe dirigente – o almeno di una parte di essa – e l’entusiasmo, non privo di retorifoce del Congo». L’accordo fu poi raggiunto il 4 novembre 1911: la Germania ricevette una striscia di territorio che le dava l’accesso al fiume Congo e la promessa della Francia di non esercitare il suo diritto di precedenza nell’acquisto del Congo belga (che era proprietà personale di Leopoldo, re del Belgio) senza un preventivo accordo con Berlino. 8 Promemoria del ministro degli Esteri, A. di San Giuliano, 28 luglio 1911, in Quarant’anni di politica italiana. Dalle carte di Giovanni Giolitti, vol. III, a cura di C. Pavone, Milano 1962, pp. 52-56.

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ca, della maggioranza della popolazione, l’Italia andò in Libia, nel momento più adatto per il paese, ma meno opportuno per la situazione internazionale e nonostante tutte le garanzie e i riconoscimenti degli anni precedenti. La decisione di dare il via alla spedizione veniva assunta in gran segreto da re Vittorio Emanuele III e da Giolitti in un colloquio al castello di Racconigi il 17 settembre 1911. Ricorda laconicamente lo stesso Giolitti: «Esposi al re la situazione ed ebbi il consenso alla nostra azione e a tutti gli atti relativi»9. L’Europa seguì con scarsa simpatia, se non addirittura con ostilità, la nuova avventura africana dell’Italia. Essa, come San Giuliano aveva previsto, fu foriera di un nuovo, ennesimo conflitto – le due guerre balcaniche – che in parte contribuì a innescare il processo che avrebbe portato alla crisi tra Austria e Serbia e alla prima guerra mondiale10. L’impresa libica non fu la passeggiata militare che era stata immaginata dai fautori dell’intervento. Preparata sul piano diplomatico, doveva avvenire nella quasi completa ignoranza delle condizioni ambientali e degli umori della popolazione. Già pochi giorni dopo l’inizio delle ostilità, nell’ottobre 1911, la resistenza delle poche migliaia di turchi che costituivano la guarnigione di Tripoli spalleggiati dalle popolazioni arabe arrestò l’avanzata italiana e provocò gravi perdite. A Sciara Sciat, una località alla periferia di Tripoli, quasi 400 bersaglieri furono massacrati dalla popolazione insorta, provocando una feroce rappresaglia da parte italiana che avrà larga e sfavorevole eco sul piano internazionale. Il corpo di spedizione, inizialmente di 35.000 uomini, fu portato a 100.000 e per vincere la resistenza dei turchi e dei senussi dovette essere impiegata un’enorme quantità di mezzi, compresi i Ibidem. «Quando ai primi dello scorso autunno dopo un ultimatum brutale e inaccettabile si aprono le ostilità fra il Regno d’Italia e l’impero ottomano, anche coloro che di solito sono ben informati provano una sorpresa molto vicina alla contrarietà. In seguito, con una successione di mosse apparentemente scombinate nella condotta della guerra sia nei riguardi dell’avversario che delle potenze neutrali, l’Italia ha confuso le idee a molti osservatori imparziali.» Da L.R., Tripoli et l’ésprit public en Italie, in «Cronique Sociale de France», marzo 1912, pp. 81 sgg. I termini dell’ultimatum furono criticati da gran parte della stampa europea. 9

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primi aerei. L’occupazione della Tripolitania e della Cirenaica, che rimase per molti anni limitata alla zona costiera, fu seguita da quella di dodici isole (il Dodecaneso) appartenenti alla Turchia, nell’arcipelago delle Sporadi, nel tentativo di forzare i turchi al negoziato di pace che, iniziato quasi subito sotto la spinta di Austria e Germania, timorose che l’episodio libico degenerasse in una guerra più ampia, si svolse in parallelo con le operazioni militari per approdare nell’ottobre 1912 alla pace di Losanna. Con l’accordo raggiunto, il governo turco – pur non riconoscendo la sovranità italiana sulla Libia – si impegnava a ritirare le proprie truppe e i propri funzionari dal paese in cambio del ritiro italiano dal Dodecaneso, che tuttavia non avrà luogo per l’inadempienza dei turchi i quali lasceranno alcuni presidi in Cirenaica. La guerra era costata all’Italia 3.431 morti, di cui quasi 2.000 per malattia, la perdita o il logorio di una grande quantità di materiale bellico che farà sentire le sue conseguenze al momento dell’ingresso nella prima guerra mondiale e comporterà una spesa di più di un miliardo di lire11. Sul piano politico-diplomatico l’impresa di Libia interruppe la lenta deriva dell’Italia verso le posizioni dell’Intesa in fase di formazione. Dopo il riavvicinamento tra Russia e Gran Bretagna, i rapporti tra Parigi e Londra diventarono sempre più stretti e in occasione della crisi marocchina il governo inglese si schierò a fianco di quello francese. Un incidente turbò invece i rapporti italo-francesi durante la guerra libica. Due navi francesi, il «Carthage» e il «Manouba», indiziate di contrabbando d’armi a favore dei turchi, venivano fermate da un’unità da guerra italiana al largo della Sardegna e avviate nel porto di Cagliari. Stampa e Parlamento francesi protestarono vivacemente e la questione venne portata davanti al Tribunale dell’Aja che dette torto all’Italia, condannata a pagare i danni. Un episodio che in altri momenti sarebbe stato di più limitata importanza, accese gli animi di ambedue le parti per il nervosismo che si stava diffondendo in Europa. Al peggioramento dei rapporti con la Francia corrispondeva un rafforzamento di quelli con la Germania che durante tutta la 11 Candeloro, Storia dell’Italia moderna cit., vol. VII, p. 329-57. Cfr. anche S. Romano, La quarta sponda: la guerra di Libia 1911-1912, Milano 2005.

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vicenda libica aveva sostenuto le ragioni italiane nonostante la tradizionale intesa tra Berlino e Costantinopoli; allo stesso modo l’Austria, dopo un iniziale rifiuto, aveva dato via libera alle operazioni italiane in Egeo, anche in seguito alle pressioni tedesche. Un episodio, che dette particolare soddisfazione agli italiani, fu la rimozione temporanea dalla carica di capo di Stato maggiore austriaco del generale Franz Conrad von Hötzendorf che, come già al tempo del terremoto di Messina, era tornato alla carica per proporre un attacco proditorio all’Italia, mentre il nostro esercito era impegnato in Libia. Fu pertanto in un clima di riconfermata amicizia che si arrivò nel 1912, in anticipo di due anni dalla naturale scadenza, al rinnovo della Triplice, la cui validità veniva prolungata per ben quattordici anni, fino al 1926. Era il prezzo pagato dall’Italia per il sostegno austro-tedesco nel conflitto italo-turco, ma rifletteva anche la riluttanza della classe politica ad affrontare i rischi di una scelta alternativa, pur non mancando le spinte in tale direzione come quella della Corona. Con il nuovo testo Austria e Germania prendevano atto del possesso italiano della Libia, ma ora la decisione del nostro governo di rinnovare il trattato era per lo meno imprudente, come dovevano dimostrare gli eventi che due anni dopo sfociarono nella prima guerra mondiale. Le contraddizioni della politica italiana non si fermavano qui. Assorbiti gli effetti dell’incidente del «Manouba», riprendeva il dialogo franco-italiano che, tuttavia, si interrompeva nuovamente non appena i francesi venivano a conoscenza di un nuovo accordo di collaborazione navale stipulato nel giugno 1913 tra Roma e Vienna che prevedeva un comando comune per le due flotte in caso di guerra contro la Francia. Ma la politica pendolare tra la Triplice Alleanza e la Triplice Intesa era destinata a nuovi e più clamorosi sviluppi.

3. Sarajevo dà fuoco alle polveri Nel corso dell’anno precedente all’assassinio dell’arciduca Ferdinando, erede al trono d’Austria, e di sua moglie Sofia, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914, la posizione dell’Italia tra le due grandi

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alleanze era di nuovo cambiata. Le relazioni con la Francia erano migliorate e si era rinsaldato il rapporto tradizionale con la Gran Bretagna. I negoziati italo-inglesi per un accordo di collaborazione diretto a mantenere lo status quo nel Mediterraneo erano ben avviati quando furono interrotti bruscamente dallo scoppio del conflitto. Erano invece peggiorati i rapporti con l’Austria; sia nell’area balcanica, dove i tentativi italiani di stabilire una durevole influenza sull’Albania si scontravano sistematicamente con gli ostacoli frapposti dall’impero asburgico, sia sul fronte del movimento irredentista. In seguito alle misure restrittive in materia di impieghi pubblici nei confronti dei cittadini di lingua italiana assunte dal governo austriaco nell’agosto 1913, si verificava una nuova ondata di manifestazioni irredentistiche in varie città italiane causate anche dal rude trattamento riservato dalla polizia austriaca ai partecipanti a una dimostrazione filo-italiana a Trieste. Più distesi erano invece i rapporti con la Germania. Nella primavera del 1914, colloqui tra il capo di Stato maggiore italiano, generale Alberto Pollio, e il collega tedesco, generale Helmuth von Moltke, rinnovavano la convenzione militare italo-tedesca del 1888, successivamente decaduta. La nuova convenzione prevedeva, come già quella originale, l’invio di un’armata italiana sul fronte del Reno nel caso di guerra contro la Francia, ma ipotizzava addirittura la possibilità che truppe italiane fossero impiegate sul fronte orientale contro la Russia. Impegni alquanto temerari, date le condizioni dell’esercito italiano, le cui unità migliori erano impegnate in Libia, dove la situazione non era ancora normalizzata. La successione degli sviluppi seguiti all’episodio di Sarajevo fu così rapida da lasciare poco spazio ai tentativi di compromesso e di mediazione esperiti soprattutto dal governo britannico. Più che a ricevere soddisfazione per l’assassinio dell’arciduca Ferdinando, l’ultimatum del 23 luglio 1914 dell’Austria alla Serbia mirava a risolvere il lungo conflitto con lo Stato serbo con la sua dissoluzione. Il governo austriaco era certo di poter contare sulla piena solidarietà della Germania nel caso di un probabile intervento russo a difesa dei serbi; pertanto respingeva il tentativo di Belgrado di trattare le condizioni dell’ultimatum e dichiarava la guerra il 28 luglio. Il giorno successivo il governo tedesco, in seguito a una dichiarazione del ministro degli Esteri britannico, sir Edward Grey,

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apprendeva che in caso di attacco alla Francia la Gran Bretagna sarebbe andata in suo aiuto. Il cancelliere tedesco, Theobald von Bethmann-Hollweg, cercava allora di frenare l’azione austriaca, ma a questo punto l’iniziativa passava ai militari. Il piano tedesco di attacco alla Francia (messo a punto da vari anni dal generale Alfred von Schlieffen) prevedeva la guerra su due fronti e quindi richiedeva un’azione fulminea delle truppe del kaiser Guglielmo II contro la Francia attraverso il Belgio; dopo aver liquidato la resistenza francese, le unità tedesche, trasferite rapidamente sul fronte orientale grazie all’efficiente sistema ferroviario nazionale, avrebbero fronteggiato l’esercito russo i cui tempi di mobilitazione erano particolarmente lunghi. Pertanto il fattore tempo era determinante per il successo del piano. Così il 30 luglio il capo di Stato maggiore tedesco, generale von Moltke, senza informare né il cancelliere né l’imperatore, inviava un telegramma al collega austriaco Conrad von Hötzendorf, reintegrato nella sua funzione di capo di Stato maggiore, garantendo il sostegno tedesco ed esortandolo a mobilitare immediatamente il dispositivo militare sul fronte orientale contro la Russia. Cosa che gli austriaci facevano il giorno dopo, preceduti di poco dai russi. A questo punto scattava «l’automatismo delle mobilitazioni». Lo stesso giorno, a distanza di poche ore, il governo tedesco intimava a quello russo di sospendere la mobilitazione; non ottenendo risposta mobilitava a sua volta e il 1° agosto dichiarava la guerra. Seguivano il giorno successivo un ultimatum tedesco alla Francia – che, apprestandosi a entrare in guerra in esecuzione dell’alleanza con la Russia, aveva anch’essa mobilitato – e una nota di Berlino al governo belga con la richiesta del libero passaggio sul suo territorio per l’esercito tedesco. Di fronte al rifiuto belga, il 3 agosto la Germania dichiarava la guerra a Francia e Belgio e il giorno dopo la Gran Bretagna faceva altrettanto con la Germania. Pur in mancanza di un formale trattato di alleanza, il governo di Londra – che con quello di Parigi aveva stipulato nel 1904 una Entente cordiale e con quello di Pietroburgo una formale alleanza nel 190712 – aveva dato a Parigi l’assi12 L’accordo tra Gran Bretagna e Russia era stato raggiunto grazie alla soluzione dei conflitti sulle rispettive zone d’influenza in Asia centrale (Afghanistan,

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curazione che «se ambedue i governi avessero avuto seri motivi per attendersi un attacco non provocato da parte di una terza potenza si sarebbero immediatamente consultati in vista di una azione comune»13, per la quale nel corso di vari anni i capi militari di Francia e Gran Bretagna si erano frequentemente consultati. Era sufficiente perché il governo britannico, impegnato da sempre a mantenere gli equilibri sul continente, si sentisse indotto a intervenire. Il 2 agosto 1914, dopo due sedute del Consiglio dei ministri, l’Italia dichiarava la sua neutralità e alla richiesta dell’ambasciatore tedesco, Hans von Flotow, che sollecitava al nostro governo l’adempimento degli obblighi previsti dalla Triplice, il ministro degli Esteri, San Giuliano, rispondeva che il trattato non obbligava l’Italia all’intervento poiché la Germania e l’Austria non erano state aggredite e l’alleanza aveva carattere difensivo. Tuttavia – aggiungeva San Giuliano – l’Italia si riservava di considerare la possibilità di aiutare i suoi alleati nel caso che i suoi interessi «fossero salvaguardati con previ e precisi accordi»14. Era un chiaro riferimento a condizionare ogni eventuale partecipazione italiana alla concessione di compensi che erano comunque previsti dall’articolo 7 della Triplice, come contropartita alle acquisizioni austriache, anche in caso di neutralità. La posizione italiana era ineccepibile, come successivamente riconosceranno anche i due governi alleati, Austria e Germania, che avevano ambedue iniziato la guerra; inoltre nei giorni dell’apertura della crisi era mancata qualsiasi consultazione con il governo di Roma che, del resto, fin dal primo momento aveva chiarito la sua posizione in un dispaccio del 24 luglio di San Giuliano agli ambasciatori italiani a Vienna e a Berlino, Giuseppe Avarna e Riccardo Bollati: «Il fatto che in noi non esista tale obbligo [quello di entrare in guerra a fianco degli austro-tedeschi] non esclude India, Tibet e Iran). L’accordo creava la base per una costante collaborazione diplomatica tra Francia, Gran Bretagna e Russia che costituirà la principale caratteristica della Triplice Intesa. 13 E. Grey, Twenty-five years, London 1925, p. 19. La dichiarazione di Grey risaliva al novembre 1912, quando il governo inglese chiese a quello francese di spostare le navi della flotta atlantica nel Mediterraneo per proteggervi gli interessi britannici nel momento in cui la flotta inglese si concentrava nel Mare del Nord per contenere la crescente influenza navale tedesca. 14 Documenti Diplomatici Italiani (Ddi), Serie IV, vol. XII, Roma 1964, p. 499.

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che a noi possa convenire di prendere parte all’eventuale guerra qualora ciò corrisponda ai nostri vitali interessi»15. La posizione del governo veniva ribadita in un rapporto di San Giuliano a re Vittorio Emanuele III che l’approvò e la confermò in un successivo colloquio con il tenente colonnello tedesco Paul Ludwig von Kleist, inviato del kaiser, Guglielmo II, che sollecitava l’intervento italiano. Nel frattempo il governo tedesco tentava di convincere gli austriaci a pagare il prezzo per la partecipazione italiana con la cessione del Trentino, ma il governo austro-ungarico respingeva nettamente la proposta e per il momento l’attenzione e gli sforzi austro-tedeschi si concentrarono nel vigilare sul mantenimento della neutralità da parte del governo di Roma. Era soprattutto la Germania a seguire molto da vicino la situazione italiana; a tal scopo, in dicembre, sostituiva l’ambasciatore von Flotow con Bernhard von Bülow, uno dei politici tedeschi più brillanti e di più lunga esperienza (era stato ministro degli Esteri e cancelliere) che a Roma aveva vaste conoscenze. Il sospetto – che preoccupava in particolare i tedeschi – di un passaggio dell’Italia all’Intesa era tutt’altro che infondato. Contemporaneamente alla dichiarazione di neutralità, il governo italiano aveva richiamato alle armi due classi di leva, aveva preso alcune misure di carattere economico per far fronte a una eventuale situazione emergenziale e qualche giorno dopo aveva deciso uno stanziamento straordinario per l’esercito di 120 milioni di lire. Erano segnali che l’Italia si era chiamata fuori solo per attendere la maturazione del momento e delle convenienze più opportune per schierarsi. Del resto, già all’inizio delle ostilità, i governi della Triplice Intesa avevano sondato la disponibilità italiana a intervenire al loro fianco con una avance del ministro degli Esteri russo, Sergej Sazonov all’ambasciatore Andrea Carlotti, rappresentante italiano a Pietroburgo. Il sondaggio dell’Intesa cadeva su un terreno fertile perché già l’8 agosto 1914, in una lettera segretissima al presidente del Consiglio, Antonio Salandra, San Giuliano aveva posto il problema di un ingresso in guerra contro l’Austria ma solo se «si abbia certez15

Ibidem.

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za di vittoria»16. Anche Vittorio Emanuele III ne era perfettamente al corrente. «San Giuliano mi dirige noto memoriale per entrata in guerra», annoterà nel suo Diario17. In attesa degli eventi sul fronte militare, già l’11 agosto San Giuliano mandava le prime istruzioni all’ambasciatore a Londra, Guglielmo Imperiali, per eventuali negoziati in vista di un ingresso italiano a fianco dell’Intesa, a condizione di ottenere «garanzie d’ordine militare e politico»18. La prima reazione del ministro degli Esteri, sir Edward Grey, era stata favorevole; gli inglesi erano disponibili all’apertura di un negoziato che assicurasse all’Italia consistenti compensi territoriali a guerra finita, ma per tutto il mese di agosto le trattative venivano sospese per essere riprese solo a metà settembre quando, dopo la battaglia della Marna, che bloccava l’avanzata tedesca verso Parigi, appariva chiaro che il «piano Schlieffen» per una guerra lampo era avviato al fallimento e il conflitto entrava in una fase di stallo. Le decisioni italiane erano pertanto rimesse alle sorti delle operazioni militari sul campo, nonché al dibattito interno che si stava accendendo tra interventisti e neutralisti e che a sua volta sarà fortemente influenzato dall’andamento delle operazioni militari. Tuttavia era evidente fin dall’inizio una netta disposizione del governo e della diplomazia, ma almeno in un primo momento non dei militari, a favore dell’intervento a fianco della Triplice Intesa, poiché Francia e Gran Bretagna erano in grado di garantire all’Italia concessioni di gran lunga più vantaggiose. D’ora in poi sarà la filosofia del «sacro egoismo» a guidare non solo l’azione del governo e in particolare di San Giuliano, ma anche gli umori della piazza.

4. La gestione della neutralità Il processo che portò prima a negoziare con Vienna i compensi previsti dall’articolo 7 della Triplice, nel caso di guadagni terriIvi, pp. 83-84. G. Artieri, P. Cacace, Elena e Vittorio, mezzo secolo di regno tra storia e diplomazia, Milano 1999, p. 244. 18 Ddi, Serie V, vol. I, Roma 1964, pp. 115-16. 16 17

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toriali da parte dell’Austria, per garantire al governo asburgico la neutralità italiana, e successivamente ad aprire delle trattative con l’Intesa per il nostro ingresso in guerra contro gli austro-tedeschi creò una situazione per cui il governo italiano si trovò a trattare per qualche mese con ambedue le parti contemporaneamente. Sia l’uno che l’altro dei due interlocutori della diplomazia italiana sospettavano dell’esistenza di un doppio negoziato, ma mentre gli anglo-franco-russi erano interessati a una sua rapida conclusione, l’Austria trovava conveniente prolungarlo con proposte vaghe e imprecise. Nel corso di dieci mesi, tra l’agosto 1914 e il maggio 1915, il governo austriaco avanzava ben quattro proposte. L’ultima veniva comunicata in extremis il 6 maggio: tre giorni dopo la denuncia da parte dell’Italia della Triplice e a poco più di due settimane dalla dichiarazione di guerra. Solo con le ultime due proposte il governo di Vienna dimostrava di essere disposto a cedere Trento e il Trentino, ma non Trieste, e comunque veniva sempre respinta la clausola della cessione immediata, conditio sine qua non per il governo italiano che temeva che a guerra conclusa con l’eventuale vittoria degli imperi centrali il governo austriaco si sarebbe rimangiato gli impegni presi. Le trattative con l’Intesa, che erano state iniziate, sospese e poi riprese, venivano riaperte formalmente il 4 marzo 1915 dopo l’invio di un lungo telegramma di istruzioni (rimasto famoso nella storia della diplomazia italiana come il «telegrammone»)19 di Sidney Sonnino, succeduto a San Giuliano improvvisamente scom19 Il «telegrammone» era stato inviato il 16 febbraio ma con l’avvertenza di non comunicarlo per il momento a sir Edward Grey. Per il testo del «telegrammone» vedi S. Sonnino, Carteggio 1914-1916, a cura di P. Pastorelli, Roma-Bari 1974, pp. 194-95. 20 La morte sorprende Antonino di San Giuliano Paternò Castello al suo tavolo di lavoro della Consulta dove lavora assiduamente malgrado la salute malandata. Con lui scompare uno dei più acuti e preparati ministri degli Esteri del Regno. Dirà di lui Vittorio Emanuele III, nel 1922, al generale Angelo Gatti: «San Giuliano è il più grande uomo di Stato che abbia conosciuto. Aveva un valore straordinario, superiore a tutti. Se fosse andato a Parigi per la conferenza di pace avrebbe dominato ogni altro: Clemenceau, Lloyd George, Wilson». Cfr. «Italia Nuova», 4 febbraio 1948. Sulla figura di San Giuliano cfr. R. Longhitano, Antonino di San Giuliano, Firenze 1954.

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parso il 16 ottobre 191420, all’ambasciatore Imperiali, e si concludevano il 26 aprile successivo con la firma del Trattato di Londra. Le richieste italiane vi erano largamente accolte soprattutto in materia di concessioni territoriali. Venivano assegnati all’Italia il Trentino, l’Alto Adige fino al Brennero, Trieste, le contee di Gorizia e Gradisca, e la penisola istriana fino al Quarnaro, metà della Dalmazia con le città di Zara e Sebenico, nonché un certo numero di isole a nord e a ovest della stessa Dalmazia. L’Albania – di cui l’Italia aveva già a dicembre occupato il porto di Valona, conquista che veniva riconosciuta nel trattato – sarebbe stata divisa tra Italia, Serbia e Grecia. Inoltre, nel caso di spartizione del territorio turco (l’impero ottomano era entrato in guerra a fianco degli imperi centrali a fine ottobre 1914), una parte della provincia mediterranea di Adalia sarebbe stata assegnata all’Italia, che avrebbe avuto diritto anche a compensi coloniali se Francia e Gran Bretagna avessero accresciuto i loro possedimenti africani. Per di più, veniva concesso un prestito immediato di cinquanta milioni di sterline che il governo italiano aveva insistentemente richiesto. Sul piano militare veniva garantita la collaborazione delle flotte francese e inglese per le operazioni contro la flotta austriaca in Adriatico e una offensiva della Russia contro le truppe asburgiche sul fronte orientale per evitare che l’Austria rivolgesse tutte le proprie forze contro l’Italia al momento della sua entrata in guerra, che veniva indicata in una data non successiva al 26 maggio. Fin qui l’azione della diplomazia, ma per valutare il comportamento del governo italiano vanno considerati due altri aspetti: il ruolo delle gerarchie militari e quello dei leader politici sullo sfondo delle azioni del movimento interventista. Una delle caratteristiche della vicenda che si svolge tra il luglio 1914 e l’ingresso dell’Italia in guerra è la sostanziale mancanza di comunicazioni tra capi militari e politici. Alla vigilia di una guerra che, dopo la Marna e la forte offensiva russa in Galizia, prometteva di essere di durata indefinita ed estremamente costosa in risorse e in vite umane, l’Italia si scopriva impreparata a parteciparvi soprattutto nel ruolo di grande potenza che i dirigenti politici e il movimento interventista le assegnavano. Nel ’14 l’esercito italiano era impreparato non solo sotto il pro21

E.J. Dillon, inviato del «Daily Telegraph» in Italia, così scriveva dell’im-

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filo degli armamenti, ma anche sotto quello della logistica e della strategia21. Era carente di mitragliatrici (che si riveleranno l’arma vincente nella guerra di trincea) e la sua mobilitazione si svolgeva a ritmi estremamente lenti e richiedeva circa un mese di tempo (come quella per l’esercito russo). Mancava perfino di equipaggiamenti invernali e Luigi Cadorna, diventato capo di Stato maggiore dopo la morte del generale Alberto Pollio, sperava che i negoziati per l’intervento, intrapresi nell’autunno, si prolungassero al fine di evitare l’inizio delle operazioni durante la stagione invernale perché mancavano i cappotti per i soldati. Inoltre gran parte del corpo ufficiali, simpatizzante per la Germania, pensava che la guerra sarebbe stata combattuta sotto le bandiere della Triplice contro la Francia; e in effetti i soli piani esistenti prevedevano una guerra sul fronte occidentale. Già il 31 luglio 1914, alcuni giorni dopo l’ultimatum austriaco alla Serbia, il generale Cadorna, subentrato a Pollio da appena quattro giorni, presentava al re il piano previsto dalla convenzione militare del 1888 che era stato rinegoziato dallo stesso Pollio e che prevedeva il trasferimento di un’armata italiana sul fronte del Reno. Vittorio Emanuele III, che non condivideva le simpatie per la Germania di parte delle gerarchie militari e già allora aveva forti riserve su di una guerra combattuta a fianco degli imperi centrali, approvava tuttavia «i concetti di base» del piano. Ma al tempo stesso spingeva per un intervento al fianco dell’Intesa. Molti ufficiali e lo stesso Cadorna pensavano che una guerra contro la Francia sarebbe stata molto più conveniente per il paese in quanto, nel caso di vittoria tedesca, che gran parte degli alti comandi italiani davano per scontata (almeno fino alla battaglia preparazione dell’esercito italiano, seguita da un rapido recupero nei mesi successivi all’inizio dell’intervento: «Lo scoppio dell’attuale conflitto ha colto l’Italia di sorpresa in una situazione di totale impreparazione militare [...]. Quello che è stato fatto nei sette mesi successivi può essere definita un’impresa rara. L’esercito più che riorganizzato è stato creato. L’Italia [...] ha dovuto raccogliere ed equipaggiare un enorme esercito, procurarsi provviste e munizioni, rifornire le truppe di artiglieria, addestrare gli uomini e in generale preparare se stessa a far parte della grande potenza. E a quanto è dato di vedere alla fine c’è riuscita. D’ora innanzi perciò essa è padrona dei propri destini». Cfr. E.J. Dillon, From the Triple to the Quadruple Alliance, Why Italy Went to War, London, in E. Ragionieri, Italia giudicata: 1861-1945. Ovvero la storia degli italiani scritta dagli altri, Roma-Bari 1969, p. 441.

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della Marna), avrebbe permesso all’Italia di rivendicare la città di Nizza, la Savoia, la Corsica e Tunisi. Anche nei mesi successivi, quelli dei negoziati con le due parti, i contatti tra politici e militari saranno ridotti al minimo e davanti alle pressioni degli alti gradi delle forze armate, che chiederanno i mezzi necessari a mettere in campagna l’esercito, il governo si muoverà con lentezza. Sul tema degli stanziamenti finanziari per le forze armate, nascerà un conflitto tra il presidente del Consiglio, Salandra, e il suo ministro del Tesoro, Giulio Rubini, che costringerà Salandra alle dimissioni; nel successivo governo Salandra, prontamente reincaricato, procederà alla sostituzione di Rubini, con Paolo Carcano.

5. Interventisti e neutralisti Se l’influenza dei militari nelle scelte del governo sarà pressoché irrilevante, più importante sarà quella del movimento interventista. Le forze favorevoli all’intervento, per quanto particolarmente attive e rumorose, soprattutto nella fase finale, quella delle tre settimane precedenti la dichiarazione di guerra, restavano una minoranza; quasi esclusivamente di estrazione borghese, con larga rappresentanza nell’ambiente universitario tra studenti e docenti, e in quelli artistici e letterari, nonché tra le professioni legali e pubblicistiche. Favorevoli all’intervento erano anche i maggiori gruppi industriali, soprattutto nei settori della siderurgia e della meccanica (Fiat, Ansaldo, Ilva), che sosterranno finanziariamente la stampa e il movimento interventista. I fautori dell’intervento coprivano quasi tutto l’arco politico. Interventisti erano i partiti della sinistra democratica, repubblicani e radicali e cioè gli stessi partiti che avevano contribuito negli anni precedenti al movimento irredentista. L’estrema sinistra era rappresentata dai sindacalisti rivoluzionari (Alceste De Ambris, Filippo Corridoni, Michele Bianchi), che, a eccezione di Corridoni morto in guerra, alla fine del conflitto confluiranno nelle file del primo fascismo, e persino da un gruppo di anarchici.

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A destra l’interventismo si identificava soprattutto con il movimento nazionalista che, nato a Firenze nel dicembre 1910 come Associazione nazionalistica italiana, sotto la guida di Enrico Corradini e di Luigi Federzoni poteva contare sul sostegno di giornali e riviste vivaci anche se spesso di vita breve: «Il Tricolore» a Torino, «Il Carroccio» a Roma, «La Grande Italia» a Milano, «La Nave» a Napoli, e più tardi l’«Idea Nazionale» che, nato come periodico, diventava quotidiano proprio alla vigilia del conflitto. Interventisti erano presenti anche tra i liberali che, a differenza dei partiti di sinistra e dei nazionalisti, fautori fin dall’autunno del 1914 dell’intervento a fianco dell’Intesa, restarono più a lungo sulle posizioni tripliciste per poi distaccarsene. Un’importante azione a favore dell’intervento fu svolta dal «Corriere della Sera», il cui direttore Luigi Albertini era un convinto sostenitore della guerra contro l’Austria, ma anche «Il Giornale d’Italia» e «Il Resto del Carlino», meno apertamente del «Corriere della Sera», sostennero la causa interventista. Nei grandi giornali a diffusione nazionale, solo «La Stampa» di Torino, fondata da Alfredo Frassati, era su posizioni neutraliste, data l’influenza che vi esercitava Giolitti. In maggioranza interventista era la generazione più giovane di artisti e intellettuali, futuri protagonisti della cultura italiana durante e anche dopo il fascismo: da Giuseppe Prezzolini a Gaetano Salvemini, da Giovanni Gentile a Giovanni Papini, da Gioacchino Volpe a Giuseppe Lombardo Radice. Su posizioni neutraliste era invece schierato Benedetto Croce. Naturalmente interventista era il movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti, il cui «Manifesto» glorificava la guerra come «unica igiene del mondo»22. Leader riconosciuto del movimento interventista e animatore delle «radiose giornate di maggio» che, in una serie di manifestazioni nelle maggiori città italiane, precederanno la dichiarazione di guerra era Gabriele D’Annunzio. Erano su posizioni neutraliste, insieme a gran parte dei liberali, i socialisti e la grande maggioranza dei cattolici. Fedele alla sua vocazione internazionalista, il Partito socialista sostenne fino all’intervento la dichiarazione di neutralità, e dopo l’entrata in guer22 È una delle frasi del Manifesto futurista: cfr. U. Apollonio, Futurismo, Milano 1970, p. 19.

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ra assunse una posizione ambigua, espressa dallo slogan «né aderire né sabotare». Ma Benito Mussolini, che dal XIII congresso di Reggio Emilia era diventato direttore dell’«Avanti!» e uno dei leader più in vista della corrente rivoluzionaria, ma già in conflitto con il partito perché fautore dell’intervento, veniva espulso dal Psi in seguito alla pubblicazione del suo giornale «Il Popolo d’Italia», fondato grazie agli aiuti finanziari procuratigli da Filippo Naldi, direttore del «Resto del Carlino» o – come altri sospetteranno – dall’ambasciatore francese a Roma, Camille Barrère. «Il Popolo d’Italia» iniziava le pubblicazioni nel novembre 1914 e diventava una delle voci interventiste più battagliere in nome di una rivoluzione morale e politica che, secondo il suo direttore, inevitabilmente avrebbe seguito la fine del conflitto. Largamente neutralista era il movimento cattolico, in ciò sostenuto dal papa Benedetto XV che condannò la guerra all’inizio nel novembre 1914 e nuovamente nell’agosto 1917 in un documento inviato ai governi dei paesi belligeranti che definiva il conflitto «l’inutile strage» e indicava alcuni principi per il raggiungimento di una pace equa, non molto diversi dai quattordici punti di Woodrow Wilson23. Ma la forza neutralista più importante era quella del Partito liberale attorno a Giovanni Giolitti ed è tra il leader liberale, più volte presidente del Consiglio e dominatore della scena politica nel primo decennio del secolo fino alla guerra di Libia, il presidente del Consiglio in carica, Antonio Salandra, liberale di destra, e il re Vittorio Emanuele III che si decideranno le sorti del paese. Giolitti non era né triplicista né fautore dell’Intesa, ma prevedeva che la guerra sarebbe stata lunga e, ben conoscendo le debolezze economiche e militari del paese, voleva mantenerlo fuori del conflitto. Sostenne pertanto la dichiarazione di neutralità e, con il voto dei suoi seguaci in Parlamento, le decisioni del governo Salandra, che sembra gli avesse garantito il suo personale sostegno per mantenere la neutralità italiana anche in futuro, cercando di negoziarla e di ottenere dall’Austria i maggiori compensi possibili. 23 Per il testo del documento vedi Le encicliche sociali dei Papi da Pio IX a Pio XII (1894-1946), a cura di I. Giordani, Roma 1948.

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Giolitti approvò questa politica e anzi, nel febbraio 1915, in una lettera al deputato Camillo Peano che veniva pubblicata sulla «Tribuna», riconfermava il suo sostegno a Salandra e sosteneva che «date le condizioni dell’Europa parecchio poteva ottenersi senza una guerra»24, con evidente riferimento a quei compensi che si aspettavano dall’Austria in cambio della neutralità. Con quella lettera e quel «parecchio», Giolitti diventava il campione della neutralità e il punto di riferimento di tutti coloro – ed erano la grande maggioranza – che restavano contrari alla guerra. Quando il 9 maggio rientrò a Roma, 320 deputati e un centinaio di senatori lasciarono a casa sua il proprio biglietto da visita come segno di solidarietà e di sostegno. Nel momento in cui Giolitti, che apparentemente ne era stato tenuto all’oscuro, venne a conoscenza del Trattato di Londra nei suoi particolari, nel tentativo di evitare la partecipazione al conflitto che secondo lui avrebbe avuto conseguenze disastrose per il paese, chiese a Salandra di recedere dal trattato e di far approvare dal Parlamento una mozione che confermasse la neutralità italiana e autorizzasse le trattative con l’Austria per i compensi territoriali che il governo di Vienna si era detto disposto a concedere. In altre parole, Giolitti chiedeva la denuncia del Trattato di Londra; una decisione che certamente avrebbe avuto conseguenze sfavorevoli per l’immagine dell’Italia sul piano internazionale, a cui però il vecchio statista anteponeva gli interessi immediati della nazione. Ma la soluzione suggerita da Giolitti – oltre alle dimissioni del governo che Salandra decise di dare il 13 maggio – avrebbe comportato anche l’abdicazione del re, che aveva avallato presso i governi dell’Intesa il Patto di Londra. A poco più di una settimana dall’ingresso in guerra, secondo gli impegni presi con l’Intesa, l’Italia rimaneva senza governo per qualche giorno. Si determinò una condizione di vuoto di potere con la prospettiva di una gravissima crisi istituzionale e politica che avrebbe rischiato di spaccare il paese. A questo punto gli avvenimenti si svolgevano in rapida successione tra le manovre al 24 In realtà nella lettera inviata a Peano, Giolitti scriveva: «Credo che molto nelle attuali condizioni dell’Europa potersi ottenere senza guerra». Per la pubblicazione, Peano attenuava quel «molto» con «parecchio». Quarant’anni di politica italiana cit., vol. III, pp. 119-20.

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vertice del governo e dello Stato, e sotto la pressione delle dimostrazioni favorevoli alla guerra del movimento interventista. Il re, dopo un colloquio con Giolitti e una breve consultazione con i leader politici, tentava di formare un nuovo governo adatto a gestire la complessa situazione, ma non avendo trovato la persona disposta a dirigerlo, reincaricava Salandra che otteneva i pieni poteri dal Parlamento con 407 voti favorevoli e solo 74 contrari. Il 23 maggio veniva inviato un ultimatum a Vienna e il 24 seguiva la dichiarazione di guerra all’Austria. Il «no» alle dimissioni di Salandra sarà un passaggio cruciale nel lungo regno di Vittorio Emanuele III. Ancora oggi è aperto il dibattito sul significato storico di quel gesto. Per molti si trattò di un vero e proprio «colpo di Stato» costituzionale. Nell’arco di pochi giorni si verificava un vero e proprio rovesciamento di situazione avvenuto per le decisioni del sovrano e di un capo del governo dimissionario che così rivelavano la volontà di entrare in guerra. Il Parlamento, in larga maggioranza favorevole alla neutralità, posto davanti alla prospettiva di una crisi istituzionale e sottoposto alla pressione del movimento interventista, incapace di trovare tra le proprie fila un uomo disposto a portare il paese fuori dall’impasse in cui si era cacciato, accettava il diktat del re e degli interventisti. Lo stesso Giolitti, che solo avrebbe potuto raccogliere l’eredità di Salandra, abbandonava la lotta ben sapendo che un suo governo avrebbe dovuto affrontare, insieme alla crisi istituzionale, la ribellione delle forze interventiste. Il voto favorevole del Parlamento al nuovo governo Salandra sanava la situazione dal punto di vista formale, ma restava in molti, allora e negli anni futuri, la sensazione, diventata poi certezza, che il paese fosse portato in guerra per volontà di una minoranza. All’ultimatum a Vienna del 23 maggio, il giorno successivo seguiva la dichiarazione di guerra all’Austria ma non alla Germania (e fino al 21 agosto neppure all’impero ottomano), con la quale per il momento l’Italia si limitava a interrompere le relazioni diplomatiche; una situazione destinata a durare fino all’agosto del 1916 quando, su pressione degli alleati e nel clima di ottimismo creato dalla conquista di Gorizia, arrivava la dichiarazione di guerra anche alla Germania.

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6. Versailles, l’isolamento dell’Italia Quando Vittorio Emanuele Orlando e il suo ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, partirono per la conferenza di Versailles che si aprì a Parigi il 18 gennaio 1919, Luigi Luzzatti, ex presidente del Consiglio, si lasciò sfuggire questo commento: «Sonnino tacerà in tutte le lingue che sa, Orlando parlerà in tutte le lingue che non sa»25. In realtà, Orlando un po’ di francese lo sapeva, ma la salace battuta di Luzzatti esprimeva molto efficacemente la condizione d’isolamento e di relativa incomunicabilità con gli altri protagonisti del vertice in cui si trovarono i nostri due principali attori (la rappresentanza italiana comprendeva anche Antonio Salandra, Salvatore Barzilai e Giuseppe Salvago Raggi, ambasciatore a Parigi) alla conferenza della pace. Colpa del carattere dei due esponenti politici – difficilissimo, quasi intrattabile, quello di Sonnino, debordante e «mediterraneo» quello di Orlando –, ma soprattutto colpa di una diplomazia del tutto carente negli anni del conflitto per cui la nostra delegazione a Parigi si ritrovò senza alleati. Di ciò, oltre alla politica, era responsabile anche la strategia militare adottata dall’Italia. La guerra era stata condotta deludendo le attese degli alleati. La strategia di Cadorna fu sbagliata fin dall’inizio quando, disperse le forze lungo un arco di fronte che andava dallo Stelvio al mare, le logorò in una serie di offensive inutili e sanguinose senza mai riuscire a sfondare il fronte austriaco. L’alternativa sarebbe stata un attacco in forze, uno «sbalzo offensivo», nelle parole dello stesso Cadorna, sul punto più debole del fronte avversario che in sei mesi, assicurava il generale, ci avrebbe portato a Vienna26. Lo «sbalzo» non ci fu, ma va detto che nel maggio 1915 poche erano le unità adatte a un’azione di sfondamento. Anzi lo stesso Cadorna, nelle sue memorie, scrive che al momento dello scoppio della guerra l’esercito italiano «si trovava in uno stato di vera e propria disgregazione e che se appena proclamata la nostra neu25 Cit. da I. Montanelli in Storia d’Italia, vol. VI, 1861-1919, Milano 2003, p. 600. 26 Sul piano di guerra di Cadorna vedi R. Bencivenga, Saggio critico sulla nostra guerra, Roma 1930, p. 286.

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tralità l’Austria ci avesse assaliti ci saremmo trovati pressoché senza difesa»27. Un anno dopo alla vigilia del nostro ingresso in guerra qualche progresso era stato realizzato, ma la trasformazione del dispositivo militare sul fronte orientale da forza difensiva in forza offensiva era incompleta e avrebbe richiesto ancora molto tempo e molti sforzi. Del resto, anche il successore di Cadorna dopo Caporetto, Armando Diaz, «duca della Vittoria» (titolo concessogli dal re), non fu esente da critiche. Nonostante le pressioni degli alleati e soprattutto dei francesi perché l’Italia promuovesse un’offensiva nel settembre del ’18, quando lo schieramento austro-tedesco stava per cedere, egli adottò una condotta estremamente prudente e la famosa battaglia di Vittorio Veneto venne combattuta in contemporanea con la richiesta dell’armistizio da parte degli austriaci, e quando l’esercito nemico era ormai allo sfascio. Pur tuttavia, i grandi sacrifici sopportati dal paese e le drammatiche perdite (680.000 morti e 450.000 tra feriti e invalidi) rappresentarono un contributo che permise ai delegati italiani di sedere al tavolo della pace con gli altri tre grandi vincitori, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia. Dal punto di vista dell’immagine, l’Italia aveva raggiunto un traguardo storico, quello dello status di grande potenza; in realtà, le carenze militari logistiche ed economiche denunciate dal conflitto confermavano la posizione dell’Italia in un ruolo speciale e forse unico in Europa, di potenza intermedia fra i paesi di prima grandezza e le medie potenze. Il vero traguardo storico era la disgregazione di quella che per più di un secolo era stata la grande potenza avversaria dell’unità nazionale e poi dell’espansione a Est. La disintegrazione dell’Austria-Ungheria lasciava alla frontiera del Brennero un paese che, da impero multinazionale di cinquanta milioni di abitanti, veniva ridotto dai trattati di pace in una piccola nazione di sei milioni di cittadini e, pur considerando i dodici milioni del nuovo Stato jugoslavo, nato dall’unione di serbi, croati e sloveni, la frontiera 27 Cit. da G.E. Rusconi, L’azzardo del 1915. Come l’Italia decide la sua guerra, Bologna 2005, p. 161.

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orientale dell’Italia era ormai in sicurezza. Ma c’era anche chi pensava che la riduzione dell’Austria a un piccolo Stato dall’incerto futuro non fosse nell’interesse dell’Italia: «Prima o poi» – dichiarerà Giolitti – «ci porterebbe l’impero germanico a Innsbruck»28. L’Italia aveva combattuto in una condizione di relativo isolamento politico nei confronti degli alleati, per i propri interessi e con l’unico obiettivo troppo insistentemente proclamato di raggiungere i propri confini storici e di annettersi più territori possibili29. La tardiva dichiarazione di guerra alla Germania, la riluttanza a impegnarsi su altri fronti (solo dopo molte insistenze il governo italiano manderà un corpo di spedizione a Salonicco, in aiuto dei franco-britannici) susciteranno negli alleati diffidenze e sospetti. Tutto ciò non aiuterà i nostri negoziatori che a Versailles troveranno freddezza e un certo scetticismo per le appassionate perorazioni di Orlando che, oltre alle parole, non risparmierà nemmeno le lacrime ai propri interlocutori. Prima e durante i negoziati di Versailles l’errore di fondo della nostra diplomazia fu di non aver tenuto conto dei cambiamenti politici intervenuti negli anni della guerra e in particolare di quelli per noi più importanti, che mettevano in discussione l’applicazione del Patto di Londra e cioè l’ingresso degli Stati Uniti con il programma dei quattordici punti di Wilson che promettevano una vera e propria rivoluzione nei principi e nella prassi della diplomazia tradizionale. Inoltre la nascita di uno Stato jugoslavo – insieme alla fine della presenza turca e alla Rivoluzione d’Ottobre che per qualche anno segnava il ritiro russo dal contesto eu28 La previsione di Giolitti si avverava diciotto anni dopo con l’Anschluss, che nel 1938 univa l’Austria alla Germania nazista. 29 Scriveva l’ambasciatore inglese a Roma, sir Rennel Rodd: «Non è mia intenzione commentare le discussioni o le decisioni della Conferenza della pace. Ma ci furono allora tante critiche per l’atteggiamento dell’Italia che mi sembra giusto riassumere non come censore o come avvocato difensore il modo in cui la questione apparve ai più. Orlando e Sonnino tornarono dalle loro visite a Londra e a Parigi piuttosto sconcertati per aver trovato, almeno secondo quanto sembrava a loro, che gli interessi delle nuove nazioni che si sarebbero formate dalla dissoluzione dell’impero asburgico ricevevano più attenzione di una vecchia e sperimentata alleata. Preoccupati per le difficoltà che avevano davanti, non valutarono serenamente, credo, quelle degli altri». Cfr. J.R. Rodd, Social and Diplomatic Memoires, Third Serie, 1902-1919, London 1925, pp. 367-70.

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ropeo – alterava profondamente gli equilibri dell’area balcanica e apriva scenari del tutto nuovi. L’annessione delle terre dalmate, reclamata nel 1915 dall’Italia per ragioni di sicurezza e di difesa e concessa dal Trattato di Londra, era più difficilmente giustificabile ora che quelle ragioni avevano perso gran parte della loro validità. Il rifiuto di Sonnino di stabilire rapporti con i rappresentanti del futuro Stato jugoslavo, che nasceva nel luglio 1917 con l’accordo di Corfù30, non solo poneva l’Italia in una luce sfavorevole in Europa, ma la svantaggiava nei confronti della Francia, attivissima sul fronte dei nuovi Stati nati dalla disintegrazione dell’impero asburgico sui quali contava per la creazione di un sistema di alleanze che nell’Est europeo potesse contrastare un eventuale ritorno della influenza tedesca, ma anche in funzione di contenimento delle ambizioni italiane. Nella conferenza interalleata, tenutasi ai primi di giugno del 1918, Sonnino si era opposto a una dichiarazione a favore dell’indipendenza della Jugoslavia, restando ancora una volta isolato nei confronti di francesi, inglesi e americani. Ma l’errore maggiore restava quello di non aver considerato la forte influenza delle idee wilsoniane che – popolarissime all’inizio anche in Italia tra i partiti della sinistra democratica – erano state sottovalutate dal governo e da Sidney Sonnino, in parte anche per la responsabilità dell’ambasciatore a Washington, Vincenzo Macchi di Cellere che non le aveva portate all’attenzione del governo con il necessario rilievo. Un altro elemento che peserà in modo determinante sui negoziati di pace sarà la questione di Fiume, che oltre a costituire un motivo di conflitto tra noi e i nostri partner dell’Intesa diventerà uno dei fattori della crisi politica che precederà e contribuirà a promuovere il fascismo. La sorte di Fiume non era stata ignorata dal Patto di Londra; anzi alla città il trattato faceva diretto riferimento riservandola «alla Croazia, Serbia o Montenegro». Lo Stato jugoslavo era allora ancora nei piani e nelle speranze dei sostenitori dell’unità slava e pochi in Italia erano al corrente della condizione di Fiume che emergeva improvvisamente alla fine di ottobre 1918, quando un Consiglio nazionale della città, costituitosi spontaneamente, proclamava 30 L’accordo prevedeva uno Stato serbo croato e sloveno a regime monarchico costituzionale sotto la dinastia dei Karad-ord-evic´.

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l’unione all’Italia. In città la maggioranza della popolazione era italiana, in periferia e nell’area circostante a forte maggioranza slava. Nella propaganda della destra nazionalista Fiume diventava immediatamente conquista irrinunciabile e le truppe italiane che, all’indomani dell’armistizio con l’Austria, avevano occupato tutti i territori assegnati all’Italia dal Patto di Londra erano entrate anche a Fiume insieme a truppe serbe e di altre nazionalità. Su Fiume il governo era diviso. Mentre Sidney Sonnino, che puntava sull’esecuzione integrale degli accordi di Londra, era contrario a includere Fiume tra le rivendicazioni italiane, Vittorio Emanuele Orlando, che aveva avuto contatti informali con Ante Trumbic´, presidente del Comitato jugoslavo in esilio, era un convinto sostenitore dell’italianità della città ed era incline a rinunciare a parte della Dalmazia pur di ottenere Fiume.

7. Il fattore Wilson A Versailles gli italiani si trovarono subito di fronte alla ferrea volontà di Wilson di far rispettare il nono dei suoi quattordici punti che prevedeva che i confini italiani sarebbero stati fissati nel rispetto di clearly recognizable lines of nationality, cioè di «chiaramente riconoscibili elementi di nazionalità». Ma il contrasto si accese su tutta la questione del Trattato di Londra che gli americani respingevano sia in linea di principio sia in linea di fatto, sostenendo che non ne erano stati informati (e non era vero) e che, essendo un trattato segreto, era in conflitto con il primo dei quattordici punti che prevedeva open covenants openly arrived at, cioè «accordi trasparenti raggiunti in modo trasparente». Durante la sua visita in Italia, il 9-10 di gennaio 1919, Wilson era stato accolto con entusiastiche manifestazioni e ciò probabilmente ingannò il presidente americano sull’adesione degli italiani alle sue idee. Quanto alle posizioni del nostro governo, nel corso della visita esso scelse di enfatizzare una insostenibile concordanza tra gli obiettivi di guerra italiani e quelli americani, e anche questo contribuì all’incomprensione dei problemi, oggetto del conflitto. A Versailles, Wilson, accettando le richieste del nostro governo, concesse all’Italia l’Alto Adige (allora Sud Tirolo) fino al Bren-

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nero, nonostante che ciò comportasse l’inclusione entro le frontiere italiane di ben 230.000 cittadini austriaci, ma contestò tutte le altre rivendicazioni: l’Istria, i territori dalmati e soprattutto Fiume. Il 12 febbraio, un memoriale preparato dai rappresentanti jugoslavi alla conferenza chiedeva per il nuovo Stato non solo la Dalmazia e l’Istria, ma perfino Trieste e Gorizia e proponeva un arbitrato di Wilson presumendo che esso sarebbe stato favorevole alla causa jugoslava. Le richieste di Belgrado erano tali da escludere ogni possibilità di accordo diretto con l’Italia che, per di più, continuava a rifiutare il riconoscimento al nuovo Stato. La nostra delegazione, ma soprattutto Orlando, in una crisi di sfiducia e di frustrazione, aveva già deciso il ritiro dalla conferenza. Le posizioni continuavano a restare lontane e il clima si confermava sfavorevole per l’Italia; sfavorevoli furono anche le reazioni alleate all’atto unilaterale compiuto dall’Italia ai primi di aprile quando truppe italiane sbarcarono sulla costa turca presso Adalia. Si voleva con quel gesto ricordare i diritti garantiti all’Italia dal Patto di Londra in caso di spartizione della Turchia. La spartizione non ci sarà grazie alla resistenza dei nazionalisti di Mustafa Kemal e le truppe italiane – insieme a quelle di altri paesi – verranno ritirate nel 1921. Ma intanto quel gesto compiuto nello stallo del negoziato principale era una nuova conferma della volontà italiana di non rinunciare a nulla di ciò che il trattato le aveva assegnato. L’impasse veniva rotta con la presentazione di un memorandum americano, il 14 aprile 1919, quando erano ormai trascorsi tre mesi dall’inizio della conferenza. La «linea Wilson», che costituiva la novità essenziale del documento, prevedeva la spartizione dell’Istria tra Italia e Jugoslavia, con un evidente vantaggio per quest’ultima. Riconosceva Trieste all’Italia ma la lasciava sotto la gittata dell’artiglieria jugoslava e assegnava tutta la costa dalmata e le isole, a eccezione di Lissa, alla Jugoslavia. All’Italia veniva concesso il controllo di Valona, già acquisito fin dal dicembre 1914 quando, perdurante lo stato di neutralità dell’Italia, truppe italiane l’avevano occupata, per prevenire azioni analoghe da parte dei serbi e degli austriaci. Quanto a Fiume, nel memorandum di Wilson se ne confermava l’indispensabilità per l’economia jugoslava. La delegazione italiana e in particolare Orlando – come si è detto – avrebbero vo-

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lentieri barattato la rinuncia alla Dalmazia per Fiume, ma su quest’ultima la posizione di Wilson apparve irremovibile. Al rifiuto del presidente americano si aggiungeva anche quello dei francobritannici. A questo punto Wilson, mal consigliato, decideva di lanciare un messaggio al popolo italiano in cui spiegava le ragioni delle sue proposte e chiedeva sostegno e adesione al suo progetto. La mossa di Wilson, inaccettabile nella forma, poiché si rivolgeva a un paese straniero passando sulla testa dei suoi governanti che non erano stati informati, nasceva probabilmente dalla convinzione che il popolo italiano, che in occasione della sua visita gli aveva dimostrato tanta simpatia, concordasse con la sua visione della politica internazionale e ne condividesse i principi. La delegazione italiana, già in procinto di lasciare la conferenza prima del messaggio wilsoniano, approfittava dell’occasione offerta dal presidente americano per esprimere la sua protesta e giustificare il suo ritiro; al suo rientro a Roma, il 24 aprile 1919, veniva accolta da grandi manifestazioni di solidarietà. Il 29 la Camera approvava la politica estera del governo con una votazione a larga maggioranza: 382 voti favorevoli e solo 40, quelli dell’estrema sinistra socialista, contrari. Dopo qualche giorno la crisi tra l’Italia e i suoi partner rientrava, anche per le minacce dei governi di Londra e di Parigi di considerare il Patto di Londra decaduto se il governo italiano avesse prolungato la sua assenza, dando segno di voler arrivare a una pace separata.

8. Il mito della vittoria mutilata Orlando e Sonnino rientravano a Parigi il 7 maggio 1919, giorno in cui le potenze alleate decisero il destino delle colonie tedesche sul quale i rappresentanti italiani non poterono far valere i propri diritti, come già sul problema delle riparazioni imposte alla Germania. Il 29 maggio veniva decisa la questione delle nostre frontiere con l’Austria e il risultato era largamente favorevole all’Italia. Ci veniva assegnato tutto ciò che era stato previsto dal Trattato di Londra con in più qualche rettifica nell’alta valle della Drava e a Tarvisio. Quanto alle concessioni coloniali, Francia e

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Gran Bretagna si impegnavano a rettifiche sul confine libico, su quello tunisino e su quello somalo, e anche per le riparazioni erano previste concessioni successive. Restava la questione dei confini con lo Stato jugoslavo che verrà regolata con il Trattato di Rapallo. Il tempo lavorerà a favore dell’Italia che nelle more di un accordo manteneva l’occupazione di tutti i territori contestati. Era una prima vittoria che, tutto sommato, premiava la linea di intransigenza seguita da Sonnino; ma il governo usciva dalla battaglia logorato dalla difficoltà del negoziato e dalla intransigente opposizione dei nazionalisti, e a metà di giugno Orlando si dimetteva lasciando la presidenza del Consiglio e la definizione delle questioni rimaste in sospeso a Francesco Saverio Nitti, con agli Esteri il paziente – e quindi più gradito agli alleati – Tommaso Tittoni. Tuttavia, nel frattempo, la posizione di Wilson si era indebolita davanti alle difficoltà che stava incontrando con il Congresso per l’approvazione dello statuto della Società delle Nazioni, ma anche per la sostanziale mancanza di sostegno alle sue posizioni da parte di francesi e inglesi per i quali era difficile rinnegare gli impegni del Trattato di Londra. Essi, inoltre, temevano che l’intransigenza di Wilson nell’applicazione dei suoi principi rischiasse di mettere in pericolo anche le proprie rivendicazioni. Quanto a Fiume, un tentativo di compromesso veniva tentato a fine maggio dai francesi con il «piano Tardieu». Questo prevedeva la creazione di uno Stato libero che, oltre alla città, comprendeva un ampio interland slavo e che dopo quindici anni sarebbe stato sottoposto a plebiscito. Il progetto, a cui Wilson apportava una serie di modifiche favorevoli agli jugoslavi, veniva respinto dalla delegazione italiana. A metà luglio si verificava un incidente con il governo di Parigi a causa di uno scontro tra soldati dei due paesi dislocati nella città fiumana conclusosi con la morte di nove francesi e il ferimento di altri undici. Nell’attesa delle decisioni di una Commissione d’inchiesta a metà settembre, Gabriele D’Annunzio alla testa di 2.500 volontari occupava la città con un colpo di mano e ne proclamava l’annessione all’Italia. Nonostante la condanna del governo italiano e i ripetuti tentativi di mediazione del generale Pietro Badoglio respinti dal «comandante», che nel frattempo aveva visto aumentare il numero dei suoi volontari e il sostegno dei nazionalisti più radicali, l’oc-

III. L’Italia e la prima guerra mondiale (1901-1921)

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cupazione si prolungava per quasi un anno, fino al dicembre 1920 (il «Natale di sangue»), quando le truppe italiane investiranno Fiume, ponendo fine all’avventura dannunziana. Una prima soluzione del problema di Fiume veniva raggiunta con il Trattato di Rapallo (il 12 novembre 1920) stipulato con una trattativa diretta tra il governo italiano e quello jugoslavo che risolveva, anche se non definitivamente, il contenzioso sulla destinazione della città e della regione adriatica. I confini orientali previsti dal Trattato di Londra venivano allungati a vantaggio dell’Italia fino al Monte Nevoso comprendendo le isole di Cherso e Lussino. La Dalmazia veniva invece assegnata alla Jugoslavia, a eccezione della città di Zara e delle isole di Lagosta e Pelagosa. Fiume veniva dichiarata città libera. La difficile e tormentata gestione della questione fiumana chiudeva il capitolo dei negoziati di pace, ma gli accordi di Rapallo per Fiume verranno presto rimessi in discussione e quattro anni dopo, nel quadro di un accordo generale tra Roma e Belgrado, segneranno il definitivo passaggio di Fiume all’Italia con la periferia alla Jugoslavia; ma ciò fa parte di un’altra fase della nostra politica estera, quella del ventennio fascista. Quasi contemporaneamente, tra il giugno e l’agosto 1920, arrivava a soluzione anche il problema della nostra presenza in Albania. Da tempo i nazionalisti albanesi si opponevano al protettorato italiano e all’occupazione militare che alla fine della guerra vedeva impegnati in Albania ben 370.000 uomini. Uno scontro aperto e sanguinoso tra le nostre truppe e gli uomini della resistenza albanese, diretti dal Comitato di difesa, si svolgeva nel corso di tutto il 1920, mettendo in gravi difficoltà le truppe italiane che nel giugno erano ridotte ormai alla difesa del porto di Valona. Un trattato bilaterale del 2 agosto, stipulato a Tirana, prevedeva il ritiro delle truppe italiane da tutto il territorio albanese e dalla stessa Valona, concessa all’Italia dal Trattato di Londra. In mani italiane restava solo l’isola di Saseno, davanti alla baia di Valona, avamposto strategico da cui venti anni dopo partirà una nuova spedizione verso il «paese delle aquile». Con la prima guerra mondiale si chiudeva una fase della storia nazionale, quella che aveva permesso il raggiungimento dei confini storici e aveva segnato la disfatta dell’Austria, l’avversario di tutto un secolo.

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Mentre le guerre del Risorgimento avevano avuto un costo molto basso in termini di perdite umane, la prima guerra mondiale aveva provocato, oltre alle distruzioni materiali nelle zone del fronte, una drammatica emorragia di sangue a cui avevano contribuito tutte le classi sociali: quella contadina che aveva fornito la grande maggioranza delle forze combattenti, ma anche la classe media da cui provenivano i giovani quadri dell’esercito che con i soldati semplici avevano condiviso i rischi e i disagi della guerra di trincea. Nonostante le carenze di armamento che in buona parte vennero risolte con il procedere del conflitto, gli errori dei comandi supremi e i temporanei cedimenti, come quello di Caporetto, la fanteria aveva combattuto con valore e grande accanimento e ciò costituiva una novità nella breve e non brillante storia militare del paese, che uscirà dall’esperienza bellica più forte e più combattivo. Ciò non sarà senza dirette conseguenze nella lotta politica che si aprirà all’indomani del conflitto. Le motivazioni ideali che avevano portato la nazione in guerra per volontà di una minoranza continueranno a operare anche successivamente; anzi quella che nel ’14 era la posizione minoritaria dei nazionalisti e degli interventisti, dopo il 1918, in conseguenza di una guerra che aveva mobilitato, volente o nolente, l’intero paese che ne aveva sopportato il peso e gli effetti, era diventata una posizione largamente condivisa. Non mancherà in Italia, come nel resto dell’Europa, una forte affermazione del movimento pacifista che – sulla scia della spinta di Ginevra, sede della Società delle Nazioni – chiederà la fine di tutte le guerre; esso troverà simpatie e sostegno nel partito cattolico e nei partiti della sinistra socialista. Ma lo svolgimento della lotta politica negli anni del dopoguerra e le influenze culturali che, nate nei primi anni del secolo, si erano rafforzate nelle esperienze belliche prevarranno e acquisteranno una nuova dimensione. Da fenomeno elitario, il nazionalismo diventava, in seguito alla guerra, fenomeno popolare e nazionale e nel nazionalismo e nel patriottismo gli italiani trovavano il collante per una società altrimenti divisa e disomogenea. Questa condizione favorirà una politica estera, quella del fascismo, che punterà dichiaratamente a dare all’Italia lo status di grande potenza.

IV LA POLITICA ESTERA DI MUSSOLINI (1922-1943)

1. Mussolini si presenta Nel primo intervento parlamentare da capo di governo e ministro degli Esteri ad interim, Mussolini dedicava una parte importante del suo discorso alla politica estera che al momento «più di ogni altra cosa ci occupa e ci preoccupa». Più che ai deputati, il discorso era diretto all’esterno, alle varie cancellerie europee che si domandavano quale sarebbe stata la linea politica del governo fascista appena insediato, dopo quella operazione per metà politica e per metà militare che era stata la marcia su Roma e che all’estero era stata diversamente valutata. In Inghilterra la stampa liberale («Manchester Guardian») l’aveva giudicata come una rivolta anticostituzionale, mentre quella conservatrice («The Times») come una giusta reazione contro i pericoli del comunismo1. In America gli stessi giornali erano passati in pochi giorni dall’aperta condanna alla benevola accoglienza e il «The New York Tribune» intitolava un editoriale del 31 ottobre 1922 «Garibaldi in camicia nera». All’estero la situazione italiana era poco conosciuta e il fenomeno fascista lo era ancora meno: un chiarimento non poteva essere ulteriormente rinviato e lo stesso Mussolini preannunciava 1 Per le reazioni della stampa britannica all’avvento del fascismo cfr. A. Berselli, L’opinione pubblica inglese e l’avvento del fascismo 1919-1929, Milano 1971.

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all’inizio del passaggio dedicato alla politica estera che quanto avrebbe detto «avrebbe dissipato molte apprensioni». In realtà, Mussolini non aveva alcun programma di politica estera. Era a digiuno dei complessi meccanismi diplomatici e tanto meno – a differenza di quanto farà Adolf Hitler con il suo Mein Kampf – aveva affidato a un testo una sorta di «programma d’azione». Comunque, dal quadro disegnato da Mussolini emergeva una politica moderata. I trattati, e soprattutto quelli della pace, sarebbero stati onorati poiché «un Paese che si rispetti non poteva fare diversamente»2, ma subito dopo, in omaggio alla tecnica di un colpo al cerchio e di un colpo alla botte, che sarà caratteristica dell’oratoria ma anche dell’azione mussoliniana, aggiungeva: «I trattati non sono eterni e irreparabili. Se nel corso della loro esecuzione si rivelassero errati e inadeguati, andrebbero riesaminati e rivisti». L’Italia – continuava Mussolini – rimaneva fedele alle alleanze del tempo di guerra, ma i suoi alleati avrebbero dovuto farsi un esame di coscienza. L’Italia aveva perso posizioni in Adriatico e in Mediterraneo: alcuni dei suoi diritti fondamentali venivano posti in discussione, il nostro paese non aveva ricevuto né colonie né fonti di materie prime e si trovava letteralmente oppresso dai debiti contratti per far fronte alla causa comune. La permanenza dell’Italia nell’Intesa restava condizionata alla soluzione di questi problemi e al riconoscimento di uguali diritti per tutti i membri della coalizione, altrimenti il paese avrebbe dovuto recuperare la sua libertà d’azione per la protezione dei propri interessi nazionali. In conclusione: «Una politica estera come la nostra, una politica di interessi nazionali, di rispetto per i trattati, di ragionevole chiarezza di posizioni all’interno dell’Intesa; una tale politica non può essere fatta passare come avventurosa o imperialistica». «Vogliamo seguire una politica di pace, ma non una politica suicida»3. Toni moderati, ispirati a ragionevolezza e pragmatismo, ma non privi di quel rivendicazionismo che permeerà tanta parte della politica estera italiana durante il periodo fascista e che vent’anni dopo, diventato parossistico nei toni e nella cadenza, porterà il paese alla guerra. 2 B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, voll. I-XXXVI, Firenze 1951-63, vol. XIX, p. 18. 3 Ivi, p. 19.

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Per il momento prevale una linea di prudenza che si confermerà per più di un decennio, e che mira a mantenere normali rapporti con gli alleati del tempo di guerra verso i quali, di quando in quando, l’Italia avanzerà richieste e contestazioni, ma pur sempre nell’ambito di una politica di cooperazione internazionale e di conservazione della pace. D’altronde le circostanze non permettevano una politica diversa. Sul paese premevano le emergenze economiche e sociali del dopoguerra, la nuova classe politica e lo stesso Mussolini, inesperti di governo e più ancora di politica internazionale, dovevano affrontare i problemi del consolidamento del potere. Inoltre la situazione internazionale si andava normalizzando e il periodo turbolento del dopoguerra si stava concludendo. L’economia e la finanza miglioravano, Francia e Gran Bretagna trovavano nella Società delle Nazioni un punto di riferimento sicuro per la loro politica europea. La Germania stava per uscire dalla crisi monetaria che aveva polverizzato il marco e grazie ai capitali americani stava riaccendendo i motori. In Unione Sovietica la rivoluzione aveva ormai consolidato il proprio potere e dopo aver meglio definito le proprie frontiere esterne il paese si avviava verso una fase di «coesistenza pacifica» con l’Occidente4. Proprio nel 1922 si concludeva la guerra tra greci e turchi con la vittoria di quest’ultimi e l’inizio per la Turchia di quel processo di occidentalizzazione sotto la guida di Kemal Atatürk che doveva trasformarla profondamente. Anche i nuovi Stati dell’Est europeo, nati dalla caduta dei vecchi imperi e dai trattati di pace, si stavano 4 Il ritorno della Russia sovietica nell’ambito internazionale ha luogo nell’aprile del 1922 in occasione della conferenza internazionale indetta a Ginevra per la ricostruzione delle economie tedesca e russa. È la prima volta dopo la fine della guerra che vincitori e vinti si trovano di fronte su di un piede di parità (almeno dal punto di vista del diritto internazionale). Durante quella conferenza plenipotenziari tedeschi e sovietici negozieranno e sigleranno il Trattato di Rapallo (16 aprile). L’Urss rinuncia a ogni richiesta di danni di guerra nei confronti della Germania che, a sua volta, riconosce il governo sovietico. È la fine dell’isolamento diplomatico a cui la Russia era stata assoggettata dopo la rivoluzione. Due anni dopo, il 5 febbraio 1924, Italia e Unione Sovietica ristabiliscono relazioni diplomatiche e stipulano un accordo di commercio e navigazione. Alcuni giorni prima c’era stato il riconoscimento britannico che provocava l’irritazione di Mussolini, dato che tra Italia e Gran Bretagna si era svolta una vera e propria competizione nei confronti del riconoscimento di Mosca.

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consolidando. Permanevano i contrasti tra il governo francese e quello tedesco per i debiti di guerra che porteranno nel gennaio del 1923 all’occupazione franco-belga del bacino carbonifero della Ruhr; una decisione sostenuta, almeno in un primo tempo dal governo Mussolini. Ma l’Europa e l’America si avviavano verso un periodo di stabilità internazionale e di crescita economica che non offrivano alternative e occasioni per manovre eversive e per il momento neppure per politiche revisioniste; salvo le insoddisfazioni e le lamentele di chi pensava di essere stato danneggiato o di non essere stato abbastanza favorito dalle manipolazioni versagliesi: i trattati di pace potevano essere criticati ma non sovvertiti. Il fascismo, nella sua componente di esasperazione nazionalistica, di espansionismo territoriale, per il momento non trovava né condizioni né spazi per la realizzazione del suo obiettivo prioritario: quello di un’Italia grande potenza5. Restava la propaganda di regime che lo riproponeva di quando in quando e restava la tecnica mussoliniana dei colpi di scena, degli improvvisi mutamenti di linea, accompagnati da atteggiamenti minacciosi, del «niente per niente», episodi che tuttavia restavano isolati e venivano rapidamente composti per l’intervento della diplomazia professionale che in questi anni agisce come importante strumento di moderazione, di orientamento e di correzione degli eccessi di Mussolini di cui, se non la filosofia, condivide gli obiettivi. Pur esercitando cautele e prudenze diplomatiche, Palazzo Chigi – diventato la sede del ministero degli Esteri dopo lo spostamento dal Palazzo della Consulta – simpatizza con la politica di Mussolini in questa prima fase. Solo due ambasciatori, il conte Carlo Sforza, ambasciatore a Parigi, e il senatore Alfredo Frassati, ambasciatore a Berlino, lasceranno la carriera per motivi politici. Più tardi, anche per l’immissione di elementi fascisti – come Dino Grandi, Giuseppe Bastianini e Filippo Anfuso – la diplomazia italiana diventerà strumento sempre più duttile nelle mani 5 In uno dei suoi primi discorsi di politica estera, pronunciato a Venezia i primi di giugno del 1923, con toni fortemente anti-francesi e anti-slavi, Mussolini parlava dei «diritti di un popolo che sorge di fronte ai popoli che declinano»; un tema, questo, che specie a partire dalla seconda metà degli anni Trenta la propaganda fascista sfrutterà largamente e che fornirà la base per il riavvicinamento alla Germania e, infine, per l’alleanza con il Giappone in nome della conquista di un «posto al sole».

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del dittatore, ma almeno fino all’arrivo di Galeazzo Ciano alla guida del ministero degli Esteri manterrà una sua autonomia di giudizio e con le prudenze del caso la userà a vantaggio del paese e della sua immagine internazionale. Il primo test dei suoi rapporti con il futuro dittatore e la prima uscita internazionale di Mussolini coincise con la crisi di Corfù. Nell’agosto 1923 una missione militare italiana, incaricata dai paesi dell’Intesa di tracciare la linea di confine greco-albanese, veniva attaccata da elementi nazionalisti locali, ma di cui le indagini successive non riusciranno a stabilire l’identità, e quattro dei suoi membri, compreso il capo-delegazione, generale Enrico Tellini, venivano assassinati. Due giorni dopo Mussolini inviava un ultimatum alla Grecia in cui si chiedeva la condanna a morte dei colpevoli e una serie di risarcimenti morali e materiali estremamente onerosi. Poiché il governo greco aderiva solo in parte alle richieste italiane, Mussolini mobilitava una squadra navale che, dopo aver bombardato Corfù, procedeva a sbarcare truppe e a occupare l’isola. Per una parte della stampa internazionale e in particolare per quella britannica il «malaugurato inutile bombardamento»6 rivelava il vero volto del fascismo, il suo spirito aggressivo e il disprezzo delle convenzioni internazionali. In realtà, Mussolini aveva esagerato per dare, più che al mondo, al paese una prova di quella determinazione nella difesa del prestigio nazionale a cui la politica fascista affermava in ogni occasione di ispirarsi. Dovette riconoscere di aver esagerato anche il futuro dittatore, che – anche su consiglio del segretario generale del ministero degli Esteri, Salvatore Contarini, siciliano, allievo di Antonino di San Giuliano, che fino al 1926 eserciterà una notevole influenza moderatrice sulla politica mussoliniana – nei giorni successivi attenuò i toni. Ma poiché Mussolini aveva escluso che del problema potesse occuparsi la Società delle Nazioni, sede naturale per una controversia che investiva due membri dell’organizzazione, la questione di Corfù acquistava una dimensione ideologica che rendeva più difficile la sua soluzione. Saranno l’intervento del governo ingle6

R. Guariglia, Ricordi 1922-1946, Napoli 1950, pp. 28-29.

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se, protettore della Grecia ma interessato anche a mantenere il tradizionale rapporto di amicizia con l’Italia, e la collaborazione del governo francese a risolvere il caso. Della questione veniva investita la conferenza degli ambasciatori dell’Intesa che, insieme alle scuse del governo greco, decideva per un’indennità di cinquanta milioni di lire a favore dell’Italia, che a fine settembre ritirava le proprie truppe da Corfù. Con questa soluzione, accettata da ambedue le parti in conflitto, si concludeva la prima infelice uscita internazionale del governo di Mussolini che, in un discorso al Senato, tenuto qualche tempo dopo, dichiarava che «l’occupazione di Corfù è stata fatta anche per rialzare il prestigio dell’Italia»7. Già in questa fase il prestigio dell’Italia e quello personale di Mussolini coincidevano. 2. La politica danubiano-balcanica I due anni successivi all’episodio di Corfù furono privi di fatti rilevanti. L’attenzione di Mussolini si spostava su questioni interne: le elezioni del 1924, che davano al «listone» fascista il 66,3 per cento dei voti e 374 seggi su 535, il delitto Matteotti con le sue conseguenze e la graduale trasformazione del sistema politico in regime. Saranno soprattutto le questioni balcaniche e dell’Europa orientale a occupare le cronache della politica estera italiana. Oltre al già menzionato accordo con la Jugoslavia per il trasferimento di Fiume all’Italia e dei suoi dintorni al governo di Belgrado, l’Italia stipulava una serie di trattati con i nuovi Stati dell’area danubiana: così, nel luglio del 1924, un’intesa di amicizia e di collaborazione per il rispetto delle decisioni di Versailles con la Cecoslovacchia; un accordo commerciale italo-ungherese nel settembre 1925; uno italo-rumeno sui prestiti di guerra nel giugno ’26; e, ancora con la Jugoslavia, un trattato di commercio e navigazione il 14 luglio ’24 e un altro sui confini dalmati il 18 luglio ’25. Già nel febbraio 1924 l’Italia aveva riconosciuto il governo sovietico, con cui tuttavia nel corso del ventennio manterrà rapporti più economici che politici, esportando macchinari per i piani quinquennali staliniani e importando carbone. 7

Mussolini, Opera Omnia cit., vol. XX, p. 107.

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Più tardi, nel corso della seconda metà degli anni Venti, altri trattati venivano stipulati dall’Italia con la Bulgaria, con la Grecia, con la Turchia e in particolare con l’Albania. Se si esclude l’Albania, nei confronti della quale l’Italia manifesterà una costante attenzione fino all’occupazione e all’annessione nella primavera del ’39, la politica danubiano-balcanica rispondeva più a obiettivi di prestigio e di interdizione dell’influenza altrui che all’instaurazione di rapporti miranti a una politica e a un progetto comune tra i contraenti. L’azione di interdizione era diretta contro la Francia che curava con molta assiduità i rapporti con gli Stati della Piccola Intesa (Cecoslovacchia, Romania, Jugoslavia) e più tardi, nel corso degli anni Trenta, e per un breve periodo, nei confronti della Germania che già prima dell’avvento del nazismo aveva ripreso la sua tradizionale politica di penetrazione in quella parte d’Europa. L’Ungheria e la Romania saranno gli alleati di riferimento dell’Italia, ma, date le molte ragioni di concorrenza e di conflittualità tra ungheresi e rumeni, le relazioni rimarranno bilaterali: un tipo di rapporto verso il quale il governo di Roma esprimerà una decisa preferenza, perché meglio si presterà ai suoi obiettivi di presenza nella zona e gli eviterà di assumere impegni gravosi e prolungati nel tempo tali da impedire una politica delle mani libere. La presenza italiana nell’area danubiano-balcanica troverà nell’influenza dell’ideologia e del modello fascista un importante canale di penetrazione. In Austria, nei paesi baltici, in Grecia e soprattutto in Ungheria e Romania il fascismo susciterà forti simpatie. Movimenti e governi si ispireranno alle idee e alle istituzioni del fascismo, creando per l’Italia una posizione di prestigio, ma che paradossalmente faciliterà più tardi la penetrazione nell’area della Germania nazista8. 8 Già all’indomani del suo arrivo al governo Mussolini, con una circolare del 1° novembre 1922, chiedeva agli ambasciatori italiani di verificare l’effetto che «gli avvenimenti in Italia» avevano avuto sui governi dei paesi presso i quali erano accreditati gli ambasciatori. Ad eccezione della Cecoslovacchia, in tutti gli altri paesi dell’Europa centro-orientale (Ungheria, Finlandia, Estonia, Romania) le reazioni andavano dall’«interesse» (Finlandia) alla «viva soddisfazione». Cfr. J.W. Borejsza, Il fascismo e l’Europa orientale. Dalla propaganda all’aggressione, Roma-Bari 1981, pp. 100 sgg.

