La nostra storia raccontata da alejandro Barbero e Sandro Carocci Vol. 2. Dall'impero romano all'anno mille 9788842111092

780 39 63MB

Italian Pages 393

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

La nostra storia raccontata da alejandro Barbero e Sandro Carocci Vol. 2. Dall'impero romano all'anno mille
 9788842111092

Table of contents :
Parte V. L’impero greco-romano
12. Cesare e Augusto: la nascita del principato
1. Il primo triumvirato
La disfatta dimenticata: Carre
2. La seconda guerra civile e la dittatura di Cesare
3. La terza guerra civile e l’ascesa di Ottaviano, il futuro Augusto
Il corpo di Cesare
4. Restaurazione e rivoluzione: Augusto al potere
5. Parole importanti
6. Cesare e la conquista della Gallia
7. Il governo di Augusto
8. La politica estera di Augusto
9. Cultura, morale e propaganda politica sotto Augusto
La voce del passato. Le Res gestae di Augusto
10. Dare figli allo Stato
11. Matrimonio e sessualità fra repubblica e impero
Cittadinanza. Il mistero della dote
Sintesi
Esercizi
13. Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
1. Stabilità, pace e difficoltà di successione
2. La dinastia giulio-claudia
3. La dinastia flavia
4. I cosiddetti Antonini o imperatori adottivi
5. La romanizzazione dell’impero
Cittadinanza. Romanizzazione antica e colonialismo moderno
6. La nascita del cristianesimo
La data di nascita di Cristo
7. Impero e buongoverno
I liberti
8. Città e civiltà
9. Gli eserciti dell’imperatore
La voce del passato. Le scritte sui muri
10. Ricchezza delle province, decadenza dell’Italia
I ghiacciai della Groenlandia e il dibattito sull’economia antica
11. Panem et circenses: come conquistare il popolo
I gladiatori
Altri mondi. Cina, India e Africa al tempo dell’impero romano
Sintesi
Esercizi
Parte VI. La tarda Antichità
14. Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
1. Le cause della crisi
2. La dinastia dei Severi
Tutti uguali davanti alla legge?
3. L’anarchia militare
La voce del passato. Un imperatore schiavo
4. La ripresa dell’impero e Diocleziano
5. Le persecuzioni dei cristiani
Le catacombe
6. I problemi finanziari e monetari dell’impero
7. Le riforme di Diocleziano
Cittadinanza. Le tasse
8. Diocleziano e la riforma dell’esercito
9. Diversità regionali
Le Mura aureliane
Sintesi
Esercizi
15. Il secolo di Costantino
1. L’età di Costantino
L’editto di Milano
2. Dai figli di Costantino a Valentiniano e Valente
3. Il cristianesimo non più perseguitato, ma diviso
Cittadinanza. I privilegi del clero
4. La nascita del monachesimo
5. La moneta e il fisco
La voce del passato. Le monete di Costantino
6. L’immigrazione verso l’impero e la barbarizzazione dell’esercito
7. Il colonato
8. La provincializzazione dell’Italia
Sintesi
Esercizi
Parte VII. Il mondo romano-barbarico
16. Le invasioni barbariche
1. L’invasione gotica del 376 e le sue conseguenze
2. L’età di Stilicone e Alarico
La voce del passato. Il pericolo barbarico
3. Dalla nascita dei regni romano-barbarici alla deposizione di Romolo Augustolo
4. Perché finì il mondo antico?
La tesi Pirenne
5. La Chiesa e le controversie religiose
Cittadinanza. La religione di Stato
6. L’etnogenesi, ossia la nascita dei popoli
7. La testimonianza dell’archeologia
La voce del passato. La tomba di un capo franco
Altri mondi. India e Cina dal III al VI secolo
Sintesi
Esercizi
17. I regni romano-barbarici
1. Dalla deposizione di Romolo Augustolo alla morte di Teodorico
2. L’età di Giustiniano
Il Corpus Iuris Civilis
3. L’invasione longobarda dell’Italia e il papato di Gregorio Magno
4. L’Occidente tra VII e VIII secolo
La “questione longobarda”
5. Da funzionari dell’imperatore a re indipendenti
6. Fra civiltà romana e cultura barbarica
La moneta dei re barbari
7. Leggi etniche e diritto romano
La voce del passato. Liutprando e la Romana
8. Un’economia stagnante
La voce del passato. Gregorio di Tours e il topos del declino
9. Una società vischiosa
Cittadinanza. La disuguaglianza davanti alla legge
10. La barbarizzazione del cristianesimo
San Benedetto
Altri mondi. America e Africa dal III al VII secolo
Sintesi
Esercizi
Parte VIII. L’altra Roma
18. La nascita dell’islam e le conquiste arabe
1. Maometto e la nascita dell’islam
2. La lotta per imporre l’islam e la nascita del jihad
Il jihad nel Corano
3. Le lotte per la successione di Maometto e il califfato
4. Le grandi conquiste arabe
La voce del passato. Un cronista siriano racconta la conquista araba
5. La fine delle conquiste arabe e lo sgretolamento dell’impero
6. Islam e cristianesimo: un confronto
7. L’organizzazione dell’impero arabo
La legge coranica e le leggi romano-barbariche
8. La donna e la parentela in epoca coranica
La voce del passato. Il Corano e le donne
9. La civiltà araba
10. I cristiani nell’impero arabo
Cittadinanza. Libertà di culto e luoghi di preghiera
Sintesi
Esercizi
19. L’impero bizantino
1. Un impero mutilato e rinnovato
Bisanzio, “una civiltà inferiore”?
2. L’età dell’iconoclastia
La voce del passato. Il ritratto degli imperatori iconoclasti nella storiografia di parte avversa
3. L’apogeo dell’impero: la dinastia macedone
Mutilare e accecare
4. Un impero romano, greco e cristiano
La voce del passato. Maurizio imperatore e i comandi militari
5. Un impero centralista e burocratico
6. Un’economia statalista in lotta contro i ricchi
Cittadinanza. Lo Stato deve ridistribuire la ricchezza?
7. Un impero dilaniato dai contrasti religiosi
Sintesi
Esercizi
Parte IX. Verso una nuova Europa
20. L’impero di Carlo Magno
1. L’ascesa dei Carolingi e il papato
2. La conquista di un impero e il ruolo del vassallaggio
Carlo: il nome, la nascita, gli amori
3. L’eredità di Carlo Magno
4. Spiegare la potenza dei Franchi: strategia e politica
5. Spiegare la potenza dei Franchi: la macchina militare
6. Spiegare la potenza dei Franchi: la ricchezza
La voce del passato. Campi e fiumi di ferro
7. L’organizzazione dell’impero carolingio
Cittadinanza. Nascita dell’Europa?
8. Proprietari e contadini
Vivere in un manso
9. Commerci e monete
La famiglia aristocratica in età carolingia
10. La rinascita carolingia
11. Fu un governo efficiente?
Altri mondi. Asia, Africa e America fra VIII e X secolo
Sintesi
Esercizi
21. L’età dei signori
1. Divisioni all’interno e incursioni dall’esterno
2. Il potere si frammenta
3. La signoria
Feudalesimo e signoria
4. Gli Stati postcarolingi e l’impero degli Ottoni
5. Il castello, centro di potere
Montarrenti
6. Nobili e cavalieri
Ordine o disordine signorile?
7. Ingabbiare i contadini
Le armi del debole
8. Papato, chiese e monasteri nell’età dei signori
9. Donne e potere
La voce del passato. Pornocrazia romana
10. Alla periferia dell’Europa
La scoperta dell’America
Cittadinanza. Gli ebrei da tollerati a perseguitati
Sintesi
Esercizi
Geostoria
I diritti umani
Verso quale futuro?
L’uomo e il paesaggio
Lo sviluppo sostenibile

Citation preview

RI

A

 storia gecon oS

TO

La

nostra

2 DALL’IMPERO

ROMANO ALL’ANNO MILLE

raccontata da Alessandro

Barbero Sandro Carocci e

Editori Laterza

raccontata da

ge oS co n

nostra

TO

RI

A

 storia La

2 DALL’IMPERO

ROMANO ALL’ANNO MILLE

Alessandro

Barbero Sandro Carocci e

Editori Laterza

© 2012, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari Prima edizione 2012 Le schede Geostoria sono a cura di Laura Rizzo. Gli Apparati didattici sono a cura di Gianluca Bellini.

L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, nel caso non si fosse riusciti a reperirli per chiedere debita autorizzazione. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected], sito web: www.clearedi.org.

Copertina e progetto grafico a cura di Silvia Placidi / Grafica Punto Print s.r.l.

ISBN 978-88-421-1109-2 Editori Laterza Piazza Umberto I, 54   70121 Bari e-mail: [email protected] http://www.laterza.it Questo prodotto è stato realizzato nel rispetto delle regole stabilite dal Sistema di gestione qualità conforme ai requisiti ISO 9001:2008 valutato da Certi W e coperto dal certificato numero IT.12.0160.QMS

Indice del volume PARTE V

L’impero greco-romano

Cap. 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

1. Il primo triumvirato La disfatta dimenticata: Carre

2. La seconda guerra civile e la dittatura di Cesare 3. La terza guerra civile e l’ascesa di Ottaviano, il futuro Augusto

Il corpo di Cesare

4. Restaurazione e rivoluzione: Augusto al potere 5. Parole importanti

4 6 7 9 10 12 15

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

6. 7. 8. 9.

Cesare e la conquista della Gallia Il governo di Augusto La politica estera di Augusto Cultura, morale e propaganda politica sotto Augusto

La voce del passato Le Res gestae di Augusto

10.Dare figli allo Stato 11. Matrimonio e sessualità fra repubblica e impero

Cittadinanza Il mistero della dote Sintesi Esercizi

16 19 21 23 26 27 28 30 32 33

Cap. 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

1. Stabilità, pace e difficoltà di successione 2. La dinastia giulio-claudia 3. La dinastia flavia 4. I cosiddetti Antonini o imperatori adottivi 5. La romanizzazione dell’impero

36 37 42

51 53

La data di nascita di Cristo

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

7. Impero e buongoverno

46

57 I liberti 58 8. Città e civiltà 59 9. Gli eserciti dell’imperatore 62 La voce del passato Le scritte sui muri 62 10.Ricchezza delle province, decadenza dell’Italia 65

48

66

43

Cittadinanza Romanizzazione antica

e colonialismo moderno

6. La nascita del cristianesimo

I ghiacciai della Groenlandia e il dibattito sull’economia antica

Indice del volume

III

11. Panem et circenses: come conquistare il popolo I gladiatori

PARTE VI

Altri mondi Cina, India e Africa al tempo

67 68

dell’impero romano Sintesi Esercizi

70 72 73

La tarda Antichità

Cap. 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

1. Le cause della crisi 2. La dinastia dei Severi Tutti uguali davanti alla legge?

3. L’anarchia militare

La voce del passato Un imperatore schiavo

4. La ripresa dell’impero e Diocleziano

80 81 82 84 86 90

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

5. Le persecuzioni dei cristiani

94 6. I problemi finanziari e monetari dell’impero 97 7. Le riforme di Diocleziano 98 Cittadinanza Le tasse 100 8. Diocleziano e la riforma dell’esercito 102 9. Diversità regionali 103 Le Mura aureliane 104 Sintesi 107 Esercizi 108 Le catacombe

93

Cap. 15 Il secolo di Costantino E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

1. L’età di Costantino

112 L’editto di Milano 113 2. Dai figli di Costantino a Valentiniano e Valente 116 I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

3. Il cristianesimo non più perseguitato, ma diviso Cittadinanza I privilegi del clero

PARTE VII

118 120

4. La nascita del monachesimo 5. La moneta e il fisco La voce del passato Le monete di Costantino

121 123 124

Sintesi Esercizi

125 126 128 130 131

6. L’immigrazione verso l’impero e la barbarizzazione dell’esercito 7. Il colonato 8. La provincializzazione dell’Italia

Il mondo romano-barbarico

Cap. 16 Le invasioni barbariche E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

1. L’invasione gotica del 376 e le sue conseguenze 2. L’età di Stilicone e Alarico

IV

Indice del volume

136 139

La voce del passato Il pericolo barbarico

3. Dalla nascita dei regni romano-barbarici alla deposizione di Romolo Augustolo

142 143

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

4. Perché finì il mondo antico? La tesi Pirenne

5. La Chiesa e le controversie religiose

Cittadinanza La religione di Stato

146 148 150 152

6. L’etnogenesi, ossia la nascita dei popoli 7. La testimonianza dell’archeologia

154 156 La voce del passato La tomba di un capo franco 156 Altri mondi India e Cina dal III al VI secolo 158 Sintesi 160 Esercizi 161

Cap. 17 I regni romano-barbarici E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

1. Dalla deposizione di Romolo Augustolo alla morte di Teodorico 2. L’età di Giustiniano Il Corpus Iuris Civilis

164 167 168

La “questione longobarda”

172 175 176

3. L’invasione longobarda dell’Italia e il papato di Gregorio Magno 4. L’Occidente tra VII e VIII secolo

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

5. Da funzionari dell’imperatore a re indipendenti 6. Fra civiltà romana e cultura barbarica

PARTE VIII

178 180

La moneta dei re barbari

7. Leggi etniche e diritto romano

La voce del passato Liutprando e la Romana

8. Un’economia stagnante

182 185 188 189

La voce del passato Gregorio di Tours

e il topos del declino

9. Una società vischiosa

Cittadinanza La disuguaglianza davanti alla legge

10.La barbarizzazione del cristianesimo

San Benedetto Altri mondi America e Africa dal III al VII secolo Sintesi Esercizi

190 192 192 194 196 198 200 202

L’altra Roma

Cap. 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

1. Maometto e la nascita dell’islam 2. La lotta per imporre l’islam e la nascita del jihad Il jihad nel Corano

3. Le lotte per la successione di Maometto e il califfato 4. Le grandi conquiste arabe

208 211 212

5. La fine delle conquiste arabe e lo sgretolamento dell’impero

La legge coranica e le leggi romano-barbariche

8. La donna e la parentela in epoca coranica

214 215

La voce del passato Il Corano e le donne

218

Cittadinanza Libertà di culto e luoghi di preghiera Sintesi Esercizi

La voce del passato Un cronista siriano

racconta la conquista araba

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

6. Islam e cristianesimo: un confronto 7. L’organizzazione dell’impero arabo

220

9. La civiltà araba 10.I cristiani nell’impero arabo

Indice del volume

V

223 225 228 231 232 234 236 238 241 243

Cap. 19 L’impero bizantino E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

1. Un impero mutilato e rinnovato Bisanzio, “una civiltà inferiore”?

2. L’età dell’iconoclastia

246 250 251

La voce del passato Il ritratto degli imperatori

254 3. L’apogeo dell’impero: la dinastia macedone 256 Mutilare e accecare 257 iconoclasti nella storiografia di parte avversa

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

4. Un impero romano, greco e cristiano

PARTE IX

260

La voce del passato Maurizio imperatore

e i comandi militari

5. Un impero centralista e burocratico 6. Un’economia statalista in lotta contro i ricchi

260 262 264

Cittadinanza Lo Stato deve ridistribuire

la ricchezza?

264

Sintesi Esercizi

266 268 269

7. Un impero dilaniato dai contrasti religiosi

Verso una nuova Europa

Cap. 20 L’impero di Carlo Magno E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

1. L’ascesa dei Carolingi e il papato 2. La conquista di un impero e il ruolo del vassallaggio Carlo: il nome, la nascita, gli amori

3. L’eredità di Carlo Magno

274 276 278 279

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

4. Spiegare la potenza dei Franchi: strategia e politica 5. Spiegare la potenza dei Franchi: la macchina militare 6. Spiegare la potenza dei Franchi: la ricchezza

La voce del passato Campi e fiumi di ferro

7. L’organizzazione dell’impero carolingio Cittadinanza Nascita dell’Europa?

8. Proprietari e contadini Vivere in un manso

9. Commerci e monete La famiglia aristocratica in età carolingia

10.La rinascita carolingia 11. Fu un governo efficiente?

284 285 286 288 290 291 292 295 297

281

Altri mondi Asia, Africa e America fra VIII e X secolo

282

Sintesi Esercizi

298 300 301

4. Gli Stati postcarolingi e l’impero degli Ottoni

314

283

Cap. 21 L’età dei signori E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

1. Divisioni all’interno e incursioni dall’esterno 2. Il potere si frammenta 3. La signoria Feudalesimo e signoria

VI

Indice del volume

305 309 311 312

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

5. Il castello, centro di potere Montarrenti

6. Nobili e cavalieri

318 318 320

Ordine o disordine signorile?

7. Ingabbiare i contadini

Le armi del debole

8. Papato, chiese e monasteri nell’età dei signori 9. Donne e potere

320 322 324

La voce del passato Pornocrazia romana

325 327

Sintesi Esercizi

340

L’uomo e il paesaggio Lo sviluppo sostenibile

10.Alla periferia dell’Europa

La scoperta dell’America Cittadinanza Gli ebrei da tollerati a perseguitati

328 330 332 333 335 336

geoSTORIA

I diritti umani Verso quale futuro?

356

367 376

PARTE V

L’impero greco-romano

L

a mappa che rappresenta l’impero romano al massimo della sua espansione, alla fine del governo dell’imperatore Traiano (98-117), è impressionante. Una città-stato ha assoggettato un territorio immenso e diversissimo. Alcune di queste conquiste in realtà sono state di breve durata, ma nella gran parte degli sterminati territori il dominio di Roma è durato secoli. Era un impero di circa 6 milioni di chilometri quadrati (venti volte la superficie dell’Italia), con estremità distanti oltre 5000 chilometri l’una dall’altra, popolato da una sessantina di milioni di abitanti di tutte le etnie e le culture. Nell’ultima parte del volume precedente abbiamo seguito la principale fase dell’espansione di Roma, che nel 60 a.C. era già arrivata a controllare buona parte delle regioni affacciate sul Mediterraneo. Tuttavia, man mano che le conquiste si estendevano, il sistema politico di Roma entrava in una crisi sempre più profonda. Le istituzioni di una città-stato repubblicana si rivelavano incapaci di governare uno Stato vasto, impegnato in continui conflitti esterni e dilaniato da tensioni interne. Il ripetersi di guerre civili laceranti stremò i Romani e preparò la via a un nuovo regime politico, dove la concentrazione del potere nelle mani di un solo uomo finalmente portasse la pace e il buongoverno. Le grandi famiglie romane, però, erano tenacemente avverse all’idea di una monarchia e andavano fiere della repubblica, il solo sistema politico che sembrava garantire loro libertà e potere. Anche il popolo era restio ad abbandonare cinque secoli di regime repubblicano: Giulio Cesare pagò con la morte la riluttanza collettiva a cambiare l’ordinamento statale. Il suo erede, Augusto, proseguì sulla via della concentrazione dei poteri, ma con gradualità, senza mai pretendere titoli altisonanti e lasciando ai Romani

l’illusione di mantenere le antiche libertà di autogoverno. Così il potere imperiale si consolidò con Augusto e i suoi successori. Nuovi territori furono conquistati e altri passarono dalla condizione di Stati clienti a quella di province. Con il nuovo regime e la duratura pace che seppe garantire, la condizione delle province migliorò nettamente. Roma cessò di comportarsi come un rapinatore interessato solo al bottino. Iniziò a curare buongoverno e prosperità dei territori sottoposti, dove aveva proprietà e da cui otteneva imposte, beni e soldati. Nel II secolo l’impero raggiunse l’apogeo. Fu questa un’epoca di benessere economico per i proprietari fondiari e gli abitanti delle città come mai era avvenuto in passato, e come in seguito non sarà più per molti secoli. Il dominio politico-militare di Roma fu rafforzato dalla sua grande capacità di assimilazione. I popoli sottomessi ottennero molteplici concessioni, fra cui la cittadinanza romana, concessa gradualmente a singole famiglie, città e intere regioni. Acquisirono i modi di vivere e di pensare di chi li aveva conquistati, la lingua, l’arte, le tecniche di costruzione e tanto altro. Questo processo di romanizzazione era destinato a influire per molti secoli sulla storia di quelle regioni. Va ricordato però che la civiltà che l’impero diffondeva ovunque era romana, ma ancor di più greca. L’impero di Roma era un mondo bilingue, dove si parlava greco quasi quanto latino. La cultura, i valori morali, le scienze e i modi di vivere erano al tempo stesso romani e greci, perché derivavano dall’assimilazione della civiltà greca compiuta dai Romani. Per questo possiamo parlare di un impero greco-romano.

Capitolo 12

Cesare e Augusto: la nascita del principato 1. Il primo triumvirato

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Un accordo privato

Nel 62 a.C., di ritorno dalle campagne in Oriente, il generale Pompeo Magno, in segno di rispetto per le istituzioni, aveva congedato i suoi soldati e avanzato al senato due sole richieste: la ratifica dei diversi provvedimenti presi in Oriente e l’assegnazione di terre ai suoi veterani. I senatori ottimati però avevano ritardato di giorno in giorno l’approvazione dei provvedimenti di Pompeo e la distribuzione di terre: pensavano così di riaffermare la propria autorità sulle questioni di politica estera e di diminuire il prestigio del generale presso i suoi soldati. L’accordo fra il senato e il personaggio politico più importante del momento dunque non si era concluso [cfr. vol. 1, cap. 11.7]. Fu Giulio Cesare a saper trarre il massimo vantaggio dallo stallo politico in cui si trovava Roma a causa del contrasto fra il senato e Pompeo. Nel 60 a.C. Cesare fece a Pompeo una proposta allettante: se lo aiutava a vincere le elezioni alla carica di console, poi avrebbe fatto approvare tutte le sue richieste. Nel patto fu coinvolta anche la terza personalità eminente del momento, Crasso, interessata a ottenere migliori condizioni nei contratti di appalto relativi alle province orientali. L’intesa è stata chiamata dagli storici “primo triumvirato” come se fosse una di quelle magistrature composte di tre membri, tipiche delle istituzioni romane, ma in realtà fu un accordo privato (e all’inizio segreto) fra i tre uomini più potenti di Roma, che mettendo assieme clientele e relazioni politiche erano in grado di imporre la loro volontà. Divenuto console nel 59 a.C., Cesare si affrettò a emanare le leggi volute da Pompeo e Crasso. Inoltre impose al senato una riforma agraria così equilibrata che nessuno dei suoi avversari riuscì a trovare solide obiezioni. A differenza delle precedenti riforme agrarie, infatti, la terra da distribuire ai nullatenenti non veniva reperita tramite sequestri, ma facendo acquistare terreni allo Stato con le entrate provenienti dall’Oriente. Oltre 20.000 padri di famiglia con più di due figli e un numero imprecisato di altri plebei ottennero così un podere. Il triumvirato esercitava un controllo quasi totale sullo Stato. Imponeva l’elezione di propri seguaci per gran parte delle magistrature, bloccando ogni possibile opposizione del senato. Cicerone, il più autorevole rivale dei triumviri, fu esiliato con l’accusa di avere violato le leggi quando aveva giustiziato senza processo i seguaci di Catilina [cfr. vol. 1, cap. 11.7]. I senatori dovettero accettare una legge che assegnava a Cesare il governo della Gallia Cisalpina, dell’Illirico e della Gallia Transalpina per i cinque anni successivi al consolato. La scelta di queste province era strana, poiché di rado, al termine del suo mandato, un console sceglieva di amministrare regioni povere e turbolente come la Gallia; tuttavia, l’obiettivo di Cesare non erano i profitti immediati forniti da una ricca provincia, ma la possibilità di compiere conquiste che facessero giungere i confini dell’impero lontano dal Mediterraneo e mettessero per sempre fine all’incubo delle invasioni da nord.

4

Parte V L’impero greco-romano

Verso lo scontro fra Cesare e Pompeo

Cesare partì per la Gallia lasciando Roma nelle mani di uomini di sua fiducia, fra cui il tribuno della plebe Publio Clodio, grande avversario degli ottimati. La conquista della Gallia durò dal 58 fino al 52 a.C., quando fu domata la grande ribellione capitanata dal re degli Arverni, Vercingetorige; i due anni successivi furono occupati ad assicurare per sempre la sottomissione della regione, sterminando o riducendo in schiavitù intere popolazioni [cfr. par. 6]. Lo sviluppo della civiltà celtica fu brutalmente interrotto, e venne sostituito da una graduale ma profonda romanizzazione. Così, con la violenza e il genocidio, il mondo celtico fu immesso nel circuito della “civiltà” romana (mai come in questo caso le virgolette sono indispensabili, visti i massacri dei civilizzatori). Fu un evento cruciale, del quale vedremo tutta l’importanza nel processo di formazione dell’Europa medievale e poi moderna. Durante la conquista della Gallia, nelle strade di Roma divampavano continui disordini politici. Publio Clodio aveva allestito squadre di picchiatori che terrorizzavano gli avversari dei popolari, scioglievano le assemblee a loro sfavorevoli e in mille modi rendevano la violenza fisica il principale modo di fare politica. L’ottimate Milone gli aveva contrapposto una milizia di gladiatori, con l’effetto di moltiplicare gli scontri. Più che di questa anarchia, Pompeo era però preoccu-



Bassorilievo con scena di battaglia 30 a.C. Mausoleo dei Giulii, Saint Remy de Provence, Francia Questo bassorilievo è parte del ciclo decorativo di un monumento funerario gallo-romano situato nell’antica città di Glanum, oggi Saint Remy de Provence, in Francia. Viene ricordato come “Mausoleo dei Giulii” perché onora la morte di Galli i cui antenati avevano ottenuto la cittadinanza romana combattendo nell’esercito romano di Giulio Cesare. La base del monumento ospita quattro scene di battaglia: questa in figura ricorda molto probabilmente uno dei sanguinosi combattimenti tra la cavalleria gallica e quella romana avvenuti nella violenta campagna guidata da Cesare per conquistare la Gallia.

La conquista delle Gallie

BRITANNIA (55-54 a.C.) Svevi

i

an

Belgi

rm

Ge

OCEANO ATLANTICO

(56 a.C.) (52

Alesia (52 a.C.) GALLIA Bibracte (58 a.C.) a.C CELTICA .) i Elvezi an qu (53 a.C e S .) GALLIA (52 a.C.) CISALPINA AQUITANIA GALLIA NARBONENSE SPAGNA CITERIORE Roma ITALIA SPAGNA ULTERIORE ui i Eq ern Av

DACIA MAR NERO

MACEDONIA FRIGIA ASIA

ACAIA MAURETANIA

LICIA

A

NI

TI

BI

IA

IC

L CI

SIRIA

Province di Cesare Province di Crasso

AFRICA

Province di Pompeo MAR MEDITERRANEO

Domìni di Roma (60 a.C.) Conquiste di Cesare Spedizione di Cesare in Gallia (58-52 a.C.) Battaglie

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

5

La disfatta dimenticata: Carre Il 9 giugno del 53 a.C. nelle assolate pianure vicino alla città di Carre (oggi Harran, nell’Alta Mesopotamia turca) l’esercito romano andò incontro alla catastrofe. I cavalieri iranici al comando di un generale dei Parti, Surena, uccisero migliaia di legionari e fecero prigionieri i sopravvissuti. Massima vergogna, i nemici si impossessarono delle insegne delle legioni, e ci vollero anni di trattative perché le restituissero. Il comandante della spedizione, Marco Licinio Crasso, fu ucciso poco dopo la battaglia. A lungo, Carre non è stata considerata dagli storici una battaglia importante. Gli stessi Romani si affrettarono a presentarla come un esempio da non seguire, senza dedicarle molta attenzione. In genere, gli scrittori romani interpretavano le grandi sconfitte come sciagure collettive, utili come esempio da ricordare e da meditare per evitare gli sbagli che le avevano provocate. Per Carre, invece, tutta la responsabilità della disfatta fu attribuita all’errore di un singolo. La colpa era per intero di Crasso, dipinto come un affarista e un comandante incapace, che per brama d’oro e di potere aveva coinvolto migliaia di soldati in un disastro. È probabile che questo giudizio sia troppo negativo, e gli storici stanno iniziando a cambiarlo. Fin d’ora sono comunque chiare le cause tecniche della sconfitta e la sua importanza, troppo a lungo sottovalutata. I Romani furono spiazzati dal modo di combattere dei Parti, basato, invece che sulla fanteria, su due tipi di cavalieri. Addetti a sfondare le linee nemiche erano i cavalieri “catafratti”: ricoperti di pesanti armature montavano cavalli di particolare forza, anch’essi corazzati. Altri cavalieri, armati di arco, erano addestrati a scagliare frecce anche al galoppo. Eccellevano in una tecnica nota ancora oggi come “freccia del Parto”, che consisteva nel fingere la fuga, voltarsi indietro e colpire l’avversario con mirabile precisione. Il loro attacco era reso più micidiale dagli archi composti, fatti di legno, corno e colla, che riuscivano a scoccare frecce a una distanza almeno doppia rispetto agli archi conosciuti dai guerrieri mediterranei. I legionari romani erano equipaggiati con le armi tradizionali, cioè la spada corta (gladio) e il giavellotto. Ma queste armi potevano ben poco contro i rapidi movimenti degli arcieri a cavallo e le pesanti armature dei catafratti. Inoltre la tipica armatura del legionario, una tunica corta in maglia di ferro, non riusciva a frenare l’urto delle frecce nemiche. All’inizio della battaglia i Parti tentarono di sfondare le linee romane con i cavalieri catafratti, ma i Romani risposero con la “testuggine”, una formazione difensiva di grande efficacia, in cui le coorti formavano un quadrato reso impenetrabile da una barriera di scudi. Allora Surena ordinò agli arcieri a cavallo di correre intorno alle legioni, bersagliandole di frecce per ore. Solo alla fine della giornata, quando i fanti romani erano spossati dal caldo e dalla stanchezza, scagliò la cavalleria pesante. Le legioni esauste non ressero l’urto, e iniziò il massacro. I Romani appresero la lezione. Si dotarono di armi più efficaci per il combattimento contro i catafratti, migliorando la qualità delle corazze e rendendo più pesanti i giavellotti. E capirono anche che per il loro esercito, composto da fanti appesantiti da armi e corazze, era difficile spingere le conquiste in profondità nei territori desertici e contro nemici resi molto mobili dalla diffusione massiccia di cavalli e cammelli. Ma ufficialmente continuarono ad attribuire tutta la responsabilità della disfatta a Crasso, preferendo parlare il meno possibile della battaglia.

6

Parte V L’impero greco-romano



Guerriero parto a cavallo British Museum, Londra La statuetta raffigura un cavaliere parto ripreso nell’atto di scoccare una freccia al nemico.



La formazione “a testuggine” 113 d.C. Particolare del rilievo della Colonna Traiana, Roma Il rilievo raffigura l’esercito romano in battaglia, schierato nella formazione difensiva detta “a testuggine”.

pato dell’ascesa di Cesare, e iniziava a prestare ascolto alle lusinghe dei senatori ottimati che volevano staccarlo dal condottiero. Per evitare la rottura del triumvirato, nel 56 a.C. Cesare promosse un incontro a Lucca con i due alleati, rinnovando i patti: Pompeo e Crasso avrebbero avuto il consolato, e poi Pompeo avrebbe amministrato le ricche province della penisola iberica e Crasso l’altrettanto ricca Siria; Cesare otteneva altri cinque anni per terminare la conquista della Gallia. L’accordo non fu tuttavia sufficiente a ridare forza al triumvirato. Crasso partì per la Siria, ma nel 53 a.C. trovò la morte nel tentativo di attaccare il regno dei Parti. A Carre, nella Mesopotamia occidentale, l’esercito romano subì una delle sue più gravi sconfitte, e Crasso venne ucciso. Contravvenendo ai patti, Pompeo preferì invece restare a Roma per seguire da vicino la situazione politica. Era il solo personaggio potente presente nella città, e il senato lo corteggiava per allontanarlo da Cesare. Quando nel 52 a.C. le violenze politiche divamparono forti come mai prima, in seguito all’uccisione di Publio Clodio in un ennesimo scontro di piazza, il senato diede i pieni poteri a Pompeo per ristabilire l’ordine. Nel frattempo si avvicinava la scadenza del secondo quinquennio di governo delle Gallie concesso a Cesare. Il generale sarebbe dunque dovuto rientrare a Roma come privato cittadino, esposto ai tribunali, alle vendette del senato e al potere di Pompeo. Cesare chiese allora di venire nominato console, ma il senato e Pompeo si opposero. A questo punto il primo triumvirato era finito.

 1. Per quale motivo Cesare decise di farsi assegnare il governo della Gallia e dell’Illirico? 2. Che cosa fu sancito dai triumviri nell’incontro di Lucca?

2. La seconda guerra civile e la dittatura di Cesare

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Cleopatra Fine I sec. a.C. ca. Antikenmuseum, Berlino Questo ritratto postumo proveniente dalla Mauretania (regione storica del Nordafrica) raffigura Cleopatra, l’ultima sovrana della dinastia tolemaica che governò l’Egitto.

«I dadi sono lanciati»

Cesare si trovava a Ravenna, cioè nella città della Gallia Cisalpina – una delle regioni sotto il suo governo – più vicina al confine con l’Italia, segnato in quell’epoca dal piccolo fiume Rubicone, vicino a Rimini. Fece un ultimo tentativo di compromesso, dichiarandosi disposto a congedare l’esercito se anche Pompeo scioglieva le sue legioni. Al rifiuto del senato, decise di iniziare la guerra civile. Nel gennaio del 49 a.C. oltrepassò il Rubicone alla testa dei suoi soldati, contravvenendo alla regola che vietava ai condottieri di entrare in armi in Italia. Compiendo questo gesto di rottura pronunciò la celebre frase alea iacta est, «i dadi sono lanciati», per dire che aveva ormai preso la sua decisione ed era pronto ad affrontare il rischio. La guerra civile tornava a scoppiare. Cesare, amatissimo dai soldati e dalla maggioranza della popolazione, in nemmeno due mesi conquistò l’Italia. Pompeo fuggì in Grecia con molti senatori, contando sui sostenitori che aveva in Oriente. Senza inseguire il nemico, con grande intelligenza strategica Cesare puntò sulla Spagna allo scopo di annientare le legioni fedeli che Pompeo aveva creato negli ultimi cinque anni di governo in quella provincia. Ciò fatto, poté puntare verso la Grecia senza più temere di venire aggredito alle spalle. Nel 48 a.C. a Farsàlo Pompeo fu sconfitto, e i suoi soldati si arresero. Pompeo scappò in Egitto, dove contava sull’appoggio del giovane faraone Tolomeo XIII. Ma aveva sbagliato Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

7

i suoi calcoli. Sperando di ottenere l’aiuto di Cesare nella contesa per il trono che lo contrapponeva alla sorella Cleopatra, il sovrano fece uccidere Pompeo a tradimento. Sembra che Cesare reagisse indignato all’idea che un senatore romano fosse impunemente ucciso in terra straniera. Probabilmente il suo sdegno era un calcolo politico, per giustificare un intervento militare romano in Egitto; è noto, inoltre, che divenne amante della affascinante Cleopatra, da cui ebbe un figlio (Cesarione, cioè in greco ‘piccolo Cesare’). L’esercito romano sconfisse e uccise Tolomeo, e Cleopatra ottenne il trono egiziano. Il controllo romano sull’Egitto e sulla sua enorme produzione di grano divenne così fortissimo, dando a Cesare ulteriori risorse per portare avanti la guerra contro i seguaci di Pompeo. La guerra civile proseguì soprattutto in Africa e poi in Spagna, terminando infine con la battaglia di Munda, nel 45 a.C., in cui le ultime forze pompeiane vennero distrutte. L’impero di Roma aveva ormai il suo primo sovrano. Cesare dittatore a vita



Moneta con l’effigie di Giulio Cesare 44 a.C. Tra i privilegi di cui Cesare si fregiò vi fu quello di coniare monete con il proprio ritratto, pratica successivamente spettata unicamente al princeps. Questa moneta in argento ritrae Cesare coronato d’alloro, pianta con i cui ramoscelli i Romani usavano realizzare corone da porgere sul capo di poeti e generali vincitori: l’alloro era difatti la pianta simbolo del trionfo e della vittoria.

8

Cesare era convinto che la repubblica avesse già chiaramente dimostrato di non funzionare e che il senato fosse lo strumento della cieca ostinazione della nobiltà: dunque occorreva cambiare regime. Gli storici discutono se davvero intendesse creare una vera e propria monarchia, ma è chiaro che, come minimo, Cesare immaginava un regime politico basato sull’assoluta concentrazione dei poteri in un’unica persona. Oltre alla carica di pontefice massimo che occupava da quasi un ventennio, ottenne molte volte il consolato, i poteri concessi ai tribuni, quelli dei censori e, soprattutto, la dittatura, assegnatagli nel 48 a.C. a tempo indeterminato, e poi nel 44 a.C. confermata a vita. A queste cariche che gli conferivano i poteri di un re, aggiunse tutta una serie di comportamenti, di prerogative e di simboli tipici dei sovrani. Ottenne di portare la corona di alloro, di ostentare in permanenza il titolo di imperator fino allora concesso ai generali solo nel giorno del trionfo, di sedere in senato su di un seggio dorato, di collocare sue statue nei templi, di cambiare il nome del mese Quintile in Iulius (da cui deriva l’italiano luglio); cosa mai immaginata a Roma, predispose poi di venire divinizzato dopo la morte. Nel frattempo portava avanti una serie impressionante di riforme. Cercò di rinnovare la classe dirigente, accrescendo i membri del senato da 600 a 900 e scegliendo i nuovi senatori fra i cavalieri, gli ufficiali dell’esercito e le aristocrazie provinciali. La cittadinanza romana fu estesa alla Gallia Cisalpina e il sistema di governo delle province fu migliorato. Rimanendo fedele al suo schieramento a favore dei popolari, Cesare razionalizzò il sistema di distribuzioni pubbliche di grano, pose rimedio alla disoccupazione avviando una serie di imponenti opere pubbliche, come la bonifica delle Paludi Pontine, fece condonare molti debiti e, soprattutto, fondò un gran numero di colonie fuori d’Italia, dove si stanziarono almeno 80.000 cittadini. Il carattere più sorprendente della sua politica fu l’atteggiamento verso gli avversari nella guerra civile. Le sue vittorie non furono accompagnate da omicidi di massa, proscrizioni e confische. Chi sperava di guadagnare dall’eliminazione dei nemici politici e dalla depredazione dei loro beni rimase deluso, ma la maggioranza apprezzò la sua volontà di rendere minimi i costi sociali del conflitto fratricida. Tutto questo fu però insufficiente a placare l’ostilità degli ottimati. Anzi, la diffidenza verso Cesare si diffuse anche presso alcuni sinceri sostenitori dei valori repubblicani, che guardavano con terrore l’inaudita novità costituita dai poteri di Cesare e dai suoi comportamenti sempre più sprezzanti verso le sacre tradizioni della repubblica. Non era forse ri-

Parte V L’impero greco-romano

masto seduto di fronte al senato che lo omaggiava? Che dire poi della sua relazione con Cleopatra, che sedeva sul più antico dei troni? Arrivarono così le idi (il giorno 15) di marzo del 44 a.C. Raggiungendo i senatori in un’aula del grande teatro di Pompeo, costruito dieci anni prima, Cesare fu pugnalato da una sessantina di congiurati. Fra i capi della congiura, mossi soprattutto dal desiderio di restaurare la libertà repubblicana eliminando il dittatore, vi erano Cassio e Bruto, il figlio adottivo al quale Cesare avrebbe rivolto l’ultima delle sue frasi famose: «Anche tu, Bruto, figlio mio!» (Tu quoque, Brute, fili mi!).

 Porticato del Foro di Cesare I sec. a.C. Roma Progettato per accogliere spazi dedicati alla vita politica, amministrativa e religiosa della città, e contemporaneamente celebrare il grande condottiero, il Foro di Cesare fu abbellito con splendidi monumenti, tra i quali spicca il tempio dedicato a Venere. I lavori, iniziati presumibilmente tra il 51 e il 48 a.C., e ancora in corso alla morte del dittatore, furono completati sotto Augusto.

1. Quale strategia adottò Cesare per indebolire e sconfiggere Pompeo? 2. Per quale motivo la figura di Cesare era assimilabile a quella di un sovrano?

3. La terza guerra civile e l’ascesa di Ottaviano, il futuro Augusto

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I 

Testa di Marco Antonio Musei Capitolini, Roma

Il testamento di Cesare

Gli assassini di Cesare (e anche molti dei senatori che non avevano partecipato alla congiura) speravano che, eliminato il dittatore, la repubblica fosse per sempre salva, e tutto potesse tornare alla normalità. Ottennero invece il risultato opposto. La scomparsa di Cesare aprì la strada a un sanguinoso conflitto civile (il terzo nella storia romana, dopo quelli combattuti fra Silla e i seguaci di Mario e fra Cesare e Pompeo) e, da ultimo, alla fine della repubblica. Per un paio di giorni, in verità, i congiurati poterono illudersi di avere avuto almeno in parte successo. Certo, il popolo che amava il dittatore ucciso non li acclamò come liberatori, mentre l’esercito rimase fedele ai generali di Cesare. Fra essi primeggiava Marco Antonio, che al momento della congiura ricopriva la carica di console. Antonio si mosse con cautela per evitare spargimenti di sangue e, soprattutto, per porsi come nuovo centro della politica romana. Propose al senato e al partito degli ottimati un accordo di compromesso: era prevista la salvezza dei congiurati ma anche un solenne funerale di Cesare, la conferma di tutte le sue leggi e di quanto indicato nel suo testamento, che tutti pensavano avrebbe designato erede proprio Antonio. La lettura del testamento, tre giorni dopo l’assassinio, smentì ogni previsione: erede di Cesare era un ragazzo di diciannove anni, Gaio Ottavio.

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

9

Così si chiamava, a quell’epoca, il personaggio passato alla storia come l’imperatore Augusto. Suo padre era un homo novus, cioè il primo membro di una famiglia di cavalieri ad entrare nel senato; la madre era invece di famiglia importantissima, perché era figlia della sorella di Cesare. Il dittatore aveva apprezzato il giovane pronipote e nel testamento, oltre a nominarlo erede, lo adottava come figlio. Secondo l’uso romano, il ragazzo adottato cambiò nome, divenendo Gaio Giulio Cesare Ottaviano, e fu per l’appunto con il nome di Ottaviano che conquistò il potere. Infine nel 27 a.C., per sancire il suo assoluto predominio su Roma e l’impero, ottenne il cognomen di Augusto (sul significato di questo nome torneremo dopo: cfr. par. 5). La scelta dell’erede rivelava ancora una volta l’intelligenza di Cesare. Per il momento Ottaviano era lontano in Oriente, dove il padre adottivo lo aveva mandato a preparare una spedizione militare. Saputo dell’assassinio e del testamento si precipitò sulla strada del ritorno. Nel frattempo i congiurati erano dovuti fuggire da Roma: ai solenni funerali di Cesare la vista del cadavere martoriato aveva indotto il popolo a pretendere la morte degli assassini. Bruto era andato in Macedonia e Cassio in Asia, prendendone il controllo.



Busto di Ottaviano 35-29 a.C. Musei Capitolini, Roma Ancora lontano dall’autorevolezza dei ritratti ufficiali e di propaganda diffusi in tutto l’impero di lì a poco, Ottaviano mostra in questo busto il volto di un giovane romano.

Il secondo triumvirato

Giunto a Roma, Ottaviano mostrò una grande abilità politica. Visto che Antonio si rifiutava di consegnargli il tesoro di Cesare, vendette i beni della propria famiglia per pagare il lascito di 75 denari che il padre adottivo aveva destinato a ognuno dei 250.000 membri della plebe romana. Pochi nella storia hanno fatto un investimento così buono. Questa inaudita generosità e la magia del nome di Cesare che ormai era passato a lui resero Gaio Giulio Cesare Ottaviano il beniamino del popolo e dei veterani. Allo stesso tempo il giovane erede fu anche abile nello stabilire rapporti con i senatori. Sfruttò il timore suscitato dalle ambizioni di Antonio che, finito il suo consolato, tentava con la forza di imporsi come governatore della Gallia Cisalpina, la provincia più vicina a Roma e dalla quale era facile condizionare la capitale. Cicerone, sulla scena politica fin dagli anni dell’ascesa di

Il corpo di Cesare Cesare, possiamo dire, vinse una battaglia anche da morto. I cadaveri degli uomini celebri sono omaggiati con grandi cerimonie; quello di Cesare divenne lo strumento per assicurare ai suoi assassini la sconfitta e la morte. Nei giorni successivi alle fatali idi di marzo, Cassio e Bruto restarono liberi e temuti. Ma possiamo dire che avevano già perso la partita lasciando a terra il corpo del dittatore anziché gettarlo nel Tevere come avevano progettato, per impedire di recuperarlo. Proprio con il cadavere di Cesare Antonio organizzò infatti una formidabile operazione di propaganda, che spostò a suo favore gli equilibri di potere. Il 20 marzo, giorno dei funerali, fu preparata una messinscena di sicuro effetto. Nel Foro venne innalzato un tempietto dorato con un catafalco, una

10

Parte V L’impero greco-romano

base su cui poggiare il cadavere, tutto d’avorio, coperto di porpora e d’oro (i colori del comando). In bella vista fu messa la veste di Cesare, insanguinata e trapassata da una ventina di pugnalate. Antonio, mentre pronunciava l’elogio funebre, mostrò al pubblico commosso gli squarci prodotti dai pugnali. Per eccitare ancor di più gli animi sarebbe stato necessario mostrare proprio il corpo trafitto, ma questo era disteso sul catafalco. Si ricorse allora a un trucco di teatro. Con una macchina apposita fu fatto muovere in tutte le direzioni un fantoccio di cera con le fattezze di Cesare, trafitto dalle pugnalate e orrendamente sfigurato. La folla insorse e, presi i tizzoni ardenti del rogo dove il corpo del dittatore veniva cremato, corse a incendiare le case dei suoi assassini.

Pompeo e Crasso e della congiura di Catilina (contro cui scrisse le Catilinarie: cfr. vol. 1, cap. 11.7), attaccò Antonio con energia nelle celebri orazioni dette Filippiche e il senato gli mandò contro un esercito al quale partecipava anche Ottaviano. Antonio fu sconfitto nella battaglia di Modena (43 a.C.) subendo lievi perdite, e si ritirò oltre le Alpi, in Gallia Transalpina. Qui ottenne il sostegno di un altro potente ex ufficiale di Cesare, Lepido, con il quale mosse verso l’Italia. Anche Ottaviano nel frattempo si era mosso con l’esercito verso Roma per strappare al senato la nomina a console. I soldati dei diversi eserciti, tutti seguaci di Cesare, non intendevano combattersi, e ai tre generali conveniva l’accordo: così Ottaviano, Antonio e Lepido stabilirono un’alleanza, chiamata “secondo triumvirato”. A differenza del primo triumvirato, che era stato un patto privato fra Cesare, Pompeo e Crasso, in questo caso i triumviri vollero che il loro accordo si trasformasse in una vera e propria magistratura straordinaria, istituita per cinque anni con una legge votata dalle assemblee. I suoi obiettivi erano quelli di riformare lo Stato e di punire gli assassini di Cesare. Furono redatte liste di proscrizione che avevano un duplice scopo: da un lato, colpire i sostenitori della congiura e eliminare ogni avversario politico; dall’altro, impadronirsi dei patrimoni delle vittime per finanziare le future lotte. Nel bagno di sangue morirono migliaia di cavalieri e centinaia di senatori, fra i quali Cicerone, colpevole di avere attaccato Antonio. Nel 42 a.C. l’esercito del triumvirato raggiunse e sconfisse in Macedonia, a Filippi, quello di Cassio e Bruto, che si suicidarono. Cesare era vendicato. Eliminati i nemici comuni, i vincitori si spartirono il potere. Antonio ebbe la Gallia Transalpina e l’intero Oriente, verso il quale si affrettò a partire; Lepido, il meno importante dei triumviri, ottenne soltanto il governo della provincia dell’Africa, che del resto in seguito gli fu tolta. Ottaviano ricevette la Spagna e il compito difficile di trovare in Italia la terra promessa agli oltre centocinquantamila veterani di Cesare. Per reperire i terreni da assegnare bisognò sequestrare i beni dei vinti e quelli di molti cittadini senza colpa. Il malcon-

Germani no

Re

MAR CASPIO

GALLIA TRANSALPINA DACIA

GALLIA CISALPINA LI

RI

ARMENIA

Danubio

PONTO

CO

Roma Brindisi

MACEDONIA Filippi (42 a.C.) Azio (31 a.C.) ACAIA

O

SPAGNA CITERIORE

Cartagine MAURETANIA

IL

IR EP

SPAGNA ULTERIORE

MAR NERO

Modena

GALLIA NARBONENSE

Il secondo triumvirato e la guerra tra Ottaviano e Antonio

Nauloco 36 a.C.

CAPPADOCIA

BITINIA ASIA

SIRIA

MEDIA REGNO DEI PARTI

CIPRO

NUMIDIA CRETA

MAR MEDITERRANEO Alessandria CIRENAICA

EGITTO

Territori di Lepido Territori di Ottaviano Territori di Antonio Stati vassalli fino al 31 a.C. Principali scontri

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

11



Cammeo con la vittoria di Ottaviano ad Azio I sec. a.C. Kunsthistorisches Museum, Vienna Realizzato in sardonica, una pietra dura di valore, questo prezioso cammeo celebra la vittoria di Ottaviano ad Azio in una simbolica raffigurazione trionfante.

tento fu fortissimo e provocò una vera e propria ribellione, alimentata dai parenti di Antonio, desiderosi di mettere in difficoltà il giovane triumviro. Come al solito la scelta di restare a Roma, nel cuore della vita politica, si rivelò vincente. Con una buona amministrazione dell’Italia e della Spagna Ottaviano riuscì a guadagnarsi il favore dell’opinione pubblica e a ottenere molti consensi anche nel senato. Nel frattempo portava avanti con successo una propaganda volta a screditare il rivale, Antonio. Antonio in effetti sembrava fare di tutto per favorire questa propaganda sfavorevole. Dopo avere affermato il suo incontrastato potere sull’Oriente, aveva iniziato una relazione sentimentale con la regina Cleopatra. Il suo progetto era quello di consolidare il dominio romano in Oriente attraverso l’alleanza con l’Egitto e la creazione di regni subordinati a Roma, affidati ai figli nati dall’unione con Cleopatra. Ma questa politica e il tipo di vita che conduceva in Egitto permettevano a Ottaviano di affermare che ormai Antonio si era trasformato in un despota orientale, amante del potere assoluto e del lusso più esagerato, come un re ellenistico e un faraone. Addirittura, si faceva adorare come una divinità. Il legame fra Antonio e Cleopatra finì per essere visto a Roma come un tradimento. In contrasto, sempre più cresceva il consenso per Ottaviano, che mostrava rispetto per la repubblica e le tradizioni romane. Così l’inevitabile resa dei conti fra i due generali venne presentata non come una guerra civile, ma come una lotta contro una potenza straniera, l’Egitto, alla quale Antonio per le sue debolezze si era asservito. Si giunse nel 31 a.C. alla battaglia navale di Azio, vinta da Ottaviano dopo la sorprendente decisione di Antonio di allontanarsi nel mezzo dello scontro per ragioni poco chiare (la paura della sconfitta? un tradimento egiziano? il desiderio di raggiungere Cleopatra che si stava allontanando?). Abbandonati dal loro comandante, la flotta e l’esercito passarono dalla parte del nemico. Un anno dopo Antonio e Cleopatra, assediati ad Alessandria, si suicidarono. Il figlio che Giulio Cesare aveva avuto da Cleopatra, Cesarione, venne eliminato. Ottaviano non voleva concorrenti.

1. Quale accordo fu proposto da Marco Antonio al senato e agli ottimati? 2. In che modo si spartirono il potere Antonio, Ottaviano e Lepido?

4. Restaurazione e rivoluzione: Augusto al potere

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

I poteri di Ottaviano Augusto

Quando Ottaviano tornò a Roma nel 29 a.C. fu accolto come il salvatore della patria dalla minaccia del dispotismo orientale. Il giovane di appena trentaquattro anni era l’unico signore dell’impero. Visse altri quarantatre anni, fino al 14 d.C. Questo lunghissimo pote-

12

Parte V L’impero greco-romano

 Statua di Augusto detta Augusto di Prima Porta 12-8 a.C. Musei Vaticani, Roma



Statua togata di Augusto detta Augusto di via Labicana I sec. d.C. Museo Nazionale Romano, Roma La posizione ufficiale di Augusto non era definita da una singola carica, ma si basava sull’accumulo di più magistrature repubblicane e di cariche tradizionali. Era dunque impossibile realizzare una statua che rappresentasse nella sua complessità la nuova funzione rivestita da Augusto. Di conseguenza, nelle innumerevoli statue destinate a celebrarlo (solo a Roma ne furono erette almeno ottanta) la sua immagine cambia: talvolta è quella di generale trionfatore, incoronato e vestito della toga purpurea, altre volte è celebrato come comandante militare, con indosso una sontuosa corazza (a sinistra); altre ancora veste gli abiti del pontefice massimo, intento a compiere una cerimonia religiosa (a destra), oppure quelli del console, con la toga bordata di fasce rosse.

re fu la sua carta decisiva, quella che gli diede ciò che era mancato a Cesare: il tempo necessario per creare un regime fortissimo, che dopo la sua morte sarebbe durato molti secoli. La repubblica terminò, sostituita da una monarchia che noi oggi chiamiamo impero ma che per i primi due secoli i Romani definirono invece “principato”. Al ritorno di Ottaviano, la situazione politica di Roma era paradossale. La maggioranza della popolazione, cioè la plebe, i soldati, molti cavalieri e una parte dei senatori, voleva il governo forte di una singola persona, e Ottaviano era il candidato predestinato per questo ruolo. Le lunghe lotte civili, con il loro seguito di violenze brutali, città distrutte, massacri, saccheggi, confische e esecuzioni sommarie, avevano reso fortissimo il desiderio di stabilità e di pace. Tutti si rendevano conto che le istituzioni della repubblica avevano fallito, che da decenni erano incapaci di assicurare, se non la buona amministrazione, almeno la più elementare delle funzioni di un governo, cioè il mantenimento della pace interna. La monarchia appariva la soluzione migliore. Ma (questo è il paradosso) l’ideologia romana rendeva la monarchia impossibile. Da secoli i Romani aborrivano la forma monarchica di governo: era la peggiore di tutte, pensavano, perché era sinonimo di tirannia e usurpazione e inevitabilmente trasformava i liberi cittadini in sudditi. Parlare di regnum era impossibile. Per un capo politico l’accusa di “aspirare al regno” era la più temibile: lo presentava come il peggiore traditore dei concittadini e apriva la strada alla sua fine. La stessa congiura contro Cesare era nata da questo tenacissimo attaccamento ai valori repubblicani.

