La pianificazione linguistica. Lingue, società e istituzioni 8843028839, 9788843028832

Una recente legge (482/1999) ha conferito status di lingua ufficiale a numerose varietà linguistiche locali (friulano, s

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La pianificazione linguistica. Lingue, società e istituzioni
 8843028839, 9788843028832

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UNIVERSITÀ

/ 

LINGUISTICA

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore via Sardegna ,  Roma, telefono     , fax     

Visitateci sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it

Vittorio Dell’Aquila Gabriele Iannàccaro

La pianificazione linguistica Lingue, società e istituzioni

Carocci editore

a edizione, febbraio  © copyright  by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Finito di stampare nel febbraio  dalle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino ISBN

---

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art.  della legge  aprile , n. ) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Premessa



.

Pianificazione linguistica e sociolinguistica



.. ..

Ambiti di studio Concetti generali

 

... Lingua/dialetto / ... Comunità linguistica / ... Repertorio / ... Rapporti fra i codici / ... Funzioni del linguaggio / ... Dachsprache

..

Definizioni



.

Lingua e stato



.. ..



.. .. ..

L’ancien régime: la lingua accessoria La “lingua dello stato”: dalla Rivoluzione francese alla caduta del Muro La lingua al servizio dell’ideologia: lo stato socialista La caduta del Muro e le sorti delle lingue La situazione attuale in Europa e in Italia

   

.

Corpus planning



.. .. .. .. .. ..

Introduzione Scelta del codice Scelta dell’alfabeto Ortografia Morfologia e sintassi Lessico

      

.. ..

Standard orale Status, funzione, prestigio

 

.

Status planning



.. .. .. ..

Diritto e diritti Legislazioni linguistiche La scuola Mescolanze di sistemi

   

.

Acquisition planning



.. .. .. .. .. ..

Basi dell’acquisition planning Il Catherine wheel model Perché la pianificazione? Reversing language shift Il plurilinguismo amministrativo Memorandum

     

Appendice. Schede linguistiche dei paesi europei



Rapporti fra i codici I paesi europei

 

Indice dei casi studio



Bibliografia



A.. A..



Premessa

Dagli ultimi anni del XX secolo si assiste in Europa a un sempre crescente interesse verso tematiche di plurilinguismo e pluriculturalismo all’interno delle diverse compagini statali, in ambito scientifico come politico. Molti stati europei hanno in effetti approntato o rivisto le proprie politiche linguistiche negli anni che vanno più o meno dal  ai giorni nostri, e di conseguenza gli stessi anni hanno rappresentato un deciso risveglio di studi e iniziative scientifiche volti a comprendere le situazioni di plurilinguismo. La situazione stessa dell’Italia è attualmente in fermento, per le attività connesse all’approvazione della legge  dicembre , n. , che ha messo in moto, oltre a un’approfondita riflessione in ambiti accademici e amministrativi, una quantità di iniziative pratiche di tutela e promozione linguistica – non tutte, a dire il vero, completamente condivisibili, e qualcuna probabilmente destinata al fallimento. A questo fiorire di attività vuole rispondere il presente manuale, il primo in italiano sull’argomento , che si propone di analizzare, descrivere e sistematizzare ciò che gli ultimi tre decenni hanno portato sul versante della pianificazione linguistica, sul piano scientifico come su quello politico e organizzativo. La pianificazione linguistica, come disciplina strettamente collegata alla sociolinguistica, è il naturale campo di studio di queste problematiche; e proprio la situazione italiana ed europea che si sta creando ha provocato e provocherà più ancora in futuro una forte domanda di specialisti e operatori che sappiano gestire sul terreno le necessità teoriche e pratiche che un tale mutamento dei rapporti fra lingua e comunità impone. Ci sarà insomma bisogno di studiosi che sappiano adeguare dal punto di vista linguistico le varietà che via via verranno riconosciute come oggetto di tutela, perché possano ricoprire le funzioni di lingua scritta, amministrativa e ufficiale cui sono chiamate, ma anche e forse soprattutto di pia. Una trattazione di carattere più eminentemente speculativo è già comparsa a cura degli stessi autori come numero monografico della rivista “Mondo Ladino”: cfr. Iannàccaro, Dell’Aquila ().



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

nificare questo cambiamento rispettando le esigenze concrete dei parlanti e sapendo adattare i frameworks teorici alle singole realtà locali. Sarà in sostanza sempre più necessario formare una classe di laureati che possano lavorare in tal senso nelle pubbliche amministrazioni, in ambito accademico o anche presso centri di ricerca pubblici e privati: d’altra parte, proprio nel nuovo ordinamento universitario le branche applicative della linguistica hanno guadagnato un forte spazio, in termini di materie insegnate e di numero di studenti che le approfondiscono. La pianificazione linguistica è dunque uno dei settori che più possono giovarsi di questo ampliamento: una disciplina nuova per l’Italia, ma che nei prossimi anni (anzi, già da ora) richiede sempre maggiore attenzione, e di conseguenza strumenti operativi e didattici. Le idee e le riflessioni che soggiacciono alla stesura di questo manuale scaturiscono da una duplice origine: da un lato, infatti, sono frutto delle riflessioni teoriche e metodologiche che gli autori, separatamente o in modo congiunto, vanno elaborando da anni intorno ad argomenti di sociolinguistica, geografia linguistica e linguistica percettiva; d’altro canto, però, questo testo nasce dalle esperienze concrete di studio e pianificazione in area alpina, e in particolare – ma non solo – nella Ladinia dolomitica. Quest’ultima realtà, poi, merita di essere segnalata per la particolare qualità e grado di innovatività delle iniziative di pianificazione linguistica che sono messe in atto sul suo territorio, soprattutto grazie all’opera attenta, rigorosa e instancabile del direttore dell’Istitut Cultural Ladin “Majon di Fascegn” Fabio Chiocchetti, al quale esprimiamo la nostra amicizia. Sempre dalla stessa “officina” dolomitica vogliamo ringraziare Veronika Pedevilla per le notizie sulla scuola ladina ed Evelyn Bortolotti e Sabrina Rasom per la parte ladina dei capitoli di morfologia e sintassi. Un ringraziamento particolare va a Fiorenza Lipparini, per la costante e appassionata assistenza logistica e per la revisione del testo. Molti amici e colleghi, italiani ed europei, ci hanno sostenuto, consigliato e variamente aiutato nella realizzazione di questo manuale: a loro va il nostro pensiero, ma solo a noi le manchevolezze e gli errori che vi si dovessero ritrovare. Le traduzioni di testi e citazioni dalle diverse lingue originali (in particolare nell’Appendice) sono, dove non altrimenti specificato, da attribuirsi agli autori.



 Pianificazione linguistica e sociolinguistica

. Ambiti di studio Gli ambiti di studio e di intervento che vanno sotto il nome di pianificazione linguistica configurano una disciplina che si avvale di competenze ed esperienze mutuate da una serie di specializzazioni diverse: prima di studiare o intraprendere una qualunque attività di pianificazione è necessario infatti avere una conoscenza non superficiale di vari aspetti concernenti la comunità della quale ci si occupa, proprio perché, come è evidente, la lingua che si parla è un componente fondamentale della vita dei suoi membri. Ora, la pianificazione linguistica, nella sua applicazione pratica come nella sua riflessione scientifica, è, nelle sue forme migliori, diretta alla facilitazione della vita linguistica del parlante, che naturalmente trova nella lingua, non solo in quanto sistema grammaticale, la sua piena esplicazione. È dunque evidente che chi se ne occupa deve avere conoscenze storiche e sociologiche sulla comunità, così come deve avere una visione della (e possibilmente facoltà di intervento diretto sulla) legislazione vigente; e deve essere cercata e sviluppata la collaborazione attiva di amministratori locali, insegnanti, intellettuali della comunità – per non citare, ma ne vedremo l’importanza fondamentale nei prossimi capitoli, i principali attori, i parlanti. Anche è molto importante la considerazione della vita economica della comunità cui ci si rivolge, delle sue esigenze di sviluppo e di interconnessione con le reti economiche e sociali del territorio. Con tutto ciò, la pianificazione linguistica è e rimane principalmente un lavoro da linguista. È il linguista storico e strutturale che si occupa di studiare la grammatica e il lessico della lingua da pianificare, di confrontare vocabolari, liste lessicali, corpora di testi spontanei; è il sociolinguista che studia l’interrelazione fra le varietà spontanee esistenti sul territorio e quelle già ufficiali, e quelle che forse potrebbero diventare ufficiali; è il linguista percettivo che indaga sulle aspettative e le esi

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

genze della popolazione riguardo al panorama linguistico di quest’ultima. E così via: è principalmente al linguista che tocca l’elaborazione teorica di quella che sarà definita più avanti come Sprachplanungswissenschaft. Questo è dunque l’ambito in cui ci muoviamo: le suggestioni storiche e le specificazioni legislative cui faremo cenno più avanti sono da intendere con lo sguardo e con i limiti del linguista. . Concetti generali Sarà allora necessario richiamare molto succintamente alcune delle nozioni fondamentali della riflessione sociolinguistica e della linguistica percettiva, discipline che saranno maggiormente coinvolte nelle parti seguenti – mentre solo qui e là ci potremo permettere considerazioni e indicazioni relative a concetti di linguistica generale e storica . ... Lingua/dialetto Nel linguaggio comune si intende per dialetto una varietà linguistica poco diffusa, locale e priva o con modesta tradizione scritta. Nel caso dell’italiano, dunque, la lingua letteraria avrebbe poi numerosi dialetti sul suo territorio, che si distinguono più o meno dallo standard nazionale. Inoltre, spesso un dialetto è considerato lingua non scritta, o comunque senza tradizione letteraria, o addirittura (come accade spesso se si fa la domanda in indagini sul campo) “senza la grammatica” o simili. Talvolta, anche, lingua parassita della lingua nazionale. Ora, da un punto di vista strettamente linguistico – se vogliamo, di linguistica “interna” – la distinzione fra il concetto di “dialetto” in opposizione a quello di “lingua” pare abbastanza assurda. I dialetti sono . La riflessione sociolinguistica è da almeno trent’anni particolarmente fiorente in Italia e ha raggiunto livelli di analisi e di elaborazione teorica di grande interesse; inoltre il settore ha ormai sviluppato una ricca manualistica, cui sarà opportuno rifarsi, anche nell’impossibilità di trattare qui l’argomento con la dovuta ampiezza. In particolare gli studenti (ma non solo) di lingua italiana possono rifarsi a Berruto (; recentemente riedito in una nuova veste grafica: cfr. Berruto, ); una recente antologia di brani interessanti è Giannini, Scaglione (). Di contro, molto meno sviluppati sono al momento gli studi di linguistica percettiva, che, anche in ragione del fatto che la disciplina è di nascita recente, e di ancor più recente attenzione in Italia, non ha a disposizione alcuno studio generale o riassuntivo delle esperienze fatte. Una prima informazione su uno dei filoni più importanti può essere trovata in Preston (-), mentre l’unica opera di una certa ampiezza disponibile in italiano è Iannàccaro (a). Per le nozioni fondamentali di linguistica generale e storica cfr. Bynon (); Graffi, Scalise ().



.

PIANIFICAZIONE LINGUISTICA E SOCIOLINGUISTICA

lingue a tutti gli effetti: hanno una fonetica, una grammatica, un lessico e meccanismi semantici; possono esprimere, sia pure in modi diversi, gli stessi concetti delle lingue nazionali. In più, anche solo limitandosi ai dialetti italiani, molti di loro hanno una fiorente tradizione colta e letteraria (si pensi solo a Goldoni, Porta, Belli, Basile, alla lirica siciliana). La stessa definizione di dialetto non è univoca: nella linguistica anglosassone con dialect si intende la varietà locale dell’inglese o le sue variabili sociali; secondo questa accezione, l’italiano che si parla a Napoli è un dialetto, come lo sarebbe la lingua, poniamo, dei pescatori. I cosiddetti “dialetti” cinesi sono in realtà centinaia di varietà di almeno otto lingue assolutamente non intellegibili tra loro, unificate solo dalla scrittura; in compenso, serbo e croato da una parte, hindi e urdu dall’altra sono considerate lingue diverse, pur essendo strutturalmente uguali. La parola “dialetto” è poi utilizzata in senso molto vasto anche all’interno dello stesso dominio: ad esempio, il lombardo è considerato un dialetto, e il ticinese è un dialetto lombardo: anche il ticinese è però a sua volta un dialetto e ha al suo interno altri dialetti – quello di Bellinzona, di Locarno, di Airolo e così via. In particolare per la situazione italiana, bisogna rilevare che quelli che vengono considerati generalmente dialetti italiani non sono dialetti dell’italiano, ma semmai del latino; ossia continuazioni romanze indipendenti del latino parlato nelle varie aree. Si crea così la situazione curiosa per cui la varietà romanza più simile all’italiano è il còrso, che però è sociolinguisticamente considerato una lingua a parte. Dunque i criteri di distinzione fra lingua e dialetto non possono essere di tipo linguistico o strutturale (al limite, si può sostenere che la linguistica non ha nulla da dire sull’argomento); è tuttavia ovvio che, nel parlare comune, nella coscienza dei parlanti, ma anche nella realtà pratica ci sono differenze fra cose denominate lingua e altre cose denominate dialetto. Queste differenze vanno però cercate sul piano sociale e funzionale, non linguistico; bisogna cioè rifarsi a criteri esterni, e principalmente alla posizione politica dei linguaggi presi in considerazione (l’italiano è la lingua ufficiale di uno stato, il milanese no) o alla coscienza del parlante, che determina gli usi linguistici all’interno delle comunità. Le lingue hanno uno status ufficiale che il dialetto non ha (non una letteratura superiore, ricordiamo ancora: la letteratura del dialetto napoletano è – quantitativamente almeno – superiore a quella, poniamo, del prussiano). Le lingue hanno un riconoscimento sociale e nazionale che il dialetto non ha: in qualche modo ha ragione la pur rozza definizione di Chomsky, per cui «una lingua è un dialetto con un esercito e una marina»; con una lingua si possono fare più cose che con un dialetto – condurre un processo penale, ad esempio, o 

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

scrivere un manuale di pianificazione linguistica – ma, anche qui, per tacito accordo fra i parlanti, non per le potenzialità intrinseche. Nulla in effetti vieterebbe, linguisticamente, di scrivere queste cose nel dialetto di Roccaraso, ad esempio, se si trova la giusta terminologia. Ciò significa che le effettive condizioni d’uso da parte dei parlanti, insieme alle loro valutazioni spontanee, sono il solo criterio universalmente valido per stabilire in quale relazione ogni singola varietà linguistica è posta rispetto alle altre e in particolare per distinguere una lingua da un dialetto. Si ha così il caso di parlate per cui lo status è incerto e solo la volontà del gruppo che vi ci si riconosce fa sì che assumano i caratteri della lingua o del dialetto: ad esempio, il catalano è strutturalmente più simile alla lingua ufficiale dello stato in cui questa lingua è parlata (la Spagna e lo spagnolo) di quanto non sia il lombardo rispetto all’italiano; entrambi sono dotati di letteratura e di un grado di raffinatezza linguistica tale da renderli adatti come lingua dell’amministrazione. Il catalano “è” però una lingua, perché tale viene considerata dai suoi parlanti, che hanno posto in atto iniziative legislative e di standardizzazione volte alla sua tutela e promozione. Se ci si pensa bene, dunque, il problema di distinzione fra lingua e dialetto non è che uno degli aspetti di una questione ancora più generale, cioè quella della distinzione fra sistemi linguistici diversi. Insomma, perché il ceco e lo slovacco, o il macedone e il bulgaro (lingue queste praticamente quasi identiche) sono due lingue diverse, mentre il cinese – ricordiamolo, composto da una serie di parlate non mutualmente comprensibili – è una lingua sola? Un buon approccio generale al problema del riconoscimento di varietà linguistiche differenti è l’interessante distinzione, che dobbiamo a Kloss (a) e che ormai è entrata nell’uso scientifico, fra Abstandsprachen o lingue per distanziazione e Ausbausprachen o lingue per elaborazione: le prime comprendono quelle varietà linguistiche che per loro struttura interna si differenziano nettamente da ogni altra (o si distinguono fra loro in coppie ordinate), ad esempio il basco rispetto alle lingue romanze che lo circondano; la seconda definizione si riferisce a quelle lingue che, per ragioni storiche, politiche e culturali, hanno sviluppato un sistema di autoriferimento diverso da quello delle lingue circostanti: esempi possono essere il nederlandese rispetto al tedesco o lo slovacco rispetto al ceco .

. Cfr. almeno Kloss (, a, ); Kloss, McConnell (-); Muljaci|, Haarman (); per una localizzazione in area ladina sono utili Goebl (); Muljaci| ().



.

PIANIFICAZIONE LINGUISTICA E SOCIOLINGUISTICA

Detto questo, però, proprio perché pensiamo che la pianificazione linguistica debba essere rivolta principalmente alla vita linguistica del parlante e rispettarne il più possibile le categorie, di seguito useremo i termini “lingua” e “dialetto” sostanzialmente nel loro senso comune, riservando ad altre definizioni quali varietà, variante o codice le occorrenze in cui è necessario un approccio più specialistico e meno socialmente determinato. ... Comunità linguistica Anche il concetto di comunità linguistica è estremamente dibattuto, per lo più in ambito specialistico, e anzi la sua definizione esatta è uno dei problemi più interessanti della riflessione sociolinguistica attuale . Considerando la vasta letteratura esistente sull’argomento, emerge che la riflessione scientifica sul concetto di comunità linguistica si è principalmente incanalata intorno a quattro tipologie principali, delle quali la seconda e la terza hanno numerosi punti di sovrapposizione. . Un primo gruppo comprende quelle in cui viene dato per presupposto il concetto di “lingua”, a sua volta non preventivamente definito; prototipo può essere considerata la definizione di Lyons (, p. ) che identifica come comunità linguistica «tutte le persone che usano una data lingua o dialetto». . Un secondo gruppo si può considerare più aperto a istanze di tipo sociale, di cui considera la complessità dell’uso effettivo prendendo in considerazione il valore sociale delle diverse varietà linguistiche; un rappresentante importante di questo filone è la definizione di Gumperz (, trad. it. p. ), per la quale «con comunità linguistica si intende ogni aggregato umano caratterizzato da un’interazione regolare e frequente per mezzo di un insieme condiviso di segni verbali e distinto da altri aggregati simili a causa di differenze significative nell’uso del linguaggio». . Il terzo filone considera in più la percezione che il parlante ha di far parte o di differenziarsi da uno specifico gruppo. Il suo punto di partenza epistemologico può essere considerato l’osservazione sul concetto di “lingua” di Weinreich (): «Per poter decidere in modo aderente alla realtà quale sia una nuova lingua, si devono prendere in considerazione gli atteggiamenti dei parlanti». Uno studio della pianificazione linguistica che voglia tenere presenti le istanze dei parlanti nei

. Per una presentazione critica della discussione cfr. Berruto (); Madera (); Iannàccaro (b); Iannàccaro, Dell’Aquila ().



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

confronti del loro proprio linguaggio dovrà basarsi, riteniamo, in particolare su definizioni appartenenti a questo filone. Fra le altre sembrano particolarmente centrate la formulazione di Fishman (): «le comunità linguistiche non sono definite come comunità di persone che “parlano la stessa lingua” [...], ma piuttosto da comunità tenute insieme dalla densità degli scambi comunicativi e/o dall’integrazione simbolica riguardo alla competenza comunicativa» – che fa addirittura del rapporto fra il parlante e la sua lingua il cardine della definizione – e quella di Labov (), per cui la comunità linguistica è formata da «un gruppo di parlanti che condivide un insieme di atteggiamenti sociali riguardo alla lingua». Labov compie cioè il passo successivo e fa della percezione del parlante e dell’accettazione della propria identità linguistica il punto fondamentale dell’esistenza stessa di aggregati basati sulla lingua. Le sue riflessioni continuano infatti con la considerazione per cui «a New York, gli individui che hanno trascorso i loro anni formativi lontano dalla città non mostrano nessuno dei modelli regolari di reazione soggettiva caratteristici dei nativi». Dunque, il parlare la stessa lingua non è di per sé sufficiente per far parte di una comunità linguistica: a giocare un ruolo fondamentale sono gli atteggiamenti, le reazioni soggettive di fronte agli eventi linguistici, la coscienza dei parlanti di condividere uno stesso codice comunicativo che li opponga a “quelli di fuori”. . Infine, altri studiosi negano esplicitamente l’esistenza della comunità linguistica: in particolare occorre citare Hudson (, p. ), per cui «può darsi che non esistano comunità linguistiche nella società se non come prototipi nella mente della gente: in questo caso la ricerca della vera definizione di comunità linguistica è completamente priva di senso». Hudson è nel suo approccio generale molto atomistico, e tuttavia vede a fondo nel problema: pur non riconoscendo una categoria epistemologica comunità linguistica, ne ammette tuttavia l’esistenza come oggetto di pensiero collocato nella sensibilità linguistica e identitaria del parlante – la comunità linguistica è allora la proiezione di tutte le istanze di identificazione simbolica che i singoli parlanti hanno nei confronti di un insieme di varietà. Vedremo tra poco il problema dell’identificazione simbolica del parlante con la sua lingua: per il momento, a fini operativi considereremo utile per proseguire lo studio della pianificazione linguistica un’interpretazione lasca della definizione di Berruto (, p. ): Una comunità linguistica è formata da tutti i parlanti che considerano se stessi utenti di una stessa lingua, che svolgono regolari interazioni attraverso un repertorio condiviso di segni linguistici e che hanno in comune una serie di va-



.

PIANIFICAZIONE LINGUISTICA E SOCIOLINGUISTICA

lori normativi riguardo al linguaggio: essa può coincidere o intersecarsi con, o includere, o essere inclusa in una comunità sociale.

Come è dunque evidente, non sono sufficienti le definizioni che si limitano a considerare parlanti e territorio, o parlanti e gruppo. Invece, largo spazio deve essere lasciato alle considerazioni di uso del linguaggio, e delle norme condivise all’interno della comunità riguardo al linguaggio, e alla volontà dei membri di far parte di una medesima comunità linguistica (dunque parallelamente si parla della volontà dei parlanti di considerare lingua la varietà che parlano). In sostanza, la determinazione dell’appartenenza a una comunità linguistica sembra basata su fattori storici, sociali e psicoculturali, e non solo su conoscenze o abilità linguistiche. Quello dunque che distingue i membri di una comunità linguistica da coloro che non ne sono membri è precisamente il fatto che i primi condividono una certa misura di informazioni linguistiche e sociali e inoltre modalità simili di valutazione e interpretazione di comportamenti comunicativi, così come un senso di identità verso la lingua come simbolo della loro appartenenza al gruppo. ... Repertorio Per chiarire il concetto di repertorio linguistico ci si può rifare alla definizione di Berruto (, p. ), per cui esso è «l’insieme delle risorse linguistiche possedute dai membri di una comunità linguistica, vale a dire la somma di varietà di una lingua o di più lingue impiegate presso una certa comunità sociale». Parallelamente a quanto si può dire per la comunità linguistica, il repertorio, però, non è solo la somma algebrica delle varietà, ma comprende i rapporti fra esse, la loro gerarchia e le norme di utilizzazione, oltre alle funzioni riconosciute dai parlanti alle varietà. Gumperz  definisce il repertorio linguistico di una comunità come «tutte le varietà, livelli o stili usati da una popolazione definibile socialmente, e le regole che governano la scelta fra esse». Come estensione del concetto di repertorio si può parlare anche di repertorio linguistico individuale, ovvero la somma delle varietà accessibili da un individuo con le sue personali interpretazioni delle norme di utilizzo. Questa è sempre una porzione del repertorio comunitario, perché nessun parlante (se non specialista) possiede tutte le varietà teoricamente possibili nella sua comunità linguistica. È importante mettere l’accento sulle “istruzioni per l’uso” comunitarie degli elementi del repertorio (che sono definiti varietà o codici): in. Citato in Saville-Troike (), p. .



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

fatti la sola presenza delle stesse varietà all’interno di una comunità linguistica non è sufficiente per caratterizzarle come tali. Un buon esempio può essere la distinzione di livelli d’uso tra tedesco letterario e dialetti alemannici a cavallo del confine tra Germania e Svizzera. Il repertorio linguistico comunitario di Basilea (come del resto di tutta la Svizzera tedesca) comprende, oltre al tedesco letterario, usato fondamentalmente come lingua scritta, il dialetto alemannico, detto Schwyzertütsch (ossia svizzero tedesco), a cui sono riservati gli usi orali della lingua; non c’è contraddizione né contrasto fra i due codici, ognuno ha il suo ambito ben preciso: l’impiegato alla posta vi parlerà in Schwyzertütsch e vi consegnerà un modulo stampato in tedesco. Anche appena al di là del confine, però, ad esempio a Lörrach, “sobborgo” germanico di Basilea, si parla una varietà alemannica praticamente uguale allo Schwyzertütsch di Basilea, accanto al tedesco standard come lingua scritta, alta, formale. Tuttavia, rispetto a Basilea, a Lörrach la varietà alemannica ha uno status “più dialettale”: non sta bene parlarlo in occasioni formali. Così, pur parlando a casa la varietà parlata praticamente uguale allo Schwyzertütsch, l’impiegato alla posta vi parlerà in tedesco. Allora, le due comunità sono tenute distinte non tanto dalla presenza delle due varietà (che sono le stesse per entrambe), ma dall’uso che di queste varietà si fa. ... Rapporti fra i codici È dunque importante gettare uno sguardo sui tipi di rapporto che intercorrono tra due o più codici che si dividono lo stesso territorio. Intenderemo dunque con diglossia (termine entrato nell’uso linguistico dopo l’omonimo articolo di Ferguson, ) la situazione sociolinguistica in cui siano presenti nella stessa comunità almeno due codici la cui distribuzione funzionale sia rigorosamente delimitata in una varietà alta (H o Lh o acroletto) cui sono demandati i compiti di lingua prestigiosa – in genere è la lingua che si usa per lo scritto e per i rapporti formali – e una varietà bassa (L o Ll o basiletto) usata nei rapporti spontanei interpersonali, fondamentalmente orale. Con dilalia  intendiamo invece una situazione, in verità molto più frequente e tipica, ad esempio, della realtà italiana, in cui la varietà alta può essere usata in tutti gli ambiti, formali e informali, mentre la Ll è riservata esclusivamente a usi orali e familiari accanto alla Lh. Una situazione tipica di diglossia si ha fra Hochdeutsch e Schwyzertütsch nella Svizzera tedesca, mentre appunto la maggior par. Termine introdotto da Berruto (). Cfr. anche Berruto (), pp. -.



.

PIANIFICAZIONE LINGUISTICA E SOCIOLINGUISTICA

te delle situazioni italiane di lingua cum dialectis è definibile come dilalia. La dizione bilinguismo, al contrario, sarà riservata a quelle situazioni in cui la compresenza di più lingue non assume valori sociofunzionalmente differenziati. L’ultima parte del manuale sarà dedicata a una schematica disamina delle situazioni sociolinguistiche e di politica linguistica in tutti i paesi europei. Per la descrizione dei repertori dei diversi paesi verranno introdotte a complemento delle categorie cui abbiamo accennato qui: in particolare, sarà necessario specificare ulteriormente alcune di queste categorie al fine di meglio descrivere le realtà che presentiamo. ... Funzioni del linguaggio Chiaramente le varietà non assumono lo stesso valore ideologico nella concezione del parlante, e in particolare bisogna distinguere fra un approccio alla lingua che consideri esclusivamente il punto di vista esterno e funzionale e uno in cui entrano meccanismi di identificazione e di commistione ideologica tra la comunità parlante e la propria lingua. In quest’ottica, nella correlazione (non scontata) lingua ~ identità è importante la distinzione fra funzioni simboliche e funzioni comunicative del linguaggio, distinzione trattata fra gli altri in modo assai acuto da Edwards (). La funzione comunicativa è quella che permette alla lingua di servire come veicolo per lo scambio di informazioni fra le persone: è la funzione pratica, immanente del linguaggio. Di contro, non si può negare che – come ama ripetere la linguista Suzanne Romaine, che si è molto occupata di lingue creole – we are what we speak, noi siamo quello che parliamo: la funzione simbolica è appunto quella che trasferisce al linguaggio i simboli di identità e separatezza personale e del gruppo. Quando queste due funzioni coincidono, come nella maggioranza dei casi, non si creano nel parlante frizioni fra uso linguistico e coscienza linguistica (un abitante di Oxford usa l’inglese e si sente ideologicamente legato a una tale lingua); talora però, e particolarmente nelle situazioni di minoranza linguistica o di forte contrapposizione identitaria con i propri vicini, i valori comunicativo e simbolico possono divergere ed essere appoggiati a lingue diverse, o percepite come diverse (un abitante di Dublino usa l’inglese, ma si sente ideologicamente legato alla lingua irlandese, anche se spesso la conosce a malapena). Sul piano del valore simbolico allora – che evidentemente è quello che conta per la costruzione dell’identità personale e di gruppo – il fatto di possedere (anche perfettamente) diversi codici linguistici non implica che questi siano portatori di particolari valenze identitarie o che autorizzino o incoraggi

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

no la collocazione del parlante all’interno di una particolare comunità linguistica. In quest’ottica consideriamo produttivo, e particolarmente adatto a una considerazione dei rapporti tra lingua e individuo da un lato, e lingua e stato dall’altro, distinguere tra sentimenti di identificazione linguistica che possiamo chiamare primari e che sono legati, riteniamo, alla propria (micro)varietà di prima socializzazione (ad esempio il dialetto locale o la lingua del particolare milieu sociale nel quale si è cresciuti da bambini, o, al limite, la lingua o le lingue di famiglia, con le sue specificazioni di “lessico familiare” ), e sentimenti di identificazione secondaria, in genere indotti dalla scuola, o comunque dall’educazione o dall’ambiente sociale, sentimenti questi che tendono a essere legati alle lingue nazionali . Riteniamo, anche se ciò non potrà essere discusso in questa sede, che le due identificazioni non siano, nella storia linguistica normale di ciascuno, in particolare contrapposizione; possono semplicemente essere attivate alternativamente a seconda della situazione o del contesto. In particolare, mentre l’identificazione primaria è in genere molto stabile, cioè legata sempre alla stessa varietà, l’altra può variare nel corso della vita di un individuo a seconda delle situazioni ideologiche e sociopolitiche nelle quali il parlante si trova a essere immerso.  Nuove lingue? Il sondaggio friulano CASO STUDIO

Un esempio interessante di questo rapido mutare dell’identificazione secondaria è offerto dalle dichiarazioni rispetto alla propria lingua dei residenti nella regione autonoma Friuli-Venezia Giulia così come emergono dalle rilevazioni dell’ISTAT del  (ISTAT, , p. ) e del  (ISTAT, , p. ). Alla fine degli anni ottanta, alla domanda riguardante la lingua o il dialetto parlati in famiglia, le risposte si distribuivano nel seguente modo: solo o prevalentemente italiano ,%, italiano o dialetto %, solo o prevalentemente dialetto ,%, altra lingua ,% (percentuale corrispondente a circa . persone). Già nel , meno di vent’anni dopo, le percentuali risultavano così ripartite: solo o prevalentemente italiano ,%, italiano o dialetto ,%, solo o prevalentemente dialetto ,% (– ,%), altra lingua ,% (corrispondenti a circa . persone, con una differenza di + ,%). È evidente che, nonostante il sicuro calo della dialettofonia, in parallelo con le altre regioni italiane, non è presumibile che una persona su cinque fra quelle abitanti nella regione abbia cambiato così radicalmente le proprie abi. Per un caso emblematico cfr. Traini (-). . O, nei casi di minoranze particolarmente forti o vivaci, alle lingue loro corrispondenti.

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tudini linguistiche in vent’anni; a questo si aggiunge la perplessità su quale sia questa nuova lingua apparsa così prepotentemente alla fine del secolo XX. Si tratta allora chiaramente di un riorientamento della popolazione rispetto all’identificazione secondaria: le varietà romanze del Friuli, per motivi di carattere sociopolitico, sono toccate da un movimento di risistematizzazione sociolinguistica che le sta portando dallo status di “dialetti dell’italiano” a quello di “(dialetti del) friulano”. Presumibilmente il friulanofono che ha risposto a questa domanda continua a basare la sua identificazione primaria sulla varietà territoriale della propria microcomunità (comune, frazione, villaggio); ma mentre nel  si identificava secondariamente con l’italiano, ecco che nel  è possibile per lui l’identificazione con un generico “friulano”, che viene ora percepito come lingua altra . . Nel totale delle risposte «altro» sono da contare anche gli slovenofoni, la cui coscienza linguistica può aver subito una parallela modificazione.

... Dachsprache A fini operativi, e per la sua utilità specifica negli studi di pianificazione linguistica, è opportuno ricordare anche il concetto di Dachsprache, o lingua tetto , che indica una lingua usata in forma innanzitutto scritta (ma anche orale) dotata di un prestigio sociale superiore a quello dei dialetti parlati in una regione data. Si distinguono tetti omogenetici (come ad esempio la lingua italiana standard al di sopra dei dialetti lombardo, toscano, umbro) e tetti eterogenetici (come la lingua francese standard come tetto principale dei dialetti germanici dell’Alsazia e della Lorena). La pratica corrente di una lingua tetto presuppone l’esistenza di un sistema scolastico atto a garantirne l’insegnamento e l’alfabetizzazione generale dei locutori (Goebl, , p. ).

. Definizioni Dal punto di vista della collocazione scientifica, la riflessione linguistica sul language planning si pone, a nostro avviso, come sottodisciplina della sociologia del linguaggio, della sociolinguistica e della linguistica di contatto ; anzi, vorremmo suggerire che lo spazio epistemologico di ricerca sul language planning si colloca, come speriamo risulterà condivi. Cfr. Kloss (); Goebl (); Muljaci| (); Muljaci|, Haarman (). Per una recentissima rivisitazione critica cfr. Berruto (). . Per queste tre definizioni cfr. Berruto (), pp. -.

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sibile lungo la trattazione, sullo studio dei rapporti fra la situazione linguistica di una lingua e la sua situazione sociolinguistica: o meglio, sul crinale del confine, delle dissimmetrie di questo rapporto. Per quanto riguarda la sua articolazione interna, la tradizione scientifica distingue le riflessioni teoriche e metodologiche che riguardano la pianificazione linguistica dalle azioni politiche o legislative realmente intraprese per incentivare l’uso di una determinata lingua: sembrano particolarmente adeguate per individuare questi due ambiti le definizioni tedesche di Sprachplanungswissenschaft e di Sprachplanung, mentre meno centrata ci pare la terminologia inglese, che distingue tra language policy e language politics . Per i due termini inglesi la differenza è anche di grado: mentre con Sprachplanungswissenschaft si intende propriamente lo studio scientifico della pianificazione linguistica, l’espressione language policy, accanto allo studio scientifico, sta a indicare i presupposti ideologici e politici che stanno alla base di una determinata politica linguistica realmente attuata. Sulla base del francese politique linguistique e planification linguistique, anche l’italiano distingue un ambito generale di politica linguistica dalle iniziative concrete di pianificazione linguistica; in realtà, l’espressione “politica linguistica” comprende un’amplissima gamma di realtà e attività tenute insieme generalmente dall’attenzione consapevole rivolta al linguaggio e alla sua presa sulla società. Paradossalmente, la politica linguistica non è ambito di lavoro del linguista: è politica linguistica l’articolo sul quotidiano del pubblicista sulle tendenze del linguaggio giovanile, ad esempio, o la scelta consapevole degli operatori pubblicitari di usare alcuni termini e non altri, è politica linguistica l’atteggiamento di volta in volta purista o esterofilo dell’opinione pubblica; è soprattutto politica linguistica l’intervento diretto delle istituzioni nella vita linguistica del paese. D’altro canto, l’espressione “pianificazione linguistica”, che è l’ambito di studi del presente manuale e che corrisponde alla denominazione inglese language planning, configura l’attività prettamente linguistica di studio e intervento sulle realtà sociali plurilingui. Queste definizioni sono però in qualche modo limitanti, perché, pur permettendo di distinguere chi prende la decisione politica dal tecnico che la applica, non consentono di individuare le azioni di singoli o gruppi non istituzionali sulle lingue; Calvet (, p. ) introduce quindi il concetto di interventions sur les situations langagière: «con intervento sulle situazioni linguistiche si intende ogni comportamento o pratica co. Per altre definizioni cfr. anche Coulmas (); Labrie (); Calvet ().

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sciente che tenda a cambiare sia la forma delle lingue sia l’articolazione tra le lingue e i rapporti sociali». È anche opportuno distinguere fra gradi e livelli diversi, per così dire, di pianificazione linguistica: la riflessione anglosassone distingue allora fra language revival (“revival di lingua”), riferendosi all’insieme dei provvedimenti che si prendono per riportare in uso una lingua che non risulta più (estensivamente) parlata , e language revitalisation (“rivitalizzazione di lingua”), che indica invece il tentativo di incrementare lo status e aggiungere nuove funzioni a una lingua minacciata, con lo scopo finale di incrementarne l’uso e aumentarne il numero di utilizzatori . Il concetto di language reversal (più propriamente, reversing language shift, “inversione della deriva di una lingua”) sembra per certi versi comprendere le due accezioni precedenti e si deve a Joshua Fishman (cfr. più ampiamente infra, PAR. .). Le operazioni di reversing language shift sono quelle messe in atto dalla comunità (o da altri in favore della comunità) per supporto e assistenza a lingue la cui continuità intergenerazionale procede negativamente con progressiva riduzione degli usi e dei parlanti . Infine, un’altra definizione interessante può essere quella di language renewal (“rinnovamento del linguaggio”), intesa come il tentativo di assicurare che almeno alcuni membri di un gruppo la cui lingua tradizionale presenta un numero gradualmente decrescente di parlanti continui a usare la lingua promuovendone l’apprendimento da parte di altri membri del gruppo. Si usa denominare allo stesso modo l’insieme di azioni concepito per rimuovere le barriere che si oppongono all’espressione corrente in una data lingua e orientato a promuovere, stabilizzare ed espandere la conoscenza e l’uso di capacità linguistiche all’interno come all’esterno di un contesto comunitario. Sul piano operativo, la pianificazione linguistica può essere avvicinata rifacendosi a una distinzione, ormai entrata nel novero delle nozioni accettate, fra corpus planning e status planning: con la prima espressione si intende il lavoro sulla lingua in quanto tale, ossia la codificazione ortografica, fonetica, morfologica, sintattica, lessicale che . In effetti, come vedremo, ci sono tentativi di riportare in uso lingue completamente estinte. Per il concetto cfr. Dorian (); in un’altra definizione: «The act of reviving a language that was no longer used by any native speakers» (Paulston, Chen, Connerty, , p. ). . Per i concetti di status, funzione e prestigio cfr. infra, PAR. .. . Fishman stesso definisce il language reversal come «assistance to speech communities whose native languages are threatened because their intergenerational continuity is proceeding negatively with fewer and fewer users or uses every generation» (Fishman, , p. ).

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può parere necessario applicare a una lingua perché possa acquisire i mezzi che le consentano di far fronte alle funzioni cui è destinata; con status planning ci si riferisce invece all’insieme dell’apparato normativo e legislativo che assicura il supporto alla lingua, così come a tutte quelle operazioni di promozione sociale volte ad aumentare o a consolidare il prestigio della lingua. Ci riferiremo a queste ultime operazioni in particolare con la denominazione di acquisition planning; tuttavia, tale concetto è più complesso di quanto qui non possa apparire, e variamente intrecciato, nella riflessione teorica e nei suoi momenti applicativi, alle operazioni di corpus e status planning. Verrà dunque introdotto più avanti, così come dovremo per il momento dare per risolte alcune questioni, peraltro fondamentali, che riguardano l’intera impostazione dell’operazione di pianificazione linguistica, i suoi scopi ultimi e le fasi attraverso le quali questi scopi possono essere raggiunti (cfr. in dettaglio infra, CAP. ); ora, invece, dopo una disamina di tipo storico partiremo con una breve presentazione delle normali attività di corpus planning e status planning. Il processo di pianificazione linguistica interviene sui normali rapporti fra lingue e società in un certo senso come un laboratorio: ossia, le attività di planning tentano di accelerare o ritardare, o comunque di modificare in spazi e tempi circoscritti, processi sociolinguistici che potrebbero comunque avvenire, anche se forse non con le medesime modalità, anche “in natura”; in questo senso, è interessante la visione di Calvet (), che riconosce due tipi di conduzione delle situazioni linguistiche, uno definito in vivo e l’altro in vitro. Il primo concerne il modo in cui i parlanti risolvono in maniera “naturale” i problemi della comunicazione in generale e di contatto linguistico in particolare: per quanto riguarda il corpus planning, si tratta degli adattamenti naturali della lingua (in termini soprattutto lessicali e sintattici) alle esigenze della società che cambia – e ciò si verifica attraverso calchi, prestiti ed eventualmente tipi diversi di grammaticalizzazione; per lo status planning e i connessi problemi di multilinguismo, invece, si tratta dell’incremento o della riduzione degli ambiti d’uso dei codici in contatto. Questo è il procedimento in vivo. Laddove la Sprachplanungswissenschaft studia, descrive e analizza questi stessi fenomeni in vitro, proponendo delle metodologie atte a intervenire nel senso desiderato dalle comunità e con queste compatibile, è poi compito degli amministratori trasferire queste proposte “da laboratorio” nelle reali situazioni comunicative. Questi due approcci sono estremamente differenti, e i loro rapporti possono addirittura essere conflittuali, in particolare quando le scelte in vitro si rivelano

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contrarie alla normale conduzione in vivo o ai sentimenti linguistici dei parlanti. Sarà per esempio difficile imporre ad un popolo una lingua nazionale che questo non vuole o che ritiene non essere una lingua, bensì un dialetto. [...] La politica linguistica si confronta dunque contemporaneamente con i problemi della coerenza fra gli obiettivi che l’amministrazione si è proposta e le soluzioni intuitive che la popolazione ha spesso messo in pratica e con il problema di un certo controllo democratico tale per cui al pianificatore non sia lasciata una facoltà assoluta di decisione .

. Calvet (), pp. -.

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 Lingua e stato Se avete due religioni in patria si scanneranno a vicenda: se ne avete trenta vivranno in pace. Guardate il Gran Turco, l’imperatore ottomano: egli governa guebri, baniani, cristiani, greci, nestoriani, romani, ebrei [...] e tutti vivono nella calma. Voltaire

La considerazione che chiude il CAP.  ci dà l’occasione di iniziare qualche riflessione che sarà utile tenere a mente trattando di pianificazione linguistica. Proprio il fatto che siano oggi istituzioni territoriali (stato, regioni, enti pubblici) a occuparsi della questione linguistica indica che la lingua è una componente attualmente essenziale dell’identità e della coesione statale: lo è talmente da far sembrare naturale e quasi necessaria l’equazione stato ~ lingua ~ (etnia). Di fatto, le “nazioni” europee (e, ancora più insensatamente, anche molte asiatiche e africane) si reggono su questo principio, tanto che dove ciò non succede si parla di eccezione . Ma anche a livello locale l’equazione mantiene una sua validità: comunità parlanti lingue meno diffuse si richiamano quasi tutte a una “nazione” da difendere e promuovere (la nazione basca, la nazione rutena o addirittura la “nazione padana” e via dicendo). Tuttavia, l’importanza della lingua come fattore di coesione sociale e di legittimazione statale ha una verità non universale, ma piuttosto di tipo storico: e la lingua si è sovrapposta in questi compiti a funzioni simboliche che prima erano agganciate ad altri marcatori sociali e identitari. È allora necessario vedere brevemente il ruolo che la lingua ha giocato come fattore di coesione e legittimazione statale in alcuni tipi di società storiche. Accanto alla discussione teorica saranno di volta in volta presentati esempi di paesi europei attualmente caratterizzati, pur nelle differenze dovute a contesti storici diversi, dal rapporto fra lingua e stato che abbiamo appena esemplificato. . L’ancien régime: la lingua accessoria Nella struttura dello stato medievale europeo il marcatore sociale più importante, oltre che il principio di legittimazione da cui deriva il potere statale, è la religione. In uno slogan: religio instrumentum regni. Il re è . Cfr. per l’argomento Hobsbawm, Ranger (); Hobsbawm (); Michel (); Hermet (); Gasparri ().

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tale “per grazia di Dio” e (almeno formalmente) in suo nome esercita il potere, spesso attraverso la mediazione della Chiesa : la coesione interna dello stato è garantita dal riconoscimento appunto della legittimazione divina del potere, e non da consenso fra i sudditi o da coerenza geografica o etnica delle frontiere; le regole di comportamento religioso e morale, eventualmente variabili da stato a stato e da periodo a periodo, corrispondono a quelle dello stato. In tale situazione, ovviamente, non si pone alcuna questione di omologazione o non omologazione linguistica, così come di lingua ufficiale in senso moderno: l’unica attenzione tributata al linguaggio (beninteso al di fuori del campo latamente letterario) è quella verso il linguaggio delle corti e dei tribunali . Questo è scritto, codificato ed è la maggior parte delle volte mediato dalla lingua della religione – in Europa fondamentalmente il latino –, dal momento che nelle corti e nelle cerchie reali o imperiali sono parlati numerosi idiomi diversi, in genere su base paritaria; lo stesso sovrano spesso non parla le lingue presenti nei territori su cui regna, e neppure quelle delle località dove la corte risiede. Non esiste una struttura scolastica centrale e le unità territoriali non si basano sull’istruzione dei sudditi per mantenere il consenso: le poche scuole servono a preparare chierici ed eventualmente amministratori; in tali scuole viene presa in considerazione solo una gramatica, quella latina dei testi sacri , che, insegnata come seconda lingua di comunicazione dotta interculturale, è prevalentemente scritta. Tuttavia, le lingue in uso fra insegnanti e allievi sono assai varie: la società medievale è infatti una società fortemente plurilingue – organizzata in gradi diversi di diglossia – e multietnica, in cui la differenza etnico-linguistica è meno importante in quanto causa di conflitto della differenza religiosa (o, in rari ma notevoli casi, di quella socioeconomica). Lo «stato premoderno»  si trova dunque, appunto per l’implicita negazione del problema linguistico, in una condizione di multilinguismo societario naturale: non essendo previste per scopi amministrativi o come marcatori identitari (un tale compito è affidato alla lealtà al re, o a Dio, o a un santo etnico particolare), tutte le lingue parlate sono in certo senso . E infatti anche nel caso di conflitto tra stato e Chiesa, questo conflitto è fondante dello stato: cfr. le numerose investiture antipapali che percorsero il Medioevo, così come episodi quali il grande scisma o la costruzione della Chiesa gallicana e via dicendo. . In verità, parlare di “amministrazione” in periodo premoderno è quantomeno fuorviante, perché la struttura interna dello stato era molto differente: il concetto di amministrazione territoriale è uno dei derivati della Rivoluzione francese. . Ossia sacri dal punto di vista religioso così come culturale: in questo senso Virgilio e Donato sono sacri quanto Girolamo o Agostino. . Ritter (); Hinrichs ().

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“buone” ai fini comunicativi. È assai diffuso un certo grado di plurilinguismo personale, indispensabile in tutti gli strati, anche bassi, della società per mantenere contatti al di fuori della propria ristretta cerchia geografica o sociale: ma dal momento che nessuna lingua parlata è intrinsecamente migliore o più importante delle altre (una tale scala ha valore dal punto di vista economico e letterario, ma ciò non conta per il nostro discorso), tutti gli idiomi possono essere parlati stentatamente, scorrettamente, “male”, essendo fondamentalmente strumenti tecnici per garantire l’intercomprensione – anche qui tralasciando gli usi artistici. Beninteso, il valore simbolico del linguaggio esiste comunque nel campo sociale, ossia il linguaggio è anche nelle società dell’ancien régime un marcatore di provenienza e classe: quello che qui importa, però, è che l’usare una varietà o un’altra è del tutto indifferente nei confronti del rapporto con lo stato. Il plurilinguismo spontaneo cui si accennava produce così una quantità di semiparlanti, i cui vari e mescolati patois non sono sanzionati. La diffusione linguistica e il cambio linguistico avvengono allora per pressioni di tipo pragmatico, economico, e le popolazioni mantengono i propri marcatori identitari attraverso il cambio di idiomi, trasferendoli da una lingua a un altra . . La “lingua dello stato”: dalla Rivoluzione francese alla caduta del Muro . Il moderno senso di appartenenza a un gruppo statale attraverso la lingua è uno dei risultati del crollo di questo sistema ideologico e della conseguente diversa legittimazione del potere statale. L’illuminismo prima e la Rivoluzione francese poi sanciscono il principio dell’esistenza di diritti che gli uomini detengono in virtù della loro appartenenza alla specie homo; fra questi, il diritto alla propria confessione religiosa, che diventa pertanto un fatto personale e non sociale. La “nazione” si sostituisce allora alle altre varie e disparate entità governative, incentrate sulla persona del sovrano e sulla sua investitura divina, e la nazione ha bisogno di collanti nuovi, di diverse legittimazioni . Una di queste è la lingua comune: i nuovi cittadini devono credere nella nazione, che esiste e ha questi confini e caratteristiche non più perché così è piaciuto a Dio, ma perché riunisce persone che condivido-

. Per quest’ultima dinamica cfr. Edwards (); Poppi (, ); Lamuela (). . Cfr. anche Michel (); Hermet ().

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no la stessa storia, la stessa collocazione geopolitica e le stessa lingua. Anzi, per tutto il corso del XIX secolo, per conseguenza diretta delle idee romantiche, la lingua – in quanto collante delle nazioni, delle comunioni di uomini, delle “etnie”  – diventa fattore sempre più importante e in ultimo prevalente. Nazioni diverse sono quelle in cui si parlano lingue diverse, i diversi parlano lingue diverse: la lingua è il simbolo della nazione. Ora, la lingua, che è alla base di questa complessa costruzione, ha bisogno di uno standard, espressione dell’unità nazionale: lo standard ha le sue regole (le sue “leggi” come lo stato ha le proprie , e la standardizzazione linguistica, fondamentale per l’aspetto economico e legislativo della vita dello stato moderno, diventa momento essenziale della nascita e della fondazione dello stato. Da qui l’urgenza di riforme ortografiche, grammaticali, lessicali che pervade l’Europa nel XIX secolo; urgenza sentita in particolare dagli Stati di recente formazione o, cosa ancora più interessante, dalle comunità che ora cominciano a definirsi “nazionali”, pur essendo comprese entro confini di formazioni politiche plurietniche : segno che ormai l’aspetto linguistico viene percepito come collante fondamentale della comunità, tanto da dover essere affrontato e risolto ancora prima che questa raggiunga un riconoscimento internazionale. Fra le tante varietà normalmente presenti all’interno di un erigendo stato nazionale, quella scelta per diventare lo standard deve potersi imporre per motivi di prestigio economico, sociale o letterario: dunque è spesso la lingua della borghesia della capitale o della corte, o il linguaggio letterario tradizionale, che in questo caso deve sottoporsi a un processo di attualizzazione e di adattamento alle nuove funzioni amministrative e commerciali che è chiamato a ricoprire. Si pone così il problema di come radicare nella popolazione questi nuovi strumenti di legittimazione statale, e in special modo la lingua, mezzo della penetrazione di tutti gli altri per suo tramite. La risposta è trovata nella scuola , che diventa istituzione centrale, capillare e obbligatoria; a scuola, attraverso la lingua si forma il buon cittadino, quello che riconosce “naturalmente” i nuovi simboli su cui si basa l’esistenza dello stato. La scuola è allora la fucina di una lingua nazionale, uguale . Il termine etnia (ethnie) è stato coniato da Vacher de Lapouge nel , ma il suo uso corrente non è anteriore alla fine della seconda guerra mondiale. Per una breve storia della diffusione del termine cfr. Becquet (); Breton (). . Tanto è vero che secondo l’opinione di molti informatori di inchieste linguistiche sul terreno «le dialecte n’a pas de grammaire» (Chaurand, ; Léonard, ). . Ci riferiamo ad esempio ai cechi, ai polacchi, agli irlandesi, ai croati e così via. . Assieme alla leva obbligatoria (almeno per molti strati della popolazione).

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per tutti: di una lingua ufficiale, di una lingua “corretta”. È dunque in questo stadio che nasce, al di fuori delle accademie letterarie, il concetto di norma e di errore, e quindi la necessità di parlare le lingue “bene”. Nasce anche il purismo, inteso come movimento di opinione, distinto da quello iperletterario dei secoli passati; nasce cioè l’equazione per cui, a partire dalla famosa frase di Herder «ha una nazione qualcosa di più prezioso della lingua dei propri padri?» , l’offesa alla lingua diventa offesa alla nazione, allo stato, e chi usa parole o costrutti presi in prestito da altre lingue (o da “dialetti” del territorio) testimonia l’arretratezza della propria lingua, cultura, nazione. Nei casi limite, tradisce . La scuola, l’istruzione minima, uguale per tutti e controllata dallo stato, sostituisce così gradualmente la Chiesa come mezzo per la trasmissione del potere e del mantenimento della pace e del contratto sociale, accanto alla leva obbligatoria: attraverso la scuola e il servizio militare – efficacissima livella linguistica – si diffondono i contenuti ideologici funzionali al mantenimento e alla legittimazione dello stato nazionale: lingua instrumentum regni . La lotta per la scolarizzazione e la standardizzazione linguistica in ambito scolastico – spesso violenta – è condotta tuttavia da due posizioni piuttosto differenti nell’impostazione, ma che traducono le proprie istanze ideologiche in provvedimenti sostanzialmente simili negli effetti. Da un lato, per la borghesia più conservatrice l’unità del linguaggio è importante per creare il senso di coesione nazionale e il sentimento dello “straniero”, mentre le altre varietà parlate all’interno del territorio dello stato, ora classificate “dialetti” o “lingue alloglotte” o simili, e spesso confinate alla periferia geografica e sociale della nazione, rappresentano la frangia contadina e realista . Una tale distinzione linguistica finisce poi fatalmente per diventare segno di appartenenza a una classe, ossia acquisisce connotazioni marcate in senso sociale. D’altro canto, per la borghesia liberale e riformista, è importante fornire ai cittadini, attraverso la scuola, la possibilità di partecipa. Va detto che Herder non intendeva “nostro (la nostra lingua) è meglio (di quella degli altri)”, come pure poi si argomentò, ma solo “nostro è nostro (e dunque non va cambiato a favore di altro)”. Per questo cfr. soprattutto Edwards (), in particolare pp. ; Thomas (), in particolare pp. -; Morpurgo Davies (). . Cfr. più avanti la Costituzione greca (infra, CASO STUDIO ). . «Il vecchio principio della cuius regio eius religio che aveva dominato all’epoca della Riforma [...] venne trasformato in un’altra opprimente imposizione: cuius regio eius lingua. E in base a questo principio [...] chi, abitante di quel territorio statale, parlava una lingua diversa da quella nazionale, era considerato un pericolo per lo Stato» (Barbina, , p. ). . Che infatti è corteggiata dalle declinanti forze aristocratiche e reazionarie; queste ebbero tuttavia poco peso sulle politiche linguistiche degli stati nazionali: la loro azione, quando ci fu, è andata comunque sempre in senso contrario alla standardizzazione.

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re in prima persona alla vita politica e sociale dello stato: consultando direttamente le leggi, ad esempio, o potendo affrontare il linguaggio burocratico o amministrativo. Lingue “altre” o dialetti rappresentano un ostacolo al conseguimento di questo ideale e sono combattute in quanto residuo di ignoranza e dei tempi bui del Medioevo. In ogni caso, è la popolazione a doversi adattare alla lingua dello stato: non è mai, a causa della particolare temperie culturale in cui le nazioni si sono formate, presa in seria considerazione l’ipotesi che siano le lingue ufficiali a potersi accordare alla realtà sociale (ad esempio tramite l’accoglimento di più varietà standard, modellate sui diversi usi effettivi dell’insieme dei cittadini), poiché in questo modo verrebbe a mancare uno dei pilastri fondamentali della nuova legittimità statale. . La maggior parte degli stati dell’Europa adotta tuttora, con miglioramenti e soprattutto ammorbidimenti, il modello qui sopra delineato; tuttavia, almeno dal punto di vista giuridico se non societario, permangono alcune realtà europee in cui la situazione linguistica è ancora grosso modo quella dello stato premoderno.  Il modello prerivoluzionario: il Regno Unito CASO STUDIO

La situazione giuridica del Regno Unito è del tutto particolare in Europa, non essendo basata su un codice di leggi che deriva la sua legittimità da una Costituzione, ma piuttosto da continuità del diritto consuetudinario, che data dai primi anni del secolo XIII. Per quanto riguarda il rapporto fra la lingua e lo stato, quello del Regno Unito può essere definito modello prerivoluzionario, per le stesse ragioni per cui la denominazione dello stato non è già “Inghilterra”, ma Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord: nell’evoluzione storica delle isole britanniche, infatti, manca l’esperienza della filosofia politica derivata dalla Rivoluzione francese e diffusa dalle campagne napoleoniche. Il Regno Unito, cioè, non è uno stato nazionale, ma appunto un regno di tipo premoderno unito dalla persona del monarca: di conseguenza ogni diritto, compresi quelli linguistici, è in linea di principio personale, e non si pone alcun problema di identificazione tra “nazione britannica” (che peraltro non esiste) e “lingua britannica” (che infatti si chiama inglese) . I sudditi britannici non hanno dunque alcun problema di lealtà linguistica esplicita nei confronti dello stato: un tale problema lo avranno caso mai nei confronti della propria nazione, siano essi inglesi, scozzesi, gallesi o irlandesi. L’appartenenza “nazionale”, tra l’altro, non sostituisce né entra in competizione con la fedeltà alla regina, che impersona lo stato britannico ma non la nazione e che è a capo della Chiesa anglicana. Il problema dei rapporti tra le lingue dell’arcipelago non si pone dunque su un piano ideologico, come è invece caratteristico dell’Europa continentale

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da almeno duecento anni, ma su un piano di rapporti economici e di prestigio: la progressiva e trascinante affermazione dell’inglese sulle altre varietà germaniche e su quelle celtiche non ha dietro di sé la protezione esplicita e la forza di una disposizione di legge, ma è dovuta principalmente alla pressione sociale e al prestigio economico legati alla lingua inglese, che hanno costretto i parlanti stessi delle varietà oggi subalterne a promuovere il loro abbandono in favore della lingua dominante . E tuttavia, nel clima generalmente propizio dell’ultimo dopoguerra, la fortissima affermazione dell’inglese ha fatto sì che, contravvenendo ad abitudini secolari, si sia chiesto un intervento legale a protezione delle lingue periferiche; ciò ha prodotto una situazione per cui il Regno Unito non ha alcuna legislazione linguistica valida su tutto il suo territorio, ma particolari situazioni vengono regolamentate da leggi ad hoc. Il New Welsh Language Act del , legge britannica valida sul solo territorio del Galles, ad esempio, sancisce la parità di diritti tra il gallese e l’inglese sia in ambito amministrativo (ivi compresa l’amministrazione della giustizia), sia in campo educativo a tutti i livelli: chi abita in Galles può scegliere un’educazione totalmente in inglese (con il gallese come L), totalmente in gallese (con l’inglese come L) o bilingue . In conseguenza di questa maggiore attenzione legislativa verso le lingue minoritarie, anche il gaelico scozzese gode di un riconoscimento giuridico tale per cui, nelle remote e spopolate regioni dove è ancora parlato, la popolazione ha accesso teorico a scuola e a mezzi di informazione (radio, televisione, giornali) in questa lingua. Dal  è in discussione al Parlamento scozzese una legge che dia gli stessi diritti al gaelico e all’inglese (Gaelic Language Scotland Bill). Nonostante il suo particolare statuto giuridico, ultimamente anche la Gran Bretagna si è trovata nella necessità di dover ratificare leggi specifiche di politica linguistica valide su tutto il territorio, per adeguare la propria legislazione a quella dei partner europei: in particolare, nell’ambito della European Charter for Regional and Minority Languages (cfr. infra, CASO STUDIO ) ha riconosciuto all’interno del suo territorio come lingue minoritarie, oltre al gaelico e al gallese, l’irlandese, il cornico, il manx e lo scots (lingua germanica affine all’inglese) nelle varianti di scots di Scozia e scots di Irlanda del Nord. . Cfr. invece il passaggio di denominazione avvenuto in area iberica da castillano (lingua della Castiglia, nome che si è mantenuto in tutta l’America Latina) a español (lingua della Spagna). . Cfr. la situazione irlandese al CASO STUDIO . . Con L si intende una lingua appresa in un secondo tempo, non in condizioni di bilinguismo, mentre L è la lingua (o lingue) di socializzazione primaria. In ambito educativo si usa indicare come L la lingua tetto alla quale si rifanno sociologicamente i dialetti locali presenti sul territorio.

. Altre realtà europee sono, per così dire, a metà del guado, ossia contemperano una base giuridica di rapporti fra lingua e stato di tipo postrivoluzionario con sacche di resistenza di altri sistemi, in particolare 

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perché la legittimazione statale e le ragioni della convivenza dei cittadini all’interno dei suoi confini non sono legate a una particolare lingua condivisa: ciò determina un’evidente non uniformità del diritto linguistico sul territorio statale. Vediamone il caso più interessante.  La Confederazione Elvetica e l’antico plurilinguismo territoriale CASO STUDIO

L’esempio più antico e ormai classico di comunità multilingue basata su suddivisioni territoriali è la Svizzera, che è uno stato federale composto da  fra cantoni e semicantoni, ognuno dotato di una propria Costituzione, di un proprio Parlamento e di amplissimi poteri. La coesione interna della Svizzera, a livello federale, è basata su meccanismi di identificazione profonda e ideologica dei cittadini nei confronti più di un modello di società e (attualmente) di sviluppo storico ed economico che di inesistenti legami di sangue o lingua. Il plurilinguismo svizzero è sancito dagli artt.  e  della Costituzione federale : il tedesco, il francese, l’italiano e il romancio sono le lingue ufficiali del paese. La gestione effettiva delle politiche linguistiche è tuttavia demandata ai singoli cantoni: abbiamo così – a livello cantonale – un cantone monolingue italiano (in cui cioè i rapporti con l’amministrazione possono essere tenuti solo in italiano), quattro monolingui francesi, tre bilingui francese-tedesco, uno trilingue tedesco, italiano e romancio e i restanti monolingui tedeschi. Anche all’interno dei cantoni bi- o trilingui, tuttavia, è la lingua dei singoli comuni (stabilita secondo regole differenti per ogni cantone, al limite indipendentemente dalle lingue effettivamente usate sul territorio) a essere usata in via esclusiva in tutti i rapporti civili e amministrativi, con le sole eccezioni delle città di Friburgo (Fribourg/Freiburg) e di Bienna (Biel/Bienne). Le scuole pubbliche sono in generale monolingui nella lingua ufficiale del comune cui appartengono e non è possibile per gli studenti scegliere la lingua dell’istruzione . Tuttavia, gli amministratori federali e gli ufficiali pubblici che vivono nelle città di Berna e gli abitanti di Friburgo e Bienna hanno la possibilità di scegliere fra tedesco e francese. Un caso particolare è rappresentato dai comuni di lingua romancia dei Grigioni, in cui spesso il tedesco accompagna le varietà locali e in cui le scuole possono avere varie strutture più o meno equilibratamente bilingui. L’instabile situazione romancia è dovuta a diversi fattori fondamentali: innanzitutto l’esiguità demografica della popolazione, non solo da intendersi come scarsità numerica dei parlanti la lingua, ma anche come condizione di minoranza dei parlanti stessi in numerosi comuni che pure si riconoscono di lingua romancia; a questo va aggiunta la particolare distribuzione a macchia di leopardo degli insediamenti, separati spesso da territori anche vasti compattamente germanofoni. Una tale situazione favorisce ovviamente la creazione di famiglie linguisticamente miste, fatto che va a intaccare l’ambito di uso più radicato della lingua, appunto la famiglia: se si considera anche l’evidente disparità di prestigio

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nazionale e internazionale del romancio rispetto al tedesco, è facile rilevare che queste famiglie miste saranno più difficilmente focolai di mantenimento della lingua di minoranza. Si consideri che non ci sono praticamente più monolingui romanci adulti. . Al  settembre  gli artt.  e  risultano come segue. Art. : «Lingue nazionali. Le lingue nazionali sono il tedesco, il francese, l’italiano e il romancio». Art. : «Lingue. . Le lingue ufficiali della Confederazione sono il tedesco, il francese e l’italiano. Il romancio è lingua ufficiale nei rapporti con le persone di lingua romancia. . I cantoni designano le loro lingue ufficiali. Per garantire la pace linguistica rispettano la composizione linguistica tradizionale delle regioni e considerano le minoranze linguistiche autoctone. . La Confederazione e i cantoni promuovono la comprensione e gli scambi tra le comunità linguistiche. . La Confederazione sostiene i cantoni plurilingui nell’adempimento dei loro compiti speciali. . La Confederazione sostiene i provvedimenti dei cantoni dei Grigioni e del Ticino volti a conservare e promuovere le lingue romancia e italiana». La recente modifica di questi articoli è il risultato di un lunghissimo dibattito politico e linguistico interno, per cui cfr., tra gli altri, Materialienband (); Quadrilinguismo svizzero (); Petralli (). . In realtà, dal  tale scelta è legalmente possibile, ma rimane per ora solo a livello teorico, dal momento che non sono state approntate le misure necessarie per metterla in pratica.