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Diverso il rapporto con la Jugoslavia, nei confronti della quale resteranno sempre il sospetto e l’inimicizia, di origine risorgimentale, verso quella nazionalità croata che era sempre apparsa agli italiani come la principale componente del potere austriaco. Ma oltre alle antipatie storiche e a quelle più recenti relative alla disputa dalmata, nei rapporti con la Jugoslavia giocava anche il comune e conflittuale interesse per l’Albania, dove tra il 1924 e il 1926 l’Italia, come reazione a iniziative jugoslave dirette a interferire nella politica albanese, gettò le basi di un vero e proprio protettorato approfittando del conflitto interno tra il vescovo ortodosso Fan Noli e il primo ministro albanese, principe Ahmed Zogalli. Dopo la vittoria di quest’ultimo, nel marzo 1925, il governo di Roma stipulava un trattato che legava economicamente il piccolo paese all’Italia (nonché lo stesso Zogalli grazie a generose sovvenzioni) e pochi mesi dopo un patto militare segreto che, in caso di bisogno, avrebbe trasformato l’Albania in una vera e propria testa di ponte per eventuali operazioni italiane nell’area balcanica. Seguivano nel novembre 1926 un’alleanza difensiva, il primo Patto di Tirana, e quindi un secondo Patto di Tirana, stipulato nel novembre 1927, in risposta ai ripetuti scontri di frontiera tra elementi dell’esercito jugoslavo e di quello albanese. I due patti di Tirana completavano la serie degli accordi confermando l’esistenza di una specie di protettorato italiano sul «paese delle aquile», garantito dal presidente Zogalli che, nel settembre 1928, col sostegno italiano veniva proclamato re, assumendo il nome di Zogu. Gli accordi italo-albanesi, interpretati a Belgrado come atti ostili, inducevano il governo jugoslavo a rinsaldare i rapporti già esistenti con la Francia. Così la politica d’influenza in Albania – di scarso valore per l’Italia quando venne attuata e produttrice di effetti negativi per il futuro – ci inimicava il più importante vicino alla frontiera orientale e accresceva i malintesi e le incomprensioni esistenti con la Francia rendendo irrealizzabile il progetto francese di un accordo a tre, fra Roma, Parigi e Belgrado. Quel progetto, sostenuto dalla Gran Bretagna e che inizialmente aveva trovato anche il favore del governo italiano, avrebbe garantito la stabilità e la sicurezza dell’area dei Balcani e avrebbe potuto costituire il perno di un sistema di alleanze per il contenimento della futura pene-

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trazione tedesca, data per inevitabile appena la Germania fosse uscita dalle condizioni di minorità in cui l’aveva posta il Trattato di pace. Era prevedibile che uno dei primi obiettivi della politica tedesca nell’area sarebbe stato l’annessione dell’Austria che molti – e gli stessi austriaci che si consideravano «una componente della Repubblica tedesca»9 – davano per scontata già al momento della nascita della nuova Repubblica. I legami di storia, di cultura e di lingua, nonché quelli economici e finanziari, tra i due paesi germanici e le probabili difficoltà che lo Stato austriaco avrebbe incontrato a sopravvivere politicamente ed economicamente nelle dimensioni fissate dal Trattato di pace rendevano quasi irresistibile l’attrazione del più forte vicino. Per l’Italia l’annessione tedesca dell’Austria significava trovarsi la Germania alla frontiera del Brennero, e ciò avrebbe annullato di un sol colpo il più grande guadagno conseguito con la vittoria nella prima guerra mondiale: quello cioè di uno Stato militarmente impotente ai propri confini. Ad anticipare ciò che sarebbe potuto avvenire in futuro, già nel febbraio del 1926, in seguito alle dichiarazioni del primo ministro bavarese, Heinrich Held, nasceva tra Italia e Germania una polemica sulle minoranze tedesche in Alto Adige che solo un discorso distensivo del cancelliere Gustav Stresemann metterà a tacere dopo alcune settimane di tensione tra i due paesi. Era una prima indicazione di quanto sarebbe stata problematica la condivisione delle frontiere con il vicino tedesco. Il governo italiano era pienamente cosciente della necessità di tutelare l’indipendenza dell’Austria e per più di un decennio Vienna e i suoi governanti troveranno nell’Italia di Mussolini più che un’alleanza un amichevole sostegno, grazie anche all’amicizia personale tra il cancelliere Engelbert Dollfuss e lo stesso Mussolini e una sicura difesa, ma alla lunga il compito di garantire l’indipendenza austriaca avrebbe richiesto una coalizione di forze che solo un’intesa franco-italiana poteva garantire. Invece, a partire dal 1927, la politica italiana contribuiva alla destabilizzazione dell’area in nome della revisione dei trattati di 9 Dall’articolo 2 della legge costituzionale promulgata il 12 novembre 1918 dalla Assemblea nazionale austriaca.

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pace e del sostegno a governi e movimenti fascisti e parafascisti: due temi che rispondevano l’uno al mito della «vittoria mutilata» – così popolare nel movimento nazionalista10 che, nel ’23, era confluito nel partito fascista – e l’altro all’obiettivo di diffusione del modello fascista e soprattutto dello Stato corporativo destinato a più di un successo nei paesi dell’Europa orientale e balcanica. I primi a fare le spese del revisionismo mussoliniano erano, ancora una volta, gli jugoslavi. Grazie allo stretto legame con l’Ungheria che rivendicava territori jugoslavi e non solo, e con l’Austria, l’Italia mirava sia all’indebolimento della Piccola Intesa legata alla Francia, sia all’isolamento della Jugoslavia. A partire dalla fine degli anni Venti il governo italiano si inseriva anche nei conflitti interni dello Stato jugoslavo, tra serbi e croati, sostenendo per diversi anni, fino alla conquista del potere, il movimento ustasha di Ante Pavelic´, dando asilo in Italia allo stesso Pavelic´ e occupandosi dell’istruzione militare del movimento ustasha, condotta anch’essa nel nostro paese tra i seguaci del futuro Poglavnik, cioè «duce dei croati». Aiuti e sostegno anche in armi e in denaro verranno forniti ai movimenti fascisti in Romania, Bulgaria e Ungheria. Almeno fino all’affermazione del nazismo, l’Italia, in concorrenza con la Francia, svolgerà una politica di influenza nell’area ma senza dare consistenza a un preciso progetto politico e mantenendo una rete di rapporti fitta ma poco solida; talché quando, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, emergerà nella zona la presenza della Germania hitleriana, l’Italia perderà quasi tutte le posizioni conquistate negli anni precedenti.

3. I rapporti italo-francesi e quelli con la Gran Bretagna Nonostante le molte risorse spese per le iniziative nell’area danubiano-balcanica, il versante su cui si giocava la grande politica era quello franco-britannico, nell’attesa che si concludesse la crisi tedesca che cominciava a risolversi solo nella seconda metà de10 A partire dal febbraio 1923 il Partito nazionalista si era fuso con il Partito fascista; contemporaneamente erano stati stipulati accordi tra il Pnf e le associazioni combattentistiche e patriottiche.

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gli anni Venti. Il trattato tedesco-sovietico, firmato a Rapallo nell’aprile del ’22, che tanto scalpore aveva destato in Europa, era stato in sostanza la prova dell’isolamento e della debolezza dei due contraenti. Solo tre anni dopo, con la conferenza di Locarno, la Germania, pur sempre sottoposta ai condizionamenti del Trattato di pace, rientrava sulla scena europea con il disegno pacifista di Gustav Stresemann. Francia, Belgio e Germania riconoscevano le frontiere fissate a Versailles e si impegnavano a risolvere pacificamente le future controversie. Gran Bretagna e Italia erano chiamate a garantire questi accordi. È il cosiddetto «spirito di Locarno» che, insieme al Patto Briand-Kellogg (27 agosto 1928) di rinuncia alla guerra, garantirà all’Europa un quinquennio di pace. Inizialmente Mussolini non voleva accettare il ruolo di garante per una certa diffidenza verso l’accordo franco-tedesco che, stabilizzando l’Europa centro-occidentale, avrebbe potuto orientare a Sud l’espansionismo tedesco; poi, seguendo anche i consigli e le discrete pressioni del segretario generale di Palazzo Chigi, il moderato Contarini, accettava di partecipare al Patto di Locarno. Un’autoesclusione dell’Italia si sarebbe risolta nella perdita di un’occasione di prestigio senza nulla cambiare nel carattere e nelle intenzioni del patto. È significativo che nel corso dei negoziati i rappresentanti italiani abbiano insistentemente richiesto che le garanzie sul rispetto dei confini fossero estese da parte della Germania anche alla frontiera del Brennero; una richiesta improponibile e come tale veniva respinta, perché ciò presupponeva l’annessione tedesca dell’Austria, ma d’altra parte, piuttosto incoerentemente, il governo italiano rifiutava per ben tre volte la proposta di Parigi per un patto di garanzia franco-italiano all’Austria. La prospettiva dell’Anschluss continuava a turbare i sonni della diplomazia italiana. Qualche tempo dopo Locarno, Contarini e Dino Grandi (all’epoca sottosegretario agli Esteri) considerarono la possibilità di una «Locarno danubiano-balcanica», ma quando il primo ministro cecoslovacco Edvard Benesˇ propose a Grandi un’alleanza tra Italia, Cecoslovacchia, Jugoslavia e Austria, Mussolini la respinse per il sospetto che la proposta fosse stata avanzata dalla Francia. I rapporti tra Roma e Parigi, dopo una brevissima parentesi di

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riavvicinamento, in occasione dell’occupazione francese della Ruhr, che aveva trovato l’Italia concorde e collaborativa, tornavano tesi e in prospettiva addirittura conflittuali, a tal punto che l’ambasciatore italiano a Parigi, Romano Avezzana, appena un anno dopo la firma del Trattato di Locarno scriveva in un rapporto a Mussolini: «La possibilità di una guerra con l’Italia, che fino a poco tempo fa era considerata come impossibile, oggi comincia ad essere discussa come una evenienza cui la Francia pur riluttante deve prepararsi perché voluta dall’Italia»11. Nel clima di Locarno il rapporto di Avezzana poteva apparire eccessivamente drammatizzante, ma le preoccupazioni di cui si faceva interprete coincidevano in una certa misura con le previsioni a più lunga scadenza dello stesso Mussolini e degli ambienti fascisti più vicini al dittatore. Non erano le schermaglie tra Francia e Italia e la concorrenza nell’area danubiano-balcanica che potevano creare un casus belli tra i due paesi, bensì le rivendicazioni vecchie e nuove che per il momento restavano in sordina ma che tra qualche anno diventeranno materiale quotidiano per la propaganda anti-francese della stampa italiana. Per il momento il maggior motivo di contrasto tra Roma e Parigi, dove dal 1924 governava una coalizione di sinistra (il Cartel des Gauches) apertamente antifascista almeno quanto la stampa transalpina era anti-italiana (soprattutto lo diventò dopo il delitto Matteotti), era la questione degli antifascisti italiani rifugiati in Francia e della protezione loro riservata dal governo francese. A Parigi, oltre ai transfughi socialisti e democratici, c’era anche una delle centrali europee (le altre erano a Vienna e a Mosca) del Partito comunista italiano da cui fino ai primi anni Trenta partivano gli agenti e i propagandisti incaricati di mantenere i contatti con l’organizzazione clandestina in Italia. A Parigi anche la polizia politica fascista dell’Ovra (Opera vigilanza repressione antifascista) aveva i suoi agenti e ciò alimentava una guerra segreta tra i vari servizi che non poteva essere ignorata dai governi. Ma ciò che sembrava condurre a uno scontro tra i due paesi era la natura delle rivendicazioni italiane. Sostanzialmente soddisfatte con i trattati di Versailles quelle sul versante orientale e balcanico, 11 Documenti Diplomatici Italiani (Ddi), Serie VII, vol. IV, Roma 1962, p. 389.

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restavano quelle sul versante occidentale e mediterraneo e cioè la Tunisia, la Corsica, Nizza, Savoia, Gibuti: tutti possedimenti francesi o addirittura – come nel caso di Nizza, della Savoia e della Corsica – parte integrante del territorio metropolitano francese. Era impensabile che la Francia potesse concedere più di qualche rettifica di frontiera in Africa o di qualche accesso privilegiato al porto di Gibuti o del miglioramento dello statuto agli italiani di Tunisi. Restava il comune interesse a contenere l’influenza tedesca nell’area danubiano-balcanica che per l’Italia significava soprattutto la garanzia all’indipendenza austriaca. E in effetti, nel momento in cui la minaccia tedesca si concretizzava e si profilava chiaramente la volontà hitleriana di annettere l’Austria, cioè tra il 1934 e il 1935, si registrava un riavvicinamento tra Roma e Parigi che tuttavia era destinato a durare pochi mesi (sarà interrotto bruscamente dalle operazioni militari italiane in Etiopia e in Spagna) e a non essere più recuperato. Diverso, almeno fino a metà degli anni Trenta, era il rapporto di Mussolini con l’altra grande protagonista della politica europea e mondiale: la Gran Bretagna. Era abbastanza curioso il rispetto che il «duce» del fascismo, espressione di un regime dittatoriale e sostenitore di altri regimi dittatoriali, aveva per la prima democrazia europea, un atteggiamento condiviso del resto anche da Hitler. Oltre che dalla potenza imperiale, dallo stile dei governanti e dalla tradizionale amicizia, quel rispetto era probabilmente ispirato dalla solidità del sistema democratico britannico. Mentre nella terza Repubblica francese i governi si succedevano alla stessa velocità di quelli dell’Italia post-risorgimentale, suscitando pertanto tutte le critiche e il disprezzo di un movimento come quello fascista nutrito di antiparlamentarismo, la democrazia e la classe politica britanniche, pur negli anni difficili del dopoguerra e della crisi economica, mantenevano solidità e continuità; quindi anche l’Inghilterra, come la Germania, anche se per ragioni diverse, esercitavano ammirazione e attrazione nonostante che ben pochi tra i gerarchi fascisti conoscessero il mondo anglosassone e la sua cultura. Va aggiunto che, a differenza della classe politica francese, all’interno della quale le simpatie per Mussolini erano sporadiche – quelle dei primi ministri Pierre-Etienne Flandin e Pierre Laval, e dell’ambasciatore a Roma Charles Pineton de Chambrun – e co-

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munque sempre accompagnate all’altezzosità gallica, governanti e diplomatici britannici, nonché la stampa inglese conservatrice e non solo, non risparmiarono almeno fino al 1935 lodi ed espressioni di simpatia per Mussolini e per la sua politica. Più in generale, al mondo anglosassone, e quindi anche a quello americano, Mussolini era apparso come il salvatore dell’Italia – e nei più entusiasti persino dell’Europa – dall’eversione comunista, e di questo gli veniva dato frequente e caloroso riconoscimento. Era noto che Mussolini aveva stretto con Austen Chamberlain, ministro degli Esteri del governo conservatore di Stanley Baldwin, un rapporto di amicizia sostenuto, oltre che da reciproca simpatia, anche da una certa affinità ideologica a cui non era estraneo il ricordo di Joseph Chamberlain, leader del nazionalismo britannico di inizio secolo in odore di razzismo12. Entusiastiche saranno le dichiarazioni di Winston Churchill, allora cancelliere dello Scacchiere, dopo il primo incontro con Mussolini a Roma nel gennaio del 192713, a tal punto da provocare un vivace intervento parlamentare da parte dei laburisti, allora all’opposizione dopo il primo breve governo di Ramsay McDonald. Più tardi, nel febbraio 1933, parlando alla lega antisocialista britannica Churchill definirà Mussolini «il più grande legislatore vivente». Oltre agli omaggi dei politici non mancavano a Mussolini quelli degli intellettuali inglesi ed europei – da Karl Vossler a Paul Hazard, da George M. Trevelyan a George Bernard Shaw – e quelli della grande stampa che presentava Mussolini come «personaggio di stampo cromwelliano, se non di statura cromwelliana»14. Oswald Mosley, il leader del fascismo britannico, trovava i suoi so12 Joseph Chamberlain (1836-1914), padre di Austen e di Neville, ministri conservatori, è uno dei principali esponenti della politica imperiale britannica dei primi del Novecento. Ministro delle Colonie nei governi di lord Robert Salisbury e di Arthur James Balfour, partecipò anche attivamente alle trattative con Prinetti nel 1901. 13 A. Petacco, Dear Benito Caro Winston, Milano 1985, p. 15. Nel corso di una conferenza stampa Churchill dichiarava tra l’altro: «Se fossi italiano sarei sicuro che sarei stato interamente con voi nella vostra lotta vittoriosa contro gli appetiti bestiali e le passioni del leninismo [...]. Internazionalmente, il fascismo ha reso un servizio al mondo intero». E più avanti su Mussolini: «È facile accorgersi che l’unico suo pensiero è il benessere del popolo italiano». 14 AA.VV., Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, vol. IV, Torino 1976, p. 2152.

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stenitori sia tra la haute londinese che tra la classe lavoratrice della capitale britannica. Le stesse simpatie Mussolini raccoglieva Oltreatlantico, non solo in campo conservatore, dove un grande industriale, parlando all’indomani dell’insediamento di Roosevelt alla Casa Bianca, dichiarava che se in America fosse apparso un nuovo Lenin, c’era da augurarsi che nascesse anche un «Mussolini americano», ma anche in quello socialista, dove il decano del movimento, Norman Thomas, osservava che «l’origine dei mali dell’America sta nella mancanza di un vero leader e da molte parti si è udito il grido per un Mussolini americano»15. Tutto ciò favorirà la politica mussoliniana nel corso degli anni Venti, non solo con la tolleranza internazionale per qualche eccesso, come quello dell’occupazione di Corfù, o per gli attacchi critici e talvolta denigratori nei confronti della Società delle Nazioni, di cui la Gran Bretagna era il maggiore sponsor, ma soprattutto con l’adesione alle iniziative della sua politica estera. La Gran Bretagna fu la prima a mantenere gli impegni per le compensazioni coloniali promesse a Versailles con la cessione nel luglio del 1926 dell’Oltregiuba, un’area semi-desertica distaccata dai suoi possedimenti keniani. Inoltre Londra sostenne apertamente la politica austriaca di Mussolini e nel gennaio del ’26 concesse all’Italia una sostanziale riduzione dei debiti di guerra – da 600 milioni di sterline a 266 – rateizzando il pagamento in sessantadue anni. Nel mese di aprile dello stesso anno un accordo italo-britannico sull’Etiopia, raggiunto senza neppure consultare il governo di Addis Abeba, oltre a delimitare le rispettive sfere di influenza, riconobbe all’Italia la facoltà di accrescere la penetrazione nell’economia etiopica e di costruire una ferrovia che collegasse la colonia eritrea alla Somalia. Nove anni dopo, i rapporti con la Gran Bretagna, fino ad allora amichevoli e collaborativi, mutarono radicalmente proprio sulla questione etiopica.

15 Cfr. C. Damiani, Mussolini e gli Stati Uniti, 1922-1935, Bologna 1980, p. 286.

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4. La politica del «peso determinante» Un tentativo di dare alla politica estera del fascismo una strategia di lungo periodo e di offrire un’alternativa a quella mussoliniana veniva fatto da Dino Grandi, uno dei più autorevoli gerarchi fascisti e futuro antagonista di Mussolini nella storica riunione del Gran Consiglio del fascismo, il 25 luglio 1943. Prima sottosegretario (1926-29) e poi ministro degli Esteri (1929-32), durante la sua lunga permanenza a Palazzo Chigi Grandi aveva maturato alcune convinzioni la cui sostanza era riassunta in un appunto che egli scrisse per Mussolini nell’ottobre del ’31, ma la si ritrova anche nelle dichiarazioni pubbliche che in quegli anni egli aveva occasione di fare nel suo ruolo di ministro degli Esteri: «Si tratta tranquillamente di aspettare. Il tempo lavora per noi. Noi non siamo ancora i protagonisti dell’Europa, ma i protagonisti non possono fare senza di noi. L’Italia è chiamata e lo sarà più il giorno in cui l’attrezzatura militare della nazione sarà compiuta a decidere della vittoria o della sconfitta. La politica dell’Italia è la politica del ‘peso determinante’»16. L’analisi di Grandi era condivisibile almeno in parte. L’Italia non era ancora in grado di svolgere un ruolo di primissimo piano in Europa, ma la sua partecipazione era divenuta indispensabile ai maggiori protagonisti. Quando si fosse rafforzata militarmente sarebbe diventata determinante e qui Grandi toccava un punto cruciale della politica estera italiana di tutti i tempi, cioè la debolezza dell’apparato militare e la mancanza di una capacità industriale e tecnologica a livello delle altre grandi potenze. Nonostante le audaci imprese di trasvolatori come Italo Balbo e Francesco De Pinedo, che con le loro traversate atlantiche suscitarono vasta eco in tutto il mondo, e l’opera di modernizzazione del paese condotta e sostenuta dal regime, il nostro apparato militare-industriale restava quello di una potenza di secondo piano. La seconda guerra mondiale doveva denunciare l’arretratezza tecnica delle nostre forze armate, ma appare incredibile ancora oggi come uomini che assegnavano all’Italia il ruolo di grande po16

Cfr. R. De Felice, Mussolini il Duce, vol. I, Torino 1974, p. 378.

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tenza e conducevano una politica che lo presupponeva trascurassero così patentemente un elemento fondamentale per il successo di una politica estera di forti ambizioni. Grandi, che dei gerarchi fascisti era il più cosciente di questa condizione di inferiorità, grazie alla sua esperienza internazionale si rendeva conto dell’importanza che la politica di potenza fosse sostenuta da un adeguato apparato militare. Coerentemente con questa sua convinzione, alla conferenza di Londra sulla riduzione degli armamenti navali, Grandi insisterà sulla parità tra Francia e Italia in materia di naviglio leggero (la parità in merito al naviglio da battaglia era stata ottenuta alla conferenza di Washington del ’21). Mentre Gran Bretagna, Stati Uniti e Giappone troveranno l’accordo, la disputa tra Francia e Italia richiederà ancora un anno di negoziati e si concluderà nel marzo del 1931 con un nulla di fatto. A prescindere dalle ragioni di prestigio, nella strategia di Grandi era necessario che l’Italia mantenesse il passo con le potenze di testa se voleva raggiungere il «peso determinante». Ma la politica del ministro degli Esteri aveva una premessa inaccettabile per Mussolini: quella di un’attesa indefinita nel tempo. Ammesso che il quadro europeo fosse rimasto statico e che l’Italia avesse trovato volontà e risorse per fare il salto di qualità che Grandi auspicava, quanto ci sarebbe voluto all’Italia per diventare protagonista al livello delle tre maggiori potenze europee? Dieci, venti anni? Mussolini non poteva attendere tanto, e alla politica del «peso determinante» veniva a mancare la condizione principale, quella di un lungo e intelligente processo di rafforzamento economico e tecnologico, senza il quale quella politica assumeva una connotazione velleitaria e avventuristica. Decisioni come quelle prese da Mussolini, nel dicembre del 1927, di fissare il cambio tra lira e sterlina a quota novanta, cioè di rivalutare la lira per questioni di prestigio, non erano che operazioni cosmetiche decisamente illusorie per quella politica di grande potenza conclamata dallo stesso capo del fascismo. Nel luglio del ’32 Mussolini destituiva Grandi riassumendo la guida degli Esteri e lo inviava ambasciatore a Londra. In un momento di irritazione dirà dell’ex ministro: «In tre anni Grandi ha sbagliato tutto. Si è lasciato imprigionare dalla Lega delle Nazioni, ha praticato una politica pacifista e societaria, ha fatto l’ultrademocratico e il super ginevrino, ha portato l’Italia fuori dal bi-

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nario rigido di una politica, ha compromesso alcune ambizioni della nuova generazione»17. In realtà, la presenza di Grandi a Palazzo Chigi aveva rappresentato un forte elemento di novità. Mentre nei primi sette anni (1922-29) la politica estera mussoliniana era stata quasi del tutto priva di originalità e di autonomia, muovendosi sostanzialmente a rimorchio della Francia e dell’Inghilterra, con Grandi il quadro era mutato. Le conferenze sulle riparazioni e poi quelle sul disarmo avevano imposto posizioni nuove che lo stesso ministro degli Esteri aveva assunto con decisione, spesso ponendosi in conflitto con Mussolini18. Nei mesi successivi al licenziamento di Grandi, Mussolini cercava di rimettere in carreggiata la politica estera in una visione più marcatamente fascista, con una serie di discorsi revisionisti nel tono e nella sostanza. A Milano, nell’ottobre del ’32, arrivava a profetizzare la generale affermazione del fascismo in Europa: «Il secolo ventesimo sarà il secolo della potenza italiana, sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere la direttrice della civiltà umana»19. Cominciava a prendere corpo in questi mesi l’impresa etiopica sulla base di un rapporto di Emilio De Bono, uno dei «quadriumviri» allora ministro delle Colonie, che denunciava un ipotetico processo di modernizzazione avviato in Abissina dal negus Hailé Selassié come una minaccia a non ben precisati interessi italiani, e quasi contemporaneamente l’ambasciatore, Raffaele Guariglia, metteva a punto un piano per un possibile allargamento dei nostri possedimenti somali ed eritrei. La gestazione dell’impresa richiederà quasi tre anni ed entrerà nella sua fase attuativa solo dopo l’incidente di Ual-Ual, nel dicembre 1934. Ma intanto, reso il dovuto omaggio alla retorica, rimaneva il problema della linea politica, in un’Europa che più che sui problemi politici era concentrata su quelli economici creati dalla grande crisi del 1929, e dove alle condizioni di relativa stabilità caratteriCfr. I. Montanelli, Storia d’Italia, vol. VII, 1919-1936, Milano 2003, p. 314. Cfr. D. Grandi, La politica estera dell’Italia dal 1929 al 1932, Roma 1985. E anche: Id., Il mio Paese, Bologna 1985. 19 Mussolini, Opera Omnia cit., vol. XXV, p. 78. 17

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stiche del decennio precedente sembrava che stesse per succedere una fase di instabilità e di turbolenze. Nel gennaio ’33, in Germania, Hitler, ricevuto l’incarico dal presidente Paul von Hindenburg, costituiva il suo primo governo. Seguivano nel febbraio l’incendio del Reichstag e i pieni poteri a Hitler. L’anno precedente in Portogallo era iniziata la dittatura di Antonio Salazar e in Ungheria si costituiva il governo semi-fascista di Gyula Gömbös, con un forte programma revisionista che gli ungheresi speravano di attuare con il sostegno di Mussolini. La situazione europea si stava muovendo e Mussolini, a cui non mancava l’istinto per queste cose, vedeva arrivare il momento in cui l’Italia avrebbe potuto svolgere un suo ruolo. È così che tra la fine del mandato di Grandi e i primi mesi del 1933 nasceva nella fertile mente di Mussolini il progetto che diventerà noto come quello del «Patto a Quattro», che riprendeva i fondamentali concetti della politica di Grandi attualizzandoli e dando per scontato come già operante il «peso determinante» dell’Italia. Il patto prevedeva un accordo tra le quattro maggiori potenze europee – Francia, Gran Bretagna, Italia e Germania – per il mantenimento della pace, la collaborazione per la soluzione delle maggiori questioni politiche continentali, la revisione concordata dei trattati. Il tutto nello spirito e nelle regole della Società delle Nazioni. Il progetto comportava sostanzialmente la creazione di un direttorio europeo che rischiava di togliere spazi e giustificazioni all’esistenza e alla politica della Società delle Nazioni. Ma, nonostante i frequenti attacchi e le ironie della stampa fascista nei confronti dell’organizzazione ginevrina, non sembrava essere tanto questo l’obiettivo di Mussolini, quanto piuttosto quello di operare una politica di mediazione permanente tra Francia e Inghilterra, da una parte, e, dall’altra, la Germania di Hitler, che arrivava al potere con un programma fortemente revisionista nei confronti di Versailles. Contenere il dinamismo tedesco significava anche proteggere l’indipendenza austriaca che per Mussolini continuava ad essere una costante preoccupazione. Il progetto del patto veniva presentato anzitutto alla Gran Bretagna, in occasione della visita a Roma del primo ministro laburista Ramsay McDonald, tornato al governo nel 1929, e del suo ministro degli Esteri John Simon. Agli inglesi il piano piacque, e anche i francesi, pur con qualche riserva, lo accettarono, mentre

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Hitler non potette rifiutarlo anche per rispetto verso Mussolini, nei confronti del quale il führer manifestava in questa fase una profonda e autentica ammirazione. Del resto il patto garantiva la legittimazione della Germania e per Hitler costituiva un vantaggioso riconoscimento. Il «Patto a Quattro» darà a Mussolini nuovo prestigio ma avrà vita breve. Il testo originale verrà discusso a lungo, sarà profondamente rimaneggiato e sostanzialmente ridotto a un accordo di consultazione. Firmato a Roma il 15 luglio del ’33, veniva ratificato solo dall’Italia e dalla Gran Bretagna20. A ostacolare la ratifica tedesca e a rendere ormai inutile la sua partecipazione al patto interveniva la decisione di Hitler di abbandonare la Società delle Nazioni e la conferenza sul disarmo per non aver ottenuto uguaglianza di diritti in materia di armamenti. Due decisioni che indicavano chiaramente il percorso che la Germania nazista intendeva intraprendere. Mussolini cercava, senza riuscirvi, di recuperare la partecipazione tedesca e avanzava alcune proposte che prevedevano un aumento degli effettivi dell’esercito tedesco a condizione del ritorno della Germania nella Società delle Nazioni. Intanto, il 25 luglio del 1934, i nazisti austriaci tentavano un golpe contro il governo di Vienna in nome dell’annessione alla Germania. Il golpe falliva per il pronto intervento della Heimwehren, in parte esercito nazionale, in parte organizzazione paramilitare che faceva capo al principe Ernest R. Starhenberg, e che il governo italiano sosteneva con occasionali finanziamenti. Ma nel corso dell’assalto alla sede del governo tentato dai rivoltosi veniva ucciso il cancelliere Engelbert Dollfuss, oltre che alleato dell’Italia amico personale di Mussolini, il quale per tutta risposta mise in allarme quattro divisioni al confine nord-orientale. Hitler, che Mussolini aveva incontrato per la prima volta a Venezia appena un mese prima, si dissociò dal tentativo, e l’episodio si chiuse rapidamente anche grazie alla tempestiva nomina del successore di Dollfuss, il cattolico conservatore Kurt von Schuschnigg. Ma rimase l’impressione che l’Austria fosse entrata nel mirino di Hitler e che sarebbe stata la prima a fare le spese del revisionismo tedesco. Nel 20 Il «Patto a Quattro» viene siglato a Roma il 7 giugno 1933. Cfr. F. Salata, Il Patto Mussolini, Milano 1933.

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’34 la Germania era ancora disarmata e pertanto non avrebbe potuto rischiare un diretto intervento in territorio austriaco almeno fino a quando durava la protezione italiana. L’episodio era preoccupante non solo per l’Italia, ma per tutti i paesi che avevano motivo di temere il revisionismo tedesco e in primo luogo per la Francia. Più ancora che il «Patto a Quattro», il tentato Anschluss, pur fallito, contribuiva a rendere naturale e necessario un riavvicinamento tra Parigi e Roma. A ciò contribuiva l’opera di mediazione tra Francia e Germania svolta dall’Italia sulla questione della Saar, il territorio di confine oggetto di contestazione. Dopo una serie di conversazioni preliminari svolte dai rispettivi ambasciatori nelle due capitali, il 7 gennaio 1935, a Roma, Mussolini e l’allora ministro degli Esteri francese, Pierre Laval, firmavano una serie di accordi per la cessione all’Italia di alcuni territori francesi confinanti con la Libia e l’Eritrea e per la convocazione di una conferenza danubiano-balcanica in funzione anti-tedesca. Veniva inoltre riconfermato l’impegno a difendere l’indipendenza austriaca che del resto era stato annunciato già un paio di volte, nel corso del ’34, prima e dopo il fallito golpe nazista. Durante l’incontro, con una dichiarazione destinata a restare segreta, Laval sembrò concedere mano libera all’Italia in Etiopia, o almeno questa era stata l’impressione dei negoziatori italiani. In realtà, l’ambiguità della dichiarazione del ministro francese si prestava a contraddittorie interpretazioni e alla contestazione dell’interessato, che verrà espressa al momento dell’intervento italiano. L’intesa era completata da un impegno comune a rispettare le decisioni sul livello degli armamenti fissato dai trattati internazionali. Inoltre il complesso degli accordi veniva approvato in un convegno franco-britannico che si teneva a Londra un mese dopo. Una procedura insolita che tuttavia sottolineava la solidità delle intese raggiunte, che sembravano così concorrere alla costituzione di un vero e proprio fronte anti-tedesco. A dare ulteriore consistenza al riavvicinamento italo-francese contribuiva qualche mese dopo un incontro tra i due capi di Stato maggiore, Pietro Badoglio e Maurice Gamelin, per concordare le modalità di una collaborazione militare nel caso di un intervento tedesco in Austria. Un tentativo ulteriore per contenere il dinamismo della Germania hitleriana veniva fatto con la conferenza di Stresa a metà

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aprile 1935. Francia, Italia e Gran Bretagna, nello spirito del Trattato di Locarno del 1925, si dichiaravano d’accordo «nell’opporsi con tutti i mezzi possibili a qualsiasi ripudio unilaterale dei trattati che potesse mettere in pericolo la pace». Mussolini, che stava preparando l’attacco all’Etiopia, chiese e ottenne che venisse aggiunta la precisazione «in Europa»21. Nasceva così quello che verrà chiamato il «fronte di Stresa», che seguiva di pochi giorni alla decisione di Hitler di ripristinare il servizio militare obbligatorio. Anche il «fronte», come il «Patto a Quattro», era destinato ad avere vita breve; già a giugno veniva stipulato un accordo navale tra Gran Bretagna e Germania con cui, inaspettatamente e con grave disappunto dell’alleata Francia, il governo britannico accettava il riarmo navale tedesco fino al 35 per cento della propria flotta. Era da parte di Londra un atto distensivo, ma veniva interpretato come un segno di debolezza e di cedimento. Qualche mese dopo, il 5 ottobre 1935, le truppe italiane varcavano il Mareb, un fiume al confine tra Eritrea ed Etiopia. Iniziava la conquista dell’impero. 5. La politica imperiale L’impresa era in preparazione da almeno tre anni e lo scontro tra truppe indigene italiane e bande provenienti dall’Abissinia, attorno ai pozzi di Ual-Ual, un villaggio al confine tra la Somalia e la provincia etiopica dell’Ogaden, fu il casus belli che fece precipitare la crisi. Che fosse avvenuto per responsabilità etiopica o fosse stato provocato dagli italiani non è mai stato accertato, ma esso innescava una escalation che iniziava con l’ultimatum italiano al governo di Addis Abeba, il quale, dopo un tentativo di conciliazione, investiva del caso la Società delle Nazioni di cui ambedue le parti erano membri. Francia e Inghilterra, principali sostenitori dell’organizzazione ginevrina, ne venivano automaticamente coinvolti. Mussolini, che credeva di aver incassato il placet dei francesi durante i colloqui con Laval del gennaio precedente, pensava di aver ottenuto tacitamente anche quello inglese. A Stresa non si era parlato di Africa e di colonie, ma la sottolineatura richiesta da

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Ne parla Alberto Pirelli nell’appendice a Guariglia, Ricordi cit., pp. 781-82.

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Mussolini relativa all’impegno per il mantenimento della pace «in Europa» era una indicazione inequivocabile delle nostre intenzioni aggressive in Africa, e l’accettazione da parte di francesi e di inglesi della precisazione richiesta era apparsa allo stesso Mussolini come un via libera all’azione italiana. Ma nel frattempo a Londra era cambiato il governo: a quello laburista di McDonald presente a Stresa era subentrato, nel giugno, il governo conservatore di Stanley Baldwin con Samuel Hoare ministro degli Esteri e Anthony Eden delegato alla Società delle Nazioni. Eden, di cui era nota la scarsa simpatia per il regime fascista, difenderà il ruolo della Società delle Nazioni nella convinzione che fosse l’ultimo baluardo al mantenimento dell’ordine e della pace in Europa. Inoltre i conservatori britannici temevano che un più ampio insediamento italiano in Africa orientale potesse fornire la base per ulteriori avanzate non solo nella zona del Mar Rosso, arrivando così a minacciare la linea di comunicazione dell’impero, ma anche nel mondo arabo, di cui Mussolini in varie occasioni si era dichiarato amico e protettore e in cui da tempo la propaganda fascista svolgeva un’opera di sobillazione anti-britannica. La Commissione arbitrale italo-etiopica, costituita per indagare le responsabilità degli scontri di Ual-Ual e per risolvere pacificamente la controversia, concludeva i suoi lavori sollevando l’Italia da ogni responsabilità, ma sostanzialmente assolvendo anche il governo etiopico da ogni intenzione aggressiva; pertanto il negoziato si concludeva con un nulla di fatto. Seguivano da parte inglese e francese una serie di proposte di compromesso che avrebbero assicurato acquisizioni territoriali, concessioni economiche e sostanzialmente un vero e proprio protettorato italiano nell’Abissinia, ma Mussolini, che ormai aveva iniziato la mobilitazione e il trasporto in Eritrea di grossi contingenti e di uomini e materiali per la preparazione dell’attacco, le respingeva22. 22 Una proposta inglese di cui sarà latore Anthony Eden, che incontrerà Mussolini a Roma il 24 giugno 1935, prevedeva la cessione all’Italia della provincia dell’Ogaden, al confine con la Somalia, e all’Etiopia uno sbocco sul Mar Rosso all’altezza della baia di Zeila, quindi a spese della Gran Bretagna poiché la baia di Zeila si trovava nella Somalia britannica. All’Italia venivano, inoltre, promesse concessioni di carattere economico in Etiopia equivalenti a una specie di protettorato commerciale. Mussolini, tuttavia, rifiutava l’offerta di Eden

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L’impresa etiopica nasceva da una serie di motivazioni legate in parte alla storia nazionale e all’identità del regime, in parte a considerazioni di opportunità politica. Fra le prime, la volontà di riscattare la sconfitta di Adua. Pur in ritardo con la storia, il fascismo aveva sempre individuato nei possedimenti coloniali il necessario complemento di una grande potenza. Tra il 1922 e il 1932 l’Italia aveva provveduto alla «riconquista» della Libia, dove durante la prima guerra mondiale, per la ribellione delle tribù dei Senussi, l’occupazione italiana si era ridotta alle zone costiere. Il generale Rodolfo Graziani, a cui era stato assegnato il compito di piegare la forte resistenza aveva raggiunto la pacificazione della colonia non senza far ricorso a metodi brutali tra cui i gas asfissianti23. La «riconquista» della Libia era solo un primo passo per la creazione di un impero coloniale, un obiettivo che soddisfaceva anche il vecchio motivo – invocato a suo tempo per la Libia – della ricerca dello spazio vitale e dello sbocco per il lavoro italiano. Anche la pressione demografica e l’aumento della disoccupazione provocata dalla crisi economica mondiale costituivano un motivo non secondario della decisione del regime di passare all’azione per dar corpo ai programmi e alle rivendicazioni di espansione territoriale, oggetto da sempre della propaganda fascista. Il clima politico internazionale sembrava favorevole alla realizzazione di un’impresa che, nei calcoli di Mussolini, non avrebbe dovuto trovare ostacoli da parte delle grandi potenze, e che, grazie alla prova di forza che si accingeva a dare, avrebbe accresciuto il credito dell’Italia nel mondo. Ritardare ulteriormente l’operazione in programma dal 1932 poteva essere inopportuno, sia per le attese del paese sia per una situazione internazionale che prometteva complicazioni nel futuro prossimo. Per avere mano libera in e proponeva una soluzione che avrebbe permesso all’Italia di annettersi tutti i territori non etiopici e il controllo dell’area centrale del paese che, pur mantenendo formalmente l’indipendenza, sarebbe stato ridotto a un protettorato. La soluzione viene respinta dagli inglesi. 23 Per fare il vuoto attorno ai resistenti libici, Graziani ricorrerà al sistema dei campi di concentramento, dove verrà ammassata la popolazione civile. Si calcola che i campi creati nel deserto abbiano ospitato circa 100.000 persone. Le pessime condizioni di vita e le malattie faranno migliaia di morti. Cfr. A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza 2005, p. 156.

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Europa da una posizione di maggiore prestigio, alla vigilia di una fase che si prevedeva di grandi cambiamenti, Mussolini riteneva opportuno liquidare la questione etiopica in tempo utile. Tra l’estate e l’autunno del 1935, col crescere delle tensioni, sulla questione etiopica si concentrava l’attenzione dei governi ma anche dell’opinione pubblica europea, e dati i precedenti storici e l’enorme disparità tra i due contendenti, inevitabilmente l’Italia veniva vista nel ruolo di aggressore e ciò le attirava una facile condanna. Un ampio sondaggio condotto in Inghilterra, la cosiddetta Peace ballot, indicava in caso di aggressione l’esistenza di una forte maggioranza favorevole non solo all’adozione di sanzioni economiche contro l’Italia ma anche a provvedimenti di carattere militare. E in effetti, mentre continuavano gli sforzi di conciliazione, sia a Ginevra in sede di Società delle Nazioni sia a livello diplomatico nelle conversazioni tra i vari governi, scattavano le prime misure militari. A metà settembre il governo inglese decideva di spostare nel Mediterraneo la Home Fleet, il nucleo principale della flotta inglese, generalmente di base nelle isole britanniche, a cui Mussolini rispondeva con l’invio di tre divisioni al confine tra Libia ed Egitto. In realtà, nessuna delle due parti voleva la guerra e Mussolini lo confermava in una intervista al «Morning Post» del 18 settembre 1935 in cui il dittatore dava ampie assicurazioni sul rispetto degli interessi francesi e britannici in Africa. Ma intanto la macchina della propaganda fascista iniziava una campagna contro l’Inghilterra presentata come un paese invecchiato, accusato di impedire ai popoli giovani e dinamici la conquista di un «posto al sole». Pur con alti e bassi, l’offensiva mediatica contro la «perfida Albione» era destinata a continuare negli anni seguenti: faciliterà la mobilitazione del paese durante la campagna etiopica, ma scaverà un solco profondo tra i due popoli e contribuirà non poco a spostare le simpatie degli italiani e soprattutto quelle delle giovani generazioni verso la Germania. Dopo aver raggiunto il momento più pericoloso, a metà settembre, la tensione internazionale si allentava e alla vigilia dell’intervento i ministri degli Esteri francese e britannico, riuniti a Parigi, decidevano di non ricorrere a sanzioni militari contro l’Italia e di graduare anche quelle economiche, ma soprattutto di lasciare aperto al traffico militare italiano il canale di Suez. Con quelle

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decisioni i due governi garantivano sostanzialmente la condotta dell’impresa etiopica. Le sanzioni economiche che l’11 ottobre cinquantuno Stati su cinquantaquattro (votarono contro l’Albania, l’Austria e l’Ungheria) decidevano contro l’Italia erano appena un po’ più che simboliche. Riguardavano l’embargo sulle armi e i materiali strategici con esclusione di petrolio, di acciaio e carbone; limitavano le importazioni di prodotti italiani e alcune transazioni finanziarie come prestiti e aperture di credito. Paesi non facenti parte della Società delle Nazioni come gli Stati Uniti e la Germania si dichiaravano neutrali e si limitavano a osservare l’embargo sulle armi. Nel complesso le conseguenze economiche delle sanzioni saranno limitate. Farà più male all’economia italiana la politica autarchica per la promozione dei prodotti nazionali adottata dal governo in risposta alle sanzioni, che si rivelerà particolarmente costosa. Sul piano politico le sanzioni giocavano addirittura a vantaggio del regime, che le sfruttò abilmente ottenendo una forte risposta popolare e la mobilitazione del paese spesso entusiastica e quasi totalitaria a favore della guerra e della politica mussoliniana. Il 9 maggio 1936, dopo una campagna di sette mesi e qualche iniziale difficoltà, ma sostanzialmente senza storia, per l’enorme superiorità di mezzi dell’attaccante, Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia annunciava la «rinascita dell’impero sui colli fatali di Roma» a una nazione che proprio allora raggiungeva il momento di maggiore coesione e il massimo di consensi per il governo. Con la conclusione della guerra d’Etiopia, Mussolini sarà sempre più attratto dalla politica estera rispetto a quella interna. Ma comincerà anche la sua parabola discendente. Due mesi dopo, in seguito alla vittoria del «Fronte popolare», in Spagna scoppia la guerra civile; la ribellione di una parte dell’esercito sotto la guida di Francisco Franco dal Marocco spagnolo si allarga al territorio metropolitano, sostenuta dai partiti conservatori e dalla «Falange», il movimento filo-fascista, fondato nel 1934 da José Antonio Primo de Rivera. In risposta alla richiesta di Franco, Mussolini e Hitler decidono di intervenire. Hitler manderà alcune unità della Luftwaffe, la divisione «Condor», armi e specialisti; Mussolini farà molto di più: oltre agli aerei invierà uomini (quasi 60.000), mezzi e denaro,

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e presto, operando dalle Baleari, diventate una base italiana, seppur temporanea, i sottomarini italiani «fantasma» intercetteranno e affonderanno le navi con gli aiuti che arrivano alla Repubblica spagnola dall’Unione Sovietica attraverso il Mediterraneo. A settembre, a Londra, si consuma la farsa del Comitato per il non intervento promosso per impedire le partecipazioni esterne alla guerra civile spagnola e limitarne le conseguenze internazionali. Proposto dalla Francia, al Comitato avevano aderito ventotto Stati, tra cui Italia e Germania, tecnicamente già in guerra a fianco di uno dei belligeranti. In effetti il rappresentante italiano, l’ambasciatore Dino Grandi, e quello tedesco, Joachim von Ribbentrop, futuro ministro degli Esteri e allora ambasciatore a Londra, si impegnarono a boicottare o a ritardare l’azione del Comitato. Da esso si staccava l’Unione Sovietica che cominciò a rifornire di armi e di consiglieri il governo repubblicano, mentre Francia e Gran Bretagna – in parte per scarsa simpatia per la causa repubblicana, in parte per evitare un aperto conflitto con Italia e Germania – assumevano una posizione defilata. La guerra di Spagna si concludeva tre anni dopo, nel marzo 1939. La vittoria dei franchisti fu anche la vittoria del fascismo e di Mussolini, e secondariamente della Germania di Hitler che vi aveva svolto un ruolo più limitato, ma il costo economico e più ancora quello politico furono altissimi per l’Italia. Così come era avvenuto per la campagna d’Etiopia, anche quella di Spagna ingoiò grandi quantità di materiale bellico; il che incise sull’efficienza delle forze armate indebolendo soprattutto l’esercito e l’aviazione, provocando vuoti che alla vigilia della seconda guerra mondiale non erano ancora stati interamente colmati. Il ruolo che si era sempre attribuito il fascismo mussoliniano di difensore dell’Occidente dalla minaccia del comunismo veniva confermato e rafforzato, ma ormai le minacce e le paure dell’Europa erano altre. A quella del comunismo si stava sostituendo la minaccia ben più incombente del nazismo tedesco. In Italia il regime non guadagnò né prestigio né consensi dalla partecipazione all’avventura spagnola, perché la maggioranza della popolazione non aveva capito le ragioni di quell’impegno e anzi intuiva quello che molti storici sosterranno più tardi e cioè che la guerra in Spagna era stata la prova generale della seconda guerra mondiale.

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Ma prima la campagna d’Etiopia e poi la guerra di Spagna avviarono la politica italiana su di un binario destinato a rivelarsi disastroso per il futuro del paese: quello di un graduale ma inarrestabile avvicinamento alla Germania, a un’alleanza che legava l’Italia al carro tedesco senza alcuna possibilità di azione autonoma.

6. L’asse Roma-Berlino L’anno della svolta che segna l’inizio del processo di avvicinamento è il 1936. Nel corso della campagna d’Africa, la Germania aveva assunto una posizione favorevole all’Italia e quello tedesco era il primo governo a riconoscere l’annessione dell’Etiopia. Allo scoppio della guerra civile spagnola la decisione di inviare aiuti a Franco veniva presa di concerto tra Mussolini e Hitler. Nel giugno dello stesso anno Mussolini lasciava il ministero degli Esteri a Galeazzo Ciano, marito di sua figlia Edda e quindi suo genero. Un altro avvicendamento significativo fu quello di Fulvio Suvich, sottosegretario agli Esteri, notoriamente cauto nei rapporti con la Germania, che veniva allontanato con la nomina di ambasciatore a Washington. Ciano, in questa fase, è apertamente favorevole a un’alleanza con la Germania e sarà Mussolini a frenare almeno per il momento gli entusiasmi del giovane ministro, ma già il 24 ottobre, a Berlino, lo stesso Ciano e il ministro degli Esteri tedesco, Costantin von Neurath, stipulano un protocollo che impegna l’Italia e la Germania a collaborare nella lotta al bolscevismo e a un’azione comune nell’area danubiana rivolta a smorzare le tensioni esistenti. L’accordo ribadisce inoltre le comuni posizioni verso la guerra civile spagnola. Si tratta, specie per ciò che riguarda la lotta al bolscevismo, di impegni generici che non comportano necessariamente la stipula di un’alleanza, ma a dargliene il valore era Mussolini che, in un discorso tenuto a Milano pochi giorni dopo, definiva gli accordi «un asse attorno al quale possano collaborare tutti gli Stati europei animati da volontà di collaborazione e di pace»24. 24

Mussolini, Opera Omnia cit., vol. XXVIII, pp. 69-70.

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Così nasceva quell’«asse Roma-Berlino» che sarà presentato dalla propaganda come un legame molto più forte di quello che non era, in base alla lettera del trattato. In realtà quell’accordo per un’azione comune nell’area balcanica segnava il ritorno dell’egemonia tedesca nella zona e la perdita graduale, ma sensibile, dell’influenza italiana su governi come quello ungherese, rumeno e polacco già vicini all’Italia. In questa fase, comincia anche la presa di distanze italiana dall’Austria e il cancelliere Schuschnigg, nel corso di un incontro con Mussolini, nel giugno 1936 a Roma, viene consigliato di prendere atto della naturale amicizia che lega l’Austria al Reich tedesco; è un primo avvertimento che la tradizionale politica del nostro governo di sostegno all’Austria sta cambiando. In un incontro successivo, a distanza di appena un anno, questa volta a Venezia, Mussolini dichiara di volere armonizzare i rapporti tra l’Italia e l’Austria con l’amicizia per la Germania e di non essere contrario all’Anschluss. L’annessione dell’Austria alla Germania che avviene meno di un anno dopo, nel marzo 1938, è il primo altissimo prezzo che l’Italia paga all’amicizia tedesca. La Germania al Brennero è ora una realtà. In cambio, Hitler garantisce il pieno riconoscimento dei nostri confini e il Mediterraneo come area di esclusivo interesse dell’Italia in piena consonanza con la campagna di propaganda italiana che, dopo la conquista dell’Etiopia, sul tema del Mediterraneo, mare nostrum, continua a battere quasi ossessivamente. Ma nel frattempo, nel tentativo di contenere la penetrazione tedesca nella zona danubiano-balcanica, e in previsione della probabile annessione dell’Austria, l’Italia si è riavvicinata alla Jugoslavia: i due paesi tradizionalmente in conflitto condividono le stesse preoccupazioni. Un accordo tra Roma e Belgrado, firmato nel settembre 1936, verte su questioni economiche e finanziarie e impegna Italia e Jugoslavia al mantenimento di buone relazioni diplomatiche. L’accordo è limitato, ma è solo un inizio; più politicamente significativo il cosiddetto Patto di Belgrado del marzo 1937 che garantisce i confini esistenti e la conservazione dello status quo in Adriatico. La collaborazione italo-jugoslava, che durerà fino al 1939, è resa più solida dal rapporto personale tra Galeazzo Ciano e il primo ministro jugoslavo Milan Stojadinovic´; avrà come conseguen-

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za il progressivo distacco della Jugoslavia dalla tradizionale amicizia francese, ma ormai con l’intensificarsi dei rapporti italo-tedeschi l’Italia non agisce più nel quadro di una politica autonoma e anche il riavvicinamento di Belgrado a Roma finirà alla lunga per contribuire al rafforzamento dell’influenza tedesca nell’area balcanica. La deriva italiana verso la Germania continua, alimentata da una serie di visite e incontri di gerarchi di ambedue le parti. Inizia la serie il ministro tedesco della Giustizia, Hans Frank, che nel settembre 1936 viene a Roma a rassicurare Mussolini e Ciano sulla volontà tedesca di lasciare il Mediterraneo all’esclusiva influenza italiana, una questione su cui lo stesso Hitler insisterà nel suo incontro con Ciano dopo la firma dei protocolli sul comune impegno di lotta al bolscevismo. I tedeschi sanno bene che questa è la maggiore ambizione di Mussolini e non mancano di compiacerlo. La corte sempre più assidua che i gerarchi nazisti fanno all’Italia per indurla a una vera e propria alleanza fa parte della strategia generale di Hitler che ormai emerge sempre più chiaramente. Il führer è impegnato in una politica revisionista che mira a ricondurre le popolazioni di lingua e cultura tedesca sparse nella Mitteleuropa sotto le ali della Germania nazista. L’Italia fascista serve a Hitler come copertura politica e ideologica per questa azione, ma il dittatore tedesco sa che presto o tardi la sua azione potrebbe incontrare la reazione anglo-francese e nel corso di una guerra generale l’Italia servirà a garantire la sicurezza della frontiera meridionale. In caso di guerra i generali della Wermacht sono pronti a marciare, ma non vogliono essere costretti a combattere su due fronti come nel 1914-18. Ecco, quindi, l’importanza dell’alleanza con l’Italia più politica che militare. Anzi, dal punto di vista militare, i generali tedeschi non nascondono i loro dubbi sull’utilità dell’alleanza e il capo di Stato maggiore, Werner von Blomberg, dopo aver partecipato nel 1937 alle manovre estive del nostro esercito, esprimerà un mordente giudizio sulla preparazione dell’apparato militare italiano25. 25 Nella sua Storia d’Italia cit., vol. VIII, 1936-1943, Milano 2003, p. 83, Montanelli riporta che Blomberg, nel corso di un’intervista alla stampa tedesca,

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Nel corso dello stesso anno le visite dei tedeschi si fanno sempre più fitte e autorevoli: in aprile il ministro dell’Aeronautica e «numero due» del regime, Hermann Göring, e il ministro degli Esteri von Neurath; nuovamente von Neurath nel maggio; il maresciallo von Blomberg in giugno. In settembre è la volta di Mussolini, ripetutamente invitato ad andare in Germania. Da Monaco a Berlino, per cinque giorni, Mussolini e Hitler percorrono l’intero paese, assistono a parate, a manovre militari che impressionano il «duce» del fascismo; a conclusione del viaggio Mussolini parla (in tedesco) a un milione di berlinesi radunati al Campo di Maggio esaltando la comune volontà «dei nostri due grandi popoli i quali formano una imponente e sempre crescente massa di centoquindici milioni di anime uniti in una sola incrollabile decisione»26. A parte la retorica obbligata in simili occasioni, erano parole impegnative che andavano ben al di là di affermazioni di circostanza.

7. Dall’«Anschluss» a Monaco e a Praga Il processo verso la grande alleanza con i tedeschi è ormai avviato e Mussolini lo asseconda fino a perdere la capacità di controllarlo. Si è scritto di una strategia mussoliniana che avrebbe machiavellicamente misurato una politica aperta a soluzioni alternative per utilizzare i rapporti italo-tedeschi per far pressione su Parigi e Londra onde ottenere le concessioni rivendicate dall’Italia, ma c’è poco nelle vicende di quegli anni cruciali a suffragare questa ipotesi27. Dopo l’Etiopia e durante la guerra di Spagna Mussolini sembra perdere di vista la politica del «peso determinante» e, dopo il breve idillio all’inizio del 1935, i rapporti con la Francia a causa dell’Etiopia e soprattutto dopo l’impegno italiano in Spagna si erano sempre più deteriorati. Il «Fronte popoalla domanda: «Chi vincerà la prossima guerra?» avesse risposto: «Il blocco di potenze che non avrà come alleata l’Italia». 26 Mussolini, Opera Omnia cit., vol. XXVIII, p. 251. 27 Cfr. E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali. 1918-1992, Roma-Bari 1994, pp. 281 sgg.; L. Saiu, La politica estera italiana dall’Unità ad oggi, RomaBari 1999, pp. 97 e 102; A.A. Rota, La diplomazia del ventennio, Milano 1990.

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lare» a forte partecipazione comunista, che nasce dalle elezioni del ’36, diretto da Léon Blum, guarda all’Italia di Mussolini come a una rivale ideologica prima ancora che politica e associa ormai fascismo e nazismo nella stessa condanna. Dall’ottobre 1936 l’ambasciata francese a Roma è retta da un incaricato d’affari; Parigi rifiuta di inviare un ambasciatore che nella presentazione delle credenziali al re d’Italia e imperatore d’Etiopia sarebbe stato costretto a riconoscere l’acquisizione dell’impero, di conseguenza un anno dopo anche l’Italia richiama il proprio ambasciatore a Parigi, Vittorio Cerruti. Rimangono i rapporti con la Gran Bretagna. Il governo di Neville Chamberlain, fratello di Austen, già amico di Mussolini, considera ancora possibile il recupero dell’Italia. Nel luglio 1936, l’Inghilterra con un gesto distensivo ritirerà la Home Fleet dal Mediterraneo e Mussolini, non meno significativamente, richiamerà in patria le divisioni inviate in Libia al confine con l’Egitto nel momento più acuto della crisi per l’Etiopia. Alcuni mesi dopo, nel gennaio del 1937, Italia e Inghilterra stipulano un Gentlemen’s agreement che impegna le due parti al mantenimento dello status quo nel Mediterraneo e il nostro paese all’abbandono, alla fine della guerra civile spagnola, della base creata nelle Baleari. Ma poi, qualche mese dopo, Mussolini decide di sospendere la distribuzione in Italia della stampa britannica per le critiche sempre più frequenti contro la politica fascista e contemporaneamente vengono richiamati i corrispondenti dei giornali italiani da Londra. Un’altra doccia fredda per i rapporti con Francia e Inghilterra è l’adesione italiana al Patto Anticomintern, già stipulato nel novembre ’36 tra Germania e Giappone e a cui il nostro paese aderisce un anno dopo. È l’impegno dei contraenti a una comune lotta anticomunista e a reciproche consultazioni prima di ogni eventuale accordo con l’Unione Sovietica. Ciano nel suo diario scriveva di non aver mai visto Mussolini così felice: «L’Italia ha rotto l’isolamento: è al centro della più forte combinazione politico-militare che sia mai esistita»28. Che l’Italia fosse al centro della nuova alleanza con due paesi così supe28

G. Ciano, Diario 1937-1943, Milano 1990, p. 53.

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riori in popolazione e capacità militare c’era da dubitare, ma la naturale emotività di Mussolini veniva stimolata sempre più dalle vicende di questi anni e, di quando in quando, il dittatore sembrava perdere la lucidità necessaria a giudicare gli eventi nelle loro reali dimensioni. In particolare, sempre più emotive erano le sue reazioni agli attacchi della stampa internazionale e di quella francese in particolare e alcune importanti decisioni venivano prese dal dittatore sotto l’effetto delle reazioni prodotte da quegli attacchi. Alla stipula del patto tripartito seguiva, pochi giorni dopo, l’uscita dell’Italia dalla Società delle Nazioni. Il governo fascista e lo stesso Mussolini non avevano mai fatto mistero dello scetticismo e di un certo sottile dileggio nei confronti dell’assise ginevrina che rappresentava sul piano internazionale le proiezioni di quei principi democratici che il fascismo aveva sempre combattuto sul piano interno. Ma pur senza eccessivi entusiasmi e facendo sempre prevalere l’interesse nazionale, l’Italia aveva continuato a operare all’interno dell’organizzazione ben sapendo quanto ciò fosse necessario per mantenere rapporti amichevoli con la Francia e soprattutto con la Gran Bretagna. La decisione di uscire dalla Società delle Nazioni, che avveniva quando ormai la questione delle sanzioni era superata, costituiva una scelta politica che allineava l’Italia al Giappone, uscito già nel ’31, e alla Germania. Era una manifestazione di coerenza con l’adesione al patto, ma era anche un atto che accresceva e non di poco le distanze con Parigi e Londra. Nonostante l’allineamento italiano con Germania e Giappone fosse sempre più evidente, Chamberlain, che nel maggio 1937 aveva sostituito Baldwin, era ancora convinto che l’Italia potesse essere sottratta a un’alleanza formale con Berlino e a questa sua convinzione arrivò perfino a sacrificare il suo ministro degli Esteri. Anthony Eden, che con l’Italia e Mussolini aveva un pessimo rapporto, dava infatti le sue dimissioni nel gennaio del ’38, per dissensi con il primo ministro proprio sui rapporti con l’Italia, manifestati per di più proprio nel corso di un incontro tra Chamberlain e l’ambasciatore italiano Dino Grandi. L’anno 1938 sarà quello in cui si giocano definitivamente le sorti della pace. Esso si apre con l’Anschluss a cui Mussolini si è ormai definitivamente rassegnato e al culmine della crisi, quando

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l’incaricato di affari francese telefona a Ciano per fissare un incontro al fine di consultarsi sulla situazione austriaca secondo gli accordi Mussolini-Laval del ’35, il ministro degli Esteri risponde con arroganza che il governo italiano «non intende consultarsi con nessuno»29. A occupazione tedesca avvenuta, Ciano annota: «Il duce è contento e dice ad Assia (il principe di Assia inviato da Hitler con una lettera per Mussolini con spiegazioni su quanto è accaduto) di informare il führer che l’Italia segue con assoluta calma gli eventi»30. Alcune settimane dopo, nel maggio del 1938, si svolge la visita ufficiale di Hitler in Italia. Accompagnato da Mussolini a Roma e a Firenze, il führer visiterà musei, e a Napoli, accanto a re Vittorio Emanuele III, una vicinanza chiaramente sgradita ad ambedue, assisterà a una imponente rivista navale. In realtà, Vittorio Emanuele III – pur costretto a un ruolo secondario dalla dittatura mussoliniana – non fa mistero della propria avversione per Hitler. «Il re è scettico circa l’amicizia tedesca. Non credeva che il führer fosse padrone della situazione», annota nel suo diario Emilio De Bono31. Ma Mussolini non si cura delle obiezioni del sovrano con cui i rapporti in questo periodo sono pessimi, soprattutto dopo l’opposizione di Vittorio Emanuele all’istituzione del grado di primo maresciallo dell’impero con cui veniva equiparato al «duce». Sono settimane, quelle della primavera del ’38, in cui Mussolini pronuncia due discorsi: uno più bellicoso dell’altro. Il primo, il 30 marzo, al Senato, in cui presenta come inevitabile una guerra generalizzata, il secondo, qualche settimana dopo, a Genova, in cui attacca violentemente la Gran Bretagna e la Francia. L’attacco è tanto più sorprendente in quanto appena qualche giorno prima erano stati firmati a Roma i cosiddetti «accordi di Pasqua» tra Italia e Gran Bretagna che formalizzavano il Gentlemen’s agreement di un anno prima sullo status quo nel Mediterraneo e sull’integrità del territorio spagnolo alla fine della guerra civile. Degli «accordi di Pasqua» faceva parte anche il riconosciIvi, p. 111. Ibidem. 31 Archivio centrale dello Stato, E. De Bono, Diario, quaderno 43. 29 30

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mento da parte della Gran Bretagna dell’annessione dell’Etiopia che costituiva una importante concessione e una evidente espressione di buona volontà da parte del governo britannico, malgrado la crescente ostilità dell’opinione pubblica inglese per la politica italiana. Contemporaneamente l’incaricato di affari francese a Roma proponeva l’apertura di un negoziato franco-italiano per la soluzione dei problemi rimasti sospesi tra i due paesi. Ma mentre Mussolini sembrava ormai orientato a stringere i tempi per un’alleanza formale con la Germania che i tedeschi continuavano a sollecitare, il suo ministro degli Esteri, Ciano, stava ripiegando dagli iniziali entusiasmi filo-tedeschi su posizioni più caute che di quando in quando – lo conferma il suo diario – sfociavano in espressioni di diffidenza e perfino di aperta ostilità nei confronti di Hitler e del suo entourage. Ciò che aveva messo in guardia Ciano era stata la scoperta dell’esistenza di un accordo segreto tra Germania e Giappone come parte del Patto Anticomintern che i tedeschi si erano rifiutati di rivelare al momento dell’ingresso italiano nel patto32. Inoltre i dirigenti nazisti avevano attuato l’occupazione dell’Austria senza quelle consultazioni con Roma che erano state ripetutamente promesse da Hitler, informando il governo italiano solo all’ultimo momento. Ai dubbi di Ciano si associavano anche quelli dell’ambasciatore italiano a Berlino, Bernardo Attolico, che inviava rapporti sempre più preoccupati sui progetti espansionistici della Germania. Un passo ulteriore verso le posizioni tedesche era costituito dall’adozione nel settembre di una serie di provvedimenti antisemiti, le cosiddette leggi razziali, che escludevano i cittadini italiani di razza ebraica dall’insegnamento e da una serie di altri uffici pubblici, prevedevano l’espulsione degli ebrei che non fossero cittadini italiani e la revoca della cittadinanza agli ebrei che l’avevano ottenuta dopo il 1918. 32 L’accordo segreto riguardava l’impegno di Germania e Giappone a non concludere accordi con l’Unione Sovietica senza l’assenso della controparte. Ciano aveva chiesto a Ulrich von Hassell, ambasciatore tedesco a Roma, di «conoscere ed eventualmente aderire agli accordi segreti che mi risulterebbero esistere tra Berlino e Tokio», ma non ebbe risposta. Cfr. Rota, La diplomazia del ventennio cit., pp. 918-19.

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Il fascismo non aveva espresso in passato posizioni apertamente razziste, anche se all’interno del partito, sin dalle origini, erano emerse forme di discriminazione non dichiarate. Pertanto quella decisione, che sorprendeva l’opinione pubblica italiana e metteva in forte allarme quella anglosassone, andava interpretata come un ulteriore allineamento del regime fascista alle posizioni ideologiche e alle politiche del nazismo tedesco. Poi in ottobre verrà Monaco. Dopo un crescendo propagandistico per la rivendicazione dei Sudeti, un’ampia regione della Cecoslovacchia con un consistente nucleo di popolazione tedesca, Hitler invia il 26 settembre un ultimatum al governo ceco che lascia pochi dubbi sulle intenzioni del Terzo Reich di un intervento militare, se il governo di Praga non avesse ceduto alle richieste di Berlino. Ma la Cecoslovacchia era alleata della Francia, che ne garantiva la sicurezza; e mentre il governo di Parigi decideva una parziale mobilitazione, quello inglese metteva in allarme la flotta dando un chiaro segno che, a un intervento tedesco, sarebbe seguita una guerra generale. Il premier inglese Chamberlain incontrava Hitler ben due volte in pochi giorni, ma senza trovare una soluzione accettabile. L’Europa sembrava essere alla vigilia di un conflitto ed è in questo clima che maturava la mediazione di Mussolini richiesta esplicitamente dal governo britannico. Sulla questione cecoslovacca l’Italia aveva dichiarato la propria neutralità, ma al governo tedesco aveva comunicato «solidarietà completa con la Germania e l’impegno che in ogni evenienza l’Italia sarebbe stata al suo fianco»33. L’incontro a quattro tra il presidente del Consiglio francese Edouard Daladier, Chamberlain, Hitler e Mussolini si svolgeva a Monaco il 29 settembre 1938. La crisi rientrava e il giorno successivo veniva sottoscritta l’intesa che, grazie anche alle proposte di Mussolini, dava piena soddisfazione alle richieste di Hitler. I Sudeti venivano trasferiti alla Germania e anche polacchi e ungheresi vedevano parzialmente accolte le loro rivendicazioni con annessioni territoriali e rettifiche di confine decise a tavolino. Il governo ceco non era stato nemmeno ammesso alle riunioni. 33

Ciano, Diario cit., p. 186.

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Con l’accordo di Monaco Hitler si era impegnato a non procedere ad altre rivendicazioni, ma qualche mese dopo, nel marzo 1939, procedeva all’annessione di ciò che era rimasto della Cecoslovacchia e l’esercito tedesco entrava a Praga tra una folla silenziosa e umiliata. La giovane Repubblica nata nel 1918 dai trattati di Versailles cessava di esistere. Ancora qualche esitazione da parte di Mussolini che era uscito da Monaco con l’aura del pacificatore: una popolarità che il dittatore dissiperà ben presto con una serie nutrita di discorsi sempre più bellicosi. I primi mesi del ’39 vedono gli ultimi tentativi di Francia e Gran Bretagna per trattenere l’Italia sulla via dell’alleanza con la Germania in una posizione che ormai avrebbe potuto essere solo di semi-neutralità, ma dai negoziati diplomatici che si svolgono tra gli ambasciatori e dal dialogo a distanza tra i capi di governo appare chiaro che tra le richieste di rivendicazioni territoriali sempre più pressanti di Mussolini e le disponibilità francesi e inglesi c’era una differenza incolmabile. Mentre Chamberlain continuava a mostrare una generica buona volontà, Daladier in un suo discorso di fine marzo si rendeva disponibile ad aprire trattative sulla base degli accordi del gennaio 1935, ma escludeva l’accoglimento delle richieste di compensazioni territoriali. La martellante campagna di propaganda seguita dal fascismo negli ultimi anni a sostegno delle rivendicazioni di Nizza, Savoia, Corsica e Tunisia poteva avere solo due sbocchi. O l’accettazione da parte di Mussolini di qualche ulteriore briciola di deserto africano o la guerra. In un rapporto del 4 febbraio 1939 al Gran Consiglio del fascismo, Mussolini giudica inevitabile uno scontro con la Francia: è solo una questione dei tempi necessari all’ammodernamento delle forze armate e alla preparazione morale del paese. Il passo successivo non può quindi essere che l’alleanza con la Germania. Ma prima Mussolini dà via libera all’operazione che porta all’invasione e all’annessione dell’Albania, per offrire una prova di forza e precostituirsi una posizione più favorevole per la trattativa con i tedeschi o – secondo altre interpretazioni che non contraddicono la prima – per spirito di imitazione nei confronti delle recenti annessioni hitleriane.

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Programmata già un anno prima su progetto di Ciano, Mussolini decide l’invasione dell’Albania il 7 aprile, alcuni giorni dopo l’annessione tedesca della Cecoslovacchia. Le trattative per un’alleanza formale con la Germania si aprono un mese dopo a Milano con l’incontro tra Ciano e il nuovo ministro degli Esteri tedesco, Joachim von Ribbentrop34. 8. Il «Patto d’acciaio» La decisione di stipulare un’alleanza militare tra Italia e Germania, proposta insistentemente dai tedeschi e considerata da tempo sia da parte di Mussolini che di Ciano ma sempre rinviata, era definitivamente maturata alla fine del 1938. Ma nelle originali intenzioni di Mussolini non avrebbe dovuto avere quell’accelerazione che improvvisamente assume durante i colloqui tra Ciano e Ribbentrop. Anzi, dagli appunti che Mussolini fece avere a Ciano prima dell’incontro emergeva chiaramente la preoccupazione del dittatore di chiarire che l’Italia non sarebbe stata pronta a partecipare a una eventuale guerra generale che di lì a tre anni, data la necessità di rendere più efficienti le forze armate, anche se nel frattempo non si escludeva un conflitto limitato tra Francia e Italia. Erano disposizioni che potevano accreditare l’ipotesi che Mussolini fosse interessato a stringere l’alleanza con la Germania per utilizzarla sul piano politico nei rapporti con Francia e Gran Bretagna e in eventuali negoziati per ottenere le concessioni da tempo richieste piuttosto che per partecipare ai programmi espansionistici di Hitler chiaramente indirizzati verso nuove rivendicazioni a spese della Polonia; e cioè la città di Danzica, il distretto di Memel e il corridoio polacco, la striscia di territorio polacco che separava la Prussia orientale dal resto della Germania. Ma ormai i rapporti con la Germania si erano fatti troppo stretti e più angusti i margini di manovra di Mussolini. Il dittatore si sentiva sempre più attratto verso l’alleanza con i tedeschi per le affinità ideologiche tra i due regimi, gli obiettivi politici comuni ai due paesi e le manifestazioni sempre più evidenti della potenza militare nazista. 34 Sulle origini del «Patto d’acciaio» cfr. M. Toscano, Le origini diplomatiche del Patto d’acciaio, Firenze 1956.

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Una volta conclusa l’alleanza, le riserve sui tempi di eventuali azioni belliche riflettevano in realtà solo le preoccupazioni di Mussolini per le pessime condizioni del nostro apparato militare, che il dittatore conosceva benissimo. Nondimeno, le circostanze in cui si svolgeva il negoziato tra Ciano e Ribbentrop lasciano sconcertati. Il ministro degli Esteri tedesco aveva fatto avere a quello italiano uno schema di trattato e lo aveva sollecitato a preparare un suo progetto per confrontarli e discuterli nel corso dell’incontro. Ciano non preparerà alcun documento e si presenterà all’appuntamento di Milano con le sole note di Mussolini. Dopo i primi rapporti telefonici di Ciano a Mussolini sull’andamento dei colloqui, giudicati dal nostro ministro soddisfacenti, poiché Ribbentrop aveva dichiarato che la Germania intendeva rinviare l’inizio di un conflitto generalizzato di almeno tre anni, Mussolini – irritato da un attacco particolarmente violento della stampa francese – ordinava la conclusione dell’accordo e il suo immediato annuncio che trovava la piena approvazione di Hitler. Così, sulla base di una semplice assicurazione verbale, che oltretutto contrastava apertamente con l’atteggiamento sempre più aggressivo dei tedeschi nei confronti della Polonia, e nonostante le prevedibili reazioni che l’alleanza avrebbe provocato in Francia e Gran Bretagna, l’Italia si legava a filo doppio al carro nazista. Il «patto di amicizia e di alleanza tra l’Italia e la Germania», che prenderà il significativo nome di «Patto d’acciaio», prevedeva al suo articolo 3 che «se malgrado i desideri e le speranze delle parti contraenti dovesse accadere che una di esse venisse trascinata in complicazioni belliche con un’altra e con altre potenze, l’altra parte contraente si porrà immediatamente al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze militari per terra, per mare e nell’aria»35. L’articolo 5 del patto stipulava che le due parti contraenti, una volta in guerra, non ne potevano uscire senza l’assenso dell’altra, una clausola che voleva cautelare i tedeschi contro eventuali voltafaccia e che confermava sospetti e riserve diffusi tra le gerarchie del Reich. Non si trattava pertanto di una tradizionale alleanza difensiva, come lo era stata la Triplice, ma il trattato comportava l’obbligo 35

De Felice, Mussolini il Duce cit., vol. I, pp. 918-19.

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di partecipazione di una parte se l’altra si fosse trovata coinvolta in un guerra, qualunque fossero state la sua causa e la sua natura. Inoltre il trattato, per quanto concerneva gli accordi militari, stabiliva l’automatismo dell’intervento – esplicitamente richiesto da Mussolini nelle sue istruzioni a Ciano – che non lasciava alternative all’altro, quando uno dei due contraenti si fosse trovato in stato di guerra. Poiché era impensabile che Francia o Inghilterra attaccassero la Germania se quest’ultima non avesse a sua volta attaccato un paese ad esse alleato, l’Italia diventava completamente dipendente dalle decisioni tedesche, anche perché remota era la possibilità che il nostro paese fosse in grado di muovere guerra alla Francia, secondo le pur vaghe ipotesi di Mussolini, date le condizioni delle forze armate italiane definite disastrose dalle gerarchie militari e dallo stesso re Vittorio Emanuele III. Il trattato veniva firmato con una solenne cerimonia il 22 maggio 1939, ma già una settimana dopo al generale Ugo Cavallero, in partenza per la Germania per colloqui di carattere militare con i colleghi tedeschi, veniva affidato da Mussolini un memoriale in cui si ribadiva l’impreparazione italiana a partecipare prima di tre anni a una guerra generale di cui pur si riconosceva l’inevitabilità. Più tardi si saprà che, proprio all’indomani della firma del «Patto d’acciaio», Hitler aveva riunito i suoi generali per discutere il piano di attacco alla Polonia e la guerra generale che avrebbe potuto derivarne. Nei mesi successivi, col profilarsi sempre più chiaramente dell’eventualità di un attacco della Germania alla Polonia che inevitabilmente avrebbe provocato la reazione anglo-francese per le garanzie concesse da Londra e Parigi al governo di Varsavia, a Roma aumentavano il disagio e le riserve sulla buona fede dei tedeschi. Mentre la propaganda ufficiale continuava a esaltare la solidità dell’amicizia italo-germanica «fondata su di una comunanza di idealità e di destini», al vertice dello Stato, oltre ai dubbi, si cominciavano a esprimere giudizi sempre più critici sull’alleato. «Dei tedeschi non ci si può fidare», scriveva Ciano nel suo diario, e anche il re usciva in apprezzamenti meno che ortodossi sui tedeschi e sui loro metodi36. 36

Ciano, Diario cit., p. 327.

