La politica al tramonto
 8806151169, 9788806151164

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Tronti La politica al tramonto

Einaudi

Einaudi Contemporanea 64

© 1998 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www .einaudi.it ISBN 88-06- I 5 I

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Mario Tronti La politica al tramonto

Einaudi

Indice

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Una breve antifona

La politica al tramonto Tema con variazioni 5 5 I4 23 33

44 51 59 71

Politica storia novecento La politica contro la storia Grande novecento Piccolo novecento Nostalgici abitanti del secolo «Pace impossibile, guerra improbabile» Forza contro violenza Operai e politica Ancora, e infine, sull'autonomia del politico

Intermezzo 85

Il partito e il suo destino

Cinque movimenti 123 136 151 165 179

Politik als Beruf: the end Il Principe e l'Utopia Karl und Cari Politica è profezia Kommunismus oder Europa

Un motivo finale 195

Tesi su Benjamin

Una breve antifona

Questo è un libro che nasce da dentro. Per un discorso di filosofia politica, la cosa non è normale. Ma il pensiero, su questo terreno, vive un suo particolare stato d' eccezione. Adesso si tratta di pensare non la politica ma la crisi della politica. Una condizione in gran parte inedita. Da affrontare con inedita forza di argomentazione. Questa si rende necessaria di fronte all'opacità - il grigio della rappresentazione - con cui si esprime oggi il crollo dell'agire politico. Di qui, una tonalità del testo, e una ossessività di motivi, e una ripetizione, variata, del tema, che sono risultate alla fine volute e obbligate. Possono disturbare: perché dissonanti rispetto al comune senso intellettuale. Ma in sé lo stile spezzato della ricerca insegue un'impossibile armonia dell'impianto. Leggere nella lingua dei classici il libro degli eventi contemporanei, è una contraddizione che l'autore si porta dietro da sempre. È tardi per cambiare. Vorrei comunicare uno stato di disperazione teorica. Credo di esserci riuscito per eccesso. Ma sta bene cosi. La massima è sempre quella: nel punto del piu grave pericolo, c'è ciò che salva. Questo fondo dell'anima nella storia del movimento operaio va toccato con le sonde del pensiero: costi quello che costi nella cruda forma che necessariamente assumono l'uso dei concetti e la resa delle parole. Emerge il criterio dell'onestà: a un certo punto senti che devi sapere - o almeno cercare - come sono andate

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effettualmente le cose. Di li ripartire, non piu per tornare a sperare, forse per ricominciare a fare. Su questo delicato punto di snodo, che attiene a un dato di esistenza, è facile cogliere un' oscillaz-ione tra Kulturpessimismus e volontà di potenza. Per la cultura della crisi un amore coltivato nell'intimo, per l'organizzazione della forza una tentazione imposta dall'esterno. Ognuno di noi porta, nella propria persona, la storia. Non è la storia di sé. Di questa - la biografia - non ce ne importa proprio niente. Si tratta della storia grande, quella degli uomini e delle donne che si riuniscono e si dividono nella società, e nella autocoscienza di questa, che è stata fin qui la politica. Di essa introiettiamo e analizziamo in modo diverso passaggi e stadi e luoghi e tempi diversi. Piu di altre epoche ci spinge a questo il novecento: un secolo di cui si può dire che a tale livello e con tale intensità ha prodotto storia che alla fine si spegne consumato e vuoto. Sulla sua periodizzazione, una battaglia di interpretazioni. Questo libro non si sottrae, fa le sue scelte, discutibili, soggettive, funzionali alla logica interna del discorso e solo per questa via preoccupate di andare ad attingere verità parziali. Credo ci sia una differenza maschile del partire da sé. Tutta ancora da indagare. Una misteriosa caverna, dove si confrontano e si confondono concreto vivere e tempo storico, idee e ombre, eterni eventi e contingenze immediate. Un groviglio che si complica con l'esperienza che si accumula. Interviene allora il pensiero per suo conto a decidere. Ecco, questa decisione tutta di pensiero politico e quasi per niente politica, essa, va giudicata. Qui c'è un «che dire?», non un «che fare?». Uno scarto all'indietro, imposto dalla fase. Sia chiaro che questo, chi scrive, lo sa. Il «distacco» è una condizione mistica del politico moderno. Lampi di luce di li bisogna provare a gettare sulla not-

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te della politica attuale. Non si vuole rischiarare, «illuminare», si vuole capire, «comprendere». Questo è un tempo politico senza conoscenza di sé: una tomba posta sul passato, e come futuro quello, l'unico, che il presente ti concede. Non possiamo. A guardarlo dalla fine del novecento, il tempo della politica che hai attraversato ti appare come un fallimento storico. Non erano troppo alte le pretese, erano inadeguati gli strumenti, povere le idee, deboli i soggetti, mediocri i protagonisti. E la storia, a un certo punto, non c'era piu: solo cronaca. Niente epoca: giorni, e poi ancora giorni. Il miserabilismo dell'avversario ha chiuso il cerchio. Non c'è grande politica senza la grandezza del tuo avversano. Adesso si ha paura del criterio del politico. Ma l'amico/nemico non va soppresso, va civilizzato. Civiltà/cultura nel conflitto. Lotta politica senza la guerra: nobiltà dello spirito umano. Il messaggio dunque c'è. Nella bottiglia di questa allusiva sinfonia di salmi. 7 ottobre 1998.

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Tema con variazioni

Politica storia novecento

.... perché io credo che questo sarebbe il vero modo ad andare in Paradiso: imparare la via dello Inferno per fuggirla. (Machiavelli a Guicciardini, 17 maggio 1521). Dal momento che non vi è piu verità, dopo Nietzsche, da Nietzsche a Weber, emerge un nuovo criterio, il criterio dell'onestà. (Jacob Taubes, 1987).

La politica contro la, storia.

Il politico e il moderno nascono insieme. A fondamento, come radice, della modernità sta la politica. C'è uno specifico senso moderno del fare/pensare la politica. Questo fatto è un punto di problema. La politica, per noi, non è storia umana eterna. È la propria epoca appresa con l'intelligenza dell'agire. Lasciamo sospesa la distinzione tra das Politische e die Politik. Sapidi significati si nascondono e si rappresentano dietro questa distinzione. Non maschile e femminile, ma neutro e femminile. Qui, il discorso vedrà ancora la politica come uno. Cosi fu ali' origine della modernità. E poi, nel seguito: dalla virtufortuna del principe ai diritti universali dell'uomo; quindi, nell'età che va dal trionfo della politica in Europa al tramonto del politico in Occidente. Tutto intero questo arco lungo di tempo è storia nostra contemporanea. Vecchi abitanti siamo di un grande mondo antico. Antichità del moderno: cosi parleremo della politica. Bisognerebbe raccontare, narrare, pensando. Una forma che non c'è. Roman philosophique non si dà. E non è il caso di darne. Nella politica moderna c'è tutta la storia moderna. E viceversa. Due forme di destino in una vita sola. Spesso hanno camminato insieme, qualche volta si

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sono poste a contrasto. Quest'ultimo è il caso del novecento: il luogo dove la politica ha tentato «l'assalto al cielo» e la storia ha imposto un suo « balzo di tigre» nel passato. Tra politica e storia c'è una divaricazione di potenza. Quella della storia è una potenza naturalmente dotata di forza, materialmente «formata>> da processi di lunga durata. Dalla sua parte, sempre, la ragione, e di piu, una ragione con sviluppo e senza progresso, misterioso evolversi delle cose, in modo né lineare né circolare ma piuttosto a spirale. In questo, l'antico si è preso una rivincita sul moderno. Lowith ci ha descritto le concezioni della storia, noi le abbiamo potute giudicare. Il disegno divino di storia della salvezza è fallito. E il suo fallimento - la sconfitta di Dio non ha data da Auschwitz, ma da prima, da sempre, dalla storia eterna dell'età moderna, per autolimitarci a ciò che esistenzialmente ci riguarda. Il grande Medioevo cristiano fu la culla di questo folle disegno di finale città celeste, provando di tutto, da Agostino a Innocenzo III, e non riuscendo in niente, tranne nell'accentuare, fino al limite possibile di vita, la tragica storia della libertà umana. Non ci fu la resa finale al moderno, per la resistenza del katechon della Chiesa, anti-storica potenza moderna e storica potenza ami-moderna, complexio oppositorum, in eterna lotta e in contingente accordo coi tempi del secolo. Ma fu la politica, nella modernità, la vera legittima erede della filosofia cristiana della storia: tutta la politica, il realismo come il messianismo, tattica ed escatologia, utopismo e pragmatismo. E perché altrimenti le categorie del politico avrebbero dovuto essere - come sono state - concetti teologici secolarizzati? La politica contro la storia, costretta a cercare per sé la forza contro la potenza dell'altra. E solo quando l'ha trovata, ha occasionalmente vinto. La politica non ha in sé disegno, se lo deve volta a volta dare, consegnandolo a un soggetto del tempo, non ha

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dalla sua, mai, la ragione delle cose, sa che le stesse cose ritornano ma non può accettare questa condizione, è costretta a chiedere progresso nello sviluppo ma proprio questo depotenzia la sua forza, fino a lasciarla disarmata, nell'immediatezza della fase, di fronte a ogni grande ritorno dell'epoca con i suoi invalicabili confini. La weberiana gabbia d'acciaio della storia tiene qui imprigionata la politica. Questa infatti è contingenza, è occasione, è breve periodo, qui e ora, fallacemente, ideologicamente, nominato come decisione, mentre l'altra è permanenza, regolarità, ripetibilità, è langue durée, è necessità, fato, destino. Tutta l'età moderna, l'epoca del soggetto, ha accentuato la forza immane dei processi oggettivi, dei meccanismi impersonali, delle logiche di sistema, delle leggi materiali di movimento. L'economia politica è la grande metafora del moderno: con l'economia assunta a sostantivo e la politica ridotta ad aggettivo. Anatomia della società civile, come società borghese. Irripetibile grandezza di Marx aver lavorato/vissuto per la scienza di questo universo di idee e di rapporti. Grandezza dei suoi limiti per non aver scavalcato l'orizzonte di una critica dell' èconomia politica. Nella sua vicenda umana sta, scolpita, la forma simbolica di esistenza dell'intellettuale rivoluzionario, questa figura tragica della modernità. Un consapevole occasionalismo politico è l'altra faccia di un raggiunto realismo politico. Le barricate degli immaginati operai parigini, il diciotto brumaio del piccolo Napoleone, la blochiana utopia concreta dei comunardi, l'organizzazione della Prima Internazionale: sta qui il pensiero politico di Marx, e sta in germe nei Grundrisse, mentre non sta nel Capitale, dove doveva stare, schiacciato qui invece nell'indecisione tra una teoria dello sviluppo e una teoria del crollo. Das Kapital avrebbe dovuto avere come sottotitolo non «critica dell'economia politica» ma «critica dell'economia e della politica». Marx ha cercato nel-