. Vediamo ora quello che possiamo considerare il prototipo dei rapporti fra lingua e istituzioni statali in Europa, almeno per quanto riguarda il numero degli stati che a questo storicamente si rifanno.  Il modello francese CASO STUDIO

La sue caratteristiche principali sono già state schizzate nell’introduzione storica e possono essere brevemente riassunte in due slogan: “un territorio, uno stato, una lingua”, e accanto tous ceux qui habitent la France sont des français. Questo significa che, in linea di principio, uno stato, una nazione, non può ammettere che una sola lingua: quella nazionale. Tutte le altre varietà che differiscono anche di poco dallo standard sono trattate, per ragioni che possono essere anche molto diverse, alla stregua di «macchia grigia che bisogna a tutti i costi grattar via» . La politica linguistica della Francia, fino a tempi molto recenti, si è attivamente conformata a questo modello: di fatto, mentre per le varietà d’oïl il processo di erosione data almeno dal XVIII secolo, la rapida decadenza dei parlari occitani, franco-provenzali, catalani, corsi, baschi e bretoni ha luogo dalla metà dell’Ottocento fino alla fine del XX secolo. È solo con gli anni ottanta (loi Deixonne) che un timido processo di decentralizzazione linguistica può aver luogo, parallelamente a quella amministrativa: nascono così amministrativamente le regioni e di conseguenza le “lingue regionali” (per cui cfr. infra, PAR. .), che, lungi dall’essere riconosciute come codici amministrativi, non godono che di minimi spazi nell’educazione. Sono cioè materie di insegna-

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mento (non già lingue d’insegnamento) facoltative, siano esse varietà romanze o parlate alloglotte, e il tipo di attenzione che ricevono dal governo centrale è basato sul tentativo, forse tardivo, di salvarle dalla completa scomparsa, in un’ottica tuttavia di tipo museale. . Ettore Tolomei, citato fra gli altri in Richebuono (), p. .

. Come si è già accennato, pur nella generale accettazione del modello francese da parte degli stati-nazione europei, il grado di fedeltà a questo modello, soprattutto in anni recenti, è stato molto vario; in particolare, la maggior parte dei paesi ha messo a punto una serie di correttivi e di provvedimenti che in misura diversa alleviano la sua durezza e introducono sempre maggiori garanzie per le popolazioni non egemoni; ne vedremo alcuni nel corso del manuale. Rimangono però in Europa esempi di modello nazionale “puro”, in cui le diversità linguistiche presenti sul territorio godono di scarsissima o nessuna considerazione, quando non di esplicita repressione.  L’estremizzazione balcanica: il nazionalismo profondo di Grecia e Turchia CASO STUDIO

Il primo caso tipico è rappresentato dalla Grecia, in cui una sola lingua ha un riconoscimento ufficiale ed è protetta dalla Costituzione: si tratta, dalla caduta del regime dei colonnelli, della cosiddetta dhmotik´h, ossia sostanzialmente la lingua della buona borghesia ateniese, che ha ufficialmente sostituito la kaqareuousa, ´ lingua letteraria di tradizione bizantina . È interessante notare che l’uso del greco è previsto come globale, anzi possibilmente come monolitico, in tutti i luoghi e attraverso i vari strati e situazioni sociali: l’uso corretto della lingua e il suo rispetto formale sono sanciti dalla Costituzione. Dopo i grossi movimenti di popolazioni conseguenti alla ristrutturazione etnica e politica dell’area balcanica dei primi decenni del XX secolo, la Grecia – avendo espulso la maggioranza delle popolazioni non greche e non cristiane ortodosse, sostituite in parte dall’immigrazione forzata di ortodossi grecofoni dall’Asia minore, e a causa della forte pressione governativa in senso nazionalista e unificatore – sta diventando un paese etnolinguisticamente molto compatto. Le residuali eteroglossie interne non godono di alcuna tutela, anzi sono tuttora sottoposte a movimenti di grecizzazione, talora esplicitamente in violazione delle normative europee in materia; il governo arriva a negare l’esistenza sul territorio di popolazioni di lingua diversa da quella greca . Unica e parziale eccezione è costituita da un esiguo numero di scuole musulmane (localizzate principalmente nella Tracia) in cui la lingua d’insegnamento è il turco e alla quale accedono anche le popolazioni cosiddette pomache, musulmane di lingua bulgara. La creazione e il mantenimento di tali scuole

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però non si devono ad alcuna iniziativa dello stato greco, ma sono sanciti da trattati internazionali. Diversa nella sua genesi è la situazione turca, anch’essa rigorosamente monolingue sul piano legale, che è il risultato dell’iniziativa globale di modernizzazione, di promozione economica e sociale, di occidentalizzazione, di risveglio culturale e di pianificazione linguistica intrapresa da Mustafa Kemal Atatürk negli anni venti. Una tale politica ha avuto indubbi meriti di carattere economico, sociale e culturale: solo per rimanere sul versante linguistico, l’alfabeto turco a base latina è uno degli esempi meglio riusciti di creazione ex novo di un sistema grafico, così come tutta la politica di modernizzazione soprattutto lessicale dell’osmanlı può essere citata per la sua moderazione e il suo equilibrio, in particolare nei confronti dell’accettazione di prestiti provenienti dal lessico internazionale. Tuttavia il monolinguismo ufficiale , pilastro fondamentale della politica nazionale francese a cui Atatürk si è direttamente ed esplicitamente ispirato, è assoluto e intransigente, ed è giunto a tratti di cruda brutalità: basti pensare ai casi macroscopici del genocidio degli armeni e all’attuale problema curdo. Invero, l’ostilità contro la lingua curda è in qualche modo costitutiva di tutta la politica linguistica dello stato turco, erede dell’Impero ottomano: il primo atto formale della dil devrimi (“rivoluzione linguistica”, ossia l’insieme delle norme e provvedimenti di modernizzazione del turco progettato da Mustafa Kemal) è la legge del  marzo  – cioè precedente alla riforma linguistica interna della lingua turca – che vieta le scuole e le associazioni curde e interdice l’uso scritto della lingua curda. Solo nel giugno del , pressata dalle insistenze dell’Unione Europea alla quale vorrebbe aderire, la Turchia ha approvato una legge che riduce, se non abolisce, la maggior parte delle restrizioni e dei divieti all’uso, pubblico e privato, del curdo. In particolare, sono autorizzate trasmissioni radiofoniche e televisive in lingue diverse dal turco, purché su canali privati, e viene concessa la possibilità di insegnare il curdo, anche se non nelle scuole pubbliche. Ovviamente, bisogna ancora valutare gli effetti reali sulla società di questi provvedimenti. . Non possiamo qui approfondire questo pur interessante cambio linguistico “dall’alto”; cfr. però Banfi (b) e la bibliografia ivi contenuta. . Un caso di forte frizione tra l’Unione Europea e la Grecia è quello di Sotiris Bletsas, appartenente alla comunità romanza di lingua arumena, condannato a  mesi di reclusione per «divulgazione di informazioni false», ossia in quanto attivista della minoranza (cfr. http://www.troc.es/ciemen/mercator/). . Che negli sviluppi del dopoguerra ha assunto tratti parossistici: ricordiamo solo la Costituzione del , il cui art.  recita: «la lingua madre dei cittadini della Turchia è il turco. È vietato: a) usare come lingua madre una lingua che non sia il turco e intraprendere attività che possano portare allo sviluppo di questa lingua; b) portare, in incontri o manifestazioni di strada, poster, cartelli, insegne, striscioni di vario tipo o cose simili con scritte in lingue diverse dal turco». La sola esistenza di poche scuole cristiano-ortodosse di lingua greca nella città di I˙stanbul e in alcune località circostanti è sancita da trattati internazionali.

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. La lingua al servizio dell’ideologia: lo stato socialista Quello rapidamente delineato qui sopra è, pur con importanti varianti locali e strutturali, il modello di interrelazione fra lingua e organizzazione statale che ancor oggi risulta prevalente e accettato, tanto da costituire una vulgata; anzi, risulta spesso così completamente accettato da parere l’unico possibile, o quello “naturale”. In Europa il secolo XX si apre tuttavia con (e si chiude su) un diverso esperimento di compagine statale e di rapporto con la lingua, che fonda la sua legittimità su presupposti in gran parte diversi da quelli dello stato nazionale, impostando una dinamica più esplicitamente e dichiaratamente ideologica. Lo stato socialista si regge in sostanza sull’accettazione (teoricamente spontanea, ma poi sempre più spesso imposta o fortemente indotta) da parte della popolazione di un’ideologia condivisa, quella marxista-leninista. In tale ottica, e dal punto di vista teorico, il marxismo reimposta il problema della lingua (e della sua importanza) nei suoi rapporti con lo stato. L’attenzione nei confronti della lingua è sempre molto forte, ma si sposta su un altro piano . La questione fondamentale è quella di staccare il concetto di lingua da quello di nazionalità, concetto, questo, del “nazionalismo borghese”, da cui ci si deve liberare. Ora, questo progetto di svincolamento viene impostato mediante un’operazione duplice: da un lato, una visione teleologica della storia induce a proclamare che l’evoluzione dell’umanità condurrà all’avvento del socialismo, dunque dell’“umanità senza classi, senza nazioni, con una lingua unica”. Già nel  la Terza Internazionale discute la possibilità di creare una lingua comune per tutti i lavoratori del mondo . D’altro canto, e parallelamente, la Rivoluzione russa ammette e accetta la diversità etnico-linguistica, in un quadro in cui le unità nazionali ottocentesche non hanno più senso – o sono addirittura pericolose – e in cui si persegue un internazionalismo di tipo classista. Dunque la lingua futura e definitiva del proletariato dovrà essere unica – o meglio, accadrà alla lingua prima o poi di essere unica, dacché sarà espressione di una clas. Non possiamo qui occuparci del dibattito politico legato alla linguistica nell’URSS, che prende toni anche drammatici fra gli anni trenta e gli anni cinquanta: basterà accennare al fatto che lo stesso Stalin si occupa di linguistica in prima persona (Stalin, ). Cfr. anche, in italiano, Tagliavini (); Lepschy (). . La prima proposta è di passare all’esperanto, lingua universale della pace e della concordia: tuttavia, viene data indicazione di sviluppare una variante proletaria dell’esperanto, contrapposta a quella corrente, “borghese”; cfr. Kirkwood (); Kokochkina ().

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se monolitica –, ma nel frattempo bisogna rivalutare le etnie presenti, col duplice scopo di minare le appartenenze nazionali dal basso  e di consentire, tramite l’alfabetizzazione, il diffondersi della dottrina socialista. Si reimposta così il problema della lingua nazionale o ufficiale; le lingue dello stato sono le lingue del popolo, dal momento che questo esercita sovrano il potere; ma di fatto le varie lingue “del popolo” diventate ufficiali sono lo strumento della penetrazione della dottrina rivoluzionaria, un po’ come accadeva ai volgari medievali, sanzionati ma in fondo accettati, perché utili a diffondere il verbo cristiano alla popolazione analfabeta . Così lo stato e la vita politica e amministrativa, in virtù del nuovo potere dato alle varietà linguistiche di base, devono adattarsi alla situazione linguistica reale: ma ciò al prezzo di ideologizzare tutte le varietà presenti sul territorio, di fare di ciascuna di esse uno strumento di propaganda. L’ideologia socialista diventa allora collante sociale e strumento di legittimazione del nuovo stato plurietnico e plurilingue (ma monoclasse) e il popolo deve riconoscersi in una tale ideologia, indipendentemente da quale lingua la veicoli . Tutte le lingue effettivamente usate diventano allora teoricamente ufficiali e strumento dell’educazione: nella vita quotidiana ognuno può usare la varietà che preferisce e ha il diritto di essere educato nella sua lingua madre (nonostante ci siano spesso varietà “più uguali delle altre”, cui è delegato il compito di fungere da lingue franche veicolari). Lo stato socialista è dunque ufficialmente composto da gruppi etnici – non già nazioni in senso romantico – che convivono pacificamente sotto la guida ideologica della dottrina ufficiale, e la concordia sociale è perseguita attivamente mediante la persuasione o l’allontanamento delle devianze (ideologiche e non linguistiche, come già era nel Medioevo). In un tale quadro, l’alfabetizzazione è un mezzo fondamentale di indottrinamento del popolo, e il fatto che sia condotta nelle differenti lingue madri dei cittadini ne fa uno strumento potenzialmente aperto a essere esportato, con minimi adattamenti, in tutto il mondo. L’obiettivo primario, avanti la realizzazione completa del comunismo nel mondo, è quello di rendere ognuno capace di leggere in una lingua, qualunque essa sia, perché possa accostarsi ai testi cui è affidata la trasmissione della dottrina – e parallelamente i testi importanti vanno tradotti in tutte le lingue dell’educazione: doctrina instrumentum regni. . La Costituzione sovietica del  riconosce  nazionalità: di queste, meno di una trentina facevano uso di forme scritte della propria lingua. . Il parallelo qui trascura la presenza del latino come lingua scritta e la mancanza di alfabetizzazione diffusa dell’epoca premoderna. . Kloss, McConnell (); si ponga mente al fatto che i testi più tradotti della storia dell’umanità sono la Bibbia e Il capitale di Marx.

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Il socialismo promuove così un gran movimento di standardizzazione e di adattamento di lingue che non avevano avuto accesso in precedenza alla forma scritta o alle funzioni statali, burocratiche e persino letterarie: basti ricordare le decine di lingue dell’Unione Sovietica che acquisiscono alfabeto (latino, poi cirillico) e grammatiche di riferimento nel corso degli anni trenta : e d’altra parte una forma unificata e condivisa di ciascun linguaggio è una necessità ineliminabile a fini economici, amministrativi e burocratici. Scuola e servizio militare lavorano in parallelo per l’acquisizione del consenso e della legittimità statale, diventando funzionali al mantenimento del potere grazie al compito di propagazione e controllo dell’ideologia che è loro demandato. Ora, per l’aspetto che qui ci compete, il rapporto fra lingua (lingue) e stato, il socialismo in effetti può essere riguardato per più di un verso come una versione moderna della teocrazia medievale: pervase da un’ideologia totalizzante che si propone come guida per il pensiero, e al tempo stesso come modello di comportamento morale e sociale (non per nulla le religioni sono a malapena tollerate come concorrenti), le democrazie popolari – almeno teoricamente – portano nei confronti del linguaggio un’attenzione solo strumentale, similmente a ciò che accadeva nello stato premoderno. Le devianze da evitare, i pericoli per lo stato stanno altrove; ma al contempo l’ideologia socialista utilizza strumenti che lo stato nazionale ha dimostrato essere fra i più adatti al fine di incanalare il consenso e di manipolare identità e lingue: scuola e servizio militare obbligatorio, oltre alla televisione e alla propaganda dalle sedi istituzionali. Questo per l’impianto di base; va altresì osservato che, parallelamente a quanto succede per gli altri modelli di compagine statale, anche le singole interpretazioni dei diversi stati socialisti del dopoguerra possono essere piuttosto differenti e talora in contrasto fra di loro. Già l’URSS degli anni trenta, con la fine dell’ideale internazionalista e la minaccia incombente del nazismo, si ripiega su se stessa, producendo teorie “panrusse”, ossia attribuendo un ruolo sempre più ampio e preponderante al russo nei confronti delle altre lingue dell’Unione; ma è con la seconda guerra mondiale e con l’ultimo stalinismo degli anni quaranta e cinquanta (come poi in seguito per tutta la segreteria Bre=nev), che il russo mira a sostituire le lingue nazionali a tutti i livelli, sviluppando parallelamente fenomeni di purismo . L’esempio più classico di . Cfr. Akademija Nauk SSSR (, ). Per il cambio di alfabeto cfr. infra, PAR. .. . Il russo viene così proclamato l’unico idioma in grado di svolgere il ruolo di lingua veicolare a livello mondiale. «Secondo la propaganda ufficiale, il russo si mostrerà intrinsecamente pronto a diventare una lingua mondiale, dal momento che i fattori sociali l’hanno preparato a questo» (Kokochkina, , p. ). E dunque la lingua futura del proletariato unito passa dall’esperanto al russo.

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nazionalismo socialista è tuttavia offerto dalla Romania di Ceaus,escu, in cui la lotta alle devianze linguistiche assume caratteri di vera e propria persecuzione fisica.  Grande-russo, piccolo-russo, ucraino: duecento anni di polemiche CASO STUDIO

La storia linguistico-politica dell’Ucraina negli ultimi duecento anni rappresenta un caso in certo senso riassuntivo delle dinamiche dei rapporti fra stato, nazione e lingua, e nel contempo si presta a illustrare tutta una serie di principi importanti per la pianificazione linguistica che verranno ripresi e approfonditi nei prossimi capitoli. Il nome Ucraina deriva dalla parola russa per “confine”, e in effetti il territorio costituisce una sorta di confine e di compenetrazione fra la cultura dell’Europa centrale (in particolare di derivazione polacca o asburgica) a occidente e quella della santa madre Russia a oriente: le classi colte del territorio ora ucraino si sono sempre rappresentate, nei secoli fino alla prima guerra mondiale, come il «baluardo orientale d’Europa, faro civilizzatore della Russia sottomessa alla barbarie tatara» (così almeno si esprimeva Policznij nel ). Il faro, tuttavia, non ebbe mai una sua propria amministrazione, diviso storicamente fra gli eredi dell’impero lituano degli Jagelloni, l’impero asburgico e la Russia, che ne ha sempre amministrato la parte territorialmente più rilevante: e proprio sotto l’impero zarista, particolarmente teso alla semplice annessione dei territori e alla loro omologazione e russificazione, il termine Ucraina è sempre stato vietato e sostituito dalla denominazione Piccola Russia (Malorossija) . Nulla di più naturale, quindi, che il risveglio nazionale ottocentesco della Piccola Russia si appuntasse in primo luogo sui sentimenti di differenziazione geografico-culturale: fra questi prende immediatamente importanza la lingua. L’evoluzione del nazionalismo ucraino e del suo aggancio a un particolare codice linguistico è in effetti paradigmatica di molte altre dell’Europa soprattutto centrale e orientale (ma anche occidentale: si pensi alle popolazioni che si considerano eredi dei celti in Irlanda, in Scozia, in Galles): non potendo agganciarsi ad alcuna idea simbolica o prototipica dello stato (che non è mai esistito, a differenza per esempio dei “risvegli” di Serbia, Lituania o Polonia), gli argomenti iniziali dei nazionalisti furono in primo luogo l’unità della tradizione storica delle diverse regioni del paese (unità peraltro più desiderata e ricercata che non reale) e distinta da quella degli altri – in particolare dalla Russia, ovviamente, il paese egemone dell’area. Vengono poi, come idee condivise, la coscienza dell’esistenza di usi, tradizioni e costumi diversi rispetto a quelli russi e di una letteratura, intesa soprattutto come letteratura popolare e folklorica, diversa. Una volta decisa la differenza di usi, costumi e letteratura, si imposta subito la questione linguistica, con l’idea di farle assumere un valore centrale nella costruzione dello stato e della nazione.

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Viene rifiutata la denominazione “piccolo-russo”, considerata spia di dipendenza e di non autonomia linguistica e culturale, e si adotta sempre più spesso il nome di ucraino. Letterati e poeti si applicano alla “creazione” di una lingua letteraria, fondata sui dialetti centrali delle regioni di Kiev (Kipv in ucraino) e Poltava. Come avviene in quegli anni quasi dappertutto, anche la nascita del sentimento nazionale ucraino si attua in due fasi: una prima, etnografico-letteraria (all’inizio non viene considerato possibile non solo raggiungere l’indipendenza ma neppure l’uso dell’ucraino nell’amministrazione, che per tutto l’Ottocento si esprime in russo e in polacco a seconda delle zone)  e una seconda di tipo linguistico-politico: nella breve esperienza dell’indipendenza ucraina a cavallo fra il  e il  viene immediatamente proclamato l’ucraino come unica lingua ufficiale. Questa scelta costituisce da un lato la risposta alle restrizioni linguistiche che caratterizzano la fine del periodo zarista (nel , ad esempio, viene proibito l’uso dei “dialetti piccolo-russi” in tutti i luoghi pubblici, anche oralmente e nella conversazione informale, e diventa vietato dare ai bambini nomi ucraini), dall’altro il riscontro alla fiorente (anche se forse non sempre qualitativamente eccelsa) fioritura letteraria e teatrale in ucraino. Bisogna in effetti tenere presente che l’espressione “lingua ucraina” fa riferimento a una forma standard e in certo modo artificiale (vedremo più avanti alcuni dei meccanismi di creazione di lingue standard), quale è stata normalizzata dai grammatici ottocenteschi e utilizzata dagli scrittori. La presenza di questa lingua letteraria non significa che gli ucraini utilizzino tutti la stessa lingua nella vita di tutti i giorni – e anche questo è molto comune: pensiamo solo al caso dell’Italia. L’ucraino si caratterizza per una forte presenza di varianti locali e di dialetti regionali; tuttavia, al momento della definizione di una lingua standard, tutti questi dialetti ebbero nello standard il loro referente. Dunque la lingua ucraina non è il risultato di una sintesi storica: non scaturisce dall’evoluzione di un particolare dialetto ed è priva di un centro storico di riferimento: è stata “creata” dagli uomini di lettere, ed è stata lingua letteraria prima che amministrativa. Dopo il periodo più propriamente rivoluzionario del  e , la Costituzione sovietica del  annuncia l’uguaglianza dei diritti di tutte le nazionalità che costituiscono lo stato, fra cui il diritto all’autodeterminazione e alla separazione dall’Unione. L’Ucraina rientra tuttavia presto in unione politica con la Russia (): ma l’atteggiamento dello stato nei confronti delle differenze linguistiche e culturali è ora profondamente cambiato ed è caratterizzato da quel liberalismo pragmatico che abbiamo schizzato sopra. Viene incoraggiato l’uso dell’ucraino (ormai definitivamente non più piccolo-russo) e favorito il suo ingresso nella vita scolastica e amministrativa: ad esempio, il  luglio  viene decretato che tutti gli impiegati civili che non parlano ucraino saranno licenziati dal ° gennaio ; nel  il commissario all’istruzione Kaganovic, eletto alla direzione del partito in Ucraina, stabilisce che tutta la corrispondenza del partito debba essere tenuta esclusivamente in ucraino. Parallelamente viene fondata la commissione dialettologica presso l’Accademia delle scienze, che pubblica dal  raccolte di testi di interesse dialettologico e linguistico.

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Tuttavia, come abbiamo visto sopra, dai primi anni trenta il clima politico e culturale muta drasticamente: l’ascesa di Stalin e la conseguente affermazione della sua visione dello stato da un lato, e la paura crescente nei confronti della minaccia nazista e della crisi economica occidentale dall’altro provocano una decisa centralizzazione amministrativa e culturale dell’URSS; tra le prime conseguenze c’è un forte arretramento dell’idea della diversità nazionale pur nell’unità ideologica. Anzi, si comincia ad accusare l’intellighenzia nazionalista, in Ucraina e altrove, di deviazioni borghesi (lo stato “borghese” dell’Occidente è in effetti, lo ricordiamo, caratterizzato dall’equazione fra nazione e stato): le tendenze ucrainofile vengono tacciate di “separatismo artificiale” e accusate di cospirazione contro l’unità e l’indipendenza dell’URSS. Argomenti come questo, fortissimi in uno stato totalitario come l’Unione Sovietica degli anni trenta e quaranta, hanno ovviamente provocato l’arretramento sempre maggiore dell’ucraino nei confronti del russo, facilitato anche da una distinzione linguistica effettiva fra parti – minoritarie – della Repubblica socialista di Ucraina in cui dialetti di tipo ucraino sono abbastanza diffusi fra la popolazione come codici di base (sostanzialmente le parti agricole dell’Ovest e le montagne) e territori russificati (le città e l’Est del paese). A ciò si aggiungono provvedimenti legislativi e educativi volti al rafforzamento del russo: dal  è obbligatorio sostenere un esame di ammissione in russo per l’ingresso in qualunque facoltà universitaria, dal  le tesi di laurea e dottorato possono essere redatte soltanto in russo e così via. Alla dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina moderna, nel , la situazione linguistica vedeva dunque un bilinguismo di facciata russo-ucraino, con il russo prevalente e anzi unico nei domini culturali e amministrativi e dominante, nelle città e all’Est, anche nei rapporti informali. Tuttavia, secondo uno schema che è pure assai comune nelle nazioni dell’ex Europa dell’Est, le istanze nazionaliste e “linguocentriche” hanno ripreso terreno molto rapidamente, quasi a voler recuperare il tempo perduto: una delle prime decisioni del nuovo governo, ancora nel , è l’affermazione dell’ufficialità e dell’importanza dell’ucraino e il suo ripristino nell’insegnamento a ogni livello (anche se non c’erano più insegnanti capaci di tenere lezioni in ucraino). Attualmente le due lingue sono ufficiali sul territorio, ma si distribuiscono i domini in modo molto disuguale: l’ucraino, in ripresa anche sociolinguistica, ha il predominio come lingua dell’amministrazione e lo stato cerca con forza di renderlo un potente aggancio identitario; nella vita commerciale e di relazione è però ancora prevalente il russo. . In analogia con la parallela distinzione, questa però autoctona, fra Piccola Polonia (la regione di Cracovia) e Grande Polonia (le pianure settentrionali). . A rigor di termini, questo discorso è valido per l’Ucraina centro-orientale sotto amministrazione russa: la sezione occidentale, con capoluogo Leopoli (Lemberg in tedesco, Lwóv in polacco, L’vov in russo, L’viv in ucraino), parte della duplice monarchia asburgica, conosceva, seppure in misura limitata, un’amministrazione in ucraino – chiamato ruteno per motivi che qui non possiamo approfondire – e persino il suo uso in qualche corso universitario.

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. La caduta del Muro e le sorti delle lingue Dunque lo stato socialista è, per l’identificazione europea lingua ~ nazione, una parentesi: gli stati nazionali sorti dalla disgregazione delle compagini multietniche dell’Europa centrale e orientale hanno, come testimonia in parte anche il caso dell’Ucraina, adottato politiche linguistiche di tipo latamente francese. Tuttavia, dallo scorcio del XX secolo una serie di concause hanno contribuito a mutare, a volte profondamente, il quadro della situazione: vediamone le principali. Una prima ristrutturazione dei rapporti fra cittadino e lingua nazionale, partita in realtà qualche decennio prima, ma di cui gli stati hanno preso consapevolezza in questi anni, è dovuta all’avvento della televisione come mezzo di comunicazione di massa. Molto più che tramite la scuola e il servizio militare, la lingua dello stato entra ora davvero in tutte le case e può in talune circostanze condizionare anche pesantemente l’attività intellettuale della popolazione, compreso l’uso delle lingue. Per limitarsi al caso italiano, il vero cambiamento di rapporti tra lingua e dialetti si deve appunto alla presenza pervasiva della televisione . Spie di una possibile gestione del potere politico attraverso il canale linguistico televisivo sono da scorgersi nelle evoluzioni di questi ultimi anni, che non a caso vedono il progressivo disinteresse dello stato per l’educazione scolastica, non più ritenuta canale principale di controllo tramite la lingua, e l’abbandono del servizio militare di leva; il messaggio unificante della televisione favorisce anche il riconoscimento di tutti gli utenti nella lingua proposta (o in sue particolari varietà) ed eventualmente fenomeni di neonazionalismo. Le conseguenze della caduta del Muro di Berlino sulla concezione della lingua negli stati e presso le popolazioni europee sono state di vasta portata. Da un lato, gli stati ex socialisti, in molti dei quali pure erano in vigore legislazioni teoricamente e programmaticamente molto liberali rispetto al plurilinguismo, hanno conosciuto una ripresa nazionalistica estremamente virulenta, che ha portato a una decisa frammentazione del territorio in sempre più piccole patrie, ognuna con la sua propria lingua nazionale. Dove, per ragioni storiche e culturali, i nuovi stati europei si sono trovati a disporre di una popolazione compatta (o che si è voluta ritenere o far credere compatta) il monolinguismo è spesso tendenzialmente assoluto, accompagnato da una forte identificazione . Per recenti considerazioni su una possibile inversione di tendenza cfr. Berruto (); De Mauro ().

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 Rivitalizzazione linguistica e diritti umani: l’Estonia CASO STUDIO

L’Unione Sovietica, in conseguenza dei principi linguistici sopra enunciati, pur in parte modificati da trent’anni di Realpolitik staliniana, era concepita come un paese multinazionale e plurilingue, composto da circa  comunità etnicolinguistiche riconosciute. Ognuna di esse, lo ricordiamo, godeva – almeno in linea di principio – di una propria lingua ufficiale usata nell’amministrazione e nell’educazione accanto al russo. I nuovi stati sorti dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica hanno però pressoché tutti adottato politiche linguistiche autonome, normalmente tese a rafforzare le diverse lingue nazionali, anche a scapito del russo. Particolarmente significativo sembra il caso dell’Estonia, nella quale, al censo del , il % della popolazione si è dichiarata di lingua estone e il % di lingua russa, i cui parlanti sono concentrati nelle zone urbane e nella regione di Narva, al confine con la Russia. L’unica lingua ufficiale del nuovo stato è l’estone e questo ha costretto la comunità russofona – fondamentalmente monolingue grazie ai privilegi concessi al russo nel periodo sovietico – a vedersi negato l’accesso alla maggior parte dei servizi linguistici di uno stato moderno. La situazione è stata esplicitamente resa più difficile ai russi attraverso leggi che prevedono la conoscenza della lingua nazionale per ottenere la cittadinanza estone – e la maggior parte dei russofoni sono ancora cittadini sovietici, e quindi ora di fatto apolidi – e per accedere alle cariche pubbliche, anche elettive. Si sono venute così a creare situazioni per cui il sindaco appunto di Narva, terza città del paese e quasi totalmente russofona, non è espressione della volontà degli abitanti, ma rappresentante della particolarmente esigua minoranza di lingua estone. Tuttavia, accanto a questa legislazione centrale fortemente nazionalista, alle amministrazioni locali è lasciata facoltà di usare come lingue ufficiali, accanto all’estone, le lingue delle minoranze nelle località in cui almeno il % della popolazione appartenga a una minoranza etnica, e il sistema scolastico prevede la possibilità di curricula in varie lingue, tra cui il russo. In questo quadro si è assistito allo sviluppo – grazie anche all’appoggio governativo –, nella direzione di una divisione fra la minoranza russa e tutte le altre, di un certo numero di sistemi scolastici in lingue che fino allo scorso decennio erano proprie di minoranze molto ristrette, come le scuole tedesche o quelle ebraiche. L’esclusione sociopolitica della minoranza russa è attualmente causa di notevoli frizioni fra l’Estonia e la Russia da una parte e le organizzazioni internazionali europee dall’altra; l’entrata dell’Estonia nell’Unione Europea è stata di fatto subordinata a una soluzione del problema che potesse garantire il pieno godimento dei diritti politici e culturali alla minoranza russofona: solo nel  il Parlamento estone, sotto le pressioni dell’OSCE e del Consiglio d’Europa, ha emendato in parte la rigidità del monolinguismo ufficiale, abrogando l’obbligo di conoscenza della lingua estone ai candidati alle cariche elettive.

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fra stato, nazione e lingua, secondo il modello più classico ottocentesco: legislazioni a tutela delle minoranze ci sono, retaggio del passato, ma inserite in un contesto ormai fortemente centralista e nazionale (è il caso, ad esempio, con differenze reciproche, della Slovenia, della Croazia, della Repubblica Ceca, dell’Estonia). In altre realtà, come in Ungheria e Ucraina, per fare degli esempi, la presenza di minoranze più forti ha determinato il mantenimento o addirittura l’implementazione delle tutele già previste dalle legislazioni socialiste, che tuttavia spesso soffrono di scarsa o insufficiente applicazione, soprattutto nei confronti di minoranze diffuse sul territorio e prive di centri unificatori particolarmente rilevanti. Anche negli stati dell’Europa occidentale la caduta del Muro non è rimasta senza effetti: venuto meno il forte afflato ideologico di “bastione” che ha caratterizzato gli anni del dopoguerra, si è assistito a un generale indebolimento del ruolo degli stati, che hanno visto una progressiva riduzione delle proprie competenze e dei propri poteri a favore da un lato di entità sovranazionali (talora non di natura politica) e dall’altro di entità locali o territorialmente definite. Questo processo, beninteso, è rafforzato dal fenomeno di forte uniformazione sociale e dei modelli economici del pianeta (la cosiddetta globalizzazione), che ha portato con sé la prepotente (ri)nascita di sentimenti di appartenenza regionale o locale. Ciò fa sì che lo stato non sia più, da qualche anno, l’unico referente linguistico della società civile e dell’educazione: abbiamo visto da un lato l’importanza della televisione, ma anche i fenomeni di prepotente affermazione dell’inglese nei diversi paesi europei (almeno come volontà di conoscerlo e come simbolo di primazia sociolinguistica, più che come effettivo incremento nell’uso) vanno in questa direzione. Sul versante della globalizzazione per il momento nessuno stato ha adottato provvedimenti legislativi volti all’ufficializzazione del predominio dell’inglese sulle altre lingue europee (l’unico tentativo, andato a vuoto, è stato quello dei Paesi Bassi, nei quali si propose di introdurre l’insegnamento in inglese per alcune materie, in tutte le scuole). Diverso è il caso per i movimenti di regionalizzazione: come per i paesi ex socialisti, infatti, numerose istanze di “nazionalizzazione” di gruppi territoriali sono emerse all’interno dell’Unione Europea negli ultimi - anni: diverse entità regionali e substatali acquisiscono sempre maggiore considerazione e autonomia nei confronti delle amministrazioni centrali, riproponendo il modello dello stato nazionale. Si tende cioè al monolinguismo regionale per quanto possibile e all’allontanamento delle devianze interne, esattamente come fecero gli stati nazionali ottocenteschi. D’altro canto, questo stesso meccanismo di affrancamento, anche se 

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spesso mal diretto, delle entità locali ha provocato un forte interesse degli stati europei e delle istituzioni di respiro continentale nei confronti del multilinguismo e del multiculturalismo, che sono sfociati in una serie di iniziative sociali e legislative. . La situazione attuale in Europa e in Italia Negli ultimi decenni sono molte le iniziative europee volte a proteggere o valorizzare le differenze linguistiche del continente. Al  risale la cosiddetta Framework Convention for the Protection of National Minorities (Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali), preparata e sottoposta agli stati membri dal Consiglio d’Europa: la Convenzione delinea in pochi articoli le direttrici generali per il rispetto della diversità linguistica e i diritti delle minoranze, mettendo in evidenza principi quali la tolleranza, il dialogo interculturale, la libertà di espressione anche attraverso le lingue non ufficiali, il diritto all’uso di nomi di persona tradizionali o culturalmente determinati e a sistemi educativi in cui lingua, cultura, storia e religione delle minoranze abbiano un adeguato spazio. Si tratta di uno strumento che enuncia principi programmatici, ma che non prevede alcun meccanismo concreto di attuazione: d’altra parte, la sola accettazione di tali principi da parte degli stati europei costituisce un cambio non indifferente di prospettiva rispetto al paradigma “uno stato ~ una nazione ~ una lingua”. Più dettagliata e concepita in chiave maggiormente operativa è la European Charter for Regional and Minority Languages (Carta europea per le lingue regionali e minoritarie), sempre promossa dal Consiglio d’Europa, redatta nel  ma entrata in vigore solo nel . La Carta, come vedremo meglio nel CASO STUDIO , propone una serie di misure legislative e applicative per l’implementazione del plurilinguismo in vari settori dell’amministrazione e dell’educazione nei paesi che la sottoscrivono. A questi fondamentali documenti vanno aggiunte le iniziative – non meno importanti come sostegno non solo economico, ma anche sociale e ideologico delle più piccole comunità linguistiche – messe in atto per una decina d’anni dalla Commissione europea sotto forma di sovvenzioni a iniziative di privati o associazioni a sostegno o studio della diversità culturale e linguistica. Di fatto l’Unione Europea è stata sollecitata sul problema delle cosiddette lingue meno diffuse (cfr. infra, PAR. .) dalla fine degli anni settanta e poi operativamente dal  con la creazione dell’EBLUL (European Bureau for Lesser Used Languages – Ufficio europeo per le lingue meno diffuse). 

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

 The European Charter for Regional and Minority Languages CASO STUDIO

Dal sommario introduttivo della Carta: «Scopo di questo trattato è proteggere e promuovere le lingue regionali storiche o di minoranza d’Europa. La sua elaborazione è giustificata da un lato dalla preoccupazione di mantenere e sviluppare le tradizioni e l’eredità culturale europea, dall’altro per rispettare il diritto, inalienabile e universalmente riconosciuto, a usare una lingua regionale o minoritaria nella vita pubblica e privata». Anzitutto, il trattato enuncia gli obiettivi e i principi che le parti contraenti si impegnano a rispettare per le lingue regionali o minoritarie riconosciute del proprio territorio: il rispetto per l’area geografica di ciascuna lingua; la necessità della promozione linguistica; la facilitazione o l’incoraggiamento del loro uso orale e scritto nella vita privata e pubblica (raggiunti tramite mezzi adeguati di insegnamento e studio e tramite scambi transnazionali per quelle lingue che sono parlate in forma identica o simile a cavallo di confini nazionali). La Carta enumera poi una serie di misure da intraprendere per favorire l’uso delle lingue regionali o minoritarie nella vita pubblica. Tali misure coprono i seguenti domini: l’insegnamento, l’amministrazione della giustizia, i servizi pubblici e amministrativi, i media, le attività e i servizi culturali, la vita economica e sociale e gli scambi transfrontalieri. Ogni parte contraente si incarica di applicare almeno  paragrafi o commi fra le misure elencate: di queste, un certo numero deve essere obbligatoriamente scelto in un “nocciolo duro”. Inoltre, ogni parte contraente deve specificare, nei suoi strumenti di ratifica, ogni lingua regionale o minoritaria presente sul suo territorio alla quale si applicano i paragrafi scelti. L’applicazione della Carta è controllata da un comitato di esperti che si incarica di esaminare i rapporti periodici presentati dalle parti contraenti. A mo’ d’esempio, vediamo gli artt. ,  e , relativi all’educazione, amministrazione esercizi pubblici e attività culturali; gli articoli fanno parte del cosiddetto “nocciolo duro” della Carta: per l’ e il  è necessaria l’approvazione di tre paragrafi o commi, per il  di un paragrafo. Per mostrare come gli articoli sono concepiti, prendiamo ad esempio l’art.  (nella versione inglese). Art.  – Education . With regard to education, the Parties undertake, within the territory in which such languages are used, according to the situation of each of these languages, and without prejudice to the teaching of the official language(s) of the State: a. I. to make available pre-school education in the relevant regional or minority languages; or II. to make available a substantial part of pre-school education in the relevant regional or minority languages; or III. to apply one of the measures provided for under I and II above at least to those pupils whose families so request and whose number is considered sufficient; or

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IV. if the public authorities have no direct competence in the field of pre-school education, to favour and/or encourage the application of the measures referred to under I to III above; b. I. to make available primary education in the relevant regional or minority languages; or II. to make available a substantial part of primary education in the relevant regional or minority languages; or III. to provide, within primary education, for the teaching of the relevant regional or minority languages as an integral part of the curriculum; or IV. to apply one of the measures provided for under I to III above at least to those pupils whose families so request and whose number is considered sufficient; c. I. to make available secondary education in the relevant regional or minority languages; or II. to make available a substantial part of secondary education in the relevant regional or minority languages; or III. to provide, within secondary education, for the teaching of the relevant regional or minority languages as an integral part of the curriculum; or IV. to apply one of the measures provided for under I to III above at least to those pupils who, or where appropriate whose families, so wish in a number considered sufficient; d. I. to make available technical and vocational education in the relevant regional or minority languages; or II. to make available a substantial part of technical and vocational education in the relevant regional or minority languages; or III. to provide, within technical and vocational education, for the teaching of the relevant regional or minority languages as an integral part of the curriculum; or IV. to apply one of the measures provided for under I to III above at least to those pupils who, or where appropriate whose families, so wish in a number considered sufficient; e. I. to make available university and other higher education in regional or minority languages; or II. to provide facilities for the study of these languages as university and higher education subjects; or III. if, by reason of the role of the State in relation to higher education institutions, sub-paragraphs I and II cannot be applied, to encourage and/or allow the provision of university or other forms of higher education in regional or minority languages or of facilities for the study of these languages as university or higher education subjects; f. I. to arrange for the provision of adult and continuing education courses which are taught mainly or wholly in the regional or minority languages; or

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II.

to offer such languages as subjects of adult and continuing education; or if the public authorities have no direct competence in the field of adult education, to favour and/or encourage the offering of such languages as subjects of adult and continuing education; g. to make arrangements to ensure the teaching of the history and the culture which is reflected by the regional or minority language; h. to provide the basic and further training of the teachers required to implement those of paragraphs a to g accepted by the Party; i. to set up a supervisory body or bodies responsible for monitoring the measures taken and progress achieved in establishing or developing the teaching of regional or minority languages and for drawing up periodic reports of their findings, which will be made public. . With regard to education and in respect of territories other than those in which the regional or minority languages are traditionally used, the Parties undertake, if the number of users of a regional or minority language justifies it, to allow, encourage or provide teaching in or of the regional or minority language at all the appropriate stages of education. III.

La struttura generale degli articoli della Carta rispecchia questo modello, per cui su un tema di riferimento (educazione, lingua amministrativa e simili) propone misure di protezione a diversi livelli, che vanno dal riconoscimento della lingua di minoranza totale e paritario rispetto a quello ufficiale di tutto lo stato (cfr. i commi .a.I., .b.I., .c.I. e così via) a una generica blanda promessa di tutela della storia e della cultura, per come è riflessa nella lingua di minoranza (cfr. .g.). Uno stato firmatario che sottoscriva i livelli I delle lettere a.-f. del trattato garantisce in effetti a tutte le lingue del suo territorio, di minoranza e maggioranza, un sistema educativo completo; d’altro canto, chi di questo capitolo sottoscriva solo i commi g., h., i., garantirà qualche ora di cultura locale nelle scuole (cosa che, lo vedremo al PAR. ., può rivelarsi persino dannosa per la lingua oggetto di tutela). In modo simile funzionano gli artt.  e : del primo, gli stati firmatari possono limitarsi a sottoscrivere un paragrafo – i livelli diversi vanno qui dall’uso parificato della lingua tutelata nell’amministrazione pubblica locale, regionale e statale alla non discriminazione del cittadino che usi oralmente o per iscritto la lingua meno diffusa nei rapporti con la pubblica amministrazione. Interessante è il fatto che l’art. , di particolare importanza per gli estensori della Carta, sia dedicato esclusivamente agli aspetti culturali della lingue di minoranza, senza toccare sfere, come l’amministrazione, la vita economica, l’educazione, che interessino anche i parlanti della lingua di maggioranza. Tratta infatti delle biblioteche, dei centri culturali, dei musei, dei cinema e teatri e così via: queste misure sono di minore impatto economico sull’insieme della società e non ne intaccano sostanzialmente la struttura, permettendo di tutelare almeno la vita culturale delle minoranze senza intervenire sul funzionamento dello stato centrale. Lo strumento dunque è potenzialmente assai efficace, per quei paesi che lo vogliono utilizzare appieno o che già hanno un sistema di tipo plurilingue, ma

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permette anche interpretazioni piuttosto restrittive che consentono agli stati contraenti che lo volessero di operare, pur nella formale accettazione del valore del plurilinguismo e del pluriculturalismo, un riconoscimento quasi solo formale delle istanze regionali o minoritarie. In questo senso, è opportuno ricordare che sono gli stati stessi a scegliere quali sono le lingue regionali o passabili di tutela: questo implica che i singoli stati possono fare distinzioni a livello molto diverso, riconoscendo come lingue quelle varietà che per altri sarebbero classificate come dialetti o non riconoscendo comunità linguistiche che altrove possono essere oggetto di tutela e così via; al limite, uno stato, pur firmatario, può anche decidere che non ci sono, nel suo territorio, comunità di minoranza. Va anche notato che le lingue portate dall’immigrazione sono esplicitamente escluse dagli ambiti di intervento della Carta. Al giugno ,  paesi europei hanno firmato la Carta e  la applicano.

L’Italia ha firmato la convenzione per la European Charter for Regional and Minority Language il  giugno , ma non ha ancora ratificato il documento.  L’Italia dalle pressioni internazionali ai prodromi di un pluralismo linguistico CASO STUDIO

a) Minoranze linguistiche in Italia «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche» (art.  della Costituzione entrata in vigore il º gennaio ). La legge di attuazione di tale articolo – legge / – data  dicembre  (vedremo fra poco la nuova normativa): in questi cinquant’anni, tuttavia, in alcune regioni, lingue diverse dall’italiano sono state tutelate da particolari legislazioni locali o regionali, preparate ad hoc all’indomani del secondo conflitto mondiale. In particolare si tratta di aree di confine, la cui attribuzione politica alla Repubblica italiana è stata controversa: la Valle d’Aosta, l’Alto Adige e la cosiddetta “zona A” del territorio di Trieste, che ora ne costituisce la provincia, sono state lasciate sotto amministrazione italiana a condizione esplicita che vi fossero, in modi e con strumenti di volta in volta differenti, tutelate le popolazioni di lingua diversa. Questo ha prodotto una situazione di fatto per cui nell’uso specialistico italiano si è sviluppata una particolare distinzione tra minoranze nazionali e minoranze linguistiche. Alle prime corrispondevano popolazioni che potessero, direttamente o indirettamente, essere legate a stati nazionali immediatamente al di là dei confini: l’Austria e la Germania per i germanofoni dell’Alto Adige, la Iugoslavia (poi la Slovenia) per gli slavofoni dei confini orientali, la Francia per le popolazioni della Valle d’Aosta. Tutte le altre eteroglossie interne sono state al contrario classificate come minoranze linguistiche, ossia alla stregua di popolazioni fondamentalmente di cultura e identità italiana che incidentalmente facessero uso di varietà linguistiche particolari.

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«Per quanto riguarda le altre minoranze cosiddette storico-territoriali, in quasi tutti i casi sparpagliate sul territorio italiano nella forma di isole linguistiche di modeste dimensioni, l’atteggiamento ufficiale è stato quello del mancato riconoscimento. Non va dimenticato che ancora nel secondo dopoguerra pesava sull’ideologia ufficiale un’impronta nazionalista, esplicita nelle fasi di stesura della Costituzione repubblicana ad esempio per quanto riguarda il concetto di salvaguardia ad oltranza della lingua nazionale. Si noti come, durante le discussioni all’interno della Sottocommissione per gli studi attinenti la riorganizzazione dello stato, si arrivò addirittura a dichiarare (Lucio Luzzato, nel ) che “[alle] deboli minoranze di greci, albanesi, catalani, etc. non sembra conveniente né possibile concedere diritti per quanto riguarda il rispetto della loro lingua e dei loro costumi”» (Dal Negro, ). Tra quelle che erano classificate come minoranze linguistiche  vanno anzitutto ricordate le due grandi comunità regionali sarda e friulana, già da tempo tuttavia considerate lingue diverse dall’italiano per Abstand (in particolare il sardo) e in parte per Ausbau (in particolare il friulano, anche se il sardo ha attestazioni letterarie antichissime); abbiamo poi le comunità di lingua occitana e francoprovenzale del Piemonte, piccole comunità germanofone sulle Alpi e le isole linguistiche albanesi, croate e greche dell’Italia meridionale, oltre alla comunità catalana di Alghero. Naturalmente, a queste si vanno aggiungendo sempre più varietà diverse dovute all’immigrazione, che tuttavia non godono al momento, al pari delle varietà zingare, di alcuna attenzione amministrativa. In una strana posizione intermedia fra minoranza nazionale e linguistica si poneva la comunità di lingua ladina. La legge / ha alterato in parte questo stato di cose, del quale vale tuttavia la pena di sottolineare alcuni pochi punti di rilevanza teorica. Il primo è rappresentato dalla situazione della Valle d’Aosta, considerata comunità nazionale francese, ma nella quale la lingua francese, pur essendo conosciuta dalla grande maggioranza della popolazione, è usata, in ambito familiare e accanto all’italiano e alle varietà franco-provenzali, da meno di . persone, ossia da circa l’% della popolazione totale (Iannàccaro, Dell’Aquila, ) . Un tale statuto linguistico-giuridico è stato causato dalle pressioni internazionali, soprattutto francesi, che appena dopo la seconda guerra mondiale spingevano per una risistemazione politico-culturale dell’intera area, dove in effetti non si tenne il previsto referendum sull’appartenenza statale della valle all’Italia o alla Francia, nel timore che il risultato avrebbe troppo alterato gli equilibri territoriali fra i due stati confinanti. L’Italia ha mantenuto il controllo politico dell’area, ma si è impegnata a farne una regione autonoma, di amministrazione bilingue e con un sistema scolastico in cui al francese è affidato un ruolo rilevante . Di fatto, allora, la situazione delle varietà franco-provenzali è stata, curiosamente, quella di una minoranza linguistica all’interno di una (costruita) minoranza nazionale: e dunque il francoprovenzale in quanto tale, lingua di socializzazione primaria per poco più di metà della popolazione autoctona, non ha goduto di alcuna tutela ufficiale . Anche la situazione degli slavofoni del Friuli e della Venezia Giulia è stata particolare in questi cinquant’anni: in seguito ai trattati bilaterali con l’allora Iugoslavia e le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, gli sloveni delle

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province di Trieste e Gorizia sono stati riconosciuti come minoranza nazionale e hanno quindi beneficiato del diritto a un proprio sistema scolastico, a un canale radiofonico e all’uso dello sloveno standard nei rapporti con la pubblica amministrazione locale. La maggior parte degli slavofoni vive tuttavia nella provincia di Udine, dove per motivi di eredità storica tali trattati non sono in vigore: la popolazione – ovviamente slovena quanto gli abitanti del Triestino e del Goriziano – si è così trovata nella condizione di minoranza linguistica, e dunque considerata fondamentalmente italiana e senza tutela linguistica. Situazione in parte simile a quella valdostana si è venuta a creare per l’Alto Adige, rimasto all’Italia dopo il trattato De Gasperi-Gruber del  a patto che fosse garantito l’uso e l’insegnamento in tedesco per le popolazioni germanofone locali e che fosse riconosciuta una forte autonomia amministrativa alla regione. Alla popolazione di lingua tedesca, largamente maggioritaria su tutto il territorio, con l’eccezione del capoluogo Bolzano e di alcuni comuni limitrofi, è stata assicurata la parità nell’uso amministrativo dell’italiano e del tedesco, così come l’esistenza di un sistema scolastico proprio e di un canale televisivo e di uno radiofonico pubblici in tedesco. In questo quadro rientra la particolare situazione dei ladini delle Dolomiti, la cui lingua gode da tempo di totale riconoscimento solo nella provincia autonoma di Bolzano: nella provincia autonoma di Trento la sua tutela è garantita solo dagli anni novanta, mentre in Veneto la lingua ladina non godeva di nessuna attenzione giuridica né economica fino all’entrata in vigore della legge /. Il tipo di bilinguismo che lo stato ha previsto per l’Alto Adige differisce tuttavia in maniera radicale da quello in vigore per la Valle d’Aosta: mentre in quest’ultima italiano e francese sono idealmente visti come due lingue di una unica comunità, e dunque come possedute in ugual misura da tutta la popolazione (per la maggioranza della quale, ricordiamolo, il franco-provenzale rappresenta spesso il polo basso della dilalia/diglossia), per l’Alto Adige è stato adottato un tipo di bilinguismo che possiamo definire separativo. Si è qui riconosciuta l’esistenza di due comunità, quella di lingua italiana e quella di lingua tedesca, comunità che coabitano sullo stesso territorio senza necessariamente sovrapporsi; abbiamo così, per coloro che si sono dichiarati italiani, un’educazione e una vita amministrativa sostanzialmente italofone (con conoscenza obbligatoria del tedesco come seconda lingua) e parallelamente un’educazione e una vita amministrativa in tedesco standard per la popolazione di lingua tedesca (con obbligatoria conoscenza dell’italiano). La comunità ladina costituisce il terzo gruppo etnico-linguistico dell’area: limitandoci alla situazione dei ladini altoatesini, essi godono, nelle due valli in cui la loro lingua è tradizionalmente parlata e nell’amministrazione provinciale, di diritti linguistici paragonabili a quelli delle altre due comunità. E tuttavia, se per la comunità che si definisce “italiana” l’italiano è effettivamente la lingua di comunicazione ordinaria anche in ambito familiare, per l’altra comunità il tedesco standard non è che il polo alto di una diglossia che vede come varietà bassa – estremamente vitale e appropriata per molti ambiti comunicativi – una serie di dialetti definiti dai linguisti come austro-bavaresi, a volte sensibilmente diversi dal tedesco letterario. Ne consegue che, mentre per i ger-

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manofoni apprendere l’italiano “scolastico” è sufficiente per una comunicazione efficace con l’altra comunità, per gli italofoni la conoscenza del tedesco letterario non basta per l’integrazione effettiva con l’altro gruppo . In questo contesto i ladinofoni sembrano essere in una posizione di relativo vantaggio, dal momento che il loro particolare sistema scolastico, sostanzialmente trilingue, e la loro posizione di minoranza nella minoranza  li mettono in condizione di conoscere tutti i codici effettivamente parlati sul territorio e di conseguenza di potersi relazionare in modo paritario con i membri delle altre due comunità. È proprio con la tutela della popolazione di lingua ladina del Trentino (insieme alle popolazioni germaniche cosiddette “mòchene” e “cimbre”) che si inaugura, a partire dagli anni novanta, una stagione di interventi legislativi a livello locale che culmineranno nell’approvazione della legge /. In verità, lo statuto della provincia autonoma di Trento prevedeva già nel   l’insegnamento della lingua ladina nelle scuole della Val di Fassa, la tutela della toponomastica e la valorizzazione di tutte le attività culturali tradizionali, ma è solo con le successive riforme statutarie del  e del   che tali possibilità acquisiscono una rilevanza concreta. Parallelamente, risale al  la normativa regionale a favore del friulano nella regione autonoma Friuli-Venezia Giulia : il friulano è elevato a rango di lingua ufficiale – accanto all’italiano – sul territorio regionale, e la regione stessa si impegna a favorire e finanziare iniziative e attività tese al recupero e alla valorizzazione linguistica; la comunità di lingua slovena della provincia di Udine ha parallelamente ottenuto protezione legale nel  . Allo stesso modo la Sardegna tutela dal   il sardo e ne prevede l’introduzione graduale nell’uso amministrativo e scolastico. Pur nella notevole differenza di situazioni concrete, le tre aree sono caratterizzate da una sostanziale assenza di varietà standard di riferimento, e il prestigio e l’uso effettivo sul territorio delle varietà conosce situazioni a volte molto divergenti. Progetti di pianificazione linguistica sono in corso nelle tre aree: ne vedremo più avanti alcuni aspetti linguistici e sociolinguistici. b) La legge / Con l’entrata in vigore della legge / sulle Lingue e culture minoritarie in Italia, comincia per molte varietà territoriali della penisola il lungo e difficile processo di normalizzazione linguistica – ossia inizia quel cammino che, nelle intenzioni almeno, dovrebbe portarle a prendere posto come lingue dell’amministrazione e della comunicazione extrafamiliare accanto all’italiano, promuovendo allo stesso tempo l’istituzione di varietà scritte che facciano da ombrello protettivo e serbatoio di innovazione per i singoli dialetti dislocati sul territorio. Con questa legge, dunque, lo stato italiano non solo riconosce l’esistenza di una realtà multilingue e multiculturale al suo interno, ma intende porre le basi giuridiche per la tutela delle minoranze linguistiche e di quelle minoranze nazionali che non godono già, per legislazione precedente, di una tutela maggiore di quella che riconosce la nuova normativa. Riportiamo di seguito alcuni articoli della legge che saranno seguiti da un breve commento.

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Art.  . La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano. . La Repubblica, che valorizza il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana, promuove altresì la valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge. Art.  . In attuazione dell’articolo  della Costituzione  e in armonia con i princìpi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo. Art.  . La delimitazione dell’ambito territoriale e subcomunale in cui si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche previste dalla presente legge è adottata dal consiglio provinciale, sentiti i comuni interessati, su richiesta di almeno il quindici per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi, ovvero di un terzo dei consiglieri comunali dei medesimi comuni. [...] Art.  . Nelle scuole materne dei comuni di cui all’articolo , l’educazione linguistica prevede, accanto all’uso della lingua italiana, anche l’uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle attività educative. Nelle scuole elementari e nelle scuole secondarie di primo grado è previsto l’uso anche della lingua della minoranza come strumento di insegnamento. [...] . Al momento della preiscrizione i genitori comunicano alla istituzione scolastica interessata se intendono avvalersi per i propri figli dell’insegnamento della lingua della minoranza. [...] Art.  [...] . Qualora gli atti destinati ad uso pubblico siano redatti nelle due lingue, producono effetti giuridici solo gli atti e le deliberazioni redatti in lingua italiana. Art.  . Nei comuni di cui all’articolo , il consiglio comunale può provvedere, con oneri a carico del bilancio del comune stesso, in mancanza di altre risorse disponibili a questo fine, alla pubblicazione nella lingua ammessa a tutela di atti ufficiali dello Stato, delle regioni e degli enti locali nonché di enti pubblici non territoriali, fermo restando il valore legale esclusivo degli atti nel testo redatto in lingua italiana. Art.  . Fatto salvo quanto previsto dall’articolo , nei comuni di cui all’articolo  è consentito, negli uffici delle amministrazioni pubbliche, l’uso orale e scritto del-

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

la lingua ammessa a tutela. Dall’applicazione del presente comma sono escluse le forze armate e le forze di polizia dello Stato. [...] In maniera inaspettata per una legge di valorizzazione e tutela delle minoranze linguistiche, il testo si apre con la dichiarazione del carattere ufficiale dell’italiano e colloca tra gli obiettivi dello stato la valorizzazione del patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana, oltre a quello delle lingue e culture minoritarie enumerate nell’articolo seguente. Questa disposizione, che sancisce per la prima volta esplicitamente l’ufficialità della lingua italiana , limita allo stesso tempo al rango di lingue non ufficiali tutte le altre esistenti sul territorio della Repubblica, pur riconoscendone l’esistenza e garantendo ai suoi parlanti una serie di diritti. Di seguito, all’art. , vengono elencate le lingue oggetto di tutela, divise in due gruppi, in maniera apparentemente ambigua e non chiara: si distingue infatti tra «popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e [...] quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo», ponendo una sorta di gerarchia tra le minoranze in cui le prime si contraddistinguono per un loro carattere etnico oltre che linguistico, mentre le seconde sembrano essere caratterizzate esclusivamente da particolarità linguistiche. Questa distinzione, che non sembra trovare alcun fondamento giuridico , pare riprendere quella tra minoranze nazionali e minoranze linguistiche, promuovendo in un certo senso al rango di minoranze nazionali quei gruppi la cui lingua sia parlata e usata come lingua ufficiale e amministrativa principalmente al di fuori dei confini della Repubblica italiana. Il secondo gruppo, organizzato secondo un criterio residuale, sembrerebbe includere invece il friulano e il sardo in quanto “grandi lingue regionali”, il ladino – parlato solo nella regione dolomitica a cavallo fra Trentino-Alto Adige e Veneto –, l’occitano e il franco-provenzale in quanto dialetti di lingue non standardizzate , e il francese in quanto lingua di cultura di popolazioni sicuramente non francesi della Valle d’Aosta e di alcune valli del Piemonte la cui lingua di comunicazione primaria è tradizionalmente rappresentata dai dialetti franco-provenzali. Parallelamente a quanto accade in ambito europeo, inoltre, anche la normativa italiana non considera i dialetti e le lingue delle comunità di lavoratori immigrati: va ricordato però che durante la discussione della legge in Parlamento fu fatta la proposta di includere anche il piemontese tra le lingue da proteggere, ma proprio perché questa varietà è comunemente considerata un dialetto, la proposta non venne approvata; di conseguenza, per l’opposizione di una parte del Parlamento furono bocciate alcune norme che prevedevano la protezione delle lingue dei gruppi nomadi come rom e sinti, nonostante l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa si fossero mostrati favorevoli a tale tutela . Va però notato che la legge, sebbene l’art.  parli esplicitamente di «tutela [della] lingua e [della] cultura», si sviluppa in modo da garantire prima di tutto i diritti dei cittadini all’uso di determinate lingue diverse dall’italiano, e non la tutela di una entità “lingua” come valore di per sé: la “sacralità” della lingua

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.

