La politica del terrorismo suicida
 8849839405, 9788849839401

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Saggi 000 Scienze politiche e sociali

storia e teoria politica Collana diretta da Enzo A. Baldini, Giuseppe Bedeschi, Dino Cofrancesco, Girolamo Cotroneo, Francesco M. De Sanctis e Anna Pintore

Francesco Marone

La politica del terrorismo suicida

Rubbettino

© 2013 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli Viale Rosario Rubbettino, 10 tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it Progetto Graico: Ettore Festa, HaunagDesign

Il volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Pavia

Indice

Introduzione 1. Terrorismo e terrorismo suicida 1. Il concetto di terrorismo 2. Una deinizione di terrorismo 2.1 La violenza politica organizzata 2.2 La violenza politica ribelle 2.3 La strategia del terrorismo 3. Terrorismo e attacchi suicidi

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2. L’evoluzione del terrorismo suicida 55 1. Sacriicio di sé e martirio nella storia del terrorismo 55 2. Le campagne di attacchi suicidi 65 2.1 I precursori 65 2.2 Le campagne di attacchi suicidi contemporanee 76 3. Due tipi di terrorismo suicida 99 3.1 Il tipo locale 99 3.2 Il tipo transnazionale 101 3.3 I rapporti tra le organizzazioni riconducibili ai due tipi 103 4. Difusione e tecnologia 105 3. Il livello individuale: l’attentatore suicida 1. Il proilo psicologico 2. Le caratteristiche sociodemograiche ed economiche 2.1 Età e stato civile 2.2 Sesso 2.3 Status socioeconomico e grado di istruzione

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3. Le motivazioni 3.1 Interessi 3.2 Valori 3.3 Afetti e stati d’animo 4. I processi di radicalizzazione 4. Il livello ambientale: la comunità di sostegno e l’ambiente circostante 1. Le condizioni sociali ed economiche 2. Le condizioni politiche 2.1 Asimmetria del conlitto e occupazione straniera 2.2 Inluenza della democrazia 3. Le condizioni culturali e religiose 3.1 Cultura del martirio 3.2 Fattori religiosi 4. Il ruolo della comunità di sostegno

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5. Il livello organizzativo: il gruppo armato 1. La struttura organizzativa 2. Il reclutamento e l’addestramento 3. La propaganda e la giustiicazione della violenza 4. Il mercato dei martiri

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6. La politica del terrorismo suicida 1. L’eicacia e l’eicienza tattica 2. Gli scopi della violenza 2.1 Gli scopi in capo a chi assiste alla violenza 2.2 Gli scopi in capo a chi subisce la violenza 2.3 Gli scopi in capo a chi esercita e sostiene la violenza 3. Gli esiti della violenza

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Conclusioni

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Bibliograia

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’tis a consummation devoutly to be wish’d william shakespeare, Hamlet

Il terrorista è nobile, terribile, irresistibilmente afascinante, perché assomma in sé le due sublimi vette della grandezza umana: il martire e l’eroe. Dal giorno in cui egli giura, nel profondo del cuore, di liberare il suo popolo e la sua patria, egli sa di essere votato alla morte sergej «stepniak» kravčinskij, La Russia clandestina (Citato in chaliand, blin [2006, trad. it. p. ix])

Si je ne mourais pas, c’est alors que je serais un meurtrier albert camus, Les Justes

Introduzione

Dalla catastrofe dell’11 settembre 2001 alla Seconda Intifada palestinese, dalle esplosioni nella metropolitana di Londra del 2005 agli attentati che continuano a seminare morte e distruzione in Iraq, in Afghanistan e in molte altre aree del mondo: gli attacchi suicidi rappresentano sicuramente una delle forme di violenza politica più impressionanti ed emblematiche della nostra epoca. Nel corso di queste missioni senza via di ritorno una persona sacriica deliberatamente la propria vita per colpire gli obiettivi nemici, combinando nel medesimo atto volontà di morire e volontà di uccidere: l’obiettivo è, appunto, «morire per uccidere» (bloom [2005]). Comprensibilmente tra queste due componenti è la volontà di morire ad attirare maggiore attenzione e a sollevare più interrogativi; come ha scritto Ariel Merari [1990, p. 196] in uno dei primi contributi sull’argomento: dei due elementi necessari dell’attacco terroristico suicida – la volontà di uccidere altre persone e la volontà di morire – l’ultimo è certamente di maggior interesse. La volontà dei terroristi di uccidere altre persone è molto più comune e molto meno sorprendente della loro volontà di uccidere se stessi. Negli attacchi terroristici suicidi è l’aspetto del sacriico di sé piuttosto che l’aspetto dell’omicidio che suscita curiosità scientiica e preoccupazione pubblica.

Questo libro intende esaminare questa forma di violenza estrema in cui si muore per uccidere, attenendosi al principio dell’avalutatività della conoscenza scientiica. Chi si accosta a questo oggetto di studio può essere sorpreso dallo iato esi-

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stente tra la rilevanza politica del fenomeno e l’attenzione che gli studiosi gli hanno rivolto, almeno sino a pochi anni fa. Nella storia delle scienze sociali la logica della violenza politica è un oggetto di studio tanto saliente quanto generalmente trascurato1. Una delle ragioni principali di questo interesse limitato risiede nella diicoltà di afrontare un tema così sgradevole. Come ha acutamente osservato Mario Stoppino [2001, p. 67]: Al silenzio intorno alla violenza ha contribuito l’intensa penosità dell’esperienza che la parola designa. La violenza è un fatto terribile, spietato, feroce, che colpisce l’incolumità isica dell’uomo, e alimenta paura, sgomento e orrore. Di qui la tendenza a respingere la violenza, a ripararsene, a sfuggirvi; e anche a evitare, in quando è possibile, di farne l’oggetto esplicito e diretto del proprio pensiero, a nasconderla nella penombra della coscienza.

Gli attacchi suicidi, combinando nel medesimo atto volontà di uccidere e volontà di morire, costituiscono agli occhi di molti osservatori non soltanto un’esperienza terribilmente penosa, ma anche una condotta che suscita un profondo senso di ripugnanza, smarrimento ed estraneità. Spesso si preferisce concepire questo fenomeno come privo di qualsiasi logica, tanto più di una precisa logica politica che si può esprimere razionalmente nell’adozione di mezzi adeguati per raggiungere scopi strategici stabiliti. A parte alcuni precursori storici (che verranno richiamati nel secondo capitolo), il metodo degli attacchi suicidi ha fatto la sua comparsa all’inizio degli anni ’80 durante la guerra civile libanese e si è via via difuso in molte aree del mondo. Si può stimare che inora siano stati realizzati oltre 4.000 attacchi suicidi, responsabili di più di 33.000 morti. 1. A essere trascurata è soprattutto la violenza «domestica», interna agli Stati, che spezza la coesistenza paciica della comunità politica. La violenza a livello transnazionale, che rilette la natura essenzialmente anarchica del sistema internazionale, ha ricevuto maggiore attenzione: basti pensare allo studio della guerra.

Introduzione

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Se l’afermazione di questa forma di violenza è recente, ancora più recenti sono la rilessione e la ricerca empirica da parte della comunità scientiica. Prima dei clamorosi attacchi suicidi dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti la letteratura pertinente era esigua2 ed era interessata principalmente alle origini culturali del fenomeno (cfr. pedahzur, perliger, bialsky [2007]); alcune interpretazioni pionieristiche instauravano, in maniera discutibile, un nesso stretto tra violenza suicida e fondamentalismo islamico (israeli [1997]). Dopo l’11 settembre, comprensibilmente, il metodo degli attacchi suicidi ha attirato l’attenzione di molti ricercatori appartenenti a diverse discipline. Gli studiosi, in particolare, hanno spesso enfatizzato la dimensione strategica degli attacchi suicidi, rigettando le interpretazioni, difuse nella pubblicistica e nell’opinione pubblica, secondo cui questo fenomeno è inevitabilmente associato a manifestazioni di irrazionalità e addirittura di follia. Numerosi studi hanno dimostrato infatti che, a diferenza di quanto riporti l’opinione corrente, la grande maggioranza degli episodi non è opera di singoli individui anormali; al contrario, gli attacchi suicidi, solitamente riuniti in apposite campagne, più o meno lunghe, più o meno intense, rappresentano di norma azioni strumentalmente razionali condotte su iniziativa di gruppi armati (di ispirazione religiosa o di matrice laica) che perseguono determinati scopi politici (sprinzak [2000]; pape [2003; 2005]). Gli attacchi suicidi, come tutti gli atti di terrorismo (crenshaw [1990]), sono l’espressione di una strategia politica, soggetta a un calcolo di costi e beneici. In particolare, questa forma di violenza, in media, ha il vantaggio di causare più morti e distruzioni e di produrre efetti psicologici più profondi di qualsiasi altro metodo terroristico tradizionale. La letteratura ha mostrato che non esiste una teoria in grado di spiegare in maniera esaustiva le cause delle campagne di attacchi suicidi. Questo libro propone un approc2. I contributi pionieristici più rilevanti sono probabilmente Merari [1990] e Kramer [1991].

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cio multicausale allo studio del terrorismo suicida, basato sull’identiicazione di tre livelli analitici: il livello individuale (micro), il livello organizzativo (meso) e il livello ambientale (macro). L’identiicazione di questi tre livelli, già piuttosto difusa nella letteratura scientiica sul terrorismo (tra i primi, crenshaw [1981]), è ora accettata da numerosi studiosi che si sono interessati al metodo degli attacchi suicidi3. A questi livelli corrispondono tre soggetti principali: rispettivamente l’attentatore disposto al sacriicio di sé, l’organizzazione responsabile della violenza, e la comunità di sostegno; questi soggetti sono connessi tra loro da relazioni di scambio reciproco. Il volume è organizzato in sei capitoli. Nel primo capitolo si afronta la questione della deinizione del terrorismo suicida nel quadro della fenomenologia complessiva della violenza terroristica. Il secondo capitolo traccia l’evoluzione della pratica del sacriicio di sé e dell’idea di martirio nella violenza terroristica, dai precursori storici alle manifestazioni contemporanee, culminanti nella «globalizzazione del martirio» ispirata dall’ideologia salaita-jihadista4. Il terzo capitolo si concentra sul livello individuale e analizza il proilo psicologico, le caratteristiche sociodemograiche ed economiche, e le motivazioni degli attentatori suicidi. Il quarto capitolo, dedicato al livello ambientale, esamina le condizioni sociali ed economiche, le condizioni politiche e le condizioni culturali e religiose che favoriscono l’emersione del fenomeno degli attacchi suicidi, prestando particolare attenzione al ruolo della comunità di sostegno. Il quinto capitolo, interessato al livello organizzativo, prende in considerazione la struttura organizzativa, i processi di reclutamento e addestramento, l’attività di propaganda e giustiicazione della violenza dei gruppi armati; 3. Tra gli altri, si vedano Hafez [2006b]; Moghadam [2006b]; Gill [2007]; Tosini [2009]. 4. L’ideologia salaita-jihadista combina l’integralismo islamista con l’impegno nel jihad armato contro gli «apostati» e gli «infedeli». Per una presentazione si veda il capitolo 4.

Introduzione

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indaga, inoltre, le interrelazioni tra l’organizzazione che si serve degli attacchi suicidi e l’attentatore suicida, impiegando la similitudine del «mercato dei martiri», dove si incontrano domanda e oferta di violenza suicida. Il sesto capitolo indaga la «politica del terrorismo suicida», esaminando l’eicacia e l’eicienza tattica di questo metodo; valutando poi, dalla prospettiva dei gruppi armati, gli scopi perseguiti dalle campagne di attacchi suicidi; e, inine, esplorando gli esiti politici a cui esse possono giungere. Nelle conclusioni si discutono le prospettive di questa forma di violenza estrema. Questo libro si basa sulla mia attività di ricerca presso l’Università di Pavia e ha beneiciato dell’aiuto di molte persone. In particolare, un ringraziamento speciale va ad Antonio Mutti che ha sempre seguito con partecipazione il mio lavoro. Desidero esprimere la mia riconoscenza nei confronti di Francesco Battegazzorre per aver creduto nel progetto di questo volume sin dall’inizio. Sono grato, inoltre, a Cristina Barbieri per il suo sostegno in questi anni di studio e ricerca. Inine, sento qui il dovere di riconoscere il mio debito nei confronti di Giorgio Fedel, il cui insegnamento resterà nella memoria. Ringrazio di cuore la mia famiglia per l’incessante incoraggiamento (e per tutto il resto). Il libro è dedicato a Irene.

1. Terrorismo e terrorismo suicida

Il terrorismo suicida è una specie, assai rilevante e interessante, del più ampio genere del terrorismo, caratterizzata, appunto, dal ricorso agli attacchi suicidi. Questo capitolo, dedicato all’analisi concettuale, si divide in tre sezioni. La prima sezione esamina la vexata quaestio del concetto generale di terrorismo; la seconda sezione avanza una proposta di deinizione che emerge dal rafronto con altre strategie di violenza ribelle; mentre la terza sezione si soferma sul concetto di attacco suicida. La variante suicida del terrorismo si contraddistingue, come si vedrà, per il requisito necessario della morte volontaria dell’esecutore della violenza. 1. Il concetto di terrorismo Il concetto di terrorismo è notoriamente uno dei più problematici e controversi delle scienze sociali. In letteratura la discussione di questa tematica ha impegnato energie cospicue e ha spesso ottenuto esiti assai modesti. Le pagine che seguono si addentrano in questa selva di proposte, distinzioni e polemiche allo scopo di proporre una deinizione ragionevole e confacente agli obiettivi che il libro si pone. Il tema è complicato e insidioso, ma non può essere evitato: come recita la massima di Linneo, si nomina nescis perit et cognitio rerum (se non conosci i nomi, viene a mancare anche la conoscenza delle cose). Prima di afrontare la questione della deinizione, può essere utile ricostruire succintamente la traiettoria degli studi

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sul terrorismo che, comprensibilmente, ha seguito da vicino l’evoluzione storica del fenomeno. Dopo aver raggiunto l’apice a cavallo tra Ottocento e Novecento, il terrorismo ebbe scarsa importanza e visibilità nella prima metà del Novecento tanto che J.B.S. Hardman, nell’importante voce dell’Encyclopaedia of the Social Sciences del 1933, ipotizzò che sarebbe rimasto una sorta di oggetto per antiquari, irrilevante e non necessario di fronte a un futuro determinato dalle classi e dalle masse, reso invulnerabile a questa minaccia dalla moderna tecnologia (citato in rapoport [1984, p. 658]). L’espressione «terrorismo» o, più spesso, «terrore» venne associata alla pratica sistematica di violenza e repressione attuata dagli Stati totalitari (come la Germania nazista e l’Unione Sovietica stalinista) e dagli Stati autoritari (come l’Italia fascista) (hoffman [2006, pp. 14-15]). L’attività terroristica in senso proprio riprese vigore dopo la Seconda guerra mondiale nelle colonie delle potenze occidentali; queste manifestazioni, trascurate dagli studiosi, vennero spesso considerate semplicemente come una fase iniziale della «guerra interna» (internal war, ovvero guerra civile), prima delle fasi della guerriglia e della guerra convenzionale1. L’attenzione del mondo accademico per questo argomento si accese soltanto alla ine degli anni ’60 e, più chiaramente, negli anni ’70, quando il fenomeno tornò a interessare i Paesi occidentali, in corrispondenza di quella che David C. Rapoport [2004] ha recentemente chiamato la «ondata della Nuova sinistra»2.

1. Questo è, per esempio, lo schema interpretativo proposto nell’importante e pionieristico saggio Terror as a Weapon of Political Agitation di homas P. hornton [1964]. 2. Rapoport [2004] ha proposto un’inluente distinzione tra quattro ondate storiche di terrorismo: l’ondata «anarchica» nella seconda metà dell’Ottocento; l’ondata «anticoloniale» dopo la Seconda guerra mondiale; l’ondata «della Nuova sinistra», appunto, dagli anni ’60 agli anni ’80; e, inine, l’ondata «religiosa» dal 1979 (anno della Rivoluzione islamica in Iran) a oggi.

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La letteratura pertinente, fattasi via via corposissima, include centinaia di deinizioni diverse di terrorismo3. Alcune sono concise, altre particolareggiate: per esempio, da un lato, Raymond Aron si limita ad asserire, con parsimoniosa perspicacia: «è detta terroristica un’azione violenta i cui efetti psicologici sono sproporzionati ai risultati puramente isici» (citato, tra gli altri, in colombo [2006. p. 42]); dall’altro, Jack P. Gibbs [1989] si premura di scomporre il concetto associandolo a cinque requisiti molto articolati. In alcuni scritti, d’altra parte, gli autori introducono subito una deinizione quasi come se dovessero concedere un semplice tributo formale alle consuetudini scientiiche e talvolta non vi prestano nemmeno più attenzione nella parte restante del testo. Nessuna deinizione inora si è imposta sulle altre per autorevolezza dell’autore o per consenso tra gli studiosi. Come ha rilevato un noto esperto, Bruce Hofman [2006, p. 33], menzionando un importante volume degli anni ’80: esperti ed altri afermati studiosi nel settore sono ugualmente incapaci di raggiungere un accordo. Nella prima edizione del suo magistrale Political Terrorism: A Research Guide [pubblicato nel 1984], Alex Schmid ha dedicato più di cento pagine ad esaminare più di cento deinizioni di terrorismo nello sforzo di scoprire un’interpretazione largamente accettabile, ragionevolmente inclusiva della parola. Quattro anni ed una edizione dopo, Schmid non si era avvicinato all’obiettivo della sua ricerca e doveva ammettere nella prima frase dell’edizione rivista del suo volume che «la ricerca di una deinizione adeguata è ancora in corso».

Anche per questo motivo, come ha notato autorevolmente Martha Crenshaw [2001, p. 15605], a oggi «non esiste una teoria complessiva uniicante del terrorismo. Né il terrorismo 3. Tra i numerosi contributi dedicati al problema della concettualizzazione si possono menzionare almeno Crenshaw [1972]; Bonanate [1979]; Gibbs [1989]; Schmid [1992]; Della Porta [1998]; Tilly [2004]. Per una valutazione critica delle diverse proposte si veda, tra gli altri, Weinberg, Pedahzur, Hirsch-Hoeler [2004].

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è un elemento centrale nelle principali teorie della guerra e del conlitto». In efetti, la deinizione di terrorismo si rivela particolarmente disagevole, almeno per due ragioni: una concettuale, l’altra valutativa (marone [2008a, p. 209]). Per quanto riguarda la prima ragione, è evidente che questo concetto spesso fa riferimento a un’ingente quantità di oggetti diversi tra loro. Per esempio, Luciano Pellicani [1998], ricostruendo succintamente la storia del terrorismo in una voce enciclopedica, ha menzionato il Terrore giacobino, la «propaganda del fatto» anarchica, la repressione nel regime sovietico da Lenin a Stalin, l’Olocausto, la violenza di Stato di Mao in Cina e di Pol Pot in Cambogia, il fenomeno degli attentati a opera di alcuni gruppi armati di estrema sinistra in America Latina e in Europa, la violenza del fondamentalismo islamico e le lotte nazionalistiche. A unire tutti questi casi è, a suo avviso, «l’uso sistematico della violenza inalizzato a provocare una paura paralizzante» (ivi, p. 590). Alcuni studiosi fanno riferimento addirittura a fenomeni di potere costrittivo in cui non si veriica un esercizio di violenza4; a loro avviso, l’importante è che l’attore a pieghi la volontà del suo avversario b senza servirsi di armi. Secondo questa interpretazione estensiva, può essere «terroristico» anche un semplice embargo economico ai danni di un determinato Paese. Un concetto che abbracci tanti referenti empirici si colloca necessariamente a un livello decisamente alto sulla scala di astrazione, dovendo equilibrare la marcata estensione denotativa con una limitata intensione connotativa. Non è da escludere che un concetto così generale, per quanto accetta4. Per potere costrittivo si intende una forma di potere che opera attraverso sanzioni negative, relative a risorse economiche (potere economico), simboliche (potere simbolico) o di violenza (potere coercitivo). Si rimanda alla trattazione del concetto di potere svolta da Mario Stoppino in Potere e teoria politica [2001]; in particolare, si vedano le due classiicazioni del potere: la classiicazione «formale» riguardante le modalità delle relazioni potestative e la classiicazione «sostantiva» concernente i tipi di risorse su cui poggia il potere (ivi, capitoli 5 e 6).

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bile, si riveli poco utile, comportando alcuni inconvenienti nel successivo processo di operazionalizzazione. Il concetto di terrorismo è, ancor più, un concetto vago che non discrimina adeguatamente quali fenomeni rientrino in esso e quali siano esclusi; in altri termini, non stabilisce con precisione i conini dell’estensione. Esso corre seri rischi di «stiramento concettuale» (conceptual stretching), nel senso deinito da Giovanni Sartori [1970]: in un noto articolo del 1970, lo scienziato politico italiano sottolineava l’opportunità di costruire concetti caratterizzati da un equilibrio tra estensione denotativa e intensione connotativa. Riprendendo questi avvertimenti, due anni più tardi, Crenshaw [1972, p. 383] era costretta ad ammettere che «sebbene l’importanza contemporanea del fenomeno del terrorismo ribelle [insurgent] nella guerra interna sia innegabile, una rassegna della letteratura teorica sull’argomento rivela l’assenza di un concetto di terrorismo, deinito in accordo con i requisiti di Sartori». A distanza di oltre quaranta anni, non sembra che la letteratura abbia prodotto progressi signiicativi in questa direzione. Il concetto di terrorismo è, inoltre, un concetto multidimensionale e, per questo, spesso crea diicoltà nell’«organizzare l’intensione», ovvero nell’accertare quali siano le sue proprietà e come si combinino tra loro (tra gli altri, cfr. isernia [2001, capitolo 3]). Il secondo limite alla deinizione di terrorismo è di natura squisitamente valutativa. Innanzitutto, l’indagine scientiica non è certamente favorita dalla radicata e persistente riluttanza degli studiosi a esaminare i fenomeni di violenza. Come accennato nell’Introduzione, tale riluttanza è dovuta, almeno in parte, alla penosità che l’esperienza della violenza suscita: a diferenza del potere, «la violenza è univoca: è sempre terribile e brutale. Ciò rende socialmente molto penoso lo sforzo di condurre un esame spassionato e distaccato; e, inché è possibile, si cerca di scansarlo» (stoppino [2001, p. 67]). Occorre notare che il fenomeno terroristico ha spesso un impatto emotivo e psicologico più intenso rispetto ad altre strategie violente: viene percepito come «estremo», «irragio-

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nevole», addirittura «folle»; pertanto l’argomento di Stoppino è valido a fortiori per il caso del terrorismo, tanto più nella variante suicida. A volte, la violenza può presentare anche aspetti ambiguamente attraenti, ma il risultato per la ricerca scientiica non è certamente migliore: come ha sintetizzato Peter H. Merkl [1986, p. 19], «la violenza rompe potenti tabù sociali e, anche se possiamo guardarla con fascino, siamo meno inclini a essere tecnici nei suoi confronti». Queste diicoltà si collocano ancora in una fase per così dire preliminare, di avvicinamento allo studio del terrorismo, relativa al piano della «relazione al valore», distinta dal «giudizio di valore», secondo la classica interpretazione di Max Weber. I veri e propri impedimenti valutativi chiamano in causa proprio i weberiani «giudizi di valore». Com’è ovvio, il termine «terrorismo» non attiene soltanto alla sfera della ricerca scientiica. Per esempio, Alex P. Schmid [1992] ha distinto utilmente quattro «arene del discorso» riguardanti il «terrorismo non-statale»: il discorso accademico; i pronunciamenti degli Stati (o, più precisamente, le deinizioni giuridiche degli Stati e delle organizzazioni internazionali)5; il dibattito pubblico; il discorso di coloro i quali eseguono o sostengono atti di violenza contro lo Stato. Ovviamente «terrorismo» è prima di tutto un’espressione impiegata, spesso come un’arma, nella sfera della lotta politica e dell’opinione pubblica. Da qui, e in virtù di questa forza derivante dalla prassi, è entrata nel lessico specialistico delle scienze sociali. Il termine, per così dire, si impone all’attenzione dello studioso. Negli ultimi decenni la nozione ha acquistato una profonda valenza denigratoria. Tale valenza è iltrata anche nel discorso accademico; talvolta, il giudizio di valore negativo diventa addirittura un criterio in base al quale deinire il vocabolo: «terroristico» è così qualsiasi atto di violenza (o, a volte, semplicemente qualsiasi relazione di potere, coer5. Sul ruolo dello Stato come «Grande Deinitore» del terrorismo si vedano le stimolanti osservazioni di Colombo [2006, pp. 61-66].

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citivo o semplicemente costrittivo) giudicato inaccettabile, per ragioni squisitamente morali (gratuità o intensità della violenza) o prevalentemente politiche (illegittimità). Questa caratterizzazione è l’esito di un curioso percorso storico. Com’è noto, il vocabolo «terrorismo» comparve durante la fase giacobina della Rivoluzione francese. Robespierre in un celebre discorso al Comitato di Salute Pubblica del 5 febbraio 1794 dichiarò: Se lo sforzo del governo popolare in tempo di pace è la virtù, la forza del governo popolare in tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù ed il terrore. La virtù, senza la quale il terrore è cosa funesta; il terrore, senza il quale la virtù è impotente. Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inlessibile. Essa è dunque un’emanazione della virtù (citato in bonanate [1979, p. 100]).

La Repubblica Francese si trovava allora, durante l’Anno ii (1793-1794), sotto la minaccia sia di una ribellione interna sia di un’invasione straniera. La reazione rivoluzionaria fu così aspra che recentemente lo storico Reynald Secher ha parlato, con un’espressione controversa, di «genocidio francofrancese» (citato in townshend [2002, trad. it. p. 55]). In effetti, Robespierre e Saint-Just seppero canalizzare la «Grande Paura» degli anni precedenti, che aveva assunto forme ancora spontanee e di carattere locale, in un nuovo strumento razionale di terrore per l’attuazione di un programma di radicale trasformazione sociale, legittimato dal richiamo allo «stato d’eccezione» (colombo [2006, p. 54]). La parola terrorismo come «système, régime de la terreur» comparve per la prima volta nel supplemento del Dictionnaire dell’Académie française del 1798, priva ormai della connotazione positiva che aveva avuto ino al colpo di Stato di Termidoro (27 luglio 1794). Tale valenza positiva persistette, tuttavia, nel tempo tanto che molte organizzazioni ribelli dell’Ottocento si riconobbero con orgoglio in questa espressione. Gli attentatori anarchici, per esempio, elogiavano esplicitamente la strategia del terrorismo come

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«propaganda del fatto» da aiancare alla paciica propaganda della parola6. Ma nel corso del Novecento l’accezione negativa prese deinitivamente il sopravvento e l’espressione terrorismo divenne poco più che un insulto che le parti in conlitto si scambiavano reciprocamente (cfr. tosini [2007, pp. 9-13]). Secondo Crenshaw [1995, p. 8], l’Organisation de l’Armée Secrète (oas) francese, soppressa nel 1962, fu uno degli ultimi gruppi armati ad accogliere questa etichetta, mentre Ariel Merari [1993, p. 249 nota 25] cita, da ultimo, il caso del rivoluzionario e teorico marxista Carlos Marighella (1911-1969), autore di un famigerato Minimanuale della guerriglia urbana. In realtà, è interessante rilevare che già il rivoluzionario brasiliano, pur essendo disposto a deinire «terroristiche» le tattiche propugnate, preferì adottare l’espressione «guerriglia urbana» (hoffman [2006, p. 21]). Da alcuni decenni l’attribuzione dell’etichetta di «terrorista» implica la contestazione della legittimità dell’operato di un’organizzazione con obiettivi politici, cioè la contestazione dello stesso diritto ad agire come agisce, a prescindere dal consenso nel merito di cui può godere in un determinato periodo (cfr. stoppino [2001, pp. 106, 308-313]). La legittimità costituisce una risorsa preziosa per l’organizzazione, che generalmente va difesa a ogni costo. Per questo è importante notare che persino individui coinvolti in attività violente illegali e di natura chiaramente egoistica, come la rapina di 6. Per una presentazione dell’idea di «propaganda del fatto», la cui paternità è spesso attribuita al rivoluzionario italiano Carlo Pisacane (1818-1857), si vedano, tra gli altri, i contributi di Laqueur [1987, specialmente pp. 61-66]) e di Jensen [2004]. Signiicativa è a questo riguardo la vicenda della celebre rivoluzionaria russa Vera I. Zasulich (1849-1919) nella vivida ricostruzione fornita da Ami Pedahzur [2006, p. xvi]: «Commise il primo atto di terrore moderno [nel 1878] ferendo un uiciale russo che aveva commesso abusi su alcuni prigionieri. “Non sono una criminale, sono una terrorista” disse alla corte, quando le fu chiesto perché aveva gettato a terra la pistola dopo il primo colpo! Una giuria stupefatta la dichiarò innocente e poi la portò fuori dall’aula sulle spalle verso una folla che l’aspettava all’esterno. I giornali stranieri predissero che una rivoluzione era alle porte e la Russia abolì il sistema della giuria per i terroristi».

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una banca oppure un omicidio su commissione, sarebbero disposti ad ammettere di essere dei rapinatori o dei sicari. Al contrario, i membri dei gruppi armati che agiscono per scopi politici sono continuamente impegnati in quella che è stata chiamata una «auto-negazione» rispetto alla rappresentazione del «terrorismo» (hoffman [2006, p. 22]). I membri delle organizzazioni terroristiche giustiicano spesso le proprie azioni in nome della causa che promuovono. Si ha così uno scivolamento dell’attenzione dai mezzi ai ini; non soltanto il valore dei ini si riverbera sui mezzi sul piano della giustiicazione, ma, per così dire, la proclamazione dei ini occulta la considerazione dei mezzi sul piano della rappresentazione. Si consideri, per esempio, il celebre discorso di Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (olp), all’Assemblea Generale dell’onu del 13 novembre 1974: La diferenza tra il rivoluzionario e il terrorista risiede nella ragione per cui ciascuno combatte. Colui che tiene fede ad una causa giusta e combatte per ottenere la liberazione del suo paese dall’invasione, dall’occupazione e dalla colonizzazione, non può essere deinito un terrorista […]. [Q]uelli che conducono guerre per occupare, colonizzare e opprimere altre persone, quelli sono i terroristi. Quelle sono le persone le cui azioni dovrebbero essere condannate, che dovrebbero essere chiamate criminali: perché la giustizia della causa determina il diritto a lottare.

L’idea di terrorismo, in più di duecento anni di storia, ha pertanto conosciuto almeno due vistosi capovolgimenti. In primo luogo, la nozione ha subito un rovesciamento in termini valoriali, passando da un’accezione chiaramente positiva (l’«emanazione della virtù» di Robespierre) a una profondamente negativa. Questo rovesciamento si è consumato negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, quando, come si è accennato, il fenomeno ha fatto la sua apparizione nelle lotte di decolonizzazione, in corrispondenza di quella che Rapoport [2004] ha chiamato la seconda ondata «antico-

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loniale» del terrorismo moderno. Secondo Weinberg, Pedahzur e Hirsch-Hoeler [2004, p. 778], Menachem Begin, leader dell’Irgun israeliano, fu il primo a comprendere e a sfruttare il vantaggio propagandistico di chiamare i propri seguaci «combattenti della libertà» piuttosto che «terroristi»7. Le complicazioni legate alla fatica di deinire il concetto di terrorismo inducono non di rado alla tentazione di concludere che l’assegnazione di questa etichetta è del tutto soggettiva: secondo un facile adagio «disfattista» (schmid [1992, p. 7]), «quello che per qualcuno è un terrorista, per un altro è un combattente della libertà». In realtà, come ha notato saggiamente Merari [1993, p. 226], «“terrorismo” e “combattimento per la libertà” sono termini che descrivono due aspetti diversi del comportamento umano. Il primo caratterizza un metodo di lotta ed il secondo una causa». Come si vedrà più tardi, il terrorismo è una strategia di violenza ribelle che può essere impiegata per perseguire cause diferenti. D’altra parte, un rovesciamento altrettanto evidente ha interessato l’identiicazione degli attori che praticano il terrorismo. Se la nozione nei primi tempi indicava un metodo di governo, oggi viene usualmente associata all’azione politica di attori sub-statali che si oppongono, per diverse ragioni, a Stati o gruppi di Stati. Questo slittamento si è presumibilmente afermato all’epoca del terrorismo russo contro il regime zarista, nella seconda metà dell’Ottocento. Questi due limiti, concettuale e valutativo, raforzandosi spesso a vicenda, pongono dei seri ostacoli allo studio scientiico del terrorismo. Di fronte a queste diicoltà, gli studiosi tipicamente manifestano due reazioni opposte: o propongono una nuova deinizione che va a giustapporsi in maniera poco 7. L’Irgun Zevai Leumi («Organizzazione militare nazionale» in ebraico) fu un’organizzazione paramilitare sionista che operò dal 1931 al 1948 durante il Mandato britannico sulla Palestina. Quello di Begin (1913-1992) è stato uno dei casi più celebri e signiicativi di passaggio dall’attività terroristica alla politica uiciale: dopo la proclamazione dello Stato ebraico, egli rappresentò una delle igure più importanti della destra israeliana ino a diventare primo ministro dal 1977 al 1983; nel 1978 ricevette il Premio Nobel per la Pace per gli accordi di Camp David.

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proicua alle centinaia già esistenti, o rinunciano a qualsiasi deinizione (per esempio, laqueur [1987]), sostenendo, al più, che essa «dovrebbe essere l’esito piuttosto che il punto di partenza della nostra ricerca, la conclusione piuttosto che un postulato» (wieviorka [1995, p. 599]). Recentemente de la Calle e Sánchez-Cuenca [2011, p. 452] hanno notato che «dopo un lungo periodo durante il quale la letteratura accademica sul terrorismo è stata tormentata da dibattiti lessicograici, gli studiosi di oggi preferiscono semplicemente evitare la questione». In deinitiva, si sarebbe tentati di concludere che il concetto di terrorismo non costituisca tanto, come dichiarano Weinberg, Pedahzur e Hirsch-Hoeler [2004, p. 778], un «concetto essenzialmente controverso» (essentially contested concept), nel senso di W.B. Gallie, per cui il conlitto sul signiicato è un requisito essenziale per il continuo progresso della rilessione, quanto un concetto intrinsecamente ambiguo che può essere abbandonato e sostituito8. Sfortunatamente non disponiamo di sinonimi che siano al contempo appropriati ed eicaci. Alcuni studiosi hanno battuto la pista di una deinizione esplicativa di terrorismo, basata sulla considerazione dei fattori condivisi dalla maggior parte delle deinizioni presenti nella letteratura. Per esempio, riprendendo un’iniziativa intrapresa da Schmid e dai suoi collaboratori negli anni ’80 (cfr. hoffman [2006, pp. 33-34]), Weinberg, Pedahzur e Hirsch-Hoeler [2004] hanno proposto una «deinizione consensuale» (consensus deinition), basata sulla frequenza degli «elementi di deinizione» (deinitional elements) rintracciabili in 73 deinizioni presenti nelle principali riviste scientiiche del settore; secondo questa proposta, il terrorismo è «una tattica politicamente motivata che implica la minaccia o l’uso della forza o violenza nella quale la ricerca della pubblicità gioca un ruolo signiicativo» (ivi, p. 786). Sfortunatamente, 8. Sulla distinzione tra concetti essenzialmente controversi e concetti intrinsecamente ambigui si veda Isernia [2001, pp. 86-89].

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come ammettono gli stessi autori, tale deinizione si colloca a un livello troppo alto sulla scala di astrazione (ivi, p. 787). La sezione seguente si propone di presentare una deinizione di terrorismo nel quadro della fenomenologia complessiva della violenza politica organizzata. 2. Una definizione di terrorismo Una mossa fruttuosa per mettere a fuoco la questione della deinizione di terrorismo può essere quella di collocare questo fenomeno nel più ampio universo delle forme di violenza organizzata aventi scopi politici. In primo luogo, il terrorismo viene caratterizzato in base al criterio degli attori implicati nella violenza: è praticato da attori sub-statali contro Stati. In secondo luogo, il terrorismo viene posto a confronto con strategie di violenza appartenenti alla medesima classe: la guerriglia, l’insurrezione rivoluzionaria e il colpo di Stato. Nel rafronto con queste strategie di violenza aini, con le quali non di rado viene confuso, i conini della nozione di terrorismo dovrebbe emergere in maniera più chiara e distinta. D’altra parte, è opportuno precisare che la presente sezione non ha alcuna pretesa di descrivere compiutamente l’universo della violenza politica. Sulla scorta di un importante contributo di Ariel Merari [1993], la sezione presenta una classiicazione della violenza politica organizzata e una fenomenologia della violenza politica organizzata nella sua variante ribelle (esercitata, cioè, da attori sub-statali contro Stati). 2.1 La violenza politica organizzata Innanzitutto può essere utile introdurre una classiicazione essenziale della violenza organizzata con scopi politici, derivata da una proposta di Ariel Merari [1993, pp. 217-219]. La classiicazione prende in considerazione gli attori coinvolti nella violenza, autori e destinatari inali, e distingue a sua volta due modalità, Stati e attori sub-statali (tabella 1.1).

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tabella 1.1 Classificazione della violenza politica organizzata Classificazione della violenza politica organizzata

Stato Autori della violenza Attore sub-statale

Destinatari finali della violenza Stato

Attore sub-statale

Violenza bellica (guerre tra eserciti, interventi militari mirati, ecc.)

Violenza repressiva (interventi di repressione, terrore di Stato, uso di «squadroni della morte», ecc.)

Violenza ribelle (terrorismo, guerriglia, colpo di Stato, sollevazione rivoluzionaria, ecc.)

Violenza orizzontale (scontri organizzati per ragioni ideologiche o razziali, vigilantismo, ecc.)

Fonte: riformulazione da merari [1993, p. 218]

La violenza esercitata da uno Stato contro un altro Stato prende tipicamente la forma della guerra convenzionale, condotta da eserciti regolari; si tratta del più importante fenomeno di violenza nella storia moderna. Nondimeno, gli Stati possono ricorrere a numerose forme di violenza di minor intensità, come interventi militari mirati, attacchi aerei o assassinii di personalità e agenti stranieri (cfr. merari [1993, p. 218]). L’azione di coercizione dello Stato contro attori sub-statali e, in particolare, contro i propri cittadini, al di là dell’esercizio ordinario del monopolio della violenza legittima, può andare dagli interventi di repressione (cfr. davenport [2007]) alle forme più estreme di terrore sistematico9, tipico dei re9. Si consideri l’eicace distinzione di Stoppino [2001, pp. 80-81] tra «violenza punitiva», misurata e prevedibile, volta a generare nella popolazione un timore razionale e «terrore», smisurato e imprevedibile, che ha lo scopo di suscitare una paura irrazionale, «perennemente incombente e senza contorni precisi, che impedisce qualsiasi calcolo o previsione» (ivi, p. 81).

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gimi totalitari del Novecento. Un altro fenomeno degno di menzione è quello dei cosiddetti «squadroni della morte» al servizio di Stati dittatoriali, specialmente in America Latina. Naturalmente anche la violenza statale indirizzata contro le organizzazioni terroristiche rientra in questa classe. La violenza organizzata degli attori sub-statali contro lo Stato può assumere diverse strategie, tra cui la guerriglia, il colpo di Stato, la sollevazione e, appunto il terrorismo. È importante sottolineare che la violenza terroristica miete spesso vittime tra i civili, ma l’avversario reale è uno Stato (o un gruppo di Stati). Nella visione dei terroristi, le vittime degli attacchi spesso sono soltanto delle pedine che possono essere sacriicate nel conlitto contro l’avversario reale. Non di rado le organizzazioni terroristiche non sono nemmeno interessate a selezionare le vittime efettive della violenza e perciò sono disposte a ricorrere ad attacchi indiscriminati; si pensi, per esempio, al caso di un attentatore suicida palestinese che si fa esplodere nel mezzo di una via traicata di Gerusalemme o di Tel Aviv, senza nemmeno conoscere l’identità delle persone contro cui indirizza la violenza. Per certi versi, la violenza terroristica indiscriminata contro i civili consente di esercitare la massima pressione possibile sullo Stato nemico perché minaccia di gettare l’intera società in uno stato di disorientamento e, appunto, di terrore, alimentato dall’idea che tutti gli individui possano essere coinvolti in atti di violenza, proprio a causa della natura imprevedibile degli attacchi. Inoltre, la violenza indiscriminata contro i civili è anche la più eiciente perché generalmente è meno impegnativa e dispendiosa in termini di risorse, informazioni e capacità logistiche richieste (marone [2008a, pp. 234-235]). Gruppi organizzati possono esercitare violenza politica contro altri cittadini per motivi di carattere ideologico oppure per ragioni legate a diferenze razziali o etniche, oppure per questioni relative a singole issues politiche (come il tema dell’aborto, in particolare negli Stati Uniti; cfr. juergensmeyer [2000, trad. it. pp. 20-31]). Un fenomeno meritevole di particolare attenzione è quello del «vigilantismo»

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(vigilantism) conservatore o reazionario (rosenbaum, SEDERBERG [1974]), in virtù del quale gruppi organizzati attaccano altri cittadini con intenti punitivi allo scopo di difendere lo status quo oppure di reagire a un cambiamento politico: si pensi al caso del Ku Klux Klan negli Stati Uniti. Il vigilantismo riveste un ruolo importante anche in alcune aree colpite dalla violenza terroristica, essendo associato a obiettivi di opposizione e reazione alle rivendicazioni e alle iniziative delle organizzazioni terroristiche: si possono menzionare, in particolare, i casi di alcuni gruppi ebraici estremisti in Israele e nei Territori palestinesi e delle organizzazioni e bande di lealisti britannici in Irlanda del Nord. Ovviamente gli atti di criminalità perpetrati da attori sub-statali contro altri attori sub-statali non sono pertinenti in questa sede nella misura in cui non si pongono obiettivi di natura politica. Nella sezione seguente, l’attenzione verrà concentrata sulle strategie di violenza politica ribelle, in cui l’autore della violenza è un attore sub-statale e il destinatario inale uno Stato (o un gruppo di Stati). 2.2 La violenza politica ribelle Come detto, la classe della violenza politica ribelle comprende tutte le strategie di violenza politica esercitata da attori sub-statali contro Stati. Dal punto di vista delle modalità di esecuzione, le manifestazioni di violenza ribelle si possono distinguere in base al livello di organizzazione e di coordinamento tra i partecipanti; tra le manifestazioni con un minor livello di organizzazione si possono citare i tumulti e le rivolte spontanee (cfr. tilly [2003]). In questa sede si prendono in considerazione soltanto le strategie di violenza organizzata. Esse possono essere ricondotte a quattro strategie principali: il terrorismo, la guerriglia, il colpo di Stato e la sollevazione rivoluzionaria. È opportuno ribadire che l’obiettivo delle considerazioni che seguono non è quello di presentare una disamina esaustiva delle strategie ribelli, bensì quello di circoscrivere la nozione di terrorismo. Per ciascun tipo ideale di

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strategia si speciicano le caratteristiche distintive in termini di partecipazione numerica, di durata temporale (tendenziale) della violenza, di intensità della violenza, di inalità perseguite e, inine, di modalità di attuazione (tabella 1.2). tabella 1.2 Una comparazione tra le strategie organizzate di violenza politica ribelle Strategia di violenza politica organizzata

Partecipazione Durata numerica temporale

Intensità della violenza

Finalità della violenza Estendere il controllo su un territorio Rovesciare un regime politico

Modalità di attuazione

Guerriglia

Media

Lunga

Alta

Diretta

Sollevazione rivoluzionaria

Alta

Breve/ Media

Media/Alta

Colpo di Stato; assassinio politico

Bassa

Breve

Bassa

Sostituire una classe politica

Diretta

Terrorismo

Bassa

Lunga

Media

Piegare la volontà di uno Stato

Indiretta

Diretta

Fonte: riformulazione da merari [1993, p. 220]

Il colpo di Stato (violento) è un intervento illegale condotto repentinamente da un piccolo gruppo di individui che occupano posizioni importanti nella gerarchia statale (spesso appartengono ai vertici delle forze armate) allo scopo di conquistare il potere politico. Al colpo di Stato può essere aiancata la pratica dell’assassinio di uomini politici. Mentre gli atti di terrorismo intendono piegare la resistenza e la volontà dello Stato nemico, gli assassinii politici in senso stretto hanno semplicemente lo scopo di distruggere isicamente un avversario politico: per esempio, il presidente John F. Kennedy, ucciso a Dallas nel 1963. Come ha notato Stoppino [2001, p. 88], «anche l’assassinio politico, che spesso ha principal-

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mente uno scopo psicologico indiretto, in certi casi è volto alla distruzione del nemico. Ciò può avvenire quando nel gruppo avversario l’autorità è (o si crede che sia) fortemente concentrata nelle mani di un solo uomo, e quando il potere di questo capo dipende (o si crede che dipenda) dalle sue doti personali molto più che dalla carica che occupa. Di qui la frequenza per gli attentati contro i capi carismatici» (cfr. anche lasswell, kaplan [1950, trad. it. pp. 343-345]). La guerriglia è una strategia di combattimento non regolare in cui piccole bande si scontrano contro eserciti regolari servendosi di attacchi colpisci-e-fuggi allo scopo di conquistare ed estendere il controllo su un determinato territorio10. La sollevazione rivoluzionaria (violenta) è un’insurrezione popolare volta a rovesciare l’intero regime politico. Essa può assumere diverse vesti. Nella formulazione leninista, richiamata da Merari [1993, pp. 221-222], la sollevazione rivoluzionaria è preparata e diretta da un’avanguardia clandestina e fortemente centralizzata composta da rivoluzionari professionisti, può richiedere un ampio spargimento di sangue e ha durata piuttosto breve. Il terrorismo è una strategia che si concretizza nell’esecuzione di singoli atti di violenza allo scopo di piegare la resistenza e la volontà di uno Stato. I tratti distintivi del terrorismo verranno esaminati nel prossimo paragrafo. 2.3 La strategia del terrorismo Nella sua forma classica, la violenza terroristica è esercitata da un numero relativamente contenuto di individui riuniti in organizzazioni clandestine; il numero limitato dei partecipanti distingue il terrorismo dalla guerriglia e, ancor più, dalla sollevazione rivoluzionaria. La durata temporale dell’attività violenta è tendenzialmente considerevole, almeno rispetto al colpo di Stato e alla sollevazione, nel senso che i terroristi non

10. Stimolante a questo proposito la Teoria del partigiano di Carl Schmitt [1963].

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possono ricorrere a un intervento decisivo, ma solitamente sono costretti a impegnarsi in una campagna di violenza duratura allo scopo di logorare la resistenza dell’avversario11. In confronto ad altre strategie, la portata della violenza terroristica può essere deinita come media: il terrorismo tipicamente miete meno vittime della guerriglia e della sollevazione rivoluzionaria (basti pensare alla Rivoluzione comunista in Cina), ma più del colpo di Stato. È forse superluo osservare che la letalità del terrorismo varia notevolmente da organizzazione a organizzazione; nondimeno, la letalità media è relativamente bassa: come Hofman [2006, pp. 1819] ha rilevato di recente, «in tutto il Novecento non più di quattordici attacchi terroristici avevano ucciso oltre cento persone. E prima dell’11 settembre nessuna operazione terroristica aveva mai ucciso più di cinquecento persone». Il terrorismo ha lo scopo di piegare la volontà e la resistenza di uno Stato senza dover combattere. A diferenza dei guerriglieri, i terroristi non possiedono le capacità e le risorse necessarie per lanciare vere e proprie ofensive militari contro il nemico, nemmeno sotto forma di attacchi colpiscie-fuggi che permettano di evitare uno scontro alla pari; allo stesso modo, non possono ambire a conquistare ed estendere il controllo diretto di un determinato territorio. I terroristi non possono nemmeno contare sull’apporto di una massa di persone tale da consentire il rovesciamento del regime, come avviene nelle sollevazioni rivoluzionarie. Inine non sono nella condizione di eseguire interventi repentini in grado di condurre direttamente alla conquista del potere, tanto più da posizioni interne alla compagine statale, come avviene nei colpi di Stato. La debolezza relativa delle organizzazioni terroristiche in termini di capacità e risorse e di consenso popolare le costringe a ricorrere a una modalità di attuazione indiretta; 11. La strategia della violenza terroristica richiede tipicamente tempi piuttosto lunghi. Ovviamente questo non signiica che le singole organizzazioni terroristiche siano necessariamente longeve (cfr. cronin [2009, specialmente pp. 75-76]).

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l’obiettivo primario è realizzare atti di violenza di grande impatto psicologico che impongano all’avversario costi talmente gravosi da indurlo alla resa, senza che ci sia la necessità di scendere nel campo di battaglia. Il carattere distintivo del terrorismo risiede, in ultima istanza, nell’uso di una manovra indiretta, volta a piegare la resistenza o la volontà dell’avversario, esercitando una pressione di carattere prevalentemente psicologico: in efetti, come è stato spesso ripetuto, il terrorismo è, in larga misura, una «forma psicologica di combattimento». I terroristi non si scontrano direttamente con l’avversario. Consapevoli della loro posizione di inferiorità militare rispetto all’avversario, preferiscono portare a termine atti di violenza che suscitino paura, disorientamento, e appunto, come suggerisce la radice etimologica della parola, terrore12 in un pubblico vasto, allo scopo di condizionare le decisioni e i comportamenti dell’avversario. Il destinatario materiale della violenza (in molti casi, la popolazione civile) non coincide con l’avversario reale (lo Stato), ma si limita a «rappresentarlo». Da qui la funzione eminentemente simbolica e comunicativa, quasi drammaturgica della violenza terroristica, segnalata da una pletora di studiosi ed esperti. Secondo una celebre notazione di Brian Jenkins [1974, p. 4], il «terrorismo è teatro». Mark Juergensmeyer [2000, trad. it. pp. 135 e 152], prendendo alla lettera il termine «spettatore», secondo una suggestiva prospettiva drammaturgica e rituale, rileva che «quelli che assistono alla violenza (anche a distanza, attraverso i mezzi di 12. Alla prospettiva del «terrorismo» come violenza usata, in qualunque forma, con lo scopo primario di intimidire, sono riconducibili contributi stimolanti: si possono citare almeno Stoppino [2001, capitolo 3] e Tilly [2004]; in quest’ottica generale, si può vedere l’eicace trattazione di Colombo [2006, capitolo 1]. Ciononostante, seguendo l’indicazione di Schelling [1991, p. 20], è più utile considerare l’intimidazione della parte avversa come un ine immediato del terrorismo, la cui rilevanza generale può variare di caso in caso (si veda della porta [1990, p. 17] che evidenzia anche «problemi di operazionalizzazione derivanti dalla diicoltà di misurare gli stati psicologici di alcuni individui o gruppi») (cfr. capitolo 6 di questo volume).

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informazione) sono […] parte dell’avvenimento», a tal punto che «il terrorismo, senza i suoi inorriditi spettatori, sarebbe insensato come una commedia senza pubblico». Il terrorismo è quindi una strategia di violenza politica ribelle, condotta in maniera clandestina da attori sub-statali, avente lo scopo di piegare la resistenza e la volontà di uno Stato esercitando inluenza su un pubblico. Evidentemente il terrorismo intrattiene relazioni signiicative con le altre strategie di violenza appena presentate. In particolare, non poche organizzazioni ribelli si sono avvalse sia del terrorismo sia della guerriglia. Anche a causa di questa sovrapposizione nella realtà, le due nozioni sono state spesso confuse; l’espressione fuorviante di «guerriglia urbana», divenuta popolare negli anni ’70, non ha giovato a fare chiarezza. A livello analitico, la diferenza fondamentale è di ordine strategico: come detto, la guerriglia prevede uno scontro con l’avversario su un terreno militare, per quanto con accorgimenti tattici peculiari, ed è inalizzata a conquistare ed estendere il controllo su un determinato territorio attraverso lo siancamento delle forze nemiche; al contrario, il terrorismo deve giocare la propria partita clandestina nel campo dell’inluenza psicologica e non ha alcuna pretesa di impegnarsi nel combattimento aperto all’interno di «aree liberate». Da questa diferenza a livello strategico derivano numerose diferenze a livello tattico e operativo, riguardanti la natura delle operazioni, le dimensioni delle unità impegnate nella lotta, la dotazione di armi, e così via (merari [1993, pp. 224-227]; cfr. anche de la calle, sánchez-cuenca [2011, pp. 458 e ss.]). In conclusione, il concetto di terrorismo può essere deinito in base a due aspetti (cfr. anche de la calle, sánchezcuenca [2011]). Il primo aspetto attiene alla natura degli attori implicati nella violenza: il terrorismo è opera di attori sub-statali che si oppongono a Stati o gruppi di Stati. Il secondo aspetto riguarda la logica di applicazione della violenza: il terrorismo, in ultima analisi, si avvale della coercizione e dei suoi efetti psicologici, non potendo aidarsi alla semplice «forza bruta» basata sull’uso di ingenti risorse militari.

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Numerose deinizioni del terrorismo includono il requisito dell’uso della violenza ai danni di civili o non-combattenti; secondo questa interpretazione, un attacco contro obiettivi militari, viceversa, conigurerebbe sempre un atto di guerriglia (per esempio, goodwin [2006b]; ricolfi [2006, p. 80]). In realtà, questo requisito relativo allo status delle vittime appare troppo rigido e impegnativo. In primo luogo, molte organizzazioni ribelli che vengono generalmente considerate terroristiche solitamente non attaccano civili e non-combattenti: si possono menzionare gli esempi dell’ETA (Euskadi Ta Askatasuna, «Paese Basco e Libertà») e dell’IRA (Irish Republican Army) nord-irlandese, che hanno indirizzato la violenza principalmente contro membri delle forze armate e di polizia. In secondo luogo, l’uccisione di individui appartenenti alla categoria dei civili e non-combattenti non è certo una prerogativa del terrorismo: guerre convenzionali, lotte di guerriglia e genocidi lo dimostrano chiaramente (cfr. de la calle, sánchez-cuenca [2011, pp. 454-455]). Ancora più importante è, in terzo luogo, la considerazione secondo cui il tipo di vittime da solo non può deinire ragionevolmente la nozione di terrorismo. Occorre guardare, piuttosto, alla logica della violenza; lo stesso termine «terrorismo» suggerisce di guardare agli obiettivi della violenza, non ai bersagli. Per esempio, nel caso della catastrofe dell’11 settembre 2001 sembrerebbe poco convincente sostenere che gli attacchi alle Torri Gemelle costituirono atti di terrorismo perché colpirono civili inermi, mentre l’attacco (pressoché simultaneo) al Pentagono (quartier generale del Dipartimento della Difesa) fu un atto di guerriglia perché coinvolse personale militare (de la calle, sánchez-cuenca [2011, p. 452]). È più ragionevole pensare che tutti e tre gli attacchi furono atti di terrorismo, per quanto indirizzati contro categorie di destinatari diferenti. Lo status delle vittime (in particolare, lo status di civili e non-combattenti), di conseguenza, non è nemmeno un requisito necessario per deinire il terrorismo suicida. Se così fosse, occorrerebbe espungere dall’analisi i casi (importanti) di vari gruppi armati attivi in Libano, delle Tigri Tamil

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in Sri Lanka, del pkk curdo; tutte organizzazioni che hanno attaccato prevalentemente obiettivi militari13. 3. Terrorismo e attacchi suicidi L’oggetto di questo libro è la forma di violenza dell’attacco suicida impiegata all’interno di una strategia terroristica. In questo senso, l’espressione «terrorismo suicida», frequente nella letteratura accademica e, ancor più, nel linguaggio corrente, associa una speciica forma di violenza (l’attacco suicida) a una strategia di violenza ribelle (il terrorismo). Un attacco suicida può essere deinito come un atto premeditato di violenza, condotto in maniera clandestina contro obiettivi nemici, nel corso del quale l’esecutore della violenza sacriica intenzionalmente la propria vita. È opportuno rimarcare che la deinizione che si adotta ha efetti molto importanti sulla ricerca empirica. Per esempio, Robert A. Pape e i suoi collaboratori (pape [2005]) hanno raccolto una mole ragguardevole di informazioni sull’argomento e hanno costruito uno dei databases di attacchi suicidi nel mondo più noti e importanti, nell’ambito del Chicago Project on Suicide Terrorism (oggi Chicago Project on Security and Terrorism) dell’Università di Chicago14. Sfortunatamente la deinizione imprecisa di «attacco terroristico suicida» adottata da questo studioso rischia di compromettere tutta la fatica della raccolta delle informazioni e conduce a errori nella descrizione e nell’interpretazione del fenomeno. Per esempio, Pape di solito aggrega gli attacchi suicidi compiuti simultaneamente da più attentatori o da più squadre di attentatori in un solo attacco suicida: così i cinque attacchi suicidi veriicatisi a Casablanca 13. La questione è stata segnalata, tra gli altri, da Cronin [2003] e Moghadam [2006a]. Evidentemente queste scelte relative all’estensione del concetto hanno un efetto importante sulla raccolta delle informazioni e sulla costruzione dei dati nelle ricerche empiriche. 14. Si veda il relativo sito internet http://cpost.uchicago.edu.

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il 23 maggio 2003 contro cinque obiettivi diversi vengono conteggiati come fossero un unico attacco suicida. Una scelta di questo tipo non soltanto porta a una riduzione del numero complessivo degli attacchi suicidi registrati, ma ha anche effetti distorcenti: per esempio, può ofrire un’immagine falsata del rapporto tra attacchi suicidi commessi da organizzazioni di ispirazione religiosa e da organizzazioni di matrice laica, poiché la rete di al-Qaida (di ispirazione religiosa) ricorre spesso ad attacchi suicidi multipli (moghadam [2006a, p. 15]; [2006c, p. 712]). È bene sottolineare che il numero di attacchi suicidi eseguiti nel complesso è relativamente basso (poco più di 4.000 episodi), tanto più se confrontato a quello di altre forme di violenza; per questo anche piccoli scarti nel conteggio possono avere conseguenze degne di nota. L’attacco suicida associa volontà di morire e volontà di uccidere nel medesimo atto (cfr. merari [1990]; gambetta [2006]). Tale combinazione diferenzia, ovviamente, l’attacco suicida dall’attacco non suicida, in cui si uccide senza morire (enormemente più frequente nella storia), da una parte; e dal suicidio politico (cfr. biggs [2006]), in cui si muore senza uccidere, dall’altra. L’attacco suicida somma così elementi dell’uno e dell’altro. Peraltro, occorre sottolineare che mentre la morte dell’autore della violenza costituisce un requisito necessario dell’attacco suicida, la morte delle vittime è un fatto contingente che può veriicarsi oppure no; come ha scritto Gambetta [2006, p. vi], «benché una missione suicida [un attacco suicida] possa fallire e gli esecutori della violenza possano comunque morire in essa, l’opposto non accade: se sopravvivono, la missione suicida è certamente fallita». Per esempio, nel caso palestinese oltre un terzo degli attacchi suicidi complessivi, pur comportando il sacriicio della vita dell’attentatore, non raggiunge lo scopo preissato di uccidere altre persone (marone [2008a, p. 224]). In letteratura si possono rinvenire due tipi di deinizione degli attacchi suicidi: una deinizione stretta e una deinizione ampia (moghadam [2006a]). Secondo la deinizione

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stretta, il successo di un attacco suicida dipende dalla morte dell’attentatore. Come ha rilevato Yoram Schweitzer, «la morte sicura dell’esecutore della violenza è la chiave del successo dell’attacco; ed egli sa in anticipo che il successo dipende interamente da questa morte» (citato in ricolfi [2006, p. 79]; cfr. anche bloom [2005]; gambetta [2006]). I critici di questo tipo di deinizione ritengono che essa abbia il limite di escludere una grande varietà di occasioni in cui gli esecutori della violenza sono pronti a morire, anche se la loro morte non è una condizione necessaria per il buon esito della missione. Essi propongono una deinizione ampia che presuppone soltanto la disponibilità dell’attentatore a morire (cfr. merari [1990, p. 192]; pape [2005, p. 10]). Entrambe le visioni appaiono ragionevoli. Nondimeno in questo libro si preferisce adottare la deinizione stretta di attacco suicida, almeno per due ragioni. In primo luogo, sotto il proilo concettuale, una deinizione stretta consente di distinguere chiaramente l’attacco suicida genuino dalla «missione ad alto rischio» (high-risk mission, gambetta [2006])15: nella missione ad alto rischio, l’esecutore della violenza si limita a mettere in conto, in qualche misura, l’eventualità probabile, ma indesiderata, della propria morte nel corso di una missione particolarmente pericolosa. Nella missione ad alto rischio esiste sempre una possibilità, per quanto piccola, che l’esecutore della violenza sopravviva all’attacco. Questo fatto ha ripercussioni profonde sulle motivazioni psicologiche del soggetto: egli non si consegna ineluttabilmente alla morte, ma può conservare sino alla ine la speranza di salvarsi, per quanto esile possa essere. La missione ad alto rischio sembra evocare la igura dell’eroe che con coraggio mette a repentaglio la propria vita per il bene comune, piuttosto che la igura

15. La distinzione è già presente nel pionieristico saggio he Readiness to Kill and Die: Suicidal Terrorism in the Middle East di Ariel Merari [1990, p. 194] in cui si sottolinea l’opportunità di distinguere tra «essere pronti a morire» (being ready to die) e «cercare di morire» (seeking to die).

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del martire che accetta consapevolmente di morire per una causa (cfr. ricolfi, campana [2005, p. 30]). Naturalmente, le missioni ad alto rischio sono, in generale, molto più frequenti degli attacchi suicidi; nel contesto della storia europea, esse risalgono almeno ai tempi del celebre sacriicio dei trecento guerrieri spartani contro l’esercito persiano al passo delle Termopili (480 a.C.) e arrivano, giù giù, sino alle battaglie di trincea della Prima guerra mondiale e oltre (cfr. silke [2006]). Una moltitudine di esempi si ritrova anche nella letteratura occidentale16. A ben vedere, l’adagio dulce et decorum pro patria mori, di origine oraziana, ha avuto grande fortuna (cfr. kantorowicz [1951]). Nelle guerre, il rischio di perdere la vita può essere altissimo (si pensi, in particolare, agli uomini usati come «carne da cannone» nelle guerre napoleoniche o nelle battaglie di trincea nella Grande guerra), ma la morte dei soldati è comunque un esito indesiderato, non ricercato volontariamente, solitamente «antieconomico» anche per gli eserciti che si fronteggiano. Si consideri che anche nell’ambito della storia del terrorismo le missioni ad alto rischio sono decisamente più difuse degli attacchi suicidi. Walter Laqueur, sulla scorta di una deinizione ampia, è arrivato a sostenere che «prima della Prima guerra mondiale, la maggior parte del terrorismo era, in efetti, terrorismo suicida. Le armi usate (il pugnale, l’arma da fuoco a corto raggio, l’instabile bomba primitiva) costringevano l’assassino ad avvicinarsi molto alla vittima. In questo modo i primi terroristi avevano una buona probabilità di essere arrestati e poiché la pena capitale era ancora la regola, la prospettiva di ritornare vivi da tali missioni era minima – un fatto ben noto ai terroristi» (citato in moghadam [2006a, p. 19]). Una tale deinizione di «terrorismo suicida» è troppo ampia e rischia di sminuire la salienza dell’elemento 16. In realtà, nella letteratura occidentale si possono rinvenire anche casi interessanti di attacco suicida in senso proprio: capostipite è probabilmente il Sansone biblico (Giudici, 13-16). Alcuni spunti degni di nota su questa tematica, per quanto in ordine sparso, si trovano in Takeda [2010]. Cfr. il capitolo 2 di questo volume.

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del suicidio in senso proprio. Al contrario, se si sostituisce l’espressione «terrorismo suicida» con «missioni ad alto rischio», l’osservazione di Laqueur appare convincente (cfr. capitolo 2 di questo volume). In secondo luogo, sotto il proilo operativo, la deinizione stretta consente di raccogliere e di comparare informazioni e dati provenienti da contesti distanti nello spazio e nel tempo. Numerosi studiosi ed esperti sostengono, infatti, che il processo di raccolta delle informazioni sia già disagevole quando ci si attiene a una deinizione stretta, come dimostrano le vistose discrepanze nel numero di attacchi suicidi attribuiti a ciascun gruppo armato da uno studioso all’altro (moghadam [2006a, p. 15]). In particolare, nel caso delle Tigri Tamil dello Sri Lanka, Gambetta [2006b, p. 302] ha contato 192 attacchi suicidi realizzati dal 1981 al 2005, Pape e Feldman [2010, p. 284] 116 episodi dal 1983 al 2009, Hassan [2011, p. 24] 93 episodi dal 1981 al 2006, e così via; Hopgood [2006, p. 44] deve ammettere che «il numero esatto è probabilmente compreso tra 100 e 200. Semplicemente non possiamo essere più accurati di così». Non è senza importanza il fatto che alcuni studiosi, come Pape [2005, pp. 10-11], propongano dapprincipio una deinizione ampia, ma poi ripieghino tacitamente su una deinizione stretta quando devono contare il numero degli attacchi suicidi eseguiti nel mondo (citato in moghadam [2006a, pp. 19-20]). Secondo la deinizione stretta, negli attacchi suicidi l’atto di morire e di uccidere di solito avvengono simultaneamente. Un’eccezione è rappresentata dagli attacchi senza via di fuga, di cui si dirà tra poco. Al contrario, i sostenitori di una deinizione ampia concedono la possibilità che tra i due atti (morire e uccidere) trascorra un certo lasso di tempo; nondimeno anch’essi concordano sul fatto che i due eventi debbano quantomeno aver luogo nel corso della medesima missione (moghadam [2006a, p. 17]). È possibile che i membri di un gruppo armato eseguano un attacco suicida a seguito di un attacco non suicida, ma lo studioso deve tener ben separati i due eventi: ovviamente

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la natura suicida del secondo attacco non gode di una sorta di capacità retroattiva. Un esempio importante può chiarire la questione. Alcuni dei responsabili dei gravi attentati non suicidi al sistema dei trasporti pubblici di Madrid dell’11 marzo 2004 si fecero esplodere il 3 aprile di quell’anno in un appartamento di Leganés, nei pressi della capitale, mentre subivano l’assedio delle forze speciali della polizia spagnola (geo); un agente perse la vita a causa dell’esplosione. A diferenza di quanto pensino alcuni studiosi (per esempio, Pape e Feldman [2010, p. 189 nota 28]), è necessario distinguere gli attacchi non suicidi di Madrid dall’attacco suicida di Leganés. Tanto meno gli attentatori suicidi possono essere confusi con i membri di organizzazioni terroristiche che decidono di togliersi la vita, nella misura in cui questo gesto estremo non ha alcuna relazione con un atto di violenza ai danni di altre persone. Si pensi, per esempio, al suicidio di Andreas Baader e di Ulrike Meinhof, leader della raf tedesca, e allo sciopero della fame mortale di Bobby Sands e di altri militanti repubblicani in Irlanda del Nord. Ci troviamo qui di fronte non ad attacchi suicidi (in cui si muore per uccidere), bensì a semplici suicidi politici (in cui si muore senza uccidere) che hanno luogo nell’ambito di un’organizzazione terroristica (in cui si uccide). Questi e altri casi verranno presi in considerazione nel capitolo seguente, all’interno di una rilessione sul tema del ruolo del suicidio e del martirio nella storia del terrorismo. Se, come stabilito, il successo degli attacchi suicidi dipende dalla morte dell’attentatore, è evidente che gli attacchi suicidi non portati a termine per colpa dei responsabili della violenza (attacchi falliti) o per merito degli avversari (attacchi sventati) non possono essere presi in considerazione nel computo. Nondimeno essi meritano di essere esaminati separatamente. Per ragioni di sicurezza e di segretezza, le informazioni in merito agli attacchi suicidi falliti e sventati sono spesso scarse, frammentarie e contraddittorie; nondimeno sappiamo che in Paesi come Israele il numero degli attacchi

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suicidi abortiti è presumibilmente superiore al numero di quelli eseguiti17; questo risultato è dovuto principalmente alle capacità delle forze di sicurezza e di intelligence e all’eficacia delle misure di sicurezza adottate. All’opposto, lavori importanti, come quelli di Pape [2005] e di Pedahzur [2005], prendono in considerazione gli attacchi suicidi non riusciti al pari di quelli eseguiti con successo (cfr. crenshaw [2007, p. 139]). Ovviamente questa scelta ha conseguenze rilevanti sul conteggio degli attacchi suicidi e sulla possibilità di efettuare comparazioni tra casi. Negli attacchi suicidi, la certezza della morte non implica una certezza dei mezzi per realizzarla (ricolfi, campana [2005, p. 29]). La maggior parte degli attacchi suicidi assume la forma di attentati suicidi in cui la morte dell’autore della violenza e, eventualmente, delle sue vittime è causata da un’esplosione o da una collisione. L’attentato suicida eseguito con ordigni esplosivi viene chiamato suicide bombing; il suicide bombing costituisce la più difusa e importante tecnica di attacchi suicidi18. Nell’attentato suicida l’atto di morire e l’atto di uccidere sono simultanei: in altre parole, la morte dell’attentatore avviene contemporaneamente alla (eventuale) morte delle vittime. Una modalità non frequente, ma interessante, di attacco suicida è costituita dall’attacco senza via di fuga (no-escape attack: gambetta [2006, p. vii e passim]), in cui la morte dell’attentatore non è auto-inlitta, ma è una conseguenza inevitabile della missione stessa: di solito attraverso una immediata reazione violenta del nemico. Nell’attacco senza via 17. Alcune stime sul capo palestinese sono menzionate, tra gli altri, da Ricoli [2006, pp. 307-308 nota 4] e da Hafez [2006a, p. 72]. 18. In altri termini, i suicide bombings costituiscono un sottoinsieme degli attentati suicidi, i quali, a loro volta, rappresentano un sottoinsieme degli attacchi suicidi. Come rileva Assaf Moghadam [2006a, p. 16], «tutti i suicide bombings sono attacchi suicidi [suicide attacks], ma non tutti gli attacchi suicidi sono suicide bombings. In senso stretto, gli attacchi dell’11 settembre non furono suicide bombings poiché nessun dispositivo esplosivo fu usato nell’uccisione di quasi 3000 persone. Essi furono, comunque, attacchi suicidi».

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di fuga l’attentatore non si uccide facendosi esplodere (selfexplosion), come avviene nel suicide bombing; ma, a diferenza della missione ad alto rischio, la morte è comunque certa. L’attacco senza via di fuga presenta alcune peculiarità degne di nota. Esso si allontana dalla rappresentazione sociale del suicidio comune perché la morte dell’attentatore è inlitta materialmente da un soggetto che appartiene alla parte avversa; questo fatto può garantire maggior legittimità all’azione perpetrata perché consente di presentare un gesto dettato dall’intenzione di sacriicare la propria vita come un’uccisione per mano nemica e permette quindi di addossare la colpa della morte all’avversario; allo stesso modo, può alleggerire la responsabilità e il fardello psicologico che gravano sulle spalle dell’attentatore. Inoltre, l’attacco senza via di fuga richiede condizioni operative e logistiche diverse da quelle di altre modalità di attacco suicida. Prima della difusione di esplosivi ad alto potenziale, come la dinamite (inventata nel 1867), l’attacco suicida assumeva tipicamente la forma di un attacco senza via di fuga; a questo proposito, nel capitolo seguente verranno presi in considerazione i casi storici degli atti di violenza perpetrati dai Sicari, dagli Assassini e dai membri di alcune comunità dell’Asia sud-orientale all’epoca del colonialismo europeo. È interessante rilevare che queste distinzioni non sono importanti soltanto per gli studiosi e gli esperti, ma anche per i soggetti implicati nella violenza. Per esempio, Shaul Shay, citando documenti uiciali sequestrati dalle autorità israeliane, ha rilevato che i inanziamenti erogati da Saddam Hussein a favore dei gruppi armati palestinesi contemplavano una distinzione scrupolosa tra fondi per attacchi suicidi eseguiti con successo, fondi per attacchi suicidi falliti e fondi per generiche «operazioni di martirio» nel corso delle quali cittadini palestinesi perdevano la vita per mano di israeliani. La somma di denaro assegnata alle famiglie dei morti decresceva con il passaggio da una categoria all’altra (citato in crenshaw [2007, p. 140]). Gli attacchi suicidi autentici richiedono sempre la volontarietà della scelta da parte dell’attentatore: il soggetto

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cerca la propria morte nel corso della missione in maniera consapevole e premeditata; così come un suicida per essere veramente tale deve agire volontariamente. L’assenza del requisito della volontarietà caratterizza un’altra categoria di atti violenti per la quale si può adottare l’espressione di «attacco a controllo remoto» (remote-control attack) (merari [1990]); in questo caso l’esecutore della violenza è vittima di un inganno: prende parte intenzionalmente a un attacco che crede non suicida, ma viene impiegato, suo malgrado, come «bomba umana», di solito per mezzo di un ordigno esplosivo controllato a distanza dagli organizzatori dell’attacco. Merari [1990, pp. 194-195; cfr. p. 203] segnala almeno un presunto caso di attacco a controllo remoto perpetrato dal Partito comunista libanese contro una stazione radio il 17 ottobre 1985, nel sud del Libano. Recentemente Bloom e Horgan [2008, pp. 583-584], Lankford [2013, p. 139] e altri studiosi hanno indicato altri casi veriicatisi in Iraq, in Afghanistan e in altri Paesi. Vale la pena di ricordare che uno sconcertante attacco a controllo remoto fu sventato in Europa il 17 aprile 1986: Nezar Hindawi, un cittadino giordano in contatto con i servizi segreti siriani, nascose un ordigno esplosivo a tempo nella borsa della propria idanzata irlandese, al quinto mese di gravidanza, prima che la ragazza tentasse di imbarcarsi su un volo diretto da Londra a Tel Aviv; la donna, ignara della presenza dell’ordigno, fu fermata dalle autorità aeroportuali e Hindawi fu arrestato il giorno successivo. Pur implicando motivazioni e dinamiche diferenti, sia gli attacchi a controllo remoto sia gli attacchi suicidi prevedono la morte dell’attentatore (salvo che la missione fallisca). Per questa ragione l’osservatore esterno diicilmente può ricavare informazioni attendibili sulle reali intenzioni dell’attentatore ex post facto: l’attentatore ha davvero sacriicato volontariamente la propria vita o è stato usato come «bomba umana» a sua insaputa? Per motivi propagandistici l’organizzazione responsabile della violenza di solito ha tutto l’interesse a presentare qualsiasi attacco come frutto della libera scelta dell’attentatore (cfr. reuter [2002, trad. it.

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pp. 251-252]; merari [2010, capitolo 6]). Non si può quindi escludere che un certo numero di episodi usualmente conteggiati come attacchi suicidi nasconda, invece, attacchi a controllo remoto. Altri casi possono essere ricondotti agli attacchi a controllo remoto, nella misura in cui sembrano scavalcare la consapevolezza dei partecipanti alle missioni; alcuni gruppi armati attivi in Iraq avrebbero indotto persone afette da gravi malattie mentali a partecipare a missioni letali basate sull’impiego di ordigni controllati a distanza (per esempio, bloom, horgan [2008, pp. 584-585]). Per inciso, si può ricordare che l’ira in Irlanda del Nord, le farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) in Colombia, e altri gruppi armati in varie aree del mondo hanno addestrato animali domestici (asini, cani e persino gatti) per portare a termine apposite missioni «suicide» (cfr. kalyvas, sánchez-cuenca [2006, p. 325 nota 6]; dolnik [2007, p. 45]; bloom, horgan [2008, p. 608]; lankford [2013, p. 1]): i mandanti di questi attacchi a controllo remoto, ovviamente, non dovevano nemmeno ricorrere all’inganno, ma si limitavano a sfruttare la mancanza di consapevolezza degli animali19. In genere, gli attacchi suicidi genuini comportano anche un minimo di libertà da parte dell’attentatore, in contrapposizione a quelle che Stathis N. Kalyvas e Ignacio Sánchez-Cuenca [2006] chiamano missioni «forzate» o «delegate» (forced o delegated), in cui, il soggetto, vittima di un ricatto da parte di un gruppo armato, è costretto a partecipare, in modo non libero, ma consapevole, a una missione in cui perderà la vita. Tra gli esempi più rilevanti di missioni forzate si può citare la campagna di proxy bombs (letteralmente «bombe per procura») organizzata dalla Provisional ira, all’inizio degli anni ’90. Il caso delle proxy bombs merita attenzione non soltanto 19. Aggiungendo macabro al macabro, a partire dal 1998 le farc hanno persino celato ordigni esplosivi e bombe a mano in cadaveri destinati a essere ispezionati o presi in custodia dal nemico (body bombs) (kalyvas, sánchez-cuenca [2006, p. 325 nota 6]).

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per le rassomiglianze con il metodo degli attacchi suicidi, ma anche per l’importanza attribuita dall’ira20 all’idea del sacriicio di sé dopo gli scioperi della fame del 1981 (si veda il capitolo successivo) e per l’inluenza della comunità di sostegno sui mezzi impiegati dall’organizzazione terroristica. Il 24 ottobre del 1990 alcuni Provisionals sequestrarono la famiglia di Patrick «Patsy» Gillespie, un cittadino cattolico che lavorava in una mensa per le forze armate britanniche. I militanti repubblicani costrinsero l’uomo a guidare un’automobile imbottita di esplosivo sino a un checkpoint britannico; a quel punto l’auto-bomba fu fatta esplodere a distanza, provocando la morte di Gillespie e di cinque soldati. Questo attacco fu il primo e il più eicace di una campagna di «bombe umane» di breve durata: una manciata di attacchi in Irlanda del Nord tra la ine del 1990 e l’inizio del 1991, cui bisogna aggiungere un episodio isolato a Londra nell’aprile del 1993. Il metodo delle proxy bombs rappresentò una svolta nell’attività terroristica dell’ira. L’organizzazione nord-irlandese tradizionalmente issava dei limiti alla portata della violenza esercitata contro l’avversario (benché non fossero sempre rispettati), considerandosi un’organizzazione militare, come suggerisce il nome «Army» (cfr. bloom, horgan [2008]; lewis [2012, pp. 121-122 e ss.]; dolnik [2007, p. 70])21. L’ira concentrò i propri attacchi principalmente contro obiettivi delle forze dell’ordine britanniche, limitando il coinvolgimento dei civili; inoltre, a diferenza della maggior parte delle organizzazioni terroristiche, si impegnò a trasmettere un allarme a ridosso dell’esecuzione di un attentato (di solito 20. Alla ine del 1969 l’ira si spaccò in due fazioni principali, la Provisional ira e la Oicial ira. Ciononostante, nel discorso pubblico la prima fazione, più importante, di solito continua a essere chiamata semplicemente ira. A questa si fa riferimento in tutto il testo. 21. Ciononostante, vale la pena di ricordare che nel conlitto nord-irlandese non sono mancate occasioni eccezionali di violenza estrema contro i civili: si pensi, in particolare, al caso degli Shankill Butchers («macellai di Shankill», una zona di Belfast a maggioranza protestante), una banda lealista responsabile di sequestri, torture e omicidi sadici e raccapriccianti (juergensmeyer [2000, trad. it. p. 130]).