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la contraddizione economica il punto di crisi dei meccanismi di sistema e non ha trovato il complesso contraddittorio delle forze in grado di contrastarli, questi meccanismi, dall'interno e dall'esterno. Ha dato l'avvio a un secolo di riforme, ma la rivoluzione anticapitalistica quando scoppiò fu - è stato detto in modo geniale - «contro il Capitale». Nulla di tutto questo è nuovo. Ma la cosa nuova, aspra, da dire, ostile per i piu, é questa: si è creato un vuoto nella ricerca mancata dei luoghi e delle forze del conflitto politico, qui detto nella forma apparentemente oscura di contrasto tra la politica e la storia. Il vuoto di politica è stato riempito da un'emergenza etica: emergenza nel doppio senso, del sorgere di una dimensione a suo modo critica della realtà dominante, ma anche nel senso del contingente intervento per uscire da una fase, accettando la necessità dell'epoca. Questo è l'unico varco che la coscienza borghese inquieta ha lasciato aperto per un programma di opposizione alla permanenza delle cose cosi come sono: la rivolta etica, questo impotente grido di rifiuto contro le ingiustizie del mondo, senza che mai una, decisiva, di queste, ne fosse appena scalfita. Ma non è l'ingiustizia degli uomini, è la storia del tempo quello con cui ci si deve misurare. Se possibile, da pari a pari: non dannando i tempi, ma lottando con essi. Andando soprattutto alla ricerca, piu che dei punti critici di contraddizione, degli strumenti atti a contrastare l'ordinarsi della storia su di sé, in base alle proprie leggi in apparenza eterne, perché tali esse appaiono a chi vive politicamente il processo storico. La politica moderna nasce su questa drammatica istanza. Ecco perché nasce armata. E nasce «contro». Su di sé il segno della condotta eretica verso la tradizione, rottura, peccato e colpa, scandalo. Ci vuole molto piu «impeto» che «respetto», perché è necessario «vincere o per forza o per fraude». Di qui, la decisione

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fredda della nuova ragione moderna di espellere la morale dal territorio della politica. La politica moderna sceglie di collocarsi al di là del bene e del male. Tutta la teoria politica delle grandi origini del moderno, primi cinquecento metà seicento, pensa il mondo e pensa l'uomo contro la storia che immediatamente la circonda. Machiavelli contro la storia d'Italia, Bodin e i politiques contro la storia di Francia, Suarez e i gesuiti contro la storia di Spagna, Althusius contro la storia del continente Europa, Hobbes contro la storia dell'isola-mondo d'Inghilterra. E qui, con la prima rivoluzione inglese, sintesi delle guerre civili europee di allora, con la New Model Army, il primo partito politico in Occidente, si conclude il processo di accumulazione originaria delle categorie del politico moderno. La storia ha perso. La politica ha vinto. Il capitalismo può nascere. Il seguito è il racconto di una rivincita. Complessivamente, questo seguito, sui tempi strategici, fu molte altre cose. Ma subito, già con la seconda rivoluzione inglese, quella glorious, e poi con la rivoluzione bella - secondo la Arendt - degli americani, fu il modello di un uso politico della sconfitta da parte della storia lunga. La nascita dell'economia politica è stata per la politica la prima decisiva perdita di sé, del suo primato, della sua autonomia, del suo statuto autosufficiente di pensiero/azione. L'economia ha giustamente rivendicato, fin dalla sua età classica, la decisione di porsi come scienza. Lo è stata. Lo è. Scienza prima, che dall'interno della modernità ha preso il posto della Filosofia prima. Lf, la sostanza dell'essere sociale viene colta empiricamente e misurata quantitativamente. L'homo oeconomicus è l'uomo in generale. La scienza economica è metafisica moderna, in quanto metastoria alle prese quotidianamente con il fondamento della storia moderna, con l'unico insondabile Assolutorimasto dopo la morte di Dio. Piu e meglio di tutti capi-

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rono questo gli economisti neoclassici, Marshall, Walras, in parte Pareto, e gli economisti «puri>>, Menger, BoehmBawerk, precursori e profeti dell' econometrica. Calcolo il piu astratto possibile con ricaduta empirica la piu probabile, la piu approssimata alle condizioni concrete di produzione e mercato. Unirono economia, antropologia, psicologia e matematica: un'operazione intellettuale vincente sui tempi lunghi, appunto, della storia. Mediocrità del revisionismo della Seconda Internazionale che non sospettò nulla di tutto questo. Da allora l'economia non avrà piu nemmeno bisogno di proporsi come «economia politica», perché la politica era ridotta a «politica economica». Eccellenza di questa nel novecento - lord Keynes ! - che utilizzò la politica, sottomettendola, per salvare la società economica dal quasi-crollo della grande crisi. L'economia ha saputo usare la politica, la politica non ha saputo usare l'economia: le tragedie del secolo, per la nostra parte, stanno chiuse dentro lo scrigno di questa formula. Da aprire, questo scrigno, ma senza lasciare per bontà fuggire gli spiriti del male che lo abitano. Il Dio della storia non può essere vinto dal Signore di questo mondo, il demone della politica, ma combattuto si, e nella lotta riconosciuto, e alla fine persino amato. Combattere chi sai che non si può vincere, contrastare questo mondo lucidamente sapendo che non ce ne sarà un altro: di nuovo, non un'etica ma una politica per il fututo, se ci sarà futuro per la politica. Il capitalismo non è morto. Eppure la sua malattia secondo la giusta diagnosi di Marx - era mortale. Tutte le parabole, da un certo momento in poi hanno cominciato a rovesciarsi. Del resto, tutto il Moderno è stato il contrario dell'Annuncio. L'Evangelo ha vissuto, vive, dentro la modernità, in partibus infidelium. La cosa si capi subito, fin dall'inizio. Non a caso, a fondazione dell'età moderna sta anche la Riforma. Lutero legge la difficoltà di

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Paolo a parlare alle genti moderne. Ma di li comincia l'adattarsi del cristianesimo al nuovo mondo. Fu l'etica calvinista a interpretare lo spirito di conquista dell'imprenditore capitalistico, ma fu il cattolicesimo romano a dare forma politica al subalterno popolo di Dio. Le due Riforme - quella di Wittenberg e quella di Trento - contrapposero da allora, e fino ad oggi, l'etica protestante e la politica cattolica. La Chiesa di Roma è stato un grande soggetto della politica moderna, interprete della piu pura autonomia di questa dalla stessa religio, legame di fede, sf, ma nella figura terrena del Regno. Lasciamo stare la coscienza «laica» moderna, che di questo nulla ha capito, è invece piuttosto sgradevole dirlo agli interni critici novatori dell'istituzione: l'annuncio dell'Avvento è solo qui dentro che si è mantenuto. Non c'era nessuna ragione per cui il messaggio cristiano dovesse sopravvivere all'irruzione della modernità. Tutto di questa parlava contro di quello. Solo la Parola del Padre, fatta azione politica nel mondo, poteva salvare il Figlio da una seconda morte senza resurrezione. Impossibile impresa, realizzata. Historia salutis vera, storica. Risposta all'altezza della sfida che la rinascita della ragione umana poneva alle eterne movenze popolari del cuore umano. Non dimentichiamolo: che se da un lato stavano illuminate perché privilegiate élite intellettuali, dall'altro stava l'oscuro sempre oppresso mondo dei semplici, che chiedeva ascolto, parola, azione. Li dentro, tra Rinascimento e Riforma, ci fu il colpo d' ala vincitore, che vide la società borghese nascente identificarsi con la storia moderna. Quando divenne tutt'uno capitalismo ed evo moderno, la politica, ripeto, o fu subordinata all'economia - fino all'esito di oggi, l'homo democraticus come forma dell'homo oeconomicus-politicus -, oppure fu ridotta a eruzione violenta di minoranze organizzate. Le rivoluzioni « brutte» ci furono prima e dopo

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che vincesse questo processo di identificazione tra economia capitalistica e storia moderna: prima e dopo caddero le teste dei re, ci furono Cromwell e Robespierre, Behemoth e la, Terreur, Livellatori e Giacobini, guerre civili di religione prima, guerre civili di rivoluzione dopo. Il novecento conferma. Quando, chiusa la belle époque, il capitalismo apparve come quello che portava « nel suo seno la guerra come la nube l'uragano», i socialisti democratici furono costretti a diventare comunisti, lo sviluppo del capitalismo in Russia fu obbligato a trasformarsi in Rivoluzione d'Ottobre, la forma non piu borghese di Stato moderno fu portata a comparire come dittatura del proletariato. E quando dal « benessere dietro l'angolo» del presidente Hoover si cadde nel crack di Wall Street, il capitalismo non fu salvato solo dalle politiche keynesiane di Roosevelt, lo fu anche dalla politica militare di Hitler. C'è da scegliere tra le periodizzazioni del novecento, ma tra anni dieci e anni sessanta,1914-56, società capitalistica e storia moderna hanno vissuto un rapporto critico, di differenza, di contraddizione e di conflitto. C'è voluta tutta intera l'epoca delle guerre civili mondiali, e la sua conclusione, per recuperare un rapporto organico, di reciproco rimando e di comune sviluppo. Piu violenta fu quell'età della guerra, piu affidabile questa età della pace. Lo stato d'eccezione, nella mondializzazione, diventa un fatto locale. La sovranità politica si è rioggettivata nei meccanismi economico-finanziari. Vive ancora lo Stato, perché sopravvive la Nazione. Ma non c'è piu governo. Nell'economia-mondo lo spazio per la politica c'è solo piu come amministrazione dei municipi. La storia moderna ha sempre ridotto la politica a decisione sovrana nello stato d'eccezione. Si è fatto in modo che la normalità, la legalità, la pace portino la politica, sempre, a una delle sue cicliche crisi. La grande politica

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non ha una storia, non c'è continuità, non c'è sviluppo, tanto meno un progresso. Interviene per occasioni, per fratture, per interruzioni, per ribaltamenti. Dall'alto o dal basso: non è questo il discrimine. La funzione della personalità, o la funzione delle masse per la politica, nella storia moderna, hanno la stessa valenza. Sono irruzioni, non necessariamente violente, nel decorso degli eventi, cascate dove precipita il corso del fiume. Intimamente, esistenzialmente, legate alla condizione moderna della natura umana. Perché la politica specificamente moderna ha dovuto strappare le radici che la legavano alla terra dove la politica in generale era nata. La politica moderna è senza origine. Non c'è nascita. Essa a un certo punto c'è, e basta. Questo è sufficiente perché ogni immanente provvidenzialismo, ogni divino disegno, ogni chiamata di futuro, ogni velleità di mondo migliore, diventi un giocattolo rotto nelle mani del bambino cattivo. C'è questo misterioso permanere della parola - politica - che ha indotto tanti, tutti, in errore. Non è l'unico lato oscuro. C'è nella politica un tratto di irrazionalità, di irragionevolezza, di irriducibilità al significato, che non si può capire e che pure bisogna sapere. Da Agostino a Weber ci è stata svelata questa intimità con il demoniaco che tenta l'anima della politica. La critica cristiana della politica antica e in genere il grado di parentela della politica moderna con il cristianesimo politico, è un grande tema, che bisognerà affrontare a parte, tirando la matassa da un altro filo e riannodando questo ad altri enormi interni problemi. Come la politica cristiana rompe con la città terrena, cosf la politica moderna rompe con la polis. Non è piu l'abitante della polis - come dice l'etimologia della parola politica - che definisce la politica moderna. Come la polis è un racconto mitico dei greci, cosf il cittadino è una narrazione ideologica dei moderni. Il citoyen sta nelle Costituzio-

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ni scritte, la Veifassung dello Stato non lo prevede. De cive parla del potere e rinvia al Leviatano. Si ricomincia dal Principe, per la conquista del comando. Poi viene la ricerca del consenso dei cittadini. Il soggetto è quello, questi sono l'oggetto della politica. Ecco il trapianto dell' albero su nuova terra. Operazione che avrà bisogno anche di nuovi cieli. Il marxiano cielo della politica è l'ideologia dei diritti dell'uomo. Geniale abbaglio di Marx. Non aveva voluto vedere la politica del bourgeois, il bourgeois invece che il citoyen come figura politica. Non aveva voluto cogliere nel capitale, come contraddizione interna, lo specifico politico capitalistico. Per odio di classe. La politica era ancora per lui quella dei greci - quella di antichi dèi ed eroi - non si poteva consegnare ai moderni - mercanti e padroni borghesi. Nobiltà della politica, in Marx, come in tutti gli autentici rivoluzionari. Una variante della nobiltà dello spirito. Lo spirito della politica ha soffiato dove ha voluto nei tempi moderni. E il grande novecento, cioè la sua prima metà, è stato alla sua altezza. Poi, «quale caduta fu quella!», in questa seconda metà, dove ci è toccato maledettamente di vivere.

