La nuova lotta di classe [CORRETTO]

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SLAVOJ ZIZEK

LA NUOVA LOTTA D I CLASSE Rifugiati, terrorismo e altri problemi coi vicini

Traduzione di Vincenzo O stuni

PONTE ALLE GRAZIE

1.

Il duplice ricatto

Nel suo studio classico La morte e il morire, Elisabeth Kiibler-Ross1 espone una ormai celebre descrizione del modo in cui reagiamo alla notizia di soffrire di una malattia terminale. La nostra risposta si sviluppa in cinque stadi: negazione (semplicemente, ci rifiutia­ mo di accettare lo stato di fatto: «Non può esser vero, non può succedere a me»); rabbia (che esplode quan­ do non possiamo più negare: «Com’è possibile che sia successo a me?»); il venire a patti (la speranza di poter in qualche modo rimandare o sminuire il fatto: «Lasciatemi vivere fino a che i miei figli si laureano»); depressione (disinvestimento libidico: «Sto per mori­ re, inutile preoccuparsi più di niente»); accettazione («Non ci posso far nulla; tanto vale prepararmi alla morte»). Kiibler-Ross ha applicato questi stadi a ogni genere di perdita personale catastrofica (disoccupa­ zione, morte di una persona amata, divorzio, tossicodipendenza); ha anche sottolineato che non si presen­ tano necessariamente nello stesso ordine, e che non sempre si passa per tutti e cinque.

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nuova lotta d i classe

Oggi, in Europa occidentale, la reazione tanto del­ le autorità quanto della pubblica opinione al flusso di rifugiati che giungono dall’Africa e dal Vicino Orien­ te2 sembra comprendere una simile combinazione di reazioni disparate. Anche se sempre meno, si verifica la negazione: «Non è un fatto grave, ignoriamolo». Poi la rabbia: «I rifugiati minacciano il nostro stile di vita - e non bastasse, fra di loro si annidano i radicali isla­ mici. Dobbiamo fermarli a tutti i costi!» C’è il venire a patti: «Va bene, stabiliamo quote e sovvenzioniamo i campi profughi nei loro paesi!» C’è la depressione: «Siamo perduti, l’Europa diventerà un Europastan!» Quel che manca del tutto, fra queste risposte, è però l’ultimo stadio di Kubler-Ross: l’accettazione, che in questo caso significa un coerente progetto di livello europeo che affronti la questione dei rifugiati. Gli attacchi terroristici di Parigi del novembre 201‘5 hanno complicato ancora la questione. È naturale: ogni atrocità va incondizionatamente condannata, ma - questo «ma» non introduce alcuna circostanza attenuante: non può esservene alcuna - ma il fatto è che dev’essere condannata veramente. Ciò di cui una condanna del genere ha bisogno è più di quan­ to i mezzi di comunicazione solitamente ritraggano, il semplice e patetico spettacolo della solidarietà di noi tutti (noi liberi, noi democratici e civilizzati) con­ tro il Mostro Islamico omicida. Nelle dichiarazioni solenni secondo cui siamo tutti in guerra contro lo Stato Islamico c’è qualcosa di bizzarro: tutte le su­ perpotenze del mondo contro una gang religiosa che

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controlla una striscetta di terra per lo più desertica... Ciò non significa - è evidente - che non dovremmo concentrarci sulla distruzione dell’ISIS, senza se e senza «ma». L’unico «ma» è che dovremmo vera­ mente concentrarci sul distruggerlo. Per determinare questa distruzione, abbiamo bisogno di molto di più di dichiarazioni e appelli patetici alla solidarietà delle forze «civilizzate» contro il demonizzato nemico fon­ damentalista. Quello che dobbiamo evitare di fare è attaccare con la solita litania della sinistra progressi­ sta: «Non possiamo combattere il terrore col terrore, la violenza genera solo altra violenza». Adesso è arri­ vato il momento di cominciare a sollevare questioni spiacevoli: com’è mai possibile che lo Stato Islamico esista e sopravviva? Lo sappiamo tutti: nonostante la formale condanna e ripulsa universale, esistono forze e Stati che, di nascosto, non solo lo tollerano ma lo sostengono. Come ha sottolineato di recente David Graeber, se la Turchia avesse messo in opera nei territori dell’ISIS lo stesso blocco assoluto che nelle parti della Siria con­ trollate dai curdi, e avesse riservato al PKK e all’YPG lo stesso genere di «non interferenza» che ha offerto allo Stato Islamico, questo sarebbe crollato da tempo e gli attacchi di Parigi probabilmente non si sarebbe­ ro verificati.3 Cose del genere accadono altrove nella regione: l’Arabia Saudita, il principale alleato degli Stati Uniti, vede con favore la guerra dell’ISIS contro gli sciiti, e persino Israele è stranamente tiepido nel condannare l’ISIS, in base a considerazioni opportu-