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

13

Ottaviano si rese conto che per compiere la sua rivoluzione, per imporsi cioè come unico e stabile potere alla testa dello Stato romano, doveva presentarsi come il restauratore dell’antica repubblica. Doveva apparire come colui che riportava Roma alle antiche istituzioni e alle buone vecchie leggi, restaurando un ordine che il caos delle guerre civili aveva turbato. Dunque non proclamò nessuna monarchia, né creò cariche nuove. Scelse una strada diversa per giungere allo stesso risultato: utilizzò le antiche istituzioni repubblicane per accumulare sulla sua persona un potere sempre più smisurato. Dopo la vittoria di Azio già aveva dalla sua la forza delle armi, le enormi ricchezze della famiglia e il prestigio di figlio del grande Cesare. Negli anni successivi gradualmente, per tappe, riuscì a fare sì che questo potere venisse riconosciuto e potesse continuare ad accrescersi attraverso le leggi e le istituzioni esistenti. Per i primi otto anni, fino al 23 a.C., ricoperse senza interruzioni la carica di console. Gli venne nel frattempo riconosciuta la funzione di princeps senatus, ‘primo del senato’: in quanto primo fra i senatori aveva diritto di convocare il senato, di presiedere le riunioni e di esprimere per primo il proprio voto, condizionando così gli altri senatori. Aveva inoltre la carica di censore straordinario, che gli dava la possibilità di cambiare la lista dei membri del senato e altre magistrature. Nel 23 rinunciò alla carica di console e si attribuì i due poteri che furono alla base del suo governo per il resto del regno: la potestà tribunizia e l’imperio proconsolare. La tribunicia potestas conferiva ad Augusto i poteri dei tribuni della plebe anche senza ricoprire tale carica. Era il modo migliore per legittimare il potere di intervento sulle assemblee e la vita politica di Roma: come quella dei tribuni, la persona di Augusto diveniva inviolabile e, sempre come i tribuni, poteva bloccare con il veto le deliberazioni del senato, convocare le assemblee popolari e far votare dei plebisciti. L’imperio proconsolare lo poneva alla guida delle province e degli eserciti stanziati in esse: Augusto riceveva tutti i poteri di comando militare e di governo civile che spettavano ai governatori delle province. Anzi, era un imperio proconsolare speciale, superiore al normale, che non aveva limiti di tempo e spazio, ma vigeva per sempre e in qualsiasi parte dell’impero si trovasse il suo titolare. Un’altra carica importante fu infine quella di pontefice massimo, il sacerdote supremo, che Augusto ottenne nel 12 a.C. alla morte del pontefice precedente, l’ex triumviro Lepido. Una monarchia militare camuffata da repubblica

Formalmente, dunque, sotto Augusto continuarono a vivere e operare tutte le istituzioni della repubblica: il senato, le tante magistrature, le assemblee popolari. La costituzione dello Stato romano restava, in apparenza, intatta. Il senato continuava a riunirsi e a discutere di politica; e Augusto non mancava mai di ostentare il massimo rispetto verso l’istituzione che era stata al cuore della repubblica. Fu anzi proprio il principe a introdurre la celebre formula senatus populusque romanus (‘il senato e il popolo romano’, in sigla SPQR), che collocava il senato prima del popolo. Ma la realtà dei fatti era tutta diversa. Ogni cosa ruotava intorno ad Augusto, ai suoi desideri e alle sue scelte. Augusto riuscì a fare scendere i senatori da 1000 a 600 e condizionava, sebbene solo in modo indiretto, l’accesso di nuovi membri nel senato. L’antica assemblea senatoria non era più il posto in cui venivano prese le decisioni fondamentali, e i senatori erano dunque poco disposti a discutere e manifestare il proprio pensiero: Augusto talvolta si irritava per questo, e con toni bruschi invitava questo o quel senatore a svegliarsi e dare la sua opinione. Ma il responsabile di questa partecipazione apatica era lui stesso, che si era posto al centro del potere.

14

Parte V L’impero greco-romano

Solo l’elezione ad alcune magistrature restava almeno in parte indipendente. Per il resto tutto quello che avveniva doveva essere deciso da Augusto. Le vittorie dei generali, per esempio, venivano attribuite ad Augusto stesso: così per ben ventuno volte ottenne il trionfo, anche nei casi in cui in realtà non si era mai mosso da Roma. Talvolta i contemporanei tardarono a capire come, sotto l’immutata vernice di uno Stato repubblicano, ormai vi fosse un organismo nuovo, in tutto simile a una monarchia militare. Nei primi anni del governo augusteo accadde per esempio che i generali che avevano ottenuto importanti vittorie in terre lontane celebrassero i propri successi con iscrizioni e statue. Ma Augusto si inquietò, revocò le onorificenze e ne bloccò la carriera; il prefetto di Egitto Cornelio Gallo, un uomo di fiducia di Augusto, fu addirittura indotto a suicidarsi per avere osato celebrare una sua vittoria sugli Etiopi. Mascherata come una restaurazione dell’ordine repubblicano, era dunque avvenuta una rivoluzione.

1. In che modo Augusto riuscì a prendere il totale controllo di Roma senza proclamare la monarchia? 2. Quali prerogative dava ad Augusto l’imperio proconsolare?

5. Parole importanti

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Augustus e princeps

Alcune parole spiegano bene la natura del nuovo regime. La prima è Augustus, ‘Augusto’. Il senato concesse questo nome a Ottaviano nel 27 a.C. in segno di gratitudine, dopo avere scartato l’idea iniziale di dargli il nome di Romolo per onorarlo come secondo fondatore di Roma. Oltre che il fondatore, Romolo era stato il primo re di Roma, e dunque questo nome ricordava troppo il periodo monarchico. Meglio allora Augusto, che era un nome di significato religioso, qualcosa come ‘accresciuto dalla potenza divina’ e ‘degno di venerazione’. Inoltre, poiché sembra derivare dal verbo augeo (accresco), la propaganda poteva affermare che volesse dire ‘chi accresce la prosperità dello Stato’. È appunto con il nome di Augusto che, da allora, venne chiamato Ottaviano, e dopo di lui gli altri imperatori. La seconda parola è ‘principe’, princeps. All’inizio era riferita al ruolo di ‘primo del senato’ attribuito a Ottaviano, ma poi venne intesa in senso più generale, come ‘primo fra tutti’, ‘primo cittadino dello Stato’. Fu appunto a partire dalla nozione di princeps che venne risolto il problema di dare un nome al nuovo regime. Di regno non si poteva assolutamente parlare, come si è detto, ma tutti si rendevano conto che le cose erano cambiate. Si affermò così l’idea di definire principato questa nuova realtà caratterizzata dall’enorme autorità di un uomo che, dal punto di vista teorico, era solo il primo fra i cittadini, e non un sovrano che il diritto di nascita e il volere degli dèi ren-

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato



Gemma Augustea 10 d.C. Kunsthistorisches Museum, Vienna Questo prezioso cammeo è tra gli esempi più significativi dell’arte di età augustea, perché celebra il potere di Augusto e proclama la discendenza divina della sua autorità: nel registro superiore, Augusto, assiso in trono accanto alla dea Roma, viene incoronato da Oikoumène, personificazione divina di tutta la terra abitata; nel registro inferiore, legionari romani innalzano un trofeo con le armi dei barbari vinti, che vengono tratti in schiavitù.

15

devano diverso e superiore a tutti gli altri uomini, suoi sudditi. Per questo, quando vogliono indicare con esattezza il tipo di regime politico iniziato da Augusto, anche gli storici moderni preferiscono parlare di principato. Soprattutto con i suoi successori è però divenuto consueto, come faremo noi, usare il termine impero. Imperator e imperium

La terza parola è, ovviamente, ‘imperatore’, imperator. Questo titolo veniva attribuito ai generali vittoriosi solo il giorno del trionfo. Invece Augusto, riprendendo quanto già aveva fatto Cesare, lo assunse come un titolo fisso che faceva parte del suo nome. Stava a significare che egli era per sempre un capo militare supremo e vittorioso. Dopo l’adozione da parte di Giulio Cesare aveva già cambiato i nomi in Gaio Giulio Cesare Ottaviano, e adesso li cambiò ancora, divenendo Imperator Caesar Augustus divi Iulii filius: ‘Imperatore Cesare Augusto figlio del divino Giulio Cesare’. I suoi successori assunsero questi nomi come titoli fissi, aggiungendovi in mezzo il loro nome proprio: Traiano si presentava ad esempio come Imperator Caesar Traianus Augustus. Veniamo infine alla quarta parola, ‘impero’. Deriva dal latino imperium che indicava il potere dei più importanti magistrati della repubblica romana. Oggi ha un significato tutto diverso: indica in primo luogo i domìni politici molto vasti, che si estendono sopra più popolazioni. Dunque, come abbiamo fatto, è possibile parlare di impero anche per i domìni di Atene o della repubblica romana. Ma la locuzione “impero romano” ha anche un significato più preciso e serve per indicare lo Stato romano a partire dall’ascesa al potere di Augusto e fino all’epoca di Giustiniano (527-565 d.C.), cioè per tutto il periodo durante il quale è esistito in Occidente un imperatore.

1. Che significato aveva la parola Augustus? 2. Qual è il significato moderno della parola “impero”?

6. Cesare e la conquista della Gallia

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

La campagna di conquista più narrata dell’Antichità

Fra le tante campagne militari dell’Antichità, la conquista dei territori degli attuali Belgio e Francia compiuta da Cesare fra 58 e 50 a.C. è quella più ampiamente descritta dalle fonti. Ne parlarono i contemporanei e i grandi storici romani e greci del secolo successivo, come Svetonio e Plutarco; ma, soprattutto, ne parlò lo stesso Cesare. Durante le fasi della conquista dettò infatti ai propri luogotenenti quelli che si chiamavano allora Commentarii ma che poi sono diventati famosi con il nome De bello gallico, La guerra gallica. È un diario di guerra redatto in terza persona che aveva sia lo scopo di fare propaganda ai successi militari, sia soprattutto di difendere Cesare dalle accuse che gli venivano mosse a Roma per la conduzione troppo spregiudicata del conflitto. Si tratta dunque di una fonte preziosa, ricchissima di dettagli, anche se ovviamente tutt’altro che neutrale. La civiltà dei Celti (che i Romani chiamavano Galli) era cambiata da quando, nel 390 a.C., Roma aveva patito l’onta del saccheggio gallico. Una parte delle popolazioni celtiche era già da tempo entrata a far parte del dominio romano con la conquista della Gallia Ci-

16

Parte V L’impero greco-romano

salpina dapprima, e più tardi della Gallia Narbonense. Per vita sociale e politica, queste regioni erano ormai molto influenzate da Roma. Il resto della Gallia restava invece in un’orgogliosa indipendenza. La popolazione e l’economia si erano molto sviluppate anche se le città rimanevano rare; villaggi e fattorie erano la residenza della grande maggioranza degli abitanti. Come in passato, la regione era divisa in numerosi popoli (forse una settantina) spesso in conflitto fra loro. Ogni popolo era guidato da un gruppo di aristocratici, ma importantissimo era anche il ruolo dei capi religiosi, i druidi. Questi specialisti della religione erano scelti fra i nobili e apprendevano riti, canti epici del loro popolo, formule magiche e altre pratiche religiose attraverso una lunga preparazione, che durava anche venti anni. La principale differenza rispetto ai secoli precedenti dipendeva dall’aumento delle differenze sociali, che costituiva per Roma un vantaggio: se la società celtica del passato, abbastanza egualitaria, aveva un esercito costituito da squadre di fanti molto pericolosi e addestrati, adesso i nobili combattevano solo a cavallo e in modo indisciplinato, mentre la fanteria, costituita solo dai più poveri, era poco addestrata e di scarsa efficienza. All’epoca di Cesare, il mondo celtico si trovava stretto in una micidiale tenaglia. Da sud premevano le ambizioni di Roma; ma era da oriente che veniva la minaccia più terrorizzante. Le selvagge popolazioni germaniche mettevano in fuga i Celti. Quando Cesare iniziò la sua campagna, i Celti, che in passato erano stanziati anche in Germania e Austria, erano stati tutti cacciati oltre il fiume Reno. Fu proprio il loro bisogno di sfuggire a questi selvaggi che diede a Cesare il pretesto per iniziare la guerra. Nel 58 a.C. quando gli Elvezi, stanziati nell’attuale Svizzera occidentale, furono costretti dai germanici Svevi ad abbandonare le loro terre e a penetrare con la violenza in Gallia meridionale, Cesare senza aspettare il permesso del senato si dichiarò protettore delle Gallie. Subito attaccò e vinse i profughi nella battaglia di Bibracte [cfr. carta, p. 5] massacrando 200.000 Elvezi. Fu il primo di tanti genocidi. Da quel momento Cesare proseguì i suoi interventi, attaccando e ricacciando i Germani del re Ariovisto che erano penetrati al di qua del Reno, e poi sconfiggendo i Belgi e altre popolazioni celtiche del Nord-Est. I popoli delle attuali Normandia, Bretagna e altre regioni si arresero spontaneamente: non solo avevano visto la potenza e la ferocia di Roma contro i nemici, ma



Mano su una testa umana decollata III sec. a.C.-I sec. d.C. Musée Granet, Aix-en-Provence



Teste decollate III sec. a.C.-I sec. d.C. Musée Granet, Aix-en-Provence Per conquistarsi la benevolenza degli dèi e placare la loro ira, i Celti eseguivano cerimoniali sacri in cui si compivano sacrifici umani che prevedevano, tra le altre pratiche, il taglio della testa. La prima immagine mostra un frammento lapideo proveniente dall’oppidum di Entremont in cui è riprodotta la mano dell’officiante poggiata sulla testa decollata della vittima sacrificale. La seconda immagine è un rilievo con due teste umane decollate.

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

17

anche pensavano, non a torto, che l’egemonia politica dei civili Romani fosse in fin dei conti meglio che venire massacrati o fatti schiavi dai selvaggi Germani. Nel 55 e 54 a.C. Cesare fece anche delle spedizioni oltre la Manica, nell’attuale Inghilterra meridionale (Britannia). La ragione di queste spedizioni, che non portarono a una occupazione dell’isola, è poco chiara: alcuni storici antichi le attribuiscono alla ricerca di inesistenti ricchezze (in particolare, Cesare sarebbe stato attratto da alcune grandi perle provenienti dall’isola), mentre il De bello gallico sostiene che attaccare l’isola era necessario per interrompere gli aiuti che i Britanni inviavano alle popolazioni celtiche della Gallia. Molto dovette comunque contare anche il desiderio di gloria: a Roma la notizia dello sbarco delle legioni in quella grande e remota isola suscitò infatti molto entusiasmo. Nel 53 a.C. i Celti fecero un ultimo, temibilissimo tentativo per sottrarsi al dominio romano. Il re degli Arverni, Vercingetorige, si mise a capo di una ribellione, alla quale l’anno successivo si unirono tutte le popolazioni celtiche. Le truppe romane subirono sconfitte persino quando alla loro testa vi era Cesare in persona. Alla fine Cesare riuscì a costringere Vercingetorige a ripiegare nella città fortificata di Alesia, dove il re affrontò l’assedio romano sapendo che in suo soccorso stava muovendo un esercito disordinato ma di cui si diceva che fosse forte di ben 250.000 guerrieri. Le truppe celtiche chiuse in Alesia e quelle romane che l’assediavano si aggiravano entrambe sui 50.000 uomini, e sembrava impossibile che i Romani potessero resistere al doppio attacco mosso dagli assediati e dall’esercito che stava giungendo. Cesare fece allora costruire sui colli circostanti la città un sistema di fortificazioni doppio, che dal lato interno garantiva l’assedio e la protezione da eventuali sortite degli assediati, dal lato esterno proteggeva dai soccorsi celtici in arrivo. La battaglia volse così a favore dei Romani.



Statere in oro con la legenda di Vercingeto(rix) I sec. a.C. Collection Danicourt

 Veduta aerea del sito dell’antica Alesia La fotografia mostra la zona in cui un tempo sorgeva Alesia; l’area è non lontana dal Monte Auxois in Borgogna.

 Ricostruzione dell’assedio di Alesia Il disegno riproduce la doppia fortificazione ideata ad Alesia da Cesare per assicurarsi la vittoria contro Vercingetorige.

18

Parte V L’impero greco-romano

Vercingetorige scelse di evitare il massacro dei suoi. Indossata una splendente armatura, uscì da solo da Alesia a cavallo, si recò di fronte a Cesare, smontò da cavallo, si privò dell’armatura, sedette a terra e porse le mani per venire legato. Il suo destino personale fu atroce. Rimase in prigione per sei anni, in attesa del trionfo che Cesare riuscì a celebrare solo nel 46 a.C.; dopo avere sfilato prigioniero per le vie di Roma fu strangolato, come prevedeva il feroce rituale militare romano, nel momento in cui il carro del trionfatore arrivava al Campidoglio. La nomea di Cesare come condottiero

Durante tutta la campagna il comportamento di Cesare suscitò l’ammirazione dei suoi soldati. Sapeva condividere con la truppa il cibo più rozzo e le condizioni di vita più dure, resisteva alla fatica, dormiva il meno possibile, ma al tempo stesso mai perdeva di lucidità; almeno, questo è quello che racconta lui stesso nel De bello gallico. Mentre cavalcava dettava lettere e diari, tenendo occupati contemporaneamente due o più scrivani. In battaglia – è sempre lui a dirlo – non esitava a esporsi in prima persona per risolvere le situazioni difficili. Le sue scelte militari, tuttavia, suscitarono anche feroci critiche. A Roma gli ottimati gli rimproveravano di agire senza ascoltare il senato e, per di più, rompendo ogni convenzione internazionale e ogni regola che rendeva una guerra legale (iustum bellum). In realtà Cesare non era certo il primo generale romano che attaccava all’improvviso senza dichiarare guerra, o che provocava in mille modi una popolazione alleata al fine di avere un pretesto per annientarla. Ma gli argomenti dei suoi avversari erano rafforzati dalla brutalità usata per piegare i nemici. Talmente efferato fu lo sterminio dei popoli degli Usipeti e Tencterii che in senato Catone Uticense lo definì un «delitto contro il genere umano», proponendo di consegnare Cesare nelle mani dei superstiti. Catone, acerrimo avversario politico di Cesare, era mosso dall’odio di fazione, e non certo dalla sensibilità umanitaria. E tuttavia i contemporanei restarono colpiti dall’entità dei massacri, sospettando inoltre Cesare di averne occultati molti. Gli storici antichi più compiacenti parlano di “solo” 400.000 morti, ma quelli più importanti danno cifre diverse: Plutarco fornisce la cifra tonda di un milione di vittime e altrettanti schiavi, Plinio il Vecchio parla di 1.200.000 massacrati.

1. A che scopo Cesare scrisse il De bello gallico? 2. Quali minacce gravavano sulle popolazioni celtiche? 3. Che cosa rimproveravano a Cesare i suoi avversari politici?

7. Il governo di Augusto

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Roma e l’Italia

Il principale problema da risolvere dopo la presa del potere fu per Augusto la riforma dell’amministrazione di Roma e del suo impero. Anche in questo caso procedette con misure graduali, senza rompere in modo brusco con il sistema ereditato dal passato ma finendo per modificarlo in profondità. Perlopiù le nuove cariche presero il nome di prefettura e furono poste sotto la guida di magistrati chiamati prefetti. Nella città di Roma, alla fine del regno di Augusto fra queste nuove magistrature le più importanti erano quattro. La prima era il prefetto dell’Urbe, che doveva provvedere alla

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

19



Soldati romani della guardia pretoriana 51-52 Musée du Louvre, Parigi Questo altorilievo, proveniente molto probabilmente dal Foro di Traiano, mostra dettagliatamente l’equipaggiamento militare del corpo dei pretoriani.

20

amministrazione della città e a garantire l’ordine pubblico con l’aiuto del prefetto dei vigili, la seconda magistratura di rilievo. Il prefetto dei vigili era a capo di un corpo speciale di intervento costituito dapprima da 600 e poi da circa 4000 vigili scelti soprattutto fra i liberti e gli schiavi. Oltre a svolgere il servizio antincendi, indispensabile in una città enorme e densamente popolata, sorvegliavano la tranquillità (si fa per dire) delle notti romane e svolgevano funzioni di polizia. I vigili non erano le sole truppe stanziate in città: ben più importanti erano i pretoriani, sotto il comando del prefetto del pretorio. In passato i pretoriani erano le guardie del corpo dei generali (il pretorio, in origine, è il nome dato alla tenda del comandante dell’accampamento); ma con Augusto divennero un vero e proprio esercito, costituito da nove coorti, tre delle quali stazionavano a Roma e le altre nei suoi dintorni. Erano truppe scelte e fidatissime, incaricate della difesa personale dell’imperatore e di impedire qualsiasi rivolta. Ma ovviamente in una città popolosa come Roma nessuna sicurezza era possibile senza la presenza di cibo in abbondanza e a buon mercato: a questo problema Augusto dedicò molte energie, giungendo anche ad acquistare e trasportare a proprie spese del grano a Roma; verso la fine del suo regno creò il prefetto dell’annona, con il compito di provvedere all’approvvigionamento della città e alle distribuzioni gratuite di grano al popolo. L’Italia fu estesa fino alle Alpi inglobando la provincia della Gallia Cisalpina, e per risolvere con maggiore rapidità tutti i problemi locali fu suddivisa in dodici distretti. La compagine imperiale

Nei domìni fuori d’Italia Augusto attuò una politica differente, di accentramento del potere. L’impero venne diviso fra province del popolo, amministrate come in passato da governatori nominati dal senato, e province imperiali, sotto il controllo diretto del principe che vi metteva a capo un legato. Questa suddivisione cambiò col tempo poiché era dettata da ragioni pratiche: di solito le province del popolo erano lontane dai confini dell’impero e abitate da popolazioni stabilmente sottomesse, mentre Augusto conservava il governo diretto delle province che avevano bisogno della presenza di forti eserciti. Va detto peraltro che il principe si intrometteva nell’amministrazione delle province del popolo romano non meno che in quella delle proprie. L’Egitto godeva poi di uno statuto speciale: causa ai tempi di Cleopatra di tanti pericoli per la saldezza dei domìni orientali e fonte importantissima di grano e di tasse, la più ricca e popolosa provincia dell’impero veniva considerata un possedimento personale del principe. Augusto la sorvegliava gelosamente, al punto che i senatori e i cavalieri più in vista avevano bisogno del suo permesso per visitarla. Le diverse cariche erano distribuite fra senatori e cavalieri, le due più importanti classi dello Stato. Ai senatori spettavano la prefettura dell’Urbe, la guida dei dodici distretti itali-

Parte V L’impero greco-romano

ci e il governo delle province; i cavalieri ricoprivano le altre magistrature e il governo dell’Egitto. Questa distribuzione attesta una certa preferenza di Augusto per i cavalieri, bene spiegabile ricordando che la sua famiglia di origine proveniva da questa classe. Ma questo non impedì al principe di accordare nel suo governo un grande rilievo al senato. In questa direzione lo spingevano non soltanto il rispetto della tradizione romana, ma la coscienza che l’accordo con l’élite più potente, dotata di relazioni in ogni angolo dell’impero, era fondamentale per ridurre i conflitti interni e per garantire i rapporti fra la capitale e le province.

1. In che modo fu cambiata la geografia politica dell’Italia? 2. Quale differenza c’era tra province del popolo e province imperiali?

8. La politica estera di Augusto

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

La pace armata

Reno

La politica estera fu per Augusto una questione a lui riservata, su cui non poteva intervenire alcun’altra istituzione politica. Le sue azioni di politica estera erano guidate da due obiettivi, solo apparentemente contraddittori: la grandezza dell’impero e la pace, su cui occorre però intendersi. Il governo di Augusto fu presentato dalla sua propaganda come Pax Augusta, come il governo della pace. Ma questa era solo la pace dalle guerre civili. O meglio, era una pace armata, pronta a reprimere duramente dentro e fuori l’impero Le conquiste territoriali di Augusto Territori dell’impero prima di Augusto chi turbava l’ordine e chi impediva Regni indipendenti legati a Roma di gestire al meglio i domìni romani. Conquiste di Augusto (25-9 a.C.) Nel suo testamento politico Augusto Daci Popolazioni nemiche MARE DEL scrisse una frase feroce proprio per20 a.C. Anno dei combattimenti NORD Battaglie ché voleva apparire clemente: «Ho preferito lasciar vivere le genti straTeutoburgo 9 d.C. niere alle quali si poteva perdonare Germani OCEANO in tutta sicurezza, piuttosto che anREZIA ATLANTICO nientarle». È il tono di un capo roGALLIA mano, sicuro del suo diritto di vita e NORICO Salassi i Cantabri di morte collettiva su qualsiasi po25 a.C. PANNONIA un Asturiani m Pannoni Ca 26-19 a.C. polo che non fosse il suo. 12-9 a.C. Daci Baschi

Da

bio Danu

lm

Le guerre di Augusto

Durante il regno di Augusto vennero combattuti numerosi conflitti. Dapprima si svolse una campagna per sottomettere alcune popolazioni che nel Nord della penisola iberica da oltre un secolo si opponevano strenuamente all’occupazione roma-

at

i

IT AL

SPAGNA

MESIA

IA

MAR NERO

TRACIA MACEDONIA ASIA ACAIA

NUMIDIA MAR MEDITERRANEO

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

21

 Maschera di cavaliere romano I sec. d.C. Varusschlacht Museum, Kalkriese, Germania La foresta di Teutoburgo, così come molte aree circostanti, hanno conservato per secoli una grande quantità di reperti di epoca romana: resti umani e animali, numerose monete, residui di un terrapieno e soprattutto cospicui reperti bellici come parti di spade, di elmi e di scudi, frammenti di lance e parti di bardature per cavalli. Tra i reperti spicca questa maschera da parata realizzata in ferro e ricoperta d’argento, appartenuta a un cavaliere romano.

 Il re dei Parti restituisce le insegne romane 8 a.C. Particolare della corazza dell’Augusto di Prima Porta Musei Vaticani, Roma La splendida corazza del generale Augusto riporta in rilievo l’episodio della consegna a Tiberio, figlio adottivo d’Augusto, delle insegne romane che il re dei Parti aveva sottratto a Crasso con la battaglia di Carre. Perdere le insegne delle legioni, a forma di aquila, per mano nemica era per i Romani un grande disonore. La decorazione della corazza celebra dunque il ristabilimento dell’ordine romano: il Sole, l’Aurora, Apollo, Diana e Tellus, la terra generatrice di frutti, assistono al gesto ponendolo sotto buoni auspici. Tiberio è raffigurato tra le personificazioni della Germania e della Pannonia, regioni da lui pacificate.

22

na. Poi venne intrapresa la sottomissione dei popoli che vivevano sulle Alpi; pur trovandosi al confine dell’Italia, fino a quel momento erano stati protetti dai rilievi e dall’intricata orografia alpina. Sterminati nel 25 a.C. i Salassi della Val d’Aosta e ottenuto così il controllo del valico del piccolo San Bernardo, fu fondata la colonia di Aosta (Augusta Praetoria). Seguì la conquista di tutta la catena alpina e anche dei territori più a nord, nelle attuali Svizzera e Austria. A partire dal 16 a.C. l’espansione si diresse verso l’Europa centrale. Le operazioni furono guidate dai due figli che la moglie di Augusto, Livia, aveva avuto dal suo primo marito. Il maggiore, Druso, morì per una caduta da cavallo il 9 a.C., ma le conquiste vennero portate avanti dal fratello Tiberio. Sottomesse le popolazioni dei Pannoni, Dalmati e Norici che vivevano nei Balcani e nel medio bacino del Danubio, l’offensiva fu spostata in Germania. In un primo tempo, il successo fu completo. Nel 5 d.C. il dominio di Roma comprendeva i territori tra i fiumi Reno e Elba, nei quali venne creata la provincia della Germania. Fu però una conquista di breve durata. Le diverse popolazioni germaniche misero da parte le loro rivalità e stabilirono un’alleanza antiromana sotto la guida di Arminio, un germano che aveva militato a lungo come ufficiale nell’esercito romano, ottenendo come premio anche la cittadinanza. Fu forse l’unica ribellione di successo alle pretese di Roma. Il 9 d.C. nella foresta di Teutoburgo i ribelli massacrarono tre legioni romane al comando del legato Quintilio Varo, liberando poi tutto il territorio fino al Reno. Roma rinunciò per sempre a espandersi ad oriente del fiume, abbandonando il progetto di Augusto di spingere i domìni imperiali addirittura oltre l’Elba (che avrebbe significato spingere le legioni fino all’attuale Polonia). In queste aree nei secoli successivi i confini dell’impero restarono più o meno dove Augusto li aveva lasciati: sul Reno e sul Danubio. Si interruppe così il processo, iniziato da Cesare con la conquista della Gallia, che mirava a rendere Roma signora, oltre che del Mediterraneo, anche dell’Europa. Il continente restò diviso fra una parte interna e una esterna ai domìni romani. Nel lungo periodo questo fu per Roma fatale, poiché proprio dalla parte non romanizzata del-

Parte V L’impero greco-romano

l’Europa vennero gli attacchi dei barbari che quattro-cinque secoli dopo determinarono la fine dell’impero romano in Occidente. Va anche detto, però, che in questo modo il nostro continente ha conservato una varietà di società, di sistemi politici e di culture che, se ha causato molti contrasti, è stata anche un fattore di complessità e di ricchezza: insomma, la diversità a conti fatti ha dato all’Europa molte delle energie che le hanno consentito in età moderna di imporsi al mondo intero. Per via diplomatica invece si risolse il problema dei Parti, lungo il confine orientale. I Parti erano una potenza minacciosa e ai Romani contendevano il controllo dell’Armenia e della Siria. La soluzione diplomatica permise ad Augusto di ottenere le insegne romane sottratte a Crasso dopo la disfatta di Carre.

1. Che cosa si intende con l’espressione “pace armata”? 2. Quali erano i confini dell’impero nell’Europa orientale?

9. Cultura, morale e propaganda politica sotto Augusto

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Potere e cultura

Un manuale di storia può dedicare poco spazio alla letteratura e all’arte. Nel caso di Augusto, però, è bene fare una (piccola) eccezione, perché una parte integrante della sua attività politica e del suo successo furono legati a una sapiente utilizzazione di letteratura, arte e architettura, per farsi propaganda e sostenere la riforma dei costumi morali delle classi dirigenti. Naturalmente Augusto non fu né il primo né l’ultimo: tutti gli uomini di potere, a partire almeno dai sovrani sumeri e dai faraoni egizi, avevano sfruttato arte e cultura per autocelebrarsi e sostenere la propria politica; anche i successori di Augusto continuarono a farlo. Nel caso di Augusto, però, l’utilizzazione propagandistica della cultura fu particolarmente intensa e, possiamo dire, raffinata. Poeti, storici, artisti e altri uomini di cultura non furono asserviti con la forza e le minacce, ma accettarono spontaneamente

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato



Il ninfeo dei giardini di Mecenate I sec. d.C. Roma Questo piccolo ninfeo, chiamato anche Auditorium, fu fatto edificare da Mecenate nei giardini della sua villa. È probabile che qui il ministro di Augusto ospitasse i suoi amici poeti e letterati per recitare in forma privata le loro opere.

23

 Resti del Tempio di Marte Ultore 2 a.C. Foro di Augusto, Roma Al tempo della vittoria conseguita a Filippi, in cui Augusto aveva vendicato la morte di Cesare (42 a.C.), il princeps promise a Marte, potente dio della guerra cui aveva chiesto sostegno prima della battaglia, un grande santuario per rendergli omaggio. Eretto molto più tardi, probabilmente in contemporanea al foro, il Tempio di Marte Ultore (ovvero ‘vendicatore’) ne chiudeva scenograficamente il percorso.

di farsi portavoce degli ideali cari al principe. Servire le idee dei potenti è sempre conveniente, e sembra del resto che molti intellettuali condividessero davvero gli ideali conservatori e tradizionalmente aristocratici di Augusto. Per far in modo che il rapporto fra potere e cultura divenisse così intenso, Augusto seppe stabilire rapporti personali, anche di amicizia, con molti intellettuali. In questo campo fu molto aiutato da Mecenate, il raffinato membro di un’antica famiglia di origine etrusca che per oltre trent’anni, fino alla morte nell’8 a.C., fu un consigliere fidato e un amico personale del principe, pur senza mai rivestire cariche ufficiali. Oltre ad Augusto, Mecenate amava poesia e letteratura: impiegò quindi il patrimonio accumulato acquistando a buon prezzo i beni dei proscritti durante le guerre civili per sostenere la politica culturale del principe. Intorno a lui si raccolsero i maggiori poeti del tempo e altri rappresentanti dell’arte e della letteratura. Mecenate li sosteneva con doni e aiuti finanziari tratti dal suo grande patrimonio; li aiutava a incontrarsi e a discutere; li spronava e offriva loro la possibilità di produrre le loro opere. Dal suo nome derivano i termini moderni di mecenate e mecenatismo, che indicano appunto le attività di sostegno alle arti e, soprattutto, agli artisti. Avvenne così che poesie e opere dei letterati divennero strumenti molto efficaci per diffondere nell’opinione pubblica i temi indicati da Augusto come valori fondamentali della società. Una parte importante della politica del principe fu infatti un vasto programma di risanamento morale in senso conservatore. In campo religioso, oltre a promuovere il restauro o la ricostruzione di molti templi (nella sola città di Roma almeno ottanta), il principe cercò di richiamare culti antichi caduti in disuso. Nel contempo, intraprese una politica volta a imporre alle classi elevate di comportarsi rispettando la tradizione e i buoni costumi sia in pubblico, sia soprattutto nella vita privata. La propaganda augustea affermava che i mali di Roma erano nati dall’abbandono delle antiche virtù e dalla decadenza dei valori familiari. In questo contesto era importante che i poeti lodassero i costumi austeri e modesti degli antichi, e che li additassero come il solo esempio da seguire. Nel raccontare la storia di Ro-

24

Parte V L’impero greco-romano

ma, occorreva insistere sulla religiosità, l’onore, la disciplina, lo spirito di sacrificio per la patria e tutte le virtù dei grandi Romani del passato. Le antiche matrone dovevano essere esempi di fedeltà, dedizione alla casa e ai figli, spirito di sacrificio. Oppure bisognava cantare la bellezza della vita dell’agricoltore, presentata come la buona vecchia condizione dei Romani che avevano fatto grande Roma. Chi propugnava valori diversi correva dei rischi. In materia letteraria Augusto era talvolta tollerante, e accettò il dissenso se veniva espresso con moderazione. Per esempio non levò mai il favore allo storico Tito Livio anche se nella sua storia di Roma lasciava chiaramente capire il rimpianto per la repubblica; del resto, formalmente anche il principe si dichiarava sostenitore dei valori repubblicani. Invece Ovidio, il mondano e brillante poeta di corte che cantava le gioie dell’amore e della seduzione, venne all’improvviso mandato in esilio in una lontana cittadina del Mar Nero. La sua colpa esatta non è in realtà nota, ma Ovidio stesso dice che la condanna fu provocata fra le altre cose da un carmen, una poesia.



Ara Pacis Augustae 13-9 a.C. Museo dell’Ara Pacis, Roma



La processione dedicatoria Particolare dall’Ara Pacis L’Ara, edificata per celebrare le vittorie di Augusto in Spagna e in Gallia e magnificarne l’opera di pacificazione del mondo romano, è costituita da un recinto marmoreo al cui interno è collocato l’altare vero e proprio. Sia l’interno che l’esterno sono riccamente decorati da rilievi scultorei; qui è riportato il particolare del pannello sul lato meridionale in cui compare il corteo della domus Augusta (tra cui Augusto, Tiberio e altri membri della famiglia imperiale) che presenziano alla consacrazione dell’ara.

Celebrare e adorare Augusto

Oltre a questa propaganda indiretta, vi furono celebrazioni esplicite di Augusto, da lui stesso direttamente promosse. L’Eneide, capolavoro di Virgilio, non solo indicava ai contemporanei i valori morali propugnati dal principe e impersonati nel poema dal protagonista, Enea, ma esplicitamente preannunciava il ritorno agli antichi splendori con il nuovo eroe, «Cesare Augusto, di stirpe divina, che fa rinascere il secolo d’oro». Un’opera intensa di propaganda fu poi affidata agli interventi artistici ed edilizi. Statue di ogni tipo raffiguranti il principe vennero elevate nei luoghi pubblici, mentre nel cuore di Roma i lavori per terminare il Foro di Cesare e costruire il vicino Foro di Augusto fornivano l’occasione per esaltare la stirpe Giulia, cioè la famiglia di Cesare e di Augusto, e i suoi membri. Furono eretti edifici di va-

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

25

rio tipo, compreso un immenso mausoleo circolare, con un diametro di quasi novanta metri, destinato ad accogliere il corpo del principe e dei suoi familiari. Forse il risultato più noto di questa attività artistica di propaganda è l’Ara Pacis (‘Altare della Pace’). Fra il 13 e il 9 a.C., per celebrare le vittorie in Spagna e sulle Alpi, venne costruito su un podio un recinto rettangolare in marmo, con al centro il vero e proprio altare. Sulle pareti esterne splendide sculture in bassorilievo, oltre a illustrare vari miti relativi alla nascita di Roma,

Le Res gestae di Augusto [Res gestae divi Augusti, 1-2, trad. a cura degli autori]

La

voce

PA SSA TO del

Qualche tempo prima di morire Augusto dettò un’opera intitolata Index rerum gestarum (‘Elenco delle imprese’) o Res gestae divi Augusti (‘Imprese del divino Augusto’). È un testo inusuale, che non appartiene a un genere letterario preciso: un po’ è un testamento politico, un po’ un’autobiografia, un po’ un’iscrizione sepolcrale. In uno stile volutamente secco, senza abbellimenti letterari, Augusto racconta in prima persona le gesta compiute in guerra e in pace a partire da quando, appena diciannovenne, venne chiamato ad assumere l’eredità del padre adottivo Cesare e a vendicarne l’assassinio. Augusto ordinò che l’intero testo venisse inciso sul bronzo e posto all’ingresso del grande mausoleo che si era fatto costruire nel Campo Marzio, una zona pianeggiante di Roma dove andavano sorgendo importanti monumenti. L’iscrizione di Roma è andata persa, ma conosciamo egualmente gran parte delle Res gestae perché esse vennero scolpite su lastre di marmo e sulle pareti dei templi di numerose città dell’impero. Il testo era scritto sia in latino che in greco, per poter essere letto da tutti i cittadini anche nelle province orientali. L’esemplare meglio conservato fu scoperto nel XVI secolo da un ambasciatore europeo in Turchia: era scolpito sulla parete di un tempio di Ancyra (l’odierna Ankara) dedicato alla dea Roma e allo stesso Augusto. Vediamo come suona la parte iniziale del testo, nella sua apparente, fredda oggettività: A 19 anni, di mia sola iniziativa e a mie sole spese, misi insieme un esercito, con il quale restaurai la libertà della Repubblica, oppressa dalla tirannia di una fazione. Per questa ragione durante il consolato di Gaio Vibio Pansa e Aulo Irzio il Senato mi incluse

Parte V L’impero greco-romano

nel suo ordine per decreto onorifico, dandomi sia il rango consolare che l’imperium militare. Quando ero propretore, la Repubblica mi ordinò di provvedere insieme ai consoli che nessuno potesse recarle danno. Nello stesso anno il Popolo mi elesse console, poiché entrambi i consoli erano stati uccisi in guerra, e triumviro per riordinare la Repubblica. Mandai in esilio quelli che trucidarono mio padre punendo il loro delitto con procedimenti legali; e poi, quando essi mossero guerra alla Repubblica, li vinsi due volte in battaglia. L’iscrizione contiene un elenco assai più lungo delle attività pubbliche che Augusto stesso desiderava ricordare, ma già queste poche righe suscitano molti commenti. Si tratta in realtà di un’opera di propaganda, non di un’esposizione di dati storici oggettivi. Non possiamo usarla per stabilire che cosa esattamente accadde, ma piuttosto per vedere cosa il princeps voleva sottolineare, cosa tacere, cosa esporre in una versione di parte. Augusto racconta di avere costituito un esercito di sua iniziativa ma per il bene dello Stato, di avere esiliato gli assassini di Cesare, che chiama senz’altro suo padre – era in realtà il padre adottivo – in base alla legge e di averli combattuti. Il primo intervento di Augusto nella politica romana è presentato come avvenuto solo in difesa e per conto del senato e dello Stato, e non invece come un’iniziativa di parte; dei provvedimenti contro gli uccisori di Cesare sottolinea il carattere legale. Inoltre Augusto si guarda bene dal dire che la sua elezione a console era stata imposta al senato marciando in armi su Roma. Infine, non c’è alcuna menzione di Antonio, con cui Ottaviano aveva collaborato per sconfiggere i cesaricidi e con cui si era spartito il potere nel secondo triumvirato, prima di attaccarlo e sconfiggerlo: di lui, non era necessario che i Romani si ricordassero.

raffigurano Augusto e tutti i suoi parenti, ritratti mentre partecipano a una processione religiosa. Il principe introdusse anche il culto religioso della sua persona. La tradizione romana permetteva di divinizzare soltanto i morti: Augusto fece proclamare divus, cioè divino, il padre adottivo ucciso. Il culto di una persona vivente, invece, non era proprio preso in considerazione. Di conseguenza il principe venne adorato come un vero e proprio dio solo in Oriente, dove era tradizione attribuire uno statuto di divinità viventi ai sovrani. A Roma e in Occidente il suo culto assunse forme indirette. Venivano adorati non Augusto e la sua persona, ma le sue divinità protettrici familiari e personali, cioè i suoi Lari e il suo Genio; inoltre il calendario cominciò a riempirsi di festività nelle quali i sacerdoti ringraziavano gli dèi per i compleanni, gli anniversari delle vittorie, e le altre tappe della carriera di Augusto. Da allora, celebrare e adorare in cerimonie religiose l’imperatore divenne una pratica che unificava gli abitanti del vasto impero: nelle numerose province ogni popolo, e talvolta ogni piccolo gruppo, aveva le proprie divinità, ma il culto dell’imperatore era comune e obbligatorio per tutti.

1. A quale scopo Augusto si servì delle opere artistiche e letterarie? 2. Quali differenti caratteri assunse il culto religioso ispirato ad Augusto?

10. Dare figli allo Stato

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Sposati per legge

Alcune leggi a favore del matrimonio e contro l’adulterio erano parte integrante della politica augustea di moralizzazione dei costumi. Il matrimonio costituiva un problema di antica data, perché ai Romani non piaceva sposarsi. Almeno, questo è quanto raccontano fonti diverse lungo l’arco di ben tre secoli, dal II a.C. fino al I secolo d.C. Nelle classi alte ci si sposava per ragioni di alleanza politica, perché nulla come un matrimonio può unire due famiglie. Oppure ci si sposava per ragioni economiche, attirati da una buona dote. Sposarsi voleva dire infine rispettare il comportamento del buon cittadino, che doveva dare figli alla repubblica. Ma tutte queste ragioni spesso non erano sufficienti, con grande preoccupazione delle autorità. Così alla metà del II secolo a.C. cominciano iniziative politiche e vere e proprie leggi volte a convincere i Romani a sposarsi e fare figli (e non soltanto ad adottarli, pratica molto diffusa). Ma fu Augusto a stabilire le norme più complete e più severe. Tra il 18 e il 9 a.C. una serie di leggi ordinarono che tutti gli uomini tra i venticinque e i sessant’anni e tutte le donne tra i venti e i cinquanta dovessero contrarre matrimonio. Chi non lo faceva, oppure chi si sposava ma evitava di mettere al mondo figli, era punito perdendo in tutto o in parte il diritto a ereditare beni da parenti e amici. Per chi aveva figli erano invece previsti dei premi, sia in denaro sia soprattutto per accedere alle magistrature pubbliche e per promozioni più rapide. Adultere per legge

Né poteva mancare, in questa situazione, un tentativo di controllare la sessualità extra coniugale della donna, non utile alla procreazione e pericolosa per i matrimoni. Il problema era

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

27

sicuramente meno grave di come lo presentava la legge, e forse era più che altro un pretesto per attaccare non tanto un’inesistente libertà sessuale, quanto i nuovi comportamenti più indipendenti che andavano diffondendosi fra le donne della più alta aristocrazia. In una società così dominata dai maschi, cosa di meglio poteva fare Augusto per apparire come il moralizzatore e il vero restauratore delle buone tradizioni antiche? La legge definì “adulterio” ogni rapporto extra matrimoniale della donna: non soltanto quello della moglie con un uomo diverso dal marito, ma anche qualsiasi rapporto sessuale di una vedova e di una ragazza nubile onesta (le prostitute e le concubine erano eccettuate dalla legge). Per secoli questi comportamenti erano stati puniti dai parenti come meglio credevano, anche uccidendo la donna e il suo amante; oppure accordando il perdono. Adesso invece l’adulterio diveniva un reato pubblico: non solo la punizione spettava allo Stato (la pena prevista era l’esilio in una piccola isola), ma per non incorrere in gravi pene il marito e il padre della donna colpevole erano obbligati a denunciarla. La legge fu una pacchia per i ricattatori, ma non sembra che avesse molto successo. I casi in cui venne applicata furono pochi, anche se fra le sue prime vittime vi fu la figlia stessa di Augusto, Giulia, che il padre dovette mandare in esilio: intorno alla figlia e al suo disinvolto comportamento sessuale si erano raggruppati i contestatori della sua legislazione morale, e dunque l’esilio della figlia (e l’obbligo di suicidarsi imposto a uno dei suoi amanti) mostrava a tutti la serietà delle intenzioni del principe.

 Gratidius Libanus e sua moglie Gratidia Chrite 30 a.C. Musei Vaticani, Roma Questo gruppo statuario ritrae una coppia di sposi: è evidente la volontà di rappresentare la dignità dell’uomo nella sua veste di paterfamilias, con la mano sinistra che regge la toga e lo sguardo fiero, e la posizione subalterna della donna che a lui si appoggia con atteggiamento affettuoso e riverente insieme.

28

1. Quali punizioni toccavano a coloro che non si sposavano? 2. Quali relazioni rientravano nel delitto di adulterio?

11. Matrimonio e sessualità fra repubblica e impero

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Il potere del maschio

Le leggi di Augusto su morale e matrimonio intervenivano in un terreno che si stava trasformando. Da tempo, infatti, sia l’atteggiamento dei Romani verso il matrimonio, sia le relazioni fra marito e moglie andavano lentamente modificandosi. Questo processo plurisecolare di cambiamento era iniziato nel IV secolo a.C. e giunse a termine solo nel II secolo d.C. Ricostruiamone le tappe principali. Per i primi secoli della storia di Roma con il matrimonio la donna passava dalla sottomissione al proprio paterfamilias alla sottomissione al potere del marito, chiamato manus. In quanto paterfamilias della sua casa il marito aveva un’autorità assoluta sulla moglie come su tutta la famiglia. Il tipo di sessualità tradizionale rispecchiava questi rapporti di potere così diseguali. In quanto capo incontrastato di un gruppo familiare su cui poteva liberamente esercitare la massima autorità, il cittadino romano praticava una sessualità spesso violenta e prepotente, che potremmo dire “di stupro”: senza problemi e senza esitazioni, sottometteva alle sue voglie la moglie, le schiave e i giovani schiavi della casa. Il cambiamento iniziò nel IV secolo a.C. e riguardò dapprima non la sfera

Parte V L’impero greco-romano

degli affetti e del sesso, ma quella del patrimonio. Il tipo di matrimonio più antico sottoponeva al marito non solo la donna, ma anche i suoi beni. E questo per le famiglie ricche costituiva un problema, perché metteva nelle mani del marito i beni che la moglie riceveva in dote ed ereditava dalla famiglia paterna. Dapprima nelle classi sociali alte e poi un po’ in tutti i gruppi sociali si diffuse quindi un tipo di matrimonio diverso, senza manus, senza cioè prevedere il passaggio né della sposa, né soprattutto dei suoi beni sotto l’autorità del marito. Già nel II secolo a.C. era il matrimonio più comune. La donna restava libera di fare testamento e di amministrare la sua dote e i beni ereditati; così spesso li faceva gestire dai fratelli e li lasciava loro in eredità. Pur se originato dalla convenienza economica dei parenti maschi, il nuovo tipo di matrimonio avvantaggiò anche la donna: se è esagerato dire che le dava la libertà, è però sicuro che se non altro limitava il controllo assoluto in passato esercitato dal marito. Come in molte civiltà del passato, il matrimonio continuava a non aver nulla a che vedere con l’amore. Di solito veniva stabilito dai parenti in base ai loro progetti politici e economici; anche quando erano gli sposi a prendere la decisione, lo facevano in base a una scelta razionale, non sentimentale. Per la riuscita dell’unione contavano non l’amore o la sessualità, ma altri valori, come la concordia e la solidarietà. Se queste condizioni venivano a mancare era abbastanza facile divorziare: bastava che uno dei coniugi comunicasse all’altro la volontà di ripudiarlo. Di fatto l’iniziativa era presa soprattutto dagli uomini, tranne che nel caso delle donne di altissimo rango, che divorziavano con tranquillità, sostenute dalla famiglia di origine.



Scena di matrimonio II sec. d.C. Museo Archeologico, Arlon, Belgio

Un cambiamento di mentalità

Proprio a partire dalla metà del I secolo a.C. nella mentalità dei mariti romani inizia a comparire un modo diverso di considerare il matrimonio. I comportamenti sopraffattori certo non cessarono, ma adesso venivano considerati come qualcosa di negativo, da praticare di nascosto. Sempre di più si andava infatti diffondendo l’idea che il marito dovesse essere fedele e rispettare la moglie, e che fra gli sposi dovesse esistere un rapporto di affetto, stima e complicità. I primi storici che hanno individuato questo cambiamento di mentalità pensavano fosse avvenuto solo tardi, a partire dal II secolo d.C., e lo attribuivano alla diffusione del cristianesimo, che in effetti dava importanza alla fedeltà e al rapporto paritario fra i coniugi. Ma in realtà il nuovo modo di pensare inizia molto prima, già nell’età di Augusto. La morale cristiana del matrimonio dunque non c’entra, e nemmeno le leggi del principe in materia di matrimonio e adulterio. Le cause del cambiamento di morale vanno piut-

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

29

tosto cercate nella diffusione di comportamenti suggeriti dai filosofi greci, che invitavano l’uomo a controllare il desiderio sessuale per raggiungere un livello di conoscenza superiore; come pure contarono le teorie mediche sui danni che un’eccessiva attività sessuale causava al fisico dell’uomo. Per quanto possa sembrare strano, gli storici pensano però che la causa principale della nuova morale sia stata di tipo politico. Nella nuova realtà del principato e dell’impero tutti i cittadini divenivano sudditi e funzionari del principe. Come potevano questi uomini continuare a sentirsi in casa propria patresfamilias arroganti e do-

cittadinanza Il mistero della dote I Romani d’età repubblicana e imperiale come i Greci dell’età classica seguivano il sistema dotale: in occasione del matrimonio la famiglia della donna dava allo sposo e alla sua famiglia una dote. La composizione e l’ammontare della dote cambiavano a seconda della condizione sociale degli sposi e di altri fattori. La dote poteva essere costituita da una somma in denaro, oppure da terre, bestiame, vestiti, gioielli e altri beni. La sua natura giuridica era particolare, nel senso che lo sposo di solito non ne poteva disporre a piacimento, ma doveva in qualche modo tenere conto dei diritti della donna e dei suoi parenti. I Romani prevedevano per esempio che in caso di divorzio il marito dovesse restituire la dote alla moglie, ad eccezione dei divorzi causati dall’adulterio della donna. La dote serviva per aiutare la nuova famiglia a vivere e lavorare. Sposarsi senza dote era molto difficile. Un padre che mancava di provvedere alla dote si disonorava agli occhi di tutti. Per la mentalità dei Romani, un matrimonio non era una vera unione senza beni dotali; ad Atene, addirittura, un matrimonio non era considerato legittimo se mancava la dote. Anche in tempi a noi vicini la dote è stata diffusa e importante. In tutti gli Stati europei di età moderna i matrimoni comportavano il pagamento di una dote. In certi periodi l’ammontare delle doti tendeva a salire, e molti padri si rovinavano per dotare le figlie; oppure decidevano che era meglio risparmiare e non farle mai sposare. Nei paesi cattolici in questi casi si preferiva abbandonassero il mondo dei laici, e divenissero religiose fin da piccole: in un convento l’onore di una donna nubile era al sicuro (o quasi al sicuro: ricordiamo il caso della monaca di Monza, Gertrude, una delle bambine destinate al

30

Parte V L’impero greco-romano

convento allo scopo di risparmiare la loro dote, raccontato da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi; la monaca era diventata l’amante di un nobile, e ne era nato un grande scandalo). La dote si accompagnava spesso a una situazione di diseguaglianza nei diritti ereditari delle figlie femmine rispetto ai fratelli. Di solito veniva considerata come un’eredità anticipata, e si sosteneva che le figlie dotate perdevano ogni diritto sull’eredità paterna. Così avveniva nell’Atene classica e in molti Stati europei d’età moderna; i Romani erano più generosi, e permettevano alla figlia sposata di rivendicare in eredità altri beni alla morte del padre. In Italia la dote è sopravvissuta fino a tempi recenti: solo nel 1975 è stata vietata. Tipica del mondo occidentale fin dall’Antichità e di alcune altre civiltà, come quella dell’India, la dote è apparsa a lungo come qualcosa di normale. Ma non lo è. Poiché nella maggior parte dei casi è la donna a lasciare la famiglia di origine per andare a vivere con il marito, in termini economici è strano che la famiglia che cede una donna ad un’altra debba in aggiunta pagare anche qualcosa. Più normale è piuttosto che sia la famiglia dello sposo a cedere beni a quella della donna. E così, in effetti, è: un etnologo ha calcolato che al livello mondiale solo in una piccola minoranza delle civiltà (a suo dire il 4%, ma nelle scienze umane è sempre bene evitare numeri così precisi) a pagare è la famiglia che cede la donna, e non quella che la riceve. Della peculiarità della dote erano coscienti già gli antichi. Per Aristotele, essa era la prova di un superiore livello di civiltà raggiunto dai Greci, che avevano abbandonato le pratiche “primitive” come il ratto o l’acquisto di donne seguite dai barbari dei suoi tempi e dagli stessi Greci dei tempi di Omero. Per gli storici, la dote è un rompicapo. La sua vi-

tati di un dominio assoluto? L’ottica con cui guardavano il sesso e la moglie finì per adeguarsi a questa nuova realtà.

1. Che cosa era un matrimonio senza manus? 2. Quale causa di natura politica, secondo gli storici, portò a un cambiamento di mentalità?

La dote di una  contadina di Lucerna

1830 ca. Litografia Swiss National Museum, Zurigo

cenda è millenaria, e quanto mai complessa e controversa. Ma difficile da spiegare è in primo luogo la sua stessa esistenza. Nel caso della dote tutti i doni (la ragazza e i beni) sono effettuati da una parte sola. Le civiltà che adottano il sistema dotale sembrano quasi considerare la ragazza come un peso per la famiglia d’origine, di cui ci si libera affibbiandola a una nuova famiglia, che però va pagata per il disturbo. Molto più comprensibile appare invece la pratica più comune fra le civiltà, dove il pagamento viene effettuato dalla famiglia del marito. Dai Greci fino ai giorni nostri, noi occidentali ci siamo scandalizzati per questo sistema in cui la donna sembra quasi una merce da comprare. Talvolta era davvero così, e i doni fatti dal marito al suocero erano il “prezzo della sposa” nel senso più scontato del termine. Gli antropologi sottolineano però che questi doni avevano anche lo scopo di stringere meglio l’alleanza fra le due famiglie attraverso un sistema di dono e controdono: un gruppo familiare donava una ragazza, e l’altro contraccambiava donando denaro o beni. Scambiare doni non è forse anche per noi il modo più comune per dichiarare un’amicizia o un affetto?

Non dobbiamo certo decidere quale delle due concezioni è più normale o ci piace di più. Per entrambe la ragazza non è un soggetto che sceglie e decide, ma qualcosa da scambiare o da cedere. Capiamo così bene che una vera uguaglianza fra i sessi è possibile solo dove il matrimonio non comporta un peso economico obbligatorio né per l’una né per l’altra famiglia. E, più in generale, capiamo quanto sia grande la distanza con il nostro modo di considerare i diritti di ogni individuo e in particolare della donna. La civiltà occidentale contemporanea considera i diritti dell’individuo come l’elemento fondamentale, al quale tutto va subordinato; in passato, viceversa, i diritti di un individuo venivano dopo quelli della sua famiglia. Nella morale del tempo sembrava una cosa normalissima e giusta che fosse la famiglia, e soprattutto il padre, a decidere cosa i giovani dovessero fare in ogni occasione, e dunque anche nel matrimonio. Questa subordinazione dell’individuo alla famiglia gravava anche sui maschi, ma finiva per danneggiare soprattutto i soggetti più deboli del gruppo familiare, le femmine.

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

31

SINTESI 1. Il primo triumvirato Di ritorno dall’Oriente, Pompeo aveva congedato le legioni, ma le richieste da lui avanzate tardavano a essere approvate dal senato, per motivazioni politiche. Di questa situazione di stallo approfittò Giulio Cesare, che strinse un patto segreto con Pompeo e Crasso per farsi eleggere console nel 59 a.C. e portare avanti progetti comuni. Questo triumvirato esercitò, di fatto, un controllo quasi totale sullo Stato. Al termine del consolato Cesare si fece assegnare il governo della Gallia per due quinquenni e, tra il 58 e il 52 a.C., la conquistò, mentre a Roma dilagava il caos politico. Morto Crasso in battaglia contro i Parti, Pompeo restava l’unico personaggio potente presente a Roma e appoggiato dal senato, mentre a Cesare, il cui mandato in Gallia stava scadendo, veniva rifiutato un secondo mandato di console.