L I N G U A E S TAT O

indipendentemente dalla volontà e dalle esigenze dei cittadini è limitata, nell’art. , all’italiano, lingua nazionale. L’art.  infatti sancisce uno dei principi chiave della legge, cioè che lo status di minoranza, beninteso all’interno delle varietà riconosciute, è attribuito tramite il meccanismo dell’autorivendicazione. Si tratta, in pratica, del principio della dichiarazione di volontà di appartenenza alla minoranza da parte dei singoli – indipendentemente dalla conoscenza e dall’uso di un determinato codice linguistico –, principio insindacabile quanto alla sua veridicità poiché non basato su dati oggettivi e verificabili (cfr. Pizzorusso, , p. ): in nessun punto della legge si parla di competenza nella lingua di minoranza o nella rispettiva lingua tetto da parte della popolazione locale e non risulta quindi necessario presentare alcun carattere obiettivamente riconoscibile per avere diritto ai benefici della tutela. E anche volendo applicare criteri oggettivi non sarebbe certo facile – se non impossibile – definire che cosa significhi parlare ladino, o franco-provenzale o germanico: le situazioni sociolinguistiche delle diverse minoranze sul territorio dello stato italiano sono troppo variegate e differenti tra loro per poter applicare dei criteri di valutazione che non siano puramente soggettivi. Nel più semplice dei casi ci si trova di fronte a una situazione di dilalia a tre elementi, con la variante locale della lingua di minoranza come basiletto (Ll), il dialetto romanzo regionale come mesoletto (Lm) e l’italiano (in variante regionale) come acroletto (Lh), fino a situazioni con (almeno) cinque codici in compresenza, come a Issime, in Valle d’Aosta, in cui convivono il dialetto walser (germanico) come Ll, franco-provenzale e piemontese come Lm, italiano e francese come Lh . Il legislatore, dunque, delega tutte le questioni di corpus planning alle comunità stesse, non senza fornirgli un adeguato (?) contributo economico; è proprio alle comunità che spetta il compito – spesso non semplice – di scegliere quale sia la lingua di riferimento e, quando questa non sia una lingua già in uso per l’insegnamento e l’amministrazione pubblica in altre parti d’Europa, di adattarla alle nuove esigenze. Le popolazioni di lingua francese, catalana o croata avranno ognuna il proprio standard già pronto e adatto per essere impiegato in tutti gli ambiti amministrativi e educativi richiesti dalla legge; le popolazioni albanesi, germaniche o greche, ad esempio, invece, non necessariamente vorranno tutte far riferimento ai rispettivi standard nazionali come lingue tetto e, nel caso non lo volessero, si troverebbero nella situazione dei friulani, dei ladini e dei sardi, che dovranno, in modi e tempi diversi, sottoporre i propri idiomi parlati a un capillare lavoro di corpus planning prima di poter avere uno strumento adeguato per l’amministrazione e l’educazione. Questa fluidità di situazioni rende dunque molto difficile (se non inutile, quando sia possibile) l’applicazione delle norme sull’uso delle lingue minoritarie nell’educazione. Ben tre articoli della legge (artt. -) sono dedicati alla scuola e toccano tutti i diversi gradi dell’insegnamento, dalla scuola materna all’educazione degli adulti e all’università, sia nel senso di favorire la ricerca nell’ambito della lingua e cultura di minoranza, sia in quello di organizzare corsi di lingua e di formazione per insegnanti. Inoltre, un motivo di perples-

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

sità riguardo ai tre articoli sull’educazione è costituito dalla confusione – forse addirittura voluta – tra lingua come oggetto di studio e lingua come strumento per l’insegnamento: come si vedrà in modo dettagliato ai PARR. . e ., l’inserimento delle lingue minoritarie nel contesto scolastico nazionale italiano, concepito per diffondere lingua e cultura italiane, difficilmente potrà giovare alle lingue oggetto di tutela; anzi, l’introduzione di poche ore settimanali di lingua e cultura minoritaria nelle scuole può addirittura dare risultati negativi nei confronti delle lingue locali, la cui posizione subalterna rispetto all’italiano verrebbe ufficializzata e definitivamente riconosciuta. E, di fatto, all’art. , come ai successivi artt. - per quanto concerne gli usi amministrativi, si sancisce l’assoluta priorità dell’italiano sulle lingue di minoranza: nella scuola la lingua di minoranza è ammessa, previo consenso dei genitori, accanto alla lingua italiana; nell’amministrazione pubblica i soli atti e delibere in italiano hanno valore legale mentre quanto scritto nelle lingue di minoranza non è che una traduzione facoltativa. Lo stesso vale per la toponomastica, in cui la forma in lingua locale può essere usata “in aggiunta” a quella ufficiale – cioè quella italiana. . Cfr. infra, PAR. . per la discussione terminologica. . È in corso di pubblicazione da parte degli autori del manuale una vasta ricerca sociolinguistica quantitativa sulla situazione valdostana, basata su un campione di circa . persone. . L’art.  dello Statuto speciale della Valle d’Aosta garantisce un numero pari di ore di insegnamento del francese e dell’italiano e permette l’uso del francese come lingua veicolare delle lezioni. . Iniziative in favore delle varietà locali sono fino a oggi da attribuire quasi esclusivamente a enti e associazioni vallive. . Cfr. Kramer (); Egger (, ); Lanthaler (); Bertagnolli (); Coletti, Cordin, Zamboni (); Tyroller (); Missaglia (); Statistisches Jahrbuch (); Wakenhut (); Egger, McLean (); Puigdevall i Serralvo, Iannàccaro, Dell’Aquila (); Iannàccaro (in stampa b). . Cfr. Puigdevall i Serralvo, Iannàccaro, Dell’Aquila (). . D.P.R.  agosto , n. . . D.Lgs.  dicembre , n.  e  settembre , n. . . Legge regionale Friuli-Venezia Giulia  marzo , n. . . Legge  febbraio , n. . . Legge regionale Sardegna  ottobre , n. . . «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». . Norme sull’uso dell’italiano esistono tuttavia in numerose disposizioni di legge e regolamenti (cfr. tra gli altri gli artt.  e  del Codice di procedura penale e l’art.  del Codice di procedura civile). . Piergigli (), p. . . Ma forse il legislatore intende con “occitano” esclusivamente le varianti piemontesi di “lingua d’oc”. . Tutela peraltro prevista da Slovenia, Austria, Finlandia, Germania, Olanda, Slovacchia e Svezia. . Cfr. Dal Negro, Iannàccaro ().



 Corpus planning

. Introduzione Come abbiamo visto sopra, la pianificazione linguistica ha fra i suoi scopi quello di intervenire in modo consapevole sui rapporti fra le lingue all’interno di un determinato territorio; ma perché i codici in compresenza possano tutti, almeno in teoria allo stesso modo, essere pronti a svolgere quelle funzioni che sono proprie delle lingue ufficiali o che occupano il polo alto della diglossia, bisogna che siano dotati di appropriati strumenti linguistici. Nella pratica, avviene invece molto spesso che i codici presenti nella stessa comunità abbiano ricevuto un trattamento diseguale nel corso della storia: si tratta allora di fornire alle lingue più deboli o che ancora non lo avessero un armamentario di strumenti perché possano competere in regime di parità con le altre. Il corpus planning è appunto studio del lavoro che si compie su un particolare codice per metterlo in grado di assumere le funzioni di lingua dell’amministrazione, della scuola o dell’alta cultura. Ovviamente, non tutte le situazioni di pianificazione linguistica in atto necessitano di attività di corpus planning: le lingue oggetto di intervento potrebbero già essere tutte codificate e persino ufficiali – ancorché in parti diverse del mondo –, come accade ad esempio con italiano e tedesco in Alto Adige; oppure potrebbe darsi che una lingua che diventa ufficiale mentre prima non lo era abbia comunque una forma già adatta a ricoprire le nuove funzioni che le sono richieste: è stato il caso del gallese in Gran Bretagna, per il quale ci si è potuti limitare all’opera legislativa (ricordiamo, nota come status planning) e a quella di affermazione sul territorio (implementation o acquisition planning), dal momento che esisteva già una varietà di lingua gallese codificata, letteraria e di ininterrotta tradizione culturale e giornalistica, accettata e praticata dalla comunità e coesistente come lingua scritta accanto alle specifiche varietà locali. 

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Le pagine che seguono hanno dunque lo scopo di fornire qualche indicazione di corpus planning a diversi livelli di analisi linguistica; diamo qui per scontata una questione in realtà tutt’altro che semplice, e tuttavia fondamentale – se, e semmai in che modi, tempi e occasioni, sia il caso di intraprendere un’attività di pianificazione linguistica in una comunità –, ma ci torneremo in parte sopra più avanti. . Scelta del codice Il primo passo da affrontare, una volta risolta la questione “ontologica” appena accennata, è legato alla scelta del codice che tale attività deve supportare; in altre parole, alla decisione su quale delle molte varietà normalmente presenti sul territorio diventerà quella prevalente o ufficiale. Ovviamente, bisogna essere consci del fatto che la scelta di una varietà come “lingua” fa ricadere le altre, originariamente e strutturalmente paritarie, al rango di “dialetti” . La decisione è talora scontata, e si impone per motivi storici, sociali e/o economici, come è avvenuto per la maggior parte delle lingue nazionali d’Europa, sia pure con modalità diverse; tuttavia, a volte la scelta si rivela un’operazione difficile, per la sostanziale equivalenza dei codici in concorrenza. Le parlate d’Europa che hanno raggiunto lo status di lingua ufficiale hanno percorsi differenti: è talora il dialetto di una particolare regione a essersi imposto, una volta adottato dalla corte prima e dalla borghesia della capitale poi e diventato – appunto per questa sua preminenza – lingua letteraria (è il caso del francese). Oppure la varietà che poi risulterà prevalente è originariamente caratterizzata come registro sociale: come in Inghilterra, dove, con lo stemperarsi della francesizzazione seguita alla conquista normanna, emerge come varietà prevalente la lingua della cancelleria di corte (originariamente, è vero, basata su una varietà del Sussex), che diventa via via lingua amministrativa e letteraria; è questo il caso anche dello svedese standard, non legato all’inizio ad alcun territorio particolare, quanto alla corte e alla sua vita amministrativa. L’italiano moderno (intendendo con questo quella lingua che faticosamente dal  e poi in modo trascinante dal dopoguerra si è affermata come lingua parlata all’interno dello stato) ha una storia ancora diversa, come è noto, derivando da una lingua quasi solo letteraria (cfr. CASO STUDIO ); così come peculiare è la posizione del tedesco (Hochdeutsch), sostanzialmente una somma e una mistura fra vari dialetti di area alto-tedesca, presto divenuta lingua letteraria grazie all’esempio della traduzione di Lutero dei testi sacri. . Cfr. Alinei ().



.

CORPUS PLANNING

Già per l’italiano e il tedesco siamo di fronte a un’evoluzione non del tutto spontanea: si deve a Lutero la consapevole scelta di adoperare per la sua traduzione una lingua mista, una specie di minimo comune denominatore di varietà contigue, così come fu l’attaccamento determinato e cruscante all’esempio delle “tre corone” fiorentine a caratterizzare la forma dell’italiano letterario e poi moderno. Tuttavia, altre tradizioni linguistiche mostrano ancora più esplicitamente l’effetto di decisioni determinate nel corso della loro formazione o evoluzione. Tipico, per certi versi, è l’esempio del catalano attuale, risultato di un perseguito equilibrio fra la tradizione scritta – secolare – e le varietà parlate in contesti assai informali e in modo semiclandestino durante il franchismo, o dell’olandese e del ceco, consapevoli risistematizzazioni di lingue che sino a  anni fa apparivano piuttosto differenti rispetto alle attuali . Ma con le lingue dell’Europa centrale e orientale siamo spesso di fronte a meccanismi diversi, che molto risentono del nazionalismo ottocentesco e che meritano una trattazione a parte.  La questione (letteraria) della lingua in Italia: la scelta del codice CASO STUDIO

L’italiano standard attuale è il risultato di una serie di scelte esplicite e consapevoli di politica linguistica, messe in atto sulle diverse lingue della penisola almeno dal  ai nostri giorni. Solo negli ultimissimi decenni il suo affermarsi come lingua di comunicazione di massa ne ha sottratto l’evoluzione ai pianificatori e ha innescato processi effettivamente evolutivi. È allora interessante scorrere rapidamente alcune delle tappe principali del dibattito sulla lingua in Italia, al fine di mettere a fuoco più di una tematica rilevante nel processo di scelta e implementazione di una varietà linguistica. La prima riflessione esplicita sulla situazione linguistica italiana si fa generalmente risalire a Dante, che nel De vulgari eloquentia dopo aver schizzato il panorama linguistico d’Italia articolandolo in  varietà regionali – che sono grosso modo riconosciute ancor oggi (. siciliano; . pugliese, ossia il volgare degli àpuli occidentali, il campano; . romanesco; . spoletino, ossia umbro; . toscano; . genovese; . sardo; . calabro, ossia il volgare degli àpuli orientali, il pugliese; . anconitano; . romagnolo; . lombardo; . trevigiano-veneziano; . aquileiese, ossia ladino e friulano; . istriano) – passa a trattare del volgare letterario, prefigurando una situazione di sostanziale diglossia. In sostanza, dice Dante, nessuno dei  idiomi parlati presi in considerazione può dirsi abbastanza “illustre” per costituire il polo H: quindi questo, che lui chiama vulgare latium per distinguerlo dai registri basilettali (materno vulgare), va trovato in una lingua in certo senso comune, quella della tradizione poetica che va dai siciliani ai suoi giorni. . Cfr. anche Kloss ().



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Questa soluzione porta cioè al riconoscimento, e forse alla fondazione, di una «collettività linguistica su base esclusivamente letteraria» (Tesi, , p. ): una sorta di territorio di autoriconoscimento per coloro che possedessero i registri elevati e scritti della comunicazione non in latino. Esisteva però veramente, al tempo di Dante, una tale collettività? È lecito avanzare qualche dubbio, di tipo filologico: i codici sui quali Dante lavorava presentavano probabilmente un aspetto uniforme in modo ingannevole, risultato di numerose copiature normalizzatrici in senso toscano: la lingua dei rimatori siciliani, ad esempio, non era poi così simile a quella di Dante quanto lui stesso pensava – e questo è vero anche per gli altri testi in vulgare latium che prende in considerazione, provenienti da altri punti d’Italia. Ossia, esistevano certamente alla fine del XIII secolo diverse tradizioni regionali di volgare illustre, a volte anche sensibilmente differenti fra loro, ma delle opere prodotte altrove Dante leggeva delle copie fortemente toscanizzate (cfr. Sanga, ). Dal momento poi che il De vulgari ha conosciuto una grande fortuna presso i normalizzatori linguistici successivi, l’italiano letterario potrebbe allora essere nato come lingua unica per tutta la penisola a seguito appunto di questo equivoco dantesco, presentandosi cioè come codificazione unitaria di un uso che unitario non era. Dopo la parentesi umanistica latineggiante del Quattrocento, risorge intorno alla metà del XVI secolo, in parallelo con la crisi politica delle signorie regionali, il problema della lingua letteraria italiana (lo ricordiamo ancora, non si tratta per ora di lingue ufficiali o amministrative o scolastiche): si fronteggiarono allora tre correnti principali, accomunate dalla considerazione della scontatezza, in certo senso, dell’esistenza di tre grandi livelli sociolinguistici nel repertorio almeno delle persone colte: il latino, varietà H per eccellenza, di grande prestigio e codificazione scritta; il dialetto locale, al polo opposto, varietà L di uso pressoché generale in tutti gli strati sociali (eventualmente articolata in koinai sociogeografiche) e, in mezzo, la lingua che si voleva normalizzare. Le soluzioni da dare al problema di che cosa dovesse essere questo polo intermedio furono allora le seguenti (le vediamo rapidamente, solo in termini di politica linguistica). . Quella detta “cortigiana” (Colli, Castiglioni e soprattutto Trissino), che in pratica propugnava una lingua letteraria che oggi chiameremmo in qualche modo polinomica (cfr. infra, CASO STUDIO ): il modello è la lingua praticata nelle corti italiane dell’epoca, in cui sopra una base genericamente toscana o centroitaliana si inserivano parole e costrutti presi da altre parlate romanze (varietà peninsulari e provenzale), mantenendo un controllo lessicale e fonetico di tipo estetizzante. È in sostanza la proposta di una nuova lingua “naturalmente artificiale”, ossia non presente in alcun luogo come varietà basilettale, e dunque in qualche modo creata ad hoc, ma la cui creazione avviene spontaneamente secondo l’uso letterario dei suoi utenti, piuttosto che per decisione di un singolo o di un gruppo di pianificatori linguistici di professione. La lingua cortigiana è una lingua pianificata per essere principalmente letteraria, ma che non esclude, appunto per la sua provenienza cortese, usi e funzioni amministrative. . La soluzione “fiorentina”, che proponeva l’adozione completa di una varietà effettivamente parlata sul territorio (il fiorentino, nel caso – tra gli altri – di

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.

CORPUS PLANNING

Machiavelli e Varchi, il senese, nella proposta di Tolomei): beninteso, si trattava di utilizzare i livelli diafasicamente e diastraticamente più elevati. Siamo di fronte a un progetto di società la cui posizione linguistica dipende molto da fattori diatopici: in Toscana viene prospettata una situazione in cui al latino (Lh) si affianca un continuum toscano a sua volta caratterizzato da una dialettia sociale con forte differenziazione fra polo alto (la lingua toscana letteraria) e polo basso (lingua toscana del popolo). Nel resto d’Italia, la situazione è più semplicemente di doppia diglossia fra latino e toscano letterario (entrambi Lh e specializzati in diverse funzioni) e dialetti romanzi Ll. . La risposta arcaizzante, detta poi “bembismo” dal suo maggior rappresentante, il veneziano (!) Pietro Bembo, che finì col prevalere. Bembo parte dal presupposto che “lingua” significa tout court “lingua letteraria”, ossia già impiegata da grandi scrittori (il che, a parte i rischi di circolarità nel ragionamento, è un assunto piuttosto coerente se si vuole pianificare la lingua come solo letteraria). Dunque la soluzione cortigiana e quella fiorentina vanno entrambe rigettate: la prima perché, a parere di Bembo, non è stato prodotto alcun capolavoro nelle varietà cortigiane , la seconda perché non è che il riflesso popolare e “contaminato” dall’uso spontaneo di una varietà elevata. Vanno dunque cercati, o se del caso creati, modelli di riferimento, in modo da pianificarne una consapevole imitazione, che non è dunque solo stilistica, ossia pertinente al registro, ma coinvolge tutti i livelli della lingua. I modelli sono trovati, come è noto, in Petrarca e Boccaccio – Dante, riconosciuto astrattamente il più grande, è però scartato come troppo “sperimentalista” per aver accolto nella Commedia voci provenienti da varietà e codici anche molto diversi. La proposta di Bembo condiziona la situazione linguistica italiana per almeno tre secoli; solo nell’Ottocento, con l’unificazione politica di gran parte della penisola, la questione verrà seriamente riproposta. È facile vedere come l’interesse di questi pianificatori cinquecenteschi fosse esclusivamente incentrato sulla forma da dare alla lingua letteraria, essendo chiaro che da questo dibattito non sarebbero state toccate né le varietà parlate né quelle utilizzate a scopi amministrativi, che all’epoca erano fondamentalmente il latino e diverse specie di “volgare illustre” su base regionale, variamente toscanizzate. In questo il dibattito cinquecentesco si differenzia anche dalla posizione di Dante, alla ricerca di una lingua civile, ma d’altronde le condizioni di autonomia politica di un intellettuale trecentesco differivano molto profondamente da quelle di un suo omologo di duecento anni dopo. Il panorama sociolinguistico dell’Italia rimane così molto complesso per i successivi tre secoli, assestandosi fondamentalmente su una situazione che vedeva al polo basso le numerosissime varietà locali, fortemente differenziate diatopicamente, e al polo alto una serie di lingue amministrative, scientifiche e di comunicazione colta sovralocale che spaziavano dal latino vero e proprio a diversi tipi di koinai regionali scritte a “italiani” più o meno differenziati localmente. Fluttuante su quest’insieme, senza una sua collocazione specifica, sta l’italiano letterario unitario. Al momento della creazione dello stato italiano, però, è proprio questa varietà, pianificata – va ricordato – per essere esclusivamente letteraria, che viene presa tout court come lingua ufficiale, amministrativa e scolastica del nuovo stato.



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

La nascita del Regno d’Italia provoca comprensibilmente la ripresa della discussione sulla lingua, che si incentra appunto sul tipo di interpretazione che va data del rapporto tra l’italiano letterario di Bembo e la “lingua comune della nazione”. Il problema, lo abbiamo visto, è molto serio, perché coinvolge istanze di legittimazione dello stato nel suo complesso: fatta l’Italia bisognava fare gli italiani, per giustificare in qualche modo l’iniziativa, e la lingua, anche per le condizioni e il periodo in cui fu instaurato il regno, è un ottimo strumento. Viene dunque prevista – o meglio tollerata – una situazione di diglossia fra una lingua comune, sui tratti della quale si discute, Lh e l’infinita serie dei dialetti o delle cosiddette “varietà alloglotte” come Ll; la diglossia decadrà, come è noto, in dilalia solo dopo la seconda guerra mondiale e la comparsa pervasiva della radio e della televisione. Il dibattito tardo-ottocentesco verte appunto sul polo H: c’è a disposizione, in effetti, una varietà già comune alla penisola, l’italiano, che però presenta qualche svantaggio. . È praticamente un codice solo scritto; è persino aneddotica la posizione linguistica di Manzoni, ad esempio, che fino alla tarda maturità non seppe parlare italiano: per le occasioni informali usava il milanese, e per quelle formali il francese. Un “dialetto letterario” può essere anche solo scritto: una lingua amministrativa, ufficiale e da insegnare e utilizzare nelle scuole deve poter essere anche parlata. . Manca di terminologia tecnica (non scientifica, grazie a Galileo, a Magalotti e a molti altri) e soprattutto amministrativa e riferita alle attività di base: ancora adesso possiamo parlare agevolmente di metempsicosi, ma non sappiamo assolutamente come si chiamano in italiano i funghi, ad esempio, o le piante spontanee, o i tagli di carne. Il problema del linguaggio amministrativo era molto presente anche agli intellettuali di inizio Ottocento (Gherardini, Frisi, Monti), quando il Regno d’Italia napoleonico dovette affrontare per la prima volta tali questioni: ma il loro contributo spesso non andò oltre la riprovazione dei francesismi allora imperanti (e che ovviamente, faute de mieux, rimasero nel nostro registro burocratico). Vale forse le pena di ricordare che fino al definitivo trasferimento della capitale a Roma le lingue di lavoro del Parlamento erano italiano e francese. . Ha tuttavia una certa tradizione come lingua della scuola, però prevalentemente per l’insegnamento come L e come lingua veicolare: il sistema scolastico va completamente rifondato e bisogna decidere in che conto tenere le lingue di partenza dei bambini, nella stragrande maggioranza dei casi non italofoni. . Non è l’unica varietà alta e amministrativa a disposizione: a parte la concorrenza del francese (molto meno, ormai, del latino), i numerosi stati italiani avevano tradizioni talora anche piuttosto differenti: l’amministrazione del Regno delle Due Sicilie, ad esempio, è in napoletano illustre. Il dibattito sulla lingua si sposta dunque di grado: c’è da concepire una lingua complessa e soprattutto che abbia la possibilità di essere parlata. Le due posizioni esplicite più celebri riguardo alla forma del nuovo italiano sono quella di Ascoli, di tipo tutto sommato neocortigiano, che, da linguista, propone di concentrare gli sforzi sull’educazione dei nuovi italiani, lasciando che la lingua si incrementi e strutturi poi spontaneamente, e quella di Manzoni, sostenitore, un po’ alla Machiavelli, dell’uso fiorentino colto attuale – e che dunque pone nuovamente il problema di dividere sociolinguisticamente l’Italia in Firenze, territorio di bidialetta-

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.

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lismo, e tutto il resto della penisola, diglottico. Al di là però di queste posizioni – fu, come è noto, quella di Manzoni a prevalere –, a instaurare l’italiano come lingua ufficiale e percepita come (almeno potenzialmente) comune a tutta la popolazione fu una schiera di pianificatori meno conosciuti, amministratori, giornalisti, scrittori impegnati alla De Amicis, maestrine dalla penna rossa, gerarchie militari: costoro agirono tuttavia nella maggioranza dei casi autonomamente, o meglio reinterpretando autonomamente le direttive statali. Solo molto lentamente, dunque, e grazie anche all’omologazione industriale, che sposta popolazioni e impone prodotti dal nome e dall’etichetta unici, l’italiano poté essere davvero pensato come lingua dello stato. (Per i problemi della lingua postunitaria è fondamentale la trattazione di De Mauro, , la cui lettura vivamente consigliamo.) . E dunque neppure lo sarà in seguito: da qui la circolarità del ragionamento. Molto dibattuta, ma cruciale per la posizione di Bembo, è la questione della lingua usata da Boiardo, ma è ovviamente un problema del quale non ci possiamo qui occupare.

C’è poi anche la scelta più radicale, quella di non arrivare a uno standard comune e condiviso: è la situazione della Norvegia, ad esempio, dove bokmål e nynorsk si dividono, ancorché in modo impari, lo spazio linguistico; o dei Grigioni, dove uno standard nuovo si sta affiancando ai cinque già esistenti (per i Grigioni cfr. CASI STUDIO  e ).  L’interminabile questione della lingua: la Norvegia CASO STUDIO

La Norvegia è ufficialmente un paese bilingue, anche se questa sua caratteristica è molto poco conosciuta a livello internazionale; d’altra parte gli stessi norvegesi, alla domanda “che lingua parli?” risponderebbero compattamente e senza esitazioni: “il norvegese!”. In effetti, la particolare situazione storicolinguistica prevede la compresenza di due lingue ufficiali, il bokmål (norvegese “dei libri”) e il nynorsk (neonorvegese, in realtà variante linguisticamente più arcaica). Ma ciò solo a livello scritto, dacché, non essendo sancita alcuna norma per la lingua orale, e non esistendo particolari tradizioni in questo senso, tutti i norvegesi si esprimono a voce nella loro propria varietà locale, in ciò facilitati dalla generale scarsa differenziazione dialettale delle varietà scandinave, normalmente fra loro del tutto intercomprensibili. Naturalmente, questo non impedisce la normale dialettica sociolinguistica in cui le varietà cittadine considerate generalmente più prestigiose, e più simili agli standard scritti, sono, come in tutto il mondo, in ascesa rispetto alle parlate rurali. Nell’uso amministrativo  la legge norvegese prevede che ciascuna delle due lingue sia presente in almeno il % dei documenti ufficiali; non regola il rimanente %, che può dunque essere scritto indifferentemente in una variante o nell’altra (ma di fatto viene preferito il bokmål), e non prevede la redazione bilingue degli atti. A livello amministrativo, i comuni o i fylke (distretti) possono

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dichiararsi di una lingua o dell’altra, oppure neutrali: in questo caso useranno le due varianti indifferentemente. In modo analogo ci si regola per la scuola, in cui le singole classi usano, come lingua scritta, una o l’altra variante secondo le richieste della maggioranza degli studenti . La questione della lingua nasce in Norvegia, come in molti paesi europei, in periodo romantico, quando ci si proponeva di trovare una lingua ufficiale per la “nazione” norvegese, passata nel  dall’amministrazione danese a quella svedese. Il danese, allora lingua ufficiale in Norvegia, vi conservava tuttavia una grafia particolarmente arcaica, e veniva pronunciato “alla norvegese”: questo danonorvegese (detto all’epoca riksmål, lingua del reame) corrisponde all’attuale bokmål dopo la riforma ortografica di Knud Knudsen attuata alla fine del secolo. Il suo concorrente nynorsk (chiamato nel  dal suo elaboratore, Ivar Aasen, landsmål, ossia lingua del territorio) è basato sui dialetti conservativi dell’Ovest ed è stato in seguito leggermente modernizzato. Il confronto tra le due varietà da allora non è mai cessato e si è concretizzato in una serie di rimaneggiamenti linguistici e ortografici volti a incrementare la somiglianza reciproca tra le due varianti: in particolare, già nel XX secolo si è convenuto di introdurre innovazioni sempre comuni alle due lingue, nella grafia come nel tipo lessicale. In ogni caso, nello sforzo costante di avvicinare i due standard ufficiali alle varietà effettivamente parlate, bokmål e nynorsk sono entrambi caratterizzati da una decisa accettazione di varianti ortografiche e morfologiche (cfr. infra, PAR. .). Ciò tuttavia non ha arrestato la querelle tra i sostenitori dell’una o dell’altra variante, ai quali dall’ultima guerra si sono aggiunti coloro che ne propugnano una ulteriore (artificiale) detta samnorsk, o norvegese comune. Tali questioni, tuttavia, non hanno mai avuto ripercussioni sulla vita linguistica effettiva dei norvegesi, pragmaticamente indifferenti al tipo di lingua ufficiale che viene loro proposta (entrambe sono comprensibili per chiunque)  e attaccati nell’uso orale alle loro proprie varietà locali. . «Quando norvegesi e svedesi comunicano oralmente, possono sempre dire che parola è stata pronunciata, anche se possono essere inizialmente un po’ incerti sul suo significato esatto; quando norvegesi e danesi parlano, devono stare un po’ attenti alla pronuncia, ma una volta capita la parola sanno perfettamente cosa significa. O, come si dice: il norvegese è danese parlato in svedese» (Haugen, , p. ). L’intercomprensibilità fra le lingue – con la parziale eccezione dell’islandese – è ora anche sancita da un trattato internazionale: una legge del , che assicura a tutti gli abitanti di Svezia, Norvegia, Danimarca, Islanda e Finlandia la possibilità di interagire ognuno nella propria lingua con la pubblica amministrazione anche negli altri paesi e di redigere atti formali nella propria lingua in tutti i paesi scandinavi. . E non genericamente in quello scritto: per scopi letterari o civili qualunque varietà di norvegese è ammessa anche in forma scritta. . In termini territoriali, si nota tuttavia una generica preferenza per il bokmål nel Sud del paese, nelle città costiere meridionali e nel Nord, mentre il nynorsk è più radicato nell’Ovest e nelle zone montane del Centro-sud. Indipendentemente dalla varietà più diffusa sui loro territori, i centri più grandi tendono, per ragioni di correttezza politica, a dichiararsi ufficialmente neutrali. . Anche se motivi ideologici e di identificazione li possono portare a preferire l’una piuttosto che l’altra.

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. Scelta dell’alfabeto Individuata la lingua, o comunque da sé impostasi una varietà, il passo successivo comporta, nelle nostre società profondamente alfabetizzate, delle decisioni sul sistema di scrittura che la lingua dovrà utilizzare. Ovviamente, una lingua standard deve avere una sua scrittura, e non solo per le funzioni di lingua ufficiale, scolastica e amministrativa: la scrittura è un veicolo fondamentale di identificazione linguistica da parte del parlante. Una lingua “seria” deve necessariamente avere una scrittura, oggi, e non semplicemente una trascrizione da linguisti: una scrittura che possa essere usata dai parlanti nativi, nelle loro normali attività linguistiche quotidiane. Si impone dunque una scelta dell’alfabeto da utilizzare, inteso all’inizio semplicemente come set di caratteri da impiegare per la scrittura. La scelta è in genere (quasi) obbligata, e dipende in maniera preponderante da motivi esterni alla lingua. In genere, la collocazione geografica e culturale della comunità è determinante: si adotta l’alfabeto corrente nella regione, quello tradizionale presso le altre lingue presenti sul territorio. Così, nuove lingue codificate in Europa occidentale o in America adotteranno “naturalmente” l’alfabeto latino, sia pure modificandolo un poco per i propri scopi, come a quelle dell’Europa orientale parrà più ovvio rifarsi al cirillico, e così via. Ma ciò è vero solo in parte, e a un livello assai superficiale: in realtà, la scelta dell’alfabeto è (stata) in gran parte determinata da motivi ideologici, e in particolar modo religiosi. L’alfabeto latino è, dal XIV secolo almeno, intrinsecamente legato alla religione cattolica , e in seguito anche a quella riformata, laddove il greco e poi il cirillico hanno avuto una forte caratterizzazione in senso (greco) ortodosso : di fatto, le comunità slave di religione cattolica hanno tutte alfabeti tradizionali basati sul latino (polacco, ceco, slovacco, sorabo, sloveno, croato, ruteno ), mentre quelle ortodosse sono caratterizzate dalla scelta del cirillico, assai più legato alla sua matrice greca (russo, bielorusso, ucraino, serbo, macedone, bulgaro) . . In realtà, la maggior parte delle lingue amerindie, africane e del Sud-est asiatico hanno, ormai tradizionalmente, alfabeti basati su quello latino, a causa dell’alfabetizzazione legata all’attività missionaria. . Non si dimentichi che la “santa madre Russia” è l’erede diretta dell’Impero bizantino, a sua volta erede dell’Impero romano. . Con qualche difficoltà, quest’ultima, perché di tradizione cattolica (uniate) e di discussa coscienza nazionale ucraina. In realtà, alcune tradizioni rutene usano l’alfabeto cirillico. Cfr. tra l’altro Spieß (); Magocsi (). . Prima dell’instaurazione del regime comunista di Enver Hoxha, per l’albanese (che non è una lingua slava) erano usati tre alfabeti, greco, latino e arabo, a seconda degli orientamenti religiosi dello scrivente. Cfr., fra gli altri, Drettas ().

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Emblematico è il caso, su cui bisognerà tornare, del serbocroato, considerato – almeno dal  al  – una sola lingua ma con due standard alfabetici, latino e cirillico, utilizzati a seconda delle religioni dominanti nell’area . Anche notevole è il riallineamento del rumeno verso l’alfabeto latino nel corso del XIX secolo, dovuto alla consapevole occidentalizzazione della cultura intrapresa in quel periodo e alla crescente importanza del francese nella vita culturale rumena. Il cirillico, in particolare, si è sempre caratterizzato come alfabeto decisamente “ideologico”, nell’ambito della cultura europea: e questo anche in parte per la sua posizione di scelta marcata rispetto all’alfabeto latino, più diffuso e utilizzato a livello mondiale; era già legato all’inizio in modo molto stretto alla Chiesa ortodossa, e il suo valore distintivo è stato riutilizzato dopo la Rivoluzione d’ottobre per esprimere i valori del socialismo sovietico. Era l’alfabeto del russo, avrebbe dovuto diventare l’alfabeto simbolo della nuova concezione dello stato. Significativo rimane al proposito il cambio d’alfabeto avvenuto nel territorio della Bessarabia, passata all’amministrazione sovietica negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e inclusa nella Repubblica socialista moldava: ebbene, nel tentativo di creare negli abitanti un sentimento nazionale che non fosse rivolto verso l’esterno, ma verso l’Unione Sovietica, fu imposto l’alfabeto cirillico al rumeno, lingua ufficiale e parlata nell’area, e gli fu dato un diverso nome, appunto “moldavo”: nei decenni seguenti si tentò poi di accreditarlo come lingua diversa . Beninteso, con il crollo dell’Unione Sovietica la nuova Moldavia ha prontamente riabbracciato l’alfabeto latino, simbolo di continuità con il rumeno e l’Europa centrale. Ma anche una quantità di lingue asiatiche, turche, mongole o siberiane, che ricevettero forma scritta nel corso degli anni venti e trenta (appunto per la concezione socialista del linguaggio cui si accennava sopra) ebbero all’inizio alfabeti basati sul latino, giudicato dalla Commissione sulla riforma degli alfabeti dell’epoca – che era sì sovietica, ma non ancora troppo scaltrita in tali questioni simboliche – più diffuso e funzionale ; solo poi, col cambiamento ideologico dell’età staliniana, tutti questi alfabeti furono sostituiti da altri basati sul cirillico . . In effetti, in area iugoslava la divisione religiosa ricalca le diverse influenze culturali e amministrative, lascito della storia moderna del paese. . Haarman (); Dima (); Dyer (); Pavel (); Gabinski (); Jahr (). . Vinogradov (-); Comrie (). L’alfabeto latino fu preferito anche per evitare alla dirigenza sovietica accuse di “sciovinismo grande-russo”. Cfr. Kaganovic (); Kirkwood (). . Ricordiamo fra queste lingue il tagiko, il komi, l’azero (dal º gennaio  passato per legge all’alfabeto latino), il turkmeno, il tataro, il kazako, l’uzbeko, il kirghiso, l’abkazo, il cabardiano, l’avaro, il chukci. A parte il caso, particolarmente scoperto, del

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La condizione di digrafia, ossia appunto la compresenza di diversi sistemi di scrittura per una stessa lingua, è in effetti una condizione in genere provvisoria: segna il riorientamento di una compagine statale da un’influenza culturale a un’altra e in genere viene superata o adottando uno dei due sistemi a discapito dell’altro o “creando” due lingue diverse laddove prima ne veniva considerata una sola: questi ultimi casi sono, ad esempio, quelli del serbo e del croato, o dell’hindi e urdu, nei quali appunto l’esistente (per motivi storici, culturali o religiosi) digrafia ha sicuramente facilitato la percezione di avere a che fare con codici diversi. In altri casi, il cambio avviene per motivi ideologici mascherati, o anche affiancati, da ragioni di tipo pratico: è il caso, ad esempio, del mongolo, cirillizzato nel corso degli anni trenta dal soviet della Repubblica socialista di Mongolia, nonostante lunghi secoli di scrittura uyghur: l’alfabeto tradizionale, di derivazione aramaica ma scritto dall’alto in basso, rimase tuttavia nella cosiddetta Mongolia interna, sotto amministrazione cinese; con il cambio di concezione ideologica dello stato avvenuto anche in Mongolia dopo il crollo dell’URSS si sta tornando all’impiego dell’uyghur, a cominciare dalle insegne, ma anche nelle scritture ordinarie – compresa quella al computer, per cui sono stati sviluppati sistemi operativi particolari. Altre situazioni digrafiche sono appunto interessanti perché indici di particolari apparentemente culturali o religiosi dei quali il pianificatore deve tener conto: ne vedremo alcune al CASO STUDIO . In ogni caso, le differenze alfabetiche non devono necessariamente essere molto evidenti, ossia comportare un cambiamento completo del set di caratteri, per veicolare forti rivendicazioni identitarie: basterà pensare all’uso dei caratteri Fraktur (impropriamente conosciuti come “gotico”) che ha caratterizzato l’impero tedesco, anche come contrapposto all’epoca a quello asburgico , e che ora si ricopre di simbologie di volta in volta diverse, ma in qualche modo legate a interpretazioni del mito nordico ; o all’uso di caratteri occhieggianti l’antica minuscola ogamica moldavo, a cinque tradizioni scrittorie giudicate ormai troppo radicate e comunque cariche di storia secolare furono tuttavia lasciati gli alfabeti tradizionali: latino alle lingue baltiche e all’estone, armeno e georgiano alle rispettive lingue; molte lingue turche che disponevano già di tradizioni scrittorie (talora invero piuttosto labili) basate sull’alfabeto arabo non vennero altrettanto rispettate e passarono al latino (poi al cirillico). . Oltre che come segnale di un particolare atteggiamento puristico, teso a eliminare i forestierismi lessicali, che si rendeva evidente anche a livello alfabetico. . Nella Germania nazista il numero di libri stampati in Fraktur aumentò dal % nel  al % nel ; tuttavia, per motivi non molto chiari ma che forse si possono ricondurre alla necessità di far leggere scritte tedesche nella “Grande Germania” conquistata (e forse anche per la falsa opinione che l’origine di questo alfabeto fosse da ricondurre a usi delle comunità ebraiche della Svevia) l’uso della Fraktur fu ufficialmente proibito nel . Cfr. Augst (), p. .

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per l’irlandese (non inaspettatamente, quest’uso fu vivissimo nella prima metà del secolo, retaggio di lotte identitarie precedenti) o, in ascesa, l’impiego di caratteri con grazie particolari nei cartelloni, nei dépliant e nelle indicazioni stradali nei territori storicamente di lingua basca. Assistiamo in questi tempi, a parte poche situazioni di segno contrario, a una forte “latinizzazione” del mondo: ormai le lingue di nuova alfabetizzazione, in qualunque continente siano, ricevono una forma grafica basata sul latino – seppure spesso con adattamenti  – e sempre più lingue dotate di tradizioni scrittorie diverse passano all’uso almeno coufficiale dell’alfabeto latino . La causa va certamente cercata nell’altissimo prestigio che le lingue germaniche (inglese, tedesco) e neolatine (francese, spagnolo) godono in tutto il pianeta: ora, queste lingue sono anche quelle che fanno meno uso di segni diacritici particolari o di lettere modificate (con l’eccezione del francese ç, dello spagnolo ñ e del tedesco ß) ; inglese, tedesco, olandese e altre sono poi del tutto prive persino di segni d’accento. Ma un altro fattore deve essere tenuto in considerazione: l’informatica, che, con la forte standardizzazione di tastiere e programmi di videoscrittura , ha spinto in un primo tempo verso l’omologazione sul modello dominante, in questo caso il particolarmente “povero” alfabeto inglese ; un tale fattore potrebbe però essere temporaneo, legato com’è all’uso di caratteri per computer a  byte; l’impiego, come standard, di caratteri a  byte allargherà le possibilità scrittorie in maniera determinante, rendendo possibili codifiche di numerosi alfabeti nello stesso set di caratteri: un esempio di quello che potrà essere il prossimo futuro della comunicazione informatica plurialfabetica è offerto dal sistema di codificazione Unicode, che tuttavia stenta (dicembre ) a imporsi come standard.

. Particolarmente significativo il caso del vietnamita, che, per adattare all’alfabeto latino la sua struttura di lingua a toni, utilizza un sistema assi complesso di segni diacritici. Cfr. Nguyên Dình-Hoà (). . Ad esempio, esiste una forma ufficiale di traslitterazione in caratteri latini di cinese e giapponese, regolata dalla legge. . Fra le lingue più diffuse; altre, pur importanti, hanno un limitato numero di diacritici (come il portoghese, le lingue nordiche o quelle slave). Cfr. anche Iannàccaro (). . Più di quanto non accadesse per le vecchie macchine da scrivere meccaniche, per cui ogni tradizione scrittoria fondeva le lettere di cui aveva bisogno e non c’era problema di compatibilità, dal momento che l’output, costituito da fogli stampati una volta per tutte, non era ulteriormente riproducibile se non fotomeccanicamente. . Un esempio può essere il cosiddetto aracnol, ossia la particolare lingua che i lusofoni di Brasile e Portogallo adottano per comunicare fra loro via Internet e che ha la caratteristica di evitare l’uso dei simboli alfabetici che la rete non supporta. Informazioni si possono trovare fra l’altro al sito www.uniberkley.eatglass.edu.

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. Ortografia Decidere il tipo di alfabeto, tuttavia, non esaurisce il problema della forma grafica della lingua da standardizzare: bisogna anche fissare le corrispondenze fra singoli grafi (o combinazioni di grafi) e unità del linguaggio; si pone cioè il problema, quanto mai arduo e difficile, di dare un’ortografia alla lingua. Di fatto, un’ortografia non si può decidere ex abrupto, a tavolino: piuttosto ci si deve sempre rifare a basi storiche, lavorando sull’adattamento di tradizioni precedenti: e ciò in modo particolare nelle nostre società molto alfabetizzate, dove gli utenti della lingua per cui viene proposta una pianificazione devono poterla utilizzare non solo come codice passivo, ma attivamente anche nelle abilità superiori, leggere e scrivere. Il problema è particolarmente sentito nelle attuali attività di intervento sulla lingua, che sono rivolte, in Europa almeno, a una popolazione già ampiamente alfabetizzata, e che dunque ha già interiorizzato un certo tipo di rapporto tra segni grafici e realizzazione fonica. La creazione premoderna degli alfabeti “nazionali” ha ovviamente soggiaciuto a criteri diversi, anche perché gli utenti della scrittura erano costituiti in larga maggioranza da letterati, chierici o amministratori, per i quali lo scrivere era un’attività specialistica e che dunque poteva ben rispettare leggi idiosincratiche. Di conseguenza, nell’Europa moderna, se il sistema alfabetico che si vuole adottare è “facile”, ossia rispetta grosso modo le relazioni fra scrittura e pronuncia della lingua nella quale la gran parte della popolazione ha ricevuto la sua istruzione primaria, sarà facile anche l’uso scritto della nuova lingua, e si eviteranno, nei limiti del possibile, conflitti e incertezze gravi, dando nel contempo agli utenti sicurezza e ottimismo sull’apprendimento della varietà che viene loro proposta. Il rischio altrimenti è quello di accreditare l’idea della creazione di una nuova lingua “difficile”, che contemporaneamente non è quella sentita come propria dalla popolazione e neppure quella di prestigio delle relazioni extralocali (altra cosa è la diffusa percezione, da parte dei dialettofoni, della “difficoltà di scrittura” della propria varietà, percezione nella quale concorrono considerazioni di carattere diverso, che possono andare dalla ricorrenza di suoni non presenti nell’inventario della lingua standard al malcelato orgoglio per l’“esoticità” della propria parlata). È davvero necessario tenere presente il potere delimitativo e identificativo della forma scritta di una lingua: una codificazione alfabetica diversa talora crea lingue diverse. Si prenda, ad esempio, la riforma del latino portata avanti in epoca carolingia da Alcuino di York, l’esempio più documentato di pianificazione linguistica esplicita in ambito medievale. Su indicazioni di Alcuino viene ripreso un uso scritto e orale del latino 

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il più possibile vicino a quello della prima età imperiale, ponendo così le basi per una reimpostazione dei rapporti tra lingua scritta e lingua parlata. Alla fine dell’VIII secolo infatti, con l’esaurirsi delle istituzioni amministrative e scolastiche tardo-antiche, la Romània, cioè l’area in cui oggi si parlano lingue neolatine, era caratterizzata da una situazione in cui non solo il latino scritto aveva norme grammaticali differenti in aree geografiche diverse, ma soprattutto uno stesso testo latino poteva essere letto in maniera molto difforme in luoghi e situazioni differenti. E dunque finché un’unica forma scritta, poniamo {CANTARE}, può essere indifferentemente letta in modi diversi, mettiamo [kant'are] in Toscana, [can'tε] in Borgogna e [∫ ãn'ter] nell’Île de France, chi la usa può avere la sensazione che si tratti di pronunce, di sfumature diverse di un’unica lingua. Ma quando, con la riforma, si sancisce che l’unica pronuncia accettabile di {CANTARE} è [kant'are], ecco che allora forme come [can’tε] o [∫ ãn'ter] diventano improvvisamente qualcosa di diverso – diventano forme autonome di una lingua diversa, e necessitano a loro volta di una scrittura: e in effetti, nota Coulmas, «l’identità linguistica è una funzione normativa, ossia una nozione che si rifà alla consapevolezza del parlante altrettanto quanto si aggancia a fatti linguistici effettivamente osservabili. Per molti secoli la gente comune parlò latino, nel senso che quella era la lingua che credevano di parlare» . Una “nazione” di nuova formazione, se si vuole porre in diretta concorrenza con le altre esistenti, deve anzitutto dotarsi di un proprio sistema di codifica della lingua scritta: ecco cosa scriveva il patriota e lessicografo americano Noah Webster nel , all’alba della Rivoluzione americana: «as an independent nation, our honor requires us to have a system of our own, in language as well as in government. Great Britain, whose children we are, and whose language we speak, should no longer be our standard; for the taste of her writers is already corrupted, and her language on the decline» . E si noti infatti l’uso, che poi diventerà standard negli Stati Uniti, di honor per honour, che accanto ad altre varianti grafiche come quelle esemplificate da center per centre, defense per defence o -ization per -isation – e poche altre fra cui, lessicalmente, nite al posto di night – è ormai caratteristico dell’inglese di oltreoceano e passibile di avere un potenziale di identificazione simbolica. Come si vede, parallelamente all’uso di set di . Coulmas (), p. . . «In quanto nazione indipendente, il nostro onore richiede un sistema che sia propriamente nostro, nella lingua come nella gestione dello stato. La Gran Bretagna, di cui siamo figli e di cui parliamo la lingua, non dovrà più costituire per noi uno standard: perché il gusto dei suoi scrittori è già corrotto, e la sua lingua in declino» (citato in Coulmas, , p. ).

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caratteri simili anche se non congruenti, anche piccole differenze di ortografia possono dar luogo a differenziazioni di tipo identitario. Ora, le scelte che si pongono davanti ai pianificatori linguistici sono sostanzialmente tre: un’ortografia fonetica (ossia che rispecchi il più possibile il rapporto biunivoco fra suoni della varietà da standardizzare e sistema grafico) , un’ortografia di tipo etimologico, che cioè renda evidenti le derivazioni e gli apparentamenti diacronici delle forme linguistiche, al di là della loro forma attuale, e un’ortografia che possiamo chiamare mista, ossia in parte fonetica e in parte etimologica, che spesso è il risultato di una evoluzione tradizionale per la lingua. Le tre soluzioni presentano vantaggi e svantaggi: l’indubbia facilità di scrittura che deriva da una grafia di tipo fonetico (non bisogna conoscere preventivamente alcuna norma ortografica, basta “sentire” la lingua e trasporla per iscritto) è controbilanciata talora da difficoltà di interpretazione: nel caso di rapporti variabili fra i suoni, un’ortografia fonetica obbliga a cambiare sistema di scrittura anche per forme flesse di parole molto usuali, rendendo meno immediato il riconoscimento dei morfi costituenti. Per fare un solo esempio, si pensi a una ipotetica norma italiana che distinguesse rigorosamente fra occlusiva velare sorda [k] scritta sempre {k} e affricata palatale sorda [t∫ ] costantemente segnata {c}: una parola come “amico” avrebbe due distinte realizzazioni, “amiko” e “amici”, in cui cambia non solo la desinenza, come ci si può aspettare, ma anche la radice (amik-, amic-). A questo si aggiunga il fatto che più varianti parlate – talora anche piuttosto diverse fra di loro – possono essere riconosciute dai parlanti come facenti parte della stessa lingua o aventi una lingua tetto ufficiale comune: in questo caso non ci sono le condizioni per una corrispondenza biunivoca fra suoni (frammentati territorialmente) e grafi (unitari), e anzi una tale corrispondenza sarebbe estremamente scomoda, obbligando a scegliere una sola variante buona. D’altra parte, i rischi di una grafia troppo etimologica, che rende evidenti i nessi fra le parole, sono ben noti a chiunque abbia presente, poniamo, l’ortografia del francese o del russo . Una grafia tradizionale si rivela spesso, nelle società molto alfabetizzate, la scelta più equilibrata, a patto che, come si sottolineava sopra, possa essere considerata di facile lettura da parte degli alfabetizzandi. Inoltre, le grafie tradizionali, comunque si siano formate, hanno adesso un grande vantaggio da non sottovalutare: sono spesso non molto precise. Ciò significa che permettono letture leggermente diverse a partire dalle stesse scrizioni: questo prin. Ciò però presuppone l’esistenza di uno standard orale della lingua o l’assenza di varianti fonetiche, sociali e geografiche di rilievo. . L’inglese, che pure potrebbe venire in mente, ha una situazione decisamente diversa; cfr. Sampson (); Iannàccaro ().

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cipio ha applicazioni importanti per il corpus planning e per la sua accettazione da parte dei parlanti . Un caso interessante è rappresentato dalla creazione di uno standard comune alle varietà romance dei Grigioni da un lato, e di quelle ladine delle Dolomiti dall’altro, a cura di Heinrich Schmid, che ha portato alla creazione del rumantsch grischun (cfr. infra, CASO STUDIO ) e del ladin dolomitan (cfr. infra, CASO STUDIO ); la standardizzazione ortografica di questi due codici amministrativi scritti si è basata su un criterio innovativo, per il quale la grafia rappresenta una specie di comun denominatore delle varietà di valle già presenti sul territorio, mentre viene esclusa la possibilità di esistenza di uno standard per il parlato spontaneo. La scrittura, come è noto, altera in modo fondamentale i rapporti fra la lingua e il suo utente: da un lato la presenza di una forma scritta (accanto alla trasmissione radiotelevisiva) conferisce un alto valore al linguaggio, che viene appunto percepito come una “lingua” e non come un insieme di dialetti dispersi; dall’altro, per ragioni di carattere cognitivo e strutturale , una volta che una lingua ha acquistato la forma scritta, questa sembra vivere di vita propria: appare cioè subito più astratta, oggettiva, e permette la riflessione metalinguistica, con il consentire, poniamo, valutazioni del rapporto fra suoni e grafi o sguardi sinottici di coniugazioni e declinazioni: permette, insomma, di rendersi conto di come la lingua è e funziona, incoraggiando comparazioni meditate con altre varietà . Inoltre – e ciò è confermato dalle politiche di scelta del sistema di scrittura da parte delle lingue di nuova elaborazione – l’alfabeto di una lingua è un po’ il suo biglietto da visita, la sua affiche, e la sua forma e funzionamento contribuisce in gran parte a determinare l’immagine della lingua che il parlante si fa. Dunque i valori simbolici legati all’ortografia sono molto forti: tramite l’ortografia, il parlante si rende subito conto che la varietà che gli vie. Cfr. le diverse pronunce italiane regionali, medio-alte o medio-basse, di {e}, {o}, e sorde o sonore di {s}, {z} e il raddoppiamento sintattico (attuato al Centro-sud nella pronuncia, ma non scritto): ogni variante orale si può ritrovare nella scrittura standard, che dà un’impressione di unità pur permettendo variazioni al suo interno. . Cfr. Cornoldi (); Havelock (, ). . Si è specificato «comparazioni meditate» perché confronti e rapporti fra varietà distinte ma non molto diverse sono ovviamente possibili, e di fatto assai frequenti, anche sul piano dell’oralità: sfociano però necessariamente sul piano degli stereotipi, in cui una o due caratteristiche fonetiche o lessicali sono sufficienti per individuare un’intera parlata (spesso per valutarla sfavorevolmente, dal momento che è considerata legata a un’altra comunità). Cfr. De Simonis (-); Léonard (). Esistono tuttavia rari casi di tradizione grammaticale anche molto raffinata basata sull’oralità (basti pensare a Panini e ai grammatici indiani), ma costituiscono un’eccezione (basata su ragioni filosofiche, religiose e rituali) della quale non ci possiamo qui occupare; cfr. tuttavia Filliozat (), in particolare l’Introduzione, e, in italiano, Cardona ().

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ne proposta come lingua comune non è mai perfettamente la sua varietà, la lingua cui egli lega la propria identificazione primaria: e in questo caso, si dice, perché dovrei imparare una lingua diversa, difficile, non mia ma neppure fortemente prestigiosa? Coloro che hanno qualche esperienza di pianificazione linguistica sul territorio hanno ben presente quanto spinoso e lungo possa essere il problema di dare un’ortografia alla lingua da standardizzare: c’è sempre qualche cosa che non va, e c’è sempre, nei parlanti, un forte sentimento di insoddisfazione, qualunque sia la soluzione proposta, che si concretizza in iniziative di rifiuto o di protesta sui giornali locali o simili. E questo anche tralasciando il problema gravissimo rappresentato da quella particolare forma di attaccamento ideologico al codice di socializzazione primaria che va sotto il nome di purismo dialettale , ossia quella serie di fenomeni, spesso non troppo tenuti in considerazione da chi si occupa di pianificazione linguistica, che tuttavia, se trascurati indebitamente, possono essere di grave intralcio alla riuscita del planning. In sostanza, per quanto riguarda la scelta dell’alfabeto almeno, una delle sindromi da purismo può essere rappresentata dalla diffidenza per una lingua che è contemporaneamente la propria, quella dell’infanzia e della socializzazione/identificazione primaria, e nel contempo diversa, strana, con difficoltà inaspettate di lettura e scrittura. Il rischio è il rifiuto, sia per rabbia (“ma guarda se mi devono insegnare loro la mia lingua”), sia per sentimenti di inadeguatezza, verso se stesso (“non sono capace di scriverla, dunque non capisco nulla”), oppure verso la lingua (“lo dicevo io che questo dialetto va bene solo per parlare di agricoltura e giochi di carte, e non lo si può scrivere”). Ora, un’ortografia vaga, al limite imprecisa, può in effetti ovviare ad alcuni di questi problemi – fermo restando che questi vanno basilarmente risolti in sede di impostazione della politica nel suo complesso, come si mostrerà al CAP. : nel senso che un’ortografia “facile” nell’accezione vista sopra (simile cioè a quella dominante nella sua struttura basica, ma che accentui pochi e immediatamente visibili tratti differenzianti), che non rispecchi esplicitamente la norma di alcuna varietà particolare, sia essa spontanea o artificialmente creata ad hoc, permette interpretazioni diverse dello scritto, tutte altrettanto legittime e che possono essere sentite come almeno in parte proprie dalla maggioranza dei parlanti . . Cfr. Thomas (); Iannàccaro (in stampa a). . Caso estremo, piuttosto interessante, è quello del bretone, le cui tradizioni dialettali divergono sull’uso del fono [z] o di [h] in particolari posizioni. Una delle tradizioni grafiche proposte, in effetti quella più seguita, prevede in queste posizioni in digrafo {zh}, che permette entrambe le letture. A sua volta, il nesso è diventato flag character (cfr. subito sotto nel testo) del bretone, e BZH (ossia Breiz o Breih, “Bretagna” nelle due varianti) la sigla internazionale della comunità.

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Escluso il problema della comprensione: l’esperienza dell’inglese, del russo, dell’irlandese, del francese, del danese, dell’ebraico mostra che la vaghezza alfabetica non pone alcun problema di comprensione del testo. Tuttavia, i valori simbolici legati all’ortografia devono essere rispettati: nel senso che, nonostante la sua praticità, un sistema di scrittura troppo simile a quello della lingua dominante (e modello) rischia di non soddisfare le esigenze di differenziazione degli utenti della nuova lingua. Una soluzione può essere quella di introdurre un numero limitato di “caratteri bandiera” (flag characters) che possano essere percepiti come peculiari della lingua, estranei alla tradizione grafica dalla quale ci si vuole differenziare, o in qualche caso invece presenti in un’altra tradizione linguistica con la quale si ricerca un apparentamento . In questo modo, la struttura alfabetica generale e le relative modalità di lettura non vengono alterate, ma lo scritto acquista un’apparenza diversa e unica – e questa caratteristica può essere dal parlante rapportata a quella parallela di molte lingue nazionali. Allora si riconosce un testo romancio perché ha (fra gli altri) il {tg}, così come uno portoghese per {ão, ãe}, uno danese per {å, ø}, uno tedesco per {ä, ö, ß}, uno ungherese per {o˝}, uno ceco per {c, rˇ, nˇ, /}, uno polacco per {rz, sz}, uno francese per {ç}, uno rumeno per {t, , s,}, uno finlandese per {ää, öö, yö}, uno macedone (rispetto al cirillico comune) per {u´, r´, s}, uno ucraino per {i}, uno serbo per {ù, ò} e così via. Nell’ambito delle lingue scritte con alfabeto latino è interessante la posizione dell’Islanda: il suo particolare, ideologico attaccamento alla tradizione norrena ha fatto sì che si mantenessero, in un quadro alfabetico fortemente etimologico e lontano dalla pronuncia corrente, due segni altrove scomparsi, che fino a tempi recentissimi ponevano problemi per l’uso meccanico ed elettronico dei sistemi di scrittura: † thorn [θ] e d eth [d], lettere che avrebbero benissimo potuto essere sostituite, come in inglese, da {th} [θ] e {dh} [d], dal momento che in islandese i due digrafi non sono altrimenti presenti, e dunque non provocano alcuna collisione. Dovendo esprimere la nasale palatale, il catalano sceglie di notarla {ny} e non {ñ} come il castigliano, così come si distingue, per la laterale palatale, l’occitano {lh} dal francese {il(l)}; molte lingue africane imparentate con il francese in regime di pidgin o creolo usano per esempio la scrizione tã per temps, che consente la stessa pronuncia, ma appare molto diversa. È dovuta a ciò, ad esempio, la difficilissima accetta. Questi flag characters possono, come è ovvio, essere anche di- o trigrafi, oltre che caratteri singoli; come possono essere composti da carattere e segno diacritico.

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zione di {sc(i)} per esprimere, nelle varietà di ladino dolomitico, la fricativa palatale sorda [∫ ], che veniva trascritta spontaneamente di volta in volta {sh}, o {sch}, o {&}, o {s´} per evidenti ragioni di differenziazione rispetto all’italiano, e talora per apparentarsi esplicitamente con il tedesco; la soluzione {sc(i)}, appunto ricalcata sull’italiano, è ormai però soluzione ufficiale, accettata e promossa dagli istituti culturali ladini. È poi molto importante osservare che la comunicazione efficace si basa sulla prevedibilità delle forme linguistiche: in altri termini, importa meno quanto vaga o accurata sia l’ortografia scelta di quanto questa sia stabile e coerente nella propria struttura. La frammentazione ortografica rende al contrario difficile la lettura dei testi, perché viene a mancare appunto questa condizione di prevedibilità e anche perché la maggioranza dei parlanti, alfabetizzati con una varietà dominante in genere standard e stabilizzata, non è abituata a contatti con varietà grafiche differenti, né è propensa ad accettarle. Si noti però che il risultato della pianificazione non deve essere necessariamente una varietà unica: ciò che importa è che esistano, e siano costanti, un insieme di forme referenziali che rappresentino uno spazio di comunicazione unitario e siano garanzia della percezione unitaria della lingua .  Alfabeti del Mediterraneo e più in là: cambio di carattere e cambio di prospettiva CASO STUDIO

Per quanto strano, il cambio di sistema di scrittura all’interno di una stessa tradizione linguistica è meno infrequente di quanto non si sarebbe indotti a pensare: ed è sempre interessante vedere i casi in cui si manifesta, perché è spesso indice di pianificati interventi sulla lingua. Al di là dei casi cui si è già velocemente accennato di serbo e croato (in cui però non si ha, stricto sensu, un cambio di alfabeto, ma una perdurante digrafia), del moldavo, di molte lingue dell’Asia centrale, cui va aggiunta l’oscillazione del careliano fra cirillico e latino – che ha finito col prevalere – sono particolarmente interessanti alcuni cambi che hanno coinvolto la scrittura araba nel corso dell’ultimo secolo. L’alfabeto arabo è fortemente legato all’islamismo; e non solo perché è banalmente il sistema di scrittura con cui è scritto il Corano, ma anche perché, data la particolare temperie culturale iconoclasta che ha caratterizzato l’arte e il pensiero islamico, molte delle espressioni di arte figurativa sono passate attraverso il lavoro grafico sulle lettere dell’alfabeto e sulle sue legature – ciò ha determinato una situazione per cui la scrittura araba è intrinsecamente e direttamente legata all’insegnamento del Profeta. . Il catalano ammette, ad esempio, due forme per il significato di “mia”: meva (catalano orientale) e meua (occidentale). Per il còrso cfr. Birken-Silverman (); per il norvegese cfr. Vikør ().