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rùstiche (l’ISIS combatte le forze sciite filoiraniane, e Israele considera l’Iran il suo peggior nemico). L’accordo sui rifugiati fra UE e Turchia, annun­ ciato alla fine di novembre del 2015 - la Turchia fre­ nerà il flusso di. rifugiati verso l’Europa in cambio di generosi aiuti finanziari, inizialmente di 3 miliardi di euro - è un patto indecente e disgustoso, una vera e propria catastrofe etico-politica. È così che dev'essere combattuta la «guerra al terrorismo», soccombendo al ricatto turco e remunerando uno dei principali col­ pevoli dell’ascesa dell’ISIS in Siria? La giustificazio­ ne pragmatico-opportunistica dell’accordo è chiara (comprarsi la Turchia è il modo più ovvio di limitare il flusso dei rifugiati) ma le conseguenze a lungo termine saranno disastrose. Questo sfondo oscuro rende evidente che la «guerra totale» contro l’ISIS non dev’essere presa sul serio - i grandi combattenti non ne hanno davvero in­ tenzione. Ci troviamo senz’altro nel bel mezzo dello scontro di civiltà (l’Occidente cristiano contro l’Islam radicalizzato) ma di fatto esistono scontri all’interno di ogni civiltà: nello spazio cristiano, Stati Uniti ed Eu­ ropa occidentale contro la Russia; nello spazio musul­ mano, sunniti contro sciiti. La mostruosità dellTSIS serve come un feticcio che copre tutte queste contese, ciascuna sponda delle quali finge di combattere l’ISIS con il vero scopo di colpire il proprio nemico. Dobbiamo subito notare, intraprendendo un’ana­ lisi seria che voglia oltrepassare i luoghi comuni della «guerra al terrorismo», che gli attacchi di Parigi sono

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stati un momento di brutale rottura della normale vita quotidiana. (In modo ovviamente significativo, gli at­ tacchi si sono concentrati non sul potere militare o po­ litico dell’Occidente, bensì su simboli della comune cultura popolare: ristoranti, una sala per concerti rock, uno stadio calcistico). Questa forma di terrorismo un’interferenza improvvisa - tende a caratterizzare gli attacchi contro le nazioni sviluppate occidentali, in evidente contrasto con quanto accade in molti paesi di tutto il mondo, dove la violenza è una condizione permanente della vita. Si pensi alla vita di ogni gior­ no in Congo, Afghanistan, Siria, Iraq, Libano... dove sono le effusioni di solidarietà internazionale di fronte alle atrocità che vi vengono costantemente perpetra­ te? Dovremmo ricordarci, tanto più adesso, che vivia­ mo in una specie di serra, in cui la violenza terroristica esiste perlopiù nell’immaginazione pubblica in forma di minaccia che a intermittenza esplode, al contrario dei paesi nei quali - di solito con la partecipazione o la complicità dell’Occidente - la vita quotidiana consiste di terrore e brutalità praticamente ininterrotti. Nel Mondo dentro il capitale,4 Peter Sloterdijk di­ mostra come, attraverso i processi della globalizzazio­ ne, il sistema capitalistico sia arrivato a determinare tutte le condizioni di vita. Uno dei primi segni rilevan­ ti di questo stadio del suo sviluppo fu la costruzione del Crystal Palace di Londra, la sede della prima espo­ sizione universale del 1851. Era un esempio tangibi­ le dell’inevitabile esclusività della globalizzazione, in quanto costruzione ed espansione di un interno gio­

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baie i cui confini invisibili sono tuttavia praticamente insormontabili dal di fuori, e che è oggi abitato dal mi­ liardo e mezzo di «vincitori» della globalizzazione; più del triplo sono lasciati fuori dalla porta. Di conseguen­ za, con le parole di Sloterdijk, «lo spazio mondano in­ terno del capitale non è un'agorà né un mercato a cielo aperto, è al contrario una serra, che ha risucchiato al suo interno tutto ciò che prima era esterno»5. Questo interno, costruito sugli eccessi capitalistici, determina tutto: «La questione principale della Modernità non è che la Terra giri intorno al Sole, bensì che il denaro giri intorno alla Terra».6 Dopo il processo che trasformò il mondo in globo, «la vita sociale [...] potè [va] aver luogo solo entro degli Interni ampliati, in uno spazio interno disposto come una casa e artificialmente cli­ matizzato».7 Ora, con il dominio completo del capita­ lismo culturale, tutte le sollevazioni potenzialmente in grado di cambiare il mondo vengono frenate: «A que­ ste condizioni non ci pot[eva] essere più spazio per nessun evento storico» - oggi, ogni rottura del genere può essere al massimo un «incidente domestico».8 Quel che Sloterdijk fa correttamente notare è che la globalizzazione capitalistica significa non solo aper­ tura e conquista, ma anche l’idea di un globo racchiu­ so in sé che separa il Dentro privilegiato dal Fuori. Questi due aspetti della globalizzazione sono insepa­ rabili: la portata globale del capitalismo si fonda sul modo in cui esso introduce una divisione di classe ra­ dicale nell’intero globo, separando chi è protetto dalla sfera e chi è lasciato fuori ed è dunque vulnerabile.