2. La seconda guerra civile e la dittatura di Cesare Venuta meno ogni possibile mediazione, nel 49 a.C. Cesare entrò in Italia con le sue truppe e la conquistò. Ottenuta la dittatura, nel 48, a Farsàlo, sconfisse Pompeo, che, rifugiatosi in Egitto, fu ucciso da Tolomeo XIII. Questo atto giustificò l’intervento militare di Roma, che prese il controllo dell’Egitto e della sua produzione di grano. Sconfitte le ultime sacche di resistenza pompeiana e riconfermato dittatore a vita, Cesare concentrò tutti i poteri nella sua persona, assumendo comportamenti e simboli di un sovrano, e portò avanti un gran numero di riforme politiche e sociali. Ma l’ostilità continuò e, nel 44 a.C., fu assassinato in una congiura ordita da senatori che volevano, così, restaurare la libertà repubblicana.

3. La terza guerra civile e l’ascesa di Ottaviano, il futuro Augusto La morte di Cesare diede vita a nuove turbolenze. Figure di spicco nel panorama romano erano Antonio e Lepido, fedeli generali di Cesare, e Gaio Ottaviano, erede di Cesare. Ottaviano si rivelò un abile politico, si guadagnò il favore del popolo e dei veterani, riuscendo a sfruttare i timori che il senato provava per le ambizioni di Antonio. Riuscì a dar vita a un secondo triumvirato con Lepido e Antonio, questa volta ratificato dal senato e della durata di cinque anni. Furono divise le aree di influenza: a Lepido andò l’Africa, ad Antonio l’Oriente e la Gallia Transalpina, e Ottaviano rimase in Italia ed ebbe il controllo della Spagna. Lepido uscì rapidamente di scena, mentre Ottaviano ebbe buon gioco a screditare i comportamenti di Antonio, che in Oriente si atteggiava a despota. Lo scontro fu inevitabile e nel 31 a.C. la flotta di Ottaviano sconfisse quella di Antonio, che si suicidò ad Alessandria un anno dopo.

4. Restaurazione e rivoluzione: Augusto al potere Una volta al potere, Ottaviano, che aveva ottenuto anche il cognomen Augusto, riuscì a compiere una vera e propria rivoluzione politica, mascherandola come una restaurazione dell’ordine repubblicano. Infatti, egli utilizzò le antiche istituzioni repubblicane per accumulare sulla sua persona uno smisurato potere. Dopo essersi fatto riconoscere come princeps senatus e aver ricoperto la carica di console per otto anni, ottenne la potestà tribunizia, l’imperio proconsolare e la carica di pontefice massimo. Sotto Augusto continuarono a vivere e operare tutte le istituzioni della repubblica, ma in realtà ogni cosa ruotava intorno alla sua persona e alle sue scelte. Senza imporre direttamente ai Romani la monarchia, Augusto, era di fatto il monarca.

5. Parole importanti La comprensione del regime politico instauratosi a Roma passa attraverso la spiegazione di alcuni termini. Innanzitutto il termine Augustus, concesso a Ottaviano dal senato per onorarlo, che aveva un significato religioso. Poi, il termine princeps, che significava ‘primo fra i cittadini’ e da cui deriva il termine “principato”, che ben descrive il regime politico da quel momento instaurato a Roma. Quindi i termini “imperatore”, che si riferiva al capo militare supremo e vittorioso, e “impero”, che indicava il potere dei più importanti magistrati repubblicani, ma che nella locuzione “impero romano” passò a indicare lo Stato romano.

6. Cesare e la conquista della Gallia Una delle campagne militari più narrate dell’Antichità è stata quella per la conquista della Gallia, grazie soprattutto al De bello gallico, il diario di guerra redatto da Cesare che descrive le operazioni militari e fornisce molti dati sulle popolazioni celtiche. Cesare riuscì a piegare, anche brutalmente, i Celti e a respingere oltre il Reno le popolazioni germaniche, e nel 52 a.C. sconfisse la grande ribellione capitanata da Vercingetorige, re degli Arverni. Tuttavia, le azioni brutali di Cesare erano duramente contestate dai suoi avversari politici, che gli rimproveravano anche di agire al di fuori di ogni regola e convenzione.

7. Il governo di Augusto Augusto apportò delle graduali riforme amministrative. Le nuove cariche presero il nome di prefettura e furono assegnate a magistrati chiamati prefetti. L’Italia fu estesa fino alle Alpi e suddivisa in dodici distretti. I domìni esterni furono divisi in province del popolo, governate da funzionari eletti dal senato, e province imperiali, poste sotto il controllo diretto del principe che nominava un legato. Le diverse cariche erano distribuite tra le due più importanti classi dello Stato, i senatori e i cavalieri.

32

Parte V L’impero greco-romano

8. La politica estera di Augusto La politica estera di Augusto, a lui esclusivamente riservata, era guidata da due obiettivi principali: la grandezza dell’impero e la pace. La “pace augustea” è meglio definibile come “pace armata”, ovvero atta a reprimere dentro e fuori l’impero chi turbava l’ordine romano. In epoca augustea fu rafforzato il controllo della penisola iberica e delle Alpi, si tentò di arrivare oltre il fiume Elba, nell’attuale Germania, ma infine i confini in Europa orientale si attestarono sul Reno e sul Danubio. I problemi con i Parti, invece, furono temporaneamente risolti per via diplomatica.

9. Cultura, morale e propaganda politica sotto Augusto Augusto seppe sfruttare abilmente arte, letteratura e architettura per creare consenso attorno alla sua azione politica, per diffondere nell’opinione pubblica i valori fondamentali della società e per portare avanti un vasto programma di risanamento morale in senso conservatore. Augusto introdusse il culto religioso della sua persona, che assunse, però, diverse modalità nei domìni di Roma. In Oriente il principe era adorato come un vero e proprio dio, mentre a Roma e in Occidente erano adorate le sue divinità protettrici familiari e personali.

10. Dare figli allo Stato Nella politica di moralizzazione dei costumi promossa da Augusto erano parte integrante le leggi che regolamentavano e punivano aspetti dei rapporti quotidiani come il matrimonio o le relazioni adulterine. Il matrimonio fu imposto a tutti i cittadini adulti, pena la perdita del diritto a ereditare, mentre il mettere al mondo figli era premiato. La legge, inoltre, considerava adulterio qualsiasi rapporto extra matrimoniale della donna.

11. Matrimonio e sessualità fra repubblica e impero La mentalità e la morale della società romana, comunque, andavano trasformandosi. Già dal IV secolo a.C., infatti, le relazioni matrimoniali stavano mutando. Alla sottomissione totale della donna prevista negli antichi contratti di matrimonio, cominciarono a subentrare unioni nelle quali non era previsto il passaggio della sposa e dei suoi beni sotto l’autorità del marito. A questi cambiamenti concorsero certamente la diffusione del pensiero dei filosofi greci; inoltre, con il principato, divenne sempre più chiaro l’anacronismo della formula sociale incentrata sulla figura del paterfamilias.

ESERCIZI Gli eventi 1. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette: ❏ a) Cesare appoggiò Tolomeo XIII nel conflitto con sua sorella Cleopatra. ❏ b) Con Cesare al potere, la cittadinanza romana fu estesa alla Gallia Cisalpina. ❏ c) Il secondo triumvirato fu il risultato di un patto segreto stipulato tra Antonio, Lepido e Ottaviano. ❏ d) I popoli gallici erano federati tra loro e governati da un unico sovrano. ❏ e) La potestà tribunizia conferiva perpetuamente ad Augusto i poteri dei tribuni della plebe. ❏ f) Il prefetto dell’annona era incaricato di mantenere l’ordine pubblico a Roma. ❏ g) Ai senatori spettava la guida dei dodici distretti italici e il governo delle province. ❏ h) Con Augusto i confini dell’impero in Europa orientale si attestarono sulle rive del Reno e del Danubio. ❏ i) A Roma e in tutto l’Occidente Augusto fu venerato come un vero e proprio dio. ❏ j) Secondo le leggi fatte approvare da Augusto ogni rapporto extra matrimoniale della donna era considerato adulterio.

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

33

Le coordinate spazio-temporali 2. Collega correttamente le date agli eventi elencati: Date

Eventi

a) 59 a.C.

1) Pompeo viene sconfitto a Farsàlo e Cesare si fa nominare dittatore.

b) 58-50 a.C.

2) Augusto ottiene la potestà tribunizia e l’imperio proconsolare a vita.

c) 49 a.C.

3) Cesare viene eletto console.

d) 48 a.C.

4) Ottaviano sconfigge Antonio ad Azio, mettendo fine alla terza guerra civile.

e) 44 a.C.

5) Augusto viene eletto pontefice massimo.

f) 43 a.C.

6) Conquista della Gallia.

g) 31 a.C.

7) Cesare viene abbattuto da una congiura.

h) 27 a.C.

8) Antonio, Lepido e Ottaviano danno vita al secondo triumvirato.

i) 23 a.C.

9) Inizio della seconda guerra civile, tra Cesare e Pompeo.

j) 12 a.C.

10) Ottaviano ottiene dal senato il titolo di Augustus.

Il confronto 3. Completa la seguente tabella inserendo le informazioni richieste, quindi rispondi alle domande: Primo triumvirato Da chi era composto?

Qual era la natura giuridica di questo accordo?

In che modo fu spartito il potere fra i triumviri?

a) Quali erano gli obiettivi politici di questi accordi? b) In che modo terminarono i due triumvirati?

34

Parte V L’impero greco-romano

Secondo triumvirato

I concetti 4. Definisci i seguenti termini ed espressioni: Termine

Definizione

Augustus: Princeps: Imperator: Tribunicia potestas: Imperio proconsolare:

L’elaborazione scritta 5. Descrivi in un breve testo (max 20 righe) l’azione di governo di Augusto, sviluppando i seguenti concetti: a) Pace armata; b) Risanamento morale della società.

L’esposizione orale 6. Rispondi alle seguenti domande: 1) Quali furono le cause che portarono allo scontro tra Cesare e Pompeo? 2) Quali furono le riforme promosse da Cesare una volta ottenuta la dittatura? 3) In che modo Ottaviano riuscì a concentrare nelle proprie mani tutti i poteri senza intaccare apertamente le istituzioni repubblicane? 4) Quali riforme promosse Augusto riguardo all’amministrazione di Roma e dell’impero? 5) In che modo Augusto si servì degli artisti e degli intellettuali per propagandare la propria azione politica? Come gestì il dissenso? 6) Quali differenti forme assunse il culto della persona che Augusto favorì? 7) Quali trasformazioni segnarono la società romana nel passaggio dalla repubblica al principato?

Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato

35

Capitolo 13

Il consolidamento e l’apogeo dell’impero 1. Stabilità, pace e difficoltà di successione

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Un quadro positivo

Per quasi duecento anni dopo la morte di Augusto la nuova realtà politica che egli aveva creato, l’impero, andò rafforzandosi. Nel II secolo d.C. raggiunse il suo apogeo, cioè il punto più alto di sviluppo (da questo capitolo ometteremo di precisare che siamo ormai nell’età “dopo Cristo”). Fu un periodo di prosperità, di amministrazione efficace e soprattutto di pace interna e lungo i confini. Certo, non era questo il modo in cui la vedevano molte famiglie della grande aristocrazia, vittime delle repressioni compiute a più riprese dagli imperatori, soprattutto nel I secolo, per vincere l’opposizione di senatori e cavalieri, nostalgici delle libertà repubblicane. Ma per la maggioranza della popolazione il quadro fu positivo. Le ribellioni e i conflitti civili così comuni nelle ultime generazioni della repubblica divennero eventi eccezionali, mentre sul fronte esterno si registrò una novità ancora più inaudita: finì la continua aggressività che per quattro secoli aveva caratterizzato il rapporto di Roma con il mondo. Tranne che in pochi periodi, e con l’eccezione delle truppe concentrate sui confini, la popolazione dell’impero conosceva le guerre e le rivoluzioni solo dai racconti e dalle letture, e lo spargimento di sangue dagli spettacoli dei gladiatori. Anche il sistema delle istituzioni restò abbastanza stabile. Tutto ciò ha delle conseguenze sugli argomenti trattati in questo capitolo. Per due secoli il racconto della storia del vasto Stato che comprendeva l’intero Mediterraneo, l’Europa occidentale e i Balcani non si incentra più sulle guerre e le conquiste, le rivolte, i conflitti sociali e politici, ma sul sistema amministrativo, sulle vicende della società e sull’economia. La storia politica vera e propria consiste solo di pochissime guerre, e in buona misura finisce per coincidere con il racconto delle biografie dei singoli imperatori, della loro vita privata, del loro carattere, dei loro rapporti con il senato. Ne parleremo con rapidità perché si tratta di questioni che ebbero un’influenza minima sul funzionamento della macchina statale e sulla vita della stragrande maggioranza degli abitanti dell’impero. Ben più importanti furono i fenomeni sociali, economici e di mentalità. Due fra tutti ebbero un’importanza davvero particolare, condizionando in profondità la storia successiva: la romanizzazione delle province e la nascita e la diffusione del cristianesimo. Successione o eredità?

Prima di parlare dei successori di Augusto, va detto che il punto più debole del sistema politico da lui creato era per l’appunto la successione, cioè la trasmissione del potere da un imperatore all’altro. Questa debolezza nasceva da una contraddizione strutturale. Formal-

36

Parte V L’impero greco-romano

mente il principato non era una monarchia ereditaria, ma una repubblica dove erano il senato e il popolo a concedere a un imperatore i suoi grandi poteri. In teoria qualsiasi membro della nobiltà senatoria poteva essere nominato imperatore. Tuttavia i Romani (ecco la contraddizione) condividevano da tempo con molti altri popoli l’idea che i beni e i poteri di un uomo passassero in eredità ai figli o ai familiari stretti. La casta dominante dei senatori propugnava con forza la teoria che il principato non fosse una monarchia, e che dunque il potere non dovesse trasmettersi per via ereditaria, ma solo attraverso la libera scelta del senato. Invece nella massa della popolazione e, quel che più contava, nell’esercito prevaleva l’idea dinastica, cioè l’idea che il titolo di imperatore e di Augusto dovesse restare nella stessa famiglia, trasmettendosi in eredità come se fosse una proprietà. Gli imperatori, ovviamente, tendevano a condividere la visione dinastica, perché desideravano lasciare il potere ai propri eredi, ma dovevano evitare di sostenerla troppo esplicitamente per non suscitare l’ostilità del senato. L’incertezza su come regolare la successione fu causa di gravi contrasti, e nel III secolo divenne un fattore di profonda crisi. Per i primi due secoli di storia dell’impero il problema della successione venne risolto in tre diversi modi. Il primo modo era quello dinastico, che si realizzava quando un imperatore in carica designava un figlio o un altro parente come successore, e riusciva a fare sì che alla sua morte la successione andasse a buon fine. Il secondo modo di scegliere l’imperatore nasceva dal potere assunto dall’esercito nel sistema politico romano: in una minoranza dei casi la successione fu decisa dalle legioni, che proclamarono un principe e ne imposero la ratifica al senato. Il terzo modo era quello che veniva un po’ enfaticamente presentato come la scelta del migliore: l’imperatore individuava il successore non solo fra i parenti ma anche fra gli uomini più in vista dell’impero, di solito apprezzati generali dell’esercito; quindi lo adottava come figlio. Questo terzo principio era caro ai senatori, perché garantiva le prerogative del senato meglio della successione ereditaria e della proclamazione ad opera delle legioni. Inoltre si accordava con gli ideali propugnati dalla filosofia stoica, largamente diffusa fra le classi dirigenti dell’impero, secondo la quale l’imperatore doveva operare al servizio del bene comune e venire dunque scelto in base alle capacità politiche e alle virtù morali. In questa visione, comunque, c’è molta ideologia, perché tutto indica che nella mentalità romana era radicata soprattutto la concezione dinastica dell’autorità. Non è un caso se la supposta “scelta del migliore” fu praticata soltanto dagli imperatori privi di figli naturali: e anche in quel caso il prescelto doveva venire legittimato creando con l’adozione un legame di parentela, sia pure fittizia, con l’imperatore uscente.

1. Quali furono le principali vittime delle repressioni compiute dai vari imperatori nel I secolo? 2. Quale grande contraddizione rendeva debole il meccanismo di successione al potere?

2. La dinastia giulio-claudia

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Tiberio

Fra i tre modi di regolare la successione imperiale, Augusto aveva seguito il terzo, quello dell’adozione. La sua scelta però non derivava dal rifiuto dell’idea dinastica, ma dal banale fatto che non aveva figli; e del resto i candidati prediletti erano sempre parenti. Il lon-

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

37

gevo principe ebbe la sfortuna di veder morire in giovane età tre degli eredi designati e adottati come figli. A questo punto la sua scelta cadde sul figliastro Tiberio, che sua moglie Livia aveva avuto da un precedente marito. Tiberio venne fatto sposare con la figlia di Augusto, Giulia, e poi adottato. Era dunque allo stesso tempo figliastro, genero e figlio adottivo di Augusto: una relazione di parentela per noi sorprendente, ma che il gran numero di divorzi e di adozioni rendeva del tutto normale nelle classi alte di Roma. Il nuovo imperatore apparteneva a un’antica famiglia patrizia, la gens Claudia: dopo l’adozione era dunque membro sia della gens Giulia (tramite Giulio Cesare, padre adottivo di Augusto), sia della gens Claudia. Per indicare Tiberio e i suoi tre successori, tutti fra loro imparentati, gli storici moderni hanno quindi coniato l’etichetta di “dinastia giulioclaudia”. Imperatore dal 14 al 37, Tiberio condusse una politica prudente ma efficace. Consolidò le frontiere e curò molto l’amministrazione, rafforzò il potere centrale, ridusse gli sprechi e risanò le finanze. Tuttavia il successore di Augusto è stato dipinto da Tacito e Svetonio, i grandi storici della generazione successiva, come un principe crudele e, in aggiunta, ipocrita, poiché a loro parere fu solo per ipocrisia che in un primo momento rifiutò l’offerta del senato di assumere le cariche appartenute ad Augusto. Occorre però diffidare del racconto dei due storici. Tacito e Svetonio rimpiangevano la repubblica, e hanno quindi cercato di tracciare un ritratto negativo di Tiberio e di tutti i primi imperatori, tacendo i successi, sottolineando le debolezze di carattere e compiacendosi nel raccontare congiure e scandali. Queste immagini negative talvolta erano giustifi-

 Busto di Tiberio 14 Musée du Louvre, Parigi L’imperatore Tiberio viene qui rappresentato con una corona composta con serti di quercia detta “corona civica”, un’importante onorificenza romana concessa, sia in epoca repubblicana sia imperiale, a chi avesse avuto il merito di salvare la vita a uno o più cittadini romani uccidendo un nemico. Cammeo di Francia IGran sec. a.C. Bibliothèque Nationale, Parigi Tiberio è assiso in trono, circondato dalla madre Livia e da altri membri della corte. Al di sopra dell’imperatore è rappresentata l’apoteosi di Augusto e di due principi; nel registro inferiore sono raffigurati i barbari prostrati e ridotti in schiavitù.

38

Parte V L’impero greco-romano

cate; altre volte invece erano esagerazioni o invenzioni che nascevano dall’odio di parte. Non è per esempio necessario vedere solo subdola ipocrisia nell’iniziale esitazione di Tiberio ad assumere i poteri; è probabile piuttosto che fosse un mezzo per aumentare il consenso generale e, anche, per sottolineare il suo desiderio di rispettare le prerogative del senato. L’imperatore proveniva da una gens, i Claudii, che fin dall’origine della repubblica aveva fatto parte del senato. È comprensibile che abbia voluto omaggiare e avere buone relazioni con l’antica assemblea, tanto più che essa era l’unica forza politica in grado di ostacolare il consolidamento del principato. Né lui, né i suoi immediati successori però vi riuscirono. Tutto il I secolo d.C. fu contraddistinto dalla competizione fra gli imperatori e il senato. La popolarità di Tiberio fu sempre modesta, e peggiorò radicalmente dopo il 19, quando voci insistenti gli attribuirono l’avvelenamento del figlio di suo fratello Druso, l’amatissimo generale Germanico. Il tutto era poi aggravato dal pullulare, nella corte e negli ambienti del palazzo imperiale, di un’ininterrotta serie di congiure, trame, complotti, corruzioni. Questi comportamenti, in realtà, sono stati diffusi in tutte le corti dei sovrani di ogni tempo; in quella degli imperatori romani appaiono però particolarmente frequenti sia a causa delle enormi risorse in gioco, sia soprattutto perché l’oggetto della contesa erano non soltanto le cariche e i beni del sovrano, ma anche la successione stessa al potere. L’assenza di un chiaro principio ereditario favoriva le lotte e le congiure, coinvolgendo generali, grandi funzionari, mogli e parenti del sovrano. Tiberio represse duramente alcuni complotti, talvolta reali, altre volte solo supposti. Anziano e disgustato dai molti intrighi della corte, nel 26 decise di ritirarsi a vivere a Capri, in una splendida villa da cui continuò a governare l’impero per il tramite del prefetto del pretorio Seiano. Dopo la scoperta di un complotto di Seiano per ottenere il trono, gli ultimi anni del suo regno furono contrassegnati da repressioni durissime contro ogni opposizione.



Cammeo con l’imperatore Claudio I sec. Musei Vaticani, Roma L’imperatore Claudio è ritratto con lo scettro del potere. Questo imperatore incentivò l’avvio di alcune opere pubbliche importanti: la costruzione del porto di Roma presso Ostia e quella dell’acquedotto Claudio, l’ampliamento della rete viaria connessa alla capitale, specialmente in direzione nord, con la via Claudia Augusta che attraversa il passo del Brennero.

Caligola e Claudio

Tiberio aveva indicato come eredi due nipoti, ma il senato scelse di dare i poteri solo ad uno di essi, Caligola (37-41), figlio del compianto generale Germanico. Fu una scelta infelice. Il giovane principe umiliò il senato (la leggenda vuole addirittura che avrebbe nominato senatore il proprio cavallo), fece giustiziare senza processo gli oppositori, instaurò un clima di terrore, aumentò le tasse e pretese di venire riverito come una divinità. Gli antichi attribuirono questa politica dissennata a un carattere minato dalla pazzia. Quale che sia la spiegazione, va detto comunque che il comportamento del giovane sovrano metteva in luce il pericolo, sempre in agguato nel sistema del principato, che un imperatore cercasse di trasformarsi in un sovrano assoluto di tipo orientale. Il malcontento divenne enorme e portò infine all’assassinio di Caligola ad opera della guardia pretoriana.

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

39

Se Caligola era il primo dei numerosi imperatori uccisi in congiure militari, il suo successore Claudio (41-54) dette inizio a una serie ancora più nutrita, quella degli imperatori proclamati da un colpo di mano militare. Mentre infatti il senato discuteva per scegliere chi far subentrare all’ucciso, i pretoriani acclamarono principe suo zio Claudio. Era una scelta tutta di tipo dinastico, motivata solo dalla parentela del nuovo imperatore con quelli precedenti, perché per il resto Claudio non aveva buona fama. Era un personaggio schivo, in disparte dalla vita politica e dedito agli studi. Si rivelò però un ottimo amministratore, che rese più efficiente la burocrazia e consolidò il potere imperiale; nel 43 iniziò la conquista della Britannia. Gli storici antichi di parte avversa amavano però raccontare soprattutto gli scandali della sua vita privata. La terza moglie, Messalina, è divenuta un esempio proverbiale di donna corrotta. Accusata di un complotto, venne condannata a morte. La moglie successiva, Agrippina, è presentata come l’esempio massimo di donna intrigante. Per garantire la successione al trono al figlio avuto da un precedente matrimonio, Nerone, avrebbe addirittura avvelenato Claudio. Nerone

A IC LG BE

LUGDUN EN SE

INF.

NIA BRITAN

Reno

L’impero romano sotto la dinastia giulio-claudia

GERMANIA

Fra tutti gli imperatori romani, Nerone (54-68) è quello dalla peggiore fama. Tacito, Svetonio e altri storici avversi ne fanno una figura demoniaca, incarnazione di una sorta di malattia, di una psicosi generata dal potere. Salito appena diciassettenne al trono attraverso il complotto, inizia a vedere complotti ovunque, uccidendo amici, consiglieri e la stessa madre. Fa assassinare la prima moglie e con un calcio al ventre colpisce a morte la seconda, Poppea, a pochi giorni dal parto. Viene dipinto come un buffone, che ama recitare e cantare. L’accusa massima è quella di avere provocato e poi cantato dall’alto del suo palazzo il

G E R M A N I A

E

SUP.

DEI PARTI

IA

IR

S

PA L GIU ESTIN DE A A

ET A

CR

E

AIC A

CIR EN

E

EN

IR

LM PA

Tig r

i

Euf

rat e

A R A B I A

AR M SSO RO

Parte V L’impero greco-romano

AP P

AL

A

O IR EP

IT

CA

40

AZ

A

DO

I

D

AFRI

Ni lo

REZIA Province imperiali

A NI ME AR REGNO

A

CI

L

SARD E COREGNA SICA

A

ESE

LU

T

ON

L’impero romano alla morte di Augusto Province annesse da Tiberio Province annesse da Claudio ASIA Province senatorie

IO

I

G

INF.

Q UI TA NI A

A

P CAS MAR

IA AN. A ICO I ERMSUP ZI R RE L G NO A.Gr. ONIA L TA PANN S e Pen. INFD. D A C I A A A RR SUP. EN A.Cozie anu N G bio A O A.Maritt. D S B A R P A N L A IL M MAR NERO G LI A M E S I A RI Z N ANIA CO IA A SIT A INI BE TRACIA Roma BIT ONTO TI P C CA E M A EDO N IA (15-44 d I A .C . ) M A R A S I A M C A TIN M U R IA I A GI E SICILIA E T A N RIENSE IC G ACAIA TA IL CESA C NA (15-44 d.C.) DIA NUMI E CIPRO R RA (sen. 22 d.C.) N E O P R O C O N SO L. E G I T TO

catastrofico incendio che nel 64 distrusse i tre quarti di Roma. A tutto questo va aggiunta la prima grande persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore con l’accusa di avere causato l’incendio. Gli storici moderni si sforzano di dare un giudizio meno negativo di Nerone. Ricordano molte iniziative a favore della popolazione, come la riforma monetaria (che aiutò i commerci), e gli interventi per migliorare l’approvvigionamento di Roma, la curata ricostruzione della città dopo la catastrofe del 64. E poi sottolineano come molti suoi atteggiamenti derivino dall’interesse per la cultura greca e, soprattutto, da una concezione assolutistica del potere anch’essa di origine orientale. Rimane però sicuro che Nerone fece di tutto per perdere il favore che lo circondava in quanto ultimo discendente della dinastia iniziata da Augusto. Approfittò dell’incendio per sottrarre a molti ricchi senatori i terreni edificabili del centro di Roma, dove avviò la costruzione di una reggia fastosa e immensa, la Domus Aurea (la ‘Casa d’oro’), che comportò spese insopportabili anche per le finanze del vasto impero. Prese allora la decisione suicida di risparmiare su spese che invece erano fondamentali per garantirgli il consenso politico, come il soldo delle truppe (la paga militare) e la fornitura di grano alla plebe urbana. A tutto ciò si aggiunsero processi politici feroci, che sterminarono l’opposizione vera o presunta, causando la morte anche di uomini di cultura come lo scrittore Petronio, il poeta Catullo e il filosofo Seneca, che era stato il precettore e poi il consigliere del giovane Nerone. Suicida fu anche la scelta di lasciare Roma e passare un anno e mezzo in Grecia, dove partecipò ai Giochi olimpici e si esibì come auriga (alla guida dei carri nella corsa), suonatore di liuto, cantante e attore. Le giurie compiacenti o terrorizzate lo dichiararono ben 1800 volte vincitore, ma la lontananza dalla capitale si rivelò un errore politico fatale. La rivolta iniziò nelle province e fu ben accolta a Roma dal senato e dai pretoriani. Piuttosto che cadere nelle mani dei congiurati Nerone si uccise nel 68.

 Nerone e Agrippina I sec. Da Afrodisia (attuale Geyre, Turchia); Museo di Afrodisia Il rilievo ritrae Nerone con sua madre Agrippina: accompagnata dalla cornucopia, simbolo di prosperità, la donna cinge il capo di suo figlio con la corona d’alloro. Questo rilievo è stato ritrovato ad Afrodisia, un centro dell’Asia Minore consacrato alla dea Afrodite tra i più fiorenti in epoca ellenistica e romana. Gli scavi condotti nella città hanno rivelato i resti di un grande edificio di età imperiale commemorativo di Augusto tra le cui rovine spiccano numerosi rilievi celebrativi della dinastia giulio-claudia (che vantava discendenza dalla dea Afrodite) e che un tempo adornavano i portici del monumento.

1. Per quale motivo gli storici Tacito e Svetonio fecero una propaganda negativa dei primi imperatori? 2. Quale rischio si celava nei comportamenti eccentrici di Caligola e Nerone secondo l’aristocrazia senatoria? 3. Che conseguenze ebbe la lunga permanenza di Nerone in Grecia?

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

41

3. La dinastia flavia

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Dopo la morte di Nerone, gli eserciti delle diverse province cercarono di imporre i propri candidati, che il senato impaurito si affrettava a legittimare. In un anno si contarono quattro imperatori. Prevalse infine il candidato imposto dagli eserciti di Oriente, Vespasiano (69-79). Per la prima volta saliva al potere un uomo che non apparteneva all’antica aristocrazia di Roma, ma ai Flavii, una famiglia di cavalieri di Rieti. Forse proprio a causa della sua origine provinciale e da famiglia non senatoria, Vespasiano fu il primo imperatore che sentì il bisogno di stabilire per legge le sue grandi prerogative, emanando la cosiddetta lex de imperio Vespasiani (con essa si confermava che l’operato del principe era solutus legibus, ‘non vincolato dalla legge’). Merito di Vespasiano fu un governo stabile e attento ai problemi finanziari. Provvide alla successione in base al principio dinastico, designando eredi i due figli. Il maggiore, Tito (79-81), era popolare già durante il regno del padre per avere stroncato nel sangue la ribellione degli Ebrei in Palestina (66-73) [cfr. par. 5], e continuò durante il breve regno a suscitare consensi. Apprezzati furono i suoi interventi in soccorso delle popolazioni colpite dalla spaventosa eruzione del Vesuvio, che nel 79 seppellì interamente le tre fiorenti città di Pompei, Ercolano e Stabia. Agli occhi del popolo romano, amante delle lotte fra gladiatori e delle cacce alle belve feroci, un merito non da meno fu l’inaugurazio-

 Arco trionfale di Tito 80 Roma

 Le spoglie del Tempio di Gerusalemme portate in processione trionfale

Particolare dall’Arco di Tito Questo grande arco trionfale fu fatto erigere da Domiziano per commemorare la vittoria riportata dal fratello Tito nella repressione della rivolta giudaica del 66-70. Il particolare del fregio ricorda il momento del corteo trionfale in cui ci fu l’esposizione del bottino di guerra: in primo piano vediamo la menorah, il tipico candelabro ebraico a sette bracci probabilmente asportato dal tempio di Gerusalemme.

42

Parte V L’impero greco-romano

ne del grande Anfiteatro Flavio iniziato dal padre, che secoli dopo sarà chiamato Colosseo per la vicinanza di una colossale statua di Nerone [cfr. scheda, p. 68]. Il terzo esponente della dinastia flavia fu il fratello Domiziano (81-96). La sua politica fu attenta alla buona amministrazione delle province, all’addestramento dell’esercito e alla situazione in peggioramento dell’economia italica. Il consenso popolare fu garantito anche dalla decisione di aumentare la paga dei soldati. Con lui tornò però una politica autoritaria, volta a imporre al senato l’indiscussa superiorità dell’imperatore. Repressioni durissime colpirono l’opposizione, finché una congiura di pretoriani e senatori riuscì a eliminare l’autoritario principe.

1. Qual era l’origine sociale di Vespasiano? 2. Quali furono i meriti attribuiti all’imperatore Tito?

 4. I cosiddetti Antonini o imperatori adottivi

Le rovine di Pompei e il Vesuvio sullo sfondo

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Nerva

L’assassinio di Domiziano consentì finalmente di realizzare in pieno l’ideale delle maggiori famiglie aristocratiche: fare del senato la fonte del potere imperiale. Il giorno successivo all’assassinio di Domiziano furono infatti i senatori a indicare il nuovo imperatore, scegliendo il loro anziano e prestigioso collega Cocceio Nerva (96-98). Per l’aristocrazia era la scelta ottimale, tanto più che l’imperatore, privo di figli, si affrettò a regolare la successione secondo il principio, prediletto dal senato, della “scelta del migliore”. Il più prestigioso generale dell’epoca, Ulpio Traiano, venne adottato e dichiarato erede. Nerva e i suoi successori fin quasi alla fine del II secolo sono chiamati dagli storici moderni Antonini o “imperatori adottivi”. La prima definizione è più usata ma meno precisa, perché nasce dal nome di uno soltanto degli imperatori, Antonino Pio. La seconda è meno diffusa, ma ha il pregio di indicare una caratteristica importante di questo periodo, cioè la successione tramite adozione. Questo vuol dire che il trono fu occupato non da una vera dinastia, cioè da una serie di sovrani appartenenti alla stessa famiglia, ma da personaggi designati tramite la cosiddetta scelta del migliore. Con questo sistema salirono in effetti al potere personaggi di grandi capacità e cultura, e iniziò il periodo più florido e pacifico della vita dell’impero. La competizione fra senato e imperatore, così forte nel I secolo, si trasformò in un rapporto di collaborazione tanto migliore in quanto sia gli imperatori che la maggioranza dei senatori provenivano adesso non più da Roma e dall’Italia, ma dall’aristocrazia delle province, soprattutto di Gallia e Spagna.

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

43

Traiano, Adriano e Antonino Pio

Traiano era nato in Spagna, e regnò dal 98 al 117. Governò in modo così attento alle prerogative e agli interessi della nobiltà senatoria da indurre il senato a conferirgli il titolo onorifico di “Ottimo”. Seppe peraltro conquistare il generale consenso della popolazione. Alla plebe di Roma piacquero le distribuzioni di cibo, gli spettacoli e i grandi monumenti con cui adornò la capitale; gli uomini di cultura ottennero sostegno e protezioni; i soldati e gli abitanti di tutto l’impero apprezzarono le sue capacità militari e la decisione di riprendere, dopo molto tempo, la politica delle conquiste. Fra 101 e 106 Traiano sottomise e trasformò in provincia la Dacia (l’odierna Romania), ottenendo un bottino gigantesco e estendendo per la prima volta molto al di là del Danubio i confini dell’impero. Mosse poi l’esercito oltre i confini orientali. L’Armenia e alcune popolazioni arabe nella zona dell’odierna Giordania furono sottomesse, e il potente regno dei Parti venne sconfitto. Nel 115 l’intera Mesopotamia fu occupata e trasformata in provincia. La sua celebrità era alle stelle. Tuttavia presto una rivolta degli Ebrei scoppiata in Palestina ed Egitto e altre ribellioni lo costrinsero a ritirarsi, rinunciando a tutte le conquiste orientali. Il confine orientale tornò a correre lungo il fiume Eufrate. Sul letto di morte l’imperatore adottò come successore Adriano (117-138). Era un altro condottiero esperto proveniente dalle fila della nobiltà spagnola. Amante della letteratura e dell’arte, Adriano decise che era preferibile abbandonare la politica espansiva del predecessore, e cercare piuttosto di rafforzare i confini dell’impero. Lungo l’intera, immensa linea di confine (limes) vennero disseminati fortini e accampamenti, e le zone più esposte furono dotate di imponenti fortificazioni. La più famosa è il Vallo di Adriano, costruito per difendere la Bri-

INF.

A IC LG BE

LUGDUN EN SE

Reno

A GERMANIA

BRIT

ANN

IA

L’impero romano da Claudio a Traiano

G E R M A N I A

I

M

A

R

C

AQ UI TA NI A

IA AN Da M UP. nub R A io L GE S ZI O E IC R NOR L A.Gr. I N TA E O S e Pen. A PANERN. INF. R D A C I A G EN A.Cozie R SUP N A O DA A.Maritt. RB S P NA L IL M A M A R N E R O LI A G M E S I A RI ZI N ANIA CO A SIT A IA IA IN O Roma TRACIA BE EN A BIT ONT RM TI A A P C A E CA D I E ON M I A REGNO Tig M A R A S I A M r DEI i C TIN A U M M IA G ES R E T A N I A SE GI PARTI E SICILIA IC N TA IE L R O ACAIA CESA E PO NA CI LICIA EN E IDIA ufrate T A IR NUM E M M L CIPRO R IA RA PA N E O P R O C O N SO L. EGITTO A R A B I A Ni lo

A

IO

A

IA

CR

E

A

IC

NA

CI

RE

PA L A R GIUESTIN A B DEA A S I

ET A

R

IT

CA

R A O M SS RO

Parte V L’impero greco-romano

IA IR SS A

IA

AL

O IR

AP P

A

EP

AZ

A

D

AFRI

44

DO

I

CI

L

SE

LU

P

T

ONE

SARD E COREGNA SICA

S

I

G

L’impero romano alla morte di Claudio Province e territori annessi da Domiziano Province annesse da Traiano ASIA Province senatorie REZIA Province imperiali Confini fortificati

tannia dagli attacchi delle bellicose popolazioni che vivevano nell’attuale Scozia: è un muro spesso 2-3 metri e lungo 120 chilometri, intervallato da un centinaio di forti e fortini e da un numero ancora maggiore di piccole torri. Adriano adottò Antonino Pio (138-161), che proveniva da una famiglia nobile della Gallia meridionale trasferitasi a Roma. Il suo regno fu il più lungo periodo di pace esterna e interna nella storia romana: il mondo romano era al suo apogeo.



Marco Aurelio e Commodo

Alla morte di Antonino gli succedette il nipote Marco Aurelio (161-180). La sua scelta non nasceva però dalla parentela: era stato Adriano a indicarlo come futuro imperatore, nonostante fosse allora appena diciassettenne. Per anni il giovane aveva ricevuto un’educazione accurata in vista dei suoi futuri impegni di principe, ed era rinomato per la cultura e l’amore verso la filosofia stoica [cfr. par. 1]. Per adulazione ma anche per sincera convinzione, gli uomini di cultura poterono così celebrare il suo avvento al trono come la realizzazione dell’ideale di un imperatore filosofo, preparato alla riflessione, a moderare le passioni e a compiere al meglio i propri doveri. In campo interno Marco Aurelio seguì in effetti una politica moderata e tollerante; sul fronte esterno, viceversa, fu un imperatore guerriero, costretto a fronteggiare ripetuti assalti alle frontiere. Di fatto l’imperatore filosofo non passò neppure un anno senza combattere. Con l’aiuto di un fratello adottivo che aveva associato al trono, Lucio Vero (161-169), Marco Aurelio respinse nel 165 un attacco dei Parti in Siria. Nonostante la vittoria, fu una campagna militare disastrosa: dall’Oriente i legionari riportarono una malattia epidemica che fece milioni di morti e devastò in particolare l’esercito. Gli antichi la chiamarono peste, il termine che usavano per definire qualsiasi epidemia mortale (pestis vuol dire semplicemente ‘la peggiore malattia’). Gli specialisti pensano però oggi che questa “peste antonina” in realtà fosse vaiolo: produsse grandi stragi perché le popolazioni occidentali, fino a quel momento mai infettate dalla malattia, non avevano ancora sviluppato difese immunitarie. Impegnato in Oriente e indebolito dall’epidemia, l’esercito sguarnì le difese lungo il Danubio. Subito ne approfittarono le popolazioni germaniche stanziate ad oriente del fiume, sulle quali la ricchezza romana esercitava da tempo un fascino irresistibile. Per esse l’impero doveva sembrare il paese dell’abbondanza, dove spade e gioielli crescevano sugli alberi e nei fiumi scorreva vino. Quadi, Marcomanni e molte altre popolazioni inondarono nel 166 le province danubiane, spingendosi persino in Italia. La reazione fu de-

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

Il Vallo di Adriano in Inghilterra II sec.



Il trionfo di Marco Aurelio 176 Musei Capitolini, Roma Questo rilievo proviene molto probabilmente da un monumento celebrativo dell’imperatore Marco Aurelio, qui ritratto nella sua sfilata trionfale.

45

gna del pericolo. Un grande sforzo finanziario e organizzativo permise di inviare un’enorme armata sul Danubio. I nemici furono ricacciati e inseguiti ad oriente del fiume, dove vennero create due province nella zona dell’attuale Slovacchia. Estendere l’impero oltre il Danubio avrebbe garantito al meglio la sicurezza; ma l’imperatore morì improvvisamente di malattia durante la campagna militare, e il suo figlio e successore, Commodo (180-192), decise di abbandonare le recenti conquiste. Negli ultimi anni di vita di Marco Aurelio le spese belliche, le imposte crescenti e la lontananza da Roma dell’imperatore avevano determinato rivolte e repressioni. Il regno iniziato sotto i migliori auspici finiva in un clima fosco. Con Commodo la situazione continuò a peggiorare. Il nuovo imperatore, di appena diciotto anni, sembrava drammaticamente mancare delle virtù che avevano caratterizzato gli altri Antonini. Rinunciò a proseguire le guerre, dilapidò risorse ancora più grandi del consueto per allestire giochi e spettacoli, promosse il culto della propria persona e cercò di diminuire il prestigio del senato. L’opposizione fu repressa nel sangue. Dopo una serie di tentativi falliti, una congiura di palazzo riuscì a eliminarlo. Il senato accolse con gioia la sua morte, e ne condannò la memoria, secondo un’antica pena romana che prevedeva la distruzione di statue, monumenti, epigrafi e ogni altra memoria del condannato (damnatio memoriae). Un’epoca di splendore della storia romana andava chiudendosi.

1. Per quale motivo si parla di “imperatori adottivi”? 2. Quale fu la principale differenza tra Traiano e Adriano in politica estera? 3. Per quale motivo Quadi e Marcomanni poterono invadere le province danubiane?

5. La romanizzazione dell’impero

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Una politica di successo

Roma aveva creato un impero immenso. Esteso su tre continenti, raggiungeva una superficie di sei milioni di chilometri quadrati e una popolazione di circa sessanta milioni di abitanti. Un insieme così smisurato, con popoli di tutti i tipi e di tutte le lingue, era stato costruito in secoli di guerre vittoriose e di massacri. La sola forza però sarebbe stata incapace di conservarlo nel tempo. Come scrisse Tito Livio, un impero sopravvive solo se i sudditi si trovano bene. Per raggiungere questo risultato e far durare ancora molti secoli l’impero vennero usati metodi molto simili a quelli che durante la repubblica avevano permesso a Roma di trasformare in una realtà unitaria e fedele l’intera Italia: seguire una politica diversificata e capace di adattarsi alle situazioni, effettuare concessioni a chi accetta la subordinazione, coinvolgere le aristocrazie dei popoli sottomessi nel governo imperiale e poi, gradualmente, estendere l’influenza economica, politica e culturale fino a trasformare in Romani tutti gli abitanti dell’impero. Durante l’epoca repubblicana l’aristocrazia romana e italica dominava su popolazioni organizzate in province e del tutto sottomesse. Alla fine del I secolo la scelta di un imperatore nato in Spagna, Traiano, e poi il succedersi di altri imperatori di origine provinciale sono la prova di come la situazione fosse già molto cambiata. Adesso esisteva una struttura unitaria, o quasi unitaria. Nel corso di un lento processo le popolazioni delle province e le

46

Parte V L’impero greco-romano

loro aristocrazie avevano assunto la stessa lingua, la stessa cultura, le stesse leggi e gli stessi interessi politici delle aristocrazie e delle popolazioni di Roma e dell’Italia. Il ruolo delle città

Questo processo di romanizzazione venne reso possibile da diversi elementi. Il più importante fu la decisione di basare il governo dell’impero non su una vasta burocrazia residente nella capitale, ma sulla cooperazione delle comunità locali, che già prima della conquista romana erano organizzate perlopiù in città, soprattutto in Italia e nelle province orientali. Sebbene l’impero fosse articolato in province, nel suo funzionamento il ruolo maggiore spettò dunque alle città. In effetti l’idea di riconoscere delle autonomie amministrative a raggruppamenti più vasti, come ad esempio una provincia, era estranea alla mentalità romana. Fondato da una città, l’impero romano si basò su altre città. Nelle regioni dove ancora non esistevano città, le popolazioni vennero spinte a crearle. In Gallia, per esempio, la nobiltà celtica abbandonò i piccoli centri fortificati dove aveva fino allora vissuto per nuovi e più grandi abitati, costruiti sul modello delle città romane. Nelle zone di frontiera l’urbanizzazione fu realizzata fondando colonie di veterani. Sia le città nuove sia quelle già esistenti assunsero una struttura materiale simile, con al centro il foro e la sala della curia cittadina (dove si riuniva una specie di senato locale), e poi con teatri, templi, acquedotti, terme e altri edifici pubblici. Tutto l’impero risultò composto da un migliaio di comunità cittadine, costituite dagli abitanti della città – dove erano concentrate tutte le persone che contavano – e da quelli del territorio circostante, perlopiù contadini subalterni e schiavi. Le città, vecchie e nuove, si trovavano in condizioni di assoggettamento diversificate nei confronti di Roma. La condizione migliore era quella di colonia di cittadini romani; seguivano i municipi di diritto romano e poi quelli di diritto latino; più in basso vi erano le “città straniere”, cioè abitate da popolazione indigena (civitates peregrinae), che erano a loro volta articolate in diverse categorie. Il governo imperiale sfruttava queste differenze, promuovendo e declassando le città per premiare o punire il livello di ubbidienza e di affidabilità.



Il Capitolium a Dougga (Tunisia) II sec. Dougga, l’antica Thugga, è una delle città tunisine dell’impero romano meglio conservate. Annessa alla provincia d’Africa da Giulio Cesare nel 46 a.C., fu municipio a partire dal 105 d.C. e colonia dal 261 d.C. Se la disposizione delle case a terrazze e l’impianto irregolare della città ne denotano l’origine punica, i principali monumenti, come il foro, il teatro, le terme, il tempio di Caelestis e il Capitolium sono i segni eloquenti dell’intensa romanizzazione che investì i maggiori centri del vasto territorio controllato da Roma.

 Arco di Trionfo di Traiano a Timgad (Algeria)

II sec. La città di Timgad, diventata colonia sotto Traiano nel 100 d.C., ospita numerose strutture rappresentative della romanità, come la basilica, la biblioteca, quattro terme e un teatro in ottime condizioni di conservazione, ancora oggi utilizzato per rappresentazioni teatrali.

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

47

Le città godevano di una vasta autonomia, e potevano autogovernarsi come meglio credevano, al patto naturalmente di non andare contro i superiori interessi dell’impero. Il governo era lasciato nelle mani dell’élite locale, che si riuniva nella curia. I suoi membri erano chiamati curiali o decurioni. La loro autorità era tutelata e rafforzata dall’impero: erano loro che dovevano occuparsi di mantenere l’ordine a livello locale, riscuotere i tributi e fare rispettare nella città i provvedimenti emanati da Roma. I curiali avevano dun-

cittadinanza Romanizzazione antica e colonialismo moderno Uno degli scopi di questa rubrica è quello di mostrare come il passato aiuta a comprendere il presente, e anche come, viceversa, il nostro presente influisce sul modo di osservare e studiare il passato. In questo capitolo vedremo appunto come gli studi su un fenomeno moderno e contemporaneo, il colonialismo europeo, stanno condizionando gli studi degli antichisti sul processo di romanizzazione. Molti storici moderni pensano che l’esperienza imperiale romana sia stata qualcosa di grandioso e originale, che abbia garantito a un territorio enorme una prosperità generale, secoli di pace e una diffusione generalizzata delle conquiste della cultura greco-romana. La fase della prevaricazione violenta e della rapina economica era limitata, si pensa, all’epoca repubblicana, durante la quale era avvenuta la conquista romana del mondo; ma era finita con l’età imperiale. Il migliore sostegno a questa valutazione positiva dell’impero viene dal processo di romanizzazione. Sotto il mantello uniformante della nuova cultura greco-romana e del nuovo ordine politico, le divisioni fra i popoli smisero di contare. Gli imperatori Antonini discendevano da coloni romani trapiantati in Spagna o da indigeni romanizzati? Non ce lo si chiedeva più, non aveva importanza. Tutti si potevano chiamare e si consideravano Romani. Questa visione positiva della romanizzazione trova però, negli ultimi tempi, avversari sempre più numerosi. Le loro critiche si basano sul paragone con un grande fenomeno avvenuto molto dopo l’epoca antica: il colonialismo europeo. A partire dal 1500 circa e fino a pochi decenni fa, gli Stati europei crearono in tutto il mondo una serie di colonie. Con questo termine si indicava non solo, come nell’Antichità, la fondazione di insediamenti di cittadini in terre lontane per commerciare e sfruttare le risorse naturali, ma anche la sottomissione politica ed economica di territori sempre più estesi (gli antichi Ro-

48

Parte V L’impero greco-romano

mani li avrebbero chiamati province). Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra, Olanda, Russia e in seguito anche Germania e Italia ridussero allo stato di colonia interi continenti. Usa, Canada, Messico, Brasile e il resto dell’America centrale e meridionale, India, Indocina e Indonesia, Australia, quasi tutta l’Africa sono stati un tempo colonie europee. Di questo lungo e importantissimo fenomeno storico si sottolineavano in passato soprattutto gli aspetti positivi. Pur determinando enormi sofferenze e persino lo sterminio sistematico di intere popolazioni, il colonialismo in molti casi aveva finito per avvantaggiare, si diceva, i territori colonizzati. Aveva sviluppato porti, strade, ferrovie e altre infrastrutture economiche, aveva diffuso le tecniche produttive europee, aveva creato élite colte e esportato sistemi politici democratici. In una parola, aveva dato al mondo la civiltà occidentale. A partire dal 1970-1980 il modo di considerare il colonialismo e l’occidentalizzazione del mondo è mutato. Professori dell’India e di altre ex colonie hanno dato il via a ricerche di “studi postcoloniali”, sottolineando lo sfruttamento e l’oppressione presenti alla base anche del più leggero dei colonialismi. Inoltre hanno criticato l’idea stessa di occidentalizzazione. Non si è trattato, dicono, di un processo a senso unico, attraverso il quale cultura, mentalità e tecniche dell’Occidente si sono trasferiti alle colonie. L’occidentalizzazione è stata invece un fenomeno molto più complesso. Nelle varie colonie sono nate delle culture “meticcie”, diverse fra loro e frutto della fusione fra realtà locali e influenza dell’Occidente. Inoltre anche le colonie hanno esportato in Occidente parti della loro cultura e della loro mentalità. Negli ultimi anni gli storici dell’impero romano e del processo di romanizzazione vengono sempre più influenzati dai metodi e dai risultati degli “studi postcoloniali”, come illustra bene un libro di David Mattingly pubblicato nel 2011 (Imperialism, Power, and Identity: Experiencing the Roman Empire). Si presta più attenzione agli aspetti

que tutto l’interesse al consolidamento del potere imperiale. Per ricoprire le cariche cittadine non ricevevano alcun compenso, anzi spesso dovevano pagare somme cospicue; ma guadagnavano in prestigio e in possibilità di fare affari e ottenere privilegi. Il più ambìto di tutti, per chi ancora non lo possedeva, era la cittadinanza romana. Nelle province il governatore si limitava ormai ad amministrare la giustizia e garantire l’ordine pubblico in tutto il territorio.

Mappa del Brasile  XVI sec.

Dall’atlante Miller di Pedro Reinel; Bibliothèque Nationale de France, Parigi Questa mappa, realizzata in Portogallo nel corso del XVI secolo, mostra la costa brasiliana; nel corso del 1500 i domìni portoghesi nel Nuovo Mondo si limitarono al Brasile dove l’ordine dei gesuiti si adoperò per convertire i nativi alla religione cristiana.

 L’esercito coloniale inglese in Egitto in un disegno allegorico

XIX sec. In questa illustrazione un rappresentante dell’esercito coloniale inglese schiaccia un militare egiziano.

violenti e oppressivi dell’impero e, soprattutto, si cerca di guardare cosa realmente si trovava sotto il mantello della grande diffusione della cultura greco-romana. Questa cultura fu in grado di coinvolgere in profondità le masse, e non soltanto le élite? E poi, sentirsi Romani voleva dire davvero la stessa cosa nelle diverse regioni? Insistere sul processo di romanizzazione non finisce forse per impedire di vedere le differenze che sopravvivevano fra le province? In che misura la romanizzazione non fu un processo a senso unico, ma fece giungere al centro dell’impero, cioè a Roma (e in Italia), fenomeni nati nelle province? Sono tutti argomenti ancora da valutare, ma in apparenza fondati. In fin dei conti anche il cristianesimo, il fattore che più di tutti contribuì a cambiare il mondo romano, non era forse nato nella lontana provincia della Giudea prima di approdare a Roma?

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

49



Cittadini di un impero bilingue

Siclo argenteo della prima rivolta ebraica 67-68 Coniato durante la prima rivolta degli ebrei contro Roma, questo siclo riporta su un lato tre melograni con l’iscrizione in ebraico Gerusalemme è Santa; l’altro fronte della moneta è decorato con un calice su cui si leggono le parole Siclo di Israele, Anno Secondo.

50

Poter dire “sono un cittadino romano” permetteva non soltanto di accedere a cariche pubbliche e appalti statali, ma garantiva privilegi fiscali (il cittadino romano non pagava tasse alla curia cittadina) e, anche, giudiziari. Gli episodi della vita dell’apostolo san Paolo mostrano quanto preziosa fosse ai suoi tempi la cittadinanza: nella città di Filippi i magistrati chiesero il suo perdono per averlo trattato come un indigeno, con la frusta e la prigione; a Gerusalemme un’intera guarnigione venne messa in stato di allerta per difenderlo dal linciaggio dei suoi nemici ebrei. Dall’età degli Antonini, dato che in vaste zone dell’impero la cittadinanza era ormai concessa a tutti, i privilegi che un tempo spettavano ai cittadini romani iniziarono a contraddistinguere piuttosto quegli abitanti che erano dotati di prestigio, ricchezza e buona reputazione, chiamati gli honestiores; la massa della popolazione, gli humiliores era viceversa trattata in modo più severo. Anche nelle province più lontane, la concessione della cittadinanza avveniva molto facilmente per i ceti superiori, che si romanizzarono a fondo e precocemente. I più ricchi e influenti fra i curiali o decurioni, inoltre, ottenevano dall’imperatore l’accesso nell’ordine dei cavalieri. Nacque così un’aristocrazia diffusa in tutto l’impero e costituita da alcune decine di migliaia di famiglie di cavalieri. Anche la composizione del senato cambiò, aprendosi gradualmente al mondo provinciale. Rovinate o addirittura estinte dalle repressioni politiche, molte antiche famiglie senatorie romane e italiche furono sostituite dalla grande nobiltà delle province. Fra i circa 600 membri del senato, nel II secolo la metà erano ormai provinciali. I vantaggi che le élite locali traevano dal nuovo ordine spiegano perché quasi tutte le ribellioni al potere romano avvennero solo durante i primi decenni dopo la conquista, quando il ricordo della perduta libertà era ancora vivo. La sola eccezione furono le ripetute rivolte degli Ebrei sia in Giudea che in altre province; ma qui entrava in gioco la peculiare religione degli Ebrei che li indicava come un popolo eletto da Dio, e rigorosamente monoteista. Alcune rivolte, come quella domata da Tito tra il 66 e il 73, infatti, furono dettate dai desideri indipendentisti del popolo ebraico [cfr. par. 3], altre dall’intolleranza verso i compromessi religiosi imposti dalla soggezione all’impero (per esempio l’obbligo di accettare la presenza di templi pagani e di pregare per la gloria dell’imperatore). Come si sarà capito, la romanizzazione riguardò molto i ricchi e i potenti, e molto di meno la massa dei lavoratori e dei poveri. Anche costoro, però, sentirono l’attrazione dei nuovi modi di vita e dei nuovi valori portati dall’impero. Lo testimoniano la struttura delle città e delle abitazioni, e poi tanti oggetti di uso quotidiano, come il vasellame da tavola d’importazione, che circolava in tutto l’impero negli stessi modelli ed era utilizzato da tutti i ceti sociali. La prova maggiore della profondità raggiunta dalla romanizzazione è però di tipo linguistico. In tutta la metà occidentale dell’impero, dove la lingua dell’amministrazione era il latino, i linguaggi locali furono messi da parte: talora scomparvero del tutto, altre volte furono relegati, come i dialetti di oggi, alle comunicazioni tra i familiari e i vicini. Tranne che in Britannia, dove la romanizzazione fu più modesta, nell’Europa occidentale le lingue formatesi nel corso del Medioevo e dell’età moderna derivano tutte dal latino. L’impero era tuttavia bilingue: in Oriente si parlava greco. Nelle province orientali a nessuno passò mai per la testa di scalzare la lingua per eccellenza della filosofia e della scienza. Da secoli quelle regioni erano profondamente ellenizzate, e Roma ammirava e aveva fatto propria la cultura greca. A tutto ciò si sommava il senso di superiorità che intellettuali e aristocratici ellenici provavano verso i signori del mondo che restavano ai loro occhi pur sempre dei

Parte V L’impero greco-romano

“barbari”. Il greco rimase la lingua della cultura e della maggioranza della popolazione. Il sentimento di romanità si fece però gradualmente strada anche in Oriente: dopo qualche secolo le popolazioni orientali cominciarono a chiamare sé stesse, in greco, Rhomàioi, cioè Romani. Fare distinzioni fra “Greci” e “Romani” non aveva più senso. L’impero portava ovunque una civiltà al tempo stesso romana ma ancora di più greca: una civiltà bilingue nella quale la cultura, i valori morali, le scienze e i modi di vivere derivavano dall’assimilazione della civiltà greca compiuta dai Romani.