Grande novecento.

Non è solo stupido lo slogan: «fine della storia». Che sia stato un giapponese americano ad inventarlo, non deve condizionarci verso un istintivo rifiuto. In realtà, forse, la storia è ricominciata, la storia di sempre, dove il reale è razionale e il razionale è reale, e cioè dove il dominio si è conquistato il consenso, il potere si è legittimato nelle istituzioni, dove di tesi e antitesi come libertà e oppressione si è fatta una sintesi dialettica. E questa è la democrazia dei moderni. Occidente, Europa, modernità rea-

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lizzata. La politica si è battuta, dentro questo processo di realizzazione del moderno, contro l'eterno ritorno del sempre uguale nella storia. Dèi ed eroi, e «titani», nelle figure di singole individualità, di élite giacobine, di gruppi dirigenti bolscevichi, di masse di popolo organizzate in sindacati e in partiti, in questo caso masse «titaniche», hanno combattuto contro la storia senza saperlo, sapendo anzi il contrario, di essere loro i portatori della storia. Non è vero che il moderno non ha prodotto, e non può produrre, miti. Il sol dell'avvenire, i domani che cantano, il sogno di una cosa, in fondo presupponevano tutti, essi sf, la fine della storia, della storia umana come si era svolta fin H. Marx la chiamava la preistoria dell'umanità; era in realtà l'unica storia che conosciamo, da chiudere per passare a un'età senza piu storia. Un orizzonte di finale salvezza ha sempre definito lo spazio/tempo della politica in età moderna. La grande politica ha sempre richiesto un contesto di fede religiosa. C'è stato bisogno della teologia politica perché la politica moderna potesse profetizzare e organizzare il disperato tentativo di far uscire la storia dai suoi cardini. E infatti lo scontro è stato tra guerra della politi.ca e resistenza della storia. La lottà verteva, fase dietro fase, su contenuti, determfoati dai passi accelerati o ritardati dell'epoca. La politica non contrastava il moderno, ma il suo compimento. Un'impresa impossibile, perché il compimento era nell'inizio. I due eventi-simbolo che stanno a fondamento della modernità, l'accumulazione originaria di capitale e la rivoluzione industriale, segnano fasi epocali di inaudita violenza. La grandezza del capitalismo è che su questi eventi terribili per l'uomo ha costruito il progresso della società umana. La miseria del capitalismo è che su questo progresso sociale ha impiantato la forma piu perfetta di dominio totale sull'essere umano, il potere liberamente accettato. Si

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poteva da quell'inizio non arrivare a questo compimento? Non si poteva. Ma sia lode alla politica per aver eroicamente cercato di deviare il corso del fiume in piena. Ci si è divisi tra chi voleva provvedere a mettere argini per evitare che straripasse la furia delle acque, e chi si metteva a scavare il fondo, a forzare le anse, a erigere dighe, a imbrigliare con la forza le acque. Addomesticare in libertà la bestia selvaggia, oppure chiuderla in gabbia sottomessa? Riformisti e rivoluzionari, a guardarli all'indietro da oggi, appaiono come una cosa sola, sembrano un'unica famiglia. C'era una volta il movimento operaio. Bernstein e Lenin sono piu vicini tra loro a fine novecento di quanto non fossero contrapposti a fine ottocento. Era il secolo del Lavoro (maiuscolo), dice Accornero. E fu il secolo della Politica (maiuscola). Un grande tema. Quello del rapporto tra politica operaia e storia borghese moderna: uno dei piu alti, intensi, estesi, profondi contrasti/conflitti che un'epoca abbia mai prodotto. Contrasto e conflitto: nel primo caso, quasi un fatto naturale, una legge fisica di opposizione tra due elementi; nel secondo, un fatto sociale, una scelta di lotta organizzata tra due soggetti. Dopo le rivoluzioni politiche moderne, subito dopo, arrivano le moderne lotte sociali di classe. Gli storici piu sensibilmente avvertiti hanno colto nelle prime i segni, i germi, delle seconde. Ma si può tranquillamente affermare che la lotta di classe è un frutto maturo della modernità. Non solo è vano cercarla prima del capitalismo, con gli strumenti ideologici di una filosofia materialistica della storia. È inutile cercarla anche nel primo capitalismo, mentre erano in atto i processi strutturali di trasformazione di merce e denaro in capitale, del lavoro umano in forza-lavoro salariata, e della società, e del mondo tutto, in «esperimento e industria». Solo dopo che il capitalismo è nato, nel passaggio classi-

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co dalla manifattura alla fabbrica, nasce il soggetto operaio. E solo di li in poi lo sviluppo capitalistico dipenderà dalle ,lotte operaie. È vero che il proletariato industriale vistò. dentro la storia lunga di lotta delle classi subalterne. Ma non come filiazione diretta da esse, scientificamente dimostrabile con una cattiva sociologia economicistica. Schiavi, servi della gleba, primi operai dell'industria, non hanno nulla in comune se non le loro catene. Ma già il materiale con cui le catene venivano forgiate era diverso. Le catene dorate dei nostri giorni per il lavoro dipendente post-operaio, o per il lavoro autonomo di seconda generazione, non sono il ferro e il fango del passato. E anche qui, è come se dicessimo, e qualcuno opportunamente lo dice, che oggi siamo tutti lavoratori salariati indirettamente produttivi, sulla terra, nei servizi, nel sapere, nell'informazione. Ma il rapporto di continuità degli operai di fabbrica con le lotte delle classi subalterne, e di noi con gli operai in quanto classe potenzialmente dominante, si fonda ormai su altre motivazioni. È qui che ritorna in campo la politica. E transita, essa, per un altro passaggio. Un passaggio simbolico di appartenenza, non al mondo, ma a una parte di mondo, un punto di vista parziale irrecuperabile alla totalità, una tensione contro l' epoca, una passione per i vinti dalla storia ma solo per i vinti che hanno combattuto, l'odio per i dominatori naturali, nati per questo, per stare in alto, sui troni della ricchezza e del potere. Movimento operaio e storia moderna capitalistica, insieme, non segnano un episodio normale di questa eterna lotta, mostrano l'irruzione in essa di uno stato d'eccezione, simbolizzano la «forma politica» assunta, per la prima e forse per l'ultima volta, dal contrasto/conflitto tra il basso e l'alto della società. L' altezza di questo scontro ha portato la politica moderna a un punto di non ritorno. Dopo questo tipo di stato d'ec-



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cezione, non è riproponibile alcun tipo di normalità politica. L'ordine prende un'altra forma, non-politica: è questa sorta di cosmopolitismo economico-finanziario, che chiamano globalizzazione. Non è questa la novità. Perché esattamente questo era inscritto negli inizi del moderno, adesso, dopo l'età della politica, arrivato a compimento. Nel mercato dello Stato-nazione era già implicito il mercato mondiale, nel processo di produzione di fabbrica era già implicito il sistema-mondo della produzione, come nella ricchezza delle nazioni c'era già la miseria dei continenti, nel macchinismo industriale la crisi dell'industrialismo, nell'arcano della merce-denaro la virtualità dello scambio finanziario, nel risparmio di lavoro la fine del lavoro, nell'alienazione dell'operaio la morte annunciata della persona moderna. Non c'è nulla di veramente nuovo sotto il sole del capitalismo. Dove dunque la novità? Paradosso: è una novità passata. Che resta. Consumata, ma intatta. Perduta e presente. «Inattuale>>. È l'irrompere del movimento operaio nella storia moderna. Avvertenza: da tenere bene in mente nel seguito del discorso. Movimento operaio è qui, insieme, classe e coscienza di classe, lotta e organizzazione, teoria e prassi, mondo di idee e seguito di azioni. In questo, un fatto del tutto inedito. Un evento assolutamente moderno, che la storia moderna non aveva contemplato, che poi ha subito e che infine ha superato. Il movimento operaio, con Marx e senza Marx, ha incontrato la politica moderna, l'ha espressa, declinata, organizzata. Non solo. L'ha portata alle ultime conseguenze, l'ha sospinta a una crescita esponenziale fino al punto apocalittico della caduta verticale. Il movimento operaio è stato l'ultimo grande soggetto della politica moderna. Con la «grande crisi» del suo proprio complesso di potenza ha provocato il «crollo» di questa. La Zusammenbruchstheorie non ha

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funzionato per il capitalismo in quanto meccanismo economico, ma si, per esso, in quanto ordine politico. Problema: se il capitalismo è nato con la politica moderna, e con questa ha impiantato il suo sviluppo e con essa è uscito dalle sue crisi, può il capitalismo sopravvivere alla fine della politica moderna? E se leggessimo l' 89 del novecento, a due secoli dall'89 del settecento, come la conclusione della parabola politica del capitalismo moderno? La chiusura dell'età della politica apre a un'altra crisi generale del capitalismo o alla nascita di un altro capitalismo? O, come è piu probabile, prima all'una, poi all'altra? Solo le domande insensate - senza buon senso - possono ormai aggredire il senso comune. E scuoterne le ragionevoli certezze. Ci vuole una stagione folle di pensiero maturo, nemmeno piu rivoluzionario, solo realistico-profetico. Il movimento operaio non ha perso una battaglia, ha perso la guerra. Anzi, ha perso l'età delle guerre. Si è trattato di una guerra di lunga durata, culminata nelle guerre civili mondiali del nostro secolo. Va lucidamente scrutata la condizione storica, di crisi radicale dei fondamenti, che ne consegue. Senza piu movimento operaio, in questa forma di pace, non c'è piu politica. Nella pace dei cento anni (1815-1914), che Polanyi ci ha svelato, chi ha assicurato la sopravvivenza della politica? È stata la lotta di classe, che subito è intervenuta, collocandosi al centro dell'ottocento, dopo la conclusione del1' età delle riforme e delle rivoluzioni borghesi, apertasi con la seconda rivoluzione inglese e culminata nelle guerre napoleoniche. È la lotta di classe che per prima traduce la guerra in politica. Essa ha avuto, per tutto l'ottocento, la stessa funzione di civilizzazione della guerra che nei due secoli precedenti aveva avuto lo jus publicum europaeum. Ma il primo diritto borghese prendeva atto della guerra e la regolava, le prime lotte proletarie la sosti-

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tuivano e la negavano. Siamo a questa altezza. Bisogna ridare alla lotta sociale di classe questo significato nobile nella storia del genere umano. La solidarietà, la cooperazione, il mutuo soccorso, nel lavoro e nelle lotte, l'autoorganizzazione, lo spontaneo sorgere dal basso di un' autonoma antagonistica concezione del mondo e della vita, quello che con una definizione sola si può chiamare il sorgere del socialismo, è il lungo lento passaggio storico di una lessinghiana educazione dell'umanità. Qui la politica straordinariamente non ha combattuto la storia, ma l'ha incorporata, l'ha integrata, l'ha piegata a sé, l'ha fatta servire ai suoi propri bisogni. La politica ha questa capacità di produrre eccezionali eventi, che hanno in sé del miracoloso, rispetto al corso normale delle cose. E la politica moderna è stata in questo piu volte scandalo per la normalità borghese. Le forme, e le idee, attraverso cui l' alienazione individuale dell'operaio nel lavoro industriale si è rovesciata, subito, agli albori della coscienza di classe, nel senso collettivo di una riconosciuta comune condizione umana potenzialmente liberatrice, nella fabbrica e nella vita, - anche questo è capitalismo e storia moderna, ma con segno opposto, imprevedibile, e per quei tempi incontrollabile. La figura individuale dell'operaio che si fa consapevolmente massa sociale è anch'essa storia, storia politica, del soggetto moderno. Il lavoro produttivo di capitale, la «gran disgrazia di essere lavoratore produttivo», ha operato la trasformazione della persona, li e allora sottoposta alla costrizione della disumanizzazione, in una forma superiore dell'essere umano, soggetto di un processo di libera riappropriazione di sé. L' «io>> che si fa «noi», il noi che si fa «parte», la parte che proclama: «il proletariato emancipando se stesso emanciperà tutta l'umanità>>. Quello che si dice all'orecchio, bisogna gridarlo sui tetti: la libertà dei moderni è questa. Non il diritto privato del