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Il decidere di abbandonare un sistema di scrittura come quello arabo non è dunque privo di conseguenze sul piano simbolico. Uno dei cambi più eclatanti è avvenuto nella Turchia degli anni venti del secolo scorso, con la riforma linguistica di Atatürk: l’osmanlı – lingua uralo-altaica, tradizionalmente impiegata nelle occasioni ufficiali dall’Impero ottomano – veniva scritto per ovvi motivi religiosi e culturali in alfabeto arabo, pur se questo comportava non pochi problemi di adattamento dei suoni. Ora, la riforma radicale della lingua ha comportato anche, per decreto, un repentino cambio del sistema di scrittura verso un alfabeto di tipo latino, appunto in appoggio al programma politico di Mustafa Kemal, che prevedeva il riallineamento della Turchia – sorta dalle ceneri dell’Impero ottomano – all’Europa (e in particolare alla Francia) e la conseguente caduta dell’utopia panturanica. Il cambio fu totale e repentino: semplicemente, nel giro di un anno (il -), tutte le scritte, pubbliche e private, furono sostituite e quelle nuove realizzate direttamente con caratteri latini: questo ha comportato non pochi scompensi nella popolazione, che si è ritrovata di colpo tutta praticamente analfabeta; e di fatto, tuttora lo studio o semplicemente la lettura di documenti (anche banali e privati, come le lapidi dei cimiteri) più vecchi di ottant’anni è appannaggio di una ristretta classe intellettuale turca che ha studiato l’arabo. Dal punto di vista prettamente alfabetico, la riforma di Atatürk è peraltro ottima: garantisce una corrispondenza  :  tra grafia e pronuncia (non sempre questo è un bene assoluto, come abbiamo visto, ma lo è per le lingue che hanno la struttura del turco e poche variazioni diatopiche) ed è di immediata comprensibilità e facile apprendibilità. Anche gli aspetti simbolici legati alla differenziazione e alla presenza di caratteri bandiera sono stati rispettati: un testo turco si riconosce immediatamente per la presenza di {ç}, o di {ı} o di {g˘}, così come per alcune sue proprie corrispondenze fra suono e simbolo: {c} = [dZ] (la parola caddesi, “via”, si legge in realtà [dZad'desi]) e {ç} = [t∫]. A proposito di queste scelte, Atatürk parla, appunto per accentuarne il valore simbolico, non di alfabeto latino per il turco, ma di alfabeto turco derivato da quello latino; e ricorda, a proposito appunto dei caratteri c e ç, che la loro corrispondenza fonetica non è stata presa in prestito da alcuna lingua ed è dunque propria del turco – volendo, una cosa di cui andare fieri! Ancora dal bacino del Mediterraneo viene un altro caso interessante di riorientamento nei confronti dell’Europa tramite la scelta di un alfabeto: quando Malta ha ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel , il maltese ha sostituito l’italiano, accanto all’inglese, come lingua ufficiale del paese. Questa lingua chiamata a diventare ufficiale è un particolare dialetto dell’arabo, lingua semitica, che nel corso della sua storia ha avuto strettissimi contatti con le parlate siciliane (ricordiamo che, rispetto alla costa della Sicilia, Malta è più vicina delle isole Pelagie, pure politicamente italiane), dalle quali ha preso una parte assai rilevante del lessico; di fatto, la lettura di un testo maltese dà a un italiano la curiosa impressione di conoscere buona parte delle parole, ma di non riuscire in alcun modo a capire come sono “montate”, ossia di non afferrare il senso anche delle frasi più semplici. Da secoli i maltesi hanno il maltese come lingua di comunicazione primaria, e al maltese sono legati sentimenti di identificazione etnica e statale, mentre l’inglese, pure conosciuto dall’intera popolazione, ricopre gli ambiti e le funzioni di lin-

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gua dell’alta cultura e dei rapporti commerciali e internazionali. L’italiano è ora la prima L dei maltesi, ben conosciuta e comprensibile a causa dei prestiti siciliani e della perfetta accessibilità dei programmi televisivi italiani da Malta. Quello che qui ci interessa notare è che, pur essendo il maltese una varietà di arabo, per la sua codificazione nella scrittura fu scelto l’alfabeto latino, anche se adattato in qualche punto; l’alfabeto maltese prevede quattro grafi particolari e un digrafo non compresi nell’inventario tipico dell’alfabeto latino: {c˙, g˙, ˙z, ù, gù}. Ora, una tale decisione rivela l’attenzione verso tre fattori importanti, utili da tenere presenti per il language planner: innanzitutto la religione, cattolica per la grande maggioranza dei cittadini; l’alfabeto arabo è stato sentito come troppo “islamico” e per questo rifiutato. A ciò si aggiunga l’abitudine dei maltesi, dovuta al contatto con l’inglese, l’italiano e il latino della Chiesa, a leggere l’alfabeto latino: si è sopra sostenuto che la facilità di lettura è un parametro importante nelle attività di corpus planning e ciò è dimostrato anche dall’esempio maltese, dove non sono riportati in letteratura particolari problemi che la popolazione può aver incontrato a contatto con la norma scritta a matrice latina. Ma soprattutto la scelta dell’alfabeto latino è stata funzionale per motivi di collocazione geopolitica: con questa si è voluto ribadire simbolicamente l’appartenenza all’Europa (e in particolare a quella occidentale) dell’arcipelago, appartenenza ribadita dall’ingresso di Malta nell’Unione Europea a partire dal ° maggio . Pure molto interessante è la domanda, che imposta una tematica che verrà ripresa più in là: perché codificare il maltese? Si deve tenere presente che, in tutta l’area arabofona, l’unica lingua scritta ufficiale, ammessa e riconosciuta dagli stati e dalle società, è l’arabo classico , del Corano, anche se ogni zona e ogni comunità ha sviluppato una sua propria variante, spesso incomprensibile alle altre e talora altrettanto interferita con altre lingue quanto lo è il maltese. Tuttavia, queste varianti non hanno accesso alla scrittura, anzi il loro uso è sanzionato anche dalla società civile araba : con questo, la comunità islamica ribadisce la propria compattezza e dipendenza dal Corano. Malta ha voluto differenziarsi molto profondamente, e un passo importante è stata l’adozione, come lingua ufficiale, di questo suo dialetto arabo; il maltese è così contemporaneamente l’unica lingua araba d’Europa (e dal  dell’Unione Europea), l’unica scritta in alfabeto latino e l’unica lingua araba scritta tout court oltre all’arabo classico. Rapidamente altri due casi interessanti, e contrario: dalla scrittura araba a quella latina è passato nel corso del XIX secolo lo swahili, lingua bantu di comunicazione veicolare dell’Africa orientale; in questo caso, tuttavia, il cambio è avvenuto per così dire dall’alto, ossia senza il coinvolgimento diretto non si dice della comunità parlante (neppure Atatürk, ad esempio, ha chiesto il parere dei cittadini turchi – e meno ancora di curdi e armeni), ma nemmeno della classe dirigente locale. Il cambio è stato sostanzialmente dovuto agli inglesi, per motivi di semplificazione amministrativa: laddove l’impiego dell’alfabeto arabo era dovuto a motivi religiosi e di commercio. Oltre a esperimenti di cambio alfabetico verso la scrittura araba in alcune repubbliche turche ex sovietiche è da notare la ripresa, non si sa ancora quanto destinata a durare, dell’uso di un alfabeto arabo semplificato e modificato in Bosnia per scrivere il serbocroato: questa scelta, maturata verosimilmente in ambienti religiosi, va nella direzione di crea-

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re una specifica lingua bosniaca distinta da un lato dal serbo e dall’altro dal croato; in questo caso, come spesso, le dinamiche linguistico-identitarie si ripresentano simili nel corso della storia: già all’inizio del XX secolo c’erano stati dei tentativi di creazione di un bosniaco a se stante (la cosiddetta bozanski jazik, lingua bosniaca) per iniziativa asburgica, che voleva così staccare il più possibile la Bosnia, suo protettorato, dalla Serbia, stato indipendente e rivendicativo. . Accanto al francese o all’inglese come lingue del commercio e della cultura scientifica, per evidente retaggio coloniale. . Un impiego molto limitato nello scritto, di queste varianti comunitarie, si ha nelle vignette umoristiche dei giornali magrebini ed egiziani (ringraziamo Myrna Chayo per averci fornito qualche esempio).

. Morfologia e sintassi Fra i livelli di elaborazione linguistica, quelli della morfologia e della sintassi sono sicuramente tra i più idiosincratici rispetto alle singole varietà linguistiche; ciò significa che, in linea preliminare, è piuttosto difficile fornire indicazioni standardizzabili su come intervenire per l’implementazione del corpus di una varietà relativamente a questi livelli. Inoltre, i criteri seguiti nelle singole attività di pianificazione in Europa sono molto diversi e vanno dalla modellizzazione di una sola varietà, che è proposta come standard tetto di tutte la altre (è il caso dell’irlandese, ad esempio, basato sulla varietà di Cois Fhairrghe, o del greco moderno, basato sulla varietà di Atene), alla creazione di una koinè ortografica in cui diverse varietà si possono rispecchiare in un’unica ortografia (come è per catalano o gallese), alla creazione ex novo di un codice che possa essere sentito come somma di tutti gli altri (ladin standard e rumantsch grischun), all’adozione di uno standard particolarmente ampio che possa coprire il maggior numero di varianti locali (come nel caso dei due standard norvegesi bokmål e nynorsk o in quello del còrso). Questi diversi orientamenti si rispecchiano anche nella scelta del tipo di morfologia e di sintassi per la lingua da standardizzare: se lo standard corrisponde a una variante diatopicamente o diastraticamente determinata, sarà la morfologia di questa a fungere da modello per lo standard (si pensi all’italiano, che accetta le sole forme del fiorentino letterario); se invece lo scritto supporta diverse realizzazioni fonetiche, anche i morfemi potranno essere realizzati secondo le diverse varianti locali (in gallese, la desinenza di plurale -au viene letta [ε] nel Sud del paese e [aj] nel Nord); nei casi più estremi, poi, la lingua standard può codificare come “corrette” più forme alternative: il bokmål ammette una grande varietà di forme alternative sia nella flessione nominale sia in quella verbale, come ad esempio due desinenze, /-a/ e /-en/, 

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nella forma determinata del singolare femminile del sostantivo, oppure tre, /-a/, /-et/ e /-te/, nel preterito di alcuni verbi deboli. La codificazione della sintassi è invece un’attività in un certo senso residuale nell’ambito del corpus planning: a livello sintattico la variazione diatopica e diastratica di una lingua coinvolge in generale un numero minore di tratti e di fenomeni rispetto a quelle lessicale, morfologica e fonetica, e necessita dunque di attenzioni diverse da parte del pianificatore. Nel caso in cui nell’area coperta dalla lingua standard vi siano divergenze sintattiche tra le varianti locali e si voglia procedere a una normazione rispettosa delle differenze interne e delle aspettative dei parlanti, è bene tenere comunque a mente alcuni principi utili a questo scopo: il criterio di maggior diffusione della struttura sintattica da codificare, perché questa sia considerata normale dalla maggioranza dei parlanti; il criterio di regolarità, chiarezza, univocità e trasparenza, che permetta un approccio semplice e logico da parte degli utenti; il criterio di distanziazione e originalità, che, tra le varianti a disposizione, dia preferenza a quelle che più differiscono dalle forme in uso nelle lingue vicine.  La morfosintassi del ladino CASO STUDIO

Esemplificheremo di seguito alcune delle problematiche legate alla standardizzazione della morfosintassi attraverso l’analisi di alcuni momenti del processo di corpus planning del ladino standard (o ladin dolomitan), lingua scritta unitaria che, nelle intenzioni almeno, dovrebbe servire da Dachsprache per tutte le varianti ladine delle Dolomiti. Nei suoi Criteri per la formazione di una lingua scritta comune della Ladinia Dolomitica , Heinrich Schmid, il creatore del ladin dolomitan, sottolinea che nel campo della morfologia, diversamente da quello della fonologia, per la quale ci si basa sul principio della maggior diffusione sul territorio della forma da standardizzare, è essenziale «prestare maggiore attenzione a fattori strutturali» e «all’univocità della funzione e della coerenza del sistema morfologico». E ciò senza perdere di vista il fatto che le forme proposte debbano comunque risultare di facile comprensione da parte dei parlanti, in modo da evitare ogni tipo di fraintendimento. Schmid ribadisce poi che tutte le soluzioni che l’analisi più propriamente linguistica può suggerire devono tassativamente essere confrontate con l’accettazione o il rifiuto da parte del parlante stesso. Per quanto riguarda il plurale dei sostantivi, ad esempio, Schmid propone di seguire criteri di maggior diffusione e di regolarità, tralasciando ogni anomalia o irregolarità che riguardi un singolo idioma di valle. In realtà però, nella stesura della Gramatica dl Ladin Standard , basata sui principi proposti da Schmid, ai due criteri è stato preferito quello dell’originalità: il gran numero di declinazioni e di eccezioni tipiche di ogni variante dolomitica nel plurale di aggettivi e di sostantivi ha portato alla creazione di regole particolarmente elaborate, con una lunga serie di forme irregolari, benché lo stesso Schmid abbia messo in guardia i

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pianificatori da «un’eccessiva accentuazione dei tratti distintivi [che celano] in sé il pericolo di un’alterazione e [possono] condurre a un purismo controproduttivo». Il criterio di regolarità e semplicità è stato invece quello che ha suggerito la codificazione delle desinenze dell’imperfetto indicativo in /-ov-/ – tipiche di una minoranza di idiomi ladini –, mentre i criteri di maggior diffusione e di distanziazione, ma in particolare l’accettazione da parte dei parlanti, hanno imposto come desinenze degli infiniti forme senza /-r/ (mangé, “mangiare”, dormì, “dormire”) in netta contraddizione con il principio di chiarezza e univocità (mangé e dormì significano anche “mangiato” e “dormito”). Argomento di discussione ancora aperto e banco di prova per la Sprachplanungswissenschaft del ladino è la standardizzazione della sintassi, della quale non fa cenno Schmid e su cui si sofferma solo brevemente la Gramatica: le attuali speculazioni teoriche sull’argomento sembrano individuare nell’analisi contrastiva e comparata della sintassi un possibile strumento per dirimere la questione. La sintassi contrastiva permetterebbe di individuare l’uso più diffuso di una determinata costruzione, mentre la sintassi comparata metterebbe in evidenza lo sviluppo diacronico delle diverse varietà, mostrando quelle analogie che l’analisi sincronica lascerebbe nascoste: in questo modo si avrebbero le basi scientifiche per decidere se tenere in considerazione le caratteristiche più vecchie o se invece far prevalere quelle più nuove, considerando queste ultime come sviluppo naturale della lingua al quale col tempo potrebbero arrivare tutte le varietà. Ad esempio, si potrebbe prendere la costruzione sintattica più antica, se nella diacronia questa è stata comune a tutti gli idiomi, oppure optare per la soluzione delle varietà che hanno innovato se la costruzione risulta più semplice e trasparente all’orecchio del parlante e se questa non è sentita come influenza negativa della lingua dominante. Ma è anche importante porre attenzione a non rendere la nuova lingua troppo schematica e semplice e a non renderla troppo artificiale agli occhi dei suoi utenti. La Gramatica dl Ladin Standard offre, nel capitolo sulla sintassi, delle proposte di uniformazione delle principali differenze sintattiche delle varietà dolomitiche, vale a dire il fenomeno del verbo secondo, la costruzione negativa e la costruzione interrogativa diretta. Una delle principali differenze fra badiotto e gardenese (varianti settentrionali) da una parte e fassano, livinallese e ampezzano (varianti meridionali) dall’altra è data dall’ordine degli elementi nella proposizione principale. Gli idiomi settentrionali, infatti, conservano un ordine di base degli elementi che corrisponde a quello delle proposizioni principali nelle lingue neolatine antiche, ovvero l’ordine XVO in cui la posizione X può essere occupata da un qualsiasi elemento topicalizzato e il verbo (V) rimane sempre in seconda posizione. Gli altri idiomi, invece, usano anche per la proposizione principale il rigido ordine della secondaria SVO (soggetto, verbo, oggetto), come fanno in generale le lingue neolatine moderne. La struttura SVO è inoltre presente nella frase secondaria anche in badiotto e in gardenese, mentre tracce di verbo secondo sono attestate in testi antichi nelle varianti meridionali. Due sono dunque le opzioni di fronte alle quali si è trovato il pianificatore: il criterio di distanziazione ha fatto cadere la sua scelta sulla struttura sintattica più antica e meno diffusa, cioè quella che prevede il verbo sempre in seconda posizione (XVO). Lo

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stesso criterio ha fatto preferire la doppia negazione /ne/ verbo /nia/, diffusa in badiotto e parzialmente in gardenese, che permette al ladino di differenziarsi sia dal tedesco e dai dialetti trentino-lombardi (verbo-negazione), sia dall’italiano e dai dialetti veneti (negazione-verbo). Un altro aspetto morfosintattico particolarmente problematico per il ladino standard e altrettanto significativo per quanto riguarda la pianificazione linguistica è quello della distribuzione pronominale: nelle varietà ladine delle Dolomiti esistono due serie di pronomi, una libera e una clitica; nell’uso di questi pronomi le varianti settentrionali del ladino si differenziano, anche in questo caso, da quelle meridionali, in particolare nell’uso della reduplicazione, cioè nella ricorrenza del pronome soggetto libero o soggetto nominale seguiti dal pronome soggetto clitico. Il ladino standard ha optato per non standardizzare la reduplicazione. La scelta, ancora una volta, è dipesa sia da motivazioni di tipo conservativo e di maggiore “ladinità”, sia da motivazioni di economia linguistica e di non ridondanza che non rispettano comunque il criterio di maggior diffusione, poiché la reduplicazione è presente in tre idiomi su cinque. Questo fenomeno però, a un’analisi approfondita, appare come un’evoluzione naturale dell’uso del pronome soggetto diffusosi in epoca recente in altre varietà romanze alpine, tra cui il friulano, considerato da molti lingua “sorella” del ladino; un approccio al problema dal punto di vista della sintassi comparata avrebbe dunque dovuto far preferire questa forma. Una simile valutazione può essere data anche per l’uso del clitico nella costruzione relativa: per la lingua standard è stata scelta la soluzione che prevede l’uso dei pronomi proclitici per ogni persona, struttura presente esclusivamente in badiotto. Le persone del pronome proclitico che invece sono presenti in tutte le varietà sono la seconda singolare e la terza singolare e plurale. L’assunzione di un pronome per ogni persona si giustifica pienamente col criterio della trasparenza e regolarità e col criterio dell’originalità. Nella costruzione relativa, però, il criterio di standardizzazione adottato appare particolarmente ambiguo. Secondo la regola si ripeterebbero dopo il che soggetto tutti i pronomi clitici tranne quelli di terza persona, cioè proprio escludendo la costruzione comune a tutta l’area ladina. Non solo: negando l’uso del pronome di terza persona accanto al che soggetto viene negata alle varietà meridionali la distinzione, peraltro presente in molte lingue europee, fra i due tipi di relativa, restrittiva e appositiva. . Schmid (). . GLS ().

. Lessico Il livello lessicale è, insieme con quello ortografico, quello più immediatamente a disposizione del parlante, e dunque del pianificatore che non abbia una specifica preparazione linguistica. Mentre infatti intervenire sui livelli morfologico e sintattico, e in certa misura anche su quello ortografico, è un’operazione che non sembra alla portata dell’attivista locale, 

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

la “creazione delle parole” o comunque l’intervento sul piano lessicale sembra sempre e comunque più accessibile. E dunque nella situazione, che è poi quella tipica europea, in cui la varietà oggetto di standardizzazione è una lingua locale, dotata di prestigio medio o basso, ma a cui sono legate in maniera molto forte pulsioni di identificazione “etnica” e/o personale e che, comprensibilmente, si trova in un regime di dilalia o diglossia con la varietà egemone, i problemi principali sono rappresentati da un lato dalla (legittima?) aspirazione del pianificatore a “mantenere” la lingua e a differenziarla il più possibile, almeno lessicalmente, dalla varietà con la quale deve essere coufficiale, e dall’altro lato dalla tentazione di modificarla, di forgiarla, di piegarla secondo il suo gusto e la sua sensibilità. In entrambe le operazioni, chi si accinge a una standardizzazione lessicale è incoraggiato, talora implicitamente, da una parte della popolazione, il che rende ancora più scivoloso e delicato il suo lavoro. Proprio in base a queste considerazioni è opportuno ancora una volta ribadire che nel corpus planning si può parlare solo di proposte, non già di imposizione; ovviamente, come per tutti gli altri livelli, le proposte devono poi essere considerate come un affiancamento e non come una sostituzione delle forme spontanee esistenti nelle varietà territoriali. Come sarà reso evidente al PAR. ., poi, la standardizzazione lessicale dovrebbe servire per procurare forme e possibilità al linguaggio amministrativo, non al linguaggio tout court. Gli ambiti personali (anche scritti) e letterari devono essere lasciati liberi di organizzarsi spontaneamente, pena il fallimento dell’opera di pianificazione tutta. Il lavoro sul linguaggio pubblico e amministrativo, se è presentato solo come tale, avrà poi per forza di cose riflessi spontanei sugli altri livelli della lingua, che, in assenza di alternative, saranno indotti a fare tesoro delle coniazioni e risistemazioni proposte nell’ambito burocratico. La standardizzazione lessicale dovrebbe produrre inoltre forme da proporre per un uso passivo, ossia solo da parte dell’amministrazione (e al limite per la cartellonistica). Il parlante deve essere rassicurato sul fatto che lui personalmente potrà continuare a usare la variante che ha sempre sentito come sua, o che preferisce, o nella quale si sente sicuro. Dunque, dovendo procedere a una standardizzazione lessicale è bene partire da registri amministrativi e settoriali, dal momento che: – sono in genere portatori di alto status; – a loro sono legate pulsioni identificative in modo e grado molto minore rispetto ad altri ambiti della lingua (personale, familiare, orale): il loro mutamento o “imbarbarimento” irrita molto meno il parlante; d’altronde, è risaputo che, in ogni lingua, il registro amministrativo e burocratico è “brutto”: e dunque che le proposte dei pianificatori siano sentite come tali non provoca particolari reazioni, a patto che si ostenti il loro carattere settoriale e passivo; 

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– è più facile creare ex novo coniazioni di linguaggi specialistici, in genere attingendo al lessico intellettuale europeo. Concretamente, il lavoro di pianificatore del corpus lessicale deve produrre anzitutto dizionari e liste lessicali specifiche, e solo poi, in una fase molto più avanzata, testi completi, comunque testi non letterari, anzi squisitamente tecnici e burocratici. Per il pianificatore l’ambito della standardizzazione lessicale è in qualche modo il più infido: c’è in effetti, e molti esempi anche di ambito italiano purtroppo lo confermano, la tendenza, o quanto meno la speranza, di determinare le parole, e dunque i concetti, della lingua in formazione; l’aspetto demiurgico, di creatore di parole o creatore di idee, può essere molto forte, così come la tentazione puristica o comunque idiosincratica. Da un punto di vista più esplicitamente politico e personale, può essere molto gratificante sentirsi colui che sceglie le parole da far usare al “suo popolo”; tuttavia, in un intervento serio che voglia avere una qualche probabilità di riuscita è necessario avere ben chiaro che il lavoro del pianificatore del corpus, e in particolare di colui che si occupa di standardizzazione lessicale, è un lavoro da linguista. È, di più, un lavoro da linguista “pedante”, che passa il suo tempo a confrontare vocabolari, liste lessicali, dizionari inversi, e ha una buona preparazione fonetica generale e storica, di semantica lessicale e di lessicologia. Nulla a che vedere con lo spirito dei popoli. Per l’elaborazione delle terminologie settoriali si parte dalle raccolte terminologiche nelle lingue ufficiali egemoni sul territorio, alle quali si aggiungono progressivamente, dove esistano, i termini equivalenti in Lx, raccolti dapprima nelle varianti spontanee e locali e poi sottoposti a normalizzazione. L’investigazione terminologica settoriale richiede in primo luogo che si definisca in maniera chiara il progetto, delineando i potenziali destinatari e i tempi e modi di attuazione e diffusione del lessico specializzato. Ovviamente, lavorare sul lessico di una qualunque varietà non significa fare una lista delle parole possibili in questa varietà, quanto delimitare l’ambito semantico dei possibili items lessicali a seconda delle necessità, e della percezione della necessità, che gli utenti della lingua hanno di quel frammento di realtà. L’analisi dell’area concettuale oggetto dell’elaborazione necessita della creazione di un insieme di fonti documentali composto da opere specializzate che costituiranno il corpus da spogliare (manuali, opere di teoria, regolamenti, norme, testi legali, cataloghi ecc.), opere terminologiche (dizionari visuali, tavole di nomenclatura, repertori di neologismi, banche dati terminologiche) e opere lessicografiche (dizionari di lingua generale, opere enciclopediche, dizionari di equivalenze, dizionari etimologici e così via). Un’ulteriore importante fonte di informazioni si ha 

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nelle istituzioni e negli organismi presenti sul territorio operanti nell’ambito della specializzazione prescelta. Per ogni campo di investigazione terminologica è buona norma elaborare un albero concettuale, vale a dire la strutturazione nozionale dell’area – ossia, appunto, la delimitazione semantica della realtà e che ne riflette le principali diramazioni e sottosettori. Questo aiuta a delimitare l’ambito tematico su cui intraprendere il lavoro di elaborazione, a controllare la pertinenza dei termini e il grado di completezza dell’area semantica e a distribuire i termini per subaree tematiche. L’albero concettuale deve dare una visione generale dell’ambito di lavoro, e non deve quindi essere né troppo complesso né troppo rigido; per essere efficace deve apparire piuttosto essenziale e flessibile. Una volta che il corpus è costituito e se ne è verificata la conformità all’albero concettuale si deve procedere al suo spoglio, e questo si deve porre due obiettivi principali: riconoscere nei testi che lo compongono dei segmenti linguistici che corrispondono a un concetto o a un termine e selezionare fra questi quelli che corrispondono a nozioni proprie dell’area di specializzazione nella quale si sta lavorando e che siano pertinenti agli obiettivi del progetto. Nel lavoro di spoglio è inoltre importante cha sia posta particolare attenzione alla pertinenza dei termini che vengono individuati: avendo come guida l’albero concettuale, bisogna lasciare da parte i termini che in realtà appartengono alla lingua generale o che sono al contrario troppo specifici o specializzati rispetto al grado di specializzazione e approfondimento terminologico previsto per la varietà oggetto di standardizzazione nel momento in cui si compie il lavoro (cfr. le caselle di Kloss, infra, PAR. .). In particolare, va posta attenzione alla strutturazione interna del lessico in termini di relazioni di sinonimia e al suo inserimento nel patrimonio linguistico generale dell’area, tramite la verifica delle eventuali equivalenze in altre lingue. Il lavoro di corpus planning riferito al lessico comprende dunque lo spoglio e la catalogazione delle entrate lessicali già esistenti nei corpora della varietà, con i loro valori semantici, ma anche, talora, la proposta di creazione di unità lessicali nuove, che sopperiscano a eventuali mancanze terminologiche. I procedimenti di creazione neologica si possono distinguere in neologia formale e neologia semantica. La neologia formale può essere classificata secondo il tipo di processo messo in atto: anzitutto la derivazione e la composizione, poi l’abbreviatura e il ricorso a prestiti, che possono essere interni, cioè provenire dalla stessa lingua (arcaismi, dialettalismi, geosinonimi), o esterni, che possono essere conformi all’originale o adattati; solo in casi molto particolari si può ricorrere alla creazione ex nihilo. La neologia semantica può essere effettuata attraverso il ricorso a tropi (metafora, metonimia), l’attuazione di processi di modificazione 

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semantica (ampliamento, restrizione o cambio di significato), la creazione di calchi, l’utilizzo di nomi propri (eponimi, denominazioni commerciali), i procedimenti di conversione grammaticale, l’impiego di onomatopea e interiezione. Nel processo di formazione di neologismi terminologici è necessario rispettare precisi criteri linguistici, terminologici e sociolinguistici. Ciò significa che le nuove parole devono essere innanzitutto adeguate al codice nel quale vanno a inserirsi dal punto di vista fonetico e ortografico, morfologico, semantico e sintattico. D’altro canto, i criteri terminologici richiedono una relazione univoca fra nozione (concetto) e denominazione (termine), l’adeguatezza al dominio nozionale di appartenenza, l’analogia formale con i termini con i quali i neologismi sono concettualmente relazionati (nella stessa lingua e nelle lingue di comunicazione internazionale), il rispetto per le tendenze generali della terminologia nell’area oggetto di elaborazione e soprattutto il consenso di specialisti e parlanti. L’aspetto sociolinguistico è infatti di fondamentale importanza in vista dell’accettazione e della diffusione dei neologismi, ed è perciò indispensabile considerare le caratteristiche sociologiche dell’area: il livello di formazione degli utenti, il loro grado di sensibilità linguistica, il prestigio sociale e professionale dei mezzi di diffusione. Altre considerazioni sociolinguistiche e psicolinguistiche devono tener conto della reale necessità denominativa (c’è veramente bisogno di questo termine in questo momento? esiste già una denominazione per questo concetto?) o dell’appartenenza di un certo termine a un particolare registro, della sua lontananza da connotazioni peggiorative e comunque degradanti e della sua facilità di memorizzazione. Come esempio di regole esplicite per la standardizzazione lessicale ci piace ricordare quelle proposte da Mustafa Kemal per il turco (cfr. Heyd, , pp. -), che configurano un progetto di lingua tutto sommato attento alla tradizione, ma in qualche modo utilizzabile, con gli opportuni cambiamenti, in altri contesti; per la lettura, si tenga presente che le regole risalgono alla metà degli anni venti del XX secolo e che sono enunciate in ordine di preferibilità: – preferire parole turche a sinonimi arabi o persiani; – sviluppare nuovi significati per parole turche; – sviluppare significati astratti per parole usate solo in senso concreto; – raccogliere voci dai dialetti; – formare nuove parole turche; – promuovere il revival di antiche parole osmanlı; – usare parole da testi di lingue turche non ottomane; – formare calchi di parole arabe; – turchizzare foneticamente parole straniere; – creare neologismi che nel suono somiglino a parole straniere. 

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

 Il còrso standard CASO STUDIO

Nella regione della Corsica, che gode di una certa autonomia amministrativa statutaria, da alcuni anni il còrso ha ricevuto un riconoscimento ufficiale, ma le difficoltà politiche ed economiche dell’isola rendono assai lento il processo di implementazione di questo diritto . Interessanti sono i tentativi di standardizzazione del còrso, che vanno in direzione della creazione di una cosiddetta lingua polinomica . Un tale progetto si concentra principalmente sull’aspetto funzionale: la lingua che si sta elaborando vorrebbe essere, naturalmente e non in modo artificiale come per il rumantsch grischun, una forma scritta che accetta e abbraccia tutte le varianti locali possibili e che si pone esplicitamente non in contrapposizione con le forme parlate, bensì a supporto di quelle che ancora non hanno uno standard scritto. Anche questa lingua polinomica deve servire da serbatoio alle varianti locali: ma sono in particolare queste a costituire la fonte primaria di alimentazione dello standard. Inoltre, una sua caratteristica innovativa è che lo standard orale del còrso normalizzato è costituito da ciascuna delle varietà parlate già esistenti, data per scontata l’intercomprensibilità fra le stesse, e non già da un’ulteriore variante artificiale o di prestigio. . Nonostante la situazione sia in parte quella delineata da Héraud (). . Chiorboli (); Thiers ().

 Il rumantsch grischun CASO STUDIO

Uno spunto particolarmente rilevante per le istanze di language planning è rappresentato dal fatto che il romancio (cfr. supra, CASO STUDIO ) è come si diceva composto da (almeno) cinque varietà ufficiali, ognuna con i suoi dialetti: e l’assenza di una qualunque variante che possa assumere le funzioni di koinè  ha molto imbarazzato il governo federale, non rassegnato a emanare le sue leggi e deliberazioni in tedesco per più del % della popolazione, in francese per quasi il %, in italiano per l’% e in cinque lingue diverse per meno dell’%. D’altra parte, il cantone dei Grigioni ha, fino a tempi molto recenti, utilizzato quattro varietà linguistiche per le comunicazioni ufficiali con i suoi comuni: in linea di massima, il sursilvano per i comuni della Surselva, il vallader per i comuni della Bassa Engadina, l’italiano per i Grigioni italiani e il tedesco per i comuni germanofoni e quelli di lingua ufficiale sutsilvana, surmirana o puter, comuni questi che, per non essersi voluti adattare a varietà romance non perfettamente coincidenti con la propria, hanno conosciuto un deciso arretramento degli ambiti d’uso della propria lingua a vantaggio del tedesco amministrativo. Per ovviare in parte a questi problemi, nel  l’Università di Zurigo ha dato incarico a Heinrich Schmid di approntare la grammatica di una lingua comune , in seguito chiamata rumantsch grischun, che potesse servire da codice passivo ufficiale per i rapporti con l’amministrazione cantonale e federale e che fungesse da lingua veicolare tra istituzioni romance di varietà ufficiale diversa . La grammatica è concepita come una sorta di minimo comun denominatore tra gli

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idiomi romanci, di cui accetta le caratteristiche comuni o a maggioranza o secondo criteri etimologici; ed è ufficialmente in uso da parte della Confederazione dall’entrata in vigore del nuovi artt.  e  della Costituzione federale. Il problema fondamentale è rappresentato dall’accettazione da parte dei parlanti di una tale varietà artificiale, vicina sì alle varianti locali, ma pur sempre “altra” e tale da non poter supportare nessun legame di tipo identitario. Altro motivo di perplessità nei confronti del rumantsch grischun è il timore che l’inserimento di questa lingua, dotata per definizione di alto status e di prestigio, possa costituire un pericolo per le parlate spontanee, cui invece sono legati forti sentimenti di identità locale e religiosa. La questione non era stata tralasciata dai pianificatori elvetici, i quali invece speravano nell’adozione di una lingua tetto che potesse servire contemporaneamente da ombrello per i dialetti parlati e da serbatoio per le necessarie innovazioni lessicali e sintattiche per gli idiomi specifici, che non avrebbero smesso di servire da lingue dell’amministrazione locale. Di fatto, questa nuova lingua è sentita come un’entità a se stante e non già come una varietà burocratica di una lingua comunque già utilizzata nella società: ne è prova la preoccupazione espressa da molti sull’eccessivo carico linguistico per i ragazzi che l’introduzione del rumantsch grischun nelle scuole comporta. Una reazione tipica è stata da noi raccolta a Disentis/Muster : l’informatrice lamentava l’alto numero di lingue presenti nel curriculum scolastico dei suoi ragazzi, enumerando il romancio (locale), il tedesco, l’italiano ed eventualmente l’inglese o il francese e dichiarando che l’aggiunta di un ulteriore codice, appunto il rumantsch grischun, sarebbe stato davvero eccessiva. Ora, però, il tedesco che i ragazzi studiano a scuola è profondamente diverso dalla varietà alemannica, che costituisce, semmai, la varietà di comunicazione per i rapporti extravallivi e necessaria per accedere all’istruzione superiore: i due codici sono tuttavia, nella percezione dell’informatore, assimilati e non costituiscono lingue diverse; cosa che invece accadde per il rumantsch grischun nei confronti della parlata locale, ancorché le differenze tra questi ultimi siano molto inferiori rispetto a quelle tra svizzero tedesco e Hochdeutsch. . La differenza confessionale (cattolici vs. protestanti) ha impedito l’affermazione della variante sursilvana, che è contemporaneamente la meglio conservata nell’uso sociale e amministrativo, quella che conta il maggior numero di parlanti e quella dalla più solida letteratura. . Gloor et al. (); Belardi (). . Cfr. almeno Furer (); Schmid (). . Uno dei pochi comuni monolingui romanci.

. Standard orale Il problema di un eventuale standard orale è particolarmente delicato. Ovviamente, la presenza di uno standard scritto è fondamentale non solo per ragioni di tipo ideologico e di prestigio linguistico, ma anche a fini pratici; per il problema identificativo, tuttavia, quello scritto è co

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

munque un canale comunicativo secondario rispetto al parlato, mancante di molti importanti segnali extralinguistici (movimenti, espressioni, postura), e che tende a esaltare il valore comunicativo del linguaggio, o comunque le sue funzioni pubbliche, invece di quelle simbolicamente legate al privato e all’identificazione primaria. Di uno standard scritto c’è effettivamente bisogno, nella maggior parte delle situazioni comunicative, nell’amministrazione, nella scuola, nella cultura superiore, ed è più che ragionevole pensare (ragionevole anche se non sempre corretto o indispensabile) che la presenza o la creazione di uno standard scritto, le cui norme siano prevedibili, sia un’opzione da preferire, anche solo per motivi pratici. Invece la proposta (o, più ancora, l’imposizione) di uno standard orale è un’operazione fortemente simbolica, giacché la sua assenza, entro certi limiti, non pregiudica l’intercomprensione fra i parlanti, neppure in situazioni formali o artificiali. Lo standard orale non è una necessità comunicativa: è un plusvalore attribuito alla lingua, che per essere accettato deve poter contare su una base ideologica molto forte; la sua eventuale introduzione, inoltre, è un passaggio molto rischioso, dal momento che il suo rifiuto (sempre possibile, e spesso probabile) è totale e si estende agli altri livelli di lingua. Valgono per lo standard orale, potenziate, le ragioni identificative che avevamo accennato trattando dello scritto: pochi, se non sostenuti da un’identificazione ideologica fortissima, acconsentono a che qualcuno da fuori (o “dal capoluogo”) insegni loro a parlare la lingua che hanno sempre saputo e nella quale si sono sempre identificati. Un tale problema è ovviamente molto più avvertito nelle società altamente alfabetizzate, come quella europea attuale, in cui la standardizzazione di nuovi codici ha fini in gran parte protettivi delle varianti locali; al momento della creazione ideologica degli stati nazionali tali preoccupazioni non erano ovviamente all’ordine del giorno e anzi il problema sembrava essere principalmente quello di offrire una sola varietà, il più possibile compatta geograficamente, ma anche completa nei suoi livelli linguistici, alla popolazione illetterata. In questo caso anche la proposta di uno standard orale assumeva caratteristiche molto diverse. Ora, però, in quest’ottica protettiva cui si faceva cenno, se lo standard proposto si trova a dover sostituire una forma locale che l’acquisizione dell’uso scritto e ufficiale avrebbe dovuto difendere (o se comunque viene percepito il rischio di una tale sostituzione), la percezione di questo rischio diminuisce molto l’utilità della pianificazione agli occhi del parlante, che anzi, per ovvie ragioni di identificazione primaria con la propria lingua, percepisce la nuova varietà come un attacco e un pericolo per la sua parlata. Tuttavia, la presenza, anche nel repertorio orale, di una varietà che possa essere compresa facilmente da tutti può rivelarsi a volte una risor

.

CORPUS PLANNING

sa, principalmente per insegnarla come seconda lingua, ma anche per usi di “parlato-scritto” , quali – nell’ordine di utilità – il teatro, la radio e la televisione. Il punto è che la presenza o l’elaborazione di una varietà comprensibile non significa ipso facto la presenza o l’elaborazione di uno standard orale; soprattutto non significa che questo standard orale (possibilmente visto come “minimo comune denominatore” delle varietà o come lingua letteraria, di tradizione e prestigio) debba essere proposto o imposto per l’uso parlato quotidiano. Lo stato norvegese, ad esempio, non ha ufficialmente alcuna forma standard orale: il Norsk Språkråd, il Consiglio norvegese per la lingua, ha il compito di stabilire le norme delle due varianti di norvegese scritto, ma non ha alcuna autorità riguardo alla realizzazione orale della lingua. In verità lo standard orale – o meglio gli standard orali – sono proposti da varie istituzioni e organizzazioni indipendenti, come Det norske teatret, il teatro nazionale norvegese, ognuna delle quali si fissa autonomamente le proprie regole di pronuncia. Anche la televisione di stato si è vista impegnata per molti anni in un’attività di normazione linguistica, che ha coinvolto anche il versante della pronuncia. Il consulente linguistico per il bokmål, ad esempio, raccomandava agli speaker dei telegiornali provenienti dall’Ausland o dal Trøndelag di non accentare sulla prima sillaba alcuni prestiti da altre lingue europee, ma riteneva che la [ ] retroflessa – come ad esempio nella parola folk –, tipica delle stesse regioni, fosse un tratto particolarmente gradevole e appropriato. Di contro, la legislazione catalana ha scelto di codificare, per l’uso parlato, più forme, in modo da adattarsi meglio alla diversità dialettale del territorio . In termini di accettabilità da parte della popolazione si può, sulla base delle principali esperienze europee, costruire una scala di ricezione della varietà standard orale, che va dall’uso nella pubblica amministrazione (in situazioni ufficiali e di rappresentanza – non, poniamo, allo sportello delle poste ), all’insegnamento scolastico (come L, ed eventualmente come L accanto alle varietà locali), all’uso nei media, all’uso nelle occasioni sociali particolarmente formali, in discorsi, dibattiti e conferenze. Il tentativo esplicito di normalizzazione dello standard orale per l’uso privato è invece sempre visto come un’imposizione dall’alto, spesso intollerabile, che rischia di gettare cattiva luce su tutta l’opera-

i

. Cfr. Nencioni (). . Estàndard oral (). . Dove, soprattutto nei piccoli centri, il rapporto utente-funzionario si pone su un piano privato.



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

zione di standardizzazione. E la non accettazione del planning non significa rivoluzione, significa non uso: semplicemente le persone non parlano come è loro proposto (ma ciò è probabilmente anche peggio rispetto alla protesta esplicita, che almeno prende in considerazione la proposta, sia pure per contestarla). . Status, funzione, prestigio Con i cenni a questioni di accettabilità di una politica linguistica da parte della popolazione siamo ora in un terreno in qualche modo un po’ a metà strada fra il corpus planning e lo status planning: e in effetti, come è ovvio, i due concetti sono assai strettamente correlati e, nella pratica della pianificazione, assai difficilmente separabili. Prendiamo, ad esempio, una delle operazioni più classiche e attuate di corpus planning, approntare una terminologia che possa far fronte alle nuove esigenze della lingua: ebbene, l’opera di standardizzazione lessicale (come per gli altri livelli di lingua, ma in modo forse più scoperto) rende proprio evidenti quei nessi fra possibilità comunicative reali della lingua e status acquisito. Status, funzione e prestigio sono in effetti assai strettamente correlati, perché di una lingua rappresentano per così dire passato, presente e futuro . Possiamo assegnare il passato al prestigio, ossia ciò che i parlanti ritengono che la lingua sia stata, la sua eredità linguistica, comunicativa e culturale: una lingua con un passato letterario o di codice dei rapporti interregionali o internazionali conserva generalmente un alto prestigio presso i parlanti (ad esempio, il latino classico) . La funzione è invece il presente, ossia ciò che con la lingua effettivamente si fa, a fini comunicativi e letterari, anche al di là della sua posizione ufficiale: lingue veicolari o di vasta diffusione ricoprono molte funzioni, ma non necessariamente queste sono legate a un alto prestigio (ad esempio, lo swahili in Africa occidentale ha molte funzioni e poco prestigio). Lo status rappresenta il futuro, il potenziale della lingua, cioè quello che con essa si potrebbe fare – anche se ancora non si fa – in virtù della sua posizione ufficiale: è, comprensibilmente, assai connesso al prestigio, dal momento che le lingue ufficiali tendono a essere, almeno in Europa, quelle di riconosciuta tradizione letteraria e di maggiore peso interna. Cfr. Mackey (). . Non si confonda questa accezione particolare e tecnica con il normale concetto di prestigio linguistico per come viene inteso nella maggior parte delle pubblicazioni scientifiche.

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zionale: ma status e prestigio possono divergere, come tipicamente accade nelle iniziative di ufficializzazione di una lingua “nuova”, o comunque non già presente nel panorama di quelle standardizzate. Tuttavia, possedere un alto status da parte di una lingua porta nel tempo a un accrescimento del prestigio linguistico. Anche status e funzione possono convergere su una stessa varietà, e anzi è questo il caso più frequente; ci sono però esempi di lingue che godono di status ufficiale e prestigio molto alto, ma che ricoprono in realtà poche funzioni comunicative: si pensi solo all’irlandese nella Repubblica d’Irlanda. Lo status del linguaggio si può talora cambiare incrementandone le funzioni, ma le funzioni possono de facto operare anche senza status; e in effetti la differenza fra ciò che uno è autorizzato a fare con la lingua e ciò che può in realtà fare è grande (in Gabon, ad esempio, tutti sono autorizzati dalla legge a scrivere in francese, ma solo pochissimi sono in grado di farlo effettivamente). Ciò perché le funzioni che una lingua ricopre dipendono dalla competenza linguistica, che si mantiene con l’uso; e si ricorderanno le considerazioni avanzate sopra sul valore della forma scritta per una lingua. Appare allora chiara l’interrelazione, anche a livello operativo, dei tre concetti: e sembra necessario accostarli alla terza branca del language planning, accanto al corpus planning (riferito all’incremento delle funzioni) e allo status planning: appunto l’acquisition planning , che, come vedremo in seguito (cfr. infra, CAP. ), concerne particolarmente l’accettazione della parlata target da parte della popolazione, così come il suo sostegno con iniziative che ne innalzino il valore agli occhi dei parlanti, anche di quelli potenziali. È al livello lessicale che viene normalmente legata l’implementazione delle funzioni linguistiche: il problema è in effetti come acquistare, tramite la standardizzazione lessicale, nuovi domini d’uso (quelli, ad esempio, dell’amministrazione, della scienza, dell’istruzione universitaria, della vita politica e così via), avocandoli a sé da altre lingue presenti sul territorio; e al contrario, se si tratta di un’opera di conservazione, la questione è come non cedere domini d’uso a vantaggio di un’altra lingua. Sembra assai utile considerare, nello sviluppo della loro acquisizione, un percorso graduale, ed è divenuto classico quello indicato a suo tempo da Heinz Kloss . Preoccupandosi delle tappe di sviluppo di una lingua in via di promozione, egli nota che, fra le strade possibili da percorrere nel tentativo di rafforzare la posizione sociale di un idioma, è particolarmente importante il punto dell’accrescimento dell’uso scritto . Per una discussione del sintagma acquisition planning cfr. Cooper (), p. . . La trattazione di seguito deve molto a Kloss ().



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

e dei suoi domini di applicazione. Per questo è indicata un’ascesa in varie tappe, che Kloss caratterizza in questo modo, assegnando a ciascuno un tipo di produzione (testuale e lessicale) ritenuta tipica. . Scala dei domini di applicazione* TABELLA

Grado preliminare (gergale)

Umorismo semplice (scherzi, “lettere al direttore” umoristiche); poi trascrizioni di canzoni popolari, canzoni di bambini, indovinelli, proverbi ecc.

° grado

Lirica. Poesia umoristica di tutti i generi, anche teatrale; racconti umoristici. Parti dialogate nella narrativa e in lavori radiofonici.

° grado

Teatro; racconti seri in prosa (per intero, non solo nelle parti dialogate); racconti in versi; idillio; epica. Saggi giornalistici come inizio di una lingua specializzata.

° grado

Costituzione di una lingua specializzata: libri di testo e limitate ricerche originali (saggi) nel dominio delle tradizioni locali. Giornali divulgativi. Inizio dell’uso epistolare. Emissioni radiofoniche divulgative. Grammatiche e dizionari scientifici.

° grado

Testi didattici per tutti i domini scientifici (non solo per le tradizioni locali). Ricerca scientifica di grande respiro nelle tradizioni locali. Riviste scientifiche di impegno. Emissioni radiofoniche più impegnative.

° grado

Ricerca originale di grande respiro nei diversi campi del sapere. Uso ufficiale nei comuni, nello stato ecc. Impiego nell’attività economica. Giornali redatti interamente nella lingua locale.

* Il raggiungimento dei gradini più alti dipende naturalmente anche dall’esistenza di un’ortografia unitaria e di una forma unitaria della lingua scritta (cfr. Muljaci|, ).

Ciò che è soprattutto notevole, in questa tabella, e che si ritrova spesso nella letteratura teorica dedicata al reversing language shift , è la sua gradualità: non si raggiungono i gradi più alti senza essere passati da quelli intermedi e iniziali: anzi, il tentativo di “bruciare le tappe” è quasi inevitabilmente destinato al fallimento. Lo schema si articola ulteriormente in un reticolo a nove caselle, che bene illustra le condizioni di arrivo e partenza delle lingue. . Cfr. Fishman (, , a), e qui di seguito.

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.

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. Reticolo di Kloss FIGURA

F

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G

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6

V

1

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3

E

K

N

Campi di applicazione E = eigenbezogene Themen, temi specifici riferiti all’ambito vitale particolare della rispettiva comunità linguistica. K = kulturkundliche Fächer, altre materie umanistiche (letteratura, ma anche diritto, filosofia, teologia). N = Naturwissenschaft, scienze naturali e tecnologia. Gradi di sviluppo V = Volksschulstufe, gradi di prosa comune non sorvegliata. G = gehobene Schulstufe, grado di scuola superiore. F = Forscherprosa, grado universitario.

Il reticolo contiene nove piccoli quadri: per ognuno dei tre campi d’applicazione che lo schema considera, sono possibili tre gradi di sviluppo; il che dà origine a nove possibilità, dalla poesiola di argomento locale e di laudatio temporis acti al testo universitario di fisica subatomica. Per motivi evidenti si considerano più sviluppate le funzioni del linguaggio scientifico e tecnologico rispetto a quelle delle materie umanistiche. Ora, la linea di conquista verso potenzialità e funzioni sempre maggiori si sviluppa diagonalmente, anche se non per tutte le lingue nella stessa successione: ci sono varietà che percorrono la serie , , , , , , mentre altre guadagnano la stessa portata con la sequenza , , , , , . Come è evidente, questo raffinato strumento euristico permette una gran quantità di combinazioni, ma quello che qui importa notare è che non tutte le lingue, tra cui anche alcune numericamente grandi che vengono parlate da una vasta comunità linguistica, possono permettersi il lusso di occupare il quadrato  . Per dare solo un esempio, proveniente da una tradizione peraltro molto attenta al non cedere funzioni linguistiche a codici diversi, gli scienziati catalani hanno deciso di pubblicare gli esiti del. Il quadrato  è appannaggio, in realtà, di pochissime lingue al mondo: sicuramente dell’inglese, e forse del francese, ma la quasi totalità delle altre conosce un punto di specializzazione scientifica o tecnologica oltre il quale le acquisizioni si espongono alla comunità internazionale in inglese.

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

le loro indagini principalmente in inglese (nel Manifesto di Prades del , col quale più di  scienziati di tutte le discipline hanno consigliato l’uso di una lingua di comunicazione internazionale a fianco del catalano: non tuttavia il castigliano, bensì l’inglese). Negli ultimi decenni il predominio dell’inglese si sta facendo particolarmente evidente nell’ambito delle pubblicazioni scientifiche: molte riviste internazionali, anche di paesi non anglosassoni, hanno deciso di pubblicare i loro lavori solo in inglese e soprattutto sono completamente in mano anglofona i principali organismi di critica e revisione scientifica internazionale (cfr. Carli, Calaresu, ).



 Status planning

Con status planning ci si riferisce all’insieme dell’apparato normativo e legislativo volto a rendere effettivi (o al contrario a ridurre, nelle situazioni di limitazione linguistica) i diritti linguistici della popolazione. Bisogna allora distinguere in linea preliminare fra diritto linguistico, ossia l’effettiva legislazione linguistica vigente sul territorio, diritti linguistici (cioè i diritti che i parlanti acquisiscono rispetto alle diverse varietà) e l’attuazione e implementazione di questi diritti, la cosiddetta language policy, di tipo sociolinguistico. . Diritto e diritti Fra i diritti dell’uomo, ancorché in una posizione giustamente di secondo piano rispetto ad altri che possiamo considerare primari, ultimamente si sta diffondendo l’opinione di includere il diritto del parlante a usare la lingua che preferisce nei rapporti sociali e pubblici. In effetti, al momento non si discute propriamente di che cosa davvero sia la “lingua che il parlante preferisce”: si assume come dato di fatto che ciò voglia dire lingua madre, lingua di socializzazione primaria (e a sua volta il concetto di “lingua madre” non è praticamente mai definito ). Viene sempre più riconosciuto, in sostanza, se non proprio il diritto al plurilinguismo per elezione, il diritto almeno a poter usare nella vita sociale e nel rapporto con la scuola, l’alta cultura, la giustizia, l’amministrazione, la lingua che si domina meglio, nella quale ci si sente più sicuri. Questo a livello personale, ovviamente, ma anche a livello collettivo: i diritti linguistici comprendono infatti anche il diritto delle varie comunità (spontanee) a considerarsi come tali, a costituirsi cioè in comunità autonome e a creare istituzioni o gruppi riconosciuti come tali e a usare sul proprio territorio la lingua che ritengono opportuna. . Cfr. Iannàccaro, Dell’Aquila () e per un confronto anche Kazakevic ().

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Nei casi più avanzati questi diritti linguistici sono codificati nel diritto linguistico dello stato in cui i parlanti si trovano a vivere, che regola i rapporti fra cittadini e stato sul piano della lingua, così come fra cittadini che parlino lingue differenti, tutelando a volte il plurilinguismo all’interno dei propri confini, ma talora reprimendolo o contrastandolo, o regolandolo a favore di alcune comunità piuttosto che di altre. Ora, nella teorizzazione corrente della Sprachplanungswissenschaft è fondamentale la distinzione tra personalità e territorialità del diritto linguistico, ossia fra la possibilità teorica da parte dei singoli cittadini di usare la propria lingua su tutto il territorio dello stato e la delimitazione territoriale di un tale uso, che viene regolato nelle diverse aree geografiche . È anche però importante definire in quali ambiti questi principi legali devono essere applicati, fondamentalmente quello istituzionale e del sistema educativo; a seconda delle diverse situazioni e delle diverse esigenze politiche, comunque, a questi ambiti possono corrispondere usi legislativi diversi. Ad esempio, fino alla sua dissoluzione, la Iugoslavia annoverava comuni amministrativamente monolingui, in cui però le scuole erano plurilingui: così come, di converso, la Catalogna attuale è amministrativamente bilingue, ma il sistema educativo pubblico è (quasi) esclusivamente catalano. Fra gli usi amministrativi, quello che sembra il meno permeabile al plurilinguismo è l’uso giuridico o legale del linguaggio; le legislazioni sono più spesso monolingui anche in territori che ammettono la compresenza di più varietà ufficiali: la Valle d’Aosta, ad esempio, è ufficialmente bilingue italiano-francese , ma l’amministrazione della giustizia è esclusivamente in italiano. Una legislazione che tenda a implementare l’uso di un particolare codice all’interno della società deve prevedere la possibilità per i cittadini di redigere contratti, scritture private e qualsiasi atto con valore legale stipulato fra cittadini o fra cittadini e istituzioni anche nel codice oggetto di tutela. Per i testamenti olografi, in genere an. Il sintagma “personalità del diritto” indica la non esistenza di una legge territoriale unica e vincolante per tutti i soggetti a un medesimo ordinamento giuridico, i quali possono vivere secondo le leggi proprie della nazione o della stirpe da cui discendono. Si tratta di un sistema applicato ovunque manchi l’interesse o l’utilità di imporre un’unica legge comune su base territoriale. Diffuso nel mondo antico, era normalmente in uso nei regni europei successivi alla caduta dell’Impero romano. Il sistema cominciò a essere seriamente messo in discussione con la costituzione dei comuni e delle città libere, che pervennero alla creazione di una normativa territoriale vincolante per tutti i soggetti. Nondimeno si hanno casi di riferimento a diritti personali anche in epoca molto posteriore a quella comunale. Per una discussione più dettagliata della territorialità-personalità del diritto linguistico cfr. Piergigli (), pp. -. . Per la situazione valdostana cfr. supra, CASO STUDIO .



.

S TAT U S P L A N N I N G

che i paesi monolingui ne permettono la redazione in codici diversi (lingue straniere, dialetti, “lingue sgrammaticate”); questi atti però, per avere valore legale, devono essere trascritti dal notaio e prodotti in traduzione giurata – inoltre, pochi cittadini si avvalgono di questa possibilità, il più delle volte per ignoranza della norma che permette la redazione non in lingua nazionale dei testamenti e per una sorta di restrizione implicita che vuole il documento legale scritto in buona lingua. Lo stato che vuole essere plurilingue può eliminare l’obbligo di traduzione giurata per le varietà che vuole rendere ufficiali e soprattutto informare i cittadini di queste possibilità . Ci sono poi tentativi di regolamentazione legale anche dell’uso sociale (inteso come uso della società civile) e familiare – si pensi, ad esempio, alla legislazione fascista –, ma questi sono caratterizzati generalmente da grande estemporaneità, a causa della modestissima rispondenza dei cittadini a tali regolamentazioni (che giunge spesso sino all’esplicita ostilità) se queste non sono accompagnate alternativamente o da una fortissima tensione ideologica o da esplicite operazioni di language policy. Di maggiore fortuna sembrano godere al momento i tentativi di intervento sull’uso delle lingue nelle imprese economiche private previsti nelle legislazioni del Québec, della Catalogna e della Francia, che stanno trovando una certa rispondenza nella società civile. La territorialità del diritto linguistico è attualmente il regime giuridico linguistico più diffuso, il più adatto alle esigenze di uno statonazione così come esce dalla Rivoluzione francese e dal romanticismo. Il caso più semplice è quello in cui a uno stato corrisponde una e una sola lingua, unica varietà ammessa su tutto il territorio: è il modello francese, adottato nell’Ottocento dalla maggior parte dei nascenti stati nazionali e solo ultimamente rivisto e corretto in alcuni. Altrove più lingue sono riconosciute nella stessa entità statale, e a queste sono assegnate regioni specifiche: l’esempio classico è la Confederazione Elvetica, divisa in regioni linguistiche monolingui (con rarissime eccezioni), mentre il modello più frequente sembra essere quello di tipo italiano, in cui a una varietà egemone diffusa e ufficiale su tutto il territorio e per tutti gli ambiti si affiancano localmente varietà diverse con differente grado di riconoscimento giuridico. L’unico esempio europeo moderno di totale personalità del diritto linguistico legalmente codificata era l’Impero austroungarico alla fine della sua parabola statale: la popolazione era divisa in comunità nazionali, ognuna con la sua lingua, e queste avevano diritto (con le sole limitazioni di carattere demografico) all’istruzione e alla vita culturale nella propria varietà, indipendentemente dal territorio che . Cfr. Iannàccaro (a).

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

si trovassero a occupare; anche l’assegnazione dello status di lingua ufficiale alle varietà di una certa zona non era effettuata a priori, ma determinata dai rapporti reciproci fra le lingue effettivamente in uso sul territorio. Ciò significava che, al variare della composizione demografica ed etnico-linguistica di un’unità amministrativa, potevano parimenti cambiare le lingue in uso nell’amministrazione. Istituzione particolarmente plurilingue, ma in cui dominavano anche fattori di tipo diastratico, era l’esercito .  L’equilibrio infranto: la Iugoslavia CASO STUDIO

La Iugoslavia era uno stato federale composto da sei repubbliche federate, a ognuna delle quali, esclusa la Bosnia-Erzegovina, corrispondeva una “nazione” (narod) titolare, ossia composta da cittadini che si riconoscevano etnicamente e linguisticamente in essa. A questa varietà etnica corrispondevano le tre lingue nazionali: sloveno, serbocroato e macedone . Tuttavia, questi gruppi etnico-linguistici rappresentavano meno dei tre quarti della popolazione: le altre nazionalità (narodnosti) non disponevano di una propria unità amministrativa ed erano variamente distribuite sul territorio iugoslavo; facevano eccezione la comunità albanese, abitante principalmente la regione autonoma del Kosovo, in Serbia, e la comunità autonoma di Vojvodina, sempre in Serbia, abitata in maggioranza (ancorché piccola) da serbi, ma anche, fra gli altri, da ungheresi, rumeni, slovacchi, croati, ruteni, cechi. La Bosnia-Erzegovina era composta in modo più o meno equilibrato da croati, serbi e “musulmani” . All’interno di ogni Repubblica era in uso, nei rapporti con i cittadini e con il governo federale, solo la lingua propria del territorio: sloveno in Slovenia, macedone in Macedonia e serbocroato nelle altre repubbliche – ossia, “croato” o “croato-serbo” in caratteri latini in Croazia e “serbo-croato” in caratteri cirillici in Serbia e in Montenegro; la Bosnia usava il “serbocroato”, alternando caratteri latini e cirillici. Le comunità di minoranza (narodnosti) potevano usare, nei territori di insediamento, la propria lingua nazionale accanto a quella ufficiale della Repubblica federata per tutte le funzioni amministrative ed educative a livello locale. La situazione legislativa garantiva così l’uso di almeno altre nove lingue per scopi ufficiali e di educazione oltre alle tre lingue nazionali: albanese, bulgaro, ceco, italiano, ungherese, rumeno, ruteno, ucraino e turco. Il caso della Iugoslavia sembra dunque caratteristico di un particolare incrocio fra le variabili di territorialità e personalità da un lato e di lingua del-

. Vale la pena di ricordare la situazione dell’esercito austro-ungarico, nel quale, nonostante la teorica prevalenza del tedesco e dell’ungherese, gli alti gradi degli ufficiali avevano spesso buona competenza attiva in cinque, sei o addirittura sette lingue diverse, e se ne servivano per i rapporti con le singole unità militari, spesso caratterizzate dalla presenza di lingue tradizionali di corpo. Cfr. Goebl (, a, b, c).

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l’amministrazione e lingua dell’educazione dall’altro, incrocio che, nella sua apparente complessità, è tuttavia assai comune nelle legislazioni europee. La Iugoslavia era divisa per territori monolingui (e eventualmente bi- e trilingui) a livello comunale, e le minoranze alloglotte all’interno dei comuni, se in percentuale «rilevante» , avevano diritto in primo luogo a classi di insegnamento nella propria lingua, e in seguito al suo uso come varietà coufficiale. Il serbocroato, tuttavia, come lingua della maggioranza della popolazione, godeva di una posizione di vantaggio, in quanto classi di questa lingua potevano essere istituite anche in territori allofoni monolingui con percentuali anche davvero molto basse di popolazione serba e/o croata. Era più difficile trovare classi in altre lingue in comuni ufficialmente serbocroati che classi in serbocroato all’interno di comunità non serbe e non croate: la situazione si configurava così come fondamentalmente basata, nelle sue linee principali, su un diritto di tipo territoriale nell’amministrazione, ma su un diritto personale nell’educazione, in realtà “più personale” per i serbi (e i croati), anche in zone di diritto territoriale non serbo o croato. Un tale sistema, attento ai diritti delle minoranze e garante del mantenimento delle diversità etniche, linguistiche e religiose, aveva tuttavia bisogno, per funzionare effettivamente, di una situazione sociale ed economica ben diversa da quella che caratterizzava invece il paese: una economia non certo florida nel suo complesso e caratterizzata da profondi divari locali, una tradizione storica e religiosa grandemente differenziata e, più di tutto, una divisione territoriale in repubbliche federate che incarnavano – sul modello dello stato nazionale – le differenze e le identificazioni etniche, linguistiche e religiose del paese. All’implosione della Repubblica iugoslava avvenuta nei primi anni novanta queste differenze, e in particolar modo la diversa concezione politica dello stato e del ruolo geopolitico della propria comunità, ha causato riflessi assai evidenti anche sul piano linguistico. Con la nascita di tre stati diversi in quella che era precedentemente l’area del serbocroato, si è verificata la necessità, considerata irrinunciabile da una parte della popolazione e dai legislatori dei nuovi stati nazionali, di agire con politiche molto incisive di corpus planning affinché ciò che una volta era la lingua comune acquisisse l’aspetto esterno di tre lingue differenziate e indipendenti una dall’altra. Le nuove lingue, grazie alle differenze ostentate che possono esibire, supportano ora meccanismi diversi di aggancio identitario, anche se in verità, per quanto riguarda serbo e croato almeno, intorno al  le due lingue erano già tanto distanti da autorizzare traduzioni dall’una all’altra: il serbo si presentava monolitico e arcaizzante, assai fedele alla tradizione slavo-ecclesiastica, il croato accettava assai più volentieri elementi estranei, e tuttavia permaneva un altissimo tasso di comprensione reciproca . Dal momento della standardizzazione linguistica ottocentesca in avanti, invece, le scelte compiute dai normalizzatori sono sempre andate in direzione dell’unità e della convergenza in una lingua comune: grazie all’opera di Vuk Karad=i| (-) il serbo si modernizza (dunque indirettamente si croatizza) e di contro il croato si avvicina allo standard dialettale del serbo, soprattutto per intervento del normalizzatore Ljudevit´ Gaj (-) .

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Le differenze fra le tre lingue standard attuali, che pure esistono, sono assai esigue e non pregiudicano per nulla la comunicazione (per il concetto di “voglio fare” il croato preferisce ho|u raditi e il serbo ho|u da radim, letteralmente “voglio che faccio” – come dire nacqui rispetto a sono nato); oppure si rileva qualche differenza lessicale (in maggioranza nei prestiti da altre lingue o nei termini astratti e scientifici, o per l’accoglimento di dialettalismi diversi), ma queste differenze potrebbero benissimo passare come doppioni o scelte stilistiche. Quello che importa è che praticamente tutte le scelte linguistiche “diverse” tipiche del serbo sono possibili anche nel croato e viceversa: è un po’ come se ci fossero due lingue italiane – mettiamo, quella della Repubblica e quella di San Marino – nelle quali in una si dice regolarmente “ho preso il sedativo” e nell’altra “presi il tranquillante”: la comunicazione, anche se superficialmente si avvale di forme differenti, è comunque perfetta nei due sensi, perché le forme “diverse” fanno parte dello stesso sistema linguistico. Tuttavia, il vero punto che qui preme mettere in luce è un altro: consideriamo la tabella seguente (adattata da Garde, , p. ), in cui si trova schematizzata la suddivisione linguistica dei dialetti nello spazio serbo-croato-bosniaco. Ora, senza entrare nel dettaglio, la divisione dialettale è basata principalmente su due coordinate: l’esito della cosiddetta antica jat’ [e˘], che dà le tre possibilità jèkavo, èkavo e ìkavo, e, più importante, l’esito di “che cosa?”, che dà &to, ca e kaj (da cui &tokavo, cakavo e kajkavo), secondo la tabella seguente. Dialetti

Regioni

Stati

kajkavo

Croazia (Nord-ovest, Zagabria)

Croazia

cakavo

Croazia (costa, isole), Montenegro (Nord-ovest)

Croazia, Serbia e Montenegro

&tokavo ikavo

Croazia (Dalmazia), Erzegovina (Est)

Croazia, Bosnia ed Erzegovina

&tokavo jekavo (le lingue ufficiali di Croazia, Serbia e Montenegro, Bosnia sono basate sullo &tokavo jekavo)

Croazia (Slavonia, Krajina, Dubrovnik/Ragusa), Bosnia, Erzegovina Ovest, Montenegro, Serbia Ovest

Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia e Montenegro

&tokavo ekavo

Serbia (Nord, Centro), Slavonia

Serbia e Montenegro, Croazia

torlacco (assai balcanizzato) Serbia (Sud-est)

Serbia e Montenegro

Dalla tabella risulta però evidente che questi dialetti diversi sono tagliati e ricuciti insieme in modo del tutto arbitrario nelle lingue nazionali, la cui divisione politica non rispetta per nulla quella linguistico-dialettologica. In particolare, è notevole che le lingue nazionali sono tutte e tre basate sullo stesso dialetto, lo &tokavo, e che le loro differenze sono di tipo indotto, non strutturale. L’esempio iugoslavo è dunque particolarmente interessante, perché mostra come le scelte politiche, e di conseguenza i meccanismi identitari – a livello di co-

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scienza dell’esistenza di comunità linguistiche distinte –, possono tranquillamente passare sopra alle differenze propriamente linguistiche, e mostra a quali risultati può giungere l’estrema divaricazione fra funzione comunicativa e simbolica della lingua. Al momento della dissoluzione della Iugoslavia è stato allora facile, paradossalmente grazie alla differenza alfabetica e non a quella dialettale, identificare immediatamente le varianti (ora lingue) e su di esse agire sul piano lessicale con un sistema specularmente identico a quello ottocentesco. . Tuttavia l’amministrazione centrale usava quasi esclusivamente il serbocroato (in una variante serbizzante scritta in caratteri latini). . Notare che questa denominazione, a differenza delle altre, è esplicitamente a carattere religioso. . La legislazione non specificava però che cosa significa «rilevante». . Cfr. almeno Iannàccaro (b); Katici| (). . Cfr anche Neweklowsky ().