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con una telefonata un’ora prima dell’esplosione) (freedman [2005, pp. 388-391]). Le proxy bombs si collocarono al culmine di un’escalation tattica nell’uso delle auto-bombe. Nelle prime fasi dei Troubles i militanti dell’ira erano soliti condurre un’automobile imbottita di esplosivo nel luogo prescelto e farla saltare in aria dopo un considerevole lasso di tempo; più tardi, si spinsero in alcune occasioni sino al punto di costringere con la forza alcuni civili a trasportare una bomba in auto, in una sorta di «dirottamento stradale»; all’inizio degli anni ’80 ricattarono alcuni civili, tenendo in ostaggio la loro famiglia, e li costrinsero a posizionare un’auto-bomba secondo le loro istruzioni; inine con l’ultimo cambiamento tattico, attuato nel 1990, alle vittime del ricatto non fu più concessa l’opportunità di fuggire prima dell’esplosione (bloom, horgan [2008, pp. 585-586]). Questa progressione avrebbe potuto preigurare un avvicinamento al metodo degli attacchi suicidi. D’altra parte, tra i membri dell’ira la disponibilità all’estremo sacriicio per la causa non era soltanto un’idea rilevante e difusa, così come in altre organizzazioni terroristiche, ma era anche una pratica efettivamente sperimentata con gli scioperi della fame del 1981. L’organizzazione poteva contare su numerosi militanti disposti a intraprendere missioni ad alto rischio e persino, in circostanze particolari, a partecipare a suicidi per obiettivi politici, ma con ogni probabilità non era in grado di reclutare individui disposti a morire per uccidere. In un certo senso, con le missioni forzate l’ira tentò di ottenere i vantaggi degli attacchi suicidi senza sopportarne i costi in termini di sacriicio dei propri militanti e simpatizzanti: decise così di sostituire i volontari con individui sottoposti a ricatto. Uno degli aspetti più rilevanti di questa vicenda fu la reazione della società nord-irlandese e della comunità di sostegno dell’ira: a diferenza degli scioperi della fame, le proxy bombs suscitarono orrore e sdegno unanimi, anche tra le ila dei sostenitori della causa repubblicana: una barriera psicologica e morale, una sorta di «linea rossa» era stata superata. Fu per questo, probabilmente, che l’organizzazione paramilitare

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abbandonò in fretta questa forma di violenza estrema. A rendere ancora più odiose tali iniziative era il fatto che le vittime del ricatto fossero cittadini cattolici, cioè appartenenti alla stessa comunità che l’ira pretendeva di difendere. I soggetti ricattati erano giudicati obiettivi legittimi dai Provisionals perché erano presentati, con esagerazione, come collaborazionisti e traditori; per meritare tale etichetta era suiciente che essi fossero a contatto con le forze britanniche nello svolgimento del proprio lavoro. Agli occhi della stessa comunità cattolica le proxy bombs parvero non soltanto atroci, ma anche codarde: l’ira, non trovando presumibilmente militanti disposti a sacriicare la propria vita in un attacco suicida, costringeva arbitrariamente ad andare incontro alla morte altri cattolici, attraverso un ricatto (bloom, horgan [2008, p. 588; cfr. pp. 600-601]). La Chiesa cattolica, nel cui seno storicamente non erano mancate simpatie (non uiciali) per la causa repubblicana, espresse subito una condanna durissima: per esempio, il vescovo di Derry/Londonderry, seconda città dell’Irlanda del Nord, deinì i responsabili della violenza «seguaci di Satana» (bloom, horgan [2008, p. 602]). Ancora oggi gli scopi perseguiti dalla campagna di proxy bombs dei primi anni ’90 non sono perfettamente chiari. In dichiarazioni uiciali l’ira sostenne che il nuovo metodo era una risposta alle innovazioni tattiche dell’avversario britannico. D’altra parte, gli attacchi potevano anche avere l’obiettivo di impedire l’apertura di un processo di pace, secondo una logica di sabotaggio anticipato, simile a quella che si può ritrovare anche in alcune campagne di attacchi suicidi (cfr. capitolo 6 di questo volume). È possibile, inine, che questi attacchi intendessero vendicare l’uccisione di alcuni importanti militanti, avvenuta alcuni mesi prima (cfr. bloom, horgan [2008, pp. 596-598, 606-607])22. 22. Altri possibili scopi politici sono più complicati e sottili. Secondo interpretazioni ricorrenti (ma non provate), la campagna di proxy bombs rappresentò una sorta di rischio calcolato nell’ambito di una lotta interna all’ira: i settori moderati dell’organizzazione (le «colombe»), che facevano capo a Gerry Adams (leader

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Il caso della campagna di proxy bombs lanciata dall’ira mette in evidenza l’inluenza della comunità di sostegno sulla selezione e sull’uso di forme di violenza terroristiche. Su questo argomento si ritornerà nei capitoli successivi. Episodi di missioni forzate si registrarono anche in Colombia nel 2002 e nel 2003 a opera delle farc, un’organizzazione ribelle di ispirazione comunista (kalyvas, sánchez-cuenca [2006, pp. 211-212, 325]; bloom, horgan [2008, p. 608]). Come detto, gli attacchi suicidi autentici implicano la volontarietà dell’attentatore suicida. Nondimeno, l’elemento della libertà dell’attentatore deve essere considerato con la dovuta cautela. Di solito le organizzazioni responsabili della violenza si limitano ad adottare una serie di espedienti ingegnosi attraverso i quali «congelare» la decisione dell’individuo di sacriicare liberamente la propria vita nel corso di un attacco suicida: i gruppi armati stabiliscono, per esempio, alcuni «punti di non ritorno» (merari [2010, p. 163]), come la preparazione di un testamento ilmato del futuro «martire». Con la registrazione del video-testamento, gli aspiranti suicidi confermano irrevocabilmente la loro volontà di sacriicio, diventando «martiri che camminano», destinati a una morte certa e prossima. D’altra parte, i video-testamenti hanno anche lo scopo di difondere la propaganda dei gruppi armati e di confermare l’efettiva paternità degli attacchi suicidi eseguiti. Non mancano, tuttavia, i casi in cui le organizzazioni responsabili della violenza esercitano costrizione ai danni delle possibili reclute. Queste pratiche sembrano esser state frequenti nel caso delle Tigri Tamil dello Sri Lanka e, ancor più, del pkk curdo. Secondo testimonianze disponibili agli studiosi, alcuni attacchi presentati come suicidi dal pkk dodi Sinn Féin), avrebbero acconsentito all’uso di questo metodo, scommettendo (con successo) sulle sue ripercussioni negative, allo scopo di screditare i settori più intransigenti (i «falchi») che propugnavano la necessità della lotta armata (per esempio, bloom, horgan [2008, p. 605]). Di certo la reazione suscitata da quegli atti spietati ebbe l’efetto di raforzare la posizione delle «colombe».

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vrebbero essere più appropriatamente inclusi nella categoria delle missioni forzate: per esempio, secondo Christoph Reuter [2002, trad. it. p. 251], «[le donne del pkk], una volta prescelte per eseguire un’“operazione martirio”, non avevano possibilità alcuna di sottrarsi all’imposizione». La principale diferenza rispetto alle missioni forzate dell’ira e delle farc consiste nel fatto che gli individui obbligati a morire erano già membri dell’organizzazione e non venivano selezionati all’esterno. Probabilmente non è un caso che le Tigri Tamil (sconitte nel 2009) e il pkk siano entrambe organizzazioni laiche che non possono ofrire incentivi selettivi relativi a beneici oltremondani. Piuttosto, in questi contesti sembra giocare un ruolo cruciale una leadership carismatica e incontrastata che si manifesta in veri e propri «culti della personalità» del fondatore, rispettivamente Velupillai Prabhakaran (ucciso nel 2009) e Abdullah Öcalan (attualmente in carcere). Secondo alcuni studiosi (kimhi, even [2004, p. 826]), anche in contesti come quello palestinese, dove gli incentivi (di carattere laico e religioso) per la partecipazione ad attacchi suicidi sono numerosi e rilevanti, i gruppi armati, in alcune occasioni, hanno esercitato pressioni sugli attentatori ofrendo loro una «proposta “che non si può riiutare”» per espiare trasgressioni alle norme sociali o al codice morale, oppure tradimenti politici. L’uso dell’espressione «attacco suicida» può suscitare dissensi e opposizioni. È noto che le organizzazioni che abbracciano questa forma di violenza rigettano sdegnosamente l’etichetta di «attacco suicida», preferendo espressioni come «operazione di martirio» (cfr. abdel-khalek [2004]). Per esempio, Mahmoud al-Zahar, cofondatore e dirigente di spicco di Hamas, in un’intervista alla televisione al-Jazeera del 2006 ha dichiarato: Queste non sono operazioni suicide. È un termine ingannevole usato dagli israeliani per dire che sono operazioni suicide, sapendo che il suicidio è proibito dall’islam. Questo anzitutto come chiarimento. Si tratta di operazioni nelle quali si va incontro al martirio, approvate

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da tutte le autorità della nazione islamica, che le considera il punto più alto del martirio (citato in tosini [2007, p. 11]).

Non può sfuggire il fatto che quella che verte sui nomi sia una delle battaglie che i gruppi armati (e i loro avversari) devono combattere, e nemmeno la meno saliente: ci troviamo evidentemente nel bel mezzo della quarta arena del discorso sul terrorismo individuata da Schmid [1992], quella di pertinenza «dei “terroristi” e dei loro simpatizzanti». In questo libro, che si colloca invece nella prima arena del discorso (quella attinente al «discorso accademico»), il termine «attacco suicida», considerata anche l’assenza di sinonimi pregnanti, appare ammissibile nella misura in cui non implica alcun giudizio morale di segno negativo. In altre parole, in questa sede non si ha alcuna diicoltà a prendere atto della possibilità che gli attentatori suicidi muoiano perché decidono di sacriicare la propria vita per una causa superiore in cui credono, e non soltanto perché perseguano scopi strettamente personali o perché siano afetti da disturbi mentali (gambetta [2006, p. vii]). Le motivazioni individuali degli attentatori suicidi verranno esaminate sine ira et studio nel capitolo 3. Come detto, in questo volume l’attenzione è rivolta agli attacchi suicidi impiegati all’interno di una strategia di violenza terroristica. Per questo non verranno prese in considerazione le operazioni suicide che si svolgono nel corso di guerre convenzionali tra eserciti: come le azioni dei Kamikaze giapponesi durante la Seconda guerra mondiale (hill [2006]), dei Viet Cong e dei loro alleati nord-vietnamiti durante la Guerra del Viet-Nam (weinberg [2006]) e di migliaia di giovani iraniani durante la guerra tra Iran e Iraq (per esempio, khosrokhavar [2002, trad. it. pp. 79-128]). È doveroso notare che per almeno tre importanti casi di campagne di attacchi suicidi esaminati in questo libro la nozione di terrorismo suicida si presta a qualche obiezione: si tratta del caso di Hezbollah, delle Tigri Tamil e del pkk (cfr. crenshaw [2007, pp. 137-138]). Questi casi sono inclusi in tutti gli studi e le ricerche sul fenomeno del terrorismo

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suicida, anche se tali gruppi armati hanno avuto l’opportunità di controllare un determinato territorio e hanno agito prevalentemente come organizzazioni dedite alla guerriglia. Nondimeno è interessante notare che Hezbollah impiegò il metodo degli attacchi suicidi negli anni ’80 prima di conquistare il controllo sulla parte meridionale del Libano e di impegnarsi in attività di vera e propria guerriglia; come hanno scritto de la Calle e Sánchez-Cuenca [2011, p. 463]: In assenza di [controllo del] territorio, Hezbollah adottò con successo l’uso degli attacchi suicidi contro le truppe straniere di stanza in Libano e rapì anche alcuni stranieri per avere in cambio il rilascio di alcuni militanti in prigione. Le tattiche di guerriglia sostituirono progressivamente queste due tattiche [attacchi suicidi e rapimenti] man mano che Hezbollah ottenne il controllo del territorio nel sud. Il vero passo in avanti avvenne nel 1991, quando il gruppo armato ritenne di avere capacità suicienti per prender parte a operazioni militari contro le truppe israeliane.

All’opposto, il pkk curdo decise di abbracciare il metodo degli attacchi suicidi a metà degli anni ’90, dopo aver subito pesanti sconitte militari per mano dell’esercito turco che avevano messo a repentaglio la sua capacità di controllare un’ampia area montuosa a sud-est del Paese (bloom [2005, cap. 5]). In altri termini, in entrambi i casi il metodo degli attacchi suicidi venne adottato sulla base di una logica terroristica, rispettivamente prima di ottenere il controllo su un determinato territorio e dopo che tale controllo era stato messo a repentaglio dall’intervento dell’avversario. Le Tigri Tamil dello Sri Lanka, inine, sono state impegnate più in attività di guerriglia che in attività di terrorismo nel contesto di una guerra civile contro il governo centrale di Colombo. Gli attacchi suicidi realizzati da questa organizzazione hanno colpito spesso obiettivi militari; nondimeno non sono mancati attacchi suicidi ai danni di personalità politiche e attacchi suicidi che hanno coinvolto direttamente la popolazione civile: per esempio, si possono ricordare

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i devastanti attentati contro la sede della Banca centrale a Colombo il 31 gennaio 1996 e contro un importante tempio buddista nella città di Kandy il 25 gennaio 1998, costati la vita rispettivamente a 90 e a 11 persone. Secondo Pape e Feldman [2010, p. 295]: la principale modalità di conlitto delle ltte [Tigri Tamil] è stata la guerriglia, sebbene esse si siano anche impegnate in battaglie campali contro le forze cingalesi. L’uso degli attacchi suicidi ha consentito di perfezionare gli sforzi militari e politici delle ltte. Gli attacchi suicidi sono stati usati per assassinare leader politici e militari di primaria importanza, distruggere obiettivi di alto valore diicili da raggiungere e alzare il costo della guerra per la popolazione civile fuori dalle aree del combattimento regolare.

In breve, le Tigri Tamil sono state prima di tutto un’organizzazione di guerriglia; cionondimeno almeno una parte degli attacchi suicidi realizzati da questa organizzazione, specialmente quelli rivolti contro destinatari politici e civili, ha risposto a una logica terroristica. Con questa importante avvertenza, il caso delle Tigri Tamil viene incluso in questo libro dedicato al terrorismo suicida, in accordo con la grande maggioranza degli studi e delle ricerche sull’argomento. D’altra parte, al-Qaida e altri gruppi armati salaiti-jihadisti attivi in Iraq, in Pakistan e in altri Paesi hanno messo a segno alcuni attacchi suicidi con obiettivi settari di carattere vigilante, inalizzati, cioè, a conservare o restaurare il predominio della comunità sunnita nei confronti di altri gruppi religiosi ed etnici. Questi attacchi suicidi rispondono in prima battuta a una logica di vigilantismo; nondimeno essi fanno parte di più ampie campagne di violenza con inalità terroristiche. In conclusione, il capitolo ha afrontato la vexata quaestio della deinizione del terrorismo. Il problema, tormentato com’è dalle complicazioni sopra richiamate, non consente soluzioni facili. In questo libro dedicato allo studio degli attacchi suicidi si è adottata una strategia argomentativa a due

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stadi: nel primo stadio si è presentata una deinizione stipulativa di terrorismo (come strategia di violenza ribelle) collocata a un livello piuttosto alto sulla scala di astrazione; nel secondo stadio si è discussa e proposta una nozione speciica di attacco suicida (come forma di violenza), tale da rendere agevole il processo di operazionalizzazione del concetto. La nozione di attacco suicida supera i due limiti richiamati a proposito del terrorismo. Da una parte, costituisce un concetto suicientemente chiaro e distinto; concentra, infatti, l’attenzione sulla dimensione formale della violenza (il modus operandi), lasciando sullo sfondo altri criteri di deinizione, pur interessanti, come gli scopi della violenza o lo status delle vittime; essi vengono esaminati successivamente nella loro varietà, senza essere incorporati subito nella deinizione. Di fatto il concetto proposto consente di individuare e distinguere adeguatamente i casi empirici. Dall’altra parte, la nozione appare neutrale e libera da gravami valutativi.

2. L’evoluzione del terrorismo suicida

Questo capitolo ripercorre l’evoluzione del metodo degli attacchi suicidi. Il capitolo è diviso in quattro sezioni. La prima sezione ricostrusce il ruolo della pratica del sacriicio di sé e dell’idea di martirio nella storia del terrorismo moderno. La seconda sezione fornisce una presentazione delle campagne di attacchi suicidi dagli antecedenti storici ai nostri giorni. La terza sezione introduce la distinzione tra due tipi di terrorismo suicida, il tipo locale e il tipo transnazionale. La quarta sezione, inine, prende in esame i processi di diffusione di questa forma di violenza e le trasformazioni che ha conosciuto sotto il proilo tecnologico. 1. Sacrificio di sé e martirio nella storia del terrorismo L’elemento del sacriicio di sé si ritrova già alle origini del terrorismo moderno1. In particolare, gli anarchici e i rivoluzionari russi attivi nel periodo compreso tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento attribuirono grande valore all’idea del martirio. Per questi movimenti eversivi la via della sollevazione di massa si rivelò presto fallimentare, conducendo a una combinazione di indiferenza se non di ostilità popolare, da un lato, e di crescente repressione da parte degli Stati, dall’altro. Di fronte a tale situazione di de1. Questa sezione riprende, in parte, alcune considerazioni svolte in Marone [2013].

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bolezza gli anarchici decisero di ricorrere ad attentati spettacolari, solitamente contro uomini politici, membri delle forze dell’ordine e capitalisti, secondo una strategia di «propaganda del fatto» (da aiancare alla tradizionale propaganda della parola) (cfr. jensen [2004]). La prigione fu tipicamente il palcoscenico della performance dell’estremo sacriicio. A metà Ottocento il rituale del processo in tribunale aveva ormai sostituito lo spettacolo della punizione isica in pubblico (cfr. foucault [1975]). Gli anarchici interpretarono e costruirono il processo e, ancor più, la pena come una forma di martirio (gabriel [2007]). Per esempio, negli Stati Uniti notevole inluenza ebbero le esecuzioni capitali dei presunti autori del massacro di Haymarket a Chicago nel 1887 (mckinley [1987]) e degli immigrati italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti nel 1927, seguite con interesse dai mezzi di comunicazione dell’epoca. Gli anarchici, mettendo a disposizione la propria vita e presentandosi come martiri della causa, intendevano vaniicare l’efetto terrorizzante della punizione, rendendo in qualche modo impotente l’esercizio del potere dell’ordine costituito. Essi credevano che il loro sacriicio potesse accelerare la comparsa dell’era della giustizia rivelando a un tempo la gloria dell’anarchismo e la brutalità del sistema vigente. La prigione rappresentava ai loro occhi un rilesso della più ampia società oppressiva e gerarchica contro cui combattevano (gabriel [2007, pp. 43-44]). Questi atti di «martirio» rappresentarono una forma drammatica di testimonianza, ma ebbero un efetto modesto sul piano della lotta politica. D’altra parte, numerosi esponenti della variegata galassia del terrorismo russo attiva tra la ine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (composta da populisti, nichilisti, anarchici e social-rivoluzionari) (tra gli altri, cfr. ternon [2007]) mostrarono una genuina disponibilità a sacriicare la loro vita nel corso di attacchi ad altissimo rischio o persino di attacchi propriamente suicidi (lewis [2012, capitolo 1]; cfr. anche kalyvas, sánchez-cuenca [2006, pp. 221-222, 226-227]; moghadam [2008, pp. 13-14]). Le prime missioni quasi-sui-

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cide furono compiute da alcuni membri di Narodnaja Volja (in russo «Volontà del popolo»), un’organizzazione populista attiva negli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento, in un’epoca in cui nel Paese si era difuso, almeno tra le cerchie istruite, un particolare interesse e persino una fascinazione per il suicidio (denunciata e parodiata da Dostoevskij nei Demoni). Secondo Jefrey W. Lewis [2012, pp. 47-49], i membri dell’organizzazione, allo scopo di superare i limiti e i vincoli posti dalle bombe «isse» (che dovevano essere posizionate in anticipo), si adoperarono a fabbricare piccole bombe portatili; tuttavia, esse avevano un raggio di azione modesto (poco più di un metro). Posti di fronte al dilemma tra rischio per la sicurezza personale e controllo dell’operazione, alcuni tra gli attentatori di Narodnaja Volja decisero spontaneamente di mettere a repentaglio la propria vita per aumentare le chances di successo dell’attacco. Tra questi Ignacy Grinevietzki che perì nella clamorosa esplosione che uccise lo zar Alessandro ii nel 1881. Le missioni quasi-suicide o propriamente suicide furono riprese all’inizio del secolo successivo dall’Organizzazione di Combattimento ailiata al Partito Socialista Rivoluzionario. Tra coloro i quali misero esplicitamente a disposizione la loro vita per l’esecuzione di un attentato vale la pena di ricordare Ivan Kaliayev, igura ritratta con tratti simpatetici da Albert Camus nel dramma Les Justes [1950] e in alcune pagine di L’Homme révolté [1951, trad. it. pp. 183-192 e passim]. Kaliayev fu condannato a morte il 23 maggio 1905 per l’assassinio del granduca Sergej Aleksandrovič Romanov, reazionario governatore generale di Mosca. Il 15 febbraio del medesimo anno, il giovane terrorista aveva desistito dal proposito di gettare una bomba contro la carrozza del granduca, avendo notato la presenza al suo ianco della moglie e dei giovani nipoti, giudicati innocenti2; l’assassinio fu portato a termine due giorni dopo al Cremlino.

2. Per questo gesto il nome di Kaliayev è stata evocato di frequente nel dibattito sulla moralità del terrorismo (per esempio, merari [1993, pp. 227-228]).

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Secondo Camus, la disponibilità a morire del terrorista rende più accettabile la decisione di uccidere altre persone. Stephen Holmes [2006, pp. 147-148]), rifacendosi a questa prospettiva intrigante, ha argomentato: Una linea di pensiero paradossale, ma interessante, su questa materia è che il suicidio stesso fornisce una via per superare le norme che proibiscono l’uccisione di innocenti. In Les Justes, Albert Camus descrive una tale strategia per alleggerire il senso di colpa degli uccisori. La sua idea, presentata concisamente, è che il morire giustiica l’uccidere. Ad un certo punto, l’anarchico russo eroe del dramma, Ivan Kaliayev, dice: «Si je ne mourais pas, c’est alors que je serais un meurtrier» [«Se non morirò, è allora che sarò un assassino»]. In altre parole, i dubbi sulla moralità dell’omicidio possono essere soddisfatti dalla volontà di morire dell’uccisore. La prontezza al sacriicio di sé ha stabilito la purezza simile a Cristo dell’assassino. Questo mostra che non è un criminale comune, che non è, soprattutto, un omicida. La volontà di morire dimostra pubblicamente che è in gioco una causa più grande di qualsiasi interesse o desiderio personale: «La verità della causa è issata dalla volontà dell’individuo di sacriicare tutto per essa» (Crenshaw […]). Secondo questa prospettiva, gli attacchi suicidi, psicologicamente parlando, si giustiicano da sé. In altri termini, in un attacco terroristico colpisci e fuggi, la «causa morale» che sopravanza la proibizione ordinaria contro l’uccisione di civili innocenti deve essere straordinariamente impellente, anche al punto di non ammettere alcun dubbio. Negli attacchi suicidi, almeno secondo Camus, la causa non necessita di essere così ovviamente impellente perché la volontà di morire degli uccisori dimostra da sola la loro credenza soggettiva nella giustezza della loro causa. Gli osservatori non coinvolti possono disapprovare la causa, ma nessuno può plausibilmente negare che i terroristi stessi siano convinti che i ini giustiicano i mezzi. Per quelli con una coscienza morale, se Camus ha ragione, il terrorismo suicida è psicologicamente più agevole del terrorismo colpisci e fuggi.

Da questo punto di vista si può osservare che in queste azioni si ritrovano entrambe le componenti del terrorismo suicida, la volontà di morire e la volontà di uccidere. Camus sugge-

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risce con inezza che la prima possa giustiicare la seconda; la connessione tra queste due componenti è quindi di ordine psicologico. Per inciso, può essere interessante notare che due dei più importanti romanzi dedicati al tema del terrorismo delle origini hanno attirato l’attenzione proprio sull’elemento del sacriicio di sé. Nei Demoni (1871) di Dostoevskij compare il personaggio dell’ingegnere nichilista Kirillov, che mette la propria vita a disposizione della cellula terroristica controllata dal luciferino Nikolaj Stavrogin per dimostrare che Dio non esiste3. Nell’Agente segreto (1907) Conrad tratteggia la igura inquietante del «Professore» anarchico, che si aggira per le strade di Londra con un detonatore sempre nascosto nell’abito. Recentemente il «Professore» è stato deinito «il primo grande ritratto di un attentatore suicida nella letteratura moderna» (ignatieff [2004, trad. it. p. 170]; cfr. anche takeda [2010, p. 457]; gambetta [2006a, pp. 283-284]). Nel Novecento, la pratica del sacriicio di sé e l’idea del martirio furono riprese dalla raf (Rote Armee Fraktion), un’organizzazione tedesca di ispirazione marxista, conosciuta anche con il nome di banda Baader-Meinhof. Lo scenario di queste azioni fu ancora una volta la prigione. Dopo l’arresto nel 1972, la prima generazione del gruppo armato organizzò tre inluenti scioperi della fame collettivi tra il 1973 e il 1975, costati la vita a due detenuti. All’interno del carcere i digiuni vennero esaltati attraverso una retorica del sacriicio e del martirio che mirava a mantenere il morale e la rigida disciplina del gruppo. Nel rivolgersi al pubblico i leader della raf raigurarono la pratica degli scioperi della fame come una forma estrema di resistenza «antifascista» e «antimperialista», in una lotta contro un processo esterno di «medicalizzazione» del discorso pubblico sul terrorismo che tendeva a contestare 3. Straus [2006] ha accostato i terroristi nichilisti raccontati nei Demoni, ispirati dalle vicende del noto rivoluzionario Sergej G. Nečaev (1847-1882), ai terroristi appartenenti ad al-Qaida e ha persino delineato un confronto tra Stavrogin e Bin Laden.

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e disconoscere il senso politico della loro scelta di abbracciare le armi, relegandola alla sfera dei disturbi mentali4. Meinhof fu trovata impiccata nella sua cella il 9 maggio 1976. Sorte analoga toccò a Andreas Baader e Gudrun Ensslin, la coppia che aveva fondato l’organizzazione, e a un altro militante, Jan-Carl Raspe, il 18 ottobre 1977. La versione uiciale dei fatti supportò la tesi del suicidio per tutti e quattro i militanti. La seconda generazione della raf organizzò altri scioperi della fame negli anni successivi, ma essi si inserirono in un contesto politico e sociale ormai mutato, meno propizio alla difusione di rivendicazioni radicali, ed ebbero decisamente meno visibilità e rilevanza politica. I più noti casi di sciopero della fame mortali nell’ambito di organizzazioni terroristiche furono opera dei separatisti dell’Irlanda del Nord negli anni ’80 del Novecento. In Irlanda la pratica del digiuno come metodo di confronto politico e sociale vanta un’antichissima tradizione, risalente addirittura a codici orali di epoca precristiana (sweeney [1993, pp. 421422]; barbagli [2009, pp. 380, 395-396]). Nell’arco di tempo compreso tra il 1912 e il 1923 gli indipendentisti irlandesi organizzarono almeno cinquanta scioperi della fame nelle prigioni, coinvolgendo quasi diecimila individui di entrambi i sessi (sweeney [1993, pp. 421-422]). Altri scioperi della fame furono portati a termine da membri dell’ira negli anni ’70. I famigerati scioperi della fame degli anni ’80 furono realizzati da militanti ailiati all’ira e all’inla (Irish National Liberation Army) nel carcere di Maze nei pressi di Belfast, al culmine di una lunga protesta per il riconoscimento della condizione di prigionieri politici per i membri delle organizzazioni paramilitari (in contrapposizione allo status di

4. Per esempio, una delle più note esponenti del gruppo, la giornalista Ulrike Meinhof, aveva subito un intervento chirurgico per rimuovere un tumore al cervello nel 1962, sette anni prima di intraprendere la carriera terroristica; durante la sua detenzione inluenti settori della stampa e persino della comunità scientiica del Paese tentarono di presentare quella vecchia operazione chirurgica come una causa del suo percorso di radicalizzazione politica (passmore [2009]).

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criminali comuni), revocata nel 1976. Nel 1980 sette detenuti parteciparono a uno sciopero della fame collettivo della durata di due mesi, che non provocò vittime. La seconda ondata di scioperi della fame ebbe inizio nel marzo del 1981 e in principio non fu approvata e sostenuta dai gruppi armati di appartenenza. Essa costituì una vera e propria resa dei conti tra i prigionieri e il governo britannico guidato da Margaret hatcher. L’epilogo dello scontro fu la morte di dieci militanti, tra cui il celebre Bobby Sands, appena eletto al Parlamento di Londra. Queste iniziative non ottennero le concessioni formali richieste, ma ebbero conseguenze profonde sulla comunità cattolica; radicalizzarono le ile indipendentiste, ma al contempo ofrirono al movimento Sinn Féin l’opportunità di trasformarsi in un partito politico di primo piano (cfr. dingley, mollica [2007]). In qualche misura, gli scioperi della fame, atti di non violenza (quantomeno nei confronti di altre persone) dotati di grande valore ideale e politico, incoraggiarono l’adozione di un approccio politico alla questione nord-irlandese, raforzato dall’Accordo anglo-irlandese del 1985 e culminato nell’Accordo del Venerdì santo del 1998 (baumann [2009]). Come anticipato, in tutti i casi citati si possono già rintracciare le due componenti alla base del terrorismo suicida, la volontà di uccidere e la volontà di morire; esse compaiono nel medesimo contesto organizzativo, ma, nella maggior parte dei casi, non sono ancora combinate in un solo atto: quello, appunto, di morire per uccidere. Particolarmente rilevante e interessante è il caso dei gruppi armati attivi in Irlanda del Nord. Qui possiamo trovare una disponibilità a morire che si esprime nella forma di scioperi della fame collettivi di potente valenza simbolica. È interessante notare che la morte per inedia implica un impegno isico e psicologico assai gravoso5, certamente più della morte istantanea per auto-esplosione 5. Per secoli la morte forzata per inedia è stata anche una modalità per attuare la pena capitale: basti ricordare la celebre vicenda di Ugolino della Gherardesca e dei suoi «igliuoli» raccontata da Dante nell’Inferno (Canto xxxiii). Questa

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che contraddistingue la maggior parte degli attacchi suicidi contemporanei (merari [2010, p. 263]). Nel 1981 i dieci militanti nord-irlandesi non soltanto accettarono di sacriicare la propria vita, ma si impegnarono anche a trascorrere decine di giorni nella soferenza isica e psicologica prima di raggiungere la morte, dovendo anche resistere alle richieste dei familiari (e dei rappresentanti del clero cattolico) che li imploravano di interrompere lo sciopero della fame. In altri termini, non soltanto decidevano di morire, ma accettavano anche una maniera di morire assai penosa e impegnativa6. Il loro corpo diventava, se non una vera e propria «arma» (yuill [2007]), perlomeno una risorsa estrema da spendere nella lotta politica. Questi militanti non esibivano tendenze suicide né erano motivati dal fanatismo religioso e dalla convinzione di ottenere beneici nell’aldilà. Oltre alle inalità politiche proclamate uicialmente, un ruolo considerevole giocarono l’inluenza e la pressione sociale del gruppo: gli scioperi della fame si basarono su un patto di lealtà tra i militanti repubblicani e si susseguirono «a catena», uno sciopero della fame dopo l’altro a intervalli regolari. Dopo il primo episodio il patto non poteva più essere ritrattato: ciascun individuo aveva di fronte l’esempio del compagno che lo aveva preceduto e non poteva più essere dispensato da chi aveva già perso la vita per la causa (cfr. merari [1993, p. 202]). È importante sottolineare che gli scioperi della fame furono revocati nell’ottobre del 1981, dopo che le famiglie di alcuni prigionieri coinvolti nei digiuni avevano deciso di autorizzare l’intervento dei medici nel momento in cui i congiunti perdevano coscienza. In efetti, in generale, il consenso popolare per questi gesti non fu fermo, durevole e incondizionato, modalità oggi può sembrare crudele, ma nell’antichità veniva reputata più onorevole, discreta e pietosa di altre. 6. L’agonia non era visibile al pubblico poiché aveva luogo in prigione. Per una cruda rappresentazione della consunzione isica di Sands si può vedere il ilm Hunger diretto da Steve McQueen nel 2008.

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nemmeno nella comunità di sostegno dei gruppi armati. Ciò mette in evidenza il fatto che gli scioperi della fame del 1981 costituirono probabilmente atti di sacriicio eccezionali e non furono ispirati e sostenuti da una vera e propria «cultura del martirio» difusa e radicata nella società (lewis [2012, in particolare pp. 131-133]). Come raccontato nel capitolo precedente, all’inizio degli anni ’90 l’ira si spinse sino al punto di organizzare delle missioni forzate contro obiettivi britannici, in cui la morte dell’attentatore era certa, ma non libera. Se si prendono in considerazione gli scioperi della fame degli anni ’80 e le missioni forzate degli anni ’90 si può ben dire che l’ira è stata l’organizzazione occidentale che è arrivata più vicina all’adozione degli attacchi suicidi; nondimeno anch’essa alla ine non se ne è servita. È del tutto improbabile congetturare che l’organizzazione non fosse a conoscenza di questa forma di violenza micidiale, divenuta nota a livello planetario durante la guerra civile libanese, specialmente dopo i devastanti attacchi alle truppe statunitensi e francesi nel 1983. Presumibilmente una delle ragioni per cui l’ira non abbracciò il metodo degli attacchi suicidi, pur disponendo di uomini pronti a uccidere e di uomini pronti a morire, chiama in causa il ruolo della sua comunità di sostegno. Come dimostrarono le reazioni alle missioni forzate, i simpatizzanti della causa repubblicana non sembravano disposti ad approvare forme di violenza estreme, come gli attacchi suicidi. Le motivazioni di questa avversione riguardavano probabilmente la sfera dei giudizi morali più che l’ambito degli interessi strategici e tattici (relativi, per esempio, al timore di una pesante azione di rappresaglia britannica e di un’escalation del conlitto). Alla grande maggioranza della popolazione cattolica gli attacchi suicidi dovevano apparire come atti fanatici e disumani. Per esempio, secondo un ex membro dell’ira intervistato da John Horgan, persino «persone che sostenevano fermamente l’ira si lamentarono con membri dell’organizzazione del fatto che le operazioni di proxy bomb avevano fatto sì che l’organizzazione “assomigliasse a quei fanatici del

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Medio Oriente”» (bloom, horgan [2008, p. 601]). In altre parole, la comunità di sostegno poteva approvare i ini delle campagne di violenza terroristica, ma non approvava tutti i mezzi utilizzati o utilizzabili. L’ira è sempre stata sensibile alle opinioni e ai giudizi della sua comunità di sostegno e quindi è verosimile che, prevedendo le reazioni della comunità, abbia deciso di non ricorrere al metodo degli attacchi suicidi. D’altra parte, è probabile che, a livello individuale, l’ira non potesse contare su uomini disposti a morire per uccidere. Sfortunatamente non possediamo informazioni attendibili e accurate su questo punto. Certamente la decisione di ricorrere alle missioni forzate, basate sul ricatto di persone che non appartenevano all’organizzazione, è congruente con questa congettura. In conclusione, si possono indicare almeno due ragioni per spiegare la rilevanza della pratica del sacriicio di sé e dell’idea del martirio nella storia del terrorismo moderno (marone [2013]). In primo luogo, le organizzazioni terroristiche sono solitamente basate su un forte senso di dedizione a una causa che può esser considerata come più importante e urgente della vita stessa dei militanti che ne fanno parte; come ha rilevato Bruce Hofman [2006, p. 37, corsivo nel testo], a diferenza del criminale comune, «il terrorista è fondamentalmente un altruista; egli crede di essere al servizio di una “buona” causa destinata a raggiungere un più grande bene per una più ampia collettività – reale o immaginata – che il terrorista e la sua organizzazione pretendono di rappresentare». La fedeltà alla causa è spesso intensiicata dalle dinamiche psicologiche tipiche di piccoli gruppi chiusi che operano in clandestinità. Così non sorprende che, in determinate circostanze, la spinta altruistica possa giungere sino all’accettazione o addirittura alla ricerca del «martirio». In secondo luogo, le organizzazioni terroristiche si trovano per deinizione in una posizione di inferiorità rispetto allo Stato contro cui combattono: come già accennato, se possedessero più risorse e capacità o godessero di maggior sostegno popolare potrebbero avvalersi di altre strategie di violenza, come

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la guerriglia. La loro lotta include necessariamente una forte dimensione simbolica. Per questo motivo il richiamo al «martirio», con la sua potente valenza simbolica e ideale, è assai utile in condizioni di inferiorità, poiché consente di trasformare un elemento di debolezza in un fattore di forza. 2. Le campagne di attacchi suicidi Questa sezione ripercorre la storia del metodo degli attacchi suicidi, dagli antecedenti storici alle campagne della nostra epoca, culminanti nella «globalizzazione del martirio» di ispirazione salaita-jihadista. 2.1 I precursori Sicari e Assassini Gli attacchi suicidi in senso proprio rappresentano un fenomeno di difusione recente. Nondimeno gli studiosi menzionano spesso due antecedenti storici degni di nota: i Sicari e gli Assassini. I Sicari furono un gruppo estremista ebraico che si oppose all’occupazione romana della Giudea nel i secolo d.C., in particolare durante la Grande rivolta ebraica (66-70 d.C.). Sono tradizionalmente associati al movimento politico e religioso degli Zeloti, anche se non vi sono prove certe dell’esistenza di un rapporto stretto tra i due gruppi (smith [1971]). I Sicari si distinsero per una campagna di omicidi ai danni di dignitari ebrei che collaboravano con l’Impero e che abbracciavano la cultura ellenistica. Essi erano soliti pugnalare le loro vittime in luoghi pubblici con piccole spade ricurve, simili alle sicae romane: da qui il nome del gruppo. Quasi tutte le notizie relative alle loro azioni si devono a un unico autore, peraltro di parte: lo storico Giuseppe Flavio (circa 37-100 d.C.), un ebreo di nobili natali che decise di schierarsi con i dominatori romani (cfr. rapoport [1984, pp. 668-669 nota 28]). In particolare, in un importante passo della Guerra giudaica (13,3) Giuseppe annota:

66 Però, mentre il paese veniva così ripulito [dai briganti], in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti Sicari, che commettevano assassini in pieno giorno e nel bel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondendo sotto le loro vesti dei piccoli pugnali, e con questi colpivano i loro avversari; poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e lo facevano così bene da esser creduti e perciò non era possibile scoprirli. Il primo a essere assassinato da loro fu il sommo sacerdote Gionata e, dopo di lui, ogni giorno numerose furono le vittime, ma il terrore era più grande delle uccisioni perché ciascuno, come in guerra, si sentiva ogni momento in pericolo di vita. Si studiavano da lontano le mosse degli amici che si avvicinavano, ma pur fra tanti sospetti e cautele la gente continuava a morire, tanta era la sveltezza degli assassini e la loro abilità nel non farsi scoprire (citato in fossati [2003, pp. 67-68]).

I Sicari non erano semplici banditi. Essi perseguivano inalità di natura politica e religiosa: lottavano contro l’occupazione romana e, nello stesso tempo, credevano che le loro azioni rilettessero la volontà di Dio, alla luce di uno spirito messianico (rapoport [1984]) non infrequente nella Giudea dell’epoca. Per raggiungere questi propositi essi impiegarono deliberatamente una strategia che presenta notevoli rassomiglianze con il terrorismo moderno. Gli assassinii mirati di personalità ebraiche di primo piano avevano l’intento di suscitare terrore e smarrimento («il terrore era più grande delle uccisioni»), di dividere i ceti dominanti del mondo ebraico («si studiavano da lontano le mosse degli amici che si avvicinavano»), di mostrare la vulnerabilità del regime vigente, di provocare il ben più potente nemico romano e innescare una rivolta popolare (horsley [1979]). È interessante notare che i Sicari si resero responsabili anche di rapimenti di personalità di rilievo allo scopo di ottenere il rilascio di compagni imprigionati dalle autorità: un metodo ben noto ai terroristi del Novecento. Dopo la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme nel 70, centinaia di membri del gruppo si rifugiarono nella fortezza di Masada, nei pressi del Mar Morto; quando la de-

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cima legione romana riuscì a penetrare nella fortezza nel 73, i 960 ribelli superstiti (compresi donne e bambini) si diedero la morte7: dieci guerrieri furono scelti per uccidere tutti gli altri, poi uno di questi decapitò i propri nove compagni e inine si lasciò cadere sulla propria spada. A ben vedere, i Sicari non possono essere considerati dei precursori del terrorismo suicida in senso stretto poiché i loro agguati non prevedevano la morte degli esecutori della violenza; anzi, secondo Giuseppe Flavio, dopo gli attacchi essi si dileguavano con l’inganno. Chiaramente l’episodio inale del suicidio collettivo di Masada non è strettamente connesso con le modalità delle loro precedenti campagne di omicidi. Gli Assassini (Hashshāshīn) furono una setta ismailita8 attiva in Medio Oriente tra la ine dell’xi e la metà del xiii secolo (lewis [1967]). Sotto la guida del carismatico fondatore Hasan-i Sabbah (1034 ca.-1124), essi assunsero il controllo della fortezza di Alamut, nell’attuale Iran nord-occidentale, nel 1090; a partire dalla rocca di Alamut e da altre basi strategiche in regioni montuose espansero progressivamente la loro inluenza in Persia e in Siria. Gli Assassini miravano a sovvertire l’ordine dei potentati sunniti in Medio Oriente, in un’impresa che era al contempo politica e religiosa. Essi credevano intensamente nella venuta imminente del Mahdi, il «messia» della dottrina sciita. Hasan organizzò un ordine rigidamente gerarchico di giovani ben addestrati pronti ad assassinare i rappresentanti di quei potentati, come l’impero selgiuchide e, in misura mi7. Curiosamente nel corso del Novecento, dopo «quasi duemila anni di oscurità» (schwartz et al. [1986, p. 149]), la difesa di Masada è diventata un elemento centrale nella memoria collettiva dei coloni ebrei in Palestina e, più tardi, un simbolo di valore militare e di patriottismo per gli israeliani. Così una lontana sconitta (subita senza nemmeno combattere) è stata rideinita come una potente fonte di ispirazione contemporanea. 8. L’Ismailismo è una corrente del ramo sciita dell’Islam, minoritaria rispetto alla corrente duodecimana; si caratterizza per una spiccata inclinazione alla dimensione esoterica della religione. Per un’agile introduzione si rimanda a Vanzan [2008]; cfr. anche Lewis [1967, specialmente capitolo 2].

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nore, gli Stati crociati in Terra Santa, che avessero ostacolato i suoi piani di espansione. Le vittime, quasi sempre sunnite, erano igure politiche e militari (governanti, capi dell’esercito, funzionari) e dignitari religiosi. Tra queste vi furono il potente visir selgiuchide Nizam al-Mulk (grande igura intellettuale dell’epoca) nel 10929, il califo fatimita al-Amir nel 1130, il califo abbaside al-Mustarshid nel 1139 e il re crociato di Gerusalemme Corrado di Monferrato nel 1192. Secondo le fonti disponibili, ai sicari di Alamut era solitamente richiesto il sacriicio della propria vita. Secondo alcuni resoconti, gli Assassini spesso si iniltravano con l’inganno nella cerchia della vittima prescelta, la servivano fedelmente per anni, carpivano la sua iducia e inine la uccidevano con un pugnale. Come ha rilevato lo storico Bernard Lewis [1967, trad. it. p. 154], «è da sottolineare come in tutti i loro omicidi, tanto in Persia quanto in Siria, gli Assassini usassero sempre pugnali, mai veleno, mai armi a distanza, per quanto ci debbano essere state occasioni in cui queste avrebbero potuto essere più facili da utilizzare e più sicure. Quasi sempre l’Assassino era catturato, e normalmente non tentava nemmeno la fuga; c’era anche l’idea che sopravvivere a una missione fosse disonorevole». Il pugnale sembra assumere una valenza rituale. In questo aspetto gli Assassini ricordano altre frange estremiste dello Sciismo, imbevute di credenze messianiche; in particolare, due piccole sette dell’viii secolo che consideravano l’omicidio un dovere religioso e utilizzavano una sola arma per i loro agguati: un gruppo strangolava le vittime con dei lacci, mentre l’altro le percuoteva con randelli di legno (ivi, trad. it. pp. 154-155).

9. Secondo alcune fonti persiane, con ogni probabilità apocrife, Hasan-i Sabbah, Nizam al-Mulk e il matematico e poeta Omar Khayyam erano stati discepoli dello stesso maestro e avevavo stretto un patto di aiuto reciproco, poi rotto tra i primi due: da qui l’inimicizia personale (cfr. lewis [1967, trad. it. pp. 52-53]). Questa storia suggestiva è richiamata anche da Borges [1960, trad. it. p. 81] nel racconto-saggio L’enigma di Edward Fitzgerald.

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Gli Assassini furono in grado di incutere terrore e orrore nei propri nemici per quasi due secoli. Approittavano di una debolezza dei potentati dell’epoca: essi erano entità autocratiche basate sulla fedeltà dei sottoposti a un singolo individuo, più che a un’istituzione (ivi, trad. it. p. 158). Gli Assassini furono in grado di organizzare una sorta di Stato autonomo, costituto da una lega di fortezze e basi. In questo senso, secondo alcuni, essi possono essere considerati i primi esponenti nella storia del terrorismo internazionale (rapoport [1984, p. 666]). Il fanatismo e l’abnegazione di questi fedayyin («devoti») ebbero presto una grande eco, tanto da portare alla difusione di una famosa leggenda, raccolta da Marco Polo nel Milione (capitoli 40-41). Secondo il resoconto dello scrittore veneziano, il Vecchio della Montagna, guida della setta, aveva fatto costruire in una valle un giardino meraviglioso, simile al paradiso annunciato dal Profeta Maometto. Egli sceglieva alcuni giovani, faceva loro bere dell’oppio e li conduceva nel giardino. I giovani credevano di trovarsi in paradiso. Più tardi erano condotti fuori dal giardino, di nuovo senza accorgersene. Allora il Vecchio chiedeva loro di uccidere i propri nemici: «coloro lo fanno volentieri, per ritornare nel paradiso. Se scampano, ritornono al loro signore; se è preso, vuole morire, credendo ritornare al paradiso» (citato in fossati [2003, pp. 70-71] nella versione in volgare trecentesco dell’«ottimo»). Il termine «Assassini» deriva proprio dalla parola araba hashish, canapa indiana, ma la storia raccontata è sicuramente falsa; secondo Lewis [1967, trad. it. p. 21], «presumibilmente fu la storia a derivare dal nome e non il contrario». È interessante notare come entrambi gli antecedenti storici del terrorismo suicida, abbiano coltivato credenze di carattere millenarista, per quanto in due tradizioni religiose diferenti, l’Ebraismo e l’Islam. In generale, l’idea di un’imminente ine dei tempi ha incoraggiato l’uso della violenza e, in particolare, del terrorismo, quantomeno quando alcuni gruppi hanno reputato che la violenza potesse facilitare o accelerare tale processo. Secondo tale visione, di fronte a un

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evento di rilevanza incomparabile e irripetibile, anche le forme di violenza più estreme (come gli attacchi suicidi) possono essere adottate e sono, anzi, idonee alle circostanze eccezionali: la posta in gioco è massima e, a diferenza di quando accade nelle battaglie comuni, non vi è alcuna possibilità di rifarsi dei danni subiti in una fase successiva. I gruppi millenaristi tendono ad abbandonare qualsiasi atteggiamento di prudenza e a gettarsi in azioni estreme che mirano a provare la loro fede: così, per esempio, gli Zeloti decidono di bruciare le proprie provviste di cibo dopo che la città di Gerusalemme è stata conquistata dai romani, conidando solo nella volontà divina (rapoport [1988, p. 205]). La morte volontaria appare chiaramente come la più importante delle «oferte» per la fede, il più alto dei sacriici. La violenza di questi gruppi si indirizza spesso contro i correligionari che si dimostrano tiepidi, diidenti o addirittura ostili ai proclami e ai presunti «segni» che annunciano la ine del mondo; così gli attacchi dei Sicari ai notabili ebrei e, in parte, gli attacchi degli Assassini alle personalità sunnite (ben più che ai crociati cristiani). Una modalità ricorrente per prepararsi all’evento inale consiste nel fondare una comunità religiosa separata dal mondo profano. Come accennato, questa è stata proprio la scelta operata dagli Assassini: secondo Rapoport [1988, p. 202], essi organizzarono «la più notoria contro-società dell’Islam». Si può osservare, inine, che le credenze e le pratiche millenariste degli Assassini così come dei Sicari mostrano una profonda tendenza antinomista (ovvero di avversione alla Legge religiosa): a ridosso della ine del mondo, le regole tradizionali sono soltanto d’impaccio. Secondo la narrazione di Giuseppe Flavio, i Sicari non esitarono ad attaccare sacerdoti ebrei nei giorni santi e in luoghi santi; inoltre erano pronti a violare esplicitamente i patti più solenni (rapoport [1988, pp. 206-207]). Ancor più, gli Assassini ismailiti si opponevano a un’interpretazione legalista della religione; sulla scorta di inluenze gnostiche, credevano che il Corano avesse un signiicato apparente di carattere precettistico (zahir) e un più

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profondo e rilevante signiicato nascosto (batin), la cui interpretazione allegorica ed esoterica spettava all’Imam (guida della comunità). Nelle parole di Lewis [1967, trad. it. p. 40], «[a]lcuni rami della setta [ismailita] si spinsero […] più in là e adottarono una dottrina antinomica che è ricorrente nelle eresie e nel misticismo estremista musulmano. Il principale obbligo era la conoscenza – la gnosi – del vero Imam; il senso letterale della Legge era abrogato per i fedeli e rimaneva, semmai, come una punizione per i profani». Nel 1164 il signore di Alamut Hasan ii annunciò la ine della Legge islamica nel corso di un banchetto durante il quale trasgredì platealmente i precetti della religione: secondo Lewis (ivi, trad. it. p. 91), «[l]a solenne e rituale violazione della Legge – i congregati con le spalle rivolte alla Mecca, il banchetto pomeridiano durante il digiuno – segnò il culmine di una tendenza millenarista e antinomica ricorrente nell’Islam e che ha evidenti paralleli nel mondo cristiano. La Legge ha svolto la sua funzione e il suo regno è inito, i segreti sono rivelati, la grazia dell’Imam prevale». Pochi mesi più tardi Hasan fu assassinato dal cognato che non aveva accettato il nuovo corso della setta. Per inciso, è interessante notare che i nomi dei gruppi menzionati sono diventati tutti sostantivi di segno negativo: sicario, zelota, assassino. Sorte diversa è toccata al termine arabo fedayyin («devoti», «martiri»), originariamente impiegato dagli Assassini e ripreso con orgoglio dai militanti palestinesi dopo la Guerra arabo-israeliana del 1948. Tre comunità musulmane dell’Asia sud-orientale Lo storico Stephen F. Dale [1988] ha attirato l’attenzione sul caso di tre comunità musulmane dell’Asia sud-orientale in lotta contro le potenze coloniali europee: l’area di Malabar nell’India sud-occidentale, Aceh a Sumatra (Indonesia) e, inine, le isole di Mindanao e di Sulu nelle Filippine. All’inizio del Cinquecento, spagnoli e portoghesi imposero con la forza la loro egemonia nella regione dell’Oceano Indiano; mostrarono subito una particolare ostilità per le comunità musulmane, non esitando a distruggere deliberatamente

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simboli religiosi e luoghi di culto (è opportuno ricordare che la Reconquista cristiana della penisola iberica si era conclusa soltanto pochi anni prima, nel 1492). Quando i membri di queste comunità compresero di non essere in grado di sconiggere militarmente le potenze europee tentarono di terrorizzare le truppe o coloro che si erano insediati nelle basi europee portando a compimento un jihad nel quale cercavano intenzionalmente il «martirio». Secondo Dale [1988, p. 48], «in tutte queste tre aree i musulmani attaccarono e uccisero gli Europei o i Cristiani nativi, aspettandosi pienamente di essere uccisi o, più accuratamente, di essere martirizzati» nel corso dell’attacco. I primi «martiri» furono gli abitanti musulmani di Malabar nel Settecento; lo scopo dei loro «jihad privati» (non facenti parte di guerre proclamate dagli Stati di appartenenza) non era quello di arrestare l’espansione europea, ma semplicemente di indurre i mercanti e i funzionari europei a non interferire pesantemente negli afari della loro comunità. Aceh seppe resistere all’aggressione portoghese, ma fu soprafatta dagli olandesi all’inizio del Novecento; a quel punto anche i loro abitanti ricorsero alle operazioni di «martirio» contro il nemico. Nello stesso periodo i musulmani di etnia moro di Mindanao e Sulu si opposero all’avanzata spagnola con una pratica analoga che gli spagnoli chiamarono juramentado (ewing [1955]). Tutti questi atti di violenza, prima che degenerassero in semplici vendette di carattere personale, prevedevano l’adempimento di speciici rituali e cerimonie (dale [1988, pp. 52 e ss.]; ewing [1955, pp. 149-150]) e avevano una chiara connotazione religiosa. È interessante osservare, con Dale, che l’esplosione di questi atti di martirio ofensivo si colloca tra la fase della resistenza militare organizzata contro le forze di occupazione e quella della partecipazione al processo politico, concessa dalle autorità britanniche, olandesi e statunitensi nel Novecento. Come alcuni studiosi hanno notato (elster [2006, p. 234]; gambetta [2006a, pp. 282-283]), prima dell’invenzione della dinamite nel 1867 a opera di Alfred Nobel, gli attacchi

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suicidi si manifestavano tipicamente nella modalità di attacchi senza via di fuga: gli attentatori venivano uccisi dal nemico dopo aver portato a compimento le loro missioni senza ritorno. Forze comuniste nella guerra del Vietnam Leonard Weinberg [2006] ha sostenuto che si possono rintracciare numerose azioni di terrorismo suicida nel corso della guerra del Vietnam (terminata nel 1975), per mano delle forze comuniste. Si possono distinguere due tipi di soggetti coinvolti in questo genere di azioni. Da una parte, apposite «cellule suicide» di Viet Cong vennero istituite nel novembre del 1967 (in vista dell’ofensiva del Tet del 31 gennaio 1968). Esse erano formate da giovani selezionati villaggio per villaggio e avevano lo scopo di eliminare, per mezzo di granate e di pugnali, comandanti nemici, notabili locali e individui sospettati di simpatizzare per il governo sud-vietnamita; allo stesso tempo dovevano rappresentare gesti esemplari, in grado di avvicinare le masse contadine alla causa rivoluzionaria. Dall’altra parte, unità dei genieri delle forze armate nord-vietnamite, ben addestrate, eseguirono attacchi suicidi contro obiettivi militari degli Stati Uniti e dell’esercito sudvietnamita e, con minor successo, contro obiettivi diplomatici e politici. Questi attacchi suicidi non ottennero i risultati desiderati in termini di danni materiali arrecati al nemico, ma svolsero un’importante funzione simbolica, contribuendo a favorire il disimpegno statunitense dalla guerra. Se le azioni suicide delle unità del genio nord-vietnamita costituiscono azioni militari di forze regolari nel corso di una guerra, le azioni delle «cellule suicide», composte da giovani non appartenenti alle forze armate e chiamate a colpire vittime civili, mostrano analogie degne di nota con il fenomeno del terrorismo suicida. Kamikaze giapponesi e «ondate umane» iraniane Alcuni studiosi aiancano il fenomeno del terrorismo suicida contemporaneo all’esperienza dei Kamikaze giapponesi du-

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rante la Seconda guerra mondiale. Le forze armate giapponesi dopo la sconitta nella battaglia delle Midway nel giugno 1942 avevano perso la superiorità aerea nella Guerra del Paciico. Con la campagna di Guadalcanal (agosto 1942 - febbraio 1943), gli Alleati passarono alla controfensiva. Durante la battaglia del Golfo di Leyte, nelle Filippine, dell’ottobre 1944 (la più grande battaglia navale dell’intera guerra) la Marina giapponese sofrì perdite gravissime. Fu in quell’occasione che il comandante della Prima Flotta Aerea, l’ammiraglio Takijiro Onishi, decise di formare una «Forza d’Attacco Speciale» chiamata «Kamikaze» («vento divino»). La maggioranza delle missioni suicide fu portata a termine per mezzo di aerei appositamente costruiti, privi di dispositivi di atterraggio; la parte restante delle missioni fu realizzata con l’ausilio di missili, siluri sottomarini e navi. Le missioni kamikaze furono impiegate sistematicamente nelle Filippine (ottobre 1944 – gennaio 1945) e, in maniera più massiccia, in Giappone nelle battaglie di Iwo Jima e di Okinawa (febbraio – giugno 1945). Nel periodo compreso tra ottobre 1944 e agosto 1945 i membri delle forze armate giapponesi che persero la vita in attacchi kamikaze furono più di tremila. In termini di danni materiali, l’eicacia delle missioni suicide fu modesta, per quanto superiore a quella garantita dagli attacchi convenzionali. Nondimeno, l’impatto psicologico nei confronti dell’avversario fu notevole (hill [2006, pp. 9-11]). Il caso dei Kamikaze, per quanto interessante, non è riconducibile al terrorismo suicida in senso proprio. Gli attacchi suicidi giapponesi, infatti, ebbero luogo all’interno di guerre convenzionali tra Stati. Ciononostante vale la pena di notare che l’impiego dei Kamikaze venne autorizzato uicialmente, dopo alcuni riiuti, soltanto alla ine della Seconda guerra mondiale, quando si era palesata l’inferiorità militare delle forze giapponesi; la marcata inferiorità rispetto all’avversario caratterizza anche i gruppi armati che ricorrono al terrorismo e, in particolare, al terrorismo suicida. La diferenza tra i Kamikaze e gli attentatori suicidi

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è considerevole anche a livello individuale, poiché i primi erano membri delle forze armate giapponesi impegnati in una guerra convenzionale, appositamente addestrati per pilotare un aereo, mentre i secondi sono spesso individui comuni che decidono di mettere la loro vita nelle mani di gruppi armati di cui non fanno parte. Per inciso, nel corso della Seconda guerra mondiale, in alcuni frangenti, anche le forze armate naziste e sovietiche si mostrarono disponibili a servirsi di attacchi suicidi (hill [2006, p. 42]; moghadam [2008, pp. 14-15]). Ancora più interessante è il caso delle «ondate umane» iraniane, afermatesi all’indomani della Rivoluzione islamica del 1979. Nel corso della sanguinosa guerra tra Iran e Iraq, protrattasi dal 1980 al 1988, migliaia di giovani iraniani si fecero esplodere volontariamente sulle mine del nemico per consentire l’avanzata del proprio esercito (khosrokhavar [2002]). Questi «martiri», solitamente appartenenti alle forze paramilitari del Basij, portavano al collo una piccola chiave con la quale avrebbero potuto aprire le porte del paradiso islamico (reuter [2002]). Anche in questo caso non si può parlare di terrorismo suicida in senso proprio, perché le missioni suicide erano inserite in una guerra tra due Stati e, per giunta, non avevano tanto lo scopo di attaccare direttamente il nemico, quanto di facilitare l’avanzata del proprio esercito10. Tuttavia le «ondate umane» iraniane furono assai inluenti perché segnarono l’inizio della stagione della violenza suicida in Medio Oriente. Negli anni ’80 questa pratica si difuse in Libano, un Paese arabo con una popolazione a maggioranza sciita, e venne adottata sistematicamente sotto forma di veri e propri attacchi suicidi da parte di organizzazioni terroristiche. 10. Secondo alcuni studiosi, le «ondate umane» iraniane, al di là delle proclamazioni retoriche di parte, dovrebbero essere considerate prevalentemente come missioni ad altissimo rischio, più che come missioni propriamente suicide (merari [1990, p. 198]; gambetta [2006a]); per una posizione apparentemente contraria si vedano Khosrokhavar [2002] e Reuter [2002].

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2.2 Le campagne di attacchi suicidi contemporanee Gruppi armati attivi in Libano All’inizio degli anni ’80 la pratica del martirio di derivazione iraniana giunse in Libano. Il Paese si trovava allora nel mezzo di una complessa e brutale guerra civile (1975-1990). I primi due catastroici attacchi suicidi, generalmente attribuiti a gruppi estremisti sciiti, si veriicarono nel 1981 e nel 1982, a ridosso dell’invasione israeliana del Paese (6 giugno 1982). Nondimeno gli attacchi che segnano simbolicamente l’avvio della campagna di violenza suicida avvennero nel 1983: la mattina del 23 ottobre, a pochi minuti di distanza, due clamorosi attentati suicidi vennero eseguiti nei pressi di Beirut contro le truppe della Forza multinazionale di sicurezza, provocando l’uccisione rispettivamente di 241 marines statunitensi e di 58 paracadutisti francesi. Gli atti furono rivendicati da una non meglio precisata Organizzazione del Jihad Islamico, una sigla dietro a cui, secondo molti osservatori, si celava Hezbollah. La campagna di attacchi suicidi si esaurì tre anni dopo, con il ritiro della Forza multinazionale (1984) e delle forze armate israeliane (1985). Una manciata di episodi si veriicò alla ine degli anni ’80 e negli anni ’90. Nel complesso, secondo i dati di Pape e Feldman [2010, pp. 194-195], furono realizzati 39 attacchi suicidi, di cui solo 7 dopo il 1986. Le vittime furono quasi mille (ibidem). Quasi tutti gli attacchi vennero condotti contro bersagli israeliani, statunitensi, francesi e appartenenti all’Esercito del Libano del Sud (els, milizia libanese alleata di Israele). A parte due attacchi contro l’ambasciata statunitense, tutti gli attacchi colpirono obiettivi militari; a diferenza della maggioranza delle campagne di attacchi suicidi successive, l’ondata libanese non coinvolse vittime civili. Il metodo di esecuzione più utilizzato, vero marchio di fabbrica della violenza libanese, fu l’auto-bomba. Chiaramente questo metodo ha il vantaggio di consentire l’impiego di una grande quantità di esplosivo e permette di trasformare il veicolo in un’apposita carica che concentra gli efetti dell’esplosione in un determinato luogo, massimizzando così il

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numero delle vittime. Non sorprende che gli attacchi suicidi libanesi, specialmente quelli attribuiti a Hezbollah, siano stati in assoluto tra i più letali, quantomeno prima della comparsa dell’ondata salaita-jihadista nel xxi secolo. La più importante organizzazione responsabile di queste azioni fu Hezbollah (letteralmente «Partito di Dio», secondo un’espressione coranica). Questo raggruppamento venne fondato nel 1982, poche settimane dopo l’invasione del Libano da parte dell’esercito israeliano. Esso raccoglieva diferenti fazioni sciite che intendevano instaurare uno Stato islamista sul modello dell’Iran di Khomeini. La nascita del movimento fu facilitata dall’assistenza di un contingente di Guardie Rivoluzionarie inviate da Teheran. Inizialmente Hezbollah non godeva di grande consenso popolare, ma, nel corso del tempo, è riuscito a presentarsi come un’organizzazione eiciente che difende gli interessi degli sciiti e, in generale, di tutti i libanesi. Oggi è anche un importante partito politico. Hezbollah fu in grado di imporre questa forma di violenza estrema nel corso della guerra civile libanese. Divenne così il «padre fondatore» degli attacchi suicidi contemporanei (pedahzur [2005, p. 45]), premiato da un evidente successo militare e politico, il ritiro della Forza multinazionale nel 1984 e dell’esercito israeliano nel 1985 (cfr. norton [2000]). Cionondimeno, come alcuni studiosi hanno indicato (tra gli altri, pape [2005]; ricolfi [2006]), Hezbollah fu responsabile soltanto di una porzione degli attacchi suicidi realizzati in Libano. Numerose operazioni, infatti, sono riconducibili al partito sciita ilosiriano Amal e soprattutto a organizzazioni laiche, come il Partito Nazionalista Sociale Siriano, il Baath libanese, il Partito Comunista Libanese, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (fplp) e al-Saiqa. Hezbollah ebbe la forza e la capacità di attribuirsi l’intera paternità di questa forma di violenza, impiegata da molti gruppi rivali in un «gioco al rilancio» (bloom [2005]). Hezbollah è dichiaratamente un’organizzazione di ispirazione religiosa e può essere associata al fondamentalismo sciita. Nondimeno gli scopi degli attacchi suicidi di Hezbollah,

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come degli altri gruppi armati libanesi, erano essenzialmente politici. L’obiettivo primario era il ritiro delle forze militari straniere dal Libano. Questo obiettivo fu raggiunto: nel 1984 la Forza multinazionale (composta da truppe statunitensi, francesi e italiane, formalmente neutrali) lasciò il Paese, e nel 1985 fu la volta delle forze armate di Israele, attestatesi nella «Striscia di sicurezza» a sud del Paese (sino al ritiro completo nel 2000). L’uso degli attacchi suicidi fu determinante per il primo ritiro e giocò un ruolo importante anche per il secondo ripiegamento (cfr. merari [2010, pp. 235-236]). Si può afermare, dunque, che la prima campagna sistematica di attacchi suicidi, quella condotta appunto in Libano, si concluse con un successo; anzi si può afermare che probabilmente sia stata in assoluto quella di maggior successo. L’eicacia dimostrata da questa forma di violenza in Libano permette di comprendere la rilevanza e il fascino che essa assunse agli occhi di altri gruppi armati, in particolare in Sri Lanka e nei Territori palestinesi. Tigri Tamil (ltte) in Sri Lanka Nel 1987 il metodo degli attacchi suicidi fece la sua comparsa nel lontano Sri Lanka a opera delle Tigri per la Liberazione dell’Eelam [Patria] Tamil (ltte nell’acronimo in inglese). Questa potente organizzazione di stampo militare mirava a ottenere l’indipendenza di uno Stato per la popolazione tamil, una comunità etnica che è maggioritaria nelle province settentrionali e orientali del Paese, ma non arriva al 20% della popolazione complessiva. Le ltte combatterono il governo nazionale di Colombo, espressione della maggioranza cingalese, dal 1983 al 2009, quando vennero sbaragliate militarmente. Come accennato in precedenza, esistono stime discordanti circa il numero complessivo degli attacchi suicidi perpetrati da questa organizzazione: secondo alcuni studiosi sarebbero 116 (pape, feldman [2010]), secondo altri supererebbero i 200 (gambetta [2006]). Le ltte possono essere annoverate tra i gruppi armati responsabili del maggior numero di attacchi

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suicidi e certamente sono l’organizzazione che ha condotto la campagna di attacchi suicidi più lunga, dal 1987 sino alla sconitta deinitiva nel 2009. Le vittime di questi atti di violenza furono più di 1.500 (pape, feldman [2010, p. 284]). All’obiettivo primario della liberazione dell’«Eelam Tamil», il gruppo armato aiancava parole d’ordine di carattere rivoluzionario, ma non può essere considerata una formazione marxista, come pure è stato scritto (per esempio, da Pape [2005]). Le ltte furono piuttosto un’organizzazione indipendentista di ispirazione laica. Nondimeno, come è stato sottolineato (in particolare, pape [2005]; pape, feldman [2010]), la religione giocava un ruolo nel conlitto poiché i tamil sono in prevalenza induisti mentre i cingalesi sono in larga parte buddisti; la diferenza di religione poté quindi essere utilizzata per esacerbare la conlittualità. Durante il periodo coloniale i britannici favorirono la minoranza tamil secondo una logica ispirata al principio del divide et impera. Con l’indipendenza dell’isola nel 1948, il potere passò saldamente nelle mani della maggioranza cingalese che non esitò a imporre leggi e politiche discriminatorie nei confronti della minoranza tamil e incoraggiò l’insediamento di cittadini cingalesi nelle aree a prevalenza tamil. Le Tigri Tamil furono fondate nel 1972 da Velupillai Prabhakaran e agli inizi degli anni ’80 si imposero come la principale organizzazione militante del campo tamil, anche grazie a una spregiudicata manovra di eliminazione delle sigle rivali. La traiettoria dell’impiego del metodo degli attacchi suicidi segue l’evoluzione della guerra civile, secondo sei momenti principali: la prima fase di conlitto (1983-1987), l’intervento di peacekeeping dell’esercito indiano (1987-1990), la seconda fase di conlitto (1990-1994), la terza fase di conlitto (1995-2001), il cessate il fuoco tra le parti mediato dalla Norvegia (2002-2005) e la quarta fase di conlitto (2006-2009) (pape, feldman [2010, pp. 294-308]). Nel 2004 il gruppo armato subì un’importante scissione, in corrispondenza con una fase di crescente insoddisfazione da parte della popolazione locale: il leader della provincia orientale, Kurana, lasciò

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l’organizzazione e pochi anni più tardi accettò di partecipare alla politica nazionale, tanto da essere nominato persino ministro nel 2009. Nel 2007 l’esercito cingalese lanciò due grandi ofensive militari contro l’area controllata dalle Tigri Tamil – di fatto una sorta di «Stato nello Stato» – che condussero inine alla sconitta dell’organizzazione ribelle nel maggio del 2009. Il fondatore e leader carismatico Prabhakaran venne ucciso. Le ltte nacquero come organizzazione dedita alla guerriglia e solo negli anni ’80 adottarono metodi terroristici, tra cui gli attacchi suicidi. Questa forma di violenza venne indirizzata principalmente contro obiettivi militari, personalità politiche, infrastrutture e strutture economiche. Tra le vittime illustri si possono menzionare il presidente dello Sri Lanka Ranasinghe Premadasa, ucciso nel maggio del 1993, e l’ex primo ministro indiano Rajiv Gandhi, saltato in aria durante la campagna per la sua rielezione nel maggio del 1991. Pochi attacchi suicidi furono rivolti deliberatamente contro destinatari civili. Il gruppo armato di Prabhakaran, strutturato gerarchicamente alla stregua di un esercito regolare, oltre a vantare dimensioni organizzative cospicue (il numero dei membri toccò probabilmente le 15.000 unità), diede dimostrazione di straordinaria soisticatezza e pazienza: si pensi che, con modalità che ricordano gli Assassini medievali, l’esecutore dell’attentato suicida al presidente Premadasa fu in grado di iniltrarsi gradualmente nella cerchia dei conoscenti della sua insigne vittima (dolnik [2007, p. 43]). Tutti i combattenti dell’organizzazione dovevano mostrare disponibilità a sacriicare la propria vita. Era loro richiesto di portare con sé una capsula mortale di cianuro di potassio da mordere in caso di necessità per non cadere nelle mani del nemico. Oltre 600 persone preferirono morire in questo modo piuttosto che tradire la causa (pape, feldman [2010, p. 315]). Le Tigri Tamil furono, inoltre, la prima organizzazione a incoraggiare la partecipazione delle donne agli attacchi suicidi: circa il 20% delle Tigri Nere (l’unità appositamente

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designata all’esecuzione degli attacchi suicidi) era di sesso femminile. La realizzazione degli attacchi suicidi era commemorata con cerimonie pubbliche. Il consenso della popolazione tamil per l’organizzazione, che si impegnava anche in attività e iniziative sociali, era considerevole. Mancano informazioni precise sul livello di consenso per il metodo degli attacchi suicidi, ma si può congetturare che fosse signiicativo (pape, feldman [2012, pp. 312-315]). È opportuno ribadire che, in questa sede, il caso delle ltte appare peculiare perché l’organizzazione tamil condusse principalmente una lunga attività di guerriglia contro il governo cingalese di Colombo; nell’ambito di questo forcing di carattere militare un’élite di combattenti, le Tigri Nere, ebbe il compito di portare a termine attacchi suicidi, di solito contro obiettivi diicili che non potevano essere colpiti agevolmente con altre forme di violenza (hopgood [2006, pp. 45-46]). Gruppi armati palestinesi Nel 1993 il metodo degli attacchi suicidi approdò nei Territori palestinesi. Senza poterlo immaginare, Israele contribuì indirettamente alla difusione di questa forma di violenza: dopo il rapimento e l’assassinio di un sergente israeliano nel dicembre del 1992, il governo laburista, guidato da Yitzhak Rabin, deportò per alcuni mesi nel Libano meridionale 415 dirigenti e attivisti di Hamas e del Jihad Islamico palestinese. In Libano i deportati furono soccorsi e assistiti dai membri di Hezbollah che presentarono loro i beneici del metodo degli attacchi suicidi. In quelle circostanze, di fronte al comune nemico israeliano, fu possibile superare la tradizionale difidenza tra la corrente sunnita e la corrente sciita dell’Islam. La forma della violenza suicida, sorta nell’ambito ristretto dello Sciismo di ispirazione khomeinista, si espanse quindi all’ambito, ben più vasto, del mondo sunnita. A dispetto delle divisioni dottrinali e culturali, il rapporto di collaborazione tra Hezbollah e le fazioni radicali palestinesi, iniziato alla ine degli anni Ottanta, si raforzò nel corso del tempo, soprattutto dopo lo scoppio della Seconda Intifada nel 2000, attraverso

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l’invio di denaro, know-how tecnologico e dispositivi militari (pedahzur [2005, pp. 52-54]). Il 16 aprile 1993, pochi mesi prima della «Dichiarazione dei Principi» tra Israele e l’olp che sancì l’avvio uiciale del processo di pace di Oslo11, Sahar Tama Nabulsi, un membro di Hamas, si fece saltare in aria dentro un’automobile carica di esplosivo nei pressi dell’insediamento di Mehola nella Valle del Giordano, in Cisgiordania. Questo attentato inaugurò una lunga stagione di «operazioni di auto-martirio» palestinesi contro obiettivi israeliani, esauritasi sostanzialmente nel 200512. Nel complesso, dal 1993 al 2005 si contano oltre 150 attacchi suicidi (marone [2008; 2010]). A questi si deve aggiungere una manciata di attacchi isolati negli anni successivi (6 episodi dal 2006 al 2010, secondo Lewis [2012, p. 176]). Una delle peculiarità più interessanti del caso palestinese è costituita dal fatto che gli attacchi suicidi furono realizzati da non meno di quattro organizzazioni, in competizione tra loro, in periodi diversi e con scopi diversi: Hamas a partire dal 1993,

11. Il cosiddetto processo di pace di Oslo, volto a porre termine al lungo conlitto israelo-palestinese, aveva come protagonisti lo Stato di Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (olp), la confederazione dei movimenti nazionalisti palestinesi, presieduta da Arafat e dominata da Fatah. Alle origini del processo di pace vi furono la Conferenza di pace di Madrid del 1991 e una serie di incontri segreti tra le delegazioni delle due parti nella capitale norvegese. Le trattative condussero alla sottoscrizione uiciale della «Dichiarazione dei Principi» il 13 settembre 1993 a Washington, fondata essenzialmente sull’idea di uno scambio di terra per la sicurezza, nel quadro del mutuo riconoscimento tra le parti. La Dichiarazione prevedeva la cessazione della violenza, il progressivo ritiro delle forze armate israeliane dai Territori occupati e il diritto alla costituzione di un’autorità di autogoverno palestinese ad interim, l’Autorità Nazionale Palestinese (anp); issava, inoltre, una cornice entro la quale negli anni successivi si sarebbero dovuti svolgere i negoziati sui temi fondamentali del conlitto. 12. Il 2005 può essere considerato un anno di svolta nel conlitto israelo-palestinese, segnato dalla conclusione della stagione di violenza della Seconda Intifada (scoppiata nell’autunno del 2000), anche a seguito della proclamazione in marzo di un armistizio provvisorio (tahdīa) da parte di Hamas e di altre fazioni radicali palestinesi; dalla ine della supremazia di Fatah sulla scena politica palestinese, culminata con la sconitta alle elezioni legislative del 25 gennaio 2006; e dal ritiro unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza nei mesi di agosto-settembre.

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il Jihad Islamico palestinese dal 1994, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (fplp) dal 2001 e alcuni gruppi armati vicini a Fatah dal 2002. Le quattro organizzazioni palestinesi presentano storie, orientamenti ideologici, strategie e scopi diferenti. Hamas è un ampio movimento politico e sociale di ispirazione islamista; il Jihad Islamico palestinese è una piccola rete di cellule islamiste dedite principalmente alla violenza politica; il fplp è una formazione politica radicale di derivazione marxista, oggi minoritaria; Fatah è un partito nazionalista laico, fondato e guidato da Arafat (ino alla sua morte nel 2004), per lungo tempo il più rilevante della causa palestinese. Gli attacchi suicidi riconducibili a Fatah furono eseguiti da gruppi armati ailiati, come il movimento Tanzim, o contigui, come le milizie delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa. Hamas, il Jihad Islamico e il fplp dichiarano di lottare per la liberazione di tutta la Palestina storica (dal Mar Mediterraneo al iume Giordano), mentre Fatah, dopo aver accettato la soluzione dei due Stati nel 1988, rivendica soltanto i Territori occupati della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Nell’evoluzione storica del fenomeno si possono chiaramente scorgere due distinte ondate di violenza suicida (marone [2008a, pp. 219-222]; cfr. anche ricolfi, campana [2005]; ricolfi [2006]). La prima ondata, dispiegatasi tra il 1993 e l’estate del 2000, e costituita da 24 attacchi suicidi, si sovrappone alla stagione politica del processo di pace di Oslo. La seconda ondata, compresa tra l’autunno del 2000 e il 2005, con ben 129 episodi, corrisponde alla fase di violenza della Seconda Intifada o Intifada di al-Aqsa (dal nome della più grande moschea di Gerusalemme), scoppiata alla ine di settembre 2000, con l’esaurimento del processo di pace13. 13. Il processo di pace di Oslo si interruppe con il fallimento del summit di Camp David (usa) tra il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il primo ministro israeliano Ehud Barak ed il presidente palestinese Yasser Arafat nel luglio del 2000 e fu sopravanzato dallo scatenarsi della violenza dopo la visita di Ariel Sharon, allora leader del Likud (il maggior partito di destra di Israele), sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme del 28 settembre, considerata una provocazione inaccettabile dai palestinesi.