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Tanto gli attacchi terroristici di Parigi quanto l’or­ mai costante flusso di rifugiati in Europa sono dunque improvvisi promemoria del mondo violento che si tro­ va fuori della nostra serra: un mondo che, a noi che siamo dentro, si manifesta per lo più in televisione e nei reportage su conflitti lontani, non come parte della nostra realtà quotidiana. È questo il motivo per cui abbiamo il dovere di ottenere una piena consapevo­ lezza della violenza brutale che pervade il mondo al di fuori del nostro ambiente protetto - una violenza che non è solo religiosa, etnica e politica ma anche sessua­ le. Nella sua eccellente analisi del processo alPatleta sudafricano Oscar Pistorius, Jacqueline Rose ha mo­ strato come romicidio della sua fidanzata Reeva Steenkamp vada letto sia sul complesso sfondo del timore dei bianchi della violenza dei neri sia della terribile realtà della diffusissima violenza contro le donne. In Sud Africa, ogni quattro minuti viene denun­ ciato uno stupro di una donna o di una ragazza: spesso adolescenti, talvolta bambine; ogni otto ore una donna viene uccisa dal suo compagno. Il fenomeno ha un nome, in Sud Africa: «femminicidio intimo» o, come Margie Orford, giornalista e giallista, definisce i ripetuti assassini di donne nel paese, «femminicidio seriale».* Questa violenza contro le donne non andrebbe in nessun caso accantonata come marginale. Oggi, le cri­ tiche anti-colonialiste all’Occidente - provenienti da 13

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fonti così disparate come il gruppo islamista radicale nigeriano Boko Haram fino al presidente dello Zim­ babwe Robert Mugabe e a Vladimir Putin - si manife­ stano sempre più spesso nella forma del rifiuto di quel che designano come confusione sessuale occidentale, e della richiesta di ritornare a una gerarchia sessuale «tradizionale». Naturalmente, sono ben consapevole che l’esportazione del femminismo e dei diritti umani individuali occidentali può servire come strumento di neocolonialismo ideologico ed economico (tutti ricor­ diamo che alcune femministe americane sostennero l’intervento statunitense in Iraq in quanto possibilità di «liberazione» per le donne di laggiù: il risultato, come sappiamo, è stato l’esatto opposto1"): tuttavia non bisognerebbe in alcun modo concludere che la sinistra occidentale debba venire a qualche sorta di «compromesso strategico» che tacitamente tolleri la persecuzione delle donne e degli omosessuali in nome della «superiore» lotta anti-imperialista. Che cosa fare, dunque, delle centinaia di migliaia di persone che, nel disperato tentativo di sfuggire alla guerra e alla fame, attendono in Nord Africa o sulle spiagge della Siria di attraversare il Mediterraneo per trovare rifugio in Europa? Si presentano due rispo­ ste principali, due versioni di ricatto ideologico, che ci rendono irreparabilmente colpevoli. I progressisti, esprimendo il loro sdegno per il modo in cui l’Europa sta lasciando che affoghino a migliaia nel Mediterra­ neo, sostengono che l’Europa dovrebbe mostrare soli­ darietà e spalancare le porte. I populisti anti-immigra-

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zione, viceversa, affermano che dovremmo proteggere il nostro stile di vita, alzare i ponti levatoi e lasciare che africani e arabi risolvano da sé i loro problemi. Entrambe le soluzioni sono sbagliate, ma qual è peg­ giore? Parafrasando Stalin: sono entrambe peggiori. I più ipocriti sono coloro che propugnano confi­ ni aperti: fra sé e sé, sanno benissimo che questo non accadrà mai, perché innescherebbe un’istantanea ri­ volta populista in tutta Europa. Fanno la parte delle anime belle, si sentono superiori alla corruzione del mondo mentre ne sono segretamente complici: han­ no bisogno di questo mondo corrotto perché è l’unico campo sul quale possono esercitare la loro superiorità morale. La ragione per cui simili appelli alla compas­ sione verso i poveri rifugiati che accorrono in Europa non sono sufficienti, venne formulata un secolo fa da Oscar Wilde nelle prime righe òt\YAnima dell’uomo sotto il socialismo. Vi sosteneva che «è molto più facile solidarizzare con la sofferenza che con il pensiero»: La più parte della gente [... si] trova circondata da una miseria spaventosa, da una bruttezza spaventosa, da una fame spaventosa. E inevita­ bile che si senta fortemente commossa da tutto ciò. [...] Per conseguenza, con ammirevoli ben­ ché sbagliate intenzioni, essa molto seriamente e molto sentimentalmente si assume il compito di porre rimedio ai mali che vede. Ma sono rimedi che non guariscono la malattia: la prolungano e basta. In realtà, quei rimedi fanno parte della malattia.

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Ad esempio, si cerca di risolvere il problema della povertà mantenendo in vita i poveri; o, se­ condo l’opinione di una scuola assai più all’avan­ guardia, divertendoli. Ma questa non è una soluzione: è un’aggravante della difficoltà. Lo scopo appropriato è di cer­ care di ricostruire la società su fondamenti tali che la povertà risulti impossibile. E le virtù al­ truistiche hanno sul serio impedito il raggiungi­ mento di questo scopo.11 Per quel che riguarda i rifugiati, il nostro giusto obiettivo sarebbe cercare di ricostruire la società glo­ bale in modo tale che non ci siano più rifugiati dispe­ rati e costretti a vagare. Per quanto possa apparire utopistica, questa soluzione su vasta scala è l’unica realistica, e l’esibizione di virtù altruistiche finisce per impedirne la realizzazione. Più trattiamo i rifugiati come oggetti di aiuti umanitari, e lasciamo che la si­ tuazione che li ha obbligati a lasciare i loro paesi si affermi, più tenteranno di venire in Europa, fino a che le tensioni raggiungeranno il punto d ’ebollizione, non solo nei loro paesi d’origine ma anche qui. Dunque, posti di fronte a questo doppio ricatto, torniamo alla grande domanda leninista: che fare?