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Ma nonostante il moltiplicarsi dei segnali di guerra e gli allarmati rapporti dell’ambasciatore Attolico, a Roma continuava a prevalere l’ottimismo sul futuro, quasi a voler ignorare una realtà che si imponeva ogni giorno di più. Ancora il 1° agosto 1939, a un mese dall’attacco alla Polonia, nonostante le segnalazioni dei nostri rappresentanti dai paesi vicini all’area di crisi, Ciano continua a manifestare il suo scetticismo. Ma presto anche a Roma comincia a diffondersi la preoccupazione e nasce il progetto di un incontro Ciano-Ribbentrop, che viene fissato per la metà di agosto a Salisburgo. Alla vigilia della partenza di Ciano, Mussolini raccomanda «che io faccia presente ai tedeschi [è il genero del «duce» a parlare attraverso il suo diario] che bisogna evitare il conflitto con la Polonia perché è ormai impossibile localizzarlo e una guerra generale sarebbe per tutti disastrosa». «Mai come oggi» – commenta Ciano – «il duce ha parlato con calore e senza riserve della necessità della pace»37. Ma all’incontro prima con Ribbentrop e poi con lo stesso Hitler, l’11 e il 12 agosto a Salisburgo, Ciano apprende che la decisione di attaccare la Polonia è stata presa e trova un Hitler irremovibile. Il ministro degli Esteri farà di tutto per convincere i suoi interlocutori ad annullare l’azione prospettando le conseguenze più drammatiche, ma le sue parole non avranno alcun effetto. Annoterà Ciano: «Hitler ascolta con interesse lontano e impersonale quanto gli dico circa il male che una guerra farà cadere sul popolo italiano. In fondo sento che l’alleanza con noi vale per i tedeschi soltanto per quel quantitativo di forze che noi potremo distrarre dai loro fronti. Niente di più. Le nostre sorti non li interessano»38. Qualche giorno dopo arriva la notizia del patto tedesco-sovietico, uno shock per amici e nemici, ma Ciano non può fare a meno di definirlo «un colpo da maestro». Con il patto di non aggressione con Mosca la Germania si garantisce la collaborazione sovietica al progettato attacco alla Polonia. Un protocollo segreto prevede una sostanziale spartizione del territorio polacco e mano 37 38

Ivi, p. 326. Ivi, p. 327.

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libera all’Urss verso i paesi baltici e la Bessarabia, come prezzo dell’acquiescenza sovietica alla nuova aggressione tedesca. Il patto riveste per la Germania un grande valore strategico in quanto le garantisce la neutralità dell’Urss nel caso di una guerra contro Francia e Gran Bretagna: dopo aver liquidato la Polonia l’esercito tedesco sarà, pertanto, in grado di concentrare tutta la sua potenza sul solo fronte occidentale. Ora che la guerra è sicura, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’Italia si preoccupa di trovare le giustificazioni per restarne fuori. Si ricorrerà a un umiliante escamotage su suggerimento di Mussolini. Lo Stato maggiore italiano prepara una lista chilometrica di armamenti e materie prime alla cui disponibilità l’Italia condiziona il suo ingresso in guerra a fianco della Germania secondo lo spirito e la lettera del «Patto d’acciaio». Si tratta di 170.000 tonnellate di materiali il cui trasporto avrebbe richiesto ben 17.000 treni. Hitler dichiara l’impossibilità di fornire il materiale richiesto. Scrive Ciano: «Comprende la nostra situazione e ci invita a mantenere un contegno amichevole»39.

9. Dalla non belligeranza all’armistizio Il 1° settembre 1939 le truppe tedesche entrano in Polonia dopo aver organizzato un incidente di frontiera, il 3 e il 4 Inghilterra e Francia onorano i loro impegni e dichiarano guerra alla Germania. In poco più di tre settimane la Polonia è in ginocchio e mentre brucia Varsavia, pesantemente bombardata dai tedeschi, l’Armata Rossa entra nelle province orientali polacche per riscuotere la cambiale firmata dai tedeschi con il Patto Molotov-Ribbentrop. Per l’Italia è l’inizio della fase cosiddetta della «non belligeranza». Verrà interrotta solo nel maggio 1940, quando, dopo le vittorie tedesche in Occidente – in Danimarca, in Norvegia e contro una Francia che, pur con l’aiuto britannico, non riuscirà ad arginare la marea tedesca –, Mussolini deciderà l’intervento per ottenere un posto al tavolo della pace, considerata ormai vicina, e per reclamare la sua parte delle spoglie. 39

Ivi, p. 335.

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Per Mussolini sono mesi di passione e Ciano riferisce nel suo diario i cambiamenti di umore del dittatore. Il suo istinto lo porterebbe a intervenire immediatamente a fianco della Germania; lo trattiene l’impreparazione militare dell’Italia che gli viene confermata da più parti e la possibilità che l’offensiva tedesca possa incontrare impreviste difficoltà nello scontro con i franco-britannici, che viene rinviato nei mesi della cosiddetta drôle de guerre. Tuttavia, la decisione di intervenire è presa e Mussolini – come dirà a Ciano – si riserva solo la scelta del momento più propizio. Il ministro degli Esteri e pochi altri, come l’ambasciatore Attolico e il sottosegretario agli Esteri, Giuseppe Bastianini40, tenteranno di dissuaderlo e di indurlo a denunciare l’alleanza con la Germania. Anche il re è contrario all’intervento, ma non ha la forza di opporsi41. Ma Mussolini è mosso da due motivazioni che prevalgono su tutte le altre: solo l’impegno in una guerra vittoriosa a fianco della Germania avrebbe potuto consentire all’Italia la conquista del ruolo di grande potenza che era stato l’obiettivo di tutta la politica estera mussoliniana, e un «voltafaccia», come quello avvenuto al tempo della prima guerra mondiale, avrebbe definitivamente squalificato l’Italia agli occhi del mondo, ma soprattutto avrebbe rischiato di esporla alla vendetta tedesca per l’inadempienza agli

40 G. Bastianini, Volevo fermare Mussolini, Milano 2005, p. 71. Nel corso di un colloquio avvenuto nello studio del «duce», presente l’ambasciatore Attolico, Bastianini ha un violento scontro con il dittatore. Grida: «Duce, questa guerra voi non potete farla, non siete in condizione di farla. [...] Non potete né moralmente né materialmente. Mettereste in gioco tutto quel che è l’Italia da Cavour fino a voi». Bastianini ricorda: «Non mi lasciò finire e facendo di corsa il giro del suo tavolo si avventò su di me e piantato il suo viso a qualche centimetro dal mio, gridò: ‘Dunque, voi credete che per diciassette anni io qui, a questo posto mi sia...’ Faccio grazia della fine plateale della frase». 41 «Simili passi non si sa mai a cosa possono portare... per noi una guerra lunga sarebbe una rovina», afferma Vittorio Emanuele III al suo aiutante di campo, generale Puntoni (P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Milano 1958, p. 13). Questo è invece il giudizio di Ciano sull’atteggiamento del re: «Ormai è rassegnato, niente più che rassegnato all’idea della guerra. Crede che in realtà Francia e Inghilterra abbiano incassato colpi tremendamente duri ma attribuisce – e ha ragione – molta importanza all’eventuale intervento americano. Sente che il Paese va in guerra senza entusiasmo: c’è oggi una propaganda interventista, ma non c’è minimamente quello slancio che ci fu nel 1915». Cfr. Ciano, Diario cit., p. 438.

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obblighi del patto. Le grandi vittorie tedesche del maggio 1940 contro i francesi e gli inglesi saranno decisive nell’indurre Mussolini a rompere gli indugi. A niente varranno i ripetuti tentativi del presidente americano Franklin Delano Roosevelt per trattenere l’Italia dall’intervento. Il 30 maggio, Mussolini comunica a Hitler la decisione dell’Italia di entrare in guerra, che il 10 giugno 1940 viene ufficialmente dichiarata alla Francia e alla Gran Bretagna. Si chiude così una fase della politica estera italiana. Iniziata nel rispetto delle alleanze della prima guerra mondiale e delle decisioni, pur contestate, dei trattati di pace, quella politica, che aveva dimostrato una capacità di iniziativa tale da accrescere l’influenza italiana, ben al di là del peso politico e militare del paese, si concludeva venti anni dopo con l’abdicazione a ogni libertà di movimento e a ogni autonomia di decisione. In realtà, l’obiettivo di elevare l’Italia al livello delle grandi potenze europee viene mancato nel momento in cui, aderendo al «Patto d’acciaio», il governo di Mussolini abbandona la politica del «peso determinante». Legandosi a Hitler, il cui obiettivo è quello di preparare la guerra, l’Italia si trasforma da soggetto autonomo e protagonista non secondario della politica europea in satellite della Germania hitleriana. Nel tentativo di nascondere questa realtà Mussolini ricorrerà alla finzione della «guerra parallela» che, insostenibile per la debolezza militare dell’Italia, finirà per rinsaldare ulteriormente i vincoli che la legano al carro tedesco. Al drammatico declino della politica estera italiana nella seconda fase del ventennio, quella che si apre con la conquista dell’impero, contribuisce certamente la polarizzazione della situazione internazionale successiva alla guerra di Etiopia e a quella di Spagna, ma anche la sempre più evidente scomparsa di ogni processo decisionale sostenuto da consigli e pareri professionali. Il sistema politico creato da Mussolini che, pur nel quadro di un graduale abbandono di ogni legalità costituzionale, manteneva una qualche espressione pluralistica, dopo il 1936 entra in una fase di rapida involuzione per cui anche un minimo di dialogo e di confronto viene a mancare; e ogni decisione riflette la volontà di un uomo solo. L’involuzione del regime segna anche quella della monarchia.

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Dal 1861 fino alla prima guerra mondiale il re era sempre intervenuto, e talvolta in modo determinante, nella politica estera del paese. Dalle decisioni che portano al «Patto d’acciaio» e all’entrata in guerra dell’Italia Vittorio Emanuele III resta completamente escluso, non solo per volontà del dittatore, ma anche per una ambigua scelta del vecchio monarca a cui non mancavano i poteri costituzionali per un intervento. L’assenza della monarchia in un momento di tale importanza per il futuro del paese, lungi dall’assolverla, la coinvolgerà nel fallimento del regime, e non le basterà il ruolo tardivo e secondario che svolgerà nella caduta di Mussolini per dissociarsi dalle responsabilità per il disastro nazionale. La convinzione largamente diffusa che, dopo la caduta della Francia, la guerra sarebbe stata breve e soprattutto sostenibile nonostante l’impreparazione militare del paese si rivelava drammaticamente sbagliata. Cominciava invece un’esperienza destinata a durare tre anni che procurerà alle forze armate italiane gravi perdite e brucianti umiliazioni, al popolo italiano dolorosissimi e pesanti lutti, al regime fascista la perdita del consenso e più tardi l’esecrazione e la caduta a iniziativa di una parte degli stessi gerarchi, il 25 luglio 1943. Nel corso delle guerre la diplomazia tace. Tale tradizione si conferma nel caso italiano durante la seconda guerra mondiale. Nei confronti dell’alleato tedesco i rapporti più significativi si svolgono quasi esclusivamente al più alto livello tra Hitler e Mussolini in occasione di nove incontri tra i due dittatori fra il 1940 e il 1943, nel corso dei quali non si affrontano problemi di strategia politica che non siano quelli collegati alla condotta delle operazioni militari. Sull’altro versante, quello con gli alleati, va registrata l’assoluta mancanza di contatti significativi, anche nell’ultima fase del conflitto, quando alla fine del 1942 si diffonde tra le gerarchie politiche e militari la convinzione che la guerra sia ormai perduta e che pertanto sia necessario uscire dal conflitto. Il trasferimento di Galeazzo Ciano dagli Esteri all’ambasciata italiana presso la Santa Sede, successivo al rimpasto governativo del febbraio 1943, non darà alcun frutto nonostante le intenzioni manifestate dal titolare; e quando all’inizio di agosto – dopo la cadu-

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ta del fascismo – cominceranno le manovre per prendere contatto con gli alleati, si partirà da zero e da ipotesi alquanto ottimistiche, come la convinzione di poter negoziare l’armistizio; ipotesi che non tengono conto delle posizioni maturate in campo alleato come la dichiarazione di Roosevelt sulla resa incondizionata durante la conferenza di Casablanca. Ciò spiega non solo le difficoltà che si manifesteranno nella prima fase per stabilire i contatti con referenti utili; ma soprattutto quelle incontrate dal plenipotenziario ufficiale incaricato dal governo di Roma, generale Giuseppe Castellano, che sarà lasciato senza direttive precise e che dovrà supplire con iniziative personali, non sempre felici, alla mancanza di istruzioni. Al capitolo drammatico e umiliante della condotta della guerra si aggiunge quello – meno drammatico ma anch’esso umiliante per le improvvisazioni che lo caratterizzano e per i malintesi che genera – della fase pre-armistiziale da parte delle nostre autorità politiche, cui per la verità corrispondono la disinformazione e l’incomprensione per la situazione del nostro paese della controparte alleata. Si arriva così all’immediata vigilia dell’annuncio dell’armistizio senza un’intesa precisa e con un rapporto già compromesso da reciproci sospetti; una situazione che influenzerà non poco la condotta delle operazioni militari in Italia.

V DALLA SCONFITTA ALLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA (1943-1948)

1. Il Regno del Sud e Stalin All’indomani dell’8 settembre 1943, l’Italia si presentava in condizioni disastrose, tali da far temere la disintegrazione dello Stato e di ogni autorità. Il paese, in preda al caos e alla violenza, era letteralmente tagliato in due. Era occupato al Nord e al Centro dall’esercito tedesco, ex alleato divenuto nemico, e al Sud dagli eserciti alleati per i quali tecnicamente l’Italia rimaneva paese nemico. La popolazione era prostrata da tre anni di durissimi sacrifici, priva di qualunque difesa di fronte all’avanzata degli occupanti e incapace di seguire la drammatica evoluzione degli avvenimenti. Dopo il precipitoso abbandono di Roma, per sfuggire alla rappresaglia dei tedeschi, Vittorio Emanuele III si era trasferito a Brindisi – abbandonata dalle truppe tedesche ma non ancora occupata dagli anglo-americani – dove iniziava l’avventura del Regno del Sud, mentre Benito Mussolini costituiva nel Nord il Partito fascista repubblicano, premessa per la nascita della Repubblica sociale italiana. Si creavano così le condizioni di quella che molti anni dopo verrà riconosciuta come una guerra civile. Parlare di un’azione di politica estera, autonoma e simmetrica, nelle due Italie divise in questa convulsa fase storica è in larga misura pura accademia. Soprattutto a Salò, dove Mussolini – che assume personalmente il portafoglio degli Esteri – comprende ben presto che il prezzo della sua liberazione è la completa sottomissione agli ordini di Hitler, seguendo in tale condizione una para-

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bola che porterà l’espansionismo germanico all’annessione dell’Alto Adige e della Venezia Giulia sino alla tragedia finale della sconfitta bellica totale. Diverso, più complesso e articolato, è il discorso in quella che gli anglo-americani chiamano la «King’s Italy». Nelle ore concitate del precipitoso trasferimento della famiglia reale a Pescara e poi a Brindisi, la politica estera e il suo principale responsabile, il ministro degli Esteri Raffaele Guariglia, vengono letteralmente «dimenticati». Guariglia non era stato avvertito dal capo del governo, maresciallo Badoglio – forse volontariamente – dell’imminente, improvvisa, partenza ed era costretto a trovare rifugio nella sede dell’ambasciata spagnola presso la Santa Sede. A Brindisi, nel palazzetto svevo dove si installano la famiglia reale e i pochi ministri, generali e diplomatici che l’hanno seguita o che la raggiungono successivamente, manca di tutto. I collegamenti con le ambasciate all’estero e con il resto della penisola sono impossibili. Non si conoscono la volontà e le intenzioni degli anglo-americani, condizionate dall’andamento delle operazioni belliche. Si deve ricominciare tutto da capo (Badoglio dice: «da una matita e da un foglio di carta») per cercare di ripristinare un minimo di apparato statale. Eppure, nell’arco di questa fase drammatica e convulsa che va dalla fine del 1943 alla liberazione del territorio nazionale (25 aprile 1945) si disegna un’iniziativa di politica estera del Regno del Sud, non priva di ambiguità, ma anche di audacia e di spregiudicatezza, legata in larga misura alla figura e all’opera di Renato Prunas, il cinquantaduenne diplomatico sardo, rientrato dalla legazione di Lisbona per assumere la carica di segretario generale del ministero degli Esteri avventurosamente ricostituito a Brindisi. È un’iniziativa, quella di Prunas, che si combina con la volontà dell’Unione Sovietica di Stalin di non restare esclusa dai giochi politici italiani, scaturisce dallo stato di soggezione in cui gli anglo-americani tengono il governo Badoglio e mira a ridurne lo stato di minorità. A Vittorio Emanuele III e allo stesso maresciallo non occorre molto tempo per rendersi conto che la via del possibile recupero di un minimo di autonomia è lunga e lastricata di ostacoli. Le pressioni degli anglo-americani perché il governo di

V. Dalla sconfitta alla Costituzione repubblicana (1943-1948)

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Brindisi si schieri al loro fianco non significano assolutamente che Churchill e Roosevelt (soprattutto il primo) rinuncino a trarre tutti i vantaggi possibili dalle loro condizioni di egemonia sull’Italia e sul suo assetto futuro. L’«armistizio lungo» – che Badoglio è costretto a firmare a bordo della corazzata «Nelson» nelle acque di Malta (29 settembre 1943) – rappresenta una sorta di «pace cartaginese» e spazza via le illusioni circa una possibile volontà degli anglo-americani di trattare il Regno del Sud come un «quasi alleato». Anche se, al di là della dura lettera del documento, l’accordo armistiziale costituisce pur sempre un passo avanti per il governo Badoglio, riconosciuto come l’unica autorità politica esistente in Italia, e per la Corona, chiamata a restaurare immediatamente la Costituzione albertina del 1848 e a impegnarsi a indire nuove elezioni per un’Assemblea costituente alla fine della guerra1. In realtà, in quel momento, le lancette della storia sembrano tornate indietro di ottantadue anni, quando la prima, principale, preoccupazione dello Stato unitario appena proclamato, per dimostrare la propria esistenza e la propria vitalità, era stata quella di ottenere il riconoscimento internazionale. Vittorio Emanuele III, in un primo momento, cerca di negoziare personalmente la dichiarazione di guerra alla Germania con il riconoscimento de jure del Regno del Sud da parte delle potenze alleate2. Ma è un tentativo velleitario, anche perché la stessa dichiarazione di guerra, recapitata dal nostro ambasciatore a Madrid al 1 E. Di Nolfo, Dalla Monarchia alla Repubblica: una lettura storiografica, relazione al seminario sul tema «Costituzione e Repubblica», aprile-ottobre 1997. Cfr. anche Id., La formazione della politica estera italiana negli anni della nascita dei blocchi, in L’Italia e la politica di potenza in Europa, a cura di E. Di Nolfo, R.H. Rainero, B. Vigezzi, vol. II, 1945-50, Milano 1988, pp. 607-609. 2 Vittorio Emanuele III, attraverso il duca Pietro d’Acquarone, invia due messaggi al presidente Roosevelt e a re Giorgio VI (il 23 settembre 1943) per chiedere il riconoscimento dello status di alleato in cambio della dichiarazione di guerra alla Germania (il testo in Foreign Relations of United States (d’ora in poi Frus), 1943, Diplomatic Papers, Europe, vol. II, Washington 1964, pp. 374-75. Il re, attraverso Badoglio, aveva fatto chiedere a Roosevelt il permesso per consentire a Dino Grandi il rientro in Italia per affidargli il ministero degli Esteri, ma Dwight Eisenhower è contrario. Cfr. raccolta dell’Archivio storico diplomatico ministero Affari esteri (d’ora in poi Asdmae), Archivio riservato segreteria generale (1943-47), vol. I, fasc. I.

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rappresentante tedesco, viene sprezzantemente restituita al mittente. Badoglio non è nemmeno in grado di informare le rappresentanze all’estero del passo contro l’ex alleato3. Insomma: le manovre del governo di Brindisi per guadagnare subito, sul campo, lo status di alleato si infrangono contro un insormontabile muro di ostilità. Gli anglo-americani escogitano la formula della «cobelligeranza»: un’alleanza di fatto che consente all’«Italia del re» di combattere contro gli ex nemici, ma che non modifica affatto il suo status di paese nemico e non pregiudica il diritto delle Nazioni Unite di applicare integralmente le clausole della resa. Il trattamento post-bellico da riservare all’Italia sarà subordinato al suo comportamento contro i tedeschi. Riconosciuto – anche se in forma ambigua e non ufficiale – dagli alleati, il governo Badoglio non era riconosciuto dai partiti antifascisti che nel frattempo si erano costituiti o ricostituiti e avevano avanzato, nel primo congresso dei Comitati di liberazione nazionale (Cln) – tenuto a Bari nel gennaio 1944 –, la richiesta di sospensione dei poteri del re e la formazione di un governo provvisorio politicamente rappresentativo. Particolarmente attivo era, tra gli esponenti antifascisti, il conte Sforza, già ministro degli Esteri con Giolitti nel 1920-21 e poi influente esule antifascista in America, che era riuscito a rientrare in Italia malgrado l’opposizione personale di Churchill. La parola d’ordine era quella di respingere qualsiasi forma di collaborazione con il governo Badoglio. Tuttavia, la grossa novità per il Regno del Sud – la cui capitale, nel frattempo, era stata trasferita a Salerno, liberata dagli alleati – era rappresentata dalla conferenza dei ministri degli Esteri dei tre «Grandi» (Molotov, Eden e Cordell Hull), svoltasi a Mosca nel novembre 1943. In quella sede veniva approvato un documento in sette punti in cui si sottolineava la necessità che il governo italiano fosse reso più democratico «con l’inclusione di rappresen3 L’incombenza di consegnare la dichiarazione di guerra alla Germania cade sull’ambasciatore italiano a Madrid, Giacomo Paulucci di Calboli. Questi chiede un colloquio all’ambasciatore tedesco, Hans Dickoff, ma riceve uno sdegnato rifiuto. Allora incarica il segretario di legazione di consegnare la dichiarazione di guerra all’ambasciata germanica, ma il documento viene restituito al mittente. Successivamente, Badoglio deve pregare il commissario inglese Frank Mason MacFarlane d’informare le nostre rappresentanze all’estero della dichiarazione di guerra.

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tanti di quei settori del popolo italiano che si sono sempre opposti al fascismo»4. Apparentemente, il quadro italiano non cambia, essendo il Regno del Sud sempre sottoposto alla speciale «tutela» anglo-americana. In realtà, la partenza per il nostro paese di Andrej Vishinskij, cioè di uno dei principali collaboratori di Stalin, vice di Molotov agli Esteri, designato quale rappresentante sovietico della Commissione consultiva europea costituita dai tre «Grandi», indica con chiarezza l’importanza che il capo del Cremlino attribuisce alla missione. Appena arrivato a Napoli nel gennaio del 1944, Visˇinskij prende contatto con Prunas: i due uomini s’intendono subito anche perché i loro interessi sono, in qualche modo, coincidenti. Il Regno del Sud vuole uscire dalla gabbia dell’isolamento diplomatico in cui è tenuto dagli anglo-americani; l’Unione Sovietica, insoddisfatta del ruolo marginale fin qui svolto, vuole rientrare nel gioco italiano ma soprattutto vuole facilitare il rientro in Italia di Palmiro Togliatti (già segretario del Pci che aveva passato a Mosca gli anni della guerra) in modo da spingerlo a partecipare al governo Badoglio. Lo scopo dichiarato di Prunas è quello di combattere il «duro, illiberale, inintelligente terreno della resa senza condizioni e del paralizzante e asfissiante controllo in ogni attività del Paese»5. A tal fine egli chiede e ottiene che Stalin proceda al riconoscimento del Regno del Sud attraverso lo scambio di rappresentanti permanenti tra il governo sovietico e quello italiano6. Il capo del Cremlino accoglie la richiesta italiana, ma ovviamente il suo scopo principale è legato al ritorno nell’Italia liberata di Palmiro Togliatti. Lo stesso Togliatti negherà sempre l’esistenza di 4 Il testo dell’accordo tripartito in A. Degli Espinosa, Il Regno del Sud, Roma 1946, pp. 169-70. 5 Renato Prunas, raccolta di documenti a cura del ministero degli Affari esteri, Roma 1974, p. 58. Un’esauriente documentazione è contenuta nel volume di M. Toscano, Pagine di storia diplomatica contemporanea. La ripresa delle relazioni con l’Urss durante la seconda guerra mondiale, vol. II, Milano 1963. 6 La richiesta italiana viene formalizzata il 6 marzo 1944. L’annuncio ufficiale dell’instaurazione di «relazione dirette» tra l’Urss e il Regno del Sud avviene il 14 marzo successivo. A rappresentare il regio governo a Mosca viene designato Pietro Quaroni, allora ministro a Kabul. Rappresentante ufficiale di Stalin viene nominato l’ex console a Milano, Mikhail Kostylev.

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una diretta connessione tra il riconoscimento diplomatico del Regno del Sud e il suo rientro in Italia. Ma sarà una smentita tattica. Sta di fatto che, nel momento in cui viene annunciata la ripresa dei rapporti diplomatici (14 marzo 1944) tra Italia e Unione Sovietica, si concreta la cosiddetta «svolta di Salerno», destinata a suggellare un intreccio tra politica interna e politica estera che sarebbe diventato sempre più marcato nel periodo della guerra fredda. Il Partito comunista italiano avrebbe accettato di collaborare con il governo Badoglio se esso avesse contribuito alla liberazione del paese contro il comune nemico nazi-fascista. È una svolta fondamentale per la politica estera di Stalin che fino ad allora aveva lasciato gli stessi alleati dell’Urss nell’incertezza sulla linea che avrebbe seguito con i partiti comunisti europei. L’Italia era il primo paese in cui si doveva sperimentare una gestione armistiziale da parte degli alleati. Quindi si trattava di un test cruciale anche ai fini dei rapporti tra i sovietici e gli angloamericani. La linea scelta dal dittatore emergeva in un colloquio con Togliatti, il 4 marzo 1944, alla vigilia della sua partenza per l’Italia. Stalin indicava al dirigente del Pci la via «moderata», quella che escludeva ogni iniziativa rivoluzionaria e che lasciava aperta la strada alla conquista del potere con una lunga marcia attraverso le istituzioni. Era una decisione destinata a suscitare stupore e sconcerto in ampi settori dei comunisti italiani, e anche tra i partiti antifascisti che erano costretti a rinunciare repentinamente alle loro pregiudiziali antimonarchiche per non essere spiazzati dalla mossa di Togliatti e quindi a partecipare al governo costituito da Badoglio a Salerno7. Sul piano diplomatico l’operazione di Prunas non otteneva – almeno nella fase iniziale – uno degli scopi essenziali che si era prefisso: determinare una reazione a catena per cui anche Londra e Washington avrebbero seguito Mosca sulla strada dello scambio degli ambasciatori. Al contrario, le reazioni di Churchill e di Roosevelt furono durissime. Riaffioravano le accuse – appena sopite – di doppiogiochismo e di machiavellismo; soprattutto veniva escluso qualunque allentamento della morsa armistiziale e quindi 7 E. Aga-Rossi, V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna 1997, pp. 62-63.

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del dominio che Londra era determinata a esercitare sulle vicende italiane anche in funzione della sua strategia nel Mediterraneo. Ma dopo qualche settimana anche Londra e Washington dovevano prendere atto dei rischi cui erano esposte dall’iniziativa sovietica e cominciavano a mitigare la loro intransigenza. Inviarono rispettivamente in Italia due diplomatici con il rango di ambasciatori: l’inglese sir Noel Charles e l’americano Alexander Kirk. Beninteso: senza che ciò costituisse una ripresa ufficiale dei rapporti. Tuttavia era sul fronte politico interno che l’apertura diplomatica di Stalin al governo Badoglio e il ritorno di Togliatti in Italia producevano gli effetti più traumatici. Questi avanzava subito la proposta di un governo di unità nazionale, senza attendere la liberazione di Roma, che si era allontanata per la strenua resistenza tedesca dopo lo sbarco alleato ad Anzio il 22 gennaio 1944. Gli inglesi cercavano di far finta di nulla, poi dovettero correre ai ripari per non essere spiazzati dalla mossa del capo comunista. In poco tempo, Churchill cambiava rotta. Modificava la politica di strenua difesa del tandem re-Badoglio e assumeva una posizione più pragmatica. Sacrificava il vecchio sovrano che accettava di trasmettere i poteri al figlio Umberto, designato luogotenente generale, e di ritirarsi dalla politica attiva nel momento della liberazione di Roma. Nasceva il governo dell’Esarchia; Badoglio era costretto a costituire il suo governo con gli esponenti dei partiti antifascisti che lo avevano attaccato violentemente. Difficile valutare ancora oggi, a oltre sessant’anni di distanza, in termini storico-politici, l’operazione condotta da Prunas in accordo con il Cremlino. Molti l’hanno giudicata negativamente: velleitaria, ovvero ispirata agli schemi di una diplomazia ottocentesca che non tenevano conto delle condizioni reali del nostro paese. Altri, come ad esempio Roberto Gaja, invece l’hanno elogiata sostenendo che «raramente risultati più notevoli furono ottenuti con così pochi mezzi»8. Certo: l’iniziativa avviata da Prunas, il «bravo sardo» di Vittorio Emanuele III, non era priva di zone d’ombre e rifletteva il tradizionale modello sabaudo-piemontese fatto proprio dalla diplo8 R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare. Per una storia della politica estera italiana (1943-1991), Bologna 1995, p. 66.

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mazia post-unitaria, ormai anacronistico, che puntava sulle possibili divisioni degli interlocutori per rafforzare la propria posizione. Conteneva aspetti velleitari, come se l’Italia del re e di Badoglio semi-isolata, in quel lembo di terra liberata, potesse riprendere il suo posto tra le potenze europee senza pagare alcun prezzo per la sconfitta e come se non fossero ancora fumanti le macerie provocate dal disastro bellico e dal fascismo con cui fino a poco tempo prima lo stesso sovrano era stato solidale. Mancanza di realismo, dunque. Ma va anche detto che il piano di Prunas era più che altro una mossa disperata, il tentativo di chi non voleva accettare la propria condizione di ostaggio nelle mani anglo-americane e cercava una qualunque strada pur di riscattarsi. Una mossa che, comunque, assicurò la continuità statale in un momento decisivo e avviò la convivenza tra le forze democratiche. 2. Tra cobelligeranza e riconoscimento Naturalmente, l’apertura di Stalin nei confronti del Regno del Sud era puramente strumentale. Dopo aver incassato il via libera al ritorno di Togliatti, lo stesso capo del Cremlino evitava qualunque presa di posizione che potesse guastare i rapporti con gli anglo-americani. E quindi a Londra e a Washington dovevano rivolgersi gli uomini politici italiani se volevano alleviare la condizione del paese. Se ne accorgeva Ivanoe Bonomi, nominato capo del governo dal Cln dopo una tempestosa riunione svoltasi al Grand Hotel romano – all’indomani della liberazione della capitale (4 giugno 1944) – che suggellava l’inattesa e definitiva giubilazione di Pietro Badoglio. Ma Bonomi, navigato leader parlamentare dell’era pre-fascista, si rendeva conto anche di un’importante novità che prendeva corpo negli equilibri della «tutela» anglo-americana. Si avvertivano i primi segni di declino della primazia britannica nelle vicende italiane – di cui l’estromissione di Badoglio era un segno – a vantaggio di una maggiore influenza americana. Ancora una volta, la reazione di Churchill al benservito del Cln a Badoglio era veemente9. «La sostituzione del Maresciallo» – si 9 Nel colloquio al Quirinale tra il luogotenente e Bonomi, quest’ultimo riferisce a Umberto una serie di condizioni poste da MacFarlane se si vuole evitare

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lamentava il premier britannico con Roosevelt – «con un gruppo di avidi e famelici politicanti è un disastro». Non diverso il tono di una missiva indirizzata a Stalin, l’11 giugno 1944: «Mi sembra che abbiamo perso l’unico uomo competente con il quale avevamo a che fare e l’uomo che poteva servirci meglio di tutti»10. Ma le proteste del premier britannico erano destinate a cadere nel vuoto. Bonomi poteva costituire il suo gabinetto, manteneva l’interim degli Esteri (il 24 luglio 1944, un anno dopo la caduta di Mussolini, il ministero tornava nella sede di Palazzo Chigi) e avviava una politica che cercava di accrescere la partecipazione italiana alle operazioni belliche per attenuare i controlli e alleviare le clausole armistiziali; cercava di ottenere dagli alleati, soprattutto dagli Stati Uniti, maggiori aiuti economici. Inoltre, Bonomi congelava la questione istituzionale con un decreto legge (d.l. 151) che prevedeva la convocazione, alla fine delle ostilità, di un’Assemblea costituente che avrebbe determinato la «forma di governo» del paese. Nel frattempo veniva confermata la luogotenenza del principe di Piemonte. Ma più che dalle iniziative, dai progetti di Bonomi e dell’apparato diplomatico (Prunas era sempre al suo posto di segretario generale) il cambiamento di clima era determinato dalle scelte dell’amministrazione Roosevelt, che a partire dall’estate del 1944 assumeva un atteggiamento più favorevole all’Italia. A spingerlo in questa direzione c’era sicuramente un elemento contingente: a novembre del 1944 erano in programma le elezioni presidenziali, Roosevelt si ripresentava e voleva assicurarsi l’appoggio dell’elettorato italo-americano, palesemente insoddisfatto del modo in cui gli Stati Uniti trattavano il paese d’origine. Ma c’erano anche altre ragioni dietro la risoluzione di Roosevelt, non più disposto ad assecondare i disegni di Churchill che – per il dopoguerra – proponeva schemi di una politica imperiale ormai superati, poco in sintonia con gli ideali per cui gli stessi Stati Uniti erano entrati in guerra, che miravano alla diffusione della deche Churchill mandi tutto all’aria e consideri valida la precedente designazione di Badoglio. 10 Messaggio di Churchill a Stalin in Stalin-Churchill-Roosevelt-Attlee-Truman. Carteggio 1941-1945, Roma 1965, p. 258.

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mocrazia attraverso il sostegno e l’incoraggiamento alle forze che con essa si identificavano. Il primo dissidio veniva alla luce nella conferenza di Hyde Park (26 settembre 1944) che concludeva quella di Quebec in cui Roosevelt e Churchill avevano messo a punto i piani di guerra contro il Giappone e sul futuro della Germania, le decisioni su come governare l’Europa dal giorno dell’ormai vicina vittoria contro il nazismo e sulla ricostruzione delle nazioni che, come l’Italia, avevano subito gravi distruzioni e uscivano dalla guerra con un’economia disastrata. Nella residenza estiva di Hyde Park, Roosevelt faceva prevalere la sua linea di maggiore comprensione e disponibilità verso il nostro paese, grazie anche ai consigli e ai suggerimenti del suo amico personale Myron Taylor, rappresentante presidenziale presso il Vaticano nonché presidente dell’American Relief for Italy11 («Soccorsi americani per l’Italia»), ente incaricato di coordinare la distribuzione del materiale assistenziale al nostro paese. Il primo passo era il «disco verde» al riconoscimento diplomatico. Il 26 ottobre 1944 veniva diffuso un comunicato in cui il governo statunitense rendeva nota la ripresa dei rapporti diplomatici con l’Italia. Churchill era costretto a subire, suo malgrado, la decisione di Roosevelt. Altri diciannove Stati americani avrebbero seguito Washington. Era un’altra importante tappa della «lunga marcia» avviata da Prunas a Brindisi. Contemporaneamente, cambiava l’assetto della Commissione alleata. Harold Macmillan (futuro premier inglese) veniva nominato delegato del comando alleato nel Mediterraneo mentre il commodoro Ellery Stone, americano, diventava commissario capo della Commissione con diretta competenza sulla politica del nostro paese. Un altro segno del peso crescente che gli Stati Uniti avrebbero giocato nelle vicende italiane. In verità, nel novembre del 1944, Churchill tentava di recuperare terreno e di esercitare, nei fatti, quel diritto di supervisione 11 Myron Taylor incontra Bonomi (il 4 settembre 1944) soffermandosi sui problemi della ricostruzione economica italiana e riferisce a Roosevelt, che gli risponde a stretto giro: «I problemi relativi alla situazione italiana, principalmente quelli economici, sono al centro della nostra attenzione in questi giorni. Stiamo adottando un nuovo orientamento nella nostra politica verso l’Italia». Cfr. E. Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti 1939-1952. Dalle carte di Myron C. Taylor, Milano 1978, p. 367.

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negli affari italiani di cui si ostinava a ritenersi titolare. In occasione della crisi del primo governo Bonomi, rinnovava il veto nei confronti del conte Sforza (già espresso nel mese di giugno) bocciando la sua candidatura alla guida degli Esteri e addebitandogli di aver mancato all’impegno assunto – al momento del rientro in Italia – di appoggiare il governo Badoglio. Su Sforza il premier britannico veniva momentaneamente accontentato. Ma il nuovo segretario di Stato americano, Edward Stettinius, subentrato al vecchio Cordell Hull, non mancava di condannare apertamente l’interferenza inglese sostenendo che gli italiani avevano il diritto di scegliere liberamente i propri rappresentanti. Era l’ultima volta che Churchill poté esercitare un diritto di veto sulla formazione del governo italiano. Tuttavia, il vero fatto nuovo che emergeva dalla composizione del secondo governo Bonomi era la nomina di Alcide De Gasperi alla guida del ministero degli Esteri. Sessantatré anni, un passato di trentino irredento (era stato anche deputato al Parlamento dell’impero austro-ungarico prima di esserlo a quello italiano), a lungo impiegato nella biblioteca vaticana dopo un periodo di detenzione nelle carceri fasciste, De Gasperi era il segretario della Democrazia cristiana ed era il primo esponente cattolico militante a occupare la poltrona di ministro degli Esteri dell’Italia post-risorgimentale. «È un cervello politico di terz’ordine», sentenziava un rapporto del dicembre 1944 del Psychological Warfare Branch (Pwb), organismo costituito per appoggiare lo sforzo bellico alleato12. Certamente più azzeccato un giudizio di monsignor Domenico Tardini, allora sottosegretario di Stato vaticano, che lo raccomandava al governo statunitense come «un uomo colto, serio, attivo ed equilibrato»13. De Gasperi – pur essendo poco addentro ai problemi specifici della politica estera – cerca di imprimere subito un indirizzo originale alla sua attività puntando su un tema nuovo: la «moralità» dell’Italia risorta dalle macerie della guerra voluta dal fascismo. In realtà, i margini di manovra per il governo restano molto esigui. Né De Gasperi, nella fase iniziale della sua attività gover12 National Archives, Washington, Acc, Italy, RG, 331, box 59, 1000/143/ 2633 cit. da M. Margiocco, Stati Uniti e Pci. 1943-1980, Roma-Bari 1981, p. 43. 13 Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti cit., p. 61.

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nativa, gode di particolare attenzione da parte degli alleati, che preferiscono trattare direttamente con Bonomi, personaggio che conoscono e di cui si fidano abbastanza. Le speranze di maggiori aiuti economici per alleviare le pene di un paese alla fame, e di un allentamento dei ceppi armistiziali restano legate all’acuirsi del contrasto anglo-americano. Su questo fronte qualcosa si muove poiché Roosevelt è sempre più sospettoso delle mosse di Churchill e vuole evitare che in Italia possa ripetersi l’esperienza della Grecia dove gli inglesi hanno usato il pugno di ferro contro chi si opponeva al ritorno della monarchia, con scarsi risultati. Alla conferenza di Jalta – che, nel febbraio del 1945, fissa le regole e stabilisce gli assetti del dopoguerra, della «questione italiana» si parla pochissimo. Churchill presenta due note sulla regolazione dei nostri futuri confini con la Jugoslavia e con l’Austria, Roosevelt e Stalin si limitano a prenderne atto14. Il presidente americano si mostra più comprensivo dei suoi interlocutori verso le nostre posizioni. Ma la nuova, pressante, richiesta del governo Bonomi di trasformare la cobelligeranza dell’Italia in una vera e propria alleanza non viene accolta. Inoltre, il nostro paese deve subire un altro smacco. Non viene invitato alla conferenza di San Francisco, indetta per il 25 aprile 1945 allo scopo di varare la Carta delle Nazioni Unite, cioè l’organizzazione internazionale voluta da Roosevelt, il quale però muore pochi giorni prima dell’apertura della conferenza. De Gasperi non nasconde la sua delusione per il mancato invito. Ma non c’è niente da fare. Nella scia di Jalta, l’unico passo in avanti verso il recupero della piena sovranità dell’Italia è costituito da un memoriale consegnato da Macmillan e da Stone a Bonomi, nel febbraio del 1945. Pur mantenendo in vigore le clausole dell’armistizio, esso riduce in modo consistente i controlli della Commissione alleata e sancisce l’impegno degli alleati ad aiutare il nostro paese attraverso l’importazione di merci, i rifornimenti di materie prime e l’aumento della produzione. De Gasperi può definire finalmente il suo organigramma di14 Per la nota britannica sui confini italo-jugoslavi cfr. Frus, 1945, Diplomatic Papers, The Conferences at Malta and Jalta, Washington 1955, pp. 888-89 e 939.

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plomatico: oltre a Pietro Quaroni – già insediato a Mosca nel giugno del 1944 – vengono nominati alcuni ambasciatori «politici» e non di carriera: una decisione saggia e inevitabile perché la quasi totalità dei diplomatici di carriera era di nomina fascista. A Londra veniva destinato il conte Niccolò Carandini, esponente di primo piano del Partito liberale; a Madrid era nominato il duca Tommaso Gallarati Scotti, mentre per la sede di Varsavia veniva prescelto il comunista Eugenio Reale. A Parigi veniva nominato il socialista Giuseppe Saragat. Nella sede-chiave di Washington la scelta di De Gasperi cadeva sull’azionista Alberto Tarchiani, ex capo redattore del «Corriere della Sera», antifascista convinto, destinato a giocare un ruolo di primo piano nel rilancio dei rapporti bilaterali.

3. Liberazione, pacifismo e internazionalismo Il 25 aprile 1945, con la definitiva sconfitta del nazismo e con la liberazione di tutto il territorio per effetto dell’azione congiunta delle forze alleate e di quelle partigiane, si chiude una pagina della storia nazionale segnata dal capitolo, inedito e lacerante, della guerra civile e se ne apre un’altra carica d’incognite e di interrogativi, sia sul piano interno che su quello internazionale. La situazione politica si presenta in termini assai diversi rispetto all’anno precedente per il crescente peso di un attore che fino all’inizio del 1944 aveva svolto un ruolo marginale: il movimento di resistenza partigiano che – nelle sue varie anime e articolazioni – aveva fortemente contribuito, spesso in misura determinante, alla lotta armata contro i nazi-fascisti nel Nord della penisola. Nell’estate del ’44 il movimento resistenziale aveva dato una forte spinta per la liberazione di alcune città dell’Italia centrale, come Firenze, e aveva istituito autorità locali guidate dal Comitato di liberazione nazionale. L’azione era diventata più incisiva nel Nord, dove si era insediato il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai), e ben presto gli alleati – in particolare gli inglesi – cominciavano a diffidare dell’eccessivo dinamismo del movimento e dei suoi capi, quasi tutti schierati su posizioni di estrema sinistra. Nel novembre del 1944 il comandante delle forze alleate in Italia, maresciallo Harold Alexander, cercava di frenare lo slancio ri-

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voluzionario con un perentorio proclama in cui invitava tutte le forze partigiane a uscire dalla clandestinità e a sospendere le loro azioni fino alla primavera successiva. Insomma: secondo gli alleati la Resistenza doveva svolgere un’attività limitata, di supporto alla loro strategia militare. Ma non si dovevano assolutamente creare le premesse per un suo ruolo autonomo. Comunque, una volta liberato il territorio nazionale, il cosiddetto «vento del Nord» non poteva non far sentire la sua voce. Gli accordi di dicembre tra i «partiti romani» – che avevano consentito la formazione del secondo governo Bonomi – non erano più adeguati. Bisognava dare il segno di una svolta, aprire le porte del governo a coloro che – armi in pugno – avevano contribuito alla definitiva sconfitta dei nazi-fascisti nel Nord. Dopo che una serie di veti incrociati aveva eliminato le candidature di De Gasperi e di Pietro Nenni, la scelta cadeva su Ferruccio Parri, coraggioso capo partigiano a Milano con il nome di battaglia «comandante Maurizio», capo del Partito d’azione, cioè di una formazione politica inequivocabilmente antifascista che occupava una posizione centrale nello schieramento dei partiti. Il Pda era una forza minoritaria, ancorché autorevole, quindi Parri non dava eccessive preoccupazioni agli altri leader politici. Quella dell’esponente azionista era una soluzione di compromesso considerata come transitoria dai tre principali partiti: il Partito comunista, quello socialista e la Democrazia cristiana. In realtà – al là della figura di Parri e dei magri risultati della sua breve permanenza alla guida del primo governo dell’Italia libera e unificata – la collaborazione fra i tre partiti di massa (apparivano come tali dal numero delle rispettive iscrizioni, non certo da una verifica di peso effettivo in termini elettorali che ancora nessuno conosceva) si protrarrà per un biennio, fino alla primavera del 1947, orientando le scelte e gli indirizzi del paese sia sul fronte istituzionale, ad esempio nella preparazione e nella stesura della Costituzione, sia sul versante della politica estera ancorata a due valori fondamentali: l’internazionalismo e il pacifismo. Naturalmente, ognuno dei tre partiti – pur partendo da una comune e radicata convinzione antifascista come negazione di quell’esperienza politica ventennale che aveva cancellato le strut-

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ture dello Stato liberale, imposto la dittatura e trascinato il paese in una folle avventura bellica – aveva elaborato una visione autonoma, anche in funzione dei propri referenti internazionali. Il Partito comunista interpretava l’internazionalismo come parte integrante della propria fedeltà alla volontà e alla politica di Mosca. Pur non essendo ancora scattato il vincolo formale del Cominform (l’organizzazione che mirava a coordinare l’azione dei partiti comunisti con la politica sovietica e che sarà istituita nel 1947), era viva e operante una disciplina indefettibile che legava la casa madre sovietica ai Pc europei. Le posizioni di Togliatti erano ligie ai principi dell’«internazionalismo proletario» che si richiamava alla solidarietà della classe lavoratrice e vedeva nell’eliminazione della società in classi il superamento degli antagonismi nazionali. Il mito della rivoluzione sovietica, consolidato dalle vittorie dell’Armata Rossa nella guerra contro la Germania hitleriana, era molto radicato nelle masse comuniste ed era stata una delle componenti essenziali del fenomeno resistenziale. In una posizione più sfumata si trovava l’internazionalismo del Psiup (Partito socialista di unità proletaria) interpretato da Pietro Nenni. Il leader socialista, pur mantenendo un rapporto organico di alleanza con il partito di Togliatti, pensava a un’Italia indipendente da ogni blocco e vagheggiava una «terza via» tra quella capitalista e quella comunista, puntando illusoriamente molte carte sulla Gran Bretagna guidata dai laburisti Clement R. Attlee ed Ernest Bevin, che avrebbe dovuto assumere un ruolo di mediazione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e che, invece, si schiererà apertamente al fianco dell’America contro la politica di Stalin. Nenni sognava la nascita di una nuova Internazionale, pilotata da una parte dal più potente partito socialista occidentale – cioè dal Labour Party – e dall’altra dal Partito comunista sovietico. Era una visione «eurocentrica», ormai superata dal nascente bipolarismo, che si andava costituendo, di un’Europa autonoma dai blocchi, ferma a uno schema dei rapporti internazionali precedente alla seconda guerra mondiale. La posizione di Nenni veniva poi sintetizzata nello slogan della «solidarietà internazionale», volta ad auspicare un proseguimento dell’alleanza di guerra tra Est e Ovest in tempo di pace ed era illustrata nel discorso di Canzo del 13 ottobre 1946: un vero e

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proprio manifesto programmatico alla vigilia dell’assunzione della carica di ministro degli Esteri del governo De Gasperi. Diversamente orientato era invece l’internazionalismo cattolico che sfuggiva a una collocazione di parte, in omaggio a un ecumenismo e a una visione globalizzante che avevano come pilastro il ripudio della guerra; soprattutto dopo i terribili effetti dei primi bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto del 1945. Lo stesso De Gasperi ne aveva fornito qualche anticipazione, per così dire, dottrinaria nei suoi scritti di politica internazionale pubblicati sull’«Illustrazione vaticana» dal 1933 al 1938, allorché sottolineava come la via cattolica comportasse la fiducia «nella limitazione della sovranità statale a favore della società internazionale»15. C’era tuttavia un tratto comune nelle posizioni dei tre partiti di massa, uniti nell’affermazione dei valori dell’antifascismo: l’obiettivo di esorcizzare il passato attraverso una risposta sovranazionale e internazionalista ai problemi della futura collocazione del paese. Si guardava con estremo interesse all’Onu come foro mondiale per «governare» il dopoguerra, ma si seguivano con attenzione anche altri progetti internazionalisti, come ad esempio la proposta lanciata da Churchill all’Università di Zurigo (settembre 1946) per la costituzione degli «Stati Uniti d’Europa». Altre vie venivano indicate dal movimento federalista europeo sin dalle settimane successive alla caduta del fascismo con una posizione che veniva raccolta dai programmi dei principali partiti democratici (Democrazia cristiana, Partito socialista, Partito d’azione). Si trattava di quel fenomeno che qualcuno ha definito come il tentativo di «denazionalizzare» l’Italia post-fascista, determinato dalla volontà dei principali attori politici (De Gasperi, Togliatti e Nenni) di evitare, in qualunque modo, il ripetersi di quelle occasioni di deriva nazionalistica che avevano condotto alla nascita e al rafforzamento del fascismo e quindi, quasi fatalmente, alla guerra16. 15 Alcide De Gasperi: un percorso europeo, a cura di E. Conze, G. Corni e P. Pombeni, Bologna 2005, p. 182. 16 C.M. Santoro, La politica estera di una media potenza: l’Italia dall’Unità ad oggi, Bologna 1991, p. 186.

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Si tratterà, beninteso, di un processo lungo, articolato, che porterà alla definitiva cancellazione di qualunque politica di potenza e al progressivo inserimento dell’Italia nel sistema della cooperazione internazionale. Ma esso, purtroppo, non sarà tanto il frutto di una approfondita riflessione sul passato, quanto una «fuga» dalle responsabilità collettive del paese che – come vedremo – non tarderà di provocare effetti negativi durante la logorante trattativa per il Trattato di pace. Nell’immediato, con il governo Parri, De Gasperi mantiene saldamente in pugno il ministero degli Esteri. Ciò tranquillizza gli alleati e soprattutto gli americani, che avevano accolto senza particolare entusiasmo la scelta di Parri, «uomo del Nord», come capo del governo. In verità il Dipartimento di Stato americano era stato rassicurato da un telegramma di Allen Dulles, allora funzionario dei servizi segreti, che aveva conosciuto Parri durante la guerra e lo aveva definito «un uomo colto, coraggioso e di saldi principi»17. Meno entusiasti erano gli inglesi, che facevano buon viso a cattivo gioco. De Gasperi deve affrontare subito due crisi gravissime: una ai confini nord-occidentali e un’altra lungo la frontiera orientale. In Val d’Aosta e nelle zone alpine del Piemonte le truppe francesi, su ordine del generale Charles de Gaulle, tentano l’occupazione di alcuni territori di frontiera a partire dalla metà di marzo del 1945. Si tratta di una palese violazione non solo degli accordi bilaterali, ma anche delle intese tra lo stesso de Gaulle e gli anglo-americani. De Gasperi reagisce mobilitando gli ambasciatori a Parigi e a Washington, Saragat e Tarchiani, per denunciare la violazione e quindi per impedire l’occupazione. Saragat riesce a strappare qualche assicurazione dal ministro degli Esteri francese Georges Bidault. Ma a maggio la situazione sembra precipitare. Il prefetto d’Aosta, Alessandro Passerin D’Entrèves, invia un allarmato messaggio a Bonomi in cui definisce la situazione «gravissima» poiché «le truppe francesi svolgono un’intensa propaganda cercando con ogni mezzo di indurre la popolazione a esprimere subito il proprio desiderio di essere annessa alla Francia»18. 17 L. Polese Remaggi, La nazione perduta. Ferruccio Parri nel Novecento italiano, Bologna 2004, p. 287. 18 Il proclama viene diffuso dopo una riunione del Comitato di liberazione nazionale provinciale di Aosta cui partecipa anche F. Chabod, designato viceprefetto di Aosta. Asdmae, Affari Politici, Francia, 1945, b. 92.

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In realtà, sono gli alti gradi delle forze armate francesi che premono per l’annessione e respingono la richiesta del comando americano di trasferire i poteri al governo militare alleato. È un gesto di sfida intollerabile nei confronti degli anglo-americani. Harry Truman, insediato da pochi giorni alla Casa Bianca, non esita a reagire con durezza. Scrive a de Gaulle che «fino a quando permane una tale minaccia non saranno più assegnati alle forze francesi armi ed equipaggiamenti»19. De Gaulle deve fare rapidamente marcia indietro e, nonostante il conflitto con le gerarchie militari, incarica Bidault di trovare un accordo con gli alleati. Il 12 giugno 1945 il governo s’impegna a ritirare le truppe dall’intera regione che passa sotto il controllo del governo militare alleato. De Gasperi – che ha seguito insieme a Saragat tutte le fasi della crisi – può tirare un sospiro di sollievo. Soprattutto può sperimentare l’importanza del risoluto appoggio di Truman, il cui ultimatum mette a tacere le ambizioni espansionistiche dei generali francesi. Ma anche l’indicazione precisa che da questo momento in poi chi ha maggiore voce in capitolo nelle vicende italiane sono gli americani e non più gli inglesi. Il copione, in qualche modo, si ripete alla frontiera orientale, cioè in Venezia Giulia, anche se le vicende seguono un ritmo molto più drammatico e hanno un epilogo più sanguinoso. Il 1° maggio 1945 i partigiani di Tito riescono a precedere gli eserciti alleati a Trieste, occupano la città e lasciano intendere di volerla annettere al resto della Jugoslavia. Le truppe titine si abbandonano a terribili violenze e soprusi contro la popolazione civile, le vittime saranno migliaia. Il colpo di mano di Tito è inaccettabile per gli alleati. Churchill, che durante la guerra aveva puntato molte carte sul maresciallo ed era stato attratto dalla sua personalità volitiva (suo figlio Randolph aveva combattuto al fianco dei partigiani jugoslavi contro gli occupanti nazisti), si sente tradito dal capo comunista jugoslavo quando viene a sapere che questi ha sottoscritto a Mosca un trattato di amicizia con Stalin. Dunque: è fondato il sospetto 19 W. Churchill, La seconda guerra mondiale, vol. VI, parte II, Milano 195152, p. 651.

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che il dittatore sovietico voglia estendere la propria influenza sull’area adriatica settentrionale. Anche Truman, che in un primo momento aveva risposto evasivamente alle pressioni di Churchill, asserendo di non voler essere implicato in «questioni balcaniche», è costretto a cambiare idea. Autorizza l’intervento delle truppe di Alexander in Venezia Giulia senza consultare il Cremlino. Ma Tito riesce a precedere a Trieste le truppe neo-zelandesi del generale Bernard Freyberg. A questo punto, Truman assume un atteggiamento molto più risoluto, affermando che gli Stati Uniti non avrebbero consentito a nessuno, tanto meno a Tito, di abbandonarsi a «incontrollati accaparramenti territoriali». Lo stesso presidente americano minaccia un’operazione militare sharp and short («improvvisa e rapida») se Belgrado non ritira immediatamente le truppe. Il maresciallo non ha alternative, deve piegare il capo e lasciare Trieste anche e soprattutto perché nel momento decisivo è abbandonato da Stalin che non vuole rischiare un conflitto con gli anglo-americani per la questione giuliana. L’accordo viene perfezionato a Duino dal generale William Morgan e dal capo di Stato maggiore jugoslavo Arso Jovanovic´ il 20 giugno 1945. Prevede la creazione di due zone: la «Zona A» sotto amministrazione alleata e la «Zona B» sotto amministrazione jugoslava. Finisce l’incubo per Trieste, ma non per altre città come Pola e Fiume che finiscono nelle mani di Tito20. Si tratta di un accordo transitorio che non dovrebbe pregiudicare assetti territoriali futuri. In realtà, bisognerà attendere molti anni prima che la situazione cambi: esattamente nove perché Trieste passi dal controllo alleato alla madre patria (memorandum di Londra) e ben trentadue per una sistemazione definitiva del contenzioso confinario italo-jugoslavo (accordi di Osimo). Il ruolo di De Gasperi, nella fase più acuta della crisi per Trieste, è complessivamente marginale. Egli viene informato in ritardo delle fasi di una partita diplomatica che si svolge tra Londra, 20 Sul dramma di Trieste sotto l’aspetto politico-diplomatico cfr. D. De Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, voll. I e II, Trieste 1981; J.-B. Duroselle, Le conflict de Trieste 1943-54, Bruxelles 1966; R. Pupo, La rifondazione della politica estera italiana: la questione giuliana (1944-1946), Udine 1979.

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Washington e Mosca. E comunque – come in occasione del braccio di ferro in Val d’Aosta – deve prendere atto che il principale difensore delle posizioni italiane è Harry Truman. Palmiro Togliatti, invece, mette a nudo la sua «doppia lealtà» di uomo di governo italiano, ma sostanzialmente dipendente dalla volontà e dalle direttive di Stalin. Infatti non esita a esortare i comunisti triestini ad accogliere come liberatori i partigiani di Tito21. In realtà, lo scontro per Trieste si configura come il primo, vero, confronto tra Est e Ovest dopo gli accordi di Jalta e dopo la fine delle ostilità in Europa. I due blocchi cominciano lentamente a prendere consistenza anche se siamo solo alle battute iniziali e non mancheranno i momentanei ripensamenti.

4. Il duro prezzo della pace Il negoziato per il Trattato di pace condiziona, e sovente paralizza, la politica estera italiana per quasi un biennio, fino al febbraio del 1947. È fonte di illusioni, di frustrazioni, mette a dura prova le istituzioni appena ricostituite dopo la tragedia bellica. Si concluderà, pur considerando le obiettive difficoltà, con un sostanziale fallimento diplomatico ripetendo quasi – anche se a parti invertite – il copione del naufragio cui l’Italia liberale e pre-fascista era andata incontro con la pace di Versailles. A dimostrazione di una sostanziale, persistente incapacità del nostro apparato diplomatico d’impegnarsi – al di là del valore dei singoli – in trattative internazionali complesse, di lungo respiro, che richiedono pazienza, tenacia, meticolosa conoscenza dei «dossier» e degli stati d’animo degli interlocutori. Il protagonista indiscusso della «lunga marcia» verso la pace è Alcide De Gasperi, che nel dicembre del 1945 sostituisce Ferruccio Parri alla guida del governo, mantenendo la carica di ministro degli Esteri: una nomina che sancisce il ribaltamento del rappor21 «Il nostro dovere è quello di accogliere le truppe di Tito come liberatrici», afferma Togliatti il 30 aprile 1945. G. Bocca, Palmiro Togliatti, Roma-Bari 1973, p. 498. Cfr. anche A. Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla liberazione al potere Dc, vol. II, Roma-Bari 1978, pp. 271-72.

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to tradizionale tra politica estera e politica interna a vantaggio della prima rispetto alla seconda22. In realtà, il leader del partito cattolico diventa sempre di più il punto di riferimento degli americani. Non a caso, il primo importantissimo gesto degli alleati, all’indomani della nomina di De Gasperi, è quello di procedere al ripristino della sovranità italiana nella parte settentrionale del paese23. Contemporaneamente vengono intensificati gli aiuti economici al nostro paese, ridotto alla fame, attraverso i canali dell’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration, finanziata per il 73 per cento dagli Stati Uniti). De Gasperi non delude le aspettative poiché, tra i primi provvedimenti governativi, indice per la primavera del 1946 le elezioni amministrative, anticipandole rispetto a quelle per la Costituente: esattamente come avevano chiesto gli alleati che volevano conoscere, attraverso un test non decisivo, i rapporti tra le principali forze politiche e regolarsi di conseguenza. È lo statista trentino che, all’indomani della Liberazione, assume le prime iniziative per ottenere la fine dell’armistizio e quindi per affrettare i tempi del recupero italiano. È lui che – su pressione di Alberto Tarchiani – spinge perché l’Italia dichiari guerra al Giappone, pur sapendo che si tratta di una mera finzione diplomatica perché le nostre forze armate non sarebbero state in grado di sparare un solo colpo di fucile contro l’impero del Sol Levante. La dichiarazione di guerra viene presentata alla vigilia della conferenza interalleata di Potsdam (14 luglio 1945); essa dovrebbe accrescere le nostre benemerenze presso le Nazioni Unite. Ma è un’ennesima illusione. A Potsdam, in realtà, il problema della «pace italiana» viene affrontato in maniera marginale. 22 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna 1977, p. 178. Cfr. anche A. Varsori, De Gasperi, Nenni, Sforza e il loro ruolo nella politica estera italiana del secondo dopoguerra, in L’Italia e la politica di potenza in Europa cit., vol. II, pp. 59-68. 23 L’annuncio viene dato dal capo della Commissione alleata, ammiraglio Ellery Stone, il 13 dicembre 1945, con un comunicato in cui si precisa che il trasferimento della sovranità sull’intero territorio nazionale, ad eccezione della Venezia Giulia e della provincia di Udine, sarebbe avvenuto il 1° gennaio 1946 e che il Governo militare alleato (Amg, Allied Military Government) avrebbe cessato le sue funzioni a partire da quella data. «La provincia di Udine non viene ancora restituita» – precisa il documento alleato – «unicamente per ragioni militari e non perché sia considerata zona contestata».

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Il tentativo di Truman di ottenere un trattamento privilegiato per il nostro paese e quindi un percorso accelerato per il Trattato di pace si scontra con l’opposizione di Stalin, il quale gela le intenzioni del capo della Casa Bianca sostenendo che qualunque misura nei riguardi dell’Italia deve essere accompagnata da analoghe misure verso gli altri ex satelliti della Germania nazista (Romania, Bulgaria, Ungheria e Finlandia) già finiti sotto controllo sovietico. Truman non insiste oltre per non aprire un fronte conflittuale con il Cremlino. E questo atteggiamento peserà durante tutta la fase negoziale. D’altra parte, a De Gasperi non occorre molto tempo per accorgersi – alla conferenza dei ministri degli Esteri di Londra (11-18 settembre 1945) – che nessuno è disposto a concessioni a nostro favore. Al contrario, c’è una sostanziale e concorde volontà punitiva. A Lancaster House non viene raggiunto alcun accordo tra le nazioni vincitrici della guerra, ma risulta evidente che la via della pace sarà dura e piena di ostacoli. Né la situazione cambia alla successiva conferenza di Mosca (16-26 dicembre 1945) dove i ministri degli Esteri dei «Grandi» si riuniscono per esaminare i principali focolai di crisi internazionale: dall’Iran alla Cina, dal Giappone alle isole del Pacifico. Al termine della discussione sui trattati di pace, l’Italia perde definitivamente qualsiasi priorità rispetto alle altre nazioni sconfitte e in particolare rispetto ai satelliti della Germania hitleriana. Il contributo dato agli alleati da unità del ricostituito esercito, dall’8 settembre del 1943 alla Liberazione, viene semplicemente ignorato. Alla conferenza di pace i paesi vinti possono soltanto esprimere riserve, proteste, di cui i «Grandi» possono tenere conto, a propria discrezione, in sede di redazione dei vari trattati. Tocca a De Gasperi l’ingrato compito di rappresentare l’Italia alle varie sedute del «tribunale della pace». È un mesto pellegrinaggio, quello dello statista trentino; una «via crucis» che raggiunge il momento più critico alla conferenza dei ventuno paesi che erano entrati in guerra con l’Italia, convocata a Parigi, dove De Gasperi (il 10 agosto 1946) deve fronteggiare attacchi, insidie da molti fronti. La questione più delicata è quella giuliana, su cui pesa l’insoluto destino di Trieste e delle terre istriano-dalmate. Il nostro governo resta ancorato a una proposta che, sotto l’aspetto confinario, riflette la cosiddetta «linea Wilson» proposta nel 1919 dal-

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l’allora presidente americano, che taglia da nord a sud la penisola istriana. L’amministrazione Truman è la più vicina alle nostre aspirazioni; meno favorevoli gli inglesi e i francesi, fortemente ostili i sovietici che – in sintonia con le posizioni di Tito – appoggiano una soluzione che prevede il pieno controllo jugoslavo su tutta la Venezia Giulia e alcune zone del Friuli. Sulle colonie, la posizione di De Gasperi è chiara anche se illusoria: l’Italia può o deve rinunciare alle colonie conquistate durante l’era fascista, ma non a quelle precedenti. Le colonie, secondo il pensiero del nostro governo, sono soltanto uno strumento per risolvere gli enormi problemi sociali del paese: non indicano alcuna volontà di egemonia, quindi sarebbe un errore smantellarle. Insomma: De Gasperi non contesta l’indipendenza dell’Etiopia o dell’Albania e il ritorno del Dodecaneso alla Grecia, ma chiede che l’Italia mantenga le colonie pre-fasciste, cioè l’Eritrea, la Somalia e la Libia. Chi contesta più duramente le tesi italiane è la Gran Bretagna che, da tempo, ha messo gli occhi proprio sulle nostre vecchie colonie, che vorrebbe trasferire sotto la propria sfera d’influenza. Il governo di Parigi, da parte sua, non transige sulle modifiche territoriali al nostro confine. Dopo la rinuncia forzata alla Val d’Aosta, gli interessi francesi si concentrano sui due villaggi frontalieri di Briga e Tenda; una richiesta considerata marginale dagli alleati che sostanzialmente l’appoggiano malgrado i tentativi di resistenza della nostra diplomazia. Per quanto concerne le rivendicazioni austriache sul Sud Tirolo, gli americani e i francesi sono più vicini alle tesi di De Gasperi che – come parlamentare trentino – conosce bene la questione e la segue con particolare attenzione. Gli inglesi appoggiano, invece, la posizione austriaca. I sovietici passano da una posizione totalmente favorevole alle rivendicazioni di Vienna a una linea più equilibrata. Altra questione spinosa è quella delle riparazioni belliche. Mosca insiste nel chiedere un’ingente somma all’Italia a titolo di risarcimento per l’aggressione subita dal governo fascista, mentre Londra e Washington sono inclini a soprassedere, in considerazione delle condizioni drammatiche dell’economia italiana. Sostanziale accordo tra i «Grandi» vi è invece sulle restrizioni che

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avrebbero dovuto avere nel dopoguerra le nostre forze armate e in particolare la flotta. Purtroppo nei negoziati la situazione sui vari dossier resta pressappoco identica, malgrado l’intenso lavoro di persuasione compiuto dai nostri diplomatici a Parigi soprattutto nei confronti dei paesi vincitori dove sono presenti forti comunità di origine italiana. De Gasperi, quando finisce di parlare alla conferenza parigina, ha la netta e angosciosa percezione di trovarsi in un’assemblea quasi completamente ostile. Le sue parole in difesa delle posizioni italiane sono accolte da un gelido silenzio. L’unico delegato che si alza in piedi e gli stringe la mano è il segretario di Stato americano James Byrnes24. All’indomani della conferenza di Parigi, la sola questione che si risolve in termini sostanzialmente non negativi per gli interessi italiani è quella dell’Alto Adige. Probabilmente proprio a causa del ripensamento sovietico che spinge Londra a modificare la propria posizione e quindi il governo di Vienna a cercare un compromesso con l’Italia. De Gasperi coglie al volo l’occasione e raggiunge un accordo con il ministro degli Esteri austriaco Karl Gruber (il 5 settembre 1946), che sancisce l’inviolabilità della frontiera del Brennero pur riconoscendo alla minoranza sud-tirolese un’ampia autonomia e la difesa delle proprie caratteristiche culturali. Il compromesso italo-austriaco viene strappato alla logica punitiva del Trattato di pace e – come si è detto – è l’unico risultato positivo che De Gasperi consegue nella lunga marcia verso la pace25. 24 Così James Byrnes ricorda l’episodio nelle sue memorie: «Il primo ministro italiano parlò con tatto, ma con dignità e con coraggio. Quando lasciò il rostro per tornare al posto assegnatogli in ultima fila, scese dalla navata centrale della sala, silenziosamente, passando accanto a molte persone che lo conoscevano. Nessuno gli parlò. La cosa mi fece impressione, mi sembrava inutilmente crudele. Come gli altri membri, anch’io avevo conosciuto De Gasperi a Londra. Così, quando passò accanto alla delegazione degli Stati Uniti, gli tesi la mano e gliela strinsi». J. Byrnes, Speeking frankly, Westport (Connecticut) 1974, pp. 123-55 (trad. it., Carte in tavola, Milano 1948). 25 Nella sua documentata ricostruzione delle vicende diplomatiche che portano all’accordo De Gasperi-Gruber, M. Toscano (Storia diplomatica della questione dell’Alto Adige, Bari 1968, pp. 249-488) sostiene che la diplomazia italiana non utilizza appieno l’«apertura» sovietica sull’Alto Adige. Si tratta, in verità, di una mossa importante ma isolata. Per il resto, l’atteggiamento di Molotov è

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Per il resto, il trattato definito dai quattro «Grandi» alla conferenza di New York (12 dicembre 1946) ricalca le posizioni espresse durante il lungo, faticoso negoziato diplomatico prima nell’ambito della conferenza dei quattro ministri degli Esteri dei paesi vincitori e poi nel quadro più ampio della conferenza dei «Ventuno». Sulla questione giuliana i sacrifici sono particolarmente duri e dolorosi. Prevale la «linea francese», quella a noi meno favorevole, che sancisce lo smembramento della Venezia Giulia. L’ottantuno per cento del territorio giuliano finisce sotto il controllo di Tito. L’Italia avrebbe conservato Gorizia, Monfalcone e la vallata del Kanal, ma l’Istria sarebbe finita sotto sovranità jugoslava. Trieste e il territorio limitrofo («Zona A» occupata dagli anglo-americani e «Zona B» occupata dagli jugoslavi) avrebbero costituito il cosiddetto Tlt (Territorio libero di Trieste) con uno statuto internazionale del quale sarebbe stata responsabile l’Onu, che avrebbe provveduto anche a nominare un governatore26. Inoltre, l’Italia deve rinunciare definitivamente all’Albania e all’Etiopia e cede alla Grecia le isole del Dodecaneso e Rodi. Per quanto concerne le colonie pre-fasciste, i contrasti tra i «Grandi» sulla loro sorte impediscono un accordo definitivo. La soluzione viene rinviata di un anno dalla firma del trattato, ma con l’evidente presupposto che il nostro paese avrebbe rinunciato a qualsiasi diritto di sovranità. La Francia ottiene le modifiche territoriali chieste come risarcimento per la «pugnalata alla schiena» del giugno 1940; mentre rinuncia – insieme agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna – alla richiesta di riparazioni belliche. Non vi rinunciano invece l’Unione Sovietica (che ottiene un indennizzo di 100 milioni di dollari da pagare nell’arco di sette anni), la Grecia, la Jugoslavia e le ex colonie. sempre contrario alle tesi italiane. D’altra parte, i tempi sono cambiati rispetto ai contatti italo-sovietici del 1944. 26 Il Territorio libero di Trieste aveva un’estensione di 738 kmq, di cui 222,5 costituivano la «Zona A» e 515,5 la «Zona B». La prima comprendeva la città di Trieste, il comune costiero di Muggia e altri quattro piccoli comuni carsici (Duino-Aurisina, Sgònico, Monrupino, San Dorligo della Valle). La seconda comprendeva i comuni costieri di Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova e numerosi altri comuni interni (tra cui Buie e Monte di Capodistria).

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Particolarmente onerose sono le clausole militari. Esse prevedono forti limitazioni sul futuro assetto delle forze armate e la smilitarizzazione delle frontiere. La Marina subisce una sorte particolarmente umiliante soprattutto se si considera che essa – sin dal settembre 1943 – si era schierata attivamente al fianco degli anglo-americani. Le navi della flotta vengono spartite tra i vincitori come un bottino di guerra. E se dopo la firma del trattato gli americani e gli inglesi rinunceranno alla loro quota, non allo stesso modo si comporterà l’Unione Sovietica che reclamerà la sua parte di naviglio. Dunque, un quadro complessivo deludente e preoccupante di fronte al quale De Gasperi aveva due possibili alternative: drammatizzare l’umiliazione e quindi rifiutare di sottoscrivere il trattato oppure minimizzarne le dimensioni pensando al «dopo». Egli sceglieva la seconda via e non a caso affidava a un diplomatico, non a un membro del governo, l’ingrato compito di sottoscrivere l’iniquo e oneroso documento di pace. Toccava a un anziano ambasciatore, Roberto Lupi di Soragna, porre la propria firma in calce al documento, nel salone dell’Orologio del Quai d’Orsay (10 febbraio 1947)27. La firma della «pace ingiusta» sollevava un acceso dibattito politico nel luglio del 1947, quando il trattato veniva sottoposto all’esame dell’Assemblea costituente per la necessaria ratifica. Alcuni esponenti del mondo politico pre-fascista – tra cui, in primis, Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando – si ribellavano ed esortavano l’Assemblea a non autorizzare il governo alla ratifica. In particolare, Croce sottolineava che il trattato conteneva un «giudizio morale e giuridico sull’Italia, la pronuncia di un castigo attraverso il quale deve redimersi» assolutamente inaccettabile. Insomma: il trattato non solo conteneva durissime clausole punitive, ma esprimeva una condanna nei confronti dell’Italia postrisorgimentale, spazzando l’illusione – a lungo coltivata dai governi post-fascisti – secondo cui la dittatura mussoliniana era stata una sorta di parentesi, ovvero d’incidente di percorso, nella storia nazionale, e come tale sarebbe stata considerata dal tribunale dei 27 Il testo integrale del Trattato di pace è analizzato e commentato in B. Cialdea, M. Vismara, Documenti della pace italiana, Roma 1947, pp. 40-221.

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vincitori. In particolare, secondo Croce il fascismo era stato una sorta di bubbone purulento in un corpo sostanzialmente sano; e quindi, una volta estirpato, non ne sarebbero rimaste tracce. Va detto, tuttavia, che le voci di Croce e di Orlando – ancorché autorevoli – erano fortemente minoritarie in seno all’Assemblea costituente, dove invece prevalevano altre ragioni, altre opzioni. C’era la posizione di chi – come De Gasperi e gran parte della Democrazia cristiana – voleva chiudere al più presto il capitolo del trattato perché riteneva, non a torto, che esso fosse l’ultimo atto di una coalizione internazionale ormai in frantumi e che quindi l’Italia avesse tutto l’interesse a liberarsi di un fardello doloroso per poter agire con maggiore libertà di manovra nei confronti del mondo occidentale e puntare a una sua revisione in tempi ravvicinati. C’era poi la posizione dei comunisti che – pur cercando di ottenere un rinvio della ratifica proprio per ritardare il processo di avvicinamento dell’Italia verso i paesi occidentali – accettavano con qualche compiacimento l’umiliazione subita dal governo di cui pure facevano parte, in sintonia con la posizione di Mosca. Non a caso, d’altra parte, il Pci sembrò allinearsi sulle posizioni di Tito proprio mentre De Gasperi perorava le ragioni dell’Italia al «tribunale della pace». Nel novembre del 1946 Togliatti – di ritorno da un viaggio a Belgrado – suggeriva che l’Italia rinunziasse a Gorizia in cambio della città di Trieste. Un’iniziativa che denunciava le contraddizioni del Partito comunista nei confronti della questione giuliana, che suscitava lo stupore e il disappunto anche dell’allora ministro degli Esteri, Nenni, ancorato a un patto d’unità d’azione con i comunisti, ma fautore di una politica estera imperniata sulla neutralità e sull’equidistanza dai blocchi. In realtà, la «pace punitiva» era il frutto di una situazione internazionale ancora fluida in cui i «Grandi» erano ancora vincolati dalle decisioni di Jalta e attuavano un estremo tentativo di mantenere in vita l’alleanza bellica, quindi sacrificavano le nostre aspirazioni sull’altare di una speranza di compromesso destinata a rivelarsi inconsistente. Probabilmente, De Gasperi non aveva alternative valide alla firma del trattato. Finché rimaneva aperta quella piaga, la politica estera italiana restava in una sorta di limbo in attesa di un giudizio che si sapeva duro e sul quale non si poteva influire. Dunque, la firma era inevitabile. Ma, ancora una volta, era mancata

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una riflessione approfondita sulle ragioni di quella sconfitta. Ci si era illusi di poter contare sui contrasti tra i vincitori per poter difendere i confini e mitigare le clausole finanziarie mentre i dissidi tra gli alleati avevano giocato stavolta a nostro svantaggio. Soprattutto era mancata un’analisi delle nostre priorità, dei nostri interessi strategici, una riflessione su cui costruire una nuova politica estera. Saranno, piuttosto, gli eventi internazionali a determinare le future scelte del paese.