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Durante l’ondata di Oslo questo metodo venne adottato soltanto dai due gruppi islamisti di Hamas e del Jihad Islamico. Più tardi, nel corso dell’ondata di al-Aqsa, anche le due organizzazioni laiche del fplp e di Fatah decisero di avvalersi di questa forma di violenza. Gli attacchi suicidi palestinesi colpirono esclusivamente obiettivi israeliani, in linea con un modello locale di terrorismo suicida (vedi la sezione successiva di questo capitolo). Circa due terzi degli attacchi suicidi vennero eseguiti all’interno dei conini di Israele, al di là della Linea verde che separa lo Stato ebraico dai Territori palestinesi. Nel complesso, i morti provocati da questa forma di violenza furono oltre 600, in gran parte civili. Se la frequenza degli attacchi suicidi fu elevata, la letalità fu relativamente contenuta, quantomeno rispetto al caso libanese. Più di un terzo degli attacchi non provocò vittime (oltre all’attentatore suicida), mentre l’attacco più grave, realizzato da Hamas il 27 marzo 2002 a Netanya (Israele), uccise 30 persone (marone [2008a; 2008b]). Gruppi estremisti sikh in India Il metodo degli attacchi suicidi venne impiegato anche da militanti sikh in India; si trattò, nondimeno, di un solo episodio isolato (pape [2005, pp. 154-162]). Il 31 agosto 1995 un giovane poliziotto sikh, Dilawar Singh, si fece saltare in aria nella città di Chandigarh, provocando la morte del primo ministro dello Stato indiano del Punjab, Beant Singh, e di quindici persone del suo seguito. L’attacco fu rivendicato dai vertici di Babbar Khalsa International (bki), un gruppo armato indipendentista che si preigge l’obiettivo di fondare uno Stato sikh («Khalistan») nella regione del Punjab. Il gruppo pianiicò altri attentati negli anni ’90, ma essi furono sventati dalle forze di polizia indiane. Questi attacchi (portati a termine o soltanto pianiicati) si inseriscono in una lunga storia di scontri tra sikh e induisti (cfr. juergensmeyer [2000, trad. it. capitolo 5]), rinfocolati dal famigerato massacro del Tempio d’oro: il 3 giugno 1984 l’esercito indiano lanciò una pesante ofensiva (l’operazio-

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ne «Blue Star») contro il Tempio d’oro di Amritsar, il più importante luogo di culto della religione sikh, allo scopo di arrestare il militante separatista Jarnail Singh Bhindranwale che si era rifugiato nel tempio con alcuni compagni. Nel corso dell’assalto i soldati uccisero quasi cinquecento civili sikh e danneggiarono ampie parti del complesso del tempio. L’attacco venne considerato una profanazione da parte della popolazione sikh e provocò una stagione di violenza etnica che mieté migliaia di vittime. Il 31 ottobre 1984 il primo ministro indiano Indira Gandhi fu assassinata da due guardie del corpo sikh, in rappresaglia per la repressione esercitata presso il Tempio d’oro. Bhindranwale e i due assassini di Indira Gandhi furono subito celebrati come martiri che avevano sacriicato la loro vita per difendere la comunità sikh. È interessante sottolineare che la dottrina e la tradizione sikh attribuiscono grande importanza all’idea del martirio (cfr. JUERGENSMEYER [2000, trad. it. passim]). pkk in Turchia Nel 1996 il metodo degli attacchi suicidi fece la sua comparsa in Turchia, a opera del pkk (Partîya Karkerén Kurdîstan, «Partito dei Lavoratori del Kurdistan») (ergil [2000]). Questa organizzazione radicale, fondata da Abdullah Öcalan nel 1978, uicialmente combina l’impegno per l’indipendenza nazionale del popolo curdo con l’ideologia marxista-leninista; nondimeno questa seconda componente si è fatta via via meno rilevante e riconoscibile nel corso del tempo, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica e, più recentemente, dopo l’arresto del fondatore e leader carismatico dell’organizzazione nel 1999. Il pkk fu responsabile di almeno tredici attacchi suicidi realizzati tra il 1995 e il 1999, con un picco nel 1999, nel periodo compreso tra la cattura di Öcalan in Kenya (15 febbraio) e la ine del processo a suo carico con condanna alla pena di morte (29 giugno), commutata in ergastolo nel 2002. A metà degli anni ’90 il metodo degli attacchi suicidi venne

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adottato in risposta a una serie di vaste ed eicaci operazioni militari condotte dalle forze armate turche contro le roccaforti dell’organizzazione separatista al conine con l’Iraq. Presumibilmente Öcalan decise di abbracciare questa forma estrema di violenza, sino ad allora mai impiegata da gruppi armati di ispirazione marxista, per segnalare al nemico che, nonostante la palese inferiorità militare, il pkk era ancora in grado di colpire obiettivi strategici nel cuore della Turchia. Con questa mossa il leader tentava anche di risollevare il morale dei suoi combattenti e militanti (pedahzur [2005, pp. 89-91]). Infatti, dopo anni di repressione indiscriminata, a metà degli anni ’90 la Turchia aveva adottato un nuovo approccio, impegnandosi a isolare il pkk dal resto della popolazione curda, attraverso una politica ispirata al principio del divide et impera (anche se gli episodi di violazione dei diritti umani dei curdi non scomparirono). La pressione militare costrinse Öcalan a rifugiarsi in Siria e in altri Paesi (tra cui l’Italia), sino a quando fu catturato in Kenya. Il suo arresto e la sua condanna costituirono un colpo durissimo per il pkk. Dal carcere il leader giunse a negare la sua responsabilità per l’esecuzione degli attacchi suicidi e mise in discussione i capisaldi dell’ideologia e della missione dell’organizzazione che aveva fondato. Recentemente egli ha esortato il pkk a porre termine alla lotta armata e il 21 marzo 2013 il gruppo ha annunciato un cessate il fuoco con la Turchia. Gli attacchi suicidi del pkk colpirono prevalentemente obiettivi militari. Uno degli aspetti interessanti di questo caso è che oltre due terzi degli attentatori suicidi erano costituiti da donne; in gran parte giovani, nubili e di umili origini (cfr. bloom [2005, capitolo 5]). È importante notare che il rapporto del pkk con la popolazione curda residente in Turchia non è mai stato molto stretto (cfr. pape [2005, pp. 164-165]). L’organizzazione di Öcalan, nota per la sua brutalità, non riuscì a persuadere la maggioranza della comunità curda attraverso gli strumenti della propaganda e dell’indottrinamento; al contrario, non esitò a ricorrere a duri mezzi coercitivi, specialmente dopo il 1996, inendo così per indebolire ulte-

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riormente il sostegno popolare di cui avrebbe potuto godere (per esempio, cfr. pedahzur [2005, pp. 87-88]; bloom [2005, capitolo 5]). Come detto in precedenza, sappiamo che alcuni attentatori suicidi del pkk furono costretti a sacriicare la propria vita con la forza. La mancanza di rapporti profondi con un’ampia comunità di sostegno contribuisce probabilmente a spiegare perché le campagne di attacchi suicidi lanciate da questo gruppo armato negli anni ’90 siano state brevi e di modesta intensità; ciò è tanto più signiicativo se si pensa che, in generale, il lungo conlitto tra il pkk e l’esercito turco è costato la vita a più di trentamila persone (lewis [2012, pp. 135-139]). Vale la pena di notare che i militanti e i simpatizzanti del pkk hanno dato prova della loro disponibilità a compiere l’estremo sacriicio anche in scioperi della fame nelle prigioni turche alla ine degli anni ’90 e in auto-immolazioni pubbliche in alcuni Paesi europei durante il processo a Öcalan (ergil [2000, pp. 44-45]; gambetta [2006, pp. 184, 237]). Inine, occorre rilevare che negli ultimi anni almeno altri quattro attacchi suicidi realizzati in Turchia (rispettivamente il 20 maggio e 4 giugno 2007, il 31 ottobre 2010 e il 1° febbraio 2013) sono stati attribuiti al pkk e da ultimo al Partito-Fronte Rivoluzionario Popolare di Liberazione (dhkp-c), una formazione di ispirazione marxista-leninista, «antimperialista» e contraria al coinvolgimento della Turchia nella nato. Gruppi ribelli ceceni In Cecenia e nel Caucaso settentrionale la campagna di attacchi suicidi iniziò nel 2000, alcuni mesi dopo lo scoppio della Seconda guerra russo-cecena (1999-2009). Nella notte tra il 6 e il 7 giugno due giovani donne, Khava Barayeva e Luiza Magomadova, saltarono in aria dentro un’automobile piena di esplosivo, lanciata contro una base delle forze speciali russe nei pressi di Alkhan-Yurt in Cecenia. Nell’esplosione, oltre alle donne, morirono due persone. Sfortunatamente le informazioni sul caso ceceno sono, nel complesso, scarse e poco accurate anche perché l’in-

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furiare del conlitto rese molto diicile l’accesso al Paese da parte di studiosi e osservatori stranieri. Secondo le informazioni disponibili, i ribelli ceceni misero a segno altri quattro attacchi suicidi nel 2000, due nel 2001 e nel 2002, undici nel 2003 e sei nel 2004. Dopo una breve interruzione, la violenza suicida riprese nel 2007 e si intensiicò a partire dal 2009 (pape, feldman [2010, capitolo 9]). Nel complesso, vennero realizzati almeno 60 attacchi suicidi contro obiettivi russi nel territorio ceceno e, più tardi, anche all’interno della Federazione russa. Nei primi anni furono colpiti principalmente obiettivi militari e politici, ma dal 2003 la violenza si indirizzò anche contro destinatari civili (pure ceceni), forse in risposta all’inasprimento delle misure di antiterrorismo russe. La tendenza si invertì nuovamente dopo un periodo di tregua nella lotta armata cecena nel 2004, favorito probabilmente dell’erosione del sostegno per la causa separatista in seguito allo sconvolgente massacro della scuola di Beslan (1-3 settembre) e l’avvio da parte del governo russo di una politica di «cecenizzazione» volta a conquistare «i cuori e le menti» della popolazione. La violenza suicida esplose di nuovo nel 2009, dopo la dichiarazione uiciale di ine delle ostilità da parte di Mosca e il trasferimento del potere nelle mani del presidente della Repubblica Cecena, il ilorusso Ramzan Kadyrov. Alcuni osservatori hanno associato la violenza suicida anche alla strage del Teatro Dubrovka: il 23 ottobre 2002 un commando di quaranta ribelli ceceni (composto in larga parte da donne) prese in ostaggio oltre ottocento persone riunite nel teatro moscovita, chiedendo il ritiro immediato delle truppe russe dalla Cecenia. La crisi fu risolta dalle forze speciali russe con il ricorso a un agente chimico ancor oggi sconosciuto che provocò la morte di quasi tutti i sequestratori e di oltre centoventi ostaggi. Secondo alcune fonti, i combattenti ceceni erano organizzati in squadre suicide, decise a sacriicare la vita nel corso del sequestro; ad ogni modo, nessun attacco suicida venne portato a termine prima dell’intervento russo. Un discorso analogo vale per il famigerato

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massacro di Beslan del 2004 che si concluse sanguinosamente quando le forze speciali russe fecero irruzione nella scuola (cfr. speckhard, akhmedova [2006]). In generale, la resistenza cecena si organizzò in una moltitudine di piccoli gruppi caratterizzati da conini elastici e mutevoli e dotati di ampia autonomia (cfr. pape, feldman [2010, pp. 260-264]). Nel corso della Seconda guerra russo-cecena una parte del movimento separatista subì l’inluenza di una versione estremista e militante del Wahabismo, la corrente islamica ultraconservatrice che ha il suo centro in Arabia Saudita (speckhard, akhmedova [2006]). In Cecenia accorsero numerosi combattenti di estrazione salaita-jihadista, provenienti dal Medio Oriente (come il comandante al-Khattab, di origine saudita) e da Paesi limitroi della regione caucasica. I militanti di ispirazione wahabita combatterono gli «infedeli» russi, ma si scontrarono anche con i separatisti ceceni laici e con i rappresentanti del suismo, la tradizione religiosa più difusa nel Paese. L’ala più radicale del movimento separatista, guidata dal comandante Šamil Basaev (ucciso nel 2006), lottava per l’instaurazione di un Emirato che riunisse le repubbliche del Caucaso in un unico «Stato islamico» e intratteneva relazioni con al-Qaida. L’adozione del metodo degli attacchi suicidi va messa in relazione proprio con la penetrazione del Wahabismo militante nell’area del conlitto. Nondimeno, la grande maggioranza degli attentatori suicidi non giungeva dall’estero, ma era di origine cecena. Circa metà dei «martiri» era di sesso femminile: erano le famose «vedove nere» cecene. Secondo le informazioni disponibili, la maggior parte di queste donne non fu costretta a partecipare alle missioni senza ritorno, ma ofrì la propria disponibilità in maniera spontanea. Presumibilmente una potente motivazione per il sacriicio fu rappresentata dall’intenzione di reagire a una crisi personale e, in particolare, dal proposito di vendicare la tortura e/o l’uccisione di parenti e persone care per mano delle forze russe (speckhard, akhmedova [2006]).

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La rete di al-Qaida A diferenza della grande maggioranza delle altre organizzazioni che si sono servite del metodo degli attacchi suicidi, al-Qaida non è ancorata a un determinato contesto locale, ma opera a livello globale. Le origini di al-Qaida (in arabo al-qā῾ida, «la base») risalgono all’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979-1989). L’organizzazione venne fondata da Bin Laden nel 1988 a Peshawar, in Pakistan, e inizialmente raggruppava veterani del jihad afghano e militanti estremisti fuggiti dalla repressione di governi autoritari in Medio Oriente (come l’egiziano Ayman al-Zawahiri). Dopo il ritiro sovietico dall’Afghanistan, il gruppo rivolse la sua attenzione ad altri campi di battaglia, dalla Bosnia alla Cecenia alla Somalia, spinto dall’ideale della promozione di un jihad panislamico a livello transnazionale (tra gli altri, cfr. tosini [2012, pp. 25-33]). Nel 1992 Bin Laden e i vertici dell’organizzazione si insediarono in Sudan, ospiti del politico e religioso fondamentalista al-Turabi. Nel 1996 dovettero trasferirsi di nuovo in Afghanistan dove godettero della protezione del regime dei Talebani. Dopo gli attacchi suicidi dell’11 settembre e l’invasione del Paese, la dirigenza di al-Qaida dovette nascondersi nell’area al conine tra Afghanistan e Pakistan. Bin Laden fu ucciso con un intervento delle forze speciali statunitensi il 2 maggio 2011 ad Abbottabad, in Pakistan. Il suo posto venne preso dal suo braccio destro, al-Zawahiri. Al-Qaida adottò il metodo degli attacchi suicidi già prima della catastrofe dell’11 settembre. I primi attentati suicidi furono eseguiti simultaneamente il 7 agosto 1998 contro le ambasciate statunitensi di Nairobi in Kenya e di Dar es Salaam in Tanzania, provocando la morte di oltre duecento persone. Il 12 ottobre 2000 fu la volta dell’attacco suicida al cacciatorpediniere uss Cole, ormeggiato nel porto di Aden, in Yemen; in questa occasione le vittime furono diciassette. Com’è noto, l’11 settembre 2001 al-Qaida fu in grado di colpire il cuore degli Stati Uniti con tre devastanti attacchi suicidi contro le Torri Gemelle a New York e il Pentagono nei pressi di Washington (il quarto aereo precipitò in un cam-

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po della Pennsylvania, a seguito del tentativo dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio di riprendere il controllo del velivolo); nel complesso, i morti furono quasi tremila. Dopo questa catastrofe il nucleo storico di al-Qaida riuscì a portare a termine altri attacchi suicidi in Arabia Saudita, in Yemen, in Indonesia, in Egitto, in Kenya, in Turchia e in altri Paesi. Nondimeno, la maggior parte degli attacchi suicidi messi a segno dalla rete di al-Qaida è legata ai conlitti in Iraq e in Afghanistan, di cui ci si occuperà tra poco. Al-Qaida si è posta al centro di un’ampia rete terroristica di matrice salaita-jihadista. Come si illustrerà nel capitolo 5, questa rete può essere scomposta in tre settori principali. Il primo settore è costituito dal nucleo storico di al-Qaida, l’organizzazione madre fondata da Bin Laden che presumibilmente presenta ancora una struttura gerarchica e ha la propria base in Pakistan. Il nucleo storico ha organizzato autonomamente non meno di 60 attacchi suicidi, tra cui quelli dell’11 settembre 2001. Il secondo settore è formato dalle organizzazioni associate e ailiate ad al-Qaida. Le organizzazioni ailiate sono organizzazioni di portata regionale che si sono costituite su iniziativa di al-Qaida, come al-Qaida nel Maghreb Islamico (aqim nell’acronimo in inglese), alQaida nella Penisola Arabica (aqap), al-Qaida in Iraq (aqi). I gruppi associati sono alleati dell’organizzazione fondata da Bin Laden, ma perseguono scopi di natura locale e regionale, solitamente connessi all’abbattimento di singoli regimi considerati «apostati». Il terzo settore della rete è composto da una nebulosa di cellule terroristiche attive principalmente in Europa e in Nordamerica che si ispirano all’ideologia, alla strategia e alla tattica di al-Qaida. In generale, gli attacchi suicidi sponsorizzati da al-Qaida presentano frequentemente due caratteristiche vistose: hanno livelli di letalità elevati e sono indirizzati prevalentemente contro vittime civili. Questo distingue chiaramente l’organizzazione fondata da Bin Laden da altri gruppi armati che si sono serviti del metodo degli attacchi suicidi, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (fplp) e altre

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fazioni radicali palestinesi, il pkk in Turchia, Hezbollah in Libano (tabella 2.1). tabella 2.1 Modalità della violenza suicida rispetto alla letalità degli attacchi e alla selezione delle vittime Tipo principale di vittime

Letalità media degli attacchi

Militare

Civile

Bassa

pkk

fplp

Alta

Hezbollah

Al-Qaida

Si può sostenere che gli attacchi siano tanto più «estremi», quanto più sono letali e quanto più prediligono gli obiettivi civili rispetto a quelli militari. In questo senso, al-Qaida si avvicina al polo del massimo livello di estremismo lungo entrambe le dimensioni. Gruppi armati attivi in Iraq L’Iraq è il teatro della più intensa e letale campagna di attacchi suicidi della storia, iniziata subito dopo l’occupazione del Paese da parte di una Coalizione guidata dagli Stati Uniti nel marzo del 2003. Nel complesso, sono stati eseguiti più di 1.300 attacchi suicidi, con un picco nel 2007; le vittime sono state oltre 13.000. Gli attacchi suicidi hanno costituito soltanto una delle tante forme di violenza impiegate da una moltitudine di gruppi armati, in prevalenza di estrazione araba sunnita. Non è semplice valutare il ruolo di ciascun gruppo nell’applicazione della violenza, anche perché oltre metà degli attacchi suicidi non è stata rivendicata da alcuna fazione (hafez [2006c, pp. 608-611]; ayers [2008, specie p. 857]). Ad ogni modo, si possono distinguere tre raggruppamenti principali nella lotta armata sunnita (hafez [2006c]; cfr. anche pape, feldman [2010, pp. 88-97]; tosini [2012, pp. 38-42]). Il primo settore, rilevante soprattutto all’inizio del conlitto, è costituito da organizzazioni laiche, formate dai membri del disciolto partito Baath e delle forze armate e di

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sicurezza fedeli al precedente regime. La ragione principale della loro collaborazione alla «resistenza» va ricercata nella volontà di reagire alla perdita di potere e di status conseguente alla caduta di Saddam Hussein, tanto più a seguito dell’incauta politica di «de-baathiicazione» della politica e della società irachena, lanciata nel 2003 dalla Coalition Provisional Authority (cpa). Questi gruppi si sono preissi lo scopo di liberare l’Iraq dalle potenze occupanti, ma hanno perseguito anche inalità rivoluzionarie riguardanti l’abbattimento del nuovo regime. Il secondo settore, responsabile di un numero limitato di attacchi suicidi rivendicati, è composto da gruppi armati che combinano la retorica del nazionalismo arabo con quella del radicalismo sunnita. Tra questi gruppi si segnala l’Esercito Islamico in Iraq, formato in prevalenza da iracheni sunniti con un livello piuttosto alto di esperienza militare e di preparazione tecnica; ha assunto notorietà internazionale con la pratica dei sequestri di civili occidentali (tra cui l’italiano Enzo Baldoni, ucciso il 26 agosto 2004). Questi gruppi islamici-nazionalisti mirano a liberare il Paese dalla presenza di forze straniere, ma sono interessati anche a una lotta settaria di carattere «vigilante», connessa al proposito di restaurare il dominio della comunità sunnita nel Paese. Il terzo raggruppamento è costituito da gruppi armati di matrice salaita-jihadista, cui si deve la maggioranza degli attacchi suicidi rivendicati. Il gruppo più importante in questo settore è al-Qaida in Iraq (aqi). La presenza di alQaida nel Paese è stata dominata dalla igura di Abu Musab al-Zarqawi sino al 2006, anno della sua uccisione. Questo militante jihadista di origini giordane riparò in Iraq alla ine del 2001 e, dopo l’invasione del Paese nel 2003, si oppose alle forze di occupazione alla testa del gruppo Tawhid wal Jihad («Monoteismo e Jihad»). Nell’ottobre del 2004 Zarqawi giurò formalmente fedeltà a Bin Laden, mettendosi al servizio di al-Qaida e, nello stesso tempo, godendo della legittimità e della fama dell’organizzazione transnazionale. Al-Qaida in Iraq (nota anche con altre sigle, che sono cambiate nel corso

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del tempo) poté giovarsi del concorso di numerosi militanti, disposti anche a partecipare ad attacchi suicidi, provenienti dall’Afghanistan e da Paesi del Medio Oriente e del Nordafrica. Zarqawi, forte della legittimazione del nucleo storico di alQaida e dell’apporto di combattenti stranieri, fu responsabile di una campagna di violenza brutale e incurante delle condizioni della popolazione irachena. Questa posizione oltranzista inì per scontentare persino la leadership di al-Qaida, preoccupata di perdere consenso nella comunità sunnita. Da parte loro, gli Stati Uniti seppero sfruttare le ostilità provocate dal terrorista giordano per cercare la collaborazione dei capi tribali sunniti, ottenendo così una riduzione considerevole nel numero degli attacchi suicidi a partire dal 2008. Al-Qaida in Iraq abbraccia in forma estrema gli scopi riguardanti la liberazione del Paese, l’abbattimento del nuovo regime e la lotta settaria contro gli sciiti «eretici», ma vi aggiunge anche peculiari ambizioni panislamiche iscritte in un disegno globale di lotta agli «infedeli» e agli «apostati». Nel complesso, gli attacchi suicidi hanno colpito principalmente le forze dell’ordine irachene e la popolazione civile, mentre soltanto una porzione minoritaria degli attacchi ha coinvolto le truppe dei Paesi occupanti, soprattutto nei primi mesi del conlitto (hafez [2006c, pp. 607-608]). La maggior parte delle vittime, comunque, è composta da civili, in larga misura sciiti. In particolare, al-Qaida in Iraq, anche dopo la morte di Zarqawi, si è distinta per l’uso sistematico della violenza contro i civili sciiti, giudicati non soltanto complici delle forze di occupazione straniera, ma anche pericolosi «eretici»; l’obiettivo è quello di scatenare una guerra civile tra sunniti e sciiti. È da notare che le condizioni di sicurezza nel Paese si sono nuovamente deteriorate dopo il ritiro delle truppe statunitensi nel dicembre del 2011. Gruppi armati attivi in Afghanistan e in Pakistan Il 9 settembre 2001, due giorni prima del crollo delle Torri Gemelle a New York, due attentatori suicidi arabi di al-Qaida, presentatisi come giornalisti, uccisero Ahmad Shah Mas-

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soud, comandante dell’Alleanza del Nord, la principale forza di opposizione ai Talebani. Questo fu con ogni probabilità il primo attacco suicida portato a termine in Afghanistan. È interessante notare che questa forma di violenza non era stata impiegata durante l’occupazione sovietica (1979-1989), benché numerosi mujahidin («combattenti») arabi, tra cui Bin Laden, si trovassero allora nel Paese per combattere le forze «infedeli» di Mosca. Dal 2005-2006 l’uso di questo metodo, importato dall’estero, è diventato comune (bertolotti [2010]). Nel complesso, a oggi sono stati realizzati oltre 1.000 attacchi suicidi che hanno provocato la morte di circa 4.000 persone14. I gruppi responsabili di attacchi suicidi formano una galassia composita che combatte le forze di occupazione occidentali e il governo centrale di Kabul. Un settore di questa galassia è composto da formazioni autoctone, come il movimento dei Talebani afghani guidato dal mullah Omar e i loro alleati della cosiddetta «rete di Haqqani» (dal nome del fondatore Jalaluddin Haqqani), attiva anche in Pakistan. Un secondo raggruppamento è rappresentato da alcuni «signori della guerra» (come il controverso uomo politico e comandante militare Gulbuddin Hekmatyar), non di rado dediti al traico dell’oppio. Un terzo settore è dominato da al-Qaida e ha un’agenda di matrice salaita-jihadista e di portata transnazionale. Una delle caratteristiche più interessanti del caso afghano è costituita, nel complesso, dal livello relativamente basso della letalità degli attacchi suicidi: una media inferiore a 4 morti per attacco. Una delle ragioni di questa peculiarità chiama in causa la selezione dei destinatari della violenza: i Talebani afghani, soprattutto nei primi anni, hanno colpito prevalentemente obiettivi militari e politici, ovvero «obiettivi diicili» (hard tar14. Secondo il database asa (Aghanistan Suicide Attacks) compilato da Claudio Bertolotti dell’Università di Torino, dal 2001 al 2012 sono stati realizzati 1001 attacchi suicidi, responsabili della morte di 3788 persone. Ringrazio Claudio Bertolotti per avermi gentilmente comunicato questi dati.

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gets) perché ben protetti (pape, feldman [2010, pp. 125-128]). Questi gruppi hanno cercato di evitare l’uso sistematico di attacchi suicidi contro civili, al ine di non alienarsi il sostegno della popolazione locale; tuttavia è opportuno rilevare che gli attacchi condotti contro obiettivi militari in aree ad alta densità di popolazione iniscono spesso per colpire inevitabilmente anche civili inermi, oltretutto più vulnerabili dei militari. Una seconda ragione riguarda le capacità e le competenze delle reclute e la qualità dell’addestramento. Secondo alcune fonti, numerosi attentatori suicidi afghani presentano infermità isiche e mentali, e verosimilmente sono stati arruolati con la forza o con l’inganno15. L’attaccamento ideologico dei «martiri» afghani alla causa non sembra profondo. Non a caso, l’uso degli attacchi a controllo remoto pare essere abbastanza frequente (lewis [2012, pp. 224-225]; cfr. lankford [2011, pp. 338-339]). D’altronde, nonostante segnali recenti che destano preoccupazione, il livello di sostegno popolare per l’uso di questa forma di violenza non è elevato, nemmeno tra i pashtun, il gruppo etnico-linguistico più numeroso del Paese (oltre il 40% della popolazione complessiva), a cui i Talebani sono storicamente associati e dalle cui ila proviene la maggioranza degli attentatori suicidi in Afghanistan (cfr. pape, feldman [2010, pp. 129-132]; bertolotti [2010]). Nel 2005 il metodo degli attacchi suicidi fece la sua comparsa anche nel vicino Pakistan. In questo Paese, complessivamente, sono stati eseguiti almeno 300 attacchi suicidi che hanno ucciso oltre 4.000 persone. Una parte degli attacchi, soprattutto prima del 2006, ha coinvolto obiettivi civili, specialmente sciiti. Tra gli attacchi di maggior rilievo occorre 15. Un’eccezione degna di nota è costituita dal soisticato attacco suicida portato a termine all’interno di una base della cia nei pressi di Khost, nella parte orientale del Paese. Il 30 dicembre 2009 Humam Khalil abu Mulal al-Balawi, un medico di origini giordane, riuscì ad accedere alla base e a farsi esplodere durante un incontro tra funzionari dell’intelligence statunitense: persero la vita nove persone, tra cui cinque agenti della cia. Secondo molti osservatori, al-Balawi era un «agente doppio» o forse persino un «agente triplo» (jihadista, poi collaboratore dei servizi di intelligence occidentali, inine ancora jihadista) (cfr. mutti [2012, specie pp. 25-27]).

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ricordare quello che ha provocato la morte dell’ex primo ministro Benazir Bhutto il 27 dicembre 2007. I principali responsabili della violenza suicida nel Paese sono i Talebani pakistani che si sono riuniti nel dicembre del 2007 in una rete chiamata Tehrik-i Taliban Pakistan (ttp), guidata da Baitullah Mehsud e, dopo la sua uccisione nell’agosto del 2009, da Hakimullah Mehsud. Questi gruppi armati hanno le loro roccaforti in una fascia a nord-ovest del Paese, coninante con l’Afghanistan e abitata prevalentemente da pashtun sunniti (i pashtun costituiscono circa il 15% della popolazione pakistana). Questa zona comprende le aree tribali di amministrazione federale (fata nell’acronimo in inglese), dotate di larga autonomia dal governo di Islamabad, e la provincia del Khyber Pakhtunkhwa (conosciuta con il nome di North-West Frontier Province, nwfp, sino al 2010). Nella stessa area verosimilmente si è riparato anche il nucleo storico di al-Qaida. Questa rete di gruppi armati persegue scopi di carattere etno-nazionalista (contro l’interferenza dei Paesi occidentali), di carattere rivoluzionario (a favore dell’abbattimento del regime pakistano e dell’instaurazione di uno «Stato islamico») e, inine, di carattere vigilante (in opposizione alle rivendicazioni degli sciiti e delle altre minoranze). Il metodo degli attacchi suicidi è stato utilizzato anche nella regione del Kashmir, con almeno 14 attacchi suicidi a partire dal 1999. I responsabili della violenza sono gruppi separatisti di ispirazione jihadista, come Lashkar-e Taiba (let) e Jayshe-Mohammed. Sfortunatamente al momento non disponiamo di un database pubblico completo, aidabile e aggiornato degli attacchi suicidi realizzati nel mondo16. Si può stimare che dal 1980 al 2012 16. Il Suicide-Attack Network Database (sand) promosso recentemente dalla Claremont lion Initiative (http://www.sandatabase.org) conteggia 3.994 attacchi suicidi dal 1980 al 2012. Il database degli attacchi suicidi del Chicago Project on Security and Terrorism (cpost) dell’Università di Chicago (http://cpost.uchicago.edu/search. php) include 2.297 episodi veriicatisi tra il 1981 e il febbraio 2011. Il Global Terrorism

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siano stati portati a termine quasi 4.000 attacchi suicidi. Il picco nel numero degli attacchi si è avuto nel 2007, con oltre 600 episodi (avvenuti in gran parte in Iraq). Nel complesso, le vittime di questa forma di violenza sono oltre 33.000 persone. Il graico seguente mostra l’evoluzione del fenomeno nel periodo compreso tra il 1980 e il 2012 (igura 2.1), secondo i dati raccolti nel Suicide-Attack Network Database (sand), compilato a cura di Benjamin Acosta della Claremont Graduate University (cfr. acosta, childs [2013]). Figura 2.1 Numero di attacchi suicidi realizzati nel mondo (1980-2012) (N=3994) 700 600

Attacchi suicidi

500 400 300 200 100 84 86 19 8 19 8 90 19 9 19 2 94 19 96 19 98 20 00 20 02 20 0 20 4 06 20 08 20 10 20 12 19

82

19

19

19

80

0

Anni

Fonte: Suicide-Attack Network Database (sand) Pagina web: http://www.claremontlion.org/#/total/4554725223 (ultima consultazione: maggio 2013) Database (gtd) del National Consortium for the Study of Terrorism and Responses to Terrorism (start) presso l’Università del Maryland (http://www.start.umd.edu/ gtd/) registra 2.081 attacchi suicidi compiuti tra il 1981 e il 2011. Il rand Database of Worldwide Terrorism Incidents (rdwti) della rand Corporation (http://www.rand. org/nsrd/projects/terrorism-incidents.html) registra 1.651 attacchi suicidi realizzati tra il 1981 e il 2009. Il database Worldwide Incidents Tracking System (wits) del National Counterterrorism Center statunitense (https://wits.nctc.gov/) al momento non è più consultabile on line (ultima consultazione: maggio 2013).

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3. Due tipi di terrorismo suicida Come si è visto inora, alcuni gruppi armati responsabili di attacchi suicidi agiscono in aree geograiche circoscritte, mentre altri operano a livello internazionale. Analiticamente si possono distinguere due tipi di terrorismo suicida: il tipo locale e il tipo transnazionale o globale (moghadam [2006c, pp. 719-723; 2008, specialmente pp. 54-61]; cfr. anche khosrokhavar [2002]). La sezione presenta i due tipi e illustra i rapporti esistenti tra gruppi armati riconducibili a tipi diferenti. 3.1 Il tipo locale Nell’ambito del tipo locale la violenza ha innanzitutto lo scopo di porre ine a quella che viene considerata una occupazione territoriale illegittima. Tutte le campagne di attacchi suicidi veriicatesi nel periodo compreso tra l’inizio degli anni ’80 e la metà degli anni ’90 possono essere ricondotte a questo tipo. Gli attacchi suicidi avvengono nel contesto di conlitti di portata locale (o al più regionale) che oppongono due avversari ben deiniti di diversa appartenenza etnica e/o religiosa: libanesi sciiti contro israeliani e forze occidentali in Libano, tamil contro cingalesi in Sri Lanka, palestinesi contro israeliani nell’area del conlitto israelo-palestinese, curdi contro turchi in Turchia, ceceni contro russi in Cecenia. Questi conlitti si protraggono da numerosi anni o addirittura da decenni, come nel caso israelo-palestinese. Le organizzazioni coinvolte non di rado sono laiche: di matrice etno-nazionalista (per esempio, ltte, Fatah) o di derivazione marxista (pkk, fplp, Partito Nazionalista Socialista Siriano). Non mancano organizzazioni di ispirazione religiosa (per esempio, Hezbollah e Hamas); nondimeno il ruolo dei dettami religiosi, per quanto saliente, non è essenziale per la gestione e la prosecuzione del conlitto: più rilevante dei contenuti dottrinali e teologici di una determinata religione è la diferenza di confessione religiosa tra le due parti, che

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esacerba ulteriormente la conlittualità (si veda il capitolo 4 di questo volume). Nell’ambito di questo primo tipo, gli attacchi suicidi sono quasi sempre pianiicati a livello locale. I gruppi armati reclutano e addestrano gli attentatori suicidi nell’area del conlitto. Il fenomeno dei «combattenti stranieri» (foreign ighters), importati dall’estero, è raro. Per esempio, nel novero dei circa 200 «martiri» palestinesi soltanto due individui non erano residenti nei Territori occupati e Israele: Asif Muhammad Hanif e Omar Khan Sharif, giovani cittadini britannici di origini pakistane, parteciparono a un attacco suicida contro un bar di Tel Aviv il 30 aprile 2003 (moghadam [2006c, p. 729; 2008, p. 214]). La missione dei due cittadini britannici fu rivendicata sia dalle Brigate di al-Aqsa (vicine a Fatah) sia da Hamas. Gli attacchi suicidi sono portati a termine a livello locale, nell’area del conlitto o nelle sue vicinanze. I gruppi armati si astengono dal colpire i propri nemici in altre regioni. Per esempio, persino un’importante organizzazione islamista come Hamas, nonostante i proclami retorici, non ha mai attaccato obiettivi occidentali, tanto meno per mezzo di attacchi suicidi, ed è improbabile che possa farlo in futuro (cfr. levitt [2007]). Questa regola generale contempla poche eccezioni: gli attacchi suicidi realizzati a Buenos Aires contro l’ambasciata israeliana il 17 marzo 1992 (costati la vita a 29 persone) e contro la sede di un’associazione ebraica il 18 luglio 1994 (85 morti) sono solitamente imputati a un’iniziativa di Hezbollah, dietro sollecitazione dell’Iran, anche se l’organizzazione libanese ha respinto uicialmente qualsiasi responsabilità. Inoltre, il 21 maggio 1991 henmozhi «Gayatri» Rajaratnam, una donna ailiata alle Tigri Tamil, uccise in un attentato suicida il politico indiano Rajiv Gandhi durante una tappa della sua campagna elettorale nei pressi di Madras. Gandhi, durante il mandato come primo ministro (1984-1989), aveva promosso un’operazione di peacekeeping (1987-1990) nel conlitto in Sri Lanka, nel corso della quale il contingente indiano si era scontrato più volte con le ltte e si era reso

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responsabile di massacri e abusi ai danni della popolazione tamil. Anche in questo caso, le Tigri Tamil hanno negato il loro coinvolgimento nell’attacco suicida costato la vita al politico indiano. Nel terrorismo suicida di tipo locale gli scopi perseguiti dai gruppi armati sono relativamente limitati e piuttosto ben deiniti. Essi lottano per la cessazione di un’occupazione territoriale straniera, l’indipendenza di un popolo e l’instaurazione di uno Stato sovrano: che si chiami Eelam Tamil, Palestina, Kurdistan o Khalistan. Queste campagne di violenza possono essere ricondotte a quella che David Rapoport [2004] ha identiicato come la seconda delle quattro grandi ondate del terrorismo moderno, l’ondata «anticoloniale» di natura etno-nazionalista. 3.2 Il tipo transnazionale Alla ine degli anni ’90 del Novecento si è afermato un nuovo tipo di terrorismo suicida: il tipo transnazionale o globale, esempliicato dalla rete di al-Qaida. A diferenza di quanto avviene nell’ambito del tipo locale, numerosi attacchi suicidi sono stati realizzati in luoghi che generalmente non vengono afatto considerati aree di combattimento: si pensi, per citare soltanto due esempi lampanti, agli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington e agli attacchi del 7 luglio 2005 a Londra. Le stesse vittime della violenza non sono consapevoli di essere coinvolte in un conlitto. Le campagne di attacchi suicidi riconducibili a questo tipo possono anche aver luogo nel contesto di conlitti localizzati, come le guerre in Iraq e in Afghanistan, ma tali conlitti non hanno necessariamente una lunga storia alle spalle. Come ha osservato Moghadam [2008, p. 57]: le missioni suicide in Iraq, per esempio, sono comparse meno di una settimana dopo l’inizio dell’invasione dell’Iraq condotta dagli Stati Uniti nel marzo del 2003 – un arco di tempo che diicilmente appare abbastanza lungo da produrre quelle forme di rivendicazione forte-

102 mente radicate che presumibilmente hanno interessato gli attentatori suicidi palestinesi, tamil o curdi in contesti locali.

Non di rado gli atti di violenza sono pianiicati in un’area geograica e portati a termine in un’altra area, anche molto distante: l’organizzazione degli attacchi dell’11 settembre, per esempio, fu coordinata dall’Afghanistan. Allo stesso modo gli attentatori suicidi non vengono reclutati e addestrati necessariamente nel Paese in cui l’attacco verrà realizzato: per rimanere all’esempio dell’11 settembre, i diciannove dirottatori suicidi provenivano dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti, dall’Egitto e dal Libano e non furono arruolati negli Stati Uniti. È noto che, secondo numerose fonti, la maggioranza dei «martiri» che si sono fatti esplodere in Iraq è arrivata dall’estero. In generale, l’apporto di combattenti stranieri è fondamentale nell’attività delle organizzazioni salaite-jihadiste della nostra epoca (cfr. mendelsohn [2011]; hegghammer [2010-11]). Queste organizzazioni terroristiche non concentrano i propri attacchi in aree geograiche circoscritte interessate da conlitti locali. Al contrario, esse sono disposte a colpire qualsiasi obiettivo giudicato legittimo in qualunque posto del mondo. In particolare, al-Qaida è impegnata a contrastare gli interessi americani in ogni angolo del globo e minaccia anche gli alleati di Washington. La portata virtualmente globale della minaccia del terrorismo suicida di tipo transnazionale è incoraggiata da un sistema di credenze e valori, l’ideologia salaita-jihadista, che professa un’ostilità insanabile nei confronti dei presunti «nemici del vero Islam», incurante di qualsiasi frontiera e conine (cfr. capitolo 4 di questo volume). Nell’ambito del tipo locale, i gruppi armati possono anche esibire scopi radicali: Hamas, per esempio, reclama uicialmente la distruzione dello Stato di Israele (in realtà, il movimento palestinese è più pragmatico di quanto certe dichiarazioni facciano pensare). Nondimeno tali scopi hanno un raggio d’azione circoscritto e sono piuttosto chiari e deiniti (moghadam [2008, pp. 58-59]). Al contrario, nell’ambito del

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tipo transnazionale gli scopi sono ben più ambiziosi ed elusivi. Gli obiettivi proclamati da al-Qaida, in particolare, sono grandiosi, di portata globale e non privi di slanci utopistici: tra questi vagheggiamenti spicca l’aspirazione alla ricostituzione del Califato su tutti i territori che sono o furono sotto il dominio islamico, secondo i principi della sharia («Legge islamica»). Secondo Stephen Holmes [2006, p. 170], l’evocazione di questo ine utopistico svolge principalmente la funzione di incoraggiare la mobilitazione di militanti, simpatizzanti e possibili alleati: quando articolano uno scopo positivo, i portavoce di al-Qaida menzionano spesso il Califato mondiale. Ma tale Califato, con l’intero Occidente (così come l’India, la Cina e la Russia) ridotti allo stato di tributari di fronte alle potenze islamiche, è l’equivalente religioso dell’utopia comunista di Marx. Nessuno può contestarlo perché nessuno può immaginarlo. Questa è la ragione per cui è così attraente. Trasformare il Califato mondiale in un ine primario del jihad non ha posto nessuna seria minaccia all’unità di una coalizione vacillante.

In verità, gli stessi studiosi e analisti fanno fatica a identiicare chiaramente gli scopi e le motivazioni di al-Qaida, anche se esiste un consenso generale sul fatto che essi abbiano a che fare con pretese massimaliste (moghadam [2008, p. 59]). 3.3 I rapporti tra le organizzazioni riconducibili ai due tipi Negli ultimi anni il terrorismo suicida nella sua tradizionale variante locale ha perso importanza. Le organizzazioni libanesi, a partire da Hezbollah, non impiegano più questa forma di violenza; non è accaduto nemmeno nella guerra che ha opposto Hezbollah e Israele nell’estate del 2006. I gruppi radicali palestinesi hanno percorso la stessa parabola, astenendosi da attacchi suicidi contro lo Stato ebraico anche dopo la pesante ofensiva israeliana scatenata sulla Striscia di Gaza tra la ine del 2008 e l’inizio del 2009 («Operazione Piombo fuso»). Le ltte sono state addirittura sconitte militarmente nel 2009.

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Al contrario, il tipo transnazionale ha conosciuto una difusione drammatica, soprattutto dopo l’11 settembre 2001. Come accennato, anche quando le campagne di attacchi suicidi si concentrano in zone di conlitto relativamente circoscritte, come l’Iraq e l’area afghano-pakistana (talvolta ribattezzata Af-Pak), esse si rifanno a programmi, obiettivi strategici e orientamenti ideologici che vanno ben oltre i conini di un singolo conlitto locale. Nondimeno, come nota con prudenza Moghadam [2008, pp. 59-61], non si può afermare con assoluta certezza che il tipo transnazionale stia soppiantando inesorabilmente quello locale. In realtà, al momento i due tipi coesistono. Da una parte, organizzazioni di portata locale come Hezbollah e Hamas, nonostante l’ispirazione islamista, hanno conservato un ambito di manovra geograicamente limitato che, al di là dei richiami religiosi, è ancorato a rivendicazioni di carattere essenzialmente etno-nazionalista. Non è quindi un caso che i vertici di al-Qaida abbiano criticato duramente l’operato di queste organizzazioni e, in particolare, il loro riiuto di partecipare a un jihad armato su scala globale. Hezbollah viene guardato con grande diidenza innanzitutto perché è un gruppo sciita: per i militanti salaiti-jihadisti lo Sciismo è un’eresia pericolosa. La distanza con Hamas, un’organizzazione nata dal ramo palestinese dei Fratelli musulmani egiziani, rilette la più ampia rivalità tra i salaiti-jihadisti e la Fratellanza musulmana all’interno del mondo radicale sunnita (mendelsohn [2009]); le due correnti sono in disaccordo su temi cruciali come la concezione dello Stato islamico, il valore attribuito alla partecipazione politica e la legittimità di quella che si può chiamare, pur con un’espressione impropria, la scomunica degli apostati (nel lessico della dottrina islamica, takfīr) (lynch [2010]; cfr. anche cragin [2009]). Negli ultimi anni sia in Libano sia nei Territori palestinesi (principalmente nella Striscia di Gaza) si sono difusi gruppi e cellule di ispirazione salaita-jihadista che mettono in discussione l’autorità rispettivamente di Hezbollah e di Hamas, e si rendono responsabili di atti di violenza (si può ricordare,

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in particolare, il sequestro e l’uccisione dell’attivista Vittorio Arrigoni a Gaza nell’aprile del 2011) (hroub [2008]). Non si può escludere con certezza che gruppi armati di portata locale abbraccino il metodo degli attacchi suicidi oppure se ne avvalgano di nuovo dopo anni di tregua. Dall’altra parte, alcuni gruppi armati di portata regionale si sono avvicinati al tipo transnazionale, ailiandosi o alleandosi alla rete di al-Qaida, e operano adesso a cavallo tra i due livelli. Per esempio, il Gruppo Salaita per la Predicazione e il Combattimento (gspc) nacque negli anni ’90, durante la guerra civile algerina, per una scissione dal gia (Gruppo Islamico Armato), e si preisse lo scopo di abbattere il regime e di instaurare uno «Stato islamico» in Algeria. Nel settembre del 2006 il gruppo si associò formalmente ad al-Qaida e quattro mesi più tardi cambiò signiicativamente il proprio nome in al-Qaida nel Maghreb Islamico (aqim nell’acronimo in inglese). Dopo l’ailiazione, l’organizzazione dichiarò l’intenzione di attaccare obiettivi occidentali e adottò il metodo degli attacchi suicidi (v. Marret [2008]). Il leader di aqim, Abdelmalek Droukdal, afermò che gli attacchi suicidi sarebbero diventati la principale tattica dell’organizzazione. Traiettorie simili sono state percorse da gruppi alleati di alQaida, come Lashkar-e Taiba nel subcontinente indiano e Jemaah Islamiyah in Asia sud-orientale. 4. Diffusione e tecnologia La difusione del metodo degli attacchi suicidi nel corso del tempo ha avuto luogo attraverso modalità dirette e indirette. In alcune occasioni la propagazione è avvenuta grazie a rapporti diretti di collaborazione tra i gruppi armati. La cooperazione ha permesso lo scambio di informazioni, in particolare in merito alle «best practices», e ha consentito di abbassare il costo di adozione del nuovo metodo. Per esempio, Hezbollah, il «padre fondatore» del terrorismo suicida, ha collaborato con Hamas e il Jihad Islamico palestinese e probabilmente ha

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intrattenuto rapporti anche con altre organizzazioni interessate a «importare» questa forma di violenza; secondo alcune fonti, emissari delle Tigri Tamil (hopgood [2006, pp. 50-51 e p. 304 nota 34]; pape, feldman [2010, p. 309]) e persino di al-Qaida (9/11 commission [2004, p. 68; cfr. ivi, pp. 240-241]) ricevettero addestramento e consiglio in Libano. Di norma la cooperazione è più intensa e proicua tra organizzazioni che presentano orientamenti ideologici aini (horowitz [2010]; acosta, childs [2013]). D’altra parte, la difusione degli attacchi suicidi è avvenuta spesso in maniera indiretta, sulla base di processi di apprendimento e di imitazione a distanza. Le campagne di attacchi suicidi libanesi, premiate dal successo del ritiro delle forze straniere dal Paese, sono servite da modello per molti gruppi armati che più tardi hanno abbracciato questa forma di violenza. L’emulazione ha interessato anche le modalità di esecuzione: per esempio, la tecnica delle «cinture esplosive» introdotta dalle Tigri Tamil in Sri Lanka venne ripresa da Hamas nell’area del conlitto israelo-palestinese e più tardi da altre organizzazioni violente nel mondo. Nell’attuale «società dell’informazione» il metodo degli attacchi suicidi, così spettacolare e impressionante, diicilmente può sfuggire alla conoscenza di gruppi armati attivi in ogni angolo del mondo: la mera «accessibilità cognitiva» non sembra quindi essere un limite alla difusione di questa pratica (kalyvas, sánchez-cuenca [2006, pp. 210213]; cfr. anche jackson [2001, pp. 191-192]). In un libro originale e interessante Jefrey W. Lewis [2012] ha ripercorso la storia del metodo degli attentati suicidi e, avendo in mente il «ciclo di vita dei sistemi tecnologici», ha distinto tre fasi di difusione: nella fase della «innovazione» il metodo degli attacchi suicidi viene concepito e sviluppato dai precursori moderni (a partire dai terroristi russi) attraverso un processo disordinato per prove ed errori; nella fase della «difusione», inaugurata dalle campagne palestinesi, il metodo si propaga e viene adattato a nuovi contesti, con ritmi ancora abbastanza lenti; nella fase inale della «merciicazione» (commodiication), in corrispondenza con l’afermazione

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del movimento jihadista globale, il metodo viene utilizzato regolarmente e riesce a distinguersi all’interno di un ampio mercato di forme di violenza, anche per mezzo di apposite tecniche di marketing gestite dai vari gruppi armati. L’acquisizione e l’applicazione del metodo degli attacchi suicidi richiede non soltanto, per usare il linguaggio degli studi organizzativi, una «conoscenza esplicita» (explicit knowledge) formale, ma anche una «conoscenza tacita» (tacit knowledge) non codiicata, derivante dall’esperienza, diicile da esprimere e da trasferire (per esempio, cfr. jackson [2001, pp. 187-188 e passim]). Michael Kenney [2010a; 2010b] ha adottato una distinzione analoga tra due tipi di conoscenza: la techne, astratta e universale, e la mētis, pratica e aderente ai diversi contesti locali. Kenney [2010b] ha messo in evidenza come i militanti jihadisti attivi in Gran Bretagna e in Spagna negli anni scorsi abbiano commesso una grande quantità di errori basilari; cionondimeno una minoranza di questi soggetti è riuscita a portare a termine attacchi devastanti, perché alle regole apprese nell’ambito della techne ha combinato la giusta dose di mētis. In particolare, i quattro attentatori suicidi responsabili degli attacchi a Londra del 7 luglio 2005 commisero numerosi errori che avrebbero potuto causare il fallimento dell’operazione: per esempio, i tre attentatori provenienti da Leeds si recarono alla stazione di Luton, nei pressi della capitale britannica, a bordo della stessa automobile (contravvenendo alla «buona regola» di viaggiare separati); durante il viaggio uno di loro ebbe un diverbio con un cassiere in un negozio dotato di telecamere di sorveglianza; dopo aver incontrato il quarto compagno, si diressero verso il centro di Londra sullo stesso treno e attirarono l’attenzione dei presenti abbracciandosi con euforia prima di separarsi; inine, tutti e quattro portarono con sé oggetti personali e documenti di identità. Allo stesso tempo, gli attentatori furono in grado di applicare le conoscenze apprese probabilmente in campi di addestramento paramilitare nel lontano Pakistan per pianiicare e realizzare un attentato nel cuore di una grande capitale europea (hoffman [2009]). I quattro «martiri»

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evidentemente furono aiutati dal fatto di essere cresciuti in Inghilterra; in questo caso si parla, appunto, di terrorismo «cresciuto in casa» (homegrown). La mētis è un tipo di conoscenza che si acquisisce progressivamente con l’esperienza. I militanti jihadisti attivi in ambienti ostili e vigili, come le società occidentali dopo l’11 settembre, devono ricorrere a tutta una serie di precauzioni e restrizioni che hanno l’efetto di ridurre di fatto le opportunità per l’accumulazione di tale sapere pratico. In particolare gli attacchi suicidi, atti di violenza che per deinizione possono essere realizzati una volta sola (da parte dei medesimi individui), impediscono l’apprendimento per prove ed errori, quantomeno nel caso di cellule autonome dotate di un basso livello di divisione del lavoro, come è avvenuto a Londra nel 2005. Questi limiti di conoscenze contribuiscono forse a spiegare il fallimento di non pochi attentati suicidi tentati in Occidente negli ultimi anni: dalle missioni a bordo di un aereo di Richard Reid il 21 dicembre 2001 e di Umar Farouk Abdulmutallab il giorno di Natale del 2009, all’azione del libico Mohamed Game, fattosi esplodere all’ingresso di una caserma dell’esercito a Milano il 12 ottobre 2009 (bordonaro [2010]). Negli anni ’80, il metodo degli attacchi suicidi rappresentò un’importante innovazione nel repertorio di forme di violenza a disposizione delle organizzazioni dedite al terrorismo. Un’innovazione tanto più signiicativa se si pensa che il terrorismo è spesso considerato un campo piuttosto conservatore sotto il proilo tattico e operativo (jenkins [1985, p. 12]). Venti anni fa uno dei maggiori esperti di terrorismo, Bruce Hofman [1992, pp. 13-14], rilevava che nel periodo compreso tra il 1968 e la ine degli anni ’80 circa metà degli attacchi compiuti nel mondo ogni anno era costituita da attentati dinamitardi (bombings). In efetti le bombe sono relativamente facili da costruire, riducono i rischi per l’incolumità e la sicurezza dei terroristi17 e consentono di attirare l’attenzione sulle 17. Questo non signiica che l’uso di bombe sia esente da complicazioni, anche gravi: per esempio, secondo stime citate da Jackson [2001, p. 198], approssimati-

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rivendicazioni accampate dall’organizzazione. Analizzando i dati disponibili, Hofman (ibidem) concludeva: La maggioranza delle organizzazioni terroristiche non è tatticamente innovativa. Radicali in politica, questi gruppi appaiono conservatori nelle loro operazioni, aderendo largamente allo stesso repertorio operativo anno dopo anno. Quando si registra un’innovazione è principalmente nei metodi usati per occultare e far detonare gli ordigni esplosivi, non nelle loro tattiche o nell’uso di armi non-convenzionali (per esempio, chimiche, biologiche o nucleari). I terroristi continuano ad aidarsi – come hanno fatto per più di un secolo – alla pistola e alla bomba; raramente deviano da un modus operandi stabilito.

In tempi recenti questa tesi è stata ribadita dallo stesso Hofman [2006, p. 268] e da altri studiosi (dolnik [2007, pp. 5-6 e 10]; cfr. anche lewis [2007, p. 238; 2008, pp. 68-69]). Certamente nell’ambito dell’attività terroristica le invenzioni radicali non sono frequenti. Nondimeno non bisogna sottovalutare la capacità dei gruppi armati di trarre ispirazione in maniera creativa dall’attività di altre organizzazioni e, soprattutto, di adeguarsi all’ambiente in cui operano, tanto più considerati i limiti di disponibilità economica e i vincoli di segretezza e clandestinità con cui devono misurarsi (wilkinson [1993, pp. 4-5]). Le organizzazioni, in primo luogo, sono chiamate ad adattarsi continuamente alle misure antiterroristiche poste in essere dagli Stati contro cui combattono. Non di rado i due duellanti (gruppo armato e Stato) si trovano impegnati in una sorta di frenetica «mini-corsa agli armamenti» (dolnik [2007, p. 15]), ciascuno sulla base delle proprie capacità e risorse, come dimostra emblematicamente il caso della «gara tecnologica» tra l’ira nord-irlandese e il governo britannico nel campo delle bombe a controllo remoto e delle relative contromisure, negli anni ’70 e ’80 del Novecento (hoffman [1992, p. 20; 2006, pp. 252-254]). In vamente il trenta percento delle vittime di bombe fatte in casa sarebbe composto dagli stessi fabbricatori degli ordigni.

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secondo luogo, un’analoga «mini-corsa agli armamenti» può essere attivata dalla competizione tra gruppi armati rivali (cfr. jackson [2001, p. 195]), come è avvenuto nel campo palestinese. Per quanto riguarda gli attentati suicidi, si può afermare, in generale, che essi siano essenzialmente eredi dei tradizionali attentati dinamitardi. Cionondimeno gli attentati suicidi mostrano alcune caratteristiche distintive. Negli attacchi dinamitardi comuni il terrorista deve mantenere una certa distanza dal luogo dell’esplosione: può abbandonare un ordigno provvisto di un detonatore a tempo e allontanarsi, oppure può innescare l’esplosione con un dispositivo di comando a distanza. Questa distanza isica garantisce la sicurezza personale dell’attentatore, limitando il pericolo di essere colpito a sua volta e/o di essere scoperto, ma, nello stesso tempo, può ridurre considerevolmente la capacità di controllo e gestione dell’attacco. All’opposto, l’uso degli attacchi suicidi, azzerando questa distanza, non implica alcuna preoccupazione per la vita dell’attentatore (anzi, richiede il sacriicio premeditato), ma massimizza la capacità di controllo e gestione dell’atto di violenza. D’altra parte, è evidente che attacchi suicidi come quelli dell’11 settembre presentano importanti aspetti di innovazione. Com’è noto, in quell’occasione la distruzione delle persone e delle cose non è stata provocata da appositi ordigni esplosivi, ma dal semplice impatto degli aerei di linea contro gli ediici delle Torri Gemelle a New York e del Pentagono nei pressi di Washington; né bomba né pistola, per restare al binomio menzionato da Hofman. A ben vedere, tutti i principali elementi del piano terroristico dell’11 settembre erano già stati impiegati in precedenza, ma mai congiuntamente: i dirottamenti aerei avevano già una storia lunga e importante; gli attacchi suicidi, anche con l’ausilio di mezzi di trasporto (come automobili, furgoni e navi), erano impiegati da vent’anni, anche contro obiettivi statunitensi; addirittura il World Trade Center stesso era già stato oggetto di un attentato terroristico di alto proilo a opera di estremisti islamici nel

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1993 (juergensmeyer [2001, trad. it. pp. 65-74]). Le modalità di esecuzione degli attacchi del 9/11 ricordano da vicino un piano del gia algerino del dicembre 1994: in quell’occasione, il tentativo di far precipitare un aereo dell’Air France pieno di carburante contro la Tour Eifel venne sventato all’ultimo dall’intervento di un’unità di élite dell’antiterrorismo francese, che prese d’assalto e uccise i quattro dirottatori durante una loro sosta per un rifornimento a Marsiglia (marone [2011]). La novità tattica e operativa assicurò il drammatico successo dell’azione terroristica dell’11 settembre. Gli Stati Uniti furono certamente colti di sorpresa dalle modalità di esecuzione degli attacchi: una squadra di terroristi dirottava simultaneamente quattro aeroplani colmi di passeggeri non per intavolare una negoziazione basata sulla liberazione di ostaggi, come era accaduto molte volte in passato, ma per usare gli stessi aerei come missili da scagliare contro obiettivi di alto valore simbolico. Come ha osservato la Commissione di inchiesta sull’11 settembre (9/11 commission [2004, pp. 339-348]), la comunità di intelligence americana sofrì di una palese «mancanza di immaginazione»: semplicemente non prese in considerazione questo scenario (marone [2011]; mutti [2012]). Allo stesso tempo, il successo tattico e operativo dell’11 settembre ha reso meno probabile la possibilità che venga realizzato un altro attacco con le medesime modalità di esecuzione; nelle parole stimolanti, per quanto in troppo perentorie, di Daniel Morris [2009, p. 13]: la tattica ingegnosa di usare gli aerei di linea come missili guidati ha raggiunto la sua data di scadenza in termini di fattibilità proprio quella mattina [dell’11 settembre 2001]. Infatti una modalità come quella probabilmente funziona una volta sola. L’aspetto geniale del piano consisteva nella sua novità – nella sua capacità di prendere il nemico completamente di sorpresa. Una volta che la capacità di sorprendere il nemico con questo metodo di attacco è stata eliminata, esso non può più essere utilizzato.

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Le parole di Morris suggeriscono una considerazione degna di nota: può essere la stessa necessità delle organizzazioni terroristiche di cogliere di sorpresa l’avversario a incoraggiare l’innovazione sotto il proilo tattico e operativo. A diferenza della maggior parte delle innovazioni militari, la nascita del terrorismo suicida non è stata legata a un cambiamento tecnico-tecnologico18 (horowitz [2010, p. 39]). Gli attacchi suicidi, infatti, non richiedono strumentazioni tecnologiche soisticate. Per questo possono essere utilizzati in maniera piuttosto creativa; come ha sottolineato Brian Jackson [2001, p. 197], in generale, vi è una relazione diretta tra la semplicità di una determinata tecnologia e la capacità di padroneggiarne l’uso e di apportare miglioramenti. Gli attacchi suicidi contemporanei sono stati portati a termine con diferenti tecniche e metodi operativi: i terroristi si sono avvalsi di «cinture esplosive», automobili e altri veicoli, motocicli, aeroplani, imbarcazioni, persino biciclette (per esempio, nell’attentato che uccise il presidente cingalese Premadasa nel 1993). Negli ultimi anni l’auto-bomba ha probabilmente sopravanzato la «cintura esplosiva», per lungo tempo il metodo operativo più difuso (cfr. pedahzur [2005, pp. 15-17]). Per certi versi, nell’attacco suicida è proprio il fattore umano a trasformarsi in una sorta di dispositivo tecnologico, in un «sistema tecnologico» (lewis [2012]): l’attentatore suicida diventa una vera e propria «bomba umana». Spesso il gap tecnologico tra i gruppi armati e i loro avversari statali è lampante. Le organizzazioni ribelli hanno trovato negli attacchi suicidi un metodo ideale per proseguire un conlitto asimmetrico. A diferenza delle ondate di giovani iraniani sacriicatisi durante la guerra contro l’Iraq, gli attentatori suicidi non vengono semplicemente gettati contro il nemico, 18. Secondo alcuni studiosi, i «sistemi tecnologici» racchiudono una dimensione tecnica («tecnologica» in senso stretto), ma anche una dimensione organizzativa e una dimensione culturale e sociale (lewis [2012]). In questo momento l’attenzione è concentrata sulla prima dimensione.

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come «carne da cannone», ma, dopo essere stati selezionati, vengono provvisti di un’arma diicile da contrastare (lewis [2007, p. 229]). Le organizzazioni violente sono poi sollecite a presentare questa loro inferiorità tecnologica come l’altra faccia della loro presunta superiorità morale; nelle parole espressive di un membro delle Brigate al-Qassam, l’ala militare di Hamas, «noi non abbiamo carri armati o razzi, ma abbiamo qualcosa di superiore – le nostre bombe umane islamiche pronte a esplodere. Al posto di un arsenale nucleare, siamo orgogliosi del nostro arsenale di credenti» (hassan [2001]). I responsabili e i fautori degli attacchi suicidi possono asserire che le forze meccanizzate dell’avversario non rappresentano altro che miseri surrogati materiali di virtù come il coraggio, la fede, la disponibilità a sacriicarsi per la comunità di appartenenza (lewis [2012, pp. 10-11]). Il livello tecnico-tecnologico degli attacchi terroristici può rimanere modesto anche perché i gruppi armati, entro certi limiti, possono permettersi di fallire alcuni attacchi. Si consideri il messaggio eloquente inviato dall’ira nord-irlandese al governo britannico subito dopo il fallito attentato a Margaret hatcher del 12 ottobre 1984: «oggi siamo stati sfortunati, ma ricordate che noi dobbiamo soltanto essere fortunati una volta, voi dovrete essere fortunati sempre» (citato in hoffman [1993, p. 21]). L’attentato, in occasione dell’annuale convegno del Partito conservatore a Brighton, non riuscì a colpire il Primo ministro (morirono cinque persone, tra cui un parlamentare), ma fu comunque in grado di attirare l’attenzione dei media di tutto il mondo e rappresentò una minaccia molto seria per il governo di Londra. D’altra parte, è ovvio che esiste una soglia oltre la quale il fallimento degli attacchi è dannoso per le organizzazioni violente perché mette a repentaglio la loro credibilità. La semplicità tecnologica degli attacchi suicidi non deve portare alla sottovalutazione della minaccia portata da questa forma di violenza. Gli eventi dell’11 settembre hanno dimostrato chiaramente come i terroristi siano in grado

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di realizzare attacchi catastroici senza la necessità di armi tecnicamente avanzate: ai diciannove attentatori suicidi di al-Qaida sono bastati dei banali coltellini. Come accennato, è stata proprio la sottovalutazione del pericolo costituito dal ricorso ad armi tradizionali, persino primitive, a favorire indirettamente la realizzazione degli attacchi a sorpresa contro le Torri Gemelle e il Pentagono. L’adozione del metodo degli attacchi suicidi non prevede consistenti barriere di accesso di carattere economico: l’uso di questa forma di violenza di solito non richiede spese ingenti. Salienti possono essere invece le barriere di accesso di carattere organizzativo. In altri termini, un gruppo armato per impiegare sistematicamente il metodo degli attacchi suicidi deve spesso possedere capacità e risorse organizzative non trascurabili, in termini di elaborazione strategica, investimenti in ricerca e sviluppo, dimensioni organizzative e livello di divisione del lavoro e così via. Il gruppo armato deve essere in grado, per esempio, di predisporre speciiche procedure e pratiche di reclutamento e di addestramento degli attentatori suicidi, diferenti da quelli richiesti per il terrorismo non suicida (horowitz [2010, pp. 40-41]): particolare attenzione va dedicata alla motivazione e all’indottrinamento degli aspiranti «martiri», destinati a sacriicare deliberatamente la propria vita nel corso di un’unica missione senza ritorno. Alla igura dell’attentatore suicida è dedicato il prossimo capitolo.

3. Il livello individuale: l’attentatore suicida

Un buon punto di partenza per rendere conto della complessità delle campagne di attacchi suicidi consiste nel distinguere tre livelli di analisi in capo a questo fenomeno sociale: il livello individuale, il livello organizzativo e il livello ambientale. I prossimi capitoli prendono in considerazione i tre livelli analitici e le loro interazioni, concentrando l’attenzione sull’attore fondamentale associato a ciascun livello: rispettivamente l’attentatore suicida, il gruppo armato e la comunità di sostegno. Il livello individuale riguarda gli aspetti personali dei vari attori coinvolti nell’impiego degli attacchi suicidi. Nelle organizzazioni terroristiche si può rintracciare un sistema di attori, costituito, per esempio, da leader politici, leader spirituali, luogotenenti, responsabili del reclutamento, agenti operativi e così via. In questa sede l’attenzione è concentrata sulla igura cruciale dell’attentatore suicida. A diferenza dei terroristi ordinari (non suicidi), gli attentatori suicidi quasi sempre non provengono dalle ila dei gruppi armati che sponsorizzano gli attacchi. Al contrario, vengono reclutati dall’esterno soltanto per prender parte a queste missioni letali. In tal modo i gruppi armati evitano di sacriicare i propri membri in operazioni senza ritorno che, peraltro, richiedono solitamente capacità e competenze modeste. Occorre ammettere con schiettezza che lo studio dei proili e, ancor più, della personalità e delle motivazioni degli attentatori suicidi diicilmente può essere accurato ed esaustivo. Nonostante gli sforzi compiuti da studiosi ed esperti, il tema presenta non pochi aspetti oscuri. La ricerca sul campo

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è tradizionalmente disagevole in questo settore di studi, a causa della natura clandestina delle attività terroristiche e per motivi di sicurezza. Ancora più complicato è indagare la igura dell’attentatore suicida: prima dell’attacco gli aspiranti «martiri» devono celare le proprie intenzioni per non compromettere l’esito della missione; e dopo l’attacco, per deinizione, non possono più essere interpellati. Nelle pagine seguenti particolare attenzione verrà dedicata agli attentatori suicidi palestinesi, anche perché in questo caso gli esperti hanno a disposizione una quantità maggiore di informazioni e dati rispetto ad altre aree interessate dal fenomeno del terrorismo suicida (speckhard [2009, p. 205]; merari [2010, p. 226 e passim]). Alcuni studiosi hanno deciso di intervistare le famiglie degli attentatori suicidi, dopo che la loro missione era stata portata a termine (cfr. speckhard [2009]). In particolare, lo psicologo israeliano Ariel Merari [2010] ha condotto una serie sistematica di interviste a quasi tutte le famiglie degli attentatori suicidi palestinesi che si sono fatti esplodere negli anni ’90 (34 famiglie su 36, secondo la ricostruzione oferta dall’autore: ivi, capitolo 4). Questa preziosa ricerca fornisce numerosi dettagli interessanti, ma diicilmente può consentire di ricostruire pienamente la costellazione di motivazioni che hanno condotto i «martiri» all’accettazione dell’estremo sacriicio. In primo luogo, i famigliari possono non avere una visione accurata delle motivazioni del loro congiunto; per esempio, quasi mai essi sono a conoscenza delle reali intenzioni del «martire» prima della sua missione fatale (ivi, pp. 92 e ss.; cfr. anche hassan [2001]): infatti i futuri attentatori suicidi devono mantenere la massima segretezza sugli attacchi pianiicati e presumibilmente vogliono anche evitare situazioni che possano suscitare occasioni di ripensamento o dubbio circa la decisione di sacriicare la propria vita. In secondo luogo, le famiglie tendono, comprensibilmente, a presentare il proprio caro in una luce positiva e spesso, tanto più nel contesto di società a elevata integrazione sociale come quella palestinese, si limitano a riprodurre le aspettative

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sociali sulla pratica del «martirio»; e non è afatto detto che queste coincidano con le loro efettive opinioni personali. Nelle interviste curate da Merari [2010, pp. 99-101], quasi tutte le famiglie hanno espresso dolore per la sorte dei propri congiunti, tanto che nella maggior parte dei casi i soggetti intervistati hanno dichiarato che avrebbero fatto qualunque cosa per impedire che il futuro «martire» partecipasse alla missione suicida; nel contempo, le famiglie, con poche eccezioni, hanno mostrato orgoglio per l’atto di violenza suicida perpetrato. Alcuni familiari cercano di superare il conlitto emotivo e la dissonanza cognitiva sostenendo che gli attacchi suicidi sono una forma di violenza tatticamente ineicace, ma legittima (ivi, p. 100). Soltanto una famiglia tra quelle intervistate ha rinnegato esplicitamente l’azione del proprio congiunto, arrivando a criticare pesantemente l’organizzazione che lo ha reclutato (il Jihad Islamico palestinese) (ivi, pp. 100-101; cfr. ivi, pp. 162-163)1. Secondo altre testimonianze, alcuni genitori palestinesi non avrebbero esitato a minacciare di morte i reclutatori al servizio dei gruppi armati (lankford [2013, p. 23]). In alcune circostanze i gruppi armati organizzano una sorta di «missione di relazioni pubbliche» presso le famiglie dei «martiri» dopo l’esecuzione degli attacchi suicidi non soltanto per portare conforto e solidarietà, ma anche per prevenire possibili dissidi e rimostranze: come il giornalista Zaki 1. In particolare, il padre di questo attentatore suicida ha sostenuto che i promotori degli attacchi suicidi si rifanno all’Islam per attrarre giovani «martiri» con l’inganno. L’accusa nei confronti del Jihad Islamico è aspra e sarcastica: «loro, con le loro grosse barbe, loro danno la caccia e fanno del male a bambini piccoli. Sicuramente i religiosi meritano il paradiso più di tutti noialtri. Perché dare il paradiso a dei giovani? Perché non corrono loro stessi in paradiso allo stesso modo? O mandano i loro igli? Perché non ofrire il paradiso a qualcun altro della loro famiglia? È tutto inganno e tradimento. Loro danno la caccia a semplici ragazzi, non hanno il diritto di farlo» (citato in merari [2010, p. 101]). Da questa dichiarazione emerge una linea argomentativa che rassomiglia a quella che Stephen Holmes [2006] ha chiamato la «tesi Voltaire» basata sull’idea che gli organizzatori degli attacchi suicidi manipolino gli attentatori avvalendosi del richiamo al fanastismo religioso (infra, capitolo 5 di questo volume).

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Chehab [2007, trad. it. p. 108] ha avuto modo di osservare, assistendo di persona a una di queste missioni da parte del braccio armato di Hamas, «è imperativo che i famigliari di un miliziano delle Brigate al-Qassam, di fronte ai mezzi di informazione di tutto il mondo, si mostrino orgogliosi del loro amato iglio, non disperati e addolorati, e che esaltino la fede di Hamas nella lotta e la magniica sorte che attende il loro iglio nell’aldilà». L’analisi dei testamenti (scritti o ilmati) di solito non consente di portare alla luce le motivazioni autentiche dei singoli attentatori suicidi; il contenuto di questi documenti, piuttosto standardizzato, ha principalmente lo scopo di fare propaganda e, al più, registra e riproduce le aspettative sociali relative alla pratica del «martirio». In poche occasioni, inine, gli studiosi hanno avuto l’opportunità di svolgere e divulgare ricerche basate su interviste efettuate in carcere ad attentatori suicidi che sono stati arrestati prima di farsi esplodere (per esempio, berko, erez [2008]; merari [2010, capitolo 5]). Anche in questo caso rimangono dei dubbi circa l’attendibilità delle risposte date ai ricercatori (cfr. brym, araj [2012, specie pp. 435-436]). Considerate queste avvertenze, si possono individuare tre classi di fattori salienti relativi alla igura dell’attentatore suicida: il proilo psicologico, le caratteristiche sociodemograiche ed economiche e le motivazioni. Il capitolo, diviso in quattro sezioni, esamina le tre classi di fattori e i processi di radicalizzazione che conducono all’uso della violenza. 1. Il profilo psicologico La maggioranza degli studiosi sostiene che non sia possibile identiicare un unico proilo psicologico degli attentatori suicidi. Decenni di ricerca scientiica hanno mostrato che i «terroristi» solitamente non sofrono di malattie mentali gravi: in questo senso, vale la pena di ricordare l’autorevole osservazione di Martha Crenshaw [1981, p. 390] secondo cui «la straordina-

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ria caratteristica comune dei terroristi è la loro normalità»2. È interessante notare che l’assenza di malattie mentali può essere spiegata anche come efetto del processo di reclutamento: come è stato osservato (per esempio, ricolfi [2006, pp. 106-108]), i gruppi armati hanno interesse a selezionare reclute in grado di apparire normali e, soprattutto, di dimostrarsi aidabili per i compiti che vengono loro assegnati3. Molti studiosi hanno scritto che gli attentatori suicidi non presentano nemmeno caratteristiche della personalità distintive (per esempio, merari [1990]; silke [2003]; pape [2005]); in particolare, non esibirebbero tendenze suicide (townsend [2007]). Queste afermazioni quasi sempre si basano su evidenze empiriche di carattere aneddotico o su sporadici dettagli biograici provenienti da fonti secondarie e prendono in considerazione campioni troppo piccoli o non rappresentativi della popolazione di riferimento. A volte, sembrano fare aidamento su semplici speculazioni. Negli ultimi anni questa visione è stata messa in discussione. Merari [2010, p. 268] ha afermato che «al momento l’opinione prevalente tra gli studiosi di terrorismo è che i terroristi suicidi siano normali e non abbiano caratteristiche psicologiche distintive. Questa opinione, comunque, deriva dall’assenza di prove del suo contrario, piuttosto che da un esame diretto degli attentatori suicidi». Alcuni studiosi hanno suggerito la possibilità che gli attentatori suicidi presentino alcuni tratti della personalità (tra cui la «personalità autoritaria») e mostrino addirittura i tipici fattori di rischio che aumentano la probabilità di suicidarsi (lester, yang, lindsay [2004]). 2. Per una recente rassegna critica sugli approcci psicologici al fenomeno terroristico si veda il pregevole articolo di Victorof [2005]. 3. All’opposto, secondo Adam Lankford [2013, p. 36, corsivo nel testo], «i reclutatori dei terroristi suicidi spesso hanno deliberatamente preso di mira individui instabili perché sono costantemente più facili da sfruttare». Le informazioni a questo proposito sono scarse e contraddittorie. Nondimeno l’argomento avanzato da Lankford non è implausibile, almeno in relazione ad alcuni casi particolari, come quello afghano, dove la selezione delle reclute appare meno scrupolosa ed esigente.

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Di recente Merari e i suoi collaboratori (merari, diamant et al. [2010]; merari, fighel et al. [2010]; merari [2010, capitoli 5 e 6]) hanno pubblicato un’ampia ricerca psicologica condotta direttamente sui candidati al «martirio» palestinesi della Seconda Intifada; si tratta di uno studio unico nel suo genere, su cui vale la pena di fermare l’attenzione. Questa equipe di psicologi ha esaminato tre gruppi di soggetti detenuti nelle prigioni israeliane: un gruppo di 15 uomini che avevano preso parte a una missione suicida pochi mesi prima, ma non erano riusciti a farsi esplodere perché il detonatore non aveva funzionato (4 di loro) o perché erano stati arrestati nel corso della missione (i restanti 11); un gruppo di 14 coordinatori locali che si occupavano del reclutamento e della pianiicazione degli attentati suicidi; un gruppo di controllo composto da 12 «terroristi» non suicidi. A tutti i soggetti sono stati somministrati un’intervista clinica semistrutturata e una serie di test psicologici. La ricerca ha prodotto risultati di grande interesse. Numerosi fattori diferenziano, infatti, gli aspiranti attentatori suicidi dai componenti del gruppo di controllo: tra le ila degli aspiranti «martiri» 10 soggetti hanno mostrato un livello di forza dell’Io (Ego strength) intermedio, borderline, caratteristico di individui con scarse capacità di agire autonomamente, di mettere in pratica piani precedentemente predisposti e di comprendere la relazione tra eventi. Molti hanno manifestato disturbi mentali: nove sotto forma di stili della personalità «evitante» (avoidant) e «dipendente» (dependent), caratterizzati rispettivamente da sentimenti di inadeguatezza e tendenza a evitare le interazioni sociali e da ricerca ossessiva di rassicurazione e conforto da parte di altre persone; e quattro sotto forma di stili della personalità impulsivi ed emotivamente instabili. Sei soggetti hanno mostrato tendenze suicide e otto soggetti tendenze depressive. Tre soggetti hanno sperimentato il «disturbo post-traumatico da stress» che si genera in seguito all’esposizione a un evento critico. Nessuno degli appartenenti al gruppo degli aspiranti attentatori suicidi ha però dato segno di tendenze psicopatologiche o di sintomi psicotici.