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La crisi dei rifugiati offre all’Europa una possibilità unica di ridefinirsi, di contraddistinguersi dai due poli che le si oppongono: il neoliberismo anglosassone e il capitalismo autoritario permeato di «valori asiatici». Chi lamenta il continuo declino dell’Unione Europea sembra idealizzarne il passato - di fatto, l’Europa «de­ mocratica» che compiangono non è mai veramente esistita. Le recenti politiche dell’Unione non rappre­ sentano che il disperato tentativo di adattare l’Europa al nuovo capitalismo globale. La consueta visione pro­ gressista dell’Unione - va abbastanza bene, tranne per un piccolo «deficit democratico» - tradisce la stessa ingenuità dei critici dei paesi ex comunisti, che in pratica li sostenevano lamentandosi al contempo del­ la mancanza di democrazia. In nessuno dei due casi, gli oppositori amichevoli sono riusciti a comprendere che il «deficit democratico» era una caratteristica ne­ cessaria e innata delle due strutture. Su questo punto, però, mi sento anche più scettico e pessimista. Di recente, mentre rispondevo ad alcune

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domande dei lettori sulla Suddeutsche Zeitung a pro­ posito della crisi dei rifugiati, quella che aveva attratto l’attenzione di gran lunga maggiore riguardava preci­ samente la democrazia, ma con una torsione destrorso-populista: quando Angela Merkel ha pronunciato il suo celebre appello pubblico invitando centinaia di migliaia di rifugiati in Germania, dov’era la sua legit­ timazione democratica? Che cosa le dava il diritto di cambiare così profondamente la vita dei tedeschi senza nessuna consultazione democratica? Qui non m’inte­ ressa ovviamente sostenere i populisti anti-immigrazione, ma evidenziare chiaramente i limiti della legitti­ mazione democratica. Lo stesso vale per chi propugna un’apertura drastica dei confini: si rendono conto che, essendo le nostre democrazie Stati-nazione, quella ri­ chiesta equivale a una sospensione della democrazia, e che dunque bisognerebbe consentire che una trasfor­ mazione fondamentale, gigantesca di un paese avvenga senza che la sua popolazione sia consultata democrati­ camente? (La risposta sarebbe potuta essere, natural­ mente, che bisognerebbe garantire ai rifugiati il diritto di voto; ma chiaramente non sarebbe bastato, perché il provvedimento può esser preso solo dopo che i rifugiati sono già stati integrati nel sistema politico di un paese). Un problema simile nasce con gli inviti alla trasparen­ za nelle decisioni della UE: quel che fra l’altro temo è che, visto che in molti paesi la maggioranza della po­ polazione non ha nessuna voglia di aiutare la Grecia, rendere pubbliche le negoziazioni europee indurrebbe i rappresentanti di questi paesi a chiedere misure anco­

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ra più dure nei confronti dei greci... C’imbattiamo nel vecchio problema: che cosa ne è delle democrazia se la maggioranza è favorevole a votare, mettiamo, leggi raz­ ziste o sessiste? Non temo di trarre la conclusione che una politica emancipativa non dovrebbe essere a priori obbligata a procedure di legittimazione formalmente democratica. No: molto spesso, non sappiamo quello che vogliamo, o non vogliamo quel che sappiamo, o vogliamo la cosa sbagliata. Da qui non si scappa. Oggi dov’è dunque l’Europa? Nella morsa degli Stati Uniti da un lato e della Cina dall’altro. Stati Uni­ ti e Cina rappresentano entrambi, da un punto di vi­ sta metafisico, la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato. In un’epoca in cui anche l’ultimo angolo del globo terrestre è stato con­ quistato dalla tecnica ed è diventato economicamente sfruttabile, in cui qualunque evento, in qualsiasi luo­ go è divenuto accessibile in qualsivoglia momento alla massima velocità; in cui, grazie alle dirette dei media, si può «vivere» nel medesimo tempo una battaglia nel deserto iracheno e un’opera in un teatro di Pechino, in cui il tempo, nella rete digitale globale, non è più che velocità, istantaneità e simultaneità, che il vinci­ tore di un reality show è considerato un eroe naziona­ le; allora, proprio allora, l’interrogativo: a che scopo? dove? e poi?, continuamente ci si presenta come uno spettro, al di sopra di tutta questa stregoneria. Chiunque abbia dimestichezza con l'Introduzione alla metafisica (Einfuhrung in die Metaphysik) di Hei-