. Legislazioni linguistiche I vari sistemi giuridici manifestano gradi differenti di esplicita attenzione alla realtà linguistica del territorio cui si riferiscono: dall’assenza di qualunque menzione nel corpus legislativo (Regno Unito fino al Welsh Act del  , Stati Uniti ), fino a un ricco e completo corpus che regola l’uso della lingua a ogni livello e in ogni occorrenza (Finlandia, Catalogna, Alto Adige e altri). E tuttavia, la non regolamentazione giuridica della realtà linguistica non significa effettivo disinteresse per il problema, perché delegando la fissazione dei rapporti fra i codici alle consuetudini sociali e ai rapporti di forza si costituisce di per sé o si abbraccia una precisa politica linguistica. In mancanza di riconoscimento, la minoranza linguistica si colloca, per così dire, ad uno stadio pregiuridico, di mero fatto, che non le consente di beneficiare di misure di protezione dissimili da quelle, generali e generiche, fruibili da qualunque cittadino o individuo, indipendentemente da qualsivoglia appartenenza minoritaria. [...] In linea di principio, il rifiuto di riconoscimento [...] è suscettibile di concretarsi in un atteggiamento di indifferenza nei confronti delle sorti delle situazioni minoritarie ovvero spingersi a manifestazioni repressive (Piergigli, , pp. -).

. Modificato poi dal New Welsh Language Act nel . . Fino alla nascita, negli anni ottanta-novanta, della nuova ideologia dell’English only, che peraltro riflette un’effettiva situazione di sofferenza dell’inglese rispetto allo spagnolo.



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Non necessariamente, comunque, paesi con più lingue ufficiali o con maggiore attenzione al problema linguistico presentano una legislazione linguistica più ampia e articolata rispetto agli altri; basterà qui citare il caso della Svizzera, che, con le sue quattro lingue ufficiali, non ha che due articoli della Costituzione federale (il  e il ) che facciano menzione delle lingue, e solo pochissimi dei  cantoni hanno parti relative alla lingua nei loro sistemi giuridici, secondo il principio che «légifère le mieux qui légifère le moins» . Tuttavia, anche il diritto linguistico esplicito, va ricordato, non è sempre teso a introdurre elementi di parità fra i codici in contatto: anzi, più spesso produce una gerarchizzazione sociale e politica delle lingue, anche attraverso una particolare scala di denominazioni, che possono andare da “lingua nazionale”, con tutte le specificazioni di status e funzioni simboliche che ciò comporta, a “lingue minoritarie”. Vediamo brevemente le più usate fra queste. . LINGUA NAZIONALE È la denominazione più classica, di diretta discendenza dai principi sette-ottocenteschi: la lingua nazionale è la lingua della nazione costitutiva dello stato; le lingue definite come nazionali sono quelle a cui viene attribuito maggior valore simbolico dalle istituzioni (Francia, Grecia, Spagna). . LINGUA UFFICIALE  Una tale denominazione punta molto di più sul valore pragmatico e comunicativo della lingua, essendo al contempo molto meno marcata simbolicamente; in situazioni in cui coesistano nella legislazione “lingue ufficiali” accanto a “lingue nazionali”, le prime sono appunto quelle a cui viene intenzionalmente attribuito un valore precipuo di lingua veicolare di comunicazione, prescindendo dai valori simbolici e identificativi. Inutile aggiungere che una lingua può essere contemporaneamente “nazionale” e “ufficiale” (Irlanda, Lussemburgo, Svizzera prima del ). Se in uno stesso territorio sono presenti più lingue ufficiali, alcuni sistemi giuridici le definiscono “lingue coufficiali”. . LINGUA LEGISLATIVA (langue législative) Questa definizione si trova nel diritto lussemburghese, in riferimento al francese, e indica la varietà che deve essere usata dalla pubblica amministrazione nella formulazione delle leggi. La lingua legislativa occupa una posizione decisamente . Citato in Brohy (). Cfr. anche Grin (, ). . «Una definizione della nozione di lingua ufficiale [...] non emerge nel diritto comparato da puntuali disposizioni costituzionali o legislative, ma si desume dal complesso delle normative generali o settoriali che ne disciplinano gli effetti giuridici» (Piergigli, , p. ). Tra gli stati che indicano nella loro Costituzione quali siano le loro lingue ufficiali troviamo l’Albania (art. .), la Francia (art. ), la Spagna (art. .), la Svizzera (artt.  e ), l’Ucraina (art. ), la Croazia (art. ), l’Irlanda (art. ), Cipro (art. .) e via dicendo: cfr. Piergigli (), p. , nota .

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meno fondante per lo stato rispetto alla lingua nazionale e alla lingua ufficiale, e la sua è una definizione puramente tecnica. Non conferisce alla lingua oggetto alcuna preminenza né ideologica né di status e non obbliga in alcun modo i cittadini ad avere con essa un rapporto specifico. Parallelamente, in Lussemburgo si trova la definizione di langue administrative, che indica i codici di cui i cittadini possono servirsi nei rapporti con la pubblica amministrazione e con le istituzioni e nei quali hanno diritto di ricevere risposta, oralmente o per iscritto. . LINGUA PROPRIA (llengua pròpia) La denominazione, in uso nella terminologia giuridica catalana, definisce la condizione di una lingua che per così dire sta alla lingua nazionale dello stato come etnia sta a nazione . Si indica dunque con lingua propria quella lingua cui è legato un forte valore simbolico in una entità regionale che, non essendo considerata nazione, non può avere una “lingua nazionale”. Il concetto è attualmente in espansione negli studi di language planning e potrebbe essere acquisito anche da altre legislazioni linguistiche . . LINGUA REGIONALE (langue régionale) Concetto del diritto francese che riconosce alcuni (pochi) diritti a certe lingue autoctone, pur se, per il momento, solo nell’educazione. La lingua regionale sta alla lingua nazionale come la regione sta allo stato in uno stato nazionale in cui le regioni non hanno alcuna reale autonomia. L’espressione “lingua regionale o minoritaria” è usata anche nella European Charter for Regional and Minority Languages (cfr. supra, CASO STUDIO ), dove ha sostanzialmente il significato di lingua parlata da una parte dei cittadini di uno stato in numero inferiore al rimanente della popolazione e in genere radicata in parti specifiche del territorio dello stato. . LINGUA MINORITARIA «La politica linguistica, in quanto funzione dei rapporti di potere costruiti sulla base dell’ideologia linguistica, presuppone la creazione di minoranze linguistiche. D’altra parte, la politica linguistica e i diritti delle minoranze possono essere considerati come le due fac. Cfr. l’art.  della legge /: «La llengua pròpia. . El català és la llengua pròpia de Catalunya i la singularitza com a poble. . El català, com a llengua pròpia, és: a) La llengua de totes les institucions de Catalunya, i en especial de l’Administració de la Generalitat, de l’Administració local, de les corporacions públiques, de les empreses i els serveis públics, dels mitjans de comunicació institucionals, de l’ensenyament i de la toponímia. b) La llengua preferentment emprada per l’Administració de l’Estat a Catalunya en la forma que aquesta mateixa determini, per les altres institucions i, en general, per les empreses i les entitats que ofereixen serveis al públic. . El que disposa l’apartat  implica un compromís especial de les institucions per a promocionar-ne el coneixement i fomentar-ne l’ús entre els ciutadans i ciutadanes, amb independència del caràcter oficial del català i del castellà». . Cfr. anche Solé i Durany ().

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

ce di una stessa realtà: due facce del pluralismo linguistico che si trovano a volte in contraddizione» . Che cos’è una lingua minoritaria? La definizione del concetto, al contrario di quelli appena scorsi, non può limitarsi a un’esposizione di tipo giuridico, perché l’espressione è mutuata dalla lingua comune e se ne porta dietro più di un sovrasenso. Tecnicamente alcune legislazioni impiegano il sintagma “lingua minoritaria” come scorciatoia per non dover distinguere in maniera più fine e perspicua fra i codici linguistici presenti sul territorio, ma nel contempo per segnare in modo molto netto la distanza rispetto alla “lingua nazionale”. Si intende qui dire che quando il sistema legale di un paese utilizza la denominazione “lingua minoritaria”, questo accade perché la legislazione concernente è fondamentalmente intesa come volta alla difesa di alcuni diritti – non solo linguistici – di popolazioni, in genere piccole, rurali e non in grado di nuocere, lontane comunque dalla possibilità di accedere a un’effettiva autonomia linguistica e amministrativa. Una lingua definita come minoritaria, in genere, qualunque sia la sua estensione sociale o demografica, ha in ogni caso meno diritti rispetto alla lingua nazionale o ufficiale, e, se attenzione le viene portata da parte del legislatore, è il tipo di attenzione che diremmo “mussale”, ossia incentrato sulla conservazione e rivitalizzazione, mai sull’effettivo lavoro per accrescerne le potenzialità comunicative e veicolari. Ne consegue che il concetto di lingua minoritaria è portatore di un prestigio ridotto. Diverse sono invece le definizioni sociologiche, linguistiche o sociopolitiche del concetto di lingua minoritaria. Dato il loro alto numero e la loro diversità non possiamo qui occuparcene estesamente: sarà però opportuno ricordare alcuni casi di lingue nazionali o ufficiali la cui considerazione sociale non corrisponde allo status legale. Nel novero delle lingue minoritarie, sia dal punto di vista della letteratura scientifica, sia di quella più divulgativa che tratta dell’argomento, ritroviamo lingue come l’irlandese o il lussemburghese, che sono, giuridicamente, lingue nazionali di stati sovrani; lo svedese in Finlandia e il romancio, che sono lingue ufficiali; dal lato opposto, lingue che, pur essendo diffuse sul territorio, sono completamente sottaciute dalla legislazione, come l’arumeno (o forme romanze orientali ad esso assimilabili) in Grecia. Dal punto di vista sociolinguistico bisogna inoltre distinguere le lingue minoritarie dalle “lingue in situazione di minoranza”: le prime sono quelle che si pongono a un livello sociolinguistico più basso rispetto alla lingua dominante e hanno meno status giuridico (ad esempio il gaelico in Scozia); le altre sono lingue . «La politique linguistique, en tant qu’exercice de rapports de pouvoirs construits sur la base de l’idéologie linguistique suppose la création de minorités linguistiques. D’ailleurs, la politique linguistique et les droits des minorités peuvent être considérés comme deux facettes d’une même réalité: deux facettes du pluralisme linguistique, qui se trouvent parfois en contradiction» (Labrie, , p. ).

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eventualmente anche di grande diffusione internazionale, ma che si trovano a essere oggettivamente in minoranza demografica o legislativa all’interno di una particolare compagine statale (ad esempio il tedesco in Italia). Questa breve disamina dei concetti fondamentali del diritto linguistico è, come si sarà notato, principalmente dedicata al chiarimento di questioni di livello statale o infrastatale; va tuttavia qui menzionato il fatto che, sul piano internazionale, l’espressione “lingua di minoranza” è da tempo in uso per definire le lingue diverse da quelle ufficiali degli stati di cui fanno parte, i cui parlanti sembrano necessitare di sostegno e protezione linguistica e culturale. Si veda però la definizione di “lingue meno diffuse” (lesser used languages), non usata nelle legislazioni nazionali, ma che si sta diffondendo anche presso i non specialisti, veicolata dall’uso pubblico che ne fa l’Unione Europea. Si tratta sostanzialmente di una forma politically correct, non marcata socialmente né politicamente, per indicare le lingue di minoranza, le quali necessitano, secondo le disposizioni dell’Unione, di particolare sostegno e tutela. Con l’entrata in vigore della Carta europea per le lingue regionali e minoritarie del , i diritti delle lingue minoritarie hanno cominciato a essere riconosciuti come categoria a sé, svincolati dal concetto di popolazione di minoranza. In questo contesto, i diritti linguistici sono considerati, per la loro natura, parte dei diritti umani, in particolare di quelli politici e civili, con i quali sono strettamente intrecciati, come ad esempio nei concetti di giusto processo (fair trial) o di libertà di espressione. La preoccupazione principale dei giuristi internazionali, in questo campo, è sempre stata quella di tutelare le popolazioni parlanti lingue minoritarie nei confronti di abusi e persecuzioni, normalmente attuati dagli stati di cui i parlanti stessi sono cittadini. Si tratta fondamentalmente di diritti “negativi”, cioè volti a tutelare le persone da atti rivolti contro di loro (diritto alla non discriminazione, principio di protezione e di non assimilazione). Tuttavia, nelle più recenti normative internazionali sono entrate disposizioni di carattere “positivo”, ossia che riguardano il godimento di servizi e occasioni comunicative e culturali nelle lingue minoritarie, come quello all’educazione nella propria lingua o all’uso di questa nei rapporti sociali e con la pubblica amministrazione.  Catalogna e Finlandia: armonia e conflitto  CASO STUDIO

a) Introduzione Per esemplificare il grado di dettaglio al quale le legislazioni linguistiche possono arrivare proponiamo di seguito una comparazione tra le disposizioni giuridiche riguardanti l’uso delle lingue in Catalogna e in Finlandia, territori in cui

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

la questione linguistica è di primaria importanza, anche se in modo profondamente diverso. Per ragioni storiche si potrebbe considerare la Finlandia come uno stato nazionale, poiché è stata concepita al momento della sua fondazione come il territorio proprio di un unico popolo, che tuttavia si serviva di due codici linguistici separati. Di per sé la situazione non era particolare per l’epoca: una diglossia con un codice alto – lo svedese – e uno basso – i dialetti finlandesi (si pensi solo al caso dell’Italia, con l’italiano Lh e i dialetti locali Ll); la peculiarità del paese scandinavo è quella di aver istituzionalizzato fin dalla sua fondazione nel  la sua situazione diglottica, trasformandola in bilinguismo. Fino al principio del XX secolo, l’unica lingua ufficiale della Finlandia – sotto l’amministrazione svedese come quella russa – è stato lo svedese, considerato dalla classe dominante come lingua di cultura, fosse questa élite di lingua madre svedese o finlandese ; il finnico, pur rivestendo il ruolo ideale di lingua della nazione finlandese, era considerato una varietà bassa, con uno status di lingua scritta ancora incerto e con un suo impiego nel campo della letteratura ancora molto limitato, ed era usato solo, accanto allo svedese, nelle amministrazioni locali per funzioni di minore importanza. Tuttavia, nel generale clima romantico, giunto in queste regioni nella metà del XIX secolo, tentativi di riduzione letteraria del corpus di tradizioni e leggende orali finniche erano già stati intrapresi e la lingua, l’unica parlata dalla grande maggioranza della popolazione e assai scarsamente differenziata al suo interno, in senso diatopico come diastratico, pareva pronta per accedere alle nuove funzioni. Per questo nel momento di redigere una Costituzione per il nuovo stato, nel , divenne chiaro che lo svedese avrebbe dovuto essere la lingua ufficiale della nuova Repubblica in quanto lingua delle amministrazioni precedenti, e così pure il finnico in quanto lingua parlata e identificativa della maggioranza della popolazione del paese. Solo gradualmente nel corso del secolo XX i rapporti di forza tra le due lingue, almeno dal punto di vista sociale e demografico, si sono invertiti: lo svedese, che ha visto la proporzione di parlanti madrelingua passare dal  al % della popolazione del paese in meno di un secolo, viene oggi considerato – forse non a torto – la lingua di minoranza della Finlandia. Il catalano, diversamente dal finlandese, vanta una lunga tradizione letteraria praticamente mai sopita nel corso dei secoli: ciò ha di molto facilitato sia l’opera di corpus planning dei normalizzatori che dagli anni settanta del XX secolo si sono impegnati nell’opera di rivitalizzazione della lingua, sia la sua accettazione come lingua di cultura e dell’amministrazione da parte dei parlanti. In effetti, la lingua catalana moderna è quella codificata agli inizi del secolo XX da Pompeu Fabra. Il lavoro sul corpus si è dunque fondamentalmente incentrato sul lessico, con due operazioni collegate: una preliminare di modernizzazione, caratterizzata talora da tendenze puristiche anticastigliane, e una seconda di creazione e diffusione di lessico specializzato (pubblicazione di dizionari specialistici curati dalla Generalitat). Fra l’altro, essendo il catalano lo standard ufficiale di altre due comunità autonome oltre alla Catalogna, la Comunità valenziana e le

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Baleari, lo standard scritto ammette – come si è accennato – qualche variante morfologica e in particolare lessicale, codificate queste nel dizionario monolingue di referenza . Parallelamente si è posto il problema dello standard orale, risolto nel  con una pubblicazione ufficiale che detta le grandi linee della pronuncia del catalano in Catalogna, senza tuttavia imporre una soluzione univoca ai tratti di variazione locale . Nelle altre comunità autonome lo standard catalano risente molto delle condizioni linguistiche locali, peraltro poco differenziate fra di loro . b) Costituzioni Il catalano, dunque, già lingua di cultura fin dal Medioevo, riacquista status di ufficialità, dopo più di  anni  di esclusione da quest’ambito , con la Costituzione spagnola approvata con referendum nel , tre anni dopo la morte di Franco. In verità, unica fra quelle europee, la legge fondamentale della Spagna moderna prevede l’obbligatorietà della conoscenza del castigliano, lingua nazionale, per tutti i cittadini dello stato (art. ): ma questo forse è l’ultimo residuo della politica linguistica fortemente nazionalista che ha caratterizzato il periodo franchista. I più di trent’anni del regime di dittatura hanno infatti portato come conseguenza politica il fatto che gli ideali democratici si siano fusi con quelli regionalisti e autonomisti: lo stesso art.  della Costituzione riconosce alle comunità autonome pieni poteri nelle questioni linguistiche, amministrative e scolastiche, fatto salvo il mantenimento dello spagnolo accanto alle varietà locali come lingua dell’amministrazione. La Spagna conta sei comunità autonome bilingui, nelle quali vive, in complesso, più di un quarto della popolazione dell’intero paese: procedendo da ovest verso est, la Galizia (galego e spagnolo), la Comunità autonoma basca e la Navarra (basco e spagnolo), la Comunità valenziana, le Baleari e la Catalogna (catalano e spagnolo – la legge catalana riconosce anche l’aranese, parlato in Val d’Aran da poche migliaia di persone, di fatto l’unica varietà occitana in Europa a godere di riconoscimento giuridico) . La recente legislazione linguistica spagnola dunque si è sviluppata all’interno di una compagine statale che aveva praticamente già dal XVIII secolo impostato il rapporto tra lingua e istituzioni secondo quei principi che la Rivoluzione francese avrebbe in seguito sancito come fondamentali per lo stato nazionale: ogni concessione in ambito linguistico, ancorché ampia, fatta alle varie popolazioni e comunità etniche differenti dalla spagnola dopo la caduta del regime franchista, è stata vista come un estremo provvedimento per scongiurare pericoli secessionisti e per preservare l’unità almeno politica dello stato. La redazione ambivalente dell’art.  della Costituzione, che come si è visto sancisce l’obbligatorietà – o meglio il dovere – della conoscenza della lingua spagnola da parte dei cittadini, ma che contemporaneamente riconosce l’ufficialità, nei loro territori tradizionali, delle altre lingue autoctone – si noti definite “spagnole” – ha delineato una situazione di mescolanza tra diritto linguistico personale e diritto linguistico territoriale: nelle comunità autonome bilingui il diritto linguistico è, in linea di massima, personale, cioè il cittadino può

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usare, tra quelle ufficiali, la lingua che preferisce nei rapporti con l’amministrazione pubblica, statale, regionale o locale. Fuori dalle comunità bilingui, invece, solo lo spagnolo ha valore ufficiale, anche quando forti minoranze di altre lingue siano presenti. Un ispanofono godrà dunque di ogni servizio nella sua lingua in qualsiasi parte del territorio dello stato, mentre un bascofono, ad esempio, potrà servirsi del basco nei rapporti con le istituzioni esclusivamente nei Paesi Baschi e in Navarra. La Costituzione finlandese, invece, basa la sua legislazione linguistica sul principio della totale uguaglianza tra le lingue ufficiali; l’art.  sancisce chiaramente che «il finnico e lo svedese sono le lingue ufficiali della Repubblica» e che è compito dello stato garantire il diritto dei cittadini a usare la propria lingua materna in tutti gli ambiti pubblici e istituzionali, vigilando parallelamente sul conseguimento di uno status di uguaglianza tra le due. Altri articoli della Costituzione garantiscono la redazione bilingue di tutte le leggi e che bilinguismo e scelta della varietà che ogni cittadino preferisce sono assicurati anche in istituzioni tradizionalmente monolingui come l’esercito. La divisione territoriale della Repubblica, inoltre, è concepita, nei dettami della Costituzione, in maniera tale che ogni unità amministrativa contenga il numero più alto possibile di comuni di lingua omogenea e che all’interno di queste divisioni le minoranze, nell’uno o nell’altro senso, siano il più possibile ridotte. c) Lingua e amministrazione pubblica Nel quadro dei dettami costituzionali dei due paesi, la Catalogna e la Finlandia hanno sviluppato ciascuna un corpus di dettagliate e accurate leggi linguistiche per l’implementazione del bilinguismo istituzionale. La legge di normalizzazione linguistica (Llei de normalització lingüística), approvata nel  e aggiornata nel , basa i suoi principi teorici, oltre che sulla Costituzione spagnola, anche sullo statuto di autonomia della Catalogna, che, come già accennato, definisce il catalano lingua propria della regione e delle istituzioni che da essa dipendono. In Finlandia, la legge sulla lingua (Kielilaki/Språklag) è stata approvata nel  ed emendata nel , nel , nel  e per l’ultima volta ancora nel . A questa si aggiunga la legge sull’uso del lappone nei rapporti con l’amministrazione pubblica del , che sancisce diritti simili a quelli di svedese e finlandese anche al lappone nei comuni in cui questa lingua è tradizionalmente parlata. Lo spagnolo, in quanto lingua ufficiale dello stato, ha validità in tutti gli atti dell’amministrazione, dal governo centrale fino ai singoli comuni, o in qualsiasi altro ente locale, senza però che le amministrazioni stesse siano obbligate a usare sempre e solo questa lingua; d’altra parte, nessuna legge definisce esplicitamente il significato dell’espressione “lingua ufficiale”. Parallelamente il catalano, lingua propria della Catalogna, lo è anche della Generalitat, ossia del suo governo e dei suoi ministeri e di tutte le unità amministrative da questa dipendenti, rimanendo ferma la condizione che la conoscenza dello spagnolo è un dovere e

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quella del catalano un diritto. Perciò il catalano acquisisce nel territorio una forte preminenza almeno morale. La stessa legge sancisce altresì che tutte le disposizioni normative e le risoluzioni ufficiali del Parlamento e di tutti gli enti locali devono essere pubblicate in edizione simultanea nelle due lingue e che in caso di interpretazione dubbia la versione catalana è da considerarsi quella autentica. Nella regione autonoma ogni cittadino ha diritto a relazionarsi nella lingua che preferisce sia con i dipendenti dell’amministrazione regionale o locale sia con quelli dello stato, così come ha diritto a ricevere risposta e documenti nella lingua da lui scelta. Fino al  la normativa non prevedeva esplicitamente la conoscenza del catalano da parte dei funzionari dell’amministrazione: l’unica norma al riguardo affermava che tutti gli impiegati in relazione diretta con il pubblico dovessero avere una conoscenza del catalano sufficiente a «rispondere con normalità» agli utenti che lo desiderassero, senza però esplicitare in che cosa consistesse questa «normalità». La legislazione attualmente in vigore prevede invece che tutto il personale dell’amministrazione pubblica conosca le due lingue ufficiali, sia oralmente sia per iscritto, in maniera da assicurare una comunicazione «adeguata e sufficiente» con i cittadini di entrambe le lingue. È compito del governo autonomo provvedere alla formazione linguistica degli impiegati ed eventualmente allontanare dal contatto con il pubblico il personale non adeguatamente bilingue . Inoltre, per quanto riguarda gli atti e le delibere delle amministrazioni locali all’interno della regione autonoma, la legge sancisce l’ufficialità dei testi in catalano; ciò significa, ad esempio, che qualsiasi avviso o documento diretto al pubblico può essere redatto esclusivamente in catalano. La legge non fa esplicitamente riferimento allo spagnolo, ma sembrerebbe che in forza del suo riconoscimento costituzionale anche gli atti amministrativi redatti esclusivamente in quest’ultima lingua debbano avere valore legale. Diversamente da quanto accade in Catalogna, in cui stato e comunità autonoma sembrano ognuno nei suoi ambiti preferire e favorire l’uso della “propria” lingua, in Finlandia il principio di uguaglianza viene strettamente applicato anche nell’amministrazione locale, facendo della sua legislazione linguistica una delle più complete, dettagliate ed equilibrate tra quelle esistenti in Europa. Svedese e finnico devono essere utilizzati in tutti gli uffici pubblici dipendenti dallo stato secondo la lingua di chi ne usufruisce; ciò significa che ogni cittadino ha il diritto (teorico) di avere rapporti orali o scritti con la pubblica amministrazione centrale nella lingua che preferisce su tutto il territorio dello stato . A livello locale, la lingua ufficiale di ogni comune o di ogni unità amministrativa inferiore al comune è stabilita essere quella della maggioranza della popolazione ivi residente; se l’eventuale minoranza alloglotta supera tuttavia l’% della popolazione o comunque il numero di . persone, il comune è tenuto a essere amministrativamente bilingue. Inoltre, un’unità amministrativa che consista di più comuni sarà considerata monolingue se formata esclusivamente da comuni omogeneamente monolingui; in caso contrario, e cioè se formata da comuni di lingua diversa o di cui almeno uno sia bilingue, una tale amministrazione è bilingue.

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

È compito del governo determinare ogni dieci anni, sulla base delle statistiche ufficiali, quali siano i territori di lingua ufficiale finlandese, svedese o bilingui; un comune originariamente bilingue può passare a monolingue se la percentuale degli abitanti che si dichiarano della lingua di minoranza scende al di sotto del % del totale; ciò nonostante, anche in questo caso, il Parlamento può decidere – per ragioni particolari e su richiesta dell’amministrazione locale – di mantenere il bilinguismo amministrativo nel comune . La legge stabilisce anche la “lingua ufficiale interna”, cioè la lingua di lavoro delle autorità usata negli atti non destinati al pubblico: questa lingua è quella della maggioranza della popolazione del territorio a cui l’autorità si riferisce; inoltre i funzionari la cui attività sia diretta a un solo gruppo linguistico (ad esempio nell’educazione) useranno sempre come lingua ufficiale la lingua di tale gruppo, anche se si trovano in territorio monolingue alloglotto. Va inoltre aggiunto che i membri eletti al Parlamento, nei consigli regionali, comunali o a qualsiasi altra carica elettiva hanno il diritto di esprimersi nella lingua che preferiscono e che possono, nel caso non capiscano le dichiarazioni fatte nell’altra lingua nazionale, richiedere una breve traduzione. In Finlandia, dunque, lo statuto di ufficialità dell’una o dell’altra lingua dipende esclusivamente dalla composizione etnico-linguistica di ogni comune o centro abitato, mentre in Spagna è l’appartenenza territoriale di ogni comune a una determinata comunità autonoma a sancire quali lingue abbiano status di ufficialità. d) Servizi diretti al pubblico In Finlandia tutti i servizi e le agenzie che dipendono dallo stato o dalle amministrazioni locali, così come le società private che offrono servizi di pubblica utilità ai cittadini, come telefono, elettricità, acqua, luce, gas, ma anche banche e assicurazioni, utilizzano come lingue amministrative quelle del territorio sul quale si trovano o al quale fanno riferimento, fatto salvo il diritto di ogni cittadino di comunicare e di essere assistito, nei limiti del possibile, nella propria lingua di elezione. Più fluida è la situazione in Catalogna, dove anche nei servizi si nota una certa preferenza per il catalano da parte degli enti che fanno capo alla regione e per lo spagnolo da parte di quelli di ambito statale; vale la pena notare che i servizi bancari – Barcellona è il centro economico e finanziario della Spagna – sono stati tra i primi enti rivolti al pubblico a fare largo uso del catalano già a partire dagli anni settanta. e) Amministrazione della giustizia Secondo la legge linguistica catalana, in tutti i gradi dell’amministrazione della giustizia sul territorio possono essere usate entrambe le lingue ufficiali e ai cittadini non può essere richiesto alcun tipo di traduzione: tutti i documenti pre-

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sentati in catalano, come quelli in spagnolo, hanno valore ufficiale. Di fatto, però, l’uso del catalano nella giustizia è ancora largamente minoritario: le ragioni di questa situazione si possono facilmente ritrovare nella dipendenza dell’apparato giuridico dallo stato centrale, con conseguente redazione nel solo castigliano dei documenti di uso extraregionale; a questo si aggiunga che gli avvocati e i giudici, anche quando siano catalanofoni, hanno studiato fondamentalmente su testi spagnoli; pesa anche una certa abitudine allo spagnolo maturata durante gli anni del franchismo. In Finlandia anche nei tribunali e in generale nell’amministrazione della giustizia, come in tutte le istituzioni che fanno capo allo stato, le lingue ufficiali di ogni ente sono quelle dei comuni che a questi fanno riferimento, fatto salvo il diritto di ogni cittadino ad avere un processo nella propria lingua. E se a livello amministrativo più basso l’uso dello svedese potrebbe di fatto non essere immediatamente garantito in aree monolingui finlandesi, ai livelli più alti e nei rapporti con l’amministrazione centrale – diversamente da quanto accade in Spagna – i dirigenti pubblici non mancano di conoscere e usare quotidianamente sia il finnico sia lo svedese. f) Educazione Caso particolare, unico in Europa per quanto riguarda una minoranza linguistica, è quello del sistema educativo catalano: il catalano, come lingua propria della Catalogna, è lingua dell’insegnamento a tutti i livelli, tanto più che la Costituzione spagnola non prevede espressamente alcuna norma linguistica in materia educativa; anzi, una sentenza del Tribunale costituzionale del  conferma che la Costituzione non menziona né garantisce ai genitori il diritto di scegliere la lingua dell’educazione per i propri figli. Questo vuoto, in Catalogna, è riempito dalle leggi della Generalitat, che configurano di fatto una situazione di monolinguismo catalano nelle scuole pubbliche situate sul territorio della regione, con lo spagnolo al rango di prima lingua straniera. La normativa prevede che il numero di ore di lezione in cui il catalano funge da lingua veicolare sia uguale o superiore a quelle in cui lo è lo spagnolo; di fatto nelle scuole pubbliche della Catalogna tutte le lezioni sono d’abitudine tenute in catalano, esclusa quella obbligatoria di spagnolo e di un’altra materia a partire dal secondo ciclo. La legge garantisce tuttavia, almeno in linea teorica, che gli alunni abbiano diritto al primo insegnamento nella propria lingua abituale , e che l’altra lingua ufficiale sia almeno materia d’insegnamento: inoltre, gli studenti non possono essere separati in centri di insegnamento differenti per ragioni di lingua . Quanto detto sopra non si applica tuttavia alle scuole private, che possono impartire l’insegnamento nella lingua che preferiscono (normalmente, oltre al catalano, lo spagnolo, il francese, l’inglese, il tedesco); tali scuole, in particolare quelle di lingue non iberiche, sono molto ambite dalla buona borghesia cittadina. A livello di insegnamento superiore, invece, sia gli insegnanti sia gli alunni hanno diritto a esprimersi – oral-

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mente e per iscritto, negli atti formali come in quelli informali – nella lingua ufficiale che preferiscono. Il catalano è inoltre obbligatoriamente la lingua amministrativa – per le attività interne e per i rapporti con le famiglie – di tutte le scuole pubbliche della regione. In Finlandia le due lingue ufficiali, entrambe “proprie” del paese, godono degli stessi diritti anche nel campo dell’insegnamento e ricevono proporzionalmente lo stesso aiuto logistico e finanziario da parte dello stato; tuttavia, i principi che regolano la distribuzione delle scuole delle due comunità linguistiche sul territorio sono diversi da quelli che ne regolano l’uso nell’amministrazione: questa si basa su principi di personalità e non dipende dalle lingue ufficiali del territorio nel quale i singoli istituti si trovano. Di fatto, ogni amministrazione comunale deve obbligatoriamente approntare scuole nella lingua di minoranza quando ci siano un minimo di  alunni i cui genitori ne facciano richiesta. Ogni cittadino finlandese ha dunque il diritto di ricevere l’educazione nella sua lingua materna dall’inizio della scolarizzazione sino agli ultimi corsi universitari; i genitori, o gli studenti stessi se maggiorenni, possono scegliere la lingua dell’educazione, e questa non deve essere obbligatoriamente la lingua materna (si ha cioè il diritto di essere educati nella propria lingua di socializzazione primaria, non il dovere). Gli alunni sono divisi in scuole differenti secondo la lingua veicolare, e già da alcuni anni l’insegnamento dell’altra lingua ufficiale non è più obbligatorio . La divisione delle due lingue si mantiene anche a livello universitario: un paio di atenei sono di lingua svedese, un paio bilingui e gli altri assicurano l’insegnamento in finlandese. g) Toponomastica e indicazioni pubbliche e stradali Secondo l’art.  della legge di normalizzazione linguistica, tutti i toponimi della Catalogna hanno come unica forma ufficiale quella catalana; la Generalitat stabilisce le forme toponomastiche che si riferiscono a regioni, centri abitati e vie di comunicazione di interesse regionale, mentre i comuni sono responsabili delle denominazioni di vie e strade. Nelle indicazioni stradali all’interno della comunità autonoma tutte le località vengono quindi indicate nella loro forma catalana, de iure la sola ufficiale; tuttavia, al di fuori degli ambiti della Generalitat, ad esempio nei cartelli stradali siti in altre regioni, è possibile che le vecchie denominazioni castigliane siano ancora in uso. A questo fa eccezione la Val d’Aran, in cui tutta la toponomastica ufficiale è quella tradizionale occitana. Nel paese scandinavo anche la toponomastica si conforma ai criteri generali che stanno alla base della legge sulle lingue: ci sarà sempre una denominazione finlandese per le zone monolingui finlandesi, una svedese per le zone svedesi e una in entrambe le lingue per i territori bilingui; in particolare, si noti che nella segnaletica stradale sono indicati i toponimi nella forma della lingua ufficiale del comune in cui si trova il cartello, e non della località indicata dal cartello: ad esempio, un’indicazione per Turku/Åbo sarà Turku a Tampere (monolingue finlandese), Åbo a Houtskär (monolingue svedese), Turku/Åbo a Helsinki/Hel-

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singfors (bilingue con prevalenza finlandese) e Åbo/Turku a Kimito/Kemiö (bilingue con maggioranza svedese). Per questo, una legge del  stabilisce le denominazioni ufficiali in finlandese di alcuni comuni monolingui svedesi e quelle ufficiali svedesi per le principali località di lingua finlandese, perché possano essere usate in casi simili a quelli citati. h) Cultura e mezzi di comunicazione La legge catalana stabilisce che è compito della Generalitat promuovere e sovvenzionare ogni tipo di mezzo di comunicazione o di manifestazione culturale che faccia uso del catalano: televisione, radio, teatri, cinema, giornali, libri; essa gestisce inoltre un canale radiofonico e uno televisivo totalmente in catalano. Lo stato finlandese ha tre compagnie televisive, due in finlandese e una in svedese, che si dividono due canali: ciò significa che i programmi in svedese sono ripartiti fra i due canali in cui trasmettono anche le reti in finlandese; inoltre, da qualche anno, per accordi internazionali, alcuni canali della televisione svedese di Svezia trasmettono in Finlandia, e a sua volta la Finlandia ha creato un canale di lingua finlandese che trasmette in Svezia. Ciascuna delle due comunità ha una propria, vivace vita culturale indipendente, e i diversi teatri, centri culturali e di educazione per adulti ricevono sovvenzioni pubbliche basate, secondo la Costituzione, su un criterio di proporzionalità. i) Minoranze I paesi e le regioni tradizionalmente aperte al plurilinguismo sembrano naturalmente più propense a proteggere legalmente anche le più piccole minoranze etnico-linguistiche autoctone stanziate sul proprio territorio: la Svizzera già trilingue ha riconosciuto prima come lingua nazionale poi come lingua ufficiale il romancio, lingua romanza alpina residuale parlata da meno dell’% della popolazione della Confederazione; il Belgio riconosce pieni diritti culturali e linguistici, comparabili a quelli dei francofoni e dei fiamminghi, all’esigua comunità germanofona; in Alto Adige, accanto a quelle germanofona e italiana, gode di riconoscimento ufficiale la comunità ladina; la bilingue Norvegia ha dato riconoscimento giuridico alle comunità lapponi nel Nord del paese già a partire dalla fine degli anni ottanta del XX secolo . Così la Finlandia e la Catalogna, che hanno incluso le proprie piccole minoranze, rispettivamente di lingua lappone e occitana, nella propria legislazione linguistica. L’art.  della legge di normalizzazione linguistica riconosce l’aranese, unica varietà di occitano pienamente riconosciuta in ambito amministrativo e scolastico, come lingua propria della Val d’Aran – il tratto pirenaico del corso della Garonna, al confine con la Francia – e sancisce il diritto agli aranesi a conoscere e usare la propria lingua in tutti i rapporti con l’amministrazione pubblica all’interno del territorio della comarca; anche qui sembra valere lo stesso principio del resto della Catalogna, secondo cui lo spagnolo è ufficiale in quanto lin-

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gua dello stato, il catalano in quanto lingua della comunità autonoma e l’aranese in quanto lingua di una comarca in territorio catalano; lo stesso vale per atti, delibere o avvisi al pubblico, i quali, in mancanza di specifica disposizione in merito, avrebbero valore legale anche se redatti in una sola delle tre lingue. Per quanto riguarda l’educazione, la Generalitat garantisce l’insegnamento in aranese e il suo uso in tutti gli istituti scolastici della valle; l’uso dell’aranese come lingua veicolare è andato ampliandosi con gli anni fino a diventare la lingua principale delle poche scuole della comarca e relegando catalano e spagnolo quasi al rango di L. Va però notato che, a causa della forte immigrazione di lavoratori e amministratori di lingua spagnola, catalana, galiziana e portoghese (e una piccola presenza di francesi) e lo scarso prestigio delle varietà occitane in generale, meno della metà degli alunni ha l’aranese come lingua di socializzazione primaria, essendo catalano e spagnolo le lingue più usate nella società. La legge sull’uso della lingua lappone nell’amministrazione pubblica ( marzo )  prevede che quanto già stabilito dalle norme di attuazione della Costituzione riguardo allo svedese valga anche per il lappone, per tutto il territorio in cui è parlato; inoltre, la legge definisce come lappone ogni persona che si consideri tale, con la limitazione che lui stesso, uno dei suoi genitori o dei suoi nonni abbia o abbia avuto come lingua madre il lappone; identifica inoltre come territorio proprio dei lapponi (in svedese samernas hembygdsområde) le tre comunità più settentrionali del territorio dello stato e una parte di un comune limitrofo, per un totale di circa . kmq e una popolazione di circa . abitanti . Per il corpus planning del lappone vale la pena di accennare al fatto che le sue varianti, molto diverse fra loro, tanto da essere considerate da alcuni linguisti come lingue a sé (e che in realtà non permettono la reciproca intercomprensione), si estendono su territori semispopolati di quattro paesi differenti: Finlandia appunto, Svezia, Norvegia e Russia. I lapponi di Finlandia usano tre varianti piuttosto diverse fra loro di questa lingua, la più diffusa delle quali corrisponde a quella in maggior uso in Norvegia, è codificata per l’uso amministrativo anche in questo paese scandinavo ed è ufficiale nei quattro comuni lapponi di Finlandia; le altre due sono coufficiali nel solo comune di Inari, che dunque vede la compresenza, a livello legale, delle tre varietà lapponi e del finlandese. j ) Armonia e conflitto Ragioni storiche e sociali sembrano dunque aver profondamente condizionato non solo la realtà linguistica dei due territori di Finlandia e Catalogna, ma anche le legislazioni linguistiche che da queste sono state elaborate: uguaglianza di diritti per le comunità linguistiche riconosciute e pacifica convivenza di tutti i cittadini all’interno dello stesso stato, il quale esplicitamente le rappresenta entrambe nel caso della Finlandia, situazione instabile di compromesso e potenziale conflitto tra uno stato e una sua regione tendenzialmente monolingui che favoriscono ognuno la sua propria lingua, temono la diversità linguistica al loro interno e spingono verso un’omologazione culturale e linguistica di tutti i pro-

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pri cittadini, nel caso della Catalogna. Tra le conseguenze sociopolitiche di questo secondo approccio, che vede dunque la Catalogna come unico difensore della “catalanità”, c’è il fatto che sembri inevitabile pensare che a maggiore autonomia politica – o indipendenza – della regione dalla Spagna corrisponda una maggiore protezione per la lingua e la cultura di minoranza; e questo si esplicita regolarmente nella pratica dei rapporti tra Generalitat e governo centrale spagnolo, rapporti spesso conflittuali e caratterizzati da continui compromessi tra le parti. Uno dei casi più evidenti di questa conflittualità in ambito linguistico e culturale è l’attuale normativa che riguarda il sistema educativo catalano: la comunità autonoma ha ottenuto da Madrid una pressoché totale autonomia nel campo dell’educazione e ha fatto della scuola – secondo la prassi nazionalista classica – il suo principale strumento di integrazione culturale. Il sistema educativo tuttavia, forse per pressioni da parte di Madrid o forse per la forte presenza di ispanofoni immigrati in Catalogna, pur essendo essenzialmente monolingue, non vuole, almeno in teoria, sostituire lo spagnolo con il catalano. Si tende piuttosto ad aggiungere quest’ultimo al repertorio linguistico della popolazione che già conosce lo spagnolo, limitando, è vero, il suo status a quello di prima lingua straniera – se non di seconda lingua di cultura. E questa scelta forte da parte di una “comunità di minoranza”, spesso criticata sia all’interno della regione sia fuori, viene giustificata tra l’altro dalla Generalitat come necessaria reazione non solo alla vecchia politica nazionalista franchista, ma anche e soprattutto all’attuale sistema scolastico spagnolo, fino a qualche anno fa in vigore in buona parte delle comunità autonome del paese, il quale difficilmente prevedeva l’inserimento di lingue diverse dallo spagnolo nel proprio curriculum. In un certo senso, la situazione dell’educazione in Finlandia sembrerebbe più radicalizzata, poiché sancisce e promuove l’esistenza di due società parallele, divise per lingua, ognuna delle quali con le proprie istituzioni culturali, che possono vivere autonomamente senza quasi venire in contatto l’una con l’altra: tuttavia questa realtà, ben radicata nella società e accettata dai cittadini finlandesi, è tutt’altro che conflittuale; mal che vada, le due comunità si ignorano pacificamente. Questa politica di totale parità fra i due gruppi ha però di fatto penalizzato la comunità di lingua svedese che, demograficamente – ma non legalmente – in condizione di minoranza, si è più che dimezzata nell’ultimo secolo: la sua area storica di insediamento, compattamente svedesofona all’inizio del secolo XX, è oggi quasi completamente bilingue. . La trattazione di questo caso studio deve molto a Dell’Aquila (). . Ma non va dimenticato che riconoscimenti di lingue in seguito all’azione di gruppi intellettuali furono in effetti possibili in periodo romantico, dal momento che la generale arretratezza economica e l’analfabetismo della maggior parte della popolazione, uniti a una diversa concezione di democrazia, facevano sì che il concetto di “opinione pubblica”, così come la sua forza effettiva nell’influenzare il corso delle decisioni politiche, fosse assai differente. In una eventuale pianificazione dei nostri giorni, tuttavia, le condizioni sarebbero assai diverse. . Diccionari de la llengua catalana edito dall’Institut d’estudis catalans per l’ultima volta nel  contemporaneamente a Barcellona, Palma di Maiorca e Valencia.

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. Cfr. Estàndard oral (). . In particolare si distingue la situazione della Comunità valenziana, in cui hanno oggi valore legale le definizioni “catalano” e “valenziano” della stessa lingua, alle quali vengono attribuite diverse valenze politiche e ideologiche. . Con il decreto di Nova Planta del  il Regno d’Aragona e il Regno di Castiglia, già uniti sotto la stessa corona dal  ma ciascuno con istituzioni proprie, passano sotto l’amministrazione diretta del re di Spagna, il quale impone come lingua dello stato il solo castigliano. . Se si prescinde dal Principato di Andorra, che non ha mai cessato di usare il catalano negli atti amministrativi. . Le altre comunità per ora hanno scelto di non dichiararsi bilingui. Tuttavia, il Principato di Asturias menziona nello Statuto l’asturiano (che gode di una modesta tutela nell’informazione e nell’amministrazione, in incremento), quello dell’Estremadura la fala, ed è in cantiere un progetto di legge linguistica a protezione dell’aragonese, varietà di passaggio fra il castigliano e il catalano. Dal  il governo dell’Aragona sta studiando un progetto di legge per l’introduzione di aragonese e catalano come lingue coufficiali. . Llei / de  de gener, de política lingüística (art. ). . Con l’eccezione della Comunità autonoma di Åland, la cui unica lingua ufficiale è lo svedese. Il monolinguismo di questo vasto ma poco popolato arcipelago tra Finlandia e Svezia è, per ragioni storiche, sancito da trattati internazionali. . Alla fine del  sono comparsi sui giornali locali finlandesi numerosi articoli riguardanti la situazione del comune di Maxmo (a nord di Vasa/Vaasa), fino al  gennaio  uno dei pochi comuni monolingui svedese al di fuori della Comunità autonoma di Åland: l’interesse delle cronache è dovuto alla curiosa circostanza per cui alla riorganizzazione decennale delle lingue ufficiali, prevista appunto per il gennaio , sarebbe bastato che tre cittadini di lingua finlandese prendessero residenza a Maxmo perché questo diventasse totalmente bilingue. Di fatto questo è avvenuto, e oggi Maxmo è un comune bilingue. . E, si noti, non nella lingua scelta dai genitori. . Studenti che abbiano ricevuto l’insegnamento di base al di fuori della Catalogna possono chiedere l’esonero dal catalano (ma ciò in pratica non si verifica). . Ciò soprattutto per pressione dei finni, desiderosi di sostituire lo studio dello svedese con quello dell’inglese. . Legge  giugno , n. . . La stessa legge è applicabile anche alle popolazioni zingare (rom). . Per una facile comparazione, ricordiamo che la Lombardia ha un’estensione di circa . kmq e una popolazione di oltre  milioni di abitanti.

. La scuola Momento fondamentale della vita linguistica di una comunità è la scuola, ossia il luogo istituzionale in cui si trasmette il sapere codificato di una certa società in modo da preparare cittadini consapevoli e pronti ad affrontare richieste sempre più complesse, e a un tempo portatori dei valori e del progetto di società che sono stati inculcati loro. Di conseguenza, una delle attività di pianificazione linguistica più delicate (oltre che più praticate) è la regolamentazione della lingua della scuola. 

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A questo proposito vanno fatte due importanti considerazioni. La prima prende le mosse dalla maggior parte dei programmi di rivitalizzazione linguistica e culturale attuati o progettati in diverse comunità d’Europa: tali programmi prevedono generalmente che l’attività di sostegno alla lingua e quella di recupero culturale (che a sua volta si configura come orientata verso il passato) siano sostanzialmente coincidenti. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, questo atteggiamento, peraltro del tutto naturale, si è rivelato controproducente: il prestigio della varietà oggetto di tali attenzioni, così come il suo uso, si è indebolito . Il caso più tipico, maggiormente citato dalla bibliografia scientifica, è quello dell’irlandese, ma può essere esperienza di molti quella di avere cercato di interessare i ragazzi alla lingua del proprio villaggio attraverso il recupero culturale delle attività e dei costumi tradizionali delle generazioni passate e di aver fallito nell’intento. Più recenti esperienze di pianificazione linguistica indicano chiaramente che il recupero culturale e quello linguistico soggiacciono a condizioni differenti e che quindi può essere più produttivo progettarli e avviarli con metodi e in momenti diversi. In particolare, questo stretto legame fra lingua e cultura tradizionale identifica, nella maggior parte dei casi, la lingua oggetto di rivitalizzazione con una visione del mondo e un sistema di valori sostanzialmente superato, che, se può riscuotere a livello consapevole simpatia e adesione ideologica, viene tuttavia spesso rifiutato a livello inconscio, o, se viene accettato, conserva valenze di inferiorità e localismo, configurandosi come essenzialmente statico. Di fatto, anche a una lingua che viene considerata dai suoi stessi parlanti come di minoranza possono e devono essere agganciati valori propositivi e orientati verso una società più complessa, aperta verso l’esterno e la specializzazione tecnologica. La lingua target, insomma, deve ricoprirsi di significati positivi e di valenze innovative e deve essere sentita utile nel mondo del lavoro e dell’economia. Non è sufficiente oggi per una lingua essere legata a valori ideologici e di recupero del passato: ciò le assicura forse la sopravvivenza a tempo indeterminato, ma al rango di dialetto locale o societario, solo parlato. «I genitori di bambini neri non vogliono che i loro figli studino cultura afro-americana o che ricevano un’educazione multiculturale – queste sono cose da bianchi; i bambini neri devono essere bravi in scienze, in storia, in geografia, insomma in tutto ciò che la società ritiene più importante» . . Cfr. almeno Edwards (); il fenomeno è in ogni caso comunissimo e si ritrova in una quantità di situazioni descritte dalla letteratura. . «Black parents don’t want black studies or multicultural education for their children – that is for white children; black pupils need to be good at science, history, geography – at what society thinks of as things of worth» (Woolford, in Edwards, , p. ).

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Il riflesso propriamente scolastico di queste considerazioni è che l’“ora di lingua di minoranza” ovvero “ora di cultura locale”, se è inserita in un contesto scolastico e formativo organizzato e funzionale alla cultura dominante, è inutile nel migliore dei casi, non soddisfacendo alle esigenze di trasmissione culturale della comunità e nel contempo diffondendo un’immagine antiquaria e passatista della stessa. Il punto fondamentale sembra essere la differenza che intercorre fra lingua come fine e lingua come mezzo: tra insegnamento che ha come scopo la conoscenza (più che l’uso, e spesso solo il mantenimento) della parlata locale, e un percorso formativo completo che questa parlata utilizza per veicolare informazioni utili, nuove e adatte alla società in cui i discenti si troveranno a vivere. La lingua quindi come strumento normale, al limite quasi invisibile, dal momento che deve passare come non marcato il fatto che si utilizzi il codice di minoranza per insegnare, poniamo, la chimica e la matematica. Ulteriore prova di normalità e indice di prestigio linguistico – che si riflette nel prestigio di tutta l’istituzione e l’istruzione scolastica in quella lingua – è l’uso della lingua target anche nell’amministrazione della scuola: non solo quindi nelle comunicazioni orali fra insegnanti, studenti e genitori, ma anche nei documenti scritti tra famiglie, insegnanti, istituzioni e scuola. Questo però porta a importanti conseguenze sul piano dell’organizzazione del corpus e anche sul piano dello status e della percezione linguistica presso la comunità. Ovviamente la lingua deve possedere i mezzi appropriati per far fronte alle nuove funzioni che ricopre; ma soprattutto bisogna che la comunità accetti il fatto che almeno il codice usato per la scuola e gli usi istituzionali (sia esso una varietà già presente sul territorio o una creata ex novo) sia una lingua “brutta”, ossia una lingua non “pura”, contaminata da una quantità di prestiti dalla lingua dominante o da lingue straniere di prestigio e neoformazioni calcate sul linguaggio scientifico internazionale, che possono anche non presentare un’aria di famiglia per la maggioranza dei parlanti. Un’educazione che abbia come principio informatore quello della lingua come mezzo e non come fine non necessariamente, però, deve portare a scuole monolingui nella varietà oggetto di pianificazione: al contrario, le esigenze sociali e storiche delle diverse comunità possono richiedere l’insegnamento istituzionale in più lingue e di più lingue, la conoscenza e l’uso contemporaneo delle quali è fondante dell’identità del gruppo. E ciò fermo restando il principio che culturalmente la scuola appartenga alla comunità, al limite al di là della lingua effettivamente usata nella comunicazione: le scuole dei cantoni svizzeri di lingua tedesca, pur essendo ufficialmente scuole in tedesco, di fatto trasmettono valori culturali e linguistici svizzero-tedeschi; e nel contempo, pur 

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senza essere esplicitamente a ciò demandate, proteggono le varietà germaniche locali, come si sa a volte sensibilmente diverse dalla lingua standard. Anche la scuola ladina dell’Alto Adige ha come suo valore fondante e non accessorio la presenza simultanea, oltre che del ladino, del tedesco e dell’italiano . Abbiamo ricordato sopra che la scelta della lingua da utilizzare nelle diverse occasioni sociali è considerata uno dei diritti da garantire all’individuo: ora, fra queste occasioni di scelta, fondamentale deve essere quella della lingua dell’educazione da dare a sé e ai propri figli. In secondo luogo, va tenuto presente il fatto che, in Europa almeno, le strutture scolastiche centrali sono generalmente forti e spesso efficienti : dunque la repentina sostituzione di un sistema percepito come funzionante con un altro di cui non si conosce ancora il rendimento può causare malcontento e apprensione in coloro che risiedono sul territorio senza appartenere alla comunità di minoranza o che, pur appartenendovi, sono meno ideologicamente determinati. In questi casi si è rivelato molto utile affiancare, in particolare per i primi tempi, alla scuola gestita dalla comunità di maggioranza una o più scuole – eventualmente a livelli diversi di integrazione – che facessero riferimento alla lingua e alla cultura oggetto di elaborazione, lasciando liberi i genitori di iscrivere i figli al tipo di scuola che ritenessero più adatta alle proprie aspettative culturali.  Scuole del continente CASO STUDIO

Vediamo qualche esempio di organizzazione del sistema scolastico in paesi europei diversi. a) Timidi tentativi: la Francia Si è detto sopra (CASO STUDIO ) che solo ultimamente la Francia ha intrapreso qualche azione di tutela e valorizzazione delle numerosissime varietà tradizionali di minoranza sparse sul suo territorio: il tipo di attenzione che ricevono dal governo centrale è basato sul tentativo, forse tardivo, di salvarle dalla completa scomparsa, in un’ottica tuttavia di tipo museale. I provvedimenti, al di là di qual. Il ladino in quanto lingua è in effetti, per ragioni legali, forse ancora poco presente, ma ciò non inficia la caratteristica precipuamente ladina dell’insegnamento. Per la situazione della scuola ladina cfr. Dutto (); Rifesser (); IPRASE (); Verra (). . Ci sono in effetti anche strutture scolastiche forti e prestigiose in lingue di minoranza (o, a maggior ragione, in lingue di situazione di minoranza), pubbliche o amministrate da regioni con lunga e riconosciuta tradizione di autonomia, come la scuola gallese in Galles, quella svedese in Finlandia o quella tedesca in Alto Adige.