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La ricerca diretta da Merari ha un carattere esplorativo e sconta alcuni limiti degni di nota. Secondo alcuni critici (brym, araj [2012]), il campione selezionato è troppo piccolo e comunque non è rappresentativo della popolazione di riferimento. Non bisogna poi dimenticare che i risultati della ricerca possono aver subito l’inluenza esercitata dall’esperienza della reclusione in un carcere israeliano e dal desiderio di presentare un’immagine positiva di sé. Ciononostante lo studio ofre un contributo notevole. Come hanno sintetizzato gli autori (merari, diamant et al. [2010, p. 96]): Le conclusioni dello studio suggeriscono che, sebbene non ci sia un unico proilo della personalità degli aspiranti attentatori suicidi palestinesi, contrariamente alla convinzione generale la maggior parte di loro ha caratteristiche della personalità distintive. Nella maggioranza dei casi queste caratteristiche convergono in uno stile della personalità e in una struttura dell’Io che è suscettibile di inluenza sociale, specialmente da persone percepite come autorevoli. Un numero signiicativo di aspiranti martiri ha anche mostrato caratteristiche suicide subcliniche [che non danno luogo a sintomi evidenti], alcune delle quali sullo sfondo di depressione e/o di sindrome post-traumatica da stress.

Merari [2010, p. 119] è arrivato a individuare la presenza di «un tipo predominante di attentatori suicidi»: La maggioranza degli aspiranti [attentatori] suicidi era formata da individui timidi, socialmente marginali, seguaci piuttosto che leader. Molti di loro erano persone solitarie e outsiders, con un storia di fallimenti a scuola e nutrivano la sensazione di aver deluso i propri genitori. Più di un terzo aveva tendenze suicide, che possono aver giocato un ruolo importante nella loro volontà di diventare «martiri». A livello di gruppo i fattori di personalità erano marcatamente diversi da quelli dei componenti del gruppo di controllo.

D’altra parte, pur rilevando la presenza di tendenze suicide, Merari e i suoi collaboratori (merari, diamant et al. [2010, p. 98]) sottolineano che gli aspiranti attentatori suicidi non

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presentano i fattori di rischio tipicamente associati al comportamento suicida, come un’esperienza pregressa di malattia mentale, l’abuso di sostanze stupefacenti, una storia di tentativi di suicidio. Perciò, «anche se la propensione al suicidio [suicidality] è forse un fattore facilitante in una minoranza signiicativa dei martiri terroristi, le motivazioni e i fattori di sfondo degli attentatori suicidi sono diferenti da quelli delle persone normali che si suicidano» (ivi, p. 100; cfr. anche merari [2010, pp. 217-221]). Lo studio psicologico condotto da Merari e dai suoi collaboratori non rappresenta certo la risposta deinitiva ai quesiti sulla personalità degli attentatori suicidi (cfr. brym, araj [2012]). Nondimeno, mettendo in discussione la convinzione prevalente in letteratura, suggerisce la necessità di ulteriori approfondimenti. In questa direzione Adam Lankford [2011; 2013] si è spinto ad argomentare che molti attentatori suicidi mostrano persino i classici fattori di rischio che aumentano la probabilità di ricorso al suicidio: fattori di rischio legati all’impatto di eventi critici (event-based) come avvenimenti scatenanti di segno negativo oppure fattori di rischio di natura psicologica come depressione e intensi sentimenti di colpa e vergogna. Lankford ha evidenziato che l’opinione corrente secondo cui gli attentatori suicidi non hanno tendenze suicide fa aidamento a fonti che tipicamente offrono una versione deformata dei fatti: infatti le famiglie dei «martiri», gli esponenti dei gruppi armati così come gli stessi attentatori suicidi hanno tutti interesse a nascondere eventuali tendenze suicide; infatti preferiscono respingere lo stigma del suicidio, tanto più nelle società a maggioranza musulmana dove la decisione di togliersi la vita incontra una forte riprovazione sociale (oltre che una condanna sul piano della dottrina islamica). In qualche modo, anche lo studioso, di fronte alla mancanza di informazioni sulle motivazioni autentiche degli attentatori suicidi, può inire per prendere per buone le ragioni di carattere politico e sociale che compaiono nella rappresentazione sociale del

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«martirio»4. Secondo Lankford [2013, capitolo 3], almeno 130 attentatori suicidi hanno mostrato i classici tratti del suicida; tra questi, Wafa Idris, la prima «kamikaze» palestinese fattasi esplodere nel 2002, Mohammed Atta, capo del commando suicida dell’11 settembre (ivi, capitolo 4), e il leader del gruppo responsabile degli attentati del 7 luglio 2005 a Londra5. In deinitiva, non si può escludere che almeno alcuni attentatori suicidi manifestino tendenze suicide. In questo caso la partecipazione ad attacchi suicidi, presentati e interpretati come atti di martirio, consente all’individuo di raggiungere l’obiettivo personale del suicidio senza incorrere negli inconvenienti della riprovazione sociale solitamente associati a questo gesto estremo. Il «martire» potrà persino trovare sollievo nell’idea che il suo suicidio possa avere ricadute positive per la società di riferimento. I gruppi armati, a loro volta, sono lesti a fabbricare una pretesa di giustiicazione della violenza, che appare al contempo come una patente di martirio e come un salvacondotto dallo stigma del suicidio comune; in cambio, essi ottengono la disponibilità dei suicidi a sacriicarsi come «bombe umane». In questa sorta di «mercato dei martiri» tutte le parti coinvolte (attentatore suicida, gruppo

4. Lankford [2011, pp. 338-339], richiamando il parere di alcuni esperti, ha sottolineato che gli attacchi suicidi realizzati dai Talebani hanno un livello di successo costantemente basso e sembrano talvolta guidati da una «stupidità apparentemente inconcepibile» (ivi, p. 339). Lo studioso ha congetturato che la scarsa eicacia operativa di questi attacchi sia dovuta al fatto che numerosi attentatori suicidi cercano innanzitutto di porre ine alla loro vita e non sono molto interessati a portare a termine l’operazione con il necessario impegno. 5. È interessante osservare che nella lotta al terrorismo l’individuazione di tendenze autenticamente suicide in capo a numerosi «martiri» potrebbe essere abilmente sfruttata per delegittimare la pratica del terrorismo suicida e danneggiare la reputazione dei gruppi armati che se ne servono, specialmente nelle società a maggioranza musulmana; di fatto si spezzerebbe quel nesso ambiguo tra suicidio e martirio che le organizzazioni terroristiche hanno saputo costruire e raforzare. Nella prospettiva enfatica di Lankford [2011, p. 355], «la conoscenza di questo fatto potrebbe rivoluzionare le iniziative di antiterrorismo».

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armato e anche comunità di sostegno) possono, inine, dirsi soddisfatte (vedi capitolo 5 di questo volume). In conclusione, si deve constatare che il dibattito sulla personalità degli attentatori suicidi è ancora in corso e inora non ha raggiunto risultati ampiamente condivisi. La maggior parte degli studiosi riconosce che non sia possibile individuare un unico proilo psicologico. Nondimeno, alcune indagini recenti hanno messo in evidenza la presenza di alcune caratteristiche psicologiche distintive che potrebbero favorire il processo di radicalizzazione e il reclutamento del singolo individuo. Un numero signiicativo di soggetti ha mostrato anche apparenti tendenze suicide, ma al momento sembra poco probabile che numerosi «martiri» presentino persino i classici fattori di rischio associati al suicidio comune. In generale, le più importanti teorie psicologiche del suicidio comune non sono suicienti a spiegare l’agire di chi muore per uccidere (merari [2010, pp. 211-222]), peraltro su sollecitazione di un gruppo armato. A ogni buon conto, gli aspetti psicologici sono importanti. Essi consentono di capire perché soltanto una ristretta minoranza di individui decida di candidarsi al «martirio», anche là dove il sostegno per questa forma di violenza coinvolge ampi strati della società, com’è avvenuto nei Territori palestinesi durante la Seconda Intifada (cfr. hafez [2006a]). Occorre quindi mettere in evidenza che i fattori sociali, economici, politici e culturali non possono spiegare da soli la partecipazione agli attacchi suicidi; è necessario prendere in considerazione anche i fattori di carattere personale, incluse le caratteristiche psicologiche. D’altra parte, il riconoscimento dell’importanza dei fattori di ordine psicologico non giustiica la difesa di teorie monocausali della personalità (cfr. gill [2012]). Ironicamente sono proprio tali teorie psicologiche a cadere in una deformazione ben nota alla psicologia sociale: l’«errore fondamentale di attribuzione», ovvero la tendenza sistematica ad attribuire le ragioni del comportamento di altre persone alle disposizioni individuali interne (i tratti della personalità) piuttosto che ai fattori situazionali esterni (gli

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elementi del contesto) (tra i primi a segnalare questo punto, Atran [2003, pp. 1535-1536]). 2. Le caratteristiche sociodemografiche ed economiche Complicata è anche la questione delle caratteristiche sociodemograiche ed economiche degli attentatori suicidi. Anche in relazione a questi aspetti non è possibile individuare un proilo univoco; ciononostante alcune caratteristiche appaiono con maggior frequenza. La sezione si soferma sull’età e lo stato civile, sul sesso, sul livello socioeconomico e il grado di istruzione. 2.1 Età e stato civile Tra gli attentatori suicidi si registra una netta prevalenza di individui di giovane età, tra i 18 e i 30 anni. Secondo dati presentati di recente da Merari [2010, pp. 69-73], l’età media è di 21,6 anni per i gruppi libanesi, 22 per i gruppi palestinesi, 24,7 per il pkk curdo, 26,6 per la rete di al-Qaida (con l’esclusione dei «martiri» sacriicatisi in Iraq). Peraltro, la giovane età è un tratto che caratterizza la maggior parte dei soggetti che si impegnano in attività terroristiche: già Walter Laqueur [1987] nella fortunata ricostruzione storica he Age of Terrorism, dopo aver negato la possibilità di deinire il concetto di terrorismo, sottolineava come il dato anagraico costituisse l’unico tratto in comune delle sue varie manifestazioni. In efetti i giovani spesso presentano preferenze politiche più radicali e hanno maggior tempo libero a disposizione e minori condizionamenti e responsabilità sociali (in particolare, responsabilità familiari e lavorative). La maggioranza degli attentatori suicidi non è sposata e non ha igli. Per esempio, secondo i dati parziali forniti da Merari [2010, p. 73] sul caso palestinese, il 90,3% degli attentatori suicidi è single e il 92,5% non ha igli. In efetti, sul

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versante della domanda (organizzativa) di violenza suicida, i gruppi armati sembrano prediligere aspiranti «martiri» privi di vincoli familiari. Per esempio, Hassan [2001] ha osservato che le organizzazioni radicali palestinesi «generalmente riiutano coloro i quali hanno meno di diciotto anni, sono gli unici che guadagnano un salario nelle loro famiglie o sono sposati o hanno responsabilità familiari. Se due fratelli chiedono di partecipare, uno è mandato via». Presumibilmente i gruppi armati si premurano anche di ridurre il rischio di conlitti con le famiglie dei «martiri» (cfr. merari [2010, pp. 99-101]). A questo proposito è interessante riportare per intero questa perspicace osservazione di Kramer [1991, pp. 39-40] sulla selezione degli attentatori suicidi in Libano negli anni ’80: Gli «auto-martiri» dovevano essere abbastanza vecchi da essere considerati personalmente responsabili dei loro atti, ma abbastanza giovani da non esser incorsi negli obblighi del matrimonio. Il loro sacriicio non poteva lasciar adito alla critica che avessero infranto i diritti dei genitori o le pretese di mogli e igli, ai quali la pianiicazione dell’azione doveva esser celata. Da una parte, questo signiicava che le persone sotto una certa età non potevano essere reclutate. […] Poiché l’automartirio non richiedeva palesemente un minore per inalità operative e nessun genitore avrebbe consapevolmente concesso ad un iglio di prendere parte ad una tale operazione, l’impiego di minori era praticamente proibito. Ma visto che in tali operazioni la morte era assicurata, la stessa interdizione era estesa a mariti e igli. La guerra sacra, di cui le operazioni di auto-martirio erano una parte, abbracciava uomini sposati con famiglie, alcuni dei quali furono uccisi. Ma il fatto della selezione, attraverso la quale le operazioni di auto-martirio si trasformavano in atti sacriicali, richiedeva limiti più stringenti. Considerata l’età precoce del matrimonio nella società sciita libanese, questo metteva un tetto basso sull’età dei possibili candidati. La inestra di opportunità restante era di conseguenza ridotta.

Kramer, ispirandosi alle rilessioni di René Girard [1972] sul meccanismo del capro espiatorio, sembra interpretare questi

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limiti come segni di quell’assenza di legami sociali che caratterizzerebbe la vittima sacriicale. Nel complesso, gli attentatori suicidi, non diversamente dagli attori impegnati in altre forme rischiose di politica del conlitto (contentious politics), presentano spesso alti livelli di quella che lo studioso dei movimenti sociali Doug McAdam [1986, p. 70] ha chiamato «disponibilità biograica» (biographical availability), deinita come «l’assenza di vincoli personali che possano aumentare i costi e i rischi della partecipazione al movimento, come l’occupazione a tempo pieno, il matrimonio e le responsabilità familiari». McAdam si riferisce a un «modello di attivismo ad alto costo e alto rischio»; evidentemente nel caso della partecipazione ad attacchi suicidi il costo è massimo e il rischio personale si trasforma addirittura nella ricerca attiva della morte. Un’eccezione degna di nota è costituita dagli attentatori suicidi ceceni. Secondo Speckhard e Akhmedova [2006, p. 126], «in Cecenia l’ideologia wahabita militante incoraggia le operazioni di martirio per coloro i quali sono sposati ed hanno bambini poiché considera che essi abbiano compiuto i loro doveri di procreazione nella vita» e siano quindi pronti per sacriicare la propria vita. All’opposto, i Talebani afghani e pakistani non hanno esitato a servirsi di adolescenti e bambini, spesso orfani (per esempio, lewis [2012, pp. 225-227]). 2.2 Sesso La grande maggioranza degli attentatori suicidi nel mondo è di genere maschile. Per esempio, secondo i dati di Pape [2005, p. 208], la percentuale di attentatori suicidi di sesso femminile è del 15% nel periodo 1980-2003; secondo i dati di Merari [2010, p. 62], è del 5% nel periodo 1974-2008. Nondimeno il numero delle donne è cresciuto considerevolmente negli ultimi dieci anni, attirando l’interesse degli studiosi e dell’opinione pubblica. La prima donna «martire» è stata probabilmente la diciassettenne Sana’a Mehaydali, sacriicatasi il 9 aprile 1985 per conto del Partito Nazionali-

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sta Sociale Siriano (ssnp), un’organizzazione laica attiva in Libano (bloom [2005, p. 143]; cfr. anche pedahzur [2005, pp. 142-143]). Esistono diferenze marcate tra le varie organizzazioni circa il coinvolgimento femminile negli attacchi suicidi: la quota di donne è molto bassa nelle organizzazioni di ispirazione islamista e jihadista (inferiore al 10% e spesso al 5%; addirittura prossima a zero in Afghanistan), si attesta intorno al 20% nelle Tigri Tamil e nelle organizzazioni laiche libanesi, si avvicina al 50% tra i ribelli ceceni e supera il 60% nel pkk (merari [2010, pp. 62-65]; cfr. anche pape [2005, pp. 208-209]). Esiste chiaramente una connessione tra la partecipazione femminile e l’orientamento ideologico dei gruppi armati: con l’eccezione dei ribelli ceceni, la partecipazione femminile è molto bassa nelle organizzazioni di matrice salaita-jihadista come al-Qaida; è bassa nelle organizzazioni di ispirazione nazionalista-islamista come Hamas, il Jihad Islamico palestinese e Hezbollah; è alta o molto alta nelle organizzazioni nazionaliste laiche come Fatah, il fplp, le Tigri Tamil, i gruppi laici libanesi e il pkk (cfr. merari [2010, pp. 65-69]). In breve, il richiamo ideologico al fondamentalismo islamico ha l’efetto di ridurre la partecipazione femminile agli attacchi suicidi. D’altra parte, sul versante dell’oferta (individuale) di violenza suicida, il basso coinvolgimento femminile nel caso di al-Qaida potrebbe essere causato dal fatto che la vocazione globale e il programma massimalista, e allo stesso tempo nebuloso, dell’organizzazione fondata da Bin Laden non promette vantaggi concreti per la condizione delle donne in un determinato territorio (gonzalez-perez [2008]). Gli attacchi suicidi realizzati da donne presentano spesso beneici di ordine operativo e tattico rispetto a quelli realizzati da uomini. Sotto il proilo della funzione simbolica della violenza, il martirio femminile ha una risonanza più ampia e ottiene maggiore attenzione da parte dei mezzi di comunicazione; inoltre suscita sensazioni di paura e disorientamento più intense nel pubblico perché suggerisce che

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il pericolo possa arrivare anche dal sesso che desta meno preoccupazione perché usualmente non viene associato alla partecipazione alle attività terroristiche, quantomeno nella loro variante suicida. Il sacriicio delle «martiri» può poi avere un efetto di motivazione e mobilitazione perché stimola i compagni maschi a non essere da meno (bloom [2005, pp. 144-145]). Sotto il proilo della funzione materiale della violenza, le donne, di norma, suscitano meno sospetti degli uomini e possono raggiungere luoghi e bersagli inaccessibili a questi ultimi, perché riescono più facilmente a nascondere sotto il vestito una carica esplosiva (per esempio, ingendo di essere incinte) o più semplicemente perché, come accennato, ino ad alcuni anni fa nessuno si aspettava che si facessero esplodere (barbagli [2009, p. 373]). In alcuni casi, signiicativamente, gli stessi attentatori suicidi di sesso maschile non hanno esitato a travestirsi da donne per portare a termine la loro missione. È quanto accaduto in due dei più sanguinosi e clamorosi attentati suicidi palestinesi: nei pressi di una discoteca di Tel Aviv il 1° giugno 2001 (21 morti) e nella sala da pranzo del Park Hotel di Netanya il 27 marzo 2002 (30 morti) (chehab [2007, trad. it. pp. 99-100]). La difusione del «martirio» femminile ha stimolato un dibattito vivace sulle motivazioni individuali di questo gesto e sulle conseguenze per lo status della donna nelle società di appartenenza. Inizialmente si sono confrontate due visioni opposte: secondo alcuni esperti la partecipazione alle attività terroristiche costituiva un’opportunità di emancipazione, mentre secondo altri rappresentava una (ulteriore) occasione di sfruttamento e oppressione, soprattutto nelle società a maggioranza musulmana. I primi studi hanno privilegiato la seconda interpretazione: le «martiri» venivano descritte come emarginate, sfruttate dai gruppi armati, specialmente nel contesto di società tradizionaliste e patriarcali, dove alle donne è richiesto di subordinare i propri interessi a quelli della famiglia (berko, erez [2007]). Le donne palestinesi responsabili di attacchi suicidi erano considerate, per usare un’espressione cruda, una sorta di «bene difettoso» (schweitzer

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[2008, specie p. 133]) che poteva essere utilmente impiegato in missioni senza ritorno; a renderle socialmente «difettose» poteva essere, per esempio, il fatto di non essere ancora sposate a un’età relativamente avanzata, di aver divorziato, di aver avuto relazioni sessuali prima del matrimonio oppure di aver commesso adulterio. Oltretutto, dopo il compimento della missione suicida, le donne ricevono spesso ricompense postume minori, sia terrene sia ultraterrene, rispetto a quelle destinate agli uomini (barbagli [2009, p. 374]). Da una parte, le famiglie delle «martiri» ottengono una compensazione economica meno cospicua. Dall’altra, non di rado si considera che le «martiri» non abbiano diritto alle medesime gratiicazioni nell’aldilà (anche di natura isica) previste dalla tradizione islamica per gli uomini. Ricerche successive hanno messo in guardia dalla tentazione di formulare generalizzazioni sulle motivazioni delle «martiri» donne (cfr. schweitzer [2008]), pur confermando che molte di esse hanno mostrato caratteristiche che incontrano la disapprovazione della società di appartenenza e, comunque, sono state giudicate e trattate diversamente dalle loro controparti maschili nel corso della preparazione, dello svolgimento e della celebrazione postuma della missione suicida. In conclusione, si può afermare che, da una parte, la partecipazione agli attacchi suicidi può essere considerata come un passo avanti nell’eguaglianza tra i generi, specie in alcune società a maggioranza musulmana, perché implica il fatto che la donna non debba più chiedere il permesso agli uomini della sua famiglia per qualunque cosa voglia fare fuori dalle mura domestiche (barbagli [2009, p. 374]) e rappresenta il riconoscimento di un contributo diretto alla «resistenza» contro il nemico. Dall’altra parte, occorre evidenziare che l’inluenza delle donne all’interno dei gruppi armati è marginale (e pressoché nulla nella sfera della presa delle decisioni)6 6. Per esempio, Sayyid Imam al-Sharif, meglio noto come Dr. Fadl, per lungo tempo uno dei più noti ideologi del movimento jihadista globale, già sodale di Zawahiri, in un inluente manuale pubblicato nel 1988 sostenne che le donne

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e, oltretutto, non mancano occasioni documentate di sfruttamento di singole candidate al «martirio». 2.3 Status socioeconomico e grado di istruzione Ci si potrebbe aspettare che gli individui che partecipano ad attività terroristiche presentino bassi livelli di reddito e di istruzione. Secondo una interpretazione tanto semplice quanto comune, difusa anche tra i leader politici e persino tra gli studiosi (cfr. krueger [2007, trad. it. pp. 14-15]), il terrorismo è alimentato dalla povertà e dall’ignoranza. All’opposto, numerose ricerche hanno dimostrato che i «terroristi» hanno non di rado un livello socioeconomico e un grado di istruzione superiori a quelli della media della popolazione da cui provengono (tra gli altri, russell, miller [1977]; krueger, malečková [2003]; krueger [2007]; berrebi [2007])7. D’altra parte, come ha osservato l’economista Alan B. Krueger [2007, trad. it. p. 4], «se la povertà e la mancanza di istruzione fossero cause, anche minori, del terrorismo, il mondo sarebbe pieno zeppo di terroristi». Le ragioni di questa sovra-rappresentazione degli individui economicamente e socialmente privilegiati potrebbero interessare sia la domanda sia l’oferta di violenza suicida. Sul lato della oferta (individuale), si può congetturare che gli individui con alto livello economico e alto grado di istruzione siano più propensi a partecipare alle missioni suicide. In generale, è noto che le persone con elevato status socioeconomico, avendo spesso maggior interesse per la politica e maggiori conoscenze, competenze e opportunità, sono più inclini a impegnarsi in attività politiche e in fenomeni di azione collettiva, compresi quelli radicali o persino terroristici. potevano partecipare al jihad armato, ma precisò che non potevano occupare ruoli di comando (lahoud [2010, p. 135]). Il Dr. Fadl è stato arrestato nell’ottobre del 2001 e ha poi condannato apertamente l’attività di al-Qaida. 7. Si pensi, per esempio, alla igura di Osama Bin Laden, membro di una ricchissima famiglia saudita.

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Sfortunatamente non sono disponibili informazioni e dati aidabili sui candidati al «martirio» (prima del reclutamento) per testare questa ipotesi. Se si retrocede dal piano della partecipazione efettiva a quello, preliminare, del consenso, si può contare su maggiore evidenza empirica. Una condizione economica soddisfacente non sembra favorire il sostegno per gli attacchi suicidi, anzi, secondo alcuni studi (cfr. haddad [2004]), lo scoraggia. Più interessante è l’inlusso del grado di istruzione: alcune ricerche hanno mostrato che il sostegno agli atti di violenza contro obiettivi israeliani è maggiore tra i palestinesi con livelli di istruzione più elevati (krueger, malečková [2003, pp. 125-127]; krueger [2007, trad. it. pp. 30-31]). A questo proposito occorre sottolineare che, a diferenza di quanto possano far pensare alcune assunzioni ingenue, un alto livello di istruzione può condurre a una radicalizzazione degli orientamenti di valore e delle preferenze, laddove le nozioni e le conoscenze ricevute incoraggiano atteggiamenti aggressivi (cfr. berrebi [2007, pp. 28-29]). In altri termini, è necessario prendere in considerazione non soltanto la «quantità» di istruzione ricevuta, ma anche la «qualità», cioè i contenuti e le modalità dell’insegnamento. Per esempio, Pedahzur, Perliger e Weinberg [2003, pp. 416-417] hanno rilevato che la maggioranza degli attentatori suicidi palestinesi sacriicatisi tra l’aprile 1993 e il febbraio 2002 aveva frequentato scuole religiose (82,8%), a diferenza dei compagni che si erano impegnati in attività terroristiche non suicide nello stesso periodo (36,1%). Inoltre, secondo le informazioni disponibili, la frequentazione di madrase8 (scuole islamiche) radicali in Pakistan esercita un’inluenza signiicativa su un numero cospicuo di attentatori suicidi afghani (bertolotti [2010, p. 50 e passim]). D’altra parte, Sageman [2008a, pp. 51-52] ha messo in evidenza che pochi jihadisti attivi a livello internazionale hanno frequentato madrase estremiste; a suo 8. Per l’esattezza, il plurale del sostantivo arabo madrasa è madāris. Nel testo si opta per l’espressione madrase, ormai comune nel linguaggio corrente.

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avviso, la maggior parte di questi militanti sono autodidatti ed esibiscono scarse conoscenze religiose. Probabilmente è più proicuo esaminare il lato della domanda (organizzativa) di violenza suicida. Numerosi studiosi hanno attirato l’attenzione su un efetto di selezione, in virtù del quale i gruppi armati recluterebbero individui con un livello economico e un grado di istruzione più elevati perché li giudicherebbero più adatti e più produttivi per lo svolgimento di missioni suicide (krueger, malečková [2003]; bueno de mequita [2005b]; ricolfi [2006, pp. 107-108]; benmelech, berrebi [2007]; kavanagh [2011]; cfr. wells, horowitz [2007]). In particolare, un elevato grado di istruzione può garantire maggiori competenze e capacità (che consentono all’attentatore, per esempio, di non essere identiicato dai nemici nel corso della missione o di fronteggiare situazioni impreviste). Gli economisti Efraim Benmelech e Claude Berrebi [2007] hanno studiato la relazione tra capitale umano ed esiti degli attacchi suicidi palestinesi e sono giunti alla conclusione secondo cui i gruppi armati abbinano attentatori suicidi con età più elevata e con livello di istruzione più alto a obiettivi israeliani di maggiore importanza; in aggiunta, gli attentatori suicidi che vantano tali caratteristiche uccidono mediamente più persone nel corso degli attacchi e sono associati a minori probabilità di fallire la missione o di essere catturati. Inoltre, nella fase di reclutamento l’investimento in istruzione può costituire un segnale della presenza di attributi personali positivi quali l’impegno e la determinazione. In un interessante articolo, Diego Gambetta e Stefen Hertog [2009] hanno esaminato il proilo di 404 membri di «gruppi islamisti violenti» (tra cui alcuni attentatori suicidi) provenienti da 30 Paesi a maggioranza musulmana e hanno rilevato che gli ingegneri sono fortemente sovra-rappresentati: in queste organizzazioni la presenza di individui che hanno studiato ingegneria è dalle tre alle quattro volte più frequente di quanto ci si aspetterebbe prendendo in considerazione la quota generale di ingegneri tra gli studenti universitari delle società a maggioranza musulmana. Gambetta e Hertog hanno proposto due ipotesi per

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spiegare questo fenomeno9. Secondo la prima ipotesi, in Medio Oriente gli ingegneri sarebbero particolarmente esposti a rischi di frustrazione di aspettative economiche e professionali: in questi Paesi gli studi in ingegneria sono prestigiosi e impegnativi e ingenerano alte aspettative, ma queste spesso non vengono soddisfatte; per il noto meccanismo della privazione relativa, la frustrazione produrrebbe aggressività e condurrebbe all’adesione a gruppi violenti (cfr. anche sageman [2008a, p. 59]). Secondo la seconda ipotesi, gli ingegneri presentano tipicamente una «mentalità» più incline alla chiusura cognitiva e più rigida, tanto da favorire l’accettazione delle ideologie «islamiste violente». In questa direzione, si potrebbe aggiungere che gli ingegneri potrebbero essere particolarmente sensibili a quella sorta di ossessione per la tecnica, stimolata da impulsi di sapore nichilista, che si può rinvenire in non pochi gruppi terroristici, anche di matrice salaita-jihadista10. È interessante ribadire, per converso, che i membri delle organizzazioni jihadiste hanno spesso una preparazione culturale in materia di religione sorprendentemente povera, a dispetto dei continui richiami ai precetti della fede. In contrasto con gli insegnamenti dell’Islam classico e a diferenza delle formazioni islamiste moderne (come i Fratelli musulmani), i gruppi jihadisti non attribuiscono grande rilevanza all’educazione religiosa. Per questi gruppi fondamentale è soltanto l’impegno nel jihad armato11. 9. Gli autori menzionano altre due ipotesi, ma le respingono perché non sono corroborate dalle informazioni a loro disposizione. In primo luogo, la sovrarappresentazione degli ingegneri sarebbe la conseguenza di un reclutamento basato sull’interazione all’interno di reti sociali: in breve, un gruppo iniziale composto da un numero elevato di ingegneri tenderebbe a favorire la selezione di altri colleghi. In secondo luogo, la sovra-rappresentazione sarebbe causata da un processo di arruolamento che premia individui con competenze tecniche e scientiiche, utili per le attività dei gruppi armati. La questione sollevata dalla seconda ipotesi meriterebbe forse ulteriori approfondimenti. 10. Esemplare, a questo proposito, il «culto» degli anarchici dell’Ottocento per la dinamite, inventata nel 1867 da Nobel (per esempio, cfr. jensen [2004, in particolare pp. 116-117]). 11. Per esempio, Mustafa Setmarian Nasar (conosciuto anche con lo pseudonimo di Abu Musab al-Suri), forse il più soisticato stratega del movimento jihadista

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È opportuno rilevare che le ila degli attentatori suicidi afghani sono composte in gran parte da individui poveri e analfabeti (Bertolotti [2010, specie capitolo 3]). Ciononostante occorre considerare che è l’intera popolazione afghana a mostrare, in media, un livello socioeconomico e un grado di istruzione assai bassi; in questo senso, il proilo degli attentatori suicidi non sembra discostarsi sensibilmente dalle caratteristiche della società di appartenenza (Pape, Feldman [2010, p. 133]). In conclusione, è da sottolineare che gli attentatori suicidi degli ultimi anni sembrano esibire una maggior varietà nel livello socioeconomico e nel grado di istruzione (in particolare, sageman [2008a]). Ciò rende ancora più complicata l’identiicazione di un proilo univoco. 3. Le motivazioni Si possono distinguere analiticamente tre tipi di motivazioni individuali per la partecipazione ad attacchi suicidi: interessi, valori e inclinazioni afettive12. Sul piano empirico i tre tipi sono solitamente intrecciati e possono raforzarsi a vicenda (cfr. moghadam [2003]). 3.1 Interessi In prima approssimazione, può sembrare improbabile che una persona faccia a meno della propria vita per un interesse globale, ha osservato che la partecipazione al jihad armato non richiede requisiti legati alla formazione religiosa. Al contrario, il jihad si basa sulla «diretta natura dell’attività operativa, senza le complicazioni delle fasi dell’organizzazione, della formazione e dell’educazione». L’unico obbligo è «abbracciare l’Islam, poi combattere» (citato in lahoud [2010, p. 18]). 12. La tripartizione è tratta dalla classica tipologia dell’agire sociale di Weber [1922, trad. it. vol. 1, pp. 21-23]: «agire in modo razionale rispetto allo scopo», «agire in modo razionale rispetto al valore», «agire afettivamente». Il quarto tipo weberiano («agire tradizionalmente») non si applica al fenomeno in esame.

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personale. In realtà, gli interessi possono giocare un ruolo importante. Gli attentatori suicidi talvolta possono perseguire l’obiettivo di scongiurare un danno personale che giudicano più grave della loro stessa morte. In particolare, gli attentatori suicidi possono decidere di sacriicare la propria vita per cancellare l’infamia causata da presunte trasgressioni alle norme sociali oppure da presunti tradimenti politici. Questa scelta estrema di solito matura sotto la pressione esercitata da un gruppo sociale o dalla comunità di appartenenza e può essere incoraggiata dalla stessa organizzazione che sponsorizza la missione suicida. Come hanno enfatizzato Kimhi e Even [2004, p. 826] riferendosi al caso palestinese: persone che sono accusate di collaborare con Israele o che trasgrediscono il codice culturale (per esempio, omosessualità, prostituzione, droga, una relazione amorosa fuori dal matrimonio) possono ricevere un’oferta «che non si può riiutare» da un’organizzazione per compiere un attacco suicida allo scopo di ottenere il pieno perdono, di riconquistare l’onore, di ricevere aiuto per le loro famiglie e di evitare una pubblicità imbarazzante che porterebbe disonore alle famiglie. Un esempio potrebbe essere quello di un omosessuale che riceve la minaccia per cui, se non si arruolerà, la sua devianza sessuale sarà resa pubblica.

Un condizionamento di tal genere probabilmente è più frequente per le donne. Ami Pedahzur [2005, p. 138] ha rilevato che in molte società conservatrici, le donne che attraversano una crisi personale come un divorzio o una gravidanza indesiderata subiscono forti condanne e sanzioni sociali. Nella maggior parte dei casi, sia le donne sia le loro famiglie sofrono un drammatico declino di status sociale. Gli «uiciali di reclutamento» dei diversi gruppi palestinesi hanno identiicato questa categoria di donne come un obiettivo ideale dell’arruolamento per le missioni suicide.

Numerosi autori hanno messo in evidenza, per esempio, che la prima e la più famosa «martire» palestinese, Wafa Idris, fattasi

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esplodere nel cuore di Gerusalemme il 27 gennaio 2002, era una reietta nella società di appartenenza. Idris, dopo essersi sposata a sedici anni con un cugino, si era rivelata sterile; per questo motivo il marito aveva chiesto il divorzio e si era poi risposato con una donna da cui aveva avuto un iglio, mentre Idris era stata costretta a ritornare a casa con la madre, un fratello e la sua famiglia (il padre era morto quando lei era ancora bambina) in un campo profughi vicino a Ramallah. La sterilità conclamata, il divorzio, la dipendenza dalla famiglia di origine avevano condotto la ragazza in una sorta di vicolo cieco, aggravato da sentimenti di umiliazione e vergogna, dal quale, inine, era riuscita a fuggire soltanto prendendo parte a un attacco suicida. Wafa Idris, socialmente marginalizzata sino al giorno della sua morte, è poi assurta a igura di venerazione nella società palestinese. Secondo le informazioni disponibili (pedahzur [2005, pp. 139-142]), altri martiri hanno seguito questa strada, spinti dal proposito di redimere un’onta. È poi possibile che a muovere gli attentatori suicidi sia la brama di gloria e di fama. La partecipazione agli attacchi suicidi costituisce un mezzo adeguato per raggiungere questi ini, in base a un «calcolo simbolico». Come ha notato acutamente Luca Ricoli [2006, pp. 113-114, corsivo nel testo]: per quanto ne sappiamo, numerosi attentatori suicidi non sono militanti, ma volontari civili; e le operazioni di martirio sono irmate. Un martire non è un militante anonimo che realizza una missione decisa dalla sua organizzazione e il cui nome rimane sconosciuto. Un martire è un volontario che è stato selezionato, che lascia le sue ultime volontà e un testamento (normalmente su un supporto video) e che verrà ricordato dai suoi compatrioti attraverso fotograie, poster, murali e targhe esposte in luoghi pubblici. In altre parole, una delle ricompense del martire è la fama, il prestigio che l’operazione porterà al suo nome e alla sua famiglia. Mentre un militante può morire anonimamente e così sacriicarsi due volte, un martire paga «solo» con la sua vita, ma ottiene in cambio fama e riconoscimento. Il calcolo simbolico può spiegare perché certe persone possono preferire la scelta diretta del martirio al posto di una militanza di tipo più tradizionale.

138 Questo tipo di motivazione rivela un aspetto individualistico delle operazioni di martirio e ci aiuta a comprendere perché tali operazioni siano in grado di attrarre individui privi di motivazioni religiose (missioni suicide laiche).

In società tormentate da conlitti duraturi, come quella palestinese, la mancanza di opportunità reali può rendere particolarmente attraente il richiamo di ricompense di natura simbolica, come, appunto, la gloria postuma. In casi estremi, la partecipazione agli attacchi suicidi potrebbe essere provocata da quella che viene talvolta chiamata la «sindrome di Erostrato»13: gli attentatori suicidi sarebbero mossi dalla smania di perpetuare il proprio nome. Essi sacriicherebbero tutto per quella che Michael Ignatief [2004, trad. it. p. 170] ha chiamato «la promessa più seducente del terrorismo: la violenza che trasforma una nullità umana in un angelo vendicatore»14. In maniera analoga, alcuni attentatori suicidi possono immolarsi per esaltare la propria reputazione postuma; per godere, in anticipo, dell’aspettativa di un bene simbolico che non conosceranno. Il punto è meritevole di attenzione anche perché mostra come in alcune occasioni il suicidio costituisca non tanto una forma di negazione e distruzione della soggettività, quanto una forma estrema di afermazione di sé. Il «calcolo simbolico» presumibilmente appare più allettante quando la missione suicida è realizzata in stretta connessione con una collettività disposta a riconoscere e onorare questo gesto. La questione rimanda al tema

13. Con riferimento al giovane pastore greco che nel 356 a.C. ridusse in cenere il tempio di Artemide a Efeso (una delle sette meraviglie del mondo antico), soltanto per passare alla storia. 14. In questo senso, Gorge Bernard Shaw ebbe a scrivere che il martirio è «il solo modo per diventare famosi senza abilità» (he Devil’s Disciple, 1897) (citato in hoffman, mccormick [2006, p. 251]). D’altra parte, nei Pensieri Pascal annotò: «l’orgoglio ci domina e ci possiede in modo così naturale in mezzo alle nostre miserie, errori e così via, che siamo disposti a perdere la vita con gioia, purché se ne parli» (citato in gambetta [2006, p. 318 nota 22]).

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del ruolo della comunità di sostegno che verrà indagato nel prossimo capitolo. Come discusso in precedenza, non si può escludere che un certo numero di attentatori suicidi manifesti tendenze genuinamente suicide (lankford [2013]). Questi soggetti sarebbero stanchi di vivere e persino desiderosi di porre termine alla loro esistenza; per essi l’autodistruzione nel corso di una «operazione di martirio» costituirebbe un ine in sé, rispondente a un interesse personale. Gli interessi degli attentatori suicidi non sono necessariamente egoistici: possono essere anche altruistici, laddove il beneiciario dell’azione sia un’altra persona (in particolare, tosini [2007, pp. 113-114]); a ben vedere, l’altruismo non è necessariamente antitetico all’aggressività e alla violenza (gambetta [2006a, p. 270]; cfr. tobeña [2012]). La partecipazione a un attacco suicida spesso assicura alla famiglia del «martire» un risarcimento economico oferto o promosso dall’organizzazione responsabile dell’attacco. Nei Territori palestinesi questi fondi provengono non di rado da Stati esteri, come l’Iraq di Saddam Hussein (prima del 2003); secondo le informazioni disponibili, il rais iracheno ofriva in media 25.000 dollari a ciascuna famiglia, una somma di denaro cospicua se si considerano le condizioni economiche della popolazione palestinese. Occorre poi ricordare che alcuni gruppi armati come Hezbollah, Hamas e le Tigri Tamil (sino al 2009) contano su ampie reti di servizi sociali che possono aiutare materialmente le famiglie degli attentatori. Ancora una volta, questa sorta di rimborso è tanto più saliente in aree economicamente svantaggiate. È interessante notare che nel conlitto israelopalestinese lo Stato ebraico ha preso sul serio questa classe di motivazioni di ordine economico (ricolfi [2006, p. 113]), imponendo pesanti costi materiali alle famiglie di coloro i quali si sono fatti saltare in aria. In risposta agli atti di violenza palestinesi, Israele ha approntato una (controversa) politica di demolizione postuma delle abitazioni private (cfr. benmelech et al. [2011]).

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Comunque i compensi materiali non sembrano rappresentare una motivazione di primaria importanza per la maggior parte degli attentatori suicidi. Al più, sono stati segnalati alcuni casi isolati in cui una crisi inanziaria è all’origine della scelta di morire per uccidere. Per esempio, Pedahzur [2005, pp. 134-136] menziona a questo riguardo le vicende di Mohammed Mahmoud Berro e Mayilla Soufangi, due aspiranti «martiri» libanesi, arrestati prima di portare a termine le loro missioni fatali rispettivamente il 23 febbraio e il 3 novembre 1985. È interessante notare che questi falliti attacchi si veriicarono nei primi anni della campagna di attacchi suicidi libanesi, in una fase in cui Hezbollah e gli altri gruppi armati avevano ancora diicoltà a reclutare candidati al «martirio», forse perché non si era ancora consolidata una cultura del martirio (ivi, p. 134). Dall’altra parte, nell’ambito del terrorismo suicida di tipo locale le ricompense destinate alle famiglie degli attentatori suicidi a volte non sono soltanto di carattere materiale, ma anche di carattere simbolico. I congiunti vengono infatti premiati con un signiicativo innalzamento dello status sociale; essere parenti di un «martire» signiica ricevere considerazione e onore. Ancora una volta, l’elevazione di status e, in generale, l’oferta di ricompense simboliche è più eicace laddove ampi settori della società di riferimento accettano e avvalorano una cultura del martirio. Inine, è opportuno ricordare che nelle società musulmane è difusa la credenza secondo cui l’attentatore suicida in paradiso possa intercedere a favore di settanta familiari. In tutte le occasioni appena descritte gli attentatori suicidi seguono quindi una forma di «razionalità rispetto allo scopo» (weber [1922, trad. it. vol. 1, pp. 21-22]), per quanto postuma. 3.2 Valori La conformità ad alcuni valori costituisce una classe di motivazioni più influente. In questo caso l’attore agisce al servizio della propria convinzione relativa a ciò che ritiene

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essergli comandato in maniera incondizionata dall’importanza di una causa superiore (weber [1922, trad. it. vol. 1, pp. 22-23]). Questo tipo di agire implica ancora una forma di razionalità, sebbene diversa da quella strumentale. Si tratta di quella che Weber (ivi, p. 22, corsivo nel testo) chiamava la «razionalità rispetto al valore», fondata sulla «credenza consapevole nell’incondizionato valore in sé – etico, estetico, religioso, o altrimenti interpretabile – di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalla sua conseguenza». Per alcuni individui la partecipazione a un attacco suicida per una causa religiosa o politica costituisce la più nobile delle azioni; addirittura un’azione doverosa. Sul piano analitico si possono distinguere essenzialmente valori di ordine politico e valori di ordine religioso. Valori di ordine politico In alcuni casi la motivazione che spinge un individuo a diventare un attentatore suicida è il fervore «nazionalistico»: l’intenzione di sacriicare la propria vita al servizio della patria (che può essere libanese, tamil, palestinese, curda, cecena, irachena, irachena araba sunnita, ecc.). Come ha sottolineato Pape [2005, pp. 84-87], questo fervore è particolarmente intenso quando il territorio della presunta madrepatria è posto sotto occupazione militare da parte di forze armate straniere. In questo caso la comunità locale non ha il potere di proteggere autonomamente gli interessi concreti dei propri componenti e, inoltre, può sentire minacciata la stessa possibilità di mantenere e perpetuare i caratteri distintivi della propria identità «nazionale». In situazioni di questo tipo può accadere che il senso di attaccamento alla patria cresca al pari dei sentimenti di ostilità nei confronti delle forze di occupazione. Gli individui possono quindi arrivare al punto di considerare il sacriicio di sé come un atto doveroso nei confronti della propria comunità. In efetti la dedizione alla propria terra può essere molto intensa. Come ha messo in evidenza Pape (ivi, p. 85):

142 Perino nel mondo soggetto a processi di globalizzazione di oggi, il territorio che i gruppi nazionali percepiscono come il luogo di origine della loro comunità evoca solitamente un impegno speciale. Anche se i conini possono essere ambigui e la storia può essere oggetto di contese, la madrepatria è imbevuta di memorie, signiicati e legami emotivi. La madrepatria è anche uno spazio su cui instaurare il potere politico. Come dice Guntram H. Herb, «Nel corso del tempo, man mano che un gruppo occupa e narra un particolare territorio, avviene una trasformazione. Invece del gruppo che deinisce il territorio, è il territorio che inisce per deinire il gruppo». Persino quando molti o la maggior parte dei membri della comunità locale non sono stati particolarmente nazionalisti in precedenza, l’occupazione straniera ha comunemente l’efetto di aggregarli creando un senso di minaccia condivisa.

Chiaramente la diferenza tra «noi» e «loro» è ancora più forte quando le parti in conlitto hanno pochi tratti politici, sociali e culturali in comune. Per questa ragione, come si vedrà, la diferenza di religione tra le due parti può favorire l’adozione del metodo degli attacchi suicidi (cfr. capitolo 4 di questo volume). È quindi plausibile congetturare che un numero considerevole di attentatori suicidi decida di immolarsi al servizio della propria comunità. Per esempio, Teoria Hamori, una donna palestinese arrestata durante la Seconda Intifada, ha dichiarato a un intervistatore israeliano: Volevo sacriicarmi per la Palestina, per la nostra terra e per uccidere molti ebrei. Voi usate elicotteri Apache, aerei F-15 e carri armati contro di noi e avete tutte le armi. Per noi l’unica arma disponibile sono le persone come me che prendono con sé degli esplosivi e si suicidano. Da quando ero bambina, quel che ho visto è solo guerra, persone morte, odio e sangue. Dall’inizio dell’Intifada, ho seguito quello che succede e ho visto solo sangue, uccisioni e bambini palestinesi che sono uccisi. Mi sono detta che, come voi pagate le tasse al vostro paese, la mia tassa sarà il mio corpo. Darò il mio corpo per la causa palestinese (citato in kimhi, even [2004, p. 828]).

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La dichiarazione di Hamori dimostra che il sacriicio di sé può esser visto da alcuni individui come l’adempimento di un dovere nei confronti della madrepatria: l’oferta del proprio corpo è paragonata, appunto, al pagamento di una tassa dovuta. Inoltre, la dichiarazione sopra riportata suggerisce che la partecipazione ad attacchi suicidi ispirata da credenze di carattere etno-nazionalista potrebbe essere legata a una maggior consapevolezza politica dell’attentatore («dall’inizio dell’Intifada, ho seguito quello che succede») e alla credenza che il «martirio» non costituisca soltanto un dovere in sé, ma contribuisca anche pragmaticamente alla difesa della patria, tanto più in condizioni di marcata inferiorità militare. Alcuni attentatori suicidi possono essere motivati non tanto dal proposito generale di servire la patria, quanto dall’intenzione di sostenere una determinata formazione politica; questi «martiri» si identiicano con la missione e con la sorte di tale formazione. In alcun casi sono persino individui ailiati ai gruppi armati a chiedere e ottenere di portare a termine un attacco suicida (pedahzur [2005, pp. 126-130]), anche se, come detto, i gruppi di norma preferiscono servirsi di reclute provenienti dall’ambiente esterno. Per esempio, interessante è la storia di Salah Ghandour, veterano di Hezbollah; questi, spinto dallo zelo politico, chiese ai vertici dell’organizzazione di concedere il benestare per l’esecuzione di un attacco suicida nel 1995, in un’epoca in cui il Partito di Dio aveva già abbandonato l’uso sistematico di questa forma di violenza. Secondo la ricostruzione di Pedahzur (ivi, p. 127), i dirigenti di Hezbollah, compreso il segretario generale Nasrallah, cercarono di dissuadere Ghandour, ma alla ine accettarono la sua decisione irrevocabile; autorizzarono quindi la missione e gli fornirono l’esplosivo necessario. L’uomo si fece saltare in aria contro un convoglio militare israeliano il 25 aprile 1995. Secondo le informazioni disponibili, gli attentatori che si sacriicavano per conto delle Tigri Tamil erano profondamente inluenzati dalle qualità magnetiche del fondatore e leader dell’organizzazione, Velupillai Prabhakaran (ucciso nel

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2009). L’intensità del rapporto tra il leader e i componenti delle Tigri Nere è dimostrata dall’esistenza di un rituale signiicativo: ai «martiri» era oferta l’opportunità di partecipare a un’ambita «ultima cena» con Prabhakaran la sera prima dell’attacco suicida. In altri casi il sacriicio di sé sembra essere motivato dalla fedeltà a una speciica linea politica, a prescindere dalle afiliazioni partitiche. Per esempio, Andoni [1997, pp. 36-40] registra la parabola di Alì Imawi, uno dei primi «martiri» palestinesi. Questo ragazzo della Striscia di Gaza aveva partecipato alla rivolta della Prima Intifada (1987-1993) e aveva militato in Fatah, il partito nazionalista di Arafat, ma più tardi aveva contestato il processo di pace di Oslo perché l’aveva considerato una resa di fronte al nemico israeliano. Il dissenso politico spinse Alì verso le posizioni dei gruppi islamisti. Alla ine, a diciannove anni, egli si fece esplodere nei pressi di Tel Aviv il 4 aprile 1994 (pochi giorni dopo il massacro di Hebron) per conto del Jihad Islamico. Valori di ordine religioso In altri casi la scelta del sacriicio estremo è ispirata dalla fede, in specie dalla fede musulmana. L’attacco suicida viene percepito come un atto di «martirio islamico», un altissimo dovere morale al servizio della religione. L’adempimento di questo dovere viene premiato con la salvezza eterna e con i piaceri del paradiso islamico. È evidente che se la devozione religiosa trascinasse necessariamente al sacriicio di sé, il numero dei «martiri» sarebbe molto più ampio di quanto sia efettivamente. Già Gaetano Mosca [1923, p. 186] negli Elementi di scienza politica aveva osservato: Non è da dimenticare che qualche credenza islamitica, la quale urta uno degli istinti più forti e radicati nella natura umana, è quella appunto che meno facilmente riesce ad inluenzare la condotta dei Musulmani. Maometto infatti promette il paradiso a tutti coloro che soccombono nella guerra santa. Ora se ogni credente conformasse la sua condotta a quanto assicura il Corano, ogni volta che un esercito

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maomettano si trova di fronte ai miscredenti dovrebbe vincere o perire ino all’ultimo uomo. Non si può negare che un certo numero di individui si comporti conforme al detto del Profeta, ma la maggioranza preferisce per ordinario la sconitta alla morte, benché accompagnata dall’eterna beatitudine.

Il desiderio di raggiungere il paradiso non è una condizione necessaria per sacriicare la vita in un attacco suicida. Per esempio, numerosi attacchi suicidi sono stati realizzati con il supporto di gruppi armati laici, come le Tigri Tamil o il pkk, in contesti secolari, entro i quali il gesto estremo dell’attentatore suicida non è motivato da precetti religiosi o dall’aspettativa di beneici oltremondani. Presumibilmente in molte occasioni la brama di entrare in paradiso non è nemmeno una condizione suiciente per eseguire un attacco suicida. Jon Elster [2006, p. 243] ha rilevato acutamente che «un aspirante attentatore suicida potrebbe astenersi da una missione se pensasse che essa conduce alla salvezza senza [procurare] beneici politici o viceversa, ma potrebbe prendervi parte se entrambi gli scopi potessero essere raggiunti». In questa prospettiva «la religione è una forma di consolazione o un bonus piuttosto che una motivazione»: «la credenza in qualche tipo di aldilà può attenuare i costi psicologici dell’impegno. […] [P]iuttosto che ofrire una motivazione positiva le aspettative religiose […] potrebbero avere l’efetto disinibitorio di rimuovere alcuni dei vincoli normativi contro le missioni suicide». Elster (ivi, pp. 242-243) congettura anche che in alcune circostanze il desiderio di entrare in paradiso possa implicare un’attitudine che nella dottrina cristiana assumerebbe il nome di simonia: il sacriicio di sé diventa un mezzo attraverso il quale ottenere i beneici ultraterreni. Il «martirio» non è più percepito come un gesto dettato da un imperativo religioso, ma è il modo strumentalmente razionale per arrivare a godere le delizie del paradiso. Tra questi piaceri oltremondani viene frequentemente citata la compagnia delle celebri huri, le splendide vergini

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che, secondo la tradizione islamica, attendono i martiri e i beati nel paradiso. Secondo alcuni studiosi, gli attentatori suicidi musulmani, in gran parte giovani celibi, potrebbero essere stimolati dal desiderio di soddisfare nell’aldilà esigenze di natura sessuale che vengono frustrate nelle società di provenienza (cfr. ignatieff [2004, trad. it. pp. 185-186]; Juergensmeyer [2000, trad. it. pp. 214-227]); i Paesi a maggioranza musulmana, infatti, tipicamente si contraddistinguono per costumi sessuali severi e marcate disparità di genere (cfr. thayer, hudson [2010] e bloom et al. [2010-11]). Questa interpretazione suscita interesse, ma inora ha trovato soltanto qualche conferma di carattere aneddotico. Ad ogni modo, motivazioni di tal fatta ricadrebbero nella classe dei meri interessi personali, esaminati in precedenza. È importante notare che i «martiri» ispirati da motivazioni di natura religiosa potrebbero non essere interessati all’esito delle loro azioni sul piano politico. In questo scenario, come ha rimarcato Ignatief [2004, trad. it. pp. 182-183], «la garanzia di immortalità complica il rapporto tra strumenti violenti e ini politici, in quanto la promessa della vita eterna ha l’efetto di rendere secondario per l’attentatore suicida il fatto che egli raggiunga o meno un qualsiasi obiettivo politico. Ciò che conta è, soprattutto, assicurarsi l’ingresso in Paradiso: qui la violenza politica diviene strumento non di un ine politico, ma di uno personale». La motivazione di carattere religioso, promettendo il valore assoluto della ricompensa oltremondana, può distogliere l’attenzione dal calcolo dei costi e beneici di carattere politico e può condurre a un atteggiamento di indiferenza rispetto ai fallimenti politici. Addirittura, secondo lo studioso canadese, da un punto di vista organizzativo, «la promessa della vita eterna può essere vista come un’ingegnosa soluzione al problema di mantenere alta la motivazione di una cellula terroristica di fronte ai fallimenti […]. Quando i mezzi vengono separati da ini realistici, il terrorismo diviene uno stile di vita» (ivi, p. 184). Una condizione di netta separazione dei mezzi dai ini realistici ha profonde implicazioni di ordine politico: rende,

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infatti, impraticabile la strada di una risoluzione politica del conlitto, basata su trattative e accordi tra le parti. 3.3 Afetti e stati d’animo Gli afetti, gli stati d’animo e le emozioni, dettati da impulsi profondi, possono assumere un ruolo di primo piano, sebbene siano stati tradizionalmente trascurati nella letteratura scientiica sul terrorismo (cfr. rice [2009]; barbalet [2006]). In particolare, si possono menzionare i sentimenti di umiliazione, vergogna, colpa, frustrazione, disperazione, vendetta, segnalati da numerosi studiosi ed esperti. Il senso di umiliazione è quello stato di grave disagio e di avvilimento che un individuo prova quando sente ofese e lese la propria personalità e dignità. Il senso di umiliazione non di rado è provocato da azioni e iniziative messe in atto dallo Stato contro cui è indirizzata la violenza suicida. Per esempio, in Paesi come i Territori palestinesi, l’Iraq, l’Afghanistan e il Pakistan a suscitare un profondo senso di umiliazione possono essere operazioni di antiterrorismo e di «antiguerriglia» (counter-insurgency, spesso abbreviato in coin) che abbiano un impatto pesante sulla popolazione, arrivando talora sino al punto di violare gravemente il rispetto dei diritti umani. Per esempio, secondo alcuni esperti, in Pakistan i «danni collaterali» provocati dai droni (veicoli aerei senza pilota) statunitensi favoriscono il reclutamento di attentatori suicidi da parte dei Talebani pakistani e di al-Qaida (pape, feldman [2010, pp. 163-166]). In altri casi, gli Stati possono perdere il controllo della situazione e lasciare campo a individui e gruppi malintenzionati: si pensi, per esempio, agli abusi e alle sevizie commessi da alcuni soldati statunitensi in servizio nel carcere di Abu Ghraib, nei pressi di Baghdad. La rivelazione di questi fatti nel 2004 provocò un considerevole incremento nel numero degli attacchi suicidi in Iraq (hassan [2011, p. 89]). Il senso di umiliazione non interessava soltanto le vittime efettive degli abusi, ma iniva per estendersi a un gran numero di cittadini iracheni.

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Non di rado gli individui possono sentirsi mortiicati e oltraggiati da eventi e processi che non soltanto non li coinvolgono direttamente, ma che si veriicano anche in luoghi molto distanti da quelli in cui vivono. A questo proposito il sociologo Farhad Khosrokhavar [2002, trad. it. p. 181] ha parlato di una «umiliazione “per procura”», trasmessa e ampliicata dai media. Per esempio, in qualsiasi punto del globo i musulmani radicali (o suscettibili di radicalizzazione) possono assistere alle tribolazioni dei propri correligionari e ai soprusi (veri o presunti) commessi dai Paesi occidentali o da Israele. Alcuni di questi individui residenti in Occidente possono poi decidere di prender parte a un attacco suicida in zone di conlitto (come hanno fatto Asif Muhammad Hanif e Omar Khan, partiti per i Territori palestinesi nel 2003) o persino in una metropoli europea (come i quattro attentatori suicidi di Londra nel 2005). Il senso di umiliazione può essere più accentuato in società tradizionali, come la Palestina o la Cecenia, dove vigono codici di onore che issano rigidamente standard minimi di reputazione, rispettabilità e dignità personale in connessione con determinati ruoli sociali (cfr. ricolfi [2006, p. 116]; berger [1973]). Quando un individuo percepisce di trovarsi al di sotto di tali standard minimi può sofrire un acuto senso di vergogna, per il timore della riprovazione e della condanna degli altri. Si è già accennato alle crisi personali che possono spingere un individuo a trovare nella partecipazione a un attacco suicida un’estrema via di fuga. Per esempio, nella società cecena vige un codice d’onore tradizionale che impone e regola l’obbligo della vendetta per gravi torti subiti. In realtà, nel corso della feroce e caotica guerra russo-cecena per le vittime di un sopruso o di una violenza (come la tortura e/o l’omicidio di una persona cara) era molto diicile, se non impossibile, individuare l’efettivo responsabile del misfatto. I gruppi armati di matrice jihadista sfruttarono questa situazione per promuovere e giustiicare l’esecuzione di atti di violenza non selettivi, rivolti indiscriminatamente contro qualsiasi componente della parte nemica (speckhard, akhmdevova [2006, pp. 130-132]).

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Quando la riprovazione non proviene dal parere degli altri, ma scaturisce da un giudizio interno, si passa dalla vergogna al senso di colpa. Anche questo sentimento potrebbe indurre a sacriicare la propria vita in un attacco suicida. Per esempio, si può ricordare il profondo senso di inadeguatezza manifestato da Mohammed Atta, il leader della spedizione suicida dell’11 settembre, un uomo in bilico tra due culture, tentato dalle lusinghe dell’Occidente e tormentato dal pensiero dei suoi peccati e desideri (specialmente di natura sessuale) (cfr. lankford [2013, capitolo 4]). In condizioni simili il sacriicio della vita può essere visto come un atto di puriicazione e di redenzione. È interessante notare che i soggetti che sponsorizzano e coordinano le «operazioni di martirio» possono essere interessati ad alimentare e accrescere il senso di colpa delle reclute, in particolare facendo leva su argomentazioni di derivazione religiosa (cfr. holmes [2006, pp. 152-156]). Si può menzionare anche il senso di frustrazione, causato dal mancato appagamento di un bisogno o di un’aspettativa. In questa direzione il concetto di privazione relativa viene spesso impiegato per spiegare l’insorgenza di fenomeni di violenza. Come visto in precedenza, questo meccanismo consentirebbe di render conto dell’elevato numero di ingegneri presenti nelle ila dei gruppi jihadisti (gambetta, hertog [2009]). Nondimeno non è evidente per quale ragione individui frustrati dovrebbero ricorrere a forme di violenza suicide (piuttosto che a comuni metodi non suicidi). Presumibilmente il senso di frustrazione deve essere aiancato da altre motivazioni. La disperazione è un altro stato d’animo da tenere in considerazione. Per esempio, numerosi studiosi hanno segnalato la mancanza di speranza, lo sconforto inconsolabile dei candidati al «martirio» (tra gli altri, Butler, Sarraj [2002]; Ricolfi [2006, specie pp. 115-116]; Merari [2010, pp. 214217]). Lo psichiatra palestinese Eyad el Sarraj, rispondendo a una domanda sulle condizioni psicologiche degli attentatori suicidi all’apice della Seconda Intifada (2002), ha dichiarato:

150 È la disperazione. La mancanza di speranza che viene da una situazione che continua a peggiorare, una disperazione per cui vivere diventa simile a morire. La disperazione è una forza molto potente – non è solo negativa. Essa sprona ad azioni o soluzioni che in precedenza sarebbero state impensabili. Ciò che è impensabile oggi diventa accettabile domani. Chi mai avrebbe immaginato gli attentatori suicidi in Palestina dieci anni fa? Non c’è alcun precedente nella nostra società. (butler, sarraj [2002, p. 72])

Un individuo senza speranza può trovare nel «martirio» una soluzione allettante, un gesto in grado di restituire senso a tutta una vita. Una delle passioni più rilevanti in questa sede è il desiderio di vendetta. Un’ampia evidenza empirica mostra che molti individui paiono spinti a realizzare un attacco suicida dal proposito di ricambiare un danno o un torto che hanno subito personalmente o che è stato inlitto a membri della loro comunità di appartenenza. Queste dinamiche sono ricorrenti quando due parti sono intrappolate in un conlitto che si protrae nel tempo ed è caratterizzato da atti di rappresaglia e controrappresaglia, come il conlitto israelo-palestinese e il conlitto ceceno. È noto il fenomeno delle «vedove nere» cecene che si sacriicano per vendicare la morte dei mariti e di altre persone care. Una delle storie più illuminanti è quella di Kawa. Il marito della donna, un militante del separatismo ceceno di ispirazione salaita-jihadista, era stato torturato a morte dai soldati russi e, in precedenza, anche il padre aveva perso la vita durante un raid delle forze di Mosca. In una delle rare interviste rilasciate da un attentatore suicida prima di partecipare a una missione senza ritorno, Kawa dichiara: «Ora sono rimasta con un sogno, quello di farmi esplodere in Russia e portare con me quanti russi è possibile. Voglio essere inviata in una di queste missioni. Voglio vendetta. Questo è l’unico modo per far sì che i Russi non uccidano ceceni. Forse ora capiranno il messaggio e ci lasceranno stare» (pedahzur [2005, p. 147]). Come illustra questa dichiarazione, nell’intenzione degli ese-

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cutori della violenza, l’attacco suicida può anche avere una funzione deterrente nei confronti del nemico. Motivazioni simili hanno interessato gli attentatori suicidi attivi nel conlitto israelo-palestinese. Secondo alcuni studiosi, circa la metà dei «martiri» palestinesi avrebbe deciso di agire a breve distanza dalla perdita di una persona cara (un partner, un familiare, un amico) (ibidem; cfr. anche ricolfi [2006, p. 111]). Per esempio, il 4 ottobre 2003 Hanadi Jaradat, un’avvocatessa palestinese di ventinove anni, si fece esplodere in un ristorante di Haifa, uccidendo ventinove persone. L’attacco aveva il proposito di vendicare la morte del fratello, del idanzato e del cugino della donna, tutti uccisi per mano delle forze di sicurezza israeliane (pedahzur [2005, pp. 2-4, 148-149]). In altre occasioni l’attentatore suicida intende vendicare i mali e i torti subiti non da persone care, ma dall’intera comunità di cui fa parte. Per esempio, Sana’a Mehaydali, la prima donna «martire» libanese, lasciò una lettera in cui chiariva che il suo gesto aveva lo scopo di vendicare e punire l’occupazione israeliana del Paese (ivi, p. 142). Il tema della vendetta per i mali inlitti alla patria è ricorrente tra gli attentatori suicidi palestinesi (ivi, pp. 143-145). A volte è un singolo evento che, pur non interessando direttamente l’attentatore suicida e i suoi cari, fa scoppiare il desiderio di rivalsa: nel suo videotestamento Mahmood Ahmad Marmasha, fattosi esplodere a Netanya il 18 maggio 2001, identiica la causa scatenante del suo gesto nella morte di un bambino di Gaza (che non aveva conosciuto personalmente)15. L’attacco suicida per vendicare un danno subito dai membri della comunità di appartenenza esalta lo slancio altruistico del gesto e, a diferenza dell’attacco non suicida, consente di trasferire la colpa sull’avversario, presentando il «martire» e 15. Vale dunque la pena di evidenziare che queste forme estreme di altruismo non avvantaggiano soltanto i parenti dei «martiri», secondo quel meccanismo di selezione parentale (kin selection) proposto dagli studiosi di impostazione darwinista (gambetta [2006, p. ix]; cfr. qirko [2009]).

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la sua parte nelle vesti della vittima. Nondimeno, lo spirito di vendetta in sé incoraggia senz’altro l’uso della violenza, ma non sembra incoraggiare necessariamente l’uso della violenza con modalità suicide. Senza contare che di norma la vendetta presuppone che l’individuo sopravviva al nemico (ricolfi [2006, pp. 111, 114]). Presumibilmente negli attentatori suicidi il desiderio di vendetta è spesso accompagnato da altri stati d’animo, come il senso di umiliazione e la disperazione, e da altri tipi di motivazione come la ricerca della gloria. Nondimeno, come rilevato in precedenza, sotto il proilo operativo, gli attacchi suicidi spesso sono una forma di violenza «irmata» che esalta e premia la igura e il ruolo dell’attentatore, in contrapposizione ad atti di violenza più «anonimi»; gli attentatori suicidi potrebbero quindi preferire il ricorso a questa particolare forma di violenza perché essa assicura maggior soddisfazione alla loro sete di vendetta (ivi, p. 114). Un altro sentimento rilevante è l’attaccamento afettivo, la dedizione a un gruppo sociale di cui l’attentatore suicida fa parte. Forse il caso più impressionante è quello di una squadra di calcio di Hebron, in Cisgiordania: ben otto degli undici giocatori parteciparono ad attacchi suicidi, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, durante la Seconda Intifada. Sei di questi giovani erano anche vicini di casa e appartenevano alla stessa hamula (clan, famiglia estesa nella società palestinese) (ricolfi [2006, p. 113]; pedahzur [2005, p. 132]). Come si vedrà, lo spirito cameratesco può essere particolarmente importante nella fase di radicalizzazione e durante il processo di reclutamento dei «martiri». Le motivazioni degli attentatori suicidi che interessano le risorse simboliche (con particolare riferimento alla classe dei valori) possono essere utilmente ricondotte a una classe generale basata sul concetto di identità (cfr. gritti [200405]; kruglanski et al. [2009]; harrison [2006]). Il tema è complesso e sfuggente. Un interessante punto di partenza è costituito dalla trattazione delle risorse simboliche oferta da Mario Stoppino [2001]. Secondo questo autore, l’obiettivo di riferimento delle risorse simboliche è l’identità etico-sociale,

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ossia «l’identiicazione con un gruppo o con una comunità, che è valorizzata eticamente» (ivi, p. 181)16. Il gesto estremo degli attentatori suicidi potrebbe essere motivato dal proposito generale di godere del bene (immateriale) dell’identità eticosociale. Rilettendo sulla prima «componente» dell’identità etico-sociale, l’identità etica, Stoppino (ivi, pp. 183-184) prende in esame due temi che sono di grande interesse in questa sede. In primo luogo, nota che il perseguimento dell’identità etica può richiedere il sacriicio di beni meno elevati, in particolare i beni generali del benessere economico e della sicurezza isica. In secondo luogo, osserva che ainché il riconoscimento simbolico dell’identità etica di un attore sia giustiicato simbolicamente e corrisponda a un pieno godimento intimo, occorre che il perseguimento dell’identità etica abbia il carattere della genuinità, ovvero della sincerità e della libertà. È chiaro che l’atto del «martirio» volontario pone in primo piano questi due temi: da una parte, il sacriicio è massimo perché consiste nella rinuncia totale e irrevocabile ai beni del benessere e della sicurezza; dall’altra parte, la genuinità è comprovata ed esaltata dalla rilevanza dei beni sacriicati. 4. I processi di radicalizzazione La decisione di partecipare ad attacchi suicidi è motivata, in ultima istanza, da ragioni individuali, ma è inluenzata dall’ambiente sociale. Gli attentatori suicidi vanno spesso 16. Più precisamente, secondo Stoppino [2001, p. 182, corsivo nel testo], «il bene dell’identità etico-sociale, ossia il tipo generale di bene che viene perseguito o goduto mediante l’uso delle risorse simboliche, presuppone sempre l’esistenza di una dottrina religiosa, politica o sociale, più o meno articolata e rainata ovvero rozza ed elementare. Il nucleo centrale di tali dottrine risiede nella raigurazioneavvaloramento di un gruppo sociale (una chiesa, una setta, un partito, una casta, un ceto) nel quadro di una visione complessiva della società e talora anche dell’intero cosmo o dell’intero sviluppo della storia. […] Il godimento, da parte di un attore, del bene identità etico-sociale si dà soprattutto mediante il riconoscimento pubblico, con caratteri di grande intensità emotiva».

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incontro a un processo di progressiva radicalizzazione delle credenze, degli stati d’animo e dei comportamenti. Questo processo non può essere ricondotto a un solo percorso o modello, anche se l’evidenza empirica disponibile mostra che alcuni tratti sono ricorrenti. Come in altri casi di violenza terroristica (per esempio, cfr. della porta [1990]), la radicalizzazione e l’assunzione di un impegno a favore della militanza armata sono spesso incoraggiate dall’appartenenza a reticoli sociali e specialmente a gruppi primari di piccole dimensioni, caratterizzati da stretti legami personali, da interazioni dirette e regolari e da un forte senso di identiicazione collettiva (cfr. hairgrove, mcleod [2008]). Secondo gli psicologi McCauley e Moskalenko [2008, p. 417], «specialmente in un piccolo gruppo, può essere diicile separare la moralità personale e le regole del gruppo perché la moralità individuale è solitamente ancorata in qualche tipo di consenso di gruppo. E in un piccolo gruppo con interazioni dirette (face-to-face) dove ciascun membro e qualsiasi comportamento è noto agli altri, le ricompense sociali per la partecipazione e le punizioni sociali per il free-riding possono rendere dopo tutto razionale l’impegno rispetto ai comportamenti». Particolarmente rilevante appare il ruolo di gruppi dei pari nei quali elementi come l’intensità delle relazioni sociali sorte spontaneamente, le dimensioni numeriche contenute, l’impatto della pressione sociale e dello spirito di emulazione tra individui accomunati da caratteristiche simili possono facilitare l’insorgere di processi di radicalizzazione. Per esempio, si è già citato il caso degli otto «martiri» palestinesi provenienti dalla medesima squadra di calcio di Hebron. Come ha notato Ricoli [2006, p. 113], il fatto che, nel complesso, i luoghi di origine degli attentatori suicidi palestinesi siano concentrati in determinate aree sembra confermare il peso dei fattori connessi alle relazioni sociali. In maniera simile, è noto che i quattro attentatori suicidi responsabili degli attacchi a Londra nel 2005 erano legati da rapporti di amicizia e di assidua frequentazione (per esempio, tosini [2012, pp. 149-155]).

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La condivisione di abitudini e di interessi innocui (come la frequentazione di determinati luoghi di svago) può accrescere l’intensità dei rapporti sociali e ripercuotersi profondamente sull’identità dei soggetti; le dinamiche di gruppo possono poi condurre alla convergenza su posizioni radicali e inine alla decisione di passare all’azione. La psicologia sociale ha mostrato che i membri di un gruppo prendono decisioni più estreme rispetto alla media delle posizioni dei singoli individui (è la cosiddetta «polarizzazione di gruppo») e, in particolare, mostrano una maggior propensione al rischio («spostamento verso il rischio», risky shit) (mccauley, moskalenko [2008, pp. 422-423]). In generale, il processo che conduce alla violenza terroristica è spesso graduale e può essere raigurato con l’immagine della discesa su un piano inclinato, con l’accettazione di azioni e mansioni sempre più impegnative e onerose. Queste possono poi trovare una facile giustiicazione e razionalizzazione ex post per allontanare il disagio psicologico prodotto dalla dissonanza cognitiva: l’attore, in altri termini, trova a posteriori una motivazione per il proprio comportamento allo scopo di ristabilire la coerenza tra ciò che fa e ciò che pensa e crede (cfr. mccauley, moskalenko [2008, pp. 419-421]). Di recente Pape e Feldman [2010, pp. 61 e ss.] hanno identiicato quattro fasi nel processo di radicalizzazione che sfocia nella partecipazione a un attacco suicida. Nella prima fase di «iltraggio» (iltering) gli individui si uniscono e stabiliscono relazioni sociali continuative sulla base di interessi comuni che non riguardano la militanza armata. La seconda fase di «scoperta» (discovering) è segnata dall’emersione di preoccupazioni comuni di carattere politico; l’identiicazione con il gruppo favorisce la convergenza delle posizioni individuali. La terza fase prevede la «recisione» (cutting) dei rapporti sociali preesistenti e la chiusura del gruppo su se stesso (tanto più nei confronti di un ambiente circostante percepito come ostile): i componenti del gruppo possono decidere di andare ad abitare nello stesso luogo o in luoghi vicini. Inine, con la fase della «determinazione» (determining) il gruppo decide di

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passare all’azione, spesso sulla spinta di un evento scatenante o di un’esperienza signiicativa. È da notare che lo schema proposto da Pape e Feldman descrive bene la traiettoria di alcune cellule di ispirazione qaidista basate su rapporti di amicizia, come quelle responsabili degli attacchi suicidi dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti (la «cellula di Amburgo») e del 7 luglio 2005 in Gran Bretagna (ivi, pp. 65-74). Tuttavia la sequenza a quattro fasi appare meno adatta a rendere conto del processo di radicalizzazione nel terrorismo suicida di tipo locale, dove il «martire» solitamente non fa parte di cellule autonome per un periodo di tempo considerevole, ma interagisce con un’organizzazione che pianiica e dirige l’esecuzione dell’attacco. In questo caso la presenza di stretti legami personali tra i potenziali attentatori suicidi può facilitare il reclutamento da parte dell’organizzazione, ma non conduce alla formazione di gruppi chiusi che si occupano direttamente della realizzazione degli attacchi. Occorre aggiungere che, al di là dei rapporti faccia a faccia, i media, e specialmente internet, possono essere impiegati come strumenti e canali di radicalizzazione. In particolare, i forum, le chats e altri spazi di interazione online consentono di condividere e ampliicare stati d’animo e credenze di natura estremista (cfr. sageman [2008a, capitolo 6]) e, in alcuni casi, possono incoraggiare il passaggio all’azione. Ciononostante è opportuno sottolineare che la maggior parte degli individui che compongono tali comunità virtuali (in particolare, di matrice jihadista) probabilmente non è intenzionata a impegnarsi personalmente in attività terroristiche. Di solito questi internauti si limitano a sostenere la causa davanti allo schermo del proprio computer, partecipando a forum di discussione, segnalando siti web o, al più, montando ilmati di propaganda; sono quelli che recentemente Jarret Brachman ha chiamato gli «jihobbisti» (jihad + hobby) (citato in lewis [2012, p. 240]). Il passaggio all’azione richiede un sapere pratico che diicilmente può essere acquisito con l’apprendimento a distanza. In generale, internet sembra di-

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ventare uno strumento davvero pericoloso quando facilita e incoraggia le interazioni tra individui nel mondo reale, specialmente tra principianti e militanti esperti. In questo senso, è interessante osservare che il web favorisce l’instaurazione di «legami deboli» (weak ties) tra militanti. In generale, le relazioni interpersonali «deboli», di semplice conoscenza, permettono di aver accesso a un numero maggiore e più diversiicato di informazioni rispetto ai «legami forti» (rapporti con familiari e amici): da qui la paradossale «forza dei legami deboli» messa in rilievo dal sociologo Mark Granovetter [1973] in un famoso articolo pubblicato quarant’anni fa. Nell’ambito delle attività terroristiche, i legami deboli consentono di connettere tra loro cellule disperse, di promuovere la difusione di idee e pratiche innovative, di agevolare le prime fasi del processo di reclutamento di nuovi militanti (kennedy, weimann [2011]).

4. Il livello ambientale: la comunità di sostegno e l’ambiente circostante

Il livello ambientale include le condizioni strutturali che consentono e favoriscono l’uso della violenza suicida. Il capitolo, organizzato in quattro sezioni, prende in considerazione le condizioni sociali ed economiche, le condizioni politiche e le condizioni culturali e religiose; esamina, inine, il ruolo giocato dalla comunità di sostegno. 1. Le condizioni sociali ed economiche Per quanto riguarda le condizioni sociali, l’incidenza dei suicidi nella società non sembra essere rilevante per la difusione di questa forma di violenza. Per esempio, i Paesi a maggioranza musulmana, in cui si concentra la maggior parte degli attacchi suicidi, vantano tradizionalmente tassi di suicidi bassi (lester [2006]; merari [2010, pp. 207, 221])1. Quando si prende in considerazione il rapporto tra il gesto del suicidio e la società, non si può non richiamare l’inluente interpretazione formulata da Émile Durkheim [1897]. Com’è noto, nel classico volume Il suicidio il sociologo francese distingue tre tipi principali di suicidio: «egoistico», «altruistico» e «anomico»; a questi si può aggiungere il tipo «fatalista» cui l’autore accenna soltanto in una nota (ivi, trad. it. p. 334). Di recente molti studiosi hanno associato il fenomeno degli attacchi suicidi al tipo del suicidio altruistico, 1. All’opposto, lo Sri Lanka presenta uno dei tassi nazionali di suicidi più alti del mondo (abdel-khalek [2004, p. 101]).