1. Che cosa prova la scelta di un imperatore di origine ispanica come Traiano? 2. A quali differenti tipologie di assoggettamento erano sottoposte le città dell’impero? 3. Quali privilegi erano riservati alle personalità più ricche e influenti delle province?

6. La nascita del cristianesimo

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Un sistema religioso aperto e in crisi

Alla fine della repubblica, la religione tradizionale romana era in crisi. Augusto aveva cercato di rilanciarla, ma senza molto successo. Il suo progetto di restaurazione religiosa trovava un limite proprio in un’antica caratteristica del paganesimo romano: la facilità con cui accettava culti stranieri. Al paganesimo era estranea l’idea di una verità religiosa: tutte le religioni erano vere, come veri erano gli dèi di tutti i popoli. I Romani non cercarono mai di imporre i loro dèi ai popoli conquistati, né di uniformare il gran numero di divi-

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

 Cerimonia del culto di Iside I-III sec. Da Ercolano; Museo Archeologico Nazionale, Napoli



Il dio Mitra sacrifica un toro II sec. Marino, Roma Questo affresco è parte di un’ampia decorazione rinvenuta all’interno del mitreo di Marino (vicino Roma), uno dei meglio conservati al mondo. La scena raffigura il dio Mitra in abiti orientaleggianti nell’atto di tagliare la gola a un toro bianco, ritenuto sacro, mentre un cane e un serpente bevono il sangue dell’animale e uno scorpione gli morde i testicoli. A simboleggiare la forza rigeneratrice del sangue della vittima, dalla sua coda fuoriescono spighe di grano, simbolo della rinascita della terra. A veglia del rito, il sole e la luna (in alto, rispettivamente a sinistra e a destra) simboleggiano l’eterna lotta contro le forze del male e dell’oscurità.

51



Frammenti di papiro con passi del Vangelo di Giovanni 150 Questo frammento di papiro, ritrovato in Egitto, riporta passi del Vangelo di Giovanni. Si tratta del più antico documento manoscritto di uno dei Vangeli “canonici”, ovvero approvati dalle Chiese cristiane come effettiva espressione della parola di Dio.

52

nità presenti nel vasto impero. Soprattutto nelle province occidentali, però, l’influsso dei conquistatori fece prendere alle divinità locali un nome e un aspetto romani: un’antica divinità celtica venne ad esempio assimilata a Mercurio. La religione romana era incentrata sul rispetto dei riti, da compiere con scrupolo in ogni gesto, ma non dava peso alle convinzioni personali. Il rapporto con il mondo divino non riguardava il singolo, ma la comunità: possiamo dire che era una religione legata alla politica, perché veniva praticata in pubblico e il suo fine principale era garantire con la scrupolosa osservanza dei rituali il favore degli dèi verso lo Stato, la città, la famiglia. A partire dal I secolo a.C. e per i successivi tre-quattro secoli, dapprima in una minoranza degli abitanti dell’impero e poi in fasce sempre più vaste di popolazione comparvero esigenze religiose nuove. Si desiderava un rapporto più intimo fra uomo e divinità, da raggiungere attraverso un culto individuale. Si voleva inoltre che la religione stabilisse regole di vita in grado di garantire al fedele ricompense nella vita ultraterrena. Queste esigenze trovarono risposta in alcuni culti di origine orientale, importati in Occidente da soldati, mercanti e schiavi, come quello egiziano di Iside e del suo sposo Osiride. Un altro culto importante fu quello del dio Mitra, di origine persiana, che comparve in Grecia alla metà del I secolo a.C., e divenne poi comune nei tre secoli successivi soprattutto fra i mercanti e i militari dell’Occidente. La religione predicata da Gesù di Nazareth

Il cristianesimo fu una di queste religioni di origine orientale che andavano diffondendosi attraverso l’impero. Nacque nella Giudea, paese che fino al 4 a.C. era governato da un re cliente di Roma, Erode il Grande, e che alla sua morte era diventato una provincia romana. Abitata in maggioranza da Ebrei e con capitale a Gerusalemme, la Giudea comprendeva territori oggi divisi fra Israele, Giordania, Libano e Siria (nel 135 d.C. alla provincia fu dato il nome di Siria Palestina). Il cristianesimo nacque dunque in una regione che dal punto di vista romano appariva periferica, incorporata solo di recente e ben poco romanizzata; eppure l’importanza della nuova religione era destinata a crescere senza sosta. Come e ancor più della romanizzazione, la nascita e la diffusione del cristianesimo fu uno degli eventi accaduti nei primi secoli dell’impero romano destinati a cambiare la storia. La nuova religione si formò nei decenni successivi al 30 d.C. a partire dalla predicazione di un ebreo di nome Gesù. Sono pochi i personaggi del mondo antico per i quali disponiamo di tanti racconti biografici. I principali sono raccolti nei quattro Vangeli attribuiti a Matteo, Marco, Luca e Giovanni, redatti negli ultimi decenni del I secolo, e nei cosiddetti Vangeli apocrifi (non riconosciuti, cioè, come parola di Dio dalla Chiesa), numerosi e redatti fra la metà del I e la fine del II secolo. Questi testi, naturalmente, avevano un scopo religioso, e non volevano essere una testimonianza storica, ma ormai tutti gli studiosi accettano la realtà storica della figura di Gesù e le linee principali della sua biografia. Gesù era nato a Nazareth, in Galilea, paese adiacente alla Giudea e che all’epoca non era ancora stato annesso all’impero, ma era governato da un figlio di Erode il Grande, chiamato Erode Antipa. Iniziò a predicare viaggiando in un’area abbastanza circoscritta e rivolgendosi essenzialmente ai suoi connazionali, gli Ebrei, nella lingua aramaica che da secoli aveva sostituito l’ebraico come lingua parlata quotidiana. Ben presto egli venne identificato dai discepoli come il Messia: l’inviato da Dio che gli

Parte V L’impero greco-romano

Ebrei attendevano per riuscire a risollevarsi dalla situazione di decadenza religiosa in cui si trovavano e per riscattarsi dalla dominazione straniera. Gesù iniziò a venire chiamato con un nome di origine greca, Cristo, che corrispondeva all’ebraico Messia. La sua predicazione aveva un contenuto radicale. Si rivolgeva innanzitutto ai poveri e ai diseredati, invitava ad allontanarsi dai riti tradizionali della religione ebraica, a condurre una vita fondata sull’amore per il prossimo e sulla giustizia, a ricercare la salvezza ultraterrena attraverso un comportamento moralmente perfetto. Criticava i sacerdoti e i gruppi più elevati della società ebraica, gli scribi e i farisei, accusandoli di ipocrisia, e aveva parole dure contro la ricchezza. Agli occhi dei sacerdoti e delle classi dirigenti ebraiche, questo messaggio corrompeva la religione, e rischiava di creare agitazioni sociali; la possibilità di disordini preoccupava anche il governatore romano della Giudea, il prefetto Ponzio Pilato. Dopo due o tre anni al massimo di predicazione, intorno al 30 d.C. Gesù fu arrestato a Gerusalemme e condannato a morte per crocifissione. La diffusione del cristianesimo

Sulla base dei Vangeli che raccontano la vita di Gesù è difficile dire se il suo messaggio di salvezza fosse indirizzato a tutta l’umanità o ai soli Ebrei. È certo comunque che nei primi decenni il cristianesimo non era altro che uno dei tanti modi di interpretare la religione ebraica. Venne attivamente propagato dai più stretti seguaci di Gesù, detti apostoli, una parola greca che significa ‘inviati’.

farisei

Al principio dell’èra cristiana i farisei erano i membri del principale “partito” del giudaismo. Convinti dell’importanza dell’interpretazione e dell’insegnamento delle Sacre Scritture e molto attenti agli aspetti rituali della religione, i farisei si distinsero per dottrina e cultura. Furono condannati da Gesù di Nazareth per eccessivo formalismo.

La data di nascita di Cristo Il sistema di datazione più diffuso nel mondo conta gli anni a partire dalla nascita di Cristo. Per questo usiamo espressioni come “avanti Cristo” (abbreviato: a.C.) e “dopo Cristo” (d.C., oppure a.D.: anno Domini, ‘anno del Signore’). Questo sistema fu iniziato da un monaco, Dionigi il Piccolo, nel 525-530 d.C., e si diffuse con rapidità dapprima in Occidente e più tardi nei territori dell’impero bizantino. Per farlo, Dionigi dovette ovviamente calcolare quanti anni erano passati dalla nascita di Cristo; commise però un errore di calcolo, collocandola qualche anno più tardi della realtà. Che abbia sbagliato è del resto più che comprensibile: ancora oggi gli storici sono in disaccordo nello stabilire l’anno esatto di nascita di Gesù. Le indicazioni più esplicite sono fornite dai Vangeli, che collegano la nascita a un grande censimento voluto da Augusto e al regno di Erode il Grande in Giudea. Un censimento venne in effetti ordinato nell’8 a.C., mentre è quasi sicuro che Erode morì nella primavera del 4 a.C. Per queste ragioni si pensa che Cristo sia nato in quello che per noi è l’anno 7 o 6 a.C. Va precisato, inoltre, che al tempo di Dionigi non si conosceva ancora il numero 0: dall’anno 1 a.C. si passa quindi direttamente al 1 d.C. Del tutto sconosciuto è poi il giorno di nascita di Gesù. I Vangeli non ne parlano affatto, perché per tutti i primi cristiani andava festeggiato non il giorno di nascita di un individuo, ma quello della morte, che rappresentava il momento in cui infine l’anima torna al Signore. Per molti secoli il giorno di nascita di Cristo, e dunque di inizio di un nuovo anno, cambiava a seconda degli usi locali. Con molta lentezza si andò affermando la data del 25 dicembre. Probabilmente questo giorno fu scelto perché i pagani celebravano allora l’importante festa del Dies Natalis Solis Invicti (‘Giorno di nascita del Sole invitto’), cioè il momento dell’anno in cui la durata

del giorno iniziava ad aumentare dopo il solstizio d’inverno. Il culto del Sole è uno dei culti orientali che vennero soppiantati dal cristianesimo, e la nuova fede si appropriò anche del suo principale giorno festivo.



L’Altare della Natività a Betlemme La Cappella della Natività a Betlemme risale nelle linee odierne all’epoca di Giustiniano. Al suo interno si venera il luogo esatto in cui si ritiene sia avvenuta la nascita di Gesù. I posti in cui si svolse la vita terrena di Cristo sono divenuti luogo di culto delle più varie confessioni cristiane, qui rappresentate dalle quindici lanterne che illuminano l’Altare della Natività.

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

53

I viaggi dell’apostolo Paolo

MAR NERO

La carta visualizza gli itinerari dei viaggi compiuti da san Paolo tra il 49 e il 60 d.C.

Roma Foro Appio

MACEDONIA

TRACIA

Nicomedia

Filippi

Ancira

Tessalonica TESSAGLIA Messina

Reggio

Corinto

Dorilea

Troade

CAPPADOCIA

LESBO Atene

Efeso

Derbe Attalia

Siracusa MALTA

CRETA

Tarso

Antiochia

CIPRO

RODI

Pafo Damasco Tiro Cesarea

L GA

MAR MEDITERRANEO

ILEA

Gerusalemme

Cirene

Betlemme Alessandria CIRENAICA

Primo viaggio Secondo viaggio Terzo viaggio Quarto viaggio

E G I T TO

Decisiva per lo sviluppo del cristianesimo fu l’opera di san Paolo. Paolo era nato a Tarso, una città cosmopolita dell’Asia Minore. Era figlio di un ebreo di buone condizioni economiche, che aveva ottenuto l’ambìto privilegio della cittadinanza romana. Paolo conosceva sia la cultura e la filosofia greche sia le leggi ebraiche, studiate durante un soggiorno a Gerusalemme. Non apparteneva al gruppo dei discepoli che circondavano Gesù prima della sua morte: anzi, all’inizio prese parte attiva alle campagne che i sacerdoti ebraici conducevano contro i primi cristiani. Eppure si convertì al cristianesimo; secondo il racconto degli Atti degli Apostoli la conversione sarebbe avvenuta all’improvviso, come per una folgorazione, mentre si recava a Damasco per contrastare i cristiani della città (da questo episodio deriva l’espressione famosa «folgorato sulla via di Damasco»). Iniziò allora il suo attivo impegno per la diffusione del cristianesimo, con viaggi missionari in Oriente e Occidente. Il suo merito principale fu però quello di sviluppare un pensiero religioso complesso e raffinato, che condusse a una netta separazione della nuova fede dal giudaismo. In questo modo fu possibile una prima, cospicua espansione del cristianesimo fuori dalla Giudea e all’esterno del popolo ebraico. Fu grazie a Paolo che il cristianesimo divenne una religione universale. La parola di Cristo non veniva più intesa come promessa di riscatto politico e religioso del solo popolo ebraico, ma si rivolgeva a tutta l’umanità. Per questo Paolo è soprannominato “l’apostolo dei gentili”, termine, quest’ultimo, che traduce l’ebraico goyim, con il quale gli Ebrei indicavano gli appartenenti agli altri popoli. Il distacco definitivo di cristianesimo e giudaismo fu accelerato dalla rivolta al dominio romano scoppiata in Giudea tra il 66 e il 73: i cristiani rifiutarono di prendervi parte, e furono considerati dei traditori della causa ebraica. Dopo la metà del I secolo alcune importanti comunità cristiane sorsero non soltanto in Palestina, ma anche in diversi centri dell’Asia Minore e in Grecia, Egitto (ad Alessan-

54

Parte V L’impero greco-romano

dria), Africa (a Cartagine), Italia (a Roma). All’inizio il cristianesimo si diffuse soprattutto a livelli sociali modesti, fra i lavoratori e i commercianti. A frenare la conversione dei ceti superiori v’era l’eguaglianza fra poveri e ricchi praticata all’interno delle comunità cristiane; la povertà, anzi, veniva presentata come una virtù. Una simile idea era l’esatto opposto del sistema di valori del mondo greco-romano, nel quale la povertà era considerata e trattata dalla legge come uno stato inferiore. Per i membri delle élite, inoltre, aderire alla nuova religione comportava un immediato e concretissimo svantaggio: rendeva impossibile ricoprire ogni carica pubblica. La fede cristiana vietava infatti di partecipare a qualsiasi rito di tipo pagano, e dunque anche alle cerimonie per la prosperità dell’impero e dell’imperatore che erano invece obbligatorie per tutti i funzionari dello Stato. Fra i ceti superiori si convertivano più facilmente le donne, che erano comunque escluse dalla vita politica. Inoltre erano attratte da una religione che sosteneva l’uguaglianza di fronte a Dio di tutti gli esseri umani, senza distinzione di sesso. Ma gradualmente la nuova fede fece proseliti anche fra le élite del mondo greco-romano, fra i quali vanno ricordati alcuni esponenti della cultura greca. Grazie a costoro avvenne un ulteriore importante cambiamento: il cristianesimo si incontrò con la letteratura e soprattutto la filosofia grecoromane. Dalla riflessione di personaggi come Clemente Alessandrino, attivo alla fine del II secolo, e poi di Origene nacque una filosofia cristiana che tentava una sintesi fra la nuova religione e la filosofia classica, ripensata da una prospettiva cristiana. In questo modo il cristianesimo iniziava a conciliarsi con l’impero e appariva più comprensibile alle classi elevate.

L’area di diffusione del cristianesimo nel II secolo

BRITANNIA SCI

ZIA

GERMANIA

GALLIA

IA

Lione

NORICO

A

Madaura

A

FR

IC

R

M

MAURETANIA

E

D

CA S

O

Calcedone

Sinope

ENIA

ARM

IT ER Gortina RA N E O

Tiro Cesarea

Damasco Gerusalemme

A

CA

I

Territori fortemente cristianizzati Territori con consistenti minoranze cristiane

NA

ARABIA

Alessandria

RE

CI

EGITTO

lo

Ni

Territori a limitata diffusione del cristianesimo Comunità cristiane nel II secolo

AR

MAR NERO

A IA AZ

IA

M

M

Nicea REGNO IA DOC DEI Tessalonica Cizico CAPPA PARTI Edessa Smirne Laodicea Sardi Atene Tarso Ctesifonte Efeso Corinto Siracusa Antiochia Seleucia

Napoli

Cartagine

NI

M

Roma

ZIA

PI

MESIA Durazzo Filippi

AL IT

SPAGNA

MA

DACIA

NO

L DA

N PA

Z RE

SAR

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

55

Una comunità che ispirava diffidenza

 Fonte battesimale IV sec. Basilica della Madonna del Katapoliani, Isola di Paros, Grecia Nei primi secoli di storia cristiana il rito del battesimo, grazie al quale si era ammessi nella comunità, prevedeva la totale immersione del fedele adulto nel fonte battesimale. Alcuni cambiamenti furono introdotti a partire dal VI secolo, quando si iniziò a imporre il battesimo ai neonati.

I rapporti tra i fedeli e il mondo romano furono comunque difficili. Spesso le comunità cristiane erano guardate con sospetto. Costituivano gruppi separati, guidati da un vescovo (in greco epìscopos, ‘sorvegliante’) eletto dall’insieme dei fedeli, donne e schiavi compresi. Le preghiere collettive erano dirette da fedeli stimati, chiamati presbiteri (in greco, ‘anziani’; da qui viene l’italiano “prete”). Gli adepti della nuova fede seguivano severe norme di vita, lontanissime da quelle accettate dalla mentalità comune. Inoltre rifuggivano le forme di socialità più diffuse fra i pagani: andare a teatro, assistere agli spettacoli di gladiatori e alle corse, partecipare alle feste cittadine e ai rituali pubblici. Cosa ancor più incomprensibile per la mentalità pagana, credevano in un unico dio, sostenendo che la sola vera religione fosse la loro, e tutto il resto soltanto superstizione e magia. Anche i loro riti suscitavano diffidenza: non venivano praticati in pubblico, ma unicamente tra fedeli; e non prevedevano sacrifici e preghiere all’imperatore. Per far parte della Chiesa (‘assemblea’) di Cristo occorreva essersi sottoposti a un rito, il battesimo, che era preceduto da un periodo di istruzione ai princìpi della fede cristiana. Il rito principale avveniva in comune, in abitazioni private, ed era detto eucarestia o cena: ripetendo i gesti compiuti da Gesù nell’Ultima Cena prima della cattura e della crocifissione, ne commemorava il sacrificio e univa misticamente i fedeli a Cristo e ai confratelli. Era facile sospettare di ostilità al potere romano gli adepti di questa setta religiosa: un sospetto facile e spesso nemmeno infondato, visto che in effetti molti predicatori cristiani vedevano in Roma la fonte di mali infiniti e gioivano all’idea di una sua prossima caduta. Durante il I e il II secolo le persecuzioni contro i cristiani restarono però limitate. Il potere imperiale non vi ebbe quasi mai parte, fatta eccezione per il massacro della prima comunità cristiana di Roma ordinato da Nerone nel 64, dopo l’incendio della città. Fino all’inizio del III secolo gli attacchi ai cristiani furono decisi localmente, dalle comunità cittadine, e non dagli imperatori. Era facile che il risentimento della popolazione si indirizzasse verso questi fedeli intransigenti, chiusi in comunità poco trasparenti e così diversi nei loro comportamenti da apparire come un corpo estraneo alla società. Se sulla città si abbatteva un’inondazione, un’epidemia o un’altra calamità, non era forse perché gli dèi erano stati offesi da chi si rifiutava di adorarli e abbandonava i costumi tradizionali?

1. Quale cambiamento si verificò nel sentimento religioso degli abitanti dell’impero? 2. Per quale motivo il messaggio diffuso da Gesù era ritenuto pericoloso dalle autorità? 3. Per quale motivo con san Paolo il cristianesimo divenne una religione universale? 4. Quali atteggiamenti dei primi cristiani generarono diffidenza nel resto della società?

56

Parte V L’impero greco-romano

7. Impero e buongoverno

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

L’eredità di Augusto

Uno dei principali successi dell’impero durante il I e II secolo fu la buona amministrazione delle province. Possiamo dire, anzi, che per gli abitanti delle province l’instaurazione del principato fu davvero una benedizione. Se con il nuovo regime i Romani avevano ottenuto pace e ordine, ma a costo della libertà, per i sudditi il bilancio fu tutto positivo. Si era chiuso il periodo più nero della loro storia, quando il governatore inviato dalla repubblica romana cercava di ricavare il massimo profitto dalla provincia nel breve tempo della sua carica; e il successore si comportava nello stesso modo. Con Augusto tutto questo aveva avuto fine. Il principe aveva sottoposto i governatori a uno stretto controllo e riformato il sistema fiscale. Per stabilire con esattezza quante tasse richiedere, periodicamente venivano censiti gli abitanti e le loro ricchezze; inoltre la riscossione delle imposte era stata affidata alle comunità locali, e sottratta ai pubblicani sempre affamati di profitti e abituati a usare metodi di rapina. Il potere centrale cessò di comportarsi come un rapinatore che mirava a fare il massimo bottino nel più breve tempo possibile, e divenne un proprietario attento a far prosperare e rendere redditizio il suo dominio. Bisognava bonificare paludi, creare strade e infrastrutture, intervenire in mille modi per migliorare la condizione dei territori amministrati. Tutt’oggi una prova della prosperità portata dalla riforma dell’amministrazione provinciale e dalla stabilità politica garantita dall’impero sono i resti di acquedotti, porti, centuriazioni, anfiteatri e edifici di ogni tipo sparsi in tutte le province, dalla Spagna alla Siria. Da parte loro, i provinciali smisero gradualmente di considerare l’imperatore come un padrone di razza straniera, e gli obbedirono come a un sovrano legittimo.



Il ponte romano sul fiume Tago ad Alcantara 104 Estremadura, Spagna

 Biblioteca di Celso a Efeso

II sec. La Biblioteca di Celso fu edificata a Efeso per rendere omaggio a Gaio Giulio Celso Polemaeno, un rispettato uomo politico, proconsole in Asia a partire dal 106.

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

57

Fattori di successo

Nel corso del I e del II secolo gli imperatori lasciarono quasi intatta la struttura amministrativa creata da Augusto. Il cambiamento principale fu la trasformazione in province di una serie di regni clienti. Per esempio in Asia Minore vennero annessi la Cappadocia (17) e il Ponto (44); in Africa venne annesso il regno di Mauritania (nel 40); in Europa orientale la Tracia (44). Nemmeno queste annessioni rappresentavano però un mutamento radicale. Nel tipo di Stato creato dall’impero infatti non era poi così grande la differenza fra i territori delle province e i territori sottoposti a un regno cliente, costretto a ubbidire ad ogni ordine di Roma e a pagare un tributo annuale. Nelle province quasi tutte le principali funzioni di governo erano affidate alle città (lo abbiamo visto: cfr. par. 5). Proprio questa abi-

I liberti I liberti erano gli schiavi liberati dal padrone, ed erano numerosissimi, perché i ricchi Romani liberavano facilmente quegli schiavi che li servivano come domestici e aiutanti. Augusto aveva dovuto stabilire che non si potevano liberare per testamento più di cento schiavi; durante la vita, però, il padrone era libero di fare come meglio credeva. Non era solo la benevolenza a indurre alle liberazioni: avere dei liberti era conveniente per trattare affari e disporre di aiutanti di fiducia in ambiti in cui potevano operare solo i liberi e non gli schiavi. Alcuni senatori aggiravano il divieto di partecipare a commerci proprio con l’aiuto dei loro liberti. I segretari personali dell’imperatore, cioè i maggiori esperti delle questioni di Stato, furono a lungo scelti fra i liberti. La mentalità romana impediva che il figlio di un uomo libero facesse il servitore, seppure a un livello altissimo. La condizione di schiavo, d’altra parte, non si addiceva al potente segretario del sovrano. Lo status di liberto era invece l’ideale. Il liberto era un uomo libero dotato quasi degli stessi diritti e doveri degli altri cittadini. Poteva diventare proprietario di terre e beni, lasciare il patrimonio ai figli o a chi voleva, praticare l’attività che preferiva. Tuttavia fra il liberto e un uomo nato in libertà da genitori liberi (detto ingenuus) vi erano alcune significative differenze. Da un punto vista politico, il liberto poteva votare alle elezioni ma non parteciparvi come candidato. La differenza maggiore nasceva dal fatto che il liberto restava legato all’antico padrone. Anche se era ormai un uomo libero, doveva lavorare gratuitamente per lui alcuni giorni l’anno, non lo poteva citare in giudizio, lo doveva rispettare come un figlio rispettava il paterfamilias e aveva bisogno del suo consenso per sposarsi. L’antica condizione di schiavo

58

Parte V L’impero greco-romano

in questo modo veniva continuamente ribadita. Di conseguenza i liberti venivano considerati come cittadini di seconda categoria. Mai un aristocratico li avrebbe ammessi fra i propri amici. Non c’è da meravigliarsi che senatori e cavalieri trovassero umiliante il potere acquistato dai liberti degli imperatori, e che il malcontento abbia raggiunto il massimo sotto Claudio, che di fatto governava confidando soltanto nei suoi liberti! Sebbene da un punto di vista economico vi fossero liberti di ogni tipo, poveri, benestanti e ricchi, molti di loro si rivelavano ottimi imprenditori; alcuni giunsero ad accumulare delle fortune. Questo dinamismo nasceva dal fatto che la libertà veniva concessa in primo luogo agli schiavi migliori e più intraprendenti, che andavano ricompensati per i loro servigi o che, magari, potevano comprare la libertà con quanto erano riusciti a mettere da parte. Per questo fra i liberti era così alta la percentuale di persone dinamiche, pronte a cogliere tutte le occasioni. I figli e i nipoti dei liberti più abili e fortunati acquistavano con il tempo la piena rispettabilità, e si univano alle antiche famiglie. Secondo Tacito, in senato si mormorava che il sangue di qualche antenato liberto scorreva nelle vene della maggior parte dei cavalieri, per non dire di molti fra i senatori stessi.



Colombario I sec. Roma Ambienti sepolcrali come questo venivano chiamati colombari perché le loro nicchie sovrapposte ricordavano un allevamento di colombi. Le tombe ipogee che vediamo in questa fotografia, ritrovate fra la Via Appia e la Via Latina, erano state costruite per i liberti della casa giulio-claudia. Le nicchie rettangolari e semicircolari rivestite di marmo e le urne marmoree riccamente decorate dimostrano il grado di ricchezza raggiunto dai defunti.

lità nello sfruttare al massimo le capacità di autogoverno delle comunità cittadine permise di creare un apparato amministrativo sorprendentemente magro: appena poche migliaia di funzionari e impiegati (quanti ne ha oggi un comune italiano non dei maggiori) bastavano per amministrare in modo efficiente un impero gigantesco. La leggerezza dell’apparato amministrativo non significa però che l’impero fosse debole. Tutt’altro. La rarità delle rivolte, l’afflusso costante delle imposte, la fornitura e il trasporto verso Roma e le legioni stanziate ai confini di immense quantità di generi alimentari e prodotti di ogni tipo, sono solo alcuni degli elementi che testimoniano come il potere imperiale fosse solido e temuto. La sua forza derivava dalla capacità di cointeressare al buon funzionamento dello Stato i ceti dirigenti delle città [cfr. par. 5]. Ma la forza dello Stato imperiale nasceva anche dalla paura. Ogni piccola sommossa veniva trattata come una rivolta, e repressa nel sangue. Non mancavano certo i mezzi di repressione: se l’apparato amministrativo dell’impero era minuscolo, quello militare era immenso.

1. In che modo Augusto pose fine alla gestione arbitraria della province? 2. Come reagivano le istituzioni imperiali di fronte ad agitazioni e sommosse?

8. Città e civiltà

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E 

Il modello cittadino

I Romani diffusero la vita urbana in territori dove mai essa era apparsa e vollero che le città, in ogni angolo dell’impero, avessero alcune caratteristiche simili. Soprattutto sotto Augusto, le fondazioni di nuove città rivelano chiaramente la volontà di usare la bellezza dell’edilizia cittadina per fare propaganda alla grandezza di Roma e celebrarne il successo. Non dobbiamo immaginarci, però, delle grandi metropoli. Molte città restarono piccole, popolate da poche migliaia di abitanti. Quello che importava era che la città si imponesse come centro del territorio circostante, riuscendo ad attirare i maggiori proprietari e le aristocrazie. In molti casi, costoro si trasferirono nei centri urbani; in altri restarono a vivere in campagna, ma dovevano comunque frequentare di continuo la città per i tribunali, il foro, le terme e gli spettacoli. Solo alcuni abitati ottennero la qualifica di città senza riuscire a divenire il centro di un territorio. La stragrande maggioranza delle città imperiali ebbe successo. In tutte sorsero edifici piuttosto simili, anche se naturalmente le dimensioni e la decorazione cambiavano a seconda della ricchezza e delle tradizioni locali. Una città degna di questo nome doveva avere anfiteatro, foro, templi, teatro, terme, acquedotti e, più in generale, un aspetto edilizio di un certo tipo, con vie dritte che si incrociavano ad angolo retto, possibilmente ben lastricate e dotate di un sistema fognario, fiancheggiate da case in muratura. Una struttura onnipresente erano gli acquedotti e le terme. I Romani andavano non a torto orgogliosi delle loro tecniche

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

Resti dell’Acquedotto Claudio 38-52 Roma Iniziato nel 38 da Caligola, questo acquedotto fu ultimato dall’imperatore Claudio nel 52 per rifornire la capitale di acqua raccolta da una sorgente vicina a Subiaco, a oltre settanta chilometri da Roma.

59

di ingegneria idraulica. Secondo alcuni di loro, prima ancora delle piramidi fra le meraviglie del mondo andavano messi gli acquedotti che rifornivano Roma. Erano in tutto 11 impianti, alcuni lunghi quasi cento chilometri. Per mantenere il più possibile costante la pendenza del percorso intere montagne furono traforate da gallerie, vallate attraversate da ponti e da impressionanti viadotti su arcate (quello dell’Aqua Claudia correva per dieci chilometri sopra arcate alte fino a 30 metri!). Tramite sifoni, serbatoi e condutture a pressione l’acqua poteva anche essere fatta risalire per centinaia di metri. In aggiunta al Tevere, in questo modo Roma disponeva di un fiume artificiale di acqua potabile: più di un milione di metri cubi al giorno, sufficienti a riempire due grandi piscine ogni minuto! Ma anche le altre città dell’impero beneficiavano delle conoscenze idrauliche e della preoccupazione romana per il rifornimento idrico. Dalla Spagna alla Francia, dalla Turchia all’Africa settentrionale ancora oggi le imponenti rovine degli acquedotti di età imperiale testimoniano come le città minori non avessero nulla da invidiare alla capitale. L’acqua portata dagli acquedotti muoveva impianti artigianali e per la macinazione del grano (a Roma i mulini erano sulle pendici del colle Gianicolo, allo sbocco dell’acquedotto costruito da Traiano); alimentava fontane pubbliche monumentali e semplici abbeveratoi (a Roma nel IV secolo se ne contavano più di 1300); giungeva tramite condutture in piombo fin dentro le case private dei cittadini più abbienti; infine, serviva per le terme. Per i Romani le terme furono una scoperta tarda, ma di immediato successo. Le terme più antiche, riprese da quelle in uso in Grecia, erano costruzioni private e di piccole dimensioni. Le prime terme pubbliche vennero costruite a Roma soltanto al tempo di Augusto. In seguito ne sorsero molte altre, sempre più grandi e lussuose, come quelle, immense, costruite da Traiano e Caracalla. Comprendevano spogliatoi, palestre per esercizi fisici, sale da massaggio, di depilazione e cura del corpo; vi era poi una sauna calda densa di vapore acqueo (calidarium), cioè quello che noi chiamiamo bagno turco ma che in  Le Terme di Caracalla realtà dapprima gli Arabi e poi i Turchi ripresero proPianta e alzato prospettico prio dal mondo romano; seguivano bagni in acqua 1. Ingresso; 2. apodyterium; 3. palestra; 4. ingresso laterale; 5-8 sale riscaldate; 9. calidarium; 10. tepidarium; 11. basilica; 12. ambienti laterali della basilica; calda, tiepida e fredda, la sosta in una sala lussuosa13. natatio; 14. giardino; 15. esedra; 16. stadio. mente decorata ma priva di riscaldamento (frigidaLe Terme di Caracalla furono edificate sull’Aventino tra il 212 e il 217. rium) e infine un tuffo nella piscina scoperta. Il reL’attenta progettazione della struttura previde un vasto reticolo di ambienti cinto delle terme comprendeva inoltre giardini, porsotterranei divisi su due piani in cui organizzare la gestione pratica delle terme, lontano dai visitatori, cui si garantivano quiete, svago e relax. In queste vaste tici, biblioteche e sale per spettacoli. aree sottostanti, come in tutte le strutture termali romane, era prevista una complessa serie di forni e di impianti che rifornissero di acqua calda le vasche; È difficile oggi immaginare l’importanza delle a sua volta quest’acqua faceva circolare aria calda in intercapedini poste sotto i terme cittadine nella civiltà dell’impero. Il loro uso pavimenti e in condutture che passavano dietro le pareti.

60

Parte V L’impero greco-romano

scomparve in Europa con la fine del mondo romano, e sta tornando di moda solo negli ultimi anni. A differenza di oggi, però, per i Romani le terme non erano soltanto uno svago per chi poteva permettersele o una cura per i malati: in primo luogo, erano una pratica sociale, un modo di essere a fondo cittadini. L’accesso era gratuito o molto a buon mercato. Vi si recavano tutti i cittadini, tranne i più miserabili. Per i tanti che non potevano nemmeno sognare le lussuose residenze private dell’aristocrazia e abitavano nelle tipiche case romane, prive di acqua corrente e riscaldamento, le terme consentivano di lavarsi e prendersi cura del corpo. Ma alle terme si andava soprattutto perché erano un luogo di incontro, dove stare con amici, trattare gli affari, discutere di politica e di filosofia. Una questione di civiltà

Gli acquedotti e le terme, gli anfiteatri e i circhi, i templi, i teatri e i fori con i porticati, i tribunali e le grandi sale chiamate basiliche rappresentavano per i Romani l’essenza stessa della città. Da queste delizie della vita urbana erano esclusi i più miserabili della plebe cittadina e una bella parte dei contadini liberi, che costituivano la grande maggioranza della popolazione dell’impero. Ma solo quelli che le utilizzavano venivano considerati appieno cittadini, e cioè uomini civilizzati. Non a caso la parola civiltà, civilitas, viene dalla parola città, civitas. Questa etimologia indica bene come Roma, una citta-stato che aveva creato un impero basato su altre città, identificava la nozione stessa di civiltà con quella di città. Presto la mentalità romana fece ancora un’altra identificazione. Roma aveva conquistato un territorio immenso. Tranne che verso Oriente, i confini dell’impero segnavano la fine dei territori urbanizzati e l’inizio di quelli che conoscevano solo villaggi contadini o gli accampamenti dei nomadi. Così, Roma iniziò a credere che il suo dominio racchiudesse l’intero mondo civilizzato. La parola barbaro, allora, cambiò di significato. Non indicò più come nel mondo greco lo straniero, chiunque esso fosse. Adesso designava chi viveva al di fuori del mondo romano, il solo umanizzato e civile: barbaro voleva adesso dire ‘selvaggio’ oltre che ‘inferiore’. Capiamo così anche manifestazioni artistiche che a prima vista potrebbero stupirci. Per esempio “l’imperatore filosofo” Marco Aurelio volle che sulla colonna scolpita che ne celebrava la memoria fossero raffigurate scene allucinanti di massacri di barbari; e un barbaro vinto veniva calpestato dal cavallo della sua famosa statua equestre, oggi in piazza del Campidoglio. Massacrare i barbari voleva adesso dire difendere la civiltà.



Esecuzione di prigionieri 176-192 Particolare della Colonna di Marco Aurelio (o Antonina), Roma In questo rilievo, particolare della colonna di Marco Aurelio, viene raccontata con estremo realismo l’esecuzione di massa di prigionieri, che i Romani facevano compiere agli stessi barbari. Due barbari, sotto la minaccia dei cavalieri romani, brandiscono in alto la spada pronta a cadere sul collo del prigioniero legato e mantenuto fermo; altri prigionieri carcerati aspettano inermi di subire la stessa sorte.

1. Che cosa rappresentava il mondo delle terme per la società romana? 2. Quale nuovo significato assunse il termine “barbaro”?

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

61

9. Gli eserciti dell’imperatore

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

L’esercito, un mondo a sé

A partire da Augusto, l’esercito romano cambiò ancora una volta natura. A Roma divenne stabile la presenza di truppe scelte, i pretoriani, a protezione degli imperatori. La vicinanza al centro del potere permise più volte ai pretoriani di influire sulla vita politica romana. Il cambiamento maggiore riguardò però le legioni. Nei primi secoli di storia della re-

Le scritte sui muri

La

voce

PA SSA TO del

Nelle città d’età imperiale il livello di alfabetizzazione era alto. Nessun può fare una stima esatta, naturalmente. Ma vi è una prova inconfutabile di quanto l’impero fosse una civiltà della scrittura, un mondo dove scrivere e leggere era una pratica scontata e comune: la facilità con cui i Romani decoravano e imbrattavano con scritte di ogni tipo le mura delle loro città. In totale, ci sono giunte almeno trecentomila iscrizioni o epigrafi (le due parole, rispettivamente di origine latina e greca, sono sinonimi, e vogliono dire ‘scritto sopra’). Le epigrafi venivano dipinte, graffite, incise e impresse sui materiali più diversi, dal bronzo al piombo, dalla ceramica al legno, dal marmo all’intonaco. Una enorme raccolta in molti volumi, il CIL (Corpus Inscriptionum Latinarum, cioè il Corpo delle iscrizioni latine), che possiamo consultare in qualunque grande biblioteca, riunisce tutte le epigrafi conosciute. L’uso di affiggere messaggi scritti era praticato dal potere imperiale, ad ogni livello e per tutti i motivi: per comunicare una legge, celebrare un evento, ricordare un privilegio. Ma le epigrafi venivano utilizzate anche dalla massa della popolazione. Saldate al collare di uno schiavo, servivano per evitare fughe: Sono fuggito, catturami. Restituiscimi al mio padrone Zoninus, riceverai un premio. Sui sepolcri, indicavano il nome dei defunti e lanciavano messaggi di ogni tipo ai passanti, dall’accusa contro chi aveva causato morte o dolori al defunto fino al dolore di chi gli sopravviveva. Sulla tomba di una donna di Roma i familiari scrissero:

Parte V L’impero greco-romano

Qui riposa Efresia Rufria, buona madre, buona moglie. Morì per una febbre maligna che le provocarono i medici. [CIL, VI, 25580]

Su quella di un’altra donna, morta di parto assieme alla neonata: Vivevamo in pieno accordo e felici della prima figlia, ma la seconda ha portato con sé una duplice morte. Ci siamo divisi i pegni d’amore: la figlia morta accompagna me nella morte, la prima conforta il padre. [CLE, 2080]

Un’altra epigrafe ricorda la sventura capitata a un anziano romano che aveva liberato e sposato la propria schiava Acte, ma questa era fuggita con un amante approfittando della malattia del marito: Quanto è qui scritto serva a perenne infamia della liberta Acte, perfida avvelenatrice subdola e senza cuore. Chiodi e funi le leghino il collo, pece bollente le bruci il malvagio petto. Fu liberata e se ne andò con l’amante. Raggirò il padrone che giaceva in un letto, portandogli via l’ancella e lo schiavetto che lo assistevano. Disperato, quel povero vecchio rimase solo e abbandonato, dopo essere stato derubato. [CIL, VI, 20905]

A Pompei, dove l’eruzione del Vesuvio ha conservato sotto la cenere anche molte scritte dipinte, si trovano iscrizioni di tono più leggero. Su un muro dell’anfiteatro un ammiratore o un’ammiratrice di un gladiatore scrisse: Celado, il gladiatore Trace, fa sospirare tutte le ragazze. Ma scritte dipinte costituivano le insegne dei negozi, lodavano le capacità e l’esperienza delle prostitute,

pubblica i legionari erano stati soldati di leva in servizio solo per la durata della guerra. Poi con Mario, alla fine del II secolo a.C., si era dato spazio anche ai volontari, che restavano sotto le armi otto-dieci anni, dopo i quali tornavano alla vita civile con le terre assegnate loro dal generale. Con l’impero, invece, l’esercito divenne permanente e fu composto soltanto da professionisti della guerra. Fare il soldato era ormai una condizione stabile, una scelta di vita, visto che il servizio militare durava almeno 25 anni. Fra il mondo dei civili e il mondo dei militari nacque una netta separazione. Per una recluta, l’arruolamento segnava il passaggio ad un nuovo mondo. In primo luo-

contenevano invettive e, infine, facevano campagna elettorale. Sulle pareti di Pompei si leggono ancora molte scritte elettorali delle ultime elezioni svoltesi nella città prima dell’eruzione. Al contrario dei manifesti di oggi, nei quali è lo stesso candidato a richiedere voti, nel mondo romano i voti venivano richiesti per lui dai suoi sostenitori. Per esempio: I mercanti di frutta vogliono edile M. Ennio Sabino. Oltre ai messaggi elettorali veri e propri, a volte si lanciavano maledizioni per chi li cancellava: Votate, o vicini, Lucio Stazio Recetto. Ha dipinto Emilio Celere, un vicino. Invidioso che cancelli questa scritta, ti venga un male.

Oppure (e sembra quasi una trovata della pubblicità contemporanea) si aggiungevano battute di spirito, come la scritta Lanternaio, reggi la scala! che chi dipingeva nottetempo il manifesto elettorale su un’alta parete indirizzò scherzando all’aiutante che gli faceva luce. Su una facciata cosparsa di manifesti, un buontempone aggiunse una battuta: Mi meraviglio, o muro, che tu non sia crollato, visto che sostieni il peso di tante scritte! [CIL, IV; questo CIL, in tre tomi, è interamente dedicato alle iscrizioni di Pompei, Ercolano e Stabia].



Pittura parietale con iscrizione elettorale pompeiana Lungo la via principale di Pompei si potevano trovare molti manifesti elettorali dipinti sui muri. Nel particolare qui riprodotto si legge: «Lollium [ae]d(ilem) v(iis) a(edibus) s(acris) p(ublicis) o(ro) f(aciatis)», «Vi prego di eleggere Lollio edile per le strade e per gli edifici sacri e pubblici».

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

63

go, voleva dire allontanarsi dalla patria, e trasferirsi nelle remote province di confine poste lungo il limes, dove era concentrato il grosso delle truppe. Un servizio così lungo e lontano riscuoteva poco successo fra gli abitanti di Roma e dell’Italia: già alla metà del I secolo d.C. appena un legionario su due era di origine italiana, e cinquant’anni dopo la proporzione crollò a un legionario su cinque. Nel contempo, crebbe molto la proporzione dei soldati reclutati in ogni angolo del vasto impero e fra i popoli confinanti; le reclute erano attratte dalla paga annua, dalle terre, dai beni assegnati ai veterani, e dalla cittadinanza romana concessa a tutti al momento del congedo. Negli accampamenti militari il soldato era sottoposto a una disciplina rigorosa e a un addestramento continuo. Apprendeva un latino diverso da quello parlato nel mondo civile, ricco di termini tecnici e di parole riprese da lingue straniere. La sua identità non era più definita dal luogo di origine o dalla famiglia, ma dal grado e, soprattutto, dall’appartenenza a vari raggruppamenti. Ognuno di essi costituiva una piccola comunità, solidale all’interno e in gara con gli altri reparti per distinguersi in efficienza e ottenere onori e vantaggi. Il nucleo della vita legionaria era il contubernium, un gruppo di dieci uomini che condivideva la medesima tenda. Al di sopra vi erano le centurie (80 uomini), poi i manipoli (160) e le coorti (480) e infine le legioni, costituite da dieci coorti. Una macchina da guerra a riposo

 Elmi da parata I-II sec. Museo Archeologico di Stara Zagora, Bulgaria Ritrovati a Plovdiv (quello a sinistra) e Stara Zagora (a destra), in Bulgaria, questi elmi venivano indossati in occasione di giostre e parate militari, le hippica gymnasia, eseguite da cavalieri bardati che si fronteggiavano per dimostrare la propria abilità. Questi spettacoli, presieduti da autorità militari e accolti con clamore di un vasto pubblico, testimoniano la presenza attiva dei soldati romani nella vita sociale delle popolazioni locali lungo tutto l’impero.

64

L’esercito imperiale era ampio, ma meno di quello della tarda repubblica. Dopo la vittoria sui nemici interni, Augusto ridusse le legioni da 60 a 28; il numero scese a 25 dopo l’annientamento di tre legioni a Teutoburgo nel 9 d.C. e risalì a circa 30 nel II secolo. I legionari romani nella prima metà del I secolo erano circa 150.000, ma le truppe totali a disposizione dell’impero era almeno il doppio, perché vanno conteggiati anche i reparti ausiliari. La macchina bellica era dunque di grandi dimensioni e di indubbia efficienza. Eppure i successori di Augusto la lasciarono quasi sempre disoccupata. Le legioni furono impegnate per reprimere le rare rivolte interne, per respingere attacchi esterni e, soprattutto, per vigilare sui confini. Per il resto fecero ben poco: gli imperatori avevano infatti abbandonato la tradizionale politica romana di conquista. Le sole eccezioni furono la sottomissione della Britannia che impegnò alcune legioni dal 43 all’84 e le grandi campagne di Traiano in Dacia e in Oriente. Questo arresto dell’espansione imperiale fu una necessità o una libera scelta? Fu entrambe le cose, ma soprattutto la seconda. In Africa e nel Vicino Oriente erano stati raggiunti confini naturali insuperabili: più in là si stendevano solo deserti disabitati o percorsi da popoli nomadi. Ma per altre zone, come quelle oltre il Danubio, è chiaro che l’arresto della conquista derivò da una scelta precisa. Si

Parte V L’impero greco-romano

lasciò il confine lungo il grande fiume, che era un pessimo confine naturale, tante volte sorpassato con facilità dai nemici, perché gli imperatori non vollero proseguire con le conquiste. Per la mentalità romana era inconcepibile che un imperatore non partecipasse in prima persona alle grandi campagne militari. Ma la vita nell’esercito li attraeva ben poco. Meglio dunque condurre sulle frontiere una politica di pace.

1. Quali benefici ottenevano le reclute che entravano a far parte dell’esercito? 2. Per quali ragioni i primi imperatori misero da parte le grandi campagne militari?

10. Ricchezza delle province, decadenza dell’Italia

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Un mercato unitario

L’economia delle province trasse grandi vantaggi dall’impero. Mercanti, proprietari fondiari e artigiani non soltanto videro finalmente cessare le rovinose esazioni dei governatori d’età repubblicana, ma ottennero sempre più facilmente di partecipare ai privilegi economici e fiscali un tempo riservati solo agli abitanti di Roma e dell’Italia. Poterono così trarre beneficio dalla creazione di un enorme mercato unitario. Il potere imperiale garantiva la sicurezza dei commerci; merci e mercanti viaggiavano agevolmente lungo la grande rete di strade (80.000 chilometri!) costruita da Roma e utilizzavano le flotte, i porti e le altre infrastrutture create dall’impero. Utile per gli scambi era anche l’esistenza di un unico sistema monetario, basato sulle monete d’argento (denarii) e d’oro (aurei) coniate dalle zecche imperiali. In tutte le province la produzione agricola e artigianale aumentò molto, e con essa la ricchezza e i commerci. Fu un’epoca di grande prosperità. Viceversa per l’Italia le cose andarono peggiorando. Dalla metà del I secolo iniziarono a diminuire le esportazioni di vino, olio e beni artigianali; ormai le province li producevano per conto proprio. Anzi, adesso i rapporti commerciali si invertivano, perché era l’Italia a importare i beni prodotti più a buon mercato dai lontani territori dell’impero. Tutto questo è noto dalle lamentele di alcuni scrittori antichi e, soprattutto, dai frammenti di anfora.

 Denario in argento di Adriano II sec. Kunsthistorisches Museum, Vienna Il verso di questa moneta argentea raffigura l’Artemisio, il grande tempio panellenico eretto a Efeso in onore della dea Artemide.



Aureo di Traiano 112 Medagliere di Palazzo Massimo, Roma Questa moneta d’oro prova che sulla sommità della celebre Colonna di Traiano, oggi sormontata da una statua di San Pietro collocata nel Cinquecento, era posta una grande statua dell’imperatore.

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

65

I problemi in Italia

Che c’entrano le anfore? Le anfore di ceramica erano fabbricate in tanti tipi, diversi a seconda delle province; costavano poco e se si rompevano non venivano riparate, ma gettate via. Erano i contenitori più usati nel mondo antico per trasportare olio e vino, e oggi sono la migliore guida per ricostruire il commercio perché la località di provenienza delle anfore indica anche la provenienza delle merci che trasportavano. Proprio classificando i tipi di anfora ritrovati nei porti italiani, gli archeologi hanno accertato un drammatico calo, a partire dalla metà del I secolo, delle anfore fabbricate in Italia, e un aumento esponenziale di quelle spagnole, africane e di altre province: è la prova che i prodotti italici erano in crisi, soppiantati da quelli delle altre regioni dell’impero. L’aumento delle importazioni dipendeva in parte dall’elevato costo dei prodotti italiani: in Italia, dove affluivano le imposte e le rendite dall’impero, tutti i prezzi erano più alti, e così pure i salari. I piccoli proprietari non potevano sopportare gli alti costi di produzione, e fallivano. I loro poderi andavano ad accrescere le grandi proprietà, che tuttavia avevano anch’esse i loro problemi. Basare la produzione sugli schiavi, come avveniva in passato, diventava sempre più difficile perché con la fine delle grandi guerre di conquista gli schiavi era-

I ghiacciai della Groenlandia e il dibattito sull’economia antica L’economia dell’impero romano è uno degli argomenti che più hanno fatto discutere gli storici. Il dibattito è stato intenso soprattutto dal 1973, quando è apparso il libro (Economia degli antichi e dei moderni) di uno studioso americano, Moses I. Finley. La sua tesi poneva un problema reale: possiamo davvero pensare che l’economia antica si basasse sugli stessi meccanismi delle economie moderne? Nel mondo in cui viviamo, l’economia è guidata dal libero mercato, dalla legge della domanda e dell’offerta e, principalmente, dall’iniziativa privata. Nel mondo antico, invece, a parere di Finley non vi era mercato del lavoro, perché si produceva soprattutto tramite schiavi, e non con lavoratori salariati. La stessa mentalità dei produttori era diversa: i piccoli proprietari contadini e gli artigiani si accontentavano di vivere dignitosamente, e non cercavano di accumulare ricchezze; i grandi proprietari, da parte loro, gestivano le terre senza fare nessun calcolo razionale dei profitti e delle perdite. Se vi erano grandi spostamenti di merci ciò avveniva solo per le necessità dello Stato: per pagare le tasse, per rifornire le legioni, per approvvigionare Roma. A suo parere, dunque, l’economia antica era profondamente diversa dalla nostra: soprattutto, era priva della capacità, che caratterizza fin troppo il mondo contemporaneo, di mirare sempre alla crescita della produzione e dei profitti. Era un’economia dalla produttività bassa, poco dinamica, tutta dipendente dallo Stato. Il libro di Finley ebbe un meritato successo. Poneva problemi importanti e ha stimolato la discussione. Negli ultimi tempi, però, le sue affermazioni così perentorie sono ormai rifiutate. Le critiche maggiori vengono dalle indagini archeologiche: in

66

Parte V L’impero greco-romano

mille modi, i risultati degli scavi provano che fra il I secolo a.C. e il II d.C. molti beni vennero prodotti in abbondanza e i commerci si intensificarono a opera non solo dello Stato, ma di tanti imprenditori privati. E qui entrano in scena i ghiacciai della Groenlandia. Fra le indicazioni più convincenti del grande sviluppo dell’economia antica vi sono infatti le analisi degli strati di ghiaccio formatisi in età imperiale, e conservati nei ghiacciai groenlandesi al di sotto degli strati più recenti. Essi indicano che nell’età di Augusto e dei suoi successori l’inquinamento da piombo e da rame dell’atmosfera sopra l’Artico raggiunse un livello altissimo. Soltanto con la Rivoluzione industriale del 1750-1850 il mondo è tornato a inquinare così tanto. È la prova certa di un’attività metallurgica davvero intensa condotta a migliaia di chilometri di distanza, nei territori dell’impero. Altre indagini archeologiche attestano che in età imperiale avvenne una vera crescita economica, cioè uno sviluppo produttivo in grado di determinare un aumento della ricchezza della maggioranza della popolazione, e non solo di piccoli gruppi privilegiati. Un buon indicatore dello stato di benessere è l’altezza degli individui, perché aumenta se l’alimentazione è abbondante. Ebbene, l’esame dei circa mille scheletri maschili ritrovati nei diversi scavi archeologici condotti in Italia mostra che i Romani erano nettamente più alti, e dunque meglio nutriti, degli Italiani del Medioevo, dell’età moderna e di parte di quella contemporanea. Soltanto nel 1956 abbiamo raggiunto e sorpassato l’altezza media degli antichi Romani.

no meno abbondanti e costavano di più. I grandi proprietari di latifondi reagirono in due modi. Alcuni abbandonarono le coltivazioni redditizie ma che richiedevano molta manodopera, come la vite e l’olivo, e sfruttarono i loro latifondi in forme poco bisognose di lavoro, cioè tramite l’allevamento e saltuarie coltivazioni di grano. Territori un tempo densamente coltivati e popolati si trasformarono così in pascoli. Altri grandi proprietari sostituirono gli schiavi con affittuari liberi, i coloni. A ognuno veniva affittato un piccolo podere, in cambio di un canone. Il sistema del colonato all’inizio funzionò abbastanza bene e permise a molti contadini di vivere dignitosamente. Lentamente, però, l’autorità del padrone andò crescendo, finché ai contadini fu vietato di allontanarsi dalla terra senza il suo permesso (lo vedremo al capitolo successivo: cfr. cap. 14.7).

 Nave oneraria a vela Museo Archeologico dei Campi Flegrei, Bacoli (Napoli) Questo bassorilievo raffigura una nave da carico (nave oneraria), una tipologia d’imbarcazione tra le più diffuse nel mondo romano utilizzata per trasportare le merci da un capo all’altro dell’impero. In qualità di “magazzino galleggiante” la nave oneraria era costruita con grandi boccaporti per consentire un comodo accesso alla stiva in cui venivano immagazzinati i prodotti, conservati in apposite anfore sigillate con la pece per mantenerne a lungo i contenuti.