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che valorizzazione gastronomica du terroir a scopo turistico-pubblicitario, si sono, per il momento e in attesa di effettivi spazi legislativi di autocontrollo linguistico, incentrati sulla scuola. Le langues régionales, siano esse varietà romanze o parlate alloglotte, sono diventate, alla metà degli anni ottanta, materie di insegnamento (non già lingue d’insegnamento) facoltative nelle scuole primarie, configurando una situazione per cui alle materie ordinarie obbligatorie in tutta la Francia si aggiunge, facoltativa, l’ora di alsaziano, di guascone o di fiammingo, incentrata su canti e leggende popolari. Solo dal  al  è stato in vigore un provvedimento con il quale veniva data la possibilità di creare classi bilingui o a immersione nella lingua minoritaria nelle scuole pubbliche per i parlanti còrso, alsaziano, catalano, bretone, basco e occitano; oggi solamente il sistema còrso rimane in vigore, a causa dello statuto di autonomia dell’isola. Esistono comunque alcune istituzioni private che garantiscono l’insegnamento primario nella lingua minoritaria: tra queste le scuole Diwan per il bretone, Ikastola per il basco, Calandreta per l’occitano e così via. In particolare, tuttavia, la situazione delle varietà germaniche dell’Alsazia e della Lorena è in parte differente: gli ultimi secoli hanno visto questa regione sottoposta alternativamente a governi francesi e germanici, talora con passaggi di campo molto ravvicinati nel tempo: ciò ha prodotto una situazione di effettivo mistilinguismo, che ha rafforzato l’uso dell’alsaziano e del lorenese come varietà non marcate, basse, in contrapposizione a una varietà alta in mutazione frequente, ondeggiante tra francese e Hochdeutsch. L’Alsazia è rientrata per l’ultima volta nell’orbita francese dopo la seconda guerra mondiale, e a ciò è seguita una pesantissima campagna di francesizzazione della popolazione, allora quasi totalmente germanofona ; per decenni è stato impossibile persino impostare una questione linguistica alsaziana, dacché qualsiasi emergenza germanofona veniva implicitamente tacciata di filonazismo (atteggiamento che tuttavia non è mai appartenuto alla cultura alsaziana). Le mutate condizioni culturali degli ultimi decenni e i nuovi rapporti di stretta amicizia tra Francia e Germania nel seno dell’Unione Europea, accanto allo straordinario mantenimento della lingua regionale, unico nella Repubblica francese, hanno causato la nascita di scuole alsaziane bilingui francese-tedesco, pubbliche ma sperimentali, che stanno incontrando un certo successo presso la popolazione e ottimi risultati dal punto di vista della preparazione degli studenti. b) Tre lingue per una scuola: il Lussemburgo Anche i piccoli paesi d’Europa presentano situazioni interessanti di plurilinguismo. Ufficialmente trilingue è il Granducato del Lussemburgo: sono riconosciute all’interno dello stato il francese, il tedesco e il lussemburghese, lingua germanica assai simile ai dialetti della Mosella parlati in Francia, Belgio e Germania. Il solo lussemburghese è inoltre dal  considerato lingua nazionale. Il plurilinguismo amministrativo è totale: la legge non prevede particolari limitazioni di ambiti d’uso per nessuna delle tre varietà né la redazione di testi bi- o trilingui; la popolazione è libera di utilizzare qualunque lingua del-

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lo stato per i contatti con l’amministrazione centrale e locale. Tuttavia, una sorta di specializzazione degli ambiti si è spontaneamente creata: il francese è tradizionalmente preferito come lingua scritta della cultura accademica, dei tribunali e in generale dell’ambito legislativo; il tedesco è la lingua della religione, del commercio e la varietà scritta preferita delle classi medio-basse (in ciò ovviamente facilitata dall’essere lingua tetto omogenetica del lussemburghese); quest’ultimo è la varietà parlata dalla popolazione autoctona e della letteratura popolare e localistica – ciò non significa che essa sia esclusa da ambiti tradizionalmente appannaggio delle altre varietà, come il linguaggio giornalistico o amministrativo. Ora, il sistema educativo del Lussemburgo pare particolarmente equilibrato, ed è basato su criteri di progressione, oltre che sul principio che l’educazione linguistica in senso lato, e la volontà di tramandare i valori della comunità non si esaurisce con il mero insegnamento grammaticale della lingua, anzi, in casi particolari, può persino prescinderne. La scuola lussemburghese, trilingue, parte da una dominanza del lussemburghese nei primi anni, sostituito da una sempre maggiore presenza del francese e del tedesco, che rimangono quasi le uniche lingue di insegnamento nelle classi superiori; ciò nonostante, la scuola non è né francese né tedesca, essendo lussemburghese nello spirito e nei portati culturali. È questo un sistema che può risultare particolarmente adatto in situazioni in cui la variante locale di minor prestigio e di standardizzazione più incerta trova la sua lingua tetto nella lingua ufficiale di un paese vicino e parallelamente è affiancata sul suo territorio da una lingua ufficiale di famiglia diversa che ricopre le funzioni di varietà alta. In questo modo si ottiene di implementare l’uso della lingua di recente standardizzazione, dando nel contempo un carattere etnico all’intera istituzione scolastica, ma senza privare gli studenti della conoscenza della lingua ufficiale dello stato e della lingua internazionale più simile alla loro. Inoltre, acquisire la competenza in questa lingua tetto rafforza, per i contatti di calco o prestito lessicale o comunque di elaborazione della lingua che ne possono derivare, la competenza della propria varietà nativa; d’altra parte, la presenza nel repertorio di tutte e tre le varianti è un indubbio vantaggio economico, oltre che marcatore identitario. Per fare solo degli esempi, beneficerebbero di un sistema scolastico di questo tipo le popolazioni germanofone di Alsazia e Lorena (alsaziano, tedesco, francese), la Valle d’Aosta (francoprovenzale, italiano, francese), le zone rutene della Slovacchia orientale (ruteno, ucraino, slovacco), la Corsica (còrso, francese, italiano), le valli ladine delle Dolomiti (ladino, italiano, tedesco). c) Lascia la scuola vecchia per la nuova: i Paesi Baschi spagnoli Per illustrare la necessità di gradualità nelle scelte di politica scolastica, che possono sconcertare molto l’utente abituato a ricevere l’educazione in una lingua maggioritaria o comunque altra e ingenerare dubbi sull’effettiva potenzialità educativa di un sistema nuovo, cui gli insegnanti stessi non sono abituati e che manca all’inizio di materiali didattici, si può prendere ad esempio il mo-

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dello scolastico basco. Questo modello, nell’ambito di una scuola completamente gestita dalla comunità autonoma, si divide in tre percorsi paralleli: la scuola cosiddetta di tipo A, con lingua d’insegnamento spagnola e obbligo di studio del basco come L, la scuola B, bilingue, basco-spagnolo, e quella di tipo D – l’alfabeto basco non comprende la lettera c –, in lingua basca con insegnamento dello spagnolo come L. In via transitoria è esistita per un periodo limitato la scuola di tipo X, monolingue spagnola, poi abbandonata. A parte questioni di carattere ideologico che verranno chiarite più avanti, ciò è stato fatto originariamente per non sconcertare la grande parte di popolazione che si riconosceva nel basco, pur senza saperlo parlare o leggere; di fatto, mentre nei primi anni di esistenza del sistema attuale la grande maggioranza delle iscrizioni era alla scuola di tipo A, oggi le scuole B e D acquistano sempre più studenti e considerazione a scapito di quella principalmente in spagnolo. Come si è notato sopra, il vantaggio di un simile sistema sta proprio nella gradualità dell’introduzione di nuovi soggetti di insegnamento o nuovi mezzi, come le lingue, di insegnamento. Un tale passaggio ha risvolti di carattere ideologico, ma anche pratico: sono necessari anni per formare una classe insegnante valida e preparata nella lingua target, così come è necessaria una grande preparazione per la disponibilità di libri di testo e manuali d’insegnamento. Se si parte troppo presto si rischia non solo l’improvvisazione, ma soprattutto che, per necessità contingenti, il livello garantito dell’insegnamento sia piuttosto basso: ciò finisce con il gettare discredito su tutta l’operazione di language planning, allontanando una quantità di utenti dalla scuola e dalla cultura che si vuole promuovere. d) La scuola in dialetto: la Norvegia «In molti altri paesi è visto come positivo il fatto che i bambini abbandonino l’uso del dialetto a scuola: questo però non succede in Norvegia. È ben vero che, a intervalli regolari, sono stati proposti, nel corso del Novecento, interventi per la standardizzazione del norvegese parlato a livello scolastico, ma tali proposte non hanno mai avuto alcun successo. Da più di un secolo, nelle scuole elementari norvegesi la regola vuole che gli insegnanti non intervengano sull’uso dei dialetti o dello standard da parte degli alunni. Questo stato di cose è sancito dalla legge sull’educazione primaria del  (§ .), che recita: “Nella comunicazione orale durante le lezioni gli alunni possono usare la varietà di lingua che parlano a casa, e l’insegnante deve, nelle scelte lessicali e nei modi di espressione, avere riguardo nei confronti delle varianti parlate dagli allievi”. Il Comitato direttivo del Norsk språkråd (Consiglio norvegese per la lingua) considera che l’espressione “l’insegnante deve avere riguardo nei confronti delle varianti parlate dagli allievi” contenuta nel testo di legge abbia un duplice significato: da una parte la legge riconosce il diritto degli alunni a usare la propria variante di norvegese e il dovere degli insegnanti di rispettare tali usi locali; dall’altra esorta gli insegnanti a esprimersi in modo tale da essere facilmente capiti dagli alunni e a prestare attenzione a quelle parole o espressioni che possono ri-

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sultare loro sconosciute. Tuttavia, pur con queste limitazioni, gli insegnanti hanno il diritto di scegliere quale variante di norvegese usare; devono comunque porre attenzione al dialetto della regione, di cui devono conoscere i principali tratti fonetici, morfologici e lessicali. È compito degli insegnanti – secondo il programma didattico per la scuola elementare del  – dare agli alunni buona padronanza e conoscenza della lingua principale, conoscenza dell’altra lingua ufficiale e dei dialetti, e sviluppare in loro un atteggiamento tollerante verso la diversità linguistica e gli usi che possono loro parere curiosi. Lo stesso programma didattico insiste sul fatto che i primi rudimenti di lettura e scrittura abbiano come punto di partenza la lingua di prima socializzazione dell’alunno: che risulta essere, nella grande maggioranza dei casi, un dialetto. Nel primo stadio dell’insegnamento della scrittura e della lettura il lavoro deve essere svolto esclusivamente nella lingua di prima socializzazione dell’alunno. L’insegnante svilupperà poi la riflessione metalinguistica dei bambini attraverso esercizi orali e giochi linguistici; renderà coscienti gli alunni su come l’espressione linguistica si concretizza; proprio questa riflessione diventerà in seguito il punto di riferimento per l’insegnamento della lingua scritta o letteraria. In tale situazione diventa ovviamente difficile, per non dire impossibile, realizzare uno strumento per l’insegnamento primario del norvegese che copra tutto il paese e che tenga presenti tutte le varietà diatopiche e diastratiche di provenienza degli alunni. In un primo tempo si è comunque cercato di preparare diversi sussidiari per le scuole elementari basati ognuno sui dialetti di limitate aree geografiche, ma questi progetti sono per lo più falliti, principalmente per problemi di tipo economico. Negli ultimi anni invece molti insegnanti hanno preferito accogliere un sistema di insegnamento di lettura e scrittura chiamato LTG (läsning på talets grund) [lettura partendo dal parlato, l’espressione è svedese]. Questo metodo pone l’alunno al centro del processo di insegnamento e non il testo, e per questo risulta più legato alla realtà locale rispetto ai tradizionali metodi usati negli anni passati. In particolare, nel metodo LTG, i sussidiari stampati hanno un ruolo molto meno importante e gli alunni imparano a scrivere e a leggere su testi che loro stessi redigono: al principio è l’insegnante che scrive alla lavagna quello che i bambini raccontano, e questi primi testi servono da base per l’apprendimento dell’alfabeto. In questo modo gli studenti partecipano alla realizzazione del loro sussidiario: i bambini vengono spinti a scrivere quello che pensano e a leggere quello che i loro compagni hanno scritto. L’ortografia di questi testi, a causa del dialetto parlato sul quale sono basati, risulta chiaramente piuttosto deviante rispetto allo standard scritto di riferimento; ma il metodo LTG, almeno così come viene applicato in Norvegia, non richiede la correzione degli errori di ortografia da parte degli insegnanti. Dunque lo scopo primario di questa prima fase dell’alfabetizzazione è quello di fare capire agli alunni che esiste un rapporto qualunque tra lettere scritte e suoni del parlato: anche l’errore di ortografia può essere una spia del fatto che il discente ha intuito il rapporto tra i due. Nelle classi successive l’insegnante si impegna a far notare agli alunni le differenze tra lingua parlata e lingua scritta: ai ragazzi viene insegnato a esprimersi correttamente nello standard scritto, ad avere coscienza del modo in cui parlano e a saper scegliere la varietà di lingua

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corretta in ogni situazione comunicativa. E proprio per questo diventa importante, durante le lezioni, comparare dialetto e lingua standard. Allo stadio successivo gli alunni devono sistematicamente studiare tutti i tipi di variazioni della lingua norvegese: dovranno imparare a leggere e a comprendere testi antichi, testi redatti nell’altro standard ufficiale, testi dialettali, sia in prosa sia in poesia. A livello di scuola superiore la dialettologia diventa così materia fondamentale di insegnamento» . Un tale sistema presenta numerose attrattive per quelle comunità il cui repertorio comprende varianti che sono ascrivibili alla stessa famiglia linguistica, e in particolare quando ci sia una almeno lasca intercomprensione tra le varianti e lo standard. Un’opzione di tipo norvegese consente il mantenimento delle diverse varianti territoriali e sociali, e anzi il loro rafforzamento, che dovrebbe essere scopo primario di una politica linguistica volta al multilinguismo. In questi casi l’implementazione delle varietà non standard può essere mantenuta, rafforzando contemporaneamente nella popolazione il sentimento di far parte di un insieme comune pur variegato e anzi nel quale l’identificazione unitaria passa proprio attraverso il rispetto e la valorizzazione della varietà. Pedagogicamente, inoltre, una tale scelta facilita molto l’apprendimento naturale da parte dei ragazzi, evitando loro il prevedibile e abbondantemente descritto shock linguistico che coglie il parlante di una lingua meno diffusa al suo contatto con l’istituzione scolastica e la sua lingua standard livellante. Naturalmente, e ciò è tenuto ben presente dalla scuola pedagogica scandinava, questa attenzione alle lingue di socializzazione primaria degli allievi non deve andare a discapito del loro apprendimento dello standard: tra le varianti con cui i ragazzi vengono in contatto negli anni scolastici la lingua standard è quella che, con crescita proporzionale nel corso del curriculum scolastico, viene proposta per la scrittura in maniera sempre più pervasiva dal docente. La particolare situazione della Norvegia, di fatto per molte funzioni priva di lingua ufficiale, non è però riproducibile senza variazioni nella maggioranza delle situazioni europee di multilinguismo, dove una varietà ufficiale, talora eteroglossa, deve comunque essere inclusa nel novero delle lingue veicolari. Tuttavia, modelli educativi che prendano spunto da quello qui delineato potrebbero rivelarsi ottimi per quella parte del curriculum scolastico che pertiene all’insegnamento e all’uso della lingua minoritaria. Una situazione in parte simile, anche se non ufficializzata, si ritrova nelle scuole dei cantoni di lingua tedesca della Svizzera e sarebbe applicabile – e in parte è già stato fatto – al Canton Ticino allo scopo di istituzionalizzare o di salvaguardare la diglossia. e) La scuola ladina Come è noto, l’area del ladino dolomitico è, dalla fine della prima guerra mondiale, divisa tra le province di Bolzano, Trento (Trentino-Alto Adige) e Belluno (Veneto); nelle tre province sono oggi in vigore ordinamenti scolastici diversi; di seguito si tratterà in particolare del modello altoatesino, nel quale è previsto un

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sistema scolastico specifico plurilingue e autonomo per la comunità ladina . Fino al  le valli ladine delle Dolomiti hanno fatto parte della monarchia asburgica, dove, con la riforma voluta dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria, l’obbligo scolastico si è generalizzato a partire dal : l’insegnamento in area ladina avveniva prevalentemente in tedesco, il ladino era usato come lingua d’appoggio; solo verso la fine dell’Ottocento furono fatti dei tentativi di insegnamento della religione in ladino, che però non ebbero seguito a causa soprattutto della diffidenza da parte della popolazione, che preferiva che a scuola fossero insegnati tedesco e italiano, lingue considerate importanti. Dopo la prima guerra mondiale, con il passaggio del Sud Tirolo all’Italia e la successiva presa di potere del fascismo, le scuole vennero integrate nel sistema italiano: gli insegnanti locali furono sostituiti da insegnanti provenienti da altre regioni d’Italia e tedesco e ladino vennero banditi dalla scuola. Nel , durante la seconda guerra mondiale, il solo tedesco ritornò a essere la lingua dell’educazione nelle scuole di Gardena e Badia e gli insegnanti vennero reclutati tra la popolazione ladina; ma non tutti i ladini furono soddisfatti di questa scelta e molti auspicavano una scuola in cui sia l’italiano sia il tedesco fossero utilizzati come lingue dell’insegnamento. La discussione durò qualche anno, fino a che, con ordine ministeriale, il  agosto  fu introdotto il sistema ladino detto “paritetico”, in cui a italiano e tedesco venivano attribuiti diritti simili nell’ambito dell’educazione. Il sistema prevedeva per la prima classe elementare  ore di italiano-ladino con l’uso di un sillabario ladino e  ore di conversazione tedesca, oltre a un’ora settimanale di religione da svolgersi in ladino; dalla seconda classe in poi un numero di ore in tedesco pari a quelle in italiano più due ore di ladino. Questo provvedimento aveva le sue basi legali nel primo Statuto di autonomia della regione Trentino-Alto Adige, approvato all’inizio dello stesso anno, che con l’art.  garantiva «l’insegnamento del ladino nelle scuole elementari delle località ove esso è parlato». Nel , con l’introduzione della scuola media dell’obbligo, furono istituite due scuole medie ladine – bilingui italiano-tedesco con ladino materia d’insegnamento obbligatoria – in Val Badia, le quali venivano ad aggiungersi a quella già esistente in Val Gardena dal . Con il secondo Statuto d’autonomia nel  , i ladini nella provincia di Bolzano ottennero un’amministrazione scolastica autonoma e la nomina di un intendente scolastico ladino; l’art.  dello Statuto recitava: «l’insegnamento [nelle scuole delle località ladine] è impartito su basi paritetiche di orario e di esito finale, in lingua italiana e in lingua tedesca. Nelle predette scuole secondarie le discipline da impartirsi nell’una e nell’altra lingua sono stabilite dalla provincia, previo parere del consiglio scolastico, e in ordine alle eventuali conseguenti variazioni degli organici del personale docente [...]». Le ore di insegnamento della lingua ladina però non vennero aumentate né con lo Statuto del  né con le successive modifiche. Con la legge provinciale del ° giugno  è stata invece introdotta un’ora settimanale d’insegnamento del ladino anche nelle scuole secondarie di secondo grado delle località ladine. Attualmente nelle due valli ladine della provincia di Bolzano esistono  scuole elementari per un totale di . alunni iscritti all’anno scolastico -.

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Le materie d’insegnamento sono ladino ( ore settimanali), italiano ( ore), tedesco ( ore), aritmetica ( ore), storia, geografia e scienze ( ore), educazione al suono e all’immagine ( ore), educazione motoria ( ore), religione ( ore). Nelle materie diverse dalle lingue, l’insegnamento è proposto in modo alterno in lingua italiana o tedesca, con l’obbligo che il numero delle ore usato per ciascuna lingua sia distribuito equamente. L’esame di stato a conclusione dei cinque anni prevede prove scritte e orali nelle lingue d’insegnamento e un colloquio trilingue. Le scuole medie nelle valli ladine sono sei, gli alunni iscritti per l’anno scolastico - sono stati . La distribuzione della lingua da usare nelle diverse materie è fissata in modo da permettere la suddivisione delle cattedre di insegnamento in modo equilibrato: metà delle materie sono insegnate in italiano, l’altra metà in tedesco, escluse le  ore settimanali di ladino (in ladino), le  ore di inglese e le  di religione, in cui la lingua di insegnamento dipende dalla distribuzione del tedesco e dell’italiano sulle altre materie. L’esame di stato per conseguire la licenza media prevede quattro prove scritte (italiano, tedesco, ladino e matematica) e un colloquio pluridisciplinare e plurilinguistico. Nelle località ladine esistono oggi cinque scuole secondarie: due istituti tecnici commerciali, un istituto d’arte, un liceo linguistico, due scuole professionali. Gli iscritti per l’anno scolastico - sono stati ; in verità molti ragazzi preferiscono recarsi nelle vicine località di Brunico, Bressanone e Bolzano, dove la scelta di scuole superiori è più ampia. Il ladino è previsto come “lingua d’appoggio” anche nelle scuole secondarie delle località, ma in pratica il tedesco e l’italiano sono le lingue veicolari quasi esclusive delle lezioni. Gli orientamenti educativi per la scuola ladina si propongono di creare una scuola che sia strumento di promozione culturale e sociale della popolazione delle località ladine e strumento per assicurare l’acculturazione necessaria a chi vive in un ambito plurilingue, garantendo uguale conoscenza dell’italiano e del tedesco, oltre al mantenimento del ladino come lingua dell’identificazione etnica e della socializzazione primaria. . Parallelamente a quanto accaduto in molte realtà comparabili, il governo francese ha favorito l’assimilazione linguistica anche tramite migrazione interna: nell’area germanofona fra Mulhouse e il confine renano si sono infatti istallate le grandi usines Michelin, che hanno attirato migliaia di lavoratori da tutto il paese. Per un esempio italiano, cfr. la fondazione delle acciaierie Cogne ad Aosta nel primo dopoguerra. . Brano tratto da Vigeland (), pp. -. . Il percorso dell’insegnamento del ladino nella Val di Fassa è stato fondamentalmente diverso: negli anni settanta l’insegnamento della lingua e della cultura ladina nella scuola italiana era sperimentale e aggiuntivo, impartito da insegnanti di madrelingua disponibili ad assumersi l’incarico. Solo nel  è stata introdotta un’ora settimanale di ladino nelle scuole elementari, e dall’anno scolastico - anche nelle scuole medie. Le scuole della provincia di Belluno possono dal  inserire il ladino tra le materie d’insegnamento. . Art.  dello Statuto d’autonomia della regione Trentino-Alto Adige/Südtirol: «Le popolazioni ladine hanno diritto alla valorizzazione delle proprie iniziative ed attività culturali, di stampa e ricreative, nonché al rispetto della toponomastica e delle tradizioni delle popolazioni stesse».

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. Mescolanze di sistemi Anche il sistema educativo può essere basato principalmente su principi di territorialità o di personalità: tuttavia, proprio in questo campo si rendono palesi incroci e commistioni dei due principi che, distinti in linea teorica, sono nella pratica soggetti a sovrapposizioni, e ciò per necessità sociali e talora economiche e per motivazioni di carattere politico. Tali necessità possono essere di due tipi: da un lato l’esigenza di equilibrare i due sistemi in modo da assicurare alla popolazione i più ampi diritti possibili, dall’altro la volontà di contenere il più possibile istanze separatiste o semplicemente rivendicazioni etnico-linguistiche o nazionaliste di aree marginali dell’entità statale, senza contrapporsi esplicitamente a queste, ma senza accondiscendere totalmente alle loro richieste. Si tratta nel primo caso di una mescolanza di sistemi che possiamo definire positiva, in cui a una amministrazione bi- o plurilingue fondamentalmente di diritto linguistico territoriale corrisponde un sistema educativo di tipo personale, esteso potenzialmente su tutto il territorio dello stato . Una mescolanza di diritti in qualche modo negativa è quella (assai più frequente e che abbiamo incontrato parlando della Spagna) in cui in uno stato monolingue sono riconosciuti i diritti linguistici di alcune popolazioni di minoranza limitatamente al territorio in cui vivono, mentre il gruppo di maggioranza gode dei suoi diritti linguistico-culturali su tutto il territorio dello stato. In altre parole, la maggioranza è protetta dovunque, le minoranze solo nei loro territori storici: si tratta cioè di limitazione territoriale del diritto personale, che viene garantito solo nelle aree di riconosciuta minoranza. La commistione “positiva” è esemplificata dalla Finlandia, in cui le due lingue nazionali si ripartiscono il territorio secondo criteri demografici, promuovendo tra l’altro l’esistenza di ampie aree amministrativamente bilingui e dove il diritto alla scelta della lingua dell’educazione è garantito su tutto il territorio dello stato, indipendentemente dalle lingue ufficiali del territorio in cui si risiede, e limitato solamente da problemi di carattere pratico (la presenza di un numero anche minimo di allievi sufficiente a costituire una classe). Una mescolanza di tipo negativo vigeva invece in Unione Sovietica (e vige tuttora nella Federazione Russa), dove alla presenza garantita del russo nell’amministrazio. Beninteso, l’effettiva implementazione del diritto di scelta della lingua dell’educazione è legata alla reale distribuzione dei parlanti le lingue sul territorio e a questioni di cost-benefit analysis.

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ne e nell’educazione su tutto il territorio (cioè anche in quelle parti dove il russo non è parlato) faceva riscontro l’istituzione di scuole nazionali (in molti casi anch’esse in russo) e di amministrazioni locali bi- o plurilingui solamente nelle repubbliche federate, nelle repubbliche autonome e nei distretti autonomi corrispondenti ai gruppi nazionali diversi da quello russo.  Il Belgio e il bilinguismo territoriale negativo CASO STUDIO

«Il n’y a pas des belges, il y a des flamands et des wallons» («Non esistono belgi, ci sono fiamminghi e valloni»): il concetto era già chiaro a Talleyrand alla conferenza di Londra, all’inizio del secolo XIX, prima ancora che il Belgio nascesse come stato indipendente ; e la Costituzione del , la prima del paese, riconosce a tutti i cittadini del nuovo regno il diritto alla scelta della propria lingua: l’élite parlava francese, e il popolo dialetti valloni e fiamminghi; ne risultò il francese come unica lingua ufficiale del nuovo stato. L’affermazione del fiammingo come lingua di effettivo uso dell’amministrazione si deve all’opera di una ristretta cerchia di intellettuali fiamminghi che, anche con l’appoggio dei dati del primo censimento del  (che davano i francofoni in minoranza sulla popolazione generale del Belgio), riuscirono nel progetto di parità amministrativa fra le due lingue nel . Ciò significava che le province francofone avrebbero continuato a essere amministrate in francese, mentre quelle fiamminghe sarebbero state da quel momento amministrate in francese e in nederlandese. È solo nel  che il fiammingo raggiunge lo status di “lingua nazionale” accanto al francese. Oggi il Belgio, dopo un lungo percorso istituzionale, è uno stato federale composto da tre unità federate: le Fiandre, la Vallonia e la regione di Bruxelles Capital/Brussel-Hoofdstadlijke gebied; all’interno del suo territorio sono stabilite tre lingue ufficiali, nederlandese, francese e tedesco; la divisione linguistica del territorio, tuttavia, non corrisponde totalmente con quella amministrativa. L’uso amministrativo delle lingue segue un principio territoriale puro e divide il territorio in quattro aree linguistiche, una fiamminga, una francese, una tedesca e una bilingue francese-fiammingo. All’interno di queste zone, con l’eccezione dell’area bilingue di Bruxelles/Brussel, il monolinguismo è totale, sia nell’amministrazione sia nelle attività educative e culturali, così come nella vita economica e commerciale: si può affermare cioè che, all’interno delle aree omogenee, il tipo di situazione linguistica è quello che abbiamo definito francese rivoluzionario puro. Esistono tuttavia piccole eccezioni: in un numero limitato di comuni a nord e a sud del confine linguistico francese-fiammingo, i cosiddetti communes à facilité, è possibile istituire scuole nell’altra lingua. Inoltre, in tutta la zona germanofona possono essere istituite scuole francofone, così come scuole germanofone e fiamminghe possono essere istituite nei comuni valloni in cui le tre lingue vengono in contatto. Al di là dell’aspetto territoria-

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le, la Costituzione riconosce tre comunità etniche, che amministrano l’educazione e che giocano un ruolo particolare all’interno del Parlamento, nel senso che ogni legge deve essere approvata non solo dalla maggioranza del Parlamento tutto, ma anche dalla maggioranza dei rappresentanti delle due principali comunità etniche, fiamminghi e “francesi di Belgio”. Le comunità nazionali, si è detto, gestiscono i sistemi educativi, ma hanno il diritto di farlo solo all’interno dei territori cui corrispondono: ne consegue che l’uso della lingua da parte dei cittadini dipende esclusivamente dal territorio in cui si trovano e che le lingue dell’amministrazione e dell’educazione  non sono materia di scelta per il cittadino. Per semplificare l’opera di corpus planning del fiammingo (essendo chiaro che la norma dei valloni è il francese ufficiale ) si è stabilito di adottare come norma ufficiale per lo scritto la norma del nederlandese dei Paesi Bassi: è così in attività una commissione trimembre (due olandesi e un fiammingo) che si occupa di concertare – ora e in futuro – i tratti ortografici e linguistici comuni . Non è prevista alcuna norma ufficiale per il parlato. . In Weber (), p. . . Con i casi particolari delle zone bilingui e delle comunità della fascia di confine. . Invero, da alcuni anni la comunità francese del Belgio ha riconosciuto il vallone come lingua a se stante, senza che questo abbia finora dato seguito a grosse iniziative di language planning (nelle scuole francesi del Belgio è in uso da qualche tempo l’ora di tradizioni popolari e canti in vallone). Mentre tuttavia nelle Fiandre esiste una situazione di diglossia fra varietà fiamminghe e nederlandese standard, la posizione delle parlate romanze del Belgio è ormai assai pesantemente compromessa. . Per questo cfr. Willemyns ().



 Acquisition planning

. Basi dell’acquisition planning Accanto al corpus planning e allo status planning, e variamente intrecciata a questi, si pone l’attività cosiddetta di acquisition planning, denominazione con la quale si definisce l’insieme di interventi pubblici che mirano ad aumentare il numero degli utenti potenziali di una lingua . Naturalmente, aumentare il numero di utenti potenziali non è un’operazione senza conseguenze sul piano dei rapporti sociolinguistici fra le varietà compresenti sul territorio, e dunque sulla loro forza reciproca, per così dire, e sulle loro possibilità o probabilità di costituire aggancio identitario per la popolazione. Le operazioni di acquisition planning sono per questo molto delicate: perché il parlante, in effetti, ha spesso una precisa percezione dei rapporti fra i codici che usa o coi quali è in contatto. Ed è molto sensibile alle questioni che coinvolgono il prestigio linguistico: chi vive in una comunità sociale generalmente sa che le varietà con le quali viene a contatto sono differenziate su più piani. a) Politico: non solo le lingue hanno status giuridici differenti, come abbiamo visto sopra, ma anche posizioni geopolitiche diverse. La conoscenza del tedesco, ad esempio, è molto più utile sull’arco alpino orientale che su quello occidentale; di converso, a ovest è in qualche modo preferibile conoscere il francese che i dialetti occitani. b) Economico: strettamente collegato alla differenza di status politico, il prestigio economico di una lingua è sempre fortemente sentito dal parlante ed è causa, come vedremo anche al CASO STUDIO , di cambi di lingua e di atteggiamenti anche molto vistosi e di lunga durata. c) Estetico: questo piano è decisamente diverso da quelli precedenti; non solo non ha motivazioni esterne, societarie, ma non dovrebbe nep. Dobbiamo questa terminologia a Cooper (), ripresa da Strubell ().

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

pure, per il linguista, essere compreso fra quelli pertinenti alle lingue. Eppure è un dato di fatto che per tutti noi parlanti esistono lingue “belle” e lingue “brutte”, e questa distinzione corre trasversale a quella fra lingua e dialetto, o fra lingue prestigiose e non prestigiose, o espressione di società da ammirare o da temere e così via. Le cause che producono nei parlanti giudizi estetici sulle lingue sono molto varie e il loro studio è assai complesso: qui basterà accennare al fatto che, come vedremo anche più avanti, in genere la mia microvarietà tende a essere bella, al contrario di quella dei paesi o gruppi sociali a me più vicini – allontanandosi i giudizi cambiano decisamente e sono dovuti a fattori di tipo culturale, scolastico e in larga misura personale, meno a forti stereotipi di integrazione al gruppo . Soprattutto “brutta” è la mia lingua un po’ diversa, su cui qualcuno ha pasticciato, o che viene parlata male, o troppo modernizzata, o “slavata” e così via. Vedremo fra poco che in molte operazioni di pianificazione linguistica non troppo attente alla volontà dei parlanti la lingua proposta sembra brutta agli utenti. d) Identificativo: in più, le dinamiche di identificazione primaria, anche questo lo abbiamo visto, sono legate ad altri fattori che non il potere politico o economico, avvicinandosi alle motivazioni estetiche. Talora infatti, proprio perché in molte situazioni reali di multilinguismo la lingua cui si lega la propria identificazione primaria non è una lingua standard di grande prestigio e funzioni, appunto questa relativa “povertà” della propria lingua viene ad assumere, non sempre consciamente, un valore fondamentale per il parlante. Per motivi anche di cosiddetto prestigio coperto, cioè, il parlante si sente legato alla propria varietà perché non è prestigiosa, perché è non standard, in ultima analisi perché è sociolinguisticamente un dialetto. È allora evidente che operazioni tese a ribaltare o comunque a modificare lo status quo devono rispettare, pena la non riuscita, le aspettative del parlante. Ora, l’acquisition planning tratta appunto della consapevole alterazione di questi rapporti fra i codici: e si può variamente scontrare con le idee e le convinzioni del parlante, siano esse consapevoli o anche solo soggiacenti. Questo è un altro punto importante: data proprio la potenza della funzione simbolica della lingua, non sempre quello che i parlanti credono di volere in modo razionale riguardo alla loro situazione linguistica corrisponde perfettamente a quello che poi effettivamente vogliono dal punto di vista emozionale. Ad esempio, si può essere razionalmente d’accordo sul fatto che il friulano venga impiegato in tutti . Rispetto alla lingua nazionale le categorie estetiche possono tuttavia variare molto: qui interessa anzitutto il momento di comparazione fra varietà diatopicamente o diastraticamente vicine.

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ACQUISITION PLANNING

gli ambiti della vita pubblica, amministrativa e scolastica della regione, ma poi in fondo si attribuisce valore a un Friuli mitico, diglottico, che abbia il “bel friulano antico” come praticamente unico codice parlato e l’italiano come unica lingua amministrativa e scientifica, relegato all’ambito scritto ma in fondo non affiancabile, in questo, dal friulano  – e che dunque nel contempo non contamini il friulano con prestiti e brutte parole. Un altro fattore da tener presente è che spesso il desiderio attivo di cambiare i rapporti fra i codici è sentito solo da una minoranza non rappresentativa (generalmente i cosiddetti middle-class-city-dweller-intellectuals, ossia intellettuali di classe media che abitano nelle città) e atipica rispetto alla maggioranza della popolazione interessata dal cambio linguistico. In questi casi gli attivisti possono fare anche molta fatica a coinvolgere in modo effettivo la massa dei parlanti, ma su questo torneremo fra poco.  Due lingue, una nazione: l’Irlanda CASO STUDIO

. L’esperienza irlandese mostra bene i problemi cui vanno incontro le comunità, anche molto determinate e dotate di risorse non del tutto inadeguate, in cui si viene a creare una importante discrasia fra valori chiamiamoli “sentimentali” del linguaggio (ossia nazionali, identitari, religiosi, di differenziazione) e valori “pratici”, immanenti, economici, che finiscono in molti casi col prevalere. Dunque, le  contee dell’isola d’Irlanda che guadagnarono la propria indipendenza nel  ereditarono, come è noto, una situazione linguistica del tutto particolare: l’irlandese doveva essere, appunto per la ragione costitutiva della Repubblica, la lingua dello stato e quella principale nell’uso, ma di fatto era confinata in poche aree rurali e isolate. Fin dalla seconda metà del XIX secolo gruppi di intellettuali anglofoni erano stati attivi nel revival dell’irlandese come parte integrante di un tentativo di «ricreare un’ideologia etnica coerente che avrebbe dovuto capovolgere i significati associati all’essere irlandese, e restituire dignità e status sociale alla popolazione irlandese» . Queste istanze furono fatte proprie dal neonato governo, che già nel  fondò circa . nuove scuole in cui si insegnava l’irlandese come materia di studio rendendone contemporaneamente ufficiale a tutti i livelli l’uso (lingua nazionale e ufficiale) accanto a quello dell’inglese (lingua ufficiale) . Ciò pose severi problemi di corpus planning, dal momento che la lingua letteraria, di lunghissima tradizione e di prestigio molto elevato, era all’inizio del secolo ormai sensibilmente diversa da quella parlata, che, nei territori dove resisteva, si suddivideva in una quantità di varianti locali talora anche piuttosto differenziate. Solo nel  si pubblicò l’Offi. Cfr. Iannàccaro (a); Iannàccaro, Dell’Aquila (in stampa).

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

cial Standard of Irish Spelling, mentre tuttora non esiste alcuno standard orale riconosciuto, né d’altra parte alcuna varietà si è imposta sociolinguisticamente sulle altre; lo standard scritto è sostanzialmente basato sulla varietà di Cois Fhairrghe nella contea di Gaillimh/Galway. Come è ormai noto in letteratura, il dominio britannico sull’Irlanda, cominciato nel  ma totalmente perfezionato solo nel  con la vittoria di Guglielmo d’Orange, fu rigido e talora direttamente vessatorio contro la popolazione irlandese cattolica, ma non si preoccupò in modo particolare di imporre l’uso dell’inglese attraverso mezzi giuridici: il declino dell’irlandese, come in generale quello delle lingue celtiche, è dunque più dovuto a una sorta di “suicidio linguistico” che a un’attiva politica di language murder . Il prestigio economico e politico fortemente sbilanciato dei due codici dell’isola ha cioè fatto sì che nel corso dei secoli i parlanti delle varietà celtiche irlandesi non le abbiano più ritenute economicamente e socialmente vantaggiose. A questo si aggiunga la pressione sociale, che si è spesso tradotta in un trattamento assai più duro nei confronti degli irlandesi di lingua celtica da parte delle élite inglesi. Inoltre, il possesso dell’inglese era talora viatico per un migliore trattamento da parte delle autorità. È questo un caso tipico dell’estrema divaricazione fra le due funzioni fondamentali del linguaggio, quella comunicativa e quella simbolica, cui si accennava già al PAR. .: la lingua di comunicazione d’Irlanda diventò dunque quasi esclusivamente l’inglese, e l’irlandese rimase all’interno del repertorio come varietà simbolica potenziale, marcatore importante di differenza anche in absentia, insieme con la religione cattolica – e tuttavia lo stesso inglese, col tempo, si è caricato di qualche funzione simbolica per gli irlandesi: in particolare viene sentita come particolarmente tipica e raffinata la sua variante dublinese, portatrice di altissima letteratura autonoma (si pensi solo a Swift, a Joyce, a Yeats, a Shaw, a Beckett e a tanti altri). In questo quadro, il citato revival dell’irlandese, partito alla metà del XIX secolo sull’onda generale delle “riscosse nazionali” europee e favorito dalla moda celtizzante del continente (da allora in effetti non più diminuita), si è caratterizzato come operazione particolarmente colta, portata avanti in massima parte dalle borghesie cittadine linguisticamente anglicizzate. E anche questo è a suo modo piuttosto tipico, come abbiamo sopra notato: il desiderio attivo di invertire la deriva linguistica, se non è accompagnato da adeguati provvedimenti economico-sociali, è spesso sentito solo da una minoranza della popolazione economicamente soddisfatta, di posizione culturale medio-alta e soprattutto di lingua madre maggioritaria, che si è riappropriata della lingua tradizionale per questioni ideologiche. Ora, il coinvolgimento della popolazione da parte di questi intellettuali non è scontato, così come non sempre costoro sono culturalmente preparati a un’operazione di planning globale: ne consegue che siffatti programmi di rivitalizzazione delle lingue (primo fra tutti quello irlandese) hanno condotto sì a un incremento delle persone che conoscono la lingua target, ma non al suo uso effettivo nella comunicazione. Coloro che teoricamente conoscono e coloro che praticamente usano la lingua non sono evidentemente altrettanto importanti per il suo mantenimento. Nel caso dell’Irlanda, come si accennava sopra, ciò è stato verificato dai risultati generali della politica linguistica che si è attuata, incentrata in modo qua-

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ACQUISITION PLANNING

si esclusivo sulla scuola e l’insegnamento dell’irlandese, senza che questo fosse adeguatamente supportato da politiche di radicamento di tale lingua all’interno della società. La lingua celtica è in effetti materia di studio obbligatoria in tutte le classi di ogni ordine e grado scolastico con lingua di istruzione inglese, e per accedere all’istruzione superiore è necessario sostenere un esame di irlandese. Tuttavia, con la parziale eccezione di poche aree isolate (principalmente a Ovest e a Sud), che costituiscono il cosiddetto Gaeltacht – dove, nelle scuole elementari rurali, esistono classi con l’irlandese come lingua dell’istruzione –, la lingua di socializzazione e praticamente esclusiva di tutti i rapporti familiari ed extrafamiliari è l’inglese. Di conseguenza, la quasi totalità della popolazione può essere definita “irlandesizzata”, ossia portatrice di una competenza almeno minima dell’irlandese, ma l’uso della lingua a ogni livello è decisamente scarso . Il suo prestigio teorico è in effetti molto alto nella società dell’isola (viene generalmente ritenuta una lingua “bellissima”, anche se “molto difficile”) , e il suo potere di identificazione etnica e religiosa della comunità è tuttora solidissimo. E tuttavia, in quanto lingua socialmente ed economicamente debole, l’irlandese è confinato in aree povere e rurali: ciò significa che un intervento di politica linguistica, se vuole avere successo, deve essere coordinato con programmi di ristrutturazione economica e di progressione sociale di tutta la comunità. Il rischio altrimenti è quello di cadere nel cosiddetto «circolo vizioso dell’Irish Gaeltacht» : al prevedibile abbassamento di prestigio che si verifica quando una lingua è parlata in aree socialmente ed economicamente depresse, con il conseguente possibile abbandono della parlata, si aggiunge la probabile emigrazione dalla regione verso aree urbane o comunque economicamente più avanzate, nelle quali la lingua maggioritaria è destinata a prevalere negli emigranti. Dunque, in assenza di una politica di sostenimento, è prevedibile la morte della lingua minoritaria. D’altra parte, se si punta sulla rivitalizzazione economica esclusiva delle aree di minoranza, sarà da prevedere una massiccia immigrazione da fuori che finirà inevitabilmente per annacquare o al limite assimilare l’elemento linguistico autoctono; nel primo caso, dunque, si configurerebbe una situazione di “morte per estinzione”, nel secondo di “morte per diluizione”. Se, nel tentativo di evitare questi gorghi, si crea un’area linguisticamente e legislativamente protetta, in cui viene esplicitamente promosso l’uso linguistico di minoranza, si crea un’enclave artificiale, con conseguente perdita dell’uso spontaneo della lingua. . In questo quadro è particolarmente interessante un esperimento pilota condotto da qualche anno nella città di Galway  e teso appunto a spezzare questo circolo vizioso. L’esperimento rappresenta una vera e propria innovazione rispetto alla tradizionale politica linguistica dell’irlandese: invece di puntare sui valori che abbiamo definito sopra “sentimentali”, come è sempre stato fatto in Irlanda, si è deciso di stimolare le potenzialità economiche della lingua minacciata. Un tale esperimento può insegnare molto a livello metodologico. Si tratta di un’operazione di promozione linguistica diretta, ossia volta ad alterare gli atteggiamenti di parlanti e non parlanti in modo positivo verso la lingua di minoranza. Beninteso, questo non implica necessariamente che il potere di at-

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

trazione o il gradimento dei parlanti nei confronti della lingua di maggioranza debba venir meno; piuttosto, quello che si cerca è un incremento relativo degli atteggiamenti positivi nei confronti della lingua di minoranza. Si è detto sopra intervento di promozione linguistica diretto: ma ciò va inteso in un senso molto particolare, nel senso cioè di una operazione esplicitamente volta ad alterare la percezione dei rapporti di forza dei codici in compresenza nella regione, e non già alla diretta imposizione o proposta dell’uso di una particolare varietà. In questo senso, il prerequisito di base è che i membri di una minoranza linguistica «devono acquisire la volontà di arrestare la loro dissoluzione in quanto comunità linguistica, e, solo per il fatto di aver raggiunto questa volontà, acquisiranno quasi inevitabilmente i mezzi istituzionali e finanziari per intraprendere le misure appropriate, a meno che, ovviamente, non siano positivamente impediti dal raggiungerle» (Fennel, , p. , forse troppo ottimisticamente per quanto riguarda i mezzi economici). È importante notare che il cambio di attitudini può essere anche molto complesso e che non ci si può aspettare che una lingua fino a ieri negletta dalla comunità, nell’uso almeno, diventi di colpo dominante nell’area. Per questa ragione è bene che la volontà di promozione linguistica non sia completamente esplicita, ma che al contrario provochi una situazione per cui la rivitalizzazione linguistica è una conseguenza dell’operazione e non un suo fine dichiarato. Questi sono i presupposti del progetto chiamato Gallimh le Gaeilge (Galway in irlandese): una promozione linguistica diretta nel senso specificato sopra, che tuttavia si tiene lontana da affermazioni esplicite di principio o da presupposizioni di tipo morale . Il suo scopo principale è quello di mostrare che usare l’irlandese è conveniente, del tutto a prescindere dal fatto che questa lingua piaccia o non piaccia. Ciò evita anche uno dei problemi principali di questo genere di operazione, quello che viene chiamato tokenism, ossia quel particolare scambio che sembra instaurarsi fra parlanti e pubbliche amministrazioni in una sorta di do ut des, per cui il parlante o la comunità locale si impegna a “vivere nell’atmosfera della minoranza” in termini culturali, folkloristici ed eventualmente linguistici in cambio di sostanziosi incentivi economici. Galway è il centro principale del Gaeltacht più popolato e solido, ma è a sua volta una città completamente anglicizzata; ne deriva che la sua influenza sull’area su cui si parla irlandese è piuttosto di tipo negativo: coloro che parlano il gaelico gravitano comunque su Galway, ma non ci possono utilizzare la propria lingua, verificando nel contempo, ogni volta che si recano in città, il tipico contrasto città/lingua di maggioranza/novità vs. campagna/lingua di minoranza/arretratezza. Per sfuggire ai pericoli del circolo vizioso delineati sopra, l’idea è stata quella di rafforzare l’uso del gaelico, beninteso come lingua seconda, in un luogo non più effettivamente di lingua celtica, appunto la città di Galway, in modo da lenire l’influenza negativa che questa poteva avere sul territorio circostante. Lo scopo dichiarato del progetto è «riposizionare la città di Galway facendola diventare la prima città bilingue d’Irlanda, sviluppare la faccia irlandese della città, con l’occhio puntato al rafforzamento del suo potere di attrazione nei confronti di visitatori da altre parti del paese, così come dall’estero» . Il progetto è stato presentato come un’iniziativa di tipo sostanzialmente economico, rivolta alla business community della città, nella convinzione che gli

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ACQUISITION PLANNING

uomini di affari e i commercianti potessero sfruttare il massimo di efficacia nei rapporti interpersonali, e anche consci della condizione generale secondo cui la piazza del mercato – in senso ampio – è il primo luogo dove si determina la differenza tra ciò che è moderno e ciò che è arcaico e retrivo: se la lingua di minoranza è presente sul mercato, diventa subito associata alla modernità così come viene socialmente definita. E questa è una condizione essenziale per il mantenimento linguistico a lungo termine. Operativamente si è proceduto in questo modo: il progetto Gallimh le Gaeilge non si basa sulla regolamentazione dell’uso linguistico, ma piuttosto sulla persuasione degli attori in gioco: e non è nemmeno presentato ufficialmente come un progetto che concerne direttamente il mantenimento del gaelico. Si è semplicemente fatto notare agli operatori economici che l’irlandese poteva essere un ottimo sponsor per la città, un’occasione di guadagno per Galway e per i suoi operatori economici in particolare. Nessun cenno è stato fatto al senso del dovere, alla solidarietà nei confronti della lingua o ad alcunché del genere: si è anzi esplicitamente dichiarato che tutti gli interessati erano benvenuti nel progetto, ma se – e solo se – ritenevano che aderire portasse loro un vantaggio economico. L’argomento principe di persuasione si basava sulle potenzialità di vendita che le lingue celtiche, e il gaelico in particolare, rappresentano attualmente per la società occidentale. L’idea era dunque quella di sviluppare l’economia e il commercio della città attraverso la sua nuova immagine di Mecca of the Celts; in altre parole, e contrariamente a quanto l’opinione comune ritenesse, si è mostrato che la presenza dell’irlandese in città avrebbe portato a benefici economici e sociali, e viceversa che la sua perdita avrebbe impoverito molto di più la città dell’abbandono di due o tre compagnie multinazionali. Come si vede, queste argomentazioni evitano deliberatamente qualunque appello al senso del dovere (linguistico) della popolazione, affermando al contrario che la decisione di incrementare la visibilità dell’irlandese deve essere fatta sulla base del «buon senso affaristico» . Di fatto, l’azione è consistita nell’invogliare gli operatori economici a fare maggior uso dell’irlandese nella vita commerciale, cioè a usarlo nelle insegne, nelle pubblicità, nei rapporti scritti e orali con i clienti; le istituzioni pubbliche avrebbero fornito assistenza logistica (in termini di aiuti nella traduzione, nella ricerca di mercato e nello sviluppo di nuove e innovative interfacce grafiche) ma non assistenza economica diretta. Il progetto è lungi dall’essere terminato, ma le prime valutazioni in termini di costi-benefici si sono mostrate particolarmente incoraggianti. . Tovey, Hannan, Abramson (), p. . . Nel periodo iniziale di acceso nazionalismo che ha caratterizzato la Repubblica d’Irlanda si sono anche tentati metodi coercitivi di apprendimento dell’irlandese, in seguito abbandonati, anche perché rivelatisi inutili se non controproducenti. . Il fatto è noto, e riportato anche nella manualistica. Cfr. ad esempio Cuzzolin (), p. : «rispetto all’inglese, fu avvertita come inerente alle lingue celtiche, e dunque inerente anche ai parlanti di tali lingue, una condizione di inferiorità; l’inglese si impose alle lingue celtiche come lingua che la sociolinguistica odierna definisce “di prestigio”». Per i concetti di language murder e language suicide cfr. Denison (); Aitchison (); McMahon ().

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

. I dati del censimento  riportano una popolazione capace di parlare irlandese di circa un terzo del totale degli abitanti (.. persone, pari al ,% nel ). In realtà, dati ufficiosi di linguisti e sociolinguisti stimano i parlanti abituali dell’irlandese (in massima parte bilingui) in circa -. persone: cfr. ad esempio Kloss, McConnell (-), vol. V, pp. -. . Per qualche considerazione sul prestigio legato alla difficoltà percepita della lingua cfr. Iannàccaro, Dell’Aquila (). . Cfr. Edwards (). . Una descrizione più approfondita e un’analisi comparativa dell’operazione nei confronti di altre consimili si può trovare in Grin, Vaillancourt (), su cui si basa il presente paragrafo. . Come potrebbe essere il tipico ricatto del genere “Non renderti responsabile della morte della tua lingua” sotteso a molte campagne esplicite. . Comhadháil Náisiúnta na Gaeilge, in Grin, Vaillancourt (), pp. -. . «Good business sense» (Grin, Vaillancourt, , p. ).

. Il Catherine wheel model L’esempio visto sopra è interessante per più di un motivo, proprio perché introduce qualche riflessione importante: le attività di acquisition planning sono infatti variamente strutturate e si rivolgono a settori anche diversi della società, con metodologie e tecniche anche apparentemente lontane dall’attività normale del linguista. Possiamo sinteticamente classificarle in tre gruppi principali: – miglioramento della competenza linguistica e comunicativa dei parlanti la Lx; – aumento del prestigio della Lx; – sviluppo dell’uso sociale e interpersonale della Lx . È necessario infatti migliorare la competenza generale della Lx all’interno della società per dar modo ai parlanti di usarla in tutti gli ambiti possibili; se necessario, questo deve comprendere anche politiche di alfabetizzazione o di (ri)attivazione della competenza attiva e passiva dei semiparlanti, in particolare nei casi in cui Lx e Ly sono simili fra loro . Ciò perché, anche se può sembrare banale, nessuna attività di pianificazione linguistica è possibile se la lingua non esiste più . Il prestigio di una lingua è . Qui e in seguito intendiamo con X o Lx la lingua oggetto di pianificazione, con Y o Ly la lingua dominante nell’area, con H o Lh la varietà alta in condizioni di diglossia o dilalia, con L o Ll la varietà bassa in condizioni di diglossia o dilalia. . Per uno studio molto interessante su una tale situazione sociolinguistica, e la definizione appropriata di “parlanti evanescenti”, cfr. Moretti (). . In effetti, ci sono dei casi di rivitalizzazione linguistica ex nihilo: il più famoso e l’unico riuscito è quello dell’ebraico, creato a tavolino a partire dalla lingua della Bibbia, non più parlata dal II secolo a.C. e in seguito tramandata solo come lingua seconda di cultura; ma la rivitalizzazione dell’ebraico è stata sostenuta da una fortissima, eccezionale

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ACQUISITION PLANNING

poi direttamente proporzionale all’ascesa socioeconomica che la conoscenza di questa dà al parlante o che il parlante crede gli dia . E dunque una politica di aumento di prestigio della lingua dovrebbe favorire, ad esempio, la creazione di posti di lavoro in cui la Lx sia necessaria, oltre alla creazione, alla presenza e alla domanda di prodotti e servizi nella Lx. Accanto a questo, per un migliore sviluppo dell’uso sociale e interpersonale bisognerebbe vedere assicurata la cosiddetta «produzione e riproduzione della lingua» , cioè la continuità nell’uso a livello intergenerazionale. Tutto ciò è esemplificato da un diagramma che dobbiamo a Strubell, noto come Catherine wheel model . Il principio fondamentale è che esiste una relazione funzionale tra la competenza di una lingua, il suo uso sociale, la presenza e la domanda di prodotti nella lingua e la motivazione ad apprenderla e usarla, fattori che a loro volta accrescono la competenza, l’uso e il prestigio della lingua, in modo circolare. L’intento di questa relazione dinamica è di autoalimentarsi in modo da mantenere il ciclo – la ruota – sempre in movimento. Lo scopo di una politica di acquisition planning è dunque quello di intervenire in un punto qualsiasi del modello circolare qui esemplificato in modo che il rafforzamento consecutivo e bilanciato di ognuno dei punti rappresentati causi la messa in moto e la rotazione continua della ruota. La metafora acquista un particolare significato in contesti bi- o plurilingui: la rotazione positiva della ruota di una lingua potrebbe, in situazioni di conflitto linguistico, causare la rotazione negativa (sostituire “meno” a “più” nel modello) per la lingua in contatto. «Se immaginiamo dunque una società multilingue come un veicolo con molte ruote, lo scopo della acquisition planning [potrebbe essere] quello di farle ruotare tutte nello stesso senso senza che nessuna giri alle spese di un’altra» .

tensione ideologica e religiosa, che non può in alcun caso essere considerata la norma. Di impatto decisamente diverso possono essere ricordate, in Europa, le “rinascite” del cornico, estinto alla fine del XVIII secolo (l’ultima parlante nota, Dolly Pentreath, morì nel ), e dell’antico prussiano (lingua baltica, esauritasi intorno al XVI-XVII secolo). Nonostante, ad esempio, siano in funzione scuole in cui il cornico è materia di insegnamento (e, sperimentalmente, lingua di insegnamento), che si ascolti alla radio un quarto d’ora alla settimana una trasmissione in cornico, e nonostante fossero attestati negli anni intorno al - bambini allevati in prussiano nella ex DDR, si tratta generalmente di operazioni ipercolte, che raramente incidono in modo stabile sul tessuto sociolinguistico. Cfr. http://poshka.bizland.com/prussian/reconstructions.htm; George, Broderick (). . Euromosaic (). . Ibid. . Strubell (), pp. -. La FIG. . è adattata e tradotta dall’inglese. Con Catherine wheel si intende in inglese, fra l’altro, la girandola di fuochi d’artificio che si mette in rotazione quando viene accesa. . Strubell (), p. .



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

. Il Catherine wheel model FIGURA

Maggiore conoscenza della Lx

Più uso sociale informale della Lx

Maggiori motivazioni per apprendere e usare la Lx

Incremento della percezione di utilità della Lx

Più domanda di beni e servizi nella Lx

Più disponibilità e più consumo di prodotti e servizi nella Lx

Analizziamo ora uno per uno gli elementi che compongono la Catherine wheel e vediamo secondo quale logica la ruota si mette in movimento. Se le persone competenti in una lingua aumentano, si può immaginare che anche il numero di persone che la usa comunemente possa aumentare; e se il numero di utenti della lingua aumenta, si può supporre che aumenti anche la richiesta di prodotti e servizi in questa. Se la domanda aumenta dovrebbero anche crescere l’offerta e il consumo di prodotti e servizi nella lingua. La disponibilità di prodotti e servizi nella lingua causa verosimilmente nella società una percezione di utilità della lingua stessa, e quindi della necessità di conoscerla. L’utilità della lingua può incentivare l’interesse verso il suo studio e il suo apprendimento. Il fatto di apprenderla – e qui si chiude il circolo – aumenta il numero delle persone competenti nella lingua. In teoria, non ci sarebbe alcuna ragione per pensare che questo meccanismo venga interrotto se tutti gli input sono positivi. In realtà, invece, le relazioni tra i punti della ruota non sono lineari e ci sono molti fattori che interferiscono sul movimento. In particolare fattori ester

.

ACQUISITION PLANNING

ni, fondamentalmente di tipo sociale, ma anche economici, possono interferire profondamente sul funzionamento del ciclo fino ad arrestarlo completamente. Prima di tutto l’insegnamento di una lingua non implica necessariamente il suo apprendimento da parte dei discenti né tanto meno il suo uso: ciò vuol dire che insegnare una lingua a una popolazione perché essa diventi un mezzo diffuso di comunicazione non significa semplicemente dare le nozioni grammaticali e lessicali che la riguardano, ma innanzitutto convincere la popolazione a volerla studiare e poi – e ciò è fondamentale – insegnare quali sono le regole sociali che governano l’uso della Lx nella comunità. È chiaro che se queste regole hanno dei risvolti negativi verso la Lx, sarà compito dell’educatore cercare di modificare le regole sociali che determinano l’uso delle varietà in compresenza sul territorio. Ciò vale in particolar modo nelle situazioni di dilalia, in cui la Lh può essere usata in tutti i contesti, mentre la Ll ha degli ambiti molto ristretti: educare alla lingua significa in questo caso delimitare socialmente con precisione gli ambiti delle due varietà, e tutto questo può funzionare solo se la Lx è ancora parlata da una parte rilevante della popolazione, è capita da un numero ancora più grande di persone e ha mantenuto una quantità di ambiti d’uso, anche se solo orali, abbastanza alta . Inoltre, una volta assicurato l’uso sociale della varietà, non è scontato che la popolazione richieda prodotti e servizi in questa: in situazioni di diglossia stabile, accade spesso che l’ambito nel quale rientrano i prodotti commerciali o i servizi (almeno in forma scritta) non appartenga a quello della Lx. D’altra parte, in casi come questi la Lx e la Ly convivono equilibratamente e nessuna delle due rischia di perdersi; anzi le due varietà si alimentano e si sostengono reciprocamente. Si pensi alla situazione della Svizzera tedesca, in cui lo Schwyzertütsch è la lingua universalmente usata in ambito orale per le relazioni sociali (sia dalla popolazione autoctona sia dagli immigrati alloglotti nei rapporti con gli svizzeri tedeschi) e gode di ottima salute, ma i cui parlanti non necessariamente richiedono prodotti scritti in questa varietà. Le attività di acquisition planning sono note in catalano come normalització lingüística: e dal catalano tale definizione si è poi diffusa nel lessico scientifico delle altre lingue europee. L’espressione, secondo Stru. Come accennato, la diffusione di lingue senza tradizione orale, o create ex novo, o in situazioni residuali, può funzionare – o ha potuto funzionare – solo se accompagnata da una profonda e diffusa ideologizzazione nazionale e – cosa non meno importante – senza la concorrenza di alcun altro codice che copra le funzioni di Lh, di fatto su una popolazione semianalfabeta praticamente “dialettofona”.



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

bell (), fa diretto riferimento agli sforzi del governo autonomo tesi a rendere “normale” l’uso del catalano nella società catalana, dopo decenni di repressione politica e di massiccia immigrazione forzata di popolazioni esogene verso la Catalogna; lo scopo principale di questi sforzi è stato cioè quello di depoliticizzare una questione che i regimi precedenti avevano reso profondamente politica. Un’azione di normalizzazione linguistica mira dunque a far sì che l’uso di una determinata lingua diventi appunto normale all’interno della società, cioè che l’uso di questa lingua non sia marcato socialmente come positivo e soprattutto come negativo. CASO STUDIO



La Norma

L’esperienza catalana è interessante anche per la proposta di una campagna di acquisition planning basata al tempo stesso sul corpus e sullo status planning: tale campagna si è incentrata sull’immagine di una ragazzina, chiamata simbolicamente Norma, che negli spot o nei cartelli pubblicitari parlava, appunto, “normalmente” catalano in tutte le situazioni, in ciò promuovendo un uso “normale”, secondo la definizione esposta sopra, e contemporaneamente una lingua lessicalmente ed esplicitamente normalizzata, rivista secondo i parametri dei pianificatori. L’operazione è di status planning, in quanto mostrava la possibilità sociale del catalano di essere usato a qualsiasi livello (essendo sancita quella legale), e al contempo di corpus planning, perché cercava di rivitalizzare il lessico autoctono ormai uscito dall’uso, mentre si allontanavano i castiglianismi (con tipico procedimento nazionalista) e contemporaneamente si proponevano costruzioni morfosintattiche sentite dai normalizzatori come più tipicamente catalane. Ora, una tale operazione esplicitamente e forzatamente direttiva, che fa leva su motivi di persuasione di tipo morale, è pensabile e destinata al successo solo ed esclusivamente in una temperie politico-culturale fortemente ideologizzata: non parlare catalano in Catalogna, dopo il , ha significato essere filofranchisti, almeno fra i giovani e la classe alta, mentre volere il catalano, essere catalani e difendere l’autonomia culturale della regione voleva dire essere progressisti e di idee democratiche. A ciò si aggiunga che il periodo della fondazione dell’autonomia culturale e amministrativa ha coinciso con un momento di forte espansione economica e sociale, culminata con l’ingresso della Spagna nell’Unione Europea. Il cumulo di fattori è dunque assai peculiare e non può essere considerato normale in ogni situazione di pianificazione linguistica, così come non può essere data per scontata un’adesione ideologica sempre così entusiasta da parte della popolazione. In altri contesti, al contrario, un’operazione così esplicita come quella della “Norma” sarebbe destinata a produrre effetti nulli se non negativi.



.

ACQUISITION PLANNING

. Perché la pianificazione? Gli obiettivi di una politica di acquisition planning possono dunque variare a seconda delle circostanze e delle necessità di ogni comunità. È fondamentale però innanzitutto premettere qualche considerazione valida per ogni tipo di azione in questo senso, così come per l’impostazione di ogni politica linguistica: sostanzialmente, per chi la si fa, e con quali fini? La maggior parte delle operazioni di language planning che vengono condotte attualmente è costruita intorno a un fine conservativo, anche se spesso non dichiarato. La molla scatenante, cioè, è la paura della perdita di identità della popolazione di minoranza, colpita dalla presenza sempre più massiccia e invadente della lingua e della cultura dominante. L’idea è dunque generalmente quella di favorire la riappropriazione di miti e costumi (fra cui, fondamentale, il linguaggio), e nel contempo di limitare gli accessi dall’esterno, per paura di invasioni culturali. Il lavoro verso l’instaurazione di un particolare codice per l’uso amministrativo e ufficiale, eventualmente accostato ad altri già esistenti, in questi casi è una riappropriazione del territorio (e quindi le influenze esterne non sono gradite). Le comunità che intraprendono una pianificazione linguistica di tipo conservatore sembrano in realtà non volere, agli occhi dell’osservatore esterno, una lingua di prestigio nel senso vero: vogliono una lingua che le identifichi come diverse, e se questa viene usata da troppi parlanti esterni smetterà di essere il segno della loro diversità. Il lavoro sul prestigio della lingua minacciata è rivolto in questo caso verso il recupero di una lingua arcaica nei confronti delle generazioni giovani che non la vogliono più parlare (o eventualmente sul fatto che, grazie a legislazioni di tutela, la conoscenza della Lx procura vantaggi economici: in questo caso i vantaggi devono andare solo a favore della comunità autoctona) . . Un tipo molto particolare di tutela e conservazione linguistica è quello in cui l’intera popolazione è attaccata in maniera conservatrice e puristica alla propria varietà, considerata spesso (e talora con ragione) immobile e arcaica: la conservazione in questo caso tradisce evidentemente la paura di “invasioni” culturali da parte di nazioni o popolazioni più grandi. Un esempio interessante è dato dall’islandese: oltre all’attaccamento all’alfabeto norreno di cui si è già parlato, la paura della colonizzazione soprattutto danese ha fatto sì che tutta la politica linguistica degli islandesi (dei cittadini innanzitutto) sia improntata alla conservazione; i prestiti sono sistematicamente rifiutati a favore di calchi, anche con ripresa di termini assai obsoleti, con il risultato che parole internazionali suonano in islandese del tutto diverse: telefono = sími, radio = útvarp, polizia = lögrelu†, televisione = sjónvarp e così via.



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Più raramente questi fini sono espansivi: in questi casi la standardizzazione è in un certo senso un meccanismo di democratizzazione, perché è volta a rendere disponibile agli altri la propria lingua, dotandola di regole esplicite e riconosciute, dizionari e grammatiche. Questo è il salto logico che molte comunità di minoranza faticano a fare: perché una lingua disponibile ad altri è una lingua di prestigio, e ciò ha dei riflessi sulla percezione della comunità: la lingua che altri, esterni, vogliono imparare è una lingua che vale la pena di parlare e tramandare. In questo caso, il language planning si struttura come operazione di apertura, di proposta della lingua, di offerta: questo è il contrario della politica del “salvare la lingua della nonna”, intesa come portatrice di culture strettamente tradizional-arcaiche, dai marcatori esterni molto forti e dunque scomoda e ingombrante . Tentar di salvare la lingua della nonna significa confondere funzione comunicativa e simbolica, e di questa prendere l’aspetto più connotato e particolaristico. L’operazione, lo si è appreso confrontando una quantità di esempi europei e mondiali, è molto rischiosa: normalmente, per evidenti motivi economici e sociali, la lingua della nonna non è possibile salvarla tout court, e anzi una tale operazione presenta il rischio dell’allontanamento dei parlanti nei confronti della politica linguistica, percepita come inutile e velleitaria (o meglio, come forse molto bella sul piano teorico, ma che poi non porta a un uso effettivo della lingua – perché la lingua della nonna nella società moderna è purtroppo inutile). In altri casi, ed è forse peggio, si risvegliano pulsioni microcampanilistiche, e la lingua riformata o pianificata è continuamente criticata dai parlanti e vista come estranea – è ovvio, la lingua della nonna deve essere quella della mia nonna, ossia della mia microcomunità. Se il tentativo è quello di solleticare l’identificazione primaria, allora l’identificazione primaria va veramente solleticata. Questo processo, ovviamente, è particolarmente insidioso nel caso di comunità che si riconoscono tutte ideologicamente in una sorta di macrosistema linguistico ideale, ma di cui le varietà parlate sono variamente distribuite sul territorio; sono in sostanza quelle comunità – che sono forse la maggioranza in Europa – in cui per ragioni storiche o sociali non è prevalsa in maniera netta e precisa una varietà rispetto alle altre. In questi casi, a meno di non impostare l’opera di pianificazione in maniera particolarmente attenta e “morbida”, è semplicissimo risvegliare nei parlanti il sentimento di rifiuto che abbiamo chiamato purismo dialettale. Va altresì notato che il purismo spontaneo legato alla propria varietà non ha nulla a che vedere con la convinzione che questa lingua possa essere dotata di prestigio esterno: di fatto, anzi, uno dei criteri con i quali . Per il ruolo dei marcatori esterni cfr. Edwards (); Poppi (, ).



.

ACQUISITION PLANNING

si può distinguere se il parlante concepisce la propria varietà a livello di lingua o a livello di dialetto è il minore o maggiore grado di attenzione puristica che le riserva. È normale che le comunità in cui è in corso un’operazione di language planning sentano che la “nuova” lingua gli appartiene meno: perché la lingua rivitalizzata non deve essere principalmente e solo lo strumento per esprimere la cultura della comunità, bensì lo strumento per espandersi e partecipare alla società moderna. Di fatto però non è la lingua ufficiale a dover esprimere la cultura e la Weltanschauung di un popolo, ma la letteratura e le arti, accanto alla tradizione orale familiare e intergenerazionale (che non è e non deve essere oggetto di pianificazione – anzi, la lingua pianificata dovrebbe essere concepita come un tetto che protegge quella familiare, non un sostituto o un palliativo). Bisogna dunque scegliere quali valori si vogliono trasmettere con la varietà ufficiale: solo la lingua della nonna, della stalla o della fatica, o anche quella di un territorio moderno che, in quanto plurilingue e in qualche modo di confine, mantiene un rapporto privilegiato con altre culture e con diversi modi di vita? Il discorso, si badi, vale per la lingua target ufficiale, non per il complesso delle varietà presenti: che anzi una lingua della nonna, valorizzata a livello familiare, è ovviamente del tutto auspicabile anche dal punto di vista dell’acquisition planning. Come vedremo, in molte situazioni una politica di planning che miri a stabilizzare la diglossia può essere una scelta da prendere in seria considerazione, almeno per una lunga fase iniziale (che non è detto debba essere superata). La pianificazione linguistica dovrebbe essere, idealmente, il regalo fatto alla popolazione di un codice prestigioso in più, che si sa già usare e la cui conoscenza avvantaggia rispetto agli altri, serbatoio e tutela della varietà familiare, che può, questa sì (e da linguisti ci auguriamo che possa), essere quella della nonna. Nel dettaglio, le politiche di acquisition planning possono dunque ripartirsi in quattro tipi: il tipo “società nazionale monolingue”, il tipo “società nazionale aperta”, il tipo “società diglottica” e il tipo “società parallele”. In ogni caso, una politica linguistica può essere di tipo imperativo, quando cioè l’istituzione preposta impone le sue deliberazioni, come è tipico degli stati “forti” o dittatoriali , o incitativo, quando invece di imporre suggerisce delle soluzioni, come dovrebbe accadere nei regimi democratici (Calvet, , p. ). . Un esempio tipico di visione imperativa di politica linguistica: dice Atatürk a proposito del suo programma di rivoluzione linguistica: «Tutti coloro che cercheranno di ostacolare il mio cammino saranno schiacciati senza pietà. I miei compagni ed io sacrificheremo le nostre vite, se necessario, per il trionfo di questa causa».