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indotto da un alto livello di «integrazione sociale» (tra gli altri, cfr. stack [2004]). Secondo Durkheim, il suicidio è «altruistico» quando «l’io non si appartiene ma si confonde con cosa diversa da sé e […] il polo della condotta viene a trovarsi al di fuori, cioè in un gruppo di cui l’individuo è parte» (ivi, trad. it. pp. 270-271). In efetti, le manifestazioni di terrorismo suicida di tipo locale presentano alcuni tratti del suicidio altruistico, in particolare nella sua versione «facoltativa»2, non espressamente imposta dalla società di riferimento, ma comunque incoraggiata. Società come quella palestinese sembrano presentare efettivamente un elevato livello di «integrazione sociale» (cfr. ricolfi [2006, p. 116]), anche se occorre ammettere che questo concetto, per quanto suggestivo, è piuttosto sfuggente3. D’altra parte, gli attacchi suicidi sono fenomeni sociali complessi che probabilmente abbracciano diversi tipi di suicidio presenti nella classiicazione di Durkheim. Per esempio, Pedahzur, Perliger e Weinberg [2003] hanno interpretato gli attacchi suicidi palestinesi come una combinazione di suicidio altruistico e suicidio fatalistico. A ogni buon conto, è opportuno ricordare che il sociologo francese era interessato all’inluenza del livello sociale, non al peso del livello individuale; come ha precisato Merari [2010, p. 203], «Durkheim ha usato il concetto di suicidio altruistico per caratterizzare le società, non gli individui». Nonostante alcuni limiti, il pensiero di Durkheim può rivelarsi proicuo per lo studio degli attacchi suicidi. Meritevoli di attenzione sono anche i contributi di alcuni suoi illustri allievi, come Maurice Halbwachs, Marcel Mauss e Henri Hubert. In questa sede vale la pena di segnalare uno stimolante articolo di Ivan Strenski [2003], ispirato a una prospettiva di deriva-

2. Durkheim [1897] distingue tre tipi di suicidio altruistico: «obbligatorio», «facoltativo» e «acuto». 3. Come ha sottolineato Biggs [2006, p. 186], «la concezione dell’integrazione sociale di Durkheim è notoriamente diicile da operazionalizzare»; Merari [2010, p. 200] ha ribadito che «Durkheim non ha deinito con precisione il signiicato di integrazione».

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zione apertamente durkheimiana. Secondo questo studioso, le azioni delle «bombe umane» musulmane non costituiscono tanto iniziative militari dettate da una logica utilitaristica né semplici gesti suicidi, quanto atti di sacriicio. Sulla scorta di Halbwachs, Strenski sostiene che ciò che distingue una morte per suicidio da una morte per sacriicio è l’atteggiamento della società di riferimento; essa presiede al sacriicio, se ne assume la responsabilità e gli conferisce una forma rituale. Il sacriicio, come ricorda l’etimologia (sacrum facere), «rende sacre» le vittime sacriicali. Le «bombe umane» costituiscono tipi speciali di doni oferti dagli stessi attentatori alla società di appartenenza. Seguendo la classica interpretazione di Mauss, l’autore sottolinea che il dono si pone al centro di un sistema di scambi di natura obbligatoria: deve essere dato, deve essere ricevuto e deve essere ricambiato. Così gli attentatori suicidi sono chiamati a sacriicare la propria vita e la società è tenuta ad accettare e a ricambiare questo dono. Anche quando si esaminano le condizioni sociali del terrorismo suicida, è opportuno ricordare che, a diferenza dei suicidi comuni portati a termine spontaneamente da singoli individui, le «operazioni di martirio» costituiscono quasi sempre atti pianiicati e coordinati da gruppi armati allo scopo di raggiungere determinati scopi politici (cfr. merari [2010, capitolo 8]). In altri termini, nell’indagare il rapporto tra attentatore suicida e società di riferimento, non bisogna dimenticare il ruolo cruciale giocato dall’organizzazione che promuove la violenza suicida. A proposito delle condizioni economiche, la letteratura pertinente inora ha mostrato una scarsa connessione diretta tra terrorismo (inclusa la variante suicida) e livelli di povertà e di analfabetismo a livello della popolazione. Per dirla con Alan B. Krueger e Jitka Malečková [2003, p. 119], «qualsiasi connessione tra povertà, educazione e terrorismo è indiretta, complicata e probabilmente piuttosto debole»4. 4. Claude Berrebi [2003] e James A. Piazza [2006] giungono alle medesime conclusioni di Krueger e Malečková [2003]. Alberto Abadie [2004, p. 1] argomenta

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A questo proposito può essere utile una puntualizzazione: le numerose ricerche che hanno mostrato lo status economicamente privilegiato dei singoli membri dei gruppi armati fanno evidentemente riferimento a un altro livello analitico, quello attinente agli individui che prendono parte alle attività violente. L’opinione pubblica e persino gli studiosi talvolta cadono nell’errore di confondere i due livelli (individuale e ambientale), inendo non di rado per promuovere dibattiti viziati sul nascere da un equivoco di fondo5. Come sintetizza Elster [2006, p. 245]: È abbastanza plausibile, comunque, che ceteris paribus gli attacchi suicidi abbiano maggiori probabilità sia di avvenire in società povere ed analfabete sia di essere realizzati dai membri più abbienti ed istruiti di quelle società. Inoltre, ci potrebbe essere un efetto di selezione: i leader potrebbero preferire individui istruiti.

Molti tra gli stessi studiosi interessati alle cause economiche del terrorismo, sono giunti alla conclusione secondo cui le condizioni politiche sono più rilevanti per l’origine e lo sviluppo di questo fenomeno (Krueger, Malečková [2003]; Abadie [2004]; Piazza [2006]). 2. Le condizioni politiche In questa sezione verranno esaminate due condizioni politiche di rilievo: in primo luogo, il livello di asimmetria del che «il rischio di terrorismo [internazionale] non è signiicativamente più alto per i paesi poveri, una volta che sono prese in considerazione altre caratteristiche speciiche del paese come il livello di libertà politica». Occorre segnalare, tuttavia, che Basel A. Saleh [2004] ha rilevato una correlazione signiicativa tra condizioni economiche e frequenza degli attacchi palestinesi contro obiettivi israeliani. 5. Esempi di lavori accademici che sembrano confondere i livelli analitici dell’individuo e dell’organizzazione sono Moghadam [2003], proprio sul problema delle condizioni economiche, e Caplan [2006] sul tema della razionalità del terrorismo suicida.

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conlitto e, in particolare, la presenza di un’occupazione militare straniera; in secondo luogo, l’inluenza della democrazia. 2.1 Asimmetria del conlitto e occupazione straniera Gli attacchi suicidi sono impiegati dalla parte più debole in un conlitto asimmetrico6. Tutti i casi di terrorismo suicida presi in esame presentano condizioni di debolezza relativa da parte di chi adotta questa forma di violenza estrema. Se spostiamo la nostra attenzione dal fenomeno degli attacchi suicidi contemporanei in senso proprio a quello delle missioni suicide o quasi suicide del passato possiamo notare che anch’esse si veriicarono di norma nel contesto di conlitti asimmetrici. I Sicari, gli Assassini e le comunità musulmane dell’Asia orientale citati nel secondo capitolo dovettero afrontare avversari ben più potenti; così pure i Viet Cong. Le missioni dei Kamikaze furono lanciate soltanto quando il Giappone si ritrovò a un passo dalla capitolazione. Al contrario, le ondate umane dei giovani iraniani ebbero luogo in condizioni di maggiore equilibrio tra le forze in campo; in efetti il conlitto con l’Iraq inì, dopo otto lunghi anni, senza un reale vincitore. Probabilmente in questo caso fu cruciale l’inluenza ideologica e l’impatto emotivo della Rivoluzione islamica del 1979 (cfr. khosrokhavar [2002, trad. it. pp. 79128]; gambetta [2006a, p. 261]). In generale, l’adozione della strategia del terrorismo presuppone uno stato di inferiorità dei gruppi armati rispetto agli Stati contro cui combattono. In primo luogo, una disparità quantitativa in termini di disponibilità di risorse e di capacità a livello militare, economico, tecnologico, ecc. In secondo luogo, una diferenza qualitativa di status in termini di riconoscimento formale e di legittimazione: si fronteggiano, infatti, un attore sub-statale costretto a operare in clandestinità e uno Stato sovrano (o un gruppo di Stati). In 6. Sul tema dei conlitti asimmetrici si può segnalare, tra gli altri, l’utile contributo di Arreguín-Tot [2001].

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efetti, se i gruppi armati avessero sin dal principio più risorse e capacità e godessero di ampio consenso popolare e di legittimità generalizzata non dovrebbero nemmeno ricorrere alla strategia del terrorismo. In termini generali, si può osservare che in presenza di un livello di asimmetria meno accentuato, i gruppi armati preferiscono adottare razionalmente altre modalità di uso della violenza, come la guerriglia (cfr. merari [1993]; de la calle, sánchez-cuenca [2011]), una strategia che prevede l’impiego di piccole unità militari irregolari, continuamente in movimento, impegnate in azioni di disturbo allo scopo di logorare l’avversario. Viceversa, potrebbe essere proprio la diicoltà ad abbracciare forme di guerriglia a spingere i gruppi armati a optare per la strategia del terrorismo. Nel caso della variante suicida del terrorismo questa condizione di asimmetria solitamente è ancora più marcata, o quantomeno viene percepita come tale; per questo, i gruppi armati non esitano a ricorrere alla più estrema delle opzioni a loro disposizione: il sacriicio deliberato di simpatizzanti e militanti. La pratica del suicidio, che costituisce normalmente una sorta di tabù, specialmente nelle società a maggioranza musulmana, non soltanto viene autorizzata, ma viene presentata come un gesto doveroso e persino «inevitabile», nella forma onorevole del martirio. È importante osservare che il metodo degli attacchi suicidi costituisce un’arma dei «deboli» (weapon of the weak) contro i «forti», in sintonia con un convincimento difuso, ma non rappresenta necessariamente un’arma di ultimo impiego (last resort weapon) usata da «chi ha le spalle contro il muro». Lo dimostra, per esempio, il caso di Hezbollah, un’organizzazione che adottò questa forma di violenza nella prima metà degli anni ’80, all’inizio del suo percorso di consolidamento militare e politico, anche con l’intento di distinguersi e di emergere nell’ambito di una competizione tra gruppi ribelli attivi in Libano (cfr. kramer [1991]; bloom [2005]). La stessa al-Qaida abbracciò questo metodo alla ine degli anni ’90 in una fase storica in cui, pur dovendo misurarsi con i risulta-

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ti deludenti dell’esperienza jihadista maturati nel corso del decennio, non era ancora vittima di pesanti interventi di repressione. Gli attacchi suicidi servirono piuttosto a costituire la struttura e a modellare l’immagine globale dell’organizzazione di Bin Laden. Come ha concluso Gambetta [2006a, p. 261, corsivo nel testo], «le missioni suicide sono così un’arma di ultimo impiego per alcuni, ma per altri sembrano essere un mezzo per costruire e istituire un’organizzazione attraverso l’uccidere e il morire». L’attività di organizzazioni dedite al terrorismo nell’ambito di conlitti marcatamente asimmetrici è di fatto facilitata da alcuni tratti distintivi della nostra epoca (tosini [2012, pp. 52-60]). Alcune proprietà strutturali delle società contemporanee, come la libertà, l’estensione e la rapidità della circolazione delle persone e delle merci a livello globale, favoriscono l’attività dei gruppi armati. Alcuni mezzi, congegni e apparecchi di recente invenzione costituiscono strumenti potenti e insidiosi a disposizione di questi gruppi: si pensi, per esempio, alle potenzialità oferte da internet. Inine, alcune caratteristiche culturali e sociali dei Paesi avanzati accrescono la loro vulnerabilità rispetto alla sida lanciata dalle organizzazioni terroristiche. In particolare, quelli che normalmente (e giustamente) sono celebrati come «punti di forza» dei Paesi occidentali possono diventare «elementi di debolezza» nella lotta al terrorismo, in una sorta di combattimento di ju jitsu in cui l’attore più debole tenta di sfruttare a suo vantaggio la forza dell’avversario. In primo luogo, la libertà di espressione e di informazione, potenziata dai diversi mezzi di comunicazione, dilata gli efetti psicologici prodotti dalla minaccia terroristica. In secondo luogo, l’impegno per la tutela dei diritti umani e per l’osservanza del diritto internazionale (per quanto non sempre rispettate nei fatti) tende a limitare e frenare l’azione degli Stati in sede di prevenzione e di contrasto del terrorismo: per certi versi, gli Stati occidentali agiscono, come si usa dire, «con una mano legata dietro alla spalla». Al contrario, i gruppi armati solitamente non si sentono afatto vincolati a queste restrizioni e possono avvalersi di qualsiasi

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mezzo a loro disposizione. In terzo luogo, i Paesi occidentali (e specialmente i Paesi europei) sono anche caratterizzati da una crescente avversione ai costi e alle perdite associati alla guerra, in un contesto che è stato chiamato di «guerra posteroica» (post-heroic warfare) (luttwak [1995]); la soglia di tolleranza rispetto alle soferenze e ai sacriici imposti dai conlitti armati è relativamente bassa. Questo atteggiamento generale è in palese contrasto con la cultura del martirio, avvalorata e promossa da molte organizzazioni responsabili di attacchi suicidi. In quarto luogo, alcuni aspetti dei sistemi politici liberaldemocratici, come si vedrà tra poco, possono avvantaggiare involontariamente l’attività delle organizzazioni terroristiche. Nel contesto di un conlitto asimmetrico la segretezza e la sorpresa costituiscono risorse cruciali per l’attore più debole. Com’è noto, le organizzazioni terroristiche operano in condizioni di clandestinità e ricorrono costantemente ad attacchi a sorpresa. Data l’inferiorità militare e politica cui questi gruppi devono far fronte, il fattore sorpresa è essenziale per la strategia terroristica, sia a livello tattico sia a livello strategico (morris [2009]). A livello tattico, la sorpresa ha l’efetto di «moltiplicare» le forze della parte più debole del conlitto, assicurandole una temporanea superiorità relativa; essa consente all’attaccante di applicare la sua forza distruttiva su un avversario momentaneamente inerme (wirtz [2003]). Nell’immediato i terroristi possono così raggiungere il loro obiettivo: danneggiare il nemico senza dover scendere sul campo di battaglia. A livello strategico, l’elemento della sorpresa permette di minacciare un’intera collettività, benché la violenza efettivamente erogata si limiti a colpire senza preavviso soltanto alcuni dei suoi membri. Il terrorismo è, in ultima istanza, una forma di violenza «psicologica», ovvero una forma di violenza basata sull’efetto psicologico che è in grado di produrre. Come accennato in precedenza, gli spettacolari attacchi suicidi dell’11 settembre mostrano chiaramente l’importanza del fattore sorpresa per il terrorismo. In quella circostanza la

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sorpresa costituiva sia una scelta strategica sia una necessità tattica e persino operativa: si pensi che, come ha enfatizzato Daniel Morris [2009], la stessa modalità di esecuzione della violenza (aerei di linea usati come missili da scagliare contro obiettivi prestabiliti) «come tale probabilmente poteva funzionare una volta sola. L’aspetto geniale del piano consisteva nella sua novità – nella capacità di prendere il nemico completamente di sorpresa. […] Senza presupporre la sorpresa del nemico il piano diicilmente avrebbe potuto persino essere concepito» (ivi, p. 13). In conclusione, è bene sottolineare che lo stato di asimmetria tra le parti in conlitto è un fattore importante, ma non costituisce una condizione suiciente per l’insorgenza del terrorismo suicida e nemmeno una condizione necessaria: moltissimi gruppi armati in condizioni di palese inferiorità rispetto al proprio avversario non si sono avvalsi di questa forma di violenza estrema. D’altra parte, lo stato di inferiorità rispetto all’avversario statale non esclude il fatto che i gruppi armati possano colpire materialmente soggetti «deboli». È esattamente ciò che fanno le organizzazioni che indirizzano la violenza contro civili inermi. In altri termini, i gruppi armati cercano spesso di attaccare la parte più debole o il partner più debole dello Stato (più forte di loro) contro cui combattono. Questa dinamica è ancora più evidente quanto la violenza ha un carattere settario e svolge una funzione «vigilante», inalizzata a conservare o ripristinare rapporti di forza favorevoli alla comunità che le organizzazioni terroristiche pretendono di rappresentare, come i sunniti per al-Qaida in Iraq. In questo senso, David Cook [2007, pp. 252-253] ha osservato che Hezbollah non è stata in grado di attaccare il più forte esercito israeliano nel periodo 1983-1986, ma invece ha concentrato gli attacchi suicidi sul più debole Esercito del Libano del Sud [alleato di Israele]; i gruppi palestinesi allo stesso modo non sono stati in grado di afrontare le unità [militari] israeliane in Cisgiordania e a Gaza, ma invece hanno attaccato i civili israeliani. Dunque gli attacchi suicidi usati

168 dai musulmani radicali non saranno basati sullo schema del debole (i musulmani) contro il forte (usa, Israele), ma saranno basati sullo schema del debole (i musulmani) contro il più debole partner del forte (gli sciiti [in Iraq], l’Esercito del Libano del Sud, i civili israeliani).

Una forma particolare di asimmetria è rappresentata dall’occupazione militare da parte di forze straniere. Molti studiosi associano il metodo degli attacchi suicidi alla promozione di rivendicazioni etno-nazionaliste7 di carattere separatista/ indipendentista. In particolare, lo scienziato politico Robert A. Pape (pape [2005]; cfr. anche pape, feldman [2010]) ha proposto un’inluente e parsimoniosa «teoria nazionalista del terrorismo suicida» secondo la quale i gruppi armati si avvalgono di questo metodo allo scopo di porre termine a una occupazione territoriale. Nelle parole di Pape [2005, p. 23], «la verità è […] che il terrorismo suicida è principalmente una risposta all’occupazione straniera». La «teoria nazionalista del terrorismo suicida» ha suscitato un’ampia serie di critiche severe, sia di carattere metodologico (ashworth et al. [2008a; 2008b]; cfr. pape [2008]) sia di carattere sostantivo. Questa teoria consente senz’altro di spiegare l’evoluzione delle prime manifestazioni di terrorismo suicida, specialmente i casi libanese e palestinese, dove, in efetti, il metodo degli attacchi suicidi è stato utilizzato con l’obiettivo di porre ine a un’occupazione straniera. A ben vedere, già la spiegazione del caso tamil appare problematica, giacché ci si potrebbe chiedere in che senso possa esser chiamata occupazione straniera la pretesa dello Stato cingalese di esercitare la propria sovranità su quella porzione dell’isola che le Tigri Tamil considerano la loro madrepatria (moghadam [2008]); infatti il governo di Colombo controlla 7. A questo proposito Merari [1993, p. 239] ha notato che «una causa nazionalista generalmente è molto più potente nel motivare le persone di una questione sociale e, di conseguenza, a parità di condizioni, l’intensità della violenza che deriva dai sentimenti nazionalistici di solito è più grande della portata della violenza generata da rivendicazioni socio-economiche» (cfr. byman [1998]).

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quell’area sin dall’indipendenza di Ceylon (vecchia denominazione britannica dell’attuale Sri Lanka) nel 1948, ben prima della costituzione delle ltte. La «tesi dell’occupazione» mostra i limiti più evidenti quando si passa allo studio del terrorismo suicida di tipo transnazionale. La lotta armata di numerosi gruppi salaitijihadisti non può essere ridotta alla promozione di rivendicazioni etno-nazionaliste relative a una determinata area geograica posta sotto occupazione militare. Secondo Pape [2005, p. 4, corsivo aggiunto], «le campagne terroristiche suicide sono dirette verso un obiettivo strategico. Dal Libano a Israele allo Sri Lanka al Kashmir alla Cecenia, i responsabili di ogni campagna sono stati gruppi terroristici che hanno cercato di stabilire o mantenere l’auto-determinazione costringendo una potenza democratica a ritirarsi dai territori che rivendicavano. Persino al-Qaeda si adatta a questo schema». In realtà al-Qaida, la protagonista del terrorismo suicida di tipo transnazionale, non si adatta allo «schema» delineato. Le speciicità dell’organizzazione fondata da Bin Laden appaiono chiare nel rafronto con formazioni di portata locale come Hezbollah e Hamas: anche queste ultime sono di matrice fondamentalista e si appellano al dovere del jihad armato, ma esse sono interessate soltanto a difendere aree geograiche circoscritte sulla base di istanze di natura etno-nazionalista. Certamente anche al-Qaida combatte per la liberazione di alcuni territori, ma la sua lotta abbraccia tutte le terre abitate storicamente da popolazioni musulmane e non si cura dei conini dei singoli Stati nazionali. Dopo l’impegno in Afghanistan contro l’occupazione sovietica (terminata nel 1989), al-Qaida ha progressivamente elaborato una strategia panislamica a livello globale che identiica i nemici più pericolosi della comunità islamica (umma) negli Stati Uniti, in Israele e nei loro alleati (il cosiddetto «nemico lontano») e incita tutti i musulmani a partecipare a una lotta armata senza quartiere. L’adozione di questa strategia venne sancita nel 1998 con la costituzione del «Fronte islamico mondiale», una sorta di alleanza tra al-Qaida e altre

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organizzazioni jihadiste. Nel febbraio di quell’anno i leader del Fronte (tra cui Bin Laden e al-Zawahiri) emisero una celebre fatwa, denominata «Dichiarazione contro gli ebrei e i crociati», in cui si asseriva che «combattere gli americani e i loro alleati, civili e militari, è un obbligo individuale per ogni musulmano che abbia la possibilità di farlo, in qualunque paese ne abbia la possibilità» (citato in tosini [2012, p. 31]). In aggiunta alla strategia panislamica globale, al-Qaida persegue una strategia rivoluzionaria, inalizzata ad abbattere i regimi «apostati», specie del Medio Oriente (il «nemico vicino»), accusati di tradire l’Islam e di servire gli interessi delle potenze occidentali. Inine, la violenza di al-Qaida in alcune aree geograiche assume un carattere settario e «vigilante», volto a difendere o a restaurare la posizione di dominio della comunità sunnita rispetto ad altri gruppi etnici e religiosi (come gli sciiti e i curdi in Iraq). La varietà degli obiettivi strategici delle campagne di attacchi suicidi condotte da al-Qaida e dai gruppi a essa ailiati appare evidente in teatri cruciali come l’Iraq e il Pakistan (tosini [2012, specie capitolo 1]). L’attività di terrorismo e guerriglia, comprendente la forma estrema degli attacchi suicidi, condotta da al-Qaida in Iraq si inscrive in un disegno ampio e ambizioso di natura panislamica globale, persegue lo scopo di abbattere il regime instaurato dopo la caduta di Saddam Hussein e di sostituirlo con uno «Stato» basato sulla «legge islamica» e, inine, intende ripristinare la predominanza della minoranza araba sunnita sulle altre componenti etniche e religiose del Paese, a cominciare dalla maggioranza sciita. In maniera simile, gli attacchi suicidi portati a termine da al-Qaida in Pakistan intendono contrastare l’inluenza americana e occidentale sul Paese, ma anche rovesciare il regime vigente e raforzare il potere dei sunniti sugli sciiti e sulle altre minoranze. In breve, la «teoria nazionalista del terrorismo suicida» diicilmente può essere applicata al caso della rete di al-Qaida. È evidente, per esempio, che le intense campagne di attacchi suicidi condotte dall’organizzazione fondata da Bin La-

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den in Pakistan non possono essere associate alla presenza di un’occupazione straniera: il Pakistan non è un Paese sotto occupazione in senso proprio, anche se chiaramente subisce l’inluenza degli Stati Uniti. Per rimediare a questo problema, Pape adotta una nozione molto generosa di «occupazione». Egli stesso nel volume Dying to Win del 2005 ammette che «la deinizione di “occupazione” è deliberatamente ampia» (pape [2005, p. 97]) e chiarisce che «per evitare confusioni questo studio deinisce un’occupazione straniera come una in cui una potenza straniera ha l’abilità di controllare il governo locale in modo indipendente dalla volontà della comunità locale» (ivi, p. 46). In particolare, quando deve esaminare il conlitto tra al-Qaida e gli Stati Uniti alla luce della sua «teoria nazionalistica», Pape aferma che «la questione principale riguarda le linee di demarcazione di quella che dovremmo considerare come occupazione straniera da parte degli Stati Uniti […]. La “presenza militare americana” include casi in cui le forze di combattimento sono di stanza in un paese oppure casi in cui gli Stati Uniti forniscono una garanzia di sicurezza esplicita o ampiamente nota che potrebbe essere implementata usando le sue forze in un paese adiacente» (ivi, pp. 108-109). Moghadam [2006c, p. 722] fa correttamente notare che una deinizione così ampia di «presenza militare americana» potrebbe essere applicata a un numero elevato di Stati che intrattengono semplici relazioni di alleanza con la superpotenza. Nel successivo volume Cutting the Fuse del 2010 (pape, feldman [2010]), Pape, seguendo la medesima linea argomentativa, introduce il concetto di «occupazione indiretta»: In alcuni casi, una potenza esterna può esercitare una pressione militare o economica su un governo di una determinata area che è suiciente a costringere il governo ad alterare le linee fondamentali della sua politica estera, ma non a controllare le istituzioni del paese. Questo caso può essere meglio deinito come “occupazione indiretta”, intendendo con ciò che ampi settori della comunità locale credono che gli obiettivi della politica estera del loro governo siano sotto il controllo di un gruppo esterno» (pape, feldman [2010, p. 21]).

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Pape associa quindi le campagne di attacchi suicidi in Pakistan a un caso di «occupazione indiretta» (ivi, pp. 139-140, 151), appunto. A diferenza di quanto argomenti lo studioso americano, è evidente che una nozione di «occupazione straniera», ancorché «indiretta», così estesa, tale da includere persino la semplice percezione dell’esercizio di un’inluenza da parte di uno Stato estero, perde gran parte della sua utilità. D’altra parte, anche se prendiamo in considerazione una nozione di «occupazione straniera» più ristretta e ragionevole, dobbiamo comunque constatare che essa non può essere applicata a numerosi Paesi che sono stati colpiti da attacchi suicidi negli ultimi anni: non soltanto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma anche l’Indonesia, il Bangladesh, la Giordania, il Marocco, la Turchia, l’Uzbekistan, ecc. (moghadam [2006c, p. 719]). In altri termini, la rete di al-Qaida ha eseguito attacchi suicidi (anche di alto proilo) in Paesi che non sono in alcun modo sotto occupazione straniera. Oltretutto bisogna rilevare che anche in Paesi posti efettivamente sotto occupazione militare straniera le campagne di attacchi suicidi seguono una logica diversa da quella che dovrebbe guidare una semplice lotta di liberazione. Per esempio, in Iraq la maggioranza degli attacchi suicidi non ha coinvolto le forze di occupazione, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma i rappresentati del nuovo regime iracheno, fondato sulla predominanza della maggioranza sciita, e la popolazione civile appartenente alle comunità sciita e curda (hafez [2006c]; ayers [2008]). La violenza suicida, quindi, ha avuto in larga misura la funzione di generare paura, disorientamento e caos, di fomentare e radicalizzare il conlitto interno tra le diverse componenti religiose ed etniche del Paese e di svolgere una funzione «vigilante» a favore dell’ampia minoranza araba sunnita (che ha perso la propria posizione dominante con il crollo del regime baathista ilosunnita). Attentatori suicidi provenienti dall’Iraq hanno anche attaccato Paesi che non partecipavano direttamente all’occupazione della loro patria, come la Giordania, colpita duramente il 9 novembre 2005 (moghadam [2006c, p. 720]). D’altra

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parte, secondo numerose fonti (da ultimo, cfr. tosini [2012, pp. 126-128]), la maggioranza degli attentatori suicidi che si sono sacriicati in Iraq proveniva da altri Paesi, in particolare dall’Arabia Saudita (contra pape, feldman [2010, pp. 30-32, 47, 103-105]). Anche sotto questo proilo, è plausibile rilevare che se l’obiettivo primario del terrorismo suicida fosse il ritiro delle forze di occupazione straniere dall’Iraq, alla luce di uno spirito genuinamente nazionalista, allora gli attentatori suicidi presumibilmente dovrebbero essere iracheni. Inine, è importante notare che in Iraq il livello di violenza, anche nella forma degli attacchi suicidi, non si è ridotto signiicativamente dopo il ritiro delle truppe statunitensi, completato nel dicembre del 2011. In deinitiva, la «teoria nazionalistica del terrorismo suicida» elaborata da Robert A. Pape non appare adeguata a render conto di un fenomeno complesso come il terrorismo suicida contemporaneo. In particolare, non è in grado di cogliere la recente afermazione del terrorismo suicida di tipo transnazionale e l’emersione di quella che è stata chiamata la «globalizzazione del martirio» (moghadam [2006c; 2008]). Le considerazioni sin qui presentate possono avere rilevanti implicazioni pratiche. Per esempio, Pape [2005, capitolo 12], sulla base delle sue ricerche, ha proposto una «strategia per la vittoria» nella lotta al terrorismo suicida. Seguendo un approccio realista, egli ha suggerito ai responsabili della politica estera di Washington l’adozione di una strategia di ofshore balancing in Medio Oriente: gli Stati Uniti dovrebbero aidare ad altri Stati il compito di mantenere l’equilibrio di potenza nella regione senza intervenire direttamente. In modo non sorprendente, alla luce della «teoria nazionalista del terrorismo suicida» sopra esposta, Pape raccomanda di evitare qualsiasi intervento di occupazione militare, come è stata l’invasione dell’Iraq nel 2003. Nelle sue parole, «comprendere che il terrorismo suicida è principalmente una risposta ad un’occupazione straniera piuttosto che il prodotto del fondamentalismo islamico ha importanti implicazioni sul modo in cui gli Stati Uniti e i suoi alleati dovrebbero condurre la guerra al terrorismo. Poiché

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la causa ultima del terrorismo suicida non risiede nell’ideologia, persino tra i musulmani, difondere la democrazia nel Golfo Persico probabilmente non è una panacea intantoché truppe di combattimento rimangono nella Penisola arabica»; e di conseguenza «un tentativo di trasformare le società musulmane attraverso un cambio di regime probabilmente accresce drammaticamente la minaccia che afrontiamo. […] [Q]ualsiasi politica che cerchi di conquistare le società musulmane allo scopo di trasformare deliberatamente la loro cultura è una follia. Anche se le nostre intenzioni sono buone, il terrorismo anti-americano probabilmente crescerebbe, e crescerebbe rapidamente» (pape [2005, pp. 237 e 245]). Come detto, la «tesi dell’occupazione» mostra limiti evidenti, quantomeno in relazione al terrorismo suicida di tipo transnazionale. Di conseguenza anche le raccomandazioni politiche di Pape devono essere considerate con cautela. È probabile che ambiziose iniziative di carattere militare possano rivelarsi controproducenti per gli Stati Uniti (e i loro alleati), come ha sostenuto Pape, ma, d’altra parte, il peso dei fattori ideologici e culturali e, in particolare, del radicalismo islamico, non può essere trascurato, come si mostrerà anche nella prossima sezione. 2.2 Inluenza della democrazia Altro aspetto di grande importanza è il ruolo della democrazia. Sempre secondo Pape [2005, p. 45], «gli stati colpiti da tutte le campagne suicide moderne sono democratici». In efetti, alcuni tra i più noti Stati presi di mira da attacchi suicidi appartengono al novero delle democrazie liberali: basti pensare a Israele, per mano delle organizzazioni radicali palestinesi; e, negli ultimi anni, agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna (in patria e all’estero), a opera di al-Qaida e di altri gruppi salaiti-jihadisti. Evidentemente una correlazione tra uso degli attacchi suicidi e natura democratica degli Stati colpiti dalla violenza segnalerebbe un problema molto rilevante.

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Finora il tema del rapporto tra violenza terroristica e democrazia non è stato indagato a fondo e le analisi spesso hanno condotto a conclusioni divergenti. Alcuni studiosi hanno sostenuto che i regimi democratici scoraggiano l’uso del terrorismo, perché forniscono opportunità di azione politica alternative alla violenza (eyerman [1998]; cfr. anche brooks [2009]); Eyerman [1998] ha denominato questa prospettiva «scuola dell’accesso politico». Altri studiosi, come Quan Li [2005], hanno messo in evidenza alcune ragioni che rendono i regimi democratici più inclini a subire il lagello del terrorismo, come la visibilità e la pubblicità della violenza favorita dalla libertà di stampa e le restrizioni alle misure antiterroristiche dovute all’impegno per il rispetto dei diritti civili e politici; è la prospettiva che Eyerman chiama della «scuola strategica». A ben guardare, la relazione tra campagne di attacchi suicidi e Stati democratici non è così stretta come Pape vorrebbe. Innanzitutto lo studioso americano non esamina la questione relativa ai criteri che consentono di deinire uno Stato come «democratico (liberale)». Egli è consapevole del fatto che Stati come lo Sri Lanka e la Federazione Russa sono stati valutati «parzialmente liberi» (invece che «liberi») da Freedom House8 (pape [2005, p. 45]). «Ciononostante», egli asserisce, «tutti questi stati eleggono i loro capi di governo e le loro assemblee legislative in elezioni multipartitiche e hanno visto almeno un trasferimento paciico del potere, rendendoli solidamente democratici secondo i criteri standard» (ibidem). Il concetto di democrazia a cui allude Pape appare troppo ampio, inendo per applicarsi anche a Stati, come la Russia, che non possono essere inclusi nel novero delle democrazie liberali, ma costituiscono al più democrazie 8. Com’è noto, Freedom House è un’organizzazione non governativa con sede a Washington. Ogni anno pubblica un inluente rapporto sullo stato delle libertà civili e dei diritti politici nel mondo; i Paesi vengono suddivisi in tre categorie: «liberi», «parzialmente liberi» e «non liberi». Per maggiori informazioni si può consultare il sito web dell’organizzazione: http://www.freedomhouse.org.

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«elettorali» o «illiberali» o «quasi-democrazie». In tali regimi si tengono elezioni politiche, ma il loro esito è pesantemente condizionato dall’inluenza esercitata dai governanti sui mezzi di comunicazione e sulle risorse a disposizione dello Stato; l’esercizio del potere politico non è limitato e non si fonda sul rispetto della legge (rule of law), tipico degli Stati di diritto; inoltre, i diritti civili e politici dei cittadini non sono pienamente tutelati (cfr. morlino [2003]). Oltretutto, pur accettando la nozione estesa di democrazia abbracciata da Pape, occorre considerare che, specialmente negli ultimi anni, alcuni gruppi di ispirazione salaita-jihadista hanno portato a termine numerosi attacchi suicidi contro Stati inequivocabilmente non democratici, come l’Arabia Saudita e, di recente, la Siria (due tra gli Stati più oppressivi del mondo, costantemente in fondo alle classiiche di Freedom House). Nell’ideologia della rete di al-Qaida, espressa con chiarezza dal manifesto Cavalieri sotto la bandiera del Profeta irmato da al-Zawahiri e apparso su internet nel dicembre 2001, la violenza deve essere esercitata non soltanto contro il cosiddetto «nemico lontano» costituito dalle potenze (democratiche) occidentali, ma anche contro il «nemico vicino» composto dai regimi autoritari dei Paesi a maggioranza musulmana che, secondo i salaiti-jihadisti, si ingono ipocritamente fedeli musulmani, senza applicare i principi dell’Islam e intrattenendo rapporti di complicità con gli «infedeli crociati e sionisti» (cfr. kepel [2004]; hafez [2011]). Secondo Pape [2005, pp. 44-45], gli attacchi suicidi sono diretti contro Stati di natura democratica per tre ragioni. La prima ragione è che questi Stati sono spesso considerati vulnerabili alla strategia della coercizione, perché la loro popolazione esibisce bassi livelli di sopportazione rispetto ai costi legati alla violenza e, allo stesso tempo, vanta evidentemente il potere di inluenzare l’attività politica del governo. Le democrazie sarebbero quindi considerate più arrendevoli e accondiscendenti nei confronti delle rivendicazioni avanzate dalle organizzazioni terroristiche. È importante sottolineare che Pape, a diferenza di altri autori (per esempio, cfr. gam-

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betta [2006a, p. 265]), attira l’attenzione sulla vulnerabilità percepita e non sulla vulnerabilità efettiva: «anche se ci sono poche prove che sia più facile esercitare coercizione sulle democrazie rispetto ad altri tipi di regime, questa immagine della democrazia conta» (ivi, p. 44)9. In altre parole, ciò che importa non è che gli Stati democratici siano efettivamente più vulnerabili alla strategia della coercizione, ma che vengano generalmente percepiti come tali, a torto o a ragione. La seconda ragione avanzata da Pape è che gli Stati democratici sono generalmente considerati meno inclini ad attaccare obiettivi civili e a commettere atrocità. Ancora una volta Pape sottolinea che ciò che conta è la percezione di questo fatto. In efetti alcuni studiosi hanno mostrato che le democrazie non sono meno propense a ricorrere alla violenza nelle guerre interstatali rispetto ad altri tipi di regime né sono responsabili di un numero minore di vittime civili (per esempio, downes [2007]). Molti autori hanno sostenuto che le democrazie liberali si devono confrontare con vincoli più consistenti e più rigidi circa le modalità con cui reagiscono alla minaccia del terrorismo, poiché sono chiamate a promuovere e salvaguardare i diritti fondamentali degli individui. La risposta alla sida terroristica sarebbe quindi meno energica e incisiva. Questo è, come detto, uno degli aspetti alla base della natura asimmetrica del rapporto tra Stati occidentali e organizzazioni terroristiche. Nondimeno alcuni studiosi hanno rilevato che i vincoli con cui devono misurarsi le democrazie sono più che compensati dalle loro maggiori capacità nelle attività antiterroristiche. In particolare, Max Abrahms [2007] ha argomentato che l’impegno a favore delle libertà civili e dei diritti politici riduce il rischio di una reazione spropositata alla minaccia terroristica, permettendo così agli Stati democratici di non 9. Pape [2005, p. 285 nota 7], tra l’altro, cita un articolo di Horowitz e Reiter [2001] in cui si sostiene che la stragegia di coercizione dei bombardamenti aerei (aine a quella degli attacchi suicidi) non è né più né meno eicace ai danni di Stati democratici di quanto lo sia contro Stati che abbiano altri tipi di regime.

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perdere il sostegno degli attori moderati presenti nel campo sociale da cui provengono i gruppi armati, ma anche il sostegno della comunità internazionale e della stessa popolazione degli Stati colpiti dalla violenza terroristica; il supporto di questi tre pubblici si dimostra fondamentale per il successo della lotta al terrorismo. Al contempo, secondo Abrahms, l’«intolleranza liberale» per le perdite di civili ha l’efetto di raforzare la determinazione e l’intraprendenza degli Stati democratici nella lotta contro un nemico che pure, di norma, non è in grado di provocare danni materiali di portata catastroica. In altre parole, sarebbe proprio la sensibilità alle perdite umane (casualty sensibility) delle democrazie a indurle a giudicare prioritario l’impegno contro il terrorismo, anche quando tale minaccia, di fatto, è responsabile di un numero relativamente limitato di vittime (cfr. mueller [2005]). La terza ragione presentata da Pape è quella secondo cui negli Stati democratici è più facile organizzare, eseguire e pubblicizzare gli attacchi terroristici. Come detto, la visibilità e la pubblicità della violenza sono aspetti cruciali nella strategia del terrorismo e, ancor più, del terrorismo suicida10. Nondimeno si può notare che, in un’epoca di vasta difusione su scala globale di numerosi mezzi di comunicazione di massa e di varie forme di social media, la disponibilità di opportunità di visibilità e pubblicità non è necessariamente coninata allo spazio delle democrazie liberali; al contrario, si estende, in qualche misura, anche alle democrazie «illiberali» e a molti regimi autoritari. Per esempio, gli attacchi suicidi eseguiti in Iraq a partire dal 2003 hanno goduto di una vasta copertura mediatica anche se hanno avuto luogo in un Paese che non poteva (e non può) essere incluso nel novero delle democrazie 10. È interessante rilevare che Michal Biggs [2006, pp. 187-188] ha individuato un’analoga correlazione tra la frequenza delle «auto-immolazioni» e il «grado di democrazia» dei Paesi in cui tali gesti hanno avuto luogo. Nelle auto-immolazioni, in cui si muore senza uccidere, la funzione materiale della violenza, relativa alla causazione di danni ad altre persone, viene meno a vantaggio della sola funzione simbolica, concernente la comunicazione di messaggi (cfr. capitolo 6 di questo volume).

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liberali. In maniera analoga, già nel regime autocratico della Russia zarista gli attacchi suicidi o quasi suicidi condotti da militanti rivoluzionari e anarchici potevano approittare della libertà di stampa, introdotta formalmente nel 1905 (gambetta [2006a, p. 333 nota 10]). Gli studiosi che recentemente hanno esaminato la relazione tra uso del metodo degli attacchi suicidi e Stati democratici non hanno confermato la tesi di Pape. Sara Jackson Wade e Dan Reiter [2007], correggendo il disegno di ricerca dello studioso americano in alcuni punti e servendosi di test statistici soisticati, non hanno trovato alcuna relazione signiicativa tra il tipo di regime politico e l’uso di questa forma di violenza. In maniera analoga, James A. Piazza [2008], avvalendosi di un database degli attacchi terroristici eseguiti dal 1988 al 2005, ha rilevato che gli Stati democratici non mostrano una probabilità di essere colpiti da attacchi suicidi più elevata rispetto agli Stati non democratici. Occorre quindi mettere in evidenza che alcuni fattori e dimensioni dei sistemi democratici liberali (come la presenza istituzionalizzata di opportunità politiche non violente) possono favorire l’insorgenza del terrorismo e, in particolare, del terrorismo suicida; mentre altri fattori e dimensioni (come le opportunità di visibilità e pubblicità della violenza e le restrizioni alle misure antiterroristiche) possono scoraggiarla. La questione, complessa, della relazione tra regime democratico e uso della violenza terroristica ha importanti implicazioni pratiche. Secondo un convincimento difuso, la promozione della democrazia è un fattore decisivo nella lotta al terrorismo; com’è noto, questa idea è stata accolta e sostenuta con forza dall’amministrazione Bush nel corso della «Guerra globale al terrore». Nondimeno molti studiosi hanno sostenuto che la promozione ed «esportazione» della democrazia non ha l’efetto di ridurre l’attività terroristica (freeman [2008]). Anzi, secondo alcuni, rischia addirittura di incoraggiarla. Per esempio, Piazza [2007] ha rilevato che in Medio Oriente i sistemi politici che presentano un maggior livello di liberalizzazione sono più vulnerabili alla minaccia

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terroristica rispetto ai regimi autoritari stabili, come previsto dalla prospettiva della «scuola strategica». Piazza, inoltre, ha trovato che gli Stati falliti hanno maggior probabilità di essere Paesi vittime e Paesi ospiti di atti di terrorismo. In breve, i risultati presentati da quest’autore attirano l’attenzione non soltanto sul tipo di regime, ma anche e soprattutto sul grado di stabilità politica e, in particolare, sul livello di forza delle istituzioni di ciascun Paese (cfr. huntington [1968]). 3. Le condizioni culturali e religiose L’adozione del metodo degli attacchi suicidi richiede la presenza di particolari condizioni culturali. Molti studiosi hanno sottolineato la rilevanza di una «cultura del martirio», costituita da un sistema di presunti elementi del passato (narrazioni, riti, codici di onore, miti), non di rado di origine religiosa, che vengono rielaborati e adattati, fornendo modelli per l’emulazione e l’ispirazione, in combinazione con tecniche moderne. Questa sezione indaga il processo di costruzione della «cultura del martirio» ed esamina il peso dei fattori religiosi, dedicando particolare attenzione all’Islam. 3.1 Cultura del martirio Le origini culturali degli attacchi suicidi e della «cultura del martirio» della nostra epoca si possono rintracciare in Iran, cuore del credo sciita. Lo Sciismo, ramo minoritario dell’Islam (vanzan [2008]), attribuisce grande importanza alla pratica del martirio. Il modello di riferimento per i credenti è rappresentato da Hussein (al-Husayn ibn Ἁlī) (626-680), il «principe dei martiri». Hussein, nipote del Profeta Maometto e terzo Imam dello Sciismo, si ribellò all’autorità del quarto califo sunnita Yazid, della dinastia omayyade, e afrontò l’esercito del nemico con un manipolo di fedeli (settantadue, secondo la tradizione) nel 680 nella battaglia di Kerbala (nell’attuale Iraq), dove venne sconitto e ucciso. La morte di Hussein è uno dei

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miti fondativi dello Sciismo. Secondo la narrazione, Hussein fu avvertito del tradimento degli alleati della città di Kufa ed era ben consapevole della superiorità militare di Yazid. Ciononostante decise di andare incontro alla morte. Egli soccombette pur di non scendere a patti con igure empie e inique. In questo modo Hussein si trasformò da sconitto a vincitore. Ogni anno i fedeli sciiti celebrano l’anniversario della sua morte per tutto il mese di muharram, con processioni di auto-lagellanti e allestimenti teatrali che rappresentano le tappe che portarono alla sua tragica ine nel giorno dell’ashura. Tradizionalmente nel mondo sciita è prevalsa una lettura pietista dell’evento: la sconitta di Kerbala doveva ricordare al fedele che «il mondo è una valle di lacrime e solo le lacrime versate durante il mese di muharram possono portare sollievo agli innumerevoli dolori che la vita riserva» (khosrokhavar [2002, trad. it. pp. 13-14]). Occorre ricordare che la minoranza sciita è stata spesso oggetto di repressione da parte del potere sunnita. In queste condizioni la visione dolorista ofriva una giustiicazione al permanere delle repressioni antisciite e consolava il credente con la promessa di una ricompensa nell’aldilà11. D’altra parte, la dottrina sciita contempla la possibilità della dissimulazione della propria fede (taqiyya) di fronte a una minaccia grave e imminente12. Meno frequentemente, l’esempio di Hussein, riletto in termini non pietistici, poté fornire una giustiicazione a singole rivolte e insurrezioni sciite contro governanti giudicati illegittimi e associati alla igura storica dell’«iniquo» Yazid. 11. Khosrohavar [2002, trad. it. p. xi] nota con perspicacia che «nella visione sciita, il martire ha i tratti di quella “santità perdente” che si ritrova, per ragioni storiche simili, nell’Europa del sudest». Nei Balcani, infatti, i martiri sono tradizionalmente oggetto di un culto del dolore. 12. È interessante notare che la dottrina della taqiyya poggia sull’idea della preminenza della preservazione della vita del credente e della comunità: a un fedele sciita è consentito di ingersi sunnita pur di sopravvivere a una persecuzione. Questa idea sembra contrastare nettamente con le ragioni della pratica del martirio, tanto più del martirio ofensivo (cfr. merari [1990, p. 197]; kramer [1991, p. 32]).

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Chiaramente il martirio di Hussein si presta a letture diferenti a seconda delle circostanze. Da una parte, può condurre alla rassegnazione e all’inerzia, come è accaduto solitamente nel passato. Dall’altra, può spronare al combattimento sino alla morte. Nella seconda metà del Novecento la tradizionale visione pietista del martirio lasciò spazio a una moderna visione attivista dal carattere fortemente politico. Questa trasformazione è ben visibile nell’Iran degli anni ’70. La visione tradizionale attribuisce a Hussein qualità sovrumane e perciò inimitabili: egli deve essere venerato, ma non può essere un modello di condotta nella vita reale. Le nuove interpretazioni che ioriscono negli anni ’60 e ’70 sotto il regime autoritario dello Shah Mohammad Reza Pahlavi mettono l’accento sull’umanità di Hussein; egli decise coscientemente di afrontare il potere soverchiante del nemico, pur di riiutare compromessi umilianti. Questa nuova visione lo rende ancora più degno di lode e, soprattutto, lo trasforma in un modello concreto da imitare nella lotta politica. Nelle esegesi contemporanee Hussein è addirittura una guida che chiama i discepoli a seguirlo piuttosto che ad ammirarlo e piangerlo. Agli occhi di Ali Shariati (1923-1975), inluente pensatore iraniano, aliere di uno «Sciismo rosso» imbevuto di marxismo, Hussein è addirittura un personaggio rivoluzionario. Khomeini impiegò abilmente la retorica del martirio per mobilitare le masse durante la Rivoluzione islamica del 1979 e, ancor più, durante la successiva guerra con l’Iraq (1980-1988). Dalla tradizionale idea del martirio come gesto religioso di devozione, soferenza e rassegnazione di portata comunitaria si passò alla nuova idea di un atto di rilevanza politica per il riscatto e la rigenerazione dell’individuo e della nazione (khosrokhavar [2002]; dorraj [1997]). Come accennato in precedenza, la retorica del martirio ispirò le «ondate umane» di giovani iraniani che si immolarono nel corso della guerra contro l’Iraq. Con l’aiuto dell’Iran khomeinista, negli anni ’80 questa visione moderna del martirio approdò in Libano, dove per la prima volta si manifestò nella forma di attacchi suicidi

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con inalità terroristiche. Il senso della pratica sciita del martirio fu deinitivamente riletto, quasi capovolto, saldandosi all’elemento della violenza contro l’«infedele». Come Martin Kramer [1991, p. 32] sottolineava oltre vent’anni fa: Per un millennio lo sciismo nella sua formulazione predominante fu il credo di una minoranza oppressa e diferì l’obbligo di condurre il jihad «sulla strada di Dio» alla ine escatologica dei tempi. Nota per la sua passività e inerzia rispetto alla maggioranza dell’Islam sunnita, la tradizione sciita si basava sulla soferenza che redime e i suoi seguaci in maggioranza esercitavano violenza solo su stessi in un rito annuale di penitenza attraverso l’auto-lagellazione. Le circostanze storiche trasformarono la morte ingiusta dell’Imam Husain in una chiamata al pentimento interiore piuttosto che alla vendetta sanguinosa. Né la tradizione sciita spronava al martirio. La ricerca del martirio veniva considerata la dottrina eretica dei dissidenti estremisti, non il dovere dei veri credenti. A questi ultimi era imposto di sopravvivere e persino di rinnegare la fede se posti di fronte alla prospettiva della persecuzione. In nessun luogo ciò fu più chiaro che in Libano. Sino a questo secolo [il Novecento], gli sciiti non osavano celebrare l’anniversario del martirio dell’Imam Husain attraverso processioni pubbliche e auto-lagellazioni, come in Iran. Al contrario, si incontravano al sicuro dietro porte chiuse, dove la loro alizione assumeva la forma di una recitazione addolorata del racconto del martirio. […] Il passaggio dal pianto all’auto-lagellazione è stato soltanto un primo passo. La comunità sciita libanese sta strappando via gli strati della restrizione pia alla violenza, accumulata nel corso del tempo e deposta nei libri dei teologi di un tempo.

Con la comparsa nell’area del conlitto israelo-palestinese nella prima metà degli anni ’90, il metodo degli attacchi fece il suo ingresso nel mondo sunnita. Sotto il proilo dell’elaborazione culturale e simbolica, saliente è sempre la rivisitazione dell’idea di martirio. Nel Corano la nozione di martirio fa riferimento alla sola testimonianza e non alla morte per la fede. Probabilmente durante il vii secolo il termine «martire» (in arabo shahīd) giunse a indicare esplicitamente la morte sacra

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(khosrokhavar [2002, capitolo 1]) e nel corso del tempo inì per designare anche il fedele musulmano che cade sul campo di battaglia nella lotta contro gli infedeli: il martire combattente, «sulla Via di Allah» (i sabīl ‘allah, secondo l’espressione coranica). A diferenza di quanto avviene nella tradizione cristiana del martirio «passivo», la violenza è esercitata da entrambe le parti. In questo ambito appare cruciale il tema della rideinizione sociale della pratica del martirio (in arabo shahāda) o del cosiddetto «auto-martirio» (istishhād) in contrapposizione al comune suicidio (intihār), gesto considerato socialmente riprovevole e proibito dall’Islam (rosenthal [1946]). Nella tradizione sunnita l’idea di martirio si salda con una visione radicale dell’idea di jihad. La nozione di jihad (jihād), letteralmente «sforzo» in arabo, si è prestata a interpretazioni diferenti nella storia dell’Islam (bonner [2004]). I commentatori classici distinguevano solitamente due tipi di jihad, il grande jihad (jihād al-akbār) inteso come lotta individuale contro il peccato e il piccolo jihad (jihād al-asgār) che include le attività missionarie e l’impegno in conlitti armati. Alla seconda accezione è associata la divisione del mondo in due parti fondamentali, elaborata dalla giurisprudenza classica: da un lato, la «casa dell’Islam» (dār al-islām), costituita dai territori sottoposti al dominio politico e giuridico dell’Islam, dove i musulmani possono praticare liberamente la religione; dall’altro, la «casa della guerra» (dār al-harb), composta dai territori che non sono sotto il controllo dell’Islam. Il jihad come conlitto armato può essere dichiarato per difendere l’Islam quando è minacciato dall’ofensiva degli infedeli; in questo caso, ogni musulmano è obbligato a prenderne parte personalmente, in osservanza di un dovere religioso individuale (fard al-‘ayn). Nondimeno il jihad può essere dichiarato anche per garantire l’espansione dell’Islam, in funzione ofensiva; allora la partecipazione al conlitto costituisce un dovere collettivo (fard al-kifāya) per la «nazione» islamica (umma) nella sua interezza e il musulmano può rinunciarvi a titolo personale purché assista la umma con la fornitura di beni e servizi.

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L’idea del martirio al servizio di un jihad (armato) difensivo è stata sfruttata da gruppi di ispirazione islamistanazionalista che si sono opposti ad avversari appartenenti ad altre religioni nell’ambito di conlitti di portata locale, come Hezbollah contro forze israeliane (ebrei) e occidentali (cristiani); Hamas e il Jihad Islamico palestinese contro gli israeliani (ebrei); i ribelli ceceni contro i russi (cristiani). In tempi più recenti, con l’affermazione della rete di al-Qaida, l’uso degli attacchi suicidi in un presunto jihad difensivo è stato rilanciato da seguaci dell’ideologia salaitajihadista (moghadam [2008, capitolo 3]; cfr. anche cook [2009]). Questa ideologia rappresenta una frangia estremista dell’ampia corrente sunnita del Salaismo, che comprende anche il Wahabismo. In generale, i salaiti si dedicano alla propaganda religiosa (da‘wa), impegnandosi prevalentemente in attività di predicazione, di indottrinamento e caritatevoli, alla luce di un’interpretazione letteralista e legalista del Corano e della Sunna, che avversa le innovazioni (bid‘a) religiose e le consuetudini devozionali, così come il pensiero razionalista; al centro della loro dottrina vi è una concezione integralista e radicale dell’unità e unicità di Allah (tawhīd). I salaiti reclamano il ritorno alla (presunta) purezza originaria dell’Islam: il termine al-salaf al-sālih, «i pii antenati», indica proprio le prime tre generazioni di musulmani. I gruppi salaiti non violenti di norma riiutano l’impegno in politica. I salaiti-jihadisti sono una piccola minoranza radicale che si avvale della violenza politica. L’ideologia salaita-jihadista, difusasi durante la lotta in Afghanistan contro l’occupazione sovietica, combina l’integralismo islamico con l’impegno obbligatorio nel jihad armato contro gli «apostati» e gli «infedeli», prendendo di mira anche i civili. Sulla scorta di alcuni pensatori radicali, come l’egiziano Muhammad Abd al-Salam Faraj (giustiziato nel 1982 per il coinvolgimento nell’assassinio di Sadat), i salaiti-jihadisti accordano al dovere del jihad contro i governanti «tiranni», che non applicano la legge religiosa, una rilevanza pari a quella dei cinque pilastri dell’Islam. Inoltre, i settori più estremisti di questo mo-

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vimento (cui può essere ricondotta al-Qaida), accentuando alcuni insegnamenti dell’inluente intellettuale Sayyid Qutb (impiccato in Egitto nel 1966), si arrogano il diritto-dovere di dichiarare «apostati» i correligionari che non approvano le loro credenze (una pratica chiamata takfīr) e addirittura il diritto-dovere di punirli con la morte (hafez [2011]). In generale, l’uso sistematico degli attacchi suicidi è spesso favorito dalla costruzione sociale di una vera e propria «cultura del martirio». Di norma essa non emerge spontaneamente «dal basso», ma viene promossa attivamente «dall’alto» dai gruppi armati responsabili degli attacchi suicidi. Ciò non signiica che il ruolo della società di riferimento sia trascurabile. Da un lato, i gruppi spesso si avvalgono in maniera selettiva e creativa di elementi e forme culturali che sono già presenti nelle società da cui provengono. Dall’altro, hanno bisogno che la cultura del martirio da essi promossa venga riconosciuta e accettata da una parte signiicativa delle società di appartenenza. Chiaramente condizioni politiche particolari, come la presenza di un conlitto sanguinoso e prolungato, facilitano l’adozione di queste forme culturali. La difusione di una cultura del martirio all’interno di una determinata società è spesso graduale. Per esempio, Hezbollah portò a termine i primi attacchi suicidi nella massima segretezza e riiutò la paternità della violenza. L’organizzazione libanese attese qualche anno prima di promuovere pubblicamente il nuovo metodo delle «operazioni di martirio». A questo proposito vale la pena di citare un episodio eloquente: l’11 novembre 1982 il quindicenne Ahmad Qasir sacriicò deliberatamente la propria vita in una missione segreta guidando un’auto-bomba contro una base militare israeliana nella città di Tiro. Soltanto due anni e mezzo più tardi Hezbollah rivelò quale fosse stata la sorte del ragazzo: la igura di Qasir divenne presto un’icona della resistenza sciita (pedahzur [2005, pp. 118-119, 159-161]). La cultura del martirio si riproduce e difonde attraverso processi di socializzazione. Nell’ambito del terrorismo suicida di tipo locale questi processi possono giungere a interessare

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le principali agenzie di socializzazione: dalla famiglia alla scuola, dal gruppo dei pari alle relazioni nel luogo di lavoro. In aree come i Territori palestinesi e il Libano i «martiri» rappresentano igure familiari per la popolazione, oggetto di conversazione quotidiana: vengono ritratti ed evocati in poster, fotograie e murali esposti in pubblico, appaiono in televisione e sugli altri media, danno il nome a vie, scuole e ospedali, sono commemorati e celebrati in apposite cerimonie e manifestazioni pubbliche (cfr. allen [2006])13. Come illustra il caso del fondamentalismo islamico, l’ideologia e la simbologia religiosa sono particolarmente adatte alla formazione di una cultura del martirio perché possono includere l’idea di un sacriicio gradito alla divinità che assicura ricompense inestimabili nell’aldilà. Nondimeno, occorre ribadire che, a diferenza di quanto talvolta si pensi, la cultura del martirio può avere anche basi squisitamente laiche, nella misura in cui esalta la igura dell’eroe che sacriica la propria vita per la collettività cui appartiene: per esempio, la violenza suicida delle ltte in Sri Lanka, pur esibendo occasionali richiami retorici alla tradizione induista, non era motivata dalla religione né implicava alcuna giustiicazione di natura teologica. Come detto, le Tigri Tamil rappresentarono per lungo tempo il più importante gruppo responsabile di attacchi suicidi nel mondo. Oltretutto questa forma di violenza è stata impiegata da organizzazioni laiche anche in società a maggioranza musulmana; basti pensare al partito nazionalista Fatah e alle formazioni marxiste del fplp e del pkk14.

13. È interessante notare che nei Territori palestinesi le commemorazioni spesso sono annunciate e organizzate come matrimoni, da festeggiare gioiosamente, con tanto di distribuzione di dolci ai partecipanti. Secondo alcuni osservatori, in quelle occasioni non mancano riferimenti all’incontro dei «martiri» con le huri del paradiso islamico (tra gli altri, moghadam [2003, p. 73]). 14. Nondimeno occorre riconoscere che negli ultimi anni anche le organizzazioni di matrice laica si sono avvalse sempre più spesso di espressioni e simboli di origine religiosa, quantomeno per ragioni propagandistiche: cfr. Frisch [2005b] sul caso di Fatah in Palestina.

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3.2 Fattori religiosi Il tema del rapporto tra terrorismo suicida e religione è controverso e delicato. Non sorprende che abbia sollevato un dibattito vivace, con diverse letture e posizioni, non soltanto nell’arena accademica. Nell’opinione corrente gli attacchi suicidi sono spesso associati al fondamentalismo islamico. Nell’ambito del confronto scientiico il ruolo delle credenze religiose è stato enfatizzato da alcuni studiosi (per esempio, moghadam [2008]), ridimensionato da altri (per esempio, pape [2005]). A ben guardare, il ruolo della religione varia da caso a caso. Nei precursori storici, come i Sicari e gli Assassini, l’estremismo religioso, non privo di slanci millenaristici, era un fattore rilevante. Al contrario, le missioni suicide degli anarchici e dei rivoluzionari russi a cavallo tra Ottocento e Novecento non furono ispirate dalla religione, anche se alcuni membri di questi movimenti si servirono di espressioni e simboli di origine cristiana. Per quanto riguarda il terrorismo suicida in senso proprio, la questione del ruolo della religione appare complessa. Alcuni anni fa, in un importante volume sull’argomento, Gambetta [2006a, p. 261, corsivo nel testo], sulla scorta di un database originale degli attacchi suicidi eseguiti dal gennaio 1981 al settembre 2003, osservava: Mentre nessuna religione a parte l’Islam è direttamente coinvolta nelle missioni suicide, le missioni di ispirazione islamica contano solo per il 34,6% del totale […] le missioni suicide non sono soltanto vestite con abiti clericali, ma mostrano anche bandiere, uniformi e barbe rivoluzionarie. Infatti più di metà delle missioni complessive nel mondo, anche se si escludono gli anarchici e i kamikaze e si prende in considerazione solo il periodo compreso tra il 1981 e il settembre 2003, è stata eseguita da gruppi laici.

La maggioranza degli attacchi suicidi eseguiti negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, in un’epoca in cui il terrorismo suicida

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era prevalentemente di tipo locale, può essere ricondotta a rivendicazioni e motivazioni essenzialmente laiche. In efetti i gruppi armati non devono necessariamente rifarsi a una religione per abbracciare il metodo degli attacchi suicidi; e pure gli attentatori suicidi, come visto, possono avere motivazioni puramente laiche per ofrire la propria vita. La pratica del martirio può essere promossa, riconosciuta e accettata anche in termini secolari, senza che vi sia l’esigenza di chiamare in causa (presunti) comandi divini e ricompense nell’aldilà. Cionondimeno il quadro va osservato da distanza ravvicinata, tenendo in considerazione gli sviluppi più recenti; è innegabile, infatti, che negli ultimi anni, in corrispondenza con l’afermazione del terrorismo di tipo transnazionale, la maggioranza degli attacchi suicidi sia stata realizzata da organizzazioni di ispirazione islamista o jihadista15. D’altra parte, se si prende in esame la storia del sacriicio di sé nel terrorismo moderno, si può ravvisare una crescente rilevanza dei fattori religiosi16. In termini schematici, la religione ha dapprima rappresentato un semplice repertorio di simboli, immagini e modelli potenti e di intenso impatto emotivo a disposizione dei gruppi armati; è poi diventata un elemento saliente per deinire l’identità collettiva della società che i gruppi armati hanno preteso di rappresentare; e inine, come sistema di valori e di pratiche (henne [2012]), ha costituito un importante fattore che ha ispirato e giustiicato l’uso degli attacchi suicidi. Gli anarchici e i rivoluzionari russi, responsabili dei primi attacchi suicidi della storia del terrorismo moderno, non di rado adottarono toni di carattere religioso. In particolare, gli anarchici non esitarono a servirsi di numerosi simboli ed espressioni di origine cristiana per giustiicare i loro gesti di 15. Per esempio, secondo dati forniti da Merari, ben il 98% degli attacchi suicidi realizzati dopo l’11 settembre 2001 (e sino alla ine del 2006) è stato realizzato da musulmani, in prevalenza appartenenti a organizzazioni di matrice fondamentalista (citato in barbagli [2009, p. 352]). 16. Si riprendono qui alcune rilessioni presentate in Marone [2013].

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sacriicio, nonostante le posizioni anticlericali e non di rado dichiaratamente atee del movimento. Essi furono ben consapevoli del potere simbolico ed emotivo dell’immaginario cristiano, specialmente in relazione ai temi del sacriicio di Gesù Cristo e della ine dei tempi (gabriel [2007]; cfr. anche mckinley [1987, specie p. 400]). Nell’ambito del terrorismo suicida di tipo locale, si può rilevare che anche nell’azione delle organizzazioni che si proclamano e vengono generalmente riconosciute come «religiose» (in particolare, Hezbollah in Libano, Hamas e il Jihad Islamico nei Territori palestinesi) è possibile rintracciare obiettivi strategici di natura politica, non dissimili da quelli perseguiti dalle corrispettive organizzazioni laiche. In questi casi si può sostenere, pur con la necessaria cautela, che istanze di matrice etno-nazionalista assumono stili e forme di derivazione religiosa (in specie islamista). Nel conlitto israelo-palestinese, per esempio, la commistione tra queste due sfere (politica e religione), a seguito di un percorso storico abbastanza lineare, è relativamente chiara: la liberazione della Palestina, inizialmente perseguita da gruppi laici, è rimasta una causa di natura essenzialmente politica anche quando, più tardi, sono entrati in scena attori di matrice islamista. Nel terrorismo suicida di tipo locale, dove l’obiettivo strategico della violenza è la liberazione di un territorio circoscritto, la religione acquista rilevanza principalmente come fattore che deinisce l’identità collettiva dei gruppi armati e della società di riferimento. In questo caso la natura del conlitto è essenzialmente politica, anche se in aree come il Libano e i Territori palestinesi l’Islam esercita un’inluenza pubblica pervasiva e può essere invocato per giustiicare la violenza, in forza di interpretazioni estremiste. In particolare, i precetti e i dettami imposti dalla singola religione possono essere meno rilevanti della diferenza di religione tra i responsabili e i sostenitori della violenza, da un lato, e le vittime, dall’altro. Basta ricordare i conlitti tra musulmani ed ebrei/cristiani in Libano, tra musulmani ed ebrei nell’area israelo-palestinese, tra induisti e buddisti in Sri Lanka, tra

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sikh e induisti in India, tra musulmani e cristiani in Cecenia, tra sunniti e sciiti in Iraq e in altri Paesi. Come Pape [2005, p. 87] ha rimarcato, «la religione normalmente è un fattore più escludente di altre diferenze nazionali (con l’eccezione della razza) sotto condizioni di occupazione e così spesso diventa la principale linea di demarcazione tra l’occupante e la comunità locale». In efetti la diferenza di religione può ridurre lo spazio per il compromesso tra le due parti perché può presentare il conlitto come un gioco a somma zero, può favorire la demonizzazione estrema degli «infedeli» e può legittimare la pratica del martirio, consentendo di superare la proibizione del suicidio (ivi, pp. 88-92). Come il fondamentalismo islamico mette in evidenza, la tradizione, il simbolismo e l’immaginario di una religione possono essere sfruttati eicacemente per promuovere una cultura del martirio poiché includono già una nozione di sacriicio di sé legittimo e nobile nella forma del martirio. Secondo Pape, la diferenza di religione gioca un ruolo decisivo anche nell’operato delle organizzazioni laiche, come dimostrerebbe il caso del conlitto tra le ltte (laiche, ma di estrazione induista) e il governo cingalese (rappresentante della maggioranza buddista del Paese). Pape, per esempio, attribuisce grande importanza al fatto che questo gruppo armato non abbia realizzato attacchi suicidi contro l’esercito indiano, composto in prevalenza da induisti, che si è interposto tra le parti in lotta in Sri Lanka dal 1987 al 1990, nonostante la brutalità del suo intervento contro la popolazione tamil. Si potrebbe obiettare che Pape trascura il clamoroso attentato suicida, generalmente attribuito alle ltte, che costò la vita all’ex primo ministro indiano e induista Rajiv Gandhi nel 1991 (fu proprio Gandhi a ordinare l’intervento di peacekeeping in Sri Lanka nel 1987). In realtà, almeno nel caso tamil, l’intera interpretazione fondata sulla diferenza di religione appare abbastanza debole: il conlitto in Sri Lanka, basato in gran parte su una costruzione sociale delle diferenze etniche piuttosto recente, è più complesso di quanto l’opposizione induisti/buddisti possa far credere (cfr. bloom [2005, ca-

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pitolo 3]). Non mancano, poi, vere e proprie eccezioni alla «regola» della diferenza di religione, anche nell’ambito del terrorismo suicida di tipo locale: si pensi, in particolare, al caso del pkk che lotta per l’indipendenza di un popolo a maggioranza sunnita (i curdi) portando a termine attacchi, anche suicidi, contro destinatari della stessa confessione religiosa (i turchi)17. A ben guardare, la diferenza di religione diventa saliente quando viene invocata e «attivata» politicamente dalle parti in conlitto. In questo senso, Robert J. Brym [2008, pp. 9798] ha messo in rilievo che in Iraq «il tasso di matrimoni misti tra sunniti e sciiti era elevato prima del 2003 [anno dell’invasione del Paese guidata dagli Stati Uniti], specialmente nelle aree urbane, e numerose tribù avevano rami sia sunniti sia sciiti. […] Di fronte a un tale livello di coesione tra i gruppi, i soggetti politici che hanno tratto vantaggio dalla discordia hanno dovuto orchestrare attentamente il conlitto settario – accentuare i conini tra i gruppi e alimentare l’antagonismo. Bisogna fare una gran mole di lavoro per accendere i conlitti “primordiali”». La religione assume un peso maggiore nel terrorismo suicida di tipo transnazionale, esempliicato dalla rete di alQaida attiva in varie aree del mondo. Qui religione e politica sembrano essere strettamente intrecciate18. Da una parte, non si può argomentare che questi gruppi e movimenti abbiano un carattere esclusivamente religioso e non intrattengano alcun rapporto con la politica. Per rilettere sulla natura del «terrorismo religioso puro» (a patto che questa espressione sia ancora proicua) può essere utile pensare all’esempio storico dei hug in India, in cui gli atti di violenza rappresentano

17. D’altra parte, come rilevato in precedenza, i gruppi armati nord-irlandesi non si sono avvalsi del metodo degli attacchi suicidi, nonostante la diferenza di religione tra cattolici e protestanti. 18. D’altro canto, è opportuno sottolineare che la distinzione tra terrorismo «religioso» e terrorismo «laico» è problematica sul piano dell’osservazione empirica (gunning, jackson [2011]).

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soltanto forme di sacriicio alla dea Kali in una relazione triadica uccisore/vittima/divinità (rapoport [1984]) in cui non c’è spazio per la dimensione politica (il pubblico): in casi di tal fatta gli attacchi non hanno presumibilmente alcuna valenza politica. All’opposto, nell’attività di al-Qaida e degli altri gruppi salaiti-jihadisti è facile ritrovare una più consueta relazione triadica uccisore/vittima/pubblico, tipica del terrorismo politico, nonostante il richiamo alla divinità. Gli scopi perseguiti dalla rete di al-Qaida possono essere intesi in termini politici. Essa, in primo luogo, si preigge obiettivi relativi alla natura del regime politico dei Paesi a maggioranza musulmana: infatti intende rovesciare i regimi laici e «apostati» per sostituirli con «Stati islamici» fondati su un’interpretazione radicale della sharia. In secondo luogo, manifesta pretese riguardanti la natura della comunità politica, coma la liberazione dei Paesi a maggioranza musulmana dall’occupazione o dall’inluenza degli Stati Uniti e dei loro alleati19. A questi due obiettivi strategici si può aggiungere una terza componente «imperialistica», legata al proposito aggressivo e massimalista di espandere il «dominio islamico» nelle terre che in passato sono state conquistate e governate da musulmani (tosini [2007, pp. 72-74]). Come detto in precedenza, in alcune aree, come l’Iraq e il Pakistan, la rete di al-Qaida persegue anche scopi settari di carattere vigilante. A ben guardare, nell’uso della violenza questo movimento radicale non è afatto insensibile all’analisi dei costi e dei beneici in termini politici (cfr. sedgwick [2004]). D’altra parte, a questi obiettivi strategici di carattere politico sono intrecciati, in un groviglio apparentemente inestricabile, rivendicazioni, linguaggi e stili di matrice tipicamente religiosa. La rete di al-Qaida, sulla scorta di interpretazioni estremiste dell’Islam, si considera impegnata in una sorta di 19. È opportuno ribadire che la rete di al-Qaida non presenta motivazioni etniconazionaliste di carattere tradizionale; al contrario, si proclama avanguardia di tutti i «veri credenti» e intende rivolgersi all’intera umma a livello globale (tra gli altri, cfr. khosrokhavar [2002]).

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«guerra universale» (juergensmeyer [2001, trad. it. capitolo 8]) all’interno della quale crede di rappresentare le forze del bene in lotta contro quelle del male. In breve, essa interpreta espressamente il conlitto in termini principalmente religiosi. Oltretutto, seguendo i principi della corrente salaita, rigetta la divisione stessa tra politica e religione, attribuendo la sovranità assoluta esclusivamente ad Allah (hakimiyya ‘allah). Senza cadere nell’errore di reiicare una civiltà religiosa assai ampia, mutevole e complessa, si può osservare che azioni come gli attacchi suicidi possono essere favorite, in qualche misura, ma certo non determinate, da alcuni tratti della dottrina e della storia dell’Islam, come la distinzione ambigua tra religione e politica, l’insistenza sul messaggio religioso per trasformare la società in questo mondo (già sottolineata da Max Weber), la centralità dell’«ortoprassi» (rispetto all’ortodossia) (cfr. pace [2004]). Cionondimeno cruciale è la capacità dei gruppi armati di rileggere creativamente e selettivamente alcuni aspetti della tradizione islamica e di rendere credibile tale rilettura agli occhi di militanti e simpatizzanti, anche attraverso un’accorta operazione di costruzione di cornici interpretative (framing). Non è quindi la natura dell’Islam in sé a incoraggiare l’uso degli attacchi suicidi, ma la mobilitazione e l’uso di questa religione come forma radicale di ideologia («Islam politico»), specialmente in risposta a rivendicazioni che si levano dalle società musulmane contemporanee (cfr. henne [2012]). Ne è prova il fatto che il metodo degli attacchi suicidi sia emerso soltanto negli ultimi decenni, molti secoli dopo la nascita di questa grande religione (cfr. brym [2008]). Nel terrorismo suicida di tipo transnazionale la diferenza di religione è meno rilevante di quanto sia nel tipo locale. In particolare, la rete di al-Qaida, proclamatasi avanguardia dell’Islam sunnita, per quanto in una versione estremista, ha diretto numerosi attacchi suicidi contro altri musulmani e persino contro altri musulmani sunniti. È da notare che gli attacchi suicidi contro civili sunniti sono apparsi spesso come atti talmente estremi e spropositati da costituire una

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mossa controproducente per gli stessi fautori della violenza (cfr. kepel [2004]). Per comprendere il fenomeno, apparentemente insensato, della violenza jihadista contro i correligionari, occorre richiamare alcuni sviluppi del radicalismo sunnita: in sintesi, una versione estremista del «risveglio islamico» del Novecento, riconducibile, in parte, al pensiero di Qutb (1906-1966), tende a sostituire alla tradizionale separazione tra i territori della umma (comunità musulmana), il dār al-islām e i territori non islamici, il dār al-harb, la nuova opposizione, interna all’Islam stesso, tra i «veri credenti», di cui questi movimenti estremisti pretendono di essere i rappresentanti, e la restante parte degli «apostati» e «infedeli», ponendo così i presupposti per una sorta di guerra civile tra musulmani (in arabo itna, letteralmente «discordia», «sconvolgimento») (cfr. kepel [2004]). In altri termini, il gruppo esterno (outgroup), cui questi gruppi si oppongono con la violenza, include non soltanto i membri di altre religioni (gli «infedeli»), ma anche i correligionari che non condividono la particolare interpretazione della religione professata da questi gruppi estremisti (gli «apostati»). In deinitiva, la relazione tra attacchi suicidi e diferenza religiosa non è così stretta come Pape sostiene. Certamente la religione può raforzare ed esasperare le divisioni tra gruppi etnici (fox [2000]), anche in virtù del suo carattere esclusivo: come ha notato lo stesso Pape [2005, pp. 87-88], un individuo può parlare due lingue, ma diicilmente può appartenere a due confessioni religiose20. Nondimeno il metodo degli attacchi suicidi non è stato usato per colpire soltanto soggetti appartenenti ad altre religioni. 20. Un’eccezione degna di nota è lo Scintoismo in Giappone. Come ha sintetizzato Hill [2006, p. 13] nella sua analisi delle missioni suicide dei Kamizake, «la religione in Giappone è un fenomeno che crea confusione poiché quasi tutti i giapponesi formalmente sono al contempo buddisti e scintoisti. Si dovrebbe anche aggiungere che i valori confuciani come la pietà iliale, il rispetto per l’autorità e l’educazione e la diligenza erano, e sono ancora, importanti fattori culturali in Giappone. Non c’è in Giappone alcuna concezione dell’adesione esclusiva ad una fede religiosa». Si veda anche Pape [2005, p. 291 nota 20].