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cittadino di farsi borghese. Non lo Stato moderno al posto della polis antica. O, come si dice nell'epoca nostra delle facilità e della volgarità, il mercato al posto della politica. Non l'uomo-massa democratico a cui si vende l'illusione - denaro contro immagine - di essere lui l'individuo moderno. Un processo di liberazione generalmente umana si è aperto e si è interrotto. Tutto è tornato indietro da quel punto. La tentazione di una lettura apocalittica degli eventi compete qui con la volontà di intelligenza degli avvenimenti. Occorre far prevalere quest'ultima. Altrimenti bisognerebbe dar ragione a Sergio Quinzio: « La storia scende dagli dèi agli eroi, ai sacerdoti, ai nobili, ai borghesi, ai proletari. Non ci sono piu gradini». Il movimento operaio non ha combattuto contro il moderno, ha combattuto dentro le contraddizioni del moderno. È un punto essenziale. Cosi è stato, sia nella ottocentesca pace dei cento anni, sia nelle novecentesche guerre civili mondiali. Se non si coglie questo punto, si rischia di confondere l'opposizione operaia, «absolument moderne», con cose aliene, vedi il tradizionalismo cattolico, vedi il romanticismo economico e politico, vedi la rivoluzione conservatrice. Il movimento operaio è figlio della prima modernità ed è padre della modernità matura. Sta nel mezzo del moderno, un passaggio cruciale di questa storia, tra le violenze degli inizi e gli orrori degli esiti, dapprima coltivando la vocazione al riscatto dal male portato da quegli eventi, poi sempre piu coinvolto e partecipe dentro le pure e crude necessità di un male forse piu grande. In mezzo, c'è appunto quella generosa enfasi marxiana sul . Rassicuranti argomenti di pensatori credenti, di cui si è persa la traccia. Può darsi che le ragioni della rivoluzione socialista siano ancora presenti nel mondo, ma non si esprimono piu nella tensione verso quell'idea, verso quel mito, verso quell'obiettivo: nomi diversi per sensibilità diverse. Come si esprimono, se si esprimono, quelle ragioni, è un mistero. Non c'è analisi scientifica che possa svelarlo. Forse c'è un sentire religioso, che parte dalle periferie del mondo e che bisognerebbe ritradurre in teologia politica rivoluzionaria per l'Occidente. Ma è meglio lasciar perdere. Nel cuore degli «ultimi uomini», poi, non si vede granché, dato il buio: sepolcri vuoti dopo che il Risorto è fuggito. Comunismo non è piu nemmeno la brechtiana cosa semplice difficile a farsi. La cosiddetta complessità ha dissolto la sua naturale costituzione elementare e ne ha fatto un compito acrobatico per atleti dello spirito. Il futuro non gli appartiene. Solo un« balzo di tigre» nel passato del novecento può farci capire che cosa è stato. Capiremo cosi che comunismo nel secolo ha voluto fondamentalmente dire «essere comunisti». Una modalità, una forma, un'esperienza, una scelta, di esistenza umana. Questo libero orizzonte di vita si è rivelato piu vasto di obbligate realizzazioni della storia. Forse l'errore c'è stato nell'assumere troppo e solo su di sé la finalità positiva della costruzione del socialismo. Il comunismo è originariamente un movimento del negativo. È un no della storia a se stessa, a come fin li è stata. Dimensione, dunque, di politica pura, vera. Non l'idea astratta, ma il nome politico, conta. Esso nasce, e i comunisti diventano

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soggetto storico, nello scenario apocalittico con cui si apre il novecento. Significano l'inverarsi/rovesciarsi della storia moderna: la guerra è l'inveramento, la rivoluzione il rovesciamento. La decisione del nome di comunisti e l'evento del salto politico di storia che ne segui, travolsero in un colpo solo il gradualismo riformista, la morte del marxismo, la civilizzazione democratica, la modernizzazione capitalistica: tutte le idee e le pratiche già vecchie allora, che l'inizio di secolo ha liquidato e che il fine secolo ci ripropone come inedite occasioni di futuro. Venivano tutte, tutte vengono, da un'età che aveva mescolato positivismo, storicismo, neoidealismo, scientismo, in una retorica sintesi ottocentesca di fede nell'ineluttabile progresso umano. Il novecento che era nato spazzando via questo passato, muore riconsegnandocelo come presente. La decisione comunista della rivoluzione fu uno scarto rispetto al proprio tempo. Si collocò, genialmente, dentro la novecentesca rivoluzione delle forme. Quando in tutto il linguaggio, e quindi nell'arte, nella scienza, in tutto il sapere, e poi nella coscienza e al di là dei limiti oscuri di essa, avvenne il salto liberatore fuori dalle vecchie forme, ci fu rivoluzione anche nelle forme della politica, cioè in questo eterno linguaggio sociale umano. Con il nome comunista allora il movimento operaio non si limitò ad incontrare la politica moderna, ma in una situazione d'eccezione la trasformò, la rivoluzionò. Il Principe si fa Partito, l'Utopia si fa Stato: la storia viene ribaltata nel suo corso dalla politica. L'anima, antica, e le forme, nuove, secondo la splendida immagine del giovane Lukàcs - si incontrano nelle figura maledetta dei proletari che vincono. Il comunismo del novecento non è solo questo. Ma è stato questo cosi a lungo, e cosi in profondità e con tale intensità, che l'altrettanto lunga età della decadenza e della morte diventa anch'essa, come il secondo novecento,

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storia minore. Per il grande evento che fa epoca, quando è bene incastonato in un corso di anni, è sempre utile questo tipo di operazione intellettuale: unire i due fili, per vedere se passa la corrente, tra il tempo dell'inizio e il tempo della fine. Urzeit, Endzeit: e nient'altro. Il «fra», il tempo di mezzo, è importante ma non decisivo. In mezzo, c'è l'assestamento, l'adattamento, la correzione, che può essere deviazione o involuzione. Il socialismo dei comunisti: bagliore dell'inizio, grigiore della fine. Intorno all'89, siamo stati dentro tutti, con leggerezza, al processo. Il processo era quantitativamente di proporzioni enormi, qualitativamente di infimo livello. La peggiore delle risposte fu la paura di essere travolti dal crollo. Si è fatto credere che si trattasse del cambiamento di un nome, mentre finiva un mondo. Ce ne siamo accorti dopo, a poco a poco, mentre si sgranava il filo delle piccole, insulse, e poi inutili o dannose cose che seguivano. Nella morte del socialismo, ha contato e conterà per il futuro, piu che l'evento in sé, questa abissale sproporzione tra il significato del fatto accaduto e la miseria dei soggetti che lo hanno gestito o espresso. Niente è di piu senza speranza di una decisione ultima senza pensiero decisivo e senza agire tragico. Qualcosa di devastante doveva in realtà essere accaduto nei due decenni precedenti per determinare una situazione di questo genere. Le sinistre d'Occidente non sono autorizzate ad autoassolversi, anzi ad autocelebrarsi, per aver assistito passivamente al progredire della malattia mortale del socialismo. In primo luogo, perché non erano certo protagoniste di una loro specifica esaltante vicenda. Poi, perché avrebbero dovuto sapere che i due destini, movimento operaio e costruzione del socialismo, si erano loro malgrado incrociati una volta per sempre, e un giusto strappo dalle forme era altra cosa dalla rottura con la sostanza del tentativo. Quello infatti che è veramente

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successo, dopo la fine dell'età delle guerre, è che la storia ha ripreso in mano il secolo e ha espulso la politica. Detto con parole meno ispirate ma piu fastidiose, il capitalismo ha riafferrato tutto intero l'esercizio della sua egemonia, con le armi proprie, strategiche, della forza economica, della potenza finanziaria, della violenza tecnologica. Le culture, l'ideologia, il senso comune di massa, il buon senso privato, l'opinione mediatizzata, hanno seguito. Aver pensato che il crollo del socialismo era alla fine piu opportuno della riforma del socialismo, è stato il suicidio del movimento operaio in Occidente. Bisogna purtroppo imparare controvoglia a ripetere le cose già dette. È un'illusione credere che il pensiero, in quanto pronunciato, sia capito. Non c'è solo l'opacità di questa realtà, che tutto permette tranne l'intelligenza degli avvenimenti. C'è, qui dentro, l'abitudine, portata dalla società dell'immagine, al discorso senza pensiero. E dunque. È fallita la costruzione del socialismo in un paese solo, e poi la sua applicazione ad un campo di paesi militarizzato per la guerra, perché è fallita la rivoluzione in Occidente. È stata sconfitta dopo la prima guerra, non è ripartita dopo la seconda, ha dormicchiato dentro la terza, pur lasciando aperta una via, o la ricerca di una via, verso altre forme di una prospettiva rivoluzionaria nel capitalismo. La sinistra europea dovrebbe guardare dentro di sé quando pensa alla disfatta del socialismo nel novecento. E il caso Italia, anche qui, ha una sua specifica positività. I comunisti italiani non erano dei socialisti veri o dei socialdemocratici politicamente corretti. Il loro consenso si era radicato sul sostantivo « comunista», l' aggettivo «italiano» voleva dare forma originale al progetto che quel nome conteneva. Lo slogan di popolo Gramsci-Togliatti-Longo-Berlinguer, simbolicamente segna va, su un arco di piu di sessant'anni, la continuità di una ri-

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cerca della via democratica alla rivoluzione in Italia, per l'Occidente, dopo e accanto e contro la forma di costruzione sovietica del socialismo. La forma occidentale tendeva a configurarsi come civilizzazione della rivoluzione, sua modernizzazione, sua inculturazione e complessificazione, sua moderazione, moderna ritraduzione soggettiva della ormai arcaica troppo necessitata rottura del, 17. Non il «gradualismo» delle riforme, ma il «processo» della rivoluzione, ovvero il processo rivoluzionario anche attraverso il gradualismo riformatore. Si possono fare tante letture tranquillizzanti dell'opera gramsciana e dell'iniziativa togliattiana, ma questo era il segno e il senso che indicavano per il dopo l'età delle gueMe: la rivoluzione che nel suo movimento, ad ogni passaggio, si. fa carico della ricerca del consenso e fonda culturaltnente ognuno di quei passaggi, in una mobilitazio~e popolare e intellettuale, dove attinge forza e organizza istituzioni, per vincere le resistenze, esercitare egemonia, esprimere decisione. Un grande progetto di prassi collettiva guidata dall'alto. Il limite è stato forse di non averlo a sufficienza elaborato teoricamente con gli strumenti di pensiero del novecento. Siamo tutti responsabili di ciò che non abbiamo fatto. E al problema se può essere ancora, o se può ridiventare, attuale l'impianto di questo processo, la risposta è no. Quella era un'epoca. Questa è un'altra. Il novecento è stato. Adesso c'è il contrario. Pratica della politica moderna e idea di processo della rivoluzione potevano stare solo insieme. Separate non esistono, né l'una né l'altra. Tra tempo dell'inizio e tempo della fine, la scintilla dell'energia storica non si accende. L'iskra è spenta. Le praterie possono bruciare ormai solo per autocombustione.