1. Quali furono i fattori che agevolarono la crescita economica delle province? 2. In che modo i grandi proprietari fondiari reagirono alla crisi?

11. Panem et circenses: come conquistare il popolo

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Panem et circenses ossia ‘pane e giochi’: con questa formula celebre il poeta satirico Giovenale, vissuto nel I secolo, riassume il solo interesse rimasto in età imperiale al popolo che un tempo aveva conquistato il mondo. Secoli dopo, lo storico Ammiano Marcelino descrive con disgusto la plebe oziosa di Roma. Non fa nulla, pensa solo al cibo e ai giochi. Per essa il circo è tutto: tempio, casa, assemblea civica. Passa il tempo a parlare delle imprese degli aurighi; poi, quando è giorno di spettacolo, si precipita in massa al circo, più veloce dei carri che stanno per gareggiare. In tutte le epoche il disprezzo per il popolo è un atteggiamento molto comune fra gli intellettuali, di solito membri delle classi superiori. Di certo la gran parte della plebe non passava il suo tempo ai giochi, ma in lavori di ogni tipo. Per molti, una dura fatica quotidiana doveva essere anche quella di trovare qualche piccolo lavoretto: la disoccupazione era un problema cronico in una città popolosa come Roma, così come nelle maggiori città del tempo. Nel mondo antico, infatti, non vi erano grandi fabbriche (le attività produttive si svol-

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

67

I gladiatori Nel 73 a.C., dopo avere più volte sconfitto l’esercito romano con gli altri schiavi insorti, Spartaco, il gladiatore ribelle, organizzò dei grandiosi funerali in onore di un compagno morto: per l’occasione trecento prigionieri, tutti legionari romani, dovettero combattere come gladiatori fino alla morte. Era stata una clamorosa inversione dei ruoli fra vittime e carnefici: un pubblico di schiavi ordinava il combattimento mortale dei suoi antichi padroni. Fu tuttavia l’unica volta nella storia di Roma in cui ciò successe. I primi combattimenti fra gladiatori risalgono alla metà del III secolo a.C. e venivano offerti dalle grandi famiglie durante i funerali. In origine erano dunque una sorta di sacrificio volto a placare l’anima dei defunti. In età imperiale i combattimenti dei gladiatori erano però diventati un divertimento fra i più amati dal popolo, offerto in ogni occasione. Nei primi secoli combattevano esclusivamente gladiatori schiavi. Verso la metà del I secolo d.C. agli schiavi si aggiunsero alcuni cittadini romani ridotti alla più completa disperazione, che vendevano il proprio onore e la propria libertà e si facevano gladiatori. Le lotte fra i gladiatori rappresentavano il momento culminante delle giornate di spettacolo degli anfiteatri. Ogni città aveva almeno uno di questi edifici di forma ellittica; quelli finora individuati nei più diversi angoli dell’impero sono ben 900. L’anfiteatro più grande era il Colosseo, inaugurato da Tito nell’80 d.C. con una serie di giochi che durarono più di tre mesi. Aveva 66 ingressi numerati e tre ordini di gradinate; per i più miserabili fra la popolazione vi erano posti in piedi in un terrazzo in cima all’edificio. Per riparare il pubblico poteva venire disteso un immenso telone, manovrato da un distaccamento di marinai della flotta esperti in vele. Gli spettacoli degli anfiteatri iniziavano la mattina con lotte fra belve esotiche o con combattimenti fra uomini e animali. Talvolta i condannati a morte erano gettati indifesi nell’arena, per essere sbranati. Infine toccava ai gladiatori. Per rendere più affascinante l’esibizione, i gladiatori non combattevano come normali soldati, ma con armi strane. Si dividevano in categorie diverse, ognuna con i propri costumi e i propri armamenti. Il Retiarius combatteva con la rete e il tridente contro un avversario coperto da un elmo a forma di pesce; il Trace era armato di una corta scimitarra e di un minuscolo scudo rotondo; il Sannita usava una grande spada e uno scudo rettangolare. Per fare un bravo gladiatore occorrevano anni di addestramento, e non meraviglia che gli impresari che possedevano e addestravano i gladiatori chiedessero lauti pagamenti per farli combattere. Nelle città di provincia, dove l’impresario riceveva compensi limitati, raramente i duelli finivano con la morte dello sconfitto. Invece a Roma, dove i giochi erano offerti dall’imperatore e non si badava a spese, i combattimenti erano all’ultimo sangue. Quando un gladiatore era sconfitto, alzava il braccio per chiedere la grazia. La decisione spettava al vincitore, ma era uso che egli si rivolgesse all’imperatore; l’imperatore, a sua volta, chiedeva il parere della folla. Il pollice in alto e il grido «lascialo andare» premiava i gladiatori sconfitti

68

Parte V L’impero greco-romano

che avevano combattuto bene; il pollice verso condannava all’immediato sgozzamento quelli che avevano lasciato insoddisfatto il pubblico. I gladiatori erano popolarissimi, veri eroi delle folle. I vincitori ricevevano denaro e gioielli, che mostravano subito al pubblico. Dopo molte vittorie, riuscivano di solito a guadagnarsi la libertà. Una simile notorietà premiava anche gli aurighi che animavano un altro tipo di spettacolo amatissimo nell’impero, le corse dei carri. Le corse avvenivano nei circhi; di solito duravano sette giri di pista. Sfrecciando su cocchi leggerissimi trainati da una o due coppie di cavalli, gli aurighi cercavano di arrivare primi correndo a più non posso, ostacolando gli avversari e spingendoli a fracassarsi sulle murate. Un bravissimo auriga, Diocle, in 24 anni di carriera vinse quasi 3000 corse, accumulando una fortuna pari a quella di un senatore.



Il Colosseo con il velario Disegno ricostruttivo di D. Spedaliere



Elmo di gladiatore 70-79 Da Pompei; Museo Archeologico Nazionale, Napoli Quest’elmo di gladiatore è decorato con scene tratte dal racconto epico della distruzione di Troia.

gevano in piccoli laboratori) e l’amministrazione dell’impero richiedeva solo pochi impiegati. Nelle critiche alla plebe, però, qualcosa di vero c’era. Con Tiberio e i suoi successori al popolo romano erano state sottratte tutte le antiche funzioni politiche: il voto nelle assemblee legislative e l’elezione dei magistrati. Il consenso popolare restava tuttavia fondamentale anche per sovrani potenti come gli imperatori. A Roma si concentrava un’immensa popolazione di un milione di abitanti, senza paragoni con le altre città del mondo antico. Soltanto fra XVIII e XIX secolo nell’Europa occidentale dapprima Londra e poi Parigi raggiunsero una simile ampiezza. Occorreva in tutti i modi conquistare il favore di questa massa smisurata. Per raggiungere questo scopo gli imperatori portarono al massimo sviluppo i sistemi seguiti dai politici della tarda repubblica. Lo strumento di consenso economicamente più produttivo era promuovere grandi lavori di edilizia pubblica. La costruzione di un teatro, di un foro o di un circo veniva vista con favore dal popolo: non soltanto abbelliva la città e forniva nuovi spazi di divertimento e riunione, ma dava anche lavoro a molti. Un altro strumento per ottenere il favore popolare erano le distribuzioni gratuite di cibo. Tutti i cittadini romani avevano una tessera che consentiva loro di ritirare gratuitamente, nel giorno stabilito, una certa quantità di grano. Un enorme edificio porticato (Porticus Minucia) fu costruito nel cuore di Roma per effettuare ordinatamente le distribuzioni. A tutto ciò si aggiungevano doni di varia natura. Vi erano infine i giochi. L’imperatore o l’uomo politico che spendeva grandi somme per offrire alla popolazione corse di cavalli, combattimenti fra belve, lotte di gladiatori e competizioni di ogni tipo (persino combattimenti navali), era certo di fare un buon investimento. La sua popolarità cresceva quanto più riusciva a rendere interessante lo spettacolo grazie alla partecipazione delle bestie più esotiche, dei gladiatori più crudeli e celebri, degli aurighi più abili. Se poi gli imperatori si esibivano personalmente nelle corse e nei combattimenti, come Nerone, la loro popolarità saliva alle stelle.



Corsa dei carri romani II sec. Musée du Louvre, Parigi I ludi circenses, che si svolgevano nel Circo Massimo, erano i più antichi giochi romani. La gara con i carri era uno spettacolo che entusiasmava le folle.

1. Quali erano i principali strumenti attraverso i quali gli imperatori carpivano il consenso popolare? 2. Per quale motivo i grandi lavori di edilizia pubblica erano graditi al popolo?

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

69

Altri

Cina, India e Africa al tempo dell’impero romano Questa rubrica di solito affronta la storia di regioni che non avevano rapporti con il Mediterraneo e l’Europa, ma in questo capitolo le cose sono in parte diverse. Vale la pena infatti soffermarci un po’ su alcuni interlocutori di Roma, poiché l’ampiezza e la ricchezza dell’impero romano stimolarono per esempio relazioni con le remote regioni della Cina e dell’India, e con alcuni regni africani: le prime esclusivamente commerciali, le altre di dominazione. Con l’India i commerci riguardavano soprattutto le spezie e avvenivano lungo quella che è stata appunto chiamata “via delle spezie”. Nel suo tratto finale questo percorso giungeva in Siria e in Giordania tramite carovane di nomadi che attraversavano il deserto arabico e la Mesopotamia; dall’India fino alla foce dell’Eufrate il percorso si svolgeva via mare. Interamente terrestre era invece la “via della seta”, che riforniva l’impero di questo tessuto prezioso e amatissimo dall’aristocrazia romana. La Cina ne custodiva gelosamente il segreto di fabbricazione, e i Romani pensavano addirittura che venisse da un albero, non certo dai bachi, cioè da insetti. Si dice “via della seta”, al singolare, ma in realtà bisognerebbe usare il plurale, perché si trattava di molti percorsi, a volte separati solo da poche decine di chilometri, altre volte distanti. Dalla Cina una serie di piste attraversava i deserti del Sinkiang (o Xinjiang), passava le alte catene del Pamir e poi si spingeva lungo le steppe dell’Asia e gli altopiani iranici fino alla Mesopotamia, dove incontrava la via delle spezie. Tramite queste rotte commerciali, im-

Parte V L’impero greco-romano

peri fra loro lontanissimi intrattenevano relazioni economiche. Ma gli uni sapevano ben poco degli altri. Le merci non venivano trasportate da un unico mercante attraverso l’intero percorso, perché passavano di mano molte volte. Gli scrittori antichi, sia cinesi che romani, raccontano di tentativi di stabilire contatti diretti tramite ambascerie; sembra però che non si sia mai trattato di iniziative ufficiali, solo delle spedizioni di alcuni intraprendenti mercanti. L’impero romano, Cina e India riuscirono dunque a entrare in contatto in misura ridottissima. Ma quale fu in quest’epoca la storia delle due grandi civiltà d’Oriente?



In Asia In India, nel II secolo a. C., il grande impero Maurya, che fin dai tempi di Alessandro Magno si era esteso diventando il più vasto dell’epoca declinò, mentre continuava lo sviluppo di piccoli ma prosperi Stati. Nella zona dell’attuale Pakistan una popolazione di nomadi provenienti dall’Asia centrale creò lentamente l’impero Kushana, uno Stato che comprendeva diversi popoli e si estendeva dall’Afghanistan centrale fino alla pianura del Gange. L’impero Kushana raggiunse il suo apogeo proprio nel I e II secolo. I Kushana fecero propri molti elementi della cultura ellenica, adattando per esempio l’alfabeto greco al loro linguaggio e coniando monete di foggia greca. La tradizione artistica, religiosa e più in generale culturale in-

Uno scorcio del Pamir

L’altopiano montuoso del Pamir si trova alla confluenza delle catene dell’Hindu Kush e del Karakoram (tra Afghanistan nordorientale ed ex repubblica sovietica del Tagikistan); per le altitudini raggiunte è considerato «il tetto del mondo». Quest’area aspra e desolata costituiva per le carovane mercantili un passaggio obbligato della «via della seta» che dalla Cina confluiva in Medio Oriente o in Egitto dopo aver attraversato l’altopiano iranico o, in alternativa, i monti del Caucaso.

diana restò però fortissima. L’impero decadde e si frammentò durante il III secolo. In Cina continuava, sotto il potere della dinastia Han, la fioritura dell’economia, della cultura e dell’arte. Proprio durante l’età di Augusto l’impero attraversò una crisi momentanea, poiché le tasse elevate, ulteriormente accresciute per fare fronte alla minaccia dei nomadi sul confine settentrionale, provocarono una grande rivolta e delle lotte civili. Le guerre terminarono nel 23, quando il paese fu pacificato da una seconda dinastia Han, detta “dinastia degli Han orientali”. Il problema dei nomadi fu provvisoriamente risolto accogliendoli pacificamente all’interno delle frontiere; talvolta ai nomadi stessi furono affidati compiti di controllo militare dei confini, se-

Antiochia

Alessandria

In Africa, ai confini meridionali dell’Egitto l’impero romano ebbe relazioni burrascose con l’antico regno di Kush, che per oltre un millennio aveva già dato molto filo da torcere ai faraoni. La sua capitale era stata spostata a Meroe, poco a nord dell’odierna capitale del Sudan, Khartoum. Dopo una serie di scontri inconcludenti, Augusto stabilì una tregua con i sovrani di Kush, e da quel momento il regno subì l’egemonia romana. Tra il II e il III secolo iniziò un’inarrestabile decadenza, legata al riaccendersi di guerre con l’Egitto romano e poi agli attacchi provenienti dal regno di Axum, formatosi tempo prima nelle attuali Eritrea e Etiopia settentrionale e divenuto davvero importante fra I e II secolo.

 La via della seta

Edessa

Tiro Damasco Palmira Petra SeleuciaCtesifonte

Passo Tarek-Davan Samarcanda Merv

Jatrib (Medina) Mecca

In Africa

condo una schema che come vedremo fu adottato anche dagli imperatori romani con i popoli barbari del limes (il confine). Oltre al taoismo e al confucianesimo, sotto la nuova dinastia si diffuse molto fra la popolazione cinese anche il buddismo. L’impero della dinastia Han entrò in crisi a partire dal 180 circa. Il potere acquistato dagli eunuchi che costituivano i principali consiglieri e funzionari imperiali suscitava la crescente opposizione dei grandi proprietari fondiari. A tutto questo si aggiunsero enormi rivolte contadine, un fenomeno ricorrente nella storia cinese e che su quella scala non ha paragoni in nessun’altra civiltà. Nel 220 l’ultimo imperatore venne deposto, e la Cina si trovò divisa in diversi regni rivali.

Passo Baroghil

Kashgar Khotan

Bactra

Gherra

Passo Khuber

Passo Karokorum

Armozia

Chang’an Himalaya

CINA

Barygaza

Hanoi

INDIA

Via della seta e delle spezie Impero Kushana

OCEANO INDIANO

Dinastia degli Han

OCEANO PACIFICO

Regno di Axum Regno di Kush

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

71

SINTESI 1. Stabilità, pace e difficoltà di successione I primi due secoli del principato furono caratterizzati dalla pace interna e lungo i confini, da un’amministrazione efficace e da una generale prosperità per la maggioranza della popolazione. Il punto più debole del sistema politico era quello relativo alla successione. Benché, formalmente, le istituzioni romane restassero repubblicane, il principato assunse spesso la forma di una monarchia ereditaria. In questi primi due secoli, il problema venne risolto, in alcuni casi, con la semplice successione ereditaria, in altri con la proclamazione ad opera delle legioni, in altri ancora, soprattutto in assenza di figli naturali, con la cosiddetta “scelta del migliore”, che permetteva all’imperatore di adottare come figlio una persona estranea alla sua famiglia.

2. La dinastia giulio-claudia Ad Augusto successe il figliastro Tiberio, della gens Claudia (per questo si parla di dinastia giulio-claudia). Tiberio consolidò le frontiere e rese più efficace la gestione amministrativa dell’impero. A lui successe il nipote Caligola, che viene ricordato per il comportamento eccentrico e per aver instaurato un clima di terrore. Caligola fu eliminato in una congiura e al suo posto venne messo dai pretoriani lo zio Claudio, che si rivelò un ottimo amministratore. A questi successe il figlio adottivo Nerone, che gli storici classici hanno dipinto come una figura demoniaca. In realtà Nerone portò avanti molte iniziative a favore del popolo e per questo fu ostacolato dall’aristocrazia. Tuttavia, alcune decisioni, come la riduzione del soldo delle truppe e della fornitura del grano alla plebe, gli furono fatali. Tutto il I secolo fu caratterizzato dalla competizione tra imperatori e senato.

3. La dinastia flavia Alla morte di Nerone un conflitto contrappose vari pretendenti. Tra questi prevalse Vespasiano, espressione delle legioni di Oriente e discendente di una famiglia di cavalieri, i Flavii, e che, con la lex de imperio Vespasiani, stabilì per legge le prerogative imperiali. A lui successero, uno di seguito all’altro, i due figli: Tito, molto popolare e che tra le altre cose portò a termine il Colosseo iniziato dal padre, e Domiziano, che regnò in forma autoritaria e fu vittima di una congiura di pretoriani e senatori.

4. I cosiddetti Antonini o imperatori adottivi Con Nerva, messo al potere dal senato, iniziò il regno dei cosiddetti “imperatori adottivi” designati tramite la “scelta del migliore”. La competizione tra senato e imperatore si trasformò in una proficua collaborazione. Nerva adottò Traiano, il cui regno fu molto popolare. Traiano riprese la politica di conquiste, sottomise la Dacia e portò avanti una serie di effimere conquiste in Mesopotamia. A lui succedettero Adriano, che rafforzò i confini dell’impero (limes), e Antonino Pio. A questi successe Marco Aurelio, passato alla storia come imperatore filosofo. In politica interna fu moderato e tollerante, mentre all’esterno dovette far fronte a ripetuti assalti lungo le frontiere, specie nella zona del Danubio. Alla sua morte, il figlio Commodo entrò in conflitto con il senato: ucciso in seguito a una congiura, il senato lo condannò alla damnatio memoriae.

5. La romanizzazione dell’impero Per governare agevolmente l’immenso impero su cui dominava, Roma applicò le stesse misure che aveva applicato in epoca repubblicana e portò avanti un vasto processo di romanizzazione. Un ruolo decisivo fu svolto dalle città, che si trovavano in condizioni di assoggettamento diversificate, ma godevano di una vasta autonomia. Il governo rimaneva in mano alle élite locali, e queste avevano, dunque, tutto l’interesse al consolidamento del potere imperiale. A molti membri delle élite fu concesso di accedere all’ordine dei cavalieri, dando così vita a una diffusa aristocrazia imperiale. A testimoniare, inoltre, il successo del processo di romanizzazione fu l’adozione della lingua latina in tutti i nuovi territori, affiancata, in Oriente, dal greco, la lingua della filosofia e della scienza.

6. La nascita del cristianesimo Sin dalla fine della repubblica, anche il rapporto con la religione comincia a mutare. Venendo incontro all’esigenza di un rapporto più intimo fra uomo e divinità, cominciarono a diffondersi culti di origine orientale. Tra questi, quello che avrebbe rivestito un ruolo cruciale nella storia era certamente il cristianesimo, religione monoteista nata in Giudea dalla predicazione di Gesù che, a causa del suo radicale messaggio di pace e giustizia, fu ostacolato e messo a morte dalle autorità. La sua opera fu proseguita dai suoi apostoli. Con l’opera di san Paolo di Tarso il cristianesimo divenne una religione universale che si diffuse per tutto l’impero. Le prime comunità cristiane seguivano severe norme di vita e rifuggivano le forme di socialità più diffuse fra i pagani. A causa del loro comportamento erano guardate con sospetto, ma durante il I e il II secolo le persecuzioni nei loro confronti furono limitate.

7. Impero e buongoverno Durante il I e il II secolo, la buona amministrazione delle province fu un fattore decisivo per la tenuta dell’impero. Il potere centrale represse le politiche di rapina dei governatori e cercò piuttosto di far prosperare e rendere redditizi i propri domìni. Per ottenere i

72

Parte V L’impero greco-romano

risultati prefissi fu fondamentale sfruttare le capacità di autogoverno delle comunità cittadine e creare, quindi, un apparato amministrativo estremamente snello. A questo si univa un immenso apparato militare, pronto a reprimere duramente qualsiasi tentativo di rivolta.

8. Città e civiltà Roma riteneva che il suo dominio racchiudesse l’intero mondo civilizzato e identificava la nozione di civiltà con quella di città. I Romani portarono la vita urbana in territori in cui era sconosciuta e vollero che le città, centro del territorio circostante, presentassero caratteristiche simili. Anfiteatri, teatri, templi, fori, tribunali, basiliche e, soprattutto, terme e acquedotti erano l’essenza stessa della città romana, chi fruiva di questi luoghi era considerato appieno cittadino. Anche la parola “barbaro”, nella mentalità romana, passò dal significato generale di “straniero” a quello di “selvaggio” e “inferiore”.

9. Gli eserciti dell’imperatore I cambiamenti riguardarono anche l’esercito, che divenne permanente e fu composto soltanto da professionisti della guerra. A Roma si fece stabile la presenza dei pretoriani, che spesso influirono sulla vita politica romana. Progressivamente, la presenza di legionari di origine italica si ridusse sempre nelle legioni, mentre cresceva quella dei soldati provenienti da ogni angolo dell’impero, attratti, tra l’altro, dalla concessione della cittadinanza romana. Tuttavia, l’imponente macchina bellica fu poco impiegata, a causa della drastica riduzione delle campagne militari di conquista.

10. Ricchezza delle province, decadenza dell’Italia A trarre vantaggio dal potere imperiale fu soprattutto l’economia delle province. Mercanti, proprietari fondiari e artigiani beneficiarono dell’enorme mercato unitario; fu loro garantita la sicurezza dei commerci e la presenza di infrastrutture che rendevano agevoli gli scambi, al pari di un unico sistema monetario. Mentre le province conoscevano una grande prosperità, i prodotti della penisola italica furono soppiantati da quelli delle altre regioni dell’impero, meno costosi. I piccoli proprietari fallivano, ma anche le grandi proprietà erano in crisi a causa della scarsità di manodopera schiavile. A questo rimediarono, in parte, abbandonando le colture più costose e affidando la terra in affitto a coloni.

11. Panem et circenses: come conquistare il popolo Durante l’impero fu fondamentale per gli imperatori ottenere il consenso popolare, specie in un’epoca in cui al popolo erano state sottratte tutte le antiche funzioni politiche. Per raggiungere questo scopo, gli imperatori promossero grandi lavori di edilizia pubblica e distribuzioni gratuite di cibo, e spesero grandi somme per offrire i giochi alla popolazione. Questa politica è bene riassunta dall’espressione di Giovenale panem et circenses, ‘pane e giochi’ appunto.

ESERCIZI Gli eventi 1. Completa la frase con l’espressione che ritieni corretta: 1. Con gli imperatori Antonini la successione...

2. Nei primi due secoli di principato, gli imperatori...

❏ a) fu di tipo dinastico;

❏ a) furono solo di origine italiana;

❏ b) fu decisa da conflitti sanguinosi;

❏ b) furono spesso in competizione con il senato;

❏ c) avvenne per adozione;

❏ c) ebbero come obiettivo principale le guerre di conquista;

❏ d) fu decisa dalle legioni.

❏ d) mantennero intatte le funzioni politiche svolte dal popolo.

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

73

3. A stabilire per legge le prerogative dell’imperatore fu...

5. A convertirsi al cristianesimo furono soprattutto...

❏ a) Tiberio;

❏ a) gli uomini facoltosi;

❏ b) Vespasiano;

❏ b) le massime autorità ebraiche;

❏ c) Antonino Pio;

❏ c) i militari e i membri delle élite locali;

❏ d) Claudio.

❏ d) i ceti sociali più modesti. 6. Durante il I e il II secolo il sistema di scambi commerciali...

4. L’imperatore Nerone... ❏ a) iniziò la conquista della Britannia;

❏ a) fu depresso dalla mancanza di infrastrutture;

❏ b) consolidò le frontiere dell’impero sul Danubio;

❏ b) aveva in Italia il più importante centro economico;

❏ c) garantì all’impero un lungo periodo di pace e prosperità;

❏ c) godeva dei benefici garantiti da un unico sistema monetario;

❏ d) promosse un’importante riforma monetaria.

❏ d) soffriva a causa dell’imponente apparato burocratico.

Il confronto 2. Inserisci correttamente le informazioni mancanti nel seguente schema dinastico, quindi, seguendo l’esempio, completa la successiva tabella indicando con una crocetta a quale imperatore corrispondono le azioni elencate: AUGUSTO ................................. DINASTIA .....................................

Dal 27 a.C. al 68 d.C.

CALIGOLA

Successione dinastica

................................. ................................ L’ANNO DEI QUATTRO IMPERATORI (68-69 d.C.) ................................. DINASTIA FLAVIA

Dal 69 al 96

TITO

Successione ......................

................................

NERVA ................................. DINASTIA DEGLI ...............................

Dal 96 al 192

................................ ANTONINO PIO ................................ ................................

74

Parte V L’impero greco-romano

Successione ....................

Claudio

Nerone

Vespasiano

Traiano

Adriano

Marco Aurelio x

Respinse un’invasione di Quadi e Marcomanni. Varò un’importante riforma monetaria. Fu messo al potere dalla guardia pretoriana. Costruì un imponente muro a guardia del confine a nord della Britannia. Sottomise la Dacia, convertendola in provincia. Ordinò la prima persecuzione di cristiani a Roma. Diede inizio alla conquista della Britannia. Sotto il suo regno fu iniziata la costruzione del Colosseo, portata a termine dal figlio. Era di origine ispanica. Durante il suo regno un’epidemia di vaiolo devastò l’impero. Stabilì per legge le prerogative dell’imperatore

Il lessico 3. Tenendo presente i contenuti del capitolo appena studiato inserisci il termine o l’espressione che corrispondono alle seguenti definizioni: ..................................................... Modalità di successione, mediante la quale l’imperatore sceglieva il proprio successore tra gli uomini più in vista dell’impero. ..................................................... Linea di confine che delimitava i domìni dell’impero. ..................................................... I membri delle élite locali che si occupavano di mantenere l’ordine, riscuotere i tributi e far rispettare i provvedimenti emanati da Roma. ..................................................... Termine di origine greca che definiva i diretti seguaci di Gesù. ..................................................... La personalità eletta dall’insieme dei fedeli, che guidava la comunità cristiana. ..................................................... I fedeli più stimati dalla comunità cristiana, che dirigevano le preghiere collettive. ..................................................... Luoghi pubblici adibiti all’igiene e alla cura del corpo, che divennero una vera e propria pratica sociale, luogo di incontro e scambi sociali. ..................................................... In epoca imperiale questo termine passò a designare, per i Romani, i “selvaggi”, “inferiori” che vivevano al di fuori del mondo civilizzato romano. ..................................................... Sistema che riorganizzava i grandi possedimenti fondiari, che venivano parcellizzati e affidati ad affittuari liberi. ..................................................... Processo di acculturazione, integrazione e assimilazione delle popolazioni sottomesse dai Romani.

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

75

I processi 4. Completa lo schema relativo al sistema economico inserendo correttamente le lettere relative ai termini e alle espressioni elencate; quindi, rispondi alle domande: a) Commerci;

e) Esportazioni;

b) Sistema produttivo;

f) Mercato unitario;

c) Sistema monetario;

g) Rete stradale;

d) Province;

h) Produzione agricola.

Una grande .......................

Un unico .......................

garantirono

Sicurezza nei .......................... Che favorì la creazione di

Infrastrutture

Enorme .......................... Dal quale si avantaggiò Che conobbe

L’economia delle .............................

Aumento della .............. e artigianale

Aumento delle ............................. questi fattori provocarono la

Crisi del ........ ............ italico

a) Da che cosa dipendeva l’aumento delle importazioni nella penisola italica? b) Che conseguenze ebbe la crisi produttiva sui piccoli proprietari italici? c) Per quale motivo anche i grandi proprietari fondiari entrarono in crisi? d) Come reagirono i latifondisti italici alla crisi?

76

Parte V L’impero greco-romano

Che conobbe

L’elaborazione scritta 5. Descrivi le caratteristiche principali e la diffusione della religione cristiana in un breve testo (max 30 righe), seguendo la seguente scaletta di frasi da completare: a) Il cristianesimo nacque in ............................................................. dalle predicazioni di .............................................................; b) Il messaggio di questa nuova religione era .............................................................; c) Benché all’inizio il cristianesimo rimase circoscritto al mondo ebraico, con Paolo di Tarso .............................................................; d) I primi a convertirsi furono principalmente .............................................................; e) Negli altri ceti sociali il cristianesimo faticò a diffondersi perché .............................................................; f) Le prime comunità cristiane erano organizzate .............................................................; g) In generale, il mondo romano guardava con sospetto i cristiani perché ..............................................................;

L’esposizione orale 6. Rispondi alle seguenti domande: 1) Come si sviluppò il rapporto tra imperatori e senato durante i primi due secoli di principato? 2) Che ruolo svolsero le città nel processo di romanizzazione dell’impero? 3) Quali fattori garantirono il successo dell’organizzazione territoriale e amministrativa dell’impero? 4) Quali trasformazioni segnarono l’organizzazione dell’esercito? 5) In che modo l’espressione coniata da Giovenale «panem et circenses» spiega il rapporto tra imperatori e consenso popolare?

Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero

77

PARTE VI

La tarda Antichità

A

partire dal III secolo l’impero romano cambiò molto. Attraversò un periodo di gravissimi problemi economici e fiscali, ma soprattutto militari e politici. Le legioni romane vennero battute da Germani e Persiani, molte province furono saccheggiate, una crisi politica senza precedenti colpì le istituzioni dello Stato e lo stesso trono imperiale, che fu conteso fra i generali dell’esercito. Minacciati da rivolte militari e contestati da usurpatori, gli imperatori legittimi spesso furono incapaci di governare su vaste parti dell’impero. Anche la religione tradizionale rivelò gravi limiti, mostrandosi inadeguata a rispondere alle nuove ansie religiose dei fedeli. Per mezzo secolo, dal 235 al 284, l’impero sembrò addirittura sul punto di sparire. Tuttavia il sistema aveva al suo interno immense risorse, e trovò il modo di risollevarsi. Una serie di riforme portò l’autorità dell’imperatore a livelli mai raggiunti in passato, cambiando radicalmente il modo di governare. Con due grandi sovrani, Diocleziano e Costantino, lo Stato riuscì come mai in passato a controllare la vita economica e sociale di tutte le province. Si dotò di una burocrazia vasta, formata da un gran numero di funzionari e impiegati, e mise in piedi strutture per governare e, soprattutto, per prelevare tasse e prodotti dagli abitanti. Cambiò anche la geografia politica dell’impero. Prese piede l’idea, destinata poi a condizionare per molti secoli la storia, che la parte occidentale e quella orientale avessero bisogno di governi separati; e il baricentro dell'impero si spostò verso oriente, dove Costantino creò una nuova grande capitale, Costantinopoli. La crisi della religione tradizionale si avviò a una soluzione ancora più radicale: la totale cristianizzazione. Gli imperatori divennero cristiani, e iniziarono a collaborare da vicino con la Chiesa, impegnandosi a proteggerla e anche a dirigerla.

In passato tutti questi cambiamenti sono stati considerati prove di decadenza. Poiché l’impero era ormai diverso da quello dei tempi di Augusto e degli Antonini, lo si giudicò inferiore, frutto della crisi e dell’involuzione. Ma poi ci si è resi conto che questo modo di pensare impediva di vedere quello che realmente erano stati i secoli dal III in poi: non secoli inferiori, ma un’età diversa, con caratteristiche sue proprie. Il nome scelto per definire quest’epoca nuova è stato “tarda Antichità”. Gli storici discutono sui limiti cronologici dell’età tardo antica, la posizione più diffusa però è che la tarda Antichità giunga almeno fino al VI secolo. Il mondo tardo antico conobbe certo difficoltà e fenomeni di decadenza. Ma per il resto la tarda Antichità fu un’epoca vitale, in continua trasformazione, sempre più complessa. Fu un groviglio di vecchio e di nuovo, un mondo in cui si incontrarono culture e religioni diverse, vennero elaborate soluzioni istituzionali nuove e robuste, il cristianesimo visse in sintonia con lo Stato, molte popolazioni barbare vennero accolte e integrate nei territori imperiali, contribuendo a cambiarne la natura.

Capitolo 14

Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano 1. Le cause della crisi

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Un affresco della crisi del III secolo?

Al centro di questo capitolo vi è un periodo di gravissima crisi e di enormi cambiamenti. Per mezzo secolo, dal 235 al 284, l’impero romano sembrò addirittura sul punto di sparire. Fu scosso da rivolte militari, esposto a invasioni straniere da terra e dal mare, diviso in più parti, minato nei suoi fondamenti religiosi dall’affermarsi di nuove fedi. Vide precipitare il prestigio e il potere degli stessi imperatori: circa quaranta usurpatori furono acclamati dagli eserciti; e tutti gli imperatori legittimi, tranne uno, furono assassinati o morirono in guerra. Accadde persino l’inimmaginabile: un imperatore, Valeriano, fu fatto schiavo dai nemici, e visse come schiavo per il resto della sua vita. Ma alla fine il sistema trovò il modo di risollevarsi. Una serie di riforme portarono l’autorità dell’imperatore a livelli mai raggiunti in passato, cambiando radicalmente il modo di governare. La crisi della religione tradizionale si avviò a una soluzione ancora più radicale: la quasi totale cristianizzazione dell’impero. Fino a poco tempo fa gli storici pensavano che la debolezza dell’impero nascesse da una crisi interna di tipo economico e demografico. Ritenevano che la peste bubbonica arrivata nel 165 dall’Oriente avesse avuto nei decenni successivi effetti devastanti, uccidendo milioni di persone, addirittura secondo alcuni storici la metà degli abitanti. Ad aggravare i disastri dell’epidemia sarebbero intervenute le incursioni dei popoli germanici in Europa e dei Persiani in Oriente. Il crollo dell’economia avrebbe completato il disastro. Cos’è cambiato nella lettura della crisi

Questa interpretazione si basava sui racconti degli scrittori antichi, che insistono sulle innumerevoli vittime della peste, sulle invasioni, sui campi deserti, sulle città in rovina, sul peso insopportabile delle tasse. Ma gli scavi archeologici, che ormai sono stati condotti in gran numero in ogni angolo dell’antico impero, confermano solo in parte un quadro così fosco. Solo in alcune province si trovano le tracce di una crisi economica e di un crollo della popolazione. L’abbandono dei campi e la decadenza delle città è evidente per esempio nelle province più esposte alle invasioni, come la Gallia, la Siria e la Pannonia (grosso modo l’attuale Ungheria). Altrove le cose appaiono molto migliori: sia le città che le fattorie e i villaggi restarono popolati e in buone condizioni. Anzi, in Africa e in Egitto la popolazione e la prosperità sembrano semmai aumentare. Gli studi sulla “peste” hanno poi dimostrato che si trattò in realtà di vaiolo: un’epidemia micidiale, ma certamente non così catastrofica da uccidere la metà degli abitanti. Insomma, i risultati delle indagini archeologiche indicano che, come del resto accade in ogni epoca, gli scrittori antichi insistettero molto sui

80

Parte VI La tarda Antichità

casi peggiori, più adatti a impressionare i loro lettori; ma un’immagine così negativa è valida soltanto per una parte dell’impero. A cosa attribuire, allora, la crisi del III secolo? Occorre lasciare da parte l’economia e l’andamento della popolazione. La crisi del potere imperiale fu provocata piuttosto dall’incapacità di resistere a nuove e più forti aggressioni armate provenienti dall’esterno, come vedremo più avanti [cfr. parr. 3-4]; a sua volta, questa inefficienza bellica determinò gravi disordini politici, che indebolirono l’esercito e il sistema di governo. La crisi ebbe dunque un’origine militare e politica, anche se, come sempre accade, le incursioni dei nemici e le lotte intestine influirono negativamente sulla vita economica e sociale.

1. Quali cause determinarono la crisi del III secolo secondo gli studi meno recenti? 2. Come viene invece spiegata attualmente questa crisi?

2. La dinastia dei Severi

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Settimio Severo e suo figlio Caracalla

La congiura che nel 192 aveva portato all’assassinio di Commodo era stata preparata con cura [cfr. cap. 13.4]. Ucciso il tiranno a mezzanotte, già la mattina il senato eleggeva il nuovo imperatore: Pertinace, uno stimato senatore. La sua politica finanziaria oculata lo indusse però a un errore fatale: diede ai pretoriani un donativo troppo basso rispetto a quello atteso dagli uomini della guardia imperiale che in cambio avevano sostenuto la sua ascesa. Insoddisfatti, dopo neanche tre mesi i pretoriani lo uccisero. Frutto della cupidigia e dell’improvvisazione, questo secondo colpo di Stato provocò una lotta civile fra i diversi pretendenti al trono acclamati dalle truppe. Dopo pochi mesi si impose a Roma il governatore della Pannonia, Settimio Severo, che era sostenuto dalle armate stanziate sul Danubio, e diede inizio alla nuova dinastia dei Severi. Settimio Severo (193-211) era espressione del mondo delle province e dell’esercito: era nato in Africa da una famiglia interamente di origine locale salita fino ai vertici della società romana; aveva svolto tutta la sua carriera nell’esercito; al sostegno delle legioni doveva anche il trono. Non meraviglia, di conseguenza, che abbia condotto una politica fondata proprio sulla valorizzazione dell’esercito e dei ceti dirigenti provinciali. L’esercito venne accresciuto e circondato di cure. Il soldo fu aumentato, furono istituiti nuovi premi e onori per i meritevoli e i soldati ricevettero importanti diritti, come quello di sposarsi durante gli anni di servizio. Ufficiali e soldati provenienti dalle province ottennero uno spazio sempre maggiore. Il cambiamento apparve subito evidente a Roma, dove una delle prime decisioni di Settimio Severo fu quella di congedare i pretoriani, fino a quel momento scelti solo fra gli Italici, sostituendoli con truppe provenienti dalle sue fidate legioni danubiane. Per le cariche maggiori, quelle prefettizie, cercò di scegliere comandanti esperti, con una lunga carriera alle spalle. Secondo questo personaggio di origine provinciale il senato e

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano



Busto di Settimio Severo III sec. Kunsthistorisches Museum, Vienna

81

l’orgogliosa aristocrazia romana avevano un’importanza eccessiva. Con una serie di provvedimenti il ruolo del senato fu ridotto a ben poco, poiché quasi tutte le leggi erano decise dall’imperatore. Inoltre epurazioni (cioè rimozioni) dei senatori sgraditi e nuove nomine cambiarono la composizione dell’antica assemblea, dando per la prima volta la maggioranza non più ai Romani e agli Italici, ma ai senatori originari delle province. Le cure accordate all’esercito pesarono molto sulle finanze imperiali, ma diedero buoni risultati. Settimio Severo sbaragliò con facilità, nel 195 e nel 197, i pretendenti al trono imperiale che ancora resistevano nelle lontane province della Britannia e della Siria, e poi attaccò con successo il regno dei Parti, al quale fu sottratta per qualche tempo la Mesopotamia. Consolidò inoltre il limes imperiale lungo il Danubio e in Britannia ai confini con la Scozia. La morte lo colse proprio mentre combatteva in Britannia, assieme ai due figli, Caracalla e Geta, nominati entrambi eredi. La soluzione dinastica prevaleva dopo quella dell’adozione che si era affermata con gli Antonini. Il trono però passò solo a Caracalla (211-217), che si era affrettato a uccidere il fratello minore. Gli storici antichi legati al senato parlano molto male di questo imperatore, che a ventitre anni arrivò al potere con l’omicidio e accentuò la politica antisenatoria di Settimio Severo. Tuttavia Caracalla portò avanti con efficacia le riforme intraprese dal padre sia in ambito economico che militare. Inoltre nel 212 emanò il celebre editto di Caracalla, un provvedimento destinato a cambiare il volto del mondo romano: la cittadinanza romana veniva concessa a tutta la popolazione libera dell’impero. Gli scrittori antichi legati al senato insi-



Busto di Caracalla 215-217 Musei Capitolini, Roma

Tutti uguali davanti alla legge? L’Editto di Caracalla del 212 coronava il secolare processo di romanizzazione. Esso prendeva atto che l’antica distinzione fra cittadini e provinciali era ormai del tutto anacronistica, e che tutti i sudditi dell’impero potevano essere accomunati dalla cittadinanza romana. Esclusi dalla cittadinanza restavano soltanto i prigionieri e gli immigrati barbari accolti nell’impero per grazia dell’imperatore, nonché i nomadi dei deserti e gli abitanti delle montagne e di altre aree isolate rimasti ai margini della civiltà romana. I cittadini però non erano uguali davanti alla legge. Ora che la cittadinanza non era più un privilegio di pochi, venne applicata in modo sistematico la distinzione fra honestiores e humiliores che era comparsa già nel secolo precedente. Gli honestiores erano gli uomini ricchi e importanti, che nei processi e di fronte alla legge andavano trattati con ogni cautela; gli humiliores erano i cittadini comuni, sui quali i magistrati potevano agire senza remore, ricorrendo anche alla tortura quando venivano citati in giudizio come imputati e persino come semplici testimoni. Queste distinzioni oggi ci paiono ingiuste, ma erano considerate del tutto normali in un mondo che giudicava la ricchezza e il potere come qualità che attestavano la virtù di un uomo e della sua famiglia, mentre la povertà era vista come una condizione da condannare e una prova di scarso merito. Almeno, questa era l’immagine condivisa dalle classi sociali elevate e da tutte quel-

82

Parte VI La tarda Antichità

le che aspiravano a salire nella scala sociale; cosa pensassero i contadini e lavoratori più umili ci è ignoto, ma è possibile che anch’essi avessero finito per credere almeno in parte alla giustezza di queste discriminazioni. Anche a scuola veniva insegnato che il mondo doveva andare proprio in questo modo, e che dunque lo Stato faceva bene a trattare in maniera così diversa i suoi cittadini. Vediamo per esempio che cosa dice un libro di testo per i bambini di lingua greca che dovevano imparare il latino, e viceversa. Risale all’inizio del IV secolo e ha lo scopo non solo di insegnare le lingue, ma anche di far conoscere ai giovani alcuni princìpi base del funzionamento del mondo imperiale. Ecco il passo che i bambini recitavano per imparare le parole latine e greche relative alla giustizia e ai suoi metodi violenti (ma solo contro chi era umile e non aveva protettori!): «Il ladro colpevole è portato in tribunale e interrogato così come merita; è torturato, colpito dal torturatore, il suo petto è ferito, viene appeso, battuto con bastoni, flagellato e sottoposto a tutta una serie di torture; e tuttavia continua a negare. Deve essere punito: il giudice lo condanna a morte. Poi viene un altro imputato, innocente, che ha molti protettori e accompagnatori influenti: questi ha buona fortuna, e viene assolto. I testimoni chiamati a sostenerlo sono lasciati andare senza essere torturati».

nuarono che l’imperatore in questo modo volesse estendere ai provinciali la tassa di successione che gravava solo sui cittadini. Sembra però una notizia falsa, o quantomeno parziale. Forse è più vicina al vero la motivazione ufficiale dell’editto, che parla della volontà di accrescere la gloria del popolo romano e dei suoi dèi grazie all’aumento dei cittadini. La romanizzazione e la politica di assimilazione e integrazione avevano sostanzialmente sortito i loro effetti e Caracalla sanciva ufficialmente un dato di fatto. I bisogni finanziari dell’impero continuavano a crescere. Le spese erano determinate dai lavori pubblici (fra i quali le immense terme fatte costruire a Roma dall’imperatore), dall’amministrazione e, soprattutto, dall’esercito. I provvedimenti a favore dei soldati e l’aumento della loro paga non furono però sufficienti a mettere al sicuro Caracalla. Nel 217, mentre guidava una spedizione contro il regno dei Parti, l’imperatore fu pugnalato dal prefetto del pretorio, Macrino, a capo di un complotto di ufficiali. I giovanissimi Elagabalo e Alessandro Severo

Contando sul fatto che Caracalla era privo di figli e altri eredi diretti, Macrino (217218) si fece acclamare imperatore dalle truppe stanziate in Oriente. Tuttavia le donne dei Severi e i sostenitori della dinastia non si rassegnarono alla perdita del trono. La zia di Caracalla, Mesa, e sua figlia, Soemia, fecero leva sul malcontento suscitato dalla politica militare di Macrino, che era stato sconfitto dai Parti e aveva ottenuto la pace pagando un riscatto al nemico. A Macrino venne contrapposto un giovinetto appena quattordicenne che, in quanto figlio di Soemia, poteva vantare una parentela diretta con i Severi (si disse inoltre che era figlio illegittimo dello stesso Caracalla). Il grosso dell’esercito si schierò dalla sua parte, e nel giro di pochi mesi Macrino fu sconfitto e ucciso. Il nuovo imperatore, Elagabalo (218-222), regnò dai quattordici ai diciotto anni, ma fu una semplice marionetta nelle mani della madre e dei suoi consiglieri. Cercò di introdurre a Roma il culto del dio Sole venerato in Siria, El Gabal, del quale era sacerdote e da cui veniva anche il nome di Elagabalo. Questa politica religiosa suscitò l’ostilità della maggioranza dei Romani, che inoltre erano scandalizzati dagli eccentrici comportamenti del giovanissimo sovrano. Venne orchestrata una vera e propria campagna di diffamazione. Si disse che il giovane imperatore era crudele e dissoluto, che sacrificava al dio Sole ragazzi della nobiltà romana, che era omosessuale, anzi ermafrodito, cioè dotato degli organi sessuali di entrambi i sessi. Lo scandalo giunse a tal punto che la previdente nonna, Mesa, fece affiancare Elagabalo sul trono con un altro suo nipote, Alessandro Severo. Di lì a poco i pretoriani uccisero Elagabalo assieme alla madre, gettandone i cadaveri nella Cloaca Massima, la grande fogna che attraversava la città. Alessandro Severo (222-235) fu l’ultimo imperatore della dinastia dei Severi. Anch’egli salì al trono molto giovane (tredici anni secondo alcune fonti, sedici secondo altre) e nel governo seguì i consigli della nonna e della madre, Mamea. Aiutato da collaboratori eccellenti, come il grande giurista Ulpiano, condusse una politica volta a ripristinare almeno in parte le prerogative del senato e a garantire una buona amministrazione. I primi anni di regno trascorsero in pace, salvo alcune ribellioni interne

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano



Alessandro Severo a caccia 230 Cleveland Museum of Art, Cleveland, Ohio, Usa In questa coppa è raffigurato un giovane a cavallo mentre caccia, identificato da alcuni studiosi con Alessandro Severo anche in base all’iscrizione: Alexander homo felix pie zeses cum tuis («Alessandro, uomo felice, vivi degnamente con i tuoi fedeli»).

83



Massimino il Trace III sec. Musei Capitolini, Roma La scultura esprime con vigore la personalità di questo imperatore-soldato rude e deciso. In perfetta sintonia con i tempi, caratterizzati da continui sconvolgimenti interni e attacchi esterni, Massimino e i suoi successori non si fanno più rappresentare con i sereni tratti idealizzati propri dell’arte dei primi secoli dell’impero, offrendo un’immagine di sé severa, segnata dalla responsabilità dell’autorità suprema, ma anche forte e volitiva.

dovute alle crescenti difficoltà finanziarie, che avevano costretto ad aumentare le tasse e a diminuire la paga dei soldati. In quegli anni si verificò in Oriente un avvenimento epocale, che molto avrebbe condizionato la storia dell’impero nei secoli successivi: nel 224 sul trono iranico avvenne un cambio di dinastia. L’ultimo esponente degli Arsacidi, la dinastia dei re dei Parti salita al potere intorno al 250 a.C., fu sconfitto in battaglia e ucciso dal fondatore di una nuova dinastia persiana, quella dei Sasanidi. Il programma della nuova dinastia era semplice: riconquistare tutti i territori che i Romani avevano sottratto all’impero persiano nel corso dei secoli precedenti. A Roma si capirono le devastanti conseguenze di questo cambio di dinastia solo con qualche anno di ritardo. Tra il 230 e il 233 Alessandro Severo organizzò una spedizione in grande stile, che avrebbe dovuto schiacciare qualsiasi velleità persiana di conquistare le province romane orientali. Vennero fatte affluire in Oriente molte truppe provenienti dai confini lungo il Reno e il Danubio e da altre province, e l’attacco fu preparato nei dettagli. La spedizione andò però male a causa delle indecisioni dell’imperatore: i Persiani furono sconfitti solo di misura e a prezzo di grandi perdite. La fiducia fra esercito e sovrano era ormai incrinata, tanto più che molti sconfinamenti dei Germani rivelavano che anche l’idea di sguarnire i confini lungo il Reno e il Danubio era stata azzardata. Nel 235 Alessandro Severo fu ucciso dai soldati assieme alla madre mentre si trovava sul confine settentrionale. Con la sua morte ebbe fine la dinastia dei Severi.

1. Che cosa prevedeva l’editto di Caracalla? 2. In che modo l’arrivo della dinastia persiana Sasanide si ripercosse sul mondo romano?

3. L’anarchia militare

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Massimino il Trace

Nei decenni successivi l’impero precipitò in una crisi sempre più profonda, sfiorando più volte la catastrofe. “Anarchia militare”, il termine con il quale è chiamato questo periodo, indica bene la gravità di una situazione durante la quale il titolo imperiale venne conteso fra il senato e le legioni, e poi fra i comandanti delle truppe stanziate nelle diverse province. Gli imperatori nominati dall’esercito potevano magari essere degli ottimi capi militari, ma mancavano del prestigio e della legittimità necessari a farli rispettare. Era facile trovare un altro generale desideroso di eliminarli e prenderne il posto. Il minore prestigio di questi imperatori risulta chiaro già con Massimino il Trace (235238), l’ufficiale dell’esercito acclamato dalle truppe come successore di Alessandro Severo. Fino a quel momento il titolo imperiale era sempre toccato a personaggi della nobiltà senatoria o comunque di buona famiglia. Massimino invece proveniva da una famiglia umile, al punto che secondo alcune fonti da bambino l’imperatore avrebbe addirittura fatto il pastore. Era nato in una delle province meno romanizzate e più povere, la Tracia, e aveva percorso la carriera militare partendo dai gradi più bassi. La sua preparazione culturale era davvero scarsa e ignorava del tutto il greco. A suo vantaggio aveva però la fama che gli proveniva da una forza fisica impressio-

84

Parte VI La tarda Antichità

 Sarcofago Ludovisi III sec. Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps, Roma A partire dalla fine del II secolo, quando emerse il problema della difesa dei confini dell’impero dalla penetrazione delle popolazioni germaniche, si diffuse la tendenza a rappresentare nell’arte grandiose battaglie in cui i nemici venivano schiacciati dai Romani. Il grande sarcofago Ludovisi, di cui si conserva la sola cassa senza il coperchio, ritrae con toni accesi e cruenti uno scontro tra l’esercito romano e i Germani.

nante e, soprattutto, una grande capacità di comando militare. La scelta di un imperatore così estraneo alla mentalità romana mostra quanto gli ufficiali dell’esercito fossero preoccupati delle nuove minacce che incombevano sull’impero. Non soltanto in Oriente toccava adesso fare i conti con l’aggressiva dinastia sasanide, ma notizie di cambiamenti pericolosi giungevano anche dai territori situati oltre il Reno e il Danubio. Al di là del Reno, la minaccia era determinata da una rivoluzione politica interna al mondo germanico. Per secoli i Germani erano stati divisi in piccole tribù, eternamente in dissidio fra loro e dunque militarmente deboli, salvo i rari casi in cui stabilivano una precaria alleanza. Ma proprio durante l’epoca dei Severi le tribù germaniche avevano imparato a mettere da parte le ostilità, dando vita a grandi confederazioni destinate a condurre guerre di attacco a Roma. Anche i nomi dati a queste confederazioni testimoniano il desiderio di creare un’organizzazione comune: gli Alamanni, che vuol dire ‘tutti gli uomini’, si costituirono lungo il corso meridionale del Reno, e più a nord i Franchi, cioè ‘i coraggiosi’. Più ad est, nel bacino del Danubio, nuove popolazioni germaniche più aggressive e meglio organizzate, come i Vandali e i Goti, avevano sostituito quelle fino ad allora stanziate oltre il confine, abituate a una convivenza relativamente pacifica con l’impero. Cosa forse ancora più grave, adesso i guerrieri che attaccavano l’impero provenivano non solo dai popoli vicini al confine, ma anche da territori lontani, situati all’interno del continente: insomma, la base del reclutamento delle bande che si misero a saccheggiare l’impero era l’intero mondo germanico. Questo spiega il gran numero degli attaccanti e la loro capacità di rimettere in campo nuove forze anche dopo le sconfitte più dure. Per neutralizzare un simile pericolo, la soluzione era un’offensiva che si spingesse in profondità all’interno del mondo di quelle popolazioni. Massimino e i suoi ufficiali avrebbero addirittura progettato di giungere fino al Mar Baltico. Ma una simile politica richiedeva grandi somme di denaro, e quindi pesanti tasse. I contribuenti iniziarono subito a protestare, a partire dai senatori e dai grandi proprietari. Una rivolta violenta scoppiata in Africa ottenne nel 238 il sostegno della popolazione e del senato, che depose l’imperatore. I generali di Massimino soffocarono la ri-

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano

85

volta africana, mentre l’imperatore guidò l’esercito verso l’Italia. Ma la situazione delle sue legioni era pessima: mancavano i rifornimenti e generale era l’ostilità della popolazione. Alla fine Massimino fu ucciso dai suoi stessi soldati mentre assediava Aquileia. Verso la disgregazione dell’impero?

Dopo la sua morte la situazione andò ancora peggiorando. Con la rivolta del 238 la società romana aveva rifiutato una politica che desse il primato alle preoccupazioni militari, al prez-

Un imperatore schiavo

La

voce

PA SSA TO del

Lo storico deve sempre sottoporre a un esame critico le fonti trasmesse dal passato. Il suo scopo non è soltanto quello di individuare eventuali documenti falsi, ma anche di capire cosa le fonti autentiche scelgono di raccontare e cosa scelgono di tacere, e soprattutto perché raccontano quella data versione dei fatti. Per esempio, le fonti di origine persiana, romana e cristiana presentano in tre modi davvero diversi la cattura e la prigionia di Valeriano da parte del re persiano Shapur. Le fonti persiane sono costituite soprattutto da una lunga iscrizione che orna la tomba di Shapur, raccontandone le vittorie in greco, persiano e parto. Il testo è stato chiamato Imprese del divino Shapur. Ecco il brano relativo alla cattura dell’imperatore. È illustrato da un bassorilievo che mostra il re a cavallo mentre tiene prigioniero Valeriano, ed è preceduto dall’elenco delle venticinque province romane da cui proveniva l’esercito sconfitto, forte di 70.000 uomini. Una grande battaglia fu combattuta tra Carre ed Edessa tra noi e il Cesare Valeriano, e noi lo catturammo facendolo prigioniero con le nostre mani, così come il prefetto del Pretorio, i senatori, i generali e tutti gli ufficiali dell’esercito: tutti furono presi prigionieri e deportati in Persia. [M. Sprengling, Shahpuhr I, the Great on the Kaabah of Zoroaster, in The American Journal of Semitic Languages and Literatures, vol. 57, Chicago 1940, p. 379; trad. a cura degli autori]

Il testo persiano è volto a celebrare la grandezza del sovrano defunto, e non parla della condizione di Valeriano durante la prigionia. Per gli autori cristiani la sorte capitata all’imperatore era viceversa della massima importanza, perché ai loro occhi rappresentava senza dubbio una punizione divina

Parte VI La tarda Antichità

per le sue persecuzioni contro i seguaci di Cristo: Valeriano aveva creduto di risolvere alcuni aspetti della crisi del mondo romano sostenendo il ritorno alla tradizione anche in campo religioso e perseguendo i cristiani che divenivano sempre più numerosi (lo vedremo a breve: cfr. par. 5). Alcuni, come Eusebio da Cesarea, raccontano che, schiavo, Valeriano era oggetto di sberleffi e insulti; altri come Aurelio Vittore sostengono che sarebbe stato scorticato vivo. Il più accanito contro la memoria dell’imperatore Valeriano è tuttavia un grande scrittore cristiano, Lattanzio, che intorno al 320 scrisse un’opera incentrata proprio sul racconto delle morti ingloriose inflitte da Dio agli imperatori colpevoli di avere perseguitato i cristiani, La morte dei persecutori. A suo dire Valeriano sarebbe stato utilizzato come sgabello vivente da Shapur per salire a cavallo; morto, sarebbe stato scuoiato, riempito di paglia e affisso in un tempio persiano come simbolo del trionfo sui Romani. Ecco quanto scrive Lattanzio: Dio lo colpì con un nuovo e strano tipo di punizione, perché testimoniasse ai posteri che gli avversari di Dio ricevono sempre degna ricompensa dei loro delitti. Fatto prigioniero dai Persiani, perse non solo il potere di cui tanto aveva abusato, ma anche la libertà di cui aveva privato gli altri, e visse in un’ignominosa schiavitù. Infatti il re persiano Shapur, che lo aveva catturato, tutte le volte che voleva salire su un cocchio o un cavallo ordinava al Romano di chinarsi e offrirgli la schiena; montandovi col piede sopra, ridendo diceva che quella era la vera storia, e non quanto i Romani raffiguravano negli affreschi o sui dipinti. [...] Poi, quando Valeriano terminò la sua ignominosa vita in un simile disonore, venne scuoiato e la sua pelle, tinta di rosso, fu messa in un tempio degli dèi barbari a ricordo di quell’eccezionale

zo di tasse elevate, e l’aristocrazia romana era ritornata al potere. Questo gruppo dirigente era però incapace di portare avanti l’attacco in grande stile ai Germani voluto da Massimino: per farlo sarebbe stato necessario rafforzare l’esercito senza badare alle spese e ai privilegi dei maggiori contribuenti, cioè in primo luogo proprio degli stessi aristocratici. Gli imperatori non furono più in grado di svolgere le funzioni principali, che bene o male fino ad allora erano riusciti a compiere: difendere i confini e far funzionare la macchina dello Stato. Nessuna personalità sembrava capace di risolvere una situazione che diveniva sempre più seria.