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Nell’ambito del terrorismo suicida di tipo transnazionale, la costruzione del martirio spesso non è legata a una solida relazione triangolare tra attentatore, organizzazione violenta e comunità di sostegno nell’ambito di una determinata area geograica. I dirigenti dei gruppi armati, i militanti e i simpatizzanti non di rado sono connessi a livello transnazionale per mezzo di sistemi moderni di comunicazione, in particolare la rete di internet. Ai loro occhi questa comunità virtuale può realizzare quella umma monolitica ed egualitaria che essi idealizzano. Si può sostenere che la crescita di rilevanza e visibilità dei fattori religiosi nelle forme di sacriicio di sé e, in particolare, nel terrorismo suicida contemporaneo sia in dissonanza con una visione classica della modernità come plasmata da processi lineari di razionalizzazione e di secolarizzazione (marone [2013]; cfr. anche smith [2008]). In efetti la difusione degli attacchi suicidi di ispirazione religiosa è in sintonia con il ben noto processo di revival della religione o, com’è stato anche chiamato, di «desecolarizzazione del mondo» (berger [1999]) che interessa molti fenomeni e aspetti della nostra epoca. La desecolarizzazione è un processo complesso che include la riduzione della diferenziazione degli ambiti laici dalle istituzioni e norme religiose, la ripresa delle credenze e delle pratiche religiose e il ritorno della religione nella sfera pubblica («deprivatizzazione della religione») (karpov [2010]). Una grande quantità di argomentazioni e di evidenze empiriche ha mostrato che la modernizzazione non conduce necessariamente al declino della religione, come assumeva la teoria classica della secolarizzazione: Peter L. Berger, a suo tempo uno dei più illustri sostenitori di tale teoria, ha dovuto ammettere che il mondo oggi è «furiosamente religioso quanto lo era prima e in alcuni luoghi più di prima» (berger [1999, p. 2]). La difusione di manifestazioni di terrorismo suicida ispirato dalla religione, in specie islamica, è connessa all’ascesa del fondamentalismo religioso ed è parte di un più ampio processo di proliferazione della violenza religiosa (tra gli altri,

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juergensmeyer [2001]). Numerosi conlitti sono sempre più presentati e percepiti in termini religiosi: il conlitto israelopalestinese è un esempio eloquente in questo senso. D’altra parte, è superluo sottolineare che l’estremismo di origine religiosa rappresenta soltanto il «lato oscuro» di un revival religioso di portata ben più ampia. Nel campo della politica internazionale l’avanzata del terrorismo di ispirazione religiosa in molte aree del mondo costituisce un’importante manifestazione di quello che è stato chiamato il «ritorno della religione dall’esilio» (hatzopoulos, petito [2003]), un elemento rilevante generalmente «trascurato» sino a pochi anni fa (fox [2001]). Infatti l’instaurazione dell’ordine internazionale westfaliano, sorto dalle guerre di religione europee, ha condotto all’espulsione o quantomeno alla depoliticizzazione dell’elemento religioso nelle relazioni internazionali. Oggi nello studio della politica e dei conlitti internazionali si può chiaramente notare uno spostamento dell’interesse dagli aspetti relativi all’ideologia politica (un pilastro essenziale della Guerra fredda) a fattori che interessano l’identità, nell’ambito dei quali la religione trova un proprio posto naturale (davie [2010, p. 165]): basti ricordare, per esempio, la controversa tesi di Huntington [1996] sullo «scontro delle civiltà». In conclusione, è importante sottolineare che l’ultimo sviluppo del sacriicio di sé nella violenza terroristica, cioè il terrorismo suicida di tipo transnazionale, non rappresenta un residuo anacronistico del passato, a rischio di estinzione, ma è una parte signiicativa del mondo moderno (cfr. khosrokhavar [2002]); il terrorismo suicida di tipo transnazionale implica infatti processi moderni di erosione della tradizione, di individualizzazione e di difusione su scala globale. In primo luogo, a dispetto dei riferimenti frequenti alle fonti scritturali, alla dottrina e al passato, il fondamentalismo salaita-jihadista introduce innovazioni rilevanti: il «martirio» auto-inlitto per inalità terroristiche costituisce una rottura con la tradizione del martirio islamico (il punto è paradossale se si tiene conto della rigida avversione del Salaismo per qualsiasi innovazione religiosa).

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In secondo luogo, le «operazioni di martirio» di tipo transnazionale, promosse da movimenti di ispirazione salafita-jihadista come al-Qaida, lungi dall’essere radicate in una comunità musulmana tradizionale, rappresentano non di rado un’esperienza profondamente individualizzata (cfr. lahoud [2010]): questi atti appaiono come l’esito di una decisione estrema assunta liberamente da un individuo ossessionato dalla ricerca di autenticità in una modernità plurale priva di un chiaro centro di gravità (khosrokhavar [2002]). I «martiri» sono poi chiamati a mettere in discussione le autorità religiose tradizionali, a spezzare i rapporti con la comunità di appartenenza e persino con le famiglie di origine, a vivere in clandestinità e spesso in isolamento. In terzo luogo, organizzazioni terroristiche come al-Qaida operano su scala globale, intrecciano rapporti a livello transnazionale con gruppi e cellule con orientamenti aini in molte aree del pianeta, professano un’ideologia che non trova limiti e argini nei conini degli Stati, si aidano a media e a tecniche di comunicazione di portata globale per difondere i loro messaggi in tutto il mondo. Il ruolo delle missioni e dei trasferimenti transnazionali, delle migrazioni e delle diaspore è cruciale a questo riguardo. Al-Qaida, in particolare, non concentra il proprio interesse su un’area geograica circoscritta, ma si appella a una umma globale immaginata, che si può deinire «de-territorializzata» e persino «de-culturalizzata» nella misura in cui evoca il mito di una purezza religiosa che è costruita trascendendo le singole culture. Per certi versi, come ha scritto Olivier Roy [2010, pp. 25-26], il fondamentalismo può essere addirittura considerato come «la forma religiosa più adatta alla globalizzazione perché accetta la sua de-culturalizzazione e la rende uno strumento per la sua pretesa di universalità». Inoltre, è interessante notare che questi gruppi armati adottano con entusiasmo tecnologie e moduli organizzativi del mondo moderno. Accentuando questo aspetto, Lewis [2012, pp. 245-246] è giunto sino ad afermare:

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Negli attentati suicidi indiscriminati lanciati dal movimento jihadista globale, le persone sono diventate materiale, i legami sociali sono svalutati e le relazioni sacre sono diventate transazioni, una situazione che i critici della tecnologia moderna da Marx a Heidegger avrebbero riconosciuto e condannato. Così l’appropriazione jihadista della tecnologia moderna si estende oltre l’uso degli strumenti del mondo moderno per combattere la modernità; la mentalità jihadista è diventata anche una caricatura del mondo moderno. Questo paradosso, forse più di qualsiasi altro fattore, spiega la limitata capacità di attrazione del movimento jihadista globale persino dopo migliaia di attacchi suicidi «ispiratori».

Dall’altra parte, la posizione di al-Qaida e di altri gruppi salaiti-jihadisti è inequivocabilmente antimodernista nel senso che riiuta e si oppone alla versione occidentale della modernità. Questi gruppi, per esempio, non riconoscono la separazione tra religione e politica, riiutano l’idea di Statonazione, disprezzano il processo democratico. Il fenomeno del sacriicio di sé e del martirio ofensivo illustra bene la contrapposizione tra due visioni della modernità. In Occidente la morte è spesso vista come un evento da rinviare il più possibile attraverso la cura edonistica del corpo, un evento sempre più privato, nascosto, quando non rimosso (corradi [2009, p. 65]; cfr. elias [1982; 1985]). Oltretutto, da un punto di vista occidentale, gli attacchi suicidi combinano due tipi di «morte cattiva» (bad death) – il suicidio e l’omicidio – generalmente considerati «anormali» e socialmente stigmatizzati (hassan [2011, pp. 79-83]). La contrapposizione con la fascinazione per la morte e la gloriicazione pubblica dell’autodistruzione per una causa «superiore» tipiche del terrorismo suicida non potrebbe essere più evidente. 4. Il ruolo della comunità di sostegno Larga parte delle condizioni ambientali appena delineate fa capo a una comunità di sostegno che i gruppi armati preten-

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dono di rappresentare. Comprensibilmente l’organizzazione ribelle necessita del sostegno di una parte della propria società di riferimento per reperire le risorse utili a condurre la lotta armata: risorse umane, economiche, materiali, logistiche, di conoscenze e informazioni (cfr. paul [2010]). Resta da spiegare perché settori, talora ampi, della popolazione sostengano organizzazioni che ricorrono sistematicamente alla violenza politica, anche nella forma estrema degli attacchi suicidi (tanto più contro obiettivi civili). In primo luogo, nel contesto di un conlitto asimmetrico, ampli strati della società possono condividere non soltanto gli scopi perseguiti dalle organizzazioni violente, ma anche i mezzi impiegati, compresi i più estremi. L’idea che le campagne di attacchi suicidi possano garantire dei successi politici vantaggiosi per tutta la società di riferimento non fa che raforzare il sostegno per questa forma di violenza. Come ha evidenziato Domenico Tosini [2007, pp. 99-100]: Anche la comunità può arrivare a condividere l’idea che la violenza, anche nelle sue forme estreme come le missioni suicide, sia un mezzo adeguato per sconiggere le forze straniere. Questa convergenza è agevolata qualora l’organizzazione possa vantare qualche merito nella scelta di questa tattica. Una possibilità è che i leader del gruppo abbiano già conseguito qualche successo dovuto alle missioni suicide. […] Il problema è che non tutti i gruppi che usano il terrorismo suicida hanno alle spalle questi successi. In tal caso, una soluzione è richiamare i successi di altri gruppi e giocare questa carta per ottenere l’appoggio della comunità. È questa una forma di apprendimento interorganizzativo, che porta alla difusione di una tattica che prima era localizzata in una sola regione.

In attesa dei successi politici evocati dalle organizzazioni, la comunità di sostegno deve sostenere costi considerevoli nel corso di campagne di violenza impegnative e non di rado durature. La comunità va incontro a gravi perdite per il sacriicio personale dei suoi membri, oltre che per il rischio di rappresaglie da parte del nemico.

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Alcuni gruppi armati decidono così di fornire delle risorse materiali sotto forma di beni e servizi di assistenza alla popolazione, ancor più attraenti in una situazione di grave privazione connessa al perdurare del conlitto. Hezbollah, Hamas e le Tigri Tamil (queste ultime sino al 2009) gestiscono una vasta e capillare rete di iniziative e servizi sociali che vanno dall’assegnazione di «sussidi di disoccupazione» alla costruzione di scuole e ospedali. Queste attività possono garantire un radicato consenso sociale, anche tra coloro i quali non condividono le idee o le azioni politiche di questi gruppi radicali, tanto più in assenza di iniziative tempestive ed eicienti da parte dello Stato o di organizzazioni non governative. I servizi di assistenza alla popolazione possono costituire una forma di resistenza contro la marginalizzazione politica e sociale e, soprattutto, possono essere impiegati dalle organizzazioni terroristiche come uno strumento per conquistare e allargare il consenso sociale, favorendo o forzando l’accettazione dei metodi violenti o addirittura motivando la partecipazione attiva alla violenza (flanigan [2006]). Inoltre, l’oferta di questi beni e servizi, supplendo a quelle che dovrebbero essere le responsabilità delle autorità pubbliche, palesa la debolezza e l’ineicienza dello Stato e ne può minare la legittimità. Tra le risorse materiali oferte alla comunità di sostegno dalle organizzazioni responsabili di attacchi suicidi assume una particolare rilevanza, come accennato, il pagamento di una somma di denaro alla famiglia del «martire» come compensazione per il suo sacriicio. Le associazioni caritatevoli gestite da organizzazioni terroristiche possono avere anche il compito di raccogliere o trasferire inanziamenti per le attività violente. Non di rado queste sovvenzioni provengono clandestinamente dall’estero e sono elargite da Stati che sponsorizzano la violenza (come l’Iraq di Saddam e l’Iran per le organizzazioni radicali palestinesi), da comunità della diaspora (come le comunità di tamil emigrati per le ltte) o da semplici donatori privati. Le organizzazioni responsabili di attacchi suicidi possono ofrire anche delle ricompense simboliche, come l’e-

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spressione di apprezzamento e considerazione alla memoria del «martire» e alla sua famiglia. Ciò assicura un’elevazione dello status di chi ha perduto un proprio caro nel corso della missione senza ritorno. Nondimeno, l’elevazione di status e, in generale, l’oferta di ricompense simboliche sollecitata dall’organizzazione terroristica sono eicaci soltanto se una larga parte della società di riferimento riconosce e avvalora una cultura del martirio. In questo caso, l’atto di sacriicare la propria vita per uccidere altre persone appartenenti alla collettività avversaria (spesso civili inermi) viene interpretato come un gesto onorevole e addirittura doveroso di martirio. Alla base della cultura comunitaria del martirio vi è un «senso invertito della realtà» (hoffman [2006]) o, più precisamente, un processo di «normalizzazione della violenza» (tosini [2007]): la violenza, anche nella forma estrema degli attacchi suicidi, diventa uno strumento lecito e addirittura meritorio per perseguire determinate rivendicazioni politiche. In un interessante contributo Kalyvas e Sánchez-Cuenca [2006, specie pp. 221-223] hanno congetturato l’esistenza di una relazione a forma di u tra livello di sostegno a favore dei gruppi armati all’interno della società di riferimento, da un lato, e grado di estremismo della violenza terroristica (in relazione alla selezione delle vittime e ai metodi utilizzati), dall’altro. Secondo questa ipotesi, le organizzazioni terroristiche sono in condizione di avvalersi di forme di violenza estreme, come appunto gli attacchi suicidi, quando hanno ampi margini di manovra, non godendo di un livello signiicativo di sostegno sul territorio (è il caso di al-Qaida e, ancor prima, dei gruppi rivoluzionari e anarchici nella Russia zarista), oppure quando il sostegno è così elevato da ridurre i vincoli per l’azione terroristica (per esempio, Hezbollah per gli sciiti libanesi e Hamas per i palestinesi). La congettura suggerita da Kalyvas e Sánchez-Cuenca è degna di nota, ma andrebbe approfondita. Sviluppando alcuni cenni presentati dagli stessi autori, è opportuno distinguere un consenso rispetto ai mezzi da un consenso rispetto ai ini. Per esempio, nel caso dell’ira nord-irlandese, la decisione

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di non adottare forme di violenza propriamente suicide era associata a livelli non trascurabili di consenso generale da parte della società di riferimento; il punto è che questo consenso riguardava i ini della violenza, ma non si estendeva incondizionatamente ai mezzi impiegati, come dimostrò la reazione negativa della comunità di sostegno cattolica ai casi di missioni forzate citati in precedenza. Per quanto riguarda al-Qaida, occorre sottolineare che essa non può contare sul sostegno diretto di una comunità residente in un determinato territorio, come avviene nel caso di Hezbollah, di Hamas, delle ltte e di molti altri gruppi armati. Da un lato, al-Qaida è un’organizzazione transnazionale che non fa riferimento a una particolare comunità nazionale, portatrice di interessi e rivendicazioni speciici. Dall’altro lato, essa non attribuisce grande importanza alla partecipazione delle masse. L’organizzazione si considera un’avanguardia della umma musulmana21, non prende parte ad attività pubbliche (caritatevoli, educative, elettorali, ecc.), ma si aida principalmente allo strumento della violenza politica. È signiicativo il fatto che essa non si sia mai impegnata risolutamente nella creazione di strutture di assistenza alla popolazione, anche quando ha avuto l’opportunità di operare con relativa impunità, come in alcune zone dell’Afghanistan. Sotto questo proilo, il contrasto con il più importante e temibile dei suoi rivali islamisti, il movimento transnazionale dei Fratelli Musulmani, è netto: i Fratelli (al-Ikhwān) aspirano a una trasformazione radicale della società «dal basso», si impegnano in attività pubbliche, si dedicano alla missione dell’educazione e del proselitismo, accettano la partecipazione alle elezioni democratiche. In breve, i Fratelli Musulmani si ritengono parte attiva di una società che deve essere profondamente riformata; all’opposto, al-Qaida e altri gruppi salaiti-jihadisti si considerano separati da una 21. Per certi versi, l’organizzazione fondata da Bin Laden presenta qualche rassomiglianza con il modello leninista del partito come avanguardia rivoluzionaria del proletariato.

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società fondamentalmente corrotta che deve essere puriicata (cfr. moghadam, fishman [2011]; lahoud [2010]). Resta il fatto che sinora al-Qaida è riuscita a essere intraprendente e pericolosa anche senza poter contare sul favore e sull’assistenza diretta di un’ampia comunità di sostegno presente su un determinato territorio (cfr. mascini [2006]).

5. Il livello organizzativo: il gruppo armato

Il terzo livello analitico riguarda le organizzazioni che ricorrono al metodo degli attacchi suicidi. Gli attacchi suicidi richiedono quasi sempre l’intervento di un gruppo armato. Come ha ribadito di recente Ariel Merari [2010, p. 263], «praticamente tutti gli attentatori suicidi nel mondo sono stati preparati e inviati da gruppi, invece di agire da soli di propria iniziativa»1. Generalmente i singoli individui, da soli, non sono in grado di assicurare riconoscimento e legittimità al proprio gesto (si pensi al riconoscimento sociale del «martirio» rispetto al comune suicidio) e diicilmente possiedono le risorse, le competenze tecniche, le capacità logistiche e le informazioni necessarie per pianiicare e portare a termine un attacco suicida contro un obiettivo nemico. L’organizzazione può avere poi un ruolo determinante nel raforzare e mantenere (e addirittura, in alcune occasioni, nello stimolare) le motivazioni che muovono l’attentatore suicida, riducendo lo spazio per esitazioni e ripensamenti. Negli ultimi anni, attacchi suicidi sono stati realizzati da piccole cellule debolmente strutturate; nondimeno, anche in questo caso si può spesso rintracciare una qualche forma di 1. Merari [2010, p. 278 nota 1] precisa in una nota: «ho conoscenza soltanto di quattro attentatori suicidi su 2937 nel periodo 1987-2007 che hanno agito privatamente». Analogamente, secondo Tosini [2007, p. 58], «quasi tutti gli attacchi suicidi tra il 1982 e il 2005 (818 su 845 attacchi, pari a circa il 96%) non sono opera di attentatori isolati, ma parte di campagne condotte da gruppi organizzati». Al di là della diversità di stime, il punto è accettato dalla grande maggioranza degli studiosi.

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organizzazione, benché minima. Fino a oggi i veri e propri «lupi solitari» (lone wolves) non sono stati frequenti nella storia del terrorismo suicida; così come nella più ampia storia del terrorismo ordinario, non suicida (spaaij [2010])2. Per inciso, è interessante notare che, all’opposto, i suicidi politici (in cui l’individuo muore senza uccidere altre persone) spesso costituiscono gesti isolati e non prevedono l’intervento di un’organizzazione (biggs [2006]). Rispondono a una logica individualistica anche gli omicidi di massa con suicidio, come le note stragi alla scuola di Columbine in Colorado nel 1999 o alla scuola di Newtown in Connecticut nel 2012 (cfr. lankford, hakim [2011]; lankford [2013, capitolo 6]). Da un punto di vista organizzativo, gli atti di terrorismo possono essere visti come l’espressione di una strategia politica, soggetta a un calcolo di costi e beneici (crenshaw [1990]). I gruppi ribelli possono stimare che la violenza terroristica sia il mezzo più adatto per raggiungere determinati scopi politici. Una volta che abbiano deciso di abbracciare la strategia terroristica (talora in maniera soltanto occasionale e transitoria), possono optare per il metodo estremo degli attacchi suicidi, ancora una volta in base a un calcolo di costi e beneici, non di rado dopo aver impiegato altre forme di violenza. Come ha sottolineato Diego Gambetta [2006a, p. 260]:

2. Ciononostante occorre notare che negli ultimi anni anche nei Paesi occidentali hanno destato grande preoccupazione atti di violenza politica (non suicidi) condotti autonomamente da singoli individui o, al più, da coppie di estremisti. Si pensi, in particolare, alla strage perpetrata in Norvegia dal fanatico di estrema destra Anders Behring Breivik il 22 luglio 2011. Tra gli eventi di ispirazione jihadista si possono ricordare gli attacchi realizzati a Tolosa e Montauban dal giovane franco-algerino Mohammed Merah nel marzo del 2012, gli attentati alla Maratona di Boston del 15 aprile 2013 a opera di due fratelli ceceni, l’uccisione a colpi di machete di un soldato britannico a Londra il 22 maggio 2013 (signiicativamente i due responsabili della violenza, di discendenza nigeriana e convertiti all’Islam, non fuggirono dopo l’aggressione, ma attesero l’arrivo della polizia).

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Nessuna delle organizzazioni interessate è sposata in maniera monogamica alle missioni suicide. Le missioni suicide sono state soltanto una minuscola parte dell’arsenale dispiegato dagli eserciti regolari o ribelli [insurgent] che le hanno usate. E tutte le altre organizzazioni che le hanno usate sono ricorse, in varia misura, ad altre opzioni – un segno che i responsabili delle organizzazioni adottano qualche forma di calcolo nel decidere se usare le missioni suicide. Concentrarsi ossessivamente sulle missioni suicide come tratto caratterizzante di certe organizzazioni ipostatizza un mezzo e rischia di distogliere l’attenzione dalle ragioni per cui esse hanno scelto le missioni suicide da un arsenale che include altre armi3.

Gli attacchi suicidi rappresentano un’arma potente; e questa è una delle ragioni principali alla base della loro difusione in molte aree del mondo. Come si vedrà nell’ultimo capitolo del volume, gli attacchi suicidi sono eicaci in termini di conseguimento di beneici tattici e operativi ed eicienti in termini di contenimento dei costi. In questo capitolo, diviso in quattro sezioni, si esamineranno tre aspetti salienti dei gruppi armati responsabili di attacchi suicidi: la struttura organizzativa, il processo di reclutamento e di addestramento degli attentatori suicidi e le attività di propaganda e giustiicazione della violenza. L’ultima sezione illustrerà le relazioni di scambio tra attentatore suicida e gruppo armato ricorrendo alla similitudine di un «mercato dei martiri» in cui si incontrano domanda e oferta di violenza suicida. 3. In efetti, occorre guardarsi dal rischio costituito dalla tendenza a reiicare il terrorismo (tilly [2004]). In questo senso, la stessa espressione «organizzazione terroristica» può essere fuorviante laddove inisca per irrigidire e reiicare la relazione tra una determinata organizzazione e una speciica strategia di violenza (il terrorismo, appunto) impiegata in un particolare periodo. Secondo Jeroen Gunning [2009, p. 162], «usare il termine “organizzazione terroristica” diventa un’anomalia quando tale terminologia fa apparire eccezionali le tattiche terroristiche minimizzando la parte restante del repertorio d’azione di un’organizzazione, le sue interazioni con il più ampio movimento sociale e la natura contingente del suo ricorso alle tattiche terroristiche».

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1. La struttura organizzativa I gruppi che hanno coordinato l’esecuzione di attacchi suicidi diferiscono notevolmente l’uno dall’altro sotto il proilo della struttura organizzativa. Da un lato, formazioni come le ltte tamil e il pkk curdo sono esempi di organizzazioni gerarchiche di notevoli dimensioni, simili a eserciti regolari, con una struttura di gestione delle comunicazioni ben deinita che procede dall’alto verso il basso (top-down), uno schema formale di specializzazione e divisione del lavoro, una struttura di comando e controllo verticale e speciici procedimenti per l’implementazione delle azioni pianiicate. Come accennato, queste due organizzazioni per molti anni sono state dominate dal potere carismatico dei rispettivi fondatori, Prabhakaran e Öcalan. In aggiunta, Hezbollah è nato come un movimento in grado di aggregare diverse fazioni, ma ha presto assunto una struttura formale di carattere gerarchico (cfr. mishal, rosenthal [2005]). Dall’altro lato, negli ultimi anni sono cresciuti considerevolmente il numero e l’importanza di piccole cellule terroristiche responsabili di attacchi suicidi. Alcune di queste cellule sono legate al nucleo centrale di al-Qaida. Per esempio, sappiamo che il gruppo di quattro jihadisti responsabile degli attentati suicidi del 7 luglio 2005 a Londra era in contatto con esponenti dell’organizzazione fondata da Bin Laden e con altri militanti radicali residenti in Gran Bretagna. Dopo gli attacchi del 7 luglio, la casa di produzione di al-Qaida difuse due ilmati originali in cui comparivano due dei quattro attentatori (hoffman [2009]). In efetti indagini recenti hanno dimostrato che i militanti jihadisti attivi in Gran Bretagna e, in particolare, nella città di Londra sino al 2008 erano riuniti in una rete sociale densa e coesa e rappresentavano una sorta di «iliale» locale di al-Qaida, costituitasi già nel decennio precedente all’11 settembre 2001. Una posizione centrale in questo network era occupata da alcuni predicatori radicali che agivano da coordinatori e punti di raccordo della rete, come il famigerato Abu Hamza al-Masri, imam della moschea

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di Finsbury Park a Londra (arrestato nel 2004) (tschaen barbieri, klausen [2012]). Nondimeno, in altri Paesi, come gli Stati Uniti (ivi, pp. 422-423), le cellule di matrice salaitajihadista apparentemente sono più disperse e operano in maniera autonoma, pur ispirandosi alla missione di al-Qaida (cfr. sageman [2008a, in particolare capitolo 5]). Si possono ricordare anche alcuni attacchi suicidi a opera di singoli individui che sono stati sventati in Europa e in Nordamerica negli ultimi anni. Per esempio, il giorno di Natale del 2009 Umar Farouk Abdulmutallab, un ragazzo di 23 anni appartenente a una ricca famiglia di origine nigeriana, tentò di farsi esplodere su un volo aereo proveniente da Amsterdam e diretto a Detroit, innescando un congegno esplosivo nascosto negli indumenti intimi. Secondo numerosi fonti, il ragazzo aveva contatti con Anwar al-Awlaki, membro di spicco della rete di al-Qaida con passaporto statunitense, molto attivo nel reclutamento di militanti jihadisti (ucciso da un drone americano in Yemen nel settembre del 2011). In efetti dopo gli attacchi dell’11 settembre e l’invasione dell’Afghanistan nel 2001, al-Qaida si è posta al centro di una composita galassia di organizzazioni e cellule di ispirazione salaita-jihadista. L’organizzazione interna e i contorni di questa galassia sono ancora oggetto di un dibattito tra gli studiosi e gli esperti, talora molto acceso4. Come ha osservato Tosini [2012, pp. 33-34], lo studio della rete di al-Qaida è reso diicoltoso non soltanto, come per tutte le organizzazioni terroristiche, dalla sua natura clandestina e segreta, ma anche da due tendenze peculiari: da un lato, un numero crescente di gruppi e cellule è interessato ad adottare la retorica, i metodi e persino il «marchio» del nucleo storico fondato da Bin Laden; dall’altro, i governi e i media attribuiscono spesso ad al-Qaida atti di violenza terroristica dal proilo incerto, anche 4. Si veda, in particolare, l’aspra contesa tra due esperti di terrorismo di fama mondiale, Marc Sageman [2008b], sostenitore della tesi di un «jihad senza leader» (leaderless jihad), e Bruce Hofman [2008], difensore della visione di una lotta jihadista coordinata dai vertici di al-Qaida.

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in mancanza di prove, inendo così per ingigantire la visibilità e la rilevanza di questa organizzazione. Cionondimeno, sulla base delle informazioni disponibili, è possibile distinguere tre settori o cerchi concentrici all’interno del movimento di ispirazione qaidista. Il primo settore è costituito dal nucleo di al-Qaida, l’organizzazione madre fondata da Bin Laden alla ine degli anni ’80 in Afghanistan. Secondo studi recenti (gunaratna, oreg [2010]), il nucleo storico non si è dissolto e, pur operando a livello globale, avrebbe la propria base nell’area al conine tra Pakistan e Afghanistan. Alcuni documenti sequestrati dalle forze statunitensi in Afghanistan (il cosiddetto «Harmony Database», in parte declassiicato dal Dipartimento della Difesa) e pubblicati a cura dell’Accademia di West Point, hanno rivelato che il nucleo storico di al-Qaida presenta una struttura gerarchica, almeno sino alla morte di Bin Laden. Queste informazioni sono state confermate dalle testimonianze di un autorevole ex militante, Jamal al-Fadl. Al vertice della piramide organizzativa si colloca l’emiro che ha la responsabilità di tutte le attività dell’organizzazione. La posizione è stata occupata da Bin Laden sino alla sua uccisione nel maggio del 2011; nel giugno di quell’anno l’incarico è passato all’egiziano alZawahiri, dopo una breve reggenza da parte di Saif al-Adel. L’emiro è assistito da un vice (lo stesso al-Zawahiri sino alla morte di Bin Laden) e da un segretario. L’emiro inoltre nomina i componenti di un ristretto Consiglio consultivo (Majilis al Shura), che approva le principali decisioni, il piano delle attività e il bilancio annuale dell’organizzazione, ed elegge i componenti dei diversi comitati. Le attività sono infatti gestite da comitati divisi per competenze: il Comitato militare (diviso in quattro sezioni, a loro volta organizzate in più unità) è responsabile delle attività militari e operative nell’area afghano-pakistana e all’estero; il Comitato politico mantiene i contatti con gli altri gruppi jihadisti e si occupa della formazione politica del personale; il Comitato dei media (o dell’informazione), di grande importanza, si dedica alla propaganda; il Comitato amministrativo e inanziario ofre

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servizi di natura amministrativa ai membri dell’organizzazione e alle loro famiglie e coordina le attività inanziarie; il Comitato per la sicurezza è deputato a garantire la sicurezza personale dei dirigenti dell’organizzazione, svolgendo anche attività di controspionaggio, e sembra avere un ruolo importante nel reclutamento di nuovi militanti; il Comitato religioso vigila, inine, sull’osservanza del diritto islamico. Al-Qaida è comunque riuscita ad assicurare una certa lessibilità a questa struttura gerarchica promuovendo un alto livello di mobilità interna. In particolare, degni di nota sono i frequenti trasferimenti al vertice tra il Comitato dei media e il Comitato militare (ivi, p. 1064); segno che la divisione del lavoro non è accompagnata da una specializzazione rigida. Il secondo settore è costituito dalle organizzazioni associate e ailiate ad al-Qaida. Le organizzazioni ailiate sono organizzazioni di portata regionale che si sono costituite su iniziativa di al-Qaida e conservano rapporti formali con il nucleo centrale. I principali esempi sono al-Qaida nel Maghreb Islamico (aqim nell’acronimo in inglese), al-Qaida nella Penisola Arabica (aqap), al-Qaida in Iraq (aqi). Queste organizzazioni condividono l’ideologia e la strategia di al-Qaida e hanno abbracciato anche le medesime tattiche, compreso l’uso sistematico degli attacchi suicidi. Pur avendo interessi di carattere regionale, hanno colpito anche obiettivi occidentali, talora su indicazione del nucleo storico di al-Qaida. Nel 2012 anche l’organizzazione somala al-Shabaab ha dichiarato di aver aderito formalmente ad al-Qaida. I gruppi associati sono alleati dell’organizzazione fondata da Bin Laden, ma perseguono scopi di natura locale, solitamente connessi all’abbattimento di singoli regimi considerati «apostati». Tra questi gruppi si possono citare Jamah Islamiyah (ji) in Asia sud-orientale, il gruppo Abu Sayyaf nelle Filippine, il Movimento Islamico dell’Uzbekistan, Lashkar-e Taiba in Pakistan e una rete di formazioni della «resistenza» sunnita in Iraq. Anche i Talebani afghani e pakistani possono essere, in parte, ricondotti a questa classe. Da ultimo è opportuno ricordare che nel 2012 la formazione jihadista Ansar

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Dine, accusata di aderire ad al-Qaida nel Maghreb Islamico, ha occupato il nord del Mali insieme ad alcune organizzazioni ribelli tuareg e ha tentato di espandere il proprio dominio in altre aree del Paese. In generale, negli ultimi anni l’Africa è diventata un’area di grande rilevanza per il movimento jihadista globale. Il terzo settore della rete qaidista è costituito da una nebulosa di cellule terroristiche attive principalmente in Europa e in Nordamerica che si ispirano all’ideologia, alla strategia e alla tattica di al-Qaida. Si sono citati in precedenza i casi della cellula di jihadisti inglesi responsabile degli attacchi suicidi di Londra e dell’azione di Abdulmutallab. A questo proposito, tra gli altri, si può ricordare anche l’attentato fallito a Glasgow del 30 giugno 2007, quando due giovani musulmani guidarono una jeep stipata di bombole di gas contro l’ingresso dell’aeroporto della città. Supportato da al-Qaida fu invece il piano per far esplodere almeno sette aerei di linea in partenza da Londra e diretti negli Stati Uniti e in Canada, sventato il 10 agosto 2006 (hoffman [2009, pp. 1105-1111]). Negli ultimi anni si è acceso un vivace dibattito sulla natura della minaccia costituita dai gruppi salaiti jihadisti. Alcuni esperti, a partire da Marc Sageman [2008a; 2008b], hanno avanzato la tesi secondo cui oggi il maggior pericolo per i Paesi occidentali proviene da una nebulosa di piccole cellule autonome che sorgono spontaneamente in Occidente, «gruppi di ragazzi» (bunches of guys) che agiscono traendo ispirazione dalla strategia di al-Qaida, ma senza avere alcuna connessione diretta con l’organizzazione fondata da Bin Laden. All’opposto, studiosi come Bruce Hofman [2008] hanno sostenuto con forza la tesi secondo cui il nucleo storico di al-Qaida rimane un nemico temibile ed è ancora in grado di pianiicare e coordinare attacchi di alto proilo contro obiettivi occidentali5. 5. Vale la pena di ricordare che nel complesso di ediici di Abbottabad (Pakistan), dove Bin Laden fu scovato e ucciso nel 2011, vennero trovati alcuni piani per l’esecuzione di attentati negli Stati Uniti, in Europa e in Canada.

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In realtà, le due prospettive non si escludono necessariamente a vicenda. In primo luogo, alcuni esperti hanno osservato che il modello tradizionale difeso da Hofman non è stato completamente rimpiazzato dal modello del «jihad senza leader» delineato da Sageman. Per esempio, Javier Jordán [2012] ha rilevato che la responsabilità per gli attacchi (suicidi e non suicidi) di ispirazione jihadista portati a termine o sventati in Europa occidentale dal 2001 al 2010 si divide a metà tra gruppi associati ad al-Qaida (o altre organizzazioni di ampie dimensioni) (41 episodi su 85), da un lato, e cellule indipendenti e «lupi solitari» (44 episodi), dall’altro; nondimeno, nella seconda metà del decennio la seconda categoria di attori si è fatta più rilevante. Altri studiosi hanno sottolineato che i modelli proposti da Hofman e da Sageman nella realtà possono combinarsi; nelle parole di Lewis [2012, p. 238], «i modelli di leadership organizzativa suggeriti da Hofman e da Sageman possono coesistere tranquillamente, e infatti lo fanno; la leadership del jihad globale fornisce le regole per il comportamento del movimento, ma entro il quadro stabilito da queste regole i singoli jihadisti hanno considerevole autonomia» (cfr. anche neumann et al. [2011, specie p. 826]). Nel complesso, si può osservare che negli ultimi anni l’uso degli attacchi suicidi è stato associato a una crescente decentralizzazione delle strutture organizzative. In primo luogo, vi è stato un netto declino dei gruppi armati strutturati in maniera gerarchica; le ltte (sconitte nel 2009), e lo stesso Hezbollah uicialmente non ricorrono più a questa forma di violenza da oltre un decennio, mentre aumenta il peso di networks (come la rete transnazionale di al-Qaida) e persino di singole cellule autonome o relativamente autonome. In secondo luogo, non sono pochi i gruppi armati che recentemente hanno conosciuto un cambiamento della struttura organizzativa in direzione di una minore centralizzazione. Un esempio interessante di questa evoluzione è oferto dalle organizzazioni radicali palestinesi durante la Seconda Intifada (2000-2005). Come hanno enfatizzato Ami Pedahzur

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e Arie Perliger [2006] in un’originale ricerca basata sull’analisi delle reti sociali (social network analysis), a partire dal 2000 gli attacchi suicidi palestinesi sono stati sempre più il prodotto di networks locali piuttosto che di organizzazioni gerarchiche attive su scala nazionale. I networks descritti da Pedahzur e Perliger sono realtà indipendenti, basate su rapporti personali di parentela, amicizia o frequentazione, senza identità partitiche rigide, che spesso perseguono scopi di natura locale, pur facendo riferimento uicialmente a formazioni e a obiettivi politici di portata nazionale. Questi networks contano poche decine di membri; in tal modo sono abbastanza ampi da riuscire a predisporre una struttura idonea per l’esecuzione di attacchi suicidi, ma abbastanza piccoli da favorire il mantenimento di un notevole livello di segretezza. A diferenza delle organizzazioni gerarchiche, i networks presentano una struttura orizzontale; in corrispondenza dei nodi principali della rete si trovano pochi individui chiave (gli hubs), connessi a tutti gli altri membri, che coordinano le attività di pianiicazione ed esecuzione degli attacchi suicidi. Secondo i due studiosi, la capacità di realizzare attacchi suicidi dei networks, così come la loro resistenza agli interventi repressivi, non dipende tanto dalle dimensioni complessive, quanto dal numero di hubs su cui possono fare aidamento. La maggior parte degli hubs presi in esame nella ricerca vanta una lunga esperienza nella lotta contro Israele, ma non ha alle spalle incarichi di rilievo nelle organizzazioni nazionali palestinesi. Il loro attivismo sembra motivato dal desiderio di competere con altri networks locali più che dalla dedizione nei confronti delle organizzazioni nazionali, con cui pure mantengono dei rapporti. All’interno di queste strutture a rete, gli attentatori suicidi occupano una posizione marginale e non vantano un grande numero di legami con altri membri. In questo modo il network può proteggersi meglio dal pericolo costituito dalla cattura di un attentatore suicida. Pedahzur e Perliger accolgono così la tesi proposta da Mia Bloom [2004; 2005] circa la rilevanza della competizione

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interna al campo palestinese (vedi capitolo 6 di questo volume), ma trasferiscono tale meccanismo dal livello nazionale della lotta tra partiti e movimenti politici al livello locale della rivalità tra clan, famiglie e altri attori che perseguono interessi particolaristici. A loro avviso, «i networks suicidi palestinesi oggi assomigliano più ad al-Qaida che a Hezbollah, le ltte o il pkk» (pedahzur, perliger [2006, p. 1988]). Si possono indicare due cause principali del rapido processo di frammentazione organizzativa in seguito allo scoppio della Seconda Intifada nell’autunno del 2000 (marone [2010, p. 203]). In primo luogo, alcune reazioni israeliane hanno favorito indirettamente tale evoluzione: la rioccupazione dei Territori palestinesi nel 2002 ha provocato una disgregazione dei gruppi armati in cellule locali; e la pratica degli assassinii mirati, causando la morte dei dirigenti delle varie fazioni violente o costringendoli a nascondersi in continuazione, ha allentato la presa del controllo centrale (pedahzur, perliger [2006, p. 1988]; schweitzer [2007, p. 675]). In secondo luogo, gli attacchi suicidi, diventando uno strumento per la conquista e il mantenimento del consenso nel corso della Seconda Intifada (vedi capitolo 6), hanno attirato l’interesse anche di fazioni e raggruppamenti coinvolti in competizioni e rivalità a livello locale, tanto più in una fase di delicata transizione politica sulla scena nazionale. Il processo di frammentazione organizzativa appariva più marcato nei gruppi ailiati e contigui a Fatah, poiché durante la Seconda Intifada essi non poterono contare su una forte leadership centrale (cfr. merari [2010, pp. 154-156]). In maniera analoga, Neumann, Evans e Pantucci (neumann et al. [2011]) hanno recentemente attirato l’attenzione sul ruolo dei «dirigenti di medio livello» (middle managers) nelle attività terroristiche svolte da al-Qaida in Occidente dopo l’11 settembre. Queste igure adempiono la funzione, cruciale, di collegare la direzione centrale dell’organizzazione con la base dei simpatizzanti interessati a partecipare al jihad armato; essi, per esempio, si dedicano alla raccolta di fondi, reclutano militanti, agevolano il viaggio dei jihadisti verso i

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campi di addestramento all’estero, trasmettono istruzioni e ordini, ofrono assistenza tecnica e operativa per la preparazione degli attacchi. I dirigenti di medio livello, al pari dei principali esponenti del nucleo centrale di al-Qaida, sono individui con esperienze e competenze di rilievo, ma, come i militanti di base, non risiedono stabilmente nelle aree tribali al conine tra Afghanistan e Pakistan e, pur ispirandosi a una visione di portata globale, sono impegnati in attività di carattere locale. Essi rappresentano il «tessuto connettivo» della rete di al-Qaida e, secondo Neumann e colleghi, costituiscono anche il suo «centro di gravità» in termini clausewitziani, ovvero «il punto focale di potenza e movimento» dell’intera organizzazione. 2. Il reclutamento e l’addestramento La maggioranza degli attentatori suicidi non fa parte dell’organizzazione che gestisce la pianiicazione e l’attuazione degli attacchi, ma proviene dall’ambiente esterno. I gruppi armati devono quindi reclutare e addestrare individui a cui è richiesto unicamente il compito di sacriicare la propria vita in un attacco senza ritorno. L’interazione tra le due parti (organizzazione e attentatore suicida), per quanto cruciale, non di rado è piuttosto breve e, come si vedrà, si basa tipicamente su uno scambio reciproco. La prima incombenza dell’organizzazione è quella di selezionare gli attentatori suicidi. Chiaramente nel caso di piccoli gruppi primari non è possibile isolare una procedura formale di selezione poiché essi si costituiscono spontaneamente sulla base di interazioni dirette e in forza di un senso di identiicazione collettiva. Al contrario, organizzazioni più ampie devono predisporre e gestire un vero e proprio processo di reclutamento. Non esiste un unico modello di selezione degli attentatori suicidi. Schematicamente si possono distinguere tre tipi principali (cfr. pedahzur [2005, pp. 165-170]). Nel primo tipo, che potremmo chiamare della «candidatura spon-

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tanea», l’aspirante attentatore suicida si propone al gruppo armato, ricercando attivamente il contatto con alcuni suoi rappresentanti; questo metodo è frequente, per esempio, nel caso ceceno. Nel tipo della «mobilitazione a rete» gli aspiranti attentatori suicidi sono individui che hanno già relazioni o contatti con l’organizzazione violenta; a un certo punto essi decidono di passare all’azione ofrendo la propria vita per la causa. La rete di al-Qaida si è servita frequentemente di questo metodo. In casi più rari l’attentatore suicida proviene direttamente dalle ila dell’organizzazione. Nel tipo della «ricerca di personale», inine, i gruppi armati si aidano ad appositi «uiciali di reclutamento» che vengono inviati sul territorio per trovare candidati degni di interesse. Questo metodo è stato tradizionalmente il più comune nel terrorismo suicida di tipo locale. Per esempio, gli emissari delle ltte perlustravano le comunità tamil alla ricerca di giovani reclute, prestando particolare attenzione alle scuole. Alcune organizzazioni hanno fatto ricorso a una combinazione variabile di diferenti tipi di reclutamento. In particolare, i gruppi armati palestinesi si sono avvalsi di tutti e tre i metodi. D’altro canto, dopo lo scoppio della Seconda Intifada nel 2000, le strutture e le procedure di arruolamento delle organizzazioni palestinesi attive su scala nazionale entrarono in crisi. La selezione degli attentatori suicidi, così come la pianiicazione e l’attuazione degli attacchi suicidi, passò in gran parte nelle mani di raggruppamenti e reti di portata locale (pedahzur, perliger [2006]). Allo stesso tempo, il numero degli aspiranti «martiri» aumentò drammaticamente. Come risultato di queste trasformazioni, il processo di reclutamento divenne più rapido e più sbrigativo (cfr. merari [2010, capitolo 6]). Anche al-Qaida ha dovuto modiicare le modalità di reclutamento dei suoi attentatori suicidi. Prima dell’11 settembre l’organizzazione si era aidata principalmente alla «ricerca di personale» per mezzo di «uiciali di collegamento» con esperienze militari. Dopo la perdita di un rifugio sicuro a seguito dell’invasione dell’Afghanistan nel 2001, al-Qaida ha spostato l’attenzione sul tipo della mobilitazione a rete.

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Per quanto riguarda il proilo dell’aspirante attentatore suicida, questi, in primo luogo, deve essere determinato a sacriicare la propria vita in ottemperanza alle indicazioni fornite dal gruppo armato. Come è stato notato, salvo casi eccezionali di coercizione esercitata ai danni delle reclute, «nessuna organizzazione può creare la disponibilità a morire in una persona. Il compito del reclutatore non è quello di produrre questa predisposizione, ma di identiicarla e rafforzarla» (sprinzak [2000, p. 68]). In secondo luogo, l’attentatore suicida deve avere capacità adeguate per portare a compimento la missione che gli è stata assegnata. Come detto in precedenza, le organizzazioni di norma hanno interesse a riiutare candidati che presentino disturbi mentali perché essi rischiano di non essere idonei per la realizzazione della missione suicida6. Anche la presenza di evidenti tendenze suicide rende i candidati meno aidabili perché può ridurre la loro capacità di mantenere il controllo e di aspettare diligentemente il momento opportuno per portare a termine l’attacco7. Presumibilmente le organizzazioni violente cercano di selezionare, quando possibile, gli attentatori suicidi più adatti per i loro obiettivi, anche al di sopra di una soglia minima di capacità. Come accennato in precedenza, Benmelech e Berrebi [2007] hanno rilevato che i gruppi armati palestinesi prediligono candidati con alti livelli di capitale umano in termini di età e di istruzione. A maggior ragione, attacchi suicidi complessi e impegnativi come quelli dell’11 settembre 6. Inoltre è possibile che alcune organizzazioni temano ripercussioni negative in termini di reputazione. Per esempio, negli anni ’90 Hamas non voleva ofrire l’immagine di un’organizzazione disposta ad approittarsi di individui con disturbi malati o non responsabili delle proprie azioni (pedahzur [2005, p. 169]). Nondimeno altre organizzazioni non si impongono limiti di questo tipo. 7. Evidentemente individui afetti da tendenze suicide potrebbero avere la tentazione di togliersi la vita troppo presto. Elster [2006, pp. 255-256] ha sottolineato che, in generale, le emozioni forti suscitano un senso di urgenza rispetto all’azione. Lo studioso ha delineato anche un interessante parallelismo con l’uso della tortura da parte di individui con tendenze sadiche: «tipi suicidi potrebbero farsi saltare in aria prematuramente e tipi sadici potrebbero uccidere gli individui sottoposti a tortura prima che essi parlino» (ivi, p. 254).

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negli Stati Uniti richiedono la partecipazione di individui con doti, competenze e abilità non comuni. La volontarietà della decisione dell’attentatore suicida non esclude necessariamente un intervento dell’organizzazione in termini di persuasione, di sollecitazione e persino di manipolazione psicologica. Per esempio, il gruppo armato può sfruttare a suo vantaggio la credenza dell’individuo nel dovere religioso del martirio e nell’esistenza di una ricompensa nell’aldilà. A questo proposito Stephen Holmes [2006, pp. 135-136, 156-157], esaminando gli attentati dell’11 settembre 2001, ha avanzato una tesi forte, battezzata «tesi Voltaire»8: secondo questa argomentazione, alla base degli attacchi suicidi vi sarebbe il proposito di astuti uomini di religione («furfanti» nel linguaggio del ilosofo illuminista) di sfruttare la fede cieca di persone semplici («imbecilli»), e specialmente la loro credenza nel paradiso, per conservare e aumentare il loro potere. Questa interpretazione ofrirebbe anche una spiegazione, a livello individuale, del fatto che gli esponenti dei gruppi armati di ispirazione religiosa si guardino bene dal sacriicare deliberatamente la propria vita, pur predicando la nobiltà e l’utilità delle «operazioni di martirio» (purché condotte da altri) (cfr. merari [2010, pp. 152-154]). Di recente alcuni studiosi hanno enfatizzato il peso delle attività di pressione e manipolazione esercitate dai gruppi armati sui futuri attentatori suicidi. Per esempio, Merari [2010, capitolo 5] ha rilevato che i reclutatori palestinesi hanno potuto sfruttare la vulnerabilità psicologica di alcuni giovani, caratterizzati da uno stile di personalità dipendente ed evitante (cfr. supra, capitolo 3 di questo volume). Testimonianze di episodi di intensa manipolazione psicologica sono giunte dall’Iraq e dall’Afghanistan (per esempio, tosini [2012, pp. 158-161]; cfr. anche lankford [2011; 2013]).

8. Riferimento alla voce «Fanatismo» del Dictionnaire philosophique (1764). È interessante notare che in questo brano Voltaire richiama la igura leggendaria del Vecchio della Montagna, raccontata da Marco Polo.

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Sappiamo poi che organizzazioni come il pkk in Turchia non hanno esitato a usare apertamente la forza. Per esempio, Reuter [2002, trad. it. p. 251] ricorda il caso della diciassettenne Leyla Kaplan che, nel novembre 1996, si fece saltare in aria davanti al quartier generale delle unità speciali della polizia turca acquartierate nella città di Adana, uccidendo, oltre a se stessa, tre agenti. Per eseguire l’attacco, prima di Kaplan era stata scelta un’altra ragazza, Turkan Adiyaman. Quando questa si era riiutata di prestarsi alla richiesta dell’organizzazione, era stata uccisa proprio sotto gli occhi di Leyla (cfr. anche ergil [2000, p. 50]). Nondimeno è plausibile sostenere che, a parte alcune eccezioni meritevoli di attenzione, l’esecuzione dell’attacco suicida si fonda tipicamente su un accordo tra attentatore suicida e organizzazione, su una sorta di scambio reciproco (cfr. infra, sezione 4 di questo capitolo). In questa relazione la parte più forte (l’organizzazione) può esercitare una pressione su quella più debole (l’attentatore suicida), ma la decisione di raggiungere un accordo rilette solitamente la volontà di entrambe le parti (cfr. lewis [2012, pp. 233-237]). Una volta reclutati, gli attentatori suicidi devono essere adeguatamente preparati. Di norma l’esecuzione di un attacco suicida non richiede abilità e competenze speciali (tra le eccezioni a questa regola si deve ricordare il caso degli attacchi dell’11 settembre). Ciononostante l’aspirante attentatore suicida, che quasi sempre non proviene dai ranghi dell’organizzazione, deve prender parte a una fase di addestramento tecnico. Le organizzazioni violente che si ispirano a un modello militare, come Hezbollah, le ltte e il pkk, prevedono tipicamente un percorso di preparazione all’interno di appositi campi di addestramento. Secondo le informazioni disponibili, tale percorso, che ricorda quello degli eserciti regolari, può durare alcuni mesi ed è suddiviso in due fasi principali. Durante la prima fase alle reclute vengono impartiti i rudimenti della lotta terroristica e di guerriglia. I soggetti che mostrano maggior impegno e appaiono più promettenti hanno accesso a una seconda fase durante la

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quale apprendono tecniche più soisticate e vengono introdotti al metodo degli attacchi suicidi (pedahzur [2005, pp. 170-174]). In queste organizzazioni di impronta militare gli attentatori suicidi rassomigliano a soldati di professione agli ordini dei propri superiori. In particolare, nelle ltte gli attentatori suicidi erano organizzati in una ristretta unità di élite, le Tigri Nere, ammirata da tutti i membri dell’organizzazione ed elevata a modello di emulazione. Le organizzazioni radicali palestinesi, al contrario, non si aidavano a un programma strutturato di preparazione all’interno di veri e propri campi di addestramento. Ciò perché, da un lato, i Territori palestinesi erano attentamente sorvegliati dalle forze di sicurezza israeliane e, dall’altro, il largo supporto oferto dalla comunità di sostegno, specialmente durante la Seconda Intifada, rendeva non strettamente necessario un percorso di addestramento in appositi luoghi isolati. Dopo lo scoppio della Seconda Intifada nel 2000, il processo di formazione si ridusse spesso alla presentazione di alcune istruzioni tecniche di base per l’innesco dei congegni esplosivi, inendo per durare in alcune occasioni poche ore soltanto. Anche allo scopo di compensare la mancanza di preparazione metodica, gli attentatori venivano accompagnati da alcuni incaricati sino all’ingresso nel territorio di Israele (ivi, pp. 175-176). Per quanto riguarda al-Qaida, l’attività di preparazione delle reclute si svolge in diversi Paesi, anche se l’organizzazione ha ricostruito alcuni campi di addestramento nell’area afghano-pakistana dopo la caduta del regime talebano nel 2001. Da qui sono transitati numerosi attentatori suicidi, attivi anche in Occidente: per esempio, come anticipato nel secondo capitolo, fonti attendibili sostengono che due degli esecutori degli attacchi suicidi di Londra abbiano partecipato a campi di addestramento paramilitare in Pakistan (hoffman [2009, pp. 1101-1104]). Nel caso della galassia terroristica di ispirazione salaita-jihadista le informazioni e le conoscenze per mettere in pratica un attacco spesso devono passare da gruppo a gruppo, da cellula a cellula, senza poter contare sul sostegno e la

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protezione di un’ampia comunità di sostegno presente sul territorio. Un’importante opportunità di apprendimento e di addestramento è rappresentata dal mondo virtuale di internet. A questo riguardo la rete svolge due funzioni principali. In primo luogo, costituisce una sorta di vasta biblioteca, in cui si possono trovare manuali e guide di istruzione (talvolta raccolti in apposite «enciclopedie»), ilmati di istruzioni, cicli di lezioni online e pubblicazioni periodiche. In secondo luogo, internet ofre luoghi interattivi di scambio di informazioni e opinioni sotto forma di forum di discussione e chat rooms (stenersen [2008]). Nondimeno, Stenersen [2008] ha notato che la rete di alQaida non si è impegnata nella creazione e nell’organizzazione di un vero e proprio «campo di addestramento virtuale», ma ha lasciato spazio all’iniziativa di vari «media» e di singoli simpatizzanti di ispirazione salaita-jihadista. D’altra parte, Kenney [2010a] ha sostenuto, in maniera piuttosto convincente, che spesso internet non è una fonte attendibile di conoscenze operative per i terroristi di matrice jihadista; il web ofre informazioni generali in termini di techne astratta, ma diicilmente può trasmettere quel sapere pratico in termini di mētis che si apprende con l’addestramento e la pratica nel mondo reale9. Nel complesso, le informazioni pratiche disponibili su internet sono spesso di carattere introduttivo e generale, anche perché gli autori e gli utenti dei vari siti sanno di essere oggetto dell’attenzione guardinga dei servizi di intelligence e di polizia degli Stati (torres soriano [2012]). Di solito le istruzioni disponibili sono utili soltanto se gli aspiranti terroristi possiedono già un bagaglio di competenze tecni9. Lo stesso al-Suri, uno dei più famosi strateghi militari legati ad al-Qaida, ha sostenuto con forza l’importanza di internet per la preparazione e l’addestramento dei militanti jihadisti (stenersen [2008, p. 216]), ma allo stesso tempo ha sottolineato l’utilità di occasioni di apprendimento pratico attraverso il coinvolgimento di veterani che possano trasferire le proprie competenze ed esperienze ai principianti, preferibilmente in appositi luoghi appartati e sicuri (kenney [2010a, pp. 181-184]).

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che (in particolare, in materia di chimica). Si consideri, per esempio, che i due aspiranti attentatori suicidi che tentarono di far esplodere un’automobile all’aeroporto di Glasgow nel giugno del 2007 potevano vantare rispettivamente una laurea in medicina e una laurea in ingegneria, ma non furono in grado di innescare gli ordigni esplosivi improvvisati (improvised explosive devices, ied) che avevano fabbricato (kenney [2010a, p. 187]). Le indicazioni online per l’esecuzione di attacchi terroristici sono non di rado lacunose, quando non viziate da errori, anche marchiani (stenersen [2008]; kenney [2010a, pp. 188-191])10. Gli aspiranti terroristi jihadisti attivi in Europa dopo l’11 settembre 2001 si sono trovati di fronte a un dilemma: potevano recarsi in campi di addestramento paramilitare in zone di combattimento o in zone limitrofe (come il Pakistan), ma al prezzo di esporsi a rischi per la sicurezza e la segretezza, dovuti ai controlli degli apparati di intelligence e di polizia; oppure potevano aidarsi alle istruzioni disponibili su internet, spesso non adatte a trasmettere il sapere pratico necessario per pianiicare e realizzare attacchi con successo. Secondo Petter Nesser [2008], la prima opzione è stata prevalente. Quando è stata percorsa la seconda strada, gli attacchi sono falliti: per esempio, il 31 luglio 2006 due attentati dinamitardi su treni regionali nei pressi delle città tedesche di Hamm e di Coblenza sono falliti proprio a causa di gravi errori nella fabbricazione degli ordigni da parte di due giovani libanesi, che avevano seguito delle istruzioni scaricate sul web (nesser [2008, pp. 248-249]; kenney [2010a, p. 187]). Secondo Nesser [2008], la «nuova generazione» homegrown di terroristi jihadisti in Europa, emersa intorno al 10. Secondo le informazioni disponibili, gli attentatori suicidi di matrice qaidista che hanno colpito con successo a Casablanca nel maggio del 2003 e al Cairo nell’aprile del 2005 avevano reperito su internet alcune istruzioni tecniche per la fabbricazione di ordigni esplosivi improvvisati, ma non sappiamo se queste informazioni siano state decisive per l’esecuzione degli attacchi (kenney [2010a, p. 186]). Evidentemente la scelta inale del «martirio» impedisce di ricostruire gli eventi in maniera precisa e attendibile.

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2003-2004, a dispetto della crescente rilevanza di internet, ha mantenuto un forte interesse per l’addestramento pratico di impronta paramilitare, con tanto di incontri personali con mujahidin esperti. Rispetto alla precedente generazione (1998-2003), che si era formata principalmente in campi di al-Qaida in Afghanistan, l’addestramento ha però previsto un’organizzazione dal basso e largamente autonoma, basata sull’impegno delle singole cellule a ricercare opportunità di apprendimento e di sostegno. Il processo di addestramento degli attentatori suicidi non di rado è accompagnato da un percorso di indottrinamento, più o meno approfondito. In alcune occasioni alle reclute vengono impartiti i fondamenti dell’ideologia del gruppo armato. Nel caso peculiare delle ltte, la mancanza di una dottrina politica ben deinita veniva in parte compensata dall’esaltazione della igura del leader e fondatore del gruppo, Prabhakaran. I candidati al «martirio» attraversano anche un delicato processo di preparazione mentale, inalizzato a evitare la comparsa di dubbi, paure e ripensamenti. A tal scopo le organizzazioni hanno escogitato una serie di procedure e di accorgimenti per «congelare» la disponibilità al sacriicio dei soggetti11. Particolare rilevanza ha assunto la preparazione di un ilmato in cui l’attentatore suicida presenta le sue ultime volontà, rivendica il futuro attacco e giustiica il suo sacriicio. L’espediente del video-testamento è stato introdotto dai gruppi attivi in Libano negli anni ’80 ed è stato poi ripreso

11. È importante mettere in evidenza che, a diferenza di quanto avviene negli atti di eroismo in guerra, dove la coesione del gruppo e la disciplina militare giocano un ruolo considerevole, negli attacchi suicidi l’individuo spesso porta a compimento la sua missione da solo (merari [1990, p. 198]); in tali circostanze, senza l’incoraggiamento e il controllo di altre persone, aumentano le probabilità che il candidato al «martirio» decida di abbandonare la missione all’ultimo momento. Non è quindi sorprendente notare che di recente il ricorso a squadre di attentatori suicidi si sia fatto più frequente (per esempio, hafez [2006c, p. 604] sul caso iracheno).

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da molte organizzazioni responsabili di attacchi suicidi12. La registrazione del ilmato ha la funzione di testimoniare un’assunzione di impegno irrevocabile e di segnare così un «punto di non ritorno» nel percorso che conduce sino al «martirio». Nel caso delle organizzazioni radicali palestinesi l’attentatore suicida che ha superato questa fase riceve il nome eloquente di «martire vivente» (al-shahid al-hai); a questo punto la pressione psicologica sull’individuo è così intensa che egli non può più sottrarsi all’impegno assunto, se non a costo di subire una drammatica perdita di considerazione sociale. Nondimeno, Merari [2010, pp. 167-170] ha fatto notare che nel caso palestinese la preparazione del video-testamento non azzera la possibilità che l’attentatore suicida si ritiri improvvisamente dalla missione per ragioni personali (per paura, ravvedimento, ecc.); anzi la probabilità di un abbandono cresce all’avvicinarsi del momento fatidico e tocca l’apice nel corso del tragitto verso il luogo dell’attacco. 3. La propaganda e la giustificazione della violenza Come abbiamo visto, nella strategia del terrorismo gli elementi psicologici e simbolici rivestono un’importanza cruciale e, per così dire, sopperiscono alla condizione di inferiorità militare dei gruppi armati rispetto all’avversario statale. Le attività di propaganda e di giustiicazione della violenza poste in essere dalle organizzazioni che si servono del terrorismo sono quindi meritevoli di particolare attenzione. Numerosi gruppi armati progettano e confezionano appositi prodotti propagandistici, come periodici, opuscoli e volumi, ilmati, registrazioni audio, immagini e illustrazioni e altri materiali. 12. Un’eccezione degna di nota è costituita dal pkk curdo. Secondo le informazioni disponibili, soltanto in un’occasione l’attentatore suicida ha registrato un’apposita dichiarazione su audiocassetta prima di sacriicare la propria vita (ergil [2000, p. 51]).

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Le organizzazioni più importanti hanno vere e proprie case di produzione, come As-Sahab per al-Qaida. Nella propaganda a favore degli attacchi suicidi i gruppi armati tendono a mettere in secondo piano le argomentazioni e le disquisizioni di ordine ideologico e teologico, per lasciare spazio a narrazioni concrete che siano in grado di produrre un forte impatto emotivo. Per esempio, Hafez [2007] ha analizzato ilmati e biograie celebrativi dei «martiri», difusi dalle fazioni jihadiste attive in Iraq, e ha individuato tre temi principali nella costruzione delle storie: l’umiliazione e la soferenza dei musulmani per colpa dell’«alleanza crociatasionista»; l’impotenza dei governi dei Paesi islamici, connessa alla complicità con le potenze occidentali; e la vittoria inevitabile dell’Islam grazie al potere redentore della fede e del sacriicio attraverso il martirio. Uno dei prodotti di propaganda più rilevanti è il testamento del «martire», difuso dopo la sua dipartita. Esso svolge funzioni salienti di fronte a diversi pubblici: intende mostrare e celebrare un modello da emulare per i componenti della società di riferimento; tenta di intimidire l’avversario; e, inine, segnala alle parti terze la genuinità e l’urgenza della causa promossa. Inoltre, il testamento consente di esaltare il ruolo e l’operato del gruppo armato e, secondariamente, di celebrare la igura del «martire». L’elemento del sacriicio di sé può svolgere la funzione di legittimare l’esercizio della violenza e la causa rivendicata dai gruppi armati e di rinsaldare la coesione del gruppo e della comunità. In generale, il martirio è un atto compiuto da un singolo individuo, ma è essenzialmente pubblico; è un atto di testimonianza personale, ma deve essere visto dagli altri. In questo senso, può essere un elemento che produce aggregazione e solidarietà all’interno di una collettività. Allo stesso tempo, il martirio produce separazione. Infatti questo atto, per sua natura, si manifesta all’intersezione tra due sistemi di credenze: i martiri sono pronti a morire in nome di un sistema e in opposizione a un altro. In breve, i martiri creano conini sociali (lewis [2012, pp. 37-38]).

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Nel lungo periodo, i gruppi armati sono chiamati a impegnarsi in quella che si può chiamare la costruzione sociale del martirio. Come notato nel capitolo precedente, le organizzazioni violente hanno interesse a promuovere e sostenere una cultura del martirio, opponendosi al «tabù» del suicidio. In particolare, nelle società a maggioranza musulmana quello che potrebbe apparire come un semplice suicidio, massimamente riprovevole e condannato dall’Islam, deve esser presentato come un atto di «martirio» (o «auto-martirio»), massimamente onorevole e premiato con la promessa di ricompense inestimabili nell’aldilà. Si possono individuare almeno tre accorgimenti attraverso i quali i gruppi armati di ispirazione islamista e jihadista collegano il sacriicio dei singoli attentatori suicidi alla causa promossa (cfr. hafez [2006a, pp. 36-41]). In primo luogo, come accennato, le organizzazioni propugnano la partecipazione al jihad armato come un obbligo individuale di fronte a un’aggressione subita, cioè come un dovere a cui nessun musulmano può sottrarsi; ciò in contrapposizione all’idea di un obbligo collettivo che ricade sull’intera comunità islamica, tale per cui soltanto alcuni dei suoi componenti sono tenuti a combattere in prima persona. In secondo luogo, i gruppi armati richiamano selettivamente alcuni passi del Corano e della Sunna (collezione di atti e detti attribuiti al Profeta) per giustiicare le proprie credenze e le proprie azioni. Chiaramente l’abilità sta nell’isolare ed enfatizzare alcuni brani e nel presentarli come inequivocabilmente conformi ai propri piani e interessi13, omettendo altri passi che potrebbero andare in direzione opposta. In terzo luogo, i gruppi si rifanno all’esperienza religiosa e politico-militare del Profeta Maometto, dalle ostilità subite inizialmente alla Mecca sino alla conquista inale dell’Arabia. D’altra parte, è importante sottolineare che la promozione della concezione e della pratica del martirio non richiede 13. In particolare, sono spesso citati passi coranici sul martirio e sul jihad: per esempio, ii, 154; iv, 69; viii, 17; ix, 14; ix, 111; lxi, 10-12 (hafez [2006a, pp. 37-38]).

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necessariamente giustiicazioni di origine religiosa. Organizzazioni laiche, come le Tigri Tamil in Sri Lanka, hanno saputo forgiare una cultura del martirio basata sull’esaltazione della igura (laica) dell’eroe: un eroe che non si limita a rischiare la propria vita per perseguire la «giusta causa», ma si spinge ino al punto di sacriicarla in maniera deliberata. Per riferirsi agli attacchi suicidi le ltte si premuravano di utilizzare il termine thatkodai («donarsi», «ofrirsi» in tamil), in contrapposizione all’espressione comune thatkolai («uccidersi») (strenski [2003, p. 22]). Ad ogni modo, la costruzione del martirio richiede impegno. Come ha rimarcato Jefrey W. Lewis [2008, p. 81]: il martirio non è qualcosa che semplicemente accade – è un processo costruito. Gli individui disposti a morire sono necessari, ma non suicienti per questo processo, poiché le loro azioni devono essere interpretate e presentate per diventare parte di un discorso pubblico. I martiri, naturalmente, non hanno alcun controllo sulla loro storia dopo la morte, così, ironicamente, diventano meno importanti nel processo di creazione dell’immagine pubblica di coloro i quali sopravvivono e coltivano tale immagine.

Sono proprio i gruppi armati a coltivare e promuovere attivamente la rappresentazione dei «martiri». Essi operano da abili «martirologisti», per prendere in prestito un’espressione coniata da Michael Barkun [2007, pp. 119-120]: la capacità di creare i martiri si basa non soltanto, o persino non primariamente, sui martiri stessi, ma anche sui successivi martirologisti. Un individuo può deliberatamente scegliere di mettere a rischio la propria vita per dimostrare la fedeltà ad una qualche causa; e tale oferta consapevole della vita è all’origine del concetto di martire. Nondimeno, la maniera in cui una morte viene vista […] dipende da come è presentata in seguito; e dopo il momento del martirio il martire perde il controllo di tale processo. Il processo è allora condotto da scrittori, organizzatori e altri manipolatori simbolici i cui programmi possono diferire da quelli del martire.

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Un martire non è, dunque, semplicemente la creazione di un individuo che muore in un modo particolare. È piuttosto un personaggio che deve essere costruito e che richiede perlomeno la cooperazione di martirologisti che presentino la morte nel modo desiderato.

La costruzione sociale del «martire» operata dai gruppi armati deve apparire credibile e convincente agli occhi della società di riferimento, specialmente nell’ambito del terrorismo suicida di tipo locale. Le organizzazioni violente devono conseguire quello che gli studiosi dei movimenti sociali chiamano l’«allineamento degli schemi interpretativi» (frame alignment), cioè la costituzione di un «legame tra le interpretazioni della realtà degli individui e delle organizzazioni di movimento sociale, in modo tale che determinati interessi, valori e credenze dei primi siano congruenti e complementari con le attività, gli obiettivi e l’ideologia delle seconde» (snow et al. [1986, p. 464])14. Come ha enfatizzato Pape [2005, p. 82], «il martirio – la morte per la propria comunità – è un costrutto sociale. Un individuo può desiderare di diventare un martire e può volontariamente sacriicare la sua vita per raggiungere questo scopo. Nondimeno, è la comunità che indica le condizioni per il martirio e giudica se il sacriicio di particolari individui soddisfa i requisiti per questo status speciale. […] Un individuo può morire. Solo una comunità può fare un martire». In realtà, sarebbe più corretto afermare che di norma è il gruppo armato che «fa» il martire, ma è vero che solo una comunità può riconoscerlo come tale. Le organizzazioni violente mostrano di interpretare gli attacchi suicidi come mezzi legittimi per promuovere una causa politica «giusta»; in particolare, l’atto del sacriicio estremo, rideinito nella forma onorevole del «martirio», può essere 14. L’approccio basato sui processi di framing, elaborato dagli studiosi dei movimenti sociali (in particolare, snow et al. [1986]), è stato utilmente impiegato per studiare la propaganda dei «movimenti terroristi islamici» (snow, byrd [2007]), di Hamas (wagemakers [2010]; cfr. anche robinson [2004, pp. 129-135]), di Hezbollah (karagiannis [2009]) e di al-Qaida (tosini [2012, pp. 107-111]).

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permeato da una genuina tensione ideale e morale15. Al tempo stesso, la violenza, in specie la violenza indiscriminata contro civili inermi (tipica delle organizzazioni radicali palestinesi, di al-Qaida e di altri gruppi armati), pone seri problemi di giustiicazione e di legittimazione della violenza per le organizzazioni, così come per i singoli attentatori suicidi e per la comunità di sostegno. Per quanto concerne le società a maggioranza musulmana, è opportuno ricordare che l’Islam proibisce la violenza contro i non combattenti (in particolare, donne, vecchi e bambini) e, allo stesso tempo, numerosi attentatori suicidi sono musulmani pii e osservanti. Il processo di giustiicazione della violenza assume particolare rilievo nel caso degli attacchi suicidi, una forma di violenza che implica la vicinanza isica dell’attentatore con le proprie vittime e consente sino all’ultimo di selezionare con precisione i bersagli da colpire. A diferenza di molti terroristi non suicidi (e dei responsabili dei bombardamenti aerei, per inciso), gli attentatori suicidi devono entrare in contatto con le loro vittime, confondersi tra le persone a cui daranno la morte, guardarle negli occhi. A volte sono anche autorizzati a selezionare in piena autonomia il luogo dell’attacco; in ogni caso, sta a loro decidere il momento esatto dell’esplosione (o dell’impatto). In altre parole, essi hanno sino all’ultimo la facoltà di scegliere chi saranno le vittime dell’attacco. Inoltre, negli attacchi suicidi, a diferenza di quanto avviene negli atti di terrorismo comuni realizzati per mezzo di congegni esplosivi, appare diicile attribuire uccisioni e ferimenti a errori tecnici o altre fatalità non volute per «salvare la faccia» a posteriori (cfr. kalyvas, sánchez-cuenca [2006, pp. 213-214]). Per portare a termine la missione, gli autori della violenza devono innalzare, in qualche modo, una sorta di barriera cognitiva ed emotiva tra loro stessi e le vittime (hafez [2006d, specie pp. 292-293]).

15. Riprendo qui, in parte, alcune rilessioni presentate in Marone [2008a, pp. 241-245].

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Molti studi hanno dimostrato che la maggioranza dei membri di organizzazioni terroristiche non è afatto costituita da individui anormali, afetti da psicopatologie o palesemente privi di orientamenti e qualità morali. All’opposto, i terroristi sono in grado di ricostruire selettivamente i propri codici morali relativi all’attuazione di condotte generalmente considerate inumane. Albert Bandura [1990] ha individuato otto «meccanismi di disimpegno morale» (mechanisms of moral disengagement) riguardanti l’attività terroristica: la «giustiicazione morale» (1), i «confronti vantaggiosi» (2) e l’«etichettamento eufemistico» (3) riguardano la condotta violenta; il «dislocamento della responsabilità» (4) e la «difusione della responsabilità» (5) toccano la responsabilità della condotta; la «minimizzazione, cancellazione o distorsione delle conseguenze» (6) coinvolge le conseguenze della condotta; la «deumanizzazione» (7) e l’«attribuzione di colpa» (8), inine, interessano le vittime16. Per mezzo di questi meccanismi i terroristi evitano il disagio provocato dalla dissonanza cognitiva e da eventuali sentimenti di colpa. Attraverso i meccanismi di disimpegno morale condotte altrimenti giudicate immorali vengono gradualmente ricostruite a livello cognitivo come atti moralmente e socialmente accettabili. Bandura è interessato principalmente alle dinamiche psicosociali in capo agli individui coinvolti nelle attività di carattere terroristico. Al contrario, in questa sede l’attenzione è rivolta all’uso politico dei meccanismi di disimpegno morale. In questo ambito il ruolo degli esponenti dei gruppi armati, nella veste di «imprenditori» della violenza politica, appare centrale. Nel caso degli attacchi suicidi, sei meccanismi sono di particolare rilievo: la giustiicazione morale, l’attribuzione di etichette eufemistiche, i confronti vantaggiosi, la deumanizzazione, la deindividualizzazione e l’attribuzione di colpa (cfr. hafez [2006d]; marone [2008a]). 16. Evidentemente i meccanismi di disimpegno morale non vengono impiegati soltanto dalle organizzazioni terroristiche, ma si ritrovano in molti altri ambiti dell’agire umano.

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La giustiicazione morale è il meccanismo attraverso il quale i responsabili della violenza presentano l’attacco suicida come un atto meritorio o quantomeno moralmente accettabile. La costruzione sociale del martirio, come accennato, consente di vedere nella pratica di morire per uccidere un gesto onorevole e persino degno della massima ammirazione. Nella retorica delle organizzazioni jihadiste l’«operazione di auto-martirio» viene addirittura presentata come un atto che risponde a un comando divino: «Dio lo vuole». In altre occasioni l’attacco suicida viene giustiicato ricorrendo ad argomentazioni di carattere utilitaristico: la violenza serve una causa superiore (la liberazione della patria, la lotta contro l’oppressione, la difesa della religione). Secondo questa linea argomentativa, il valore morale si trasferisce dai ini della violenza ai mezzi attraverso cui viene esercitata: in estrema sintesi, i ini giustiicano i mezzi. I responsabili della violenza potranno persino riconoscere la natura crudele ed estrema delle azioni perpetrate, ma le giudicheranno comunque inevitabili, un «male necessario». Il secondo meccanismo è l’attribuzione di etichette eufemistiche che mascherano e rendono rispettabile la violenza per mezzo di «espressioni palliative» (bandura [1990, p. 170]): gli attacchi suicidi diventano così «atti di martirio» od «operazioni di auto-martirio». In efetti la nozione di «suicidio» richiama alla mente le idee di fuga, viltà, inadempienza e debolezza e porta con sé un senso di sconitta e di disperazione. All’opposto, la nozione di «martirio» evoca eroismo, senso del dovere e forza d’animo e può rappresentare un simbolo di speranza e di proiezione verso il futuro. Non sorprende quindi che i gruppi armati rigettino con sdegno la prima etichetta a favore della seconda. Oltretutto un gesto riconosciuto come suicida è solitamente oggetto di riprovazione sociale (che in alcune società tradizionali si estende persino alla famiglia di chi è morto) e di condanna religiosa (in particolare, nella dottrina islamica). Al contrario, l’enfasi sul concetto di martirio rende più diicile la formulazione di critiche dirette nei confronti degli esecutori della violenza. Come ha osservato

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Eyad el Sarraj, noto psichiatra laico di Gaza, in Palestina «tu puoi dire “condanno il terrore, condanno l’uccisione dei civili”, ma non puoi dire “condanno i martiri”, perché i martiri sono profeti» (citato in hafez [2006d, p. 304]). Con il meccanismo dei confronti vantaggiosi i responsabili e i fautori della violenza presentano gli attacchi suicidi come azioni di minor gravità e di minor conto rispetto alle azioni portate a termine dall’avversario, sfruttando il «principio del contrasto». La violenza esercitata viene minimizzata, mentre la violenza subita viene enfatizzata e persino esagerata. Per esempio, in un’intervista ad al-Jazeera dell’ottobre del 2001 Bin Laden ha tentato di sminuire la portata dell’11 settembre richiamando la morte di «più di un milione di bambini» in Iraq dopo l’inizio dell’embargo, imposto nel 1990-1991. In questo senso, le organizzazioni violente chiaramente sono interessate a mettere in evidenza le condizioni di inferiorità militare in cui versano. In particolare, le campagne di attacchi suicidi vengono spesso presentate come azioni difensive di fronte alla soverchiante superiorità militare e tecnologica del nemico. I confronti vantaggiosi non hanno limiti temporali ben deiniti e possono anche chiamare in causa lontani eventi storici. Per esempio, i promotori degli attentati suicidi palestinesi non di rado menzionano misfatti compiuti da Israele decine di anni prima, come la complicità nel massacro di Sabra e Shatila del 1982. Attraverso il meccanismo della deumanizzazione le vittime della violenza vengono raigurate come esseri subumani, di solito con richiami al mondo animale: per esempio, in numerose dichiarazioni e rappresentazioni di gruppi radicali palestinesi, gli israeliani sono visti come «cani», «maiali» o «scimmie» (marone [2008a, p. 244]). L’attribuzione di qualità sub-umane all’avversario, da un lato, produce una distanza incolmabile tra le due parti, facilitando così il proseguimento e addirittura la radicalizzazione del conlitto; dall’altro, priva le vittime delle prerogative morali normalmente associate agli esseri umani, rendendole così immeritevoli di trattamenti compassionevoli: come a dire,

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non è normale uccidere legittimamente un uomo, ma si può uccidere un animale17. La deumanizzazione in senso proprio può essere distinta dalla deindividualizzazione, un processo in virtù del quale le vittime della violenza perdono i loro tratti e le loro responsabilità individuali e vengono considerate come parti di un tutto organico e astratto. La collettività nemica a cui le vittime appartengono viene quindi rappresentata come un blocco monolitico con caratteristiche inconfutabili, inesorabilmente condivise da tutti i suoi membri e immutabili nel tempo: la generalizzazione si estende nello spazio sociale e nel tempo (ciò consente, per inciso, i confronti vantaggiosi con eventi del passato). La collettività, in altri termini, subisce un processo di reiicazione che fornisce una pretesa di giustiicazione morale all’uso della violenza; in qualche modo, i singoli individui (compresi i civili) non hanno più valore in sé, ma sono semplici rappresentanti della collettività nemica e pertanto possono essere legittimamente uccisi. In efetti «è molto più facile stereotipare e categorizzare un intero popolo come nemico collettivo che odiare i singoli individui» (juergensmeyer [2000, trad. it. p. 192]). Il processo di deindividualizzazione, con la conseguente raigurazione di un nemico astratto e monolitico, può essere favorito dalla presenza di alcuni «nessi di complicità» tra la popolazione civile e lo Stato o il governo. In particolare, il voto democratico con sufragio universale ha l’efetto di ridurre notevolmente la distanza tra i civili ordinari e il governo. Com’è noto, i gruppi armati hanno spesso approvato l’uso della violenza contro obiettivi civili adducendo come giustiicazione il sostegno oferto dalla popolazione ai relativi governi in carica: così hanno fatto, per esempio, al-Qaida e i gruppi radicali palestinesi. In relazione ad alcuni Paesi, come Israele, la leva universale costituisce un altro elemen17. D’altronde, è interessante notare che nel conlitto israelo-palestinese gli israeliani vengono talvolta presentati, allo stesso tempo, come esseri quasi sovraumani, non di rado alla luce di una visione cospiratoria del ruolo degli ebrei nel mondo.