5. Costituzione e politica estera Le ambiguità, le spinte contrastanti che rendono poco coesa e propositiva la politica estera italiana nei primi anni del secondo dopoguerra si riflettono, in qualche modo, anche nel testo della Carta costituzionale approvato dall’Assemblea costituente eletta il 2 giugno 1946, quando gli italiani votano anche per il referendum popolare che sancisce la vittoria repubblicana sulla monarchia inducendo Umberto II all’esilio in Portogallo. I rapporti di forza in seno alla Costituente sono tali che i tre principali partiti di massa (cattolico, socialista e comunista) dispongano dei tre quarti dei 556 seggi. E questa ripartizione viene rigorosamente rispettata nella «Commissione dei 75» presieduta da Meuccio Ruini e incaricata di elaborare e proporre il testo costituzionale all’Assemblea. È evidente, quindi, che quel testo è anzitutto il frutto di un’alchimia giuridica e di un compromesso politico tra l’ecumenismo cattolico, l’internazionalismo comunista e il neutralismo socialista. Certo: va anche considerato il contributo del liberalismo postrisorgimentale, ma esso è fortemente minoritario; di poco più consistente è l’influenza della componente azionista nonostante che il Partito d’azione venga quasi cancellato dal voto popolare del ’46 che gli attribuisce soltanto l’1,5 per cento. Il principale collante che unisce le tre forze politiche principali – è stato detto – è l’antifascismo; cioè la comune condanna dell’esperienza totalitaria e illiberale vissuta dal paese nel ventennio e il comune impegno contro il neo-fascismo della Repubblica sociale durante la Resistenza.

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La Costituzione – soprattutto nella prima parte – ha una forte ispirazione internazionalistica e può contare su un maggior numero di norme relative ai rapporti internazionali rispetto allo Statuto albertino. Ma proprio la presenza preponderante di forze politiche che s’ispirano a valori tra di loro inconciliabili rende impossibile la definizione di indirizzi concreti di politica estera. Nella Costituzione repubblicana non sono previste scelte di campo, ma viene suggellata soltanto una certa filosofia universalista. Si guarda con grande interesse a organizzazioni come le Nazioni Unite cui l’Italia democratica spera di poter aderire al più presto. Si ribadisce con forza la volontà pacifista di un popolo costretto, suo malgrado, a entrare nel vortice di una guerra non voluta e ancora sconvolto dalle conseguenze devastanti della sconfitta bellica. In questo contesto nasce il famoso articolo 11 della Costituzione che proclama solennemente il ripudio della guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» e stabilisce, al tempo stesso, che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Il doppio «no» alla guerra è netto e totale: lascia intendere chiaramente che l’Italia repubblicana non avrebbe mai più assunto iniziative belliche contro altri Stati, ma avrebbe sempre perseguito la via del negoziato diplomatico. La guerra, nella sua accezione più ampia, sarebbe stata possibile soltanto in un caso: come legittima difesa da parte dello Stato nel momento in cui fossero messe a repentaglio la pace e la sicurezza dei cittadini (diritti anch’essi garantiti e protetti dalla Costituzione). È un vincolo molto forte, quello del «ripudio della guerra», che rappresenta un’evidente sconfessione della politica estera espansionista del regime fascista e anche di quella pre-fascista da parte della neonata Repubblica italiana. È un vincolo che mostrerà nei decenni successivi il suo peso e la sua importanza soprattutto quando – come vedremo più avanti – si profileranno nuove possibilità d’intervento militare. Quanto alla seconda parte dell’articolo 11, quando si parla di «organizzazioni internazionali», i costituenti intendono riferirsi

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principalmente alle Nazioni Unite più che alle organizzazioni europee, peraltro allora non ancora esistenti se non nei programmi e nelle speranze dei movimenti federalisti. In pratica, la seconda parte dell’articolo 11 avrà lo scopo precipuo di legittimare dal punto di vista costituzionale le limitazioni di sovranità derivanti dall’adesione dell’Italia ai trattati istitutivi delle Comunità europee e poi dell’Unione europea. Non sarà necessario, invece, il suo richiamo per l’adesione al Patto atlantico poiché esso, almeno formalmente, non comporterà cessioni di sovranità28. Va anche detto che la norma non era priva di ambiguità proprio in ragione della poca omogeneità e degli interessi divergenti delle forze che l’avevano voluta. E proprio in occasione della ratifica parlamentare del primo trattato europeo, quello istitutivo della Comunità del carbone e dell’acciaio, nel 1952, non sarebbero mancate le voci in Parlamento che contestavano la lettura e l’interpretazione in termini troppo estensivi della norma costituzionale29. Era anche vero che i costituenti avevano volutamente escluso un esplicito riferimento alle «organizzazioni europee». In seno alla «Commissione dei 75» un emendamento dell’azionista Emilio Lussu, che intendeva sostituire l’espressione «le organizzazioni internazionali» con quella «le organizzazioni europee ed internazionali», proprio in vista di una prospettiva federalistica del Continente, veniva messo ai voti e respinto seccamente. Quel che si voleva colpire era il mito della «sovranità assoluta»; di fatto si apriva una crepa nello stesso principio di sovranità che era uno dei presupposti perché lo Stato – attraverso i suoi organi costituzionali – potesse svolgere una politica estera convincente e coerente con gli interessi del paese. D’altra parte, la definizione della nuova Carta fondamentale rappresentava un obiettivo politico troppo importante perché i costituenti non dovessero cercare sempre, a ogni costo, un compromesso tra le rispettive posizioni per scongiurare il rischio di 28 L. Forlati Picchio, Rapporti Nato-Nazioni Unite e Costituzione italiana: profili giuridici, in L’alleanza occidentale, a cura di O. Barié, Bologna 1988, pp. 435-41. 29 S. Bertole, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna 2004, pp. 276-88.

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una rottura che avrebbe potuto rimettere in discussione anche l’assetto istituzionale faticosamente conquistato attraverso il voto del referendum. Questo contribuisce a spiegare perché il lungo lavoro dell’Assemblea costituente – conclusosi nel dicembre del 1947 con la stesura e l’approvazione del testo definitivo della nuova Costituzione a larghissima maggioranza30 – segua un andamento avulso e in qualche modo contraddittorio rispetto ai grandi sommovimenti che, nel corso dello stesso anno, scuotono dalle fondamenta i rapporti tra Est e Ovest e non mancano di ripercuotersi sugli assetti della politica interna italiana, determinando divisioni e conflitti. Nel gennaio del 1947, la prima missione di De Gasperi negli Stati Uniti – al di là del modesto ma significativo risultato concreto consistente nell’assegno di 100 milioni di dollari concesso a titolo di prestito dalla Export-Import Bank per aiutare la ripresa della disastrata economia italiana – consente al capo del governo di verificare personalmente il drastico cambiamento di indirizzo della politica dell’amministrazione Truman nei confronti del mondo comunista e quindi anche il diverso approccio verso la «questione italiana». Ancora oggi – a quasi sessant’anni di distanza – è senza risposta l’interrogativo se lo stesso capo della Casa Bianca o qualcuno dei suoi più diretti collaboratori abbia esplicitamente richiamato De Gasperi a una linea di rottura interna nei confronti dei comunisti e abbia condizionato i futuri aiuti economici all’Italia a una politica conseguente con la svolta che si stava determinando nei rapporti russo-americani, cioè all’estromissione del Pci dal governo. Le prove documentali di questa diretta connessione finora non sono state rinvenute31. È certo, tuttavia, che il corso degli eventi marcia in quella direzione anche perché, al ritorno dalla missione americana, De Gasperi si trova di fronte alle conseguenze della scissione del Psiup in due tronconi dopo il congresso di Palazzo Barberini: il Psi fede30 Le votazioni per la Costituzione hanno luogo il 22 dicembre 1947 a scrutinio segreto su chiamata nominale dei singoli costituenti. Su 515 presenti si esprimono a favore 453 deputati, votano «no» sessantadue. Promulgata il 27 dicembre, la nuova Carta costituzionale entra in vigore il 1° gennaio 1948. 31 Scoppola, La proposta politica di De Gasperi cit., p. 313.

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le a Nenni e il Psli (Partito socialista dei lavoratori italiani) fondato da Giuseppe Saragat, attestato su posizioni socialdemocratiche e deciso a denunciare il patto di unità d’azione con i comunisti. Ovviamente De Gasperi deve dimettersi e il governo entra in crisi. Ma il leader democristiano si guarda bene dal rinunciare alla «coabitazione forzata» con le sinistre poiché vuole coinvolgere socialisti e comunisti nella firma dello scomodo e umiliante Trattato di pace. La novità più rilevante del terzo governo De Gasperi del febbraio 1947 è costituita dal cambio al ministero degli Esteri. Esce di scena, dopo soli tre mesi, Pietro Nenni, proprio alla vigilia di un viaggio a Londra che avrebbe dovuto consolidare l’«asse privilegiato» tra i socialisti italiani e i laburisti di Ernest Bevin tale da instaurare rapporti commerciali sia a Est sia a Ovest. La breve esperienza nenniana si conclude con un sostanziale fallimento poiché svaniscono rapidamente le speranze di poter risolvere le questioni confinarie – a cominciare da quella italo-jugoslava – attraverso negoziati bilaterali. Torna alla guida del ministero degli Esteri Carlo Sforza: questa volta non deve superare alcun veto britannico. De Gasperi lo chiama al suo fianco perché sa che si tratta di un diplomatico di grande esperienza, ancorché di carattere difficile. Il conte non delude le aspettative di De Gasperi. Proprio perché svincolato dai meccanismi e dai condizionamenti dei principali partiti (Sforza aderisce come indipendente al piccolo Partito repubblicano), può consentirsi una libertà d’azione che, al contrario, sovente è preclusa a De Gasperi il quale, per forza di cose, deve essere più attento alla politica interna. Si può affermare che con l’avvento di Sforza a Palazzo Chigi comincia la politica estera dell’Italia post-bellica. La collaborazione tra i due statisti, nell’arco di un quinquennio – pur non mancando le occasioni di dissenso e i dissapori – risulterà decisiva per indirizzare e quindi per realizzare la «corsa di ritorno» dell’Italia nello schieramento politico-militare dell’Occidente. La fine del tripartito è solo rinviata di tre mesi. Nel maggio del 1947, dopo la firma del Trattato di pace, De Gasperi mette fine alla collaborazione con i socialisti e con i comunisti e vara un governo monocolore di minoranza, caratterizzato dalla presenza di

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Luigi Einaudi, liberale, vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio, incaricato di rimettere ordine in un paese ormai sull’orlo della bancarotta. È una prova di forza assai rischiosa, quella di De Gasperi, poiché la mancata fiducia al governo avrebbe potuto avere conseguenze devastanti. Invece, il coraggio dello statista trentino viene premiato. È la cosiddetta «svolta moderata» destinata a incidere profondamente sugli equilibri politici interni. Ancora una volta, mancano documenti e prove tali da confermare che – dietro l’iniziativa degasperiana – vi sia un «ordine», ovvero un’«investitura» di Washington. Ma quasi contemporaneamente, analoga operazione contro i comunisti si svolge in Francia, in Belgio e in Austria. Non c’è dubbio, tuttavia, che questo sbocco politico sia fortemente auspicato dall’amministrazione Truman e che gli aiuti economici di cui l’Italia ha urgentemente bisogno siano condizionati all’uscita dei comunisti dal governo. Togliatti reagisce con moderazione e con qualche titubanza alla decisione di De Gasperi, che comunque cerca di indorare la pillola, lasciando intendere al segretario del Pci che la separazione è soltanto momentanea. Naturalmente, la svolta di De Gasperi insita nella rottura dell’«alleanza antifascista» non manca di suscitare aspre reazioni nella base comunista. Molti dirigenti del Pci devono subire la linea morbida di Togliatti, ma dietro le quinte non escludono un’ipotesi insurrezionale. Almeno ne sono convinti gli strateghi del Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato americano che, nel settembre del 1947, preparano un memorandum in cui auspicano adeguate contromisure militari nel caso in cui i comunisti cerchino di impadronirsi del potere nel Nord dell’Italia, in concomitanza con il ritiro delle truppe occidentali dalla penisola, in base al Trattato di pace. Lo stesso Truman, nel dicembre del 1947, non esita a lanciare pesanti avvertimenti sulla necessità di «mantenere un’Italia libera e indipendente»32. In realtà si tratta di piani e di possibili contromisure destinati a restare allo stato progettuale, anche se la nascita del Cominform, nell’ottobre del 1947, porta a una radicalizzazione dello scontro 32 Il testo della dichiarazione di Truman del 13 dicembre 1947 e le fasi precedenti in Frus, 1948, Western Europe, vol. III, Washington 1974, pp. 749 sgg.

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tra i due blocchi e i partiti comunisti europei – tra cui in primis il Pci – sono messi sotto accusa dai vertici del nuovo centro di coordinamento pancomunista per aver assunto una posizione politica troppo arrendevole e per essersi lasciati escludere dal governo. Va sottolineato, comunque, che tutto questo convulso susseguirsi di eventi nella primavera-autunno del 1947 non incide che minimamente nei lavori dell’Assemblea costituente per la messa a punto della Carta fondamentale. Le ragioni, come sovente accade per le vicende di questo periodo, non vanno ricercate tanto nei comportamenti dei protagonisti della scena politica nazionale quanto dei loro referenti esterni. Togliatti è più che mai ancorato alle direttive strategiche di Stalin. Ed egli – almeno fino a un certo punto – ritiene d’interpretare la volontà del capo del Cremlino nel senso di una rigorosa applicazione della «svolta di Salerno» contraria a qualsiasi rottura traumatica con i partiti moderati. Anche dal Vaticano le indicazioni date alla Democrazia cristiana e al suo leader sono improntate alla massima cautela. I tempi dello scontro frontale negli schemi della diplomazia vaticana sono più lenti di quelli che vanno maturando tra i due blocchi, anche perché gli interessi della gerarchia della Santa Sede – dove è presente una forte corrente incline al neutralismo – sono diversi e più articolati. Ecco, quindi, perché nel marzo del 1947 si arriva all’approvazione dell’articolo 7 della Costituzione che recepisce integralmente i Patti lateranensi del 1929 con la decisione di Togliatti (ma non di Nenni) di allinearsi sulle posizioni della Chiesa. Ecco perché si arriva alla ratifica del Trattato di pace, il 31 luglio 1947, con una forte maggioranza di adesioni. Infine, ecco perché, cinque mesi più tardi, si arriva alla firma della Carta costituzionale, ultimo atto di una collaborazione tra forze politiche ormai destinate a imboccare la via di uno scontro frontale. 6. Le sirene del neutralismo L’ampiezza delle conquiste militari dell’Armata Rossa nell’Europa appena liberata dal nazismo, cui seguiva l’instaurazione di regimi comunisti soggetti alla volontà di Mosca, imponeva all’amministrazione Truman una profonda e rapida revisione dei principi che avevano ispirato fino ad allora la politica americana ver-

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so l’Urss e verso i paesi europei. Grazie anche alle analisi di «Mr. X», alias George Kennan, ambasciatore statunitense a Mosca, nasceva nel marzo del 1947 la «dottrina Truman» sul contenimento del comunismo, la cui prima manifestazione era l’annuncio del capo della Casa Bianca di un vasto programma di aiuti economici alla Grecia e alla Turchia: la prima sconvolta dalla guerra civile alimentata da sovietici e jugoslavi, la seconda oggetto delle mire di Stalin che puntava al controllo dello stretto dei Dardanelli. L’intervento americano era stato determinato dalla improvvisa decisione della Gran Bretagna di sospendere, per ragioni economiche, ogni aiuto ai governi di Atene e di Ankara. Esso, dunque, segnava un evidente ridimensionamento delle ambizioni imperiali degli inglesi mentre dimostrava la ferma volontà statunitense di non consentire che il Mediterraneo orientale finisse sotto il controllo sovietico. La «dottrina Truman» segnava l’inizio di una nuova fase nei rapporti tra Est e Ovest e si sarebbe presto saldata con l’altro piano annunciato qualche mese più tardi (nel giugno del 1947) dal segretario di Stato americano, George Marshall, che prevedeva un massiccio programma di aiuti ai paesi europei. Quindi il «piano Marshall» – con il varo dell’European Recovery Program (Erp) destinato a sedici paesi europei più le tre zone occidentali della Germania33 – grazie al primo stanziamento di cinque miliardi e 300 milioni di dollari a partire dall’anno 1948 (ma alla fine del programma saranno 13,812 di cui 1,511 all’Italia) era lo strumento operativo della «dottrina Truman» per rispondere alle sfide dell’espansionismo sovietico. Era un programma ambizioso di aiuti finanziari con il quale l’America s’impegnava concretamente per la ricostruzione delle economie del vecchio continente, per favorirne il risanamento finanziario, per modernizzarne l’apparato industriale e per riattivare le correnti di scambio commerciale tra le due sponde dell’Atlantico. Insomma: per sostenere quelle iniziative che avrebbero consentito alle economie europee di ritornare progressivamente alla normalità e di creare reddito e lavoro. 33 I paesi partecipanti al «piano Erp» sono i seguenti: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Turchia. Viene inclusa, inoltre, Trieste.

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L’Italia degasperiana figurava tra i paesi invitati dai governi di Francia e di Gran Bretagna alla conferenza parigina, convocata nel luglio del 1947, che avrebbe dovuto dare il via al «piano Marshall». Per De Gasperi e per Sforza questo invito aveva un enorme valore politico e psicologico perché, per la prima volta dopo la sconfitta bellica e la dolorosa vicenda del negoziato di pace, il nostro paese veniva ammesso in un consesso internazionale, con parità di rango rispetto ai vincitori. Era un altro segno del profondo mutamento che stava intervenendo nei rapporti internazionali. D’altra parte, i vantaggi politici ed economici che sarebbero scaturiti per il nostro paese, come per le altre nazioni europee beneficiarie del piano, erano evidenti. Ma la filosofia che ispirava i promotori del piano non era tanto quella di distribuire aiuti a pioggia per sostenere i paesi europei in difficoltà quanto quella di trasferire in Europa le idee, i metodi e le strategie del capitalismo americano, che puntava le sue carte sull’economia di mercato. Era questo, nell’opinione di Marshall e dei suoi principali collaboratori, l’antidoto più efficace contro il dilagare del comunismo. In particolare in Italia – superato l’iniziale entusiasmo per l’invito statunitense che equivaleva a un riscatto dopo le umiliazioni post-belliche – affioravano riserve e difficoltà nella fase esecutiva dei progetti legati al «piano Marshall». Mentre gli americani esigevano impegni precisi per una svolta economica nel segno di una maggiore produttività, il nostro apparato politico-industriale, non in grado di affrontare le sfide del mercato, si trincerava ancora dietro posizioni corporative e protezionistiche. Riaffioravano malintesi e diffidenze alimentati anche dall’atteggiamento del governo De Gasperi di fronte all’evoluzione della crisi Est-Ovest. Se poteva ancora sussistere qualche dubbio sulla volontà di Stalin di non rispettare gli accordi di Jalta e di allargare, ricorrendo a ogni mezzo, il proprio dominio nell’Europa centro-orientale, il colpo di Stato in Cecoslovacchia del febbraio 1948, con cui veniva defenestrato il presidente Benesˇ e veniva instaurato un regime comunista, lo eliminava definitivamente. Era un atto di forza particolarmente brutale e arbitrario perché a Praga c’era un’Assemblea costituente liberamente eletta nel 1946 e perché in Cecoslovacchia – a differenza che in altri paesi dell’Est europeo – c’era una forte tradizione di democrazia parlamentare. La reazione occidentale al putsch era immediata. Nel marzo

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1948 si riunivano a Bruxelles i ministri degli Esteri del Regno Unito, della Francia, del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo, per dare vita a un accordo politico-militare di durata cinquantennale, che vincolava i paesi firmatari a un’assistenza militare automatica in caso di aggressione. Il Patto di Bruxelles si collocava nella scia dell’accordo franco-britannico di Dunkerque dell’anno precedente sottoscritto da Bevin e da Bidault. Con una differenza fondamentale: mentre l’accordo di Dunkerque era rivolto soprattutto contro una potenziale «rinascita» tedesca, il nuovo patto – pur non precisando esplicitamente i possibili aggressori – non lasciava adito a incertezze sul fatto che fosse una manifestazione della volontà europea di opporsi all’espansionismo sovietico. Naturalmente la partecipazione americana era indispensabile per rendere credibile agli occhi sovietici qualunque opzione militare occidentale. Va ricordato che in quel momento gli Stati Uniti avevano ancora il monopolio dell’arma atomica e quindi possedevano un formidabile strumento di dissuasione. Gli esponenti dell’amministrazione Truman facevano sapere ai partner europei di essere indisponibili per accordi militari bilaterali mentre avrebbero appoggiato un’alleanza collettiva delle nazioni europee. Il ministro degli Esteri inglese, Bevin, principale fautore dell’accordo, dopo qualche iniziale esitazione proponeva al nostro governo di entrare a far parte della neonata organizzazione. Era una mossa imprevista. Ma con stupore e disappunto doveva prendere atto che De Gasperi e Sforza non erano assolutamente disponibili ad accogliere la proposta. Il rifiuto veniva formalizzato nel corso di un tempestoso colloquio tra il capo del governo e l’ambasciatore americano a Roma, James Dunn, il 12 marzo 1948, cioè poco più di mese prima delle elezioni politiche previste per il 18 aprile. Come si è detto, gli Stati Uniti non facevano parte del piano, ma ne appoggiavano fortemente la costituzione. De Gasperi ringraziava per l’offerta ma si diceva costretto a non accoglierla perché riteneva preferibile, alla vigilia del voto, evitare un impegno che avvicinasse troppo l’Italia all’Unione occidentale, tale da poter essere sfruttato elettoralmente dal fronte socialcomunista34. 34 Telegrammi di J. Dunn al Dipartimento di Stato, 12 marzo 1948, Frus, 1948, Western Europe, vol. III, cit., pp. 784-86.

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Analogo rifiuto veniva opposto a un’offerta americana di forniture militari, considerate a Washington necessarie dovendo l’Italia provvedere da sola alla sua sicurezza dopo il ritiro delle forze alleate. Anche in questo caso, secondo l’opinione di De Gasperi, l’arrivo degli armamenti in Italia, prima delle elezioni, sarebbe stato controproducente e avrebbe scatenato la propaganda socialcomunista. Il rifiuto suscitava sconcerto e malumore nell’amministrazione Truman al punto che l’ambasciatore Tarchiani registrava, in un rapporto, che «a Washington si sospettava che i nostri partiti democratici potessero indulgere ad accettare compromessi con l’estrema sinistra e fors’anche a desiderarli o che comunque volessero lasciarsi cullare da miraggi di sviluppi normali e pacifici della nostra situazione interna ed internazionale»35. L’offerta di adesione al Patto di Bruxelles e quella di massicce forniture militari si inserivano in un contesto più ampio riguardante la questione di Trieste e la sorte delle colonie pre-fasciste, alla vigilia – occorre ripeterlo – di una sfida elettorale cruciale; test dei rapporti tra Est e Ovest e prova eloquente dell’importanza prioritaria della politica internazionale rispetto a quella interna. Americani, francesi e inglesi erano inclini ad accogliere una richiesta avanzata da Sforza secondo il quale gli alleati potevano aiutare il fronte moderato nella ormai imminente sfida con una dichiarazione con la quale promettevano la restituzione all’Italia della «Zona A» del Territorio libero di Trieste da essi stessi amministrata e al tempo stesso neutralizzavano gli effetti di un’offensiva propagandistica a sorpresa dell’Unione Sovietica, che si dichiarava favorevole a un ritorno delle colonie pre-fasciste sotto amministrazione fiduciaria italiana, assumendo un analogo orientamento. In realtà, sulle colonie non si raggiungeva alcun accordo per l’ostinata opposizione britannica, mentre su Trieste veniva concordata una dichiarazione tripartita che impegnava gli alleati alla restituzione all’Italia non solo della «Zona A» ma di tutto il Tlt, cioè anche di quella parte occupata dagli jugoslavi (il 20 marzo 1948); ipotesi del tutto irrealistica e in funzione meramente elet35

A. Tarchiani, Dieci anni tra Roma e Washington, Milano 1955, p. 144.

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torale, soprattutto se si considera che in quel fatidico 1948 il regime di Tito rompeva clamorosamente i rapporti con Stalin e quindi tornava a occupare un ruolo significativo nella strategia occidentale. Ma quel che emergeva con chiarezza dietro il «no» italiano all’adesione al Patto di Bruxelles era il desiderio di contrattare, in qualche modo, tale partecipazione con una revisione delle clausole militari e coloniali del Trattato di pace. Insomma: si faceva strada l’antica abitudine di sopravvalutare le nostre forze, la convinzione di poter dettare condizioni senza comprendere che l’adesione al Patto di Bruxelles avrebbe modificato sostanzialmente, di per sé, lo status internazionale dell’Italia rendendolo non più Stato ex nemico ma membro di pieno diritto del «concerto» europeo e della comunità occidentale. E che ciò avrebbe rappresentato per il nostro paese la migliore garanzia per poter ottenere le legittime revisioni dell’iniquo Trattato di pace. «L’opinione pubblica era piuttosto contraria al Patto di Bruxelles» – ricorderà più tardi Sforza – «e il popolo italiano si sentiva ‘fuori del pelago alla riva’, appena all’inizio della ricostruzione economica e della nuova normalità amministrativa, tanto da trovarsi immediatamente e psicologicamente mal disposto a sentir parlare di questioni militari e di sicurezza [...]. Noi del governo dovevamo ubbidire a questi impulsi»36. Pesavano in questo approccio il giudizio fortemente negativo di Sforza nei confronti della politica britannica sulle colonie, il timore di legarsi a un accordo di sicurezza europeo senza la presenza americana, la preferenza per accordi diretti, bilaterali con gli Stati Uniti, nonché la speranza di poter coltivare un rapporto preferenziale con la Francia dopo l’accordo del 20 marzo 1948 per un’unione doganale. E infine il desiderio di mantenere aperto il canale del dialogo con l’Unione Sovietica che si sarebbe consolidato con la lunga missione a Mosca di una delegazione guidata dal ministro del Commercio estero, Ugo La Malfa. Ma erano spiegazioni parziali, che non giustificavano un «no» interpretato a Londra e a Washington come un’autoesclusione. 36 C. Sforza, Cinque anni a Palazzo Chigi. La politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma 1952, pp. 193-95.

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Questo grossolano errore di valutazione non rimaneva senza conseguenze. Bevin tornava rapidamente sui suoi passi e ritirava l’offerta ricordando brutalmente a De Gasperi e a Sforza che l’ingresso dell’Italia tra i fondatori del nuovo patto sarebbe stato un vantaggio per il nostro paese, ma un fardello per i partner a causa della nostra debolezza politico-economica. Ergo: era semplicemente inimmaginabile porre condizioni da parte nostra. «Gli italiani si sbagliavano se pensavano di poter fare dei ricatti [to try blackmail]», scriveva Bevin all’ambasciatore a Washington37. Il trattato veniva sottoscritto, il 17 marzo 1948, senza la partecipazione italiana. Ma, dietro il rifiuto pre-elettorale di De Gasperi e quella che sarebbe stata definita la «crisi del marzo 1948» nei rapporti con gli Stati Uniti38, non c’era soltanto un errato calcolo diplomatico. C’era la constatazione dell’esistenza di una forte corrente di opinione contraria alla collocazione dell’Italia al fianco delle nazioni occidentali, restia ad assumere impegni: insomma schierata su posizioni pacifiste e neutraliste. Era uno schieramento trasversale che non comprendeva soltanto le forze di opposizione socialcomuniste decise, almeno apparentemente, a battersi per una politica di collaborazione e di amicizia dell’Italia con i tutti i popoli, compresa l’Unione Sovietica, in realtà costrette – pur con diverse accentuazioni – ad assecondare la politica di Mosca ostile alla «dottrina Truman» e al «piano Marshall» e fautrice di una strumentale campagna pacifista anche mediante l’ausilio di movimenti fiancheggiatori come i cosiddetti «Partigiani della pace». De Gasperi doveva fare i conti con riserve e posizioni inclini al neutralismo nella stessa maggioranza quadripartita. Forti pressioni per una politica estranea a qualsiasi impegno nei blocchi provenivano da settori della Democrazia cristiana che facevano riferimento ad esempio a Giuseppe Dossetti e Giovanni Gronchi, non privi di appoggi in Vaticano, dove monsignor Tardini non faceva mistero della propria posizione poco favorevole a uno schieramento dell’Italia nel blocco occidentale. 37 Frus, 1948, Western Europe, Memorandum Achilles, 7 maggio 1948, vol. III, Washington 1974, pp. 115-16. 38 P. Pastorelli, La crisi del marzo 1948 nei rapporti italo-americani, in Id., La politica estera italiana del dopoguerra, Bologna 1987, pp. 123-44.

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Anche tra i diplomatici non mancavano le autorevoli voci in favore di una posizione neutralista. Un neutralismo che si potrebbe definire «ideologico» di chi, rifacendosi alla tradizione politica d’intervento che aveva indotto il paese – sin dall’Unità – a perseguire una politica di potenza, sosteneva l’opportunità di un drastico cambiamento e quindi la necessità di mantenersi liberi dalle influenze dei due blocchi. Esemplare è il caso di Manlio Brosio, destinato alla fine del 1946 alla guida dell’ambasciata a Mosca in sostituzione di Pietro Quaroni, trasferito a Parigi. Liberale di sicura fede, giolittiano e amico in gioventù di Gobetti, Brosio non poteva certo essere considerato una «quinta colonna» del comunismo internazionale. Dal suo osservatorio moscovita predicava una politica di «attesa», di «raccoglimento» e di «neutralità né utopistica né puramente negativa»39; una posizione che non mancava d’indurre alla riflessione anche chi – come Sforza – sembrava aver compreso che non vi fossero più margini concreti per una effettiva neutralità e una posizione di equidistanza dai due blocchi. 39 M. De Leonardis, Manlio Brosio a Mosca e la scelta occidentale, in L’Italia e la politica di potenza in Europa cit., vol. II, p. 130.

VI LE SCELTE DELLA RAGIONE: ATLANTISMO ED EUROPEISMO (1948-1955)

1. De Gasperi e il 18 aprile La travolgente vittoria della Dc e della coalizione centrista nelle elezioni del 18 aprile 1948 non mancava di ripercuotersi rapidamente sulle scelte di politica estera: terreno sul quale si era giocata gran parte della sfida elettorale poiché il graduale, ma inesorabile, assorbimento dei paesi dell’Est europeo nell’orbita sovietica e la pressione militare ai nostri confini erano diventati l’argomento centrale della campagna elettorale dei partiti moderati. La netta sconfitta del fronte socialcomunista allontanava in modo pressoché definitivo il rischio di una situazione di endemica instabilità e qualunque prospettiva di «sovietizzazione» della vita nazionale. Anche se il paese era ideologicamente spaccato in due, si creavano le condizioni per guardare con maggiore serenità al futuro e per elaborare progetti di ricostruzione economica a lunga scadenza. Nelle capitali occidentali si tirava un sospiro di sollievo per un risultato elettorale auspicato e favorito con ogni mezzo, ma – una volta scongiurato il pericolo – calava la soglia di attenzione per le nostre vicende interne. Venivano meno certe cautele diplomatiche, dettate dalla necessità di non influenzare negativamente gli elettori moderati. Aumentava, contestualmente, la determinazione di De Gasperi e di Sforza di uscire dall’isolamento diplomatico in cui essi stessi si erano cacciati con il rifiuto di aderire al neonato Patto di

VI. Le scelte della ragione: atlantismo ed europeismo (1948-1955)

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Bruxelles in mancanza di adeguate contropartite sulla questione coloniale. Nell’estate del 1948 il capo del governo, in sintonia con il ministro degli Esteri, dava il via a una prima, approfondita, riflessione sulla politica estera, anche perché gli avvenimenti internazionali – a cominciare dalla crisi di Berlino con il blocco della parte occidentale dell’ex capitale del Terzo Reich deciso dall’Urss e con il gigantesco ponte aereo americano per rifornire di generi alimentari la popolazione affamata – avevano drammaticamente allargato il fossato tra le due superpotenze e avevano avviato in modo irreversibile la stagione della guerra fredda. De Gasperi comprendeva che non era più possibile limitarsi ad agitare lo spauracchio del «pericolo comunista» per cercare di strappare concessioni agli alleati. Occorreva un atteggiamento più risoluto, propositivo e concreto. Cominciava così un percorso che avrebbe portato, otto mesi dopo, alla partecipazione dell’Italia all’atto di fondazione del Patto atlantico e quindi alla sua definitiva scelta di campo. Sarebbe stato un percorso sofferto, accidentato, ricco di colpi di scena, di iniziative coraggiose, ma anche di errori di valutazione. In un primo momento, De Gasperi cercava di aggirare il problema della mancata partecipazione al Patto di Bruxelles proponendo una sorta di «neutralità armata» per cui l’Italia avrebbe eluso gli impedimenti al riarmo contenuti nel Trattato di pace con una serie di accordi bilaterali con gli Stati Uniti del tipo di quelli sottoscritti dall’amministrazione Truman con la Grecia e con la Turchia l’anno precedente. Ma, ancora una volta, il tentativo dell’accordo diretto con Washington falliva; anche perché in quel momento stava cambiando in modo radicale la strategia americana nei confronti dell’Europa. Nel giugno del 1948 il Senato statunitense approvava la risoluzione Vandenberg che rompeva un tabù, consentendo per la prima volta al governo degli Stati Uniti di stipulare accordi militari al di fuori del continente americano, in tempo di pace. «È una vera rivoluzione della politica estera americana», osserverà giustamente Jean-Baptiste Duroselle1. 1

J.-B. Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 al 1970, Roma 1972, p. 464.

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Nel mese successivo, gli ambasciatori dei cinque paesi aderenti al Patto di Bruxelles si riunivano a Washington con esponenti dell’amministrazione Truman per definire tempi e modalità di una possibile assistenza militare americana alla neonata Unione occidentale. Erano i primi passi in vista della costituzione del Patto atlantico, ma l’Italia ne era fuori. Così come appariva emarginata dai primi, timidi, passi del processo di unificazione europea, realizzati con la conferenza dell’Aja del maggio 19482, che pure aveva fatto registrare un serrato dibattito con la contrapposizione tra i delegati francesi e belgi, favorevoli a una prospettiva federale, e quelli britannici, molto più prudenti e decisi a subordinare la politica europeistica a quella delle special preferences con gli Stati Uniti e con i paesi del Commonwealth. Infatti, il governo francese aveva proposto di discutere le tesi approvate dal congresso dell’Aja in seno al Patto di Bruxelles, da cui l’Italia si era autoesclusa. Si profilava, pertanto, un’ulteriore complicazione sulla via di un nostro possibile reinserimento nel concerto politico europeo. Ecco quindi che nel luglio del 1948 – proprio nei giorni in cui la tensione interna saliva vertiginosamente in seguito all’attentato di cui era vittima Palmiro Togliatti nei pressi di Montecitorio – Carlo Sforza cercava abilmente di rompere l’isolamento con un discorso all’Università per gli stranieri di Perugia, di cui era rettore. Era una prolusione di ampio respiro e di alto profilo dal titolo «Come fare l’Europa?»3, in cui il conte proponeva di ampliare la collaborazione tra le nazioni europee in vista di una prospettiva federalista. Era una posizione originale e ardita. Per la prima volta, Sforza ancorava la politica estera italiana a una scelta marcatamente europeista. «La sola soluzione pratica» – proclamava il conte – «è quella federativa, lieti come italiani che essa sia maturata anni orsono nello spirito dei pionieri fratelli, nostri, nelle solitudini del confino di Ventotene». Il riferimento era ad 2 G. Mammarella, P. Cacace, Storia e politica dell’Unione europea. 19262005, Roma-Bari 2005, p. 34. Cfr. anche A. Varsori, Il Congresso dell’Aja, in AA.VV., I movimenti per l’Unità Europea dal 1945 al 1954. Atti del Convegno internazionale, Pavia, 19-21 ottobre 1989, Milano 1992, p. 336. 3 C. Sforza, Cinque anni a Palazzo Chigi. La politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma 1952, pp. 483-96.

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Altiero Spinelli, a Ernesto Rossi e a Eugenio Colorni, firmatari di quel manifesto che costituiva il programma dottrinario del federalismo europeo4. Beninteso, l’obiettivo di Sforza – giungere a uno Stato federale partendo da intese di carattere economico attraverso un rafforzamento dell’Oece (Organizzazione europea per la cooperazione economica) – precorreva i tempi, era irrealizzabile, utopistico ed era destinato a incontrare insormontabili ostacoli soprattutto da parte britannica. Tuttavia, il progetto aveva il merito di aggirare il problema delle forti resistenze al Patto di Bruxelles presenti nella coalizione moderata con una carta alternativa – quella europea – sulla quale i dissensi erano modesti proprio perché suggellava una rinuncia all’identità nazionale e un trasferimento di poteri a un’entità superiore, uno Stato europeo, ponendo – almeno teoricamente – sullo stesso piano tutti i paesi del continente: grandi e piccoli, vincitori e vinti. Sforza collocava la sua visione in un contesto laico, la interpretava come il coronamento di un ideale risorgimentale; una posizione analoga a quella espressa da Luigi Einaudi l’anno precedente, durante il dibattito parlamentare sul Trattato di pace. De Gasperi, invece, l’appoggiava sotto una visuale diversa, prettamente cattolica, solidaristica, volta a vincere le riserve di chi – soprattutto all’interno della Dc – non voleva che l’Italia partecipasse a patti militari. Va detto che le accoglienze dei partner europei al progetto di Sforza furono piuttosto tiepide; anche da parte del governo francese primo e principale destinatario dell’offerta italiana.

2. Il sofferto sì al Patto atlantico La necessità di una scelta fondamentale del nostro governo diventava ineludibile anche perché aumentavano le pressioni statunitensi affinché De Gasperi assumesse una posizione chiara e definitiva. I rapporti dei tre principali ambasciatori nelle capitali oc4 Sul Manifesto di Ventotene e sul federalismo di A. Spinelli cfr. A. Paolini, Altiero Spinelli. Appunti per una biografia, Bologna 1988, pp. 13-27. Cfr. anche Il Manifesto di Ventotene, presentazione di T. Padoa-Schioppa, Milano 2006.

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cidentali (Tarchiani da Washington, Gallarati Scotti da Londra e Quaroni da Parigi) erano concordi nel registrare un crescente disagio per le nostre titubanze e le nostre incertezze, anche perché i negoziati tra rappresentanti dei paesi europei e americani per la messa a punto di quello che già si chiamava il Patto atlantico procedevano rapidamente ed erano vicini alla conclusione. Insomma: non era più possibile tergiversare, prendere tempo. Occorreva assumersi le proprie responsabilità. D’altra parte, il muro della neutralità vacillava ogni giorno di più. Un altro piccolo passo verso il chiarimento veniva compiuto in ottobre con la missione romana del segretario di Stato Usa, Marshall: la prima in Italia di un alto esponente politico americano dopo la seconda guerra mondiale. Alla fine dell’anno la maggior parte delle incertezze sembrava dissolta anche perché Sforza incontrava a Cannes il collega francese, Robert Schuman, che lo informava dei progressi nel negoziato per il Patto atlantico e lo esortava a porre la candidatura italiana. Nello stesso tempo, un forte appoggio – forse decisivo – De Gasperi lo riceveva da papa Pio XII che, nel tradizionale radiomessaggio natalizio, prendeva apertamente posizione contro il comunismo e non escludeva l’ipotesi di una partecipazione italiana a un’alleanza militare5. Infine, un ulteriore incoraggiamento il capo del governo lo riceveva dal generale Efisio Marras, capo di Stato maggiore dell’Esercito, che di ritorno da una missione negli Stati Uniti lo informava circa la volontà americana di prendersi carico dei problemi della nostra sicurezza con l’invio di consistenti forniture militari. A questo punto, Sforza rompeva gli indugi e inviava a Tarchiani un memorandum in cui gli comunicava l’intenzione italiana di aderire alla nuova organizzazione atlantica, anche se nel documento non mancavano qualche ambiguità lessicale e aspetti prudenziali dettati da ragioni di politica interna6. Sforza era talmente consapevole dell’ambiguità di quel «sì» che lasciava libero Tarchiani di decidere se 5 L’importanza del radiomessaggio natalizio di Pio XII è sottolineata da E. Di Nolfo, La civiltà cattolica e le scelte fondamentali della politica estera italiana, in «Storia e politica», X, 1971, pp. 187-239. 6 P. Pastorelli, L’adesione dell’Italia al Patto atlantico, in Id., La politica estera italiana del dopoguerra, Bologna 1987, pp. 223-36.

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consegnare integralmente il memorandum all’amministrazione Truman oppure emendarlo in parte. E il nostro ambasciatore a Washington – convinto assertore dell’adesione italiana al Patto atlantico – si avvaleva largamente della facoltà concessagli da Sforza. Tuttavia, quando sembrava tutto risolto, la questione tornava inopinatamente in alto mare. Ancora una volta era l’inglese Bevin a sollevare dubbi sulla partecipazione dell’Italia, suggerendo un «ingresso differito». Il Canada e i paesi del Benelux si allineavano sulla posizione britannica, dettata dal timore che, entrando nella nuova organizzazione, il governo italiano avrebbe potuto contare su un altro foro in cui avanzare le proprie rivendicazioni sulle colonie africane. Comunque, il governo di Londra non si spingeva fino al punto di porre un veto sulla partecipazione italiana. Si limitava a scaricare ogni responsabilità sull’amministrazione Truman. Ma chi pensava che il «sì» statunitense fosse scontato doveva rapidamente ricredersi. Il nuovo segretario di Stato, Dean Acheson, esponeva dubbi e perplessità all’imbarazzato Tarchiani. Era, per nostra fortuna, il governo francese – attraverso l’ambasciatore a Washington Henri Bonnet – a svolgere un ruolo decisivo schierandosi apertamente a favore della partecipazione italiana e addirittura condizionando il «sì» della Francia all’ingresso della Norvegia nel patto, patrocinato dagli Stati Uniti, a un’analoga decisione nei confronti dell’Italia. «Si tratta di due problemi distinti, la Norvegia è sottoposta alla minaccia sovietica», obiettava inutilmente Acheson7. Bonnet non voleva sentire ragioni. Beninteso: la determinazione francese era il frutto di un preciso interesse nazionale. L’ingresso del nostro paese conveniva alla Francia perché avrebbe spostato a Sud il baricentro del patto, includendo nella copertura militare statunitense il Mediterraneo e l’Algeria francese. Inoltre – nelle speranze dei governanti parigini – l’Italia sarebbe stata un «brillante secondo» della Francia, una valida spalla nella politica europea e mediterranea8. Era, in qualche modo, un tentativo di ricreare il protettorato del decennio successivo all’Unità. Frus, 1949, Western Europe, vol. IV, Washington 1975, pp. 122-24. Alcide De Gasperi: un percorso europeo, a cura di E. Conze, G. Corni, P. Pombeni, Bologna 2005, p. 207. 7 8

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Sta di fatto che la decisione finale finiva sul tavolo di Truman. Questi continuava a mostrarsi scettico sulla full membership italiana e preferiva la soluzione britannica dell’«ingresso differito». Ma poi – anche per effetto di una maggiore disponibilità del Congresso nei confronti del nostro paese – si mostrava più malleabile. Nel marzo del 1949, il capo della Casa Bianca riceveva da Acheson un dossier in cui gli argomenti a favore e quelli contrari all’ammissione dell’Italia erano elencati scrupolosamente9. Tra gli argomenti contrari c’era quello che «nelle due guerre mondiali l’Italia ha mostrato di essere un alleato inefficace e infido, avendo cambiato bandiera in entrambe le guerre». Segno che certe macchie del passato era difficile cancellarle. Tuttavia Truman – anche se non del tutto convinto – optava per l’ammissione, consapevole che ciò significava accogliere la richiesta della Francia anziché quella della Gran Bretagna. Italia, Norvegia, Danimarca, Islanda e Portogallo erano invitati a far parte della nuova organizzazione come «membri originari» insieme ai sette paesi fondatori (Stati Uniti, Canada e i cinque del Patto di Bruxelles). Per De Gasperi e Sforza era una svolta epocale. Il nostro governo era stato tenuto quasi completamente all’oscuro di tutta la fase negoziale e non aveva potuto dare alcun contributo significativo alla stesura del trattato. Ma nel momento decisivo si era schierato dalla parte dell’Occidente, aveva fatto prevalere la ragione e l’interesse nazionale. E raccoglieva il primo frutto di questa scelta, ancorché travagliata. Ma la strada per il capo del governo e il ministro degli Esteri era ancora irta di ostacoli e di difficoltà. De Gasperi voleva ottenere il via libera del Parlamento prima di firmare il patto, anche se dal punto di vista costituzionale non era obbligato a chiedere questo lasciapassare. Il dibattito alla Camera raggiungeva momenti di acutissima tensione per la dura opposizione socialcomunista, mentre in tutto il paese si svolgevano manifestazioni di piazza con morti e feriti. Con argomentazioni diverse, ma con eguale veemenza, Nenni e Togliat9 Per l’elenco completo degli argomenti a favore e di quelli contrari all’ingresso dell’Italia nel Patto atlantico cfr. P. Cacace, Venti anni di politica estera italiana (1943-1963), Roma 1987, pp. 590-92.

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ti accusavano il governo di «asservimento» allo straniero. Ma quel che preoccupava maggiormente De Gasperi era la coesione dello schieramento centrista poiché la fronda in alcuni settori della maggioranza si era già manifestata durante la fase cruciale del negoziato. Come si è detto, c’era l’opposizione di alcuni esponenti della sinistra democristiana, come Giovanni Gronchi che insisteva perché l’Italia restasse estranea ai due blocchi militari; c’era quella del gruppo di «Politica sociale» e dei cosiddetti professorini, legati a Giuseppe Dossetti, tra cui il giovane sottosegretario agli Esteri Aldo Moro; c’era l’opposizione strisciante di un ampio settore del partito di Saragat che, nel corso di una riunione della direzione, votava a maggioranza contro l’adesione dell’Italia al Patto atlantico, salvo poi rovesciare l’orientamento in sede di gruppo parlamentare. In verità, al momento del voto – sia alla Camera sia al Senato – le fronde interne si dissolvevano o quasi: De Gasperi poteva contare su una maggioranza compatta10. Ma la percezione che dietro il «sì» al Patto atlantico vi fossero molte remore e riserve, soprattutto nel mondo cattolico, destinate a riaffiorare e di cui, quindi, bisognava tener conto non abbandonava lo statista trentino e ne condizionava le successive mosse politiche. D’altra parte, non va dimenticato che l’impegno dell’Italia non si esauriva certo con l’adesione al Patto atlantico, ma partiva proprio da lì presupponendo una politica di riarmo e gli impegni strategici di un’alleanza militare per i quali era necessario un coeso appoggio parlamentare. Ecco perché la fase finale del negoziato per l’adesione italiana al patto s’intrecciava con i primi passi della trattativa a livello europeo. De Gasperi e Sforza giocavano contemporaneamente su due tavoli: quello atlantico e quello europeo o, meglio, a fini di politica interna cercavano di far passare la scelta atlantica come una necessità per la politica europea sulla quale non c’erano obiezioni rilevanti nello schieramento di governo. Sul versante europeo, nell’autunno del 1948, De Gasperi e Sforza erano obbligati a rivedere la loro strategia e a ripiegare su 10 Alla Camera la fiducia viene accordata a De Gasperi il 18 marzo 1949 con largo margine. I voti a favore sono 342, i «no» 170 e diciannove gli astenuti. Anche al Senato il voto non riserva sorprese: i «sì» per il governo sono 188, i «no» 112, gli astenuti sono otto.

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una posizione più pragmatica rispetto alle aperture federaliste di Perugia, anche a causa della freddezza con cui nelle capitali europee erano state accolte le idee del ministro degli Esteri. Rinunciavano alla proposta di un rafforzamento dell’Oece, ma comprendevano che bisognava a tutti i costi riprendere il dialogo con i partner europei poiché non era più possibile che l’Italia restasse emarginata dal dibattito sul futuro del continente che si svolgeva tra i paesi del Patto di Bruxelles e che avrebbe portato di lì a qualche mese alla nascita del Consiglio d’Europa. Contemporaneamente, si affievoliva l’opposizione dei paesi dell’Unione occidentale alla nostra partecipazione ai progetti europei, grazie alla correzione di rotta impressa da De Gasperi e di Sforza alla politica estera. Così, nel gennaio del 1949, il Consiglio dell’Unione occidentale invitava l’Italia ad associarsi alla seconda fase del negoziato per la nascita di quello che sarà definito il Consiglio d’Europa: un organismo che, purtroppo, sarà privo di autorità e di peso specifico a causa dei condizionamenti del governo britannico. Tuttavia, quell’invito rappresentava un successo diplomatico rilevante per De Gasperi, che ne enfatizzava il significato sulle colonne del «Popolo» sottolineando come finalmente l’Italia uscisse «dalla situazione unilaterale del dopoguerra» e rientrasse «come tutti gli altri nella famiglia europea». In realtà, era stato – ancora una volta – il governo francese a esercitare pressioni per includere anche il nostro paese nel progetto europeo, consapevole che ciò avrebbe facilitato l’opera di convincimento che Parigi aveva avviato per facilitare l’ingresso dell’Italia nel Patto atlantico. Da parte sua, De Gasperi utilizzava abilmente questa «promozione» per ottenere il via libera alla scelta atlantica. Nel dibattito a Montecitorio sull’adesione dell’Italia al patto (16 marzo 1949) unificava strumentalmente i due problemi per convincere i riottosi. La manovra era coronata da successo. Il 4 aprile 1949, Carlo Sforza era presente a Washington per sottoscrivere nella grande sala del Departmental Auditorium, insieme a Truman e agli altri undici ministri degli Esteri dell’Alleanza, il trattato istitutivo del Patto atlantico; un trattato di natura difensiva, di durata ventennale (rinnovabile tacitamente salvo diritto di recesso), composto da un preambolo (in cui veniva riaffermata la fedeltà degli Stati parteci-

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panti ai principi e ai fini della Carta delle Nazioni Unite) e da quattordici articoli. Il casus foederis e le dimensioni dell’impegno dei paesi membri erano definiti dall’articolo 5 secondo cui un’aggressione armata contro uno o più Stati firmatari sarebbe stata considerata come diretta contro tutti gli altri. In conseguenza di tale aggressione, ciascun paese firmatario – «nell’esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite» – assisterà il paese o i paesi attaccati intraprendendo immediatamente – individualmente o di concerto con gli altri Stati firmatari – «l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’impiego delle forze armate, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale». Dunque, la garanzia di difesa militare offerta dall’alleanza non era automatica e così pure il coinvolgimento degli Stati Uniti nell’eventuale conflitto (restava al Congresso il potere di dichiarare la guerra) ma ad ovviare a questa lacuna provvedeva la presenza delle truppe americane in Europa. In caso di attacco proveniente dall’Est l’inevitabile coinvolgimento delle forze americane schierate nella prima linea di difesa avrebbe assicurato la partecipazione degli Usa alla guerra. Un altro punto interessante era quello previsto dall’articolo 6, che definiva con precisione l’area geografica in cui il trattato avrebbe avuto efficacia (i territori nazionali dei paesi europei membri, i Dipartimenti francesi d’Oltremare, il Nord America), anche se in occasione di successive crisi internazionali, come la guerra di Corea, l’amministrazione Truman tenderà a dare un’interpretazione estensiva dell’area del patto. Un terzo punto importante era quello stabilito dall’articolo 2, il quale prevedeva l’impegno degli Stati partecipanti a sviluppare relazioni internazionali pacifiche, a promuovere il benessere dei rispettivi paesi e «ad eliminare eventuali conflitti nelle rispettive politiche economiche internazionali e ad incoraggiare la collaborazione economica tra ciascuno di essi o fra tutti». Comunque, al di là dei singoli punti, la firma del patto era un momento storico. In quel momento – è stato osservato – cessava il dopoguerra della politica estera italiana11. L’Italia entrava a pieno titolo nella struttura militare dell’Occidente. 11

S. Romano, Guida alla politica estera italiana, Milano 1993, p. 49.

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Il percorso seguito da De Gasperi e da Sforza non era stato privo di esitazioni, di errori tattici: come quello di non aver compreso tempestivamente l’importanza dell’invito a partecipare al Patto di Bruxelles, ovvero di aver pensato di poterne barattare l’adesione. Fino all’ultimo, non erano mancati gli ondeggiamenti e le furbizie. Senza il provvidenziale, ancorché interessato, aiuto francese, le porte del Patto atlantico sarebbero state ancora chiuse per chissà quanto tempo. Infine, sullo sfondo emergeva con evidenza il carattere strumentale, rispetto alla politica interna, che aveva avuto l’approccio iniziale di De Gasperi e Sforza all’europeismo: un peccato originale che – al di là delle successive, meritorie iniziative dei due statisti e soprattutto di De Gasperi – purtroppo avrebbe fatto sentire a lungo il suo peso, fino ai giorni nostri. Quindi è vero quanto sostiene Pietro Quaroni secondo cui «l’ingresso dell’Italia nel Patto atlantico è stato dovuto molto all’influenza dei tre ambasciatori [Tarchiani, Gallarati Scotti e lo stesso Quaroni] e dell’alta burocrazia del ministro degli Esteri giacché Einaudi, De Gasperi e Sforza all’inizio erano tutt’altro che favorevoli ed è stata la pressione costante degli ambasciatori e del ministero degli Esteri che li ha portati gradatamente ad accettare il nuovo punto di vista»12. È altrettanto vero, però, che, senza la rapida – ancorché improvvisa – conversione all’europeismo, De Gasperi e Sforza non sarebbero riusciti a superare quel muro di ostilità parlamentare di chi era contrario a un’alleanza militare e non rinunciava all’idea – espressione di altri tempi e di altre politiche – che l’Italia, attraverso la formula della neutralità, avrebbe potuto far valere il suo «peso determinante» sullo scenario internazionale. In una prospettiva storica, il «sì» al Patto atlantico rappresenta la conclusione della «corsa di ritorno» iniziatasi sin dal momento della Liberazione o – per essere più precisi – di un processo che, malgrado le sue tortuosità, rimonta a quei giorni del gennaio del 1944, quando Renato Prunas ricostruiva le prime tessere del mosaico diplomatico sulle macerie ancora fumanti della guerra, ponendo le basi del riconoscimento del Regno del Sud da parte di Stalin. 12 P. Quaroni et al., Inchiesta sulla politica estera italiana, Milano 1970, pp. 106-107.

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Con l’ingresso dell’Italia nel Patto atlantico viene definitivamente cancellata la pagina buia del Trattato di pace, anche se restano insoluti i problemi di Trieste e delle colonie. Ma il recupero internazionale della «nuova Italia» è pressoché completo; manca soltanto l’ammissione all’Onu, ancora bloccata per qualche anno dai veti sovietici. Per De Gasperi è il coronamento di un disegno di riscatto che porta il nostro paese dalla condizione di Stato sconfitto a quella di membro a pieno titolo della comunità occidentale, finalmente liberato dalle pesanti eredità del fascismo ma anche dai condizionamenti che, nei primi anni del dopoguerra, avevano creato la «coabitazione forzata» con le sinistre.

3. Addio alle colonie La questione coloniale, lasciata in sospeso dal Trattato di pace, vive il suo momento decisivo proprio mentre la diplomazia italiana completa la sua opera di reinserimento nel nuovo sistema politico-militare dell’Occidente, imperniato sul Patto atlantico e sulla nascente cooperazione europea attraverso l’Oece e il Consiglio d’Europa. Va detto, tuttavia, che se c’è un campo in cui emergono con maggiore evidenza i difetti d’incoerenza e d’improvvisazione nella condotta della politica estera italiana del primo dopoguerra questo è proprio il dossier coloniale. Come si è accennato nelle pagine precedenti, la posizione iniziale assunta da De Gasperi in sede di conferenza di pace era stata molto netta: le colonie pre-fasciste andavano sottratte alla logica punitiva del Trattato di pace e quindi il nostro paese – che pur non nutriva mire egemoniche – avrebbe dovuto conservarne il controllo. Su questa impostazione, che significava implicitamente non rinunziare al ruolo di protagonista che l’Italia si era costruito nella prima parte del secolo, c’era un consenso abbastanza diffuso tra le forze politiche sia di maggioranza sia d’opposizione. Naturalmente, sul piano diplomatico, ci si rendeva conto che non si poteva far conto sul completo mantenimento di tutti i possedimenti africani dello Stato liberale (Libia, Eritrea e Somalia) e quindi non si escludevano ipotesi di compromesso nella speranza

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di far leva sulle divisioni tra i quattro «Grandi», interessati a vario titolo al problema coloniale. Ma il punto di riferimento essenziale per ogni trattativa era sempre il governo britannico che, per ragioni strategiche, puntava a estendere il suo controllo sul Mediterraneo. E gli inglesi non apparivano affatto disposti ad accettare una nostra presenza coloniale in Africa, al punto che molti ostacoli all’adesione italiana nelle nascenti strutture di alleanza politico-militare erano proprio dettate dal timore che tale adesione ci avrebbe rafforzato sul tavolo della spartizione coloniale. I timori non erano infondati. All’indomani della firma del Patto atlantico e dell’atto costitutivo del Consiglio d’Europa, Sforza sollevava la questione coloniale con il collega britannico Bevin anche perché – in mancanza di un accordo tra le potenze vincitrici della guerra – sarebbe toccato all’Assemblea generale dell’Onu, nella primavera del 1949, affrontare lo spinoso argomento. L’incontro londinese tra Sforza e Bevin non era stato affatto improduttivo. I gravi incidenti scoppiati nel gennaio 1948 a Mogadiscio (con la morte di cinquantadue italiani) avevano convinto il ministro degli Esteri britannico che la nostra presenza in Somalia fosse indispensabile e che quindi la colonia ci dovesse essere restituita. Londra, invece, manteneva intatte le proprie ambizioni sulla Cirenaica soprattutto perché era interessata – insieme agli Stati Uniti – al controllo di alcune basi militari indispensabili per la difesa del Mediterraneo orientale. Nasceva, in tale contesto, il «compromesso Bevin-Sforza» in virtù del quale la Libia sarebbe stata divisa in tre parti: 1) la Cirenaica sarebbe passata sotto amministrazione fiduciaria (trusteeship) della Gran Bretagna; 2) il Fezzan sarebbe andato alla Francia; 3) la Tripolitania, a partire dal 1951, sarebbe stata affidata all’Italia. Anche la Somalia sarebbe stata affidata all’amministrazione fiduciaria del nostro paese, mentre l’Eritrea sarebbe stata ceduta all’Etiopia tranne le province occidentali che sarebbero state incorporate nel vicino Sudan; le aree di Asmara e di Massaua avrebbero ottenuto uno speciale statuto per salvaguardare le locali comunità italiane. Le reazioni dell’apparato diplomatico e di una parte consistente dell’opinione pubblica italiana al compromesso che prevedeva la spartizione della Libia erano improntate a delusione e disappunto.

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Sulla stampa tornava a farsi accesa la polemica anti-britannica. Sforza riferiva sulla missione ad un Consiglio dei ministri «sbigottito». Comunque, il compromesso londinese superava la prova ministeriale e veniva trasmesso – nel maggio del 1949 – all’Assemblea generale dell’Onu, riunitasi a Lake Success presso New York, per la necessaria approvazione. E qui si verificava l’imprevisto. Sottoposto all’esame dell’Assemblea, dove era necessaria la maggioranza qualificata, il piano anglo-italiano veniva bocciato per un solo voto. Decisivo era il «no» del delegato di Haiti: «un tipo» – ricorda amaramente Sforza nelle sue memorie – «di cui le personalità più serie di Haiti ammisero, quasi scusandosi, che quella sera era ubriaco e comunque non sapeva nulla della Somalia»13. Vani erano stati tutti gli sforzi del sottosegretario agli Esteri, Giuseppe Brusasca, che aveva convogliato le simpatie di numerosi paesi latinoamericani verso le posizioni italiane. Di fronte al naufragio del compromesso di Londra e alle violente polemiche suscitate dalle opposizioni di destra e di sinistra che accusavano il governo e la coalizione quadripartita di «bancarotta fraudolenta» in politica estera, De Gasperi difendeva lealmente Sforza, rifiutandone le dimissioni. Ma contemporaneamente avviava una revisione a 180 gradi della politica africana: niente più tentativi di conservare almeno in parte una presenza coloniale, ma al contrario disponibilità «a concedere la piena e completa indipendenza alle antiche colonie»; a cominciare dalla Libia, la cui integrità territoriale non andava toccata. Era una reazione emotiva, una vera e propria «fuga in avanti» dettata soprattutto dal disappunto e dalla volontà di creare difficoltà alla Gran Bretagna e anche alla Francia, che non aveva sufficientemente appoggiato le nostre posizioni in seno alle Nazioni Unite. Naturalmente, nel corso dell’estate del 1949, il nostro governo doveva attenuare la propria linea che non poteva lasciare indifferenti inglesi e francesi, i quali mantenevano una forte presenza africana e non potevano accettare una nostra posizione così difforme. Nell’autunno successivo, il dossier coloniale tornava all’esame delle Nazioni Unite che approvavano finalmente una serie di risoluzioni che definiva il destino dei nostri ex territori d’Oltrema13

Sforza, Cinque anni a Palazzo Chigi cit., p. 161.

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re: la Libia avrebbe conservato la propria integrità territoriale e sarebbe diventata uno Stato indipendente e sovrano a partire dal 1° gennaio 1952, con una Carta costituzionale elaborata da esponenti della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan. Per l’Eritrea non veniva adottata una decisione definiva ma si stabiliva, in linea di massima, la concessione di un regime autonomo nell’ambito di una federazione con l’Etiopia sotto la corona di Hailé Selassié. Quanto alla Somalia, sarebbe diventata uno Stato indipendente dopo dieci anni di amministrazione fiduciaria italiana. Si concludeva, così, con questo modesto mandato nella più povera delle nostre terre africane, il capitolo della presenza italiana nel continente nero. Era una soluzione di basso profilo, del tutto insoddisfacente, anche se essa consentiva al governo di mitigare gli effetti dello smacco sul piano interno e di sostenere che alla «nuova Italia» era stata riconosciuta una funzione civilizzatrice da parte delle Nazioni Unite, da cui – peraltro – eravamo ancora esclusi. Certo: la svolta nella politica coloniale si sarebbe rivelata di lì a poco, nient’affatto priva di saggezza e di lungimiranza. Anticipava, in qualche modo, il processo di decolonizzazione che avrebbe investito, negli anni Sessanta, quasi tutti i popoli del Terzo Mondo. Ma quel che appariva fortemente discutibile era il modo in cui tale svolta era maturata. Senza dibattito e senza adeguata riflessione strategica, contraddicendo una politica di presenza in Africa tenacemente perseguita nei primi anni del dopoguerra. Se è vero, infatti, che l’appoggio alle istanze indipendentistiche dei paesi africani avrebbe consentito nuovi margini di manovra alla nostra diplomazia nel Mediterraneo proprio nel momento in cui la posizione britannica e quella francese davano segni di indebolimento, la mancanza di una linea coerente suscitava perplessità anche nei paesi africani, i quali – non a torto – avanzavano dubbi sull’affidabilità di un governo che aveva mutato così repentinamente opinione. 4. Guerra fredda e politica interna La partecipazione come membro originario del Patto atlantico rappresentava una pietra miliare nella «corsa di ritorno» del-

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l’Italia post-bellica, ma non era sufficiente a determinare, di per sé, una effettiva parità tra il nostro paese e i vincitori della guerra. Tentativi di emarginazione, e relative amarezze e frustrazioni, si sarebbero protratti a lungo. I primi segnali emergevano proprio nel momento in cui i membri del Patto atlantico si mettevano all’opera per definire le strutture politiche e militari della neonata organizzazione. A Washington veniva proposta la creazione di un direttorio a tre (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) destinato ad assumere la responsabilità strategica dell’alleanza con la palese intenzione di escludere l’Italia dal gruppo di paesi che avrebbe pilotato l’organizzazione. Nei primi contatti bilaterali con Acheson e con Bevin (il 17 settembre 1949), Sforza sollevava con vigore la «questione italiana», chiedendo almeno l’inclusione del nostro paese a pieno titolo nel gruppo «Europa occidentale». Contemporaneamente De Gasperi convocava l’ambasciatore americano, James C. Dunn, facendogli presente il rischio di una crisi di governo di fronte a una ennesima «umiliazione» dell’Italia14. Ma la sottolineatura dei possibili effetti delle decisioni di Washington e delle capitali alleate nella politica interna non otteneva i risultati desiderati e le rimostranze del governo italiano modificavano solo in parte la struttura di quella che sarebbe diventata la Nato (North-Atlantic Treaty Organization). Anzitutto, la nostra diplomazia non poteva far conto, questa volta, sull’appoggio della Francia, anch’essa contraria a un ruolo preminente dell’Italia ai vertici dell’alleanza. Ma va precisato che – oltre alla permanente ostilità britannica, aggravata dall’epilogo della questione coloniale – anche l’amministrazione Truman non mostrava eccessivo interesse per le richieste italiane. In realtà, a Washington si registrava una minore attenzione per le vicende del nostro paese, che veniva sollecitato ad assumersi le proprie responsabilità e quindi ad avviare un massiccio programma di riarmo. 14 Rapporto di Dunn ad Acheson, 17 settembre 1949. «Ho appena visto il presidente del Consiglio» – scrive Dunn – «egli ha ritenuto necessario venire a Roma poiché c’è la minaccia di una caduta del Governo sulla questione della rappresentanza italiana nei comitati regionali della Nato». Cfr. Frus, 1949, Western Europe, vol. IV cit., p. 329.

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Dopo la svolta del 1947 della «dottrina Truman» e del «piano Marshall», che aveva messo fine alle esitazioni del governo americano e aveva spianato la strada a un progressivo confronto globale tra Stati Uniti e Unione Sovietica, l’Europa era costretta a ripiegare su una posizione subalterna, condizionata dalle regole non scritte, ma sempre più vincolanti, della politica di potenza nelle rispettive zone d’influenza tra Est e Ovest. In particolare, l’Italia – dopo che il governo statunitense si era schierato risolutamente al fianco della Dc durante la campagna elettorale del 1948 e aveva dato un notevole contributo alla vittoria della coalizione moderata contro il fronte socialcomunista – era considerata una sorta di pedina acquisita dal campo occidentale, mentre per i comunisti era sfumata definitivamente la possibilità di una conquista «rivoluzionaria» del potere. E di questa condizione anche il Cremlino prendeva atto. La politica estera – condizionata dalle regole della guerra fredda – era il solo metro attendibile di valutazione degli interessi nazionali e lasciava uno spazio di autonomia assai modesto alle scelte di politica interna. Era una situazione abbastanza chiara, ma essa non era compresa a fondo da quelle forze che – pur appoggiando lo schieramento centrista – cercavano di condizionarne l’azione e di frenarne la spinta troppo atlantica. Come si è detto, era una posizione che attraversava il Partito socialdemocratico e la sinistra democristiana (un po’ meno i repubblicani). Taluni esponenti di questi partiti non ponevano in discussione la scelta occidentale, ma insistevano nell’arroccarsi su posizioni neutralistiche, nella speranza fallace di poter mantenere una certa equidistanza dai blocchi e soprattutto di poter togliere ai comunisti l’esclusiva di un atteggiamento pacifista, destinato a far presa nelle masse ostili alla scelta atlantica. Tuttavia, il fattore dirompente della guerra fredda si ripercuoteva anche sui partiti della sinistra e in particolare sui comunisti, che – proprio per effetto della radicalizzazione dello scontro – erano costretti a rinunziare a qualsiasi velleità autonomistica e ad accentuare la loro concezione internazionalista, collimante con la politica staliniana, evidenziando così il carattere strumentale della scelta pacifista. De Gasperi, invece, comprendeva con chiarezza che la situazione internazionale offriva margini sempre più limitati di auto-

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nomia alla nostra politica interna e, partendo da questo presupposto, modulava le sue scelte fondamentali in politica estera. La lotta anticomunista diventava il problema dominante per i governi dell’Europa occidentale e quindi sullo scenario italiano la formula del quadripartito centrista – con le sue possibili varianti interne ma imperniata sulla Dc «partito americano» – sarebbe stata immodificabile, almeno finché non fosse mutato il quadro di riferimento internazionale. In verità, le pressioni statunitensi per l’avvio di un poderoso programma di riarmo a livello nazionale non incontravano reazioni favorevoli a livello governativo. La situazione economica non consentiva di stornare ingenti risorse dalle esigenze immediate e cogenti di un paese impegnato nell’improbo sforzo della ricostruzione post-bellica; e la linea di rigore di Einaudi, fatta propria da Giuseppe Pella, mal si conciliava con le necessità delle Forze armate ridotte all’osso e non in grado di fronteggiare le nuove responsabilità. Washington cercava di supplire alle nostre carenze con un trattato bilaterale di mutua assistenza difensiva, a carattere militare (27 gennaio 1950), ma le incertezze sull’impegno atlantico del governo italiano restavano numerose. Inoltre pesavano sui piani di riarmo le limitazioni al nostro potenziale militare rigidamente imposte dalle clausole del Trattato di pace, la cui revisione era ormai considerata urgente e pregiudiziale per consentire un effettivo inserimento dell’Italia nella organizzazione del Patto atlantico. Ma bisognerà attendere quasi due anni, esattamente il 26 settembre 1951, con il Consiglio atlantico di Ottawa – successivo a una missione di De Gasperi in America – per arrivare alla sospirata revisione. Intanto, l’Italia – dopo aver perduto, con il risultato del voto del 18 aprile, il ruolo di punta come paese esposto più di ogni altro al rischio di una «sovietizzazione» – rischiava di perdere posizioni anche all’interno del campo occidentale, di diventare un «alleato minore», a causa della inadeguatezza del suo sistema economico e della incapacità di affrontare le nuove sfide internazionali. Sul piano politico, De Gasperi capiva che era necessario insistere sulla via di una maggiore cooperazione con i paesi europei: prima di tutto con la Germania, risorta dalle macerie belliche ancorché spaccata in due, su cui si concentrava l’attenzione dell’amministrazione Truman.

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A Washington la prospettiva di un massiccio attacco militare dell’Urss nel vecchio continente era considerata una prospettiva concreta e quindi crescevano le pressioni americane perché i paesi europei serrassero i ranghi e mettessero da parte contrasti e divisioni. A fine ottobre del 1949, in un rapporto al Consiglio dell’Oece, l’amministratore dell’Eca (Economic Cooperation Administration), Paul Hoffman, denunciava apertamente l’insoddisfazione americana per l’andamento del processo d’integrazione tra i paesi europei e lanciava una sorta di ultimatum, condizionando l’erogazione delle quote successive del «piano Marshall» a una politica di liberalizzazione degli scambi e di coordinamento monetario. Occorreva superare rapidamente ostilità e diffidenze reciproche. Il nodo principale riguardava i rapporti tra la Francia e la «nuova» Germania. Ma non era facile scioglierlo.

5. Ceca, Ced e il ruolo dell’Italia La soluzione veniva trovata grazie alla geniale intuizione di Jean Monnet, responsabile del Plan de modernisation et de rééquipement dell’economia francese. Non stava nella proposta di una federazione, allora utopistica, ma in un accordo limitato tale da mettere insieme le risorse carbo-siderurgiche franco-tedesche e da essere allargato ad altri partecipanti (l’Italia e i tre paesi del Benelux) ma non alla Gran Bretagna. In questo modo la Francia avrebbe mantenuto un controllo effettivo sulle risorse strategiche della Germania, che restava la principale produttrice di carbone dell’Europa occidentale e il nuovo Stato tedesco, guidato dal cancelliere Konrad Adenauer, avrebbe guadagnato il recupero della sospirata credibilità internazionale. La proposta francese, fatta propria dal ministro degli Esteri Schuman, veniva presentata al governo di Bonn e agli altri quattro partner il 9 maggio 1950. Era il primo di una lunga serie di «baratti» franco-tedeschi che avrebbe segnato e condizionato per decenni la vita europea fino al Trattato di Maastricht. Era l’avvio della strategia «funzionalista» o gradualista voluta da Monnet, secondo cui l’integrazione europea su basi sovranazionali si sarebbe attuata con approcci limitati, con situazioni di fat-

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to che a loro volta ne avrebbero determinate altre più approfondite e feconde. Il «piano Schuman» per la istituzione della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) era stato il frutto di un lungo e paziente negoziato condotto dallo stesso Monnet e dai suoi principali collaboratori con Adenauer e i dirigenti tedeschi. Il governo italiano era stato tenuto all’oscuro di tutti i vari passaggi. Tuttavia, De Gasperi non si tirava indietro quando la Francia chiedeva all’Italia di partecipare al piano carbo-siderurgico. Il capo del governo e Sforza afferravano subito il significato politico di quell’iniziativa. Accettavano il metodo pragmatico proposto da Monnet consistente nel sottoscrivere un comunicato congiunto dei sei paesi aderenti in cui venivano indicati i punti del successivo negoziato; e davano istruzioni al capo della delegazione italiana, cioè al giovane sottosegretario agli Esteri, Paolo Emilio Taviani, di adoperarsi con ogni mezzo per assicurare il successo della trattativa. In realtà, non mancavano i problemi e gli ostacoli per la partecipazione del nostro paese al nascente pool carbo-siderurgico. Essi provenivano non tanto dal carbone, dove non c’erano forti interessi da proteggere, quanto dal settore siderurgico che, sin dall’Ottocento, aveva svolto un ruolo assai importante nell’assetto industriale italiano. Nel secondo dopoguerra il mercato siderurgico era diviso a metà tra industria privata e pubblica. Ma mentre gli industriali pubblici, riuniti sotto l’egida della Finsider e guidati da Oscar Sinigaglia, erano ben disposti nei confronti delle aperture internazionali e quindi del nascente pool poiché avevano avviato un piano di modernizzazione, quelli privati erano fortemente contrari poiché temevano di non essere in grado di affrontare la concorrenza straniera e ovviamente si sentivano meglio tutelati dalle leggi protezionistiche. Nel corso dei negoziati parigini – protrattisi per quasi un anno – Taviani doveva rappresentare le molteplici obiezioni di chi recalcitrava e chiedeva deroghe. In particolare, i nostri industriali volevano che rientrassero nell’area coperta dal pool anche alcune regioni del Nord Africa appartenenti alla Francia da cui essi importavano materiali ferrosi. Le trattative, comunque, si concludevano nella primavera del 1951: il 18 aprile il trattato veniva sottoscritto nel salone dell’Orologio del Quai d’Orsay dai ministri degli Esteri dei sei paesi membri (Francia, Germania, Italia, Bel-

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gio, Olanda e Lussemburgo) con il riconoscimento di un periodo transitorio di cinque anni prima del varo del mercato integrato; un lasso di tempo che avrebbe consentito alla nostra industria siderurgica di operare le necessarie ristrutturazioni. Dunque: l’accordo tra i «Sei» era il primo passo concreto verso l’integrazione europea secondo le regole del «funzionalismo» fissate da Monnet. Apparentemente, il nostro governo ne aveva intuito l’importanza, ma poi quando il trattato passava all’esame del Parlamento per la necessaria ratifica cominciavano a manifestarsi incertezze e ripensamenti. Primo ad accogliere le proposte di Schuman, il nostro paese diventava l’ultimo a ratificare il trattato (nel marzo 1952). Insomma: le ambiguità che erano all’origine della partecipazione italiana al Consiglio d’Europa, considerata dal governo soprattutto come uno strumento utile per far «passare» la scelta atlantica, non mancavano di ripetersi – pur con differenti accentuazioni – nei processi che avrebbero portato alla firma del trattato istitutivo della Ceca e poi a quello della Comunità europea di difesa (Ced). Secondo un copione purtroppo già sperimentato, si coagulavano atteggiamenti contraddittorii ed esitazioni. Mancava una visione limpida e coerente dell’interesse nazionale. Non era assente – anche nello stesso De Gasperi – il tentativo poco avveduto di barattare la nostra adesione alle nascenti organizzazioni europee con la soluzione del principale problema lasciato in sospeso dal Trattato di pace: cioè la questione di Trieste e del Territorio libero. In realtà, il percorso della nostra partecipazione alla Ced era più articolato e complesso. Se il governo De Gasperi – come si è osservato – era rimasto completamente estraneo alla trattativa per il pool carbo-siderurgico, nelle fasi negoziali che avrebbero condotto alla nascita della Comunità europea di difesa era in prima linea, deciso a giocare – almeno in qualche circostanza – un ruolo propositivo. Era infatti Carlo Sforza, nel maggio del 1950, ad avanzare – con un memorandum all’ambasciatore americano Dunn15 – la prima, vaga, ipotesi di un «esercito europeo integrato». Il suggerimento di Sforza nasceva dalla constatazione che ormai l’amministrazione Truman era risoluta a procedere rapidamente all’in15 Sul memorandum di Sforza cfr. A. Breccia, L’Italia e le origini della Comunità europea di Difesa, in De Gasperi e l’età del centrismo (1947-1953), Roma 1984, pp. 251 sgg.