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elegger riconoscerà facilmente in questo capoverso una parafrasi ironica della sua diagnosi della situazio­ ne europea alla metà degli anni Trenta.12 Oggi, fra noi europei c’è bisogno di quella che Heidegger chiamava Auseinandersetzung («confronto interpretativo») con i non europei e con lo stesso passato dell’Europa, in tutta la sua estensione, dalle radici antiche e giudaicocristiane fino all’idea, recentemente scomparsa, del welfare state. Oggi l’Europa è divisa tra il cosiddetto modello anglosassone - accettare l’idea della moder­ nizzazione (un eufemismo per l’adeguamento alle re­ gole del nuovo ordine globale) - e il modello franco­ tedesco, che consiste nel conservare il più possibile il welfare state postbellico «vecchia Europa». Per quanto opposte, queste opzioni costituiscono due facce della stessa medaglia, ed è per questo che il nostro obiettivo non dovrebbe né essere il ritorno a forme idealizzate di passato - entrambi i modelli sono evidentemente esauriti - né convincerci, in quanto europei, che per sopravvivere come potenza mondiale dovremmo adat­ tarci il più rapidamente possibile alle tendenze recenti della globalizzazione (cosa che del resto l’Europa sta già facendo). Né dovremmo porci il compito di fare quella che è probabilmente la scelta peggiore, ovvero una «sintesi creativa» fra le tradizioni europee e la glo­ balizzazione, con lo scopo di realizzare qualcosa che saremmo tentati di chiamare una «globalizzazione dal volto europeo». Ogni crisi è in sé istigazione a un nuovo inizio, ogni fallimento di misure pragmatiche di breve termine (per

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esempio, la riorganizzazione finanziaria dell’Unione Europea) un male apparente, un’occasione per ripen­ sare le nostre stesse fondamenta. Ciò di cui abbiamo bisogno è una Wiederholung, un «recupero-medianteripetizione»: confrontandoci criticamente con l’intera tradizione europea, dovremmo ripeterci la domanda: «Che cos’è l’Europa?» o, meglio: «Che cosa significa per noi essere europei?» e, nel far questo, formulare una nuova visione. È un compito difficile. Ci costringe ad assumere il grande rischio d ’inoltrarci nell’ignoto - eppure l’unica alternativa è il lento declino al quale gli amministratori dell’Unione Europea concorrono alacremente. Capita che i volti diventino simboli: non simboli della forte individualità dei loro proprietari, ma del­ le forze anonime che li muovono. Il sorriso stupido di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, non è il simbolo della pressione brutale dell’UE sulla Grecia? Di recente, il trattato commerciale intemazio­ nale TTIP (Transatlantic Trade and Investment Part­ nership [Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti]) si è procurato un nuovo simbolo: la fredda risposta di Cecilia Malmstròm, commissario europeo per il commercio che, quando un giornalista le ha chiesto come facesse a continuare la sua opera di promozione del TTIP nonostante l’enorme opposizio­ ne popolare, ha risposto senza vergogna: «Il mio man­ dato non mi è stato conferito dal popolo europeo».15 Insuperabile ironia della sorte, il suo cognome è una variante di «maelstróm».

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Il quadro complessivo dell’impatto sociale del TTIP è sufficientemente chiaro: niente di meno di un assalto brutale alla democrazia. Questo è parti­ colarmente evidente nel caso della cosiddetta ISDS (.Investor-State Dispute Settlement [Risoluzione del­ le controversie tra investitori e Stati]), che permette alle imprese di far causa ai governi se le loro politiche generano perdite di profitti. In parole povere, questo significa che multinazionali non elette possono impor­ re linee politiche a governi democraticamente eletti. Le ISDS sono già previste da alcuni accordi commer­ ciali bilaterali, dunque possiamo osservarne il funzio­ namento. L’impresa energetica svedese Vattenfall ha chiesto al governo tedesco un indennizzo di miliardi di dollari per la sua decisione - successiva al disastro di Fukushima - di dismettere gradualmente le centrali nucleari. Su una politica di salute pubblica adottata da un governo democraticamente eletto pesa dunque la minaccia di un gigante dell’energia a causa della po­ tenziale perdita di profitti. Ma tralasciamo per un mo­ mento il quadro complessivo e concentriamoci su una questione più specifica: che cosa significherà il TTIP per la produzione culturale europea? Nel racconto di Edgar Allan Poe Una discesa nel Maelstròm (1841), il narratore racconta di come, dopo un naufragio, riuscì ad evitare di esser risucchiato in un gorgo gigantesco. Ricorda il fenomeno molto vivi­ damente: i corpi più grandi vi precipitavano più rapi­ damente, e gli oggetti sferici vi venivano attratti più velocemente di tutti gli altri. Vedendo questo, abban­

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donò la nave e si aggrappò a un barile cilindrico fino a che, parecchie ore dopo, fu salvato. I fautori della cosiddetta «eccezione culturale» non immaginano qualcosa del genere? Mentre le no­ stre grandi imprese vengono risucchiate nel vortice del mercato globale, forse possiamo riuscire a salvarne alcuni prodotti culturali «leggeri» e marginali. In che modo? Esentando i prodotti culturali dalle regole del libero mercato: permettendo agli Stati di sovvenziona­ re la propria produzione artistica (con sussidi statali, tasse più basse ecc.), anche se questo dà luogo a uno «sbilanciamento competitivo» nei confronti di altri paesi. La Francia, ad esempio, insiste che solo così il suo cinema nazionale può sopravvivere all’assalto dei blockbuster di Hollywood. Questo eccezionalismo può funzionare? Misure del genere possono giocare un ruolo positivo, seb­ bene limitato, ma vedo due problemi. In primo luo­ go, nell’odierno capitalismo globale, la cultura non è più una semplice eccezione, una sorta di fragile so­ vrastruttura che emerge dalla «reale» infrastruttura economica, ma sempre più un ingrediente fondamen­ tale nella nostra generale economia «reale». Oltre un decennio fa, Jeremy Rifkin designò questa nuova fase della nostra economia «capitalismo culturale».14 La caratteristica chiave del capitalismo «postmoderno» è la mercificazione diretta della nostra stessa esperienza. Compriamo sempre meno prodotti (oggetti materia­ li) che vogliamo possedere; sempre più, compriamo esperienze di vita, esperienze sessuali, alimentari, co­