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to istituzionale che accentua l’identiicazione tra cittadini e Stato, attenuando oltretutto la distinzione tra civili e militari (marone [2008a, in particolare pp. 235-239]; cfr. anche goodwin [2006a]). Da ultimo, l’attribuzione di colpa nei confronti dell’avversario rende chiaramente più facile l’applicazione della violenza. Questa strategia è molto frequente nei conlitti armati, tanto più nei conlitti prolungati (come quello tra palestinesi e israeliani o tra tamil e cingalesi), dove nessuno dei due antagonisti appare totalmente esente da colpe. Ciascuna delle due parti pertanto può sempre isolare in maniera selettiva da una catena complessa di eventi un’azione del nemico che sembri meritevole di biasimo; in particolare, si può deinire come ofensivo e aggressivo un intervento che, a sua volta, era concepito dall’avversario come un semplice atto di ritorsione. In questo caso, all’attribuzione di colpa si accompagnano i meccanismi della giustiicazione morale e dei confronti vantaggiosi. In virtù del processo di deindividualizzazione e per mezzo dei nessi di complicità menzionati in precedenza, le presunte colpe dell’avversario tendono a ricadere su tutte le vittime della violenza terroristica, in quanto appartenenti alla collettività avversaria; agli occhi dei gruppi armati, le colpe diventano collettive e rendono quindi legittimo l’impiego di attacchi suicidi con modalità indiscriminate. A questo si aggiunga che, come anticipato nel secondo capitolo, la disponibilità a ofrire la propria vita nel corso di una missione senza ritorno può fornire una pretesa di giustiicazione per l’uccisione di altre persone, poiché l’attentatore suicida muore mentre uccide e si condanna, quindi, alla stessa sorte che impone alla sua vittima. In questa visione, la colpa dell’attentatore viene, in qualche modo, «redenta» attraverso il suo sacriicio. In generale, è evidente che l’impiego degli attacchi suicidi è inluenzato dagli orientamenti ideologici dei singoli gruppi armati. Come detto, l’ideologia salaita-jihadista ben si presta all’uso di questa forma di violenza estrema. Al contrario, la dottrina marxista, tradizionalmente avversa alle iniziative

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di natura individualistica, oppone vincoli non trascurabili all’adozione della violenza suicida. Non è un caso che quasi nessuna delle pur numerose organizzazioni e sigle violente di ispirazione marxista abbia optato per questa scelta. Le eccezioni sono rappresentate dal pkk curdo e dal fplp palestinese, formazioni politiche in cui le rivendicazioni etno-nazionalistiche (riguardanti la comunità politica) hanno inito per prevalere sugli obiettivi ideologici relativi al regime politico; queste due organizzazioni costituiscono interessanti esempi dell’efetto di contagio nell’area mediorientale, a seguito della difusione di «operazioni di martirio» di ispirazione islamista. Nondimeno non bisogna trascurare il fatto che molti studi sul terrorismo hanno ridimensionato il valore autonomo degli orientamenti ideologici delle organizzazioni, presentandoli spesso come costrutti relativamente duttili e mutevoli, soggetti a processi di negoziazione e di adattamento; per questo, da non reiicare. 4. Il mercato dei martiri L’uso sistematico degli attacchi suicidi implica un punto di incontro tra domanda (dei gruppi armati) e oferta (degli attentatori suicidi) di violenza suicida in una sorta di «mercato dei martiri» (cfr. iannaccone, introvigne [2004])18, a cui può prender parte anche la società di riferimento. In questo particolare «mercato» l’organizzazione violenta ofre all’attentatore suicida l’opportunità pratica di portare a termine la missione e la pretesa di legittimazione del sacriicio dinanzi 18. Gli stessi membri dei gruppi armati impiegano talvolta espressioni di derivazione economica; per esempio, in un’intervista rilasciata a Yoram Schweitzer [2007, p. 683], Walid Daka, militante del fplp, così descrive la proliferazione di attacchi suicidi all’apice della Seconda Intifada, in una fase di crescente frammentazione organizzativa: «“La nuova realtà ha aperto la porta agli imprenditori ed è così che il processo di privatizzazione dell’industria suicida è iniziato. Il mercato era saturo dal lato dell’oferta e i mezzi di produzione erano disponibili, così come le risorse umane”».

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alla comunità di sostegno e all’intera società di riferimento e ofre alla società la promessa di successi politici a vantaggio di tutta la collettività, ricompense simboliche e, in alcuni casi (Hezbollah, Hamas, le ltte), risorse materiali sotto forma di beni e servizi di assistenza alla popolazione. L’attentatore suicida ofre all’organizzazione la possibilità di impiegare la sua vita nell’esecuzione di missioni senza ritorno in vista di determinati obiettivi politici e ofre alla società il proprio sacriicio per il «bene comune». La società di riferimento, inine, può ofrire all’organizzazione il proprio supporto materiale e morale e può ofrire all’attentatore suicida varie ricompense (postume). A sua volta, ciascuno dei tre soggetti riceve ciò che hanno oferto gli altri due, in un sistema di scambi reciproci. Sviluppando la similitudine del mercato, si può afermare che il rapporto tra l’organizzazione dedita al terrorismo e l’attentatore suicida ricorda, per alcuni versi, il rapporto tra l’impresa e il lavoratore dipendente. I gruppi armati sono imprese, con diferenti forme organizzative (cfr. zelinsky, shubik [2009]), che producono atti di violenza e ofrono remunerazioni materiali e simboliche ai propri «dipendenti» e ai propri «clienti». I dirigenti delle organizzazioni operano come imprenditori politici che professionalmente selezionano, formano e dirigono la forza lavoro (compresa la forza lavoro suicida) che consente di produrre gli atti di violenza. Alla stregua di imprese accorte, i gruppi armati sono attenti a selezionare e impiegare gli attentatori suicidi in base al loro «capitale umano» e alla loro «produttività» (benmelech, berrebi [2007]). In alcuni mercati le organizzazioni terroristiche si devono confrontare con la concorrenza di organizzazioni rivali: il caso più evidente è quello dei gruppi radicali palestinesi durante la Seconda Intifada. In un sifatto contesto ciascuna organizzazione cerca di conquistare «quote di mercato», in termini di risorse, di consenso e di potere (bloom [2004; 2005]). La concorrenza tende a essere «sleale» perché le «imprese violente» non esitano a utilizzare mezzi ingan-

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nevoli e a dir poco scorretti per ottenere un vantaggio sui competitori o per arrecare loro dei danni: per esempio, usurpando il merito dei loro successi attraverso la rivendicazione della paternità di attacchi suicidi di cui, in realtà, non sono responsabili. Le «imprese», inine, possono ricevere inanziamenti da investitori esterni e da «clienti» interessati all’impiego della violenza. L’«impresa» (organizzazione) e il «lavoratore dipendente» (attentatore suicida) sono legati da una sorta di contratto, basato sullo scambio di prestazioni e sull’assunzione di obblighi per entrambe le parti. In generale, l’adempimento del contratto è mutuamente vantaggioso, ma entrambi i soggetti potrebbero avere la tentazione di non rispettare i propri impegni, tanto più se si considera che essi non vengono messi in atto simultaneamente, ma in sequenza. Si possono individuare, infatti, almeno tre fasi consecutive: nella prima fase l’organizzazione seleziona, addestra ed equipaggia l’attentatore suicida, nella seconda fase l’attentatore porta a termine la missione sacriicando la propria vita, nella terza fase l’organizzazione riconosce e celebra la igura dell’attentatore e ricompensa la sua famiglia (harrison [2006, pp. 10-12]). La iducia reciproca potrebbe consentire il rispetto di un accordo che prevede oneri ora per un soggetto ora per l’altro. Nondimeno la terza fase ha luogo quando una delle due parti (l’attentatore suicida), ovviamente, non ha più la possibilità di veriicare e reclamare l’impegno della controparte (l’organizzazione): il gruppo armato potrebbe quindi sottrarsi all’obbligo di celebrare il «martire» e ricompensare la sua famiglia, risparmiando risorse ed evitando rischi per la sicurezza del gruppo. Probabilmente in alcune occasioni una comunità di sostegno vigile e reattiva può svolgere la funzione di controllare e favorire l’osservanza dell’accordo iniziale. In particolare, la registrazione di un video-testamento pubblico, la promozione della igura del «martire che cammina» e la conseguente imposizione di gravi sanzioni sociali per il «martire» che riiuta di portare a termine la sua missione hanno l’efetto di vincolare entrambe le parti agli impegni

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assunti, dinanzi a una sorta di garante19. D’altra parte, occorre rilevare che nell’ambito del terrorismo suicida di tipo transnazionale, in assenza di un’ampia comunità di sostegno coesa e isicamente riunita, il ruolo della pressione sociale difusa è meno rilevante. Chiaramente l’attacco suicida può essere portato a termine quando la domanda organizzativa di violenza suicida si incontra con l’oferta individuale (a parte i casi eccezionali di coercizione ai danni dell’attentatore suicida, in cui l’oferta non è genuina). Nella maggior parte delle manifestazioni di terrorismo, la volontà di morire per uccidere manca su entrambi i lati; in altri termini, gli individui non sono disposti a sacriicare la propria vita in maniera premeditata e l’organizzazione non è interessata all’uso della violenza suicida. Nondimeno, Kalyvas e Sánchez-Cuenca [2006, pp. 211-213] hanno riportato alcuni casi di grande interesse in cui tale disponibilità sembra mancare soltanto da un lato: da una parte, dopo l’11 settembre 2001 le farc hanno cercato inutilmente dei volontari per un attacco suicida contro il presidente colombiano Uribe; dall’altra, il gia algerino e persino l’eta basca negli anni ’90 hanno riiutato la candidatura spontanea di alcuni simpatizzanti, per ragioni che, purtroppo, tendono a sfuggirci. Soltanto quando domanda e oferta si incontrano in un «mercato», gli attacchi suicidi possono essere impiegati in maniera sistematica e continuativa.

19. Si può congetturare che in questi casi un modo per contrastare l’uso degli attacchi suicidi sia quello di ofrire al potenziale «disertore» l’opportunità di fuggire oppure quello di alleggerire il peso delle sanzioni sociali a suo carico (ferrero [2006]).

6. La politica del terrorismo suicida

Questo capitolo affronta il problema, spesso trascurato, dell’utilità degli attacchi suicidi per i gruppi armati che vi fanno ricorso. Il testo è diviso in tre sezioni. La prima sezione esamina il grado di eicacia e di eicienza di questa forma di violenza sotto il proilo tattico e operativo. La seconda sezione presenta una classiicazione originale degli scopi che le organizzazioni perseguono attraverso questo metodo. La terza sezione, inine, esplora il problema degli esiti del terrorismo suicida. 1. L’efficacia e l’efficienza tattica Una delle ragioni alla base della recente proliferazione degli attacchi suicidi riguarda l’eicacia e l’eicienza di questa forma di violenza sotto il proilo tattico e operativo. Innanzitutto il metodo degli attacchi suicidi si è dimostrato eicace. Per delineare i suoi beneici è utile distinguere due funzioni della violenza politica e, in particolare, della violenza terroristica: la funzione materiale, relativa alla causazione di danni isici immediati, e la funzione simbolica, concernente la rappresentazione o comunicazione di messaggi (marone [2008a, pp. 212-213]). Per quanto riguarda la funzione materiale, gli attacchi suicidi si rivelano particolarmente eicaci perché assicurano tipicamente tre beneici importanti. In primo luogo, consentono di superare con maggior facilità le misure di sicurezza predisposte dall’avversario, assicurando al gruppo armato

242

la possibilità di colpire anche obiettivi altamente protetti. In secondo luogo, garantiscono la possibilità di scegliere con precisione il momento e il luogo dell’attacco. Questa lessibilità permette, da una parte, di aumentare le probabilità che la missione venga completata e, dall’altra, di massimizzarne gli efetti, specialmente il livello di letalità. Molti studiosi hanno osservato che gli attacchi suicidi provocano più morti e feriti di qualsiasi altra forma di violenza terroristica (se si esclude l’ipotetico impiego di armi di distruzione di massa: cfr. dolnik [2003])1. La recente afermazione del metodo degli attacchi suicidi è stata paragonata persino alla «rivoluzione degli afari militari» delle forze armate degli Stati Uniti e di altri Paesi avanzati, specialmente in relazione ai sistemi di controllo; soltanto nelle attività terroristiche l’apporto dell’elettronica viene rimpiazzato dall’impiego del fattore umano, che si protrae (e si consuma) sino al compimento della missione (lewis [2007, pp. 228-229])2. In terzo luogo, gli attacchi suicidi evitano a monte rischi per la clandestinità e la sicurez-

1. Secondo una nota stima di Robert A. Pape [2005, p. 5], «il terrorismo suicida è diventato la forma di terrorismo più letale. Gli attacchi suicidi ammontano ad appena il 3% di tutti gli episodi di terrorismo [eseguiti] dal 1980 al 2003, ma sono responsabili del 48% di tutte le morti, rendendo l’attacco terroristico suicida medio dodici volte più letale delle altre forme di terrorismo – anche senza contare le immense perdite dell’11 settembre». I dati forniti da Pape sono stati contestati da altri studiosi (in particolare, ricolfi [2006, p. 118]; cfr. anche moghadam [2006c]) perché contengono errori e gravi omissioni; nondimeno sono indicativi del potere distruttivo di questa forma di violenza. 2. La rilevanza del grado di controllo e di precisione garantito dagli attacchi suicidi è evidente nel caso palestinese. Hamas e altre organizzazioni radicali, di fronte all’ostacolo posto dalla costruzione della barriera di sicurezza israeliana in Cisgiordania durante la Seconda Intifada, furono costrette a sostituire progressivamente l’esecuzione degli attacchi suicidi con il lancio di razzi rudimentali privi di sistemi di guida e controllo (cfr. dolnik, bhattachrajee [2002]). Questa seconda opzione, pur assicurando un potere di minaccia non trascurabile su porzioni del territorio israeliano, si è rivelata molto meno letale. A ben vedere, attacchi suicidi e razzi non sono armi molto diverse: la quantità di esplosivo impiegata è simile ed entrambi consentono di colpire l’avversario senza preavviso. La diferenza nella capacità distruttiva risiede proprio nella presenza di un sistema di guida e controllo (lewis [2007, p. 230]).

La politica del terrorismo suicida

243

za del gruppo armato, connessi, in particolare, all’eventualità della cattura dell’attentatore. Berman e Laitin [2006] hanno sostenuto che le organizzazioni violente decidono di adottare il metodo degli attacchi suicidi proprio perché intendono colpire «obiettivi diicili» (hard targets), cioè obiettivi la cui distruzione non consente agili vie di fuga, ma comporta, al contrario, alti rischi di cattura per l’attentatore. Gli attacchi suicidi sono quindi riservati a obiettivi così ben difesi che diicilmente possono essere colpiti attraverso altre forme di violenza, più comuni e meno dispendiose in relazione all’impiego di risorse umane. L’ipotesi di Berman e Laitin trova una conferma interessante nel caso del conlitto israelo-palestinese (ivi, pp. 11-12): i gruppi armati palestinesi, nel complesso, hanno compiuto atti di violenza (non suicida e suicida) principalmente nei Territori palestinesi, ma hanno concentrato gli attacchi suicidi nel territorio di Israele. Questi gruppi, infatti, possono trovare nei Territori un’ampia gamma di obiettivi relativamente «facili» (sot), che possono attaccare con metodi solitamente meno impegnativi degli attacchi suicidi; le missioni al di là della cosiddetta «Linea verde»3, invece, sono tipicamente indirizzate contro obiettivi «diicili» perché richiedono l’attraversamento di checkpoints e, in alcuni tratti, il superamento di muri e barriere di separazione e, inoltre, possono essere messe a repentaglio dall’identiicazione del «proilo etnico» degli attentatori palestinesi in aree a maggioranza ebraica (cfr. kliot, charney [2006]; marone [2008a, p. 223]). Ayers [2008, specie p. 861] ha confermato la validità dell’interpretazione di Berman e Laitin in relazione al caso iracheno, sottolineando il valore tattico (più che strategico) del metodo degli attacchi suicidi. L’elemento della morte volontaria dell’attentatore consente di portare a termine attacchi che diicilmente potrebbe3. Con l’espressione «Linea verde» (Green Line) si indica la linea di demarcazione tra Israele e la Cisgiordania (o West Bank); la linea fu stabilita con gli Accordi dell’Armistizio del 1949, alla ine della prima Guerra arabo-israeliana (1948).

244

ro essere realizzati con modalità non suicide. Per citare un esempio capitale: con ogni probabilità, gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, i più disastrosi della storia, non sarebbero stati possibili senza il ricorso al sacriicio dei diciannove dirottatori di al-Qaida. A questo proposito, si può congetturare che la decisione di non avvalersi di questo metodo nell’attacco al medesimo World Trade Center di New York del 26 febbraio 1993, organizzato da un gruppo di estremisti islamici (juergensmeyer [2000, trad. it. pp. 65-74]), abbia contribuito al sostanziale fallimento dell’operazione. Signiicativo è anche il caso del famigerato attentato chimico eseguito dal movimento religioso Aum Shinrikyo nel 1995 in Giappone; secondo la ricostruzione di Mark Juergensmeyer [2000, trad. it. p. 131, corsivo aggiunto], «se il gas sarin sprigionato nella metropolitana di Tokyo il 20 marzo 1995 avesse avuto tra il 70 e l’80 per cento di purezza, invece di essere diluito al 30 per cento soltanto della sua forza (unicamente per salvaguardare la sicurezza dei membri dell’Aum che lo trasportavano), sarebbero morte migliaia di persone». Alla ine, le vittime dell’attacco furono «soltanto» dodici. Sotto il proilo della funzione simbolica4, il metodo degli attacchi suicidi garantisce almeno quattro beneici. In primo luogo, attira l’attenzione. A questo proposito vale la pena di ricordare due celebri sentenze dello studioso Brian M. Jenkins, secondo le quali «il terrorismo è teatro» e «i terroristi non vogliano che molti muoiano, ma che molti guardino»5. Evidentemente un gesto estremo e ultimativo come il sacri4. La lucida analisi delle «funzioni politiche della violenza» tratteggiata da Mario Stoppino [2001, pp. 87-97] ofre spunti interessanti a questo proposito. 5. Nondimeno, rispetto a quest’ultima afermazione occorre rilevare che il cosiddetto «nuovo terrorismo» contemporaneo appare più incline alle grandi stragi rispetto al terrorismo degli anni ’70, cui faceva riferimento Jenkins (cfr. quillen [2002]). Gordon H. McCormick ha quindi proposto di aggiungere il «Primo Corollario di McCormick alla Legge di Jenkins: “se molte persone muoiono, molte altre persone guardano”» (mccormick, fritz [2010, p. 138, corsivo nel testo]): per le organizzazioni terroristiche sarebbe proprio l’elevata letalità degli attacchi compiuti a consentire di richiamare maggiore attenzione.

La politica del terrorismo suicida

245

icio premeditato non fa che incrementare la capacità della violenza politica di attrarre l’attenzione generale (infra, paragrafo 2.1 di questo capitolo). In secondo luogo, il ricorso agli attacchi suicidi contribuisce a legittimare la causa rivendicata. In efetti, la violenza terroristica è spesso impiegata come «propaganda del fatto», per citare la celebre espressione di origine anarchica. Il mezzo estremo della violenza esprime e trasmette immediatamente la gravità della situazione di ingiustizia percepita e la salienza e l’impellenza delle rivendicazioni avanzate. Questa pretesa di legittimazione appare ancora più intensa e potente con il ricorso all’attacco suicida; nella sua estremità, questo metodo può manifestare l’insostenibilità delle condizioni esistenti e l’assoluta «nobiltà» e genuinità della causa politica promossa dai responsabili della violenza6. Come ha dichiarato in un’intervista un aspirante attentatore suicida ailiato al fplp, «non puoi vincere da solo, ma il tuo sacriicio contribuirà a mostrare al mondo la vera natura del tuo io oferto in sacriicio e del tuo disumano avversario» (citato in bloom [2005, p. 30]). In terzo luogo, gli attacchi suicidi possono aumentare la coesione del gruppo armato e della comunità di sostegno (infra, paragrafo 2.3). Da una parte, la morte dell’attentatore suicida può raforzare i legami tra i membri del gruppo che sopravvivono all’attacco e può anche imporre loro obblighi morali nei confronti dei «martiri»7. Dall’altra parte, il sacriicio può essere vissuto come una grave perdita collettiva. 6. Stoppino [2001, p. 90] ha osservato: «un metodo eicace per afermare la legittimità delle proprie rivendicazioni può essere anche il suicidio, individuale o di gruppo. In una situazione in cui la soverchiante forza avversaria non lascia aperta alcuna possibilità di azione operante, il suicidio, che può assumere anche la forma della provocazione del martirio, sprigiona una carica simbolica molto intensa: bolla con il marchio dell’ingiustizia lo stato di cose presente e getta una luce profetica su un futuro più o meno lontano». Queste considerazioni avevano come riferimento principale le auto-immolazioni (come il suicidio di Jan Palach a Praga nel 1969), ma valgono anche per gli attacchi suicidi. 7. Il rispetto di obblighi morali nei confronti dei compagni di lotta contribuisce signiicativamente alla conservazione e al consolidamento delle organizzazioni terroristiche (responsabili di attachi suicidi o non suicidi), anche in fasi di crisi

246

Ancor più, può essere interpretato come un nobile atto di martirio a beneicio della comunità di sostegno e dell’intera società di riferimento, con tutta la potente valenza simbolica che si sprigiona da questo gesto. Non è un caso che in Libano, nei Territori palestinesi, in Sri Lanka e in altre aree la morte degli attentatori suicidi sia commemorata e celebrata attraverso una serie di riti collettivi. La disponibilità all’estremo sacriicio può anche svolgere la funzione di mostrare la presunta superiorità morale del gruppo armato e della comunità di sostegno rispetto al temibile nemico, spesso dipinto come «materialista», «edonista» e fondamentalmente «debole», a dispetto della sua superiorità militare e tecnologica. Inine, gli attacchi suicidi consentono di potenziare la capacità di intimidazione ai danni dell’avversario. In particolare, questa forma di violenza incute il timore che non vi siano mezzi di deterrenza eicaci di fronte a individui decisi a morire per la propria causa. Al limite, gli attentatori suicidi possono apparire come «folli» imprevedibili che non possono essere fermati. È interessante osservare che le organizzazioni possono servirsi razionalmente dell’immagine di irrazionalità che viene loro attribuita (e che esse stesse hanno tutto l’interesse ad ampliicare) per sfruttare gli efetti psicologici che produce sull’avversario e sulle parti terze. Ciò spiega anche la sopravvalutazione della frequenza e, in parte, della stessa rilevanza politica degli attacchi suicidi, anche a fronte della loro relativa esiguità numerica rispetto al totale degli atti di terrorismo e, in generale, di violenza politica organizzata (cfr. mueller [2005]). Oltre a essere eicaci in termini di beneici, gli attacchi suicidi sono anche eicienti in termini di costi perché di norma non richiedono competenze e abilità particolari da parte degli attentatori (quantomeno laddove siano adeguatamente supportati da un’organizzazione)8; né esigono risorse, acuta; come ha mostrato, per esempio, Donatella della Porta [1990] nel caso del terrorismo di sinistra in Italia. 8. Sotto questo proilo, gli attacchi suicidi dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti costituirono una signiicativa eccezione perché richiesero competen-

La politica del terrorismo suicida

247

informazioni o capacità logistiche considerevoli da parte dei gruppi armati. In particolare, questa forma di violenza consente di comprimere i costi monetari dell’esecuzione degli attacchi: secondo alcuni esperti, per realizzare un attentato suicida nell’area del conlitto israelo-palestinese non sarebbero necessari più di 150 dollari (hassan [2001, p. 38]; hoffman [2006, p. 133]). In realtà, i costi organizzativi, per quanto meno evidenti, possono essere tutt’altro che trascurabili. Nondimeno, una volta che è stata messa in funzione un’apposita struttura organizzativa, i costi marginali di ciascun attacco sono spesso contenuti. In breve, il metodo degli attacchi suicidi appare particolarmente eicace ed eiciente, tanto che l’attentatore suicida ha meritato persino la qualiicazione di «bomba intelligente deinitiva» (ultimate smart bomb) (hoffman [2003]). La disponibilità a sacriicarsi dell’attentatore consente di accrescere le capacità distruttive e le potenzialità comunicative di questi atti di violenza. In questo senso, è interessante sottolineare che tra le due componenti dell’attacco suicida, morire e uccidere, non vi è soltanto una connessione di ordine psicologico, come suggerito dalle osservazioni tratte da Camus (supra, capitolo 2), ma anche e soprattutto una connessione di ordine squisitamente operativo e tattico. 2. Gli scopi della violenza Questa sezione intende esaminare gli scopi perseguiti dai gruppi armati attraverso il metodo degli attacchi suicidi. Alcuni studiosi hanno elaborato interpretazioni generali dell’uso di questa forma di violenza che si basano sull’individuazione di un solo scopo o quantomeno di uno scopo principale. In particolare, Robert A. Pape [2005] (cfr. anche pape, feldman ze tecniche e abilità non comuni; per questo non sorprende che gli attentatori suicidi posti alla guida del commando di al-Qaida appartenessero a classi sociali relativamente agiate e vantassero livelli di istruzione elevati (cfr. holmes [2006]).

248

[2010]) ha proposto un’ambiziosa «teoria nazionalista del terrorismo suicida» secondo la quale le campagne di attacchi suicidi hanno lo scopo di esercitare «coercizione» ai danni di uno Stato per costringerlo a porre termine a un’occupazione territoriale. D’altra parte, Mia M. Bloom [2005] ha sostenuto che le campagne di attacchi suicidi sono associate all’obiettivo di un «gioco al rilancio» (outbidding) nell’ambito di una competizione tra organizzazioni rivali. Le interpretazioni fornite da Pape e da Bloom considerano rispettivamente la coercizione e il gioco al rilancio come lo scopo principale, se non esclusivo, dell’impiego di questa forma di violenza da parte dei vari gruppi armati. Tali interpretazioni sono eleganti e parsimoniose, ma sfortunatamente non appaiono idonee a rendere conto della complessità di questo fenomeno. Al contrario, occorre riconoscere che gli scopi delle campagne di attacchi suicidi sono molteplici e solitamente sono intrecciati tra loro. Anche nell’ambito di un solo contesto geograico, gli scopi perseguiti attraverso questo metodo variano nel corso del tempo, cambiano da organizzazione a organizzazione, e si collocano su piani diferenti; per esempio, interessano arene diverse: l’«arena esterna» che riguarda la relazione con l’avversario e con le parti terze, l’«arena interna inter-organizzativa» che interessa la competizione tra organizzazioni rivali e l’«arena interna intra-organizzativa» che tocca il confronto interno a ciascuna organizzazione (marone [2010]). Numerosi studiosi hanno proposto fenomenologie degli scopi della violenza terroristica (a titolo di esempio, Thornton [1964]; Crenshaw [1981]; Kydd, Walter [2006]). Di recente Jon Elster [2006, pp. 248-250] ha distinto utilmente cinque «meccanismi» in azione nell’uso degli attacchi suicidi: la «deterrenza» (ovvero quella che Pape chiama la coercizione), il «sabotaggio» di trattative tra attori moderati delle parti in conlitto, il «gioco al rilancio» (overbidding) in una competizione tra gruppi rivali, la «rappresaglia» e la «provocazione». Questa sezione propone una classiicazione originale degli scopi del terrorismo e, in particolare, del terrorismo suici-

La politica del terrorismo suicida

249

da, dal punto di vista dei gruppi armati che vi fanno ricorso. La classiicazione si basa sull’identiicazione di tre classi di soggetti implicati nella violenza: soggetti chi assistono alla violenza, soggetti che subiscono la violenza e soggetti che esercitano e sostengono la violenza9. È noto, infatti, che le organizzazioni terroristiche si rivolgono a pubblici diversi. A sua volta, in capo a ciascuna delle tre classi è possibile attirare l’attenzione sull’orizzonte temporale della violenza, distinguendo breve, medio e lungo periodo. Questa distinzione è importante perché permette di render conto di un altro elemento di complessità dell’attività terroristica: gli scopi immediati della violenza rappresentano spesso delle condizioni indispensabili per raggiungere scopi di più ampio respiro. Se si ignora questa articolazione temporale si rischia di non impostare correttamente la questione degli scopi e degli esiti del terrorismo. Nelle pagine che seguono verranno quindi discussi i principali scopi del terrorismo suicida. Per semplicità, gli esempi menzionati riguarderanno in prevalenza due casi molto importanti e interessanti: la violenza suicida delle organizzazioni radicali palestinesi contro Israele e quella di al-Qaida contro gli Stati Uniti e i loro alleati (con particolare riferimento agli attacchi dell’11 settembre). Si tratta di casi distanti tra loro e, per certi versi, opposti. In primo luogo, sono distanti in relazione agli obiettivi strategici di fondo: il caso dei gruppi radicali palestinesi fa chiaramente riferimento al terrorismo suicida di tipo locale, mentre al-Qaida è la protagonista del tipo transnazionale. In secondo luogo, i due casi sono distanti rispetto alle modalità di applicazione della violenza: le campagne di attacchi suicidi palestinesi sono un ottimo esempio di terrorismo «ricorrente», contraddistinto da attacchi ad alta frequenza e bassa intensità, mentre la violenza di al-Qaida, quantomeno in relazione all’11 settembre e ad altri attentati 9. Si prende qui spunto dalla stimolante classiicazione delle funzioni politiche della violenza elaborata da Mario Stoppino [2001, pp. 87-97]. Secondo Stoppino, «le conseguenze o funzioni politiche della violenza […] diventano scopi politici quando sono ricercati in modo intenzionale» (ivi, p. 87, corsivo nel testo).

250

portati a termine dal nucleo storico, è riconducibile al terrorismo «episodico», caratterizzato da attacchi a bassa frequenza e alta intensità (fiocca, jean [2007, pp. 160-161 e ss.]). 2.1 Gli scopi in capo a chi assiste alla violenza Si possono distinguere tre scopi in capo alle parti terze che assistono alla violenza senza esercitarla né subirla: l’attivazione dell’attenzione; la conquista del consenso e la legittimazione; e, inine, l’acquisizione del sostegno (cfr. stoppino [2001, pp. 89-93]). I tre scopi fanno riferimento a orizzonti temporali diferenti: l’attivazione dell’attenzione ha un efetto immediato, mentre la conquista del consenso e la legittimazione e l’acquisizione del sostegno richiedono più tempo. Attivazione dell’attenzione. Gli attacchi suicidi mostrano una notevole capacità di attirare l’attenzione delle parti non coinvolte nel conlitto, specialmente attraverso i media. Come ha notato acutamente Stoppino [2001, pp. 89-90]: Niente richiama l’attenzione come la violenza, che permette perciò di pubblicizzare e rendere visibile in massimo grado la rivendicazione o il risentimento. Con gli odierni mezzi di comunicazione di massa un episodio di violenza particolarmente clamoroso può raggiungere l’attenzione di una grandissima parte dell’intera umanità. Da ciò ha origine, in parte, la recente proliferazione di metodi di violenza «spettacolare».

Si può sostenere che non di rado l’obiettivo immediato del terrorismo sia quello di «accendere la luce» su una causa dimenticata: l’esperienza degli attentati palestinesi è esemplare in questo senso (crenshaw [1990, pp. 17-18]). In efetti i giudizi e le reazioni delle parti terze e dell’opinione pubblica sono rilevanti per le sorti della sida terroristica e i responsabili della violenza sono perfettamente consapevoli di questo fatto. Essi possono decidere di adottare il metodo degli attacchi suicidi proprio perché produce l’impressione più profonda sugli spettatori. In primo luogo, la stessa natura estrema e clamorosa del sacriicio di sé provoca interesse. In secondo

La politica del terrorismo suicida

251

luogo, è opportuno ricordare che il ricorso a questo metodo causa, in media, più morti e feriti rispetto ai comuni attacchi non suicidi e quindi può suscitare maggior attenzione. In terzo luogo, gli attacchi suicidi intrattengono spesso un rapporto stretto e vitale con vari tipi di media. Come ha notato Gabriel Weimann [2005, p. 384], adottando una prospettiva drammaturgica («Teatro del terrore»)10 e riferendosi all’esperienza del conlitto israelo-palestinese, gli attacchi suicidi sono pianiicati attentamente pensando ai media. Gli eventi non sono soltanto molto drammatici, molto fotograici ed emotivamente potenti, ma soddisfano anche i requisiti del Teatro del terrore. Luoghi e tempi sono scelti attentamente per trasmettere signiicati simbolici […]. I terroristi alimentano continuamente i media. Prima dell’attacco avvertono degli attentati suicidi, inviano registrazioni dei volontari che si preparano alla loro missione e distribuiscono immagini e registrazioni degli attentatori precedenti; dopo l’attacco difondono registrazioni del terrorista che legge il suo testamento, di solito con i necessari oggetti di scena (per esempio, bandiere, il Corano, armi, fotograie e la dichiarazione scritta per lui da uno degli «sceneggiatori»). Altre azioni per i mezzi di comunicazione di massa includono assumere la responsabilità dell’attacco, inviare parenti del terrorista morto alle interviste, mostrare continuamente il ilmato dell’attacco e i suoi devastanti efetti in televisione o su videocassette e sui loro siti internet.

Si può ipotizzare che il potere degli attacchi suicidi di attirare l’attenzione delle parti terze tenda a calare nel corso del tempo, a causa di un processo di progressiva assuefazione alle notizie sulla violenza suicida da parte degli spettatori. Nondimeno non si deve sottovalutare la capacità delle organizzazioni di 10. Weimann [2005, p. 381] sostiene che «[i]l terrorismo moderno può essere compreso nei termini dei requisiti di produzione degli impegni teatrali. I terroristi prestano attenzione alla preparazione dei copioni, alla selezione del cast, ai sets, agli oggetti di scena, all’interpretazione dei ruoli, alla gestione della scena minuto per minuto. Proprio come per le rappresentazioni sceniche o le esibizioni di danza classica coinvolgenti, l’attitudine verso i media nel terrorismo per essere eicace richiede la massima attenzione al dettaglio».

252

sviluppare processi di adattamento anche in relazione alla «notiziabilità» (newsworthiness) degli atti di violenza; esse possono apportare modiiche e perfezionamenti alle modalità di pianiicazione ed esecuzione degli attacchi suicidi al ine di aumentare o, quantomeno, di conservare la capacità di suscitare l’attenzione generale. In deinitiva, gli attacchi suicidi, soprattutto se di alto proilo, mantengono il potere di risvegliare l’interesse dell’opinione pubblica e della comunità internazionale. Oltretutto, nel contesto di una competizione tra gruppi armati rivali (com’è avvenuto, per esempio, nel campo palestinese), ciascun gruppo può essere interessato a ottenere il massimo dell’attenzione «alzando la posta» attraverso l’esecuzione di attacchi suicidi sempre più clamorosi e spettacolari oppure sempre più frequenti. In questo senso, Scott Atran si è spinto a paragonare i leader delle organizzazioni responsabili di attacchi suicidi ai «migliori pubblicitari di Madison Avenue» (celebre via di New York, sede delle più importanti agenzie pubblicitarie americane) (citato in bloom [2006, p. 28]). Conquista del consenso e legittimazione. Gli attacchi terroristici nella loro variante suicida possono attirare consensi da parte delle parti terze. Se, a diferenza del criminale comune, «il terrorista è fondamentalmente un altruista», come ha sottolineato Bruce Hofman [2006, p. 37, corsivo nel testo], nel caso degli attacchi suicidi lo slancio altruistico si spinge sino all’estrema conseguenza del sacriicio di sé. Ciò talvolta può suscitare atteggiamenti di comprensione e indulgenza, se non di simpatia verso la violenza suicida. In questa direzione è degna di nota la spiegazione che Luca Ricoli [2006, pp. 101-103] ha avanzato per rendere conto della progressiva sostituzione della tecnica dei dirottamenti aerei con il metodo degli attacchi suicidi nel repertorio delle organizzazioni terroristiche. Il ricorso ai dirottamenti, dopo un largo impiego a partire dagli anni ’60, si esaurisce nella seconda metà degli anni ’80 perché si rivela meno proicuo per la promozione della causa dei gruppi armati, lasciando così spazio al nuovo metodo degli attacchi suicidi. Ricoli congettura che gli attacchi suicidi potrebbero godere di una valenza simbolica più «po-

La politica del terrorismo suicida

253

sitiva» rispetto ai dirottamenti aerei, poiché spesso i secondi apparirebbero come azioni di ricatto basate sull’astuzia (come le mosse di Ulisse, secondo il riferimento letterario proposto dallo studioso), mentre i primi verrebbero percepiti come atti tragici di sacriicio disinteressato (come le imprese di Achille o di Ettore), suscitando così maggior simpatia. Il consenso espresso dalla parti terze a favore del metodo degli attacchi suicidi varia considerevolmente da Paese a Paese. Nella ricerca scientiica sul terrorismo è sempre diicile trovare dati sistematici che interessino un numero ampio di Paesi in un arco di tempo esteso (cfr. malečková, stanišić [2011]). Fortunatamente il Pew Research Center svolge ogni anno delle indagini a campione (surveys) sul livello di «giustiicazione degli attentati suicidi» da parte della popolazione musulmana in alcuni Paesi (molti di questi si trovano in Medio Oriente, Africa e Asia e hanno, a loro volta, una maggioranza di abitanti di religione musulmana). Tabella 6.1 Livello di «giustificazione degli attentati suicidi» da parte della popolazione musulmana in alcuni Paesi (2002-2011) Anni Paesi 2002

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

44

-

-

-

20

-

-

-

-

Gran Bretagna

-

-

-

16

-

-

-

-

-

Egitto

-

-

-

28

8

13

15

20

28

Etiopia

-

-

-

-

18

-

-

-

-

Francia

-

-

-

16

-

-

-

-

-

Bangladesh

Germania

-

-

-

8

-

-

-

-

-

Ghana

30

-

-

-

-

-

-

-

-

Indonesia

26

-

15

10

10

11

13

15

10

-

-

-

-

-

-

7

-

20

Costa d’Avorio

56

-

-

-

30

-

-

-

-

Giordania

43

-

57

29

23

25

12

20

13

Israele

254 Anni Paesi 2002

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

Kuwait

-

-

-

-

21

-

-

-

-

Libano

74

-

39

-

34

32

38

39

35

Malesia

-

-

-

-

26

-

-

-

-

Mali

-

-

-

-

39

-

-

-

-

Marocco

-

-

-

-

11

-

-

-

-

Nigeria

47

-

-

46

42

32

43

34

-

Pakistan

33

41

25

14

9

5

5

8

5

Territori palestinesi

-

-

-

-

70

-

68

-

68

Senegal

-

-

-

-

18

-

-

-

-

Spagna

-

-

-

16

-

-

-

-

-

Tanzania

18

-

-

-

11

12

-

-

-

Turchia

13

15

14

17

16

3

4

6

7

Uganda

30

-

-

-

-

-

-

-

-

Uzbekistan

7

-

-

-

-

-

-

-

-

Fonte: Pew Research Centre, Pew Global Attitudes Project (2002-2011). I valori si riferiscono alla percentuale di musulmani che rispondono che gli attentati suicidi contro obiettivi civili possono essere giustiicati «spesso» o «a volte» per difendere l’Islam dai suoi nemici. Pagina web: http://www.pewglobal.org/database/indicator/19/survey/all/ (ultima consultazione: maggio 2013).

Come si evince dalla lettura della tabella 6.1, nel complesso, il livello di «giustiicazione degli attentati suicidi» si è ridotto negli ultimi anni (si veda anche la tabella 6.2). Un’indagine demoscopica condotta sempre dal Pew Research Center mostra che il livello di iducia nei confronti del più noto organizzatore e ispiratore di attacchi suicidi, Osama Bin Laden (ucciso nel 2011), è calato progressivamente nel corso del tempo11 (cfr. pape, feldman [2010, pp. 180-184]). 11. Si veda la pagina web: http://www.pewglobal.org/database/indicator/20/ survey/all/ (ultima consultazione: maggio 2013).

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Tabella 6.2 Livello di «giustificazione degli attentati suicidi» da parte della popolazione musulmana in 20 Paesi (2012) Paesi

Giustificazione degli attentati suicidi (%)

Bosnia-Erzegovina

3

Albania

6

Russia

4

Kosovo

11

Azerbaigian

1

Kazakistan

2

Tagikistan

3

Kirghizistan

10

Turchia

15

Indonesia

7

Malesia

18

Pakistan

13

Bangladesh

26

Afghanistan

39

Iraq

7

Tunisia

12

Giordania

15

Marocco

9

Egitto

29

Territori palestinesi

40

Fonte: Pew Research Centre, rapporto he World’s Muslims: Religion, Politics and Society, 30 aprile 2013 (pp. 70-71, 216). I valori si riferiscono alla percentuale di musulmani che rispondono che gli attentati suicidi contro obiettivi civili possono essere giustiicati «spesso» o «a volte» per difendere l’Islam dai suoi nemici. Pagina web: http://www.pewforum.org/Muslim/the-worlds-muslims-religion-politics-society.aspx (ultima consultazione: maggio 2013).

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È facile intuire che nei Paesi occidentali questa forma di violenza estrema ottenga decisamente meno favore. Infatti in Occidente la pratica del martirio ofensivo, tanto più contro civili inermi, genera spesso un profondo senso di sgomento e orrore (cfr. asad [2007, capitolo 3]). Oltretutto, se si considera la notevole inluenza che gli Stati democratici dell’Occidente esercitano sulla comunità internazionale, si può supporre che l’uso degli attacchi suicidi possa produrre ripercussioni negative anche a livello internazionale. Come hanno osservato Kalyvas e Sánchez-Cuenca [2006, p. 218]: nella misura in cui l’attentato suicida è percepito come una strategia particolarmente ripugnante e intantoché la «comunità internazionale» sotto l’inluenza dell’opinione pubblica nei paesi egemoni può essere sollecitata da considerazioni morali (un’aspettativa che viola le assunzioni realiste prevalenti nelle relazioni internazionali), l’aspettativa di tali reazioni può avere più peso dei beneici di pubblicizzare una causa e può quindi impedire che le missioni suicide siano pianiicate ed eseguite. Anche se gli Stati sono disposti a chiudere gli occhi, la crescita dei gruppi di interesse transnazionali e delle organizzazioni non governative può produrre efetti simili.

La salienza del sostegno internazionale varia da caso a caso. Laddove i gruppi armati, specialmente se portatori di speciiche rivendicazioni di carattere etno-nazionalista, richiedono per il loro successo politico un riconoscimento da parte della comunità internazionale, a sua volta inluenzata dall’opinione pubblica, vi possono essere disincentivi a ricorrere a forme di violenza estreme, come gli attacchi suicidi: il rischio è quello di danneggiare la reputazione della causa promossa. D’altra parte, in determinate circostanze, le organizzazioni terroristiche possono valutare che i beneici che la violenza procura eccedano le ripercussioni negative a livello internazionale. Nel campo palestinese si è aperta una discussione sull’importanza delle reazioni agli attacchi suicidi a livello internazionale. Per esempio, in un dibattito sul tema delle «operazioni di martirio» trasmesso sulla televisione al-Jazeera alla ine

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del 2001, Hani al-Masri, un analista politico palestinese, mise in guardia dal rischio che dopo l’11 settembre i palestinesi potessero perdere sostegno internazionale a causa dell’uso degli attacchi suicidi, mentre Muhammad Nizal, un dirigente di Hamas, replicò seccamente: «l’opinione del mondo non conta» (citato in hafez [2006a, pp. 28-29]). Gli attacchi suicidi sono anche associati a uno scopo di legittimazione e giustiicazione nei confronti delle parti terze. Il ricorso al martirio volontario ha una straordinaria valenza simbolica perché può testimoniare e mettere in risalto la salienza e l’impellenza della causa promossa dai gruppi armati, la volontà assoluta di perseguire tale causa e anche le condizioni di soferenza e di oppressione in cui la parte responsabile della violenza suicida pretende di trovarsi. È poi opportuno ribadire che, per certi versi, negli attacchi suicidi la colpa per l’uccisione dei nemici (spesso civili inermi) può essere, per così dire, compensata dall’accettazione della morte da parte dello stesso attentatore. In altre parole, possono valere anche qui le considerazioni ispirate all’opera di Camus presentate nel secondo capitolo: la disponibilità al sacriicio più servire da giustiicazione morale non soltanto per gli attentatori suicidi e nei confronti della loro comunità di sostegno, ma anche rispetto ad alcuni soggetti appartenenti alle parti terze. Per quanto riguarda le società a maggioranza musulmana, il suicidio, come detto, è proibito dall’Islam; per questo i dirigenti dei gruppi armati si sforzano di presentare gli attacchi suicidi come atti legittimi di martirio. Un ruolo di rilievo è giocato dalle autorità islamiche che possono legittimare le ragioni addotte per giustiicare la violenza suicida. Gli ulema (dotti versati negli studi religiosi) possono così svolgere un’importante funzione di «certiicazione» delle rivendicazioni dei gruppi armati (cfr. tilly, tarrow [2007, trad. it. pp. 44-45]). Nella cerchia delle autorità religiose, a partire dagli anni ’80, si è accesso un intenso dibattito sulla legittimità degli attacchi suicidi: le «operazioni di martirio» sono permesse (in arabo halal) o sono proibite (haram) alla luce della

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dottrina islamica (burki [2011])? Figure autorevoli come lo sceicco Abdul Aziz al-Sheikh, Gran Mutì dell’Arabia Saudita (sunnita), e il Grande Ayatollah iracheno Ali al-Sistani (sciita) hanno ribadito che gli attacchi suicidi sono contrari agli insegnamenti dell’Islam. Al contrario, nel mondo sunnita lo sceicco Yusuf al-Qaradawi, molto noto nei Paesi arabi anche per la sua partecipazione a un popolare programma sulla televisione al-Jazeera, ha approvato e difeso le «operazioni di martirio» palestinesi contro obiettivi israeliani. Così pure lo sceicco Ikrema Sabri, Gran Mutì di Gerusalemme (ino al 2006), che ha tracciato una distinzione netta di ordine pragmatico: «attacchi suicidi in Israele sì, altrove no: la questione è decisa» (citato in burki [2011, p. 591]). Interessante è poi il caso dello sceicco Muhammad Sayyid Tantawi (morto nel 2010), già sceicco («rettore») dell’Università coranica di alAzhar (massimo centro intellettuale del sunnismo) e Gran Mutì d’Egitto, il quale ha dato l’impressione di cambiare più volte opinione sull’argomento (cfr. tosini [2012, pp. 83-84]); non è inutile sottolineare il fatto che lo svolgimento di entrambi gli incarichi sia fortemente condizionato dalla politica egiziana, allora dominata dal presidente Hosni Mubarak. Acquisizione del sostegno. Se la legittimazione concerne un giudizio di valore sulla liceità degli attacchi suicidi, l’acquisizione del sostegno implica, come indica l’espressione stessa, la conquista di un efettivo supporto delle parti terze. Particolarmente saliente è il supporto di carattere economico. La realizzazione dei singoli attacchi suicidi può richiedere una spesa modesta, ma, in generale, la gestione delle campagne terroristiche, specie se prolungate, implica costi non trascurabili. Le organizzazioni responsabili di campagne di attacchi suicidi necessitano di denaro per sostentare i propri membri, per acquistare armi e altri beni, per risarcire le famiglie dei «martiri» e in alcuni casi (come quelli di Hezbollah, di Hamas e delle Tigri Tamil) per svolgere attività di assistenza sociale alla popolazione. La disponibilità di risorse inanziarie può condizionare pesantemente l’attività delle organizzazioni terroristiche.

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Non di rado i gruppi armati non hanno l’opportunità di avvalersi di risorse presenti nell’area in cui operano e devono perciò aidarsi a fonti esterne. Numerose organizzazioni terroristiche ricevono aiuto da Stati stranieri, da comunità della diaspora o da associazioni e singoli simpatizzanti attivi all’estero. L’adozione del metodo degli attacchi suicidi può essere utile per suscitare e raforzare l’interesse di donatori esterni; come ha notato Mia M. Bloom [2006, p. 26], gli attacchi suicidi possono assicurare «un ricavo potenziale a livello inanziario e di relazioni pubbliche [oferto] da un gruppo internazionale di inanziatori/protettori che può anche fornire incentivi ai terroristi per usare il terrore suicida allo scopo di inire in prima pagina sui giornali e far sì che il gruppo si distingua nel contesto di un ampio numero di organizzazioni ribelli». Inoltre, il «martirio» e il successivo cordoglio delle famiglie dei «martiri», con la loro potente valenza simbolica, possono favorire l’alusso di elargizioni e inanziamenti nelle casse dell’organizzazione. Non pochi Stati sostengono direttamente o indirettamente organizzazioni responsabili di attacchi suicidi operanti lontano dal proprio territorio. Per esempio, l’Iran non soltanto ha giocato un ruolo decisivo nella nascita di Hezbollah, ma ha anche inluenzato la decisione del «Partito di Dio» di adottare il metodo degli attacchi suicidi negli anni ’80. L’Arabia Saudita ha fornito aiuti economici e tecnologici a Hamas e in passato ha inanziato persino al-Qaida. In efetti Riyad, pur essendo uno storico alleato degli Stati Uniti, è il più importante sponsor ideologico e inanziario del radicalismo sunnita nel mondo (tra gli altri, cfr. bloom [2005, pp. 179-180]). Per quanto riguarda le comunità della diaspora, le ltte, per esempio, hanno mantenuto importanti contatti e relazioni tra le comunità tamil stabilitesi in alcuni Paesi sviluppati (in particolare, Regno Unito, Australia e Canada), riuscendo così a raccogliere inanziamenti e a procurarsi armi in maniera clandestina (bloom [2005, p. 74 e passim]; cfr. anche hopgood [2006, p. 66]). Dopo l’11 settembre le nuove leggi antiterrorismo e la maggiore vigilanza degli Stati hanno reso

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più problematico il ricorso a questi canali. Anche il pkk si è giovato del supporto di settori della diaspora curda in Europa per raccogliere fondi e per promuovere attività di pressione e lobbying a favore della causa curda. Per inciso, l’organizzazione fondata da Öcalan non ha esitato a ricorrere all’estorsione e persino al traico della droga (bloom [2005, pp. 104-105]). Tra le più importanti fonti di inanziamento di molte organizzazioni terroristiche islamiste e jihadiste vi sono associazioni e fondazioni di beneicenza connesse alla pratica della zakat (oferta religiosa), uno dei cinque pilastri dell’Islam. Per esempio, la Benevolence International Foundation (bif), un’organizzazione di origine saudita con quartier generale in America, è stata accusata di avere stretti legami con Bin Laden e al-Qaida; l’organizzazione è stata messa al bando prima dal Dipartimento del Tesoro negli Stati Uniti e poi dall’onu a livello internazionale (raphaeli [2003, pp. 63-65]; pape [2005, pp. 195-196]). Analogamente l’International Islamic Relief Organization (iiro), grande organizzazione caritatevole con sede in Arabia Saudita, è accusata di aver inanziato al-Qaida (raphaeli [2003, p. 62]). Di solito l’attività principale di queste organizzazioni non governative concerne efettivamente la gestione di iniziative umanitarie, in linea con gli obiettivi uiciali proclamati, e al più soltanto una parte del denaro di cui dispongono viene inoltrata segretamente a gruppi armati. Probabilmente il canale più rilevante per il inanziamento del terrorismo di matrice islamista e jihadista è costituito dall’hawala, un sistema informale di trasferimento di valori basato su una vasta rete di mediatori, che vanta radici antiche nella storia del mondo islamico. Questo sistema di pagamento, oggi usato specialmente per le rimesse degli immigrati musulmani ai loro Paesi di origine, non è soltanto rapido e conveniente, ma garantisce anche l’anonimato e perciò è adatto al inanziamento di attività terroristiche, così come di altre attività illegali. Dopo l’11 settembre alcune grandi società inanziarie dedite all’hawala, come il conglomerato somalo al-Barakat (sino al 2012), hanno subito un provvedimento di

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congelamento dei capitali perché sono state accusate di partecipare al inanziamento del terrorismo di matrice jihadista. Appare, inine, evidente che la dimensione inanziaria è di grande importanza tanto nell’azione del terrorismo quanto nella reazione dell’antiterrorismo. Nelle parole dell’ex ministro della Giustizia degli Stati Uniti John Ashcrot (20012005), «la guerra contro il terrorismo è una guerra di ragionieri e revisori contabili quanto di armamenti e legali» (citato in raphaeli [2003, p. 61]). 2.2 Gli scopi in capo a chi subisce la violenza La classe di scopi della violenza più saliente (e più ovvia) interessa i destinatari degli attacchi suicidi. Di solito gli attacchi suicidi non sono rivolti direttamente contro i decisori politici dello Stato nemico, ma contro componenti della società civile. La violenza può colpire la popolazione in maniera indiscriminata oppure può indirizzarsi contro singoli individui selezionati per la posizione che occupano (per esempio, membri delle forze armate o della polizia) o per i comportamenti che assumono (cfr. marone [2008a, pp. 233-234]; goodwin [2006a]). È quindi opportuno distinguere gli scopi in capo alla società, contro la quale di norma la violenza viene efettivamente esercitata, e gli scopi in capo al governo nemico, che rappresenta tipicamente il vero avversario politico della sida terroristica. La società colpita dalla violenza In capo alla società colpita dalla violenza si possono indicare due scopi principali degli attacchi suicidi: l’intimidazione e il condizionamento. Intimidazione. Forse lo scopo più ovvio degli attacchi suicidi, suggerito dalla stessa radice etimologica del termine «terrorismo», è quello di intimidire e disorientare la popolazione della parte avversa. In generale, si può sostenere che gli attacchi suicidi suscitino nelle vittime della violenza un senso di terrore, se possibile, ancora più intenso degli atti terroristici

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comuni. Questo per almeno tre ragioni. In primo luogo, come anticipato, il metodo degli attacchi suicidi incute il timore che non vi siano mezzi di deterrenza eicaci per fronteggiare individui decisi a morire per uccidere. In altri termini, la società si confronta con un interrogativo angosciante: com’è possibile fermare delle persone che non si preoccupano nemmeno della propria stessa morte? In secondo luogo, la violenza, quando si indirizza in maniera indiscriminata contro la popolazione civile (è tipicamente il caso delle organizzazioni radicali palestinesi e di al-Qaida), per la sua imprevedibilità, può gettare nel panico un’intera società, alimentando in ciascuno dei suoi membri la paura di poter essere coinvolto in un attacco, senza che vi sia possibilità di sottrarsi con certezza alla violenza (cfr. marone [2008a, pp. 233-236]). Si leva così un altro interrogativo angosciante: com’è possibile evitare un atto di violenza che può colpire chiunque e ovunque senza una logica apparente? In terzo luogo, la particolare tecnica di attentati suicidi adottata da alcune organizzazioni può generare un profondo senso di panico e di orrore: per esempio, nel conlitto israelo-palestinese l’impiego di congegni esplosivi di fabbricazione artigianale, mischiati a piccoli oggetti metallici (come chiodi o bulloni) e, secondo alcune fonti (per esempio, dolnik, bhattacharjee [2002, p. 119]), addirittura a sostanze infette, oltre a provocare danni gravissimi alle persone, produceva una scena impressionante, che veniva rapidamente difusa in tutto il mondo attraverso i vari media, inendo per estendere le sensazioni di terrore e di ansia ben al di là dei luoghi e delle persone direttamente coinvolti negli attacchi (cfr. liebes, kampf [2007]). Tra l’altro, la distruzione dei corpi operata dagli attentati suicidi palestinesi acquistava una valenza simbolica ancor più profonda nello Stato ebraico. Come ricorda lo storico Giovanni De Luna [2006, p. 268] nell’interessante volume Il corpo del nemico ucciso: Secondo la tradizione religiosa ebraica (halacha) il corpo deve essere sepolto rapidamente nella terra, e […] i resti corporei sono considerati

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e trattati come se fossero il corpo intero. I morti e i loro resti devono essere onorati perché sono destinati a risorgere, trattarli impropriamente è un peccato contro Dio. Secondo la legge religiosa tutta la materia corporea deve essere sepolta, anche il sangue.

Per questo, in occasione di ogni attentato palestinese contro obiettivi ebraici una squadra di volontari ebrei ortodossi interviene ad assolvere il «dovere sacro» di raccogliere tutti i frammenti del corpo, compresi i residui di sangue. Sulla base di alcune ricerche antropologiche condotte in Israele (in particolare, da Meira Weiss [2001]), De Luna [2006, p. 269] nota che: La disintegrazione dei corpi delle vittime è qualcosa che va al di là degli scopi politico-militari degli attentati (seminare panico e insicurezza nelle ile nemiche, vendicare i propri caduti, testimoniare la forza), e punta direttamente a «intaccare simbolicamente un corpo sociale e un’identità nazionale che assegnano particolare valore e signiicato al corpo isico integro».

Come hanno messo in rilievo Neumann e Smith [2005, p. 579], «nel suo primo stadio […] la strategia del terrorismo mira principalmente a far vacillare le più fondamentali aspettative di ordine e di interazione sociale, lasciando l’individuo confuso, impaurito e alienato» (cfr. anche thornton [1964]). Il metodo degli attacchi suicidi porta alle estreme conseguenze il carattere radicale e sovvertitore del terrorismo. Gli attacchi suicidi sembrano violare qualsiasi limite e regola nell’uso della violenza, oltraggiare tutte le norme sociali, sidare persino gli impulsi più radicati, a partire dall’istinto di sopravvivenza. Ma quanto è intenso e duraturo il senso di paura suscitato dal terrorismo suicida? Per rispondere a questa domanda è possibile interpellare alcune ricerche di psicologia e psichiatria. In questa sede si prendono brevemente in considerazione i casi delle campagne di attacchi suicidi palestinesi e gli attentati dell’11 settembre. Le campagne di attacchi suicidi

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palestinesi durante la Seconda Intifada (2000-2005) rappresentano un importante caso di terrorismo «ricorrente», con attacchi frequenti, ma di intensità relativamente bassa. In Israele la paura degli attacchi suicidi, in particolare durante la Seconda Intifada (bar-tal, sharvit [2008, specie p. 157]), ha permeato gran parte degli aspetti della vita quotidiana dei cittadini: dall’uso dei mezzi di trasporto pubblico alla frequentazione dei luoghi di svago e divertimento (baharier [2005]). Una ricerca ha rilevato che all’apice della Seconda Intifada (primavera 2002) un terzo degli israeliani riportava almeno un sintomo da stress connesso a un trauma (bleich et al. [2003]). Nondimeno, con il passare del tempo nel Paese si è consolidato un processo di adattamento alla violenza terroristica «cronica», sorretto da una vasta serie di atteggiamenti e comportamenti nell’ambito della vita quotidiana, che, in qualche modo, ha contenuto il livello di terrore e di ansia prodotto dagli attacchi palestinesi (cfr. waxman [2011]). Secondo uno studio recente (romanov, zussman, zussman [2012]), la violenza terroristica durante la Seconda Intifada (contrassegnata, come detto, da un uso intenso del metodo degli attacchi suicidi) non produsse signiicative conseguenze dirette sulla «felicità» degli israeliani ebrei (misurata attraverso il livello di soddisfazione personale auto-percepita), mentre ebbe un efetto di rilievo su quella dei loro concittadini arabi (che costituiscono circa il 20% della popolazione complessiva). Presumibilmente i membri della minoranza araba in Israele temevano che la violenza palestinese potesse condurre, per reazione, alla crescita di atteggiamenti e pratiche di discriminazione nei loro confronti (cfr. gelkopf et al. [2008])12. In

12. In realtà il timore non era infondato: alcune ricerche mostrano che durante la Seconda Intifada si ridusse il livello di tolleranza nei confronti della minoranza araba in Israele (shamir, sagiv-shifter [2006]), percepita da molti ebrei israeliani come una sorta di «quinta colonna» palestinese, mentre aumentarono le pratiche di discriminazione e di segregazione, in particolare nel mercato del lavoro (miaari et al. [2012]; cfr. anche waxman [2011, p. 13]).

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maniera analoga, Dov Waxman [2011] ha argomentato che il terrorismo palestinese, pur suscitando nell’immediato un profondo senso di paura, non demoralizzò la popolazione israeliana, grazie a un rimarchevole grado di «resilienza sociale» della società colpita, favorito da alti livelli di coesione sociale, di patriottismo e di iducia nelle forze armate e negli apparati di sicurezza. Gli attacchi suicidi dell’11 settembre 2001 costituiscono, invece, un caso eclatante di terrorismo «episodico». Gli studi su questo evento sono piuttosto numerosi. Per esempio, Schuster e collaboratori [2001], indagando un campione rappresentativo della popolazione nazionale, hanno rilevato signiicativi sintomi di stress causato da trauma in un arco di tempo compreso tra i tre e i cinque giorni successivi agli attacchi terroristici. Ciononostante, Silver e i suoi colleghi [2002] hanno mostrato che il livello di stress della popolazione statunitense (esclusi i residenti di New York), dopo il rapido aumento a ridosso degli attacchi, diminuì considerevolmente a sei mesi di distanza dagli eventi. Alcuni studiosi hanno sottolineato che gli efetti psicologici furono più gravi per i residenti della città di New York (dove, è superluo ricordarlo, si sono consumati i catastroici attacchi alle Torri Gemelle) (galea et al. [2002])13. In conclusione, si può ricordare quello che ha osservato Alan B. Krueger [2007, trad. it. p. 113], dopo aver passato in rassegna la letteratura sulle conseguenze psicologiche del terrorismo e sull’adattamento a eventi traumatici: «[e]sistono fenomeni ai quali le persone non si adattano, per esempio il dolore cronico. […] Tuttavia, la letteratura rivela che, nel complesso, vincere alla lotteria o diventare paraplegico sembra esercitare un efetto sorprendentemente modesto e transitorio sulla soddisfazione personale». È da sottolineare che i gruppi armati possono usare il metodo degli attacchi suicidi anche per intimidire gruppi etnici o religiosi «rivali» seconda una logica di «vigilantismo», 13. Una discreta rassegna della letteratura sugli efetti psicologici del terrorismo si può trovare in krueger [2007, trad. it. pp. 112-122].

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inalizzata a conservare o ripristinare lo status quo in una determinata area. Per esempio, dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003, al-Qaida e altri gruppi della «resistenza» sunnita in Iraq hanno colpito sistematicamente obiettivi sciiti anche allo scopo di contrastare l’aumento di potere di questa comunità religiosa che, pur essendo maggioranza nel Paese, era stata bistrattata e vessata dal regime baathista, ilosunnita. Condizionamento. Il terrore suscitato dagli attacchi suicidi è in grado di scuotere le società che colpisce. Resta da valutare se, in un arco di tempo più lungo, il terrore generato nella popolazione abbia condotto a beneici diretti per i gruppi responsabili della violenza. Se prendiamo in considerazione il conlitto israelo-palestinese, possiamo sostenere che i sentimenti di terrore e ansia hanno reso la società israeliana più timorosa, ma non più accondiscendente o arrendevole verso le organizzazioni radicali palestinesi. Al contrario, gli attacchi suicidi palestinesi non di rado hanno avuto l’efetto di radicalizzare la popolazione israeliana. Per esempio, una ricerca di Canetti-Nisim, Zaidise e Pedahzur [2004-05] ha mostrato che durante la Seconda Intifada il livello di «militanza» (militancy, intesa come «giustiicazione dell’uso della forza militare», ivi, p. 105) degli ebrei israeliani, per quanto relativamente stabile nel corso del tempo, aumentò a seguito di atti di violenza compiuti dalle fazioni palestinesi, specialmente azioni di maggior gravità come attacchi suicidi contro civili. In efetti il terrorismo può costituire, com’è stato scritto, una «arma a doppio taglio» (friedland, merari [1985]). Probabilmente più eicace si è rivelata, almeno in alcune circostanze, una forma speciica di condizionamento operata dalle organizzazioni responsabili di attacchi suicidi in occasione delle elezioni israeliane. Gli elettori israeliani, infatti, si sono dimostrati abbastanza sensibili all’impatto degli atti di violenza palestinesi e, in particolare, degli attacchi suicidi. Alcuni studi (berrebi, klor [2006; 2007]) hanno confermato l’ipotesi intuitiva secondo cui gli attacchi terroristici palestinesi hanno l’efetto di raforzare il consenso elettorale per la

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destra israeliana (Likud, partiti religiosi e partiti nazionalistici), caratterizzata da una posizione più energica nel contrasto alle organizzazioni violente palestinesi e più intransigente rispetto alla possibilità di concessioni territoriali, e percepita da non pochi israeliani come più eicace nella tutela della sicurezza nazionale. Claude Berrebi e Esteban F. Klor [2007, pp. 11-12], indagando la relazione tra atti di violenza politica e risultati elettorali nelle elezioni parlamentari israeliane del 1988, 1992, 1996, 1999 e 2003, hanno trovato che a livello locale «un attacco terroristico causa un incremento di 1,35 punti percentuali nel relativo sostegno per lo schieramento di destra» e hanno pertanto osservato: Poiché l’elettorato in Israele è quasi equamente diviso tra lo schieramento di destra e di sinistra [prima della formazione del partito di centro Kadima nel 2005], l’esecuzione di un attacco terroristico prima di un’elezione (oppure l’assenza) può chiaramente determinare l’esito elettorale. In particolare, il relativo sostegno per lo schieramento di destra nelle elezioni prese in considerazione nel periodo di tempo in questione è dell’ordine dello 0,47 percento. Così un incremento di due nel numero medio di attacchi sarebbe quasi suiciente a decidere le elezioni a favore dello schieramento dei partiti politici di destra in una località media (ivi, p. 12).

In alcune occasioni le organizzazioni radicali palestinesi, attraverso l’esecuzione di alcuni attacchi, sono probabilmente riuscite a inluenzare a proprio vantaggio le elezioni israeliane. Così gli attacchi suicidi realizzati da Hamas alla vigilia del voto del 1996 favorirono la vittoria (di misura) dello schieramento di destra guidato da Benjamin Netanyahu contro il fronte progressista che aveva il suo rappresentante più importante in Shimon Peres. Allora le organizzazioni estremiste religiose tentavano di boicottare il processo di pace in corso tra gli attori moderati delle due parti, principalmente Fatah sul fronte palestinese e il Partito Laburista sul fronte israeliano (infra, paragrafo successivo). Di conseguenza, per un apparente paradosso, Hamas e il Jihad Islamico erano

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interessati alla vittoria della coalizione israeliana di destra, meno disponibile al compromesso14. Anche nel caso dei catastroici attacchi suicidi dell’11 settembre è diicile sostenere che la violenza sia riuscita a condizionare gli atteggiamenti e i comportamenti generali della popolazione statunitense a beneicio degli interessi di al-Qaida. Uno degli scopi primari della violenza terroristica è quello di minare il sostegno della popolazione nei confronti del proprio governo, inducendo la prima a considerare il secondo impotente e inaidabile di fronte alla sida lanciata dai terroristi (thornton [1964, p. 74]; neumann, smith [2005, p. 577]). All’opposto, dopo l’11 settembre il sostegno per il Presidente e per le principali istituzioni del Paese aumentò subito considerevolmente, in forza del ben noto efetto rally ’round the lag (letteralmente «stringersi intorno alla bandiera») a seguito di crisi internazionali. Addirittura l’efetto rally ’round the lag connesso all’11 settembre è stato il più ampio e il più duraturo della storia americana; il livello di approvazione dell’operato del presidente George W. Bush raggiunse il 90% il 22 settembre 2001, il più alto mai registrato (hetherington, nelson [2003, p. 37]). Il livello di sostegno per l’azione militare all’estero e per la guerra al terrorismo veleggiò intorno al 90% nei mesi successivi agli attacchi e un’ampia maggioranza del 75-80% dei cittadini caldeggiò l’intervento militare in altri Paesi oltre all’Afghanistan (huddy et al. [2002, pp. 423-425]). In breve, la società americana certamente non si mostrò arrendevole nei confronti di al-Qaida. D’altra parte, non si può escludere che essa abbia rischiato di cadere nella 14. Per inciso, il caso più evidente di condizionamento in occasione di elezioni è forse costituito dagli attacchi (non suicidi) realizzati a Madrid l’11 marzo 2004, alla vigilia delle elezioni generali in Spagna, a opera di un gruppo di ispirazione salaita-jihadista. Dopo gli attacchi si levarono ampie proteste contro l’allora capo del governo José María Aznar per aver attribuito immediatamente la responsabilità della violenza all’eta basca, oltre che per aver deciso il coinvolgimento delle forze armate spagnole nell’occupazione dell’Iraq. Com’è noto, alle elezioni del 14 marzo trionfò il Partito Socialista di José Luis Rodríguez Zapatero e il nuovo governo ordinò subito il ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq.

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trappola di una provocazione lanciata dall’organizzazione di Bin Laden (cfr. infra, paragrafo successivo). Il governo nemico In capo al governo nemico si possono individuare cinque scopi principali degli attacchi suicidi: la segnalazione nel breve periodo; il sabotaggio di trattative, la rappresaglia e la provocazione nel medio periodo; la coercizione nel lungo periodo. Segnalazione. Come hanno sostenuto alcuni studiosi (Overgaard [1994]; Hofman e McCormick [2004]; Kydd e Walter [2006]), gli attacchi terroristici possono essere interpretati come giochi di segnalazione (signaling games) attraverso i quali i gruppi armati comunicano al governo nemico il proprio livello di determinazione, le proprie capacità e la disponibilità di risorse nell’ambito di un conlitto caratterizzato da informazione incompleta e, spesso, asimmetrica: infatti la stessa natura segreta e clandestina dell’organizzazione ribelle tende a celare un’ampia quantità di informazioni di cui il governo avrebbe bisogno. Le semplici dichiarazioni verbali sul livello di determinazione, le capacità e la disponibilità di risorse hanno il beneicio di essere molto convenienti, ma ovviamente hanno il grande svantaggio di non essere molto credibili perché sono facilmente soggette a menzogne e inganni. Al contrario delle dichiarazioni verbali, gli atti di violenza sono certamente costosi e impegnativi per l’organizzazione responsabile, ma, nello stesso tempo, garantiscono maggiore credibilità. In questo senso, il metodo degli attacchi suicidi costituisce la forma di segnalazione più onerosa perché implica necessariamente il sacriicio deliberato di simpatizzanti o militanti (gambetta [2006, passim]; pape [2005, p. 28]; cfr. gambetta [2009]): per molti versi, nulla dimostra meglio degli attacchi suicidi la risolutezza e la dedizione alla causa di un’organizzazione terroristica e la sua disponibilità a ricorrere a tutte le risorse possibili, compresa la vita dei propri uomini. In realtà, la disponibilità al sacriicio riguarda i singoli attentatori suicidi, ma i gruppi armati sono in grado di far proprie la valenza

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simbolica e la carica comunicativa delle «operazioni di martirio» attraverso gli strumenti di propaganda a loro disposizione; in particolare attraverso i video-testamenti, che celebrano la fusione dell’identità del «martire» e dell’organizzazione (tosini [2012, capitolo 3]). Nondimeno, la maggior credibilità dell’atto di violenza rispetto alla semplice dichiarazione verbale non implica la totale assenza di elementi di inganno e di distorsione della realtà. Al contrario, le organizzazioni che ricorrono al terrorismo hanno tutto l’interesse ad apparire più risolute e soprattutto più potenti di quanto siano in realtà. Esse, almeno all’inizio del conlitto, si trovano in una condizione di debolezza relativa: infatti se godessero di maggiore sostegno e avessero maggiori capacità e risorse, non sarebbero costrette ad avvalersi di una strategia indiretta, ma potrebbero imporre la propria volontà direttamente sul campo di battaglia o al tavolo delle trattative. Per certi versi, le azioni terroristiche intendono produrre un’illusione (hoffman, mccormick [2004, specie p. 248]), una sorta di profezia che si auto-adempie in merito alle capacità dei gruppi armati: «la loro forza oggettiva a lungo andare sarà direttamente proporzionale all’illusione di forza che sono in grado di creare per i loro pubblici di riferimento nel corso del tragitto» (mccormick, fritz [2010, p. 139]). Le organizzazioni terroristiche si trovano così a gestire un delicato equilibrio tra esigenza di visibilità e bisogno di segretezza, tra comunicazione e negazione15. In Sri Lanka il fondatore e leader carismatico delle Tigri Tamil, Prabhakaran, si sforzò di fare in modo che l’organizzazione apparisse come un corpo di élite professionale, risoluto, interamente dedito alla causa e persino invincibile. Il metodo degli attacchi suicidi consentiva di segnalare queste (presunte) qualità all’avversario e alla comunità di sostegno 15. Come ricordano Hofman e McCormick [2004, p. 245], la natura clandestina dell’organizzazione terroristica implica un trade of tra sicurezza ed eicienza organizzativa, all’interno, e tra sicurezza e inluenza nei confronti dell’ambiente, all’esterno (cfr. anche mccormick [2003]).

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(hoffman, mccormick [2004, specie p. 262]; hopgood [2006, passim]). Si pensi anche al caso dei gruppi armati palestinesi. L’avvio del processo di pace di Oslo nel 1993 a opera dell’olp, dominata da Fatah, rappresentò per Hamas una vera e propria minaccia esistenziale; il movimento islamista reagì lanciando una campagna di violenza caratterizzata, per la prima volta, dall’adozione degli attentati suicidi. Con questi attacchi Hamas volle segnalare, da una parte, la sua determinazione a mantenere una posizione politica oltranzista e, dall’altra, le sue capacità di minacciare lo Stato di Israele. Discorso simile può essere fatto per gli attentati suicidi del Jihad Islamico palestinese, pochi mesi dopo. Il meccanismo della segnalazione, inteso come scopo di breve periodo, venne impiegato di nuovo durante la Seconda Intifada, quando anche le organizzazioni laiche di Fatah (attraverso i suoi bracci armati) e del fplp segnalarono il proprio livello di determinazione e la propria disponibilità di capacità e risorse alla controparte israeliana (cfr. hoffman, mccormick [2004, pp. 262-271]). In Turchia il pkk decise di abbracciare questa forma di violenza estrema nel 1995, dopo una pesante ofensiva militare condotta dalle forze armate di Ankara, allo scopo di segnalare al nemico che l’organizzazione, nonostante la palese inferiorità militare rispetto all’avversario, era ancora in grado di colpire obiettivi strategici nel cuore del Paese. Ad ogni modo, il successo della segnalazione va valutato in relazione al breve periodo. In questo senso, occorre notare che non pochi studi interessati alla funzione della segnalazione nella violenza terroristica, per quanto originali e stimolanti, iniscono per dilatare eccessivamente l’importanza di questo scopo, dimenticando che, al di là della mera «segnalazione», la violenza terroristica persegue una molteplicità di scopi, spesso non connessi soltanto allo scambio di informazioni tra le parti16. In alcuni di questi contributi il conlitto 16. Overgaard [1994, p. 455], per esempio, ha argomentato: «con informazione simmetrica [tra gruppo terroristico e governo] nessun tipo di terrorista spende

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tra organizzazione terroristica e governo sembra assumere la forma di un semplice confronto tra le motivazioni, le capacità e risorse delle due parti; in realtà, la violenza esercitata dal gruppo armato non si limita a segnalare i termini del rapporto di forza tra i due contendenti, ma ha l’intenzione di alterare tale rapporto di forza a vantaggio del gruppo stesso (cfr. lake [2002]). Le organizzazioni terroristiche sono solitamente interessate a prolungare il conlitto con il governo nemico per avvicinare il conseguimento del loro obiettivo ultimo: in una strategia di logoramento dell’avversario la durata stessa della lotta tende a favorire le aspirazioni dell’organizzazione ribelle17. In questo senso, si possono indicare tre scopi di medio periodo della violenza terroristica: il sabotaggio di trattative per evitare che il conlitto si concluda prima del raggiungimento dell’obiettivo preissato, la rappresaglia per rispondere alla violenza dell’avversario e la provocazione per suscitare la sua reazione. Il sabotaggio di trattative tra le parti in conlitto. Non di rado le organizzazioni terroristiche agiscono da «guastatori» (spoilers) di negoziazioni di pace in corso tra gli attori moderati delle parti in conlitto (cfr. stedman [1997]). Come osserva Bloom [2005, p. 8], già gli atti di violenza risorse per gli attacchi; per i gruppi con poche risorse gli attacchi sono futili perché il governo non fa concessioni e per i gruppi con molte risorse gli attacchi non sono necessari perché il governo si arrende immediatamente con probabilità uno». Un’idea simile si trova anche in Kydd, Walter [2006]. 17. Si consideri la seguente dichiarazione di Khaled Mashal, oggi leader politico di Hamas residente all’estero, contenuta in un’intervista del 1998: «Noi sappiamo che l’attuale equilibrio di potere nella regione non ci consente una vittoria decisiva contro i Sionisti; comunque, crediamo con iducia che ci stiamo muovendo sulla giusta strada – la strada della resistenza. Questa scelta ci condurrà al successo in virtù delle nostre conquiste cumulative, della nostra abilità sostanziale a resistere, della nostra volontà e profondità strategica» (citato in bloom [2004, p. 77]). In questo senso, si può ricordare anche la nota massima di Henry Kissinger [1969, p. 214]: «la guerriglia vince se non perde, l’esercito convenzionale perde se non vince».