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serimento della Germania nella struttura militare atlantica, a dispetto della tenace opposizione della Francia che – attraverso il «piano Schuman» – sperava di aver «imprigionato» un settore nevralgico dell’economia tedesca: quello del carbone e dell’acciaio, e quindi di essersi assicurata il controllo sul governo di Bonn. Con la sua iniziativa, Sforza pensava di muoversi in sintonia con gli orientamenti di Washington. Invece, le reazioni iniziali di Acheson al progetto italiano erano stizzite ed evasive. Tuttavia, proveniva dall’Estremo Oriente il terremoto destinato a scuotere gli assetti politico-territoriali europei e a provocare un immediato aggiornamento strategico. Nel giugno del 1950, le truppe della Corea del Nord, successivamente appoggiate da «volontari» cinesi, invadevano il territorio della Corea meridionale. Si profilava con concretezza il rischio di una terza guerra mondiale. Truman e il suo staff erano convinti che un attacco sovietico in Europa occidentale sarebbe stato imminente e inevitabile. Servivano decisioni rapide, e ben presto si aveva la conferma che il Consiglio d’Europa non sarebbe stato in grado di dare alcuna risposta operativa. Nell’estate del 1950, Winston Churchill – come capo dell’opposizione conservatrice – fiutava l’atmosfera internazionale e proprio dalla tribuna di Strasburgo proponeva un «esercito europeo unificato». Nel settembre successivo, Acheson – durante il consiglio atlantico di New York – accoglieva l’idea di Sforza e proponeva, a sua volta, la costituzione di una «forza integrata» per la difesa dell’Europa occidentale, comprendente anche unità tedesche. A sostegno del proprio piano, il segretario di Stato americano esponeva una nuova dottrina atlantica, la forward strategy, che spostava a Est, sino al fiume Elba, la linea di difesa della Nato. E poiché nella nuova linea era incluso il territorio tedesco, era inevitabile inserire le divisioni di Bonn nello schieramento atlantico16. Schuman reagiva con freddezza e ostilità al progetto di Acheson. Ma il governo francese si rendeva conto che non poteva resistere a lungo alle pressioni anglo-americane e non poteva trincerarsi dietro un’opposizione categorica al riarmo tedesco. 16 D. Acheson, Present at the Creation. My Years in the State Department, New York 1969, pp. 437-40.

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Bisognava avanzare una controproposta e toccava ancora una volta a Jean Monnet predisporne rapidamente gli schemi. Questi presentava il suo progetto al primo ministro René Pleven, che lo faceva proprio e lo esponeva in Parlamento (il 25 ottobre 1950) prima di trasmetterlo ai partner del Patto atlantico. Era il cosiddetto «piano Pleven», che prevedeva la costituzione di un esercito europeo composto da contingenti nazionali «a livello dell’unità più piccola possibile» e dipendente da un ministro della Difesa comune. Le unità tedesche sarebbero state collocate in una posizione subalterna rispetto a quelle dei partner europei. Il «no» americano era prevedibile quanto immediato, così come netta era l’opposizione del cancelliere Adenauer, non disposto a «trasformare i soldati tedeschi in mercenari». In una posizione che potrebbe definirsi mediana si collocava la diplomazia italiana. De Gasperi e Sforza non volevano e non potevano porsi in rotta di collisione con le posizioni di Washington, ma al tempo stesso non erano insensibili alle richieste di dialogo e di collaborazione provenienti dalla Francia e dalla Germania. In tale contesto, si inserivano gli incontri dei due statisti italiani con Pleven e con Schuman a Santa Margherita Ligure (nel febbraio del 1951), in cui i governanti francesi cercarono il nostro appoggio al loro progetto di esercito europeo, e la visita romana di Adenauer (nel giugno seguente), che consentiva di consolidare un rapporto speciale tra il cancelliere tedesco e De Gasperi, uniti dalla comune militanza cattolica. Riprendeva anche il dialogo con la Gran Bretagna suggellato da una visita di Sforza a Londra (nel marzo del 1951). Comunque, all’apertura dei negoziati per l’esercito europeo (nel febbraio del 1951), il nostro governo manteneva un atteggiamento di basso profilo, evitava di esporsi con proprie proposte17. 17 Le perplessità nei confronti del «piano Pleven» e più in generale nei confronti di un «esercito europeo» erano molto forti da parte italiana. Provenivano dalla diplomazia, dal mondo economico e soprattutto da quello militare. Se ne faceva portavoce, tra gli altri, il ministro della Difesa Randolfo Pacciardi che scriveva a De Gasperi: «La via giusta per arrivare all’Europa come ente politico non pare sia quella dell’esercito europeo più o meno simbolico. La comunanza delle armi è l’ultimo atto di una comunanza politica, ideale, morale, economica». Pacciardi a De Gasperi, 2 febbraio 1951, in De Gasperi scrive, a cura di M.R. Catti De Gasperi, vol. II, Brescia 1981, pp. 285-87.

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La svolta maturava nell’estate del 1951, quando gli Stati Uniti entravano direttamente in campo con il generale Dwight Eisenhower, nominato comandante in capo della futura «forza integrata». Il prestigio del «liberatore dell’Europa» consentiva di eliminare molti equivoci e malintesi. Incontrando Monnet, Eisenhower esortava francesi e tedeschi ad avvicinare le rispettive posizioni e a dare il via a una vera e propria Comunità europea di difesa. Varie erano le ragioni che spingevano l’amministrazione americana a sposare risolutamente la causa dell’esercito europeo, non esclusa l’intenzione di ottenere un maggiore contributo economico degli alleati nel mantenimento dell’apparato militare alleato. Le pressioni di Washington ottenevano l’effetto desiderato poiché Parigi e Bonn accantonavano i contrasti e raggiungevano un primo «accordo provvisorio». A quel punto De Gasperi capiva che non era più possibile restare alla finestra poiché la nascita della Ced, così come si andava configurando, avrebbe danneggiato gli interessi dell’Italia, subordinata a un asse franco-tedesco e priva del canale privilegiato con gli Stati Uniti. Inoltre, una Comunità di difesa limitata a un’operazione prettamente militare avrebbe suscitato una dura reazione interna da parte del fronte socialcomunista ponendo in serie difficoltà il governo. Quindi occorreva reagire e, se possibile, rilanciare. De Gasperi prendeva in pugno la situazione, anche perché nel luglio del 1951 – con l’ennesimo rimpasto di governo – aveva assunto personalmente anche la guida del ministero degli Esteri al posto di Sforza, stanco e malato18. 18 Dietro le dimissioni di Sforza c’erano le pressioni di consistenti settori della Dc (a cominciare da Gronchi e Dossetti) che non avevano mai nascosto la propria avversione per il ministro. Inoltre, si erano incrinati i rapporti con De Gasperi a proposito della linea da seguire sulla revisione del Trattato di pace, in particolare sulla questione di Trieste. Sforza non credeva più all’impegno alleato per l’applicazione della «dichiarazione tripartita» e spingeva per trattative bilaterali con Belgrado. Comunque, De Gasperi non voleva umiliare Sforza, estromettendolo da ogni carica. Lo nominava ministro senza portafoglio per gli affari europei; incarico che il conte potrà svolgere solo in minima parte. Sulla figura di Sforza cfr. la biografia di L. Zeno, Il conte Sforza. Ritratto di un grande diplomatico, Firenze 1999.

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In sintonia con la «conversione» federalista dell’estate precedente, consultava Altiero Spinelli e gli chiedeva di predisporre un memorandum con una sintesi dei suoi progetti improntati – com’è ovvio – al più rigoroso federalismo. Quindi iniziava la sua battaglia europeista, imperniata sul progetto di una Comunità politica che avrebbe dovuto marciare parallelamente a quello della Comunità di difesa. Era una posizione di avanguardia destinata a porre lo stesso De Gasperi per oltre un anno al centro del dibattito e degli interessi europei e internazionali19. Nasceva in tale contesto la proposta del famoso articolo 38 del trattato istitutivo della Ced in virtù del quale – una volta sorta la Comunità europea di difesa – la sua assemblea parlamentare avrebbe dato il via alla messa a punto di una Comunità politica europea. Per un certo tempo sembrava che l’iniziativa di De Gasperi – appoggiata anche da Adenauer e da Schuman – potesse concretarsi. L’Europa sembrava modellarsi secondo le aspirazioni e le spinte di quella triade cattolica che guidava i principali paesi del vecchio continente. Il 27 maggio del 1952 veniva siglato il trattato istitutivo della Ced. Durante l’estate, italiani e francesi cercavano d’imprimere un’ulteriore accelerazione alla svolta federale con la costituzione di un’assemblea ad hoc per l’elaborazione del progetto di Comunità politica (Cpe). Ma era un fuoco fatuo. Di lì a qualche mese, le speranze svanivano rapidamente di fronte alle difficoltà interne. La ratifica parlamentare del trattato sulla Ced diventava sempre più problematica. Beninteso: non in Germania e nei paesi del Benelux, che adempirono i loro obblighi, ma in Francia e in Italia, dove l’opposizione alla Comunità europea di difesa si alimentava di argomenti diversi. Sul fronte italiano, De Gasperi era sempre più distratto dalle questioni di politica interna, dai timori di perdere la maggioranza nelle elezioni che si avvicinavano, timori che lo spingevano, nell’ottobre del 1952, a promuovere la riforma della legge elettorale 19 Un segnale del maggiore dinamismo diplomatico italiano è rappresentato dalla nomina a capo della delegazione italiana ai negoziati parigini per la Ced di Ivan Matteo Lombardo che – nell’ottobre del 1951 – presenta un memorandum di netta impronta federalista. Alla spinta di De Gasperi verso un maggiore europeismo non sono estranee, probabilmente, considerazioni emerse dopo il viaggio negli Stati Uniti, nel settembre del 1951.

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(quella che successivamente sarà definita «legge truffa») che prevedeva un premio al partito o alla coalizione di partiti che avessero conseguito la maggioranza assoluta dei voti. In verità, proprio attraverso la legge maggioritaria, De Gasperi sperava di ottenere quella stabilità politica necessaria per poter proseguire con rinnovato slancio verso gli obiettivi europei. Di fatto, le accese polemiche sulla riforma elettorale – unite ai profondi mutamenti determinatisi sullo scenario internazionale nell’inverno 1952-primavera 1953 con l’avvento della nuova amministrazione repubblicana guidata da Eisenhower e con la morte di Stalin che apriva le prime crepe nel monolito comunista – finivano per ripercuotersi negativamente sul processo d’integrazione europea. Lo stesso De Gasperi era costretto a fronteggiare una crescente contestazione interna, in seno alla Dc, che si combinava al rinnovato vigore della sfida socialcomunista. Di più: si riproponeva in termini di maggiore drammaticità la questione di Trieste, dove alle persistenti incertezze alleate sulla sorte della città giuliana si aggiungeva un maggiore interesse occidentale per la politica scismatica di Tito nei confronti del Cremlino. Tutto ciò induceva il governo a rallentare l’esame parlamentare della Ced malgrado le pressioni del nuovo segretario di Stato americano, John Foster Dulles: un freno destinato a diventare sempre più forte all’indomani del risultato elettorale del 7 giugno 1953 che – non consentendo per soli 57.000 voti di far scattare il premio di maggioranza a favore della Dc e dei partiti alleati – segnava la fine della lunga e feconda era di De Gasperi e l’avvento dei governi centristi, molto più instabili, presieduti da Giuseppe Pella e da Mario Scelba. In particolare, con l’esecutivo presieduto da Pella, cinquantunenne piemontese pupillo di Einaudi e appoggiato dalle destre, la questione di Trieste diventava cruciale. I rapporti con Tito peggioravano rapidamente al punto che venivano mobilitate tre divisioni italiane al confine orientale20. Il tempo delle mobilitazioni 20 I movimenti alla frontiera orientale riguardano una quantità limitata di truppe. Vengono schierate tre divisioni (Ariete, Folgore e Mantova) e alcune batterie anti-aeree. Ma suscita clamore il loro valore dimostrativo. È la prima volta che una decisione del genere viene assunta dal governo italiano senza consultare gli alleati della Nato.

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era passato, ma la crisi minacciava di trasformarsi in un confronto armato. Gli anglo-americani cercavano di venire incontro alle richieste italiane con una dichiarazione bipartita in cui annunciavano la loro intenzione di ritirarsi al più presto dalla «Zona A», ma al tempo stesso non volevano inimicarsi il regime jugoslavo. Insomma: il tentativo di Pella di ancorare la politica estera italiana a posizioni più fortemente nazionalistiche non produceva risultati concreti. Né dava i frutti sperati il tentativo – questa volta dichiarato – di stabilire un collegamento tra la soluzione della questione di Trieste e la ratifica del trattato sulla Ced. Una posizione più sfumata, ma non meno ambigua, veniva assunta dal successivo governo presieduto da Mario Scelba che decideva di avviare la procedura di ratifica parlamentare del trattato sulla Comunità di difesa (il 6 aprile 1954), ma non era insensibile ai suggerimenti di chi esortava a prendere tempo, a restare alla finestra e ad attendere il verdetto decisivo del Parlamento francese. Diventava sempre più chiaro, infatti, che a Parigi la maggioranza favorevole al trattato si era dissolta. E che il governo presieduto dal radicalsocialista Pierre Mendès-France era troppo impegnato a far uscire le truppe francesi dal pantano indocinese per potersi occupare di un esercito europeo. Malgrado le pressioni di Foster Dulles, che minacciava un’agonizing reappraisal (una «revisione lacerante») della politica estera americana in caso di bocciatura della Ced da parte dell’assemblea di Palazzo Borbone, e malgrado gli interventi della volitiva e determinata ambasciatrice a Roma, Claire Boothe Luce, sul governo Scelba, la sorte del trattato era segnata. Veniva affossato il 30 agosto 1954 dalla stessa nazione che quattro anni prima l’aveva proposto, con un voto dell’Assemblea nazionale su una questione di procedura21. Era una sconfitta per tutti coloro che vi si erano prodigati; a cominciare da De Gasperi che – pochi giorni prima dell’epilogo

21 La mozione d’ordine viene approvata dall’Assemblea di Palazzo Borbone con 319 voti a favore e 264 contrari. Votano a favore (e quindi contro il trattato della Ced) comunisti e gollisti (meno due), 53 dei 105 deputati socialisti, 34 radical-socialisti su 76, 10 deputati dell’Udsr (Union démocratique et socialiste de la Résistence) su 18. Contro la mozione (e quindi a favore della Ced) tutti i deputati del Mrp (Mouvement républicain populaire) (meno due), la maggioranza dei rappresentanti moderati e una parte dei socialisti.

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del voto francese – scriveva due accorate lettere all’allora segretario della Dc, Amintore Fanfani, in cui confessava: «La mia spina è la Ced [...]. Tu puoi appena immaginare la mia pena aggravata dal fatto che non ho la forza né la possibilità di levare la voce, almeno per allontanare dal nostro paese la corresponsabilità di una simile iattura»22. Ma era una sconfitta «annunciata» in quanto – al di là dell’appassionata difesa del trattato da parte dello statista trentino sino alle ultime ore di vita23 – erano sin troppo evidenti le ragioni che si frapponevano a un’accelerazione politica dell’integrazione europea così com’erano concepite nel disegno di De Gasperi, appoggiato da Schuman e da Adenauer. Erano altresì evidenti le contraddizioni e le riserve interne che impedivano alla Francia – e in seconda battuta all’Italia – di assumere una posizione limpida e definita a favore di una politica sovranazionale. Al punto che è lecito chiedersi – senza nulla togliere ai grandi meriti storici dello stesso De Gasperi – se il suo federalismo accentuato con la proposta di una Comunità politica europea abbia davvero giovato alla causa dell’integrazione o non abbia rappresentato piuttosto una «fuga in avanti», esempio di quelle oscillazioni che sarebbero state presenti nella futura politica europea dei nostri governi.

6. Le strettoie della politica atlantica Il naufragio della Ced suscita allarme in tutte le capitali europee poiché l’amministrazione Eisenhower non fa mistero del proprio profondo disappunto soprattutto nei confronti del «no» francese, definito a shattering blow (un «colpo sconvolgente») contro la politica americana. Lo stesso Mendès-France appare preoccupato delle conseguenze del disimpegno di Parigi e dalla tribuna del Consiglio d’Europa avanza nuove proposte di cooperazione europea ancorché molto «annacquate» sul piano della cessione di sovranità. 22 Le lettere di De Gasperi a Fanfani (9 e 14 agosto 1954) in De Gasperi scrive cit., vol. II, pp. 334-35 e 336-38. 23 S. Lorenzini, L’impegno di De Gasperi per un’Europa unita, in Alcide De Gasperi: un percorso europeo cit., pp. 227-30.

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Chi si inserisce con abilità nel contenzioso euro-americano è il governo conservatore inglese, che era stato escluso dalla partita per la Ced, ma che coglie al volo l’occasione propizia per rientrare nei giochi europei. Il ministro degli Esteri, Anthony Eden, assume l’iniziativa con un progetto alternativo che prevede l’allargamento del Patto di Bruxelles (costituito da Gran Bretagna, Francia e Benelux) alla Germania occidentale e all’Italia in modo da risolvere immediatamente la questione del riarmo tedesco e quindi da venire incontro alle preoccupazioni di Washington. L’accordo viene raggiunto nel mese di ottobre del 1954 a Parigi. La nuova organizzazione prende il nome di Ueo (Unione europea occidentale). La Germania riacquista la piena sovranità sul territorio occidentale (tranne che su Berlino Ovest), rinuncia alla produzione di armi atomiche, chimiche e batteriologiche sul proprio territorio. È la premessa per la successiva adesione del governo di Bonn alla Nato. Mendès-France e Adenauer raggiungono a loro volta una serie di intese bilaterali sull’annosa questione della Saar. La Gran Bretagna torna ad avere – almeno momentaneamente – una posizione-chiave nelle vicende europee, grazie anche al suo ruolo di unica potenza nucleare del continente e stabilisce un rapporto privilegiato con la Francia. L’Italia subisce da spettatrice, in una posizione marginale, l’evoluzione diplomatica del «dopo Ced», anche se alla guida del ministero degli Esteri c’è un medico messinese prestato alla politica, un liberale determinato, Gaetano Martino, che non si rassegnerà a un ruolo subalterno e cercherà nuovi spazi d’iniziativa per la politica estera italiana24. In realtà, qualche motivo di conforto il nostro paese può trarlo dalla conclusione delle trattative che portano nell’ottobre del 1954 alla firma, a Londra, del memorandum d’intesa che suggella la restituzione di Trieste e della «Zona A» all’Italia e la sovranità jugoslava sulla «Zona B». È un accordo transitorio, che rappresenta pur sempre una pesante amputazione territoriale per il nostro paese; ma si tratta di una sistemazione pressoché definitiva 24 Nel dibattito in Parlamento Martino difende con vigore la nascita dell’Ueo non mancando di mettere in rilievo il ruolo di moderazione svolto dall’Italia durante le trattative londinesi. Cfr. Manuale di politica estera italiana 19471993, a cura di L.V. Ferraris, Roma-Bari 1996, pp. 94-97.

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destinata ad essere suggellata vent’anni dopo dagli accordi di Osimo; è comunque un compromesso, quello londinese, che consente di chiudere definitivamente il doloroso capitolo del Trattato di pace e di liberare la politica estera italiana della più gravosa spada di Damocle25. Gaetano Martino, inoltre, è pronto a inserirsi nei tentativi provenienti da più parti di rilanciare i progetti d’integrazione europea sulle macerie della Ced, dopo che i primi passi dell’Ueo si rivelano deludenti. La spinta propulsiva originaria viene ancora una volta dalla fantasia di Jean Monnet, il quale comprende il carattere puramente strumentale dell’attivismo britannico per le vicende continentali e spinge perché i «Sei» della Ceca ritrovino rapidamente le ragioni della loro cooperazione, secondo gli schemi del funzionalismo. Monnet individua nell’atomo o – per essere più precisi – nell’utilizzazione pacifica dell’energia nucleare il collante in grado di coagulare consensi tra i partner europei e quindi il volano per un rilancio politico dell’Europa. Al progetto di Monnet si affianca un piano preparato dai tre ministri degli Esteri del Benelux, ma soprattutto dall’olandese Johann Willem Beyen, che prevede una fusione delle economie delle singole nazioni e una liberalizzazione degli scambi mediante la creazione di un grande mercato comune e l’armonizzazione della politica sociale. Si decide la convocazione di una conferenza per discutere i due progetti. Martino chiede (per ragioni prevalentemente elettorali) e ottiene che il conclave dei ministri degli Esteri dei «Sei» si svolga a Messina. Nella città siciliana – e soprattutto a Taormina, dove si svolgono le riunioni – si fronteggiano due posizioni: una patrocinata dal francese Antoine Pinay, favorevole a una graduale integrazione settoriale dell’economia, e un’altra patrocinata dal tedesco Walter Hallstein e sostenuta dai paesi del Benelux, favorevole piuttosto a una integrazione «orizzontale», cioè globale, delle economie europee. Martino si schiera su una posizione vicina alle tesi tedesche, anche se deve tener conto dei timori, delle preoccupazioni dei no25 Il testo integrale del Memorandum d’Intesa in «Relazioni internazionali», n. 41, 9 ottobre 1954.

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stri ambienti industriali per il progetto di mercato comune. Nei successivi negoziati – che si protraggono con alterne vicende fino alla primavera del 1957 – il ministro degli Esteri difende con successo alcuni principi particolarmente importanti per la nostra economia come la libera circolazione della manodopera e dei capitali e spinge per ampliare i poteri e le competenze della costituenda Comunità economica europea; fino alla firma dei trattati per l’istituzione della Comunità europea per l’energia atomica (Euratom) e della Comunità economica europea (Cee) che vengono sottoscritti nella sala del Campidoglio il 25 marzo 1957. La nostra diplomazia, insomma, si muove nel solco delle linee europeiste tracciate da De Gasperi, ma è ispirata giustamente a un maggiore pragmatismo; una linea che, sul fronte interno, in sede di ratifica parlamentare dei trattati, metterà a nudo la spaccatura tra il Partito socialista, che voterà a favore del trattato istitutivo dell’Euratom e si asterrà su quello istitutivo della Cee, e il Partito comunista, che manterrà un rigido «no» su entrambi i documenti26. Ma a metà degli anni Cinquanta la marcia dell’integrazione europea non è il solo dossier a tenere desta l’attenzione delle cancellerie del vecchio continente. A Parigi, a Londra e a Bonn si colgono con interesse i segni di una maggiore disponibilità al dialogo da parte del nuovo gruppo dirigente sovietico, che si coagulerà intorno alla complessa personalità di Nikita Kruscev. Crescono le spinte verso l’amministrazione Eisenhower per allentare le tensioni tra i due blocchi, che si concreteranno in una prima conferenza al vertice tra i quattro «Grandi» che si svolgerà a Ginevra nel luglio del 1955 per affrontare i principali problemi dei rapporti Est-Ovest. È l’ora della «prima distensione», di quello che sarà definito «lo spirito di Ginevra», i cui risultati concreti saranno modesti e contraddittori, ma non mancheranno d’incidere sulla politica europea portando, anzitutto, alla fine dell’occupazione quadripartita dell’Austria che proclamava la sua neutralità. E la firma del trat26 Sulla posizione del Pci verso i trattati di Roma e più in generale sui rapporti tra il partito e le istituzioni europee cfr. S. Galante, Il partito comunista italiano e l’integrazione europea. Il decennio del rifiuto: 1947-1957, Padova 1988; L’Europa da Togliatti a Berlinguer. Testimonianze e documenti: 1945-1984, a cura di M. Maggiorani e P. Ferrari, Bologna 2005.

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tato di pace austriaco, tra i suoi effetti, produce quello di sbloccare finalmente il problema dell’ammissione di numerose nazioni – fra le quali l’Italia – alle Nazioni Unite: un lungo e travagliato iter che si concluderà nel dicembre del 195527 e che accentuerà la spinta a individuare nel multilateralismo l’alternativa a qualsiasi politica di difesa degli interessi nazionali. Non mancheranno, inoltre, le conseguenze della neutralità austriaca sul nostro assetto stretegico28. Sullo scenario italiano gli effetti del nuovo clima internazionale si manifestano in maniera particolarmente acuta e significativa. La posizione di chi – come, ad esempio, il ministro Martino e una parte consistente del gruppo dirigente democristiano – rimane convinto che la politica estera nazionale debba essere rigorosamente ancorata ai due principi fondamentali dell’atlantismo e dell’europeismo entra in rotta di collisione con un altro indirizzo, destinato a consolidarsi, che cerca margini di autonomia tra le strettoie della politica atlantica attraverso iniziative sovente originali e improvvisate; una linea che si intreccia sul versante interno con i primi timidi tentativi della cosiddetta «apertura a sinistra» attraverso il dialogo tra i cattolici e i socialisti nenniani. Una linea che si rafforza con il superamento della fase di emergenza della ricostruzione post-bellica e grazie all’accelerazione dello sviluppo economico del paese. Questo orientamento alternativo trova espressione nell’elezione di Giovanni Gronchi alla presidenza della Repubblica nel maggio del 1955. Oppositore, a suo tempo, dell’adesione italiana al Patto atlantico e fautore di una utopistica «equidistanza» del nostro paese dai due blocchi, ma allo stesso tempo restio ad accet27 L’Italia viene ammessa all’Onu il 14 dicembre 1955 con voto unanime dell’Assemblea (cinquantasei «sì», nessun «no») dopo un braccio di ferro tra i paesi occidentali e l’Urss sull’ingresso della Mongolia Esterna sostenuta dal Cremlino. Alla fine la Mongolia Esterna viene sacrificata insieme al Giappone, alle due Coree e ai due Vietnam. I sedici paesi ammessi nell’organizzazione sono: Albania, Austria, Bulgaria, Cambogia, Ceylon, Giordania, Finlandia, Irlanda, Italia, Laos, Libia, Nepal, Portogallo, Romania, Spagna e Ungheria. 28 A seguito della conclusione del Trattato di pace con l’Austria viene annunciata la costituzione di un nuovo gruppo operativo della Nato (South European Task American Force) composto da circa 5.000 soldati statunitensi, dotati di artiglieria atomica, che sono trasferiti dal territorio austriaco a Vicenza.

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tare la dissoluzione del nostro impero coloniale, Gronchi è una personalità volitiva e complessa in cui convivono spinte ideali e progetti sovente contrastanti. La sua elezione al Quirinale è il frutto di una serie di operazioni maturate dietro le quinte, di manovre in cui si alleano strumentalmente le sinistre e le destre, intenzionate soprattutto a contrastare la politica rigorosamente filoatlantica del gruppo dirigente democristiano. Non a caso Gronchi si occupa subito, molto attivamente, di politica estera con una serie d’interventi che suscitano allarme e disappunto a Washington, dove non si escludono contromisure per fronteggiare «minacce di future infiltrazioni di sinistra nel governo italiano». Il capo dello Stato spinge per un’interpretazione rigorosamente difensiva del Patto atlantico attraverso una sottolineatura dell’articolo 2 del trattato che consente di privilegiare gli aspetti della cooperazione economica e sociale tra gli alleati rispetto agli impegni di carattere militare. È un espediente dialettico che consente di restare fedeli alla lettera dell’Alleanza, ma al tempo stesso di venire incontro alle istanze della sinistra italiana, in chiave di politica interna. Ecco dunque la ragione per cui il richiamo all’articolo 2 diventa un cavallo di battaglia di Gronchi, un punto su cui egli batte con particolare insistenza nel corso della sua visita negli Stati Uniti e in Canada nel febbraio-marzo 1956: la prima compiuta all’estero da un capo dello Stato dell’Italia repubblicana. In realtà, essa è preceduta da una tempesta diplomatica per un’intervista concessa dallo stesso Gronchi al giornalista Edmund Stevens, corrispondente del «Christian Science Monitor», e per un colloquio a quattr’occhi con l’ambasciatore sovietico a Roma, Aleksander Bogomolov29. Gronchi cerca di ottenere una maggiore partecipazione italiana alle discussioni tra Est ed Ovest sul futuro tedesco. Si vuole a tutti i costi evitare una nostra emarginazione a livello internazionale e quindi le pressioni per ottenere un invito ai colloqui tra i quattro «Grandi» impegnati nei primi tentativi della «nuova distensione» diventano quasi ossessive. In realtà, i diplo29

Romano, Guida alla politica estera italiana cit., p. 83.

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matici italiani non sono chiamati a partecipare a pieno titolo ai colloqui. Il nostro paese è destinato a diventare – secondo i ricordi di un testimone, l’ambasciatore Quaroni30 – a lunching power, ovverossia una «potenza che fa colazione» perché, come contentino, viene deciso d’invitare di tanto in tanto il ministro degli Esteri italiano a una colazione ai margini della riunione. E quest’ansia di partecipare, di essere presente a tutti i costi, diventa un tratto caratteristico della nostra politica estera, sintomo di un complesso d’inferiorità dalle radici antiche e difficile da rimuovere. Va detto che nei colloqui alla Casa Bianca, Eisenhower e Dulles si guardano bene dal contrastare le opinioni di Gronchi a favore di una più efficace applicazione dell’articolo 2 del Patto atlantico. Anzi, essi offrono il loro appoggio all’istituzione di un Comitato di tre «saggi» (il nostro Martino, il norvegese Halvard Lange e il canadese Lester Pearson), incaricato di affrontare la questione per consentire all’alleanza di contenere adeguatamente il maggiore dinamismo sovietico. Ma è differente la prospettiva. Gli americani colgono nell’applicazione dell’articolo 2 uno degli strumenti per dare vitalità e spessore alla nascente «coesistenza pacifica» tra Est e Ovest. Gronchi punta a una «smilitarizzazione» della Nato per favorire l’apertura a sinistra in Italia. E ovviamente questa politica viene vista con sospetto e diffidenza Oltreatlantico. Bisogna sottolineare, tuttavia, che la prospettiva dell’apertura a sinistra in Italia viene favorita anche e soprattutto dall’evoluzione della crisi nel mondo comunista suscitata dall’avvio del processo di «destalinizzazione» con il rapporto tenuto da Nikita Kruscev al XX congresso del Pcus e acuita dalla repressione della rivolta ungherese, nel novembre del 1956, il cui giudizio divide in modo definitivo la strada di Nenni da quella di Togliatti. 30

Quaroni et al., Inchiesta sulla politica estera italiana cit., p. 128.

VII SPERANZE, ILLUSIONI E DELUSIONI DI UNA MEDIA POTENZA (1956-1989)

1. Neo-atlantismo e alternativa mediterranea Il revisionismo atlantico non è il solo strumento di cui si serve una parte consistente del mondo politico ed economico italiano, a metà degli anni Cinquanta, per cercare di marcare una maggiore autonomia della nostra politica estera e – approfittando della fase di riassestamento dei rapporti Est-Ovest – per tentare di recuperare, in qualche modo, quel ruolo di «media potenza» smarrito con la sconfitta nella seconda guerra mondiale. Il timore di restare esclusi dal grande gioco diplomatico internazionale, già emerso in occasione dei primi contatti tra i due blocchi a Ginevra, si manifesta anche in concomitanza con il riacutizzarsi della tensione nel Mediterraneo. Ma il disegno di coloro che si richiamano al cosiddetto «neoatlantismo» (termine coniato dal ministro degli Esteri, Pella, nel luglio del 1957) è più complesso e ambizioso. Non si tratta solo di rivendicare una maggiore presenza dell’Italia su uno scacchiere, quello mediterraneo, cui il nostro paese si era volontariamente ritratto con la rinuncia a qualsiasi presenza coloniale, ma di sfruttare le crescenti difficoltà che potenze come la Francia e la Gran Bretagna incontrano nel salvaguardare le rispettive zone d’influenza per cercare di sostituirvi una nostra azione diplomatica più aperta al dialogo con i popoli arabi dell’area mediterranea e medio-orientale. Intorno al neo-atlantismo – fenomeno in cui si mescolano una sorta di «pacifismo atlantico» e di «nazionalismo mediterraneo» – si coagulano personalità molto diverse tra loro, con iniziative ete-

VII. Speranze, illusioni e delusioni di una media potenza (1956-1989)

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rogenee che hanno in comune la ricerca, sovente velleitaria, di un’azione originale nella condotta della politica estera. I principali punti di riferimento di tale politica – non legati da un esplicito patto d’azione, ma agenti il più delle volte per iniziative personali o bilaterali – sono, oltre al presidente della Repubblica, Gronchi, l’ala dossettiana della Dc – rappresentata dal segretario del partito Amintore Fanfani e dal sindaco di Firenze Giorgio La Pira – e soprattutto il presidente dell’Eni (Ente nazionale idrocarburi) Enrico Mattei. In verità è Mattei l’elemento-chiave di questa politica estera parallela, destinato a giocare un ruolo decisivo fino al 1962, quando morirà in un incidente aereo le cui circostanze non sono state mai sufficientemente chiarite. Il presidente dell’Eni mira a estendere l’influenza dell’industria petrolifera di Stato nell’area mediterranea e per perseguire i suoi obiettivi non esita a usare i metodi più spregiudicati – sia sul piano interno sia su quello internazionale – e quindi a porsi in rotta di collisione con le famose «Sette sorelle», cioè con il cartello delle grandi compagnie americane estrattrici e venditrici di greggio. Anche i rapporti con gli Stati Uniti entreranno in una fase critica; mentre un’altra parte consistente dello schieramento politico italiano non mancherà di mantenere una linea più ortodossa di fedeltà atlantica, cercando di opporsi alle iniziative del presidente dell’Eni. La crisi di Suez, nella seconda metà del 1956, radicalizza lo scontro tra queste due «anime» della politica estera italiana, rafforzando il polo che fa capo a Gronchi, a Fanfani e a Mattei. La decisione del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser di nazionalizzare il canale di Suez viene accolta con estrema prudenza dal governo italiano presieduto da Antonio Segni. Questi, personalmente schierato su posizioni «ortodosse», assume un atteggiamento oscillante e contraddittorio quando le truppe anglo-francesi – insieme a quelle israeliane – intervengono contro l’Egitto. Il nostro governo dapprima prende le distanze da Londra e da Parigi e punta a una internazionalizzazione della crisi (secondo i desideri di Washington), poi si astiene alle Nazioni Unite quando viene presentata una risoluzione che chiede il ritiro degli anglofrancesi dal Canale1. 1 Su neo-atlantismo, neutralismo e nuclearizzazione della difesa, cfr. L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra. Importanza e limiti della presenza americana in Italia, Roma-Bari 1999, pp. 130-64.

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In realtà, la crisi di Suez è destinata a incidere profondamente sugli assetti politici internazionali ed europei. Con il ritiro precipitoso degli anglo-francesi di fronte alle minacce (anche nucleari) dell’Unione Sovietica e con il mancato appoggio dell’amministrazione Eisenhower alle posizioni di Parigi e Londra essa accelera il declino dell’Europa di fronte al bipolarismo russo-americano. È un evento traumatico che provoca effetti non omogenei. A Londra, Anthony Eden è costretto a dimettersi e il suo successore Harold Macmillan riprende con rinnovato slancio la politica di special relationship con gli Stati Uniti; a Parigi il governo presieduto dal socialista Guy Mollet imbocca una via opposta: cerca di rafforzare la propria autonomia rispetto a Washington soprattutto attraverso un consolidamento dei rapporti con il governo tedesco presieduto da Adenauer. A Roma, dove l’instabilità politica è testimoniata dalle frequenti crisi di governo, si cerca di rispondere al terremoto internazionale con una maggiore presenza italiana nell’area mediterranea e medio-orientale. I fautori del neo-atlantismo accarezzano l’idea di poter trarre vantaggio della sconfitta anglo-francese a Suez, puntando su un asse privilegiato tra Roma e Washington. In questo senso si muove, ancora una volta, Giovanni Gronchi, che nel marzo del 19572 – dopo aver incontrato al Quirinale l’allora vicepresidente americano Richard Nixon – scrive una lettera riservata a Eisenhower in cui propone consultazioni speciali tra i due paesi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Una lettera mai pervenuta al destinatario poiché viene bloccata alla Farnesina dal ministro degli Esteri Martino, d’accordo con il presidente del Consiglio Segni. Segue uno scontro istituzionale molto acceso tra Gronchi e Martino: prevale la linea del ministro secondo cui la Costituzione non consente al capo dello Stato di condurre una propria politica estera autonoma rispetto all’esecutivo. Tra le iniziative della stagione neo-atlantica può essere annoverato anche il tentativo franco-tedesco-italiano di accentuare la cooperazione in campo nucleare in vista della costruzione di una bomba atomica in comune. Il progetto viene avviato all’indoma2 L. Wollemborg, Stelle, strisce e tricolore. Trent’anni di vicende politiche tra Roma e Washington, Milano 1983, pp. 52-61. I documenti in Appendice, pp. 583-89.

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ni della crisi di Suez e prende consistenza dopo che il lancio dello «Sputnik» e la sperimentazione del primo missile intercontinentale sovietico hanno posto fine all’illusione dell’invulnerabilità del territorio americano, creando allarme e sconcerto anche tra gli alleati europei. L’accordo tripartito, segreto, per la realizzazione di un’atomica in comune viene sottoscritto a Parigi, nel novembre 1957, dai tre ministri della Difesa Jacques Chaban-Delmas, Franz Josef Strauss e Paolo Emilio Taviani. L’Italia decide di parteciparvi in extremis ed è significativo che la decisione venga presa malgrado la debolezza parlamentare del governo in carica presieduto da Adone Zoli3. L’accordo viene perfezionato nell’aprile successivo, ma poi svanisce quando il generale de Gaulle torna al potere e decide di agire autonomamente nel campo nucleare con la costituzione della force de frappe. In verità, secondo altre fonti4, sarà Amintore Fanfani, diventato capo del governo dopo le elezioni della primavera del 1958, a sacrificare l’accordo tripartito sull’altare di un accordo diretto con Eisenhower per accogliere i missili nucleari a medio raggio, della classe Jupiter, sul territorio italiano: obiettivo perseguito dall’amministrazione statunitense proprio per sopperire a quello che viene definito il missile gap, cioè il rischio – peraltro inesistente ma largamente percepito dagli americani – di una possibile superiorità in campo nucleare dell’Urss e delle forze del Patto di Varsavia rispetto all’Alleanza atlantica5. Numerosi sono ancora gli interrogativi da sciogliere per chiarire i contorni di un episodio che presenta molte zone d’ombra sulle manovre e gli obiettivi dei vari protagonisti. A cominciare proprio dal ruolo che i principali fautori del neo-atlantismo (Enrico Mattei in testa) possono aver giocato per favorire la nascita di P. Cacace, L’atomica europea, Roma 2004, pp. 58-62. A. Albonetti, Storia segreta della bomba atomica italiana ed europea, in «Limes», 1998, 2, pp. 157-71. Sull’intreccio diplomatico cfr. anche L. Nuti, The FIG Story Revisited, in «Storia delle relazioni internazionali», vol. 13, n. 1, 1998. 5 Sulla vicenda dei missili Jupiter cfr. L. Nuti, Dall’operazione «Deep Rock» all’operazione «Pot Pie»: una storia documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia, in «Storia delle relazioni internazionali», vol. 11/12, n. 1, 1996-97, pp. 95140. 3 4

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un’«atomica europea» la cui realizzazione avrebbe modificato drasticamente il corso dei rapporti euro-americani e avrebbe inciso anche sull’uso pacifico dell’energia nucleare. Non va dimenticato, d’altra parte, che nello stesso periodo il presidente dell’Eni sviluppa la sua strategia di penetrazione nel Medio Oriente con l’accordo petrolifero sottoscritto a Teheran (nel settembre del 1957) con lo scià Reza Palhevi – alla presenza di Gronchi e di Pella – che rivoluziona la prassi seguita dalle «multinazionali» (fondata sul fifty-fifty) e attribuisce al paese produttore di greggio il 75 per cento dei benefici6. In realtà, la politica neo-atlantica sarà legata strettamente alla figura di Mattei e ne seguirà le sorti quando il potente «petroliere senza petrolio» scomparirà dalla scena nell’incidente aereo di Bascapé. Meno potente, ma non meno influente, in questi anni sarà la voce del sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, eclettica personalità della sinistra democristiana vicina ad Amintore Fanfani, nonché promotore di iniziative «ecumeniche» come la riunione dei sindaci di numerose città (tra cui quello di Mosca, Mikhail Jasnov) e organizzatore di convegni pacifisti dedicati al dialogo mediterraneo che suscitano l’ira del generale de Gaulle quando questi scopre che tra gli invitati figurano rappresentanti del Fronte nazionale di liberazione algerino. Risalgono a questa fase di transizione, favorita dall’incertezza dei rapporti internazionali, l’accentuata inclinazione del mondo politico-diplomatico italiano a puntare a tutti i costi a un’azione mediatrice sovente intrisa di terzomondismo e la mancanza di coerenza nel perseguire gli obiettivi di politica estera: entrambi difetti che non mancheranno di essere presenti negli anni successivi.

6 Cfr. L. Maugeri, L’arma del petrolio. Questione petrolifera globale, guerra fredda e politica italiana nella vicenda di Enrico Mattei, Firenze 1994, pp. 14260. La politica di Mattei viene duramente osteggiata dalle autorità americane per molti anni. Secondo documenti declassificati della Cia, ancora nel 1961 il presidente dell’Eni era considerato «uno Stato nello Stato». Cfr. P. Mastrolilli, M. Molinari, La Cia nel 1981: Quel Mattei è un problema, in «La Stampa», 7 novembre 2005.

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2. Passi incerti per l’apertura a sinistra Il quadriennio 1958-62 è contrassegnato da una forte instabilità nei rapporti Est-Ovest che si ripercuote sullo scenario politico italiano ora accelerando ora frenando la marcia verso lo storico incontro tra cattolici e socialisti. Le elezioni legislative del maggio 1958 determinano la vittoria (non il trionfo) della Democrazia cristiana e portano alla guida del governo Amintore Fanfani, che cumula anche le cariche di ministro degli Esteri e di segretario politico del partito. È una sorta di monarchia assoluta quella che si concentra nelle mani del volitivo e ambizioso leader politico aretino; un «regno» peraltro destinato a durare soltanto sette mesi, fino a quando cioè all’interno della Dc i nodi tra i fautori e gli oppositori della cosiddetta apertura a sinistra non verranno al pettine e indurranno lo stesso Fanfani a farsi momentaneamente da parte. Comunque, questa prima esperienza governativa non rimane senza traccia. Sin dal momento del suo insediamento, Fanfani non fa mistero dell’intenzione di imprimere una correzione di rotta alla politica estera italiana e di far convivere le due «anime»: quella ancorata all’atlantismo e all’europeismo e quella neo-atlantica, che punta a una maggiore cooperazione con le nazioni dell’area mediterranea, in sintonia con i piani di penetrazione economica dell’Eni. Il primo banco di prova è costituito dalla grave crisi scoppiata in Iraq con l’assassinio di re Feisal II e dal successivo sbarco dei marines in Libano, deciso dall’amministrazione Eisenhower. Fanfani concede agli americani il permesso di utilizzare l’aeroporto di Capodichino per il trasporto delle truppe in Medio Oriente, ma al tempo stesso vola a Washington per esporre a Eisenhower e a Dulles i lineamenti di un ambizioso piano economico volto ad aiutare i paesi arabi: una sorta di «piano Marshall» per il Mediterraneo, che i dirigenti statunitensi accolgono con sospetto. Soprattutto quando comprendono che Fanfani conta di poter stabilire un asse privilegiato con Washington per cui il nostro paese dovrebbe ottenere una sorta di mandato fiduciario per trattare con gli arabi in nome e per conto degli Stati Uniti; il tutto mentre l’Eni di Enrico Mattei continua a sviluppare il suo raggio d’azione

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nell’area mediterranea in concorrenza e in conflitto con le multinazionali petrolifere Usa. Non a caso, le iniziative fanfaniane suscitano allarme e inquietudine negli ambienti politico-diplomatici americani, di cui si fa portavoce il celebre giornalista Cyrus Sulzberger (allora capo dei servizi europei del «New York Times»), che pubblica una serie di velenosi articoli contro il presidente del Consiglio italiano accusato di «voler allentare i vincoli della Nato per accattivarsi le simpatie dei Paesi arabi». Sulzberger muove anche un altro addebito a Fanfani: quello di aver promosso una vasta epurazione all’interno del ministero degli Esteri di diplomatici filo-atlantici sostituiti da giovani funzionari noti come i «Mau Mau»7. L’accusa non è infondata. Fanfani, nel suo breve «regno», rivoluziona Palazzo Chigi (allora sede del ministero degli Esteri) operando ampi avvicendamenti nel corpo diplomatico. Vengono licenziati in tronco ambasciatori di grande esperienza e di sicura fede atlantica, come Alberto Rossi Longhi, rappresentante italiano a Parigi, e sostituiti da funzionari di cui sono note le benemerenze di partito più che le capacità diplomatiche. Comunque, Fanfani non subisce senza reagire gli attacchi provenienti d’Oltreoceano. Chiede e ottiene un pubblico attestato di stima dal segretario di Stato, Foster Dulles. Si tratta, beninteso, di un gesto non gratuito ma legato alla decisione del governo italiano di confermare l’impegno a ospitare sul proprio territorio le rampe missilistiche con i vettori Jupiter. Nello stesso periodo, l’uomo politico aretino deve fronteggiare numerosi problemi anche sul fronte europeo a seguito del tentativo del generale de Gaulle di costituire un «direttorio tripartito» (Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna); tentativo volto a riservare a queste nazioni un ruolo prioritario in seno all’Alleanza atlantica. 7 I «Mau Mau» traevano il loro nome dalla famosa e implacabile organizzazione di guerriglieri del Kenya. I loro cognomi iniziavano quasi tutti con la lettera «M». Facevano parte del gruppo: Gerolamo Messeri, Raimondo Manzini, Carlo Marchiori, Vittoriano Manfredi, Franco Malfatti, Enrico Aillaud e Luciano Conti. 8 Fanfani invia un telegramma «segretissimo» agli ambasciatori nelle principali capitali in cui ribadisce che «il governo italiano non autorizzò mai né approva suggerimento del generale de Gaulle che, se accolto, costringerebbe Ita-

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La proposta gollista viene prontamente osteggiata dal governo tedesco e da quello italiano8. Fanfani – che pure in cuor suo apprezza il generale e in qualche modo vorrebbe emularne lo stile – comprende che il disegno di de Gaulle è particolarmente insidioso e pericoloso perché mira a ridurre drasticamente i vantaggi di posizione che il nostro paese si è faticosamente conquistato sullo scenario internazionale, e quindi va combattuto senza indugi. Ci pensa, poi, Nikita Kruscev – con la nuova crisi di Berlino del novembre 1958 – a ricondurre a unità, almeno momentaneamente, il fronte occidentale. L’ultimatum sovietico, con la minaccia di una «pace separata» tra l’Urss e la Repubblica democratica tedesca, dimostra che i tempi della «distensione» tra Est e Ovest sono ancora lunghi. Sul fronte italiano si allontana la prospettiva dell’incontro tra cattolici e socialisti che lo stesso Fanfani intendeva favorire. Nel febbraio 1959 si respira aria di restaurazione con il nuovo monocolore democristiano guidato da Antonio Segni in cui Pella torna alla guida di Palazzo Chigi. I venti del «nazional-pacifismo» soffiano molto più tiepidamente; il paese sembra tornare rapidamente all’ortodossia atlantica. Ma non viene meno la persistente ambizione di svolgere un maggiore ruolo internazionale. Alla prima occasione propizia, torna in campo Giovanni Gronchi con una missione a Mosca, che ha anche lo scopo di favorire i piani di penetrazione dell’Eni in Urss. Essa si realizza nel febbraio del 1960: è il primo incontro al massimo livello tra i due paesi dal lontano 1909, quando Vittorio Emanuele III ricevette lo zar Nicola II nel castello di Racconigi. I risultati sono tanto imprevisti quanto sconvolgenti. Se Gronchi sperava di poter trovare al Cremlino un interlocutore desideroso di incoraggiare un più incisivo ruolo italiano nelle questioni internazionali, incorre in un clamoroso errore. Nel corso di un ricevimento alla nostra ambasciata, Kruscev investe letteralmente il capo dello Stato e Pella con battute provocatorie e ironiche9. Ne scaturisce uno sconcertante battibecco che non manca di riperlia riesame intera situazione politica». Il messaggio (Segretissimo, Prot. 13721/CS) in Asdmae, AP, 1958, b. 79, R 1/1. 9 P. Cacace, Venti anni di politica estera italiana (1943-1963), Roma 1987, pp. 518-24.

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cuotersi negativamente sull’immagine di Gronchi e sullo stesso governo Segni. In concomitanza con un rilancio del «disgelo» nei rapporti tra Est e Ovest – favorito anche dalla missione di Kruscev negli Stati Uniti – dopo l’oscura parentesi del gabinetto Tambroni, nell’estate del 1960, il timone governativo passa di nuovo nelle mani di Amintore Fanfani. Ma questa volta, il leader democristiano agisce con maggiore prudenza e circospezione, anche perché al suo fianco – come ministro degli Esteri – c’è Antonio Segni, guardiano dell’ortodossia atlantica. Fanfani si districa con abilità e sagacia di fronte al tentativo austriaco di rimettere in discussione davanti alle Nazioni Unite gli accordi De Gasperi-Gruber sull’Alto Adige del 194610. Meno produttivi sono gli sforzi del capo del governo di attribuire al nostro paese il sospirato «peso determinante» nei rapporti Est-Ovest. Nell’agosto del 1961 Fanfani vola a Mosca in visita ufficiale. Kruscev evita i toni ostentatamente provocatori con cui un anno prima aveva ricevuto Gronchi al Cremlino. Ma il risultato finale non cambia granché. I tentativi dell’uomo politico aretino di accreditare una «mediazione» italiana sulla questione tedesca vengono clamorosamente smentiti qualche giorno dopo la missione, quando Walter Ulbricht dà il via a quella mostruosa opera edilizia che è il muro di Berlino, destinato a mantenere la divisione della Germania per un altro trentennio11. Ma il fatto nuovo che matura durante il Fanfani-bis proviene d’Oltreatlantico. È rappresentato dall’elezione alla Casa Bianca – nel novembre 1960 – del giovane senatore del Massachusetts, John Fitzgerald Kennedy, vittorioso nella sfida con Richard Nixon. Con l’avvento dell’amministrazione democratica cade progressivamente il muro dell’ostilità americana nei confronti del 10 Nel settembre del 1960, il governo italiano pubblica un «Libro verde» per contestare le accuse del cancelliere austriaco Bruno Kreisky. L’Assemblea dell’Onu adotta all’unanimità una risoluzione favorevole alle tesi italiane. Periodicamente l’Austria ripresenterà i propri dossier sull’Alto Adige che saranno sempre respinti dalle Nazioni Unite fino al raggiungimento di un accordo definitivo tra le due parti raggiunto il 30 novembre 1969 dai ministri degli Esteri Aldo Moro e Kurt Waldheim. 11 Cfr. G. Azzoni, La missione di Fanfani e Segni a Mosca (2-5 agosto 1961), in «Storia delle relazioni internazionali», vol. 9, n. 2, 1993, pp. 169-226.

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centrosinistra, e sin dal marzo 1961, con la missione a Roma di Averell Harriman, «inviato speciale» di Kennedy in Europa, il problema dell’apertura a sinistra diventa uno dei temi principali dei rapporti italo-statunitensi intrecciandosi e in qualche misura condizionandosi con la marcia di avvicinamento di Pietro Nenni al governo; marcia che culmina con l’articolo scritto dal leader socialista sulla rivista americana «Foreign Affairs» (gennaio 1962) in cui viene suggellato il «sì» del Psi all’Alleanza atlantica12. Naturalmente l’azione di sostegno americana al centrosinistra procede con gradualità e non senza contrasti in seno all’amministrazione democratica. La diffidenza verso la «conversione» di Nenni viene alimentata soprattutto dall’ambasciata Usa a Roma mentre la politica d’incoraggiamento all’apertura a sinistra trova convinti sostenitori in alcuni consiglieri liberal di Kennedy (come Arthur Schlesinger jr. e James King jr., analista dell’Institut of Defense Analysis). Il contrasto si protrae per tutto il biennio 1961-62 finché l’approdo al centrosinistra non si concretizza con la missione compiuta da Fanfani a Washington nel gennaio 1963. Kennedy dà l’atteso placet13. L’obiettivo strategico americano è molto chiaro: l’ingresso dei socialisti nell’area governativa significa maggiore stabilità politica in Italia ma anche e soprattutto la fine del patto frontista e quindi la marginalizzazione del Partito comunista. Nell’ottica dei consiglieri di Kennedy è in prospettiva un esperimento ripetibile, mutatis mutandis, in altre nazioni europee (a cominciare dalla Francia post-gollista) laddove le condizioni politiche lo avessero consentito. Anche se poi il corso degli eventi sarà alquanto diverso.

3. Centrosinistra e politica estera Le vicende che portano alla formazione del primo governo organico di centrosinistra, nel dicembre del 1963, indicano una momentanea, ma significativa, inversione di tendenza rispetto alla dinamica della lunga stagione della guerra fredda. Se agli albori del 12 P. Nenni, Where the Italian Socialists Stand, in «Foreign Affairs», vol. 40, n. 2, gennaio 1962. 13 Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra cit., pp. 586 sgg.

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secondo dopoguerra – come si è visto – le scelte di politica interna sono condizionate totalmente da quelle internazionali e dalle rigide regole della spartizione dell’Europa fissate a Jalta, nel clima del primo timido «disgelo» tra Est e Ovest lo scenario italiano offre una situazione diversa: gli indirizzi internazionali del gruppo dirigente democristiano, Fanfani in testa, sono tutti piegati e orientati a creare le condizioni favorevoli per raggiungere l’agognato traguardo dell’incontro tra cattolici e socialisti anche grazie all’avvento di Giovanni XXIII e alla maggiore disponibilità al dialogo tra le sue superpotenze. Non è in discussione – né potrebbe esserlo – l’adesione del nostro paese allo schieramento atlantico, ma soprattutto nelle scelte di politica europea più che gli interessi specifici contano le finalità di politica interna. Ecco quindi che nel 1958 – dopo l’entrata in vigore dei trattati dell’Euratom e del Mercato comune europeo (Mec) – l’attenzione del mondo politico e diplomatico italiano si concentra sull’atteggiamento del generale de Gaulle appena tornato al potere sulle macerie della quarta Repubblica. Contrariamente alle previsioni, questi non cancella i trattati con un colpo di spugna, ma onora gli impegni assunti dai suoi predecessori e soprattutto cerca di imprimere il suggello delle proprie idee alla nascente cooperazione tra i sei paesi della Comunità europea: discorso valido, beninteso, soltanto per il trattato istitutivo del Mec, poiché quello sull’utilizzazione pacifica dell’energia nucleare mostra subito i suoi limiti. De Gaulle non accetta la logica di Jalta e quindi vuole imporre progressivamente il ruolo di un’«Europa terza forza» tra Stati Uniti e Unione Sovietica. È contrario a qualsiasi suggestione federalista, propugnando invece la ricetta confederale dell’«Europa degli Stati». Spinge, in quest’ottica, per una maggiore cooperazione politica tra i «Sei», tendendo la mano anzitutto agli italiani. Ma Fanfani diffida profondamente del generale che, peraltro, con la sua proposta di «direttorio» atlantico aveva giustificato le reazioni negative da parte italiana. La diffidenza italiana nei confronti delle idee golliste diventa ancora più netta quando de Gaulle entra in rotta di collisione con il governo britannico, il quale – dopo un vano tentativo di boicottare la Comunità europea con la creazione di un’area di libero

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scambio alternativa e concorrente (l’Efta, European Free Trade Association) – avanza la candidatura per l’ingresso di Londra nel Mec. All’inizio de Gaulle risponde indirettamente, stringendo i tempi con la presentazione di un progetto coordinato dal suo consigliere, Christian Fouchet, mirante a rafforzare la cooperazione politica tra i «Sei». Poi, di fronte al fallimento dei suoi tentativi e in particolare del secondo «piano Fouchet» (nel gennaio del 1962)14, il generale assume una posizione più chiara e netta contro l’adesione della Gran Bretagna: quest’ultima viene considerata da de Gaulle come il «cavallo di Troia» di cui l’amministrazione Kennedy si servirebbe per scardinare la «fortezza europea». Gli accordi di Nassau tra il presidente americano e Macmillan per la fornitura dei missili Polaris ai sottomarini inglesi lo convincono della necessità di creare una forza nucleare indipendente e lo spingono a stringere i tempi del patto franco-tedesco con Adenauer. Di fronte al veto gollista – espresso per la prima volta nel gennaio del 1963 e reiterato quattro anni più tardi – la posizione italiana è molto critica. Nello scontro tra de Gaulle e Macmillan, che è fondamentalmente uno scontro tra de Gaulle e Kennedy, Fanfani sceglie il giovane presidente americano e si schiera a favore dell’ingresso di Londra nel Mercato comune. Non perché gli interessi politico-economici del nostro paese siano meglio tutelati dalla eventuale partecipazione britannica alla Comunità, ma perché tale ingresso è funzionale ai disegni di politica interna e soprattutto perché Kennedy rappresenta il «nuovo», il personaggio su cui puntare per ottenere il via libera al centrosinistra, mentre de Gaulle rappresenta, almeno apparentemente, i vecchi schemi conservatori di un’Europa prigioniera del passato e sempre per noi pericolosa con la riproposizione dell’asse franco-tedesco. Anche il Partito socialista non resta immune da questo giudizio sommario, non privo di superficialità, che porta a esaltare la figura «progressista» di un Kennedy che punta, in realtà, sulla partnership euro-americana per consolidare il ruolo egemonico 14 Dopo il fallimento del secondo «piano Fouchet» l’iniziativa passò in mano agli italiani. L’ambasciatore Attilio Cattani mise a punto un suo progetto di compromesso, presentato nel febbraio del 1962, ma non riuscì a sbloccare la situazione.

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degli Stati Uniti sugli alleati e condanna come reazionarie le posizioni di de Gaulle che invece con il «piano Fouchet» – almeno nella sua prima stesura – indica pragmaticamente una via moderna ed efficace alla cooperazione tra i paesi europei. Nell’incontro di Washington, all’inizio del 1963, Fanfani esamina con Kennedy le conseguenze del «no» gollista alla Gran Bretagna e il capo della Casa Bianca rinnova la proposta per la costituzione di una forza nucleare multilaterale, Multilateral Force (Mlf). È una proposta ancora vaga, destinata ad essere accolta con molto scetticismo dal nostro governo, anche perché nella primavera del 1963 sono in programma le elezioni politiche e il governo in carica – a cominciare da Fanfani – non vuole introdurre nella campagna elettorale un elemento suscettibile di turbare i rapporti tra cattolici e socialisti. Va detto, comunque, che tra gli effetti del drammatico braccio di ferro tra Kennedy e Kruscev per i missili sovietici installati a Cuba dell’ottobre precedente – che aveva portato il pianeta a un passo dalla catastrofe di uno scontro nucleare – vi era stata la decisione americana di rimuovere i trenta missili Jupiter a medio raggio dalle basi pugliesi. Quel ritiro segnava uno spartiacque nella stagione della guerra fredda poiché indicava la volontà degli Stati Uniti di concentrare esclusivamente nelle proprie mani l’arsenale nucleare atlantico: condizione essenziale per poter avviare una politica di controllo degli armamenti con l’Unione Sovietica. Per l’Italia, come temevano in molti, il ritiro dei missili Jupiter comportava una sorta di declassamento internazionale. Il nostro paese contava meno agli occhi degli strateghi di Washington; anche se sul nostro territorio o, meglio, nelle basi Nato disseminate nella penisola continuavano ad essere presenti numerosi missili nucleari statunitensi la cui presenza era regolata da accordi bilaterali coperti dal più rigoroso segreto15. Comunque, l’avvento del centrosinistra non introduce sostan15 L’accordo più significativo è quello del 20 ottobre 1954 denominato Bilateral Infrastructure Agreement (Bia). Esso regola le modalità di utilizzo delle basi e delle infrastrutture concesse in uso alle forze americane sul territorio nazionale. Viene definito «accordo ombrello» per il suo ampio spettro di applicabilità; ha un’elevata classifica di segretezza. Ad esso sono collegati un accordo tecnico aereo e un accordo tecnico navale.

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ziali novità nella impostazione e nella gestione della politica estera sempre ancorata all’atlantismo e all’europeismo. Amintore Fanfani, che aveva perseguito a lungo il disegno di guidare un governo di coalizione con i socialisti nenniani, al momento opportuno deve lasciare il timone del comando ad Aldo Moro, il fine mediatore che completa la sua scalata al potere dopo la conquista della segreteria democristiana. La guida della Farnesina (dove si è trasferito il ministero degli Esteri) viene affidata a Giuseppe Saragat, il leader socialdemocratico che rappresenta una garanzia per gli alleati, assicurando fedeltà allo schieramento atlantico e convinta adesione agli ideali europeistici, ancorché in un’ottica filo-britannica e anti-gollista. Alla vicepresidenza del Consiglio viene chiamato Pietro Nenni: un ritorno nella compagine governativa a sedici anni di distanza dalla breve permanenza alla guida del ministero degli Esteri nel gabinetto De Gasperi della fine del ’46. Da parte americana non mancano gli incoraggiamenti, anche concreti, al nuovo gruppo dirigente, all’indomani del drammatico cambio della guardia al vertice della Casa Bianca dopo l’assassinio di John Kennedy nel novembre del 1963. Il nuovo presidente, Lyndon Johnson, nella primavera del ’64 dà il via libera a un megaprestito di un miliardo di dollari al nostro paese che si aggiunge a un finanziamento di 225 milioni di dollari del Fondo monetario internazionale. Due significative boccate d’ossigeno e altrettante iniezioni di fiducia per un’economia – quella italiana – ormai uscita dal ciclo miracoloso del boom e alle prese con pesanti problemi congiunturali. Ma anche due cambiali che non mancheranno di condizionare le nostre scelte internazionali. Il filo diretto con Washington si salda, d’altra parte, con la politica europea del governo italiano sempre fortemente critica verso i progetti gollisti e incline, piuttosto, a sollecitare l’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune. Saragat ne è il principale fautore e spinge per una maggiore unione politica tra i «Sei» almeno fino a quando – nel dicembre del 1964 – non viene eletto presidente della Repubblica e cede il posto di ministro degli Esteri al redivivo Fanfani. In verità, il duello a distanza con de Gaulle non produce risultati esaltanti, soprattutto quando vengono al pettine i nodi della Politica agricola comune (Pac). La Francia, principale potenza

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agricola della Comunità, non vuole rinunciare a fare del Mercato comune un’area privilegiata per i propri prodotti e per i propri contadini. L’Italia è penalizzata dalle prime intese agricole ed è intenzionata a porvi rimedio con accordi più favorevoli. Il braccio di ferro tra Roma e Parigi s’intreccia con la proposta di «unione politica» avanzata da Saragat e con il tentativo della Commissione di Bruxelles, presieduta dal tedesco Walter Hallstein, di far approvare un progetto di revisione del regolamento finanziario del Fondo agricolo che prevede la creazione di «risorse proprie» per la Comunità e quindi un rafforzamento dei poteri della Commissione. Il piano si scontra fatalmente con la dottrina gollista contraria a qualsiasi principio di sovranazionalità. La reazione di de Gaulle è rapida e implacabile: il generale annuncia che, dal 1° luglio 1965, la Francia non avrebbe più partecipato alle riunioni comunitarie. È la «crisi della sedia vuota», la più grave nella storia della Comunità dopo la bocciatura della Ced, sulla cui dinamica esistono ancora oggi molte zone d’ombra16, che si conclude dopo qualche mese con il cosiddetto «compromesso di Lussemburgo». Ma a metà degli anni Sessanta un altro grande focolaio di crisi emerge sullo scenario internazionale ed è destinato a influenzare, in qualche misura, anche la politica estera italiana: il conflitto nel Sud-Est asiatico con l’intervento militare americano al fianco del regime di Saigon contro il movimento insurrezionale del Viet Minh e successivamente contro il Viet Nam del Nord appoggiato dalla Cina maoista e dall’Urss. Le reazioni italiane all’escalation della guerra in Viet Nam sono guardinghe. Moro si limita a esprimere «comprensione» per la posizione e le responsabilità degli Stati Uniti. Fanfani – che nel settembre del 1965 è stato eletto presidente dell’Assemblea generale dell’Onu – assume un atteggiamento ancora più cauto e promuove varie iniziative per proporre mediazioni (non richieste) e per cercare di ridimensionare la crisi nel Sud-Est asiatico anche allo scopo di evitare una diffusione dei sentimenti anti-americani nel 16 Sulla «crisi della sedia vuota» cfr. G. Mammarella, P. Cacace, Storia e politica dell’Unione europea. 1926-2005, Roma-Bari 2005, pp. 121-27. 17 Cfr. E. Caretto, Paolo VI disse no alle bombe sul Vietnam, in «Il Corriere della Sera», 22 agosto 2005.

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nostro paese. Mediazioni che s’intrecciano con i tentativi che, a partire dallo stesso periodo, verranno condotti da papa Paolo VI17. Alla fine del 1965 il sindaco di Firenze, La Pira, compie un viaggio ad Hanoi e incontra il presidente Ho Chi Minh. Al ritorno in patria scrive un messaggio a Fanfani al Palazzo di Vetro in cui annuncia che il leader nord-vietnamita è pronto a negoziare la pace. Fanfani scrive subito un messaggio a Johnson per avviare una trattativa, ma non fa in tempo a mettersi in azione che lo stesso La Pira gela tutti con un’intervista al settimanale di destra «Il Borghese» in cui attacca duramente gli americani, Moro e i socialisti. Gli elogi sono soltanto per Fanfani, definito «il de Gaulle italiano». Quando scopre che l’intervista è stata concessa da La Pira con i buoni uffici della moglie Bianca Rosa, Fanfani non può che prendere carta e penna e dimettersi dalla carica di ministro degli Esteri (il 28 dicembre 1965). La gaffe vietnamita si intreccia con un’altra polemica suscitata dal problema dell’ammissione della Cina popolare alle Nazioni Unite: la delegazione italiana, guidata da Giacinto Bosco, è soggetta agli impulsi contrastanti di Aldo Moro (contrario all’ammissione cinese, in sintonia con gli orientamenti di Washington) e di Pietro Nenni (favorevole), mentre Fanfani dalla poltrona presidenziale dell’Onu mantiene inizialmente un atteggiamento neutrale, ma poi deve smentire un’intervista al settimanale «L’Espresso» in cui gli vengono attribuite espressioni sostanzialmente favorevoli all’ammissione di Pechino all’Onu. Questa volta la lontananza di Fanfani dall’esecutivo dura soltanto tre mesi. Torna agli Esteri quando Moro costituisce il suo terzo ministero. Vi resterà sino al termine della legislatura, cioè al maggio 1968. Un periodo abbastanza lungo, se si considera la durata media dei governi della prima Repubblica, che consente al governo Moro-Fanfani di affrontare varie questioni internazionali. Un’azione efficace viene condotta dalla Farnesina in concomitanza con la recrudescenza del terrorismo in Alto Adige ad opera di gruppi armati legati alla Svp (Sud Tiroler Volkspartei, il partito della minoranza tedesca) in azione già dalla metà degli anni Cinquanta e si traduce in un veto opposto dal nostro governo alla richiesta di associazione dell’Austria alla Cee finché non sarà raggiunto un accordo per risolvere definitivamente la questione confinaria.

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Il primo impegno operativo per il governo di centrosinistra è costituito dalla crisi della Nato aperta dalla decisione di de Gaulle di far uscire la Francia dallo schieramento militare dell’Occidente; uno sganciamento che aggiunge argomenti alla posizione anti-gollista del nostro governo e consente di rinsaldare i rapporti con gli Stati Uniti. Sostanzialmente, la diarchia Moro-Fanfani o, meglio, SaragatFanfani funziona abbastanza bene e non produce gli sbandamenti del precedente periodo neo-atlantico. Certo: il leader politico aretino non rinuncia alle sue prese di posizione originali, sovente polemiche. Ad esempio, nell’aprile del 1967, Fanfani critica in un discorso al Senato i bombardamenti americani sul Viet Nam del Nord e auspica una loro sospensione («Confermerebbe a quanti ancora, a torto, restano increduli che il popolo e il governo americano vogliono sinceramente la pace»). Immediate le dimissioni per protesta dell’ambasciatore a Washington, Sergio Fenoaltea18. Ma se queste sono scaramucce – che non incidono nella sostanza dei rapporti con gli Stati Uniti – diverso è il discorso relativo all’atteggiamento del nostro ministro degli Esteri nell’area mediterranea, in occasione del conflitto arabo-israeliano del giugno 1967. In verità, dopo la scomparsa di Mattei, la politica estera italiana nel Mediterraneo aveva perso aggressività, ma gli interessi economici nei paesi arabi e soprattutto in Egitto erano assai rilevanti: oltre all’Eni, altre grandi società come l’Olivetti e la Fiat vi avevano investito ingenti capitali. Ecco, quindi, che all’indomani della «guerra dei sei giorni», mentre tutti i governi occidentali (a eccezione della Francia) si mostrano solidali con Israele, il nostro governo, attraverso Fanfani, si mostra più cauto, mantiene una posizione «equidistante» tra le ragioni dello Stato ebraico e quelle dei paesi arabi. Naturalmente, la linea di moderato filo-arabismo di Fanfani non è isolata: riflette visioni contrastanti che dividono e divideranno in avvenire il mondo politico italiano. Mentre infatti i partiti laici minori, una parte consistente della Dc e dei socialisti sono vicini alle tesi d’Israele, un’altra parte del mondo cattolico – incoraggiata dalle iniziative ecumeniche della Chiesa con il pontificato paoli18 M. Sica, Marigold non fiorì. Il contributo italiano alla pace in Vietnam, Firenze 1991, pp. 87-90.

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no – e degli stessi socialisti è più comprensiva nei confronti del mondo arabo e finisce per condividere le scelte del Partito comunista, attestato su posizioni di fedeltà alla politica del Cremlino. In questo periodo tocca soprattutto a Giuseppe Saragat dirimere i malintesi con Washington e ribadire le ragioni della cooperazione atlantica. A questo scopo risponde la missione che il capo dello Stato intraprende nel settembre del 1967 insieme a Fanfani. Ma sul tavolo c’è un altro argomento che rischia di creare dissapori e divergenze tra Roma e il principale alleato: le pressioni americane perché il nostro paese aderisca senza indugi al Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp). Si tratta – come è noto – di un patto leonino raggiunto da Stati Uniti, Urss e Gran Bretagna – ma osteggiato da Francia e Cina – che mira a consolidare lo status quo e a impedire che altri paesi possano dotarsi di armi atomiche. Dopo il fallimento dell’accordo tripartito del 1957-58 con Francia e Germania, l’Italia non nutre ambizioni nucleari; ma il nostro paese è in grado di costruire l’atomica e in ogni caso vuole adeguate garanzie sulla efficacia del Trattato di non proliferazione e sul sistema dei controlli. Saragat rinnova queste richieste a Johnson e in un successivo discorso a Melbourne, in Australia, afferma: «Noi italiani preferiamo costruire scuole, ospedali e case [...] ma volendo l’Italia sarebbe in grado di fabbricare rapidamente la bomba atomica»19. Parole destinate a suscitare polemiche, ma che non eviteranno l’adesione del nostro paese al trattato anti-H nel gennaio 1969; anche se passeranno poi ben sei anni prima della ratifica parlamentare20. Comunque, complessivamente, il bilancio del primo quinquennio di centrosinistra non registra un peggioramento nei rapporti con gli Stati Uniti. L’adesione al Patto atlantico resta salda e la nostra diplomazia rifugge dalle suggestioni golliste. Si attenuano le proiezioni verso l’autonomia mediterranea, ma manca una forte spinta ideale in coloro che sono delegati a programmare e a 19 P. Zullino, L’Italia è una potenza atomica? Non ancora, però, in «Epoca», 8 ottobre 1967, pp. 55 sgg. 20 Il Trattato di non proliferazione nucleare contiene una condizione, la cosiddetta «clausola europea» (ancora oggi in vigore), in virtù della quale la rinuncia dell’Italia a dotarsi di un armamento atomico svanirebbe se la Comunità europea decidesse di acquisire uno status nucleare.

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gestire la politica estera. Non si consolida una adeguata visione dell’interesse nazionale, l’incontro tra cattolici e socialisti si rivela alquanto deludente nei contenuti. Il contributo di idee e di proposte del Psu (Partito socialista unificato, risultante dalla fusione tra il Partito socialista e il Partito socialista democratico) è poco rilevante. Mancano iniziative e strategie tali da caratterizzare la presenza di una forza come quella socialista alla guida del paese e viene dimenticata persino la battaglia per l’applicazione dell’articolo 2 dell’Alleanza atlantica. Ma evidentemente un processo del genere avrebbe avuto bisogno di un’adeguata maturazione. I socialisti, invece, puntano le loro carte sui progetti di riforma interna, sul piano politico ed economico-sociale, nella speranza di modificare gli equilibri in seno alla sinistra e quindi di poter rappresentare, in prospettiva, un’alternativa di governo al blocco moderato guidato dalla Dc. Il periodo di recessione economica, i contrasti fra i partiti sui progetti di riforme, l’apertura di nuovi focolai di crisi internazionali costituiscono una miscela tale da vanificare gran parte dei disegni socialisti e contribuiscono a spiegare l’instabilità del periodo successivo sotto la spinta del «maggio francese» e della «primavera di Praga».