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municative, di consumo culturale. Così facendo, par­ tecipiamo a uno stile di vita - o, usando l’espressione sintetica di Mark Slouka, «diventiamo [...] consu­ matori della nostra vita».15 Non compriamo più og­ getti, in definitiva compriamo (il tempo del)la nostra stessa vita. In questo modo, la nozione foucaultiana della trasformazione del Sé in un’opera d’arte riceve una conferma inattesa: compro la mia forma fisica frequentando palestre; compro la mia illuminazione spirituale iscrivendomi a corsi di meditazione trascen­ dentale; compro una soddisfacente esperienza di me come ecologicamente consapevole acquistando solo frutta biologica; e via dicendo. Secondo problema: anche se l’Europa dovesse ri­ uscire a far valere «eccezioni culturali» al TTTP, che tipo di Europa sopravvivrà al dominio del TTIP? La questione non è dunque se la cultura europea possa sopravvivere al TTIP, ma che cosa farà il TTIP alla no­ stra economia. L’Europa diventerà gradualmente quel che l’antica Grecia fu per la Roma imperiale: il luogo del cuore dei turisti americani e cinesi, la destinazione di un turismo culturale nostalgico ma senza più un’ef­ fettiva rilevanza nel mondo?

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3. Rompere i tabù della sinistra

Per recuperare il nucleo emancipativo dell’idea di Eu­ ropa, dovremo lasciarci alle spalle tutta una serie di tabù della sinistra: atteggiamenti che impongono di non toccare neppure determinati argomenti, lascian­ doli al loro corso. Il primo è una sciocchezza bell’e buona, mascherata da profonda saggezza: «Un ne­ mico è qualcuno di cui non hai ascoltato la storia».1* Di questa idea non c’è miglior esempio letterario del Frankenstein di Mary Shelley. Shelley fa qualcosa che un conservatore non avrebbe mai fatto. Nella parte centrale del libro, permette al mostro di dire la pro­ pria, di raccontare la vicenda dalla sua prospettiva. La scelta dell’autrice esprime la propensione progressi­ sta17 verso la libertà di parola nel suo aspetto più ra­ dicale: bisogna ascoltare il punto di vista di tutti. In Frankenstein, il mostro non è una Cosa, un oggetto orribile con cui nessuno osa confrontarsi; anzi, è to­ talmente soggettivato. Mary Shelley si inoltra nella sua mente e si chiede come ci si sente ad essere etichetta­ ti, definiti, oppressi, scomunicati, persino fisicamente

La nuova lotta di cibasse

deformati dalla società. In questo modo, si permette al sommo criminale di presentarsi come l’ultima delle vittime. Il mostruoso assassino si rivela un individuo profondamente ferito e disperato, che agogna vicinan­ za e amore. Questa procedura ha però un limite chia­ ro. Siamo disposti ad affermare che Hider era un ne­ mico solo perché non abbiamo ascoltato la sua storia? O, al contrario, accade che più «comprendo» Hitler e più Hitler è mio nemico? Il movimento dall’esteriorità di un azione al suo «significato interno», la narrazione per mezzo della quale l’agente la interpreta e la giustifica, avviene in direzione di un mascheramento ingan­ nevole. L’esperienza delle nostre vite dal di dentro, le storie che ci raccontiamo per dar conto di quel che noi stessi facciamo, sono fondamentalmente bugie. Al contrario, la verità è fuori, nelle nostre azioni, in quel che facciamo. Il secondo tabù da scardinare è l’equiparazione, davvero troppo spedita, dell’eredità emancipativa dell’Europa con l’imperialismo culturale e il razzismo: a sinistra, molti tendono a tacciare ogni menzione dei «valori europei» come forma ideologica di coloniali­ smo eurocentrico. Malgrado la parziale responsabili­ tà dell’Europa per la situazione da cui i rifugiati oggi fuggono, è venuto il momento di disfarsi del mantra secondo cui il nostro compito principale dovrebbe es­ sere la critica dell’eurocentrismo. Una chiara lezione del mondo post 11 settembre è che il sogno di Francis Fukuyama - di una democrazia liberale globale - si è rivelato un’illusione. Tuttavia, a livello economico, il