Il trionfo di Shapur di Persia su Filippo l’Arabo e Valeriano 260 Nagsh-i Rustan, Persepoli, Iran Shapur I fece immortalare le sue vittorie sui Romani in cinque grandi rilievi rupestri nella regione della capitale Persepoli. In questo rilievo, significativamente realizzato presso la tomba del grande imperatore persiano Dario I, Shapur è ritratto a cavallo mentre riceve l’omaggio e la sottomissione di Filippo l’Arabo, che gli si inginocchia innanzi; stringe, invece, con la destra le mani giunte di Valeriano a simboleggiare la cattura dell’imperatore romano.

trionfo e perché potesse essere sempre mostrata come ammonimento agli ambasciatori romani. [Lattanzio, La morte dei persecutori, V, 1-6, trad. a cura degli autori]

La tradizione romana cercò invece di rendere meno gravosa la catastrofe. Si inventò allora che la cattura di Valeriano sarebbe avvenuta in seguito a un tradimento da parte di Shapur ai danni d’un imperatore colpevolmente ingenuo:

Valeriano, volendo mettere fine alla guerra con donazioni di denaro, inviò ambasciatori a Shapur, che però li rimandò indietro senza aver concluso nulla, chiedendo invece di incontrarsi con l’imperatore romano per discutere di persona con lui. Accettata le risposta senza riflettere, Valeriano si recò da Shapur in modo incauto insieme a pochi soldati e fu catturato all’improvviso dal nemico. Morì prigioniero tra i Persiani, causando grande disonore al nome romano presso i suoi posteri. [Zosimo, Storia nuova, I, 36.2, trad. a cura degli autori]

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano

87

 Busto di Gordiano III 238-244 Da Ostia Antica; Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo, Roma

inflazione

Con questo termine (dal latino inflatio, ‘gonfiamento’) si indica il processo di aumento dei prezzi.

88

Con Gordiano III (238-244), un giovanissimo imperatore guidato da influenti senatori, la situazione economica si aggravò, le entrate dello Stato divennero sempre più insufficienti e il reclutamento di nuove truppe fra i cittadini più difficile. L’impero riuscì comunque ad agire unitariamente e a fronteggiare in qualche modo i pericoli esterni. L’esercito fu rafforzato assoldando come mercenari molti Germani. I barbari vennero provvisoriamente fermati e fu organizzata nel 243 una spedizione contro il re persiano Shapur I (i Romani lo chiamavano Sapore) per riconquistare la Mesopotamia. All’inizio i Persiani furono ripetutamente battuti in molti piccoli scontri, ma quando infine i due eserciti si scontrarono nella grande battaglia di Misiche, nel 244, i Romani ebbero la peggio. Lo stesso Gordiano morì per le ferite riportate nello scontro. Nella situazione di assoluta emergenza, le truppe acclamarono imperatore il prefetto del pretorio, Filippo detto l’Arabo (244-249) perché originario della provincia romana dell’Arabia. Ottenuta la pace con Shapur grazie al pagamento di un cospicuo tributo in oro, il nuovo imperatore si affrettò a tornare a Roma. Qui organizzò sontuosi festeggiamenti per celebrare il millesimo anniversario della fondazione di Roma, che secondo la tradizione antica era avvenuta nel 753 a.C. Migliaia di gladiatori e di belve parteciparono ai giochi. Nell’esercito, però, l’insoddisfazione montava. Lungo i confini le truppe erano sottoposte a una crescente pressione del nemico, mentre l’inflazione riduceva il potere d’acquisto del soldo versato ai legionari. Il mestiere di soldato era ormai diventato rischiosissimo e di poco profitto. Le legioni della Pannonia si ribellarono, proclamando imperatore il loro generale, Decio (249-251), che venne in Italia con truppe fedeli, sconfisse Filippo l’Arabo e l’uccise. Nel periodo successivo l’Impero divenne in pratica ingovernabile. Ciò che fino a quel momento era stata un’eccezione si trasformò in norma: i soldati e gli ufficiali proclamavano imperatore il proprio comandante, sicuri di ricevere doni e promozioni. Se poi restavano insoddisfatti, lo eliminavano per puntare su un nuovo candidato. Accadeva inoltre che le legioni situate in diverse parti dell’impero eleggessero ciascuna un proprio imperatore. Lotte civili terribili si scatenavano allora fra i candidati, e le legioni combattevano fra loro all’interno dell’impero, devastandone i territori e trascurando la difesa dai nemici esterni. Nessuno diede per esempio fastidio ai Goti che tra il 261 e il 262, dopo avere razziato i territori del Mar Nero, con semplici barche da pescatori entrarono nel Mediterraneo e depredarono per bene l’Asia Minore: nei mesi precedenti, le lotte fra due contendenti al trono avevano fatto piazza pulita degli eserciti romani nei Balcani e in Asia Minore. Furono anni di continue calamità. A metà secolo ricomparve un’epidemia letale, Decio morì combattendo contro i Goti, il re persiano Shapur invase la Siria e avanzò in Asia Minore, lungo il Danubio e il Reno gli attacchi di Goti e altri popoli germanici si succedeva-

Parte VI La tarda Antichità

no senza tregua, mentre le legioni combattevano fra loro per imporre i propri candidati. Con Valeriano (253-260) alcuni iniziali successi militari contro i Persiani si trasformarono in una catastrofe quando, nella battaglia combattuta nel 260 ad Edessa per difendere la riconquistata provincia di Siria, l’imperatore fu sconfitto e fatto schiavo da Shapur. L’enormità di questo evento scatenò una reazione a catena dirompente, che sembrò mettere fine all’unità stessa dell’impero. Le armate schierate ai confini, prese dal panico, cercarono la salvezza proclamando una serie di usurpatori. Molti vennero uccisi dai nemici o si eliminarono a vicenda, ma l’imperatore legittimo, Gallieno (260-268) dovette di fatto rinunciare a governare metà dell’impero. In Occidente l’usurpatore Postumo aveva creato lo Stato autonomo detto “impero delle Gallie”, che oltre alla Gallia comprendeva la penisola iberica e la Britannia. Tutto l’Oriente era passato sotto Odenato, il capo della fiorente città di frontiera di Palmira che era riuscito a cacciare l’esercito persiano; formalmente governava per conto dell’imperatore, ma di fatto era un sovrano autonomo e aveva il titolo di re.

1. Per quale motivo fu deposto Massimino il Trace? 2. In quale contesto si moltiplicarono le scorrerie dei Germani e gli attacchi dei Persiani?



Arco monumentale sulla via di Palmira III sec. Nel corso del I secolo d.C. Palmira assunse il primato nei traffici commerciali con il regno dei Parti, con l’India, con l’Estremo Oriente. Intorno al 225 il potere si concentrò nelle mani di un importante casato che con Odenato assunse formalmente il compito di difendere tutto l’Oriente romano dai Persiani e dagli usurpatori, ottenendo pieno successo.

La crisi dell’impero BRITANNIA

Fr

Van da gi i un t n u n I a Marcomanni am Al Quadi Sarmati ZIA PAN RE NO Milano NI A Goti DA L IL M MAR NERO LI A RI ZI CO A MESIA Bisanzio Roma PONTO

li

nd

u rg

i

A R C A SP IO

AZIA

BITINIA

Atene

AFRICA

AL

ASIA

Cartagine

P A L M I R A

IA

MACEDONIA

Efeso G LICIA

Sparta

Antiochia

Province soggette a Odenato Palmira

Ctesifonte

Stato autonomo soggetto a Postumo

D I

MAR MEDITERRANEO

Territori dell’impero (dopo il 260)

REGNO SASANIDE

Cirene

Regno sasanide

O

Alessandria

Pressioni persiane sui confini

E

EGITTO

Nilo

CIRENAICA

G

N

Invasioni dei popoli germanici

R

MAURETANIA

M

AL IT

SPAGNA

Bu

chi an

GALLIA

Germani

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano

89

4. La ripresa dell’impero e Diocleziano

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Gallieno e gli imperatori-soldato dell’Illiria



Il Palazzo di Diocleziano a Spalato Disegno ricostruttivo di Ernest Hébrad, Parigi 1912 Presumibilmente tra il 293 e il 305, Diocleziano fece erigere a Spalato, città in cui nacque, la sua dimora personale che abitò fino all’anno della morte (316). Strutturato come quello di una cittadella fortificata (difatti costituisce il nucleo dell’antico centro storico della città), l’impianto era protetto da mura poderose intervallate da torrioni e porte d’accesso. All’interno si dislocavano vari edifici tra cui la residenza personale dell’imperatore, dotata di una basilica privata e di una terma, un tempio, e il mausoleo imperiale. La cittadella presenta la pianta tipica degli accampamenti militari romani, con due strade perpendicolari e intersecate, il cardo e il decumanus.

Nonostante i rovesci militari e le lacerazioni interne, il grande e prospero organismo creato nei secoli precedenti da Roma disponeva ancora di molte energie. Postumo in Gallia, Odenato in Oriente e Gallieno lungo il Danubio respinsero numerosi attacchi dei nemici esterni, anche se a volte i saccheggiatori germanici riuscivano a penetrare in profondità nell’impero prima di essere costretti alla fuga. Anche l’Italia fu colpita, mentre i Goti saccheggiarono la Grecia bruciando nel 267 Atene, centro della cultura del mondo mediterraneo. La crisi spinse Gallieno a intraprendere importanti riforme. Sul piano militare, rafforzò la cavalleria, che era indispensabile per raggiungere in breve tempo le schiere barbare che entravano nell’impero. Il sistema difensivo romano cambiò natura, smettendo di basarsi solo sulla difesa del limes, cioè di una linea di confine fortificata, per passare a una difesa in profondità: anche centri lontani dalle frontiere furono dotati di fortificazioni e truppe, in modo da resistere fino all’arrivo della cavalleria e degli altri reparti di pronto intervento. Sul piano politico, poi, l’imperatore vietò ai senatori di comandare le legioni. Ebbe così fine l’antichissima tradizione romana secondo cui i senatori erano allo stesso tempo amministratori civili e comandanti militari: da allora il potere civile e le funzioni militari sarebbero stati distinti. Nel 268 Gallieno fu ucciso in un colpo di Stato organizzato da ufficiali provenienti dall’Illiria, una zona dei Balcani molto esposta agli attacchi germanici, che misero sul trono un imperatore del proprio gruppo, Claudio II (268-270). Iniziò così una serie di imperatori-soldato di origine illirica: personalità rudi, ma abituate al comando delle truppe e sensibili alle necessità della difesa militare. Sui campi di battaglia l’esercito romano andava ritrovando la sua superiorità. Già Gallieno aveva trionfato sui Goti a Naisso, nel 267; negli anni successivi i barbari furono massacrati senza pietà da Claudio II quando tornarono in massa assieme alle famiglie, per la prima volta intenzionati non solo al saccheggio, ma a un vero e proprio trasferimento nei territori imperiali. Per celebrare la vittoria, Claudio ottenne il titolo di “Gotico Massimo”. L’imperatore successivo, Aureliano (270-275), era il comandante della cavalleria. Abbandonata la Dacia, provincia situata oltre il Danubio e ormai non più difendibile, concentrò tutte le energie per ricacciare con successo vari popoli barbari e, inoltre, per porre fine agli Stati autonomi di Palmira in Oriente e delle Gallie in Occidente. L’impero ritrovava così la sua unità. Diocleziano e la tetrarchia

Continuava tuttavia una forte instabilità istituzionale. Aureliano e anche i suoi successori caddero vittime di congiure ordite dagli ufficia-

90

Parte VI La tarda Antichità

li dell’esercito. La svolta avvenne infine nel 285, quando un ufficiale di origine illirica prese il potere dopo avere ucciso in battaglia l’imperatore del momento, Carino. Il nuovo imperatore assunse il nome di Diocleziano (285-305). Nella storia di Roma cominciava una nuova epoca. Diocleziano riuscì dove i suoi predecessori, militari di carriera come lui, avevano fallito: diede stabilità e sicurezza all’impero. Questo risultato fu raggiunto attraverso una serie impressionante di riforme, in ogni campo: il sistema fiscale fu reso più efficiente, l’apparato amministrativo venne ampliato e migliorato, la divisione in province fu razionalizzata, le truppe aumentarono in numero ed efficienza, l’intervento dello Stato nella vita economica divenne massiccio (ci torneremo nei paragrafi successivi: cfr. parr. 7-9). L’autorità dell’imperatore crebbe a livelli mai conosciuti in passato. Da Augusto in poi, gli imperatori avevano sempre dovuto lasciare un certo potere, più o meno grande a seconda del momento, al senato e all’esercito. Formalmente essi si dichiaravano “principi”, cioè primi fra i cittadini. Ma con Diocleziano l’imperatore divenne un sovrano con poteri assoluti, che controllava l’esercito e lasciava al senato soltanto una funzione di rappresentanza. La nuova concezione del potere imperiale si manifestava anche esteriormente: l’imperatore indossava abiti lussuosi, viveva fra lo sfarzo in palazzi chiusi anche ai maggiori senatori, poteva essere avvicinato soltanto in casi eccezionali e rispettando un cerimoniale simile a quello dei sovrani orientali, compreso l’umiliante rituale della prosky`nesis, l’inchino fino a terra. Mise da parte definitivamente la maschera di princeps e assunse il titolo di dominus, ‘signore’ assoluto: per questo gli storici affermano che con Diocleziano l’impero passò dal “principato” al “dominato”. Tutti questi successi furono resi possibili da un nuovo sistema di comando, detto “tetrarchia”, cioè governo dei quattro. Le travagliate vicende dell’ultimo secolo avevano mostrato con chiarezza che un solo imperatore non era in grado né di governare e difendere l’immenso impero, né di impedire i colpi di Stato. Era molto meglio che a suo fianco sul trono sedesse un co-imperatore di fiducia, possibilmente suo stretto parente. Nella difesa dai nemici, le possibilità di vittoria crescevano se le truppe erano comandate direttamente dall’imperatore. Già Valeriano, per esempio, aveva voluto essere affiancato dal figlio Gallieno, nominato “secondo Augusto”, lasciandolo a presidiare i territori occidentali dell’impero mentre lui andava a combattere (e morire) in Oriente. In questo modo era possibile diminuire anche il pericolo di congiure: non solo la nomina di un altro Augusto rendeva chiaro a tutti il successore designato, ma ogni aspirante usurpatore sapeva che, eliminato con la congiura un imperatore, avrebbe immediatamente subìto la reazione dell’altro. Diocleziano portò al massimo sviluppo questo sistema. Dopo un anno, nel 286, associò alla guida dello Stato il suo braccio destro, il generale Massimiano, al quale affidò il governo della parte occidentale dell’impero, riservando a sé la

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano



I tetrarchi 300-305 Basilica di San Marco, Venezia Questa scultura in porfido, proveniente probabilmente dalla Siria, rende con semplicità e immediatezza l’idea alla base della tetrarchia: prive di qualsiasi intento ritrattistico (nessun sovrano è riconoscibile in particolare) le statue esprimono la compattezza dei quattro imperatori uniti nell’abbraccio.

91

parte orientale, più ricca e popolosa. Nel 293 i due “Augusti” nominarono a loro volta due “Cesari”, Galerio e Costanzo Cloro. Erano tutti ufficiali scelti per la provata esperienza come comandanti e amministratori: l’impero tornava al principio della scelta del migliore. Ognuno dei quattro tetrarchi governava su una porzione dei territori imperiali, ma i Cesari erano subordinati agli Augusti, e su tutti primeggiava Diocleziano. Lo Stato restava un organismo unitario, dove sotto l’autorità di Diocleziano tutti i tetrarchi adottavano la stessa politica estera e le stesse riforme interne. Adesso, però, ogni settore dell’impero poteva contare su un responsabile della difesa e dell’amministrazione. Le quattro capitali dei tetrarchi erano situate vicino ai confini, per meglio intervenire nelle zone più esposte a minacce esterne. I due Cesari risiedettero in città lungo il Reno (Treviri) e il Danubio (Sirmio, oggi in Serbia); Massimiano governò l’Occidente da Milano, vicina al confine settentrionale dell’Italia, mentre Diocleziano si insediò a Nicomedia, in Asia Minore, al controllo degli stretti fra Mar Nero e Mediterraneo e in buona posizione per intervenire sul basso Danubio e contro i Persiani. Roma perdeva la sua funzione di sede dell’impero. Già da alcuni decenni, in realtà, gli imperatori preferivano risiedere altrove, lontano dalle richieste dei senatori e più vicino alle loro truppe. Ma ora l’antica città veniva privata con una formale decisione del suo ruolo di capitale: un chiaro modo per proclamare che le forze sane ancora capaci di aiutare l’impero erano altrove, in Oriente e lungo i confini. Roma manteneva il prestigio di grande metropoli e di antica capitale, ma perdeva di importanza politica. Il suo senato, ormai, era lontano dall’imperatore e dagli uffici che dirigevano l’impero. Ben poco restava della sua antica grandezza. L’ordinamento tetrarchico

Massimiano

MARE DEL NORD

Diocleziano

Territori assegnati agli Augusti (286)

Costanzo Cloro BRITANNIA

Galerio

REGIONE DI VIENNE

no

Treviri Re

Lutetia GALLIA

Confini delle diocesi

Ge rm an i Marcomanni Dan Qu ubio adi

Capitali dell’impero ITALIA Nome delle diocesi

PANNONIA

Milano

O Sirmio

Cordova Cadice

ITALIA Roma

MESIA

Cartagena

AFRICA Cartagine

Palermo R

M

Atene ED

IT

i

Nicomedia

Antiochia Palmira

E

R

Damasco

R

Gerusalemme Cirene

Alessandria

N O R I E Nilo

Parte VI La tarda Antichità

REGIONE DEL PONTO

Efeso ASIA

AN EO Leptis Magna

92

Trapezunte

TRACIA Bisanzio

Tessalonica MA

ot

MAR NERO

Marsiglia Terranova

og

Visigoti

Ravenna

SPAGNA

r st

E

Londra OCEANO ATLANTICO

Province assegnate ai Cesari (293)

T

Oltre a rendere più efficace difesa e governo, il sistema della tetrarchia aveva lo scopo di impedire usurpazioni (chi mai sarebbe riuscito a eliminare tutti e quattro i tetrarchi?) e di regolare la successione al trono. Sin dall’inizio era previsto che alla morte di un Augusto il suo posto sarebbe stato preso dal rispettivo Cesare; a sua volta, questi avrebbe nominato un altro Cesare come proprio successore. Alcuni storici fantasiosi hanno pensato fosse stato stabilito di far durare un ventennio il regno di ciascuno dei tetrarchi, ma anche senza immaginare un simile meccanismo il sistema era davvero complicato, e si inceppò infatti alla prima prova. Nel 305 Diocleziano decise che era giunto il momento di lasciare il potere ai due Cesari, e convinse Massimiano ad abdicare. Su pressione degli Augusti uscenti, i due nuovi Cesari furono scelti fra i comandanti di valore, senza tenere conto che Massimiano e Costanzo Cloro avevano entrambi un figlio ventenne: rispettivamente Massenzio e Costantino. La scelta dei nuovi Cesari (e futuri Augusti) andava dunque a cozzare con il principio dell’ereditarietà del potere, molto forte proprio fra i militari. La successione fu presto contestata, portando a un’ennesima guerra fra i pretendenti al trono, che durò dal 306 al 312 ed ebbe termine, come vedremo, con la vittoria di Costantino.

1. Quali importanti riforme promosse Gallieno? 2. Come funzionava la tetrarchia ideata da Diocleziano?

5. Le persecuzioni dei cristiani



La Porta Nigra di Treviri II-III sec. Treviri, Germania Treviri (oggi Trier) fu un centro importante della Gallia Belgica grazie alla sua posizione strategica su un corso d’acqua che facilitava l’accesso alle fortificazioni del Reno. Nel 287 Diocleziano la scelse come capitale della parte occidentale dell’impero. La cosiddetta “Porta Nigra”, alta circa 30 metri, è l’unico edificio pervenutoci dell’imponente sistema difensivo della città in epoca imperiale.

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

La crisi del paganesimo

Gli scrittori e l’arte del III secolo testimoniano ansie religiose e una insoddisfazione crescente verso gli antichi culti pagani. Il fenomeno era cominciato lentamente nel I secolo e si era sviluppato in quello successivo; ma a partire dall’età dei Severi divenne fortissimo. In mezzo ai disordini militari, alla crisi politica e alle epidemie, il politeismo tradizionale sembrava una religione troppo formale, che dava peso solo all’esteriorità dei rituali e si disinteressava ai problemi che sempre più angosciavano il fedele: come posso avvicinarmi alla divinità, e come posso garantire la sopravvivenza e il destino della mia anima dopo la morte?

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano

93

Le catacombe Le catacombe sono i più noti monumenti creati dalle prime comunità cristiane. Si tratta di lunghe e strette gallerie sotterranee, che si incrociano formando una rete intricata e si sviluppano su più piani, raggiungendo talvolta notevoli profondità. Nelle pareti, da terra al soffitto, sono scavati loculi orizzontali, cioè tombe destinate ad accogliere i corpi dei fedeli. Nelle catacombe più visitate i loculi oggi sono quasi tutti aperti e vuoti; però in origine erano sigillati da mattoni, tegole, blocchetti di pietra o lastre di marmo. Questi cimiteri sotterranei sono numerosi soprattutto a Roma, ma catacombe sono state trovate anche in altre regioni italiane, in Egitto e in altre province dell’impero. Le catacombe vennero costruite a partire dalla seconda metà del II secolo, quando i cristiani abbandonarono l’abitudine iniziale di seppellire i loro defunti assieme ai membri di altre religioni, in cimiteri a cielo aperto. Operai specializzati, chiamati fossores (‘scavatori’), si occupavano dello scavo delle gallerie e della sepoltura dei defunti. Talvolta sulla chiusura del loculo veniva inciso o dipinto il nome del defunto; più spesso la tomba era anonima. Intorno all’apertura del loculo venivano fissati piccoli oggetti, come lucerne, ampolle, monete, statuine, conchiglie. Lo scopo di questi oggetti era molteplice: servivano ai parenti per riconoscere il loculo; erano manifestazioni di affetto per il defunto; rappresentavano una specie di corredo funebre posto all’esterno della tomba, cioè oggetti che potevano servire al defunto nella vita ultraterrena (è probabile, per esempio, che si riprendesse l’uso pagano di lasciare al morto una moneta per pagare Caronte, il mitico traghettatore delle anime verso l’aldilà). Le catacombe proteggevano bene i corpi, cosa importante per i cristiani, i quali credevano che la morte fosse un lungo sonno in attesa della resurrezione. Inoltre permettevano ai fedeli di visitare le tombe dei parenti. Le catacombe erano frequentate anche per pregare presso i sepolcri dei martiri, contraddistinti da un aspetto più monumentale e da decorazioni. I loculi dei fedeli erano invece tutti simili, perché i primi cristiani rifiutavano di sfoggiare nelle tombe ricchezza e professione dei defunti. Tutti cercavano di farsi seppellire accanto ai corpi dei martiri, per essere protetti dal-

la loro santità anche dopo la morte, e per questa ragione cunicoli e loculi si infittivano vicino alle tombe dei martiri più venerati. L’usanza della sepoltura in gallerie sotterranee fu abbandonata nel V secolo, e le catacombe divennero allora un luogo di pellegrinaggio ai sepolcri dei martiri. Pian piano i corpi dei martiri vennero però trasferiti all’esterno, nelle chiese cittadine, e gli antichi cimiteri persero ogni motivo di attrazione. Già prima del 1000 le frane avevano ostruito le scale di accesso e se ne era perso il ricordo. Quando in età moderna le catacombe vennero riscoperte, intorno ad esse fiorirono le leggende. La più comune, del tutto infondata ma ciononostante continuamente ripetuta, vuole che le gallerie sotterranee siano servite come rifugio dei cristiani per salvarsi dalle persecuzioni. Ma le catacombe in realtà erano luoghi ben noti alle autorità e si sarebbero trasformati in trappole mortali per chi avesse voluto cercarvi rifugio.

 Catacombe di Priscilla III sec. Roma



Scena con banchetto eucaristico III sec. Dalle Catacombe di Priscilla La fotografia mostra la galleria centrale del primo piano delle Catacombe di Priscilla a Roma. Nella sala detta “Cappella Greca” si conserva la preziosa decorazione parietale che vediamo nella seconda figura, in cui si celebra il momento eucaristico della fractio panis (‘spezzare il pane’), gesto compiuto da Cristo durante l’Ultima Cena.

94

Parte VI La tarda Antichità

Nelle classi colte e abbienti, queste esigenze spirituali erano alimentate dalla diffusione di un nuovo movimento filosofico, il neoplatonismo. Fondata da Plotino (204-270), anche questa filosofia invitava a distaccarsi dal mondo e a badare soltanto alla salvezza ultraterrena. Fra la maggioranza della popolazione che ancora restava attaccata al paganesimo tradizionale, le nuove ansie religiose assumevano la forma di una crescente paura dei demoni e della magia. Il cristianesimo però, come sappiamo, prese progressivamente piede presso la popolazione e lentamente anche tra le classi elevate [cfr. cap. 13.6]. Il successo di questa religione e di molte altre d’origine orientale, come il culto di Mitra e quello di Iside, stava nel fornire, ciascuna in modo diverso, risposte migliori della religione tradizionale alle inquietudini spirituali dell’epoca, indicando la via per la salvezza, proponendo una pratica religiosa coinvolgente e promettendo una solida protezione contro le “forze del male”. A lungo la crescita del cristianesimo progredì di pari passo alla diffusione dei nuovi culti. Anzi, alcuni di questi apparivano ancora più attraenti. I fedeli di Mitra o Iside infatti non dovevano disconoscere i culti pagani tradizionali o coltivare l’amore per la povertà, come facevano i cristiani. Dal canto suo però, il cristianesimo opponeva alle religioni concorrenti la chiarezza della dottrina, il rigore etico e soprattutto la forte solidarietà che vigeva fra i membri delle comunità cristiane. Alla metà del III secolo divenne così la religione in maggiore crescita. Perché le persecuzioni nel III secolo?

Le persecuzioni non rappresentarono mai un grave ostacolo alla propagazione della fede cristiana. Dopo la persecuzione di Nerone contro la comunità cristiana di Roma [cfr. cap. 13.2], per quasi due secoli erano restate sporadiche e di carattere locale. La stragrande maggioranza dei cristiani viveva tranquilla, anche se tutti dovevano mettere in conto la possibilità che il governatore della provincia o i curiali alla guida della città decidessero di imporre loro di rinunciare alla fede e punissero chi si rifiutava. Il vero fedele doveva allora resistere, sfidando il supplizio e la morte, testimoniando così la forza della sua fede. Per questo motivo le vittime delle persecuzioni vennero chiamate martiri, da una parola greca (màrtyr) che vuol dire ‘testimone’. Le cause delle persecuzioni erano molte. La diffidenza popolare era pronta a incolpare la nuova e strana religione delle catastrofi naturali più inspiegabili; contro i cristiani venivano mosse le accuse più gravi, compresa quelle di commettere incesti e di praticare il cannibalismo. Inoltre, i Romani erano fanatici della tradizione e del valore delle usanze degli antenati: ai loro occhi il cristianesimo, una setta recente, era per ciò stesso ingiustificato. Quando poi, nel III secolo, la fede cristiana iniziò a diffondersi molto anche fra i ceti superiori, presso i quali aveva fino ad allora avuto modesto successo, gli imperatori si resero

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano



Sarcofago di Plotino III sec. Museo Gregoriano Profano, Roma Questo sarcofago è tradizionalmente ricordato come l’urna contenente le spoglie del filosofo neoplatonico Plotino. Al di là della veridicità dell’informazione, la sua decorazione risulta di grande interesse perché raffigura una scena di dissertazione filosofica, soggetto insolito per un sarcofago, decorato solitamente con scene di battaglia. L’inconsueta soluzione sopraggiunse con la decisione dell’imperatore Gallieno di privare la classe senatoria romana dei poteri militari, che scelse dunque di glorificare la propria memoria tramite un’iconografia di tipo intellettuale. Qui, il defunto è raffigurato nell’atto di srotolare un rotolo di papiro, accompagnato da due filosofi barbuti e due figure femminili che si atteggiano a Muse.

95



La grotta dei Sette Dormienti III-V sec. Efeso, Turchia Questa necropoli cristiana costituisce ancora oggi un centro di devozione per tutta la comunità cristiana per via di un’antichissima leggenda, in cui si narra la storia di sette giovani sfuggiti alla condanna imposta ai cristiani dall’imperatore Decio. Rifugiatisi in questa grotta, i sette si addormentarono (di qui il nome della grotta) e si risvegliarono anni e anni più tardi, quando le persecuzioni erano da tempo cessate.

conto della minaccia che incombeva sulla religione tradizionale. Iniziarono quindi le prime persecuzioni generali, promosse dagli imperatori ed estese in tutto l’impero. La prima persecuzione generale iniziò nel 250 (falsa è invece la notizia di una precedente persecuzione voluta da Massimino il Trace). L’imperatore Decio ordinò a tutta la popolazione di effettuare sacrifici agli dèi perché ponessero fine alle difficoltà dell’impero. I cristiani non venivano nominati nell’editto, ma si sapeva che proprio loro si sarebbero rifiutati di compiere sacrifici pagani. La repressione fu dura ma di breve durata, poiché cessò nel 251 alla morte di Decio. Ben più grave fu la persecuzione lanciata nel 257 da Valeriano, che fece molti martiri e portò al sequestro delle chiese e dei loro beni. Venne interrotta solo dalla caduta di Valeriano in mani persiane nel 260, subito interpretata dai cristiani come un meritato castigo divino. Gallieno e i suoi successori cambiarono politica: fermarono le persecuzioni fino al 303, restituirono le chiese e i beni sequestrati ai cristiani e di fatto permisero una parziale libertà di culto. Si verificò allora una fulminea espansione del cristianesimo, i cui effetti si videro bene quando, nel 303, Diocleziano volle intervenire nell’ultimo settore che fino a quel momento era rimasto trascurato dalla sua infaticabile attività di riforma: la questione religiosa. Nella sua ottica conservatrice, per fare durare nel tempo la restaurata potenza di Roma occorreva garantire il sostegno degli dèi tradizionali. Ed invece i cristiani erano ora moltissimi, almeno in Africa, Egitto, Asia Minore e Oriente. Se non se ne bloccava l’espansione, la Chiesa sarebbe divenuta una potenza invincibile. Nel 303 un editto impose al clero di consegnare i libri sacri. I vescovi e i preti che ubbidirono furono bollati dai fedeli con il termine di traditores (‘coloro che hanno consegnato’: dal verbo trado, ‘consegno’): una parola che ha conservato fino ad oggi un significato negativo. Altri editti inflissero il carcere e la morte a quanti non rinnegavano la fede. La persecuzione fece migliaia di morti, e durò un decennio, raggiungendo il culmine fra il 308 e il 311. Ma il cristianesimo era troppo diffuso e la stessa popolazione pagana, che ormai conosceva bene i cristiani, aveva abbandonato l’ostilità e non credeva più alle antiche accuse. In molte città i ceti dirigenti non diedero alla repressione imperiale il sostegno necessario al successo. Per quanto duramente colpite, le comunità cristiane resistettero. La definitiva cristianizzazione dell’impero diventava una possibilità concreta.

1. Quali fattori determinarono la crescita del cristianesimo rispetto ad altri culti? 2. Per quale motivo gli imperatori decisero di promuovere la persecuzione dei cristiani?

96

Parte VI La tarda Antichità

6. I problemi finanziari e monetari dell’impero

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Rimedi per “fare cassa”

Sebbene gli studi più recenti escludano che il III secolo sia stato caratterizzato da un’enorme crisi economica e dal crollo della popolazione, nessuno nega l’esistenza di gravissime difficoltà finanziarie. Già alla fine del II secolo gli imperatori incontravano problemi crescenti nel far fronte alle spese dello Stato, perché il vaiolo aveva fatto diminuire la popolazione (e dunque i proventi derivanti dalle imposte) e le guerre contro i Germani avevano devastato alcune province e costavano molto. Nel secolo III la crisi politica e militare aggravò ancora le cose, imponendo di ricorrere ad ogni mezzo per trovare il denaro necessario allo Stato. Per aumentare le entrate gli imperatori potevano seguire tre strade. La prima, naturalmente, era aumentare le tasse. Ma le tasse non potevano salire all’infinito, perché oltre un certo livello suscitavano rivolte come quella scoppiata nel 238 contro Massimino il Trace [cfr. par. 3]. Oppure finivano per danneggiare l’economia, accrescere le masse impoverite e aumentare il numero di quanti si davano al banditismo, un fenomeno che non a caso proprio durante il III secolo raggiunse grandi dimensioni. Il secondo mezzo per aumentare le entrate era la confisca dei patrimoni degli avversari politici. Proprio reprimendo i senatori ostili Settimio Severo non soltanto aveva eliminato l’opposizione, ma aveva ripianato il bilancio dello Stato: con il prodotto delle proprietà sequestrate in Africa poté anche iniziare a distribuire olio gratuito alla plebe romana. La svalutazione della moneta

La terza strada per accrescere le entrate imperiali era peggiorare la moneta, cioè svalutarla producendone una quantità maggiore. A noi, abituati alle banconote di carta, il meccanismo può sembrare strano, ma in realtà era semplice. Va ricordato, infatti, che nel mondo antico (e medievale) la moneta era una “moneta metallica”. Questa espressione non indica semplicemente una moneta fatta di metallo, come quelle che usiamo oggi per i piccoli acquisti, ma qualcosa di più: indica la moneta il cui valore non era stabilito dallo Stato, ma dipendeva dalla quantità di metallo prezioso (oro e argento) che era stato usato per fabbricarla. Lo Stato che possedeva le zecche dove venivano coniate le monete poteva dunque guadagnare diminuendo la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete: il peso complessivo veniva lasciato uguale, ma una parte dell’oro o dell’argento era sostituita con metallo di scarso valore, come il rame o il bronzo. Se questa operazione di peggioramento della moneta era fatta bene e a piccoli gradi, i consumatori non se ne accorgevano nemmeno. Dalla fine del I alla fine del II secolo la principale moneta romana, il denaro d’argento, venne peggiorata di continuo ma in modo

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano



Giara contenente monete romane d’argento III sec. Da Falkirk, Scozia; National Museum of Scotland, Edimburgo

97

impercettibile. La riduzione del metallo prezioso contenuto in ogni moneta divenne invece forte a partire da Settimio Severo, e crebbe poi sempre di più. Per esempio la nuova moneta istituita nel 215 da Caracalla, l’antoniniano, vent’anni dopo conteneva soltanto il 40% di argento, dopo altri vent’anni appena il 20% e un quindicennio più tardi, nel 270, appena il 2%. Quando avvenivano svalutazioni di questa portata, tutti finivano per rendersene conto: per qualche tempo, però, l’imperatore aveva monete in abbondanza per pagare le sue spese. Ma presto i prezzi iniziavano ad aumentare, dando vita al processo che gli economisti chiamano inflazione [cfr. par. 3]: per comprare i beni serviva un maggior numero di monete. In Egitto, per esempio, una misura di grano costava 8 antoniniani intorno al 240 e 14 un ventennio più tardi. In certi momenti, nel corso del III secolo, l’inflazione raggiunse un ritmo così elevato da danneggiare le attività economiche. I prezzi cessarono di aumentare solo dopo il 312, quando anche grazie alle riforme intraprese da Diocleziano l’impero tornò a disporre di grandi quantità di metallo prezioso per coniare monete di buona qualità. Per rendere più facili i pagamenti di piccole somme, l’imperatore coniò inoltre una nuova moneta di bronzo, il follis.

1. A che cosa era dovuta, principalmente, la diminuzione di entrate nelle casse dello Stato? 2. Quali furono le conseguenze negative della svalutazione della moneta?

7. Le riforme di Diocleziano

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Il disegno riformatore

Fino alla metà del III secolo, l’amministrazione dello smisurato territorio imperiale si era basata su due livelli soltanto: al centro, la forte autorità dell’imperatore e del senato; nelle province – lo abbiamo visto nel capitolo precedente: cfr. cap. 13.4 – alcune migliaia di comunità cittadine che svolgevano in autonomia le principali funzioni di governo locale, al patto beninteso di ubbidire agli ordini di Roma e di fornire con prontezza le tasse e tutti gli altri contributi richiesti. In questo modo la burocrazia statale – cioè i funzionari e gli impiegati dello Stato – era restata sorprendentemente piccola. Con gli imperatori della seconda metà del III secolo, e soprattutto con Diocleziano, le cose cambiarono. La natura dello Stato imperiale uscì trasformata dal disperato sforzo di rastrellare denaro, beni e uomini per respingere le minacce esterne e per dare stabilità all’impero: nacque una burocrazia numerosa e sempre più complessa, incaricata di sorvegliare da vicino, in ogni angolo dell’impero, la riscossione delle imposte, l’amministrazione della giustizia, il funzionamento di porti, strade, magazzini e altre infrastrutture pubbliche, e di svolgere una lunga serie di funzioni che fino a quel momento erano state lasciate ai ceti dirigenti delle città. L’autogoverno delle comunità cittadine venne drammaticamente ridotto. Il principale punto di riferimento dell’impero nelle diverse città continuarono a essere i curiali, cioè i gruppi dirigenti; ma furono sottoposti a una sorveglianza stretta. Non doveva più succedere quello che era avvenuto nel culmine dell’anarchia militare e delle incursioni barbariche, quando i curiali di molte città avevano evitato di pagare tutte le tasse, di portare

98

Parte VI La tarda Antichità

 Un esattore delle tasse II-III sec. Rheinisches Landesmuseum, Treviri, Germania

 Scena di pagamento di tributi

I-III sec. Da Saintes; Museo Archeologico di Saintes, Francia Molte zone dell’impero conservano tra le proprie memorie storiche rilievi in cui viene rappresentato questo delicato momento: il pagamento dei tributi. Il primo rilievo proviene da Treviri, in Germania, e ritrae un esattore delle tasse impegnato nei suoi calcoli e appunti mentre i contribuenti attendono di versare il tributum; un soggetto analogo è rappresentato sul secondo rilievo, ritrovato invece in Francia, a Saintes, la romana Mediolanum Santonum.

ai granai imperiali il cibo da inviare alle truppe, di dare alloggio gratuito all’esercito di passaggio, di trasportare i beni statali, di compiere lavori a strade e infrastrutture. Gli ordini dell’impero andavano eseguiti anche quando comportavano grandi spese o altri obblighi gravosi per curiali e cittadini. Si diede avvio a una imponente azione riformatice che interessò il fisco, le istituzioni amministrative e l’esercito (di cui diremo nel paragrafo seguente). La riforma fiscale e amministrativa

Per rispondere alle minacce di invasioni era necessario un esercito vasto e organizzato, che costava molto: probabilmente la metà delle entrate dello Stato era destinata alle spese militari. Un’altra grande spesa era costituita dal mantenimento di Roma. L’enorme città non era più la capitale amministrativa ma restava il simbolo e il cuore dell’impero. La grandiosità dei suoi edifici, la bellezza dei giochi e delle cerimonie che vi si svolgevano e anche l’immensità della sua popolazione erano la prova della grandezza dell’impero, e nessuno dubitava che fosse un preciso dovere degli imperatori assicurare il mantenimento della metropoli e dei suoi abitanti. Per Roma lo Stato spendeva molto, forse un altro quarto delle sue entrate. Il resto serviva a retribuire i funzionari e gli impiegati che lavoravano nelle capitali e nelle province e per tutte le altre necessità statali, dai lavori pubblici alle cerimonie. Per rifornire l’esercito e garantire al popolo di Roma le periodiche distribuzioni gratuite di farina e olio d’oliva, lo Stato doveva spostare a lunga distanza grandi quantità di beni. Dalla Sicilia e dalla provincia dell’Africa (l’odierna Tunisia) un fiume di grano e olio

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano

99

cittadinanza Le tasse

Al cuore dell’impero romano vi erano le tasse. Versate in denaro e, più raramente, in natura, le tasse permettevano di pagare l’esercito e l’amministrazione civile, di alimentare l’immensa capitale, di costruire fortificazioni, strade, acquedotti e altre infrastrutture, di spostare con flotte commerciali beni da una parte all’altra del Mediterraneo, di finanziare i giochi del circo e dell’anfiteatro. Altra fonte importante di entrate era il patrimonio privato degli imperatori, formato soprattutto da proprietà fondiarie. Ma le tasse costituivano la risorsa di gran lunga maggiore. Nel mondo romano, la parola più usata per indicare le tasse era tributum, e anche noi, se volessimo essere esatti dal punto di vista giuridico, dovremmo parlare di “tributo” per le tasse pagate oggi: infatti secondo il diritto della Repubblica italiana tutti i contributi obbligatori versati allo Stato dai cittadini, che chiamiamo in questo caso contribuenti, rientrano nella categoria dei “tributi”. I tributi, al loro interno, sono oggi divisi in due categorie diverse: le tasse, che sono le somme versate da chi riceve un servizio dallo Stato (per esempio la tassa di iscrizione per chi frequenta la scuola, le tasse giudiziarie per chi va in tribunale, e via dicendo); e le imposte, che sono le somme richieste dallo Stato per spese di carattere generale, e non in contraccambio di un servizio specifico (per pagare l’esercito e la polizia, costruire una strada o un ospedale, e per mille altre esigenze). Però nella lingua corrente tasse e imposte sono sinonimi, e anzi di solito il termine più usato è proprio quello di tasse. Gli autori di questo manuale hanno perciò deciso di parlare indifferentemente di tasse e imposte. Nel mondo antico come in quello contemporaneo esistono molti tipi di tasse. Una prima distinzione è fra le tasse proporzionali e quelle fisse. Le prime sono le tasse che cambiano a seconda del valore dei beni posseduti o commerciati. Per la successione i Romani pagavano ad esempio un’imposta pari, almeno in teoria, ad un ventesimo dei beni ereditati (vicesima hereditatum). Le tasse fisse, invece, rimangono dello stesso ammontare quale che sia il valore dei beni tassati. Un’altra distinzione importante separa le imposte dirette da quelle indirette. Le prime colpiscono in modo diretto la ricchezza, come ad esempio avveniva per la iugatio istituita da Diocleziano, che veniva calcolata in base alla superficie e al valore della terra posseduta. Oggi la principale imposta diretta non colpisce i patrimoni, come era per i sudditi di Diocleziano, ma i redditi dei contribuenti (imposta sui redditi, detta Irpef). Le imposte indirette tassano invece le compravendite e gli spostamenti dei beni, e non il semplice fatto di possedere un bene o di ricevere denaro dal suo affitto o dalla sua coltivazione. Anche per queste abbiamo esempi nel mondo romano: chi importava una merce pagava al momento dello sbarco il portorium; al momento della liberazione lo schiavo o il suo ex padrone versavano la tassa di manomissione, e via dicendo. Una distinzione fra le tasse che sembra essere stata sconosciuta ai Romani, ma che è oggi molto importante, è invece quella fra imposte progressive e

100

Parte VI La tarda Antichità

regressive. Si parla di imposte progressive se man mano che aumenta la ricchezza del contribuente, aumenta anche l’aliquota, cioè la percentuale di tasse che egli paga su tale ricchezza. Per esempio, oggi in Italia chi guadagna 1000 euro al mese paga un’imposta sui redditi (Irpef) pari a circa il 5% di tale somma (dunque 50 euro), mentre chi ne guadagna 5000 paga circa il 35% (1750 euro). L’imposta da pagare aumenta quindi più che proporzionalmente rispetto all’aumento dei beni o dei redditi tassati. L’idea alla base della progressività delle imposte è che i più poveri devono impiegare una grande parte dei loro redditi per i bisogni di base, mentre i più abbienti possono contribuire alla spese collettive senza dover rinunciare a nessun consumo importante. È un principio stabilito dall’art. 43 della Costituzione italiana. Le imposte regressive, all’opposto, sono quelle che in proporzione gravano maggiormente sui più poveri. Sembra un tipo di tassa così ingiusto che viene da pensare che oggi non esista più: ma sbaglieremmo. Gran parte delle imposte dirette finiscono infatti per diventare regressive. Per esempio, le tasse che paghiamo acquistando beni di prima necessità, come gli alimenti, pesano in proporzione di più sulle famiglie povere, che spendono per mangiare una forte quota del loro reddito complessivo, che non su quelle abbienti, a cui i consumi alimentari costano solo una piccola parte delle loro entrate.



Home page del sito Internet dell’Agenzia delle Entrate L’Agenzia delle Entrate è una delle quattro Agenzie fiscali istituite nel 1999 per svolgere compiti che prima erano del Ministero delle Finanze. Attivo dal 2001, questo ente pubblico svolge servizi connessi all’esazione e al contenzioso dei tributi diretti e dell’imposta sul valore aggiunto. Un compito importante dell’Agenzia delle Entrate è informare e assistere i contribuenti, accertare i casi di evasione fiscale e gestire il contenzioso tributario.

andava verso Roma; dall’Egitto, dalla Siria e dal Mar Egeo questi e altri prodotti venivano portati fino al Danubio per alimentare le truppe stanziate ai confini. Il vino, il pesce essiccato, le salse piccanti di cui andavano ghiotti gli antichi, il vasellame e tutta una serie di prodotti artigianali venivano spostati lungo questi e altri circuiti, in parte per iniziativa diretta dello Stato, in parte ad opera di mercanti. Tutta questa complessa struttura era sostenuta dalle tasse. Non a caso la prima grande riforma intrapresa da Diocleziano riguardò proprio il sistema fiscale. Le imposte erano di tanti tipi, e colpivano le eredità, i commerci, l’artigianato, gli spostamenti e altre attività umane. Fra tutte, la tassa sulla terra era quella principale, che assicurava le entrate di gran lunga maggiori e che più pesava sulla popolazione. L’ammontare dell’imposta si basava sull’estensione dei campi coltivati, sulla fertilità del suolo e sul numero di persone che vivevano in quel territorio. Per fare in modo che le tasse fossero pagate regolarmente e in abbondanza, era necessaria una complessa organizzazione. I sistemi fiscali antichi (e non solo...) tendevano sempre ad accanirsi sui contribuenti deboli e poveri, risparmiando quelli potenti e ricchi. In parte questa ineguaglianza fiscale era voluta, per legare allo Stato le classi di maggiore potere. Se si eccedeva, però, il fisco non soltanto incassava meno di quanto avrebbe potuto, ma finiva per mettere in crisi l’economia. I contadini che l’esattore fiscale tartassava perché non voleva chiedere le tasse al grande proprietario finivano per fuggire, lasciando i campi incolti e nessuno a pagare le imposte; i mercanti che vedevano svanire nelle tasche dell’esattore fiscale tutti i loro profitti smettevano di commerciare; e così via. Per avere un sistema efficiente era dunque essenziale conoscere nel dettaglio quanto le città, i villaggi e anche i singoli abitanti dell’impero potevano pagare. A questo fine Diocleziano ordinò la redazione di catasti, cioè di inventari dettagliati di tutte le terre, che indicavano i proprietari, le coltivazioni, i raccolti, i contadini. Venne inoltre creata una struttura di impiegati e contabili per calcolare le imposte dovute da ciascuno e per mantenere aggiornati i catasti. Occorreva registrare ogni vendita e acquisto di terra e ogni cambiamento nel tipo di coltivazione. Negli anni successivi altre riforme resero più efficiente la riscossione delle tasse e l’amministrazione dell’impero. Il territorio venne organizzato in quattro grandi ripartizioni, le prefetture, a loro volta suddivise in diocesi, dodici in tutto. Ogni diocesi riuniva un certo numero di province; il numero di queste ultime fu raddoppiato, dimezzando l’estensione delle province precedenti. Così la provincia non poteva più diventare, sotto la guida del suo governatore, un forte centro di potere autonomo, mentre i governatori riuscivano a svolgere meglio, su un’area di azione più ristretta, i nuovi e numerosi compiti che venivano loro affidati. L’Italia perse la condizione privilegiata di cui aveva sempre goduto, e che le aveva garantito tasse inferiori, e fu divisa in dodici province che costituirono una diocesi, la settima. Per fare funzionare l’intero sistema fu necessario reclutare un gran numero di funzionari e impiegati, creando una burocrazia vasta e destinata a crescere ancora con i successori di Diocleziano. L’intervento dello Stato in nuovi settori

Per garantire allo Stato tutte le risorse di cui aveva bisogno, l’imperatore intervenne in settori nuovi. L’aumento dei prezzi minacciava l’economia? Nel 301 venne emanato un lungo editto dei prezzi, nel quale si indicava il tetto massimo di un gran numero di salari e di prodotti. Il provvedimento fallì ben presto e venne ritirato, perché i commercianti, piuttosto che dare via i prodotti al prezzo ufficiale, preferivano venderli di nascosto a un prezzo superiore. Ma il solo fatto che si fosse immaginato un simile provvedimento mostra che lo

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano

101



Un macellaio al lavoro Metà II sec. Museo della Civiltà Romana, Roma

Stato pensava di potere intervenire nella vita quotidiana in ogni angolo dell’impero. Altri provvedimenti ebbero più successo. Quelli più importanti riguardarono l’eredità dei mestieri. Una serie di professioni giudicate essenziali per lo Stato vennero dichiarate ereditarie: chi le svolgeva non poteva abbandonarle e doveva fare in modo che anche i figli le seguissero. Questi obblighi vennero imposti ai soldati, ma anche ai lavoratori delle officine statali, ai proprietari delle navi che assicuravano lo spostamento delle merci per il Mediterraneo, ai fornai e ai macellai che garantivano l’alimentazione di Roma e ad altri mestieri ancora. I vincoli ereditari più importanti furono quelli dei contadini e dei curiali. Ai contadini fu imposto di restare nel loro luogo di origine, senza emigrare o abbandonare la terra. Raccogliere le tasse in questo modo era più facile. I curiali, che guidavano le città, furono obbligati a conservare le cariche che ricoprivano, e a trasmetterle ai figli. Le loro funzioni divennero pesanti, perché erano i curiali che, con i propri patrimoni, garantivano al fisco le tasse dovute dalla città [cfr. cap. 13.5]. Le fonti sono piene dei lamenti dei curiali mandati in rovina dalla necessità di accontentare l’insaziabile fisco, ma tacciono sul fatto che in realtà molti curiali erano incaricati anche della riscossione delle tasse: e questa funzione assicurava loro potere e vantaggi economici, legali e soprattutto illegali.

1. Per quale motivo fu necessario rafforzare l’apparato burocratico? 2. Che cosa prevedeva la tassa sulla terra? 3. Per quale motivo fallì la politica dei prezzi voluta da Diocleziano?

8. Diocleziano e la riforma dell’esercito

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Limitanei e comitanensi

Il sistema militare fu profondamente ristrutturato, per adeguarlo alle nuove esigenze. Ormai non serviva più un esercito di conquista e nemmeno un apparato militare finalizzato solo a proteggere la linea di confine. Per fare fronte alla minaccia dei Persiani e dei popoli germanici occorreva non tanto aumentare il numero dei soldati, che salì solo di poco giungendo fino a quasi mezzo milione, quanto cambiare la distribuzione e la preparazione delle truppe. Vennero istituite una ventina di nuove legioni, ma sia le nuove che le vecchie furono composte da un numero più basso di legionari. Lo scopo di questo cambiamento era tanto militare che politico: le legioni più piccole risultavano più manovrabili e i loro comandanti non avevano più grandi masse di soldati per tentare colpi di Stato. L’esercito fu diviso in due settori separati. Il primo era chiamato esercito limitaneo perché doveva difendere il limes, il confine. Era costituito da truppe che soggiornavano per anni nelle stesse località e che tendevano ad avere una capacità di combattimento buona, ma inferiore a quella del secondo settore, l’esercito comitatense. Il nome viene da comitatus, un termine

102

Parte VI La tarda Antichità

che all’inizio voleva dire ‘compagnia’ o ‘seguito’ dell’imperatore, e che già a metà del III secolo era passato a indicare le truppe scelte che costituivano il fior fiore dell’esercito, preparate per lo spostamento rapido e per intervenire nelle situazioni di emergenza. Meglio equipaggiati, meglio addestrati e meglio pagati, i comitatensi costituirono uno strumento prezioso per risolvere le situazioni belliche più pericolose, dentro e fuori i confini dell’impero. In ogni provincia vi era adesso una guarnigione, che serviva per sorvegliare i sudditi e per intervenire in caso di incursioni nemiche; il grosso delle truppe continuava comunque a essere collocato, come nei primi secoli dell’impero, lungo il Reno, il Danubio e il confine con la Persia (pochi legionari erano invece stanziati lungo la frontiera africana, dove il Sahara rappresentava un’invalicabile difesa naturale). Il reclutamento

Come in passato, molte reclute erano volontari, attratti dalla possibilità di ricevere un vitto abbondante e dai doni periodicamente distribuiti ai soldati dopo la proclamazione di un nuovo imperatore e in altre occasioni; c’erano inoltre i privilegi che spettavano ai congedati, come l’esenzione dalle principali tasse. Il numero dei volontari era però diminuito. Si stabilì dunque che i figli dei soldati dovessero essere anch’essi soldati, e che le città e i grandi proprietari fossero tenuti a fornire un certo numero di reclute, o in alternativa a versare una bella somma di denaro per permettere di assoldare qualcun altro. La grande maggioranza delle reclute fu tratta dai coloni, i contadini affittuari, spesso immigrati, che non possedevano terra propria e lavoravano le terre dei latifondisti [cfr. cap. 13.10]. Per la prima volta dalla fondazione di Roma i soldati ricevevano dallo Stato tutto il vitto anche durante i periodi di pace, le armi, l’armatura, il vestiario, le bestie da trasporto e da spostamento. Le grandi fabbriche statali di armi e di tessuti e gli allevamenti imperiali di bestiame provvedevano a queste forniture.



Tratti difensivi a Resafa Resafa, Siria La fotografia mostra un tratto difensivo lungo il limes arabicus, la frontiera che dalla Siria settentrionale giungeva fino alla Palestina. Tra gli avamposti lungo questo cordone difensivo c’era Resafa, un centro della Siria già tappa carovaniera, che sotto Diocleziano svolgeva funzioni di reparto militare fortificato contro i nemici che premevano i confini.