4. Un decennio di declino Nelle speranze dei fautori del centrosinistra le elezioni del maggio 1968 avrebbero dovuto dare una spinta poderosa alla coalizione premiando il polo moderato (guidato dalla Dc) e quello socialista del Psu e ridimensionando la presenza comunista. Invece il verdetto delle urne è una doccia fredda per i socialisti, che perdono quasi un quarto dell’elettorato che cinque anni prima aveva votato per i due partiti separatamente. La strategia unitaria, perseguita soprattutto da Nenni, entra in crisi e i contrasti in casa socialista (destinati a sfociare in una nuova scissione tra le due «anime» del partito) giocano un ruolo non indifferente nel logorare progressivamente la coalizione di governo che non regge alla durata della legislatura. All’instabilità di governo si aggiunge un’instabilità internazio-

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nale che, attraverso spinte contrastanti, coinvolge – nell’arco di un semestre – quasi tutti i paesi europei incidendo profondamente nel tessuto politico-sociale del continente: il «maggio francese» e l’«agosto cecoslovacco». Il primo è caratterizzato da un fenomeno di contestazione studentesca che supera i confini della Francia e si estende a macchia d’olio in altre nazioni europee (tra cui l’Italia), trasformandosi in movimento di rottura politico-sociale contro ogni ordine costituito; il secondo fa svanire qualsiasi illusione di palingenesi dei paesi dell’Est e seppellisce definitivamente le speranze di quanti – a cominciare dal generale de Gaulle – credevano possibile una modifica indolore della spartizione dell’Europa decisa a Jalta codificando, invece, la cosiddetta «dottrina della sovranità limitata» espressa dal successore di Kruscev, Leonid Brezˇnev, per legittimare l’invasione militare della Cecoslovacchia. Dopo una fase di decantazione, con il «governo balneare» presieduto da Giovanni Leone, democristiani e socialisti – in mancanza di alternative – sono costretti a riprendere la via della collaborazione con un governo organico di centrosinistra. Nel dicembre del 1968 la guida dell’esecutivo passa nelle mani di Mariano Rumor, leader cattolico veneto, abile manovratore tra le varie correnti democristiane ma poco pratico di questioni internazionali. Agli Esteri torna Pietro Nenni, ormai settantottenne, ma in piena salute e non disposto a svolgere un ruolo subalterno. L’esordio del nuovo governo non è dei più felici. Le contestazioni studentesche e sindacali non danno tregua. Nel febbraio del 1969 arriva a Roma Richard Nixon, appena eletto presidente degli Stati Uniti. Lo scopo è quello di consultare gli alleati della Nato e di riprendere il dialogo che si era diradato ed era diventato più difficile a causa del conflitto vietnamita. Ma le accoglienze sono burrascose; nelle piazze migliaia di giovani protestano contro la politica americana nel Viet Nam. Un’accoglienza che non manca d’impressionare negativamente l’allora consigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano, Henry Kissinger. In verità, Nenni non perde tempo. Alla guida della Farnesina cerca di spingere sui temi internazionali che stanno più a cuore a lui e al Partito socialista: stabilisce contatti riservati per arrivare al sospirato riconoscimento della Cina popolare (che peraltro verrà suggellato da Moro nel 1970); dà il via libera all’adesione italiana al Trattato di non proliferazione nucleare, mettendo fine alla

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«pausa di riflessione» decisa dal governo Leone in risposta all’invasione sovietica della Cecoslovacchia; si prodiga per avviare quei rapporti diretti con Tito sulla «questione giuliana» che non gli erano riusciti nel 1946; cerca (invano) di far accogliere dalla Nato la proposta sovietica per una conferenza europea sul disarmo. D’altra parte, il panorama europeo e internazionale non presenta sviluppi negativi. Anzi offre, almeno sulla carta, nuovi spazi all’iniziativa diplomatica italiana. In Francia, la protesta studentesca determina una serie di avvenimenti che, di lì a un anno, portano all’uscita di scena di Charles de Gaulle. Con l’elezione del suo successore, Georges Pompidou, cade il veto che aveva impedito l’adesione della Gran Bretagna nel Mercato comune. Nel dicembre del 1969, il vertice comunitario dell’Aja sancisce la svolta, aprendo le porte della Cee non solo alla Gran Bretagna, ma anche all’Irlanda, alla Danimarca e alla Norvegia (che successivamente respingerà con un referendum l’adesione). Quindi decide un rilancio della politica europea attraverso nuove forme di cooperazione in campo politico-monetario. In Germania, l’elezione di Willy Brandt alla cancelleria, alla guida di una coalizione tra i socialdemocratici e i liberali, mette fine definitivamente alle rigidità dell’era di Adenauer e apre una nuova stagione di dialogo, più pragmatica e conciliante, con l’Unione Sovietica e con il mondo dell’Est, soprattutto con l’«altra» Germania: è l’avvio della «Ostpolitik», destinata a modificare sensibilmente gli assetti politici continentali. Una politica che avrebbe aperto nuove opportunità agli scambi commerciali con il blocco orientale, di cui il nostro paese era stato, in qualche modo, antesignano con la missione del presidente del Praesidium del Soviet supremo, Nikolaj Podgornij, a Roma e a Torino (fine gennaio 1967), dove aveva visitato la Fiat e aveva suggellato il «contratto del secolo» tra la società automobilistica e il governo sovietico per la creazione di uno stabilimento a Togliattigrad. Questo scenario, sostanzialmente improntato a un rilancio della «distensione» e a un accantonamento delle asprezze del periodo gollista, si sarebbe ulteriormente rafforzato con le iniziative diplomatiche che, all’inizio degli anni Settanta, avrebbero contrassegnato la presidenza di Richard Nixon: il tentativo di sganciamento dal pantano vietnamita che sarebbe stato concluso nel 1973, l’apertura alla Cina comunista e l’avvio dei negoziati con

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l’Unione Sovietica per la limitazione degli armamenti strategici (Salt-1) in sintonia con le teorie di Henry Kissinger sul «bipolarismo militare» e sul «multilateralismo politico». Insomma: ci sono tutti gli ingredienti, tutte le condizioni perché la nostra diplomazia – che aveva puntato per anni sull’ingresso della Gran Bretagna nel Mec per bilanciare l’asse franco-tedesco – possa tirare un sospiro di sollievo, approfittare della situazione favorevole e quindi esercitare un ruolo più incisivo e propositivo a livello internazionale. Invece, accade esattamente il contrario. Dall’agosto 1969 – dopo il commiato definitivo di Nenni – alla guida della Farnesina torna Aldo Moro. Vi resterà fino al novembre 1974 – salvo una parentesi di Giuseppe Medici nel governo centrista presieduto da Giulio Andreotti (luglio 1972-luglio 1973). Quindi alla guida del ministero degli Esteri si susseguiranno: Mariano Rumor (novembre 1974-luglio 1976), Arnaldo Forlani (luglio 1976-agosto 1979) e Franco Maria Malfatti (agosto 1979-gennaio 1980). Una sequenza indicativa non solo del clima d’instabilità esistente in questi anni nel paese, ma anche e soprattutto del carattere marginale che la guida della politica estera riveste negli equilibri di potere. A differenza degli altri paesi europei, la responsabilità del ministero degli Esteri non è in questa fase particolarmente ambita dai leader politici nazionali, ma viene piuttosto considerata un’area di parcheggio in vista di incarichi più prestigiosi. D’altra parte, questo giudizio negativo si trasferisce anche alle cariche a livello europeo. Sono note le circostanze che inducono, nel marzo del 1972, l’allora presidente della Commissione di Bruxelles, Franco Maria Malfatti, a rassegnare inopinatamente le dimissioni dall’incarico per presentare la sua candidatura a un seggio parlamentare nelle elezioni anticipate italiane; una decisione poco avveduta che avrebbe pesato a lungo, come un macigno, sul nostro prestigio europeo. Insomma: proprio quando finalmente il centrosinistra potrebbe esprimere la sua forza propulsiva originale, subentra una fase di apatia e di stanchezza nella gestione della politica estera, determinata anche dall’inasprirsi delle tensioni interne e dall’inizio della lunga e oscura pagina del terrorismo con la strage di piazza Fontana del dicembre 1969. Ad aggravare la situazione si aggiungono anche le conflittualità politico-sociali di un paese in rapida trasformazione, dove gli

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scioperi investono la grande industria e le campagne sono progressivamente abbandonate. Gli indicatori economici raggiungono punte fortemente negative con il tasso d’inflazione a due cifre; e questa situazione si ripercuote negativamente sulla nostra partecipazione alle istituzioni comunitarie. Inizialmente, il governo centrista Andreotti-Malagodi cercava di mantenere il passo con i partner della Cee che, nel marzo del 1972, decidevano l’istituzione di un «serpente monetario» entro cui far fluttuare le rispettive valute nazionali per stabilizzare i cambi e per rispondere, in qualche modo, alla crisi internazionale aperta, nell’agosto del 1971, dal presidente Nixon con la clamorosa decisione di sospendere la convertibilità del dollaro in oro e di applicare una sovrattassa del 10 per cento sulle importazioni, che aveva inflitto un colpo mortale agli accordi di Bretton Woods stipulati nel 1944 dai rappresentanti di 45 paesi per creare un nuovo sistema monetario internazionale. Ma, nei primi mesi del ’73, la crisi monetaria internazionale non consente margini di manovra alla lira investita, al pari delle altre valute europee, da un’ondata speculativa. In breve, il governo è costretto a far uscire la nostra moneta dal «serpente», accettandone di fatto la svalutazione. L’Italia finisce sul banco degli imputati tra i partner comunitari, definita di volta in volta «anello debole» o «grande malata d’Europa» (definizione con cui veniva indicata la Turchia all’inizio del Novecento). Vi resterà a lungo, nel corso di un decennio destinato a segnare un palese declino e una grave marginalizzazione della nostra presenza internazionale. Va detto, tuttavia, che in questo periodo la politica atlantica non è messa in discussione; anzi – proprio durante il governo centrista di Andreotti (nel corso del 1972) – viene perfezionato un accordo segreto italo-statunitense per la concessione da parte del nostro governo di una base d’appoggio per i sommergibili nucleari americani nell’arcipelago della Maddalena, in Sardegna21. Quindi l’Italia continua a dare in pegno il proprio territorio al principale alleato e all’organizzazione di cui fa parte, consenten21 Gli americani ottengono di poter attraccare nella base una nave a propulsione nucleare, dotata di armamento missilistico atomico (la «Howard Gilmore»), chiamata anche «nave balia», la cui funzione era di approvvigionare i sottomarini nucleari d’attacco della Marina Usa, i cosiddetti «Hunter-killers».

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do un’occupazione che perpetua, in qualche modo, quella della seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti sono sempre il punto di riferimento principale per la nostra diplomazia; anche se con l’avvento di Aldo Moro alla Farnesina (e poi alla guida del governo) i rapporti diventano più complessi e difficili. L’alto esponente democristiano appare disincantato e pessimista sulla capacità degli Stati Uniti di mantenere la leadership occidentale. Moro è uomo dai ragionamenti sofisticati, dalle trame sottili. Troppo diverso dal suo principale interlocutore di questi anni: Henry Kissinger. La loro reciproca incompatibilità diventerà proverbiale e assumerà toni sempre più acuti, a mano a mano che i disegni politici di Moro verranno a maturazione e il potere di Kissinger aumenterà. Nel settembre del 1973 avviene il fatto nuovo, destinato a incidere profondamente non solo nei rapporti italo-americani, ma anche e soprattutto negli equilibri politici italiani. Nella scia del colpo di Stato militare che rovescia nel Cile il governo democratico di Salvador Allende, il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, pubblica su «Rinascita» tre saggi22 in cui definisce illusoria la prospettiva di un governo delle sinistre in Italia con una maggioranza del 51 per cento e propone un’intesa alla Democrazia cristiana. Non è una mossa inedita. La proposta berlingueriana di partecipazione al governo rinnova la tradizione delle iniziative di Togliatti a Salerno, dopo l’8 settembre ’43. Ma il contesto è diverso e le circostanze sono tali da conferire al «compromesso» (che ben presto si dirà «storico») offerto da Berlinguer il carattere di una svolta nella vita politica italiana, i cui riflessi internazionali diventano sempre più evidenti. Il principale destinatario e più interessato osservatore dell’apertura comunista è proprio Moro che estrae dal suo inesauribile vocabolario la formula della «strategia dell’attenzione» per definire l’atteggiamento che la Dc avrebbe dovuto tenere nei confronti del Pci. È evidente che questo cambiamento va di pari passo con il progressivo, inesorabile, logoramento del centrosinistra confermato, 22 E. Berlinguer, Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, in «Rinascita», 28 settembre, 5 e 12 ottobre 1973.

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d’altra parte, dai vari appuntamenti elettorali, che indicano una costante crescita di consensi del Pci proprio a scapito dei socialisti. Nel settembre del 1974, la «questione comunista» si propone apertamente durante la missione del presidente della Repubblica Leone e di Moro a Washington. Henry Kissinger, diventato segretario di Stato, espone senza peli sulla lingua il proprio pensiero nettamente contrario all’ipotesi di un ingresso del Pci nell’area governativa. Secondo alcune fonti, nel corso di un ricevimento all’ambasciata italiana, il professore di Harvard si sarebbe espresso in termini così duri e perentori nei confronti di Moro da provocargli una crisi nervosa. D’altra parte, Kissinger non fa mistero, nelle sue memorie, della propria avversione per Moro: «L’unica prova concreta del suo impegno fu la complessità bizantina della sua sintassi». E ancora: «L’influenza comunista era così forte, che l’acuto Moro aveva deciso di sfruttarla per togliere potere ai socialisti». Secondo la testimonianza dell’ambasciatore Roberto Ducci, allora direttore degli Affari politici della Farnesina, «c’era tra i due, sin dai primi incontri, una profonda incomunicabilità. Per Kissinger, Moro mirava a sganciare obiettivamente l’Italia dall’Alleanza atlantica attraverso sinuosi percorsi politici. Per Moro, Kissinger era l’espressione, forse non volontaria, dell’irresistibile egemonismo americano»23. Altri motivi d’incomprensione tra Roma e Washington – e più in generale tra Europa e Stati Uniti – si determinano in occasione della guerra dello Yom Kippur (ottobre 1973) con il conseguente shock dei prezzi petroliferi, che mette a dura prova la tenuta delle economie dei paesi occidentali e in particolare di quella italiana, per la verità già in condizioni precarie. L’embargo petrolifero deciso dagli Stati arabi aderenti al cartello dell’Opec (Organization of Petroleum Exporting Countries) per punire gli Stati occidentali sostenitori di Israele mette a nudo, ancora una volta, l’incapacità dei paesi della Cee di trovare una risposta comune. All’indomani del fallimento del vertice di Copenaghen (dicembre 1973) si delinea una contrapposizione fra l’atteggiamento della Francia, favorevole a un dialogo diretto euroarabo sugli approvvigionamenti petroliferi tale da scavalcare an23

R. Ducci, I Capintesta, Milano 1982, pp. 81-82.

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che le grandi compagnie americane e quello dell’Olanda, dichiaratamente filo-israeliano. Il nostro governo ondeggia, è titubante. Ma dietro le quinte, Moro cerca di ristabilire il dialogo con i paesi arabi, sviluppando la politica di cooperazione mediterranea. Così, all’inizio del 1974, mentre il titolare della Farnesina partecipa a Washington alla conferenza dei paesi più industrializzati, voluta da Nixon e da Kissinger per tentare una risposta unitaria alla sfida petrolifera, il nostro governo incoraggia contatti bilaterali per assicurarsi le forniture petrolifere. Di qui le accuse, peraltro non nuove, di doppiezza e di machiavellismo da parte americana. In realtà, i rincari dei prezzi del greggio imporranno a tutti i paesi europei una revisione strategica sugli approvvigionamenti d’energia alternativi o complementari a quelli petroliferi. La Francia svilupperà la via nucleare. L’Italia sceglierà la via del metano, intensificando i contatti con i paesi più ricchi di questo gas: l’Urss, la Libia e l’Algeria. Questo indirizzo – come vedremo più avanti – condizionerà anche le scelte di politica estera nel decennio successivo. Intanto, il governo è costretto a seguire le direttive americane perché è da lì che provengono – attraverso i canali del Fondo monetario internazionale – i prestiti che evitano la bancarotta dello Stato. A metà degli anni Settanta, il «declino italiano» è sempre più accentuato. Basti pensare che, nel giro di un anno, dal 1973 al 1974, il tasso d’inflazione passa dal 10,4 al 19,4 per cento. Le preoccupazioni degli alleati aumentano di pari passo con l’avanzata, apparentemente inarrestabile, del Pci nelle varie tornate elettorali fino al 34,4 per cento del 1976, quando un italiano su tre vota comunista. Nell’agosto del 1975 – durante una pausa dei lavori della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa in corso a Helsinki – il nuovo presidente francese, Valery Giscard d’Estaing, e il cancelliere tedesco, Helmut Schmidt, lanciano l’idea di un summit dei paesi industrializzati per affrontare le crisi dell’economia occidentale, a cominciare dalla sfida petrolifera. L’invito viene esteso al presidente americano Gerald R. Ford, al premier britannico Harold Wilson e a quello giapponese Takeo Miki. Il governo italiano, inizialmente, viene escluso. Era stato Giscard a depennarlo, ma poi è proprio Kissinger a insistere per aggiungere un posto al tavolo della convegno – che poi sarà aperto

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anche al Canada e denominato G7 – perché prevale il timore che quell’esclusione avrebbe costituito uno smacco troppo grosso per il nostro governo e avrebbe favorito ulteriormente l’avanzata del Partito comunista. In realtà le elezioni del giugno 1976 – anch’esse anticipate – non portano al temuto «sorpasso» del Pci rispetto alla Dc, ma confermano l’avanzata comunista. L’offensiva di Berlinguer per realizzare il «compromesso storico» si fa sempre più serrata. Il segretario del Pci rilascia un’intervista al «Corriere della Sera»24 in cui conferma l’«accettazione» della presenza italiana nella Nato, anche se in una visione difensiva. È un tentativo di ripetere, in qualche modo, il percorso compiuto da Nenni quando «accettò» la Nato nell’articolo di «Foreign Affairs» per superare i veti americani, anche se questa volta le cose andranno diversamente. Berlinguer, nello stesso tempo, sviluppa i rapporti con i segretari del Pc francese Georges Marchais e spagnolo, Santiago Carrillo, dando vita a quel fenomeno che sarà chiamato «eurocomunismo». Del «caso Italia» parlano, con toni allarmati, i leader dei paesi più industrializzati durante il convegno di Portorico; beninteso in assenza di Moro e di Rumor. L’accordo è drastico: chiudere i cordoni della borsa e non concedere ulteriori aiuti economici al nostro paese nel caso in cui i comunisti entrino nel governo. L’avvertimento, successivamente reso pubblico dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt, non rimane inascoltato. Giulio Andreotti vara il cosiddetto «monocolore delle astensioni»: un’abile escogitazione politica che, da una parte, soddisfa la richiesta del Pci di passare dall’opposizione a qualche forma di appoggio al governo e, dall’altra, rispetta le esigenze internazionali che sconsigliano l’ingresso dei comunisti nella compagine governativa. La posizione di Berlinguer non è esente da contraddizioni e ambiguità anche perché il cordone ombelicale del partito con l’Urss e con il modello che essa rappresenta non è assolutamente 24 Intervista a Enrico Berlinguer, in «Il Corriere della Sera», 15 giugno 1976. Alla domanda se il Patto atlantico può essere anche uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà, il segretario del Pci risponde: «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto atlantico anche per questo, e non solo perché una nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia».

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spezzato; e malgrado la crescente freddezza con i dirigenti del Cremlino, da Mosca continuano ad arrivare regolarmente alle Botteghe Oscure i fondi di cui il partito ha bisogno per condurre la sua attività. Tuttavia, in una prospettiva storica, sarebbe un grave errore sottovalutare il significato della «svolta» berlingueriana, soprattutto per quanto attiene alla totale e sincera conversione del partito agli ideali europeistici, confermata anche dall’adesione di personalità come Altiero Spinelli, eletto all’assemblea di Strasburgo come indipendente nelle liste del Pci. I dirigenti comunisti sperano, comunque, di poter coronare la loro marcia di avvicinamento al governo grazie a una maggiore disponibilità manifestata nei loro confronti – durante la campagna elettorale americana – dal candidato democratico Jimmy Carter. Invece si sbagliano. Una volta insediato alla Casa Bianca, nel gennaio del 1977, Carter assume una posizione non diversa dal suo predecessore Ford. Da parte sua, Andreotti vola negli Stati Uniti per rassicurare gli alleati sui limiti della collaborazione con i comunisti e per illustrare i miglioramenti degli indicatori economici, necessari per ottenere nuovi prestiti dal Fondo monetario. Ma la marcia del Pci sembra incontenibile. Nell’autunno del 1977, i partiti della «non sfiducia» (quindi anche i comunisti) votano un documento comune in Parlamento sulla politica estera del governo «che mantiene naturalmente i suoi capisaldi sull’Alleanza Atlantica e sulla Comunità europea». È una svolta perché essa inaugura una visione bipartisan della politica estera italiana che avvicina il nostro paese ai partner europei; per il Pci è un’abiura in piena regola, anche se è evidente che l’«accettazione» della Nato da parte comunista è tutt’altra cosa rispetto all’adesione dei partiti che si batterono per la nostra partecipazione al Patto atlantico. A Mosca, Berlinguer – durante le cerimonie per il sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre – ribadisce tutti i temi basilari dell’«eurocomunismo» e rinnova la richiesta di entrare nel 25 R.N. Gardner, Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma, 1977-1981, Milano 2004, pp. 189-222.

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governo. È il momento che sarà definito dello «strappo». Le relazioni tra il Pci e l’Unione Sovietica non saranno più le stesse. A questo punto, però, l’amministrazione Carter mette da parte ogni residuo riserbo e rende noto in modo formale il «no» a una partecipazione del Pci all’esecutivo25. Il significato del messaggio di Washington non lascia adito a dubbi. Al di là delle proteste per l’«ingerenza» statunitense – quel veto rappresenta obiettivamente una inaccettabile interferenza – tutti i partiti devono prendere atto del «chiarimento» americano, al quale non sono estranei motivi legati al peggioramento dei rapporti tra le due superpotenze (come la dura reazione di Brezˇnev alla campagna del neo-presidente americano in favore dei diritti umani). Berlinguer ridimensiona le richieste iniziali. Si accontenta di una partecipazione «contrattata, riconosciuta ed esplicita» del Pci nella maggioranza. Il ripiegamento consente ad Aldo Moro un nuovo compromesso «a tempo» (sarebbe scaduto a dicembre 1978, al momento dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica). Intanto sarebbe stato costituito un Andreotti-bis, con il Pci nella maggioranza. Ma la mattina del 16 marzo 1978 si consuma il dramma che fa saltare ogni scenario: Moro viene rapito e, dopo cinquantaquattro giorni di prigionia, assassinato dalle Brigate Rosse. È uno dei momenti più drammatici e bui della storia repubblicana. Ma lo Stato resiste. Il governo Andreotti s’insedia regolarmente (Forlani resta agli Esteri) e fronteggia la sfida brigatista. Il feroce assassinio di Aldo Moro e della sua scorta non ottiene l’effetto di sgretolare il sistema democratico, ma modifica sostanzialmente il corso degli eventi politici. L’accordo di «solidarietà nazionale» tra democristiani e comunisti è destinato a sopravvivere soltanto qualche mese e verrà sepolto dalle successive elezioni anticipate. Resisterà per qualche tempo il cosiddetto «consociativismo» inaugurato a metà degli anni Settanta, che lascia tracce nella politica interna con la spartizione dei posti di potere e nella politica estera con iniziative volte soprattutto a soddisfare le esigenze dei due attori principali e a consolidare le ragioni della loro collaborazione. In tale contesto si inserisce l’attivismo di Moro per favorire le trattative che avrebbero condotto alla conferenza paneuropea di Helsinki del 1975: un traguardo significativo sulla via della «di-

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stensione» tra Est e Ovest destinato a suggellare le conquiste territoriali dell’Urss in Europa, ma anche a richiamare in modo permanente i dirigenti sovietici ai loro impegni per la salvaguardia dei diritti umani. Quasi contestualmente, si conclude il lungo iter dell’approvazione del Trattato di non proliferazione nucleare ratificato a larga maggioranza dal Parlamento (con i voti favorevoli di Dc e Pci) malgrado le voci critiche di chi vorrebbe evitare la rinuncia definitiva del nostro paese a uno status nucleare26. Condizionate da ragioni di politica interna appaiono anche la decisione di dare via libera agli accordi di Osimo, nel 1975, che mettono fine al lungo contenzioso tra Italia e Jugoslavia e le iniziative nel Mediterraneo: mediazione nella crisi di Malta e apertura nei confronti dei paesi arabi in particolare verso l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Beninteso, il Trattato di Osimo non fa altro che ratificare le intese già raggiunte nel 1954 da Roma e Belgrado con il memorandum di Londra e comporta la rinuncia definitiva a qualsiasi nostra rivendicazione sui diritti delle popolazioni istriano-dalmate. Ma esso assume un carattere particolare perché vuole sottolineare l’attenzione del nostro governo verso il regime di Tito, campione del «non allineamento» e considerato in sintonia con le posizioni del Pci. Terzomondismo e desiderio della leadership democristiana di compiacere le sinistre contribuiscono a determinare anche le scelte filo-arabe della politica estera di questo periodo di cui, ancora una volta, Aldo Moro è uno dei principali attori. Particolarmente difficili sono i rapporti con Muammar Gheddafi, soprattutto dopo che – nel 1970 – il Colonnello di Tripoli aveva annunciato la confisca di tutti i beni dei 17.000 italiani residenti in Libia. Il titolare della Farnesina sceglie la via del negoziato discreto, fatto di concessioni e di repentini recuperi soprattutto in campo economico dove l’Eni – ancorché orfana di Mattei – ottiene una sostanziosa concessione economica da Gheddafi. Mentre, nel settembre del 1976, Giovanni Agnelli annuncia un accordo con lo stesso Gheddafi che acquisisce il 13 per cento del capitale della Fiat: accordo 26 Le voci critiche sono soprattutto quelle dell’allora segretario generale della Farnesina, Roberto Gaja, e del direttore degli Affari politici del ministero, Roberto Ducci. Cfr. Cacace, L’atomica europea cit., pp. 135-39.

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che suscita interrogativi e timori da parte di alcuni partiti – come quello di La Malfa – che parlano di «balcanizzazione» dell’Italia sottoposta alle bizze e ai possibili ricatti del regime di Tripoli. Prettamente politica è invece l’apertura nei confronti degli Stati arabi e soprattutto dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, presieduta da Yassir Arafat, malgrado le contiguità che, almeno in quel periodo, l’Olp mantiene con i gruppi terroristici. Ma il fronte interno favorevole a questa linea è molto ampio; va dal mondo cattolico alla sinistra e può contare – elemento certo non trascurabile – anche sulla benevola disposizione del Vaticano.

5. Europa: grande mito nazionale Alla fine del 1978 tornano al pettine i nodi europei. Il governo Andreotti – in verità già barcollante per l’insoddisfazione del Partito comunista – deve affrontare di nuovo la questione dell’adesione della lira a un meccanismo di controllo di fluttuazione delle varie monete europee. È il Sistema monetario europeo (Sme) messo a punto dai partner della Comunità nei vertici di Brema e di Bruxelles nei mesi precedenti. Per il nostro governo, che aveva dovuto precipitosamente ritirarsi dal «serpente» di cinque anni prima, il dilemma è molto semplice: aderire all’accordo e quindi subire le prevedibili conseguenze dell’asse preferenziale franco-tedesco oppure autocondannarsi all’isolamento con un «no» pregiudiziale alla partecipazione della lira al nuovo sistema. Andreotti sceglie la via mediana di un «sì» condizionato, chiede deroghe e avanza richieste supplementari ai partner europei. Ma questi – tranne la Gran Bretagna che subito si chiama fuori – decidono di andare avanti per proprio conto. A questo punto, il nostro governo – malgrado l’avviso contrario dell’allora governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi – decide di partecipare all’impresa. In un incontro a Siena con il cancelliere Schmidt, nel dicembre del 1978, Andreotti riesce a strappare una banda di oscillazione più ampia, dal 2,25 fino al 6 per cento, per la lira. Quindi affronta il voto parlamentare. Esso conforta la sua scelta e segna il ritorno del Partito comunista all’opposizione. Diventa inevitabile la crisi del

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governo di solidarietà nazionale che porta dritto alle elezioni anticipate e quindi al tramonto definitivo del «compromesso storico». È un momento decisivo per le sorti della Comunità europea poiché è proprio dal Sistema monetario che prenderà il via quel processo destinato a sfociare dopo un ventennio nell’Unione monetaria e nell’euro. Naturalmente, non mancheranno ostacoli e problemi, anche perché il nuovo sistema monetario susciterà allarme a Washington per il timore che esso possa mettere in discussione il ruolo internazionale del dollaro. Sul fronte interno, l’iniziativa di Andreotti si rivelerà saggia perché consentirà al paese di evitare il pericoloso isolamento in una fase di emergenza interna, dopo il delitto Moro, e di restare agganciato alla locomotiva comunitaria nel momento in cui essa riprende la corsa. Ma il «sì» italiano non è il frutto di un approfondito dibattito; è la felice intuizione di uno statista che per di più contraddice i consigli tecnici provenienti dal governatore della Banca centrale. Insomma – al di là dell’opportunità della nostra partecipazione allo Sme – si riproduce in questa occasione un meccanismo d’improvvisazione e di conoscenza approssimativa dei dossier che rappresenta uno dei difetti ricorrenti nella storia del nostro europeismo sin da quando De Gasperi e Sforza aderirono al Consiglio d’Europa non perché ne valutarono i vantaggi intrinseci, ma perché ritennero che ciò poteva facilitare, sul fronte interno, l’adesione al Patto atlantico. Per anni, d’altra parte, l’Europa non viene vista per quella che è e per ciò che può offrire. È considerata, piuttosto, una sorta di demiurgo, una panacea in grado di guarire tutti i mali italiani; a cominciare da quel peccato originale di cui l’establishment politico del dopoguerra dovrà fare ammenda: il nazionalismo, responsabile di una guerra perduta. L’Europa unita è spesso la confusa speranza del domani; nel senso che nel quadro di un’Europa unita e integrata possono sciogliersi le contraddizioni e le carenze della politica italiana, i conflitti tra i partiti e le tensioni tra le forze sociali. Ancora: l’Europa è sovente il pretesto per sfuggire ai nodi irrisolti della mancanza d’identità nazionale, o meglio è l’illusione di poter risolvere in un ambito più ampio, quello di una

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«identità europea» (peraltro tutta da costruire), il problema dell’identità nazionale non definita sin dai tempi del Risorgimento. Fiorisce, dunque, una retorica europeista che si alimenta di luoghi comuni, ma non si traduce in una adeguata conoscenza dei meccanismi comunitari né delle opportunità da essi offerte. Nessuno osa opporsi alle scelte europeiste per non apparire «provinciale», ma allo stesso tempo nessuno ha il coraggio di indicare i sacrifici e costi che tale scelta comporta e quindi di assumersene le responsabilità. Risalire alle cause di questa «mitizzazione» dell’Europa non è facile. È infatti un fenomeno trasversale che non risparmia alcun partito nazionale, è il frutto di una mancanza di riflessione sull’identità nazionale che spiega l’acriticità di giudizio nei confronti dei passaggi-chiave del processo comunitario in cui l’Italia è sempre stata in una posizione subordinata, priva di sostanziale autonomia, costretta a subire le scelte dell’asse franco-tedesco o le «non scelte» britanniche, quasi mai in grado di incidere con proposte originali. È un fenomeno profondamente radicato nell’opinione pubblica: nel referendum popolare del 1989 sui poteri del Parlamento europeo ci sarà un plebiscito di «sì» (l’88 per cento) a favore dell’attribuzione di poteri costituenti all’Assemblea, ma i successivi sondaggi demoscopici riveleranno che la maggior parte degli italiani conosce poco o niente delle istituzioni europee. Naturalmente, in tale contesto, non mancano le eccezioni, a livello individuale. Se a metà degli anni Cinquanta De Gasperi – anche lui diventato, suo malgrado, un «mito europeo» – aveva anticipato i tempi con le sue intuizioni federaliste che, peraltro, finirono per accelerare la caduta della Comunità europea di difesa, all’inizio degli anni Ottanta c’è un altro italiano a fare da sprone in tema di europeismo. È Altiero Spinelli, il fondatore del «club del Coccodrillo», il «partigiano europeo» (come egli stesso si definisce) che elabora insieme a 180 «eurodeputati» un progetto di trattato che prevede la nascita di un’Europa federale. Esso è perfettamente in sintonia con quel coraggioso manifesto concepito dallo stesso Spinelli – insieme a Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi – quarant’anni prima nell’esilio di Ventotene. È un progetto articolato e audace che prevede l’eliminazione di tutti i trattati esistenti i quali dovrebbero essere sostituiti da un nuovo patto con una struttura istituzionale eu-

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ropea plasmata secondo i canoni di una federazione. Si colloca nella scia di un altro progetto presentato dal ministro degli Esteri tedesco Hans D. Genscher e da quello italiano Emilio Colombo (un altro nostro connazionale che conosce a fondo i dossier europei) che purtroppo si era svuotato di contenuto durante il dibattito. Le idee di Spinelli fanno proseliti, avanzano in sede parlamentare, a Strasburgo, finché non incappano nello stop decisivo. Esso proviene, ancora una volta – come in tutti momenti cruciali per le sorti della Comunità – dalla Francia: non più rappresentata dalla voce perentoria di de Gaulle, bensì da quella più suadente, ma non meno determinata, di François Mitterrand. Da parte italiana, questa volta, si mostra una certa coerenza nel sostenere l’azione di Spinelli. S’inserisce in tale contesto il vento «eurodecisionista» della primavera 1985, quando il presidente del Consiglio, Bettino Craxi – come si vedrà più avanti – imporrà una votazione a maggioranza durante il Consiglio europeo di Milano per la convocazione di una conferenza intergovernativa dedicata alle riforme dei trattati. Lo stesso premier socialista manterrà per qualche mese una posizione rigorosa, volta a far approvare una riforma tale da tenere conto dei suggerimenti federalisti di Spinelli e da ampliare i poteri del Parlamento europeo. Ma sarà, ancora una volta, fuoco di paglia. O – se si preferisce – un’ennesima fuga in avanti. Di fronte all’irrigidimento del premier inglese Margaret Thatcher e alle riserve franco-tedesche, Craxi dovrà ripiegare su posizioni meno avanzate. Per segnalare la propria insoddisfazione ritarderà di qualche giorno la firma dell’Atto unico europeo (il 28 febbraio 1986) condizionandola all’esito del referendum svoltosi in Danimarca. Insomma: una fronda iniziata nel segno di un apparente, alto impegno federalista finirà a rimorchio di un voto espresso da un piccolo paese scandinavo. L’Europa prenderà altre vie, meno ambiziose. Ma i sintomi del malessere italiano, di questa sorta di «europeismo virtuale», non svaniscono. Al contrario, essi appaiono sempre più evidenti a mano a mano che il processo d’integrazione comunitaria raggiunge nuovi traguardi: a cominciare dall’Atto unico del 1986, voluto da Jacques Delors, che prevede la creazione di un grande mercato europeo entro il 1992. È un evento epocale per i paesi europei. Nessuno può più trin-

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cerarsi dietro le proprie barriere corporative, ciascuno deve conformare le proprie leggi a quelle degli altri paesi dell’Unione. È il momento in cui cominciano realmente a crollare i muri tra politica estera e politica interna delle nazioni continentali. Per l’Italia si tratta soprattutto di dovere adeguare le proprie politiche a quelle dei paesi-guida come la Francia e la Germania. Ma saranno pochi i governanti italiani che se ne renderanno conto e prenderanno le adeguate misure. Almeno fino a quando gli accordi di Maastricht non imporranno vincoli precisi.

6. Il risveglio: «euromissili» e forza di pace Le elezioni politiche del giugno 1979 – che precedevano di pochi giorni lo storico appuntamento della prima consultazione popolare per il Parlamento europeo – davano un verdetto chiaro e inequivoco: indicavano una netta flessione del Partito comunista e una sostanziale tenuta della Dc e del Partito socialista, guidato dal nuovo team dei «quarantenni» di Bettino Craxi. La conseguenza del voto era altrettanto chiara ed era destinata a riflettersi su tutta la durata della legislatura e oltre: il ritorno del Pci all’opposizione, l’abbandono della strategia del «compromesso storico» e la riformulazione – anche se attraverso fasi abbastanza tormentate e contraddittorie – di un progetto di «alternativa» di sinistra alla maggioranza moderata. Un altro effetto del responso elettorale era il ricompattamento delle forze cattoliche e di democrazia laica (con allargamento al Partito liberale) e in particolare una ritrovata collaborazione tra la Dc e il Psi, sia pure in un rapporto diverso rispetto a quello degli anni Sessanta. Sul piano della politica estera, tutto ciò si traduceva in una accentuazione della fedeltà della coalizione del pentapartito ai principi dell’atlantismo e dell’europeismo, nonché in un maggiore dinamismo su altri scacchieri come quello medio-orientale. Si assisteva, insomma, a una lenta ma progressiva ripresa dell’attività internazionale, a una maggiore assunzione di responsabilità nei confronti degli alleati e quindi anche a una revisione di alcuni giudizi da parte di costoro sulla nostra presunta inaffidabilità. Il primo appuntamento in cui si poteva sperimentare questo

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nuovo approccio era costituito dalla riunione del Consiglio atlantico di Bruxelles del 12 dicembre 1979. I ministri dell’Alleanza dovevano prendere finalmente una decisione sul piano di ammodernamento missilistico della Nato in Europa occidentale, reso indispensabile dal poderoso aumento del potenziale sovietico, rappresentato soprattutto dai missili nucleari a medio raggio SS-20. In apparenza, la scelta era obbligata. Ma le minacce, unite alle blandizie, del leader sovietico Brezˇnev che tendeva, ovviamente, a impedire il piano d’installazione dei missili Cruise e Pershing 2 in Europa – oltre alle incertezze nei rapporti euro-americani – introducevano non poche incognite alla vigilia della riunione atlantica. Invece, in quella sede, il comportamento del governo presieduto da Francesco Cossiga (nel quale Malfatti occupava la poltrona di ministro degli Esteri) era improntato alla massima fermezza. Il «sì» italiano alla doppia decisione, assunta nella riunione atlantica – via libera al programma di ammodernamento missilistico, che tra l’altro prevedeva l’installazione di 112 missili Cruise in Sicilia, ma al tempo stesso riaffermazione della volontà di negoziare con i paesi del Patto di Varsavia una riduzione degli armamenti nucleari in Europa – era privo di riserve ed era sostenuto da un voto del Parlamento, malgrado l’opposizione comunista. Se si considera che appena pochi mesi prima, al vertice occidentale di Guadalupa del gennaio del 1979, l’Italia non era stata nemmeno invitata e negli ambienti Nato si discuteva apertamente sulla possibilità di escludere il nostro paese dalle deliberazioni più delicate in tema di pianificazione nucleare (per effetto di un eventuale ingresso del Pci nel governo), il cambiamento di atmosfera era considerevole. A Guadalupa era stato proprio il cancelliere tedesco Schmidt, primo leader europeo a porre sul tappeto la questione degli «euromissili»27, a dire chiaramente che senza la partecipazione dell’Italia la Germania occidentale non avrebbe potuto aderire al piano missilistico della Nato. Sarebbe toccato poi al successivo governo presieduto da Giovanni Spadolini, nell’agosto del 1981, approvare la decisione di destinare l’aeroporto Magliocco di Comiso, in Sicilia, quale base 27

H. Schmidt, Uomini al potere, Milano 1987, p. 177.

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per i missili Cruise con i lanciatori assegnati all’Italia dal programma di ammodernamento Nato. Programma che sarebbe stato confermato dal presidente del Consiglio, Bettino Craxi, nell’agosto del 1983 – malgrado le massicce dimostrazioni pacifiste che avranno luogo in Italia e soprattutto negli altri paesi europei – e sarebbe diventato operativo nello stesso anno con lo schieramento dei missili a medio raggio completato in Italia, Germania federale, Gran Bretagna, Belgio e Paesi Bassi. Insomma: il «sì» italiano agli «euromissili» era il segno di un improvviso e salutare risveglio politico-diplomatico di un paese che sembrava finalmente uscito dalle nebbie di una crisi profonda in cui era precipitato nella lunga notte del terrorismo culminata con il delitto Moro, riscopriva il senso dell’interesse nazionale e ritrovava la via di una più convinta solidarietà atlantica. A questo cambiamento contribuivano vari fattori, non ultimo quello dell’assunzione di responsabilità istituzionali e governative di uomini come Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Giovanni Spadolini e Bettino Craxi, che rompevano gli schemi del tradizionale potere democristiano ovvero del «consociativismo» Dc-Pci. Ma il fattore principale, che favoriva e radicava il nuovo approccio, era costituito dal nuovo clima di tensione nei rapporti tra Est e Ovest. Per il presidente americano Jimmy Carter il 1979 era un anno di pesanti rovesci internazionali in cui si creavano le premesse per la mancata rielezione, alla fine dell’anno successivo, nella sfida con il candidato repubblicano Ronald Reagan. Una volta insediato alla Casa Bianca, Reagan denunciava con uno speciale rapporto denominato Soviet Military Power la presunta superiorità militare dell’Urss rispetto a quella statunitense e gettava le basi per un massiccio programma di riarmo. Al tempo stesso, però, il nuovo presidente – in linea con il tradizionale pragmatismo del Partito repubblicano – lanciava la proposta per l’avvio di una trattativa con l’Urss che egli stesso definiva Start (Strategic Armaments Reduction Talks) e formulava un piano di compromesso per le armi nucleari di teatro: la cosiddetta «opzione zero» che prevedeva la rinuncia americana al dispiegamento dei missili Cruise e Pershing 2 in cambio dello smantellamento di tutti i missili (SS-20, SS-4 e SS-5) sovietici. Mosca respingeva la proposta. Quando, nel novembre del

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1983, nove missili Pershing 2 venivano installati a Ramstein in territorio tedesco, al Cremlino scattava il massimo allarme. Jurij Andropov, subentrato a Leonid Brezˇnev nel 1982, era convinto che gli americani stessero preparando un attacco nucleare preventivo contro l’Urss. I suoi sospetti crescevano nel settembre del 1983, quando i caccia sovietici abbattevano in volo, sul Mar del Giappone, un jet di linea coreano «reo» di aver violato lo spazio aereo russo. Diventavano quasi parossistici quando – nel novembre del 1983 – i paesi della Nato davano il via a un’operazione denominata «Able Archer 83», volta a simulare un attacco nucleare. Secondo alcuni testimoni, in quei giorni il pianeta venne a trovarsi a un passo dal baratro di uno scontro nucleare28. Era la crisi più grave dopo quella di Cuba. Con una differenza sostanziale: questa volta erano ben pochi ad esserne a conoscenza. D’altra parte, i rapporti tra le due superpotenze erano già a un punto critico dal momento in cui – nel marzo del 1983 – Reagan lanciava a sorpresa il piano del cosiddetto «scudo spaziale» che – al di là della sua realizzabilità – metteva a dura prova le capacità di risposta sovietica e veniva considerato dal Cremlino come «un tentativo di disarmare l’Urss». In questo panorama di risorgente guerra fredda, contrassegnato dalla volontà dell’amministrazione Raegan di reagire alla sfida sovietica mostrando i muscoli, si comprende che i margini di autonomia degli alleati europei – tra cui l’Italia – diventavano più stretti. Tuttavia, l’atlantismo del nostro paese trovava forti punti di riferimento non solo nella presenza, in questi anni, di Emilio Colombo al timone della Farnesina, ma soprattutto nella guida del governo affidata nel giugno del 1981 dal presidente Pertini al leader repubblicano Giovanni Spadolini: il primo esponente non democristiano a ricoprire la carica di presidente del Consiglio dal tempo di Ferruccio Parri. Spadolini – come si è detto – dava seguito alla decisione della Nato di installare gli «euromissili» in Sicilia e quindi avallava la 28 C. Andrew, A. Gordievskij, KGB: The Inside Story of Its Foreign Operations from Lenin to Gorbaciov, New York 1990 (trad. it., La storia segreta del KGB, Milano 1991).

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proposta di Reagan della cosiddetta «opzione zero». Non condivideva, però, i toni da crociata dell’amministrazione statunitense nei confronti dell’Urss e soprattutto prendeva le distanze da Washington nella cosiddetta «guerra dell’acciaio» respingendo le richieste Usa di sanzioni economiche che contrastavano con gli interessi italiani per la costruzione del gasdotto siberiano, un progetto sovietico per la distribuzione del gas in Occidente, a cui vari paesi europei si erano impegnati a collaborare. In realtà, i problemi connessi agli approvvigionamenti energetici di gas diventeranno uno dei fattori-chiave della nostra politica estera e contribuiranno a spiegarne le scelte non solo nei confronti dell’Urss ma anche di alcune nazioni mediterranee come l’Algeria e la Libia (paese che proprio in questo periodo entrerà nel mirino di Reagan dopo lo scontro aereo tra jet americani e libici nel Golfo della Sirte). Nell’estate del 1982 – un anno dopo l’assassinio del presidente egiziano Anwar al-Sadat, principale artefice degli accordi araboisraeliani di Camp David – le turbolenze determinate dalla rivoluzione khomeinista che aveva deposto lo scià dell’Iran si facevano sentire pesantemente in Libano, dopo che l’esercito israeliano aveva oltrepassato il confine per eliminare dal territorio le basi dell’Olp. Gli Stati Uniti decidevano d’intervenire militarmente per favorire l’esodo dei palestinesi da Beirut e chiedevano alla Francia e all’Italia di partecipare a una «Forza multilaterale». Era un imprevisto quanto gradito riconoscimento per il nostro governo: il «sì» di Spadolini era immediato anche perché quasi tutte le forze politiche erano d’accordo. L’intervento dei bersaglieri del battaglione «Governolo» si articolava in due fasi: la prima nell’agosto del 1982 per rendere possibile l’esodo dei palestinesi assediati a Beirut dagli israeliani; la seconda nel settembre successivo per assicurare un minimo di sicurezza nella capitale libanese dopo i massacri nei campi palestinesi di Sabra e Chatila. La «forza di pace» italiana comandata dal generale Franco Angioni svolgeva con competenza e professionalità la missione, guadagnandosi il rispetto e l’apprezzamento degli altri contingenti. Era una prova importante per l’immagine del paese, un significativo riscatto per le nostre forze armate. La missione in Libano sarà seguita negli anni a venire da numerosi altri interventi dei nostri militari soprattutto in Medio Oriente; tutti vincolati dal loro

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esclusivo carattere umanitario in sintonia con quanto previsto dall’articolo 11 della Costituzione. In verità, il bilancio complessivo dell’operazione della «forza multilaterale» voluta dagli americani non era positivo. Nel 1984, di fronte alla sequenza di attentati e all’imperversare della guerra civile in Libano, Reagan ordinava il ritiro dei marines. Bettino Craxi, diventato presidente del Consiglio alla guida di una coalizione di pentapartito dopo le elezioni del giugno 1983, non aveva scelta e doveva fare altrettanto con il nostro contingente. Tuttavia, i dissensi tra il nuovo capo del governo e il capo della Casa Bianca non tardavano a manifestarsi proprio sul terreno medio-orientale. Craxi, coadiuvato da Giulio Andreotti come ministro degli Esteri, non faceva mistero della propria inclinazione più favorevole alle ragioni dell’Olp rispetto a quelle di Israele. La diplomazia italiana cercava di aggregare un polo moderato arabo favorevole a una soluzione negoziata del conflitto con gli israeliani29. In tale contesto scoppiava il «caso Sigonella», quando – nell’ottobre del 1985 – la nave da crociera italiana «Achille Lauro», durante la navigazione nel Mediterraneo, veniva sequestrata da un commando di quattro palestinesi. Questi ultimi assassinavano a sangue freddo un anziano passeggero americano di religione ebraica e accettavano di consegnarsi alle autorità egiziane in cambio dell’immunità, dopo che il nostro governo aveva chiesto una mediazione dell’Olp. Durante il viaggio che avrebbe condotto i terroristi al Cairo, l’aereo veniva intercettato da alcuni jet americani e costretto ad atterrare alla base siciliana di Sigonella. Lì i militari statunitensi erano convinti di poter mettere le mani sui terroristi e sul loro capo Abu Abbas, ma le autorità italiane ne impedivano la cattura, rivendicando la giurisdizione territoriale sulla base. A nulla valevano le pressioni esercitate direttamente da Rea29 Una forte spinta in questa direzione era stata data dalla «Dichiarazione di Venezia», approvata dal Consiglio europeo presieduto da Francesco Cossiga nel 1980. In questo documento si esprimeva l’urgente necessità di una soluzione globale del conflitto arabo-israeliano, ritenendo necessario – sulla base delle risoluzioni approvate dalle Nazioni Unite – il riconoscimento del diritto di tutti gli Stati della regione, compreso Israele, all’esistenza e alla sicurezza, nel mutuo rispetto del diritto dei popoli, compreso quello palestinese.

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gan su Craxi. Il capo del governo resisteva e rifiutava di consegnare il commando agli americani. Si apriva una crisi politica, ma venivano respinte le dimissioni del governo chieste dal Partito repubblicano. Il braccio di ferro di Sigonella suscitava aspre polemiche tra Roma e Washington; ma l’immagine di Craxi ne usciva sostanzialmente rafforzata perché la maggior parte dell’opinione pubblica apprezzava la decisione del capo del governo di difendere la sovranità e l’orgoglio nazionali. D’altra parte non mancavano, in questo periodo e sullo scacchiere mediterraneo, i motivi di contrasto tra i due paesi. Nel 1986, Reagan ordinava il bombardamento di Tripoli dopo un attentato di matrice libica in cui rimasero uccisi alcuni militari statunitensi a Berlino. Per rappresaglia, i libici lanciavano due missili contro Lampedusa che peraltro non provocavano danni. Malgrado le minacce di Gheddafi, la reazione del nostro governo era molto cauta. Prevalevano, ancora una volta, le ragioni economiche che spingevano a dover subire le intemperanze del leader libico per non pregiudicare le forniture di gas. Comunque, al di là di questi incidenti, l’avvento di Craxi – primo socialista a occupare la poltrona di capo del governo nella storia repubblicana – non determinava grossi problemi nei rapporti con un presidente conservatore come Reagan. Durante una missione a Washington, nel 1983, lo stesso Craxi ribadiva il proprio impegno per l’installazione dei missili Cruise in Italia, respingendo successivamente un messaggio di Andropov che minacciava una revisione dei rapporti italo-sovietici. Dove si manifestava con maggiore evidenza il decisionismo del leader socialista era sul terreno europeo. All’inizio del 1985 il panorama era di un’Europa in declino che cercava disperatamente di superare le sue contraddizioni interne, stremata dal lungo braccio di ferro tra il premier inglese Margaret Thatcher, che chiedeva di rinegoziare il contributo di Londra alla Cee e gli altri partner che resistevano. Le casse della Comunità erano quasi vuote perché il Parlamento di Strasburgo aveva respinto il bilancio e i nodi politici erano quasi tutti insoluti: a cominciare dai negoziati per l’allargamento della Cee alla Spagna e al Portogallo, usciti dal tunnel della dittatura. Poi, gradualmente, sotto la spinta della presidenza di turno ita-

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liana, il meccanismo comunitario tornava a rimettersi in movimento. Nel marzo del 1985 andavano in porto le trattative con Madrid e Lisbona grazie soprattutto alla sottile trama diplomatica tessuta dal ministro degli Esteri Andreotti. I temi istituzionali erano al centro del Consiglio europeo in programma al Castello sforzesco di Milano (28 giugno 1985) che concludeva il semestre di presidenza italiana. Sul tavolo dei leader europei figuravano numerosi progetti alcuni dei quali varati un anno prima al vertice di Fontainebleau: un «Libro bianco» per la realizzazione di un grande mercato comunitario entro il 1992 dovuto soprattutto all’inventiva del nuovo presidente della Commissione Jacques Delors e i rapporti (elaborati dagli eurodeputati John Dodge e Pietro Adonnino) che avanzavano due proposte: una per la riforma istituzionale e un’altra per rendere la Comunità «più vicina ai cittadini». Al vertice milanese il cancelliere tedesco Helmut Kohl e il presidente francese François Mitterrand presentavano un progetto comune ambizioso quanto elusivo, il premier inglese Margaret Thatcher avanzava, da parte sua, una proposta di pseudo-riforma, priva di valore vincolante. Durante i lavori, Craxi rompeva gli indugi e proponeva la convocazione di una conferenza intergovernativa che avrebbe dovuto predisporre un progetto di trattato sulla cooperazione tra i «Dodici» nel campo della sicurezza e della politica estera e mettere a punto un piano di riforma dei trattati esistenti. La Thatcher, il premier greco Andreas Papandreu e quello danese Paul Schlüter si opponevano. In base al «compromesso di Lussemburgo» del 1966 – secondo cui sulle questioni di rilievo i partner europei dovrebbero decidere all’unanimità – quel triplo «no» avrebbe dovuto bloccare la proposta. Invece Craxi chiedeva e otteneva che essa venisse messa ugualmente ai voti. Veniva approvata a maggioranza: sette a tre. Era la prima volta che avveniva una spaccatura del genere al vertice della Comunità. Se ci fosse stato de Gaulle al tavolo si sarebbe aperta una crisi irreversibile. La Thatcher faceva buon viso a cattivo gioco; anche se gli eventi successivi ridurranno notevolmente gli effetti della scossa «eurodecisionista» del nostro governo. Con l’entrata in vigore dell’Atto unico, nel luglio del 1987, si aprirà un nuovo capitolo nella storia della Comunità. Tra l’altro

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entrerà a far parte dei trattati il Fondo europeo di sviluppo regionale fino ad allora affidato ai regolamenti. Emergeranno in modo palese l’incapacità dei nostri governi di utilizzare gli stanziamenti della Comunità a vantaggio delle regioni meno sviluppate del Mezzogiorno e i ritardi del Parlamento nell’adeguare le normative nazionali alle direttive della Comunità. Su un piano più generale si ridimensioneranno le ambizioni e si restringeranno di nuovo i margini della nostra politica estera, rendendo evidente quel declino che sembrava momentaneamente superato. Ma i microcosmi nazionali saranno presto sconvolti da quel ciclone che si abbatterà in Europa con il 1989.

VIII LA TRANSIZIONE INCOMPIUTA (1989-2010)

1. Fine della prima Repubblica La svolta rappresentata dall’ascesa di Mikhail Gorbacˇëv alla guida del Cremlino, nel marzo del 1985, veniva accolta e considerata con particolare interesse e partecipazione dal mondo politico italiano. La perestrojka, cioè il disperato (quanto vano) tentativo di autoriforma dell’economia della superpotenza comunista, e la glasnost, cioè la volontà di introdurre maggiore trasparenza nello sclerotizzato sistema di potere sovietico, ricevevano forti incoraggiamenti perché esse corrispondevano alle attese e alle speranze di un ampio spettro di forze politiche ed economiche. C’erano i partiti di governo, a cominciare dalla Dc guidata da Ciriaco De Mita, che guardava con fiducia alle riforme avviate dal nuovo capo del Cremlino nella speranza che esse potessero allentare la tensione internazionale e quindi ripercuotersi positivamente sullo scenario politico italiano, consentendo al partito di maggioranza relativa di sottrarsi alla morsa della «coabitazione forzata» con i socialisti e di riaprire il dialogo con un Partito comunista tonificato. Molto più cauti, in verità, apparivano i socialisti, i quali, tutto sommato, non erano turbati più di tanto dalle difficoltà in cui si dibatteva la leadership sovietica nella misura in cui esse potevano accentuare la crisi dei compagni italiani e agevolare quel ribaltamento di forze in seno alla sinistra che restava l’obiettivo strategico di Craxi. Tuttavia, il segretario socialista era tra i primi a volare a Mosca, nel maggio del 1985, per incontrare il capo del Cremlino appena insediato.

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Per ragioni speculari i comunisti speravano, invece, che il «nuovo corso» sovietico potesse riaprire i giochi politici italiani immobilizzati dopo la fine del «compromesso storico», anche se non mancava all’interno del gruppo dirigente del partito chi dubitava della validità delle ricette gorbacioviane. C’erano poi gli operatori economici che speravano di poter trarre vantaggi e opportunità dalla «grande riforma» annunciata da Gorbacˇëv1. A Mosca, infine, guardava con attenzione la Chiesa cattolica poiché le aperture del cinquantaquattrenne capo del Cremlino lasciavano presagire rapporti meno conflittuali e maggiori spazi di libertà per i credenti nell’Unione Sovietica. Naturalmente, venivano seguite con speciale attenzione tutte le iniziative del segretario del Pcus volte a rimuovere le asprezze e le rigidità del periodo Andropov-Cˇernenko e a riprendere il filo del dialogo con l’Occidente. Gorbacˇëv si rendeva conto che per cercare di restituire un minimo di stabilità al sistema era indispensabile un rilancio della «distensione». Infatti, nel corso di vari summit con Ronald Reagan e con il suo successore George Bush, si sforzava di riportare un clima di fiducia e di relativa stabilità nei rapporti Est-Ovest. Ma non era sufficiente. Il capo del Cremlino era consapevole che l’Urss non era in grado di rispondere alla sfida americana dell’Sdi (Strategic Defence Initiative) con un analogo impegno economico e tecnologico. Quindi era necessario bloccare lo «scudo stellare» con un accordo più ampio riguardante tutti i settori delle armi nucleari. In tale contesto, nel 1987, veniva firmato da americani e sovietici un trattato per l’eliminazione di tutti i missili a medio raggio in Europa (Inf, Intermediate-Range Nuclear Forces) che riguardava da vicino anche il nostro paese poiché rendeva superflua l’installazione di quei missili Cruise a Comiso per i quali quattro anni prima c’era stato un durissimo confronto anche nelle piazze. In verità, quell’accordo – al di là del suo significato psicologico – non comportava alcun vantaggio per l’Italia. Al contrario, rappresentava un declassamento poiché la rimozione dei Cruise – come lo smantellamento dei missili Jupiter negli anni Sessanta – 1

S. Romano, Guida alla politica estera italiana, Milano 1993, pp. 199-200.

VIII. La transizione incompiuta (1989-2010)

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riduceva l’importanza strategica del nostro paese agli occhi degli alleati e soprattutto degli Stati Uniti. Anche le speranze che la diplomazia italiana nutriva per un rilancio della «distensione» andranno deluse perché Gorbacˇëv non riuscirà nella titanica impresa d’impedire il collasso dell’economia sovietica. La nostra politica estera perderà un punto di riferimento essenziale perché era stato proprio l’ondivago rapporto tra le due superpotenze ad aprire varchi e a favorire iniziative diplomatiche per quasi mezzo secolo, contribuendo a dare un volto e una qualche identità all’attività diplomatica. Va detto che nella seconda metà degli anni Ottanta venivano meno anche quelle spinte propulsive della nostra politica internazionale che avevano contrassegnato la prima metà del decennio. In seno alla coalizione del pentapartito si accentuavano i motivi d’attrito e di competizione tra De Mita e Craxi. Dopo le elezioni anticipate del giugno 1987 – in virtù degli accordi per la cosiddetta «staffetta» – si alternavano al governo tutti leader democristiani (Giovanni Goria, Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti). In verità, il bilancio del governo Craxi, il più longevo della prima Repubblica (1.047 giorni) non era stato negativo. Il tasso d’inflazione era sceso al 4,7 per cento e i conti delle industrie statali erano migliorati. Alla fine del 1986 lo stesso Craxi poteva annunciare trionfalmente l’avvenuto sorpasso della Gran Bretagna, avendo raggiunto l’Italia il quinto posto tra i paesi più industrializzati dell’Occidente. Il settimanale inglese «The Economist» non nascondeva il proprio stupore e – nel febbraio del 1988 – cercava di spiegare le ragioni del «sorpasso», che appariva clamoroso, ove si consideri il rapporto di forza tra i due paesi nell’immediato dopoguerra, e parlava di «nuovo Rinascimento italiano»2. C’erano dei dati reali alla base di quel recupero dell’economia apparentemente prodigioso. Ma c’era anche una realtà nascosta destinata a venire a galla di lì a poco, che legava la sopravvivenza e la stabilità dei governi a un aumento esponenziale della spesa pubblica. Il debito pubblico nel 1985 superava già il 90 per cento del prodotto in2 A Flawed Renaissance, supplemento a «The Economist» del 18 febbraio 1988. Vedi anche G. Mammarella, Z. Ciuffoletti, Il declino. Le origini storiche della crisi italiana, Milano 1996, pp. 234-40.

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terno lordo e le spese per gli interessi, dal 1982 al 1987, si erano raddoppiate. Insomma: quello italiano era un boom artificiale, che si alimentava almeno in parte con una dilatazione delle spese dello Stato (welfare e settore previdenziale-pensionistico) che trovava perfettamente consenzienti maggioranza e opposizione. Era stata innescata una bomba a orologeria e si stavano creando tutte le premesse per la successiva esplosione del sistema, che soltanto una riforma radicale – che peraltro nessuno era in condizione di promuovere – avrebbe potuto evitare. La politica estera era stata intaccata solo marginalmente dalla incipiente crisi del sistema, ma la sua gestione procedeva stancamente, senza guizzi di fantasia. Nel biennio 1987-89, era ancora affidata nelle mani esperte di Giulio Andreotti. Questi non modificava la posizione assunta, insieme a Craxi, sulla questione palestinese, ma si mostrava molto più tiepido quando – nel 1987 – gli Stati Uniti chiedevano alla Marina militare italiana di partecipare a una missione di sminamento e di tutela del traffico delle navi mercantili nel Golfo Persico, minacciato alla guerra Iraq-Iran. Sulla carta si poteva ripetere la felice esperienza dell’operazione della forza di pace in Libano. Nei fatti, quella missione navale, protrattasi per oltre un anno, non solo non dava alcun beneficio all’immagine del paese, ma si concludeva tra le polemiche interne. Né – di lì a qualche anno – un esito migliore avrebbe avuto la partecipazione delle nostre forze armate all’operazione «Desert Storm», decisa nel gennaio del 1991 dall’amministrazione Bush per rispondere all’invasione del Kuwait attuata nell’agosto precedente da Saddam Hussein. Il nostro paese decideva di partecipare al conflitto insieme agli alleati; ma si trattava di un intervento militarmente assai limitato e modesto rispetto a quello di altri paesi europei come la Francia e la Gran Bretagna. Inoltre le operazioni dei nostri aerei Tornado, uno dei quali veniva abbattuto dagli iracheni, riaccendevano la contrapposizione interna tra chi sosteneva la necessità dell’intervento e un ampio fronte pacifista – appoggiato dalla Chiesa – che si batteva per un immediato ritiro del nostro contingente. Giulio Andreotti era uno dei più convinti sostenitori di Mikhail Gorbacˇëv, probabilmente perché interprete dei sentimenti di

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larghi settori della curia vaticana. Nel 1989, il capo del Cremlino veniva in visita ufficiale a Roma, dove riceveva accoglienze quasi trionfali. Ribadiva i suoi appelli alla «casa comune europea». Contava soprattutto di ottenere un maggiore appoggio di Giovanni Paolo II alla causa della perestrojka. Ma il nostro governo non tardava a rendersi conto che le iniziative di Gorbacˇëv non solo non erano sufficienti per salvare il comunismo, ma anzi ne acceleravano la dissoluzione poiché esse – favorevoli a una maggiore liberalizzazione politica ed economica – davano in realtà ulteriore spazio alle forze che spingevano per radicali cambiamenti nell’impero dell’Est europeo. In Polonia, in Ungheria, nella Repubblica democratica tedesca, cominciava quella corsa convulsa verso la libertà che sarebbe culminata nel novembre del 1989 con la caduta del muro di Berlino e, due anni dopo, nell’agosto del 1991, con il tentativo di colpo di Stato a Mosca; tentativo che falliva, ma provocava la fine politica di Gorbacˇëv e l’avvento al potere di Boris Eltsin con l’epocale atto di morte del comunismo. Le tumultuose vicende internazionali non mancavano di ripercuotersi sullo scenario italiano, determinando un trauma profondo nei partiti, soprattutto nel Pci, che si ritrovava orfano di quella casa madre cui – nel bene e nel male – aveva fatto riferimento sin dal momento della sua fondazione. Tuttavia, la crisi italiana era più profonda, radicata, e in qualche modo prescindeva dal terremoto che investiva l’impero comunista. Come si è detto, era la crisi di un sistema politico che si era sclerotizzato nel segno di una partitocrazia onnivora, che aveva progressivamente rinunciato a qualsiasi disegno politico per perpetuare la propria sopravvivenza, alimentandosi con la corruzione e il clientelismo. Era una crisi trasversale che non risparmiava – salvo qualche eccezione – nessun partito o fazione politica poiché su di essa influiva le prassi del «consociativismo», anche se ovviamente quel fenomeno da cui nasceva Tangentopoli – la serie di denunce di corruzione che chiamava in giudizio l’intera classe politica – riguardava soprattutto le forze politiche di maggioranza e i gruppi economici ad essa collegati. Se il nostro paese fosse stato ancora sottoposto ai vincoli del bipolarismo e alle regole rigorose fissate a Jalta, probabilmente

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quell’involuzione partitocratica dell’inizio degli anni Novanta sarebbe stata metabolizzata, come altri fenomeni del genere avvenuti in periodi precedenti, e non sarebbe venuta a maturazione. Invece, il nuovo clima internazionale consentiva a tutti, soprattutto alla magistratura, spazi d’intervento fino ad allora inimmaginabili per denunciare il sistema di finanziamento illecito dei partiti e per colpire i responsabili, anche con discutibili procedure giudiziarie. Era la fine della prima Repubblica, la fine di un sistema che si era consolidato in quasi mezzo secolo ma che si sgretolava per autodissoluzione nella scia del grande sommovimento planetario provocato dal crollo del muro di Berlino. Per la politica estera italiana, a lungo vincolata dalle regole del bipolarismo americano-sovietico, si apriva una nuova era nel segno dell’incertezza. Proprio nel momento in cui era necessario far leva sui pilastri dell’identità nazionale per fronteggiare inediti scenari internazionali, crollava il sistema politico in un drammatico corto circuito con quello economico. Si aprivano, è vero, nuovi orizzonti in grado di impedire un declino altrimenti inesorabile. Si configuravano nuovi spazi d’intervento per la nostra presenza internazionale. Ma i contorni erano tutti da decifrare e da chiarire anche perché non mancavano gli errori di valutazione e i giudizi approssimativi sugli equilibri che stavano per determinarsi in Europa.

2. Il dopo guerra fredda Nessuno poteva coltivare soverchie illusioni sulla possibilità del nostro apparato diplomatico d’incidere più di tanto nella determinazione dell’assetto politico-territoriale europeo dopo che il crollo del muro di Berlino aveva messo in moto quella reazione a catena destinata a scuotere dalle fondamenta tutto l’Est europeo. La partita principale si svolgeva – né poteva essere altrimenti – tra Bush e Gorbacˇëv e poi tra Bush ed Eltsin, mentre sul versante europeo i due attori principali erano il cancelliere tedesco Kohl e il presidente francese Mitterrand. Quando il capo del governo tedesco comprese che era possi-

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bile realizzare il sogno della riunificazione tedesca, non perse tempo prezioso. Cercò di ottenere l’avallo dei partner europei per poi affrontare un Gorbacˇëv ormai vacillante e vincere le sue ultime resistenze. L’opposizione più ostinata veniva da Mitterrand, che non aveva mai fatto mistero della propria ostilità verso una Germania riunificata. D’altra parte, l’equilibrio geostrategico su cui era fondata la strategia francese della cosiddetta «interdipendenza dei blocchi» aveva come presupposto l’esistenza di una Germania divisa e quindi costretta a una posizione subalterna rispetto alla Francia. Fino all’ultimo, il capo dell’Eliseo cercava d’evitare quello sbocco temuto e sgradito. Poi, nei primi mesi del 1990, lo stesso Mitterrand faceva buon viso a cattivo gioco anche perché nel frattempo aveva preso peso e consistenza la contropartita che Kohl poneva sul tappeto in cambio del «sì» francese alla riunificazione: la rinuncia di Bonn al bene più prezioso, su cui aveva fondato il miracolo della ricostruzione post-bellica, cioè al marco, che sarebbe stato sacrificato sull’altare della costituenda moneta unica europea come pegno della futura volontà di pace della Germania unita. Mitterrand accettava il «grande baratto» e al quel punto si faceva paladino – insieme al cancelliere tedesco – di un’iniziativa congiunta per far avanzare oltre all’unione economica europea anche quella politica. Il nostro governo – presieduto da Giulio Andreotti – doveva, necessariamente, seguire da spettatore o quasi gli eventi che avrebbero portato di lì a poco alla riunificazione tedesca; eventi che, in qualche modo, lo avevano colto di sorpresa. Infatti, lo stesso presidente del Consiglio avrebbe dovuto dimenticare e far dimenticare una infelice battuta da lui pronunciata qualche tempo prima, quando aveva affermato che egli amava a tal punto la Germania da preferirne due anziché una. Naturalmente questo non significa che il nostro governo sia restato alla finestra, ad assistere passivamente alla nascita di una «nuova Europa». Nel secondo semestre del 1990 toccava all’Italia la presidenza di turno della Comunità ed erano in programma due importanti consigli europei che avrebbero dovuto avviare due conferenze intergovernative tra i «Dodici»: una sull’unione politica e un’altra sull’unione monetaria. La nostra diplomazia – alla guida della Farnesina dal 1989 c’e-

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ra Gianni De Michelis, volitivo ed estroverso esponente socialista, desideroso di imprimere una sua impronta personale alla gestione degli Affari esteri – poteva conseguire qualche risultato significativo sul dossier monetario. Infatti, con l’appoggio franco-tedesco, riuscì a coagulare un ampio consenso sull’avvio della seconda fase dell’Unione economica e monetaria che sarebbe iniziata il 1° gennaio 1994. Meno significativi furono i risultati conseguiti dalla nostra presidenza sul versante dell’unione politica. Il Consiglio europeo svoltosi a Roma il 14 dicembre 1990 non riusciva a produrre progressi rilevanti anche perché su questo terreno continuavano a pesare – anche se ancora per poco – i veti implacabili di Margaret Thatcher. Sul bilancio del semestre di presidenza italiana non mancavano le polemiche interne: i comunisti e in parte anche i socialisti accusavano il governo di non avere preparato adeguatamente i lavori e di non avere stabilito con chiarezza le priorità. Andreotti e De Michelis, invece, difendevano con energia il loro operato. In realtà, al di là delle volontà dei singoli governi, era il proliferare dei focolai di crisi internazionali che contribuiva indirettamente ad accelerare i tempi dell’integrazione tra i «Dodici». Subito dopo la conclusione della crisi nel Golfo e contestualmente all’accelerazione del processo di disgregazione dell’Unione Sovietica, esplodeva la crisi che avrebbe portato di lì a poco alla dissoluzione della Repubblica federale di Jugoslavia. Era, questo, un evento che scoppiava al nostro confine orientale, che toccava i nostri interessi vitali nella regione balcanica, anche perché – come è stato osservato nelle pagine precedenti – per molti anni il mantenimento di buoni rapporti con Tito era stato una sorta di fiore all’occhiello, un punto fermo della politica estera italiana in quanto rispondeva anche a esigenze di politica interna. Invece, nel momento in cui si trattava di assumere una posizione chiara, decisa, sull’assetto della Jugoslavia, orfana del suo «inventore», emergevano valutazioni approssimative e contraddittorie. Quando, nella primavera del 1991, la Slovenia e poi la Croazia manifestavano la loro volontà di separarsi dalla Serbia e si creavano le premesse per una sanguinosa guerra civile, il nostro governo non faceva mistero della propria contrarietà per un cambiamento dello status quo. De Michelis cercava di favorire una soluzione che salvaguar-

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dasse almeno il legame confederale tra Belgrado e le repubbliche secessioniste. In questo contesto – con la mediazione italiana e sotto gli auspici della Comunità europea – venivano sottoscritti gli accordi di Brioni nel luglio del 1991. Ma le speranze della nostra diplomazia erano destinate a svanire rapidamente. La Croazia e la Slovenia potevano contare sulla forza della Germania che ne appoggiava le spinte indipendentistiche. Anche sul fronte interno le posizioni non erano univoche: la linea filo-serba della Farnesina non era condivisa da una parte del mondo cattolico e soprattutto dal Vaticano, che guardava con simpatia alle due repubbliche desiderose di affrancarsi dal giogo nazional-comunista di Slobodan Milosˇevic´. Nel giro di qualche mese De Michelis doveva cambiare rotta. Accettava la prospettiva di un riconoscimento delle due repubbliche ex jugoslave. Ma non era sufficiente: il cancelliere Kohl bruciava tutti sul tempo avallando l’indipendenza di Slovenia e Croazia e procedendo al loro riconoscimento diplomatico. Per l’Italia era una perdita di posizione alle porte di casa, dovuta agli eccessivi ondeggiamenti di cui aveva approfittato la più scaltra diplomazia tedesca. Risultati non molto diversi venivano raggiunti in Albania, dove per decenni aveva dominato il più tirannico dei regimi comunisti europei: quello legato alla figura e della dittatura di Enver Hoxha. Dopo la sua scomparsa, il piccolo paese balcanico – ancorché costretto per decenni al più cupo isolamento – non sfuggiva alla resa dei conti. Si apriva una fase convulsa che portava migliaia di albanesi a fuggire a bordo di natanti di fortuna per raggiungere le coste pugliesi alla ricerca di migliori condizioni di vita. Inevitabile per le autorità italiane – anche per le responsabilità storiche nei confronti del «paese delle aquile» – un intervento volto a riportare un minimo d’ordine in Albania e quindi a bloccare l’insostenibile ondata migratoria. Partiva nel 1991 l’«operazione Pellicano» con l’invio di un contingente di mille uomini per portare in loco aiuti alimentari e materie prime per l’industria. Ma il governo non si limitava ad agire esclusivamente di rimessa di fronte ai grandi sommovimenti dell’atlante geopolitico dell’area balcanica. De Michelis, in particolare, operava tenendo ben presente la sua origine veneziana, che lo spingeva ad assumere iniziative volte a favorire lo sviluppo di porti come Venezia e

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Trieste. La sua era una visione prettamente mitteleuropea e in questo contesto andavano considerate le iniziative patrocinate dalla Farnesina a partire dal 1989: la creazione di un’associazione inizialmente definita «quadrangolare» (Italia, Austria, Jugoslavia e Ungheria) che successivamente diventava «pentagonale» (con la partecipazione della Cecoslovacchia) e infine «esagonale» (con l’ingresso della Polonia) per poi essere trasformata in Iniziativa centro-europea (Ince). L’iniziativa della «quadrangolare» non era di poco conto e suscitava qualche interesse3 poiché era la prima volta dal dopoguerra che l’Italia riconosceva di avere interessi in comune con un paese neutrale, uno non allineato e uno del Patto di Varsavia. L’obiettivo della nostra diplomazia era quello di creare un asse privilegiato con questi paesi europei per impedire che cadessero sotto l’influenza tedesca. Tuttavia la dissoluzione della Jugoslavia con la nascita di repubbliche autonome, ma in realtà condizionate dalla pesante presenza del capitale tedesco, vanificava anche questo progetto. 3. La svolta di Maastricht Nel frattempo, però, le trattative per definire tempi e modalità dell’Unione economica e monetaria procedevano alacremente. Si gettavano le basi per il nuovo trattato che sarebbe stato firmato a Maastricht, in Olanda, il 7 febbraio 1992, ma molti osservatori dubitavano che l’Italia potesse aderirvi, assumendo impegni così gravosi. Nel gennaio del 1992 il presidente della Commissione, Jacques Delors, si dichiarava preoccupato per lo stato dell’economia italiana e stigmatizzava le inadempienze e i ritardi del nostro ordinamento nel recepire le direttive comunitarie4. Non si escludevano 3 Cfr. E. Di Nolfo, Il quadrangolo mitteleuropeo, in «Relazioni internazionali», n. 9, marzo 1990, pp. 94-99. 4 Per la lettera di Delors ad Andreotti del gennaio 1992 cfr. M. Neri Gualdesi, La politica dell’integrazione e il dibattito sull’Unione europea, in Annuario Istituto Affari Internazionali, 1993, p. 116. La presidenza del Consiglio ribatte che i dati della Commissione sono parziali e comunque non tengono conto delle direttive europee approvate dal governo nella parte finale della legislatura.

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misure di salvaguardia anche di carattere sanzionatorio: ad esempio un rifiuto della Comunità di sopprimere i controlli alle frontiere italiane malgrado le scadenze previste dal Mercato unico. Invece nell’ora dell’appuntamento cruciale di Maastricht c’era puntualmente anche l’Italia. Andreotti e De Michelis – con l’apporto prezioso dell’allora ministro del Tesoro Guido Carli5 – accettavano tutti gli oneri rappresentati dai cosiddetti parametri di convergenza economica. Erano impegni apparentemente proibitivi. Basti pensare che nel 1991 il debito pubblico italiano aveva già raggiunto il 101 per cento del Pil, più del doppio di quello della Germania (46 per cento) e della Francia (47 per cento), e che dei cinque criteri fissati a Maastricht per poter aderire all’Unione economica e monetaria il nostro paese ne rispettava soltanto uno: quello del cambio (e dopo qualche anno neanche più quello a seguito delle ripetute svalutazioni della lira). Per Giulio Andreotti era, in qualche modo, una ripetizione dell’esperienza del 1978, quando il suo governo aderì al Sistema monetario europeo malgrado l’avviso contrario di molti esperti. Anche allora si era trattato di una scelta rischiosa, probabilmente avventata. Non si può escludere che nell’aderire al Trattato di Maastricht ci sia stata una valutazione non esaustiva dei sacrifici che tale decisione avrebbe comportato per il nostro paese. Ancora: che ci sia stata una componente di superficialità, ovvero la speranza di poter ottenere successivamente delle deroghe nell’applicazione degli accordi. Va detto, però, che i sondaggi demoscopici continuavano a segnalare una forte maggioranza di cittadini favorevoli al trattato (nel 1992 erano il 76 per cento degli intervistati) e ovviamente il governo doveva tenere conto di questo diffuso sentimento popolare. Insomma: è probabile che, ancora una volta, nell’orientare le nostre scelte abbia giocato un ruolo significativo quella inclinazione a «mitizzare» l’Europa, connotato permanente del nostro europeismo. Ma non c’è dubbio che al presidente del Consiglio e al governo da lui presieduto vada attribuito un merito storico soprattutto 5 G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, in collaborazione con P. Peluffo, Roma-Bari 1993, pp. 431-40.