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capitalismo ha trionfato ovunque: le nazioni in via di sviluppo che lo hanno abbracciato - Cina, Vietnam ecc. - sono quelle che ora crescono a tassi spettacolari. Il capitalismo globale non trova alcuna difficoltà nell’adattarsi a una grande varietà di religioni, culture, tradizioni locali; anzi, l’apparenza della diversità cul­ turale è rafforzata dal reale universalismo del capitale globale. E questo nuovo capitalismo globale funziona anche meglio se, dal punto di vista politico, è organiz­ zato secondo i cosiddetti «valori asiatici», ovvero in modo autoritario. La crudele ironia dell’anti-eurocentrismo è dunque che, in nome dell’anticolonialismo, si critica l’Occidente proprio nel momento storico in cui il capitalismo globale ha smesso - per funziona­ re senza intoppi - di aver bisogno dei valori culturali occidentali, e se la cava benissimo con la «modernità alternativa», la forma non democratica della moder­ nizzazione capitalista che è dato trovare nel capitali­ smo asiatico. Insomma, i critici dell’eurocentrismo rifiutano i valori culturali dell’Occidente proprio nel momento in cui, se reinterpretati criticamente, mol­ ti di essi - egualitarismo, diritti umani fondamentali, welfare state, per fare qualche esempio - potrebbero servire da arma contro la globalizzazione capitalista. Abbiamo già dimenticato, infatti, che tutta l’idea di emancipazione comunista immaginata da Marx è un’i­ dea completamente «eurocentrica»? Altra zavorra da cui liberarsi è il tabù secondo cui la protezione del proprio modo di vita sia in sé una ca­ tegoria protofascista o razzista. L’idea funziona gros-

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so modo così: se insistiamo nel proteggere il nostro modo di vita, apriamo la strada all’ondata xenofoba che prospera in tutt’Europa e il cui ultimo segnale è il fatto che, nei recenti sondaggi, i Democratici Svedesi, formazione contraria all’immigrazione, hanno supera­ to per la prima volta i socialdemocratici e sono diven­ tati il partito più forte del paese. Invece, è possibile rispondere alle preoccupazioni che la gente comune nutre al riguardo del proprio specifico modo di vita anche da un punto di vista di sinistra: il democrati­ co statunitense Bernie Sanders ne è la prova vivente. Va chiaramente detto che la vera minaccia al nostro comune modo di vita non è impersonata dai rifugia­ ti ma risiede nella dinamica del capitalismo globale. Negli Stati Uniti, per esempio, alla distruzione della vita comunitaria nelle piccole città - il modo in cui i comuni cittadini partecipavano agli eventi politici e si adoperavano per risolvere i problemi locali collet­ tivamente - hanno contribuito più i mutamenti eco­ nomici introdotti dalla Reaganomics che tutti gli im­ migranti messi insieme! La reazione progressista alla sola menzione della «protezione del nostro modo di vita» è - questo è chiaro - un’esplosione di arrogante moralismo: secondo questa reazione, nel momento in cui diamo un qualsiasi credito al tema della «prote­ zione del modo di vita» ci compromettiamo irrime­ diabilmente, perché non facciamo altro che proporre una versione più modesta di quanto i populisti antiimmigrazione apertamente sostengono. Del resto, non ci dice questo la storia europea degli ultimi decenni? I

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i tabù df.li.a sinistra

partiti centristi rifiutano il razzismo aperto dei popu­ listi anti-immigrazione, ma allo stesso tempo profes­ sano di «comprendere le preoccupazioni» della gente e mettono in atto una versione più «razionale» delle stesse politiche. Ancora un altro tabù della sinistra dobbiamo ab­ bandonare: la proibizione di ogni critica dell’islam in quanto caso di «islamofobia». Questo tabù è l’immagine perfettamente speculare della demonizzazione dell’islam promossa dai populisti anti-immigrazione: per questo abbiamo il dovere di liberarci del timore patologico di molti progressisti occidentali di peccare di islamofobia. Ricordiamoci di come Salman Rushdie venne accusato di aver provocato senza alcuna neces­ sità i musulmani e dunque ritenuto responsabile (al­ meno in parte) della fatwa che lo condannava a morte: tutt’a un tratto, il punto cruciale della situazione non era la fatwa in sé, ma il modo in cui noialtri avevamo suscitato le ire dei governanti musulmani dell’Iran...18 Il risultato di un atteggiamento simile è quello che po­ tremmo aspettarci: più i progressisti occidentali spe­ cillano i propri sensi di colpa, più vengono accusati dai fondamentalisti musulmani di essere ipocriti che cercano di nascondere il loro odio verso l’islam. Un paradigma che riproduce perfettamente il parados­ so del Super-Io: più obbedisci a ciò che quell’istanza pseudo-morale richiede da te, più ti senti in colpa. Ac­ cade all’incirca così: più tolleri l’islam, più forte sarà la pressione che eserciterà su di te. Si può esser certi che lo stesso valga per l’afflusso dei rifugiati: più l’Eu­