1. Quali furono i motivi politici che indussero a ridurre il numero dei componenti delle legioni? 2. Come venivano reclutati i nuovi legionari?

9. Diversità regionali

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Il processo di uniformazione

In genere si parla di impero romano, senza molte altre specificazioni, come se la situazione fosse sostanzialmente la stessa dai confini della Scozia fino alla Mesopotamia. In effetti gli editti e i provvedimenti di Diocleziano danno proprio questa impressione. Molte sue leggi vennero promulgate senza modifiche anche dagli altri tetrarchi, e riguardavano l’intero impero. Inoltre, sotto Diocleziano l’intervento dello Stato nella vita degli abitanti delle province divenne incisivo e onnipresente a un livello mai nemmeno sfiorato in pas-

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano

103

Le Mura aureliane Durante i primi due secoli e mezzo di storia dell’impero, l’assenza di minacce esterne aveva limitato la costruzione di cinte murarie e altre difese dei centri urbani. Le mura circondavano soltanto le città che si trovavano vicino ai confini o comunque in zone esposte ad attacchi esterni. La crisi apertasi alla fine della dinastia dei Severi e il succedersi di incursioni e saccheggi cambiarono le cose: fra la metà del III e la metà del IV secolo quasi tutte le città dell’impero furono dotate di fortificazioni e cinte di mura. Roma non fece eccezione. Durante l’età repubblicana era stata difesa dalle mura attribuite a re Servio Tullio, ma in realtà innalzate all’inizio del IV secolo a.C. Poi le mura erano cadute in disuso, anche perché la metropoli in vertiginosa crescita era dilagata al loro esterno, occupando sempre nuove superfici. Nel 271 l’imperatore Aureliano decise che i tempi erano cambiati, e il pericolo di una invasione barbarica reale, visto che i Germani erano arrivati fin sotto le mura di Milano e Verona. Venne così deciso di proteggere la capitale con una cinta muraria lunghissima e da innalzare in tutta fretta. Alla morte dell’imperatore, nel 275, i lavori erano quasi terminati.



Mura aureliane, veduta III-V sec.

Le Mura aureliane

ia

via

No

m

ria

en

ta

na

via Sala

lamin

via F

Mausoleo di Adriano

monte Pincio

Mausoleo di Augusto

Quirinale

ponte Viminale Pantheon Elio Campo Marzio Capitolino Esquilino isola Roma Tiberina Anfiteatro quadrata Flavio via Aurelia ponte Celio Emilio Palatino Aventino

104

ina

pia

Mura serviane

Lat

Ap

via Ostiense

via

via

via Portu

ense

Terme di Caracalla

ibur

T via

Mura aureliane

Parte VI La tarda Antichità

tina

Le Mura aureliane circondano tuttora il centro storico di Roma. Al momento della costruzione erano lunghe quasi 19 chilometri, alte 6 metri e con mura di mattoni spesse circa 3,5 metri. Ogni cento piedi romani (circa 30 metri) sopra le mura sporgevano delle torri quadrate dotate in cima di una stanza per le baliste, macchine da guerra che lanciavano proiettili di pietra. In tutto v’erano quasi quattrocento torri di questo genere. Altre torri affiancavano le porte, che in una dozzina di casi avevano un aspetto monumentale: in marmo, presentavano ciascuna un doppio ingresso. All’inizio il sistema difensivo aureliano non era particolarmente resistente: l’altezza delle mura era modesta, ma comunque sufficiente a fermare l’assalto di eserciti barbari privi di macchine d’assedio. Del resto questa opera immensa era stata costruita in tutta fretta. Per questa ragione gli architetti inglobarono nelle mura gli edifici già esistenti, come per esempio la piramide rivestita di marmo e alta 36 metri che tra il 18 e il 12 a.C. il ricco romano Caio Cestio si era fatto costruire come tomba. Intorno al 310 e soprattutto nel 401-402, quando la minaccia dei Goti era fortissima, la cinta di mura sembrò insufficiente, e venne rafforzata. L’altezza delle mura fu raddoppiata, e quello che in precedenza era il cammino di ronda posto subito sotto i merli venne trasformato in una galleria coperta, nella quale si aprono numerose feritoie; un nuovo cammino di ronda fu costruito più in alto. Il doppio ingresso di molte porte monumentali venne allora ridotto a uno solo, e dietro la porta se ne costruì una seconda, collegata da mura a quella anteriore: in questo modo le porte divennero delle vere e proprie fortezze, autosufficienti in caso di necessità.

sato. L’imperatore aveva messo fine all’autonomia delle città: e con l’autonomia era finita anche la possibilità, fino a quel momento concessa alle diverse popolazioni, di conservare le proprie leggi, purché ovviamente non andassero contro quelle dell’impero. Il processo di uniformazione giuridica era iniziato già con la concessione della cittadinanza romana all’intero impero nel 212: con l’editto di Caracalla tutti divennero cittadini romani e dunque, pian pianino, finirono per adottare il diritto romano per punire i reati e per regolare le questioni private, come per esempio la dote, il matrimonio, il divorzio e l’eredità. Diocleziano accelerò questo processo di uniformazione e lo estese alle pratiche amministrative e persino alla lingua, poiché il latino fu imposto come la sola lingua dell’amministrazione anche nelle province orientali dove si parlava greco. Questi elementi di omogeneità si sommavano a quelli più antichi, come la diffusione delle città e della vita cittadina, e venivano rafforzati dall’onnipresenza dell’esercito e dell’amministrazione.

 Lavori campestri in un mosaico dell’Africa romana III sec. Cherchell, Algeria Il mosaico, rinvenuto a Cherchell (antica Caesarea), in Algeria, raffigura un contadino impegnato nella zappatura della vigna. L’Africa romana produceva, oltre che moltissimo grano, grandi quantità di olio e di vino.

Persistenze locali

L’immagine di uniformità fornita dai provvedimenti dell’amministrazione statale e dagli scritti delle classi ricche non corrispondeva però ai modi di vivere e di pensare della massa della popolazione. Per fortuna negli ultimi tempi il grande sviluppo dell’archeologia permette di andare oltre le leggi dello Stato e i discorsi dei potenti: constatiamo così che le condizioni di vita di contadini, salariati e ceti umili cambiavano molto a seconda delle province. Come in tutte le epoche che hanno preceduto la rivoluzione industriale del XVIII-XIX secolo, i contadini erano di gran lunga il gruppo più numeroso. È difficile fare stime esatte, ma probabilmente oltre l’80% della popolazione viveva lavorando la terra. Vi erano però differenze giuridiche e sociali. In Italia e nelle altre province occidentali molti contadini continuavano ad essere schiavi, anche se la loro proporzione era crollata rispetto ai picchi raggiunti alla fine della repubblica e all’inizio dell’età imperiale. Perlopiù i contadini erano piccoli proprietari o, più spesso, coloni. Le grandi proprietà erano molto diffuse in Italia, Africa e Gallia, e qui dunque sembra che i contadini fossero soprattutto affittuari. In Asia Minore e in molte altre zone dell’Oriente le proprietà maggiori occupavano invece solo una piccola parte dei suoli, lasciando spazio per la piccola proprietà contadina. Una grande differenza fra le province occidentali e quelle orientali riguardava le modalità di insediamento. In Oriente i contadini abitavano in villaggi; invece nelle campagne dell’Occidente i villaggi erano più rari, e si viveva soprattutto in fattorie isolate oppure negli edifici situati al centro delle grandi proprietà, le ville. Il mondo contadino, di conseguenza, assumeva caratteristiche diverse. Nelle province orientali il contadino viveva as-

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano

105

 La villa tardo antica IV sec. Museo del Bardo, Tunisi Questo mosaico proviene dalla Villa del Dominus Iulius, nei pressi di Cartagine. Al centro della composizione è rappresentata una grande villa fortificata, fiancheggiata da due scene di caccia. In alto e in basso si svolgono piccole scene che rappresentano le quattro stagioni e che hanno come protagonisti i ricchi proprietari della villa. Da sinistra a destra: in alto, i coloni omaggiano la signora con animali e olive (l’inverno) e un pastore custodisce il gregge (l’estate); in basso, la padrona riceve fiori e pesce fresco (la primavera), mentre altri coloni portano al padrone della selvaggina e un cesto di uva (l’autunno).

sieme agli altri contadini, ricchi e poveri, con i quali intratteneva relazioni di ogni tipo; molti villaggi avevano un proprio territorio, dei pascoli e dei corsi d’acqua comuni, persino delle semplici strutture di autogoverno; gli abitanti erano responsabili assieme, collettivamente, del pagamento delle tasse allo Stato. In Occidente la società contadina era meno organizzata e maggiormente sottoposta ai grandi proprietari: sia i contadini che abitavano in fattorie isolate, sia quelli che risiedevano nelle grandi aziende dovevano fare i conti in primo luogo con i proprietari; anche la raccolta delle imposte per lo Stato spesso veniva compiuta dai proprietari più ricchi, che non mancavano di approfittarne. Altre differenze regionali riguardavano la diffusione dei commerci e dell’artigianato. Alcune province, come l’Africa, erano specializzate nella produzione di grano, olio e prodotti artigianali destinati all’esportazione. In altre, come la Gallia settentrionale e la Britannia, prevaleva la produzione per il mercato locale: i commerci erano scarsi e di breve raggio. Grandi differenze esistevano inoltre al livello linguistico. In alcune province, latino e greco erano parlati abitualmente solo dai ricchi e dai funzionari statali, mentre la gente comune usava altre lingue: in Africa il berbero, in Egitto il copto, nel Vicino Oriente l’aramaico e l’arabo, e altre ancora. Le società locali, insomma, erano molto più diverse di quanto lasciano immaginare le leggi imperiali.

1. Quali erano le condizioni giuridiche e sociali dei contadini in Occidente? 2. Quali differenze presentavano gli insediamenti contadini in Occidente e in Oriente?

106

Parte VI La tarda Antichità

SINTESI 1. Le cause della crisi Nel III secolo l’impero romano conobbe un periodo di profonda crisi. Tradizionalmente gli storici ritenevano che questa crisi interna fosse dovuta a cause di tipo, principalmente, economico e demografico. Recenti studi, invece, attribuiscono la crisi a problemi di natura politica e militare. La debolezza delle istituzioni di fronte agli attacchi esterni determinò una crisi del potere imperiale che, inevitabilmente, ebbe ripercussioni negative anche sull’economia e la società.

2. La dinastia dei Severi La morte di Commodo fu seguita da una serie di lotte di potere, nelle quali prevalse Settimio Severo, che portò avanti una politica fondata sulla valorizzazione dell’esercito e dei ceti dirigenti provinciali. Il ruolo del senato fu svuotato di funzione e significato, e la composizione dell’assemblea senatoria stravolta dalla maggiore presenza di membri di origine provinciale. Il successore di Settimio, Caracalla, proseguì nella stessa direzione e concesse la cittadinanza romana a tutta la popolazione libera dell’impero (editto di Caracalla). A lui succedettero i nipoti Elagabalo e Alessandro Severo. Durante il regno di quest’ultimo si fecero frequenti gli sconfinamenti dei Germani, mentre i Parti, alla cui guida era ora la dinastia Sasanide, riprendevano una politica aggressiva nei confronti di Roma.

3. L’anarchia militare L’uccisione di Alessandro Severo per mano dell’esercito sprofondò l’impero in un periodo di caos – l’anarchia militare –, nel momento in cui diventava critica la situazione sulle frontiere, tanto in Oriente con i Parti, quanto sul Reno e sul Danubio, dove i popoli germanici davano vita a grandi confederazioni. In questo contesto emerse la figura di Massimino il Trace, di umili origini, ma con grandi capacità militari. Tuttavia, fronteggiare le invasioni richiedeva enormi risorse. Il malcontento dell’aristocrazia e le ribellioni posero fine al suo regno. Gli aristocratici tornarono al potere, ma la situazione peggiorò. Una serie di generali si avvicendarono sul trono, mentre le lotte civili insanguinavano l’impero e le frontiere sguarnite venivano attaccate e saccheggiate. Sotto Gallieno l’impero si frantumò: Postumo in Gallia e Odenato in Oriente diedero vita a due regni autonomi.

4. La ripresa dell’impero e Diocleziano Tuttavia si riuscì a far fronte in qualche modo alle minacce esterne. Gallieno riformò il sistema difensivo e separò poteri civili e funzioni militari. Con l’imperatore Aureliano l’impero ritrovò la propria unità. Nel 285 prese il potere il generale illirico Diocleziano, che diede stabilità e sicurezza all’impero promuovendo un gran numero di riforme amministrative, fiscali ed economiche. Con Diocleziano l’imperatore divenne un sovrano con poteri assoluti. L’imperatore illirico, inoltre, introdusse la tetrarchia: l’impero fu affidato a due “Augusti” coadiuvati da due “Cesari”, tutti residenti in quattro capitali poste in prossimità delle frontiere. Il sistema di successione fra Augusti e Cesari, basato sul merito, era però complicato dalle pretese dinastiche e, di fatto, la tetrarchia non resse al primo passaggio.

5. Le persecuzioni dei cristiani In questo contesto di crisi militare e sociale cresceva tra i sudditi l’insoddisfazione verso i culti tradizionali. Tra le classi colte prese piede il neoplatonismo, mentre si diffondevano ovunque i culti orientali, e tra questi il cristianesimo era in costante crescita. La diffidenza popolare e l’ostilità delle autorità romane portarono però a grandi persecuzioni nei confronti dei cristiani. Le persecuzioni generali contro dei seguaci di Gesù iniziarono nel 250 con Decio e proseguirono con Valeriano. Sotto Gallieno e i suoi successori ci fu una lunga pausa, ma con Diocleziano ricominciarono duramente. Tuttavia le persecuzioni non ostacolarono la propagazione del cristianesimo: i cristiani resistevano e i loro martiri testimoniavano la grande forza della loro fede.

6. I problemi finanziari e monetari dell’impero Caratteristici di questo periodo furono i problemi crescenti per far fronte alle spese dello Stato. Per ovviare alla carenza di risorse gli imperatori potevano aumentare le tasse, confiscare i patrimoni degli avversari e svalutare la moneta. La svalutazione della moneta avveniva diminuendo la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete. Se da un lato questa operazione consentiva al sovrano di disporre nell’immediato di denaro, nel tempo però generava inflazione e poteva danneggiare le attività economiche.

7. Le riforme di Diocleziano I problemi finanziari mutarono profondamente la natura dello Stato. Gran parte delle spese era destinata all’apparato militare e una parte considerevole era invece per il mantenimento di Roma e dei suoi numerosi abitanti. Diocleziano introdusse un gran numero di tasse, anche se basate sull’ineguaglianza fiscale. Per rendere efficiente la riscossione fiscale furono introdotti i catasti. Il territorio fu organizzato in quattro grandi prefetture, suddivise in dodici diocesi. Tutto questo rese necessario la nascita di una vasta burocrazia che ridusse drasticamente l’autogoverno delle comunità cittadine. Diocleziano cercò di regolare i prezzi senza riuscirvi e sottopose i mestieri a vincoli ereditari.

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano

107

8. Diocleziano e la riforma dell’esercito Anche l’apparato militare fu adeguato alle nuove esigenze. L’esercito fu diviso in due settori: l’esercito limitaneo, stanziale e preposto alla difesa del limes; l’esercito comitatense formato da truppe d’élite, preparate per intervenire nelle emergenze. Per rendere più efficace il reclutamento, il mestiere di soldato divenne ereditario e le città e i grandi proprietari fondiari furono obbligati a fornire reclute o finanziamenti. La maggior parte delle nuove reclute era costituita da coloni.

9. Diversità regionali Sotto Diocleziano l’intervento dello Stato nella vita dei cittadini divenne incisivo e fu accelerato il processo di uniformazione giuridica, amministrativa e linguistica dei territori dell’impero. Ciononostante, continuavano a esistere grandi differenze regionali nei modelli di proprietà e di insediamento contadino e nella diffusione dei commerci e dell’artigianato. In molte zone, inoltre, continuavano a conservarsi le lingue locali.

ESERCIZI Gli eventi 1. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette: ❏ a) Gli scavi archeologici e gli studi recenti hanno dimostrato che la crisi del III secolo fu causata dalla grande epidemia di peste. ❏ b) Sotto Settimio Severo i membri del senato erano soprattutto provenienti dalle province. ❏ c) Ad accrescere il malcontento delle legioni contribuì l’inflazione, che riduceva il potere d’acquisto dei salari militari. ❏ d) L’imperatore Aureliano vietò ai senatori di comandare le legioni, separando, così, potere civile e funzioni militari. ❏ e) Con la sua opera riformatrice Diocleziano restituì al senato la sua autorità e il suo potere effettivo. ❏ f) Le persecuzioni sistematiche dei cristiani iniziate da Decio furono fermate da Diocleziano. ❏ g) Benché il latino fosse stato imposto come unica lingua, in molti territori continuavano a usarsi le lingue locali. ❏ h) La svalutazione della moneta garantiva disponibilità immediata di denaro, ma generava processi di inflazione. ❏ i) Con la riforma di Diocleziano ai contadini fu garantita la libertà di spostamento in ogni area dell’impero. ❏ j) Con la riforma dell’esercito le città e i proprietari fondiari furono obbligati a fornire allo Stato uomini o finanziamenti.

108

Parte VI La tarda Antichità

Le coordinate spazio-temporali 2. Completa correttamente le seguenti frasi, quindi ordinale cronologicamente inserendo nella linea del tempo le lettere corrispondenti, così come mostrato nell’esempio: a) Dopo un anno di regno, Diocleziano associò alla guida dello Stato il generale ..................................................................................., al quale fu affidato il governo dell’................................................................... b) L’imperatore ....................................................................... iniziò la prima persecuzione generale dei ....................................................................., che si erano rifiutati di compiere sacrifici agli dei pagani. c) Diocleziano e Massimiano decisero di abdicare e i ............................................................................... che subentrarono furono nominati seguendo il criterio della ............................................................. d) L’imperatore .............................................................. emanò un editto con il quale concedeva la ......................................... a tutta la popolazione libera dell’impero. e) Per frenare ...................................................................................................................... Diocleziano emanò un editto per regolamentarli, ma fallì per l’opposizione dei ...................................................................... e venne ritirato. f) Durante il regno di ............................................................., la dinastia Sasanide salì al potere nel regno de ............................................................. g) I due ............................................................. decisero di nominare due “Cesari” – ............................................................. e Costanzo Cloro – che li coadiuvassero nell’amministrazione dell’impero. h) L’imperatore ............................................................. fu duramente sconfitto dai Parti nella battaglia di ............................................................. e fatto schiavo dal loro re Shapur. i) Diocleziano emanò un ............................................................. che impose al clero cristiano di consegnare i .................................................................... e i vescovi che ubbidirono furono chiamati dagli altri fedeli ............................................................. j) Un ufficiale di origine illirica, che assunse il nome di ......................................................................................................, prese il potere dopo aver ucciso l’imperatore .............................................................

a

212

250 224

285 260

293 286

303 301

305

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano

109

3. Osserva la carta geografica ed esegui le consegne proposte: a) Indica l’estensione dell’impero romano all’epoca di Diocleziano;

MARE DEL NORD

OCEANO ATLANTICO Dan

Re n

o

b) Colloca vicino ai pallini i nomi delle seguenti città: Roma, Treviri, Milano, Nicomedia, Sirmio.

ubio

c) Indica con differenti colori le città in cui risiedevano gli Augusti e quelle in cui risiedevano i Cesari.

MAR NERO

d) Rispondi alle domande:

MA

1) Che cos’era la tetrarchia? Come funzionava?

R

M

ED

IT

E

R

R

2) Quali fattori determinarono la scelta delle nuove capitali?

AN EO

3) Che ruolo assunse Roma durante il III secolo?

Il lessico 4. Collega correttamente i seguenti termini ed espressioni alle definizioni corrispondenti: a) Inflazione:

1) Meccanismo che permetteva allo Stato di emettere una maggiore quantità di denaro diminuendo la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete.

b) Neoplatonismo:

2) Settore dell’esercito formato da truppe scelte, preparate per lo spostamento rapido e per intervenire in situazioni d’emergenza.

c) Esercito limitaneo:

3) Termine che indica il processo di aumento dei prezzi.

d) Svalutazione:

4) Con le riforme di Diocleziano questo termine indicava le unità amministrative da cui erano formate le prefetture.

e) Catasto:

5) Dottrina filosofica che invitava a distaccarsi dal mondo e a badare soltanto alla salvezza ultraterrena.

f) Diocesi:

6) I fedeli che resistevano alle persecuzioni e con la loro morte testimoniavano la grandezza della loro fede.

g) Martiri:

7) Settore dell’esercito preposto alla difesa dei confini.

h) Esercito comitanense:

8) Inventario dettagliato di tutte le terre, che indicava i proprietari, le coltivazioni, i raccolti, i contadini.

110

Parte VI La tarda Antichità

L’elaborazione scritta 5. In un breve testo (max 30 righe) delinea un ritratto dell’imperatore Diocleziano e della sua opera riformatrice, seguendo la scaletta di argomenti proposta: a) Le sue origini e la presa del potere;

e) Burocrazia e autonomia delle realtà urbane locali;

b) La sua concezione del potere imperiale;

f) L’editto dei prezzi e l’ereditarietà dei mestieri;

c) La riforma fiscale (tasse e catasti);

g) La riforma dell’esercito;

d) La riforma amministrativa (prefetture e diocesi);

h) I rapporti con i cristiani.

L’esposizione orale 6. Rispondi alle seguenti domande: 1) Che relazione si instaura tra il potere imperiale e l’apparato militare durante l’epoca dei Severi e della cosiddetta “anarchia militare”? 2) Quali importanti riforme promossero l’imperatore Settimio Severo e suo figlio Caracalla? 3) Alla morte di Massimino il Trace l’aristocrazia romana riprese il controllo. In che modo essa dimostrò di gestire la crisi interna ed esterna all’impero? 4) In che modo la crisi sociale del III secolo incise nel sentimento religioso degli individui? 5) Per quali motivi iniziarono le persecuzioni sistematiche delle comunità cristiane? 6) Di quali strumenti erano in possesso gli imperatori per sostenere le spese dello Stato? Quali furono le conseguenze della svalutazione della moneta? 7) Il processo di uniformazione giuridica, amministrativa e linguistica promosso nel III secolo riuscì a rendere omogenei tra loro i vasti domìni dell’impero? Perché?

Il dibattito storiografico 7. Leggi attentamente le seguenti affermazioni e indica a tuo parere la più corretta, quindi argomenta la scelta in un breve testo scritto da confrontare in classe con quello dei compagni: a) La crisi del III secolo fu causata dall’enorme epidemia di vaiolo che ebbe gravi ripercussioni di tipo economico e demografico. b) A causare la grave crisi che investì il potere imperiale nel III secolo fu l’inefficienza bellica dalla quale derivarono gravi disordini politici e sociali che indebolirono l’esercito e il sistema di governo.

Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano

111

Capitolo 15

Il secolo di Costantino 1. L’età di Costantino

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Il potere nelle mani di un solo uomo

La grande trasformazione dell’impero romano avviata dalle riforme di Diocleziano fu completata sotto il lungo regno di Costantino (306-337). Figlio di Costanzo, che era Augusto d’Occidente, alla morte del padre Costantino fu acclamato imperatore dalle truppe stanziate in Britannia e assunse il titolo di Cesare. Veniva così rispettato, almeno in apparenza, il sistema della tetrarchia, che prevedeva la divisione del potere fra due Augusti più anziani e due Cesari più giovani. In realtà, il sistema della tetrarchia si stava rivelando insostenibile, perché i generali dell’esercito desiderosi di essere nominati Cesari entravano in competizione con i figli degli Augusti, che aspiravano a succedere ai padri. Lo stesso Costantino era un esempio di questa tendenza alla successione ereditaria, che contrastava con lo spirito meri-

La diffusione del cristianesimo nel IV secolo

MARE DEL NORD BRITANNIA Colonia

OCEANO ATLANTICO

Treviri

GALLIA

AR

M

Carnunto DACIA PANNONIA Milano Aquileia Mursa DA MAR NERO Arles LM Danubio AZ Sinope Amisi IA Costantinopoli Roma Filippi Neocesarea Calcide Nicea Napoli Tessalonica Pergamo ASIA Cesarea Smirne MINORE Edessa Corinto Efeso Tarso Reggio Atene Mileto Antiochia Cartagine Siracusa Palmira Mari Damasco MAR MEDITERRANEO Sidone

Tingitanum

Tipasa

MAURETANIA

Cirene

Gerusalemme

AR

M

lo

O SS

RO

112

Cesarea

Alessandria CIRENAICA EGITTO

Ni

Centri di missione Comunità fino al 325 Concili Territori fortemente cristianizzati fino al 325

AFRICA

Parte VI La tarda Antichità

O

Cordova

PI

SPAGNA

S CA

Lione



tocratico del sistema tetrarchico e che il vecchio Diocleziano avrebbe voluto eliminare. Nel 307 anche Massenzio, figlio di un altro Augusto ormai pensionato, Massimiano, si ribellò a un sistema che lo escludeva e prese il potere con la forza in Italia. All’inizio Costantino lo appoggiò, sposando sua sorella Fausta; poi, siccome nessuno degli altri imperatori voleva riconoscere Massenzio, si schierò contro di lui. Nel 312 Costantino, la cui base principale di potere era formata dalla Gallia, invase l’Italia e il 28 ottobre sconfisse e uccise Massenzio alla battaglia di Ponte Milvio, alle porte di Roma. Secondo la leggenda, alla vigilia della battaglia Costantino avrebbe avuto in sogno una visione mandata da Dio: gli apparve la croce accompagnata dalla frase In hoc signo vinces, ‘Sotto questa insegna vincerai’. In realtà, Costantino all’epoca era un seguace del dio Sole, uno dei culti orientali che s’erano diffusi nell’impero romano in concorrenza col cristianesimo; ma si sapeva che, al contrario degli altri imperatori, guardava con simpatia anche al mondo cristiano. Nel 313 Costantino s’incontrò a Milano con il collega imperatore Licinio, e insieme emanarono un editto a favore dei cristiani, di cui Costantino fu il principale ispiratore. L’editto di Milano, o editto di tolleranza, è una tap-

Testa del Colosso di Costantino Inizi IV sec. Palazzo dei Conservatori, Musei Capitolini, Roma L’iconografia con la quale Costantino passa alla storia è molto lontana da quella imperiale delle epoche precedenti: i tratti rudi e volitivi di altri imperatori, come nel caso di Caracalla per esempio, lasciano il passo allo sguardo assorto e immobile; ogni lineamento di Costantino ostenta imperturbabilità. Siamo di fronte al “sacro volto” di un imperatore in contatto diretto con la divinità.

L’editto di Milano L’editto di Milano fu emanato nel febbraio 313 da Costantino e Licinio, i due imperatori che in quel momento si spartivano l’impero romano. Siccome più tardi Costantino si schierò apertamente a favore del cristianesimo, mentre la posizione di Licinio in materia religiosa era meno chiara, l’editto è attribuito di solito a Costantino, anche se è firmato da entrambi. Noi lo conosciamo perché due grandi scrittori cristiani del IV secolo, Lattanzio ed Eusebio di Cesarea, lo hanno trascritto nelle loro opere, rispettivamente in latino e in greco: è chiaro che agli occhi dei cristiani di quell’epoca si trattò di un avvenimento di immensa importanza. Non dobbiamo però credere che con l’editto di Milano il cristianesimo sia diventato la religione ufficiale dell’impero. Il testo dell’editto è chiarissimo: i cristiani, si dice, non devono più essere perseguitati, e il loro culto dev’essere ammesso, così come sono ammessi tutti gli altri culti. La libertà che garantiamo ai cristiani, specificano espressamente i due imperatori, dev’essere garantita anche a tutti gli altri. Questa tolleranza rifletteva una mentalità religiosa diffusa nell’impero romano all’inizio del IV secolo. Il mondo antico, che per tanti secoli aveva adorato una molteplicità di dèi, negli ultimi tempi aveva assistito al-

l’immensa diffusione di nuove religioni orientali, come il culto del Sole e come lo stesso cristianesimo. Era abbastanza normale per un romano colto e tollerante immaginare che Dio, o il principio divino, fosse uno solo, ma che gli uomini potessero adorarlo sotto varie forme. E proprio questo è il concetto affermato da Costantino e Licinio nell’editto di Milano: in cielo, dicono, c’è un Dio, che tutti gli uomini riconoscono e venerano, ciascuno a modo suo; ed è dovere dell’imperatore garantire a ciascuno piena libertà di culto, in modo che la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, si dimostri benevola verso gli uomini. Questo editto che apre un’epoca nuova nella storia del mondo è dunque ancora impregnato di una concezione tipica del mondo antico, l’accettazione tollerante di tutti i culti religiosi: una tolleranza che nel mondo cristiano era destinata ben presto a scomparire.



Medaglia con l’imperatore Costantino incoronato dalla mano di Dio 330 Kunsthistorisches Museum, Vienna Al centro di questo medaglione, del peso di ben 253 grammi e del valore di 30 solidi, vediamo raffigurati l’imperatore Costantino e i suoi due figli maggiori. Il figlio di sinistra è incoronato d’alloro da un soldato, quello di destra dalla Vittoria, mentre sul capo di Costantino scende a incoronarlo una mano dal cielo.

Capitolo 15 Il secolo di Costantino

113



Personificazioni di Roma e Costantinopoli 380 Dal Tesoro dell’Esquilino, Roma; British Museum, Londra Queste due statuette in argento rappresentano la personificazione di Roma (a sinistra) e quella di Costantinopoli (a destra); entrambe indossando la tunica e un elmo crestato e sono accompagnate da oggetti simbolici: Roma impugna il bastone del comando, mentre Costantinopoli stringe da un lato una cornucopia, emblema di abbondanza, dall’altro una patera, recipiente molto usato durante i rituali sacri.

114

pa di immensa importanza nella storia: dopo secoli di diffidenza e le forti persecuzioni degli ultimi tempi, i due imperatori dichiararono che il cristianesimo era un culto legittimo, al pari di tutti gli altri, e che i cristiani non dovevano venire in nessun modo disturbati dalle autorità. L’anno dopo Licinio sconfisse il terzo imperatore rimasto, Massimino Daia. A questo punto c’erano due soli imperatori nell’immenso impero di Roma, Costantino Augusto d’Occidente e Licinio Augusto d’Oriente: il complicato sistema della tetrarchia era tramontato, ma ormai si era fatta l’abitudine all’esistenza di una pluralità di imperatori e appariva abbastanza normale che la parte occidentale e la parte orientale fossero governate da due sovrani diversi. Costantino, però, voleva tutto il potere e con due guerre successive, nel 316-317 e nel 324-325, sconfisse Licinio, che venne catturato e poi ucciso. L’impero romano era di nuovo governato da un solo uomo. Le scelte di Costantino: cristianesimo e Oriente

Il governo di Costantino segnò un deciso spostamento del baricentro dell’impero romano verso oriente. Le province occidentali, infatti, erano in grave crisi. La Gallia del Nord era esposta alle scorrerie dei barbari Franchi e Alamanni stanziati oltre il Reno, ed era in parte spopolata. L’Italia attraversava gravi difficoltà economiche: gli enormi privilegi fiscali di cui aveva goduto fino alle riforme di Diocleziano non avevano stimolato lo sviluppo. La città di Roma, per quanto ancora ricchissima, non era più da molto tempo la residenza degli imperatori, che trascorrevano il loro tempo presso le frontiere minacciate. Ma se una parte dell’Occidente era in crisi, l’Oriente invece era prospero: l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto erano le province più ricche dell’impero, mentre i Balcani erano la principale fonte di reclutamento per l’esercito. Perciò Costantino, che aveva preso il potere in una remota provincia occidentale dell’impero, la Britannia, decise di spostare a oriente il centro dell’impero. Scelse l’antica città greca di Bisanzio, che era collocata in una posizione geografica straordinaria, sul confine fra l’Europa e l’Asia, fra il Mediterraneo e il Mar Nero. L’imperatore trasformò Bisanzio in una nuova, grandiosa capitale, una seconda Roma, a cui diede il suo nome: Costantinopoli. La scelta di Costantino a favore dell’Oriente è dimostrata anche dalla sua conversione al cristianesimo. Non bisogna dimenticare infatti che si trattava di una religione di origine orientale, che si era radicata nell’impero proprio partendo dalle province d’Oriente. Da sempre gli storici si chiedono quando esattamente Costantino sia diventato cristiano, e fino a che punto si sia trattato di convinzione profonda, fino a che punto invece di una scelta politica, dato che l’appoggio delle ricche e influenti comunità cristiane poteva fare la differenza nella competizione per il potere. L’editto di Milano non era ancora una scelta esplicita a favore del cristianesimo: esso non trasformava la fede cristiana in religione di Stato, ma si limitava a mettere fine alle persecuzioni contro i cristiani, equiparando la loro religione alle altre praticate nell’impero. Non c’è dubbio, però, che Costantino si sentiva molto vicino ai cristiani, anche per influenza della madre Elena, che era battezzata; l’im-

Parte VI La tarda Antichità

peratore stesso si fece battezzare, anche se solo in punto di morte, dichiarando così ufficialmente la propria adesione alla nuova fede. Ma già prima di allora la simpatia dell’imperatore per i cristiani ebbe risultati molto concreti: Costantino concesse per legge numerosi privilegi al clero cristiano, finanziò la costruzione di colossali basiliche, e s’interessò da vicino alle discussioni teologiche che all’epoca infiammavano i fedeli [cfr. cittadinanza, p. 120]. La volontà dell’imperatore di collaborare da vicino con la Chiesa cristiana, di proteggerla e anche di dirigerla si manifestò in modo spettacolare nel 325, quando si riunì il concilio di Nicea, il primo concilio ecumenico della storia. Un concilio è un raduno di vescovi cristiani, per discutere di problemi religiosi e organizzativi, e si chiama ecumenico (dal greco oikoumène, ‘il mondo abitato’) quando i vescovi giungono da tutto il mondo cristiano. Nella storia i concili ecumenici sono sempre stati momenti importanti, in cui venivano prese decisioni cruciali, e nell’ultimo millennio sono sempre stati i papi a convocarli; ma nel 325 le cose non andarono così. Fu Costantino a convocare i vescovi nella città di Nicea e a presiedere il concilio, in cui si discusse un problema fondamentale per la teologia cristiana: il rapporto fra il Padre e il Figlio nella Trinità (ci torneremo al par. 3). Il teologo Ario, secondo il quale il Figlio era da considerare inferiore al Padre, ne uscì sconfitto e la sua dottrina, il cristianesimo ariano, fu condannata come eretica, cioè sbagliata e contrastante con l’insegnamento ufficiale della Chiesa. I seguaci di Ario, però, erano molto numerosi, soprattutto nell’impero d’Oriente: ancora per molto tempo il contrasto fra i cristiani ariani e i cristiani “niceni” o cattolici, fedeli cioè all’insegnamento del concilio di Nicea, rappresentò un motivo di violenta spaccatura nel mondo romano-cristiano. Le azioni di governo

Trinità

Secondo il dogma cristiano la Trinità è composta dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo: l’essenza di Dio si fonda sull’unità delle tre persone.



Sotto il governo di Costantino l’impero si rafforzò da tutti i punti di vista. I barbari che vivevano oltre le frontiere vennero ripetutamente sconfitti e costretti a sottomettersi: tanto i Franchi e gli Alamanni oltre il Reno, quanto i Goti e i Sarmati oltre il Danubio dovettero accorgersi che Roma, superata la crisi del III secolo, era di nuovo imbattibile. Sotto gli imperatori precedenti la moneta romana si era svalutata fino a perdere quasi del tutto il suo valore; sotto Costantino una nuova moneta, il solidus d’oro – da cui deriva il nostro termine soldo – fornì all’imperatore un mezzo sicuro per il pagamento dell’esercito. L’oro messo in circolazione dalle zecche imperiali e versato ai legionari veniva poi rastrellato grazie alle imposte, che dovevano obbligatoriamente essere pagate in oro. Co-

Sarcofago di sant’Elena 320 Palazzi Vaticani, Museo Pio Clementino, Roma Il Sarcofago di sant’Elena è realizzato in porfido rosso; la decorazione a tema militare ha lasciato supporre che in un primo tempo Costantino l’avesse commissionato per sé stesso preferendo poi destinarlo a sua madre Elena. La decorazione della parte centrale della cassa è occupata da cavalieri romani con tunica corta, elmo e lancia, raffigurati nell’atto di caricare barbari in fuga o di farli prigionieri, in un chiaro riferimento ai successi militari conseguiti da Costantino.

Capitolo 15 Il secolo di Costantino

115

niando buona moneta, Costantino non si preoccupava tanto di rendere un servizio all’economia, quanto di rafforzare il proprio potere. Un’intensa attività legislativa permise a Costantino di razionalizzare l’amministrazione e la giustizia, consolidando il potere assoluto dell’imperatore. I suoi provvedimenti limitarono l’autonomia dei senatori – che avevano il titolo di clarissimi – e assoggettarono le élite urbane locali – i curiali, membri delle curiae (le amministrazioni municipali) – a un pesante controllo burocratico. L’appartenenza alle curiae, che portava con sé l’obbligo di garantire col proprio patrimonio la riscossione delle tasse, era divenuta ereditaria fin dal tempo di Diocleziano; Costantino vietò ai loro membri di sfuggirvi entrando nella Chiesa, nell’esercito o nella burocrazia imperiale. Le nuove leggi intervennero in senso moralistico anche sulla vita familiare e i costumi, punendo più severamente di prima l’adulterio, e restringendo le possibilità di divorzio: l’imperatore intendeva al tempo stesso riportare in auge gli valori di Roma, e venire incontro ai nuovi valori cristiani. Unico padrone dell’impero, Costantino si preoccupò di risolvere il problema della successione. Il sistema della tetrarchia era morto e sepolto e Costantino era ben deciso a garantire il trono ai suoi numerosi figli. Perciò li fece nominare Cesari fin da bambini e alimentò un vero culto della famiglia imperiale, presentata come garanzia della prosperità dell’impero. Nel 326 si verificò un gravissimo incidente, che smentiva questa visione ottimistica: la moglie di Costantino, Fausta, e il figlio maggiore Crispo, nato da un precedente matrimonio, vennero accusati di complottare ai suoi danni e Costantino li fece uccidere entrambi. Gli rimanevano però altri tre figli, e furono loro, come previsto, a raccogliere la successione quando il vecchio imperatore morì nel 337.

1. Che cosa sanciva l’editto di Milano? 2. Per quale motivo Costantino scelse l’Oriente come centro dell’impero? 3. In che modo fu risolto il problema della successione?

2. Dai figli di Costantino a Valentiniano e Valente

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

La guerra fratricida

Alla morte di Costantino i suoi tre figli, Costantino II, Costanzo II e Costante, si divisero l’impero. Tutti e tre erano cristiani, e cristiani saranno d’ora in poi tutti gli imperatori, con la sola eccezione di Giuliano, di cui diremo in queste pagine. I rapporti fra i tre fratelli, però, erano pessimi, sia per reciproca gelosia, sia per le diverse posizioni religiose. Costantino II, che nella spartizione ebbe le province più occidentali, Gallia, Britannia e Spagna, adottò il cristianesimo niceno, o “cattolico”, largamente predominante in quelle zone; lo stesso fece Costante, cui toccarono Italia, Illirico, Grecia e Africa, tutti territori in prevalenza cattolici. Costanzo II, a cui erano toccate le province più orientali, Anatolia, Siria ed Egitto, si schierò invece con l’arianesimo, condannato al concilio di Nicea del 325 ma ancora fortissimo proprio in quelle zone. Il primo dei tre fratelli a essere tolto di mezzo fu Costantino II, che era stato nominato tutore del fratello più giovane, Costante, e che quando questi divenne maggiorenne cercò di eliminarlo. Nel 340 Costantino II invase l’Italia, ma fu lui a essere ucciso in battaglia e Costante si impadronì anche dei suoi territori. Fra il cattolico Costante e l’ariano Costanzo II i rap-

116

Parte VI La tarda Antichità

porti divennero molto tesi, anche se non si arrivò mai alla guerra aperta. Nel 350 Costante fu assassinato da un complotto di ufficiali guidato da Magnenzio, che si proclamò imperatore al suo posto. Nel 351 Costanzo II sconfisse l’usurpatore nella battaglia di Mursa, in Pannonia, passata alla storia come una delle più sanguinose mai combattute fra Romani e Romani; e nel 353 sconfisse definitivamente Magnenzio in Gallia, costringendolo al suicidio. Da allora e fino alla morte, nel 361, Costanzo II regnò su un impero romano riunificato. Durante gli anni della lotta per il potere, i figli di Costantino convocarono diversi concili nel tentativo di risolvere il dissenso fra cattolici e ariani, che appariva come il problema più grave del mondo cristiano ed era fonte di continui disordini; i cattolici e gli ariani, infatti, erano organizzati in due Chiese concorrenti, ognuna delle quali sosteneva di essere l’unica legittima, e accusava gli avversari di eresia. Costanzo II nei suoi ultimi anni di vita cercò di imporre una mediazione che si collocava a metà fra le due posizioni estreme, ma i suoi sforzi vennero accolti male da entrambe le parti. Le due grandi confessioni in cui s’era spaccato il mondo cristiano erano ormai troppo ostili l’una all’altra per poter accettare compromessi. Nel frattempo tutti gli imperatori continuarono la politica paterna concedendo al clero cristiano privilegi giuridici ed esenzioni fiscali, e ponendo ostacoli alle pratiche pagane più invise ai cristiani, come i sacrifici pubblici o la divinazione. Anche gli Ebrei vennero colpiti da crescenti discriminazioni. Da un anno all’altro il mondo romano diventava ufficialmente sempre più cristiano. Oltre ad ammazzarsi reciprocamente in guerre fratricide e a cercare di imporre con la forza la versione del cristianesimo di cui ognuno si era fatto il campione, i tre figli di Costantino si trovarono costretti, come già il padre, a far fronte alle sempre nuove pressioni dei grandi popoli barbari che vivevano al di là del Reno e del Danubio. Nel complesso le operazioni militari videro sempre il successo dei Romani e i barbari riuscirono a entrare sul territorio dell’impero solo come immigrati o deportati, accolti per grazia dell’imperatore e messi al lavoro. A Oriente, Costanzo II doveva far fronte a un nemico più temibile, l’impero persiano dei Sasanidi, e a più riprese lo combatté in Mesopotamia. Le operazioni militari su questo fronte furono prolungate e costose, ma poco decisive: nessuno dei due imperi sembrava abbastanza forte da prevalere nettamente sull’altro.

 Obelisco Lateranense eretto a Roma da Costanzo II XV sec. a.C. Piazza San Giovanni in Laterano, Roma In occasione della sua unica visita alla capitale, avvenuta nel 357 per celebrare i propri vicennalia (vent’anni di governo), Costanzo II pensò di donare alla città di Roma un monumento che ricordasse il suo passaggio. Scelse di recuperare un vecchio progetto paterno: trasferire dall’Egitto a Roma uno degli obelischi eretti nel XV secolo a.C. dal faraone Thutmosi III presso il tempio di Amon, a Tebe. Giunto a Roma dopo il lungo viaggio a bordo di una possente nave appositamente costruita, l’obelisco fu installato nel Circo Massimo. Restaurato dopo sfortunate vicissitudini, l’obelisco fu trasportato in piazza del Laterano nel 1588, dove ancora oggi è possibile ammirarlo.

Giuliano e Valentiniano

Costanzo II non aveva figli maschi, e alla morte designò come erede il cugino Giuliano. Giuliano, che regnò dal 361 al 363, fu l’ultimo imperatore della dinastia di Costantino, ma prese nettamente le distanze dal suo modello di governo. Era un uomo di eccezionali qualità, al tempo stesso generale, teologo e filosofo, innamorato della filosofia neoplatonica [cfr. cap. 14.5] e deciso a riportare l’impero di Roma alla gloria passata. Ispirandosi a Mar-

Capitolo 15 Il secolo di Costantino

117

co Aurelio, Giuliano si propose di regnare coll’aiuto del senato, da primus inter pares (‘primo tra pari’) e non da autocrate o sovrano assoluto come i suoi predecessori. In contrasto con la tendenza che prevaleva fin dall’epoca di Diocleziano e Costantino, Giuliano ridimensionò la corte e la burocrazia e cercò di rivitalizzare le autonomie delle città. Ai suoi occhi il ritorno al passato significava anche ristabilire i culti pagani che il cristianesimo aveva progressivamente emarginato, come il culto del Sole. Benché allevato nella fede cristiana, Giuliano fu l’ultimo imperatore pagano e i Cristiani gli affibbiarono il soprannome insultante di Apostata, che vuol dire ‘colui che ha rinnegato la propria fede’. Giuliano restaurò i templi che gli imperatori cristiani avevano fatto chiudere, cancellò i privilegi del clero e cercò di convincere la classe dirigente dell’impero ad allontanarsi dal cristianesimo. Ma la reviviscenza del paganesimo durò poco: Giuliano, che prima di salire al trono aveva ottenuto brillanti vittorie contro Franchi e Alamanni in Gallia, si impegnò in una grande spedizione contro i Sasanidi in Mesopotamia, ma vi trovò la morte dopo solo un anno e mezzo di regno, a poco più di trent’anni di età. Il suo successore Gioviano fece subito la pace con i Persiani, a costo di pesanti perdite territoriali, abolì la legislazione religiosa di Giuliano e tornò a favorire il cristianesimo e perseguitare le pratiche pagane. Morto Gioviano nel 364, salì al potere il formidabile Valentiniano, uno dei più grandi imperatori del secolo (364-375). Sotto di lui si stabilizzò la suddivisione dell’impero in due parti, Occidente e Oriente: Valentiniano tenne per sé l’Occidente e affidò l’Oriente al fratello minore Valente (364-378). Valentiniano era innanzitutto un grande generale; al suo comando l’esercito romano inflisse ripetute disfatte ai barbari del Reno e del Danubio e penetrò regolarmente nel loro territorio a saccheggiare e catturare prigionieri. Valentiniano era cristiano e intervenne contro alcune pratiche pagane, ma cercò di non accentuare le spaccature religiose fra i sudditi, e perciò evitò di favorire una corrente del cristianesimo perseguitando le altre. A Oriente, suo fratello Valente non fu altrettanto prudente: di confessione ariana, urtò con il suo comportamento il clero cattolico, e così indebolì la sua popolarità. Poco dopo la morte di Valentiniano, Valente si troverà ad affrontare la grande migrazione gotica attraverso il Danubio che segna l’inizio delle invasioni barbariche (ne parleremo più avanti: cap. 16.1).



Statua di Giuliano l’Apostata IV sec. Musée du Louvre, Parigi

1. Come fu suddiviso l’impero alla morte di Costantino? 2. Quali azioni di governo intraprese l’imperatore Giuliano?

3. Il cristianesimo non più perseguitato, ma diviso

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Cattolici, ortodossi, eretici

Il regno di Costantino segna una svolta decisiva per la storia del cristianesimo. Fino a poco prima i fedeli erano ancora vittime delle persecuzioni più feroci; ora invece la fede di Cristo diventa religione non solo permessa, ma favorita in molti modi dal potere imperiale. Nel corso del IV secolo il cristianesimo diventa la religione di maggioranza in tutto l’impero. Il fatto stesso che l’imperatore sia cristiano favorisce le conversioni: da secoli gli abitanti dell’impero guardavano agli imperatori come a un modello e imitavano il loro comportamento

118

Parte VI La tarda Antichità

in ogni campo, persino nei modi di portare capelli e barba. Il fatto che il signore del mondo fosse diventato un seguace di Cristo diede alla nuova religione un prestigio enorme. La Chiesa si organizza alla luce del sole, senza più temere l’ostilità del governo, anzi sicura del suo appoggio. I vescovi che guidano le comunità cristiane delle città cominciano a essere visti come autorità spirituali riconosciute anche dallo Stato. Ogni vescovo esercita la sua sorveglianza sulla vita religiosa della città e del suo territorio; nasce così la diocesi, una parola presa in prestito dall’amministrazione dell’impero, e che nella Chiesa, fino a oggi, ha continuato a designare la circoscrizione sottoposta all’autorità di un vescovo. Tuttavia, nel momento in cui le comunità cristiane e il loro clero escono dalla semiclandestinità e cominciano a vivere in sintonia con la vita pubblica dell’impero, vengono alla luce del sole anche le profonde spaccature che le dividono. Un primo problema è quello dei cosiddetti donatisti. Si tratta di cristiani intransigenti, che giudicano senza indulgenza quei preti i quali al tempo delle persecuzioni si sono arresi e hanno accettato di abiurare pur di scampare al martirio. Molti cristiani pensano che non si tratti di una colpa grave, e che quel clero, ora che le persecuzioni sono finite, possa riprendere il suo posto. I donatisti, invece, ritengono che chi ha abiurato per paura abbia perduto tutti i suoi diritti e rifiutano di riconoscere come validi i sacramenti amministrati dai preti rinnegati. Il movimento donatista è diffuso soprattutto in Africa, dove provoca disordini, che Costantino si affretta a reprimere. L’intervento imperiale per tacitare i donatisti è il primo esempio di azione governativa volta a reprimere, su richiesta della Chiesa, dei cristiani che seguono opinioni “sbagliate”. A partire da questo momento diventa normale nel mondo cristiano distinguere chi segue fedelmente l’insegnamento della Chiesa, e chi invece ha opinioni personali contrastanti con l’insegnamento ufficiale. Chi obbediva alla Chiesa e ne accettava il magistero era definito ortodosso (dal greco: ‘chi segue la giusta opinione’) e cattolico (sempre dal greco: ‘universale’). Chi invece faceva una “scelta” personale in contrasto con il magistero della Chiesa era definito eretico, dal greco hàiresis che in origine significa, appunto, “scelta”. Già dal IV secolo questa parola non ha più niente di neutro: è una parola pesante, e comporta la condanna senza appello dell’eretico che sostiene, agli occhi della Chiesa, opinioni sbagliate (“eresie”). Da quest’epoca fino a tempi recenti, cioè fino al XIX secolo, la Chiesa utilizzerà regolarmente l’aggettivo “eretico” per bollare d’infamia chi non è d’accordo anche solo su un punto del suo insegnamento ufficiale, e si aspetterà la collaborazione del governo per perseguitarlo.



Cristo docente IV sec. Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo, Roma Questa piccola statua è stata scolpita in un momento in cui non si era ancora codificata l’immagine oggi consueta di Gesù Cristo. Il figlio di Dio è infatti rappresentato quasi come un fanciullo, senza barba, con lunghi capelli riccioluti. Cristo è vestito in modo elegante ed è seduto su un seggio, nell’atto di insegnare. Nella mano sinistra tiene infatti un rotolo, mentre la destra è leggermente alzata, ad accompagnare le parole con il gesto.

Il concilio di Nicea

Non sempre, però, era facile stabilire quale fosse l’insegnamento corretto, e quale l’eresia. I cristiani del IV-V secolo si trovavano di fronte a un problema che consideravano importantissimo, e cioè decidere quali fossero esattamente i rapporti fra le tre persone della Trinità, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Specialmente il rapporto fra il Padre e il Figlio turbava gli animi. Il Figlio era importante quanto il Padre, oppure contava di meno? Cristo era Dio e uomo allo stesso modo, oppure per il fatto d’essere diventato uomo si doveva pensare che non fosse più veramente Dio? Il Figlio esisteva da sempre, ed era fatto della stessa sostanza del Padre, oppure era stato creato a un certo punto? Trovare un accordo su

Capitolo 15 Il secolo di Costantino

119

cittadinanza I privilegi del clero

Costantino, e gli altri imperatori dopo di lui, consideravano proprio dovere favorire la Chiesa cristiana e aiutarla in tutti i modi a svolgere la sua funzione pastorale. In un’epoca in cui diventava sempre più comune contribuire alla vita della Chiesa con generose donazioni, gli imperatori non si tiravano indietro. Essi investivano grosse risorse nella costruzione di edifici ecclesiastici, come le basiliche di Costantino; il termine stesso basilica significa ‘edificio fondato dall’imperatore’ (in greco infatti l’imperatore si chiamava basilèus). Sembrò naturale agli imperatori cristiani esentare i beni della Chiesa dalle pesanti imposte che gravavano sulla proprietà immobiliare: a differenza dei cittadini dell’impero la Chiesa non pagava tasse sugli edifici o i terreni di sua proprietà. Ma oltre alle esenzioni fiscali per la Chiesa in quanto istituzione, vennero introdotti anche privilegi ed esenzioni che riguardavano individualmente i membri del clero. Fino all’affermarsi del cristianesimo non esisteva nella società una distinzione fra clero e laicato: i sacerdoti dei culti pagani non erano cittadini diversi dagli altri, e ogni politico nel corso della sua carriera poteva accedere a cariche sacerdotali, compresa quella di pontefice massimo. La Chiesa cristiana introdusse la distinzione fra i membri del clero, che avevano ricevuto una consacrazione e potevano quindi celebrare la liturgia, e i semplici fedeli, che alla liturgia potevano soltanto assistere. Da Costantino in poi gli imperatori decisero che anche lo Stato doveva riconoscere questa distinzione, concedendo ai membri del clero dei privilegi giuridici, fra cui l’immunità da una serie di obblighi che gravavano sui cittadini comuni. Ma la novità più gravida di conseguenze fu la decisione di esentare i membri del clero dalla giurisdizione dei tribunali. A partire dal IV secolo, e per millecinquecento anni, fu normale nei paesi cristiani che gli ecclesiastici non fossero soggetti alla giustizia dello Stato allo stesso modo degli altri sudditi. La Chiesa esigeva che il vescovo, non il giudice nominato dal re o dall’imperatore, fosse l’unica autorità competente quando si trattava di giudicare cause che riguardavano gli interessi della Chiesa stessa e i membri del clero. Questo principio non fu sempre accettato pacificamente, anzi la storia del Medioevo e dell’età moderna è piena di conflitti fra potere statale e Chiesa, suscitati proprio da questa pretesa di immunità. A seconda delle epoche e dei paesi, si ponevano dei limiti e si accettavano dei compromessi. In linea di principio, però, tutti erano d’accordo che i membri del clero avessero diritto a un trattamento particolare e che i vescovi, in certi casi, dovessero giudicare al posto dei tribunali. In linguaggio giuridico questa giurisdizione separata si chiama “foro ecclesiastico”. In Italia il primo Stato ad abolire il foro ecclesiastico, nonostante una durissima resistenza della Chiesa, fu il regno di Sardegna con le leggi Siccardi, approvate nel 1850, in pieno Risorgimento. Queste leggi sono ricordate a Torino da un obelisco su cui è incisa la scritta «La legge è

120

Parte VI La tarda Antichità

uguale per tutti». Questo principio, che oggi è esposto in tutti i tribunali dello Stato italiano, non ha quindi niente di generico, ma si riferisce a una situazione specifica: la fine dei privilegi che per molti secoli erano stati concessi ai membri del clero, e che facevano di loro dei cittadini diversi dagli altri.

 La Basilica Ecclesia Mater IV sec. Museo del Bardo, Tunisi A partire dal 313, dopo l’Editto di tolleranza promulgato da Costantino, i cristiani poterono uscire dalla clandestinità cui erano costretti a causa delle persecuzioni e riunirsi liberamente per praticare il loro culto. La basilica ha rappresentato fin da questo periodo il più prestigioso dei loro luoghi di raduno.



Il Buon Pastore III sec. Particolare di un sarcofago; Musei Capitolini, Roma Una delle immagini più frequenti dell’arte paleocristiana rappresenta il “Buon pastore” che porta sulle spalle l’agnello. La simbologia richiama la figura del Cristo salvatore di anime, e per estensione della Chiesa, che sopporta il fardello del suo gregge, i fedeli, per garantire loro la salvezza eterna.

questi problemi era così importante che l’imperatore Costantino in persona s’incaricò di aiutare la Chiesa a trovare una soluzione, convocando nel 325 il concilio di Nicea. Come abbiamo detto, al concilio si scontrarono due punti di vista [cfr. par. 1]. Il teologo Ario sosteneva che il Figlio era inferiore al Padre. Il suo avversario, Atanasio, sosteneva invece la completa parità fra Padre e Figlio. I vescovi si schierarono in maggioranza con Atanasio. Venne allora formulata la prima versione del Credo cattolico come lo conosciamo ancor oggi: il cristiano era obbligato a credere in Cristo «Dio vero da Dio vero, generato e non creato, della stessa sostanza del Padre». La sconfitta di Ario non significò però la scomparsa di questa variante del cristianesimo: i cristiani ariani erano molto numerosi nell’impero d’Oriente, e nel corso del IV secolo, come abbiamo visto, ebbero addirittura l’appoggio di diversi imperatori, come Costanzo II e Valente. Il concilio di Nicea, quindi, non fu sufficiente a sanare una spaccatura che avebbe continuato per secoli a dividere il mondo cristiano.