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in considerazione della situazione di instabilità e di confusione interna in cui quella sofferta decisione veniva assunta. Qualcuno si domanda se l’adesione a Maastricht sia stato «l’ultimo atto della politica estera italiana» e osserva che comunque essa richiedeva al sistema politico italiano uno sforzo superiore alle sue capacità6. Sta di fatto che proprio da Maastricht cominciava la via crucis di un lungo e faticoso sforzo di recupero della credibilità finanziaria e della legittimazione politica nei confronti dei nostri partner europei, che avrebbe portato a un notevole risanamento dei conti pubblici e quindi all’adesione immediata all’euro. Toccava al governo presieduto da Giuliano Amato, dopo le elezioni del 1992, imboccare per primo la via impopolare ma necessaria del risanamento economico. Era una via particolarmente impervia perché era disseminata di ostacoli rappresentati dai veleni di Tangentopoli e dalla pioggia di avvisi di garanzia che investivano il mondo politico e affaristico. Basti pensare che quasi la metà dei membri del Parlamento fu oggetto di inchieste della magistratura, con vario esito. Cominciava un periodo di transizione traumatica che poteva condurre a qualsiasi sbocco. Per di più, un terremoto monetario si abbatteva sulle valute europee favorito dall’estrema debolezza del dollaro e soprattutto dall’eccessivo livello dei tassi d’interesse voluto dal governo tedesco per finanziare i costi colossali della riunificazione tedesca. La speculazione internazionale si concentrava sulle monete più deboli e soprattutto sulla lira costringendo il governo Amato a uscire dallo Sme e quindi a subire un deprezzamento della nostra moneta nell’ordine del 30 per cento rispetto alle principali valute. Alla fine della tempesta valutaria i conti erano salatissimi. Si calcolava che alcune decine di miliardi di dollari erano state bruciate dalla Banca d’Italia (e anche da quella d’Inghilterra) nella vana difesa dei cambi delle rispettive monete. Il Sistema monetario europeo aveva dimostrato tutta la sua debolezza e i rapporti tra i principali partner di quella che ormai era diventata l’Unione europea si erano inaspriti. Tuttavia, c’era anche un dato confortante: la forte svalutazione della lira migliorava la concorrenza dei nostri prodotti rispet6

Romano, Guida alla politica estera italiana cit., p. 211.

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to a quelli francesi e tedeschi e quindi aiutava le esportazioni; tale congiuntura – unita agli sforzi che il governo Amato e quello successivamente guidato dall’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi (nel 1993) intraprendevano per ridurre il tasso d’inflazione e il deficit di bilancio – migliorava progressivamente i conti pubblici e quindi l’immagine del nostro paese. Veniva scongiurato il collasso del sistema politico grazie anche all’esito del referendum popolare dell’aprile 1993, che imprimeva una forte spinta in direzione del maggioritario e del bipolarismo (con l’approvazione della doppia scheda per attribuire il 75 per cento dei seggi della Camera appunto con criterio maggioritario e il 25 per cento con quello proporzionale, nonché dello sbarramento del 4 per cento per le liste presenti nel proporzionale) e lo smantellamento del sistema partitocratico con l’abolizione del finanziamento pubblico. Era uno shock salutare che lasciava presagire un radicale rinnovamento nel sistema politico-istituzionale, anche se poi molte speranze riformiste andranno deluse. Tuttavia questo vento di cambiamento – unito al proliferare delle inchieste di «Mani pulite» – provocava la definitiva eclissi dei partiti politici tradizionali di cui beneficiava – nelle elezioni amministrative del novembredicembre 1993 – soprattutto il Partito comunista, diventato Pds, il quale poneva una forte ipoteca di successo sulle imminenti elezioni politiche anticipate. È a questo punto che si verificava un fatto nuovo e carico di conseguenze per la politica del paese: la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Per scongiurare il rischio di una vittoria delle sinistre, dopo aver invano sponsorizzato altre soluzioni per aggregare un polo moderato, il Cavaliere – magnate del tutto a digiuno di politica – fondava un suo partito, Forza Italia, e vinceva a sorpresa le elezioni del marzo 1994 alla guida di una coalizione di centrodestra con il Msi (diventato Alleanza nazionale), con la Lega e una parte degli ex democristiani. La permanenza di Berlusconi e del cosiddetto «Polo del buon governo» alla guida dell’esecutivo durava soltanto pochi mesi. Ma i suoi effetti non tardavano a manifestarsi soprattutto nel campo della politica estera, affidata a un professore di economia di estrazione liberale, Antonio Martino, figlio di uno dei protagonisti del rilancio europeo di Messina, il quale non faceva mistero del pro-

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prio scetticismo su alcune clausole basilari definite a Maastricht (come quella dei cambi fissi) e spingeva per una revisione degli accordi ratificati dal nostro Parlamento nell’ottobre del 19927. Va detto che, in questa fase, l’«euroscetticismo» non era una prerogativa italiana poiché anche in altri paesi europei, ad esempio in Francia, aumentavano le voci di coloro che sostenevano che a Maastricht ci si era spinti troppo in là nella cessione di sovranità e che erano necessario fare un passo indietro. D’altra parte, le tempeste valutarie non contribuivano a rasserenare l’atmosfera e a rendere più agevole e attraente il percorso dell’integrazione monetaria. Quella del primo governo Berlusconi era una breve e – tutto sommato – poco significativa esperienza di governo, destinata ad essere conclusa dal «ribaltone» deciso da Umberto Bossi che, nel dicembre del 1994, lasciava la maggioranza e il governo per dissensi con Berlusconi sul ruolo e sui programmi della Lega. Interveniva allora il presidente Oscar Luigi Scalfaro a pilotare la crisi. Invece di indire nuove elezioni, Scalfaro favoriva la formazione di un governo tecnico presieduto da Lamberto Dini con una nuova maggioranza parlamentare. Lo stesso Dini, poi, assumeva l’incarico di ministro degli Esteri nel successivo governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi, uscito vincitore dalle elezioni del maggio 1996, e avrebbe mantenuto l’incarico con i governi D’Alema e Amato sino alla fine della legislatura. Quindi la politica estera italiana per oltre un quinquennio era guidata da questo economista fiorentino che si era fatto le ossa nel Fondo monetario internazionale percorrendo nell’istituto tutta la carriera fino alla carica di condirettore centrale. Va detto che i temi economici erano al centro dell’attenzione dei vari governi non solo per la difficile congiuntura interna, ma soprattutto perché ci si rendeva conto che l’adesione al Trattato di Maastricht, con l’impegno a rispettarne le regole virtuose per poter entrare a far par7 Cfr. A. Martino, Fatti e cronache della politica estera italiana (maggio-dicembre 1994), Roma 1994. Sulla politica estera del primo governo Berlusconi cfr. S. Romano, La politica estera italiana: un bilancio e qualche prospettiva, in «il Mulino», gennaio-febbraio 1995, pp. 63 sgg.

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te del club della moneta unica, comportava scelte precise non più dilazionabili. Bisognava imboccare la via del risanamento dei conti pubblici e della riduzione del deficit, far capire finalmente agli italiani che gli obiettivi europei potevano essere raggiunti ma a prezzo di pesanti sacrifici e con una modifica strutturale del sistema che aveva determinato il dilagare della spesa. Su un piano più generale, con Maastricht, crollavano definitivamente i muri e gli steccati tra la politica interna, quella economica e quella estera, che s’intrecciavano in un unicum peraltro ancora da decifrare e da assimilare nella prassi dei governi. Era merito dei vari governi succedutisi dal 1992 (Amato, Ciampi e Dini), ma soprattutto di quello presieduto da Romano Prodi – con Carlo Azeglio Ciampi al timone del ministero dell’Economia – se veniva compreso il significato di questa sfida e se nel marzo del 1998 l’Italia veniva ammessa a far parte del gruppo dei paesi fondatori dell’euro. Basti pensare che le misure di risanamento consentivano di ridurre il deficit di bilancio che nel 1992 si aggirava intorno al 10 per cento del Pil ad appena il 3,2 del 1997; nello stesso periodo l’inflazione scendeva dall’8 per cento al 2,6 creando le condizioni per il rientro della lira nello Sme nel novembre del 1996. Beninteso: l’entrata nell’euro avveniva non senza difficoltà. Fino all’ultimo c’era chi cercava di bloccare la nostra adesione, ponendo interrogativi sull’affidabilità del «sistema Italia». Prodi e Ciampi dovevano prodigarsi in ogni modo per superare resistenze e obiezioni8. Ma alla fine la loro tenacia veniva premiata; anche se l’ingresso nel gruppo di testa della moneta unica non poteva essere considerato come un traguardo bensì come l’avvio di un più radicale e profondo processo di risanamento economico del paese. Comunque, la partecipazione all’Unione economica e mone8 Il 25 marzo 1998 viene dato a Bruxelles il via libera a undici nazioni dell’Unione europea, tra cui l’Italia, per entrare a far parte dell’Unione economica e monetaria. Ma dalla Germania viene esercitato un estremo tentativo di bloccare l’adesione italiana. Il ministro delle Finanze, Theo Weigel, e il governatore della Bundesbank, Hans Tietmeyer, chiedono impegni aggiuntivi per il nostro paese. L’Olanda pretenderebbe un piano di azzeramento del deficit. L’adesione dell’Italia all’Uem viene formalizzata il 1° maggio 1998.

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taria contribuiva a riportare il nostro paese in piena sintonia d’intenti con l’asse franco-tedesco mentre ci allontanava in qualche modo dalla Gran Bretagna che volontariamente si era esclusa dalla «zona euro». Inoltre – per la prima volta dal secondo dopoguerra – in una scelta cruciale l’Italia assumeva una posizione che non coincideva con gli interessi degli Stati Uniti, i quali non facevano mistero della loro contrarietà all’affermazione di una moneta di riserva come l’euro che, in prospettiva, avrebbe potuto mettere in discussione la signoria del dollaro sui mercati internazionali. Insomma, aumentava in modo consistente il nostro tasso di europeismo reale, non virtuale, anche perché nel 1997 l’Italia completava l’iter di ratifica del Trattato di Schengen che aboliva i controlli alle frontiere tra le nazioni firmatarie9.

4. Riscoperta dell’interesse nazionale? Anche su altri fronti si registravano i segni di un cambiamento e di una maggiore assunzione di responsabilità. Nella primavera del 1997 riesplodeva la polveriera albanese con rivolte, scontri politici, fuga di migliaia di clandestini. Toccava ancora una volta all’Italia assumere le dirette responsabilità della crisi e quindi mobilitare la comunità internazionale per riportare un minimo di pace e di ordine nella nazione balcanica. Sotto gli auspici delle Nazioni Unite prendeva il via l’«operazione Alba» in cui il nostro paese aveva la funzione di «nazione-guida» nell’ambito di una Forza multinazionale. Ma proprio la missione in Albania faceva registrare un fenomeno nuovo, mai verificatosi in siffatte proporzioni nel periodo della prima Repubblica, quando le coalizioni di governo erano ab9 Gli accordi di Schengen sono stati firmati il 14 giugno 1985 da Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. L’Italia è entrata a farvi parte nel marzo del 1998. Essi prevedono: 1) la possibilità per i cittadini degli Stati aderenti di attraversare liberamente i confini di uno Stato membro senza sottostare a controlli; 2) la collaborazione tra le forze di polizia degli Stati membri; 3) lo stretto coordinamento tra gli Stati membri per combattere la criminalità; 4) la creazione di un sistema di collegamento telematico per assicurare lo scambio d’informazioni tra le forze di polizia degli Stati aderenti.

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bastanza coese nelle scelte di politica internazionale perché condizionate dal codice rigoroso della guerra fredda: l’esistenza di una profonda spaccatura tra i principali partiti della maggioranza di centrosinistra che appoggiava Romano Prodi e il partito di Rifondazione comunista (legato all’Ulivo da un patto di desistenza) proprio sulle iniziative di politica estera. Nel dibattito parlamentare, Fausto Bertinotti votava contro l’invio delle forze in Albania accusando il governo di condurre un’operazione coloniale; ma la missione – e questo anche era un significativo fatto nuovo – riceveva il «via libera» dal Parlamento grazie ai voti decisivi dell’opposizione di centrodestra. Era questo un primo esempio di voto parlamentare bipartisan su una questione di politica estera nel dopo guerra fredda; un fenomeno che si sarebbe ripetuto altre volte nel corso della legislatura. Nel giugno del 1998, le divergenze tra Prodi e Bertinotti venivano clamorosamente alla luce quanto l’Italia era chiamata a ratificare l’accordo per l’allargamento della Nato all’Ungheria, alla Polonia e alla Repubblica ceca. Era una svolta nella storia cinquantennale dell’Alleanza poiché si aprivano le porte dell’organizzazione militare dell’Occidente proprio a quei paesi che fino a pochi anni prima rappresentavano il fronte nemico. Anche in questa occasione, Rifondazione comunista prendeva le distanze dal governo e si rifiutava di votare a favore della ratifica del protocollo dell’allargamento, che veniva approvato grazie ai voti dell’opposizione. I nodi tra Rifondazione (che subiva la scissione dei Comunisti italiani di Cossutta) e la sinistra di governo venivano di nuovo al pettine nel novembre del 1998, subito dopo l’insediamento del nuovo governo presieduto da Massimo D’Alema, con l’esplosione del caso di Abdullah Öcalan, quando il leader indipendentista curdo, super-ricercato dalla polizia turca, approdava a Fiumicino proveniente da Mosca senza passaporto e grazie all’appoggio di un deputato di Rifondazione. Ne scaturiva una crisi internazionale in cui D’Alema doveva fronteggiare le spinte esterne di chi – in primo luogo gli esponenti dell’amministrazione Clinton – lo esortava a non concedere asilo politico a Öcalan e a espellere dal paese lo sgradito ospite, e quelle interne dell’estrema sinistra che lo diffidavano in senso contrario. Per D’Alema era un battesimo di fuoco. Egli sapeva di non poter compiere passi falsi e di essere guardato con sospetto e diffidenza soprattutto a Washington, dove non si dimenticavano cer-

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to i veti dell’amministrazione Carter per la partecipazione del Pci al governo. L’avvento di un ex comunista al governo della Repubblica era davvero un evento storico in quanto rappresentava il coronamento di una «lunga marcia» che il partito di Togliatti e di Berlinguer aveva intrapreso sin dalla svolta di Salerno; un evento reso possibile dal fatto che non c’era più la longa manus sovietica a guidare le mosse dei comunisti italiani. Nel marzo del 1999, D’Alema doveva fronteggiare un’altra situazione critica sul versante della politica estera. Il premier era chiamato a dare il suo sostegno operativo alla guerra decisa dalla Nato per liberare gli albanesi del Kosovo dalla tirannia e dagli effetti devastanti della «pulizia etnica» decisa da Milosˇevic´. Era un test sulla capacità del nostro paese di giocare un ruolo significativo nell’area balcanica e di recuperare in qualche modo quell’identità di media potenza regionale che aveva avuto in passato. Era una scelta difficile, gravida di incognite per la sicurezza del paese anche perché le operazioni belliche si sarebbero svolte a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste orientali. Era la prima volta che l’Alleanza atlantica decideva di attuare un intervento militare fuori area, di natura offensiva, anche se sotto lo scudo protettivo della cosiddetta «ingerenza umanitaria». L’estrema sinistra, ma anche una parte dello schieramento cattolico, non faceva mistero della propria contrarietà a una presenza militare italiana al fianco dei partner della Nato. Prendeva consistenza quel fronte pacifista che si sarebbe consolidato dopo qualche anno in occasione della guerra dichiarata da George W. Bush contro Saddam Hussein. Ma, al momento della decisione, D’Alema assicurava il nostro appoggio e la nostra partecipazione alle operazioni belliche contro la Serbia, dopo aver dato il proprio consenso all’uso delle basi Nato in Italia senza passare neanche per un voto parlamentare. Era una scelta sofferta, quella del nuovo premier, su cui pesava certamente lo speciale stato d’animo in cui si trovava chi, proprio a causa della sua provenienza politica, «sapeva di dover passare gli esami di politica estera»10 e di dover dare conto di molte posizioni in cui il suo partito e lui personalmente si erano trovati 10

M. D’Alema, Kosovo, intervista a cura di F. Rampini, Milano 1999, p. 3.

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schierati non in linea con l’Occidente e soprattutto con gli Stati Uniti: a cominciare dalla guerra del Golfo del 1991. Non mancavano i momenti di tensione tra l’Italia e gli Stati Uniti soprattutto quando Washington chiedeva al nostro paese di aprire le porte ai rifugiati kosovari mentre il governo – proprio per evitare un assalto alle nostre coste – varava l’«operazione Arcobaleno» che prevedeva l’invio di un nuovo contingente in Albania per assistere i profughi provenienti dal Kosovo. O ancora: quando – dopo la tragedia della funivia del Cermis provocata da un apparecchio americano che ne tranciava i cavi volando a bassa quota e provocando la morte di venti persone – il nostro governo rendeva per la prima volta note le clausole dello Shell agreement del 1995 sulle norme che regolano le attività delle basi Usa in Italia e che sottraggono i militari americani, che si rendono colpevoli di crimini, alla nostra giustizia11. Ma, complessivamente, l’amministrazione Clinton non aveva particolari motivi di insoddisfazione nei confronti del nostro governo che, peraltro, usciva rafforzato anche a livello europeo dalla partecipazione alle operazioni militari in Jugoslavia. Non era un caso che, proprio mentre scattava l’intervento Nato anti-Milosˇevic´ (24 marzo 1999), il Consiglio europeo riunito a Berlino decideva di nominare Romano Prodi alla guida della Commissione europea. Una nomina che rappresentava un riconoscimento per l’Italia ed era anche un recupero di credibilità, che cancellava finalmente il precedente di Franco Maria Malfatti di ventisette anni prima. Qualcuno – commentando le scelte di politica estera di questo periodo – parlava di «riscoperta dell’interesse nazionale» e di fine dell’«anomalia italiana sulla scena internazionale [...] come frutto di una politica estera bipartisan»12. Si portavano ad esempio le iniziative di realpolitik della nostra diplomazia e in particolare di Dini nei confronti dell’Algeria, dell’Iran e della Libia co11 Lo Shell agreement, letteralmente «Accordo conchiglia», viene divulgato nel marzo del 1999. Esso risale al 1995 e sancisce i poteri del comandante italiano di una base situata nel nostro territorio e quelli del comando statunitense. L’intesa stabilisce che le installazioni sono poste sotto il comando italiano anche se il comando Usa «esercita il controllo pieno sul personale, l’equipaggiamento e le operazioni statunitensi». 12 M. Molinari, L’interesse nazionale. Dieci storie dell’Italia nel mondo, Roma-Bari 2000, p. VII.

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me dimostrazione della volontà di recuperare tradizionali spazi di autonomia nell’area del Mediterraneo13. Era un’affermazione, questa, non priva di verità anche perché emergeva finalmente e tra tante incertezze un embrione di visione bipartisan tra maggioranza e opposizione nelle scelte fondamentali di politica estera. Tuttavia la presunta riscoperta dell’identità nazionale si scontrava con il permanere di contraddizioni, di incertezze e di lacerazioni, che non mancavano di pesare nelle nostre scelte internazionali. Lo stesso intervento nella guerra in Kosovo avveniva tra ambiguità e polemiche. Per settantotto giorni, cioè sino alla fine delle ostilità nei Balcani, il governo fu sull’orlo della crisi perché i gruppi di estrema sinistra (Verdi, cossuttiani, sinistra Ds, Rifondazione) volevano bloccare i bombardamenti contro Milosˇevic´ appellandosi all’articolo 11 della Costituzione. Il ministro degli Esteri Dini doveva prodursi in equilibrismi e in una serie infinita di compromessi per barcamenarsi tra gli impegni militari e la spinta per una soluzione politica del conflitto. Un conflitto che si concludeva con la resa di Milosˇevic´ ma anche con una nuova constatazione della debolezza militare dei paesi dell’Unione europea, che non sarebbero stati in grado di aver ragione di un avversario certo non imbattibile senza l’intervento decisivo della superpotenza statunitense e che non avevano altra scelta che rafforzare la difesa comune attraverso nuovi accordi. Nel frattempo, proseguiva la marcia dell’euro secondo il calendario prestabilito e grazie al supporto del «Patto di stabilità e crescita», mentre prendevano consistenza i negoziati per l’allargamento dell’Unione europea ai paesi ex comunisti dell’Est. Negoziati che avrebbero richiesto una profonda revisione dei meccanismi istituzionali della Comunità. Toccava ancora una volta a Giuliano Amato (subentrato a D’Alema dopo la sconfitta del centrosinistra nelle regionali del 13 Lamberto Dini visita Teheran nel marzo del 1998 all’indomani della decisione dei «Quindici» di riprendere i rapporti con l’Iran. Il 23 luglio successivo arriva ad Algeri per rilanciare le relazioni con un paese grande fornitore di energia per l’Italia. Il viaggio in Libia avviene il 6 aprile 1999, quando Dini incontra Gheddafi sotto una tenda nel deserto del Fezzan, all’indomani della consegna da parte libica dei due terroristi accusati della strage di Lockerbie che induce l’Onu a sospendere le sanzioni nei confronti di Tripoli.

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2000) e a Lamberto Dini (rimasto alla guida degli Esteri) rappresentare gli interessi del paese in questo scorcio finale di legislatura. L’evento principale era la firma del Trattato di Nizza che prevedeva una serie di riforme proprio in vista dello storico allargamento a Est. Amato ne difendeva i risultati ed elogiava il ruolo della nostra diplomazia per migliorare il testo del trattato. Non c’era dubbio – occorre ripeterlo – che attraverso il percorso accidentato dei vari trattati europei (Maastricht, Amsterdam, Nizza) il nostro europeismo aveva acquisito un tasso di maggiore maturità e consapevolezza. Ma al di là di ciò e del valore dei singoli, il decennio della fine della guerra fredda (che coincideva anche con la fine del «secolo breve») si concludeva con un bilancio non troppo lusinghiero per il nostro paese sotto il profilo della politica estera. Non si era arrestato quel declino manifestatosi nei decenni precedenti: la fine della contrapposizione Est-Ovest aveva chiuso gran parte di quegli spazi di autonomia che la nostra diplomazia si era faticosamente ritagliata, ma non aveva aperto altre opzioni operative. L’Italia aveva perso definitivamente la sua posizione geopolitica di «territorio di frontiera» tra i due blocchi su cui aveva costruito la sua politica estera e di conseguenza era diminuito in modo consistente il suo peso specifico a livello internazionale. Si trovava in quello che è stato efficacemente definito «un limbo geopolitico»14. Il nuovo «ordine» internazionale tardava a manifestarsi, ogni equilibrio planetario ruotava intorno agli Stati Uniti, superpotenza solitaria, cominciava a prendere consistenza la piaga del terrorismo alimentata dal fondamentalismo islamico, il multilateralismo era in crisi profonda e le Nazioni Unite non erano più in grado di assicurare la loro funzione di garante della pace mondiale. Di fronte a questi sviluppi il nostro apparato diplomatico non sembrava in grado di definire le nuove priorità degli interessi nazionali proprio perché non era risolta la tradizionale carenza di identità nazionale e mancava la capacità di definire una politica estera «come una politica pubblica basata sull’interazione nazionale dei principi e degli interessi»15. Scaturiva l’immagine di un L. Caracciolo, E. Letta, Dialogo intorno all’Europa, Roma-Bari 2002, p. 17. C.M. Santoro, Politica estera e identità nazionale, in «Ideazione», n. 6, novembre-dicembre 2001. 14 15

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paese i cui meccanismi decisionali erano ancora troppo farraginosi per affrontare le sfide di un mondo globalizzato e alla ricerca di nuovi equilibri strategici.

5. Berlusconi e la politica estera Il devastante attacco terroristico alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 sconvolgeva i già precari equilibri del «dopo guerra fredda». Metteva a nudo la vulnerabilità della superpotenza americana di fronte alla minacciosa presenza di un nuovo attore della scena internazionale, lo sceicco Osama bin Laden, agente in nome e per conto del fondamentalismo islamico, le cui mosse subdole quanto imprevedibili costituivano una minaccia globale e rendevano indispensabile una risposta comune da parte delle nazioni occidentali su come fronteggiare le sfide della globalizzazione nonostante le divergenze emerse anche in occasione del G8, svoltosi nel luglio 2001 a Genova. I paesi alleati si stringevano compatti al fianco dell’America e al suo presidente sottoposti a una prova così difficile. Prendeva corpo la «grande coalizione», che lanciava una prima offensiva – denominata Enduring Freedom – contro il principale dei «santuari» di Al Qaeda, cioè il territorio dell’Afghanistan retto dal regime tirannico e oscurantista dei talebani, che veniva rapidamente spazzato via anche grazie alle iniziative delle forze afghane dell’Alleanza del Nord, la coalizione creata dal generale Ahmed Shah Massoud. Il terrorismo internazionale diventava il principale nemico da combattere e da battere. Per il nostro paese le sconvolgenti vicende dell’autunno 2001 segnavano – almeno nella fase iniziale – un consolidamento del fronte bipartisan in politica estera, già manifestatosi nella precedente legislatura. L’invio di un contingente italiano di circa 500 uomini in Afghanistan, su mandato Onu e a guida Nato, per aiutare le istituzioni di Kabul nell’opera di ricostruzione delle strutture socio-politiche del paese asiatico, era votato ad ampia maggioranza dal Parlamento. Da parte sua, Silvio Berlusconi – uscito vincitore dalle elezioni del maggio 2001 – non aveva alcuna difficoltà a rafforzare i vin-

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coli di amicizia e di solidarietà con l’America colpita dalla sfida terroristica, anche perché erano particolarmente stretti i rapporti personali ed era totale la sintonia politica del presidente del Consiglio con il presidente repubblicano, George W. Bush. Ma ben presto si comprendeva che – oltre alla solidarietà contingente nella lotta contro il terrorismo internazionale – l’avvento di Berlusconi a Palazzo Chigi comportava un cambiamento abbastanza netto degli orientamenti che avevano contrassegnato la politica estera italiana dal secondo dopoguerra in poi. Questa differenza non riguardava il cosiddetto pilastro atlantico, che non solo non subiva scossoni, ma anzi veniva consolidato dal governo di centrodestra, senza riserve o distinguo di sorta. Era soprattutto sul terreno europeo che il nuovo esecutivo assumeva una politica diversa, meno incline ad accettare le regole del metodo comunitario, più sensibile ai richiami di chi protestava contro le presunte prevaricazioni del «super-Stato» europeo e insofferente ai vincoli imposti dall’euro. Si trattava di un approccio graduale, che avveniva con molte cautele poiché lo stesso Berlusconi voleva evitare a tutti i costi effetti traumatici, suscettibili di isolare il suo governo sulla scena continentale. Proprio per tranquillizzare gli ambienti internazionali preoccupati dalla presenza nel governo di un partito (la Lega) che non faceva mistero di un accentuato «euroscetticismo», Berlusconi convinceva l’ambasciatore Renato Ruggiero, già direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e personalità assai conosciuta e stimata nelle cancellerie europee, ad assumere la responsabilità della Farnesina. Ma dopo qualche mese era proprio il «caso Ruggiero» a mettere a nudo, per la prima volta, la «diversità» berlusconiana rispetto ai precedenti governi, quando – nel gennaio del 2002 – il ministro degli Esteri si dimetteva dall’incarico per protestare contro la mancata partecipazione del nostro paese al progetto per la costruzione in scala dell’aereo da trasporto tattico europeo A400M16. 16 In verità, le divergenze riguardavano l’intera politica europea del governo. In un’intervista al «Corriere della Sera», 2 gennaio 2002, Ruggiero esprimeva «tristezza» per la «freddezza» dimostrata da alcuni membri dell’Esecutivo (Bossi e Tremonti) nei confronti dell’euro.

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In realtà, lo scontro su questo aereo prodotto dal Consorzio Airbus era più profondo, segnava il dissenso tra chi auspicava un processo d’integrazione industriale nel campo della difesa a livello europeo sotto l’egida franco-tedesca e chi, invece, puntava sempre ed esclusivamente sulla carta americana. Era un dissenso che riguardava la stessa natura di quell’«Identità di sicurezza e di difesa europea» che si cercava faticosamente di costruire per sopperire alla debolezza militare dell’Europa, manifestatasi soprattutto nei Balcani e su cui si appuntavano i sospetti e le diffidenze degli americani. Era un dissenso tra chi cercava di realizzare una forma di autonomia europea nella gestione delle crisi regionali con un’entità «separabile ma non separata» rispetto alla Nato e chi, invece, non defletteva dai principi di una dipendenza permanente ed esclusiva del vecchio continente dalla superpotenza americana. Comunque Berlusconi incassava senza serie conseguenze l’abbandono di Ruggiero, assumeva personalmente l’interim della Farnesina, che avrebbe mantenuto per dieci mesi passando quindi il testimone a Franco Frattini17. Ma anche Frattini non avrebbe retto a lungo le redini ministeriali poiché dopo due anni – nel novembre del 2004, dopo la sua nomina a commissario europeo al posto di Rocco Buttiglione – passava il testimone a Gianfranco Fini, che coronava una «lunga marcia» verso la legittimazione interna e internazionale del suo partito. Insomma: nell’arco di tre anni e mezzo la Farnesina cambiava quattro volte titolare, il che non contribuiva a dare stabilità e coesione alla nostra politica estera; né lo stesso apparato ministeriale restava indenne da questi continui cambi di direzione, ove si consideri che, durante la sua gestione interinale, Berlusconi preannunciava una profonda riforma delle strutture diplomatiche con l’avvento del cosiddetto ambasciatore-manager; riforma che Fini avrebbe rapidamente archiviato18. Progressivamente, la politica estera italiana si attestava su una posizione sempre più critica nei confronti dell’asse franco-tede17 Cfr. F. Frattini, Cambiamo rotta. La nuova politica estera dell’Italia, in collaborazione con C. Panella, Casale Monferrato 2004. 18 Berlusconi anticipa i lineamenti del «riorientamento» della Farnesina nel discorso pronunciato come ministro degli Esteri ad interim alla quarta conferenza degli ambasciatori italiani, il 24 luglio 2002.

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sco, su cui essa si era poggiata per molti anni, per cercare invece un rapporto privilegiato con la Gran Bretagna di Tony Blair, il cui disegno di un’Europa intesa soprattutto come una grande area di libero scambio poco si conciliava con i propositi di chi auspicava una maggiore integrazione politica dell’Unione. La politica europea filo-britannica di Berlusconi si saldava a un vincolo sempre più stretto nei confronti degli Stati Uniti, che emergeva in occasione dell’intervento militare americano contro Saddam Hussein, nel marzo del 2003, quando il presidente del Consiglio aderiva al cosiddetto «fronte dei volenterosi» (the coalition of willings) che appoggiava l’operazione anglo-americana e firmava un documento comune insieme al premier inglese Blair, a quello spagnolo José María Aznar, al portoghese José Manuel Durão Barroso, all’ungherese Péter Medgyessy, al polacco Leszek Miller, al danese Anders Fogh Rasmussen e al presidente ceco Václav Havel. In effetti, l’intervento armato deciso da Bush e da Blair contro Saddam, malgrado la mancanza di una legittimazione internazionale e l’assenza di prove inconfutabili sulle responsabilità dirette del dittatore iracheno nel possesso e nella proliferazione di armi di distruzione di massa, provocava una profonda spaccatura tra i paesi europei. La Francia tentava inutilmente d’impedire l’azione militare anglo-americana sostenendo – in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu – che sarebbe stata necessaria a tale scopo una nuova risoluzione del Palazzo di Vetro. Quindi il presidente francese Jacques Chirac e il cancelliere tedesco Gerhard Schröder assumevano una posizione fortemente critica nei confronti dell’intervento anglo-americano in Iraq. A Washington il capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, stigmatizzava tali critiche, parlando di posizioni espresse da una «vecchia Europa» ispirata dalle visioni e dagli interessi franco-tedeschi da porre in implicita, ma evidente, contrapposizione a una «nuova Europa», solidale con le scelte americane, di cui faceva parte l’Italia governata da Silvio Berlusconi. In realtà, l’obiettivo del capo del governo italiano era quello di fare del nostro paese il principale alleato dell’America in Europa (dopo, naturalmente, la Gran Bretagna) e di incassare i dividendi economici e strategici di una vittoria militare della coalizione anglo-americana contro l’Iraq che si sperava facile e rapida, in una regione d’importanza vitale per le risorse energetiche.

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Tuttavia, lo stesso Berlusconi non voleva o non poteva spingere fino alle estreme conseguenze la svolta filo-americana, anche perché le sue iniziative erano frenate dalle manifestazioni di una volontà popolare apertamente ostile all’intervento americano e dal presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, custode del dettato costituzionale che, all’articolo 11, impone forti limitazioni all’utilizzazione delle nostre forze armate per azioni belliche non fondate sulla legittima difesa. Infatti, nel corso di una riunione del Consiglio supremo di Difesa convocato al Quirinale nel marzo 2003 sotto la presidenza di Ciampi, venivano chiariti in modo inequivoco i termini della non belligeranza, cui si sarebbe dovuta attenere la missione italiana in Iraq, che sarebbe stata definita «Antica Babilonia» con la partecipazione di quasi 3.000 militari italiani, circa un terzo di tutti quelli impegnati all’estero in operazioni di pace19. Il contingente veniva dislocato a Nassiriya con il compito di contribuire alla ricostruzione materiale del paese. Purtroppo, la dichiarata non belligeranza non preservava i nostri militari dal rischio di attentati terroristici, che si concretava tragicamente nel novembre del 2003, quando un camion-bomba saltava in aria davanti al nostro quartier generale, provocando la morte di diciannove nostri connazionali, tra civili e militari. L’attentato di Nassiriya accentuava le polemiche tra chi, in seno all’opposizione di centrosinistra, sosteneva la necessità di un ritiro in tempi brevi del contingente poiché era venuto meno lo spirito di pace della missione e chi, all’interno della maggioranza, era convinto che l’operazione «Antica Babilonia» dovesse proseguire, malgrado i gravi rischi, per non tradire la fiducia degli al19 La non belligeranza italiana in Iraq è fissata dal comunicato del Consiglio supremo di difesa del 19 marzo 2003. Esso stabilisce: 1) l’esclusione della partecipazione ad azioni di guerra di militari italiani; 2) l’esclusione della fornitura e della messa a disposizione di armamenti e mezzi militari di qualsiasi tipo; 3) l’esclusione dell’uso di strutture militari quali basi d’attacco dirette a obiettivi iracheni; 4) la qualificazione della posizione italiana conformemente alle decisioni che precedono come non belligerante; 5) il mantenimento dell’uso delle basi per le esigenze di transito, di rifornimento e di manutenzione; 6) il rafforzamento degli apparati di protezione delle medesime. Cfr. N. Ronzitti, L’intervento in Iraq e il diritto internazionale, in L’Italia e la politica internazionale, a cura di A. Colombo e N. Ronzitti, Bologna 2004, pp. 72-74.

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leati e dei nuovi dirigenti iracheni. Svaniva, insomma, quel fronte bipartisan che si era consolidato alla fine degli anni Novanta e la contrapposizione tra le forze politiche in Parlamento diventava ancora più aspra quando bisognava votare il rifinanziamento della missione. Berlusconi difendeva l’operazione in Iraq rivendicando la coerenza del suo governo. Osservava: «L’Italia non è più il Paese degli opportunismi, della volatilità in politica estera e di difesa, il Paese delle retromarce precipitose»20. Ma lo stesso esecutivo doveva tenere conto dell’impopolarità dell’impegno militare in Iraq e sul finire del 2005 dava il «via libera» a una prima cospicua riduzione del contingente e a un suo ritiro completo entro il 2006. In realtà, gli indirizzi della coalizione di centrodestra sullo scenario internazionale erano spesso contraddittorii e riflettevano più i contrasti all’interno della maggioranza che le spinte per una reale innovazione. Ad esempio, in Medio Oriente, l’Italia sembrava aver smarrito quel ruolo di equilibrio e talvolta di mediazione tra Israele e i paesi arabi moderati che aveva mantenuto nei decenni precedenti per assumere una linea sempre più marcatamente filo-israeliana, tale da indurre il primo ministro Ariel Sharon a definire il nostro paese «il principale amico d’Israele in Europa»21. Ma ancora una volta era sullo scenario europeo – anche e non solo durante il semestre di presidenza italiana (luglio-dicembre 2003) – che venivano alla luce le incertezze e le riserve interne alla coalizione tra chi era favorevole a un’azione incisiva per un accordo sul nuovo trattato costituzionale dell’Unione europea e chi frenava, non risparmiando critiche alla cosiddetta «Europa dei tecnocrati». Incertezze e contrasti che si riflettevano su vari dossier, tra cui quello sul possibile ulteriore allargamento dell’Unione alla Turchia (con Forza Italia e An favorevoli e la Lega schierata su una posizione fortemente contraria) e quello sul mandato S. Berlusconi, Iraq, la mia linea, in «Il Foglio», 17 marzo 2005, p. 1. I rapporti tra i due governi sono rafforzati dalla presenza di Gianfranco Fini alla guida della Farnesina. Il leader di Alleanza nazionale – intenzionato a cancellare ogni possibile residuo sospetto di antisemitismo del suo partito – visita Israele per la prima volta nel novembre del 2003 come vicepresidente del Consiglio. Vi torna l’anno successivo, subito dopo la nomina a ministro degli Esteri, elogiando le iniziative di Sharon tra cui il contestato «muro» volto a separare israeliani e palestinesi. 20 21

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di cattura europeo, osteggiato dal ministro della giustizia, il leghista Roberto Castelli. Da parte sua, Berlusconi insisteva nel voler mantenere un rapporto speciale con il premier inglese Tony Blair, il quale tuttavia non esitava a partecipare ai vertici tripartiti con Chirac e con Schröder, ovvero ad autorizzare missioni internazionali (ad esempio in Iran) da cui l’Italia era sistematicamente esclusa. Si riproponeva, insomma, il rischio di un nostro isolamento diplomatico a livello europeo con il ritorno a una logica dei «direttorii» che veniva energicamente stigmatizzata dal presidente Ciampi22. Il capo dello Stato, invece, rivendicava un ruolo propositivo dei sei paesi fondatori della Comunità per rilanciare il negoziato sulla Costituzione europea soprattutto dopo la grave battuta d’arresto provocata dal doppio «no» alla ratifica del trattato costituzionale nei referendum svoltisi in Francia e in Olanda che metteva a rischio l’intero processo d’integrazione così come era stato concepito dagli anni Cinquanta. Berlusconi poteva opporre ai suoi critici l’obiezione che l’Italia non era venuta meno alla sua tradizione europeista, avendo il nostro Parlamento ratificato tra i primi il nuovo trattato costituzionale. Ma l’impressione complessiva – alla scadenza della legislatura – era quella di un paese che non aveva ancora ritrovato la bussola di una politica adeguata alle sfide del mondo post-bipolare. La transizione incompiuta politico-istituzionale si rifletteva sull’ideazione e sulla gestione di una politica estera che mancava delle risorse, degli strumenti operativi e delle strategie per consentire una presenza incisiva del nostro paese sullo scenario europeo e internazionale.

6. Il breve ritorno di Prodi Non si registrano apprezzabili cambiamenti nel corso della breve e tormentata stagione del nuovo governo presieduto da Romano Prodi, con Massimo D’Alema alla Farnesina, insediatosi nel 22 Colloquio con Ciampi sull’Europa, intervista del presidente della Repubblica con P. Cacace, in «Il Messaggero», 1° marzo 2004, p. 1.

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maggio del 2006 dopo la vittoria di stretta misura della coalizione di centrosinistra nelle elezioni politiche generali. Il tentativo del tandem Prodi-D’Alema è quello di segnare un momento di discontinuità rispetto alla stagione berlusconiana restituendo importanza al ruolo dell’Italia nei rapporti con le istituzioni multilaterali e – sul versante europeo – cercando di recuperare un migliore rapporto con la Francia e con la Germania anche in concomitanza con le battute d’arresto e gli insuccessi della politica dell’amministrazione Bush sui vari scacchieri internazionali e in particolare in Iraq. Ma i venti mesi di sopravvivenza del governo non producono risultati rilevanti anche perché è proprio la politica estera uno dei terreni in cui i nodi insanabili della conflittualità emergono tra la componente più moderata della coalizione e la sinistra radicale. Se infatti alla fine del 2006 Prodi poteva tracciare un consuntivo tutto sommato positivo e ottimistico della sua difficile leadership sottolineando che l’Italia aveva ottenuto un significativo riconoscimento internazionale grazie all’elezione nel Consiglio di sicurezza dell’Onu con una amplissima maggioranza, appena due mesi dopo lo stesso premier doveva prendere atto che il governo era stato battuto al Senato proprio su una mozione di politica estera riguardante il mantenimento delle nostre truppe in Afghanistan e la costruzione di una nuova, allargata, base americana a Vicenza. Il premier era costretto a dimettersi, ma riusciva a tamponare temporaneamente la falla riassorbendo i contrasti e ottenendo un voto di fiducia dalle Camere su un programma in 12 punti in cui, tra l’altro, veniva ribadito il rispetto degli impegni assunti dal nostro paese in sede Ue, Nato e Onu23. Tuttavia i dissidi all’interno di una coalizione che al Senato disponeva di un esiguo margine di maggioranza e sovente poteva salvarsi soltanto grazie all’apporto determinante dei senatori a vita, non tardavano a riesplodere costringendo Prodi a rassegnare definitivamente le dimissioni all’inizio del 2008. 23 Nel 2007, il governo Prodi riusciva a raggiungere risultati positivi nei settori in cui non era necessario mettere in campo risorse militari; ad esempio, nella battaglia diplomatica contro la pena di morte dove svolgeva un ruolo trainante per spingere l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ad approvare a maggioranza (104 sì, 54 no e 29 astensioni) la moratoria il 18 dicembre 2007.

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Tra i punti all’attivo della stagione prodiana andava annoverata senz’altro la partecipazione italiana alla missione «Unifil II» in Libano in conseguenza della decisione del Consiglio europeo di Bruxelles dell’agosto 2006 che – in applicazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu – aveva stabilito l’invio di 7000 militari dei paesi membri. La missione – denominata «Leonte» dall’antico nome del fiume libanese Litani che fissa una sorta di secondo confine a nord della «linea blu» che separa il Libano da Israele – aveva un obiettivo particolarmente delicato e difficile: contribuire al mantenimento della pace per consolidare il «cessate il fuoco» acquisito tra Israele e la parte più integralista del Libano, la regione nella quale la milizia degli Hezbollah, sostenuta militarmente da Siria e Iran, controllava il territorio e sostituiva di fatto il governo legittimo di Beirut. L’intervento faceva registrare un progressivo aumento del nostro contingente che avrebbe successivamente assunto il comando dell’intera operazione. La missione in Libano era quella in cui l’Italia dispiegava il maggior numero di militari se si eccettua la presenza delle forze armate nei Balcani occidentali, da sempre area di particolare attenzione per la vicinanza geografica e il ruolo strategico. Approvata dal governo di centrosinistra, la missione Unifil II sarebbe stata confermata anche dal successivo governo di centrodestra, in una visione sempre più bipartisan della politica estera nazionale. Per quanto riguarda la presenza in Afghanistan, conclusa nel dicembre 2006 la missione Enduring Freedom, il nostro paese s’impegnava in due operazioni distinte: quella Isaf (International Security Assistance Force) a guida Nato e dal giugno 2007 quella Eupol Afghanistan a guida Ue. La missione Isaf, considerata come la più rischiosa tra le numerose missioni all’estero, provocava un crescente numero di vittime tra i nostri 2160 soldati impegnati prevalentemente per compiti di controllo del territorio e di assistenza alle forze locali per l’addestramento, la ricostruzione e la stabilizzazione. Se i conflitti interni alla maggioranza di governo non producevano effetti sensibili nella condotta della missione in Libano, sull’Afghanistan i contraccolpi internazionali non mancavano. Significativa e fonte di aspre polemiche era, ad esempio, l’iniziativa

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diplomatica assunta dagli ambasciatori di sei paesi impegnati nella campagna afghana (Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada, Olanda e Romania) che indirizzavano una lettera aperta «ai cittadini e alle forze politiche italiane» che, pur partendo dall’apprezzamento per l’azione del nostro contingente nella provincia occidentale di Herat e nella zona di Kabul, manifestava il suo reale intento con un invito al governo italiano «a non deviare dalla via della fermezza e a proseguire con il suo valido contributo»24. Resa nota in concomitanza con le prime dimissioni (poi rientrate) del gabinetto Prodi, la lettera veniva considerata da molti osservatori come un’interferenza negli affari interni di un paese amico e alleato. Lo stesso ministro degli Esteri D’Alema non nascondeva la propria irritazione definendo la missiva «irrituale». Essa, comunque, era il segno eloquente della diffidenza e delle preoccupazioni che nelle capitali alleate suscitavano gli ondeggiamenti della nostra attività a livello internazionale.

7. Napolitano e l’Europa Se la politica estera del governo di centrosinistra manifestava limiti di incisività e di efficacia su vari versanti (non escluso quello mediorientale dove i tentativi di mediazione tra israeliani e palestinesi nonché gli sforzi per favorire una riconciliazione tra Hamas e al Fatah si rivelavano illusori e infruttuosi), sul terreno dell’integrazione europea si registrava un recupero di prestigio e di credibilità. Merito indiscutibile di questa inversione di tendenza, dopo le oscillazioni e le incertezze della stagione del centrodestra, spettava anche al nuovo presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: un europeista convinto, deciso a seguire e – se possibile a in24 Italia, restiamo uniti in Afghanistan in «La Repubblica», 3 febbraio 2007, p. 8. La situazione afghana si complica anche in seguito al sequestro da parte dei talebani del giornalista de «La Repubblica», Daniele Mastrogiacomo, in viaggio nel Sud del paese insieme all’autista e a un interprete. Mastrogiacomo viene rilasciato dopo due settimane di prigionia, in seguito a una trattativa condotta dall’Ong Emergency che porta alla liberazione di cinque talebani detenuti nelle carceri di Kabul. Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Olanda criticano la trattativa definendola un pericoloso precedente.

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crementare – la spinta verso l’Unione di un paese disorientato e deluso dall’impasse politica dopo la bocciatura del trattato costituzionale nei referendum francese ed olandese. In realtà, il 2007 registrava il risoluto tentativo dei «Ventisette» di uscire dalla paralisi attraverso l’approvazione di un accordo dagli obiettivi meno ambiziosi e dai contenuti più modesti, il trattato di Lisbona, che comunque avrebbe consentito alla locomotiva europea di ripartire25. Ebbene, tra i più convinti fautori di una rapida ratifica del trattato soprattutto da parte dei paesi che ne avevano bloccato la versione originaria c’era proprio il capo dello Stato. In perfetta sintonia con il pensiero del suo predecessore, Carlo Azeglio Ciampi, Napolitano non risparmiava sforzo e non tralasciava occasione per esercitare una meritoria azione di spinta e di impulso verso una maggiore integrazione europea; soprattutto nel campo della politica estera e della difesa e sicurezza comune, dove l’Unione sarebbe condannata a un inesorabile declino se non parlasse finalmente con una sola voce e non agisse come soggetto unitario nello scenario internazionale. Naturalmente Napolitano esercitava ogni sforzo per superare ogni residua riserva e arrivare il più presto possibile alla ratifica del trattato di Lisbona. E una volta raggiunto l’obiettivo – alla fine del 2009 dopo il risultato favorevole dell’ennesimo referendum irlandese – non mancava di indicare le strade di un possibile rafforzamento dell’integrazione da parte delle cosiddette «avanguardie» attraverso lo strumento delle «cooperazioni rafforzate» soprattutto nel campo della difesa comune dove il nuovo trattato indicava la via della «cooperazione strutturata permanente». Insomma, nel pensiero di Napolitano e di numerosi europeisti si faceva largo la convinzione che gli allargamenti che avevano portato l’Unione a ventisette con l’ingresso dei paesi ex comunisti dell’Est – ancorché indispensabili sul piano storico-politico – avevano reso la macchina europea difficilmente governabile. E che quindi fosse urgente adottare adeguate contromisure. 25 Il trattato di Lisbona, privo di qualsiasi riferimento alla Costituzione europea, modifica il trattato sull’Unione europea (Tue) e il trattato che istituisce la Comunità europea (Tce), che diventa trattato sul funzionamento dell’Unione europea, senza tuttavia sostituirli.

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Di qui la necessità di consentire a quegli Stati che volessero procedere più rapidamente degli altri lungo la via di integrazioni settoriali di farlo liberamente. Napolitano, a giusta ragione, pensava subito alla difesa europea, un settore cruciale per misurare le ambizioni dell’Unione insieme con quello dello politica estera comune. E sottolineava come una grande opportunità fosse offerta proprio dal trattato di Lisbona: «Può essere realizzata una cooperazione strutturata nel campo della difesa ed è necessario integrare i bilanci degli Stati membri. Ci sono clamorose duplicazioni e frammentazioni. Spero che l’Italia dia il suo contributo» osservava Napolitano26. Comunque, l’entrata in vigore del trattato di Lisbona consentiva all’Europa di acquisire gli strumenti e l’autorevolezza, nonché la personalità giuridica, per condurre trattative e per stipulare in prima persona le relative intese. Inoltre il trattato prevedeva la nomina di due nuove figure istituzionali per dare stabilità e coesione all’Ue: il presidente del Consiglio dell’Unione (in carica per due anni e mezzo, mandato rinnovabile) e l’Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza comune che avrebbe cumulato anche la carica di vicepresidente della Commissione Ue e sarebbe stato assistito da un corpo diplomatico indipendente da quelli nazionali. Erano due appuntamenti importanti che facevano registrare in una fase preliminare anche la candidatura di Massimo D’Alema per il ruolo di «Mister Pesc». Il governo Berlusconi si dichiarava pronto a sostenere il candidato dell’opposizione, ma l’ipotesi tramontava nel gioco dei veti contrapposti e delle trattative tra i «Ventisette» che portavano alla poltrona di presidente dell’Unione il belga Herman Van Rumpuy e alla carica di Alto rappresentante per la politica estera, l’ex presidente della Camera dei Lord, la laburista britannica Catherine Ashton. Tuttavia, il «caso D’Alema» – al di là del lodevole impegno bipartisan mostrato in questa occasione da esponenti di maggioranza e di opposizione – dimostrava ancora una volta la necessità di una strategia di ampio respiro da parte del nostro appa26 Intervento di Giorgio Napolitano alla cerimonia di inaugurazione della nuova sede degli Archivi storici dell’Unione europea a Firenze, il 17 dicembre 2009.

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rato politico-diplomatico per difendere con successo i propri candidati e non soccombere di fronte alle manovre dei partners europei.

8. Una storica intesa con la Libia Silvio Berlusconi, tornato al governo con un’ampia maggioranza alle elezioni dell’aprile 2008, si dedicava a una politica estera a tutto campo. Il Cavaliere, lo aveva già dimostrato in passato, credeva nella diplomazia personale e privilegiava gli incontri con i grandi e i meno grandi, protagonisti della scena internazionale. Iniziava la serie in agosto con la visita in Libia a Muammar Gheddafi durante la quale veniva firmato il documento per «un’intesa di portata storica». In effetti l’intesa lungamente preparata negli anni da un riavvicinamento tra i due paesi, costruito su solidi interessi economici, avrebbe permesso di voltare pagina rispetto al passato coloniale. A titolo di risarcimento per i danni morali e materiali dell’occupazione, il governo italiano si impegnava a pagare 5 miliardi di dollari in venticinque anni sotto forma di investimenti in opere strutturali, tra i quali un’autostrada litoranea dalla frontiera egiziana a quella tunisina attraverso tutta la lunghezza del territorio libico. Oltre all’autostrada e alla costruzione di 200 alloggi, la somma avrebbe coperto borse di studio per i giovani libici desiderosi di studiare in Italia e pensioni di invalidità per i mutilati, vittime delle mine anti-uomo poste dall’Italia sul territorio libico durante la seconda guerra mondiale. Difficile valutare la consistenza del prezzo per «chiudere definitivamente la pagina del passato» (Berlusconi) e per «aprire le porte a una futura cooperazione e partnership tra l’Italia e la Libia» (Gheddafi). Nel calcolo dei risarcimenti era mancata la valutazione dei beni che le migliaia di italiani, cacciati da Gheddafi nel 1970, avevano lasciato nel paese nord-africano. Ma il trattato guardava al futuro e oltre a confermare la Libia come uno dei nostri maggiori fornitori di gas e di petrolio, creava le condizioni per una presenza privilegiata dell’imprenditoria italiana in un paese che voleva crescere, modernizzarsi e aveva i mezzi per farlo.

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L’«accordo di amicizia e di cooperazione», denominazione ufficiale del trattato, prevedeva anche la piena collaborazione della Libia nel contrasto all’emigrazione clandestina che da anni portava sulle isole e sulle coste siciliane migliaia di profughi in fuga dagli Stati centro-africani sotto la spinta della fame e della violenza. Nelle dichiarazioni ufficiali il contrasto all’immigrazione diventa una battaglia comune a Italia e Libia «contro i commercianti di schiavi», battaglia che i due governi aveva deciso di intraprendere già con l’accordo firmato nel dicembre 2007 per il pattugliamento congiunto delle coste libiche. Nei mesi successivi all’accordo l’Italia aveva fornito alla Libia una serie di mezzi navali per la sorveglianza costiera e a partire dall’estate del 2009 la collaborazione tra i due paesi cominciava a dare i suoi risultati. Il flusso dei profughi verso le coste italiane diminuiva vistosamente, mentre si riempivano i centri di accoglienza (ma c’è chi parlerà di qualcosa di molto più simile ai campi di concentramento) in territorio libico, dove venivano ammassati i profughi in arrivo dopo le lunghe e difficili traversate del deserto centro-africano. A suggello dell’accordo veniva restituita alla Libia la Venere di Cirene nello stesso spirito in cui qualche tempo prima l’Italia aveva restituito all’Etiopia la stele di Axum27. 9. Obama e l’Afghanistan L’attività internazionale del premier italiano continuava a ritmi intensi con la partecipazione a incontri con governanti europei, resi sempre più frequenti dalla crisi finanziaria mondiale, nata in America ma diffusasi rapidamente anche in tutti i paesi europei coinvolti nelle speculazioni finanziarie sui subprime, i titoli 27 L’accordo di amicizia e cooperazione apriva la strada alla visita ufficiale in Italia di Gheddafi, che aveva luogo nel giugno 2009, movimentata dalla originalità del Colonnello dalle polemiche per le sue richieste e dalla contestazione studentesca, riequilibrata dalla calorosa accoglienza ricevuta nel corso della visita alla sede della Confindustria. Una successiva visita di Gheddafi a Roma avveniva nel novembre dello stesso anno in qualità di presidente dell’Unione africana, alla conferenza della Fao, e anche questa volta il Colonnello non mancherà di stupire per le sue trovate.

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ad alto rischio creditizio messi in circolazione dalle banche americane. L’elezione del nuovo presidente americano Barack Obama, avvenuta il 4 novembre 2008, induceva il governo a concentrare tutta l’attenzione sui rapporti con gli Stati Uniti. Già dalle prime settimane della nuova amministrazione, diventata operativa il 20 gennaio 2009, emergevano nei discorsi e nelle dichiarazioni del presidente e del suo segretario di Stato, Hillary Clinton, le linee di una politica estera fortemente innovativa rispetto a quella dell’amministrazione precedente. Obama apriva al mondo arabo, all’Iran, alla Corea del Nord, alla Cina, alla Russia e persino alla Cuba di Castro. Alla «politica imperiale» della presidenza Bush, si sostituiva l’impegno per un nuovo multilateralismo. Obama cercava di riproporre l’immagine di un’America che non rinunciando alla leadership politica, forte di quella militare, cercava di recuperare il credito e l’influenza perduti negli anni dell’avventura irakena. Obama, che doveva la sua notorietà anche all’opposizione a quella guerra, ribadiva tuttavia l’intenzione degli Stati Uniti di continuare l’impegno in Afghanistan contro i talebani fino alla sua naturale conclusione. Tuttavia essa appariva lontana e indefinita, soprattutto quando risultò evidente che la situazione afgana era legata a filo doppio alle condizioni e alle politiche di un Pakistan in serie difficoltà, da sempre preoccupato alle sorti dell’Afghanistan, sia per affinità di religione e di cultura sia per il timore dell’influenza indiana nell’area. La naturale conclusione dell’impegno occidentale in Afghanistan non poteva essere che la preparazione di un governo legittimato da libere elezioni e da un esercito e da una forza di polizia che fossero in grado di sostenerlo, ma la corruzione della classe politica raccolta attorno ad Hamid Karzai e la mancanza di una volontà autentica a rinnovare il paese rendeva l’impresa incerta ed estremamente dispendiosa. L’Italia, quale membro della Nato, impegnata nella sua prima esperienza out of area in esecuzione di una politica bipartisan, sostenuta sia dal precedente governo Prodi e dopo il ritorno al governo di Berlusconi dall’opposizione di centrosinistra, era in Afghanistan con 2800 uomini divisi tra Kabul e la provincia occidentale di Herat. La missione dei nostri soldati da peace-keeping si stava trasformando in peace-enforcing e davanti all’inasprirsi del

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conflitto sembrava destinata a una partecipazione sempre più diretta alle operazioni sul campo in cui erano primariamente impegnate le forze americane e quelle britanniche. Nonostante la crescente impopolarità del conflitto, anche per lo stillicidio delle perdite umane che stava crescendo negli ultimi tempi, il governo italiano rispondeva positivamente alle richieste di Washington di una maggiore presenza e di un maggiore impegno: alla vigilia delle elezioni afghane, tenutesi nell’autunno del 2009, venivano inviati altri 500 uomini per garantire l’ordine durante le difficili operazioni elettorali che confermavano alla presidenza del paese Karzai, nonostante i pesanti brogli denunciati dagli osservatori internazionali. Poi, in seguito a una nuova offensiva che, nel dicembre dello stesso anno, induceva il presidente Obama a decidere l’invio di altri 30.000 uomini all’appello di Washington, per un ulteriore sforzo il governo italiano rispondeva con l’impegno a inviare altri mille uomini che avrebbero portato il nostro corpo di spedizione al livello dei più numerosi tra quelli europei28. Ma nel frattempo si aprivano nuovi fronti nella lotta al terrorismo. Oltre alla complessa situazione che permaneva in Pakistan, nuove minacce provenivano da altre parti del mondo islamico. Dalla Somalia, dove ormai le corti islamiche stavano conquistando il controllo del paese, logorato da una più che ventennale lotta interna; dallo Yemen, dove il governo centrale di Sanaa era impegnato in una duplice guerra, contro elementi sciiti sostenuti da Teheran e contro il movimento secessionista nel Sud del paese; e perfino dalle aree desertiche della Mauritania e del Mali che diventavano zone proibite ai viaggiatori occidentali. Davanti alla ripresa del terrorismo di Al Qaeda si manifestava anche la crisi di un grande paese islamico, l’Iran degli Ayatollah, dove la rielezione del presidente Ahmadinejad, in sospetto di brogli, accendeva una vera e propria rivolta dell’elemento progressista, e potenzialmente filo-occidentale. La violenta reazione del regime insanguinava le piazze di Teheran e riempiva le prigioni dei 28 L’esatto numero delle presenze dei militari italiani in Afghanistan è di difficile determinazione per via della diversa composizione dalle varie unità che venivano alternate. Nel dicembre del 2009 al momento del nuovo impegno per altri mille soldati, in Afghanistan c’erano circa 2400 uomini.

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pasdaran. Tra il governo iraniano e i paesi occidentali restava aperto il conflitto sui temi della proliferazione nucleare; in merito alle accuse dirette al governo di Teheran di preparare segretamente la costruzione dell’arma atomica, l’Italia che con l’Iran intratteneva intensi rapporti economici, i più importanti tra i paesi dell’Ue, seguirà sempre una linea di moderazione e tutte le volte che si presenterà l’occasione cercherà di svolgere un’azione mediatoria con le posizioni più oltranziste. 10. La crisi economico-finanziaria L’attività diplomatica era intensa anche sul versante economico e finanziario, dove i primi mesi del 2009 segnavano un rincrudimento della crisi con istituti bancari in gravi difficoltà, anche se in Italia in minor misura che altrove, e la continua crescita della disoccupazione. L’occasione per una discussione su questi temi e per un incontro con il nuovo presidente americano veniva offerta dal «G20», tenuto a Londra il 2 aprile 2009. I paesi dell’Europa continentale e segnatamente Francia, Germania e Italia facevano pressione perché si affrontasse il tema del regolamento dell’attività finanziaria internazionale tanto più urgente dato che una delle cause della crisi era stato lo smantellamento, avvenuto negli anni precedenti sotto la pressione delle lobbies, delle leggi che vincolavano banche e banchieri e ne limitavano le attività speculative. Era in gioco anche la revisione degli accordi di Bretton Woods e il ruolo internazionale del dollaro. Diversa la posizione degli Stati Uniti sostenuti dalla Gran Bretagna: per Washington era più urgente contenere gli effetti della crisi, mentre la riorganizzazione della finanza internazionale avrebbe dovuto essere affrontata solo dopo il ritorno alla normalità. Il «G20» si concludeva con la decisione di smantellare i paradisi fiscali che sottraevano grandi quantità di capitali e di reddito alla fiscalità nazionale per creare le condizioni per una maggiore trasparenza nell’attività finanziaria, favorire il ritorno dei capitali nell’economia di origine e fornire nuove entrate ai governi con bilanci in difficoltà. Al «G20» seguiva ai primi di luglio il «G8» di cui l’Italia aveva la presidenza. L’incontro si svolgeva all’Aquila, il capoluogo

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abruzzese duramente colpito dal terremoto del 6 aprile 2009. Dopo il «G20» di Londra e in attesa di un nuovo «G20» fissato a Pittsburgh per il 24-25 settembre, l’incontro dell’Aquila aveva una minore risonanza politica. I temi in agenda erano la fame nel mondo, gli aiuti dei paesi ricchi a quelli poveri e la ripresa delle discussioni sul Doha Round. Alla mancanza di importanti decisioni politiche il nostro governo suppliva con il successo logistico per aver organizzato in breve tempo il vertice, alle porte di una città semidistrutta, e la complessa macchina di una conferenza internazionale. Con la pur parziale e incerta ripresa dell’economia internazionale che si verificava tra l’estate e l’autunno del 2009, l’urgenza e gli incentivi agli interventi sul sistema finanziario internazionale diminuivano. L’azione riformatrice veniva rinviata sine die, ma da parte europea e soprattutto da organismi come il Financial Stability Board, presieduto dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, non mancavano, insieme con un attento monitoraggio della situazione, le denunce verso la speculazione internazionale che continuava a operare grazie anche al bassissimo costo del danaro, nonché proposte e suggerimenti per interventi diretti a limitarla e a controllarla.

11. Un nuovo sistema di sicurezza: da Vancouver a Vladivostok Sul piano più specificamente politico un dossier al quale sia il presidente del Consiglio Berlusconi sia il ministro degli Esteri Franco Frattini dedicavano particolare attenzione, era quello dei rapporti con la Russia del premier Vladimir Putin e del presidente Dmitrij Medvedev. Quell’attenzione corrispondeva al forte interesse russo più volte ribadito da Medvedev e dal suo ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, per il rilancio del dialogo Nato-Russia che dal tempo del «G8» di Pratica di Mare (2002) che lo aveva istituito non aveva fatto grossi progressi. Ma l’obiettivo del capo del Cremlino e della diplomazia russa consisteva nella creazione di un nuovo sistema di sicurezza internazionale che andasse oltre la Nato e che insieme con l’area euro-atlantica comprendesse anche la Russia. Era un progetto ambizioso che aveva come corolla-

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rio un nuovo rapporto tra Ue e Russia per una «casa comune europea». I rapporti economici tra Italia e Russia, nonché quelli ancora più intensi tra Berlino e Mosca, a cui si stavano aggiungendo nuovi progetti tra l’economia russa e quella francese, stavano creando forti legami tra l’Ue e la Russia. La forte dipendenza di Italia e Germania dal gas russo, i progetti per nuovi gasdotti, il North Stream tra Russia e Germania attraverso il Mar Baltico e il South Stream concordato da Eni e Gazprom, stavano dando alle relazioni tra Ue e Russia una valenza strategica che corrispondeva all’esigenza russa di un grande processo di modernizzazione dell’industria e della società e che apriva ai paesi esportatori dell’Ue il mercato russo e le grandi riserve di materie prime e di territorio in Siberia, in una fase in cui le potenze emergenti si stavano impegnando ad assicurarsi spazi territoriali e ogni tipo di risorse per i futuri approvvigionamenti delle rispettive popolazioni tese a raggiungere nuovi livelli di benessere e di consumo. Per una Russia che dopo la caduta del regime sovietico stava ancora cercando una collocazione internazionale che corrispondesse ai suoi interessi e alle sue aspirazioni storiche era comprensibile che i rapporti economici si traducessero in un progetto politico che mirava ad affrontare i problemi della sicurezza in una prospettiva nuova e in un ambito geografico molto più ampio che nel passato. In effetti già da tempo erano in corso conversazioni tra l’Ue e la Russia su di una serie di temi che spaziavano dall’ecologia alla lotta contro il terrorismo, dalla proliferazione degli armamenti nucleari ai problemi della sicurezza. Interrotte dalla crisi provocata dal conflitto con la Georgia, nell’estate del 2008 le conversazioni riprendevano nell’autunno dello stesso anno con una maggiore accentuazione sui temi della sicurezza29. Gli stessi temi ve29 Nuovo Ordine Mondiale è il titolo di un articolo a quattro mani firmato da Franco Frattini e da Sergei Lavrov, apparso sul «La Stampa» del 9 novembre 2009. «Di fronte alle nuove minacce del nostro secolo, dal terrorismo alla proliferazione nucleare, al crimine internazionale, al degrado ambientale, all’energia fino ai problemi della stabilità economico finanziaria – c’è sempre più bisogno di una forte e coesa partnership politica nello spazio paneuropeo. In altre parole il nuovo ordine mondiale ha bisogno della comune casa europea». Nel-

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nivano ripresi nel quadro dell’Osce nell’incontro del 27 e 28 giugno tra ministri degli Esteri, a Corfù. In quella riunione informale preparatoria a quella ufficiale prevista per la fine dell’anno ad Atene veniva ribadita «la necessità di ricreare la fiducia e la comprensione di tutti gli Stati membri» (attualmente 56 più 11 Stati partners in cooperations) e di «tenere in considerazione i problemi della sicurezza di ciascuno partendo dal principio della loro indivisibilità nell’area compresa tra Vancouver e Vladivostok». Il vertice di Corfù rilanciava anche il dialogo Nato-Russia reso attuale da alcuni gesti distensivi della nuova amministrazione americana, come la decisione di sospendere il progetto dell’installazione dei missili in Polonia e nella Repubblica ceca e più in generale i colloqui tra Mosca e Washington su di una nuova riduzione degli armamenti nucleari. La natura e i limiti del protagonismo russo dovranno essere precisati in un negoziato che dall’Ue dovrà necessariamente allargarsi agli Stati Uniti che al momento lo seguono con molto interesse e qualche preoccupazione. Dalle conversazioni preliminari Ue-Russia e dalla conferenza di Corfù emergevano significative diversità di interpretazioni sul concetto di sicurezza. Mentre per i russi esso sembra avere una valenza quasi esclusivamente politico-militare, per gli interlocutori europei esso non può restare separato dai problemi relativi ai diritti umani e ai processi democratici. Tuttavia quello dei rapporti con la Russia resta per l’Ue uno dei temi di fondo per il prevedibile futuro e la diplomazia italiana ha le carte in regola per giocare un ruolo di rilievo in questa vicenda. lo stesso articolo si parla della necessità di dare vita a un partenariato strategico tra Russia e Ue non solo economico ma anche politico.

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1. Politica estera e politica interna Lo storico inglese Martin Clark, che si è occupato a lungo del nostro paese, così ha scritto nella sua Storia dell’Italia contemporanea a proposito della politica estera italiana: «Gli italiani non si sono mai messi d’accordo riguardo a dove si trovino i loro interessi nazionali. L’Italia doveva guardare a Sud, ovvero al Nord Africa, in particolare alla Tripolitania e mirare a trasformare nuovamente il mare Mediterraneo in un mare nostrum? Oppure doveva guardare al Nord, verso lo scacchiere europeo e cercare di diventare un grande Stato industrializzato dell’Europa del NordOvest? Il dibattito continua ancora oggi»1. Martin Clark ha ragione. Senza una visione chiara di dove risieda l’interesse nazionale e senza una coerente strategia diretta a realizzarlo non ci può essere una politica estera perché essa è appunto il perseguimento e la realizzazione dell’interesse nazionale nei rapporti con gli altri Stati. L’interesse nazionale deve corrispondere e riflettere obiettivi di natura politica, economica e culturale, deve tener conto delle tradizioni, dei valori e naturalmente dei mezzi che il paese ha a disposizione per realizzarlo. Il rapido e inatteso processo unitario rese impossibile un dibattito articolato sulla definizione dell’interesse nazionale e sulla politica estera dello Stato post-risorgimentale; e ciò è in qualche misura responsabile della indeterminatezza denunciata da Clark. 1

M. Clark, Storia dell’Italia contemporanea 1871-1999, Milano 1999, p. 71.

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Nell’Italia post-risorgimentale, nel corso degli anni che vanno dall’Unità d’Italia (1861) alla prima guerra mondiale, la politica estera del nuovo Stato oscilla tra una linea di moderazione e di pragmatismo e un’altra di esasperato nazionalismo, teso al raggiungimento del ruolo di «grande potenza». Dall’annessione di Roma in poi – osserva Federico Chabod – vengono alla luce opposte mentalità: da una parte il punto di vista del «nuovo italiano» formato alle lotte del passato, pronto ad assumersi il difficile compito che aveva di fronte, che sperava in un periodo di tranquillità convinto che l’epoca degli eroismi dovesse essere lasciata alle spalle se si voleva costruire un futuro di progresso; dall’altra l’italiano che si sentiva uguale al passato e che, avendo raggiunto la libertà troppo rapidamente con la mente piena di ricordi scolastici e di una letteratura di grandezza, non era disposto ad accettare questa modesta prospettiva2. Così, per il primo mezzo secolo di vita, l’Italia alterna una politica d’indifferenza e di timidezza verso i temi della politica internazionale ad un’altra di eccessivo attivismo, ma senza la bussola di un preciso programma, cercando di sfruttare le occasioni momentanee. Ne risulterà una politica spesso improvvisata senza una strategia coerente con le proprie possibilità e di conseguenza priva di autorevolezza di fronte ai propri interlocutori. Una politica che porta il paese a umilianti sconfitte, diplomatiche e non, dissipa le simpatie che lo avevano accompagnato negli anni del Risorgimento e lo espone a una crisi di credibilità che contribuisce al suo isolamento e, in ultima analisi, lo costringe a ricercare un’alleanza, la Triplice, in contraddizione con le proprie rivendicazioni e con gli orientamenti di una parte significativa della società. Lo scoppio del primo conflitto mondiale e le vicende politico-diplomatiche che prepareranno il nostro intervento denunceranno le incoerenze di quella politica e indurranno il paese a una scelta diversa e alternativa rispetto a quella prevista nell’arco di un ventennio, che agli occhi dell’Europa lo esporrà alle accuse di slealtà e di doppiezza. La vittoria, conquistata a carissimo prezzo, permette all’Italia di uscire dal conflitto con una immagine migliorata, conseguenza in parte dell’impegno militare e in parte del rango di grande po2 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I, Bari 1965, p. 300.

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tenza che, seppure non corrisponda a una realtà effettiva, le viene tuttavia riconosciuto dalle convenzioni diplomatiche. Nel corso del ventennio fascista, l’Italia abbandona le ambiguità e i dualismi del periodo post-risorgimentale per adottare una linea che punta dichiaratamente e senza reticenze a conquistare il ruolo effettivo e non più esclusivamente nominale di grande potenza. Il governo fascista affida al perseguimento di questo obiettivo la costruzione del consenso per il regime. Come mai prima nella storia d’Italia, la politica estera, più ancora di quella interna, diventa l’elemento predominante nell’attenzione del paese e nell’opera del governo. Il drammatico fallimento di quella politica e il disastro nazionale che segue alle vicende militari della seconda guerra mondiale segnano una svolta storica nei valori politici ed esistenziali degli italiani. Alla guida del paese si alternano nuove forze politiche che nel pacifismo e nell’internazionalismo trovano i valori fondanti dei loro programmi. A quei valori si ispira non solo la nuova Costituzione, che all’articolo 11 bandisce la guerra e impegna la comunità nazionale nel sostegno ai principi e agli istituti della collaborazione internazionale, ma tutta la cultura che la nazione accetterà e farà propria trovando in essa e nei valori ispiratori il proprio modello identitario. Ciò contribuirà in modo decisivo a orientare la politica estera italiana dell’ultimo mezzo secolo, ma non a conferirle quell’autonomia e quel rilievo che si rendono necessari in una fase della storia mondiale di grandi aperture e di grandi integrazioni, caratterizzata oggi dalla globalizzazione. Svanita l’euforia dei primi anni Novanta, quando i tempi sembravano maturi per una vigorosa opera di modernizzazione delle strutture politiche e amministrative che avevano governato il paese dal secondo dopoguerra in poi, successivamente ogni processo riformista è stato condizionato, spesso snaturato, dagli interessi dei partiti e dei loro leader. Le riforme costituzionali, controverse e parziali, sembrano finalizzate più a soddisfare le esigenze di alcune parti politiche che a creare un sistema decisionale più efficiente e moderno, ovvero al riordino e alla razionalizzazione amministrativa3. 3

La riforma costituzionale approvata in via definitiva dal Parlamento il 16

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È mancata negli ultimi anni qualsiasi progrettualità per costruire una cultura politica complessiva, necessaria per poter operare in termini di Stato e di sistema-paese al fine di competere con gli altri sistemi-paese e affrontare, in questo modo, le sfide del mondo globalizzato.

2. Ridefinire gli interessi nazionali Fino a qualche anno fa, non è un mistero, l’espressione «interesse nazionale» era considerata una sorta di tabù. L’attributo «nazionale» evocava, nella migliore delle ipotesi, sospette nostalgie golliste, mentre il sostantivo «interesse» lasciava presupporre un approccio egoistico e quindi, come tale, da sacrificare a un interesse superiore, quello sovranazionale, secondo gli schemi che avevano informato la nostra politica estera del dopoguerra, desiderosa anzitutto di segnare una soluzione di continuità con il nazionalismo e con il fascismo, principale responsabile della sconfitta bellica, e quindi di delegare a enti sovranazionali di varia natura (Onu, Nato eccetera) la propria sicurezza e il proprio benessere. La caduta del muro di Berlino ha avuto, tra i tanti benefici effetti, anche quello di riaprire il dibattito sugli interessi nazionali non più condizionati o neutralizzati (come nel caso italiano) dalle ragioni prevalenti della guerra fredda. Beninteso: questo non significa che nei quasi 150 anni di storia unitaria gli interessi nazionali non siano stati tenuti nel debito conto dalle élites che di volta in volta hanno governato il paese. La fine della politica di «raccoglimento» e l’adesione alla Triplice Alleanza o ancora il passaggio di campo tra le potenze dell’Intesa nella prima guerra mondiale – solo per fare alcuni esempi – rispondevano a esigenze che, nell’opinione di Crispi o di Salandra o dei sovrani dell’epoca, erano in sintonia – o almeno cercavano di esserlo – con gli interessi nazionali, che anzi venivano esaltati nella formula del «sacro egoismo». novembre 2005 non prevedeva alcuna innovazione significativa per la politica estera. Tuttavia, l’articolo 117 veniva modificato attribuendo allo Stato legislazione esclusiva nelle seguenti materie: politica estera e rapporti internazionali dello Stato.

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In particolare, dal secondo dopoguerra in poi, lo schema del nostro interesse nazionale era quello fissato da alcuni politologi (come Ludovico Garruccio, pseudonimo di Ludovico Incisa di Camerana) con l’immagine dei «tre cerchi concentrici»: quello atlantico che assicurava la sicurezza, quello europeo che garantiva la modernizzazione socio-economica del paese e infine quello mediterraneo che consentiva qualche originalità4. Sotto una diversa angolazione, si può affermare che, finché hanno dominato le regole di Jalta, i cardini della nostra politica estera sono stati costituiti dall’adesione alle strutture politiche ed economiche dell’Occidente (atlantismo ed europeismo) e da una persistente opzione pacifista che andava incontro, di volta in volta, alle esigenze di politica interna, intese prima a tenere conto della spinta neutralista della sinistra democristiana, poi a favorire l’incontro tra il partito cattolico di maggioranza relativa con i socialisti e quindi con i comunisti. Questo schema ha retto, nel bene e nel male, per oltre un quarantennio. Ora un suo aggiornamento si impone perché sono venute meno le ragioni che lo giustificavano. E tale aggiornamento non può che partire da quella revisione degli interessi nazionali cui si sono ispirate le classi dirigenti post-belliche. Naturalmente va subito sgomberato il terreno da qualsiasi possibile equivoco. Quando si parla di definizione, ovvero di ridefinizione degli interessi nazionali non si vuole rilanciare una dottrina che, nel nome di un presunto «realismo politico», voglia determinare una svolta autoritaria o neo-nazionalistica nella gestione della politica estera, magari nel nome di un ritrovato «sacro egoismo» favorito dall’assenza dei vincoli e dei ceppi della guerra fredda. S’intende, piuttosto, quella sintesi politica che consente a vari attori (ma soprattutto allo Stato) di individuare e di assolvere i suoi interessi geopolitici in un dato momento storico o anche quella sintesi intesa come «prodotto dell’intelligenza di uno Stato (nelle sue varie articolazioni) consapevole di sé e delle proprie condizioni»5. 4 L. Garruccio, La politica estera italiana: le scelte di fondo e il retroterra culturale, in «Politica internazionale», febbraio 1992. 5 AA.VV., Il sistema Italia. Gli interessi nazionali italiani nel nuovo scenario internazionale, intervento di C. Galli, Milano 1997, p. 80.