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Ancora, e infine, sul!' autonomia del politico. Davanti a noi, vicina da poterla toccare, un'altra Kehre, una svolta. Si chiude la fase dell'autonomia del politico. Un percorso lungo, contrastato, contraddittorio, incompreso, incompiuto. Dai primi anni settanta agli ultimi novanta, un tempo che non fa epoca. Il discorso ne ha risentito. E di piu ne ha risentito l'agire pratico. Dell' autonomia del politico, è d'uso che ne parlino tutti male e che tutti la pratichino piu o meno bene. La scienza della politica non sa che cosa essa sia. La filosofia politica ha chiuso in captivitate il problema. I politici sentono il dovere di respingerla con sdegno etico. Ma l'autonomia del politico è niente altro che la politica moderna. È il nome che la politica moderna assume nel novecento. L' autonomia del politico presuppone lo stato d'eccezione nella storia moderna: la situazione delle tre guerre nel secolo. Li infatti viene scoperto e applicato il criterio del politico. La nostra assunzione dell'autonomia del politico ha avuto su di sé la «sfortuna» machiavelliana. La sua assunzione teorica ha coinciso con la sua inapplicabilità pratica. Dopo gli anni sessanta, non si è dato piu stato d'eccezione. La normalità che oggi si rivendica come obiettivo, è la condizione della storia contemporanea da circa tre decenni. Qui dentro, assurde inutili isolate individuali violenze, tutte avvenute nel kantiano cimitero della pace perpetua. L'intero discorso che precede - si è visto - è malinconicamente segnato dalla« adirata nostalgia» (>, è la nota condizione di guerra fredda. La guerra del Golfo, invece, è la classica guerra «per filantropia». Thomas More è sopportabile solo accanto a Machiavelli, e magari a Hobbes. Hexter mette Moro, «realista», accanto ad altri politici-scrittori, impegnati sia nella pratica che nella teoria politica, spesso investiti di alte cariche dello Stato: « Sir

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John Fortescue, giudice della Corte Suprema d'Inghilterra, Philippe de Commynes e Claude Seyssel, l'uno diplomatico e consigliere di Luigi XI, l'altro di Luigi XII, e Niccolò Machiavelli, segretario della Repubblica di Firenze», tutti animati da «quel vivo e profondo senso della realtà politica che è una delle caratteristiche dell'epoca delle nuove monarchie in Europa» U. H. Hexter, L'Utopia di Moro. Biografia di un'idea, Guida, Napoli 1975, p. 67). Machiavelli del resto ha vinto perché la ragion di Stato dei gesuiti è stata mediata da Moro, e magari da Erasmo. In Erasmo - scrive Huizinga - «c'è piu audacia e piu grandezza che in Machiavelli, piu spregiudicatezza che in Montaigne. Ma Erasmo non vuol essere sospettato: è la Pazzia che lo dice! Ci fa sempre girare a bella posta nel circolo vizioso espresso dal motto: 'un cretese ha detto che tutti i cretesi sono bugiardi'» U. Huizinga, Erasmo, Einaudi, Torino 1983, p. 110). Perfetta sintesi del senso comune morale borghese moderno. Inutilmente serioso. Da aggredire con lo spirito dell'ironia, col gioco del pensiero, con l'allegro scherzo delle parole che attaccano le cose alla radice. Erasmo, con la Institutio principis christiani, si mette a fare il consigliere morale del principe, come Machiavelli aveva fatto il consigliere politico. Ma senza crederci piu di tanto. Non lasciamoci sviare dal profilo severo che traspare nei ritratti dell'epoca, quello di Quentin Metsys per Erasmo, quello di Hans Holbein per More, liberamente ripreso da Rubens un secolo dopo. C'era un impegnato disincanto sugli inizi del moderno, come deve esserci per noi sulla sua fine. Un , dice Machiavelli del De principatibus. E Huizinga richiama, per Moriae Encomium, Rabelais: . Un pensiero «prodotto dalla 'catastrofe' o quanto meno dall'incessante catena di' mutatione' », che investe l'Italia, subito, agli inizi del moderno. Proprio nel racconto della Storia d' Italia si riesce ad avvertire - e ha ragione Asor Rosa a cogliere qui in Guicciardini un accento leopardiano - « a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da' venti, siano sottoposte le cose umane» (vedi adesso in

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Genus italicum, Saggi sulla. identità letteraria italiana nel corso del tempo, Einaudi, Torino 1997, pp. 340-41). Tra Machiavelli ed Erasmo, non solo Guicciardini, anche More. Rispetto allo strappo tutto moderno di Machiavelli, c'è in questi ultimi una sensibilità di continuità chiamata ad assicurare un trapasso moderato ai tempi nuovi. Varie sono, per esempio, le religioni degli Utopiani, in maggioranza però orientate verso una sorta di deismo con annessa la pratica della tolleranza. « Ma quando appresero da noi il nome di Cristo», con inclinazione e con affezione vi aderirono, ritrovandovi i precetti di una loro religione naturale. Nel Principe c'è l'eco anticipata di quella che sta per essere la politica nell'età delle guerre civili di religione. Nell'isola di Utopia non c'è traccia. Si capisce di piu scavando nel passato che scrutando nel futuro. E di piu a partire dalla « cognizione delle azioni delli uomini grandi» che a partire dalla relazione « sulle leggi e le istituzioni» di uno Stato immaginario. Tra « una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche» (Dedica del Principe, 2), sta ancora il segreto della politica come pensiero e come azione. Ma, a fine novecento, percorribile è solo il primo, praticabile con difficoltà è la seconda. Esperienza delle cose moderne è per noi il pensiero vissuto del secolo, là dove la storia è stata appresa in figure eretiche, isolate, bandite e maledette, oppure in figure redente dalla loro opera, accolte postume nell'olimpo del miserabile sentire borghese. Qui ognuno metta i suoi nomi. Ma lezione delle cose antiche per noi è tutta la modernità, dagli inizi, agli sviluppi, agli esiti. Il moderno come passione politica piu che come disciplina storica: un rischio di esercizio del pensiero, costretto a camminare su una linea instabile di confine tra ciò che è stato e ciò che poteva essere, tra necessità, odiata, della realtà effettuale e contingenza, amata, della volontà

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sovversiva. Passione è guardare il corpo della storia con gli occhi, carichi di desiderio, della politica. La vocazione del politico è di possedere la storia, che non è donna nel senso della fortuna, e anche se lo fosse, non sarebbe il caso «volendola tenere sotto, batterla e urtarla» (Il Principe cit., XXV, 26). Almeno questo l'ultimo novecento ci consegna di intensamente inedito. La storia è sovrana davanti alla politica, non si lascia abbattere e urtare. E il desiderio è di ciò che, differente da me, si pone, rispetto a me, semplicemente e complessamente, come storia altra. È un rapporto molto mediato dalla profondità della Kultur europea novecentesca. Solo qui dentro può essere compreso e praticato. L'agire politico può essere il maschile davanti al femminile della storia. Cosi io mi sento di esprimerlo. Ma la politica può essere il femminile davanti al maschile dell'accadere storico, come questo è stato fin qui e come continua ad essere. Cosi si sta esprimendo il partire da sè della donna. Nell'uno e nell'altro caso, la politica può essere il Principe armato di un'utopia concreta, anche quando, soprattutto quando, si esprime in forme collettive, come Stato, come partito, come movimento. Senza di questo, non è che si inaugura un nuovo modo di fare politica, solo si chiude l'epoca moderna della politica. Che queste siano le nostre cose antiche, è una scelta di ricerca che vuole contrastare un'intenzione antimoderna sottilmente nascosta in tante riscoperte della politica classica. È la stessa scelta di Machiavelli, che a punto di riferimento, di insegnamento, di Discorso, prendeva la politica dei romani non la politica dei greci, la storia della repubblica non il mito della polis, le lotte civili romane non la democrazia ateniese. In politica, il realismo è Roma, l'utopia è la Grecia. Della Grecia si dà nostalgia. Come potremmo recidere dalla nostra anima la carne viva della deutsche Romantik? Potremmo respirare senza

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Holderlin? Ma da quando innanzi all'utopia antimoderna della politica greca si inchina la peggiore politica postmoderna, si può leggere Pericle solo se raccontato da Tucidite. Invece «è romani feciono quello che tutti è principi savi debbono fare ... Veggendo discosto gli inconvenienti, vi rimediorno sempre» (Il Principe cit., III, 26, 29). Questo prevedere e conoscere «discosto» è una delle categorie del politico. Perché, «come dicono è fisici dello etico» (so che si tratta del tisico, ma mi va benissimo l'etico), il male in politica, al principio è facile a curare e difficile a conoscere, ma . Come l'altra che contrappone alla « avidità altera di greculi frivoli>> l '« umile misericordia di barbari ancora bestiali» (Ago~: 1:ino, La citta di Dio, Einaudi-Gallimard, 1992, I, 4). «Perciò le devastazioni, gli eccidi, i saccheggi, gli incendi, le sopraffazioni che si verificarono in questa recentissima catastrofe romana derivarono dalle consuetudini della guerra; le differenze, l'insolita mitezza di cui si rivesti la disumanità barbarica, per cui scelse e fissò vastissime basiliche da riempire di gente, senza che nessuno là fosse ferito, nessuno di là fosse rapito, molti vi fossero condotti da nemici pidosi per essere liberati, e nessuno ne fosse strappato da nemici crudeli per venir asservito: tutto questo va attribuito al nome di Cristo e all'era cristiana»

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(ibid ., I, 7). Linguaggio allusivo, allusive citazioni: solo questo permette oggi di far transitare pezzi di verità tra le maglie dell'opinione. È la costrizione a cui ti lega un' epoca opaca, grigia, indifferente, riempita e vuota, mobilissima e ferma, con i Lumi, si, ma spenti, un evo medio senza trapasso. No, non è il quarto-quinto secolo. In vista, non c'è nessun incontro tra il nome di Cristo e misericordiosi barbari bestiali. La terza e la quarta Roma sono già cadute, senza che la storia si accorgesse di nulla. Grande inizio del cinquecento e grande inizio del novecento si danno la voce. Per segnalare a questa fine di millennio il suo Miserabilismus.