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ropa occidentale gli aprirà i confini, più sarà costretta a sentirsi in colpa perché non ne ha lasciati entrare an­ cora di più, perché non ne potrà mai lasciare entrare a sufficienza. In modo analogo, nel dare accoglienza ai rifugiati, più tolleranza si mostra nei confronti del loro modo di vita, più si è costretti a sentirsi in colpa per non essere tolleranti abbastanza: ai bambini musulma­ ni non si dà maiale nelle scuole, ma se il maiale che gli altri bambini mangiano gli desse fastidio? Alle ragazze si consente di andare a scuola coperte, ma se le ra­ gazze del luogo mezzo svestite dessero loro fastidio? Si tollera la loro religione, ma essa non è trattata con sufficiente rispetto dalle altre ecc. ecc. La premessa nascosta dei critici dell’islamofobia è che l’islam re­ siste in qualche modo al capitalismo globale, che è il principale ostacolo sulla strada della sua espansione incontrollata - e che dunque, per quante riserve pos­ siamo nutrire, la tattica chiede di trascurarle in nome della solidarietà nella Grande Lotta. Questa premessa dev’essere inequivocabilmente respinta. Le opzioni politiche fomite dall’islam sono chiaramente identifi­ cabili: vanno dal nichilismo fascista, parassitario del capitalismo, fino a quel che l’Arabia Saudita rappre­ senta: si può immaginare un paese più integrato nel capitalismo globale di quanto siano l’Arabia Saudita o uno qualunque degli emirati? Al massimo l’islam può offrire (nella sua versione «moderata») un nuovo genere di «modernità alternativa», una visione del ca­ pitalismo priva dei suoi antagonisti, che non può non ricordare il fascismo.

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sinistra

Un ulteriore e molto più sottile tabù da lasciarsi alle spalle è l’equazione di religione politicizzata e fanati­ smo, e il relativo ritratto degli islamisti come esaltati «irrazionali» e premoderni. Contro questo fanatismo, alcuni secolaristi, come Sam Harris, lodano chi pratica un culto religioso (partecipa cioè a rituali religiosi) sen­ za crederci, semplicemente rispettandolo come parte della propria cultura. È stato di fatto proprio l’islam tanto a introdurre quanto a rivendicare pienamente questa distinzione. Mentre nelle società liberali secola­ rizzate d’Occidente il potere statale protegge la libertà pubblica e interviene nello spazio privato (ad esempio quando sospetta una violenza su un bambino), simili «intrusioni nello spazio domestico, la violazione della sfera ‘privata’, non sono ammesse nel diritto islamico, nonostante la conformità nei comportamenti ‘pubbli­ ci’ possa essere molto più rigorosa»19: «ciò che conta per la comunità è la pratica sociale del soggetto mu­ sulmano - compresa la produzione verbale pubblica - non sono i suoi pensieri interni, qualunque essi sia­ no».20 Anche se il Corano dice «creda chi vuole e chi vuole neghi»,21 questo «diritto a pensare quel che si vuole non [...] include il diritto a esprimere pubbli­ camente le proprie convinzioni religiose o morali con l’intento di convertire altri a un falsa devozione».22 Tuttavia, questa partecipazione da non credenti ai riti religiosi può essere altrettanto violenta quanto il più «sincero» fanatismo religioso. Un incidente inte­ ressante si è verificato a New York nel giugno 2015, quando alcune associazioni gay della città stavano fe­

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steggiando pubblicamente la recente legalizzazione a livello federale dei matrimoni omosessuali. Alcuni dei loro oppositori organizzarono contromanifestazioni. Gli ebrei ortodossi del Jewish Politicai Action Committee assoldarono operai messicani perché si vestis­ sero da ebrei e protestassero per conto loro, esibendo cartelli come «L’ebraismo proibisce l’omosessualità» e «Dio creò Adam and Ève, non Adam and Steve». Heshie Freed, rappresentante del gruppo, giustificò l’accaduto affermando che la sostituzione dei messica­ ni agli ebrei aveva lo scopo di proteggere questi dalla corruzione morale: «I rabbini hanno detto che i ragaz­ zi della yeshiva non dovevano andarci, per quello che avrebbero visto alla sfilata». Secondo il commento di un critico mordace, nel frattempo i ragazzi ebrei pro­ babilmente «si scatenavano per strada con l’uccello di fuori», nel bel mezzo della parata gay.25 Una visione meravigliosamente nuova e sorprendente dell’interpassività: assumo altri per protestare al posto mio mentre partecipo proprio a ciò contro cui protesto tramite l’altro. Un buon esempio di come anche un non credente possa godere delle conseguenze pratiche della fede. Ad esempio, si potrebbe persino non cre­ dere in Dio, e tuttavia credere che Dio abbia dato al proprio popolo la terra che esso rivendica. In un discorso della metà del 2015, la viceministra degli Esteri israeliana Tzipi Hotovely pare abbia ■\

detto ai nuovi membri dello staff del ministero degli Esteri [...] che Israele non dovrebbe più

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i tabù della sinistra

parlare in termini velati del possesso della terra, perché è stato Dio a darla agli ebrei. [Hotovely] ha citato un rabbino medievale, Rashi, che scrisse sulla creazione del mondo. In quel testo, il rabbino ipotizzava: «Se le nazioni del mondo dovessero dire a Israele: ‘Siete ladri, poiché avete conquistato con la forza la terra delle sette na­ zioni [di Canaan]’, Israele risponderà: ‘Tutta la terra del mondo appartiene al Santissimo, sia benedetto; Egli l’ha creata, come apprendiamo dalla storia della Creazione, e l’ha data a chi e quando ha creduto opportuno. Egli l’ha data a loro e, quando ha voluto, gliel’ha tolta e l’ha data a noi». Secondo Hotovely, Israele oggi dovrebbe seguire la medesima politica, perché è arrivato al momento di «dire al mondo che abbiamo ra­ gione - e siamo svegli [jw