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degli antichi Sicari avevano, tra l’altro, lo scopo di impedire qualsiasi riconciliazione tra ebrei e romani. Per quanto riguarda il metodo degli attacchi suicidi in senso stretto, un caso esemplare di sabotaggio è quello che vide protagonisti i gruppi armati palestinesi negli anni ’90: gli attentati suicidi condotti da Hamas e dal Jihad Islamico in quel periodo ebbero anche il proposito di mettere a repentaglio il processo di pace di Oslo tra Israele e l’olp (kydd, walter [2006]; cfr. anche pearlman [2008-09]; bueno de mesquita [2005a]). La violenza di Hamas e del Jihad Islamico accrebbe la siducia tra le parti impegnate al tavolo delle trattative, alimentando nel governo israeliano il sospetto che l’olp non intendesse collaborare in maniera adeguata al contenimento della violenza e perciò non rappresentasse una controparte aidabile per gli accordi di pace. Nell’interessante articolo Sabotaging the Peace: he Politics of Extremist Violence, Andrew H. Kydd e Barbara F. Walter [2002], ricorrendo a un elaborato modello formale, interpretano la violenza estremista (in tutte le sue forme, tra cui quella degli attacchi suicidi) di Hamas e del Jihad Islamico palestinese (gli «estremisti» nel loro modello) dal 1993 al 2001 come un tentativo di provocare il fallimento degli Accordi di Oslo tra l’olp dominata da Arafat (i «moderati») e il governo israeliano (il «governo»). Gli atti di violenza, e specialmente gli attacchi suicidi, hanno lo scopo di aumentare il livello di siducia tra i due interlocutori: il governo, non conoscendo le reali intenzioni dei moderati, tende ad associare la presenza di atti violenti degli estremisti a un atteggiamento di scarsa aidabilità dei moderati stessi. Paradossalmente la siducia del governo aumenta proprio quando i moderati si raforzano (come avvenne nel 1996 con la netta vittoria di Fatah nelle prime elezioni nazionali palestinesi), perché in quel caso le manifestazioni di violenza non possono più essere attribuite a una semplice mancanza di capacità di contrasto del terrorismo sul fronte interno, ma vengono imputate a un’assenza di motivazioni sincere. Come sintetizzano Kydd e Walter (ivi, p. 289):

274 I terroristi hanno più probabilità di successo nell’ostacolare un compromesso di pace quando la siducia è alta, quando il pubblico [della parte colpita] ed il governo hanno posizioni intransigenti e quando i moderati sembrano capaci di prevenire la violenza terroristica, ma non lo fanno. I moderati deboli possono essere perdonati per l’incapacità di prevenire gli attacchi terroristici, ma i moderati forti no.

Per i due autori, gli atti di violenza di Hamas e del Jihad Islamico si sono veriicati in corrispondenza di importanti eventi legati al processo di pace, dando luogo a sei ondate di violenza. Secondo tale interpretazione, dal 1993 al 1996 la violenza di Hamas e del Jihad Islamico non ebbe efetti signiicativi sul processo di pace perché, da una parte, il governo laburista guidato da Rabin assegnava un alto valore alla pace e, dall’altra parte, Arafat veniva percepito come incapace di prevenire tutti gli atti di violenza delle organizzazioni estremiste palestinesi. Dal gennaio del 1996, dopo la netta vittoria di Fatah nelle elezioni palestinesi, l’intensa campagna di violenza condotta da Hamas non poté più essere attribuita alla debolezza di Arafat, ma venne imputata alla sua presunta inaidabilità. Gli attentati suicidi ebbero quindi successo: provocarono un netto calo nel livello di iducia accordato dagli israeliani al processo di pace, contribuendo, come accennato, al successo inaspettato del Likud di Netanyahu nelle elezioni israeliane di maggio e conducendo di fatto a uno stallo nelle trattative. In maniera analoga, in Iraq uno degli scopi delle campagne di attacchi suicidi condotte da al-Qaida e da altre formazioni radicali sunnite è stato quello di impedire l’apertura di opportunità di riconciliazione tra i diversi gruppi etnici e tra le diverse fazioni politiche (boyle [2009, specie pp. 278280]). I picchi di violenza non di rado si sono concentrati proprio a ridosso di eventi politici che sembravano promettere una svolta per il Paese (hafez [2006c, p. 605]; cfr. anche ayers [2008]), come le elezioni per l’Assemblea Nazionale del gennaio 2005. Rappresaglia. Nell’ambito di un conlitto, specie se prolungato, gli attacchi terroristici possono avere una funzione

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di rappresaglia contro gli atti di violenza o repressione compiuti dall’avversario. Ancora una volta, le origini di questo meccanismo sono antiche: gli attacchi compiuti dai Sicari e più tardi dagli Assassini avevano anche lo scopo di reagire alla violenza esercitata dai rispettivi avversari (bloom [2005, pp. 1-11]). Per quanto riguarda le campagne di attacchi suicidi contemporanee, il caso più studiato è ancora una volta quello palestinese (gupta, mundra [2005]; jaeger, paserman [2005]; brym, araj [2006]; araj [2008]). Di solito le azioni di rappresaglia palestinesi costituivano una reazione ad azioni violente condotte su ordine del governo israeliano (brym, araj [2006; 2008]; araj [2008]), come le pesanti ofensive militari nei Territori palestinesi (in specie la massiccia «Operazione Scudo difensivo» nella primavera del 2002) e gli assassinii mirati di dirigenti e quadri delle organizzazioni radicali palestinesi (cfr. david [2003]; hafez, hatfield [2006]), con tutti i loro efetti ambigui e controversi. Vale la pena di ricordare che sia il fplp sia le Brigate dei Martiri di al-Aqsa (legate a Fatah) decisero di adottare per la prima volta il metodo degli attacchi suicidi subito dopo l’assassinio mirato di uno dei loro dirigenti: rispettivamente Abu Ali Mustafa, segretario generale del partito, il 27 agosto 2001 e Raed al-Karmi, uno dei leader del gruppo armato in Cisgiordania, il 14 gennaio 2002 (david [2003]; brym, araj [2008]; araj [2008]). Meno frequentemente le organizzazioni radicali palestinesi vollero vendicare atti di violenza eseguiti da singoli individui o gruppi israeliani, non riconducibili alla volontà del governo di Gerusalemme. È il caso del noto massacro di Hebron del 25 febbraio 1994 durante il quale il colono ebreo Baruch Goldstein, membro del movimento estremista Kach, uccise ventinove palestinesi presso la Tomba dei Patriarchi. Per vendicare questa strage Hamas eseguì due attentati suicidi il 6 e il 13 aprile del medesimo anno. Il massacro di Hebron segnò di fatto una svolta nell’evoluzione tattica della violenza di Hamas e delle organizzazioni estremiste palestinesi: per

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la prima volta gli attentati suicidi vennero eseguiti contro destinatari civili e all’interno dello Stato di Israele. Gli atti di violenza condotti dagli israeliani in molti casi rappresentarono degli eventi scatenanti per l’esecuzione di attentati suicidi palestinesi. In efetti, come avvertono Robert J. Brym e Bader Araj (brym, araj [2006; 2008]; araj [2008]), questa forma di violenza non può essere spiegata sempre in funzione di obiettivi strategici di lungo periodo, come la liberazione territoriale, secondo la lettura di Pape [2003; 2005] (cfr. infra). Nondimeno, è diicile sostenere che la teoria dei «circoli viziosi» (de figueiredo, weingast [2001]) sia un’interpretazione adeguata né tantomeno esaustiva della violenza suicida. Tra l’altro, alcuni studiosi hanno rilevato un’assenza di simmetria tra le due parti in conlitto rispetto alla reazione alla violenza dell’avversario (ricolfi [2006, pp. 98-99 e 128]; clauset et al. [2010, p. 16]; cfr. brym, araj [2006, p. 1984]). È opportuno ricordare, inine, che dopo lo scoppio della Seconda Intifada nel 2000 la pesante repressione esercitata da Israele sotto il governo Barak (1999-2001) e, soprattutto, sotto il governo Sharon (2001-2006) produsse conseguenze importanti anche nella società palestinese, favorendo la radicalizzazione della popolazione e contribuendo così indirettamente al formarsi di condizioni idonee all’attivazione di un gioco al rilancio tra le fazioni palestinesi in competizione tra loro (cfr. infra) (tra gli altri, araj [2008, pp. 289-291]; cfr. anche pape [2005, p. 50]). Lo scopo della rappresaglia si può rintracciare anche negli attacchi suicidi dell’11 settembre 2001. Secondo Bin Laden, l’Islam era vittima dell’oppressione dei Paesi occidentali e, specialmente, degli Stati Uniti: «i suoi igli sono uccisi, il suo sangue è versato, i suoi luoghi sono attaccati» (citato in holmes [2006, p. 164]), nell’indiferenza generale. Gli attacchi suicidi al cuore degli Stati Uniti rappresentarono una ritorsione e una punizione; come dichiarò il fondatore di al-Qaida in un video trasmesso il 7 ottobre 2001, «ciò che gli Stati Uniti assaggiano oggi è molto poco rispetto a quanto noi abbiamo assaggiato per decenni. La nostra nazione ha assaggiato

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l’umiliazione e il disprezzo per quasi ottanta anni» (citato in holmes [2006, p. 165])18. A ispirare queste dichiarazioni sembra essere l’antico principio della legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Non sorprende che la violenza terroristica venga così presentata come una forma di legittima difesa, in particolare nelle vesti di un jihad difensivo; nella tradizione islamica, così come in quella occidentale (si pensi alla dottrina della guerra giusta), la violenza difensiva è più facile da giustiicare della violenza ofensiva. Gli autori della strage dell’11 settembre si presentavano quindi come militanti che intendevano punire i «crimini» dell’avversario in maniera giusta; un mese dopo gli attacchi, un portavoce di al-Qaida, Suleiman Abu Ghraith, osservò che «quando la vittima cerca di avere giustizia, viene descritta come un terrorista» (ibidem). Stephen Holmes [2006], difendendo la tesi della preminenza delle motivazioni politiche nell’uso della violenza da parte di al-Qaida, ha notato che la legge del taglione non richiede necessariamente una giustiicazione di carattere religioso: «i combattenti islamici non hanno bisogno che la sharia dia loro il permesso di versare il sangue americano se gli Stati Uniti stanno commettendo (nella loro mente) atrocità contro i musulmani» (ivi, p. 166), poiché «l’arcaico principio dell’occhio per occhio, lungi dall’acquisire legittimità dall’approvazione di Allah, precede ed è più profondo di qualsiasi dottrina religiosa, e infatti sospinge seguaci che siano inclini alla vendetta verso qualsiasi tradizione religiosa che santiichi la vendetta come un dovere sacro. L’Islam entra nel quadro qui, non come credo religioso, ma come etichetta politica che identiica la comunità immaginaria che ha subito il torto e che ha quindi un diritto naturale – cioè non-religioso o prereligioso – di vendicarsi con la stessa moneta» (ivi, p. 146, corsivo nel testo).

18. Presumibilmente il riferimento storico è all’abolizione del Califato ottomano nel 1924.

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Anche in Iraq la rappresaglia sembra costituire uno scopo importante. Hafez [2006c, pp. 604-605] ha rilevato che le ondate di attacchi suicidi ebbero spesso luogo in risposta a operazioni di antiguerriglia attuate dalle Forze di coalizione. Con questi atti di violenza i gruppi armati sunniti intendevano dimostrare che gli sforzi e le iniziative delle potenze occupanti non avevano avuto successo, ma si proponevano anche di punire gli sciiti per la loro collaborazione alle operazioni di antiguerriglia e di sfruttare eventuali «danni collaterali» delle operazioni per reclutare nuovi militanti e allargare la base del loro sostegno. Provocazione. Le organizzazioni terroristiche mirano spesso a provocare l’avversario, spingendolo a reagire alla violenza in maniera quanto più possibile sproporzionata e indiscriminata. Uno dei più inluenti teorici della violenza terroristica, il brasiliano Carlos Marighella, sosteneva che la provocazione di iniziative governative come la reclusione senza processo e l’impiego di «squadroni della morte» avrebbe reso intollerabile la vita del cittadino comune, inducendolo così a ritirare il proprio sostegno a favore del governo (crenshaw [1981, p. 387]; neumann, smith [2005, p. 580]). Ancor più, la reazione dello Stato può accrescere il consenso a favore della causa promossa dai gruppi armati. Infatti le organizzazioni terroristiche costituiscono di norma una minoranza estremista e intransigente all’interno della più ampia società di cui pretendono di essere i rappresentanti e i difensori. Per avere chances di successo politico esse devono convincere i membri della propria società che l’uso della violenza, anche nella forma estrema degli attacchi suicidi, sia una scelta opportuna e addirittura necessaria (cfr. kydd, walter [2006, pp. 69-70]). La provocazione consente di raggiungere indirettamente questo obiettivo perché può indurre l’avversario a reagire alla violenza terroristica con pesanti azioni militari e in maniera indiscriminata (ovvero mettendo a repentaglio anche la sicurezza dei civili). Questo tipo di risposta può avvicinare ampi settori della società alla causa dell’organizzazione terroristica e facilitarne la mobilitazione

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(cfr. crenshaw [1990, p. 12]), anche se talora più a causa dell’avversione rispetto alla repressione condotta dallo Stato che per merito dell’efettiva popolarità del gruppo armato (mccormick, fritz [2010, pp. 137-138]). Le modalità dell’azione antiterroristica ofrono poi ai moderati della società di riferimento informazioni rilevanti sulla disponibilità al compromesso del governo in carica (cfr. lake [2002, pp. 19-20]), specialmente nel caso in cui esso abbia la possibilità di ricorrere a interventi di natura selettiva, ma preferisca avvalersi di misure indiscriminate (di solito meno costose) (cfr. bueno de mesquita, dickson [2007]). D’altra parte, i governi sono frequentemente incentivati a ricorrere a misure antiterroristiche decise, appariscenti e talora poco selettive per dimostrare ai propri cittadini che stanno afrontando attivamente e risolutamente la minaccia terroristica (cfr. bueno de mesquita [2007]); ciò anche a costo di cadere nella trappola della provocazione. Inine, è opportuno notare che la provocazione, se riesce nell’intento di scatenare la reazione dell’avversario, può consentire in qualche modo di giustiicare e legittimare l’uso della violenza terroristica a posteriori. Le organizzazioni radicali palestinesi hanno provocato a più riprese l’avversario israeliano attraverso l’impiego di attacchi suicidi. In questo caso presumibilmente la provocazione non di rado ha avuto qualche successo perché lo Stato ebraico non ha esitato a reagire in maniera pesante alla violenza subita ricorrendo anche a misure indiscriminate di punizione collettiva, come la demolizione delle abitazioni dei parenti degli attentatori suicidi (cfr. benmelech et al. [2011]). È da notare che anche il governo di Israele ha fatto ricorso alla provocazione contro i propri oppositori palestinesi (cfr. gupta, mundra [2005]), specialmente per mezzo degli assassinii mirati. In alcune occasioni l’obiettivo di Gerusalemme, presumibilmente, è stato quello di alzare il livello dello scontro senza assumersene direttamente la responsabilità (bloom [2005, pp. 23-24]). La violenza suicida di al-Qaida ai danni degli Stati Uniti, culminata negli attacchi dell’11 settembre 2001, ha assegna-

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to un ruolo di primo piano allo scopo della provocazione (sedgwick [2005]; cfr. anche holmes [2006, p. 161]; mueller [2005]). Bin Laden in un ilmato del novembre 2004 ebbe a dichiarare: «[è] facile per noi provocare questa Amministrazione» (citato in kydd, walter [2006, p. 71]). In efetti si può sostenere che la strategia di provocazione di al-Qaida non sia stata fallimentare, almeno nel medio periodo: Washington si è avventurata in due lunghe, complicate e dispendiose guerre, in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003, e ha visto crescere in maniera considerevole gli atteggiamenti antiamericani nel mondo e, in particolare, in Medio Oriente. La coercizione ai danni dello Stato nemico rappresenta tipicamente il ine ultimo del terrorismo. La violenza terroristica, in ultima istanza, ha solitamente la funzione di imporre all’avversario perdite e costi talmente elevati da costringerlo ad accordare concessioni favorevoli ai terroristi. Secondo Pape [2005, pp. 29-30], le modalità della coercizione esercitata dalle organizzazioni responsabili di attacchi suicidi sono diverse da quelle che caratterizzano i conlitti armati internazionali. Nella grande maggioranza dei conlitti tra Stati la parte che esercita la coercizione è quella più forte19. In questa situazione, la parte che esercita la coercizione può avvalersi di due strategie: con la «punizione» intende alzare i costi o i rischi per l’avversario a un livello tale che eccedano il valore dei suoi interessi, mentre con la «negazione» (denial) mira a dimostrare all’avversario che non può vincere il conlitto e che quindi è inutile che si afanni a protrarre le ostilità. All’opposto, secondo Pape, nel caso del terrorismo suicida a esercitare coercizione è la parte più debole, il gruppo armato. Di conseguenza esso non può servirsi della strategia della negazione perché, a causa della sua inferiorità militare rispetto all’avversario, non può aspettarsi di ottenere una vittoria direttamente sul campo di battaglia. L’organizzazio19. Se, infatti, la parte interessata a esercitare coercizione fosse quella più debole, potrebbe essere contenuta dall’avversario attraverso strategie di deterrenza oppure, semplicemente, non sarebbe in grado di attuare le sue minacce.

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ne terroristica deve quindi ricorrere alla strategia coercitiva della punizione, con una logica simile a quella che guida il bombardamento aereo strategico, un metodo inalizzato a minare il morale della popolazione e a distruggere il sistema produttivo e le infrastrutture civili del nemico. A ben vedere, ciò che rende eicace il potere coercitivo non sono tanto i danni efettivamente arrecati all’avversario quanto le aspettative di danni futuri. In deinitiva, il metodo estremo degli attacchi suicidi consente di compensare la posizione di debolezza militare delle organizzazioni terroristiche rispetto all’avversario statale contro cui lottano. Pape [2003; 2005] ha posto al centro della sua inluente analisi del terrorismo suicida proprio lo scopo della coercizione sotto forma di punizione. Secondo questo studioso, «il principale proposito del terrorismo suicida è quello di usare la minaccia della punizione per costringere il governo colpito a cambiare politica e, specialmente, di indurre gli stati democratici a ritirare le proprie forze dal territorio che i terroristi percepiscono come la loro madrepatria» (pape [2005, p. 27]). Il primo caso di campagne di attacchi suicidi nella storia recente, quello libanese, mostra bene l’importanza del meccanismo della coercizione. I gruppi armati attivi in Libano avevano lo scopo di costringere l’esercito israeliano e la Forza multinazionale a ritirarsi dal Paese. Tale obiettivo venne effettivamente raggiunto con il contributo rilevante di questa forma di violenza. Ciononostante altri casi sono più problematici. A diferenza di quanto ha sostenuto Pape, non è detto che in altre aree geograiche le campagne di attacchi suicidi abbiano sempre perseguito direttamente lo scopo ultimo della coercizione attraverso la punizione, tanto più dove gli obiettivi uiciali dei gruppi armati erano massimalisti e piuttosto vaghi (basti pensare alle grandiose aspirazioni di al-Qaida). Può essere utile sofermarsi sul caso palestinese nel corso degli anni ’90, considerato «cruciale» dallo stesso Pape: nelle sue parole, «Hamas e il Jihad Islamico costituiscono il caso più cruciale perché questi gruppi sono stati considerati estremisti fanatici persino in confronto ad altri terroristi»;

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«questi gruppi sono quelli citati più frequentemente come rivolti a scopi irrealistici e perciò come fondamentalmente irrazionali. Molti osservatori caratterizzano Hamas e il Jihad Islamico come fanatici, estremisti sia all’interno della società palestinese sia tra i gruppi terroristici in generale» (pape [2005, pp. 64, 66-67]). Nell’interpretazione di Pape, persino gli attentati suicidi palestinesi degli anni ’90 perseguirono razionalmente lo scopo diretto di liberare (almeno) i Territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza dall’occupazione israeliana. In particolare, nella ricostruzione dello studioso, le campagne di attacchi del 1994, 1995, 1996 e 1997, condotte da Hamas e dal Jihad Islamico, organizzazioni estremiste contrarie al processo di pace di Oslo, avevano principalmente l’obiettivo di assicurare e accelerare il ritiro dell’esercito israeliano, previsto dagli Accordi di Oslo e ripetutamente rinviato dal governo di Gerusalemme senza giustiicati motivi. Pape [2005, pp. 65-73] sostiene che le campagne di attacchi suicidi del 1994 e del 1995 ebbero successo, mentre alla campagna del 1996 non corrisposero concessioni israeliane e quella del 1997 sortì efetti ambigui. Questa lettura del caso palestinese include non poche imperfezioni e omissioni. In questa sede ci si può limitare a notare che l’errore più grave commesso dallo scienziato politico americano riguarda proprio l’individuazione degli scopi della violenza. Negli anni ’90 Hamas e, tanto più, la piccola formazione del Jihad Islamico erano organizzazioni di importanza modesta sulla scena politica palestinese e decisamente avverse al processo di pace in corso20. Per questo non avevano alcun interesse a dimostrare l’intenzione di accelerare i tempi del ritiro israeliano dai Territori Palestinesi: questa evenienza, infatti, avrebbe implicato, in qualche 20. Come ha sintetizzato Moghadam [2006c, p. 715], «Hamas tradizionalmente non ha mirato ad accelerare le concessioni israeliane, ma, al contrario, ha tentato di sabotare il processo di pace». Nello stesso articolo Moghadam ha puntualmente evidenziato alcuni tra i principali errori commessi da Pape nell’interpretazione del caso palestinese.

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modo, l’accettazione delle trattative e il riconoscimento dello Stato di Israele e probabilmente sarebbe stata giudicata dalla maggior parte dei palestinesi come una vittoria storica del loro rivale domestico, Fatah, principale interlocutore di Israele (marone [2010]). In generale, all’epoca Hamas e il Jihad Islamico non avevano né le motivazioni né le capacità per inluenzare direttamente il nemico israeliano. Su questo punto si può condividere la valutazione critica formulata da Jon Elster [2006, p. 249]: Anche se non sono persuaso dal suo argomento [di Pape] che si fonda esclusivamente su dichiarazioni ambigue dell’allora Primo Ministro Rabin e di dichiarazioni a proprio favore (self-serving) di portavoci di Hamas, il meccanismo non è intrinsecamente implausibile. In ogni caso, sembra molto dubbio che la deterrenza [cioè la coercizione] costituisca l’intera spiegazione della grande quantità di missioni suicide che hanno avuto luogo in Palestina dal 1993.

Discutibilmente Pape [2003; 2005] non ha preso in considerazione l’intensa ondata di violenza della Seconda Intifada (autunno 2000-2005), perché ancora in corso nell’anno 2003, termine ad quem della sua ricerca. Questa fase storica ha conosciuto soltanto un caso di ritiro di forze di occupazione, per quanto assai rilevante: l’uscita unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza nell’agosto-settembre del 2005. Al di là delle (non sorprendenti) dichiarazioni di propaganda di Hamas e delle altre organizzazioni palestinesi, sembra diicile afermare che gli attentati suicidi abbiano rappresentato la causa principale o addirittura la causa esclusiva di questo importante avvenimento. Infatti, come hanno sottolineato Brym e Araj [2006, p. 1981], «durante la Seconda Intifada, Gaza non è stata né la sede di un numero sproporzionatamente ampio di attacchi suicidi né la base di reclutamento di un numero sproporzionatamente ampio di attentatori suicidi». Secondo i dati disponibili (marone [2008b]), su 129 attentati veriicatisi nell’ondata di al-Aqsa soltanto 22 (pari al 17,1% del totale) sono stati eseguiti nella Striscia di Gaza e su 140 attentatori

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suicidi per i quali si dispone delle informazioni necessarie (su un totale di 146 individui) soltanto 30 (21,4%) provengono da questa area geograica21. Oltretutto, come ricordano Brym e Araj, la massiccia serie di attentati suicidi del marzo del 2002 ha incoraggiato Israele a rioccupare poche settimane dopo le principali città della Cisgiordania, dalle quali si era ritirato negli anni ’90, in ottemperanza agli Accordi di Oslo. Ancora più problematica è la valutazione dello scopo della coercizione nel caso di al-Qaida. Come accennato, gli obiettivi di questa organizzazione non sono chiari e distinti e tendono a sfumare in vagheggiamenti chimerici, come quelli relativi alla ricostituzione dell’antico Califato. Per associare anche al-Qaida allo scopo della coercizione attraverso la punizione, Pape [2005, in particolare pp. 122-123], con una mossa precipitosa, ha dovuto assumere che gli obiettivi dell’organizzazione fondata da Bin Laden riguardino rivendicazioni etno-nazionaliste relative a un territorio circoscritto, al pari dei gruppi armati che fanno capo al terrorismo suicida di tipo locale. Nella sua interpretazione, gli attacchi suicidi di al-Qaida avrebbero innanzitutto il proposito di costringere al ritiro le forze armate statunitensi stabilitesi in Arabia Saudita nel 1990, all’epoca della Prima guerra del Golfo; in particolare, «la politica militare americana nel Golfo Persico è stata con ogni probabilità il fattore centrale che ha condotto all’11 settembre» (ivi, p. 104). A ben vedere, non è convincente sostenere che la missione di un ampio movimento transnazionale come la rete di al-Qaida, attivo in decine di Paesi, si riduca al problema del ritiro di alcune migliaia di soldati statunitensi dall’Arabia Saudita. In efetti, la maggior parte di questi contingenti ha abbandonato il Paese nel 2003, eppure l’attività violenta di al-Qaida non si è certamente arrestata né si è prontamente ridotta, nemmeno in Arabia Saudita. 21. I dati presentati da Brym e Araj [2006, p. 1981] per il periodo 26 ottobre 2000 – 12 luglio 2005 sono simili a quelli appena esposti: 18% di attacchi suicidi eseguiti nella Striscia di Gaza e 26% di attentatori suicidi provenienti dalla medesima area.

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Considerata l’enorme asimmetria militare e tecnologica esistente tra al-Qaida e gli Stati Uniti, probabilmente è più convincente sostenere che gli attacchi suicidi messi a segno dall’organizzazione jihadista, per quanto di altissimo proilo come quelli dell’11 settembre, abbiano mirato non tanto a esercitare direttamente un’azione di coercizione ai danni di Washington, quanto a perseguire scopi di breve e di medio periodo, come la segnalazione, la provocazione e la rappresaglia. 2.3 Gli scopi in capo a chi esercita e sostiene la violenza Gli atti di violenza ribelle possono perseguire scopi importanti, per quanto frequentemente trascurati dagli studiosi, anche in capo ai responsabili e ai sostenitori della violenza: da una parte, le organizzazioni stesse che pianiicano e sovrintendono l’esecuzione degli attacchi suicidi; e, dall’altra, la comunità di sostegno che può approvare i ini stabiliti e i mezzi adottati dai gruppi armati, compreso il metodo estremo degli attacchi suicidi. La comunità di sostegno Propaganda e «gioco al rilancio». Nell’importante volume Dying to Kill Mia Bloom [2005] ha sostenuto che l’impiego del metodo degli attacchi suicidi può essere spiegato in funzione del livello di competizione tra gruppi armati rivali: «i gruppi terroristici sembrano usare gli attentati suicidi in base a due condizioni: quando altre tattiche terroristiche o militari falliscono, e quando sono in competizione con altri gruppi terroristici per il sostegno popolare o inanziario» (bloom [2005, p. 1, corsivo aggiunto]). In altre parole, in un contesto caratterizzato dalla competizione tra una pluralità di gruppi armati rivali, ciascun gruppo potrebbe essere incentivato a ricorrere al metodo degli attacchi suicidi per ottenere maggior sostegno popolare o per ricevere maggiori inanziamenti, in virtù di un meccanismo di «gioco al rilancio» (outbidding) della violenza.

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Bloom [2005] ha creduto di rintracciare la presenza di questo meccanismo già tra le diverse fazioni degli antichi Sicari (ivi, p. 10; cfr. rapoport [1984, p. 672]) e ha tentato di applicare la sua interpretazione a tutti i casi di terrorismo suicida. Con ogni probabilità il caso di outbidding più importante e interessante è quello palestinese (bloom [2004; 2005]). Le campagne di attacchi suicidi hanno avuto un ruolo importante nelle dinamiche interne alla comunità palestinese, arrivando a costituire un vero e proprio strumento di lotta politica tra fazioni e organizzazioni diferenti (insieme ad altri mezzi, più tradizionali), almeno durante la Seconda Intifada (marone [2010]). Durante la prima ondata di violenza (1993-estate 2000), gli attacchi suicidi non produssero efetti notevoli in capo alla comunità di sostegno. Durante questa fase storica, infatti, la maggior parte dei palestinesi era iduciosa nelle sorti del processo di pace condotto dall’olp con lo Stato di Israele (cfr. sahliyeh, deng [2003]). Gli attacchi suicidi, eseguiti da Hamas e dal Jihad Islamico, due organizzazioni estremiste che si opponevano agli Accordi di Oslo e che avevano allora una posizione marginale sulla scena politica, non godevano di largo sostegno tra la popolazione. Durante la prima ondata gli scopi principali degli attacchi suicidi realizzati dalle due organizzazioni estremiste religiose erano, come accennato, il sabotaggio del processo di pace e la rappresaglia. Nondimeno, questa forma di violenza aveva anche l’intenzione di minare il consenso e la legittimità dell’olp nell’arena interna. Tale obiettivo non andò a buon ine, come dimostrava l’elevato livello di iducia della popolazione palestinese per il processo di pace gestito da Arafat e l’ampio consenso che poteva vantare Fatah, confermato dalla netta vittoria alle prime elezioni politiche del 1996 (peraltro boicottate da Hamas). L’inizio della Seconda Intifada (autunno 2000) fu segnato dall’esaurimento del processo di pace di Oslo (marone [2010, pp. 199-200]). Con il sostanziale fallimento del summit di Camp David del luglio 2000 tra Arafat e Barak, nella popolazione palestinese si difusero forti sentimenti di disillusione,

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siducia e frustrazione. Da una parte, l’Autorità Nazionale Palestinese (anp) e Fatah perdevano progressivamente consenso perché apparivano incapaci di migliorare le condizioni di vita della popolazione e, tanto più, di raggiungere l’agognato obiettivo dell’instaurazione dello Stato palestinese, mentre cresceva l’indignazione per la presunta corruzione di molti loro esponenti. Dall’altra parte, di fronte al fallimento del processo di pace, che tante aspettative aveva alimentato, molti palestinesi ritenevano che in questa nuova fase storica fosse lecito, se non opportuno o addirittura doveroso, ricorrere a mezzi violenti per afrontare Israele (cfr. bloom [2005, pp. 2529]). In questo contesto la passeggiata di Ariel Sharon, leader del Likud, sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme il 28 settembre 2000 costituì di fatto l’evento scatenante di una intensa ondata di violenza. La pesante azione di repressione esercitata da Israele inì poi per radicalizzare la popolazione palestinese e contribuì ad accrescere il consenso per questa forma di violenza estrema (araj [2008]). Come ha sintetizzato Mohammed M. Hafez [2006a, p. 19 (si veda anche il graico 2 a p. 20 nello stesso volume)]: Durante gli anni del processo di pace di Oslo (1993-2000), la maggior parte dei palestinesi riiutò gli attacchi suicidi contro civili israeliani. Nondimeno, durante l’Intifada di al-Aqsa, la grande maggioranza sostenne tali attacchi, nonostante i livelli luttuanti di favore. Per esempio, in un sondaggio del marzo del 1996 condotto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research solo il 21,1 percento dei palestinesi della Cisgiordania e di Gaza espresse sostegno per gli attentati suicidi. Il sostegno più alto per gli attentati suicidi durante il processo di pace non superò mai il 32,7 percento, nel settembre 1997, quando era in carica Benjamin Netanyahu, il leader «falco» del Likud. Al contrario, un sondaggio dell’ottobre del 2003 dello stesso centro di ricerca trovò che il 74,5 percento dei palestinesi sosteneva gli attentati suicidi […]. Soltanto nel marzo del 2005, dopo che palestinesi ed israeliani ebbero raggiunto un accordo sul cessate il fuoco reciproco, il sostegno per gli attentati suicidi calò sostanzialmente: il 29,1 percento continuò a sostenerli.

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In questa nuova fase storica, caratterizzata dalla crisi del processo di pace e dal declino dell’olp, Hamas trovò preziose opportunità per uscire dalla sua posizione di marginalità politica. Il ricorso al metodo degli attacchi suicidi divenne uno strumento eicace di lotta per il potere politico nell’arena palestinese, in un contesto divenuto favorevole all’uso di questa forma di violenza (marone [2010, pp. 199-202]). La violenza consentì a Hamas di conquistare un’importante «quota di mercato» (bloom [2004, p. 72]) nel quadro di una profonda trasformazione della domanda politica palestinese. La violenza palestinese, divenuta via via più frequente e intensa, anche a causa delle reazioni di Israele, acquisì una rilevanza crescente nell’arena politica interna, tanto da attivare un gioco al rilancio tra le fazioni rivali, al quale non vollero sottrarsi nemmeno due organizzazioni laiche tradizionalmente poco sensibili al richiamo del jihad e del martirio, come Fatah e il fplp (marone [2010, pp. 201-202]). Nella parte centrale della Seconda Intifada (2001-2003) il gioco al rilancio tra organizzazioni e persino all’interno delle stesse organizzazioni fu così intenso da produrre una vera e propria gara per rivendicare ogni attacco suicida, anche quando la rivendicazione non era associata all’efettiva paternità dell’operazione (marone [2010, pp. 202-203]). Non sorprende quindi che in questo periodo numerosi attacchi suicidi siano stati rivendicati contemporaneamente da più fazioni rivali (cfr. bloom [2005, p. 29]; clauset et al. [2010, p. 21]), in virtù di una sorta di efetto «carro del vincitore» (bandwagon) (bloom [2004, pp. 73-75])22. Al contrario, soprattutto nella ine inale dell’Intifada (ine 2004-2005), di fronte alle pesanti reazioni di Israele e alle sempre più diicili condi-

22. Bloom [2004; 2005] accetta, quindi, implicitamente l’argomento secondo cui, dalla prospettiva dei gruppi armati, i beneici derivanti dalla rivendicazione uiciale di un attacco suicida supererebbero i costi connessi al rischio di ritorsioni da parte di Israele, tanto più quando l’attacco non è stato veramente realizzato dal gruppo che ne reclama la paternità (tale gruppo corre il rischio di essere punito per un’azione che non ha nemmeno compiuto) (ayers [2008, p. 860]).

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zioni di vita della popolazione palestinese, la competizione non di rado lasciò spazio alla cooperazione (marone [2010, pp. 192-193]; cfr. anche ricolfi [2006, pp. 99-101]; brym, araj [2008, pp. 493-495]), soprattutto a livello locale (cfr. perliger, pedahzur [2006]): alcuni attacchi suicidi furono eseguiti congiuntamente da più organizzazioni. Oltretutto, come accennato, l’uso degli attacchi suicidi ai ini della competizione nel campo palestinese non interessò soltanto la rivalità tra organizzazioni nell’arena inter-organizzativa, ma coinvolse anche la rivalità tra fazioni e correnti all’interno di ciascuna organizzazione (in particolare, all’interno di Hamas e di Fatah), nell’ambito dell’arena interna intra-organizzativa (marone [2010]). Il meccanismo dell’outbidding è strettamente connesso alla dimensione comunitaria degli attacchi suicidi palestinesi. Infatti, nel contesto palestinese, questa forma di violenza non rappresenta soltanto una tecnica distruttiva, giusto più eicace ed eiciente di molte altre; essa possiede anche una profonda valenza e portata comunitaria, basata su un’elaborata deinizione sociale di questa pratica. Questa dimensione comunitaria della violenza condiziona l’impiego degli attacchi suicidi da parte dei gruppi armati, imponendo vincoli e, allo stesso tempo, ofrendo opportunità. Da una parte, sul versante dei vincoli, i gruppi radicali palestinesi diicilmente possono rivolgere quest’arma contro altri membri della comunità palestinese, nonostante l’antagonismo interno, a tratti brutale: e infatti non lo hanno mai fatto. Un attacco suicida condotto da una fazione contro una fazione rivale diicilmente potrebbe essere presentato e giustiicato ricorrendo al costrutto sociale del «martirio», con le sue norme, i suoi rituali e le sue rappresentazioni simboliche che tendono a coinvolgere l’intera società palestinese. Lo scontro tra fazioni opposte viene pertanto condotto con altre forme di violenza, tatticamente meno impegnative e socialmente meno vincolanti. Dall’altra parte, sul versante delle opportunità, i gruppi radicali, in presenza di determinate condizioni, possono usare l’arma degli attacchi suicidi contro obiettivi isra-

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eliani allo scopo di accrescere il proprio prestigio e consenso tra la popolazione locale e tra i potenziali sponsors esterni, giovandosene così nella competizione politica con le fazioni concorrenti (marone [2010, pp. 188-189 e 191]). Già nel primo caso di terrorismo suicida contemporaneo, quello libanese, l’uso degli attacchi suicidi appare connesso alla competizione interna: al gioco al rilancio parteciparono i gruppi sciiti di Hezbollah e Amal e altre formazioni minori, anche laiche (cfr. ricolfi [2006, pp. 86-88]). In un articolo pionieristico e stimolante Martin Kramer [1991], rifacendosi al pensiero di René Girard [1972], ha sostenuto che gli attacchi suicidi libanesi rappresentassero non soltanto degli atti di guerra contro i nemici israeliani e occidentali, ma anche dei «riti sacriicali»: il sacriicio degli attentatori suicidi sarebbe valso da meccanismo del capro espiatorio, placando così la violenza fratricida. Nelle parole di Kramer [1991, p. 31]: Questi atti di auto-sacriicio e di sacriicio non furono solo destinati a [produrre] il massimo impatto come atti di guerra. Svolsero anche la funzione che René Girard ha suggerito per il sacriicio: la deviazione e la dissipazione della violenza nata da una faida interna. Queste operazioni non soltanto spinsero al ritiro i nemici stranieri degli sciiti libanesi; servirono anche a prevenire lo scoppio della violenza fratricida dall’interno. Il ciclo competitivo del sacriicio, fatto nel nome dell’Islam, evitò un ciclo di violenza tra i fedeli dell’Islam. Quando il ciclo sacriicale collassò [alla ine degli anni ’80], la violenza ricadde sugli sciiti del Libano, nella forma di una guerra fratricida.

È interessante rimarcare che la violenza esercitata per ragioni di competizione interna segue una logica relativamente autonoma da quella che guida il conlitto contro l’avversario esterno (marone [2010, in particolare p. 206]). Kramer [1991, p. 41], nel quadro della prospettiva appena richiamata, ha osservato che nel corso del tempo la funzione «militare» (relativa allo scontro con gli avversari stranieri) degli attacchi suicidi libanesi perse rilevanza a vantaggio della dimensione «sacriicale» (collegata alle dinamiche interne):

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che l’esito militare delle operazioni di auto-martirio non fosse necessariamente importante divenne evidente nel loro rendimento decrescente. Forse la prima vittima della competizione fu la pianiicazione operativa che divenne meno accurata man mano che Hezbollah e Amal (presto seguiti da partiti di sinistra e sponsorizzati dalla Siria) si impegnavano ad alzare la posta tra di loro sul piano della frequenza delle operazioni. Non ci si aspettò più che il sacriicio ottenesse risultati immediati; l’auto-martirio venne sempre più presentato come una ricompensa in sé. Nello stesso tempo Hezbollah e Amal cercarono di elevare lo standard degli auto-martiri sacriicali […]. Man mano che auto-martiri sempre più puri venivano oferti per risultati immediati decrescenti, il peso della guerra sacra nelle operazioni diminuì e quella del sacriicio aumentò.

Inoltre, è utile ricordare che la violenza esercitata per ragioni di competizione interna attiva dinamiche che possono sfuggire al controllo degli stessi gruppi armati: per esempio, nel corso di un gioco al rilancio la rinuncia ad avvalersi di attacchi suicidi può essere percepita come un segno di arrendevolezza o addirittura di tradimento della causa e rischia di essere punita con una reazione negativa da parte di settori della popolazione. Così, per un efetto perverso, la violenza può intensiicarsi anche se si rivela controproducente per i gruppi armati così come per la società di riferimento (marone [2010, p. 206]; cfr. abrahms [2004]). Il ruolo della competizione è saliente anche per gli attacchi suicidi realizzati dalla rete transnazionale di alQaida. Con gli attacchi suicidi dell’11 settembre 2001 l’organizzazione fondata da Bin Laden riuscì a distinguersi e a ottenere la supremazia nel campo delle organizzazioni e delle sigle di matrice salafita-jihadista (atran [2006, p. 132]). Inoltre, dopo l’11 settembre è possibile che gruppi armati interessati a ottenere riconoscimento o sostegno da al-Qaida decidano di competere tra loro anche attraverso un gioco al rilancio sul piano della letalità e/o della frequenza degli attacchi in una sorta di «gara al massacro» (caruso, locatelli [2009]).

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In conclusione, il gioco al rilancio costituisce un importante fattore esplicativo in alcuni casi di terrorismo suicida. Ciononostante, è opportuno sottolineare che non esiste una relazione di causazione necessaria tra competizione interna e impiego del metodo degli attacchi suicidi. Da una parte, in numerose aree geograiche (per esempio, in Colombia, in Perù e in Irlanda del Nord) la competizione tra gruppi armati non ha condotto all’adozione degli attacchi suicidi. Dall’altra parte, in molti casi l’uso di questo metodo non è associato a una competizione interna per acquisire il sostegno popolare. Per esempio, le ltte abbracciarono questa forma di violenza nel 1987 soltanto dopo aver eliminato tutti i rivali nel campo tamil (pape [2005, p. 20]). In Iraq, dove pure opera una moltitudine di gruppi armati «concorrenti», il gioco al rilancio non si manifesta nelle modalità previste da Bloom poiché la maggior parte degli attacchi suicidi non viene rivendicata pubblicamente da alcun gruppo e, nel complesso, la popolazione locale non sembra assecondare l’uso di questo metodo (ayers [2008]). Le organizzazioni responsabili della violenza Consolidamento dell’organizzazione. Degni di nota sono anche gli scopi della violenza in capo ai gruppi che vi ricorrono, come hanno messo in evidenza alcuni eminenti studiosi del conlitto come Georg Simmel e Lewis A. Coser. Dapprincipio la violenza può svolgere la funzione di formare la coscienza di gruppo e stabilire l’identità e i conini dell’organizzazione. In particolare, come ha osservato Stoppino [2001, p. 93]: Sono gli atti violenti dotati di una grande carica simbolica di afermazione della legittimità ad avere il maggior peso per promuovere una coscienza di gruppo tra tutti quelli che si trovano in una medesima situazione di svantaggio o che nutrono uno stesso risentimento. Nello stesso tempo, la violenza separa il gruppo dal resto della comunità, e soprattutto lo contrappone al gruppo antagonista, di cui contesta la legittimità: l’individuazione del nemico ha qui un ruolo importante nella ricerca della propria identità.

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Nelle formazioni già costituite, l’esercizio della violenza tende ad aumentare la coesione interna: il gruppo armato mobilita le energie e le risorse dei militanti e serra i ranghi di fronte al nemico. Inoltre, la violenza in un conlitto prolungato può aumentare la centralizzazione dell’organizzazione, richiedendo la subordinazione delle diverse attività a un solo centro di comando. L’elemento del sacriicio premeditato può raforzare alcune di queste dinamiche. In particolare, l’immolazione dell’attentatore suicida può consolidare i legami tra i compagni sopravvissuti, può fortiicare la loro determinazione e la loro dedizione alla causa e può imporre loro degli obblighi morali nei confronti dei «martiri» caduti. Come già accennato, la pratica del martirio, per sua natura, crea conini sociali, attiva e rinforza linee di demarcazione tra gruppi. Da una parte, rinsalda la coesione dell’ingroup; dall’altra, rimarca la distanza nei confronti dell’outgroup. Questa funzione è tanto più saliente per le organizzazioni terroristiche poiché esse, a causa della loro natura clandestina, diicilmente possono promuovere la coscienza del gruppo e la solidarietà tra i militanti attraverso conini, riti e istituzioni generalmente riconosciuti in un determinato territorio, come possono fare gli Stati, per mezzo di monumenti, onoranze pubbliche, festività, ecc23. Gli atti di martirio, anche con i loro aspetti rituali e cerimoniali, possono contribuire a rinsaldare l’unione all’interno di gruppi, come quelli terroristici, che devono aidarsi alla segretezza per sopravvivere (cfr. lewis [2012, pp. 37-38]). Inine, l’uso degli attacchi suicidi può favorire il reclutamento di nuovi militanti e sostenitori. Alcuni individui possono essere attirati dalla prospettiva di portare a termine un attacco suicida perché, come accennato in precedenza, 23. Una parziale eccezione è costituita dalle Tigri Tamil che nel periodo in cui controllarono una porzione del territorio dello Sri Lanka eressero monumenti e santuari dedicati ai propri caduti e stabilirono persino ricorrenze pubbliche, come il «giorno delle Tigri Nere» il 5 luglio e il «giorno dei Martiri» il 27 novembre di ogni anno.

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questo atto spesso è, per così dire, «irmato» e può trasformare all’istante l’esecutore della violenza in una igura pubblica, un eroe e un modello da emulare; tutto questo senza nemmeno mettere a repentaglio la segretezza del gruppo armato. Persino i militanti che non sono personalmente interessati a partecipare ad attacchi suicidi possono essere allettati e gratiicati dall’idea di aderire a un’organizzazione che, con il ricorso a questa forma di violenza estrema, dimostra, a torto o a ragione, di poter contare su seguaci così determinati e fedeli da esser pronti a sacriicare deliberatamente la propria vita per la causa in cui credono (cfr. ayers [2008, specie pp. 860-861]). 3. Gli esiti della violenza Finora ci siamo chiesti quali fossero gli scopi degli attacchi suicidi e abbiamo mostrato che essi sono molteplici, riguardano classi di soggetti diferenti e fanno riferimento a orizzonti temporali diversi. In questa sezione esploriamo il problema degli esiti politici degli attacchi suicidi. Il tema è complesso, sfuggente e delicato. In primo luogo, se, come detto, gli scopi della violenza terroristica sono svariati, hanno portata diferente, cambiano nel corso del tempo e sono continuamente inluenzati dall’interazione con l’avversario e con gli altri attori rilevanti, allora è evidente che l’analisi degli esiti politici è un’impresa complessa. In secondo luogo, anche quando si isoli uno scopo della violenza terroristica in relazione a un determinato arco di tempo, non è così facile individuare la soglia oltre la quale si può parlare ragionevolmente di successo24. Negli anni ’80 del secolo scorso Martha Crenshaw ha osservato che «gli esiti delle campagne di terrorismo sono 24. Chiaramente al di là del successo a livello meramente operativo e tattico, che può essere misurato per mezzo di indicatori come la letalità e la frequenza degli attacchi portati a termine (cfr. marsden [2012, pp. 135 e 138-139]).

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stati largamente ignorati»; Ted Gurr ha aggiunto che questo è «un argomento sul quale è stata fatta poca ricerca a livello nazionale, sistematico o di altro tipo» (entrambi citati in abrahms [2007, p. 235]); e negli anni ’90 Idris Sharif ha ribadito che il successo del terrorismo come strategia politica è «uno dei fenomeni socio-politici meno compresi degli ultimi tre decenni» (citato in marsden [2012, p. 134]). In effetti la letteratura scientifica, ancora oggi, offre valutazioni e interpretazioni contrastanti circa l’efficacia politica della violenza terroristica: secondo alcuni studiosi, il terrorismo «funziona» (per esempio, kydd, walter [2006, p. 49]; cfr. anche pape [2005]); all’opposto, secondo altri, «non funziona» (per esempio, schelling [1991, p. 20]; abrahms [2006; 2012]). A titolo di esempio, alcuni esperti sostengono che, come minimo, le lotte anticoloniali dell’ Irgun in Israele, del Fronte di Liberazione Nazionale (fln) in Algeria e dell’Organizzazione Nazionale dei Combattenti Ciprioti (eoka) a Cipro costituiscano prove inequivocabili di successo politico, ma i critici sono pronti a obiettare che, in realtà, i casi citati riguardano campagne di guerriglia e non di terrorismo in senso proprio (abrahms [2010, pp. 149-150]). Questo disaccordo di fondo si ritrova anche nella letteratura sulle campagne di attacchi suicidi (si veda, per esempio, il confronto tra mccormick, fritz [2010] e abrahms [2010]), benché questa forma di violenza sia, come detto, più efficace ed efficiente di altre sotto il profilo meramente operativo e tattico. La più nota trattazione del tema dell’efficacia politica degli attacchi suicidi si deve probabilmente a Robert A. Pape [2005]. Questo studioso ha sostenuto energicamente la tesi secondo cui «il terrorismo suicida paga» (ivi, capitolo 5). Avvalendosi di un ampio database originale degli attacchi suicidi nel mondo, egli ha individuato 18 «campagne terroristiche suicide» condotte dal 1981 al 2003 (ivi, pp. 39-40); di queste 18 campagne, 5 non sono state prese in esame perché considerate ancora in corso alla fine del 2003, limite temporale della

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ricerca. Pape [2005, capitolo 5] ha argomentato che delle 13 campagne di attacchi suicidi esaminate, «sette sono collegate con significativi cambiamenti di policy da parte dello stato colpito [dalla violenza] in direzione dei principali scopi politici dei terroristi» (ivi, p. 64), mentre le restanti 6 campagne non hanno prodotto alcun cambiamento significativo (tabella 6.3). Ecco dimostrata, secondo Pape, l’efficacia politica del terrorismo suicida; tanto più che, come egli precisa, «persino un livello di successo del 50 percento è rimarchevole: la coercizione internazionale militare ed economica generalmente funziona meno di un terzo delle volte ed è particolarmente rara per i gruppi che hanno poche altre opzioni» (ivi, p. 65). La valutazione di Pape ha suscitato numerose obiezioni degne di nota. Se ne possono menzionare almeno quattro. In primo luogo, il modo in cui egli isola le singole campagne di violenza è arbitrario e presta il ianco a critiche fondate (crenshaw [2007, pp. 142-143]). In secondo luogo, il campione delle campagne preso in considerazione è di dimensioni modeste e riguarda pochi Paesi; infatti undici campagne su tredici sono state condotte contro appena tre Stati: Israele, Sri Lanka e Turchia (abrahms [2006, p. 46]). In particolare, lo studioso americano non esamina le campagne di attacchi suicidi condotte da al-Qaida e da altri gruppi salaiti-jihadisti che si rifanno a obiettivi massimalisti. In terzo luogo, Pape pretende di indagare il successo del terrorismo suicida rispetto agli scopi ultimi perseguiti dai gruppi armati (a suo avviso, la coercizione per inalità etno-nazionalistiche), ma di fatto include nel conto anche campagne che possono essere deinite di successo soltanto in relazione a scopi limitati e immediati («processuali», secondo la terminologia di abrahms [2012] e tosini [2012, pp. 88-92]), come il rilascio dal carcere del fondatore di Hamas, Yassin, nel 1997 (campagna n. 10) (abrahms [2006, p. 46]; cfr. moghadam [2006c, p. 714]). In quarto luogo, e soprattutto, Pape sovrastima notevolmente l’eicacia politica delle campagne di attacchi suicidi (moghadam [2006c, pp. 714-715]; cfr. anche abrahms [2006, p. 46];

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crenshaw [2007, pp. 143-144]), specialmente di quelle palestinesi (cfr. marone [2008b]). In breve, le più importanti critiche mosse a Pape hanno mostrato in maniera convincente che il terrorismo suicida non vanta una grande eicacia politica rispetto agli scopi ultimi proclamati uicialmente. In particolare, Moghadam [2006c, p. 715], correggendo la valutazione di Pape, ha sostenuto che il livello di successo delle campagne di attacchi suicidi condotte dal 1980 al 2003 non raggiunge afatto il 54% (ovvero 7 casi di successo su 13), ma si attesta a un «ben meno rimarchevole» 24% (4 casi di successo su 17). Oltretutto la valutazione sarebbe ancora più severa se si considerasse che la campagna di attacchi suicidi portata a termine dalle Tigri Tamil nel 2001 (campagna n. 13) condusse soltanto alla proclamazione di un cessate il fuoco e all’apertura di trattative tra l’organizzazione indipendentista e il governo cingalese (cfr. crenshaw [2007, p. 143]), ma le ostilità vennero poi riprese nel 2006 e l’organizzazione venne inine sbaragliata nel 2009. È signiicativo il fatto che lo stesso Pape in un secondo libro dedicato al tema del terrorismo suicida nel 2010 (pape, feldman [2010]) abbia di fatto riconsiderato al ribasso la sua valutazione circa l’eicacia politica di questa forma di violenza, così come circa la salienza dello scopo della coercizione diretta (abrahms [2011]).

Campagna

Periodo

Esito secondo Pape

Esito secondo Moghadam

1. Hezbollah vs. usa, Francia

apr. 1983 – sett. 84

Successo

Successo

2. Hezbollah vs. Israele

nov. 1982 – giu. 85

Successo

Successo

3. Hezbollah vs. Israele, els

lug. 1985 – nov. 86

Nessun cambiamento

Nessun cambiamento

4. ltte vs. Sri Lanka

lug. 1990 – ott. 94

Successo

Successo

5. ltte vs. Sri Lanka

apr. 1995 – ott. 2000

Nessun cambiamento

Nessun cambiamento

6. Hamas vs. Israele

aprile 1994

Successo

Nessun cambiamento

7. Hamas, jip vs. Israele

ott. 1994 – ago. 95

Successo

Nessun cambiamento

8. bki vs. India

agosto 1995

Nessun cambiamento

Nessun cambiamento

9. Hamas vs. Israele

feb. 1996 – mar. 96

Nessun cambiamento

Nessun cambiamento

10. Hamas vs. Israele

mar. – sett. 1997

Successo

Nessun cambiamento

11. pkk vs. Turchia

giu. – ott. 1996

Nessun cambiamento

Nessun cambiamento

12. pkk vs. Turchia

nov. 1998 – ago. 99

Nessun cambiamento

Nessun cambiamento

13. ltte vs. Sri Lanka

lug. – nov. 2001

Successo

Successo

298

Tabella 6.3 Livello di successo delle campagne di attacchi suicidi realizzate dal 1981 al 2003 secondo Pape e secondo Moghadam

Periodo

Esito secondo Pape

Esito secondo Moghadam

14. Al-Qaida vs. usa.

nov. 1995 – (in corso)

(Non applicabile)

Nessun cambiamento

15. Separat. ceceni vs. Russia

giu. 2000 – (in corso)

(Non applicabile)

Nessun cambiamento

16. Separat. Kashmir vs. India

dic. 2000 – (in corso)

(Non applicabile)

Nessun cambiamento

17. Hamas, JIP vs. Israele

ott. 2000 – (in corso)

(Non applicabile)

Nessun cambiamento

18. Ribelli iracheni vs. usa

2003 – (in corso)

(Non applicabile)

(Non valutato)

54%

24%

Livello di successo totale

Fonte: rielaborazione da pape [2005, pp. 64-66] e moghadam [2006c, p. 715]

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Campagna

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300

Il metodo degli attacchi suicidi non si è rivelato molto eicace rispetto agli scopi politici di lungo periodo perseguiti dalle organizzazioni responsabili della violenza. Nondimeno ciò non signiica che questa forma di violenza non abbia permesso di conseguire altri scopi di breve e medio periodo, come l’intimidazione, la segnalazione, la rappresaglia, la provocazione, la propaganda e l’aumento del sostegno popolare, il consolidamento dell’organizzazione. Tali scopi sono comunque importanti perché costituiscono solitamente delle precondizioni indispensabili per raggiungere gli obiettivi strategici inali. Il metodo degli attacchi suicidi rappresenta una forma di violenza tatticamente eicace ed eiciente a disposizione di gruppi armati che per deinizione non possono lottare alla pari con gli Stati nemici. Questa forma di violenza è, per molti aspetti, l’arma più potente che «il debole» possa impiegare contro «il forte». Concludiamo questo capitolo con alcune considerazioni di ordine generale sull’eicacia politica del terrorismo e, in particolare, del terrorismo suicida. Come detto, gli attacchi suicidi si presentano prima di tutto come una forma di violenza particolarmente distruttiva. La distruzione materiale è un’opzione conveniente a disposizione delle organizzazioni ribelli. Secondo un’osservazione epigrammatica di homas C. Schelling [1991, p. 19], «[a] prima vista c’è qualcosa di molto economico e di estremamente potente in quello che i terroristi fanno. […] Una delle più incresciose caratteristiche dell’attività umana è che distruggere è assai più facile che creare. Una casa che richiede diversi anni/uomini per essere costruita, può essere bruciata in un’ora da qualsiasi giovane teppista che possa permettersi una scatola di iammiferi; avvelenare un cane è meno caro che allevarlo». Ma, a ben vedere, la capacità distruttiva non sembra condurre direttamente a beneici rilevanti sul piano politico; per citare ancora Schelling (ivi, p. 21), «far esplodere una discoteca o un consolato o il terminal di un aeroporto può essere facile; indirizzare questo atto verso una qualsiasi funzione può andare oltre l’ingegno non solo degli esecutori dell’azione

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terroristica, ma anche di qualunque mente, se ve ne è una, che ha fornito loro assistenza e motivazione». In realtà, nella strategia del terrorismo la violenza di solito non è un ine in sé, ma viene utilizzata come un mezzo per esercitare potere: potere coercitivo, basato, appunto, su sanzioni isiche. Il potere ha per oggetto la volontà dell’altro e consente di ottenere tanto un’azione quanto un’omissione, mentre la violenza in sé e per sé ha per oggetto il corpo dell’altro o il suo ambiente isico e permette di ottenere soltanto un’omissione (stoppino [2001, pp. 73-77]). Come accennato, nel terrorismo e, tanto più, nel terrorismo suicida le sanzioni isiche hanno spesso un aspetto impressionante, spaventoso, drammatico perché devono produrre efetti psicologici talmente profondi da piegare la volontà di uno Stato nemico militarmente superiore. Questa circostanza può essere controproducente per la causa politica dell’organizzazione terroristica. A questo proposito può essere utile richiamare l’interessante ipotesi avanzata da Max Abrahms [2006] per spiegare «perché il terrorismo non funziona»; lo studioso ha argomentato che la selezione dei destinatari (target selection) della violenza rappresenta il fattore cruciale per il successo delle campagne di terrorismo: infatti le organizzazioni terroristiche che colpiscono destinatari civili in modo indiscriminato sembrano comunicare la volontà di perseguire obiettivi massimalisti relativi alla distruzione della società e/o del sistema di valori del nemico, a prescindere dai loro efettivi scopi strategici (che possono anche essere limitati o perlomeno ambigui). Infatti la parte attaccata, come previsto dalla teoria psicosociale della «inferenza corrispondente», inferisce la natura degli obiettivi delle organizzazioni terroristiche dalle conseguenze di breve e medio termine legate agli atti di violenza (morte di innocenti, panico di massa, erosione delle libertà civili), percependo così una minaccia esistenziale (anche qualora non sussista efettivamente) che ostacola la disponibilità al compromesso. In altri termini, la violenza indiscriminata suggerisce l’impressione che le organizzazioni terroristiche perseguano obiettivi massima-

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listi, anche nei casi in cui gli obiettivi ricercati sono in realtà limitati e potrebbero quindi consentire di giungere persino a un accordo tra le parti in conlitto. A ben vedere, il successo di questa forma di violenza come strumento di coercizione adottato da un’organizzazione substatale contro uno Stato dipende dalla portata e dal peso degli interessi in gioco per entrambe le parti. Da un lato, è evidente che questa forma di violenza può avere maggior fortuna laddove venga impiegata da un gruppo armato interessato al raggiungimento di scopi modesti e limitati, come il ritiro di un contingente di forze armate straniere da un territorio circoscritto. All’opposto, di per sé, non può che condurre a fallimenti quando serve a conseguire scopi massimalisti e tendenzialmente indeiniti come la ricostituzione del Califfato vagheggiata da al-Qaida. Ancor più, il successo delle organizzazioni terroristiche è connesso non soltanto alle capacità dello Stato (che sono generalmente superiori a quelle del gruppo armato), ma anche al peso dei suoi interessi. Sotto questo proilo, come lo stesso Pape [2005, pp. 75-76] ha dovuto riconoscere, il terrorismo suicida si rivela uno strumento di coercizione relativamente debole (quantomeno senza considerare l’eventuale uso di armi di distruzione di massa) quando mira a contrastare interessi che siano vitali per la sicurezza e il benessere di uno Stato sovrano (cfr. anche kydd, walter [2006, pp. 60-61]). Questa condizione spiega il fatto che la strategia del terrorismo abbia ottenuto risultati signiicativi nel corso delle lotte di decolonizzazione, proprio dove gli interessi delle potenze coloniali di solito sono letteralmente periferici (cfr. neumann, smith [2005, pp. 585-586]; abrahms [2007, p. 241]). Altre condizioni salienti che favoriscono la coercizione attraverso punizione sono, come detto, la sensibilità dello Stato colpito ai costi della violenza e gli eventuali vincoli con cui si deve misurare nel reagire alla minaccia terroristica (cfr. kydd, walter [2006, pp. 60-64]). La strategia del terrorismo si basa sullo sfruttamento degli efetti psicologici della violenza (cfr. neumann, smith

La politica del terrorismo suicida

303

[2005, p. 591]). Per questo l’atteggiamento e la reazione dello Stato sono fondamentali; il successo politico del terrorismo dipende, in ultima istanza, dalla volontà e dalla resistenza dell’avversario. In quest’ottica Diego Gambetta [2006a, p. 268, corsivo nel testo] si è spinto sino ad argomentare che: così tanto dipende dalla risposta scelta dal gruppo o paese preso di mira [dai terroristi] che spesso è impossibile dire se essi hanno colpito perché volevano raggiungere quella particolare risposta che accidentalmente viene scelta. Dopo aver fatto esperienza di livelli variabili di paura, ira, e shock a seguito di un attacco, le vittime possono rispondere comportandosi in tutta una serie di modi, che possono fare o non fare il gioco dei terroristi. […] Il terrorismo di tipo indiscriminato trova le sue ragioni, il nesso tra la causa e l’efetto, largamente ex post. Infatti le sue sole ragioni ex ante possono risiedere nell’assunzione che a seguito di un grave attacco terroristico ci sarà qualche conseguenza che verrà interpretata nel modo in cui i responsabili dell’attacco hanno voluto dal principio, dacché il loro «ragionamento» è infatti: «prima colpisci, poi (lascia che altri) trovino un senso». La diferenza tra un criminale e un terrorista sotto questo aspetto è signiicativa: il primo vuole che il suo crimine sembri un incidente, mentre il terrorista vuole che persino un incidente sembri programmato.

Si può quindi comprendere perché quello libanese sia stato il caso di terrorismo suicida che ha incontrato maggior successo politico. Da una parte, i gruppi armati che si servirono di questa forma di violenza avevano scopi relativamente limitati e modesti: il ritiro dell’esercito israeliano e della Forza multinazionale dal Paese. Dall’altra parte, per Israele e, ancor più, per gli Stati occidentali la presenza militare in Libano non era associata alla tutela di interessi nazionali essenziali. A ben vedere, il primo caso di terrorismo suicida contemporaneo, che è poi servito da modello di emulazione per tutti gli altri, diede prova di un’eicacia politica rimarchevole grazie a condizioni favorevoli particolari.

Conclusioni

Il libro si è posto l’obiettivo di esaminare sine ira et studio il fenomeno del terrorismo suicida. Il testo ha richiamato, vagliato e discusso criticamente i principali temi e problemi esaminati dagli studiosi e dagli esperti. Ha cercato di illustrare la ricchezza e la complessità del dibattito scientiico sull’argomento e allo stesso tempo ha messo in evidenza e proposto le prospettive e le interpretazioni che appaiono più solide e persuasive. Il volume, inoltre, ha esplorato alcune linee di ricerca importanti e interessanti che inora hanno trovato poca attenzione in letteratura, come il tema del sacriicio di sé nella storia del terrorismo (capitolo 2) e il problema degli scopi e degli esiti politici della violenza (capitolo 6). Lo studio di un fenomeno così complesso e sfaccettato richiede un approccio multicausale. Il libro ha preso in considerazione tre livelli di analisi (livello individuale, livello organizzativo e livello ambientale) e conseguentemente ha concentrato l’attenzione su tre soggetti principali (l’attentatore suicida, il gruppo armato e la comunità di sostegno) che interagiscono in una sorta di «mercato dei martiri». In questo modo la trattazione ha messo in rilievo un numero di fattori causali che, nel complesso, possono spiegare il gesto, allo stesso tempo impenetrabile e multiforme, di morire per uccidere; come ha argomentato Elster [2006, pp. 256-258], riprendendo una celebre espressione di Churchill, ci troviamo di fronte a un «enigma contenuto in un rompicapo» (un enigma a livello individuale, un rompicapo a livello organizzativo). La complessità dell’oggetto di studio in esame sollecita anche l’adozione di una prospettiva multidisciplinare che combini

306

proicuamente campi di sapere diferenti, dalla scienza politica alla sociologia, dall’antropologia culturale alla psicologia. In futuro la ricerca empirica potrà forse ofrire risposte convincenti ai numerosi interrogativi sollevati dentro e fuori l’accademia: per esempio, in merito alle caratteristiche psicologiche degli attentatori suicidi. Sono auspicabili anche progressi sul piano analitico e teorico. A questo proposito, vale la pena di ricordare che uno dei limiti più gravi degli studi sul terrorismo (Terrorism Studies) è rappresentato tradizionalmente proprio dalla scarsa attenzione per l’elaborazione teorica. In breve, molto lavoro resta ancora da fare. Ricerche e rilessioni sono tanto più importanti oggi, se si considera che il fenomeno del terrorismo suicida mostra segni di mutamento. Dopo aver conosciuto un picco nel 2007 (con oltre 600 attacchi suicidi), questo metodo terroristico continua a essere usato con relativa frequenza, anche in nuovi contesti rispetto a quelli in cui è emerso. Attualmente il peso del terrorismo suicida di tipo locale è modesto. Come accennato in precedenza, le ltte dello Sri Lanka sono state sconitte nel 2009. Altre organizzazioni radicali, come Hezbollah e Hamas, sono ancora attive, ma non si servono più di questa forma di violenza; è signiicativo che non vi abbiano fatto ricorso nemmeno nel mezzo di importanti conlitti armati, come la guerra del Libano dell’estate 2006 e la guerra della Striscia di Gaza dell’inverno 2008-20091. Le ragioni della rinuncia all’impiego di questo metodo chiamano in causa

1. Nondimeno, è opportuno notare che, secondo alcune fonti, il devastante attentato che il 14 febbraio 2005 uccise Raiq al-Hariri, inluente politico e imprenditore libanese, fu portato a termine da un «kamikaze» di sesso maschile. L’attacco non è stato mai rivendicato uicialmente, ma nel 2011 il Tribunale Speciale per il Libano, istituito dall’onu per giudicare i responsabili dell’assassinio, ha incriminato quattro dirigenti di Hezbollah (lewis [2012, pp. 253-254]). Inoltre, l’organizzazione libanese potrebbe essere coinvolta anche nell’attentato, apparentemente suicida, realizzato all’aeroporto di Burgas, in Bulgaria, il 18 luglio 2012, costato la vita a cinque turisti israeliani e un autista bulgaro. Secondo le autorità di Soia, l’attentatore, morto nell’esplosione, era legato al braccio militare di Hezbollah.

Conclusioni

307

le speciicità dei singoli contesti locali. Per esempio, il declino degli attacchi suicidi nel conlitto israelo-palestinese è probabilmente dovuto all’impatto delle misure difensive e ofensive poste in essere da Israele (a partire dalla costruzione della controversa barriera di separazione della Cisgiordania) (catignani [2005]; frisch [2006]) e alle trasformazioni veriicatesi nell’arena politica palestinese. Ciononostante si può argomentare che oggi è lo stesso metodo degli attacchi suicidi ad apparire meno attraente per queste organizzazioni. Con l’afermazione del movimento jihadista globale dopo l’11 settembre 2001, l’attacco suicida è assurto a marchio di fabbrica dei gruppi salaiti-jihadisti di ispirazione qaidista e, nel contempo, ha perso parte della legittimità e del prestigio di cui godeva agli occhi dei gruppi armati attivi su scala locale e delle loro rispettive comunità di sostegno. A diferenza delle organizzazioni di ambito locale, i gruppi salaiti-jihadisti transnazionali non mirano a stringere rapporti profondi con ampie comunità di sostegno; di norma non sono interessati a ricercare e mobilitare il sostegno difuso della popolazione locale né a difenderne gli interessi speciici. Le «operazioni di martirio» occupano un ruolo centrale nella stessa identità collettiva di questi gruppi estremisti di portata globale (oltre che nel repertorio di forme di violenza a loro disposizione); come ha messo in evidenza Lewis [2012, p. 198, corsivo nel testo], «altri gruppi di lotta armata hanno culti del martirio come “sottocategorie” delle loro identità primarie, mentre al-Qaida e i suoi ailiati sono un culto del martirio, spogliati della storia locale e delle relazioni sociali che connettono gruppi come Hezbollah, le Tigri Tamil e Hamas alle loro comunità di provenienza». Come se non bastasse, i gruppi salaiti-jihadisti non hanno esitato a criticare e a condannare, anche aspramente, le posizioni politiche e ideologiche di organizzazioni islamiste attive a livello locale come Hezbollah e Hamas. A ben vedere, l’uso frequente e smodato del metodo degli attacchi suicidi rischia di indebolire quest’arma nel corso del tempo. Da una parte, l’impiego di questa forma di violen-

308

za tipicamente implica la programmazione a tavolino delle «operazioni di martirio» da parte degli esponenti di un gruppo armato per perseguire determinati scopi politici. Dall’altra parte, la pratica del «martirio» per essere davvero credibile e persuasiva deve apparire come l’espressione libera e genuina della volontà del «martire», in circostanze che richiedano l’accettazione dell’estremo sacriicio. Può manifestarsi, quindi, una tensione tra questi due elementi, tra uso strumentale e programmato, da un lato, e autenticità, dall’altro. Tale divergenza alla lunga può condurre al logoramento di quest’arma micidiale (lewis [2012]). Per quanto riguarda il terrorismo suicida di tipo transnazionale, occorre considerare che la sua stessa protagonista, al-Qaida, appare oggi in crisi sotto alcuni aspetti (tra gli altri, cfr. jenkins [2012]). L’uccisione di Osama Bin Laden nel 2011 ha inferto un grave colpo all’organizzazione. Le conseguenze della scomparsa dell’emiro sono limitate sotto il proilo strettamente operativo, ma appaiono considerevoli sotto il proilo simbolico e anche sotto il proilo organizzativo: con il blitz di Abbottabad2 l’organizzazione ha perso il suo fondatore e

2. Come ha messo in rilievo Lewis [2012, pp. 261-262], il modo in cui Bin Laden è stato ucciso è degno di nota. Lo «sceicco» saudita aveva consapevolmente coltivato l’immagine di un leader e di un’organizzazione che sopperivano alle condizioni di inferiorità militare e tecnologica nei confronti dell’avversario con le virtù umane del coraggio, della dedizione alla causa e della fede religiosa, dimostrate pubblicamente dalla volontà di partecipare ad attacchi suicidi dei seguaci. È quindi interessante sottolineare che Bin Laden non è stato assassinato per mezzo di strumenti tecnologici comandati a distanza (come i droni), ma ha trovato la morte in un raid condotto da una squadra di militari dotati di eccezionali capacità e disposti a mettere a repentaglio la propria vita nel corso della missione. Rilevante è anche il fatto che l’operazione abbia tenuto in considerazione la preoccupazione di ridurre al minimo il numero delle vittime. D’altro canto, vale la pena di notare che, secondo le informazioni disponibili, nel corso del blitz il grande promotore e ispiratore delle «operazioni di martirio» (in cui si muore per uccidere) non ha tentato né di togliersi la vita né di uccidere gli assalitori o, quantomeno, non ha avuto il tempo di farlo; sotto questo proilo, è evidente la diferenza con la condotta dei responsabili degli attentati di Madrid durante l’irruzione della polizia a Leganés (Lankford [2013, pp. 143-144]).

Conclusioni

309

leader carismatico, a lungo circondato da un’aura di invincibilità, e ha subito un grave danno d’immagine. La igura, diicilmente sostituibile, di Bin Laden poteva garantire unità e coesione a un ampio movimento jihadista che appare alitto da gravi fratture e tensioni; tra queste si possono segnalare le dispute dottrinali e ideologiche circa la liceità della «dichiarazione di apostasia» (takfīr) e dell’uso della violenza contro altri musulmani, il dibattito in merito alla preminenza dell’impegno armato contro il «nemico vicino» oppure contro il «nemico lontano», la divisione tra «strateghi» e «dottrinari», le tensioni tra militanti arabi e non arabi (moghadam, fishman [2011]). Oltretutto la mentalità fanatica, l’atteggiamento settario (dimostrato e, a sua volta, raforzato dall’uso oltranzista della pratica del takfīr), insieme all’approccio spiccatamente «individualizzato» (quasi «fai da te») alle credenze e alle pratiche (cfr. il capitolo 4 di questo volume), rende disagevole la composizione dei conlitti interni e, secondo alcuni esperti, rischia di condurre il movimento jihadista globale all’autodistruzione (lahoud [2010]). L’ondata di ribellioni in Nordafrica e in Medio Oriente esplosa alla ine del 20103 probabilmente ha avuto l’efetto immediato di marginalizzare e isolare ulteriormente al-Qaida; essa ha indicato alle masse una via eicace per contrapporsi ai regimi autoritari del mondo arabo, ben diversa da quella propagandata dall’organizzazione terroristica. Le motivazioni alla base della cosidetta «Primavera araba» appaiono, infatti, lontane dal programma qaidista; un programma basato sul ricorso sistematico alla violenza politica per mano di una ristretta avanguardia clandestina di matrice salaita-jihadista, ossessionata da ambizioni di portata planetaria, contraria alla partecipazione al processo politico e alla competizione elettorale e irriducibilmente ostile nei confronti dell’Occidente. 3. Vale la pena di ricordare che la scintilla che ha acceso le ribellioni è stata l’auto-immolazione del tunisino Mohamed Bouazizi il 17 dicembre 2010. Con questo gesto il giovane venditore ambulante intendeva protestare contro la corruzione e l’ineicienza del governo di Zine El-Abidine Ben Ali.

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D’altra parte, non si può escludere che il crollo di alcuni regimi «apostati» del Medio Oriente possa costituire anche un’opportunità allettante per al-Qaida e per altri gruppi salaiti-jihadisti (cfr. byman [2011]). Queste formazioni estremiste hanno visto cadere alcuni dei principali esponenti nel fronte del «nemico vicino», temuti specialmente per le loro capacità repressive; si ritrovano oggi a godere di maggior libertà di manovra e di movimento (per esempio, in Libia); e, inine, si preparano a sfruttare atteggiamenti di disillusione e frustrazione che sorgeranno se, com’è probabile, le aspettative assai impegnative generate dalla «Primavera araba» verranno disattese. I principali rappresentanti e ideologi del movimento jihadista globale hanno ostentato un atteggiamento di iducia nei confronti delle ribellioni e dei loro efetti. Nei documenti e nelle dichiarazioni difuse da tali esponenti jihadisti sono ricorrenti alcuni temi e argomentazioni di segno positivo: a loro avviso, le sollevazioni hanno una natura panislamica e possono estendersi al di là dei conini dei Paesi arabi; la caduta dei vecchi regimi «apostati», «corrotti» e «oppressivi» dimostra la giustezza della loro causa, apre importanti opportunità sul campo e rappresenta un severo monito per i governanti dei regimi superstiti (come l’Arabia Saudita) e per i loro sostenitori; le ribellioni, inine, hanno l’efetto di ridurre l’inluenza e il potere degli Stati Uniti, degli alleati occidentali e di Israele nella regione (gartenstein-ross, vassefi [2012]; cfr. anche holbrook [2012]). Questa lettura degli eventi non è esente da atteggiamenti di protervia e autocompiacimento e, ovviamente, svolge anche una funzione propagandistica; ciononostante, alcune considerazioni di ordine strategico (per esempio, sull’indebolimento della posizione di Israele, specialmente nelle relazioni con l’Egitto) sono in parte plausibili e sono state formulate anche da analisti occidentali. D’altra parte, negli ultimi anni questa forma di violenza estrema si è afermata in nuove aree geograiche. Per esempio, in Siria, dopo lo scoppio nel 2011 di rivolte contro il regime di Bashir al-Asad, poi degenerate in una vera e propria guerra

Conclusioni

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civile, sono stati realizzati oltre settanta attacchi suicidi, talora devastanti. La maggioranza di questi atti di violenza è stata rivendicata dal Fronte al-Nusra, una formazione sunnita di matrice salaita-jihadista, ailiata ad al-Qaida in Iraq, che combatte contro il regime baathista (difensore della potente minoranza alauita, appartenente allo Sciismo). Anche altri gruppi armati di ispirazione salaita-jihadista, come le Brigate Abdullah Azzam, sono stati accusati di aver lanciato attacchi suicidi nel Paese. Recentemente questa forma di violenza si è difusa anche in Africa Occidentale. In particolare, in Nigeria il gruppo jihadista Boko Haram si è scontrato contro le forze di sicurezza nazionali nel luglio del 2009 e ha poi avviato un’intensa campagna di violenza terroristica, servendosi anche di attacchi suicidi. Alcuni attentati hanno colpito fedeli cristiani riuniti in chiesa per partecipare a funzioni religiose. Secondo alcune fonti, la setta fondamentalista intratterrebbe rapporti di collaborazione con al-Qaida nel Maghreb Islamico e con al-Shabaab. Nel febbraio del 2013 una campagna di attacchi suicidi è stata lanciata anche da gruppi jihadisti che combattono nel nord del Mali. In conclusione, al momento non è né plausibile né giudizioso supporre un rapido declino del metodo degli attacchi suicidi. Purtroppo questa forma di violenza estrema può ancora seminare morte e distruzione.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2013 da Rubbettino print per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) www.rubbettinoprint.it

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