Karl und C ar1

« Stammi a sentire, J acob ... devi ammettere che se hai imparato qualcosa da qualcuno, questi è proprio Schmitt » G. Taubes, La teologia politica di S. Paolo, Adelphi, Milano 1997, p. 183). Affermazione da mettere accanto al racconto di quando, dopo una passeggiata nei dintorni di Plettenberg, rientrati in casa, davanti a una tazza di tè, Schmitt gli disse: «Ora, Taubes, leggiamo Romani, 9-11 » (Ibid., p. 21). Lo stesso Taubes ci ha dato la formula definitiva del corretto rapporto con Carl Schmitt: Gegenstrebige Fugung (vedi In divergente accordo, Quodlibet, Macerata 1996). L'amico Jacob (1923-1987), il rabbino tedesco esiliato, disposto a dire, non disposto a scrivere. Nelle pieghe del novecento, sta nascosta l'esistenza miracolosa di questi personaggi invisibili. Presenze rarissime e realissime. Li incontri nei libri, fratelli in spirito, come vecchie naturali conoscenze destinate. Ormai il valore sta solo in questa oscurità, separatezza, riservatezza, rifiuto di comparire, da parte di esistenze solitarie. Quello che non fu possibile allora, nel secolo dei grandi contrasti, è diventato necessario oggi, negli anni e mesi e giorni delle piccole confusioni. Quando scopri che Taubes dice di Schmitt: è un apocalittico della controrivoluzione, per dire di sé: sono un apocalittico della rivoluzione, allora vedi che è stato centrato il bersaglio del problema con la freccia del pensiero. « La scienza dell'apocalittica comporta un atteggiamento passivo rispetto agli accadimenti della storia. Qual-

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siasi attivo operare viene meno. Il destino della storia universale è predeterminato, e non ha senso cercare di resistergli. Lo stile apocalittico utilizza prevalentemente il passivo. Nelle apocalissi non 'agisce' nessuno, piuttosto tutto 'accade'[ ... ] Lo stile dell'apocalittica, che ricorre anche in Karl Marx, si fonda sulla scarsa fiducia riposta nell'uomo. Il lungo periodo di sventure, le ripetute delusioni, lo schiacciante potere del male, l'enorme colosso del regno demoniaco mondano, nell'apocalittica farebbero perdere la speranza nella salvezza, se questa dipendesse dalla volontà e dal piacimento degli uomini. Solo in questo senso, all'interno della struttura concettuale dell'apocalittica marxista si può parlare di un 'determinismo' per lo piu misconosciuto. Anche Marx vede agire nella storia delle forze superiori, su cui l'individuo non può influire in alcun modo e, utilizzando la veste mitologica del suo tempo, le definisce 'forze produttive'» U- Taubes, Escatologia occidentale, Adelphi, Milano 1997, p. 58). Un modo originale, veramente, di leggere Marx. A quel punto, dopo due guerre mondiali, dopo l'Olocausto e la Bomba, aveva le sue ragioni. Le ha ancora oggi? L'orizzonte dell'opera di Marx, rivisto nella politica del novecento, ha subito una catastrofe apocalittica. Non bisogna lasciarsi deviare dalle movenze farsesche con cui si è realizzato il crollo del socialismo. Il tragico di quella storia era degl inizi, e degli sviluppi, una disperata lotta antideterministica contro l'immane potenza di forze produttive, mitologicamente evocate dal profondo di processi umanamente incontrollabili. Qui sta la decisiva ragione ultima dell'incontro, impossibile e necessario, tra Marx e Schmitt. Ambedue vedono ergersi di fronte la forza inattaccabile di una ragione storica nemica e cercano i mezzi del conflitto con essa a quell'altezza. Quanto piu dall'analisi realistica della situazione cl' epoca ricavano la grandezza tragi-

KARL UND CARL

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ca del compito, tanto piu sono costretti a radicalizzare gli estremi della decisione politica. Due forme di pensiero agonico, «polemico»: non solo l'azione pratica ma laricerca teorica come guerra. Due punti di vista da posizioni opposte, a fini diversi, con il medesimo metodo, contro lo stesso problema: capitalismo-modernità, la storia che lo porta, la politica che lo contrasta. Prometeo l'uno, Epimeteo l'altro. Poi, c'è ottocento e novecento. Dietro Marx, Hegel, dietro Schmitt, Weber. Marx è il Weber del proletariato, altrettanto come Weber è il Marx della borghesia. E di Weber, ha detto Taubes che è la sintesi di Marx e Nietzsche. Ecco, da questa sintesi bisogna ripartire. Entro questo quadrilatero intellettuale otto-novecentesco e tutto Germania, Marx-Nietzsche-WeberSchmitt, sta Ein feste Burg ist unser Gott, per dirla con i Corali 302 e 303 BWV. Dall'alto di queste mura, respingere l'attacco delle aliene intelligenze artificiali del 2001. Con Cari Schmitt: in divergente accordo. Con Karl Marx in convergente disaccordo. Questo è l'interno sentire del teorico della politica, figlio del movimento operaio, a fine novecento, dopo la sconfitta della rivoluzione. Tra Marx e Schmitt, un rapporto di naturale storica complementarità. Nel novecento non è possibile leggere politicamente Marx senza Schmitt. Ma leggere Schmitt senza Marx è storicamente impossibile, perchè Schmitt senza Marx non esisterebbe. « Egli era antibolscevico - dice Taubes - [. .. ] Avrebbe potuto essere leninista, ma aveva la stoffa per diventare l'unico antileninista di rilievo» (La teologia politica di 5. Paolo cit., pp. 184-85). Lo è diventato solo nel pènsiero. Diventare qualcosa di politico solo nel pensiero è destino non solo suo. Marx e Schmitt, insieme, ci hanno ridato das Kriterium des Politischen, dal momento che quel criterio, dopo Lenin, si era a poco a poco perduto. Insieme infatti fanno il nuovo nome del-

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l'amico-nemico. Il nostro Marx solo contra hostem è sopravvissuto nel secolo. Ha avuto bisogno di questo nuovo nemico pubblico per scoprire quello che nell'ottocento non poteva essere scoperto: l'autonomia del politico. Il novecento è la politica realizzata, politica moderna giunta a compimento, senza piu possibilità di un oltre a partire da sè. Forse solo il movimento operaio, andando oltre se stesso, custode della propria eredità di lotte e di organizzazione, avrebbe potuto portare con sè, in salvo dalle potenze della storia, la politica. Ci voleva un' altrettale potenza sociale, dotata di pensiero strategico e di forza materiale. Solo nel sociale sta la possibilità della continuità. Le classi che muoiono non si estinguono mai del tutto. Radici che affondano nei secoli non si tagliano nei giorni e negli anni. L'aristocrazia, a suo modo, è sopravvissuta al capitalismo. E in Inghilterra, un tempo la madre, oggi la nonna, del moderno, ha fatto, come ci hanno insegnato autorevoli studi, essa aristocrazia, politicamente le rivoluzioni borghesi. La giovane borghesia, in quanto depositaria dello spirito del capitalismo nell'animo umano, non è stata da meno: è bastato che avesse messo deboli radici in antichi paesi, per resistere con la sua ragione storica alle violenze della politica, e per dimostrare che non essa meritava di morire ma chi la uccideva. La politica invece è legata alla contingenza, ali' occasione, al momento, al passaggio. La società è la storia lunga. La politica è la storia corta. Eppure la langue durée può essere interrotta o piegata o deviata dall'irruzione del salto nell'attimo del breve periodo. Questa è la forza della politica, la sua soggettività-volontà, che è semP,re un e un solo accadere irrazionale dentro le tante ragioni della storia. L'età delle guerre, del confronto diretto, del contrasto polare, del mondo diviso, della società divisa, della politica-conflitto ci ha costretto a fare i conti, a misurarci con

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il pensiero nemico, in un coinvolgimento emotivo che comprendeva appartenenza e rifiuti, esclusioni e scambi. Una condizione, credo, inedita della ricerca intellettuale, comunque uno stato d'eccezione per la teoria politica. Chi non ha vissuto questo tempo manca di qualcosa. E non è il senso tragico della lotta che farà difetto. Quello poi si acquisisce, per chi ha stoffa nell'animo, con le delusioni dell'esperienza. È piuttosto mancante quella forma di pensiero polemico, che ti ferma sulla contraddizione insoluta, a diretto e nudo contatto con l'inassorbibile polarità negativa, che alla fine diventa una parte di te contro cui devi combattere o con cui devi trattare. Marx nel novecento ha incorporato dentro di sé Schmitt. Perché rivoluzione e controrivoluzione, apocalittica rivoluzionaria e controrivoluzionaria, rivoluzione operaia e rivoluzione conservatrice, cioè la grr.nde politica del novecento, non solo ha occupato l'intero territorio delle opzioni possibili, radicalizzandole in scelte di vita, ma le ha a tal punto direttamente riferite l'una all'altra che ciò che stava in mezzo, la democrazia liberale, ha subito un giusto lungo periodo di subalternità culturale. Il revisionismo storico, come tutte le posizioni coerentemente reazionarie; contiene un nucleo di verità, che va svelato. Doveva essere accompagnato da un revisionismo filosofico. Ma questo non poteva che venire da sinistra, come quello storico veniva naturalmente da destra. Il pensiero della politica ha avuto l'opportunità di rompere gli irrigiditi schemi ortodossi della tradizione marxista. L'operazione Marx-Schmitt era sostanzialmente questo. È mancato il coraggio sperimentale di assumerla per saggiarne le conseguenze pratiche. Il nodo problematico irrisolto è il rapporto con la modernità. Questo è il lascito di ricerca intellettuale che la storia del movimento operaio deposita sul terreno di possibili improbabili prospettive neorivoluzionarie. La

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modernità non è oggi soltanto, come volgarmente crede il senso comune d'epoca, una porta spalancata su un futuro virtuale. La modernità è anche accumulo di materiale del passato, civiltà sepolte, città cancellate, pietre disperse. Non è solo innovazione avveniristica, è storia trascorsa. Viviamo una tarda modernità: dove la spinta del fu turi bile tecnologico convive con il bisogno di un' archeologia del moderno. Se non si riconosce questa ambiguità della modernità, il suo essere Welt von gestern oltre che future o/ the world, il rapporto con essa come problema non è stabilito. Il movimento operaio il problema lo aveva a suo modo affrontato e risolto: attraverso l' approccio marxista si era dichiarato parte del moderno, suo frutto e suo erede, in grado di utilizzare partigianamente il passaggio di storia a favore di un processo di emancipazione umana. Le sue lotte erano questo, questo volevano essere le sue forme di organizzazione, questo intendeva essere la presa del palazzo d'inverno russo, e la stessa costruzione del socialismo agli inizi. È questo progetto che è fallito. E con esso però anche l'idea dello sviluppo come progresso, questa idelogia antipolitica della modernità, oggi fatta propria dal capitalismo trionfante, che cosi ha raccolto dalla polvere le bandiere lasciate cadere dalla classe operaia. Dalla parte opposta la soluzione del problema veniva trovata nella demonizzazione del moderno, attraverso I' essenzializzazione della tecnica, dove cattolicesimo romano e metafisica della morte di Dio di stampo protestante si producevano in una santa allenza contro il secolo. L' antimodernismo non fu quello delle soluzioni totalitarie. Queste furono piuttosto esplicita espressione di un pezzo d'anima e di una realtà strutturale della civiltà moderna. L'antimodernismo fu piuttosto quello delle culture che agli inizi sperarono in quelle soluzioni come armi decisive contro il loro nemico. Si spiega cosi l'adesio-

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ne iniziale di figure intellettuali dal profilo aristocratico all'irruzione plebea, fascista e nazista. Progetto anche questo, come l'altro, fallito. Questo è il secolo del fallimento dei progetti di riforma intellettuale e morale, da qualunque parte siano venuti. La soluzione finale vincente è stata quella dei processi materialmente oggettivi: che siano stati demoniacamente totalitari o angelicamente democratici, a questo punto poco importa. La storia moderna alla fine ha vinto, perché il suo ambiguo doppio volto c'è stato, ma non è stato riconosciuto, ha funzionato per sè senza essere utilizzato per altro. La sconfitta è della politica, per non avere essa adattato la propria doppiezza all'ambiguità della modernità, praticando questa come terreno, oltre che combattendola come avversario. Questa disposizione a cogliere teoricamente il segno essenziale della doppia modernità, c'era sep~ratamente, dimezzato, in Marx ~ in Schmitt. Ha ragione Carlo Galli a riportare l'opera di Schmitt dall'occasionale contesto tedesco degli anni venti-trenta a una contestualizzazione epocale di genealogia della politica, di originarietà del politico moderno. Analogamente l'opera di Marx non è riconducibile al capitalismo manchesteriano inglese di metà ottocento, essa investe piuttosto un orizzonte di genealogia dell'economia politica, di originarietà dell'economico moderno. La complementarità dei due impianti d'opera, essa sola, ci dà l'intera ambigua complessità della modernità. Insieme essi ci fanno leggere l'esito novecentesco, primo e secondo novecento, riscrivendo il grande tema fondativo del moderno, conflitto e ordine, nella lingua del secolo che dice: la rivoluzione e le forme. « [. .. ] La genealogia di Schmitt è un risalire o un ridiscendere all'origine della politica moderna. È infatti nei concetti e nelle istituzioni politiche specificamente moderne che Schmitt vede all'opera, come momenti originari, tanto la percezione