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

La politica linguistica nazionalista (società nazionale monolingue) ha per scopo primario quello di diffondere la lingua nazionale in modo che essa venga usata in tutti gli ambiti scritti e orali della società; questa politica può, nel migliore dei casi, tollerare l’esistenza marginale di altre varietà. Vale forse la pena qui di ricordare brevemente l’uso, in particolari situazioni, di sistemi esplicitamente coercitivi, che utilizzano violenza verbale, psicologica e fisica nei confronti di parlanti lingue diverse da quella nazionale, sistemi che oggi in Europa sono molto sanzionati. Per la violenza verbale si pensi al noto cartello affisso nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto della città di Brest, che recitava «Défense de cracher par terre et de parler breton» ; mentre un sistema di violenza psicologica piuttosto usato nelle scuole di molti paesi d’Europa era quello di imporre un simbolo connotato come negativo (il classico cappello con le orecchie d’asino, un cartello appeso al collo, la multa di una monetina o l’obbligo di portare un oggetto ripugnante) all’alunno sorpreso a usare parole nella lingua proscritta – e tali punizioni potevano spingersi verso malversazioni fisiche, come quando si faceva inginocchiare il bambino su cocci di vetro. Particolarmente strutturato il metodo Welsh Not usato nel XIX secolo nelle scuole inglesi del Galles: ciascun bambino portava appesa al collo una piastrina, chiamata scoreen, sulla quale il maestro faceva una tacca ogni volta che il bambino era sorpreso a parlare gallese; dopo un certo periodo, si comminavano le punizioni a seconda dell’ammontare delle tacche – talora un paio di frustate a tacca . Altre volte si è proceduto con sistemi di tipo spionistico: il punito con l’oggetto infamante si accollava forzosamente il compito di girare fra i banchi per denunciare eventuali altre “mancanze”, in modo che il nuovo punito prendesse il suo posto; ciò con la duplice conseguenza di distrarre dalle lezioni i bambini già meno favoriti dal fatto di parlare una lingua diversa da quella unica dell’educazione e per questo discriminata in quella situazione scolastica e di spezzare i rapporti di solidarietà fra i parlanti. Pure a suo modo funzionale si è rivelato il sistema applicato all’inizio del secolo XX in alcune scuole della Svezia settentrionale, in cui ai bambini che avessero parlato lappone veniva negato il pasto gratuito giornaliero garantito a chi parlava svedese e sul quale le famiglie medie contavano molto per il sostentamento dei ragazzi. La costrizione linguistica può giungere, come è disgraziatamente noto, all’annientamento fisico di chi si rifiuti di passare a un’altra lingua . . «Vietato sputare per terra e parlare bretone». . Cfr. Walter (). . Negli ultimi anni si sta sempre più diffondendo, partendo dagli ambienti specialistici, una forte attenzione per la variabilità e la diversità linguistica in quanto tale, con-



.

ACQUISITION PLANNING

Invece, le azioni di acquisition planning in una società democratica dovrebbero mirare all’aumento del numero dei bi- o plurilingui attivi e non all’aumento dei parlanti di Lx a scapito di altre lingue. Le politiche a società nazionale aperta e a società parallele si applicano di solito per ridare alla Lx uno status di Lh quando questa lo abbia perso a vantaggio di un’altra lingua; la prima vuole far accedere la Lx a tutti i livelli della vita sociale e amministrativa, senza però negare ai cittadini l’accesso e l’uso, almeno come prima lingua “straniera”, della precedente lingua dominante. La seconda, auspicabile in territori dove si distinguono chiaramente due o più comunità linguistiche in compresenza e in cui però una sola lingua è quella dominante, ha lo scopo di equilibrare i rapporti sociolinguistici tra i codici, di fare dunque in modo che il gruppo linguistico in situazione di dilalia o di diglossia – che cioè fa uso della lingua maggioritaria per gli ambiti più elevati e di quella minoritaria oggetto di acquisition planning solo ed esclusivamente negli ambiti informali e orali – trasformi questa diglossia/dilalia in bilinguismo personale, usando in tutti gli ambiti scritti e orali la Lx, senza tuttavia perdere la conoscenza della Ly come lingua seconda. Parallelamente, si propone che la popolazione monolingue nella lingua maggioritaria apprenda la Lx e la sappia usare, come lingua seconda, senza rinunciare alla Ly. Nel modello di società diglottica, infine, la politica di acquisition planning rafforza la posizione di ognuna delle lingue in compresenza, ognuna nei suoi ambiti esclusivi, delimitandone con precisione le sfere d’uso sociale. Si tratta cioè di un modello di pianificazione linguistica che mira a rafforzare la Ll (sia essa il polo basso di una diglossia o di una dilalia) nei suoi ambiti d’uso caratteristici senza necessariamente tentare di escludere la Lh dalle funzioni che tradizionalmente le sono proprie, producendo così una società in cui l’uso effettivo delle lingue sia equilibrato e tendenzialmente stabile nel tempo. La possibilità teorica di una società perfettamente bilingue è invece impossibile in realtà: una tale società, in cui tutti i membri sappiano e possano usare più lingue in tutti gli ambiti e in queste si riconoscano sul piano emotivo, è socialmente antieconomica e può esistere solo in brevi periodi di transizione, quando una lingua, in precedenza dominata, sta sostituendo quella fino ad allora dominante nei rapporti di forza a causa di cambiamenti di ordine politico. Più lingue possono oggi coesistere all’interno della stessa società solo se i loro ambiti d’uso sono ben definiti dalle regole di comportamento . cepita come ricchezza e patrimonio dell’umanità. Cfr., anche se con impostazioni diverse, Junyent (); Junyent et al. (); Bastardas i Boada (); Nettle, Romaine (). . Cfr. Fishman ().



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Per quanto riguarda poi i prodotti e i servizi in lingua, è di primaria importanza la distinzione tra prodotti culturali (libri, teatro ecc.), che sono strettamente legati alla lingua e alla cultura, e altri prodotti e servizi che possiamo definire “della vita di tutti i giorni”, per i quali la lingua non è che un mezzo, puramente secondario, di comunicazione. I primi possono entrare senza problemi sul mercato, andandosi ad aggiungere ai corrispondenti prodotti culturali in Ly, mentre il labelling in Lx nei prodotti quotidiani (o la disponibilità di prodotti in lingua, come film stranieri o programmi di computer, così come la manualistica e le istruzioni per macchine più o meno complesse – i menu dei telefoni portatili, ad esempio) ha un costo economico, e inoltre tali prodotti sono in genere più difficili da reperire. In mancanza di una legge che obblighi il produttore a usare la Lx, questi lo farà solo se vedrà che i costi aggiuntivi di tale operazione gli potranno portare dei benefici di immagine e quindi di entrate (si pensi che Microsoft si è rifiutata di realizzare alcuni programmi in islandese, . parlanti, anche se invitata a far ciò dal governo). Inoltre, e questo vale per tutte le lingue a scarsa demografia, i costi di tali operazioni si riflettono sui prezzi dei prodotti: un esempio è l’elevato costo dei libri in lingue scandinave. Particolare è invece il caso dei libri in catalano, essendo Barcellona il maggiore centro editoriale del mondo ispanofono (America compresa): i costi del catalano vengono in parte fatti ricadere sulle pubblicazioni in spagnolo. Inoltre il governo autonomo della Catalogna sovvenziona le pubblicazioni in catalano comprandone per legge una certa quantità a prezzo di mercato . A questo si aggiunga che il consumatore è per definizione abitudinario e non cambia facilmente prodotto se non viene indotto al cambiamento da campagne pubblicitarie o dalla mancanza di ciò a cui era abituato. Il cambiamento di lingua di presentazione del prodotto (o del contenuto del prodotto – lingua dei programmi radiotelevisivi, ma anche del quotidiano, delle scatole del latte e così via) è un cambiamento di prodotto, e come tale ha bisogno di essere accettato dal consumatore. Bisogna infine ricordare alcuni tra gli ostacoli esterni che possono rallentare anche considerevolmente ogni azione di language planning,

. Invero, in questi ultimi anni alcune minoranze economicamente e culturalmente forti cominciano a realizzare da sole una parte degli strumenti informatici o editoriali che solo le grandi lingue di comunicazione internazionale avevano finora a disposizione. Si pensi anche solo al progetto della Real Académia Galega per un sintetizzatore di voce con risponditore telefonico automatico in galego e ai prodotti linguistici offerti da SPELL (Servisc de Planificazion y Elaborazion dl Lingaz Ladin), tra cui particolarmente interessante è il correttore ortografico in ladino.



.

ACQUISITION PLANNING

primo fra tutti il fattore psicosociale. Si è visto che una politica linguistica funziona solo se i parlanti della lingua che si vuole incrementare sono d’accordo a incrementarla: l’opposizione della popolazione è di gran lunga il più grande ostacolo a ogni tentativo di language planning, così come la volontà d’uso è il più forte fattore di conservazione di una lingua: il basco è sopravvissuto alle pressioni dei primi invasori indoeuropei, del latino sotto la dominazione romana, del visigoto, e poi dello spagnolo e del francese negli ultimi secoli. Ma ci sono anche fattori economici e politici: non si dimentichi che i diritti linguistici – benché comincino a essere considerati oggi alla stregua di diritti umani – sono assai meno fondamentali di altri diritti come quello alla vita, alla salute, alla casa, al lavoro, alla libertà di espressione. Parlare di salvare una lingua quando la situazione economica e politica è precaria o in declino è inutile se non dannoso. Al contrario, è fondamentale legare la politica linguistica tesa a valorizzare una lingua di minoranza alla ripresa e al progresso economico della regione. Ai problemi politico-economici si aggiungano quelli demografici ad essi legati: l’emigrazione dalle zone di origine della Lx di grandi masse di popolazione verso zone ricche di altra lingua o viceversa l’immigrazione di popolazioni alloglotte verso la regione centrale di Lx, ricca, ma in cui Lx è in situazione di minoranza sociale e giuridica, porta a un rapido abbandono della stessa da parte dei parlanti e alla mancanza di apprendimento da parte dei nuovi arrivati.  Nascita di una lingua: il macedone  CASO STUDIO

Nel , nel corso di un incontro ufficiale svoltosi a Kjustendil presso il confine, il presidente della neonata Repubblica di Macedonia Kiro Gligorov ebbe un colloquio con l’allora presidente bulgaro -elju -elev. Quest’ultimo non aveva con sé l’interprete, perché – in Bulgaria lo sanno tutti – il macedone non è altro che una varietà dialettale del bulgaro, neppure troppo diversa e perfettamente comprensibile. Di contro, Gligorov l’interprete l’aveva portato, dal momento che il bulgaro è per un macedone una lingua straniera, incomprensibile al pari, poniamo, del francese o del tedesco. In effetti, i rapporti fra la situazione linguistica e quella sociolinguistica del macedone sono davvero interessanti (e ricordiamo che su questi rapporti si basa l’attività di language planning): di fatto Gligorov e -elev hanno, su piani diversi, ragione entrambi. Ora, il macedone, dopo qualche tentativo di differenziazione all’inizio del secolo, ha una data di nascita ufficiale in quanto lingua standard autonoma: il  dicembre , giorno di chiusura del congresso – tenuto per iniziativa del maresciallo Tito – che appunto ne ha sancito l’esistenza e il riconoscimento legale accanto a serbocroato e sloveno come lingua della Repubblica socialista di Iugoslavia .



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Prima della seconda guerra mondiale l’insieme delle varietà parlate in quella che è ora la Macedonia – e ai suoi confini in Grecia, Albania e Bulgaria – erano state considerate, a vario titolo e con maggiori o minori argomenti linguistici, varianti ora del bulgaro e ora del serbo . Dialetti del serbo erano per la Iugoslavia d’anteguerra, del bulgaro per i bulgari – e bisogna dire con alcune ragioni, giacché grammaticalmente le due varietà sono estremamente simili, anche se non proprio identiche . Da qui il fatto che il presidente -elev non ritenne di aver bisogno dell’interprete; tuttavia, rivendicazioni di autonomia politica e culturale, e di conseguenza linguistica, si possono scorgere già all’inizio del XX secolo: è del  un’opera di Krste Misikrov, Za makedonckite raboti (Questioni macedoni), che impostava uno standard linguistico basato sulla varietà di Bitola. Tali rivendicazioni continuarono per tutta la prima metà del Novecento, ma proprio dal punto di vista del rapporto fra linguistica e sociolinguistica sarà interessante notare che vi è effettivamente una certa differenza fra parlate in qualche modo bulgare (situate a est dello spazio linguistico che stiamo considerando) e parlate latamente macedoni (poste più a ovest); il problema è che il bulgaro letterario, basato sulla varietà della capitale Sofija, è dialettalmente tipo macedone, ossia appartiene alle parlate occidentali. Un bulgaro “autentico”, per così dire, va cercato più a est, intorno allo standard della città di Veliko Trnovo, ma per motivi storici e politici non è diventato lingua nazionale della Bulgaria. Dunque l’iniziativa di Tito – appunto la creazione di una repubblica di Macedonia autonoma all’interno dello stato iugoslavo, anche se concepita in funzione espressamente e geopoliticamente antibulgara e in qualche misura antiserba  – ha avuto un esito assai vasto. Ora la nazione macedone, e dunque la “nazionalità macedone”, e dunque la comunità linguistica, e dunque la lingua, perché tale è la normale evoluzione di queste cose, sono assolute realtà, riconosciute da tutti (tranne che dalla Bulgaria e dalla Grecia ) e soprattutto assai sentite dalla popolazione macedone. Il fatto di essere una diversa nazione ha tra l’altro permesso alla Macedonia di uscire relativamente indenne dal conflitto balcanico (beninteso, con l’eccezione delle guerre kossovo-albanesi). Certo, in termini strettamente grammaticali il presidente macedone non ha bisogno dell’interprete per capire il bulgaro, dato che è quasi la sua lingua madre; ma le tradizioni scritte sono ormai differenti e, parallelamente a quanto accade al serbo rispetto al croato, le norme linguistiche delle due repubbliche tendono a divergere sempre più. Vedremo solo rapidamente il caso dell’alfabeto, emblematico, come tutta la vicenda della lingua macedone, della pianificazione linguistica tramite Ausbau. Il macedone utilizza, per ovvi motivi di contiguità geografica e religiosa (cfr supra, PAR. .), l’alfabeto cirillico, come il serbo e il bulgaro; rispetto a quest’ultimo, tuttavia, appunto in funzione differenziante, è stato dotato di una grafia fonetica piuttosto che etimologica, in parte ricalcante la norma del serbo: possiede, e li abbiamo notati, i due diacritici {u´, r´} per esprimere le occlusive alveopalatali laminate (di cui le affricate del serbo sono un’evoluzione), e soprattutto utilizza un vecchio segno dell’antico slavo ecclesiastico, lo {s}, per in-



.

ACQUISITION PLANNING

dicare la [dz]: innovazione del  questa, promossa da Tito per ribadire il possesso dell’antica terra e del culto madre degli slavi. È proprio con operazioni di questo tipo che si tese a riappropriarsi del passato mitico – nel contempo però esaltando un laico razionalismo – ancora in funzione antibulgara e antialbanese, e nel contempo con azione nobilitante per la Iugoslavia, di cui la Macedonia faceva parte: perché il macedone veniva posto come, almeno alfabeticamente, diretto discendente dell’antico slavo ecclesiastico in Occidente. Comunque sia nata e qualunque sia la considerazione linguistico-dialettale della sua lingua, recentissimamente la Macedonia si è dovuta confrontare con l’esigenza di assicurare rappresentanza politica innanzitutto, e poi anche linguistica, alla forte minoranza albanese, diffusa soprattutto al Nord e all’Ovest del paese. Dopo gli scontri del - fra gli attivisti albanesi e l’esercito macedone, la questione delle lingue dello stato rimane argomento controverso, nonostante gli accordi fra le parti raggiunti con la mediazione di OSCE e UE. La proposta consiste nel definire l’albanese come lingua ufficiale della Repubblica attraverso una revisione costituzionale che dovrebbe garantire lo status di lingua ufficiale a ogni lingua che sia parlata almeno dal % della popolazione del paese, ossia al momento macedone e albanese; i dati statistici oggi disponibili danno infatti la consistenza della popolazione di lingua albanese attorno al % del totale , anche se fonti non ufficiali albanesi indicano percentuali molto superiori. Fra le proposte in via di attuazione c’è quella di istituire un’università di lingua albanese a Tetovo, storica capitale della Macedonia albanese. . Questo caso studio è tratto, con adattamenti anche sostanziali nell’ultima parte, da Iannàccaro (b). . Cfr. Friedman (); Kramer (). . La legislazione linguistica del Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni (Iugoslavia dal ) considerava l’area geografica che adesso è la Repubblica di Macedonia come «dialettale serba» (Friedman, ). . Potrebbe essere interessante una microcomparazione. Si ponga mente al sistema numerale delle due lingue. Bulgaro

Bulgaro (traslitt.)

Cifra

Macedone (traslitt.)

Macedone

tlby ldf npb xtnbpb gtn itcn ctltv jctv ltdtn ltctn tlbyfltctn ldtltctn cnj [bkzlf

edin dva tri cetiri pet &est sedem osem devet deset edinadeset dvedeset sto hiljada

             .

eden/edna/edno dva/dve tri cetiri pet &est sedum osum devet deset edinadeset dvadeset sto iljada

tlty/tlyf/tlyj ldf/ldt npb xtnbpb gtn itcn ctlyv jcyv ltdtn ltctn tlbyfltctn ldtltctn cnj bkjflf



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

. La costruzione della Macedonia rispose anche alla necessità di riequilibrare i rapporti fra la Serbia e le altre repubbliche federate: la creazione di una nuova unità ha impedito alla Serbia di essere demograficamente troppo forte e di aumentare ulteriormente la propria influenza all’interno della Federazione. . I due stati riconoscono politicamente la Repubblica di Macedonia, ma la Bulgaria non riconosce l’esistenza di una “lingua macedone”, che viene considerata “norma regionale” (Friedman, , p. ), e la Grecia ha a lungo, anche tramite infruttuosi appelli all’Unione Europea, contestato la denominazione dello stato, sostenendo che la dizione “Macedonia” deve essere riservata all’omonima regione greca. Di fatto il nome è tuttora bandito dai documenti interni greci. In tema di nomi, sarà interessante osservare che all’inizio del XIX secolo i primi autori che, abitando nelle regioni che oggi sono la Macedonia e la Bulgaria, volevano scrivere in una lingua più vicina a quella parlata (e non più in antico slavo ecclesiastico, in arabo o in turco), chiamavano questa lingua “bulgaro” e la riconoscevano dotata di minime varianti locali. . I censimenti disponibili sono quello iugoslavo del  e quello dell’OSCE (), che concordano sostanzialmente sull’albanese mentre presentano differenze sulla consistenza della minoranza turca.

. Reversing language shift Ora, il language planning, nella sua forma migliore, può essere visto come un’operazione consapevole, supportata da parlanti e da istituzioni che sentono la necessità di mutare i rapporti di forza fra lingue compresenti nello stesso territorio o la forma interna di un particolare codice, in genere al fine di rivitalizzare e modernizzare un linguaggio in difficoltà che viene sentito come particolarmente significativo per la comunità che tradizionalmente lo parla . Questo linguaggio, vale la pena di notarlo, non deve essere necessariamente molto diverso da quelli circostanti: deve però essere sentito come diverso dai parlanti (e diverso poi lo diventerà col tempo, per via di elaborazione). L’opera di pianificazione linguistica dunque, viaggiando su due binari, conferisce status ufficiale (in vari gradi) alla lingua oggetto di elaborazione e la dota di strumenti linguistici atti a far fronte alle nuove funzioni che deve ricoprire. Gli interventi di language planning, insomma, costituiscono delle azioni consapevoli e volontarie sulla lingua (corpus planning) o sui rapporti tra le lingue in compresenza. Soprattutto, il problema è quello di invertire la deriva linguistica, il processo di cambio, lo shift continuo fra una lingua X che perde status e funzioni e una Y che ne acquista sempre di più a danno della prima, . Lo sforzo non può essere sostenuto solo dalle istituzioni, per gli ovvi motivi di accettazione sui quali abbiamo insistito, e neppure solo dai parlanti, che non hanno alcun potere legale.



.

ACQUISITION PLANNING

passando da monolinguismo X a diglossia X > Y, a diglossia Y > X, a dilalia, a monolinguismo Y. Il momento cruciale per il mantenimento di una lingua (o per una buona politica di reversing language shift, “inversione della deriva linguistica”) è allora la spontanea tradizione della stessa da madre a figlio – o in un momento molto iniziale l’acquisizione sociale spontanea, cioè l’apprendimento della lingua X in giovane età anche al di fuori del rapporto genitori-figli attraverso il gruppo dei pari: se questa trasmissione manca, l’opera di rivitalizzazione è inutile, perché, dovesse pure riuscire, provoca una situazione di tipo irlandese, in cui c’è una quantità di persone che statisticamente è in grado di parlare la lingua – perché è obbligata a impararla a scuola –, ma poi in realtà non lo fa nella vita reale. Il rischio cioè è quello di incrementare la conoscenza della lingua, ma non il suo uso. Fishman () propone uno schema a otto caselle, messe in ordine di gravità di situazione (cfr. infra, TAB. .). Un passo intermedio fondamentale è considerato il raggiungimento di un regime di diglossia, che solo poi, acquisito l’automatismo di tradizione linguistica intragenerazionale, potrà, se necessario, essere superato. Invero, come è ovvio e come chiunque abbia esperienza sul terreno può riscontrare, il problema risiede nella trasmissione della lingua attraverso le generazioni, e perciò il punto centrale è il sesto. Va notato che questo punto (come i precedenti  e ) è ancora sotto il completo controllo della comunità; ed è talora appunto la comunità che – per motivi pragmatici – non vuole la rivitalizzazione linguistica se questa le viene presentata come una sostituzione di una varietà più utile nei confronti di una meno spendibile. Ora, fra gli errori più tipici e cruciali nel language planning c’è quello di concentrarsi troppo sugli stadi più alti dello schema, ossia di procedere oltre troppo presto senza aver consolidato lo stadio . Anzi, spesso si riscontra uno sforzo esplicito dei pianificatori volto a far sì che venga superata molto presto la situazione di diglossia per motivi di prestigio della lingua stessa presso i pianificatori (in particolare se sono attivisti locali), secondo il modello dello stato nazionale monolingue. Al contrario, in uno stadio iniziale questa è benefica, perché protegge la lingua X proprio nella sua trasmissione spontanea. Inoltre, per fare una politica linguistica che sia operativa agli alti livelli dello schema presentato sopra c’è bisogno della collaborazione istituzionale della comunità di maggioranza, e questa può non essere, se la richiesta giunge prematura, sensibile a tali istanze. Oltretutto, questo significa mettersi subito in diretta contrapposizione con la lingua Y, e dati il suo maggior status, le sue funzioni più ampie e i più ricchi strumenti a sua disposizione, questo non può che essere assai svantaggioso per X, anche presso i parlanti X-ico. 

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

. Passaggi per il reversing language shift (RLS)* TABELLA

Dal basso in alto (da  a ), secondo la gravità della situazione . Scuola, lavoro, mass media e ambito legale al massimo dello sviluppo su scala nazionale . Mass media e ambito legale a livello locale/regionale . Ambito di lavoro locale/regionale (non semplice vicinato), sia fra X-esi, sia fra Y-esi b. Scuole pubbliche per bambini X-foni che offrono istruzione in X-ico, ma sostanzialmente sotto il controllo di istituzioni Y-che a. Scuole al posto dell’educazione obbligatoria e sostanzialmente sotto il controllo X-ico II. RLS PER TRASCENDERE LA DIGLOSSIA (UNA VOLTA RADICATA)

(. Scuole per l’acquisizione dell’alfabetizzazione, per vecchi e giovani e non al posto dell’educazione obbligatoria) . L’ambito intragenerazionale e demograficamente concentrato casa-famiglia-vicinato: la base per la trasmissione della madrelingua . Interazioni culturali in X-ico che coinvolgano principalmente le vecchie generazioni all’interno della comunità . Ricostruzione dell’X-ico e dell’acquisizione adulta dell’X-ico I. RLS PER RAGGIUNGERE LA DIGLOSSIA (DOPO UNA CHIARIFICAZIONE IDEOLOGICA)

* Secondo la convenzione usata sopra, con X si intende la lingua target e con Y la lingua dominante nell’area; di conseguenza, X-ico = “relativo alla lingua X” e così via.

Spesso, poi, si pospone la fase  (cioè l’instaurarsi della diglossia e della trasmissione spontanea della lingua) fino a che è troppo tardi per tornare indietro, ossia fino a quando le altre fasi sono ufficialmente completate ma non c’è trasmissione spontanea. Si ritarda cioè, con una lotta impari, la stabilizzazione della diglossia fino a quando non si può ormai più capitalizzare un numero abbastanza alto di parlanti giovani nativi che abbiano voglia di far fare il salto alla lingua, col rischio di non guadagnare parlanti, ma persone che usino la lingua X come occasional second language. In effetti, dal punto di vista del parlante, non si vede perché usare una lingua di alto status ma di nessuna funzione esclusiva quando c’è una lingua Y prestigiosa e già pronta. E la principale (se non unica) funzione esclusiva iniziale che una lingua oggetto di pianificazione può assicurarsi è appunto quella della solida trasmissione in ambito familiare e intergenerazionale. 

.

ACQUISITION PLANNING

Bisogna però chiedersi se lo stadio  sia suscettibile di planning, perché si riferisce all’intimità delle famiglie e alla spontaneità, e “pianificare la spontaneità” è di per sé un’operazione curiosa; d’altra parte, si notava sopra che questo stadio presenta il vantaggio di essere completamente sotto il controllo della comunità di minoranza: non c’è bisogno di alcuna collaborazione istituzionale né di alcuna rivendicazione morale o politica perché la lingua sia tramandata a livello familiare; dunque, se una pianificazione linguistica vuole riuscire, deve assicurarsi la collaborazione dei parlanti in questo stadio minimo ma fondamentale, rendendo appetibile e facile l’uso della lingua X. A questo proposito, vale la pena di ricordare la distinzione proposta da Schiffman () fra overt level of language policy, livello esplicito di politica linguistica, con il quale si intende la pianificazione ufficiale, su larga scala, come portata avanti da stati, leggi e istituzioni, e covert level of language policy, politica linguistica coperta, quella cioè praticata dai singoli, da piccole associazioni o, come talora accade, da tutta la società civile contrapposta a quella politica. La non accettazione, a livello personale, delle iniziative di language planning, così come, al contrario, la tenace volontà di mantenere il passaggio generazionale diretto per la Lx, sono ottimi esempi del manifestarsi di questo livello coperto. . Il plurilinguismo amministrativo . Un luogo comune all’interno degli studi di pianificazione linguistica vuole che non si possano dare indicazioni generali di tipo operativo, ma che bisogna rifarsi invece caso per caso alle diverse realtà locali e impostare politiche e azioni diverse a seconda delle effettive situazioni con cui si viene in contatto. Ciò è sicuramente vero, almeno in parte: in effetti, come abbiamo sempre notato, è proprio lo studio attento delle particolari condizioni che caratterizzano l’uso linguistico nelle diverse comunità e il costante riferimento alla mutevole volontà della popolazione uno dei prerequisiti fondamentali per ogni azione di planning non impositivo che voglia avere qualche possibilità di riuscita. È poi sicuramente vero che, fatte salve poche regole che sostanzialmente rimandano alla tipologia linguistica e alla linguistica comparativa, non è possibile dare a priori alcuna indicazione sul trattamento del corpus planning di una qualunque varietà; sarà risultato chiaro dalla lettura delle parti precedenti che le scelte di chi si accinge a intervenire su ortografia, fonologia, morfologia, sintassi e lessico della varietà da standardizzare sono estremamente delicate ed evidentemente legate alle particolari condizioni in cui la lingua potrà essere adoperata. 

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Del pari, è estremamente difficile indicare vie astratte per lo status planning: intanto per la banale ma importante considerazione che il linguista non ha potere diretto di intervento, nella maggioranza dei casi, sull’attività legislativa di uno stato moderno; in più, a parte le indicazioni di massima che possono essere tratte da documenti come la European Charter, è evidente che le diverse legislazioni nazionali impongono trattamenti appunto legislativi e amministrativi di tipo differente. Qualcosa però si può suggerire per l’acquisition e l’implementation planning. Sebbene anche in questo campo la valutazione dei bisogni e delle risposte delle singole e diverse comunità parlanti sia uno strumento fondamentale, tuttavia può essere utile proporre una sorta di indicazione di quali ambiti di impiego, astrattamente e in linea preliminare, possono essere valutati per l’implementazione del bi- o plurilinguismo nella società. Accenneremo dunque a possibili ambiti di incremento di funzioni della lingua oggetto di tutela (come sopra Lx), cioè gli ambiti che possono essere coinvolti dal bi- o plurilinguismo amministrativo, legislativo e sociale: in pratica, le situazioni più tipiche che una legge sulla tutela linguistica o un amministratore attento dovrebbero prevedere. Nella maggioranza dei casi, infatti, non è sufficiente che una legge enunci in maniera astratta «anche la Lx sarà lingua della scuola»: bisogna considerare le ricadute e le conseguenze effettive delle affermazioni di legge e predisporre una serie di norme e regolamenti applicativi per rendere effettive le possibilità offerte dalla legge. Citeremo una quantità di ambiti differenti: è chiaro però che ogni singola politica linguistica può voler istituzionalizzare la Lx solo in alcuni di questi ambiti e non in altri. Questo principalmente per due motivi: potrebbe essere l’amministrazione centrale di uno stato nazionale a volere, pur concedendo diritti linguistici fondamentali alle minoranze, limitare l’uso e lo status delle lingue minori a particolari ambiti o luoghi geografici. Potrebbe però essere la stessa comunità a non ritenere necessaria un’implementazione dell’uso del proprio codice in tutti gli ambiti possibili, o perché interessata al mantenimento o al rafforzamento di un’esistente diglossia (giusta le indicazioni di Fishman, si pensi alla situazione della Svizzera tedesca), oppure perché si riconosce, sul proprio stesso territorio, troppo piccola a fronte degli altri gruppi, coi quali non vuole creare eccessive frizioni (come potrebbe essere il caso della popolazione di lingua soraba della Sassonia e del Brandeburgo). Partiamo dunque dall’ambito legislativo e amministrativo. Nella redazione delle leggi si può volere implementare la Lx in ambito puramente locale (come nel caso dei tre comuni croatofoni del Molise), a livello regionale (come nel caso del tedesco in Alto Adige o del frisone in 

.

ACQUISITION PLANNING

Frisia), a livello statale (ad esempio il romancio in Svizzera, che pur essendo una varietà limitata a livello locale gode però di tutela in ambito federale) o addirittura a livello internazionale, come per il catalano, che aspira a diventare lingua coufficiale dell’Unione Europea. L’implementazione della Lx può anche voler essere promossa nei soli ambiti legislativi legati a una specifica comunità etnica che si vuole portatrice della lingua: ad esempio, si ricorderà che le normative riguardanti la comunità di lingua svedese in Finlandia sono redatte esclusivamente in svedese, mentre quelle della comunità tedesca del Belgio sono in tedesco e francese (ma non in fiammingo). . Innanzitutto, nei rapporti tra la pubblica amministrazione e gli utenti è chiaramente primario assicurare la possibilità che le comunicazioni orali tra le parti siano mantenute nella lingua di elezione dell’utente, fra quelle consentite dalla legge; ciò significa evidentemente che coloro che lavorando nell’amministrazione sono a contatto con il pubblico dovrebbero essere preparati a interloquire con gli utenti in tutti i codici riconosciuti – che non significa solo conoscere grammaticalmente le lingue del territorio, ma averne una competenza piena, dei registri formali e tecnici come di quelli informali. Bisogna però porre attenzione a non posporre la funzione alla forma, ossia a non allontanare il bravo lavoratore solo perché inizialmente non bilingue. Particolarmente sensibile è l’ambito della sanità: una situazione possibilmente da evitare è quella, ad esempio, della Valle d’Aosta, in cui per formale obbligo di bilinguismo italiano-francese il reclutamento di medici e infermieri è assai difficoltoso. Per quanto riguarda poi il versante scritto, più ancora delle stesse leggi – la cui redazione bilingue è comunque il prerequisito ineludibile – sono le delibere, gli atti amministrativi e ogni bando diretto al pubblico a dare visibilità alla lingua: ad esempio, l’avviso di convocazione di un consiglio comunale affisso nelle vie e nelle piazze in tutte le lingue ufficiali della comunità ha senz’altro un impatto assai forte, in termini di afficher la langue, sulla percezione che hanno i parlanti dei rapporti tra i codici usati. Altrettanto importanti, proprio in quanto visibili e a disposizione dell’utente, sono la modulistica e le comunicazioni scritte dirette al pubblico. Per queste, come per molti altri ambiti in cui la parte fisica delle lingue viene a contatto con gli utenti, si pone il problema di decidere se i documenti prodotti dai vari livelli delle amministrazioni debbano essere scritti in diverse redazioni ognuna monolingue o in un’unica redazione plurilingue. Nel primo caso si assicura teoricamente a ogni codice lo stesso trattamento e, nel caso di forti sbilanciamenti di prestigio tra i codici, l’almeno formale completa equiparazione; questa soluzione po

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

trebbe rivoltarsi però contro la lingua più debole quando i testi scritti in questa siano ignorati dalla grande maggioranza della popolazione. Inoltre, il dover scegliere e usare una lingua piuttosto che un’altra negli atti ufficiali potrebbe creare discriminazioni verso gli utenti di uno dei codici. La redazione di documenti bilingui, d’altro canto, presenta il problema di una molto minore leggibilità e nettezza di redazione e ha in più lo svantaggio di far sembrare in qualche modo sotto tutela la lingua più debole, che non compare mai da sola, ma sempre accompagnata dalla sua “sorella maggiore”. In compenso, assicura una piena comprensibilità a tutti gli utenti e un’effettiva parità di trattamento a tutti i codici, dal momento che la lingua minore è comunque proposta a tutti i potenziali lettori. I modelli di società bi- o plurilingue che soggiacciono ai due diversi sistemi di redazione degli atti per il pubblico sembrano poi puntare verso direzioni differenti: la redazione di documenti diversi monolingui parrebbe configurare una società in cui coesistono sullo stesso territorio comunità distinte, ognuna delle quali potenzialmente quasi monolingue (ed è il caso della Finlandia, del Belgio, dell’Alto Adige); sembra anche essere tipico di comunità plurilingui in cui entrambi i codici siano grandi lingue di comunicazione. Di contro, l’opzione di redigere testi plurilingui sembra prefigurare una società unica in cui i codici sono teoricamente a disposizione di tutta la comunità: sembra anche più adatta per la promozione, almeno temporanea, di lingue minori, appunto perché assicura loro una forte visibilità presso tutta la popolazione e nel frattempo evita di rendere palesi eventuali scompensi eccessivi nella fruizione dei due codici. Di ancora maggiore presa simbolica e funzionale è la redazione di testi tipicamente legati alla sfera dell’amministrazione centrale: bisogna quindi considerare la stesura plurilingue di testi quali, in ordine di valore simbolico crescente, modulistica, regolamenti, schede, cartelli e tessere elettorali, certificati anagrafici, documenti di identità, patenti di guida, passaporti. Stigma di alto riconoscimento è realizzazione plurilingue di monete e banconote, caratteristica che è tuttavia propria di pochi paesi, anche fra quelli che assicurano ampi diritti alle proprie minoranze. . C’è poi tutto il versante, di grande impatto visivo, della cartellonistica stradale e pubblica; la presenza di scritte plurilingui è una delle prime richieste che avanzano le amministrazioni o i gruppi di pressione a favore delle Lx, ma la decisione di approntare una cartellonistica bilingue o nella lingua oggetto di tutela deve essere vagliata accuratamente. Intanto il primo rischio che si corre è quello di “scrivere in dialetto”, ossia di prevedere cartelli che marcano l’inizio dei paesi o indicazioni stradali nelle Lx dotati di un aspetto grafico diverso da quello che caratte

.

ACQUISITION PLANNING

rizza i cartelli nella lingua di maggioranza, spesso usando caratteri di fantasia, colori o sfondi non ortodossi. Sovente l’iniziativa di scrivere in dialetto – ossia nella lingua locale idiosincratica del particolare insediamento e senza che ci sia stata una sanzione legale o ufficiale per l’uso di tale lingua e che ne sia stata fissata la forma – è intrapresa da singole amministrazioni, generalmente per progetti a sfondo propagandistico a breve termine. Questo crea di fatto una proliferazione di forme e apparenze distinte che punta da un lato decisamente al localismo nei confronti degli abitanti delle diverse località (che in questo modo vengono sensibilizzati esclusivamente verso la propria realtà e non verso l’eventuale comunità sovralocale, pur di minoranza) e induce nel viaggiatore un parallelismo tra lingua locale e un mondo da sagra paesana. Operazioni come queste sono spesso addirittura dannose per il prestigio della varietà locale, che viene esplicitamente confinata al rango di (eventualmente bel) dialetto: l’impressione che si ottiene normalmente in questi casi è quella di un’indicazione folkloristica ad uso del turista. Se cartellonistica bilingue deve essere, sia allora una cartellonistica ufficiale in cui le differenti lingue presenti abbiano esattamente lo stesso aspetto grafico, in cui i cartelli siano plurilingui, non solo nella toponomastica ma anche nelle indicazioni stradali (ad esempio le scritte esplicative dei cartelli, come «strada sdrucciolevole in caso di neve o gelo»). In ogni caso, i cartelli bilingui o in Lx devono essere assolutamente uguali a quelli diffusi su tutto il territorio nazionale. Per l’uso toponomastico si possono distinguere diverse opzioni: . uso della toponomastica in lingua minoritaria solo nell’area di pertinenza della minoranza e solo per i toponimi riferiti all’area di minoranza (endonimi); . uso della toponomastica in lingua minoritaria nell’area di pertinenza della minoranza, anche per i toponimi esterni all’area di minoranza (esonimi); . i toponimi espressi nella Lx sono forme ufficiali su tutto il territorio dello stato e vengono sempre riportati sui cartelli anche al di fuori dell’area di minoranza; . i toponimi sono indicati sempre e solo nella forma ufficiale del luogo in cui sono situati i cartelli. La TAB. . esemplifica le prime tre tipologie delineando le loro possibili applicazioni nell’alta valle del fiume Cordevole, in provincia di Belluno, che, in seguito alla legge /, deve predisporre toponomastica bilingue italiano-ladino e che è adiacente a un’area di bilinguismo italiano-tedesco. Prendiamo in esame i toponimi (in ordine: italiano, tedesco e ladino) Livinallongo (del Col di Lana)/Buchenstein/Fodom, Bressanone/Brixen/Persenon e Trento/Trient/Trent. 

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

. Opzioni di toponomastica TABELLA

Cartello a Livinallongo/Fodom Tipo 

Livinallongo/Fodom

Bressanone

Trento

Tipo 

Livinallongo/Fodom

Bressanone/Persenon

Trento/Trent

Cartello a Trento Tipi  e 

Livinallongo

Tipo 

Livinallongo

Bressanone/Brixen

Trento

Tipo 

Livinallongo/

Bressanone/Brixen

Trento/Trient

Bressanone

Trento

Cartello a Bressanone/Brixen

Buchenstein Ovunque Tipo 

Livinallongo/Fodom

Bressanone/Brixen

Trento

La tipologia  si distingue dalla  nei casi in cui le località si trovino in regioni monolingui di lingue differenti (cfr. la discussione riguardo alla Finlandia al CASO STUDIO ). Diverso è il caso della microtoponomastica e dei cartelli con indicazione dei nomi di via, in particolare in centri storici e di interesse antropologico o locale, in cui la presenza di indicazioni di microtoponomastica storica e tradizionale anche in forme non standard sia nell’aspetto esterno sia nella realizzazione linguistica può anzi costituire un surplus di valore identitario e di promozione turistica. In questi casi, però, di preferenza tale denominazione locale dovrebbe sostituire completamente anche nei suoi risvolti amministrativi (cambiamento dei documenti dei residenti, indirizzari e così via) quella altrimenti regolare. . Le indicazioni stradali non sono l’unico momento in cui l’amministrazione pubblica espone la lingua: una grande visibilità danno anche i cartelli e le iscrizioni che caratterizzano gli uffici pubblici o comunque destinati all’uso del pubblico, come municipi, scuole, ospedali, biblioteche, centri culturali ecc. Le occasioni di esposizione esterna della lingua vanno in questi casi dalla grande scritta esterna murale (Municipio, Ospedale) a piccole indicazioni puramente di servizio riguardanti gli orari di apertura di determinati uffici o la direzione da prendere in un corridoio. Una pianificazione linguistica attenta, in questi casi, cercherà, pur rispettando eventuali cartelli o affiches di valore storico, di provvedere il più possibile all’unificazione e alla standardizzazione lin

.

ACQUISITION PLANNING

guistica e grafica delle scritte e indicazioni esposte al pubblico; una tale uniformazione, è stato verificato, ha una forte presa sulla percezione degli utenti di costituire una comunità, e nel contempo fornisce al visitatore esterno un’impressione di compattezza interna e di alterità rispetto alle aree circostanti. È inoltre importante che le misure prese per l’implementazione della lingua oggetto di pianificazione nell’amministrazione pubblica vengano fatte applicare da parte delle istituzioni anche agli enti che eventualmente detengano in concessione servizi di pubblica utilità. Lo stesso uso della Lx in documenti, contratti, comunicazioni agli utenti e modulistica varia che viene fatto dall’amministrazione pubblica è bene sia previsto anche da parte delle società che forniscono servizi quali quello postale, telefonico, di energia elettrica, acqua o gas, ed eventualmente anche trasporti pubblici, banche e assicurazioni. La condizione ideale vorrebbe che fossero rispettate anche le convenzioni sul plurilinguismo adottate dalla pubblica amministrazione, ossia la redazione di un solo documento bi- o plurilingue o di più documenti monolingui, a seconda delle condizioni e delle convenzioni sociali e legali. La necessità di rispettare le stesse convenzioni per tutti i documenti di uso pubblico porta a qualche considerazione interessante che finora abbiamo passato sotto silenzio: l’ordine delle lingue. Fermo restando che ovviamente la collocazione e il tipo di supporto sul quale compaiono le lingue determina in maniera anche molto profonda il loro ordine di esposizione, in situazione di minoranza linguistica all’interno di uno stato nazionale è normalmente meno marcata, e soprattutto sentita come appropriata dagli appartenenti stessi alla minoranza, una disposizione che vede la lingua nazionale al primo posto e la lingua locale al secondo; ciò in particolare negli atti amministrativi piuttosto lunghi, nei formulari, nei documenti ufficiali e così via. Tuttavia, non deve essere necessariamente considerato come marcato negativamente o come del tutto inusuale o eccessivamente localistico il fatto di porre la lingua locale in posizione di preminenza in alcune brevi iscrizioni generalmente descrittive di luoghi e funzioni di ambito locale, come «Comune» o «Biblioteca», o in brevi indicazioni all’interno degli uffici pubblici («Ufficio del sindaco», «Ufficio tecnico»); e questo a maggior ragione se le istituzioni dove compaiono le scritte sono esclusive della comunità di minoranza (gilde, vicinie, regole, corporazioni) o direttamente pertinenti alla lingua e alla cultura di minoranza, come musei o centri culturali. In questi casi, anzi, la presenza al primo posto anche di un codice di recente normalizzazione può essere facilmente accettata e anzi ritenuta normale da tutti gli utenti, a patto naturalmente che vengano rispettate quelle esigenze di ufficialità, omogeneizzazione e non-dialettalità che abbiamo vi

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

sto a proposito dei cartelli stradali. In sostanza, se un parlante frisone può trovare curioso, nei primi tempi di ufficialità di tale lingua, un modulo da compilare in cui ci sia il frisone in posizione di preminenza, apprezzerà sicuramente e non troverà inappropriato un cartello davanti alla porta del sindaco che recita “Boargemaster – Burgemeester”, “sindaco” rispettivamente in frisone e olandese. Anzi, una disposizione contraria potrebbe persino, in alcuni casi, dar luogo a sentimenti di colonialismo linguistico. . Queste considerazioni, centrate sulla situazione classica di minoranza all’interno di uno stato nazionale, possono essere adattate anche ad altre situazioni; va tuttavia tenuto presente che, nel caso di grandi lingue di cultura in posizione di minoranza, le dinamiche possono essere anche piuttosto differenti. In effetti, l’ordine delle lingue può essere più o meno marcato nelle diverse società a seconda delle tradizioni linguistiche e culturali che le contraddistinguono, e ne vedremo adesso rapidamente qualche breve esempio. In Finlandia l’ordine delle lingue nella redazione dei testi nell’amministrazione pubblica è, come in tutte le questioni riguardanti il plurilinguismo, meticolosamente regolato dalla legge: nelle comunità bilingui la lingua della maggioranza della popolazione deve essere posta in posizione preminente, ossia in alto o a sinistra rispetto all’altra; ovviamente, se cambia la composizione demografica della comunità cambia anche l’ordine delle lingue nelle affissioni pubbliche, comprese la denominazione delle vie e la toponomastica stradale. Al contrario, i documenti cartacei diretti al singolo cittadino, dal biglietto del treno alla cartella delle tasse, sono in genere monolingui a seconda della lingua di preferenza dell’utente. Nella regione di Bruxelles, come è noto, il francese e il nederlandese godono legalmente degli stessi diritti: di conseguenza, a causa del precario equilibrio tra le due comunità etnico-linguistiche, ogni cartello è obbligatoriamente stampato in due versioni diverse, entrambe bilingui, ma una con il francese in posizione preminente e una con la preminenza del nederlandese. I cartelli sono poi posti in punti diversi ma ugualmente visibili nei luoghi pubblici. Come succede anche in Finlandia, anche a Bruxelles i documenti che l’amministrazione pubblica destina ai singoli utenti sono generalmente monolingui. Meno puntualmente definita è una situazione come quella dell’Alto Adige, in cui ufficialmente italiano e tedesco godono degli stessi diritti, ma in cui si nota una tendenza da parte dell’amministrazione dello stato ad anteporre l’italiano nei documenti e nelle scritte bilingui, efficacemente controbilanciata dalla preferenza molto netta dell’amministrazio

.

ACQUISITION PLANNING

ne autonoma provinciale per l’ordine tedesco-italiano, alla quale si allineano di norma i comuni; un recente regolamento provinciale sui cartelli stradali sancisce l’ordine tedesco-italiano per tutto l’Alto Adige e ladino-tedesco-italiano per le valli Badia e Gardena. La Catalogna tende, come si è visto, all’uso esclusivo del catalano quando questo sia anche solo implicitamente permesso dalla legge; nel caso di redazioni obbligatoriamente bilingui il catalano è generalmente in posizione di preminenza. È interessante la peculiare e accuratamente progettata situazione delle scritte nell’aeroporto internazionale di Barcellona, dove le tre lingue ufficiali (le due iberiche con l’inglese, lingua veicolare degli aeroporti internazionali) sono disposte utilizzando ordine, tipo di carattere e colore in modo tale che a nessuna delle tre venga riconosciuta dall’utente una priorità visiva. Da ultimo, per la sua precisione nella definizione del trattamento delle lingue ufficiali rispetto all’ordine da utilizzare, ci piace citare la legislazione linguistica del Kazakistan, che prescrive l’assoluta e costante preminenza del kazako rispetto al russo: in particolare il kazako (che usa l’alfabeto cirillico) deve trovarsi in ogni atto, cartello, legge o iscrizione, anche sui prodotti commerciali, in alto o a sinistra rispetto al russo, con dimensione non più piccola di quest’ultimo e con un colore o tipo di carattere non meno evidente o attraente. È chiaro che una tale severità punitiva trova una parziale spiegazione nella quasi assoluta preminenza accordata al russo in periodo sovietico, nonostante le condizioni di formale bilinguismo. . L’esempio kazako dà l’occasione di ricordare che anche il labelling dei prodotti commerciali  può essere argomento di pianificazione linguistica esplicita da parte delle pubbliche amministrazioni, e anzi spesso lo è, anche in quei paesi che non si pongono il problema della tutela delle lingue minori o del plurilinguismo amministrativo. Si dà infatti generalmente per scontato che le informazioni di legge sui prodotti in commercio siano redatte nelle lingue ufficiali dei paesi: i casi normali sono quelli esemplificati da Francia e Italia, che richiedono rispettivamente la presenza del francese e dell’italiano nelle etichette e nelle istruzioni dei prodotti. Meno ovvio sembra invece essere il fatto che le stesse indicazioni siano date anche nelle lingue regionali o di ambito più locale; nel caso, tuttavia, di territori che vedono la compresenza di più grandi lingue di cultura, sia pure con alcune in situazione di minoranza, queste compaiono normalmente tutte sulle confezioni, come ad . Cfr. il Catherine wheel model (supra, PAR. .).



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

esempio in Canada che, anche per questioni di protezionismo nei confronti degli Stati Uniti, impone l’uso contemporaneo del francese e dell’inglese. Questo tipo di legislazione, e di conseguenza la visibilità di lingue diverse sulle etichette e nei foglietti illustrativi dei prodotti, ha conosciuto una notevole fortuna dopo i cambiamenti politici dell’Europa centro-orientale agli inizi degli anni novanta del XX secolo: l’Europa ha così potuto “vedere” l’esistenza di lingue quali lo slovacco, il macedone o il lettone. A questo quadro generale si affiancano però situazioni di taglio diverso: la prima tipologia è quella in cui il labelling dei prodotti è ammesso dalle istituzioni e di fatto tollerato dai consumatori in un numero di lingue minore di quelle ufficiali. È il caso, ad esempio, della Svizzera, in cui spesso le indicazioni sono date esclusivamente in tedesco e francese (una importante catena cooperativa di supermercati ha però basato parte del suo successo sull’uso paritario di tedesco, francese e italiano, ma non ancora del romancio). Di contro, si danno situazioni di effettiva presenza di lingue demograficamente meno diffuse il cui uso non è obbligatorio: ci sono esempi di prodotti venduti in Spagna con indicazioni in quattro lingue, castigliano, catalano, basco e galiziano. Un caso particolare è rappresentato dalla catena catalana di supermercati Caprabo, il labelling dei cui prodotti è solo in una lingua non prevista dalla legislazione sulle attività commerciali, naturalmente il catalano; tale uso è saldo negli anni a dispetto delle sanzioni pecuniarie comminate alla catena per l’assenza dello spagnolo, ampiamente compensate dall’incremento di vendite dovuto a motivazioni ideologiche. Un esempio interessante ci viene dalla Scandinavia, dove, grazie alla Convenzione sulle lingue nordiche del , tutti i cittadini di Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca (comprese la Groenlandia e le Fær Øer) hanno la possibilità di interagire oralmente e per iscritto ognuno nella propria lingua con la pubblica amministrazione anche negli altri paesi; una tale norma, anche per questioni di scarsa conoscenza da parte del pubblico, non ha dato i risultati sperati nella società civile, ma è stata molto utile alle aziende commerciali multinazionali, le quali hanno instaurato un sistema peculiare che prevede la redazione monolingue delle etichette, in genere in danese o in svedese, con indicazioni, se del caso, nelle altre lingue solo dei singoli items lessicali non immediatamente comprensibili. . Non bisogna poi dimenticare che le operazioni di rivitalizzazione linguistica, come tutte le altre in cui sia coinvolta una larga fetta della popolazione e la pubblica amministrazione, hanno dei costi economici e in termini di risorse umane. Una delle difficoltà pratiche più frequente

.

ACQUISITION PLANNING

mente riportate nei contesti di sviluppo effettivo del plurilinguismo amministrativo è legata al fattore tempo: redigere un documento in più lingue e mantenere in qualche modo un doppio canale amministrativo è operazione che necessita – soprattutto nelle sue fasi iniziali di implementazione – uno sforzo organizzativo e un impegno temporale notevole. Nella pratica, il singolo impiegato pubblico si trova a dover compiere negli stessi tempi di lavoro più attività rispetto a prima (se si esclude il caso, fortunato ma raro, di consistenti aumenti di personale): da qui l’esigenza più volte riportata di maggiore flessibilità da parte degli alti gradi amministrativi riguardo al lavoro effettivo degli impiegati e la richiesta spesso avanzata di incentivi economici. Un tale trattamento, si noti, da un punto di vista teorico non avrebbe motivo di sussistere: anzi, l’amministratore locale dovrebbe essere gratificato solo per il fatto di poter finalmente lavorare nella sua lingua. Spesso parte di queste difficoltà possono essere superate con l’istituzione di centri di coordinamento e supporto alle singole realtà locali, centri che oltretutto garantirebbero quell’uniformità e omologazione di soluzioni che abbiamo più volte ritenuto una caratteristica piuttosto importante. Sicuramente la fase iniziale è quella più critica, in modo particolare quando si tratti di inserire un nuovo codice, non mai impiegato in precedenza per usi amministrativi e nel quale gli amministratori non sono abituati a scrivere; in questi casi anche l’incentivazione della comunicazione personale, anche per iscritto, tra gli impiegati può essere un modo per rendere, alla catalana, “normale” l’uso della lingua di nuova codificazione. Come tutte le iniziative a largo respiro, anche la pianificazione linguistica a livello amministrativo può essere soggetta a valutazione. Una corrente di studi che fa ora riferimento a Grin  si sta attualmente occupando di tali questioni; non che manchino, nella letteratura recente, opere o riflessioni di esplicita valutazione di alcune campagne di language planning nei paesi europei, ma tali studi abbracciano generalmente un punto di vista diremmo “interno”, ossia un approccio decostruttivo delle ideologie esplicite o implicite che soggiacciono a una campagna di rivitalizzazione. Ciò porta a una valutazione delle misure specifiche che sono state prese alla luce interpretativa di tali ideologie, piuttosto che in termini assoluti. Al contrario, un approccio valutativo di tipo economico porta a verificare gli effetti delle politiche di planning in termini di unità di riferimento costanti (nel caso particolare, unità di tempo in cui viene usata la lingua minoritaria), permettendo così valutazioni com. Dopo una prima fase “sperimentale” negli anni sessanta. Cfr. Rubin, Jernudd (); bibilografia piú recente in Grin, Vaillancourt ().



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

parative. Partendo da questa base, con metodologie che qui non possono essere approfondite ma che hanno risvolti formali piuttosto interessanti , si può procedere a un’analisi delle operazioni di planning condotta in termini di costi-benefici, oggettivizzati e comparabili. Per fare un esempio, nonostante l’impatto simbolico molto forte che ciò ha comportato, la sostituzione, in Galles, dei cartelli stradali monolingui inglesi con altri bilingui inglese-gallese o gallese-inglese non si è rivelata una strategia economicamente conveniente (in termini appunto di costo per abitante vs. occasioni d’uso della lingua) in comparazione ad altre (in particolare all’operazione di promozione linguistico-commerciale attuata nella città di Galway: cfr. supra, CASO STUDIO ). Lo studio gallese aveva evidenziato infatti che i cartelli stradali sono effettivamente assai presenti sul territorio e hanno contribuito al suo aspetto e alla sua atmosfera particolare: tuttavia, l’attenzione che ad essi si è dedicata è stata piuttosto breve e superficiale e il loro impatto – senza che fossero supportati da altre iniziative di implementation planning – sull’incremento dell’uso effettivo della lingua è stato piuttosto modesto, soprattutto appunto in termini di costi-benefici. . Memorandum «Le leggi in quanto tali non sono sufficienti per assicurare la sopravvivenza di una comunità linguistica. Non si possono obbligare i cittadini a trasmettere ai figli la propria lingua, ad esempio, o assicurare che i ragazzi in età scolare imparino davvero la lingua che studiano. E neppure si può essere certi che una legge farà sì che la gente usi effettivamente una determinata lingua» .

. Cfr. Grin, Vaillancourt (). . «Laws in themselves are not sufficient to ensure the survival of a linguistic community. One cannot force citizens to pass their language on to their children, for instance, or ensure that schoolchildren really do learn the language they study. Nor can one be certain that a law will actually make people use a language» (Strubell, in Labrie, , p. ).



Appendice Schede linguistiche dei paesi europei

Le schede proposte nel PAR. A. presentano brevemente la situazione sociolinguistica e legale delle varietà utilizzate nei paesi europei , seguendo lo schema qui riportato. Stato: nomi ufficiali dello stato. Lingue ufficiali: lingue ufficiali dell’amministrazione statale. Lingue ufficiali regionali: lingue ufficiali solo in alcune regioni o territori. Altre lingue riconosciute: altre lingue riconosciute ma usate solo sporadicamente per usi ufficiali, o ufficiali esclusivamente in territori limitati. Lingue dell’educazione: lingue in cui viene impartita l’educazione in istituzioni monolingui o bilingui, eventualmente limitate ad alcune aree del paese. Altre lingue usate nell’educazione: lingue sporadicamente presenti nella scuola come lingue d’insegnamento per poche ore di cultura locale o come materia di studio (sono escluse le lingue di comunicazione internazionale non autoctone). Diritto linguistico: riferimenti alle principali leggi e normative in ambito linguistico. Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: date della firma e di eventuali ratifica ed entrata in vigore. Lingue riconosciute nel trattato Situazione sociolinguistica: breve descrizione della situazione sociolinguistica del paese.

Per la terminologia sociolinguistica ci si può rifare alle definizioni del PAR. A.; ogni situazione sociolinguistica viene caratterizzata anche da una particolare rappresentazione grafica.

. Con l’eccezione di Federazione Russa, Armenia, Azerbaigian e Georgia.



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

A. Rapporti fra i codici

Si ha una situazione di monolinguismo quando una sola lingua è usata nella società sia per la comunicazione orale sia per quella scritta: le variazioni diatopica e diastratica sono piuttosto limitate e il parlante tende a (o ritiene di) esprimersi anche negli ambiti più informali secondo le norme fonetiche, grammaticali e sintattiche della lingua scritta, le uniche considerate corrette e utilizzabili in ogni circostanza. È una situazione piuttosto rara nel mondo, ma presente in Europa (si pensi alla Francia) e nell’America settentrionale. Nel PAR. A. abbiamo classificato alcune aree sotto la denominazione di monolinguismo con residui di dilalia: sono quelle realtà in cui a una generale situazione di monolinguismo si affiancano, in modo residuale presso la popolazione più anziana in aree rurali, fenomeni di dilalia. MONOLINGUISMO

BILINGUISMO È la situazione (largamente teorica) per cui due o più codici si distribuiscono paritariamente all’interno della stessa società, occupando entrambi sia i domini alti sia quelli bassi. Il bilinguismo paritario territoriale è possibile se due popolazioni, con scarsi rapporti reciproci, si dividono lo stesso spazio – ma anche in questo caso si sviluppano presto gerarchie fra le lingue in concorrenza; laddove è rarissima l’eventualità di società compattamente e omogeneamente bilingui, perché è antieconomico il rapporto fra i codici che si verrebbe a creare. DIGLOSSIA Due codici, coscientemente diversi per il parlante, si spartiscono gli ambiti comunicativi secondo precise regole sociali; l’acroletto è usato esclusivamente negli ambiti più formali, il basiletto in quelli più informali. Pochi o nessuno sono gli ambiti di uso di entrambi i codici. Il livello di formalità in cui avviene il passaggio da un codice all’altro può variare da società a società: quando, col passare del tempo, si riscontra una tendenza della Lh a occupare ambiti più bassi prima esclusivi della

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società

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Ll (con possibilità di passaggio dalla diglossia alla dilalia), possiamo dire che la DIGLOSSIA è di tipo H > L (acroletto più forte del basiletto) – situazione riscontrabile nel Veneto rurale o nelle città austriache. Se viceversa è il basiletto a guadagnare ambiti sull’acroletto – come nella Svizzera tedesca – possiamo parlare di DIGLOSSIA di tipo L > H (con una possibile tendenza verso la diacrolettia). Un particolare caso di diglossia è quello della Norvegia, in cui ai dialetti scandinavi occidentali (Ll) si affiancano due lingue letterarie scritte, il bokmål e il nynorsk (o due sistemi di norme per la stessa lingua, il norvegese). DILALIA Si riscontra quando in una società coesistono due codici ben definiti dai parlanti con nomi diversi (diversi glottonimi o semplicemente lingua e dialetto) i quali si dividono gli ambiti comunicativi in modo non equilibrato: l’acroletto (Lh) è l’unico codice scritto e l’unico orale per gli ambiti alti, ma il suo uso anche nelle situazioni informali e come lingua di socializzazione primaria appare normale (o addirittura positivo) ai parlanti; il basiletto (Ll), invece, può essere usato esclusivamente per gli ambiti meno formali, spesso con frequenti sovrapposizioni e mescolanze di codice (si pensi alla situazione normale tra lingua e dialetti in Italia). DIACROLETTIA Al fine di meglio classificare le situazioni linguistiche europee abbiamo adottato un termine nuovo per caratterizzare quelle realtà in cui a una Lh limitata esclusivamente al polo alto della comunicazione si affianca un codice adatto a tutti gli ambiti, da quelli più informali all’uso scritto. A partire dagli ultimi decenni del XX secolo questa tipologia sembra in espansione, in particolare in quei territori che hanno conosciuto un repentino rivolgimento politico con un conseguente cambiamento nei rapporti di forza tra le lingue in compresenza sul territorio. È il caso, ad esempio, dei catalanofoni della Catalogna, per i quali il catalano – già Ll – si è trasformato in Lh senza però escludere il castigliano dagli ambiti più alti.

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società

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con L > H H ambiti

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con H > L

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ambiti

LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

DIALETTIA Il codice scritto e quello parlato vengono riconosciuti dai parlanti sotto lo stesso nome, ma le lievi variazioni diatopiche e diastratiche nell’uso orale sono socialmente necessarie e talora marcate positivamente: il parlante dovrà usare la variante della lingua standard secondo le modalità (non standard) della classe socioculturale di cui fa parte o dell’area geografica in cui vive pena l’(auto)esclusione dalla comunità dei parlanti. Quando le differenze linguistiche sono più marcate socialmente, cioè il parlante riconosce nell’interlocutore prima di tutto la sua collocazione sociale, possiamo parlare di dialettia sociale (si pensi alla situazione inglese); quando invece la variazione diatopica risulta più forte di quella sociale, quando cioè il parlante riconosce nell’interlocutore soprattutto l’origine geografica, possiamo definire la dialettia diatopica (si pensi alla Toscana).

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ambiti

società

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sociale H

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diatopica

Alcune situazioni di dilalia, diglossia o diacrolettia si caratterizzano inoltre per la presenza di più di due codici nel repertorio dei parlanti: nel PAR. A. si parlerà di dilalia, diglossia e diacrolettia a tre (o quattro) elementi – acroletto (Lh), mesoletto (Lm), basiletto (Ll) – piuttosto che di triglossia o simili (si pensi rispettivamente alle situazioni del Lussemburgo, del Friuli o della Ladinia dolomitica). Inoltre, sullo stesso territorio possono convivere più comunità linguistiche gli usi linguistici di ognuna delle quali possono ricadere in una delle definizioni viste sopra: si pensi alle aree urbane dell’Alto Adige, in cui la popolazione di lingua tedesca è in situazione di diglossia (H > L) fra tedesco (Lh) e dialetti austrobavaresi (Ll), mentre gli italiani sono fondamentalmente monolingui (fatta salva la conoscenza della lingua dell’altro gruppo etnico-linguistico come L). A. I paesi europei ALBANIA

(Shipëria)

Lingua ufficiale: albanese. Lingua dell’educazione: albanese. Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «La lingua ufficiale della Repubblica di Albania è l’albanese». Situazione sociolinguistica: nel Sud del paese diglossia dialetti toschi [L]/albanese [H], nel Nord diglossia dialetti gheghi [L]/albanese [H]. L’albanese

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letterario è basato sul ghego, mentre dal  lo standard ufficiale della Repubblica di Albania è basato sul tosco. Negli ultimi anni si sono riaccese le discussioni su quale debba essere lo standard. La differenziazione dialettale all’interno dell’albanese è molto grande e tra varietà gheghe e tosche l’intercomprensione è spesso impossibile. Per le esigue (?) comunità di lingua greca, macedone e arumena sparse nel Sud e nell’Est del paese: diglossia albanese [H]/dialetti toschi o gheghi [M]/dialetti delle minoranze [L]. ANDORRA (Andorra) Lingua ufficiale: catalano. Lingue dell’educazione: catalano, francese, spagnolo.