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Non ci avventureremo in questa sede in una disamina specialistica sui contenuti, la definizione e la classificazione degli interessi nazionali di una «media potenza con interessi globali» qual è l’Italia di oggi, per i quali si rimanda ad appositi approfondimenti6. Si tratta d’altra parte – come è stato osservato – «di una nozione complessa la cui definizione è legata a una molteplicità di fattori quali le risorse, il territorio, la popolazione di ciascuno Stato»7. Si vuole soltanto sottolineare come tali interessi non siano un «dato oggettivo» dei vari Stati ma – pur essendo costituiti da elementi geopolitici permanenti – siano soggetti a variabili storiche, economiche e sociali. È di tutta evidenza, quindi, che nell’arco di mezzo secolo le priorità geo-politiche, o almeno alcune di esse, sono cambiate per Italia e per i suoi principali partner. Ad esempio, la partecipazione alle strutture dell’Alleanza atlantica che, nel periodo della contrapposizione frontale tra Est e Ovest, costituiva il nostro principale interesse nazionale perché da esso derivava il bene supremo del paese, cioè la sua sicurezza e la sua protezione da possibili attacchi esterni di natura convenzionale o nucleare, oggi ha perso alcune caratteristiche di fronte alla dissoluzione dell’avversario ovvero alla inclusione nella stessa alleanza di alcuni Stati ex nemici dell’Est europeo. Ne è derivata la necessità di una revisione degli obiettivi e della finalità della Nato, sfociata nel «nuovo concetto strategico» approvato dai paesi alleati nell’aprile del 1999 che – pur ribadendo il carattere centrale della «difesa collettiva» – ha sviluppato due nuove tematiche: la possibilità di agire «fuori area» e la creazione di un’«identità europea» in seno all’Alleanza. Non si tratta – beninteso – di trascurare i vincoli di appartenenza alla Nato e di minimizzare il ruolo fondamentale dell’organizzazione di fronte anche alle nuove minacce terroristiche e alla proliferazione delle armi di distruzione di massa, in nome di una presunta minore importanza del «fattore militare» rispetto all’era

6 Cfr. AA.VV., Il sistema Italia. Gli interessi nazionali italiani cit. E anche: P.P. Portinaro, Interesse nazionale e interesse globale. L’età della competizione geoeconomica, CeMiSS, Milano 1996; C. Jean, L’uso della forza. Se vuoi la pace comprendi la guerra, Roma-Bari 1996. 7 Cfr. Dialoghi diplomatici. Interessi nazionali e politica estera, intervento dell’ambasciatore G. Cavalchini, Roma gennaio/marzo 2005, p. 12.

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glaciale dei rapporti tra i due blocchi, ma di prendere atto dei mutamenti intervenuti con la dissoluzione del Patto di Varsavia, di misurarne gli effetti in termini strategici e di predisporre gli strumenti per affrontare le nuove sfide. 3. L’interesse nazionale e l’Europa In una possibile gerarchia dei nostri interessi nazionali, l’adesione all’Unione europea, con tutto quello che ne consegue, occupa di gran lunga il primo posto. Con la svolta di Maastricht, con la nascita dell’euro, con gli accordi di Schengen, le frontiere tra i paesi partecipanti all’Ue, o almeno tra gli Stati dell’Unione che hanno aderito a tali accordi, si sono improvvisamente dissolte. Ormai è impossibile parlare di politica europea dell’Italia o degli altri partner dell’Unione perché tale politica s’identifica in larga misura con la politica interna dei vari Stati. «Fino a cinquant’anni fa» – ricorda giustamente Giuliano Amato – «il grosso della politica estera europea era costituito dalla diplomazia di ciascuno dei nostri paesi nei confronti di ciascun altro Stato europeo. Se la guardiamo da questo punto di vista, la costruzione europea ha coinciso con l’eliminazione dei tre quarti della nostra politica estera»8. Tuttavia è anche vero, come sottolinea lo stesso Amato, che «nell’Europa unita abbiamo abolito le dogane, introdotto la libera circolazione delle persone e dei beni, ci siamo dati una moneta unica, abbiamo avviato la cooperazione giudiziaria, ma in ciascuna delle nostre capitali continua ad esserci l’ambasciata di ciascuno degli altri Stati europei»9. D’altra parte, va anche detto che i vincoli del Patto di stabilità riducono fortemente l’autonomia dei membri dell’Unione in politica economica. Ciò significa che – una volta scelta la via dell’euro – non si può tornare indietro e non si può ripetere il comportamento tenuto per molti anni dalla classe politica incline a «mitizzare» l’Europa, ad appoggiare acriticamente l’integrazione sen8 G. Amato, Noi in bilico. Inquietudini e speranze di un cittadino europeo, intervista a cura di F. Forquet, Roma-Bari 2005, p. 76. 9 Ivi, p. 78.

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za soppesare i costi che tale adesione avrebbe potuto determinare. Beninteso, accettare in toto i vincoli, soprattutto economici, non significa piegarsi a una politica di supina accettazione di quanto viene deciso dalle istituzioni europee nei principali centri decisionali. Significa, al contrario, attrezzarsi a ogni livello per interagire e per contemperare i nostri legittimi interessi con quelli comunitari. Significa fissare alcune priorità dell’agenda europea e non lasciarsi sedurre dalle alleanze occasionali. Non c’è dubbio, ad esempio, che il «no» francese e olandese ai referendum sul progetto di trattato costituzionale dell’Unione abbia rappresentato una brusca e grave battuta d’arresto in quel processo d’integrazione che – dopo lo storico allargamento dell’Ue ai paesi ex comunisti – sembrava irreversibile. È riemersa con prepotenza quella duplice immagine dell’Europa che sembrava superata dalla volontà dei governi dei «Venticinque» di approvare il nuovo testo costituzionale: da una parte, l’Europa pilotata dal binomio franco-tedesco, orientata verso una maggiore integrazione politico-istituzionale e, dall’altra, l’Europa orientata secondo le aspirazioni britanniche, limitata a una grande area di libero scambio e forte anche dell’appoggio di alcuni paesi dell’Est appena entrati nell’Unione. Ma soprattutto è venuto alla ribalta il disagio di un’opinione pubblica europea non più disposta a «subire» decisioni provenienti dall’alto che riguardano direttamente il proprio futuro; un’opinione che vuole capire, essere coinvolta nelle scelte. E la successiva approvazione del più modesto trattato di Lisbona non ha corretto questa impressione. Ridefinire gli «intereressi nazionali» in questo settore cruciale significa, ad esempio, far tesoro della lezione rappresentata dal doppio «no» franco-olandese al progetto di Costituzione, non considerarlo soltanto un «incidente di percorso» e quindi non sottovalutarlo affidando – come sempre – ad altri l’onere di assumere decisioni cui aggregarci. Significa cogliere l’occasione per avviare un vero dibattito nazionale su quale Europa bisogna perseguire, con quali confini, con quali risorse e con quali obiettivi. Sulla definizione degli interessi nazionali sarebbe opportuna un’analisi non superficiale, non condizionata da schemi ideologici pregiudiziali. «Scontata (ma pure ribadita con forza) l’opportunità di far parte dell’area dell’euro» – sosteneva, ad esempio, Ernesto Galli

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della Loggia – «siamo proprio sicuri che sia un interesse dell’Italia la nascita di un soggetto politico europeo fortemente strutturato in cui però saremmo sempre secondi a qualcuno, molto probabilmente ai franco-tedeschi cui non mancherà di associarsi Londra al momento opportuno?». E ancora: «Ci conviene mantenere la nostra special relationship con gli Stati Uniti nel tentativo di riequilibrare l’inevitabile egemonismo europeo dell’asse Parigi-Berlino più Londra, e comunque al fine di allargare il nostro spazio d’influenza e di manovra?»10. Interrogativi non facili, cui comunque non si può dare risposte affrettate; perché se è evidente che c’è un interesse italiano a far sì che l’Europa diventi un soggetto politico così com’è già un soggetto economico, è altrettanto evidente che tale interesse deve essere commisurato con quello degli altri partner europei. Allo stesso modo, i mutati equilibri internazionali non consentono più automatismi, ma impongono scelte razionali che tengano conto di tutto l’ampio ventaglio degli interessi nazionali. E così non sembra essere conveniente per l’Italia né appiattirsi su una posizione di totale subordinazione agli Stati Uniti né su quella di ruota di scorta dell’asse franco-tedesco (ma forse sarebbe più proprio dire della Germania che, soprattutto dopo l’ultimo allargamento dell’Unione, appare come il vero motore della locomotiva europea). Anche se non va ignorato che la conduzione di una politica estera del genere non sarebbe facile poiché non si fermerebbero certo le pressioni di Washington e di Berlino per indurci a una linea corrispondente ai rispettivi interessi.

4. Una politica alternativa: Mediterraneo, Balcani e le aree dimenticate La ridefinizione degli interessi nazionali per una politica estera più incisiva ed efficace e quindi per un’azione diplomatica adeguata comporta anche una revisione del nostro modo di confrontarci con quelle aree che tradizionalmente hanno rappresentato 10 E. Galli della Loggia, Domande sull’Europa, in «Il Corriere della Sera», 3 agosto 2004, p. 1.

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un punto di riferimento e di attrazione ma poi sono state abbandonate al loro destino ovvero sacrificate a iniziative estemporanee o velleitarie. Ci si riferisce anzitutto all’area mediterranea e a quella danubiano-balcanica, dove gli interessi nazionali italiani sono stati soggetti a spinte contrastanti, ma anche a quelle che potrebbero essere definite «regioni dimenticate» in altri continenti (Africa, Asia, America Latina), dove la nostra presenza diplomatica è stata ed è sporadica, priva di qualsiasi progettualità malgrado il permanere di forti interessi e in molti casi anche di numerose comunità di connazionali emigrati. In verità, gli ondeggiamenti – soprattutto per quanto riguarda la politica verso il Mediterraneo (inteso in senso «allargato», cioè comprendente il Maghreb, il Medio Oriente, il Mar Rosso, il Mar Nero, il Golfo Persico e il Corno d’Africa) e i Balcani – sono imputabili non solo all’incertezza delle classi dirigenti, ma alla stessa natura peninsulare dell’Italia che rende difficile un orientamento geopolitico netto e preciso, essendo soggetto il paese all’attrazione dell’orbita atlantica e nord-europea, oltre che a quella mediterranea e balcanica. Una peninsularità che tuttavia viene considerata da taluni politologhi11 non come un elemento di debolezza, ma come un punto di forza, come il segno della «centralità» di un paese con interessi regionali e globali. Tuttavia anche in questi settori-chiave, Mediterraneo e Balcani, molto spesso ha prevalso l’improvvisazione. Basti ricordare, a proposito del Mediterraneo, le iniziative neo-atlantiche di Gronchi, Fanfani e Mattei della fine degli anni Cinquanta, quando l’Italia sperava di imporre la sua presenza tra i paesi della sponda settentrionale africana e del Medio Oriente, cercando di sfruttare il declino del colonialismo franco-britannico successivo alla crisi di Suez e sperando di trattare con il mondo arabo in nome e per conto degli Stati Uniti proprio mentre l’Eni presieduta da Mattei entrava in conflitto con il cartello delle industrie petrolifere americane. 11 L. Incisa di Camerana, Geopolitica ed interessi nazionali italiani, in AA.VV., Il sistema Italia. Gli interessi nazionali italiani cit., pp. 123-24.

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Eppure, quest’area riveste un ruolo strategico di primaria importanza per una serie di ragioni che vanno dai rifornimenti energetici, fondamentali per la nostra economia, all’immigrazione (clandestina e non). Basti pensare ai nostri interessi in Algeria e in Libia da cui dipende una parte cospicua dei nostri approvvigionamenti di gas. O agli sviluppi politici di paesi come l’Egitto, il Marocco e la Tunisia governati da regimi moderati ma potenziali serbatoi di masse sensibili ai richiami del fondamentalismo islamico, suscettibili di provocare una minaccia diretta alla nostra sicurezza. Naturalmente, la via principale per sviluppare il dialogo con i paesi dell’area mediterranea resta quella multilaterale, attraverso i meccanismi (peraltro non molto efficaci ma da rendere più efficienti) previsti dal cosiddetto «processo di Barcellona» avviato nel 1995 dai paesi dell’Unione europea e quelli dell’area mediterranea per costituire una «partnership euro-mediterranea»12. Ma c’è anche una via bilaterale da perseguire con i paesi del «Mediterraneo allargato» che risponde a esigenze primarie, ovvero a interessi nazionali prioritari italiani. Come tali vanno considerate, infatti, tutte le iniziative miranti a rafforzare la sicurezza nel Mediterraneo e a impedire, ad esempio, che negli Stati rivieraschi possano insediarsi regimi con politiche aggressive suscettibili di determinare pericoli per il nostro territorio nazionale, ovvero per i relativi spazi aerei e per i traffici marittimi. È nostro interesse precipuo, quindi, che nell’intera regione si rafforzino sicurezza e sviluppo economico, binomio inscindibile che mira soprattutto a impedire quello «scontro di civiltà» che è il principale obiettivo del fondamentalismo islamico. In tale contesto, deve essere intesa una politica equilibrata, razionale (non soggetta alle convenienze del momento) nei confronti del conflitto israelo-palestinese, secondo la formula dei «due popoli, due Stati» che è stato uno dei capisaldi della nostra politica estera negli anni Ottanta. Lo stesso discorso, mutatis mutandis, vale per l’area dei Balcani dove gli interessi nazionali restano prioritari anche e soprattutto dopo la dissoluzione della Jugoslavia e la conclusione del con12 Per il «processo di Barcellona» cfr. AA.VV., L’Italia tra Europa e Mediterraneo: il bivio che non c’è più, Bologna 1998.

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flitto per il Kosovo. Ebbene, se negli anni Novanta c’era stato un tentativo di rafforzare il nostro ruolo nella regione, anche grazie al mandato internazionale che era stato conferito all’Italia per contribuire al ristabilimento dell’ordine in Albania, oggi le posizioni hanno subito un drastico ridimensionamento. Nella stessa Albania e generalmente in tutte le repubbliche balcaniche ex jugoslave (a cominciare dalla Croazia) si è consolidata a dismisura l’influenza della Germania, mentre il nostro ruolo si è progressivamente ridotto. Anche le iniziative volte ad acquisire un maggiore ruolo attraverso fori multilaterali (come, ad esempio, l’Iniziativa centro-europea) hanno mostrato i loro limiti e non ci hanno aperto spazi adeguati. Di qui l’esigenza di invertire la marcia giocando, a seconda delle situazioni e delle circostanze, le nostre carte in sintonia con i nostri interessi economici e industriali, che trovano in tutti i paesi dell’area balcanica (e quindi anche in Romania e in Bulgaria) forti allocazioni. Naturalmente, una funzione importante per consolidare la nostra presenza viene svolta attraverso la partecipazione alle operazioni di paece-keeping e di peace-enforcing in ambito multilaterale in cui sono impegnate le nostre forze armate. Sono attualmente varie migliaia i nostri militari dislocati in numerosi scacchieri: dai Balcani al Medio Oriente. Sui meccanismi che hanno ispirato tali missioni non sono mancate in un recente passato le polemiche. Peraltro, questa presenza si collega sovente a un altro aspetto fondamentale della nostra politica estera: quello della cosiddetta «cooperazione allo sviluppo». Essa, in realtà, secondo quanto previsto da una legge fondamentale (49/87) non è né uno strumento né un aspetto particolare ma è parte integrante della politica estera italiana. Naturalmente, il suo raggio d’azione è mutato nel corso degli anni anche perché è cambiata la mappa dei destinatari, cioè dei paesi con cui cooperare per favorire il loro sviluppo. Ma è mutata anche la prospettiva di tale cooperazione, sempre più intesa come azione coordinata a livello internazionale per raggiungere tali obiettivi non più perseguibili con iniziative unilaterali. C’è stata poi una revisione dovuta alla progressiva riduzione dei fondi che ha indebolito obiettivamente la nostra posizione e al tempo stesso ha reso necessarie una maggiore selezione e quindi un’analisi più approfondita del rapporto costi-benefici. Si è par-

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lato – spesso, purtroppo, solo per motivi propagandistici – di mega-iniziative di sostegno, come ad esempio il lancio di un nuovo «piano Marshall» per il popolo palestinese – ma si sono trascurate azioni sistematiche per consentire una cooperazione allo sviluppo, magari meno consistente ma più «mirata» a rafforzare nelle aree critiche le élites locali, in grado di aiutare i rispettivi paesi a uscire dalle sacche del sottosviluppo. In questo contesto si pone anche il problema delle cosiddette «aree dimenticate». Non è un caso se nella lunga panoramica della politica estera italiana dall’Unità ad oggi i nostri rapporti con i continenti lontani abbiano avuto scarsa e sporadica eco. Ad esempio, la mancanza di una politica estera coerente nei confronti dell’America Latina è stata una costante, incomprensibile, della nostra diplomazia. Stesso discorso può essere fatto per la politica africana o per quella asiatica, affidate a iniziative estemporanee, non a progetti a media e a lunga scadenza. Omissioni e disinteresse non più tollerabili, nel momento in cui la globalizzazione dei mercati accentua l’interdipendenza tra i continenti e porta sul proscenio giganti come la Cina e l’India verso i quali sono necessarie un’attenzione e una comprensione completa, non solo sul piano economico e politico ma anche su quello culturale e filosofico.

5. I processi di decisione della politica estera Un secolo e mezzo di storia offre un quadro abbastanza esauriente dei punti di forza e di debolezza della nostra politica internazionale. Nel darne una valutazione complessiva, necessariamente limitata alle caratteristiche di quest’opera, non vogliamo mettere in discussione le scelte politiche – lo abbiamo già fatto, in qualche misura, ricostruendo i momenti più significativi della nostra vicenda storica – ma piuttosto gli aspetti tecnici come quelli relativi alla formazione delle decisioni, alla selezione e alla qualità del personale diplomatico, agli strumenti di conoscenza e d’informazione utilizzati per la formulazione delle politiche e al problema della formazione di una cultura della politica estera.

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Cominciamo dal primo, cioè dal processo decisionale. In quasi tutte le fasi della nostra storia predominano la vaghezza e l’indeterminazione sui metodi e sui processi relativi alla formulazione delle politiche. Nel periodo post-risorgimentale, i poteri in materia di politica estera erano assegnati dallo Statuto albertino – diventato nel 1861 Costituzione italiana – al re come unico titolare del potere esecutivo (articolo 5). Anche la scelta degli ambasciatori (articolo 6) richiedeva l’approvazione reale. Più tardi, il Parlamento acquisterà un ruolo crescente nella determinazione della politica estera, soprattutto attraverso l’approvazione dei trattati e la votazione degli stanziamenti per le spese militari, essendo le forze armate strumento essenziale della politica estera, almeno sino all’indomani della seconda guerra mondiale. Il parere e la volontà del re restano in tutto questo periodo centrali nel processo di formulazione delle politiche, pur in diversa misura in rapporto alla personalità e alle competenze del sovrano. Incisiva e addirittura debordante è l’iniziativa di Vittorio Emanuele II il quale, sia durante le vicende risorgimentali che dopo, conduce una politica personale non sempre coincidente con quella del suo governo. Meno evidente è il ruolo di Umberto I, che regna in un periodo caratterizzato da una forte stabilità della situazione internazionale. Decisiva è l’influenza esercitata da Vittorio Emanuele III nella scelta delle alleanze e nella decisione dell’intervento alla vigilia della prima guerra mondiale. L’influenza del re si attenua fino all’annullamento durante il periodo fascista. Nella prima parte della politica fascista, quella degli anni Venti, la posizione di Vittorio Emanuele III continuerà a esprimersi pur in modo indiretto e sempre meno determinante attraverso i contatti con una parte del personale diplomatico e le gerarchie militari, con le quali egli mantiene dei rapporti istituzionali. A partire dall’impresa etiopica, Vittorio Emanuele III sembra abdicare a ogni influenza e, nel periodo che segna l’alleanza con la Germania nazista e la partecipazione alla guerra, il re – che pur dimostra una forte antipatia sia per Hitler che per i tedeschi – perde ogni controllo sulla politica estera che diventa sempre di più politica personale di Mussolini, senza neppure quella partecipazione da parte degli esponenti della diplomazia tradizionale che aveva caratterizzato la prima fase della dittatura.

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La profonda rivoluzione istituzionale e politica che segue la seconda guerra mondiale si estende – com’è naturale – anche ai processi decisionali in materia di politica estera. La Costituzione repubblicana non fa alcun esplicito riferimento alle scelte di politica estera. Ne attribuisce alcune funzioni al presidente della Repubblica (accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati e mantiene il comando delle forze armate) pur riservando al governo «la direzione della politica generale». Tuttavia un preciso limite all’azione del governo è costituito dall’articolo 11, che sancisce il ripudio della guerra. La diffusione del potere politico, la partecipazione alla politica – non più prerogativa delle élites, come nel passato – di sempre più ampi settori della società organizzata nei partiti, l’influenza dei media nonché l’avvento del fenomeno partitocratico, con l’ormai consolidata onnipotenza delle segreterie dei partiti, hanno profondamente trasformato – non sempre in meglio – i processi decisionali relativi alla politica estera a scapito dei professionisti della politica internazionale: i diplomatici. Dopo una prima serie di nomine, operata dai governi De Gasperi dell’immediato dopoguerra, di personalità estranee alla carriera nelle principali sedi di rappresentanza, con il preciso mandato di riallacciare i rapporti con la comunità internazionale andati perduti a causa della guerra, ovvero da essa resi più difficili, ambasciatori e ambasciate hanno recuperato le loro posizioni e le loro funzioni ma più in chiave tecnica che politica, scontando una forte caduta d’influenza sulle decisioni dei governi in carica. Il modello prevalente negli anni della prima Repubblica, quello dei governi di coalizione, ha reso i leader dei partiti coalizzati, arbitri della politica estera del paese. A prescindere da alcune decisioni di fondo, raggiunte non senza riserve e contestazioni, ma mantenute ferme nel corso degli anni – come la politica atlantica e quella europeista –, tutto il resto (politica mediterranea, rapporti con il Terzo Mondo) è stato oggetto di decisioni poco trasparenti assunte sotto l’influenza di preoccupazioni ideologiche o dottrinali o, più semplicemente, di convenienze politiche o di interessi particolari, piuttosto che dettate da diverse interpretazioni dell’interesse nazionale. Negli anni successivi alla caduta della prima Repubblica, in corrispondenza con un forte ridimensionamento dell’influenza dei partiti e con la maggiore rappresentatività del presidente del Consiglio, anche in

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seguito all’adozione di un sistema elettorale semi-maggioritario, la politica estera ha acquistato un’impronta personale particolarmente forte negli anni dei governi Berlusconi. Nel complesso nell’ultimo mezzo secolo, dopo alcune scelte fondamentali che crearono un intenso dibattito soprattutto nella fase successiva alla seconda guerra mondiale e in concomitanza con il processo di ricostruzione del paese e con le origini della guerra fredda, la politica estera è rimasta periferica nel quadro del dibattito politico e culturale. Alla politica interna sono state dedicate le maggiori attenzioni e la discussione sui problemi internazionali è stata discontinua e occasionale. Anche per la sostanziale impreparazione ad affrontarli da parte del personale politico promosso dal sistema rappresentativo alla gestione della cosa pubblica, il dibattito si svolge a un livello di genericità e di scarsa concretezza. Nella formulazione dei processi relativi alla politica estera resta comunque fondamentale l’esistenza di condizioni di stabilità. Una delle carenze endemiche del nostro sistema politico è sempre stata quella della rapida successione dei governi, con l’ovvia esclusione del ventennio fascista. Dal 1861 all’ottobre del 1922 si sono avuti ben cinquantasei governi. La situazione non è cambiata, anzi è peggiorata negli anni della prima Repubblica con cinquantaquattro governi tra il 1943 e il 1992. Il ritmo degli avvicendamenti è diminuito nell’ultimo decennio anche grazie all’adozione del sistema maggioritario, ma i processi decisionali continuano a soffrire di condizioni d’instabilità con i governi della coalizione esposti alle continue fibrillazioni prodotte dai suoi membri, soprattutto quelli minori, in cerca di visibilità. La breve durata dei governi, il cui principale obiettivo diventa quello della sopravvivenza, rende difficile la realizzazione delle politiche e in particolare della politica estera. Più che la formulazione delle politiche, che, sostanzialmente, durante tutti gli anni della prima Repubblica si confermano imperniate su due o tre punti fondamentali, l’instabilità del sistema mette in pericolo la loro realizzazione e soprattutto un’attiva presenza del paese sul piano internazionale in quanto l’attenzione del presidente del Consiglio e sovente del suo ministro degli Esteri si concentra sui problemi interni e sugli equilibri della coalizione, rendendo difficile, se non impossibile, il complesso lavoro diplo-

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matico e negoziale richiesto da ogni iniziativa condotta sul piano internazionale. Inevitabilmente, la politica estera del paese ne viene penalizzata ed è costretta a seguire le iniziative altrui, perde visibilità e credito; e il peso e l’influenza politica del paese si riducono al di sotto delle sue capacità potenziali. Le varie riforme istituzionali di cui si è discusso nell’ultimo decennio, dalla fine della prima Repubblica, hanno dedicato ben poca attenzione ai problemi di una politica estera sottratta alle vicende del dibattito e della polemica politica. D’altronde, l’esigenza di una bipartisanship si fa sentire sempre più insistentemente con l’assunzione da parte dell’Italia di quei compiti di peace-keeping improvvisamente accresciuti nell’ultimo decennio e che oggi costituiscono l’aspetto principale di un impegno internazionalista espresso dalla nostra Costituzione e richiesto dalle convenienze politico-economiche largamente riconosciute dalla classe dirigente del paese. Pertanto – al di là di una riforma istituzionale che garantisca quella stabilità e quella funzionalità dei governi e dei loro organi esecutivi da tutti invocata – una prima e più rapida riforma verso quella bipartisanship, sempre auspicata ma mai realizzata in modo durevole, potrebbe essere la costituzione di un luogo e di un foro di consultazioni non episodiche che delinei gli indirizzi fondamentali di un’azione internazionale in armonia con posizioni e interessi concordati, largamente riconosciuti e verifichi la conformità con gli stessi della nostra politica estera.

6. Il personale diplomatico Nel periodo post-risorgimentale la gestione della politica estera era affidata a individui di buona cultura e di buona preparazione storico-politica, buoni conoscitori di uomini e di situazioni, introdotti nelle società dei paesi in cui erano accreditati, anche se non sempre in armonia con i sentimenti popolari. È il caso dei rapporti con l’Austria, percepita dalla maggioranza degli italiani come il nemico storico e considerata invece da molti politici e diplomatici un insostituibile fattore di stabilità ed equilibrio in Europa centrale e orientale. Esauritasi l’epoca delle forti individua-

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lità, ridottasi l’importanza delle ambasciate e degli ambasciatori nel negoziato politico (ma, ad esempio, il ruolo dell’ambasciatore Imperiali nella stipula del Trattato di Londra nel 1915 fu di grande rilievo), crebbe – a partire dall’inizio del Novecento – l’importanza e l’influenza del personale direttivo del ministero degli Esteri, grazie all’irrobustimento della struttura statale e amministrativa, per cui nella prima fase del ventennio fascista la politica estera italiana era indirizzata da personaggi di grande professionalità come Salvatore Contarini e Fulvio Suvich; l’arrivo dei «ventottisti», come vennero chiamati i giovani elementi di estrazione fascista, inseriti nel ministero alla fine degli anni Venti, non cambiava sostanzialmente la situazione, ma con l’avvento di Galeazzo Ciano al vertice del ministero (1936), mutava radicalmente il metodo di lavoro con la concentrazione delle informazioni e delle decisioni degli affari politici nel gabinetto del ministro che fino ad allora era stato una semplice segreteria e che, invece, durante tutto il mandato di Ciano (1936-43) diventerà il centro delle decisioni e dell’azione politica con la conseguente emarginazione di tutti gli altri settori del ministero. La scarsa attenzione di Ciano al ruolo degli ambasciatori perfino nelle maggiori sedi diplomatiche (salvo forse quella di Berlino, anche se i rapporti dell’ambasciatore Bernardo Attolico non venivano tenuti nella giusta considerazione) era destinata a creare difficoltà e guasti irreparabili nella conduzione delle nostre politiche. Emblematico è il caso dell’ambasciatore a Mosca, Augusto Rosso, che veniva informato dei negoziati sul Patto MolotovRibbentrop dal suo collega tedesco nella capitale sovietica. Il suo rapporto al ministero, arrivato al gabinetto del ministro, veniva archiviato come se fosse stato documento di ordinaria amministrazione, con la conseguenza che l’annuncio del patto, destinato a mettere in moto il meccanismo che porterà al conflitto, coglieva completamente di sorpresa il governo italiano13. Gli anni della Repubblica, insieme al declino della politica estera, segnavano anche quello del ruolo della diplomazia, che diventava sempre più tecnico. Anche se va ricordato che negli anni 13 Per il rapporto dell’ambasciatore Augusto Rosso a Ciano cfr. Documenti Diplomatici Italiani (Ddi), Serie VIII, vol. XII, Roma 1952, pp. 11-13.

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dell’immediato dopoguerra il contributo degli ambasciatori nelle principali sedi sarà di grandissima importanza non solo nel ristabilire i collegamenti con gli ambienti politici internazionali, ma anche nel suggerire e sostenere quelle scelte e quelle alleanze che segnarono la collocazione del paese per un’intera fase storica. Prezioso fu l’apporto di idee e di azione di personaggi come Alberto Tarchiani e Pietro Quaroni per l’opera a favore della partecipazione dell’Italia al Patto atlantico, e precedentemente di Renato Prunas per il riconoscimento del Regno del Sud da parte dell’Unione Sovietica. Più tardi e progressivamente negli anni Cinquanta e Sessanta gli uomini della «carriera» verranno emarginati dai processi decisionali, sempre più riservati agli organi dirigenti dei partiti. Il processo di riorganizzazione del ministero, che si rende ormai necessario, dovrà mirare soprattutto ad accrescere l’efficienza della rete di rappresentanza che l’Italia mantiene nel mondo. Alle sue dimensioni attuali (117 ambasciate, 12 rappresentanze permanenti, 121 uffici consolari, 3 delegazioni diplomatiche speciali serviti da appena un migliaio di funzionari) non corrisponde un adeguato livello di utilizzazione e di efficienza. Intenzioni e progetti dei vari governi per la riorganizzazione del servizio diplomatico su altre basi non sono mai approdati a soluzioni definitive. Così nel 1960, al momento del trasferimento del ministero da Palazzo Chigi alla Farnesina, veniva creata la carriera unica fondendo il settore commerciale e quello dell’emigrazione con quello diplomatico-consolare e veniva decisa l’attribuzione al segretario generale della responsabilità primaria del coordinamento dell’attività del ministero. Più tardi, nel 1999, la riforma Dini attribuiva ulteriori poteri e visibilità al segretario generale e precisava le competenze e responsabilità con una riorganizzazione interna delle direzioni generali su base geografica (che passavano da sei a quattordici, con l’istituzione di una direzione generale per gli affari europei)14. Ma la riforma ha realizzato soltanto qualche aspetto macroscopico di razionalizzazione organizzativa. Non c’è dubbio che si 14 Per un esame dettagliato della riforma cfr. ministero Affari esteri, Libro bianco 2000. Nuove risposte per un mondo che cambia, Milano 2000.

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rende indispensabile un’accurata riflessione sull’intera macchina ministeriale se si vuole che essa abbia come compito principale quello di proteggere e di promuovere gli interessi nazionali nelle aree geopolitiche più significative. In verità, sulla necessità di una riforma della Farnesina aveva convenuto anche Silvio Berlusconi, il quale, nell’assumere l’interim del ministero, il 14 gennaio 2002, dopo la breve permanenza di Renato Ruggiero, aveva sottolineato l’opportunità di un «riorientamento» del ministero e di un aggiornamento «del nostro modo di essere cooperativi e competitivi nel consesso delle nazioni». Il presidente del Consiglio maturava la convinzione che bisognava procedere a una profonda riforma delle rappresentanze diplomatiche all’estero per «accentuare le funzioni di coordinamento dei capi missione» e «per accrescere nelle rappresentanze diplomatico-consolari la capacità di promozione dell’export italiano, di sostegno all’insediamento industriale italiano all’estero, di attrazione degli investimenti esteri in Italia e di promozione del turismo straniero». A questo scopo Berlusconi affidava a due società di consulenza (la Kpmg e la Deloitte-Touche) il compito di studiare l’amministrazione della Farnesina comparandola con quelle di altri paesi: Germania, Canada e Gran Bretagna. Il progetto prevedeva, tra l’altro, l’accorpamento tra la Farnesina, l’ex ministero del Commercio estero e l’Istituto per il commercio estero, dipendente dal ministero per le Attività produttive. Ma dopo qualche mese di contatti, una cortina di silenzio calava sul progetto dell’ambasciatore-manager. In verità, il nuovo ministro degli Esteri, Franco Frattini, cercava di rilanciare l’iniziativa nel corso della quinta conferenza degli ambasciatori, nel luglio del 2004, parlando di «quattro pilastri» (politica, economia, cultura e comunicazione) per la «nuova diplomazia». Ma il successore di Frattini alla Farnesina, Gianfranco Fini, rinviava qualsiasi progetto di riforma di fronte ai contrasti emersi in seno alla maggioranza e soprattutto alla mancanza delle risorse necessarie per attuare un cambiamento di siffatte proporzioni. Tuttavia, il progetto veniva ripreso dal governo Berlusconi nella legislatura successiva e nei primi mesi del 2010 gli esperti ministeriali mettevano a punto una riforma che prevedeva: una riduzione delle direzioni generali da 13 a 8, divise non più per aree

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geografiche ma per grandi temi; l’avvio di un rapporto stabile tra Farnesina e ministero dell’Economia; e appunto l’istituzione di un ambasciatore-manager in grado di gestire in modo più autonomo e imprenditoriale le sedi all’estero. In un mondo segnato dalla proliferazione dei mezzi di comunicazione e dei canali informativi, la funzione tradizionale del diplomatico, quella cioè d’informare il proprio governo sulle politiche di quello presso il quale è stato accreditato, rischia di trasformarsi in una funzione superflua. Più importante del negoziato politico, ormai riservato direttamente ai rapporti tra i governanti, grazie alla facilità e alla rapidità delle consultazioni intergovernative, è l’azione sul versante economico diretta a informare e a creare occasioni di incontro e a introdurre l’operatore economico nazionale nella realtà e negli ambienti del paese di accreditamento, nonché ad affiancare e coordinare l’azione di istituti specializzati nell’opera di penetrazione economica e commerciale come l’Ice (Istituto per il commercio estero), la Sace (Servizi assicurativi per il commercio estero), le Camere di commercio. Ciò richiederà una profonda riforma nelle funzioni e nella preparazione del rappresentante diplomatico. Finita l’epoca dei grand commis, rimane l’esigenza di creare una categoria non solo di funzionari dotati della capacità e della preparazione degli analisti politici, ma anche di persone ricche di spirito d’iniziativa e di qualità imprenditoriali, che accanto a un corredo di conoscenze specialistiche dispongano di una visione delle cose completa e aggiornata alla realtà di un mondo in continua trasformazione. Nell’epoca della globalizzazione il diplomatico si trova di fronte a compiti nuovi: oltre a quelli di carattere economico e commerciale, deve affrontare compiti sociali e umanitari, come la tutela delle minoranze etniche, la difesa dei diritti umani, l’immigrazione clandestina, la lotta al terrorismo e al traffico internazionale della droga, la tutela dell’ambiente, la sicurezza alimentare. Insieme alla preparazione del personale va attuata la riforma delle strutture. La proliferazione delle iniziative e delle istituzioni in campo internazionale, come quelle private delle Ong (Organizzazioni non governative) e quelle delle Regioni che, sempre più numerose, aprono le proprie «ambasciate» all’estero, richiede un’opera di coordinamento e di raccordo a cui le nostre rappresentanze vanno preparate, accordando loro nuovi poteri e nuovi mezzi.

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Tutto ciò senza perdere di vista la prospettiva della possibile creazione di una diplomazia europea, quale frutto di una sempre maggiore integrazione e della formulazione di una politica estera comune ai paesi dell’Unione. Una prospettiva, questa della diplomazia europea, diventata assai concreta dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, nel dicembre 2009, con la nomina del nuovo Alto rappresentante per la politica estera nella persona della baronessa britannica lady Ashton la quale avrà alle sue dipendenze uno staff di circa 6000 diplomatici finora impegnati nelle 125 rappresentanze dell’Unione sparse nel mondo e destinate a diventare «ambasciate Ue».

7. «Peace-keeping» e «peace-enforcing» In tutti i tempi uno degli strumenti fondamentali della politica estera, secondo solo alla diplomazia, è sempre stata la disponibilità di una forza armata, a conferma del famoso detto che la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi. Oggi che la diplomazia tradizionale ha ceduto poteri e prerogative alla classe politica, la disponibilità di un apparato militare credibile non è meno necessario a sostegno dell’azione dei governi, anche se il suo ruolo è profondamente cambiato rispetto al passato. Le azioni belliche – dopo la crescita costante negli anni della guerra fredda come conflitti «delegati» (war by proxy) dalle due superpotenze – sono nettamente diminuite di numero negli ultimi anni, avendo come teatro e protagonisti quasi esclusivamente paesi e popolazioni del Terzo Mondo. Come dimostrato dalla stessa guerra fredda, che pure ha avuto momenti in cui si è temuto per il mantenimento della pace mondiale, un conflitto tra grandi o anche medie potenze dotate di un moderno apparato industriale è oggi e per il prevedibile futuro impensabile. Oltre alle disastrose conseguenze non solo per i belligeranti, senza distinzione tra i vinti e i vincitori, ma anche per l’intera comunità internazionale, alla guerra si oppone anche la filosofia pacifista nata dopo la seconda guerra mondiale e diffusa in quasi tutti i paesi europei: «figli di Venere», secondo la definizione del politologo americano Robert

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Kagan. Ma anche i «figli di Marte», e cioè in primo luogo gli americani, trovano insopportabile un conflitto quando esso si prolunghi troppo o quando le perdite di vite umane eccedano un limite che è variabile secondo il clima e le motivazioni del conflitto stesso ma è sempre estremamente basso se paragonato alle vere e proprie ecatombi delle guerre del passato. La guerra ha cessato di essere la continuazione della politica con altri mezzi e da ciò nasce il diverso ruolo delle forze armate; che non è più quello di fare la guerra ma principalmente quello di mantenere la pace secondo le due formule di peace-keeping e di peace-enforcing, in cui l’impiego della forza varia da azioni di presidio del territorio ad azioni di contrasto nei confronti di forze ostili. Questi obiettivi, che non escludono azioni militari tradizionali pur costituendone l’eccezione, richiedono una profonda riorganizzazione anzitutto nella preparazione degli operatori a ogni livello di responsabilità, quindi per i mezzi da impiegare in ogni azione futura. Rapidità degli interventi e flessibilità negli impieghi sono le esigenze essenziali di una forza armata che voglia svolgere con successo i suoi compiti di peace-keeping. Pertanto all’esercito tradizionale va sostituita una struttura decisamente meno numerosa e molto più leggera, costituita da unità relativamente piccole, modernamente armate, ben addestrate e continuamente allenate, dotate di grande mobilità e disponibili per un’ampia gamma d’impieghi. Prioritaria per il successo delle azioni di peace-keeping o di peaceenforcing è la raccolta di informazioni precise e dettagliate non solo sulla consistenza del potenziale nemico ma anche sulle caratteristiche socio-politiche del teatro d’impegno. Una moderna struttura militare non può prescindere da un efficiente complesso «militare-industriale» in grado di dotarla di mezzi aggiornati e tecnologicamente avanzati. Una moderna industria degli armamenti non è solo fonte di progresso tecnologico trasmissibile all’industria civile attraverso la ricerca, ma è anche mezzo di penetrazione economica e politica nei confronti di paesi meno attrezzati industrialmente. In ultima analisi, è fonte di redditi per lo Stato. Come abbiamo visto nel corso della nostra ricostruzione storica, l’apparato militare è sempre stato un elemento di debolezza per la nostra politica estera. La sperequazione fra gli obiettivi dei

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governi e le potenzialità militari del paese è stata in tutta la storia, dall’Unità alla seconda guerra mondiale, alla base della nostra scarsa credibilità e di una immagine non lusinghiera sul piano internazionale. La cattiva prova data dalle nostre forze armate nella seconda guerra mondiale e la loro disintegrazione all’indomani dell’8 settembre – insieme al radicale cambiamento della nostra filosofia politica confermata dall’articolo 11 della Costituzione repubblicana – avevano reso inutile ogni tentativo di competere sul piano militare con le due maggiori potenze europee, Francia e Gran Bretagna, che – pur lontane dai livelli delle due superpotenze – hanno tuttavia mantenuto la leadership militare sul nostro continente grazie anche al loro armamento nucleare. La partecipazione italiana all’Alleanza atlantica con i relativi obblighi e l’esigenza di adeguare quadri e armamenti agli alti standard fissati dalla Nato hanno segnato un primo recupero di efficienza e di credibilità del nostro apparato militare. Lo sforzo di modernizzazione dei nostri sistemi d’arma e l’esperienza maturata in molteplici missioni – quelle in Libano nel 1983, in Somalia nel 1992, nonché in Albania e nel Kosovo nel corso degli anni Novanta e successivamente in Medio Oriente, in Afghanistan e in Iraq – hanno permesso significativi progressi nella preparazione e nell’efficienza delle forze armate nazionali. Pertanto è possibile ipotizzare che la politica estera del nostro paese, nei prossimi anni, possa essere efficacemente sostenuta da un apparato militare che, anche se più contenuto rispetto a quello delle principali potenze, sia finalmente adeguato agli obiettivi politici che i vari governi vorranno porsi nei limiti fissati dalle dimensioni di una potenza intermedia con interessi globali, caratteristica dell’Italia nell’ultimo mezzo secolo. I progressi del nostro complesso industriale e quelli di una forza armata di medie dimensioni ma sufficiente a sostenere il ruolo internazionale che il paese intende svolgere restano comunque condizionati dall’aumento delle risorse, tradizionalmente inadeguate nonostante le accresciute esigenze anche in rapporto alla trasformazione dell’esercito di leva in esercito su base volontaria. La politica estera, con una percentuale di spesa pari ad appena lo 0,29 del bilancio statale, e le forze armate, il cui bilancio oscilla tra l’1 per cento e l’1,2 per cento del Pnl, soffrono dello stesso problema di fondo: quello della scarsezza dei mezzi finan-

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ziari e delle risorse ad esse destinate. Un loro opportuno aumento e una rinnovata attenzione da parte dell’establishment politico e del paese sono le condizioni necessarie per una politica estera al servizio di una ragionevole concezione dell’interesse nazionale.

8. Per una cultura della politica estera In uno studio sulla storia delle relazioni internazionali, Mario Toscano denuncia il disagio e lo stato d’inferiorità in cui la mancanza di una solida tradizione di studi e di ricerche specialistiche in materia internazionale pose il governo e la diplomazia italiani alla conferenza della pace di Versailles. Di fronte alla nutrita documentazione degli americani e alle commissioni di storici e specialisti che accompagnavano i rappresentanti inglese e francese, noi andammo a Parigi impreparati, col solo supporto del personale diplomatico e dei dossier raccolti dal ministero degli Esteri15. Da allora la situazione è cambiata di poco e alla nostra politica estera – oltre che una documentazione più puntuale e rigorosa – manca il supporto di una cultura diffusa e di una conoscenza più profonda sia a livello dei media che a quello della ricerca specializzata. Manca l’informazione sui grandi fenomeni del nostro tempo, la stampa quotidiana e periodica nelle sezioni riservate alla discussione e alla cultura privilegiano le rievocazioni del passato (quasi ossessivo il riferimento al periodo fascista) piuttosto che l’informazione sul presente e la proiezione sul futuro. La ricerca universitaria sulla tematica internazionale è perlopiù episodica e lasciata all’iniziativa dei singoli studiosi, che trovano difficoltà a diffondere i risultati dei loro studi sul piano di un’informazione generalizzata. L’attenzione nei confronti delle grandi problematiche sociali ed economiche nei paesi emergenti si esprime a livello di polemica politica o attraverso una pubblicistica che, spesso, utilizza materiale di seconda mano. Mancano canali di comunicazione per un’opera d’informazione obiettiva e non episodica nei confronti dell’opinione pubblica. Mancano le grandi fondazioni e gli istituti di ricerca 15 Cit. in AA.VV., Uomini e nazioni. Cultura e politica estera nell’Italia del Novecento, a cura di G. Petracchi, Udine 2005, p. 16.

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dei paesi anglosassoni. Istituzioni come l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), lo Iai (Istituto affari internazionali), l’Ipalmo (Istituto per le relazioni tra l’Italia e i Paesi dell’Africa, America Latina, Medio ed Estremo Oriente), e riviste come «Limes» esercitano un’importante funzione informativa, ma essa è indirizzata a un numero piuttosto limitato di esperti e di studiosi. Manca, insomma, nel nostro paese, quella cultura della politica estera in grado di orientare e d’influire sull’azione internazionale dei governi in carica. Un lodevole tentativo per supplire a questa carenza veniva compiuto, in verità, nel marzo 2008 dal governo Prodi-D’Alema attraverso la costituzione al ministero degli Esteri di un Gruppo di riflessione strategica composto da diplomatici, rappresentanti della società civile, istituti di ricerca e del mondo politico-sindacale incaricati di fissare le priorità a medio e lungo termine della politica estera italiana. Il Gruppo era costituito su una base bipartisan, tra i suoi membri figurava anche l’allora commissario europeo Franco Frattini. Quest’ultimo, tornato successivamente alla guida della Farnesina, confermava la struttura del Gruppo anche se i suoi obiettivi erano ristretti a un termine più breve. La mancanza di un valido supporto culturale e accademico rende asfittica e disarticolata ogni azione politica: il potenziamento degli studi e della ricerca universitaria in materia di relazioni internazionali è quindi fondamentale se il nostro paese vorrà prima scegliere e poi sostenere un nuovo corso di politica estera e quindi acquistare una voce più autorevole nei consessi internazionali. Nuovi corsi universitari, fondazioni, centri di ricerca, biblioteche specializzate, frequenti scambi con analoghe istituzioni di altri paesi sono gli strumenti indispensabili per la creazione di una base di conoscenze e di informazioni su cui costruire una cultura della politica estera; indispensabili ma non sufficienti. Una solida organizzazione di studi può contribuire alla migliore preparazione del personale diplomatico e della classe politica, risultato di per sé apprezzabile ma insufficiente a creare una cultura della politica estera che dai vertici del governo si estenda a comprendere ampi settori dell’opinione pubblica, riuscendo a mobilitare a vantaggio degli obiettivi prescelti quel «sistema paese» senza il quale qualunque politica resta debole ed episodica, ed essendo sottoposta a frequenti cambiamenti d’indirizzo e di governo a lungo andare perde incisività e credibilità.

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La politica estera dell’Italia dallo Stato unitario ai giorni nostri

In un sistema politico come il nostro, istituzionalmente concepito a larga partecipazione popolare, la politica estera deve godere di ampi consensi perché essa sia sottratta alle sollecitazioni temporanee, agli interessi particolari, ma soprattutto alle secche di una polemica sistematica che tutto mette in discussione, così frequente nel nostro dibattito politico. Se la politica estera è la difesa degli interessi politici, economici ma anche culturali e storici di un paese, essa non può essere soggetta alle ideologie dei partiti e alle mutevoli convenienze di forze politiche o di lobbies economiche. La politica estera di un grande paese è necessariamente bipartisan, ma la sua condivisione ha come condizione fondamentale l’esistenza di un vasto consenso d’opinione su valori e obiettivi, cioè l’esistenza di quella coscienza nazionale che inevitabilmente si costruisce sull’identità. Solo gli ultimi quindici anni hanno visto il tentativo di ricostruire un’identità nazionale attraverso una storiografia particolarmente numerosa sui temi della nazione, cui ha fatto da contrappunto un revival patriottico a uso e consumo delle masse che ha trovato un forte alimento nelle vicende dei nostri corpi di spedizione all’estero. Tutte iniziative utili a una riproposizione dell’identità ma insufficienti a una più precisa definizione dell’interesse nazionale; più congeniale a questo fine, nel quadro di un mondo ormai sicuramente avviato sul terreno della globalizzazione, è un certo ritorno di interesse e di attenzione per i problemi della geopolitica, una parola che negli ultimi tempi è riemersa dal limbo in cui l’aveva cacciata la reazione alla filosofia politica dell’imperialismo. Se il contributo del mondo accademico resta indispensabile alla definizione di una politica estera nuova e soprattutto alla formazione di una cultura della politica estera, ambedue rimangono compito ineludibile della politica e dei suoi attori. La fine delle ideologie totalitarie e la ridefinizione del ruolo dei partiti costituiscono le condizioni ideali perché si addivenga alla definizione di una politica estera fondata su una analisi e su una visione non episodica dell’interesse nazionale; ma essa non può che essere il frutto dell’impegno di una classe politica nuova che, a una migliore attenzione e a una maggiore conoscenza dei problemi internazionali, unisca la volontà di offrire al paese le opportunità di un nuovo inizio.

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INDICE DEI NOMI

Abu Abbas, 245. Acheson, D., 177-78, 187 e n, 193 e n. Acquarone, P. di, 133n. Adenauer, K., 190-91, 194, 196, 199200, 208, 217, 226. Adonnino, P., 247. Aehrenthal, A. Lexa von, 50. Aga-Rossi, E., 136n. Agnelli, G., 235. Ahmadinejad, M., 285. Aillaud, E., 212n. Albertini, L., 49n, 51n, 71. Albonetti, A., 209n. Alexander, H., 143, 149. Alfieri di Sostegno, L., 21. Allende, S., 229. Alula, ras, 41. Amato, G., 260-63, 268-69, 296 e n. Anchieri, E., 3n. Andreotti, G., 227-28, 232-34, 236-37, 245-46, 251-52, 255-56, 258n, 259. Andrew, C., 243n. Andropov, J., 242, 246, 250. Anfuso, F., 88. Angioni, F., 244. Antonelli, G., 13. Apollonio, U., 71n. Arabi, pascià, 37. Arafat, Y., 236. Artieri, G., 50n, 66n. Asburgo, dinastia, 29. Ashton, C., 281, 311. Atatürk, M. Kemal, 80, 87. Attlee, C.R., 145. Attolico, B., 119, 125, 127 e n, 307. Avarna, G., 64. Avezzana, R., 96. Aznar, J.M., 273. Azzoni, G., 214n.

Badoglio, P., 82, 105, 132, 133 e n, 134 e n, 135-38, 139n, 141. Baffi, P., 236. Balbo, C., 30, 38. Balbo, I., 100. Baldwin, S., 98, 107, 117. Balfour, A.J., 98n. Barié, O., 160n. Barrère, C., 47, 72. Barzilai, S., 75. Bastianini, G., 88, 127 e n. Bava Beccaris, F., 44. Belcredi, R., 23n. Bencivenga, R., 75n. Benedetto XV (G. Della Chiesa), papa, 72. Benesˇ, E., 95, 166. Berlinguer, E., 229 e n, 232 e n, 233-34, 266. Berlusconi, S., 261, 262 e n, 270-71, 272 e n, 273-74, 275 e n, 276, 281-82, 284, 287, 305, 309. Berselli, A., 85n. Bertani, A., 19. Bertinotti, F., 265. Bertole, S., 160n. Bethmann-Hollweg, T. von, 63. Bevin, E., 145, 162, 167, 170, 177, 184, 187. Beyen, J.W., 201. Bianchi, M., 70. Bidault, G., 147-48, 167. Bismarck, O. von, 21, 23-24, 28-31, 3334, 37-39, 44, 50. Blair, T., 273, 276. Blomberg, W. von, 114 e n, 115. Blum, L., 116. Bocca, G., 150n.

334 Bogomolov, A., 204. Bollati, R., 64. Bonghi, R., 39. Bonnet, H., 177. Bonomi, I., 138 e n, 139, 140n, 141-42, 144, 147. Boothe Luce, C., 198. Borejsza, J.W., 91n. Bosco, G., 221. Bossi, U., 262, 271n. Boulanger, G., 38. Brandt, W., 226. Breccia, A., 192n. Brezˇnev, L., 225, 234, 241-42. Briand, A., 95. Brogan, D., 57n. Brosio, M., 171. Brusasca, G., 185. Bülow, B. von, 31, 48-49, 65. Bush, G., 250, 252, 254. Bush, G.W., 266, 271, 273, 277, 284. Busino, G., 56n. Buttiglione, R., 272. Byrnes, J., 154 e n. Cacace, P., 50n, 66n, 174n, 178n, 209n, 213n, 220n, 235n, 276n. Cadogan, R., 7n. Cadorna, L., 69, 75 e n, 76. Cairoli, B., 19, 31-32. Candeloro, G., 12n, 25n, 41n, 44n, 57n, 60n. Caracciolo, L., 269n. Carandini, N., 143. Carcano, P., 70. Caretto, E., 220n. Carli, G., 259 e n. Carlotti, A., 65. Carrillo, S., 232. Carter, J., 233, 242, 266. Castellano, G., 130. Castelli, R., 276. Castro, F., 284. Cataluccio, F., 21n. Cattani, A., 217n. Catti De Gasperi, M.R., 194n. Cavalchini, G., 295n. Cavallero, U., 124. Cavour, C. Benso, conte di, 5-6, 7 e n, 8, 10-11, 12 e n, 13, 16, 21-22, 127n.

Indice dei nomi Cˇernenko, K., 250. Cerruti, V., 116. Chaban-Delmas, J., 209. Chabod, F., 19n, 29n, 147n, 291 e n. Chamberlain, A., 98 e n, 116. Chamberlain, J., 98 e n. Chamberlain, N., 98n, 116-17, 120-21. Charles, N., 137. Chirac, J., 273, 276. Churchill, R., 148. Churchill, W., 98 e n, 133-34, 136-38, 139 e n, 140-42, 146, 148 e n, 149, 193. Cialdea, B., 156n. Cialdini, E., 25. Ciampi, C.A., 261, 263, 274, 276, 280. Ciano, G., 89, 112-14, 116 e n, 118, 119 e n, 120n, 122-23, 124 e n, 125-26, 127 e n, 129, 307 e n. Ciuffoletti, Z., 55n, 251n. Clarendon, G., 6. Clark, M., 290 e n. Clemenceau, G., 67n. Clinton, B., 265, 267. Clinton, H., 284. Colapietra, R., 44n. Colombo, A., 274n. Colombo, E., 238, 243. Colorni, E., 175, 238. Composto, R., 18n. Contarini, S., 89, 95, 307. Conti, L., 212n. Conze, E., 146n, 177n. Corni, G., 146n, 177n. Corradini, E., 71. Corridoni, F., 70. Corti, L., 31, 39. Cossiga, F., 241-42, 245n. Cossutta, A., 265. Costa, A., 41. Craxi, B., 239-42, 245-47, 249, 251-52. Crispi, F., 18, 30, 32-34, 36-38, 39 e n, 40 e n, 41, 43, 45-48, 293. Croce, B., 44n, 53 e n, 71, 156-57. Daladier, E., 120-21. D’Alema, M., 262, 265, 266 e n, 268, 276-77, 279, 281, 315. Damiani, C., 99n. D’Annunzio, G., 71, 82. D’Azeglio, M., 12 e n, 19.

Indice dei nomi De Ambris, A., 70. De Bono, E., 102, 118 e n. De Castro, D., 149n. Decleva, E., 32n. De Cristoforis, T., 41. De Felice, R., 100n, 123n. De Gasperi, A., 141-44, 146-53, 154 e n, 156-57, 161-63, 166-68, 170, 172-73, 175-76, 178, 179 e n, 180, 182-83, 185, 187-89, 191-92, 194 e n, 195 e n, 196 e n, 197-98, 199 e n, 202, 214, 219, 237-38, 304. De Gaulle, C., 147-48, 209-10, 212 e n, 213, 216-17, 219-22, 225-26, 239, 247. Degli Espinosa, A., 135n. De Launay, E., 10, 23, 27, 32. Del Boca, A., 108n. De Leonardis, M., 171n. Delors, J., 239, 247, 258 e n. De Michelis, G., 256-57, 259. De Mita, C., 249, 251. De Pinedo, F., 100. Depretis, A., 30, 36, 37 e n. Diaz, A., 76. Dickoff, H., 134n. Dillon, E.J., 68n, 69n. Dini, L., 262-63, 267, 268 e n, 269, 308. Di Nolfo, E., 115n, 133n, 140n, 141n, 176n, 258n. Dodge, J., 247. Dollfuss, E., 93, 104. Dossetti, G., 170, 179, 195n. Draghi, M., 287. Ducci, R., 230 e n, 235n. Dulles, A., 147. Dulles, J.F., 197-98, 205, 211-12. Dunn, J.C., 167 e n, 187 e n, 192. Durando, G., 14, 19. Durão Barroso, J.M., 273. Duroselle, J.-B., 149n, 173 e n. Eden, A., 107 e n, 117, 134, 200, 208. Einaudi, L., 163, 175, 182, 189, 197. Eisenhower, D., 133n, 195, 197, 199, 202, 205, 208-209, 211. Eltsin, B., 253-54. Eugenia de Montijo, imperatrice di Francia, 11.

335 Fanfani, A., 199 e n, 207, 209-11, 212 e n, 213-23, 299. Fanfani, B.R., 221. Farini, D., 45n. Federzoni, L., 71. Feisal II, re dell’Iraq, 211. Fenoaltea, S., 222. Ferrari, P., 202n. Ferraris, L.V., 200n. Filippo d’Assia, 118. Fini, G., 272, 275n, 309. Flandin, P.-E., 97. Flotow, H. von, 64-65. Ford, G.R., 231, 233. Forlani, A., 227, 234. Forlati Picchio, L., 160n. Forquet, F., 296n. Fouchet, C., 217 e n. Francesco II di Borbone, re delle Due Sicilie, 11-12. Francesco Ferdinando d’Austria, 61-62. Franco, F., 110, 112. Frank, H., 114. Frassati, A., 71, 88. Frattini, F., 272 e n, 287, 288n, 309, 315. Freyberg, B., 149. Gaja, R., 137 e n, 235n. Galante, S., 202n. Gallarati Scotti, T., 143, 176, 182. Galli, C., 294n. Galli della Loggia, E., 297, 298 e n. Gambino, A., 150n. Gamelin, M., 105. Gardner, R.N., 233n. Garibaldi, G., 6, 8, 13-16, 19, 22, 26, 85. Garioni, V., 46. Garruccio, L., vedi Incisa di Camerana, L. Gatti, A., 67n. Genscher, H.D., 238. Gentile, G., 71. Gheddafi, M., 235, 246, 268n, 282, 283n. Giolitti, G., 33, 55, 58-59, 71-72, 73 e n, 74, 77 e n, 134. Giordani, I., 72n. Giorgio VI Windsor, re di Gran Bretagna e Irlanda, 133n. Giovanni IV, negus di Etiopia, 41-42.

336 Giovanni XXIII (A.G. Roncalli), papa, 216. Giovanni Paolo II (K. Wojtyła), papa, 253. Giscard d’Estaing, V., 231. Gobetti, P., 171. Goluchowski, A., 46, 51. Gömbös, G., 103. Gorbacˇëv, M., 249-55. Gorcˇakov, A., 34. Gordievskij, A., 243n. Goria, G., 251. Göring, H., 115. Grandi, D., 88, 95, 100-101, 102 e n, 103, 111, 117, 133n. Graziani, R., 108 e n. Grey, E., 62, 64n, 66, 67n. Gronchi, G., 170, 179, 195n, 203-205, 207-208, 210, 213-14, 299. Gruber, K., 154 e n, 214. Guariglia, R., 89n, 102, 106n, 132. Guglielmo II di Prussia, imperatore di Germania, 44, 50, 63, 65. Guicciardini, F., 49. Hailé Selassié, negus di Etiopia, 102, 186. Hallstein, W., 201, 220. Harriman, A., 214. Hassell, U. von, 119n. Havel, V., 273. Hazard, P., 98. Held, H., 93. Hindenburg, P. von, 103. Hitler, A., 86, 97, 103-104, 106, 110-15, 118-26, 128-29, 131, 303. Hoare, S., 107. Ho Chi Minh, 221. Hoffman, P., 190. Hötzendorf, F.C. von, 51, 61, 63. Hoxha, E., 257. Hudson, J., sir, 4, 7n. Hull, C., 134, 141. Imperiali, G., 66-67, 293. Incisa di Camerana, L., 294 e n, 299n. Izvolskij, A., 50. Jacini, S., 19. Jasnov, M., 210.

Indice dei nomi Jean, C., 295n. Johnson, L., 219, 221, 223. Jovanovic´, A., 149. Kagan, R., 311-12. Karad-ord-evic´, dinastia, 78n. Karzai, H., 284-85. Kellogg, F.B., 95. Kennan, G., 165. Kennedy, J.F., 214-15, 217-19. King, J. jr., 215. Kirk, A., 137. Kissinger, H., 225, 227, 229-31. Kleist, P.L. von, 65. Kohl, H., 247, 254-55, 257. Kostylev, M., 135n. Kreisky, B., 214n. Kruscev, N., 202, 205, 213-14, 218, 225. bin Laden, O., 270. La Malfa, U., 169, 235. La Marmora, A., 22-23, 25. Lange, H., 205. Lanza, M., 49. La Pira, G., 207, 210, 221. Laval, P., 97, 105-106, 118. Lavrov, S., 287, 288n. Lémonon, E., 53 e n. Lenin, N. (V.I. Uljanov), 99. Leone, G., 225, 230. Leopoldo II di Sassonia-Coburgo, re del Belgio, 58n. Letta, E., 269n. Levra, V., 44n. Lloyd George, D., 67n. Lombardo, I.M., 196n. Lombardo Radice, G., 71. Longhitano, R., 67n. Lorenzini, S., 199n. Lupi di Soragna, R., 156. Lussu, E., 160. Luzzatti, L., 75. Macchi di Cellere, V., 78. McDonald, R., 98, 103, 107. MacFarlane, F.M., 134n, 138n. Mack Smith, D., 6n, 7n. Macmillan, H., 140, 142, 208, 217. Maggiorani, M., 202n. Malagodi, G., 228.

Indice dei nomi Malaguzzi, A., 23n. Malfatti, F.M., 212n, 227, 241, 267. Mammarella, G., 55n, 174n, 220n, 251n. Mancini, P.S., 32, 40n. Manfredi, V., 212n. Mangascià, ras del Tigrè, 42. Manzini, R., 212n. Marchais, G., 232. Marchiori, C., 212n. Margiocco, M., 141n. Marinetti, F.T., 71. Marras, E., 176. Marshall, G., 165-66, 170, 176, 188, 190, 211, 302. Martino, A., 261, 262n. Martino, G., 200 e n, 201, 203, 205, 208. Massimiliano d’Austria, imperatore del Messico, 22, 24n. Massoud, A.S., 270. Mastrogiacomo, D., 279n. Mastrolilli, P., 210n. Mattei, E., 207, 209, 210 e n, 211, 222, 235, 299. Matteotti, G., 90, 96. Matteucci, C., 12n. Maugeri, L., 210n. Maurizio, comandante, vedi Parri, F. Mazzini, G., 16. Medgyessy, P., 273. Medici, G., 227. Medvedev, D., 287. Mendès-France, P., 198-200. Menelik II, negus di Abissinia, 42-43, 45. Messeri, G., 212n. Miki, T., 231. Miller, L., 273. Milosˇevic´, S., 257, 266-68. Minghetti, M., 21-22, 48. Mitterrand, F., 239, 247, 254-55. Molinari, M., 210n, 267n. Mollet, G., 208. Molotov (V.M. Scrjabin), 126, 134-35, 154n, 307. Moltke, H. von, 24, 62-63. Monnet, J., 190-92, 194-95, 201. Montanelli, I., 75n, 102n, 114n. Morelli, E., 45n. Morgan, W., 149. Mori, R., 39n.

337 Moro, A., 179, 214n, 219-22, 225, 227, 229-30, 232, 234-35, 237, 242. Mosca, G., 56 e n. Mosley, O., 98. Murat, G., 4n. Mussolini, B., 72, 85, 86 e n, 87 e n, 88 e n, 89, 90 e n, 91n, 93, 95-97, 98 e n, 99101, 102 e n, 103-106, 107 e n, 108-11, 112 e n, 113-14, 115 e n, 116-29, 131, 139, 303. Mussolini, E., 112. Naldi, F., 72. Napoleone I Bonaparte, imperatore dei francesi, 4 e n, 5n. Napoleone III, imperatore dei francesi, 4, 8, 10-15, 17-19, 20n, 21-26, 28. Napolitano, G., 279-80, 281 e n. Nasser, G.A., 207. Negri, C., 28n. Nenni, P., 144-46, 157, 162, 164, 178, 205, 215 e n, 219, 221, 224-25, 227, 232. Neri Gualdesi, M., 258n. Neurath, C. von, 112, 115. Nicola II Romanov, zar di Russia, 49-50, 213. Nicotera, G., 19. Nigra, C., 10, 24-25, 33. Nitti, F.S., 82. Nixon, R., 208, 214, 225-26, 228, 231. Noli, F., 92. Nuti, L., 207n, 209n, 215n. Obama, B., 284-85. Öcalan, A., 265. Orlando, V.E., 75, 77 e n, 79-82, 156-57. Ottone I, re di Grecia, 13. Pacciardi, R., 194n. Padoa-Schioppa, T., 175n. Pallavicini, E., 14. Panella, C., 272n. Paolini, A., 175n. Paolo VI (G.B. Montini), papa, 220. Papandreu, A., 247. Papini, G., 71. Pareto, V., 56 e n. Parri, F., 144, 147, 150, 243. Passerin D’Entrèves, A., 147.

338 Pastorelli, P., 47n, 67n, 170n, 176n. Paulucci di Calboli, G., 134n. Pavelic´, A., 94. Pavone, C., 58n. Peano, C., 72, 73n. Pearson, L., 205. Pella, G., 189, 197-98, 206, 210, 213. Peluffo, P., 259n. Pepoli, G., 20n, 21n. Persano, C., 25. Pertini, S., 242-43. Petacco, A., 98n. Petracchi, G., 315n. Pinay, A., 201. Pineton de Chambrun, C., 97. Pio IX (G.M. Mastai Ferretti), papa, 21. Pio XII (E. Pacelli), papa, 176 e n. Pirelli, A., 106n. Pleven, R., 194 e n. Podgornij, N., 226. Polese Remaggi, L., 147n. Pollio, A., 62, 69. Pombeni, P., 146n, 177n. Pompidou, G., 226. Portinaro, P.P., 295n. Prezzolini, G., 71. Primo de Rivera, J.A., 110. Prinetti, G., 48-50, 56, 98n. Prodi, R., 262-63, 265, 267, 276, 277 e n, 279, 284, 315. Prunas, R., 132, 135-40, 182, 308. Puntoni, P., 127n. Pupo, R., 149n. Putin, V., 287. Quaroni, P., 135n, 143, 171, 176, 182 e n, 205 e n, 308. Ragionieri, E., 53n, 69n. Rainero, R.H., 133n. Rampini, F., 266n. Rasmussen, A.F., 273. Rattazzi, U., 14-17, 22. Reagan, R., 242-46, 250. Reale, E., 143. Reza Palhevi, scià di Persia, 210. Ribbentrop, J. von, 111, 122-23, 125-26, 307. Ricasoli, B., 11, 13-14, 16-17. Ripete, E., 56n.

Indice dei nomi Robilant, C.F. di, 10, 38. Rodd, R., 77n. Romano, S., 34n, 39n, 60n, 181n, 204n, 250n, 260n, 262n. Ronzitti, N., 274n. Roosevelt, F.D., 99, 128, 130, 133 e n, 136, 139, 140 e n, 142. Rossi, E., 175, 238. Rossi Longhi, A., 212. Rosso, A., 307 e n. Rota, A.A., 115n, 119n. Rubattino, R., 28. Rubini, G., 70. Rudinì, A. Starabba di, 45. Ruggiero, R., 271 e n, 272, 309. Ruini, M., 158. Rumor, M., 225, 227, 232. Rumsfeld, D., 273. Rusconi, G.E., 76n. Russell, J., 7n. Sabbatucci, G., 32n. al-Sadat, A., 244. Saddam Hussein, 252, 266, 273. Saffi, A., 18. Saiu, L., 115n. Salandra, A., 65, 70, 72-75, 293. Salata, F., 104n. Salazar, A., 103. Salisbury, R., 39, 98n. Salvago Raggi, G., 75. Salvatorelli, L., 45n. Salvemini, G., 50 e n, 71. Sandonà, A., 29n. San Giuliano Paternò Castello, A. di, 58 e n, 59, 64-66, 67 e n, 89. Santoro, C.M., 146n, 269n. Saragat, G., 143, 147-48, 162, 179, 21920, 222-23. Savoia, dinastia, 13, 19, 29. Sazonov, S., 65. Scalfaro, O.L., 262. Scelba, M., 197-98. Schlesinger, A. jr., 215. Schlieffen, A. von, 63, 66. Schlüter, P., 247. Schmidt, H., 231-32, 236, 241 e n. Schröder, G., 273, 276. Schuman, R., 176, 190-94, 196, 199.

Indice dei nomi Schuschnigg, K. von, 104, 113. Scoppola, P., 151n, 161n. Segni, A., 207-208, 213-14. Sella, Q., 39. Serra, E., 47n, 50n, 57n. Sforza, C., 88, 134, 141, 162, 166-68, 169 e n, 170-72, 174 e n, 175-80, 182, 184, 185 e n, 187, 191, 192 e n, 193-94, 195 e n, 237. Sharon, A., 275 e n. Shaw, G.B., 98. Sica, M., 222n. Simon, J., 103. Sinigaglia, O., 191. Sofia di Hohenberg, 61. Sonnino, S., 49, 67 e n, 75, 77n, 78-79, 81-82. Spadolini, G., 241-44. Spinelli, A., 175 e n, 196, 233, 238-39. Stalin (J.V. Dzˇugasˇvili), 132, 135 e n, 136-38, 139 e n, 142, 145, 148-50, 152, 164-66, 169, 182, 197. Starhenberg, E.R., 104. Stettinius, E., 141. Stevens, E., 204. Stojadinovic´, M., 113. Stone, E., 140, 142, 151n. Strauss, F.J., 209. Stresemann, G., 93, 95. Sulzberger, C., 212. Susmel, D., 86n. Susmel, E., 86n. Suvich, F., 112, 307. Tambroni, F., 214. Tarchiani, A., 143, 147, 151, 168 e n, 176-77, 182, 308. Tardieu, A., 82. Tardini, D., 141, 170. Taviani, P.E., 191, 209. Taylor, M., 140 e n. Tegethoff, W. von, 25n. Tellini, E., 89. Thatcher, M., 239, 246-47, 256. Thomas, N., 99. Tietmeyer, H., 263n. Tito (J. Broz), 148-49, 150 e n, 153, 155, 157, 169, 197, 226, 235, 256. Tittoni, T., 49, 51, 82. Togliatti, P., 135-38, 145-46, 150 e n,

339 157, 163-64, 174, 178-79, 205, 229, 266. Torre, A., 50n. Toscano, M., 122n, 135n, 154n, 314. Tremonti, G., 271n. Trevelyan, G.M., 98. Truman, H., 148-50, 152-53, 161, 163 e n, 164-65, 167-68, 170, 173-74, 17778, 180-81, 187-89, 192-93. Trumbic´, A., 79. Ulbricht, W., 214. Umberto I di Savoia, re d’Italia, 33, 36, 303. Umberto II di Savoia, re d’Italia, 137, 138n, 158. Usedom, G. von, 23. Vandenberg, A., 173. Van Rumpuy, H., 281. Varsori, A., 151n, 174n. Vidotto, V., 32n. Vigezzi, B., 133n. Visconti Venosta, E., 10, 21 e n, 27 e n, 29-30, 32, 35, 46, 47n. Visˇinskij, A., 135. Vismara, M., 156n. Vittorio Emanuele II di Savoia, re d’Italia, 3-4, 7 e n, 8, 13-15, 17, 19, 21-22, 29, 303. Vittorio Emanuele III di Savoia, re d’Italia, 50 e n, 59, 65-66, 67n, 69, 72, 74, 118, 124, 127n, 129, 131-32, 133 e n, 137, 213, 303. Volpe, G., 40n, 44n, 53 e n, 71. Vossler, K., 98. Waldersee, A. Graf von, 46. Waldheim, K., 214n. Weigel, T., 263n. Wilson, H., 231. Wilson, W., 67n, 72, 77, 79-82, 152. Wollemborg, L., 208n. Zanardelli, G., 31, 48. Zaslavsky, V., 136n. Zeno, L., 195n. Zogu (Ahmed Zogalli), re d’Albania, 92. Zoli, A., 209. Zullino, P., 223n.

INDICE DEL VOLUME

Prefazione

V

I.

3

La politica estera dell’Unità (1861-1870) 1. Il riconoscimento internazionale, p. 3 - 2. Cavour e l’eredità cavouriana, p. 6 - 3. Roma o Venezia?, p. 11 - 4. Una politica estera ambigua, p. 15 - 5. La Convenzione di settembre, p. 19 - 6. L’alleanza con i prussiani e la terza guerra d’Indipendenza, p. 23

II.

L’Italia nella Grande Alleanza (1871-1900)

27

1. «Indipendenti sempre, isolati mai», p. 27 - 2. Le ragioni della Triplice, p. 32 - 3. Crispi e la politica di potenza, p. 36 - 4. L’avventura coloniale, p. 40 - 5. La politica di raccoglimento, p. 43 6. Il «giro di valzer» e la svolta di Vittorio Emanuele III, p. 48

III.

L’Italia e la prima guerra mondiale (1901-1921)

53

1. Il primo miracolo economico, p. 53 - 2. L’impresa di Libia, p. 56 - 3. Sarajevo dà fuoco alle polveri, p. 61 - 4. La gestione della neutralità, p. 66 - 5. Interventisti e neutralisti, p. 70 - 6. Versailles, l’isolamento dell’Italia, p. 75 - 7. Il fattore Wilson, p. 79 8. Il mito della vittoria mutilata, p. 81

IV.

La politica estera di Mussolini (1922-1943)

85

1. Mussolini si presenta, p. 85 - 2. La politica danubiano-balcanica, p. 90 - 3. I rapporti italo-francesi e quelli con la Gran Bretagna, p. 94 - 4. La politica del «peso determinante», p. 100 - 5. La politica imperiale, p. 106 - 6. L’asse Roma-Berlino, p. 112 7. Dall’«Anschluss» a Monaco e a Praga, p. 115 - 8. Il «Patto d’acciaio», p. 122 - 9. Dalla non belligeranza all’armistizio, p. 126

V.

Dalla sconfitta alla Costituzione repubblicana (1943-1948) 1. Il Regno del Sud e Stalin, p. 131 - 2. Tra cobelligeranza e riconoscimento, p. 138 - 3. Liberazione, pacifismo e internazionali-

131

342

Indice del volume smo, p. 143 - 4. Il duro prezzo della pace, p. 150 - 5. Costituzione e politica estera, p. 158 - 6. Le sirene del neutralismo, p. 164

VI.

Le scelte della ragione: atlantismo ed europeismo (1948-1955) 172 1. De Gasperi e il 18 aprile, p. 172 - 2. Il sofferto sì al Patto atlantico, p. 175 - 3. Addio alle colonie, p. 183 - 4. Guerra fredda e politica interna, p. 186 - 5. Ceca, Ced e il ruolo dell’Italia, p. 190 6. Le strettoie della politica atlantica, p. 199

VII. Speranze, illusioni e delusioni di una media potenza (1956-1989) 206 1. Neo-atlantismo e alternativa mediterranea, p. 206 - 2. Passi incerti per l’apertura a sinistra, p. 211 - 3. Centrosinistra e politica estera, p. 215 - 4. Un decennio di declino, p. 224 - 5. Europa: grande mito nazionale, p. 236 - 6. Il risveglio: «euromissili» e forza di pace, p. 240

VIII. La transizione incompiuta (1989-2010)

249

1. Fine della prima Repubblica, p. 249 - 2. Il dopo guerra fredda, p. 254 - 3. La svolta di Maastricht, p. 258 - 4. Riscoperta dell’interesse nazionale?, p. 264 - 5. Berlusconi e la politica estera, p. 270 - 6. Il breve ritorno di Prodi, p. 276 - 7. Napolitano e l’Europa, p. 279 - 8. Una storica intesa con la Libia, p. 282 - 9. Obama e l’Afghanistan, p. 283 - 10. La crisi economico-finanziaria, p. 286 - 11. Un nuovo sistema di sicurezza: da Vancouver a Vladivostok, p. 287

IX.

La politica estera della globalizzazione (2010-)

290

1. Politica estera e politica interna, p. 290 - 2. Ridefinire gli interessi nazionali, p. 293 - 3. L’interesse nazionale e l’Europa, p. 296 4. Una politica alternativa: Mediterraneo, Balcani e le aree dimenticate, p. 298 - 5. I processi di decisione della politica estera, p. 302 - 6. Il personale diplomatico, p. 306 - 7. «Peace-keeping» e «peace-enforcing», p. 311 - 8. Per una cultura della politica estera, p. 314

Bibliografia essenziale

317

Indice dei nomi

333