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del disordine radicale quanto la coazione alla produzione di ordine artificiale; tanto la contingenza quanto l' esigenza di forma» (C. Galli, Genealogia della politica, Il Mulino, Bologna 1996, p. xn). Modernità «a due volti»: processo di secolarizzazione da un lato, punto di catastrofe, all'origine e alla fine, dall'altro. Come per Marx: sviluppo capitalistico nel mezzo, ma all'inizio c'è la violenza del1' accumulazione originaria e al termine lo Zusammenbruch del sistema per insolubili contraddizioni fondamentali. Secondo Marx, del resto, la storia la fanno gli uomini, in condizioni ben determinate, gli uomini non l'uomo, cioè le classi, nelle lotte fra di loro, e i partiti come nomenclatura delle classi, e i governi come comitati d'affari delle classi. « Per Schmitt, l'azione politica [... ] è solo del sovrano, il punto nel quale il logos moderno, il pensiero strategico dell'ordine razionale, si concentra tanto intensamente da negarsi: dal singolo e dalle sue strategie non c'è da aspettarsi che disordine o, comunque sia, ineffettualità, mentre l'energia delle masse esige comunque di essere messa in forma» (C. Galli, Genealogia cit., pp. xx111xx1v). Restando tutte le differenze che Galli enumera (pp. 52-56), l'opera•zione Marx piu Schmitt dà una somma di pensiero superiore al portato delle due imprese scientifiche accomunate tra l'altro da una sfortuna politica immediata, ovvero dall'abissale sproporzione tra contributo teorico e sperimentazione pratica. Ma negare l' affermazione di Niekisch, secondo cui «quella di Schmitt è la risposta borghese al concetto marxista di lotta di classe» e affermare di contro che «quella di Schmitt è una reinterpretazione del conflitto di classe, all'interno di apparati categoriali radicalmente distanti da quelli marxiani» (Ibid., Genealogia cit., pp. 54 e 55), vuol dire che Karl und Carl solo insieme forse danno quell' «ermeneutica tragica del moderno», l'unica adeguata a dar conto oggi del pas-

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saggio di crisi d'epoca della lotta di classe. La crisi della ragione politica moderna è contestuale a questo. Schmitt incrocia un certo marxismo critico ed eretico del novecento, tra Sorel e Benjamin, meno purtroppo quello del giovane Lukàcs e di Korsch, ma soprattutto si sente battere nelle sue opere di formazione il colpo d'ariete della presenza di Lenin. Ed è bella la lettura di Carlo Galli da riportare per intero: «Ciò che nel pensiero di Lenin ha affascinato Schmitt non è certo la prospettiva dell'estinzione della politica, che per Schmitt risente della moderna potenza della tecnica, quanto piuttosto il momento della rivoluzione e del comando politico proletario, di una forma politica che, malgrado tutto, viene a costituirsi proprio grazie all'estrema intensità polemica che sta alla sua origine; la dittatura del proletariato - il passaggio iperpolitico all'estinzione della politica - gli pare contenere (assai piu della mediazione discorsiva borghese) tm embrione della consapevolezza che la politica è connotata da un'intensità autonoma da ogni altro ambito dell'esistenza» (p. 47). Il fatto che l'operaismo italiano degli anni sessanta abbia a sua volta incrociato negli anni settanta la presenza dell'opera di Schmitt ha quindi motivazioni piu profonde di quelle che Galli gli attribuisce. Bisognerà tornare su questa vicenda intellettuale in altra sede. È vero che all'inizio ci fu l'ambizione pratica di carpire a Schmitt il segreto dell'autonomia del politico per consegnarlo, come arma offensiva, al partito della classe operaia. Ma questa fu l'ingenua occasione dell'incontro. Et a hoste consilium voleva dire molto di piu che distinguere tra forma rivoluzionaria e contenuti reazionari di un pensiero. No, il rapporto da stabilire con Schmitt non voleva essere lo stesso di Marx a Hegel. Man mano che avanzava, contestuale, la crisi della lotta di classe e la crisi della politica moder-

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na, e si evidenziavano i due processi - la fine del movimento operaio e la fine del politico moderno - il rapporto con Schmitt si stringeva, si intensificava, si interiorizzava. Il riconoscersi nel carattere schmittiano del «pensatore esistenziale, non esistenzialista», dove la contingenza, tanto meglio se tragica, diventa il Grund della decisione, tua e della tua parte, è stato un passaggio strategico di un percorso intellettuale, che veniva da lontano e mirava ad andare lontano. Il riconoscimento era, diventava, proprio quello dell'originarietà del politico, della « politica come potenza originaria», che ripeto implicava, in un rapporto tra l'altro bello, te stesso, la tua esistenza concreta e la vita storica della parte di mondo, di società, di pensiero, a cui sentivi di appartenere. Schmitt, «apocalittico dall'alto», era l'introiezione del nemico che disordinava le fila del modello scientifico marxiano, esattamente come Lenin con la sua «rivoluzione contro Il Capitale», e ti costringeva a rimettere in gioco la tua presenza intellettuale, cercando disperatamente le tracce disperse di c.> ( Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano 1995, pp. 92-95). Ecco. Quest'ultima /ides è quella che poi si definirà in un movimento di utopia e pragmatismo, sempre coniugati «nobilmente» insieme. Ma l'altra, la prima, la fede che viene creduta, è quella che tiene, cerca di tenere, anela a tenere, tragicamente insieme, profezia e realismo. Esplosione di verità è la profezia. Verità rivelata. Interpretata per gli uomini di fede. Antica tensione umana verso ciò che sta per venire, in contrasto con le leggi, le

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regole, le logiche della modernità. Due luoghi classici, di necessario razionale sguardo su questo fondo oscuro. Spinoza, Tractatus theologico-politicus: cap. I, Della profezia; cap. II, Dei profeti. Perché quando si pone il grande problema della libertas philosophandi, della libertà umana civile moderna, si riparte dalla profezia e dai profeti? Perché la libertà umana civile moderna è un evento che ancora deve accadere. «Profezia o rivelazione è la conoscenza certa di una cosa rivelata da Dio agli uomini. E profeta è colui che interpreta la rivelazione di Dio per coloro che non ne possono avere una conoscenza certa e che, perciò, per sola fede possono accettare le cose rivelate. Profeta infatti in ebraico si dice nabi, cioè inviato e interprete; ma nella Scrittura è sempre usato nel senso di interprete di Dio>>. Es 7, 1: « Il Signore disse a Mosè: Ecco, faccio di te un Dio per il Faraone e Aronne, tuo fratello, sarà il tuo profeta» (B. Spinoza, Trattato teologico politico, Einaudi, Torino 1972, p. 19). «I profeti non furono dotati di una mente piu perfetta, ma di una piu viva facoltà di immaginare» (ibid., p. 47). E Hobbes, Leviatano, cap. XXXVI, Della parola di Dio e dei profeti. «La profezia non è un'arte, né - quando è considerata una predizione - una vocazione costante; ma è una funzione straordinaria e temporanea, che viene da Dio, per lo piu agli uomini buoni, ma talvolta anche ai tristi» (Th. Hobbes, Leviatano, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 383). E infatti si legge in Dt, 13, 2-4: « Se sorge in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un sogno o un prodigio e, avveratosi il sogno o il prodigio di cui ti aveva parlato, ti dica: 'Seguiamo altri dèi che tu non hai conosciuto e serviamoli', non ascoltare le parole di questo profeta o sognatore; perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova». E in 1 Gv, 4, 1 : «Carissimi, non voglia te credere a ogni spirito, ma esaminate gli spiriti per conoscere se so-

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no da Dio, poiché molti falsi profeti sono venuti nel mondo». Spinoza-Hobbes: niente utopia, e profezia, si, ma con misura! Per assumere l'utopia, bastano buoni sentimenti. Per aderire alla profezia è necessario un calcolo di verità. La profezia non implica alcuna certezza e nello stesso tempo non può comunicare dubbi. È conoscenza, non di ciò che è, ma di ciò sta per essere, di ciò che deve stare per essere. La rivelazione è colta attraverso i segni e attraverso i segni è a sua volta rivelata. Il profeta compone per immaginazione i segni di Dio e quelli per gli uomini. Il suo destino è quello di non essere compreso. Ma quando c'è uno scarto dal destino, nello stato d'eccezione, allora si dà un evento di grande storia. La storia profetica è sempre il frutto della grande politica. Tra politica e profezia c'è un sottile velo di insondabile complicità. Cogliere il segno dei tempi storici, è il compito della politica. Quando i segni dei tempi non ci sono, c'è crisi politica. Quando i segni dei tempi ci sono, ma la politica non li coglie, c'è una crisi storica. Solo quando ci sono i segni e la politica li vede e li assume, allora si dà una di quelle rare epoche di Veri:inderung der Welt. È facile capire in quale di queste condizioni siamo oggi, in quali siamo stati sin qui, e Quinzio con noi. Ma ci interessa il punto storico alto dell'incontro tra profezia e politica, quello che Quinzio non ha potuto vedere, e noi con lui. Cerchiamolo in un futuro passato. L'occasione è questo libro di Mario Miegge, Il sogno

del re di Babilonia. Profezia e storia da Thomas Muntzer a Isaac Newton (Feltrinelli, Milano 1995). Il discorso parte da Daniele 2, il libro del profeta Daniele scritto nel II secolo a. C. «Nel secondo anno del suo regno, Nabucodònosor sognò. Il suo animo rimase turbato e il sonno lo abbandonò. Il re dette ordine di convocare i maghi, gli indovini, gli incantatori e i caldei, perché richiamassero alla memoria

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del re il suo sogno». Ma questi volevano prima dal re il racconto del sogno per poterlo interpretare. Solo Daniele fu in grado di dire al re che cosa aveva sognato. Perché > (E. Bloch, Spirito dell'utopia, La Nuova Italia, Firenze 1980, p. 280). E Spuren: «infatti l'uomo è qualcosa che deve ancora essere scoperto» (E. Bloch, Tracce, Coliseum, Milano 1989, p. 24). Le due dimensioni si ritrovano insieme, come l' agire e il pensare, sempre rigorosamente da un punto di vista parziale: prima «la tenebra dell'attimo appena vissuto», «la tenebra dell'hic et nunc>>; poi «il sapere non an-

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cora conscio», «il non ancora divenuto». Questi concetti sono perifrasi dell'utopico, o del profetico? Si unificano nella categoria del e la « mollesse du ca:ur». La democrazia assicura e provoca queste ultime cose, la libertà ha bisogno delle prime. Scegliere. Perché sono cose alternative. Necessario uninedito spirito di scissione. Dividere il cittadino neutro in due esseri di genere differente. Per ognuno e ognuna, riconvertire l'individuo moderno in persona umana. Riconnettere il passato al futuro, si può solo se si dividono tutti e due dal presente. Non possiamo piu considerare, con Benjamin, «!'adesso>> (Jetztzeit) come il luogo del salto dialettico rivoluzionario marxiano. Sempre piu, con Heidegger, siamo costretti a considerare il «tempo-ora>> (Jetzt-zeit) come Weltzeit, tempo mondano inautentico. Anche qui, tra il tempo e l'ora, tra l'epoca e !'adesso, bisogna colpire con il cuneo rosso della contraddizione vivente. Il cerchio bianco è questo mondo ormai morto.