Diritto linguistico: Costituzione, art. .: «La lingua ufficiale dello stato è il catalano». Legge sull’uso della lingua ufficiale, in particolare art. .: «Tutti gli andorrani hanno il dovere di conoscere la lingua catalana». Situazione sociolinguistica: dialettia diatopica per gli andorrani (meno di un terzo della popolazione totale) e i cittadini spagnoli di lingua catalana; spagnolo e francese come L. Per francofoni e ispanofoni il catalano è L. Lo spagnolo è la lingua più usata nel Principato. Ad Andorra esistono quattro sistemi educativi differenti: uno pubblico spagnolo (dipendente da Madrid) in cui la lingua d’insegnamento è il castigliano; uno privato di diritto spagnolo in catalano; uno pubblico francese (dipendente da Parigi) in francese; uno andorrano trilingue. AUSTRIA (Österreich) Lingua ufficiale: tedesco. Lingua ufficiale regionale: sloveno. Altre lingue riconosciute: croato, ungherese. Lingue dell’educazione: tedesco, sloveno, ungherese, croato.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «Il tedesco è – senza compromissione per i diritti delle minoranze garantiti dalle leggi federali – la lingua ufficiale della Repubblica». Volksgruppengesetz BGBI Nr. / (legge sui gruppi etnici). Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre ; ratifica  giugno ; entrata in vigore ° ottobre . Lingue riconosciute nel trattato: croato (Burgenlandkroatisch), sloveno, ungherese, ceco, slovacco, roma. Situazione sociolinguistica: diglossia [H > L] dialetto [L]/tedesco [Hochdeutsch] [H]. Per le popolazioni di lingua minoritaria: dialettia diatopica o dilalia con bilinguismo tra variante locale della lingua minoritaria [sloveno, ungherese, croato] [L]/dialetti tedeschi [M]/lingue di minoranza nella loro forma standard [sloveno, ungherese, croato] [H]/tedesco [Hochdeutsch] [H].



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

BELGIO (België/Belgique/Belgien) Lingue ufficiali: nederlandese, francese, tedesco. Altra lingua riconosciuta: lussemburghese. Lingue dell’educazione: nederlandese, francese, tedesco. Altra lingua usata nell’educazione: vallone.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «Il Belgio è composto da tre Comunità: la Comunità germanofona, la Comunità fiamminga e la Comunità francese»; art. : «Il Belgio è composto da quattro regioni linguistiche: la regione di lingua tedesca, la regione di lingua francese, la regione di lingua nederlandese e la regione bilingue di Bruxelles-capitale». Norme di applicazione: legge  giugno  sull’uso delle lingue in ambito giudiziario; legge  luglio  sull’uso delle lingue nell’amministrazione; legge  settembre  sull’uso del tedesco nell’amministrazione giudiziaria; legge di riforma istituzionale per la Comunità germanofona del Regno di Belgio del  dicembre  (rev.  e ); Taalunie (Verdrag tussen het Koninkrijk België en het Koninkrijk der Nederlanden inzake der Nederlandse Taalunie, ondertekend te Brussel op  september ) (Unione linguistica tra Paesi Bassi e Fiandre). Situazione sociolinguistica: diglossia [L > H] dialetti fiamminghi/nederlandese [olandese] nelle Fiandre e per i fiamminghi delle aree bilingui con consistente presenza del francese come L. Monolinguismo francese nella Vallonia francofona e presso i francofoni delle aree bilingui (con residui di dilalia dialetti romanzi [vallone] [L]/francese [H]) nelle aree rurali. Diglossia dialetti mediotedeschi [L]/tedesco (Hochdeutsch) [H] con francese prima L presso i germanofoni della Vallonia. BIELORUSSIA (Belarus’) Lingua ufficiale: bielorusso. Lingua ufficiale regionale: russo. Altra lingua riconosciuta: polacco. Lingue dell’educazione: russo, bielorusso.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «. La lingua ufficiale della Repubblica di Bielorussia è il bielorusso. . La Repubblica di Bielorussia salvaguarda il diritto di usare liberamente il russo come lingua della comunicazione interetnica»; art. .: «Ogni cittadino ha il diritto di usare la propria lingua madre e di scegliere la propria lingua di comunicazione. In accordo con la legge lo stato garantisce la libertà di scegliere la lingua dell’educazione e dell’insegnamento». Situazione sociolinguistica: dilalia bielorusso [L]/russo [H] nelle città, diglossia nelle aree rurali; il bielorusso trova limitata applicazione come Lh in alcuni ambiti amministrativi e letterari. Per le minoranze polacca e ucraina: dilalia lingua di minoranza [L]/bielorusso [M]/russo [H].

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La comunità che si definisce polacca si distingue dalla maggioranza bielorussa per la religione (cattolica e non ortodossa) più che per tratti linguistici. BOSNIA ERZEGOVINA (Bosna i Hercegovina) Lingue ufficiali: bosniaco, croato, serbo. Lingue dell’educazione: bosniaco, croato, serbo.

Situazione sociolinguistica: dialettia diatopica tra dialetti slavi meridionali e lingue standard. Il bosniaco e il croato standard, scritti in caratteri latini, non si distinguono tra loro che per qualche rarissimo tratto lessicale. Il serbo si distingue da bosniaco e croato fondamentalmente per l’uso dell’alfabeto cirillico. BULGARIA (Ba˘lgarija) Lingua ufficiale: bulgaro. Altra lingua usata nell’educazione: turco.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «Il bulgaro è la lingua ufficiale della Repubblica»; art. : «. Lo studio e l’uso della lingua bulgara è un diritto e un dovere di ogni cittadino bulgaro. . I cittadini di lingua diversa da quella bulgara hanno il diritto di studiare e usare la loro propria lingua accanto allo studio obbligatorio della lingua bulgara». Situazione sociolinguistica: dialettia diatopica dialetti bulgaro-macedoni/bulgaro nell’Ovest del paese. Dilalia dialetti bulgari [L]/bulgaro [H] nell’Est. Per le minoranze: diglossia variante locale della lingua di minoranza [L]/(dialetti bulgari [M])/bulgaro [H]. CIPRO (Kypros/Kibris) Lingue ufficiali: greco, turco. Altra lingua riconosciuta: armeno. Lingue dell’educazione: greco, turco.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. .: «Le lingue ufficiali della Repubblica sono il greco e il turco». Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre ; ratifica  agosto ; entrata in vigore ° dicembre . Lingue riconosciute nel trattato: armeno. Situazione sociolinguistica: diglossia [L > H] dialetti greco-ciprioti [L]/greco ´ per gli ellenofoni (oggi in genera(dhmotik´h) [H]/(greco [kaqareuousa]) le per la parte Sud dell’isola). Dialettia diatopica per i turcofoni del Nord. I turco-ciprioti d’origine (meno della metà della popolazione della Repubblica di Cipro Nord) hanno spesso i dialetti greco-ciprioti come L.

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

CROAZIA (Hrvatska) Lingua ufficiale: croato. Altre lingue riconosciute: albanese, tedesco, bulgaro, ceco, ungherese, italiano, macedone, polacco, romanes, rumeno, russo, ruteno, slovacco, sloveno, serbo, turco, ucraino. Lingua dell’educazione: croato.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «La lingua croata e l’alfabeto latino sono di uso ufficiale nella Repubblica di Croazia». Nelle singole unità amministrative locali un’altra lingua e l’alfabeto cirillico o altro alfabeto possono, nelle modalità previste dalla legge, essere usati per funzioni ufficiali accanto alla lingua croata e all’alfabeto latino. Legge costituzionale sui diritti umani, le libertà e i diritti delle comunità o minoranze etniche e nazionali (rev. ). Carta dei diritti dei serbi e delle altre nazionalità (). Legge sull’educazione nelle lingue e negli alfabeti delle minoranze nazionali (). Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre ; ratifica  novembre ; entrata in vigore ° marzo . Lingue riconosciute nel trattato: italiano, serbo, ungherese, ceco, slovacco, ruteno, ucraino. Situazione sociolinguistica: monolinguismo croato o dialettia diatopica sulla costa adriatica tra varianti locali di (serbo)croato e croato standard. Dialettia diatopica o dilalia, con bilinguismo, presso le comunità di lingua italiana, ungherese, ceca, slovacca, ruteno-ucraina e (istro)rumena (variante locale della lingua di minoranza [L]/lingua di minoranza nella sua forma standard [H]/croato [H]). DANIMARCA (Danmark) Lingua ufficiale: danese. Lingue ufficiali regionali: feroico, groenlandese (inuit). Lingue dell’educazione: danese, tedesco, feroico, groenlandese (inuit).

Diritto linguistico: Statuto di autonomia delle Fær Øer (), art.  (feroico): dichiarazione del governo di Danimarca sullo statuto della minoranza tedesca in Danimarca (). Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre ; ratifica  settembre ; entrata in vigore ° gennaio . Lingue riconosciute nel trattato: tedesco. Situazione sociolinguistica: monolinguismo (con dialettia diatopica nello Jylland) danese. Presso la comunità di lingua tedesca del Sud del paese esiste una situazione di dilalia con bilinguismo dialetto danese [L]/tedesco (Hochdeutsch) [H]/danese [H]. Monolinguismo feroico con danese prima L alle Fær Øer. Presso la popolazione inuit della Groenlandia diglossia tra varianti locali di inuit [L]/inuit standard [H]/danese [H].

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La lingua ufficiale delle Fær Øer è il feroico; il danese può essere usato accanto al feroico nell’amministrazione. Nella scuola è obbligatorio l’insegnamento del danese come L. In Groenlandia sono ufficiali groenlandese e danese. ESTONIA (Eesti) Lingua ufficiale: estone. Lingua ufficiale regionale: russo. Altre lingue riconosciute: tedesco, svedese, jiddisch. Lingue dell’educazione: estone, russo, tedesco.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «La lingua ufficiale dell’Estonia è l’estone»; art. : «Le minoranze etniche hanno il diritto, nell’interesse della loro cultura nazionale, di stabilire istituzioni di autogoverno secondo le modalità previste dalla legge sull’autonomia culturale delle minoranze etniche»; art. : «. Ognuno ha il diritto di rivolgersi all’amministrazione pubblica e di ricevere risposta in estone. . Nelle località in cui almeno metà della popolazione appartiene a una minoranza etnica ognuno ha il diritto di comunicare, nei rapporti con l’amministrazione locale e con quella statale, nella lingua della comunità di minoranza»; art. : «. La lingua ufficiale dello stato e delle amministrazioni locali è l’estone. . Nelle località in cui la lingua della maggioranza della popolazione non è l’estone, l’amministrazione locale può fare uso della lingua della maggioranza della popolazione residente nei limiti e nei modi previsti dalla legge». Legge  ottobre  sull’autonomia culturale delle minoranze etniche (tedeschi, russi, svedesi e ebrei). Legge  settembre  sulla scuola dell’obbligo e secondaria superiore. Legge  febbraio  sulla lingua. Situazione sociolinguistica: presso la comunità di lingua estone (% della popolazione): dialettia diatopica o diglossia varietà locali di estone [L]/estone [H] nelle regioni di Tartu e di Võru con russo L. Nelle aree urbane: diacrolettia estone [HL]/russo [H]. Monolinguismo russo con estone L presso la minoranza russa. Dilalia ucraino o bielorusso [L]/russo [H] presso le comunità di ucraini e bielorussi con estone come L. La piccola minoranza di lingua svedese del Nord-ovest del paese è quasi interamente emigrata in Svezia con l’annessione dell’Estonia da parte dell’Unione Sovietica. FINLANDIA (Suomi/Finland) Lingue ufficiali: finlandese, svedese. Lingua ufficiale regionale: lappone. Lingue dell’educazione: finlandese, svedese, lappone.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «. Le lingue nazionali della Finlandia sono il finnico e lo svedese. [...] . I lapponi, in quanto popolazione autoctona, così come i rom e altri gruppi etnici, hanno il diritto di mante-

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

nere e sviluppare la propria lingua e la propria cultura. [...] I diritti delle persone che fanno uso del linguaggio dei segni o di persone che necessitano traduzione o interpretazione a causa di disabilità fisica sono garantiti dalla legge»; art. .: «Il finnico e lo svedese sono le lingue del Parlamento». Legge / sulla lingua (in sostituzione della legge /) [cfr. supra, CASO STUDIO ]. Legge / sull’autonomia della provincia di Åland, Capitolo VI, Disposizioni relative alla lingua (artt. -), art. : «la lingua amministrativa della provincia è lo svedese». Legge sull’uso della lingua lappone nei rapporti con l’amministrazione pubblica (). Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre ; ratifica  novembre ; entrata in vigore ° marzo . Lingue riconosciute nel trattato: lappone, svedese, romanes. Situazione sociolinguistica: dialettia diatopica per i finnofoni. Dilalia dialetti svedesi di Finlandia [L]/svedese [H] presso la comunità di lingua svedese (% della popolazione del paese); diglossia nelle aree non urbane dell’Österbotten. Presso i lapponi (saami): dilalia lappone [L]/finnico [H] (con eventuale evoluzione verso la diacrolettia lappone [HL]/finnico [H] o la diglossia con bilinguismo varietà locale di lappone [L]/lappone [H]/finnico [H]). FRANCIA (France) Lingua ufficiale: francese. Altre lingue riconosciute: còrso, alsaziano, basco, occitano, catalano, bretone. Lingua dell’educazione: francese. Altre lingue usate nell’educazione: còrso, tedesco, basco, occitano, catalano, bretone, alsaziano.

Diritto linguistico: legge / (loi Deixonne, abrogata) (lingue e dialetti locali nell’insegnamento), art. : «[...] zone d’influenza del bretone, del basco, del catalano e della lingua occitana». Legge / sulla collettività territoriale della Corsica, artt.  e  (lingua e cultura còrse). Legge / sull’uso della lingua francese (francese). Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  maggio . Situazione sociolinguistica: monolinguismo francese con, nelle aree rurali, tracce più o meno residuali di dilalia, più evidenti nelle regioni meridionali (sono coinvolti dialetti d’oïl e d’oc, bretoni, nederlandesi, medio- e basso-tedeschi, liguri, catalani e baschi). Dilalia in Corsica (còrso [L]/francese [H]) e in Alsazia (alsaziano [alemannico] [L]/francese [H]). Residui di presenza del tedesco come H in Alsazia e Lorena (ma ancora diffuso come L). GERMANIA (Deutschland) Lingua ufficiale: tedesco. Altre lingue riconosciute: sorabo, frisone settentrionale, saterfriesisch, basso-tedesco, danese.

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Lingue dell’educazione: tedesco, sorabo, danese. Altra lingua usata nell’educazione: frisone. Diritto linguistico: dichiarazione del governo della BRD sullo statuto della minoranza danese in Germania (). Costituzione del Land Schleswig-Holstein (): art.  (danese, frisone); art.  (rev. ) (basso-tedesco). Costituzione del Land Sachsen. Costituzione dello stato del Brandeburgo, art. : «Diritti dei sorabi. . È garantito il diritto del popolo sorabo alla protezione, mantenimento e sviluppo della propria identità e al proprio territorio [...]. . Nel territorio d’insediamento della popolazione soraba l’uso della lingua soraba è obbligatorio negli atti pubblici [...]». Costituzione dello stato libero di Sassonia (), art. .: «Il popolo dello stato libero di Sassonia comprende cittadini di nazionalità etnica tedesca, soraba o di altra nazionalità [...]»; art. : «I cittadini di nazionalità etnica soraba che vivono sul territorio dello stato sono parte integrante della popolazione. Lo stato promuove e protegge il diritto al mantenimento della propria identità così come allo sviluppo della propria lingua, cultura e dei costumi in particolare attraverso la scuola e le istituzioni prescolari e culturali». Legge sull’implementazione dei diritti dei sorabi nello stato del Brandeburgo (). Legge sulla Rundfunk Brandenburg (televisione e radio) (). Legge sulle scuole dello stato del Brandeburgo (). Ordinanza amministrativa dello stato del Brandeburgo sulle attività nelle scuole sorabe e nelle altre scuole in territorio tedesco-sorabo (). Decreto del ministro-presidente dello stato libero di Sassonia sulla creazione di una istituzione per il popolo sorabo ( ottobre ). Legge sulla scuola nello stato libero di Sassonia (). Ordinanza del ministero della Cultura dello stato libero di Sassonia sulle attività nelle scuole sorabe e nelle altre scuole in territorio sorabo (). Regolamento dei comuni dello stato libero di Sassonia (). Legge sugli ambiti culturali dello stato libero di Sassonia (). Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre ; ratifica  settembre ; entrata in vigore ° gennaio . Lingue riconosciute nel trattato: danese, alto-sorabo, basso-sorabo, frisone settentrionale, frisone meridionale (saterfriesisch), romany, basso-tedesco. Situazione sociolinguistica: diglossia dialetti alto-tedeschi [L]/tedesco (Hochdeutsch) [H] nel Sud del paese, in particolare in Baviera. Dilalia dialetti altotedeschi [L]/tedesco (Hochdeutsch) [H] nei Länder del Centro-nord e dell’Est. Dilalia dialetti basso-tedeschi [L]/tedesco (Hochdeutsch) [H] nei Länder settentrionali. Tendenza al monolinguismo nelle grandi città. Diacrolettia sorabo [HL]/tedesco (Hochdeutsch) [H] presso la popolazione di lingua soraba, sempre in minoranza anche nelle aree di popolamento tradizionali. Dilalia dialetti frisoni [L]/dialetti basso-tedeschi [M]/tedesco (Hochdeutsch) [H] presso le comunità frisoni dello Schleswig e a Saterland. Diacrolettia danese [HL]/(dialetti basso-tedeschi) [M]/tedesco (Hochdeutsch) [H]. Il sorabo ha due forme standard scritte, il basso-sorabo e l’alto-sorabo.

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

GRECIA

(Elláda)

Lingua ufficiale: greco. Lingue dell’educazione: greco, turco. Situazione sociolinguistica: monolinguismo con residui di dilalia dialetti greci [L]/greco (dhmotik´h) [H]. La dilalia è più diffusa nelle regioni periferiche e sulle isole. Diacrolettia turco [HL]/greco [H] presso la comunità musulmana di lingua turca. Dilalia dialetti bulgari [L]/(turco [H])/greco [H] presso la comunità pomaca. Dilalia dialetti albanesi [L]/greco [H] presso gli arvaniti. Dilalia macedone [L]/greco [H] presso i macedoni. La situazione di diglossia tipica della Grecia del XX secolo (dialetti neogreci [L]/ greco (kaqareuousa) ´ [H]), spesso presa a modello nella letteratura sociolinguistica, è stata superata negli ultimi vent’anni con la diffusione capillare della dhmotik´h, lo standard greco basato sui dialetti moderni, in particolare quello di Atene. IRLANDA (Éire/Ireland) Lingue ufficiali: irlandese, inglese. Lingue dell’educazione: inglese, irlandese.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «. La lingua irlandese, in quanto lingua nazionale, è anche la prima lingua ufficiale. . La lingua inglese è riconosciuta come seconda lingua ufficiale. . Eccezionalmente la legge può prevedere l’uso esclusivo di una sola delle lingue ufficiali in uno o più ambiti ufficiali in tutto il territorio dello stato o in parti di esso». Situazione sociolinguistica: dialettia sociale inglese (con episodi di diacrolettia inglese [HL]/irlandese [H] nelle classi socioculturali alte). Dilalia dialetti irlandesi [L]/irlandese standard [H]/inglese [H] nelle piccole isole linguistiche irlandesi (Gaeltacht areas). ISLANDA (Ísland) Lingua ufficiale: islandese. Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  maggio .

Situazione sociolinguistica: monolinguismo islandese. Il danese è L obbligatoria nella scuola. ITALIA (Italia) Lingua ufficiale: italiano. Lingue ufficiali regionali: tedesco, francese. Altre lingue riconosciute: occitano, franco-provenzale, friulano, sloveno, sardo, catalano, greco, albanese, croato, ladino. Lingue dell’educazione: italiano, tedesco, sloveno.

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Altre lingue usate nell’educazione: ladino, francese. Diritto linguistico: Costituzione (, rev. ), art. : «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Statuto speciale per la Valle d’Aosta (), artt. - (francese), -bis (tedesco). Statuto speciale per la regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol (, rev.  e ) (tedesco, ladino). Norme di attuazione: legge /, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche (albanese, catalano, tedesco, greco, sloveno, croato, francese, franco-provenzale, friulano, ladino, occitano, sardo); D.P.R.  luglio , n.  (italiano, tedesco, ladino in Alto Adige); legge regionale Piemonte  aprile , n. , Tutela, valorizzazione e promozione della conoscenza dell’originale patrimonio linguistico del Piemonte; D. Lgs.  dicembre , n.  (ladino, mocheno, cimbro in Trentino); legge regionale Veneto  dicembre , n. , Promozione delle minoranze etniche e linguistiche del Veneto (ladino, friulano, cimbro, tedesco); legge regionale Friuli- Venezia Giulia  marzo , n. , Norme per la tutela e la promozione della lingua e della cultura friulane e istituzione del servizio per le lingue regionali e minoritarie (friulano); legge regionale Molise  maggio , n. , Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale delle minoranze linguistiche nel Molise (albanese, croato); legge regionale Sardegna  ottobre , n. , Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna (sardo, catalano, tabarchino, dialetto sassarese, dialetto gallurese); legge regionale Basilicata  novembre , n. , Norme per la promozione e tutela delle Comunità Arbereshe in Basilicata (albanese); legge regionale Sicilia  ottobre , n.  (albanese); legge regionale Valle d’Aosta  agosto , n.  (tedesco delle comunità walser della valle del Lys); legge  febbraio , n. , Norme a tutela della minoranza linguistica slovena della Regione Friuli-Venezia Giulia (sloveno, tedesco). Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  giugno . Situazione sociolinguistica: tendenza al monolinguismo italiano nelle città del Nord-ovest. Dilalia dialetto [L]/italiano [M] nell’Italia nord-occidentale. Dilalia dialetto [L]/italiano [H] con locali residui di diglossia nelle regioni centro-meridionali. Dilalia (diglossia nelle aree rurali) dialetti sardi [L]/italiano [H] in Sardegna. Dilalia franco-provenzale [L]/italiano [H] con francese L in Valle d’Aosta (escluso il capoluogo, oggi praticamente monolingue italiano). Dialettia diatopica in Toscana e nell’Italia centrale (città incluse). Diglossia [H > L] dialetto/italiano nel Nord-est e all’estremo Sud. Diglossia (con possibilità istituzionali di sviluppo a diacrolettia) friulano [L]/italiano [H] nelle aree montane del Friuli e presso specifiche fasce della popolazione; dilalia friulano [L]/(veneto [M])/italiano [H] nelle restanti zone del Friuli friulanofono. Diglossia dialetto tedesco [L]/tedesco (Hochdeutsch) [H] con italiano L presso i germanofoni dell’Alto Adige. Presso gli italofoni della stessa provincia: monolinguismo italiano con

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

eventuale tedesco (Hochdeutsch) L. Diglossia [L > H] ladino [L]/tedesco [H]/italiano [H/L] nelle valli ladine dell’Alto Adige (con eventuale possibile tendenza alla diacrolettia a tre elementi in Val Badia). Diglossia ladino [L]/italiano [H] in Val di Fassa con eventuale sviluppo in diacrolettia. Dilalia dialetti locali [L]/koinai regionali [M]/italiano [H] nelle aree tradizionalmente di lingua occitana, franco-provenzale, catalana, greca, albanese, slovena della provincia di Udine, tedesca in Piemonte, Trentino, Veneto e Friuli, con singole situazioni di ascesa di L. Diglossia dialetti sloveni [L]/sloveno standard [H] con dialetti veneti come L o mesoletto [M] e italiano come L o acroletto [H] presso gli sloveni della Venezia Giulia. LETTONIA (Latvia) Lingua ufficiale: lettone. Altre lingue riconosciute: russo, livone, polacco. Lingue dell’educazione: lettone, russo, polacco.

Diritto linguistico: Costituzione (, rev. ), art. : «La lingua lettone è la lingua ufficiale della Repubblica di Lettonia»; art. : «Gli appartenenti alle minoranze linguistiche hanno il diritto di difendere e sviluppare la loro lingua e la loro identità etnica e culturale». Legge sulla lingua di stato (), art. .: «Nella Repubblica di Lettonia la lingua ufficiale è il lettone»; art. : «Lo stato si impegna a garantire le misure per la protezione, la salvaguardia e lo sviluppo della lingua livone in quanto lingua della popolazione autoctona». Legge sul libero sviluppo e sul diritto all’autonomia culturale delle nazionalità e dei gruppi etnici della Lettonia (, rev. ). Legge sull’educazione (): art.  (lingua dell’educazione), art.  (programmi educativi per le minoranze nazionali). Situazione sociolinguistica: nelle aree a grande maggioranza lettone: dialettia diatopica lettone dove le varietà locali differiscono poco dallo standard, altrimenti diglossia lettone [H]/dialetti lettoni [L]. Il russo è L. Nelle aree urbane e nell’Est del paese, dove la popolazione russofona è spesso in maggioranza: diglossia lettone [H]/russo [H]/dialetti lettoni [L]. Per i russi: monolinguismo russo con lettone L. Le popolazioni bielorussa e polacca (stanziate nel Sud-est del paese) tendono a integrarsi linguisticamente con quella di lingua russa (eventualmente bielorusso o polacco come codice familiare [L]). Il livone, lingua baltofinnica, è parlato (in situazione di dilalia con il lettone) da poche centinaia di persone, per lo più anziani, nel distretto di Talsi, nel Nord-ovest del paese. La nuova legge sull’educazione approvata nell’agosto del  pone un limite massimo del % del totale delle materie insegnate in lingua minoritaria nelle scuole superiori sovvenzionate dallo stato. A partire dal  il lettone dovrà essere l’unica lingua dell’educazione superiore pubblica.

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LIECHTENSTEIN

(Liechtenstein)

Lingua ufficiale: tedesco. Lingua dell’educazione: tedesco. Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «Il tedesco è la lingua dello stato e dell’amministrazione». Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre ; ratifica  novembre ; entrata in vigore ° marzo . Lingue riconosciute nel trattato: nessuna. Situazione sociolinguistica: diglossia [L > H] alemannico (svizzero tedesco e walser) [L]/tedesco (Hochdeutsch) [H]. LITUANIA (Lietuva) Lingua ufficiale: lituano. Lingue dell’educazione: lituano, russo, polacco.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «Il lituano è la lingua ufficiale dello stato»; art. : «I cittadini che appartengono alle comunità etniche hanno il diritto di promuovere la propria lingua, la propria cultura e le proprie tradizioni» (cfr. anche art. ). Legge sull’educazione (), art. : «La lingua di istruzione nelle scuole della Repubblica di Lituania è il lituano. Alle comunità di minoranza etnica, demograficamente rilevanti e compatte sul territorio della Repubblica di Lituania, sono garantiti i mezzi necessari per il mantenimento di scuole materne, scuole dell’obbligo e corsi di lingua, pubblici o privati. I genitori (o i tutori dei minori) hanno il diritto di scegliere l’istruzione prescolastica e dell’obbligo nella lingua che essi ritengono la più appropriata. Per le comunità etniche disperse e poco numerose lezioni o corsi opzionali per l’apprendimento, l’insegnamento o l’approfondimento della lingua materna possono essere organizzati nei locali delle scuole pubbliche sia durante l’orario scolastico sia al di fuori di questo. Nelle istituzioni scolastiche con lingua d’insegnamento diversa dal lituano, la lingua e la letteratura lituana devono essere impartite in lituano. Su richiesta dei genitori altre materie potranno essere insegnate in lituano». Legge sulle minoranze linguistiche (, rev. ). Legge sulla lingua di stato () (lituano). Situazione sociolinguistica: dialettia lituana nel Sud del paese. Diglossia/dilalia lituano standard [H]/dialetti lituani [L] nel Centro-nord. Per i lituani il russo è L. Monolinguismo russo presso i russi (stanziati principalmente nel Sud-est del paese e nelle aree urbane) con lituano L. Dilalia russo [H]/lituano [H]/(polacco standard [H])/dialetti slavi [L] presso la popolazione polacca. La popolazione bielorussa (presente principalmente a Vilnius) tende a integrarsi linguisticamente con quella di lingua russa (eventualmente il bielorusso sopravvive esclusivamente come codice familiare [L]).

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Si noti che le popolazioni che si ritengono polacche e bielorusse del Sud del paese non si distinguono tra loro per lingua (usano tutte varietà slave più simili al bielorusso che al polacco) ma per appartenenza religiosa: i polacchi sono tradizionalmente cattolici, i bielorussi ortodossi. LUSSEMBURGO (Luxembourg/Lëtzebuerg/Luxemburg) Lingue ufficiali: francese, tedesco, lussemburghese.

Diritto linguistico: Costituzione (, rev.  e ), art. : «La legge regola l’uso delle lingue in materia amministrativa e giudiziaria» (rev. ). Legge  febbraio  sullo statuto delle lingue, art. : «Lingua nazionale. La lingua nazionale dei lussemburghesi è il lussemburghese»; art. : «Lingua della legislazione. Gli atti legislativi e i loro regolamenti d’esecuzione sono redatti in francese. Quando questi atti sono accompagnati da una traduzione, il solo testo francese fa fede. Nel caso di regolamenti non inclusi nel comma precedente sono pubblicati da un organo dello stato, dai comuni o dagli uffici dell’amministrazione pubblica in una lingua diversa dal francese, il solo testo nella lingua usata da questo organo fa fede. [...]»; art. : «Lingue amministrative e giudiziarie. In campo amministrativo [e] giudiziario possono essere usate le lingue francese, tedesca o lussemburghese [...]»; art. : «Richieste amministrative. Quando una comunicazione è redatta in lussemburghese, francese o tedesco, l’amministrazione deve, nella misura del possibile, rispondere nella lingua usata dal richiedente». Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre . Situazione sociolinguistica: diglossia [L > H] lussemburghese [L]/tedesco [H]/ francese [H]. La popolazione immigrata (più di un terzo del totale), oltre alle lingue di origine (portoghese e italiano le più diffuse) parla per lo più il francese ed eventualmente il lussemburghese. MACEDONIA (Makedonia) Lingua ufficiale: macedone. Lingua ufficiale regionale: albanese. Altra lingua riconosciuta: turco. Lingue dell’educazione: macedone, albanese, turco (?).

Diritto linguistico: Costituzione (, rev. ), art. : «. La lingua macedone, scritta in alfabeto cirillico, è la lingua ufficiale della Repubblica di Macedonia sul suo territorio e nei rapporti internazionali. . Ogni altra lingua parlata da almeno il % della popolazione è altresì ufficiale nella sua forma alfabetica tradizionale secondo quanto specificato di seguito. . Ogni documento ufficiale diretto personalmente a cittadini che parlino una lingua ufficiale diversa dal macedone deve essere scritto, oltre che in macedone, anche nell’altra lingua, secondo quanto stabilito dalla legge. . Ogni persona che abiti in un’unità amministrativa locale in cui almeno il % della popolazione par-

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li una lingua diversa dal macedone può usare questa lingua come lingua ufficiale negli uffici locali del governo centrale, e l’amministrazione ha l’obbligo di rispondere usando sia il macedone sia l’altra lingua ufficiale. Ogni persona può usare una lingua ufficiale a sua scelta nei rapporti diretti con l’amministrazione centrale e ha il diritto di ricevere risposta nella lingua scelta oltre che in macedone. [...] . Nelle unità amministrative locali in cui almeno il % della popolazione parli una lingua diversa dal macedone, questa sarà ufficiale scritta nel suo alfabeto tradizionale accanto al macedone scritto in alfabeto cirillico. Le amministrazioni locali hanno facoltà di scegliere di usare come ufficiali anche le lingue parlate da meno del % della popolazione locale». Legge sull’educazione primaria (), artt. ,  e . Legge sull’educazione secondaria (), artt. ,  e . Legge sull’uso della lingua macedone (). Legge sull’educazione superiore (), art. . Legge sulle autonomie locali (), artt. ,  e . Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  luglio . Situazione sociolinguistica: dialettia diatopica macedone per la comunità di lingua macedone (poco più di due terzi della popolazione totale). Dialettia diatopica albanese con macedone L per la comunità albanese (eventualmente diacrolettia albanese [HL]/macedone [H]). I pochi serbi hanno il macedone come L: serbo(-croato) e macedone sono lingue piuttosto simili tra loro. Per la popolazione zingara: dilalia romani [L]/macedone [H] con eventuale conoscenza anche dell’albanese. Diglossia dialetti turchi [L]/macedone [H] presso i turchi. Le popolazioni musulmane slavofone hanno sviluppato una certa autocoscienza come turchi dopo l’indipendenza del paese. La conoscenza del serbo(-croato) come L è capillarmente diffusa. MALTA (Malta) Lingue ufficiali: maltese, inglese. Lingue dell’educazione: maltese, inglese.

Diritto linguistico: Costituzione (), sez. : «. La lingua nazionale di Malta è il maltese. . Il maltese, l’inglese e ogni altra lingua definita dal Parlamento (con legge approvata da almeno due terzi dei membri della House of Representatives) saranno le lingue ufficiali di Malta; l’amministrazione potrà usare ognuna di queste lingue per scopi ufficiali. È diritto di ogni persona rivolgersi alle istituzioni in una lingua ufficiale a scelta e obbligo dell’amministrazione rispondere in tale lingua. . La lingua dei tribunali è il maltese. L’inglese potrà altresì essere usato secondo quanto stabilito dal Parlamento». Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre . Situazione sociolinguistica: diacrolettia maltese [HL]/inglese [H]. Forte presenza dell’italiano come L.

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

MOLDAVIA (Moldova) Lingua ufficiale: moldavo (rumeno). Lingue ufficiali regionali: russo, gagauzo. Altre lingue riconosciute: ucraino, jiddisch, bulgaro, ebraico, romanes. Lingue dell’educazione: moldavo (rumeno), russo, ucraino, gagauzo, bulgaro.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «Unità del popolo e diritto all’identità. [...] . Lo Stato riconosce e garantisce il diritto di tutti i cittadini a mantenere, sviluppare ed esprimere la propria identità etnica, culturale, linguistica e religiosa»; art. : «Lingua dello stato e funzionamento delle altre lingue. . La lingua ufficiale della Repubblica di Moldavia è la lingua moldava scritta in grafia latina. . Lo stato riconosce e protegge il diritto al mantenimento, allo sviluppo e all’uso della lingua russa e delle altre lingue diffuse sul suo territorio». Legge -XV/ sui diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali e statuto giuridico delle loro organizzazioni, art. : «. Lo stato assicura la pubblicazione di ogni atto legislativo, comunicazione ufficiale o altra informazione di carattere nazionale nelle lingue moldava e russa. . Nelle località alle quali, in conformità all’art.  della Costituzione, sia stato accordato uno statuto speciale di autonomia, gli atti legislativi di rilevanza locale, le comunicazioni ufficiali e ogni altra comunicazione amministrativa saranno pubblicati nelle lingue ufficiali stabilite dalle rispettive leggi di autonomia. . Per i territori nei quali le persone appartenenti a una minoranza nazionale costituiscano una parte considerevole della popolazione, gli atti dell’amministrazione pubblica locale saranno pubblicati nella lingua di questa minoranza quando ciò sia ritenuto necessario, oltre che in moldavo e in russo»; art. .: «Le persone appartenenti alle minoranze nazionali hanno il diritto di rivolgersi alle istituzioni pubbliche, sia in forma orale che per iscritto, in lingua moldava o in lingua russa, e di ricevere risposta nella lingua preferita». Legge -XIV/, Statuto della Gagauzia, art. .: «Le lingue ufficiali della Gagauzia sono il moldavo, il gagauzo e il russo». Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  luglio . Situazione sociolinguistica: diglossia dialetti moldavi [L]/rumeno [H]/russo [H] presso la comunità moldava. Dilalia dialetti ucraini [L]/russo [H] presso gli ucraini con presenza di rumeno come L. Diacrolettia gagauzo [HL]/(moldavo [H])/russo [H] presso i gagauzi. Monolinguismo russo presso la popolazione russofona con eventuale rumeno come L. Si noti che la definizione ufficiale della lingua della Moldavia è «moldavo scritto in grafia latina»: poiché il moldavo corrisponde al rumeno scritto in caratteri cirillici, moldavo scritto in caratteri latini è sinonimo di rumeno. Il paese è di fatto bilingue rumeno-russo, anche se il russo è ufficialmente riconosciuto solo come lingua di minoranza.

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MONACO (Monaco) Lingua ufficiale: francese. Altra lingua riconosciuta: monegasco (ligure). Lingua dell’educazione: francese. Altra lingua usata nell’educazione: monegasco (ligure).

Diritto linguistico: Costituzione (, rev. ), art. : «La lingua francese è la lingua ufficiale dello stato». Situazione sociolinguistica: monolinguismo francese con residui di dilalia monegasco [ligure] [L]/francese [H] presso la popolazione autoctona (i cittadini del principato rappresentano circa il % della popolazione residente). Diffusi l’italiano (L per circa il % della popolazione) e l’inglese. I programmi scolastici delle quattro scuole dell’obbligo e le due superiori pubbliche sono identici a quello francese (quindi in francese) con l’aggiunta di qualche materia che riguarda le istituzioni e la storia del Principato e della lingua monegasca. NORVEGIA (Norge/Noreg) Lingue ufficiali: bokmål, nynorsk. Altre lingue riconosciute: lappone, finnico (kven). Lingue dell’educazione: bokmål, nynorsk, lappone.

Diritto linguistico: Costituzione (, rev. ), art. : «È responsabilità delle autorità dello stato creare le condizioni per permettere alla popolazione lappone di mantenere e sviluppare la propria lingua, la propria cultura e le proprie tradizioni». Legge / sull’uso delle lingue nella pubblica amministrazione (rev. ), art. : «Il bokmål e il nynorsk hanno lo stesso valore legale e devono essere considerate allo stesso modo ufficiali in tutti gli organi dello stato, dell’amministrazione dei fylke e dei comuni [...]»; art. : «I consigli comunali possono decidere che nei rapporti con l’amministrazione centrale dello stato venga usata solamente una delle due forme, oppure possono dichiararsi linguisticamente neutrali. [...]»; art. : «Gli organi dello stato che hanno giurisdizione sull’intero territorio del Regno dovranno, nelle circolari, negli avvisi, e in ogni proprio documento, alternare le due varianti di norvegese in modo equilibrato. Se un organo dello stato lo reputa necessario, potrà pubblicare tali documenti in entrambe le varianti. Documenti destinati a un territorio circoscritto possono essere redatti nella variante di norvegese più diffusa sul territorio stesso». (L’art.  delle Prescrizioni per l’uso delle lingue ufficiali nella pubblica amministrazione stabilisce che l’espressione «in modo equilibrato» sia quantificabile in un minimo del % dei documenti per ciascuna delle varietà di norvegese.) Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre ; ratifica  novembre ; entrata in vigore ° marzo . Lingue riconosciute nel trattato: lappone.

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Situazione sociolinguistica: diglossia dialetti scandinavi [L]/standard norvegesi scritti (bokmål e nynorsk) [H]. Dilalia dialetti lapponi [L]/dialetti scandinavi [M]/norvegese (bokmål) [H] con tendenza alla diacrolettia standard lapponi [HL]/dialetti scandinavi [M]/norvegese (bokmål) [H] presso le popolazioni sámi. PAESI BASSI (Nederland) Lingua ufficiale: nederlandese (conosciuta in Italia col nome improprio di olandese). Lingua ufficiale regionale: frisone. Altre lingue riconosciute: basso-sassone, limburghese. Lingua dell’educazione: olandese. Altra lingua usata nell’educazione: frisone.

Diritto linguistico: legge sulla regolamentazione dell’uso della lingua frisone nella provincia della Frisia ( settembre ). Taalunie (Verdrag tussen het Koninkrijk België en het Koninkrijk der Nederlanden inzake der Nederlandse Taalunie, ondertekend te Brussel op  september ) (Unione linguistica tra Paesi Bassi e Fiandre). Accordo sulla lingua e la cultura frisoni ( luglio ) (frisone). Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre ; ratifica  maggio ; entrata in vigore ° marzo . Lingue riconosciute nel trattato: frisone, basso-sassone, jiddisch, romanes, limburghese. Situazione sociolinguistica: monolinguismo nederlandese nel centro del paese e nelle aree urbane. Diglossia tendente alla diacrolettia frisone [(H)L]/nederlandese [H] nelle località di lingua frisone della provincia della Frisia. Dilalia dialetti basso-tedeschi (limburghesi e basso-sassoni) [L]/nederlandese [H] nel resto del paese. POLONIA (Polska) Lingua ufficiale: polacco. Altre lingue riconosciute: casciubo, tedesco, lituano, ucraino. Lingua dell’educazione: polacco.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «Il polacco è la lingua ufficiale della Repubblica di Polonia. Questa misura non dovrà ledere i diritti delle minoranze nazionali derivanti da accordi internazionali»; art. : «. La Repubblica di Polonia assicura ai cittadini polacchi che appartengano a minoranze nazionali o etniche la libertà di mantenere e promuovere la propria lingua, di mantenere i propri costumi e le proprie tradizioni e di sviluppare la propria cultura. . Le minoranze nazionali ed etniche hanno il diritto di stabilire istituzioni educative e culturali, istituzioni per la protezione dell’identità religiosa così come di partecipare alle decisioni che concernono la

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propria identità culturale». Legge  novembre  sui sistemi educativi. Legge  ottobre  sulla lingua polacca. Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  maggio . Situazione sociolinguistica: monolinguismo con residui di dilalia (dialetti polacchi [L]/polacco [H]). Dilalia dialetti delle lingue di minoranze [L]/polacco [H]. La situazione di monolinguismo è dovuta principalmente ai cambiamenti dei confini internazionali legati alla seconda guerra mondiale e ai seguenti massicci spostamenti di popolazioni tedesche verso la Germania dai territori passati dalla Germania alla Polonia e di popolazioni polacche dai territori precedentemente polacchi passati all’Unione Sovietica e che si sono stanziate nelle località abbandonate dai tedeschi. PORTOGALLO (Portugal) Lingua ufficiale: portoghese. Altra lingua riconosciuta: mirandese. Lingua dell’educazione: portoghese. Altra lingua usata nell’educazione: mirandese.

Diritto linguistico: Costituzione (, rev. ), art. : «Compiti fondamentali dello stato. Sono compiti fondamentali dello stato: [...] f ) Assicurare l’insegnamento e la valorizzazione permanente della lingua portoghese, difenderne l’uso e promuoverne la diffusione internazionale»; art. .: «La lingua ufficiale è il portoghese». Per il mirandese: legge  gennaio , n. ; despacho normativo /. Situazione sociolinguistica: generale monolinguismo portoghese. Dialettia diatopica nelle poche aree in cui i dialetti divergono in parte dallo standard. Dilalia mirandese [L]/portoghese [H] a Miranda do Douro. Il mirandese è la forma locale di asturiano-leonese (varietà di ibero-romanzo) del comune di Miranda do Douro. REGNO UNITO (United Kingdom) Lingua ufficiale: inglese. Lingue ufficiali regionali: gallese, gaelico scozzese. Altre lingue riconosciute: scots, irlandese (gaelico), Ulster scots, cornico, manx. Lingue dell’educazione: inglese, gallese, gaelico scozzese. Altra lingua usata nell’educazione: scots.

Diritto linguistico: Welsh Language Act (gallese); Government of Wales Act (), art.  (parità di trattamento delle lingue inglese e gallese). Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  marzo ; ratifica  marzo ; entrata in vigore ° luglio .

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LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Lingue riconosciute nel trattato: gallese, gaelico scozzese, irlandese (gaelico), scots, Ulster scots, cornico, manx. Situazione sociolinguistica: in generale dialettia sociale inglese. In parte della Scozia dilalia inglese [H]/scots [L]. Per i parlanti gaelico scozzese diacrolettia inglese [H]/gaelico [HL] o diglossia inglese [H]/gaelico [L]. Tendenza alla diacrolettia inglese [H]/gallese [HL] presso la comunità di lingua gallese (un quinto della popolazione del Galles). Eventualmente gaelico irlandese L presso i cattolici dell’Irlanda del Nord. Nell’isola di Man le leggi devono avere titolo in inglese e manx. Il francese è formalmente in uso come lingua delle leggi nelle isole del Canale. Il norvegese è spesso L alle isole Shetland. REPUBBLICA CECA (Ceská Republika) Lingua ufficiale: ceco. Altre lingue riconosciute: tedesco, polacco, ungherese. Lingua dell’educazione: ceco.

Diritto linguistico: Carta dei diritti e delle libertà fondamentali (), artt. -; legge / sui diritti dei membri delle minoranze nazionali. Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre . Situazione sociolinguistica: dialettia diatopica ceca in Boemia e dilalia (talora diglossia in particolari contesti rurali) ceco [H]/dialetti locali [L] in Moravia. Dilalia ceco [H]/polacco [L] presso la comunità polacca della Slesia. Dilalia ceco [H]/dialetti tedeschi [L] presso l’esigua comunità tedesca residuale. ROMANIA (România) Lingua ufficiale: rumeno. Lingue ufficiali regionali: ungherese, tedesco. Lingue dell’educazione: rumeno, ungherese, tedesco, romanes.

Diritto linguistico: Costituzione, art. : «Lingua ufficiale. In Romania la lingua ufficiale è la lingua rumena». Legge / sull’amministrazione pubblica locale, art. : «Nelle unità territoriali amministrative nelle quali la proporzione di cittadini appartenenti a una minoranza nazionale superi il % dei residenti gli atti di carattere ufficiale devono essere esposti al pubblico anche nella lingua materna dei cittadini appartenenti alle rispettive minoranze così come nelle comunicazioni individuali, su richiesta del cittadino, deve essere usata la lingua materna accanto al rumeno»; art. .: «Nelle unità territoriali amministrative nelle quali la proporzione di cittadini appartenenti a una minoranza nazionale superi il % dei residenti, nei rapporti con l’amministrazione pubblica locale i membri della minoranza possono usare la propria lingua, sia oralmente che per iscritto, e riceveranno risposta nella lin-

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gua della minoranza e in rumeno» (cfr. anche art. ). Legge / sull’educazione, Capitolo XII, artt. -, Educazione per le persone appartenenti alle minoranze nazionali. Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  luglio . Situazione sociolinguistica: dialettia diatopica rumena nel Sud e nell’Est del paese. Dilalia rumeno [H]/dialetti rumeni [L] nelle aree di più marcata differenziazione dialettale. Presso gli ungheresi di Transilvania: diacrolettia ungherese [HL]/rumeno [H]. Per le altre minoranze: diglossia rumeno [H]/(lingua tetto di minoranza) [H]/dialetti della lingua di minoranza [L]. Nel settembre del  il Parlamento rumeno ha varato un pacchetto di riforme costituzionali per ampliare i diritti linguistici delle minoranze. La legge, sottoposta a referendum il  ottobre , è stata approvata. SAN MARINO

(San Marino)

Lingua ufficiale: italiano. Lingua dell’educazione: italiano. Situazione sociolinguistica: dilalia romagnolo [L]/italiano [H]. SERBIA E MONTENEGRO (Srbija i Crna Gora) Lingua ufficiale: serbo. Lingue ufficiali regionali: albanese, ungherese. Altre lingue riconosciute: slovacco, rumeno, ruteno. Lingue dell’educazione: serbo, albanese, slovacco, rumeno, ruteno.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «. Nella Repubblica federale di Iugoslavia il serbo, nei suoi dialetti ekavi e jekavi e in alfabeto cirillico, è la lingua ufficiale; l’alfabeto latino sarà usato secondo quanto stabilito dalla Costituzione e dalle leggi a riguardo. . Nelle regioni della Repubblica federale di Iugoslavia abitate da minoranze nazionali le lingue e gli alfabeti in uso presso le stesse minoranze saranno ufficiali accanto al serbo nei modi stabiliti dalla legge». Carta dei diritti umani e delle minoranze e delle libertà civili. Situazione sociolinguistica: dialettia diatopica tra varianti locali di (serbo)croato e serbo standard. Diglossia dialetti gheghi [L]/albanese [H] presso la comunità albanofona del Kosovo con serbo come L. Dialettia diatopica o dilalia, con bilinguismo, presso le comunità di lingua albanese, ungherese, ceca, slovacca, ruteno-ucraina e (istro)rumena (variante locale della lingua di minoranza [L]/lingua di minoranza nella sua forma standard [H]/serbo [H]). SLOVACCHIA (Slovensko) Lingua ufficiale: slovacco. Lingua ufficiale regionale: ungherese. Altre lingue riconosciute: bulgaro, croato, ceco, tedesco, polacco, roma, ruteno, ucraino.



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

Lingue dell’educazione: slovacco, ceco, ungherese, tedesco, polacco, ucraino (ruteno). Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «. Lo slovacco è la lingua ufficiale su tutto il territorio della Repubblica. . L’uso di altre lingue nei rapporti con le istituzioni è garantito dalla legge»; art. .: «Ognuno ha il diritto di scegliere liberamente la propria nazionalità. [...]»; Parte IV, Diritti delle minoranze nazionali e dei gruppi etnici, artt. -. Legge sulla lingua ufficiale della Repubblica Slovacca () (slovacco), art. .: «La lingua ufficiale ha preminenza sulle altre lingue parlate sul territorio della Repubblica Slovacca». Legge sull’uso delle lingue minoritarie (), art. .: «Se i cittadini slovacchi appartenenti a una minoranza nazionale rappresentano almeno il % degli abitanti di una determinata località secondo i dati dell’ultimo censimento, questi possono usare la propria lingua minoritaria nei rapporti ufficiali con l’amministrazione municipale». Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  febbraio ; ratifica  settembre ; entrata in vigore ° gennaio . Lingue riconosciute nel trattato: bulgaro, croato, ceco, tedesco, ungherese, polacco, roma, ruteno, ucraino. Situazione sociolinguistica: dialettia diatopica (o dilalia slovacco [H]/dialetti slovacchi [L] quando questi ultimi differiscano sensibilmente dallo standard) presso la popolazione di lingua slovacca. Presso la comunità di lingua ungherese dialettia diatopica con slovacco come L o LH. Per le altre minoranze diglossia o dilalia slovacco [H]/(lingua tetto di minoranza)[H]/varianti locali delle lingue di minoranza [L]. SLOVENIA (Slovenija) Lingua ufficiale: sloveno. Lingue ufficiali regionali: italiano, ungherese. Lingue dell’educazione: sloveno, italiano, ungherese.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «La lingua ufficiale della Slovenia è lo sloveno. Nelle aree in cui risiedono le comunità etniche italiana e ungherese sono lingue ufficiali anche l’italiano e l’ungherese» (cfr. anche artt. ; : comunità etniche italiana e ungherese; : comunità rom). Legge  ottobre  sulle comunità etniche autonome (italiano, ungherese). Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  luglio ; ratifica  ottobre ; entrata in vigore ° gennaio . Lingue riconosciute nel trattato: italiano, ungherese, romani. Situazione sociolinguistica: dialettia diatopica tra varianti locali di sloveno [L] e sloveno standard [H]. Diglossia dialetti veneti [L]/italiano [H]/(sloveno [H]) presso gli italofoni della costa adriatica. Diglossia (o diacrolettia) ungherese [L]/sloveno [H] presso la comunità ungherese.



A P P E N D I C E . S C H E D E L I N G U I S T I C H E D E I PA E S I E U R O P E I

SPAGNA (España) Lingua ufficiale: spagnolo (castigliano). Lingue ufficiali regionali: catalano, basco, galiziano. Altre lingue riconosciute: aranese, aragonese, asturiano. Lingue dell’educazione: spagnolo, catalano, basco, galiziano. Altra lingua usata nell’educazione: aranese.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. .: «Il castigliano è la lingua spagnola ufficiale dello stato. Tutti gli spagnoli hanno il dovere di conoscerla e il diritto di usarla. Le altre lingue spagnole saranno altresì ufficiali nelle rispettive Comunità autonome secondo quanto stabilito nei propri Statuti di autonomia». Statuti di autonomia: Statuto di autonomia del Paese Basco, legge organica /, art.  (basco); Statuto di autonomia della Catalogna, legge organica /, artt.  e  (catalano e aranese); Statuto di autonomia della Comunità autonoma valenziana, legge organica /, art.  (valenziano); Statuto di autonomia della Galizia, legge organica /, artt.  e  (galiziano); Regime forale di Navarra, legge organica /, art.  (basco); Statuto di autonomia delle isole Baleari, legge organica /, artt. , -,  (catalano); Statuto di autonomia della Comunità autonoma di Castiglia e León, legge organica /, art.  (galiziano); Statuto di autonomia dell’Aragona, legge organica /, artt.  e  (catalano e aragonese). Norme di applicazione: legge fondamentale / di normalizzazione del basco; legge / di normalizzazione linguistica della Galizia (galiziano); legge / sull’insegnamento del valenziano; legge / di normalizzazione linguistica nelle isole Baleari (catalano); legge / sull’uso del galiziano come lingua ufficiale della Galizia da parte delle amministrazioni locali; legge forale / sul basco in Navarra; legge / di politica linguistica (catalano); legge / sul patrimonio culturale aragonese (aragonese e catalano) [per la Catalogna cfr. supra, CASO STUDIO ]. Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre ; ratifica  aprile ; entrata in vigore ° agosto . Lingue riconosciute nel trattato: basco, catalano, galiziano. Situazione sociolinguistica: monolinguismo spagnolo nelle comunità autonome monolingui del centro del paese. Dialettia diatopica nel Sud (Andalusia, Murcia, Canarie ecc.). Dilalia nelle Asturie e in parte del León (asturianoleonese e galiziano [L]/spagnolo [H]), in parte della Cantabria (asturianoleonese e galiziano [L]/spagnolo [H]) e nelle aree montane dell’Aragona (aragonese [L]/spagnolo [H]). Diglossia – con tendenza alla diacrolettia – catalano [L]/spagnolo [H] nel Sud-est dell’Aragona. Diacrolettia in Galizia (galiziano [HL]/spagnolo [H]), in Catalogna, isole Baleari e area catalanofona di Valencia (catalano [valenziano] [HL]/spagnolo [H]), nelle Province Basche e nel Nord della Navarra (basco [HL]/spagnolo [H]). Per la popolazione ispanofona delle comunità autonome bilingui le lingue regionali sono L. Diglossia occitano (aranese) [L]/catalano [H]/spagnolo [H] in Val d’Aran. Diglossia [H > L] tra le popolazioni arabofone (arabo ma-



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

grebino [L]/spagnolo [H]) e berberofone (dialetti berberi [L]/spagnolo [H]) di Ceuta e Melilla. Lo standard catalano scritto comprende due varianti: una catalana propria (usata in Catalogna, Andorra e isole Baleari) e una valenziana, ufficiale nell’omonima Comunità autonoma. L’aranese è una varietà di occitano. SVEZIA (Sverige) Lingua ufficiale: svedese. Altre lingue riconosciute: lappone, finlandese, meänkieli (finnico della valle del Torne), romani, jiddisch.

Diritto linguistico: Costituzione, art. : «[...] Lo stato favorisce lo sviluppo della vita sociale e culturale delle minoranze etniche, linguistiche e religiose» (rev. ). Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  febbraio ; ratifica  febbraio ; entrata in vigore ° giugno . Lingue riconosciute nel trattato: lappone, finlandese, meänkieli, romani chib, jiddisch. Situazione sociolinguistica: monolinguismo (svedese) con residui di dilalia (le varietà scandinave sono poco differenziate). Dilalia svedese [H]/varietà locali di lappone e finnico [L] presso le comunità di minoranza. SVIZZERA (Schweiz/Suisse/Svizzera/Svizra) Lingue ufficiali: tedesco, francese, italiano, romancio. Lingue dell’educazione: tedesco, francese, italiano, romancio.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «Lingue nazionali. Le lingue nazionali sono il tedesco, il francese, l’italiano e il romancio»; art. : «Libertà di lingua. La libertà di lingua è garantita»; art. : «Lingue: . Le lingue ufficiali della Confederazione sono il tedesco, il francese e l’italiano. Il romancio è lingua ufficiale nei rapporti con le persone di lingua romancia. . I cantoni designano le loro lingue ufficiali. Per garantire la pace linguistica rispettano la composizione linguistica tradizionale delle regioni e considerano le minoranze linguistiche autoctone. . La Confederazione e i cantoni promuovono la comprensione e gli scambi tra le comunità linguistiche. . La Confederazione sostiene i cantoni plurilingui nell’adempimento dei loro compiti speciali. . La Confederazione sostiene i provvedimenti dei Cantoni dei Grigioni e del Ticino volti a conservare e promuovere le lingue romancia e italiana». Costituzione della Repubblica e Cantone del Ticino (), art. .: «Il Cantone Ticino è una repubblica democratica di cultura e lingua italiane». Costituzione del Cantone di Friburgo (), art. .: «Il francese e il tedesco sono le lingue ufficiali. Il loro utilizzo è regolato nel rispetto del principio della territorialità» (rev. ). Costituzione del Cantone di Berna (), art. .: «Il francese e il tedesco sono le lingue ufficiali



A P P E N D I C E . S C H E D E L I N G U I S T I C H E D E I PA E S I E U R O P E I

del cantone di Berna. . Le lingue ufficiali sono: a) il francese nel Giura Bernese, b) il francese e il tedesco nel distretto di Bienna, c) il tedesco negli altri distretti. . Il cantone e i comuni possono tener conto delle situazioni particolari risultanti dal carattere bilingue del cantone. . Ogni persona può rivolgersi nella lingua ufficiale di sua scelta alle autorità competenti per l’intero territorio cantonale». Costituzione del Cantone dei Grigioni (), art. : «Le tre lingue del Cantone sono garantite quali lingue del paese». Costituzione del Cantone del Vallese (), art. : «. La lingua francese e la lingua tedesca sono dichiarate nazionali. . L’uguaglianza di trattamento tra le due lingue deve essere osservata nella legislazione e nell’amministrazione». Costituzione della Repubblica e Cantone del Giura (), art. : «Il francese è la lingua nazionale e ufficiale della Repubblica e Cantone del Giura»; art. .: «[Le attività culturali] favoriscono l’immagine della lingua francese». Costituzione della Repubblica e Cantone di Neuchâtel (), art. : «La lingua ufficiale del cantone è il francese». Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  ottobre ; ratifica  dicembre ; entrata in vigore ° aprile . Lingue riconosciute nel trattato: romancio, italiano. Situazione sociolinguistica: diglossia (L > H) tedesco (Hochdeutsch) [H]/dialetti svizzero-tedeschi (Schwyzertütsch) [L] nella Svizzera tedesca. Monolinguismo con residui di dilalia francese [H]/dialetti franco-provenzali e d’oïl [L] nella Svizzera romanda (la dilalia è più diffusa nei comuni rurali dei cantoni cattolici). Dilalia italiano [H]/dialetti lombardi nelle aree urbane e turistiche del Ticino; diglossia [H > L] nelle regioni alpine del Ticino e nei Grigioni italiani. Diacrolettia tedesco [H]/romancio (standard locale) [HL]/Schwyzertütsch [M] nelle regioni a maggioranza romancia dei Grigioni. Per la popolazione di lingua romancia in aree a maggioranza tedesca prevalentemente diglossia tedesco [H]/Schwyzertütsch [M]/romancio [L]. I germanofoni in area romancia (diglossia tedesco [H]/Schwyzertütsch [L]) hanno eventualmente il romancio come L. L’italiano è spesso L per i romanci. L’italiano (o sue forme semplificate) è spesso L o lingua franca tra gli immigrati (qualunque sia la loro lingua madre) o tra immigrati e popolazione autoctona nei cantoni di lingua tedesca. TURCHIA (PARTE EUROPEA) (Türkiye) Lingua ufficiale: turco. Altra lingua riconosciuta: greco. Lingue dell’educazione: turco, greco.

Situazione sociolinguistica: monolinguismo turco. Le tradizionali minoranze greche e slavofone della Tracia sembrano essere state assimilate. Nella città di I˙stanbul, tradizionalmente multietnica (turchi, armeni, greci, curdi, bulgari ecc.), esistono alcune scuole (garantite da trattati internazionali) per la minoranza greca.



LA PIANIFICAZIONE LINGUISTICA

UCRAINA (Ukraïna) Lingua ufficiale: ucraino. Lingua ufficiale regionale: russo. Altre lingue riconosciute: bulgaro, rumeno, gagauzo, jiddisch, ungherese, bielorusso, tedesco, tataro di Crimea, greco, polacco, slovacco. Lingue dell’educazione: ucraino, russo, ungherese, bulgaro.

Diritto linguistico: Costituzione (), art. : «. La lingua ufficiale dell’Ucraina è l’ucraino. [...] . In Ucraina sono garantiti il libero sviluppo, l’uso e la protezione del russo così come delle altre lingue delle minoranze nazionali»; art. .: «I cittadini appartenenti alle minoranze nazionali hanno diritto, secondo le modalità stabilite dalla legge, a ricevere l’istruzione nella propria lingua o di studiarla negli istituti scolasti statali o comunali così come negli istituti culturali delle proprie comunità nazionali». Legge / sulle minoranze nazionali. Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  maggio . Situazione sociolinguistica: dilalia russo [H]/ucraino [L] (con tendenza alla diacrolettia) presso la popolazione di lingua ucraina delle zone russofone dell’Est e del Sud del paese e nelle aree urbane del Nord. Dialettia diatopica ucraina (eventualmente diglossia ucraino standard [H]/dialetti ucraini [L] quando questi differiscano in modo sensibile, come nell’estremo Ovest), con russo come L nelle aree a maggioranza ucraina. Monolinguismo russo presso i russi con eventualmente ucraino come L. Per le altre minoranze dilalia russo [H]/ucraino [H]/(lingua tetto della minoranza [H])/dialetti delle lingue di minoranza [L]. UNGHERIA (Magyarország) Lingua ufficiale: ungherese. Altre lingue riconosciute: bulgaro, romani, beas (rom), greco, croato, polacco, tedesco, armeno, rumeno, ruteno, serbo, slovacco, sloveno, ucraino. Lingue dell’educazione: croato, tedesco, rumeno, serbo, slovacco, sloveno.

Diritto linguistico: Costituzione (, rev. ), artt. /B e . Legge LXXVII/ sui diritti delle minoranze nazionali ed etniche. Legge LXXIX/ sull’educazione pubblica. Carta europea per le lingue regionali e minoritarie: firma  novembre ; ratifica  aprile ; entrata in vigore ° marzo . Lingue riconosciute nel trattato: croato, tedesco, rumeno, serbo, slovacco, sloveno. Situazione sociolinguistica: dialettia diatopica tra la popolazione di lingua ungherese. Dilalia ungherese [H]/(standard tetto delle lingue di minoranza) [H]/varietà locali delle lingue di minoranza [L] presso le minoranze.



Indice dei casi studio

. Nuove lingue? Il sondaggio friulano . Il modello prerivoluzionario: il Regno Unito CASO STUDIO . La Confederazione Elvetica e l’antico plurilinguismo territoriale CASO STUDIO . Il modello francese CASO STUDIO . L’estremizzazione balcanica: il nazionalismo profondo di Grecia e Turchia CASO STUDIO . Grande-russo, piccolo-russo, ucraino: duecento anni di polemiche CASO STUDIO . Rivitalizzazione linguistica e diritti umani: l’Estonia CASO STUDIO . The European Charter for Regional and Minority Languages CASO STUDIO . L’Italia dalle pressioni internazionali ai prodromi di un pluralismo linguistico CASO STUDIO . La questione (letteraria) della lingua in Italia: la scelta del codice CASO STUDIO . L’interminabile questione della lingua: la Norvegia CASO STUDIO . Alfabeti del Mediterraneo e più in là: cambio di carattere e cambio di prospettiva CASO STUDIO . La morfosintassi del ladino CASO STUDIO . Il còrso standard CASO STUDIO . Il rumantsch grischun CASO STUDIO . L’equilibrio infranto: la Iugoslavia CASO STUDIO . Catalogna e Finlandia: armonia e conflitto CASO STUDIO . Scuole del continente CASO STUDIO . Il Belgio e il bilinguismo territoriale negativo CASO STUDIO . Due lingue, una nazione: l’Irlanda CASO STUDIO . La Norma CASO STUDIO . Nascita di una lingua: il macedone CASO STUDIO CASO STUDIO



                     

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