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vn. Non libertà di e libertà da, libertà positiva o libertà negativa, liberty e /reedom, libertà degli antichi e libertà dei moderni. Nemmeno filosofia politica della libertà: questa l'ha data il liberalismo. Ma: filosofia della libertà, quella che non ha saputo dare il marxismo. Oggetto della prima, la libertà esterna, giuridica e sociale insieme, le libertà costituzionali di mercato, garanzia pubblica per l'atomo privato, diritti, preziosi e poveri, preziosi per convivere insieme agli altri, poveri per esistere a partire da sé. Oggetto della seconda, la, libertà umana, quella che Marx attribuiva alla «eterna nobiltà del genere umano», la oltre-umana libertà cristiana, la spinoziana mentis libertas beatitudo, la non solitaria solitudine del grande spirito, per dirla col Luporini filosofo dell' esistenza. Errore dell'orizzonte marxiano non è di aver fatto critica della libertas minor, ma di averla fatta senza contemporanea assunzione, teorica e pratica, di una libertas major. Qui, il disastro politico. Solo in nome di una vera libertà umana, si poteva fare critica delle false libertà borghesi. Critica distruttiva della loro apparente generalità umana e tuttavia presa positiva in eredità del loro fondamento moderno, da cui soltanto si poteva passare altrove. Kantianamente, insufficienza della Unabhà'ngigkeit, della indipendenza degli individui, ma nello stesso tempo sua condizione di possibilità, sua trascendentalità, per fondare la libertà come Autonomie dell'essere umano, con la legge morale dentro di sé. VIII. L'homo democraticu~, l'individuo isolato e massificato, quanto piu globalizzato tanto piu «particularizzato », guidato dall'esterno e dall'alto fin mentre coltiva il proprio giardino, il singolo nel gregge, l'ultimo uomo, descritto, prima che da Nietzsche, da Goethe, come soggetto del tempo che vedeva arrivare, «l'era delle facilità>>,

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vocabolo «molto preoccupato e dubbioso», dirà Thomas Mann. L'età delle facilità e della volgarità. Quell'accenno da 1830, Mann lo ritrova infatti, giunto a vette vertiginose e veramente fantastiche, nel 1950. Meine Zeit, il mio tempo, «l'epoca della tecnica, del progresso e delle masse»: «mentre lo esprimevo, io ero per lo piu avverso». Ma avvertiva: >, lngeborg Bachmann ha scritto: « Ulrich ha compreso per tempo che l'epoca in cui vive, dotata di un sapere superiore a ualsiasi altra epoca precedente, di un sapere immenso, semora sere incapace di intervenire nel corso della storia» (I. Bachmann, Il dicibile e l'indicibile, Adelphi, Milano 1998, pp. 21-22). Quello che per tempo fu compreso, per tempo è stato dimenIX.

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ticato. Al punto che nessuno si accorge piu che la storia è senza epoca. Di fatto non accade nulla. Evento non c'è piu. Ci sono solo notizie. Guardare i personaggi al vertice degli imperi. E rovesciare il motto di Spinoza. Niente da comprendere. Solo da piangere, o da ridere. Atene e Gerusalemme guardano incredule all'esito di fine millennio sia dell'antico che del moderno. Fine del comunis~o e cristianesimo della fine, questi due ordini simbolici ancora tutti da interpretare, oscuri giacimenti nelle pieghe della coscienza contemporanea, chiudono essi il tempo: ma - ecco la novità - senza tensioni apocalittiche e nel silenzio dei segni. Il grido disperato di padre Turoldo: >. Conta una data situazione politica, ma conta altrettanto « il potere delle chiavi che un attimo possiede su di una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L'ingresso in questa stanza coincide del tutto con l'azione politica» (ivi). Essenziale è saper riconoscere «il segno di un arresto messianico dell'accadere», ovvero saper cogliere il segno «di una chance rivoluzionaria nella lotta a favore del passato oppresso» (Tesi XVII). Ed anche qui è giusto cosi. Ma che ne è dei tempi senza segni? Quando la storia dorme, la politica deve svegliarla, o addormentarsi accanto ad essa, rinunciando a qualsiasi atto vitale? Anche il cristiano Dossetti ci diceva che la politica è contingenza, è caso, è occasione: non una volta ogni tanto, ma sempre, giorno dopo giorno. Allora la chance rivoluzionaria non si aspetta, si prende, non arriva, c'è già, nel tempo eterogeneo e pieno. La politica può rigenerarsi, può superare il suo c.arattere moderno, solo se si riprende « il potere delle chiavi» in un senso diverso, opposto, a quello che l'ha fatta funzionare come progetto di futuro, implicito nel presente e da esso scaturito. Deve decidere di voler modificare il passato, cambiare tutto ciò che è stato, aprire la stanza chiusa della

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storia, produrre l'attimo in cui ciò che sempre accade si arresta. Non attendere i segni dei tempi, ma crearli. Perché i segni non fanno vedere l'evento, i segni sono l' evento. Dimostrare nella contingenza dell'agire quotidiano che tutto quanto stai legando sulla terra « sarà legato nei cieli>> e tutto quanto stai sciogliendo sulla terra «sarà sciolto nei cieli» (Mt, 16, 19). La fine della politica dei moderni non è la fine della politica, e non è il ritorno alla politica degli antichi. È l'occasione di quel discontinuum nella politica che la situazione data non offre ma che la chance rivoluzionaria può imporre. XIII. Rivoluzione nell'idea di politica: questo è il primo potere delle chiavi che ci viene consegnato dal passato oppresso e da generazioni di sconfitti. Perché rivoluzione come prassi della politica: questo è da mettere sotto gli occhi della critica. Non c'è piu distinzione tra atto rivoluzionario e processo rivoluzionario. Chance non è né l'uno né l'altro. Non c'è piu da chiedersi se soggetto rivoluzionario sia la classe o il partito. L'arresto dell'accadere non avviene per volontà di potenza. Il marxiano « salto dialettico [. .. ] sotto il cielo libero della storia» si è schiantato, le ali spezzate, sopra la terra arida della politica. Il punto di differenza non è piu tra gradualismo riformista e rottura rivoluzionaria. È tra continuità e discontinuità. E come nella continuità non è possibile piu alcuna prassi di riformismo, cosi discontinuità non si identifica piu con rivoluzione. La chance rivoluzionaria non è l'azione rivoluzionaria. È un punto di vista, è un modo dell'essere politico, una forma dell'agire politico, è !'adesso, sempre, del comportamento politico. Di fronte, di contro, alla «reificata continuità della storia», la politica si esercita nella natura a «scatti, intermittente» dell'attualità, dove« tutto ciò che è passato [... ] può ottenere un

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grado di attualità piu alto che al momento della sua esistenza» (vedi il Lemma continuum, Kontinuum in W. Benjamin, Sul concetto cit. pp. 152-55). Tra i materiali di preparazione delle Tesi} perforanti proiettili di pensiero: «La storia degli oppressi è un discontinuum», ovvero « Il continuum è quello degli oppressori». Il concetto di «tradizione degli oppressi>> va visto «come il discontinuum del passato in opposizione alla storia come il continuum degli eventi>>. Ma, ecco: il punto di catastrofe è da collocare nella continuità della storia, come sembra pensare l'ultimo Benjamin, oppure è da coltivare nella discontinuità della politica, come sembra consigliare la fine del secolo? Qui, è l' in-decisione della ricerca, che guarda ai lati estremi del1' orizzonte di problemi, non piu con la speranza di trovare soluzioni, piuttosto con la responsabilità di fuggire dalla malattia del tempo, che consiste nell'essere subalterni a un futuro presente. XIV. Ex praeterito / Praesens prudenter agit / Ni futuru(m?) actionem deturpet (Sulla base del passato / il presente prudentemente agisce/ perché il futuro non rovini l'azione): è l'iscrizione in alto, divisa in tre, secondo una triade di teste d'uomo e d'animale, dell'Allegoria della Prudenza o Allegoria del Tempo governato dalla Prudenza che il vecchio Tiziano esegue tra il I 560 e il I 570. Il lupo del passato, il leone del presente, il muso di cane del futuro. Dice Panof sky che il quadro glorifica la Prudenza come saggia utilizzatrice delle tre Forme del Tempo, associate alle tre Età della Vita. «Tiziano non si è staccato da una tradizione ben consolidata, eccetto per il fatto che la magia del suo pennello ha dato sembianza di realtà palpabile alle due teste centrali (quella dell'uomo all'apice della vita e quella del leone) mentra ha smaterializzato, per cosi dire, le teste poste di profilo ai due lati (quelle del vec-

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chio e del lupo a sinistra e quelle del giovane e del cane a destra): Tiziano ha dato espressione visibile al contrasto tra ciò che è e ciò che è stato o non è ancora cominciato ad essere» (E. Panofsky, Tiziano, Marsilio, Venezia 1992, p. 105; ma vedi anche Il significato delle arti visive, Einaudi, Torino 1962, pp. 147 sgg.). La «prudenza», grande categoria della politica moderna (vedi Filosofia politica, Bologna, il Mulino, n. 2, 1987), ha marcato fortuna e sfortuna novecentesche, e questo a seconda dei casi ha prodotto le conquiste e le tragedie del secolo. È la « Triste scienza>> della dottrina dello Stato al tempo del «sovrano assente» (vedi G. Marramao, Dopo il Leviatano, Giappichelli, Torino 1985, in Melancholia politica I e Il). Il presente deve sapere dal passato che cosa soprattutto non deve accadere nel futuro. Questo è lo scarto che adesso l'attualità ci impone: difendersi dalla forma di futuro che tutti i contenuti del presente stanno costruendo. L' attualità: il Padre Tempo senza l'Epoca Grande, il «liane» senza la , aiuta il vagare, l'errare, l'errore ( ?)

Stampato per conto della Casa editrice Einaudi dalla Caste/grafie s.r.l., Vede/ago (Treviso) nel mese di novembre 1998 C.L. 15116

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Il lungo tramonto dell'occidente porta a compimento la fine della politica moderna. Attraverso il Novecento si leggono i passaggi di questo tragico percorso. Principe e Utopia, realismo e «sogno di una cosa» - i caratteri fondativi insomma del politico nella modernità - oggi non stanno piu insieme. Dietro c'è una storia ampia che passa attraverso le guerre di religione, l lobbes e il Leviatano, la Rivoluzione, grandi individualità e interventi di popolo, forme di partito e strutture di Stato. Ma il moderno si configura storicamente come conflitto e come compromesso tra categorie del politico e leggi dell'economia. E già il rapporto tra politica e nascita, sviluppo, crisi, e poi ancora sviluppo del capitalismo, costituisce di per sé una grande storia. Al centro, soggetto primario, si colloca il movimento operaio che tenta di civilizzare la lotta di classe, e ci riesce, dentro la rivoluzione industriale e dopo, per tutto l'Ottocento. Il colpo di tuono del 1914 cambia il segno dell'epoca inaugurando il Novecento delle guerre: la rivoluzione politica viene imposta dalla storia e condotta al fallimento dentro la gestione violenta del potere. A oriente come a occidente, gli operai hanno legato il loro destino a quello della politica moderna e sono stati sconfitti insieme. Ora il moderno continua per conto suo la corsa: civilizzare la modernizzazione - questo il monito del libro è il compito della politica nel vivo della grande crisi che questa sta attraversando. Mario Tronti (Roma 1931) insegna Filosofia politica all'Università di Siena. Tra i suoi libri: Operai e capitale (Einaudi, 1978 2), Sull'autonomia del politico (Feltrinelli, 1977), Con le spalle al futuro (Editori Riuniti, 1992).

ISBN 88-06-15116-9

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