1. Che cosa rappresentavano le diocesi nel mondo cristiano? 2. Che cosa sostenevano Ario e Atanasio? Quale posizione prevalse?

 4. La nascita del monachesimo

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Da solitari asceti a membri di comunità

Fin dai primi tempi del cristianesimo era nato un movimento che spingeva i credenti ad allontanarsi dal mondo, a cercare la solitudine per dedicarsi interamente alla preghiera e all’ascesi. L’ascesi è un concetto fondamentale della vita cristiana, che indica la ricerca di Dio attraverso la rinuncia a tutti i piaceri del mondo, alla carriera, ai soldi, alla buona tavola, al sesso. Si tratta, insomma, di concentrarsi interamente sulla vita dello spirito, mortificando quella della carne. In Siria e in Egitto i cristiani che decidevano di consacrarsi al-

Capitolo 15 Il secolo di Costantino

Il monastero di Stavrovouni IV sec. Cipro Stavrovouni, ovvero ‘Montagna della Croce’, è un antichissimo monastero cipriota abbarbicato su un picco roccioso. La leggenda narra che fu fondato nel 327 dalla madre di Costantino, Elena, che in ritorno da Gerusalemme vi lasciò come reliquia un frammento della Santa Croce, ancora oggi custodito in un prezioso reliquiario d’argento.

121

la vita ascetica si ritiravano a vivere da eremiti nel deserto; sono chiamati perciò “i Padri del deserto”. Nella lingua greca, parlata in quelle regioni dell’impero romano, si affermò una parola per indicare chi faceva questa scelta estrema: monaco, dal greco mònos, ‘uno solo’, per sottolineare appunto la solitudine a cui si votavano gli eremiti. Nell’età di Costantino il movimento monastico si trasformò. I monaci erano sempre più numerosi nella parte orientale dell’impero (l’unica in cui il movimento, all’inizio, si era diffuso), e anziché vivere da soli alcuni di loro cominciarono a organizzarsi in comunità. Il primo a prendere questa iniziativa fu Pacomio, uno dei Padri del deserto, vissuto fino al 348. In Egitto, Siria, Palestina e Mesopotamia si moltiplicarono i monasteri. Con questa parola indichiamo l’edificio in cui una comunità di asceti si rinchiude per vivere separata dal mondo e dedicarsi alla preghiera; un’altra parola per indicare il monastero è cenobio, da un’espressione greca che significa ‘vita in comune’. Fin dall’inizio le comunità monastiche si organizzarono in modo gerarchico: i confratelli eleggevano un capo, che fu chiamato abate, dalla parola siriaca abba, che significa ‘padre’. Chi voleva farsi monaco doveva pronunciare dei voti, impegnandosi alla povertà, alla castità e all’obbedienza, nello specifico verso gli ordini dell’abate. Per organizzare la vita collettiva, Pacomio stabilì che la sua comunità dovesse avere un regolamento, chiamato appunto regola, e da allora ogni monastero ha sempre seguito una regola. Quando si fondava una comunità era possibile scrivere una regola nuova, ma nella grande maggioranza dei casi si preferiva adottarne una già esistente. Fra le regole scritte nel IV secolo la più diffusa, imitata da un gran numero di monasteri in tutto l’impero d’Oriente, fu quella composta da Basilio di Cesarea, uno dei Padri greci della Chiesa. La diffusione in Occidente e il ruolo dei monaci

In Occidente, dove il cristianesimo era meno diffuso, il movimento monastico penetrò per la prima volta con Martino di Tours (morto nel 397), poi venerato come santo protettore della Gallia. Martino era un militare romano che aveva abbandonato l’esercito dopo essersi convertito al cristianesimo, ed ebbe un ruolo importante nella lotta contro il paganesimo e contro il cristianesimo ariano. Nel 361 Martino fondò la prima comunità monastica della Gallia, e successivamente ne fondò altre, contribuendo fortemente alla diffusione del nuovo movimento nell’intero Occidente. Nel 371 Martino fu eletto vescovo di Tours: i monaci ormai erano così importanti nel mondo cristiano che potevano essere scelti per capeggiare tutta la vita religiosa d’una città. Il diffondersi dei monaci suscitò reazioni contrastanti nel mondo del IV secolo. I politeisti, ancora molto numerosi, li consideravano degli ipocriti e dei pericolosi fanatici. I cristiani riconoscevano loro una grande autorità spirituale e perfino gli imperatori ascoltavano con devozione i loro ammonimenti. In realtà la scelta di vivere poveramente, di vestirsi in modo modesto, di non dare importanza ai piaceri della vita accomunava i monaci ai filosofi del mondo greco, anch’essi, in passato, ascoltati con rispetto dai potenti. In questo senso si può dire che il monaco prese il posto del filosofo, in un mondo che sentiva acutamente il bisogno di esempi di vita alternativa, e dove la religione aveva sempre più importanza.

1. Che obblighi comportava divenire monaci? 2. Che ruolo assunse la figura del monaco nella società del IV secolo?

122

Parte VI La tarda Antichità

5. La moneta e il fisco

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Una delle riforme più importanti del regno di Costantino riguardò la moneta. La crisi del III secolo aveva lasciato l’impero romano privo di una moneta solida; la moneta più importante, l’antoniniano d’argento, si era paurosamente svalutato. La moneta d’oro era coniata molto raramente. Sotto Diocleziano era stata introdotta una nuova moneta di bronzo, il follis [cfr. cap. 14.6]. Questo nome significava in origine “sacchetto”: il follis di bronzo, grosso e pesante (ben 10 grammi), e contenente anche una piccola percentuale d’argento, valeva addirittura quanto un sacchetto delle vecchie monete svalutate! La coniazione del follis testimonia lo sforzo di mettere a disposizione del pubblico una buona moneta da usare nella vita di tutti i giorni. Era una moneta coniata in grandi quantità, ma non era fatta di metallo prezioso e quindi poteva essere utilizzata per fare acquisti al mercato, o per pagare i salariati. Ma Costantino fece una scelta diversa. Egli decise di puntare tutto sulla moneta d’oro, che era usata dai ricchi per tesaurizzare i loro redditi e dallo Stato per pagare i soldati e in genere affrontare le grandi spese pubbliche. Perciò sotto il suo regno il solidus d’oro venne coniato in grandi quantità. Costantino e i suoi successori si impegnarono anche a salvaguardare il potere d’acquisto della moneta d’oro: essi garantirono il peso e la qualità del solidus, evitando sempre di svalutarlo. Questa decisione ebbe un’influenza storica straordinaria: nei secoli successivi, gli imperatori bizantini continuarono sempre a fondare il loro sistema monetario su questa forte moneta d’oro, e lo stesso tentarono di fare i re barbari e i califfi arabi dell’Alto Medioevo. Invece il follis venne pesantemente svalutato, divenne sempre più piccolo e leggero e perse qualunque contenuto d’argento. In apparenza la decisione di Costantino salvaguardava gli interessi dei ricchi, piuttosto che quelli della gente comune. Ma in realtà gli interessi che stavano più a cuore all’imperatore erano quelli dello Stato. I ricchi proprietari terrieri, infatti, erano assoggettati a una pesante fiscalità, e lo Stato esigeva il pagamento in solidi d’oro. Così la moneta aurea co-

potere d’acquisto

Il potere d’acquisto di una moneta indica quanti beni e servizi o quante merci si possono acquistare con un’unità monetaria. Esso diminuisce se aumentano i prezzi e se la moneta è sottoposta a svalutazione.

 Follis in bronzo IV sec. Da Cyzicus (attuale Belkis), Turchia



Aureo di Costantino, con il ritratto dell’imperatore (dritto) 335

Capitolo 15 Il secolo di Costantino

123

Le monete di Costantino

La

voce

PA SSA TO del

Gli imperatori romani disponevano di un mezzo formidabile per comunicare con i sudditi e trasmettere messaggi di propaganda: le monete. Su tutte le monete che circolavano a milioni nell’impero e passavano per le mani di tutti i sudditi era raffigurato l’imperatore, con elmo e corazza da eroe guerriero, oppure incoronato d’alloro, simbolo di vittoria, o col capo coronato di raggi, come se in lui fosse personificato il dio Sole, o col capo cinto dal diadema, simbolo del potere imperiale [cfr. fig. a p. 123]. Sul lato opposto erano raffigurati simboli propagandistici – per esempio un soldato romano vittorioso che schiacciava a terra un barbaro – e campeggiavano scritte che erano veri e propri slogan, in cui si esprimeva la propaganda imperiale. Oggi i modelli delle banconote e delle monete sono pochi e variano raramente; all’epoca invece ognuna delle circa quindici zecche dell’impero batteva ogni anno monete nuove, uguali alle precedenti per peso e valore, ma diverse per le immagini e gli slogan. Costantino regnò 31 anni e fece coniare più di 2600 monete diverse, anche se spesso le differenze erano minime e gli slogan più importanti si ripetevano su centinaia di tipi. Nei periodi in cui l’imperatore era impegnato a combattere i barbari, le monete informavano i sudditi delle gloriose imprese compiute dall’esercito (c’era scritto «gloria exercitus», ‘la gloria dell’esercito’, «virtus militum», ‘il valore dei soldati’, o «ubique victores», ‘vittoriosi dappertutto’) e soprattutto delle ininterrotte vittorie del sovrano, esaltato come «victor omnium gentium», ‘vincitore di tutti i popoli’. Nei periodi in cui non c’erano guerre, l’imperatore si prendeva il merito della pace di cui godevano i sudditi, e sulle monete faceva scrivere «beata tranquillitas», ‘beata

Parte VI La tarda Antichità

tranquilità’, e «paci perpetuae», ‘alla pace perpetua’. Costantino, come altri imperatori prima di lui, fece di tutto per assicurarsi già in vita che i suoi figli ereditassero il trono, nominandoli Cesari e associandoli al potere: ogni volta che uno dei suoi figli, ancora bambino, diventava Cesare, le zecche cominciavano a battere monete con la sua faccia e il suo nome, per renderli familiari ai sudditi. Un sistema che comportava dei rischi: quando Costantino fece giustiziare il primogenito Crispo, accusato di complottare contro di lui, la faccia e il nome di Crispo sparirono di colpo dalle monete di nuova coniazione, ma continuarono a circolare sulle vecchie, che era impossibile ritirare tutte. Le monete di Costantino offrono anche la testimonianza più impressionante della sua svolta religiosa. Fino al 318 sulle monete sono spesso esaltati il dio Marte e il dio Sole, compagni e protettori dell’imperatore, con slogan come «Marti patri propugnatori», ‘al padre Marte che combatte per l’imperatore’, o «soli invicto comiti», ‘al Sole compagno invincibile dell’imperatore’. In quell’anno, di colpo, le invocazioni agli dèi scompaiono per sempre. Potremmo aspettarci che fossero sostituite dalla croce di Cristo, ma non è così: i simboli cristiani sulle monete di Costantino sono rarissimi. Compare, invece, un nuovo modo di raffigurare la faccia dell’imperatore: con lo sguardo rivolto verso l’alto, a fissare un Dio che lui solo può vedere. Il messaggio ai sudditi era chiarissimo: l’imperatore dialoga con Dio, e tutti gli altri debbono prendere istruzioni da lui.



Solidus di Costantino (rovescio) 323 Emesso a Tessalonica, questo solidus presenta sul verso l’imperatore vincitore di tutte le genti, tra nemici supplici.

niata dallo Stato era spesa dallo Stato per pagare l’esercito e per finanziare i grandi interventi pubblici, come i giochi del circo o i cantieri delle basiliche, ma poi tornava nelle casse dello Stato grazie al fisco. Accanto a questo circuito monetario divenne sempre più importante nel corso del IV secolo il meccanismo dell’imposta in natura, l’annona, che lo Stato riscuoteva direttamente dai produttori. Enormi quantità di prodotto erano ammassate dallo Stato, che le utilizzava per il mantenimento delle truppe e per le distribuzioni gratuite alla popolazione di Roma e di Costantinopoli. Sotto Costantino si accentuarono quindi le caratteristiche stataliste e centraliste dell’economia antica: il bacino del Mediterraneo ferveva di traffici, le merci e il denaro circolavano in grandi quantità, ma il motore di gran parte di questi movimenti era lo Stato. Prezzi, salari, consumi non dipendevano dal gioco della domanda e dell’offerta e dall’iniziativa privata dei mercanti, ma erano in larga misura regolamentati dall’imperatore: era un’economia ricca e vitale, ma molto diversa dal capitalismo moderno.

1. A cosa servì garantire il peso e la qualità del solidus d’oro? 2. A quali scopi erano destinate le riscossioni in natura dei prodotti?

annona

Inizialmente, a Roma, il termine indicava il raccolto annuale di grano (“annona” deriva appunto da annus). Gradatamente passò a indicare gli approvvigionamenti in grano depositati nei granai pubblici, o l’imposta in natura cui erano tenute le province grandi produttrici di grano come l’Africa e l’Egitto, dette per questo “province annonarie”. Il termine sarebbe tornato più volte. Il prefetto dell’annona istituito da Augusto per la città di Roma, per esempio, fu così detto perché provvedeva all’approvvigionamento dell’Urbe e alle donazioni di grano al popolo [cfr. cap. 12.7].

6. L’immigrazione verso l’impero e la barbarizzazione dell’esercito

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Cambia la composizione dell’esercito

Sotto Costantino e i suoi successori si accentuò un fenomeno che si era manifestato fin dal tempo di Marco Aurelio: e cioè l’accoglienza e l’integrazione nell’impero romano di nuclei di popolazione barbara sottomessa. Poteva trattarsi di profughi scacciati dal loro paese dalla carestia o da un’invasione; oppure di barbari sconfitti in guerra dai Romani, che anziché restare nel loro paese devastato imploravano di essere accolti. In certi casi il governo imperiale non si limitava ad accogliere chi lo chiedeva, ma andava a prendere gente oltre i confini, nel barbaricum, il mondo abitato dai barbari, e la deportava a forza sul territorio romano. In tutti questi casi i giuristi romani attribuivano a questi immigrati la qualifica di dediticii: gente, cioè, che si era ‘data’ senza condizioni all’imperatore, e quindi non aveva diritti, ma viveva sul suolo romano solo per grazia dell’imperatore e doveva obbedire ai suoi ordini. Ma perché accadeva tutto questo? Il fatto è che l’impero aveva continuamente fame di uomini, per lavorare la terra e per servire nei reparti dell’esercito. Proprio il bisogno di trovare continuamente nuove reclute spiega come mai tutta questa gente non fosse ridotta in schiavitù: nelle caserme infatti potevano entrare solo gli uomini liberi. Vedremo più avanti che quest’afflusso di immigrati e deportati contribuì a modificare la condizione dei contadini dipendenti, con la progressiva sostituzione dei coloni agli schiavi [cfr. par. 7]. Ma la trasformazione più vistosa fu quella dell’esercito, dove nel corso del IV secolo divenne normale che una percentuale significativa dei soldati e anche degli ufficiali fosse di origine barbarica. Il governo imperiale, in realtà, cercava di imporre il servizio militare anche alla popolazione romana. I figli dei soldati erano obbligati a seguire lo stesso mestiere dei padri. Va-

Capitolo 15 Il secolo di Costantino

125

gabondi e disoccupati rischiavano sempre di essere arruolati con la forza in caso di emergenza. I contadini liberi, che soprattutto in Occidente erano perlopiù coloni al servizio dei grandi latifondisti – mentre i piccoli proprietari indipendenti erano più diffusi in Oriente –, erano tenuti al servizio militare e i padroni dovevano consegnarne regolarmente un certo numero alle caserme. Ma siccome i grandi proprietari non rinunciavano volentieri alla loro manodopera, il governo concesse la possibilità di pagare una certa somma di denaro al posto di ogni recluta. Questo denaro veniva utilizzato per pagare dei volontari che accettavano di arruolarsi; e questi volontari si trovavano soprattutto fra gli immigrati, o addirittura oltre confine, dove si andavano a cercare giovani barbari desiderosi di diventare soldati romani. Questa compravendita delle reclute si prestava alla corruzione, e molto denaro spariva nelle tasche degli ufficiali, anche se gli imperatori si sforzavano di regolamentare le transazioni e fissare i prezzi; il risultato, comunque, è che una percentuale crescente di soldati romani era di origine barbarica. Alcuni di questi soldati facevano carriera, diventando ufficiali; e i figli di questi ufficiali potevano diventare generali. Il primo generale romano di origine notoriamente barbarica è documentato proprio al tempo di Costantino; all’epoca di Valentiniano e Valente si è calcolato che circa metà dei generali e degli alti ufficiali dell’esercito discendeva da barbari immigrati. Come valutare il fenomeno?

Questa barbarizzazione dell’esercito è stata considerata in passato come una delle cause della decadenza dell’impero romano. In realtà questo giudizio era frutto di un pregiudizio: fra Ottocento e Novecento dominava il nazionalismo, e un esercito che invece d’essere nazionale era multietnico veniva guardato con sospetto. Oggi possiamo dire che l’esercito romano del IV secolo, pieno di reclute immigrate e comandato da generali di origine barbarica, non era affatto meno efficiente rispetto ai secoli passati, e neanche meno fedele all’imperatore. Le ribellioni non mancavano, ma l’esercito romano e i suoi generali si erano sempre ribellati con grande frequenza al potere costituito, fin dal tempo di Mario e Silla. L’esempio dell’esercito americano di oggi, i cui generali discendono da immigrati di tutte le nazionalità, dimostra che l’esercito di una grande potenza imperiale può essere di origine multietnica e tuttavia conservare una fondamentale omogeneità nazionale. Nel IV secolo i militari romani di origine barbarica non desideravano conservare la loro identità originaria, ma cancellarla per diventare romani.

1. Per quale motivo i barbari immigrati o deportati non furono ridotti in schiavitù? 2. Ai soldati di origine barbarica era preclusa la carriera militare?

7. Il colonato

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Cresce il numero dei contadini affittuari

L’immagine popolare del mondo romano dà, giustamente, molto spazio alla dura condizione degli schiavi. Bisogna però distinguere fra la schiavitù domestica e la schiavitù dei lavoratori impiegati nei campi. Nell’epoca di cui parliamo i ricchi continuavano a circondarsi, in casa, di un numeroso personale domestico formato da schiavi, proprio come in pas-

126

Parte VI La tarda Antichità

sato. Nei campi, invece, le cose erano cambiate. Già dal III secolo i contadini che lavoravano i latifondi dei grandi proprietari erano sempre più spesso coloni, e non schiavi. Il colono era un uomo libero, che prendeva in affitto un podere e lo coltivava con la sua famiglia, pagando al padrone un canone in denaro o una parte del raccolto [cfr. cap. 13.10]. Uno dei motivi per cui il colonato si diffuse nel tardo impero romano è che le grandi guerre di conquista erano diventate più rare, e il rifornimento di schiavi meno sicuro. Quando l’imperatore sconfiggeva in guerra un popolo barbaro, il mercato era ancora inondato di schiavi a bassissimo prezzo, ma questi avvenimenti erano meno frequenti che in passato, e il prezzo degli schiavi nei tempi normali era troppo alto. L’impoverimento e l’immigrazione di barbari verso il territorio dell’impero mettevano invece a disposizione una numerosa manodopera libera, che accettava anche condizioni molto dure pur di avere lavoro. Ai latifondisti, quindi, conveniva usare coloni anziché schiavi. Anche allo Stato conveniva favorire la diffusione del colonato al posto della schiavitù. Gli schiavi erano proprietà privata dei padroni, e lo Stato non poteva raggiungerli; inoltre i Romani avevano sempre avuto paura di armare gli schiavi ed evitavano di farlo anche nelle peggiori emergenze. I coloni invece erano uomini liberi, cittadini, e quindi potevano essere obbligati a fare il servizio militare [cfr. cap. 14.8]. Gli imperatori del IV secolo misero in piedi un sistema per cui i reparti militari stanziati in una provincia, quando avevano bisogno di uomini, imponevano ai latifondisti di far arruolare un certo numero dei loro coloni. Anche la Chiesa, infine, favorì l’espansione del colonato. Il cristianesimo infatti considerava la liberazione degli schiavi come un’opera buona e incoraggiava i proprietari a liberare i loro schiavi. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, gli schiavi venivano liberati con certe condizioni, che li obbligavano a continuare a lavorare per il padrone. Quest’ultimo non era più chiamato dominus, che vuol dire ‘signore’, ‘padrone’, ma diventava il patronus, cioè ‘patrono’, ‘protettore’: ma era pur sempre il padrone, anche per lo schiavo diventato liberto [cfr. scheda, p. 58]. Non per niente quando noi diciamo padrone usiamo una parola che non deriva dal latino dominus, ma proprio da patronus! Quando un servo rustico, cioè uno schiavo che lavorava in campagna, veniva liberato, continuava a lavorare trasformandosi in colono; e anche in questo modo la percentuale di schiavi nella manodopera contadina diminuiva, e aumentava quella dei coloni.



Mosaico con tre ville, alberi e piante di vite IV sec. Da Tabarka; Museo del Bardo, Tunisi

 Mosaico con il riposo dopo la caccia

320-360 Villa del Casale, Piazza Armerina, Enna In tutto l’impero le villae venivano decorate con splendidi mosaici i cui temi potevano essere vari; molto frequenti erano i racconti legati alla vita nelle campagne. Il primo mosaico, rinvenuto in Tunisia, mostra tre villae e i circostanti campi coltivati con alberi e piante di vite. Il secondo mosaico mette in luce il fastoso regime di vita dei ricchi proprietari terrieri: dopo una giornata passata a caccia, gli aristocratici signori si concedono il meritato riposo e un pasto a base di selvaggina, arrostita sulla brace dai servitori, consumato sotto un ampio velario che li protegge dal sole.

I coloni sono vincolati alla terra

Nel corso del IV secolo diventa evidente anche un peggioramento nella condizione dei coloni. Questa massa di lavoratori composta in parte da contadini impoveriti, in parte da schiavi libe-

Capitolo 15 Il secolo di Costantino

127

rati e da immigrati barbari godeva sì della cittadinanza romana, ma solo sulla carta. In pratica era gente sottomessa, schiacciata dall’autorità del padrone e con pochi diritti. Sotto gli imperatori del IV secolo le leggi cominciano a considerare schiavi e coloni come categorie sotto molti aspetti simili. Il colono non divenne mai proprietà del padrone, ma in pratica era come se lo fosse: a partire da Costantino le leggi imperiali proibirono ai coloni di lasciare il latifondo su cui lavoravano, senza il permesso del padrone. Si creava così quella situazione che i giuristi del Medioevo chiameranno “servitù della gleba”, per cui il lavoratore era vincolato alla terra che lavorava.

1. Per quale motivo lo Stato favoriva la diffusione del colonato al posto della schiavitù? 2. Quali vincoli legavano il colono al patronus?

8. La provincializzazione dell’Italia

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Roma perde centralità politica

La creazione di una nuova capitale a Costantinopoli da parte di Costantino è il segnale più vistoso di uno spostamento di equilibri geografici all’interno dell’impero, che andò soprattutto a sfavore di Roma e dell’Italia. Certo, Roma era ancora il centro simbolico dell’impero, la sua popolazione continuava ad essere nutrita gratuitamente dallo Stato, il senato romano continuava a rappresentare innanzitutto un ceto di grandi proprietari terrieri italici, straricchi, dei cui interessi bisognava tener conto. Ma l’imperatore in persona non passava da Roma se non eccezionalmente, e mai per molto tempo. Gli imperatori si spostavano continuamente sul territorio, seguendo i ritmi delle campagne militari e delle ribellioni da soffocare, e quando si fermavano più a lungo in un luogo col loro immenso comitatus – un termine che indica sia il seguito dei funzionari e dei burocrati, sia i reggimenti scelti che formavano l’esercito mobile al comando diretto dell’imperatore – non era quasi mai a Roma, ma in città più vicine ai confini minacciati. Costantino, imperatore dal 306, vide per la prima volta Roma nel 312, dopo la battaglia di Ponte Milvio; alla conquista, o meglio alla “liberazione” di Roma dal “tiranno” Massenzio, la sua propaganda attribuì enorme rilievo, ma lui non ci restò più di tre mesi. Ci ripassò per un paio di mesi nel 315, e poi ci tornò nel 326, anche stavolta per poco più di due mesi: tre visite in tutto, in 36 anni di regno. Suo figlio Costanzo II visitò Roma una sola volta: prima di allora non aveva mai visto l’Urbe che dava il nome al suo impero, e dopo di lui ci saranno molti imperatori che moriranno prima di aver fatto in tempo a vederla. Italia urbicaria e Italia annonaria

La perdita di centralità politica di Roma si accompagnò all’erosione dei privilegi di cui godeva l’Italia. Fin dai tempi della Repubblica, all’Italia era stato risparmiato il sistema delle province, governate dagli avidi governatori mandati da Roma. L’Italia – ad eccezione della Sicilia – non era stata suddivisa in province, ma in città e municipi autonomi che rispondevano direttamente all’imperatore. Inoltre godeva di ampie esenzioni fiscali; anche se non è detto che questo sia stato un bene, perché alla lunga l’economia italiana, senza lo

128

Parte VI La tarda Antichità

stimolo costituito dalla pressione del fisco, e drogata dalle distribuzioni gratuite di generi alimentari al popolo di Roma, non tenne il passo con lo sviluppo economico delle province. La situazione privilegiata dell’Italia era stata rimessa in discussione già a partire dalla tetrarchia. Diocleziano, rimodellando le circoscrizioni amministrative dell’impero, decise che l’Italia non aveva più diritto a uno status separato, e la suddivise in dodici province [cfr. cap. 14.7]. Nel corso del IV secolo le province salirono a sedici e vennero raggruppate in due diocesi. Una era l’Italia “urbicaria”, cioè il Centro-sud che costituiva l’entroterra immediato dell’Urbe, e che conservava certi privilegi fiscali. L’altra era l’Italia “annonaria”, cioè il Nord, in cui la riscossione dell’annona avveniva come in tutto il resto dell’Impero. Parificato alle province dal punto di vista fiscale, il territorio dell’Italia del Nord acquistò in compenso nuova importanza politica nel corso del IV e V secolo: gli imperatori e il loro comitatus presero a risiedervi sempre più spesso, e prima Milano, poi Ravenna divennero capitali di fatto dell’impero d’Occidente. A questa nuova centralità dell’Italia settentrionale corrispose un crescente separatismo della Gallia, dove più volte gli eserciti proclamarono propri imperatori. Costoro, a partire dal 350 con Magnenzio, sono passati alla storia come usurpatori, ma in realtà riuscirono spesso a governare per anni la Gallia come imperatori a tutti gli effetti. Nasceva, per la prima volta, l’idea che certe regioni periferiche dell’impero potessero staccarsene e diventare in pratica dei regni indipendenti; un’idea che avrà importanti conseguenze all’epoca delle invasioni barbariche (ne parleremo nel capitolo seguente). Così l’impero romano si trasformava, com’era inevitabile, perché nella storia ogni società è sempre in continua trasformazione: l’impero che Costantino lasciò ai suoi figli era un organismo profondamente diverso da quello che Augusto aveva creato oltre tre secoli prima, anche se continuava a chiamarsi allo stesso modo.



Arco di Costantino 312-315 Roma



Ingresso trionfale di Costantino a Roma Particolare dell’Arco di Costantino, Roma L’arco di Costantino fu fatto erigere dal senato per celebrare la vittoria conseguita dall’imperatore nel 312 su Massenzio. Questo monumento può essere considerato un vero e proprio museo d’arte romana ufficiale, visto che si compone in larga parte di pezzi scultorei e strutturali reimpiegati da altri monumenti più antichi, pratica che peraltro divenne abituale proprio a partire da questi anni. La fascia di rilievi rettangolari che fregia tutto l’arco è invece del tempo di Costantino e ripercorre gli eventi precedenti la battaglia di Ponte Milvio fino all’entrata trionfale dell’imperatore a Roma.

1. Con Costantinopoli come nuova capitale, quale funzione conservava il senato di Roma? 2. Che differenze c’erano tra l’Italia urbicaria e quella annonaria?

Capitolo 15 Il secolo di Costantino

129

SINTESI 1. L’età di Costantino Nelle lotte civili che seguirono all’abdicazione di Diocleziano e Massimiano prevalse Costantino. Sotto il suo governo l’impero si rafforzò. I barbari furono sottomessi, la svalutazione della moneta venne frenata, e una serie di riforme permise di razionalizzare l’amministrazione e la giustizia, consolidando il potere assoluto dell’imperatore. Con Costantino il centro dell’impero si spostò verso il più ricco Oriente e come capitale fu scelta Bisanzio, ribattezzata Costantinopoli. Il nuovo imperatore non nascose le proprie simpatie nei confronti del cristianesimo. Nel 313 fu emanato l’editto di Milano, che dichiarava legittima la religione cristiana. Durante il regno, inoltre, furono concessi numerosi privilegi al clero cristiano, fu finanziata la costruzione di nuove basiliche e lo stesso Costantino prese parte al primo concilio ecumenico della storia, convocato a Nicea nel 323, nel quale fu evidente la frattura tra cattolici e ariani.

2. Dai figli di Costantino a Valentiniano e Valente Alla morte di Costantino (337) l’impero fu diviso tra i tre figli, che continuarono la politica interna e estera del padre. I contrasti fra i tre fratelli sorsero ben presto per motivi politici e religiosi. Costantino II fu sconfitto e ucciso dal fratello Costante. Questi fu ucciso in una congiura capeggiata da Magnenzio. Il terzo fratello Costanzo II sconfisse l’usurpatore e regnò come unico imperatore. Alla sua morte (361) il potere passò al cugino Giuliano, che cambiò nettamente il modello di governo: ridimensionò la corte e la burocrazia, cercò di rivitalizzare le autonomie cittadine e ristabilire i vecchi culti pagani, ma fu ucciso in guerra. Gli successe Gioviano, che tornò a favorire il cristianesimo. A questi successe Valentiniano (364), che stabilizzò la suddivisione dell’impero in due parti, Occidente e Oriente.

3. Il cristianesimo non più perseguitato, ma diviso Con Costantino il cristianesimo venne favorito in molti modi dal potere imperiale al punto da diventare, nel corso del IV secolo, la religione di maggioranza in tutto l’impero. La Chiesa uscì dalla clandestinità e i vescovi cominciarono a sorvegliare la vita religiosa della città e del territorio. Anche le fratture dottrinarie, però, vennero alla luce. Alle posizioni ortodosse, allineate, cioè, con la dottrina ufficiale della Chiesa, si contrapponevano le posizioni contrastanti, definite eretiche dagli ortodossi. Nel concilio di Nicea, per esempio, sulla questione dei rapporti fra le tre persone della Trinità, si scontrarono Ario, che sosteneva l’inferiorità del Figlio rispetto al Padre, e Atanasio, che sosteneva la parità tra i due e la cui posizione prevalse.

4. La nascita del monachesimo Con il termine monaco si indicavano i primi cristiani che cercavano la solitudine per dedicarsi interamente alla preghiera e all’ascesi. Nel IV secolo i monaci cominciarono a organizzarsi in comunità guidate dagli abati. I monaci pronunciavano dei voti e si impegnavano a seguire una vita di povertà basata su regole precise. Le prime comunità sorsero in Oriente su iniziativa di Pacomio e si diffusero in Occidente grazie all’opera di Martino di Tours. Il diffondersi del monachesimo suscitò reazioni contrastanti nella società, ma in un certo senso i monaci erano visti come i filosofi greci, per la loro radicale scelta di vita e grazie al rispetto che della loro opinione avevano i potenti.

5. La moneta e il fisco Una delle riforme più importanti promosse da Costantino riguardò la moneta. Egli fece coniare in gran quantità la moneta d’oro, il solidus, e ne garantì il peso e la qualità per salvaguardarne il potere d’acquisto. In questo modo avviò un circuito monetario, nel quale lo Stato spendeva la moneta per pagare l’esercito e per gli interventi pubblici, e questa gli rientrava grazie al fisco. Crebbe, inoltre, il meccanismo dell’imposta in natura, che lo Stato riscuoteva direttamente dai produttori e utilizzava per il mantenimento delle truppe e per le distribuzioni gratuite agli abitanti di Roma e Costantinopoli. Questi provvedimenti accentuarono la natura statalista e centralista dell’economia antica.

6. L’immigrazione verso l’impero e la barbarizzazione dell’esercito Nel IV secolo si accentuò l’accoglienza e l’integrazione nell’impero romano di nuclei di popolazione barbara sottomessa. Questo fenomeno era dovuto alla necessità sempre più urgente di trovare uomini per lavorare la terra e soldati da reclutare. Anche se la riforma dell’esercito di Diocleziano aveva reso obbligatoria l’ereditarietà del mestiere militare e aveva permesso di attingere reclute tra i coloni, nel corso del IV secolo una significativa percentuale di soldati era di origine barbarica, così come crebbe continuamente il numero di alti ufficiali e generali che discendevano da barbari immigrati.

7. Il colonato Gradualmente, i coloni sostituirono quasi ovunque la manodopera schiavile nelle campagne. Questo fenomeno era dovuto tanto al calo del rifornimento di schiavi, quanto all’impoverimento della popolazione e all’immigrazione di barbari, due fenomeni che mettevano a disposizione una numerosa manodopera libera e a basso costo. Oltre ai grandi proprietari terrieri, questa situazione conveniva

130

Parte VI La tarda Antichità

anche allo Stato, che poteva obbligare i cittadini liberi a svolgere il servizio militare, e alla Chiesa, che considerava un’opera buona la liberazione degli schiavi. Tuttavia, i coloni erano individui con pochi diritti, sottomessi all’autorità del padrone. Le leggi di Costantino, inoltre, proibirono ai coloni di lasciare il latifondo su cui lavoravano, senza il permesso del padrone.

8. La provincializzazione dell’Italia Lo spostamento del baricentro verso Oriente fece perdere centralità politica a Roma e all’Italia e, nel tempo, questo significò anche l’erosione dei privilegi di cui aveva goduto la penisola e che, in un certo senso, ne avevano frenato lo sviluppo economico. Con Diocleziano l’Italia era stata suddivisa in dodici province; nel corso del IV secolo esse arrivarono a sedici e furono raggruppate in due diocesi: l’Italia urbicaria, corrispondente al Centro-sud e che conservava alcuni privilegi, e l’Italia annonaria, cioè il Nord, nella quale la riscossione fiscale avveniva come nel resto dell’impero. L’Italia del Nord, tuttavia, acquistò con il tempo nuova importanza politica e prima Milano, poi Ravenna divennero capitali di fatto dell’impero d’Occidente.

ESERCIZI Gli eventi 1. Completa la frase con l’espressione che ritieni corretta: 1. L’editto di Milano...

4. Nel corso del IV secolo l’Italia...

❏ a) rese il cristianesimo l’unica religione dell’impero romano;

❏ a) tornò ad essere il centro politico dell’impero;

❏ b) bollò come eretica la dottrina ariana;

❏ b) continuò a godere di ampie esenzioni fiscali;

❏ c) pose fine alla persecuzioni contro i cristiani;

❏ c) conobbe un incredibile sviluppo economico;

❏ d) stabilizzò la divisione tra impero d’Occidente e impero d’Oriente.

❏ d) fu divisa in sedici province.

2. L’imperatore Giuliano...

5. Il teologo Ario...

❏ a) represse duramente i culti pagani;

❏ a) riteneva che le tre persone della Trinità fossero equivalenti;

❏ b) rese assoluto il potere dell’imperatore;

❏ b) sosteneva che il Figlio era inferiore al Padre;

❏ c) cercò di risolvere il dissenso tra cattolici e ariani;

❏ c) credeva che Cristo fosse Dio e uomo allo stesso modo;

❏ d) ridimensionò la corte e la burocrazia.

❏ d) sosteneva la completa parità tra Padre e Figlio.

3. I coloni...

6. Il concilio di Nicea...

❏ a) non erano obbligati a svolgere il servizio militare;

❏ a) definì i rapporti tra Stato e Chiesa;

❏ b) non potevano allontanarsi dal latifondo liberamente;

❏ b) affrontò il problema dei cosiddetti “donatisti”;

❏ c) erano legalmente di proprietà del padrone per cui lavoravano;

❏ c) dichiarò eretica la posizione di Atanasio;

❏ d) godevano pienamente dei diritti politici previsti per i cittadini romani.

❏ d) fu convocato e presieduto dallo stesso Costantino.

Capitolo 15 Il secolo di Costantino

131

2. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette: ❏ a) Per salvaguardare il potere d’acquisto Costantino introdusse il follis di bronzo.

❏ f) L’imperatore Gioviano scatenò durissime repressioni nei confronti dei cristiani.

❏ b) Costantino vietò ai soldati di origine barbarica di fare la carriera militare.

❏ g) Gran parte delle risorse dello Stato erano spese per il mantenimento dell’esercito.

❏ c) L’imperatore Giuliano cercò di rivitalizzare le autonomie delle città.

❏ h) Il movimento monastico si diffuse in Occidente grazie all’opera di Pacomio.

❏ d) Lo Stato obbligava i coloni a svolgere il servizio militare.

❏ i) Le comunità monastiche erano guidate da un abate ed erano organizzate gerarchicamente.

❏ e) I privilegi concessi da sempre all’Italia ne frenarono lo sviluppo economico.

❏ j) Al contrario dei fratelli, Costantino II si schierò con l’arianesimo.

Le coordinate spazio-temporali 3. Completa il seguente testo inserendo correttamente i nomi, le date e i termini mancanti: Nel ............................................................., dopo la morte di ................................................................................., Augusto d’Occidente, il figlio Costantino fu acclamato imperatore in Britannia, mentre ................................................................................................................................, figlio di Massimiano, prendeva il potere con la forza in ..................................................................................... Lo scontro tra i due avvenne nel 312 a ....................................................................................., alle porte di Roma, e Costantino sconfisse e uccise Massenzio. Nel ............................................................. Costantino e ................................................................................, imperatore a lui associato, emanarono l’editto di Milano, detto anche .................................................................., con il quale dichiaravano il ................................................................... religione legittima e ponevano fine alle persecuzioni nei confronti dei suoi fedeli. Dopo che Licinio ebbe sconfitto il terzo imperatore .............................................................. e a sua volta venne sconfitto e ucciso da Costantino, questi rimase l’unico imperatore al potere. Il regno di Costantino durò fino alla sua morte avvenuta nel .............................................................. e grazie alle sue riforme l’impero ne uscì rafforzato. Alla sua morte l’impero fu diviso tra i suoi tre figli, Costantino II – che ebbe ........................................................................................., Britannia e ............................................................................... – .............................................................................. – a cui andarono Anatolia, ........................................................................... ed Egitto – e Costante – che ricevette Italia, ............................................................., Grecia e .......................................... I contrasti che sorsero fra i tre fratelli furono non solo dovuti all’ambizione, ma anche a .............................................; infatti, Costanzo II appoggiò l’............................................................., mentre gli altri due fratelli aderirono al cattolicesimo. Lo scontro avvenne nel ..................................................................... tra Costantino II e .............................................................; questi ebbe la meglio, ma fu ucciso nel 350 da un ufficiale, ................................................................, che si proclamò imperatore. Tra il 351 e il .............................................................. Costanzo II sconfisse l’usurpatore e regnò fino alla sua morte, avvenuta nel ............................................................., sull’impero nuovamente unificato.

Il lessico 4. Collega correttamente i seguenti termini ed espressioni alle definizioni corrispondenti:

1) Italia urbicaria:

a) Barbari privi di diritti, che vivevano sul suolo romano solo per grazia dell’imperatore e dovevano obbedire ai suoi ordini.

2) Concilio ecumenico:

b) La ricerca di Dio attraverso la rinuncia a tutti i piaceri del mondo.

3) Eretico:

c) Raduno di vescovi provenienti da tutto il mondo cristiano.

4) Dediticii:

d) Diocesi corrispondente ai territori dell’Italia settentrionale.

5) Donatismo:

e) Colui che obbediva alla Chiesa e ne accettava il magistero.

6) Italia annonaria:

f) Diocesi corrispondente ai territori dell’Italia Centro-meridionale.

7) Ascesi:

g) Movimento cristiano sorto in Africa, intransigente nei confronti dei vescovi e dei fedeli che non avevano resistito alle persecuzioni.

8) Ortodosso:

h) Colui che faceva una “scelta” personale in contrasto con il magistero della Chiesa.

132

Parte VI La tarda Antichità

I processi 5. Completa correttamente il seguente schema inserendo le informazioni mancanti, quindi rispondi alle domande:

I .................. immigrano o vengono ...................... nei territori dell’impero

Vengono reclutati nell’........................

Diminuiscono le grandi ............................................ .............................................

Forniscono .......... ................................ ....... a basso costo

Cala il rifornimento di ..............................

Nella seconda metà del IV secolo, circa la metà ........................... ..................................... ..................................... ............... discendeva da barbari immigrati

Nei campi si diffonde il ....................................

a) Per quale motivo allo Stato conveniva la diffusione del colonato? b) Qual era la posizione della Chiesa nei confronti della schiavitù? c) Quali erano le condizioni di vita dei coloni? Differivano molto da quelle degli schiavi?

L’esposizione orale 6. Rispondi alle seguenti domande: 1) Quali furono le principali riforme promosse da Costantino? 2) Per quale motivo Costantino spostò a Oriente il baricentro dell’impero? 3) Che conseguenze ebbe questa scelta sul destino delle province italiane? 4) Quali furono i rapporti tra Stato e Chiesa nei decenni in cui regnò la dinastia di Costantino? 5) Riguardo a quali temi si crearono le prime più importanti fratture nel mondo cristiano? 6) Quali erano le origini e i principali caratteri del movimento monastico?

Capitolo 15 Il secolo di Costantino

133

PARTE VII

Il mondo romano-barbarico

N

ei prossimi capitoli il nostro orizzonte geografico si restringe. Le vicende raccontate fin qui riguardavano l’intero orizzonte mediterraneo: erano quelle di un impero che si estendeva dalla Scozia all’Iraq. Ora, invece, cominciamo a studiare una vicenda che riguarda innanzitutto l’Europa occidentale, e che anzi ha contribuito in modo decisivo a creare l’Occidente come lo si intende oggi. Parleremo delle invasioni barbariche, della caduta dell’impero romano, della fine dell’Antichità e dell’inizio del Medioevo. Attenzione, però: l’impero romano di cui parliamo era già profondamente diverso da quello di Cesare e Augusto. La grande crisi del III secolo, le riforme di Diocleziano e di Costantino, l’avvento del cristianesimo e la nascita della Chiesa avevano rappresentato formidabili trasformazioni rispetto all’epoca classica. Il mondo, insomma, stava cambiando anche prima dell’arrivo dei barbari, com’era inevitabile, perché il mondo cambia continuamente. Gli interessi degli uomini entrano in conflitto, i conflitti producono mutamenti, vecchi problemi sembrano risolti ma subito ne compaiono di nuovi: nessuna società complessa può rimanere a lungo immobile. Un grande pensatore dell’Ottocento, Karl Marx, definì questa caratteristica della società umana dicendo che la realtà è “dialettica”: è fondata cioè sul dialogo, l’interazione e lo scontro, e dove c’è confronto fra diversi attori non c’è mai immobilità. In passato gli storici vedevano nelle invasioni barbariche una frattura più importante di tutte le altre: si pensava che proprio con l’arrivo dei barbari finisse l’Antichità e cominciasse il Medioevo. I manuali fissavano la data d’inizio dell’età medievale al 476, che corrisponde alla deposizione dell’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augustolo; e la data finale al 1492, la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. Di quest’ultimo evento si conosce anche il giorno, il 12 ottobre; c’è da chiedersi perché non indicare addirittura l’ora esatta in cui finì il Medioevo! Chi ci legge si accorge che detta così, la cosa è ridicola: il mondo cambia, sì, anche in seguito ai grandi avvenimenti,

ma con processi lenti e complessi, non da un momento all’altro. E lo stesso vale per il 476: oggi conosciamo meglio quei secoli, e sappiamo che in quel momento il mondo non cambiò all’improvviso. Molte caratteristiche impresse alla società romana dalle grandi trasformazioni del III e IV secolo rimasero evidenti anche dopo l’arrivo dei barbari. Alcuni storici hanno addirittura l’impressione di una continuità di fondo, che dall’epoca di Costantino (che muore nel 337) può arrivare fino a quella di Carlo Magno (che muore nell’814). Ecco perché oggi la vecchia idea di Medioevo, di un interminabile periodo di ben mille anni che sarebbe stato tutto caratterizzato da barbarie e oscurità, non ha più credito fra gli storici, e qualcuno preferirebbe addirittura fare a meno di tutta questa terminologia, “Medioevo”, “medievale”. Qui noi continueremo a usarla, perché è troppo diffusa per poterne fare a meno, ma con l’avvertenza che il periodo indicato come Medioevo è lungo, pieno di cambiamenti, e che bisogna dividerlo almeno in due parti: l’“alto Medioevo”, che comincia nel IVV secolo e finisce intorno al Mille, e il “basso Medioevo”, che va dal Mille fino al XV-XVI secolo. Noterete forse che in questo modo l’“alto Medioevo” coincide in parte con quella “tarda Antichità” che abbiamo presentato nell’introduzione alla parte sesta, e che viene estesa da molti studiosi fino a comprendere l’epoca delle invasioni barbariche e dei regni romano-barbarici. E quando, l’anno prossimo, studierete il basso Medioevo, vi accorgerete che coincide in parte con il Rinascimento. È vero: i nomi dei periodi sono invenzioni nostre, e una stessa epoca può essere attribuita a periodi diversi a seconda del punto di vista dello storico. È una complicazione, ma è così, e quando si studia la storia è meglio rendersene conto il prima possibile.

Capitolo 16

Le invasioni barbariche 1. L’invasione gotica del 376 e le sue conseguenze

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

I primi stanziamenti

Alla fine del IV secolo l’impero romano si trovò ad affrontare quei movimenti di popoli barbari che di solito chiamiamo invasioni barbariche, anche se sarebbe più preciso parlare di migrazioni dei popoli, perché non si è trattato sempre di invasioni violente: spesso, infatti, i barbari si sono insediati sul territorio romano col consenso del governo imperiale. Roma aveva avuto fin dall’inizio rapporti non facili con le popolazioni barbariche che vivevano al di là dei suoi confini, in Europa come in Asia e in Africa. Le province di confine erano sempre soggette ad attacchi e razzie, e in certi momenti di crisi, come la metà del III secolo, scorrerie in grande stile si erano spinte fin nel cuore del mondo romano, nell’Italia settentrionale e in Grecia, dove i Goti avevano saccheggiato Atene [cfr. cap. 14.4]. Ma l’impero era sempre venuto a capo di queste minacce; e se molti barbari si erano stabiliti sul suo territorio, lo erano come deportati o come profughi. Accolti e messi a lavorare sotto sorveglianza, si erano sempre integrati nella popolazione dell’impero. A partire dalla fine del IV secolo assistiamo invece a un cambiamento importante: cominciano movimenti su grande scala di popoli che si insediano sul territorio romano, non sempre con la violenza, come s’è detto, ma comunque senza trasformarsi in sudditi di Roma e senza integrarsi con la popolazione locale. Questa improvvisa spinta dall’esterno ebbe un effetto destabilizzante sull’impero romano, e nell’arco di circa un secolo ne determinò il crollo: non però di tutto l’impero, come a volte si dice sbagliando, ma solo della sua parte occidentale. Il primo esempio di insediamento barbarico su grande scala si verificò in una zona che alle autorità romane appariva periferica, la Gallia settentrionale. Qui nel IV secolo la crisi economica e le continue scorrerie della popolazione germanica dei Franchi, stanziati al di là del Reno, avevano spopolato le zone di confine. Le autorità romane, dopo aver a lungo combattuto i barbari, accettarono che parte di loro si stanziassero al di qua della frontiera, nella zona che oggi corrisponde al Belgio, e affidarono ai loro re la difesa del confine renano. Quello dei Franchi è il più antico caso di popolo che si trasferisce sul suolo romano continuando a obbedire ai suoi capi, conservando le sue leggi, e sostituendo l’esercito romano nel compito di difendere il paese; ed è anche l’esempio più evidente di insediamento pacifico e concordato, che ha ben poco di un’invasione. L’invasione gotica

Uno stanziamento assai più drammatico si verificò nel 376, quando una folla di profughi venne ad accamparsi sulla riva settentrionale del Danubio, che formava il confine dell’im-

136

Parte VII Il mondo romano-barbarico

pero romano d’Oriente col mondo delle steppe. I profughi appartenevano al popolo dei Goti, che parlava una lingua germanica; i Romani li conoscevano bene, perché da secoli erano abituati a combatterli, a commerciare con loro, e ad assumerli come mercenari per il loro esercito. I Goti vivevano lavorando la terra e allevando bestiame; non erano nomadi, ma si spostavano facilmente da una zona all’altra in caso di bisogno, caricando le loro masserizie su carri. I rapporti con l’impero romano avevano arricchito i loro capi: gli archeologi trovano nelle loro tombe armi di ottima qualità e oggetti d’oro. Dal mondo romano era arrivata anche un’altra novità, il cristianesimo: un Goto, Ulfila, che aveva studiato a Costantinopoli, era stato ordinato vescovo ed era tornato a convertire il suo popolo, traducendo la Bibbia in lingua gotica. Molti Goti, perciò, erano diventati cristiani, anche se molti altri continuavano ad adorare i loro antichi dèi. I Goti che nel 376 si affollavano sul Danubio erano stati scacciati dai loro villaggi da un nuovo e terribile nemico venuto dall’Oriente, gli Unni. Questo popolo nomade viveva nelle steppe asiatiche, allevando cavalli e arricchendosi con le razzie ai danni dei popoli confinanti, ed era avvolto da un alone di mistero. I Romani sapevano solo che gli Unni erano crudeli e selvaggi, che non avevano patria, perché nascevano e vivevano in convogli di carri e accampamenti di tende, e che avevano l’abitudine disgustosa di far frollare la carne sotto le selle dei cavalli. Ora gli Unni si erano riversati nel paese dei Goti, avevano sconfitto e massacrato le tribù che cercavano di resistere, e sospinto una marea di profughi verso la frontiera romana. I capi dei Goti accampati sul Danubio chiesero di essere accolti nell’impero. La richiesta non aveva nulla di strano: non era la prima volta che intere tribù barbare passavano la frontiera col permesso del governo, sottomettendosi all’imperatore e ricevendo terra da lavorare nelle zone dove c’era bisogno di manodopera. L’imperatore d’Oriente, Valente, informato della loro supplica diede ordine di accoglierli. Le cose, però, presero subito una brutta piega. Non c’erano ponti sul Danubio, e i profughi vennero traghettati attraverso il fiume in piena su zattere e barche; molti annegarono, molte famiglie si divisero, e gli ufficiali romani ne approfittarono per portarsi a casa, come schiavi, bambini e ragazzine rimasti soli. I rifugiati erano così numerosi che tutti i controlli saltarono: gli uomini non vennero perquisiti, e portarono con sé le proprie armi; i segretari che dovevano registrare chi entrava rinunciarono a contarli. I Goti vennero ammassati in campi profughi in territorio romano, dove cominciarono subito a fare la fame, perché i generali romani, che dovevano distribuire gratis le razioni offerte dal governo, ci rubavano sopra. I profughi affamati furono costretti a vendere i figli come schiavi per poter sopravvivere; i soldati romani vendevano loro, per mangiarli, addirittura dei cani. Alla fine successe l’inevitabile: i Goti si ribellarono, uccisero i soldati di guardia, e s’impadronirono delle loro armi. Le truppe romane mandate a sedare la rivolta vennero ripetutamente sconfitte, e per ben due anni i barbari saccheggiarono le ricche campagne dell’impero d’Oriente, spingendosi fino alle mura della capitale, Costantinopoli.

Capitolo 16 Le invasioni barbariche



Accampamento militare romano a Saalburg, Germania I-III sec. Lungo il limes germanico, a protezione dei confini dell’impero romano e delle province comprese tra i fiumi Reno e Danubio, furono disposti diversi accampamenti fortificati, i castra. Nel I secolo d.C. fu fondato il castrum di Saalburg (non distante dalla moderna Francoforte sul Meno) destinato a ospitare truppe ausiliarie. Il sito fu abbandonato verso la fine del III secolo e nel 2005 è stato dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità.

137



Soldato romano del tardo impero Disegno di D. Spedaliere L’esercito romano che affrontò i Goti ad Adrianopoli era molto diverso da quello di Cesare e di Augusto. Al posto delle antiche legioni c’erano ora reparti molto più piccoli, al massimo d’un migliaio di uomini. Erano reggimenti di fanteria, ma anche di cavalleria corazzata (i “catafratti”) e di arcieri a cavallo. Il modo di combattere era cambiato: al posto del giavellotto e della spada corta, il gladio, ora i soldati romani usavano lance lunghe tre metri, e per il corpo a corpo impugnavano pesanti spade a doppio taglio, simili a quelle dei barbari. Rivestiti di cotte di maglia di ferro, avevano un aspetto più simile a quello di un guerriero medievale che di un legionario antico.

Alla fine l’imperatore Valente in persona radunò l’intero esercito per affrontare gli immigrati ribelli e ridurli alla ragione, ma venne sbaragliato e ucciso nella battaglia di Adrianopoli, il 9 agosto 378: una data memorabile, che segna il vero inizio delle invasioni barbariche. Il successore di Valente, Teodosio (379-395), fece il possibile per rimettere in campo un esercito, e riuscì a sconfiggere alcune bande ribelli, ma i Goti erano troppo forti perché fosse possibile liquidarli tutti con la forza: alla fine, il nuovo imperatore d’Oriente fu costretto ad accordarsi con loro. I capi ricevettero il permesso di stabilirsi in territorio romano con tutti i loro uomini e le loro famiglie, ebbero in dono terre da distribuire ai guerrieri, e ottennero alti gradi nell’esercito e lauti stipendi in cambio dell’impegno a combattere per l’imperatore. La situazione dei Goti accolti nell’impero da Teodosio era molto diversa da quella degli immigrati che lavoravano i campi dei ricchi latifondisti e prestavano servizio nell’esercito: i Goti, infatti, come avevano fatto i Franchi in Gallia, si stabilirono tutti insieme, conservando le loro armi e le loro leggi, e continuarono a obbedire ai loro capi, non ai magistrati romani. Quando combattevano per l’imperatore non venivano arruolati e dispersi fra i reparti militari, ma formavano dei contingenti autonomi, sempre al comando dei loro capi. Insomma non erano nuovi sudditi dell’imperatore, ma alleati molto ben pagati e insediati su territorio romano, pur restando stranieri. Gli accordi stipulati coi capi dei Goti erano chiamati in latino foedera; per cui si cominciò a chiamare foederati questi gruppi di barbari accolti a condizioni così favorevoli. Qualcuno si preoccupò, osservando che accogliere nel cuore dell’impero così tanti stranieri armati era molto pericoloso; ma l’imperatore non aveva scelta. Sotto il regno di Teodosio i Goti stabiliti nelle province balcaniche e pagati dal governo per il loro servizio mercenario causarono continui problemi, provocando incidenti con i soldati romani e con la popolazione civile. Nell’impero crebbe l’intolleranza nei loro confronti e si manifestarono forme di razzismo. Per pagare i capi dei Goti, Teodosio fu costretto a ridurre il numero dei soldati regolari, a tal punto che gran parte delle forze militari su cui poteva contare l’imperatore erano formate da Goti, e Goti erano parecchi dei suoi generali. Grazie al loro aiuto Teodosio poté sconfiggere usurpatori e avversari politici, e impose il suo potere, oltre che sull’Oriente, anche sull’impero d’Occidente: per l’ultima volta, l’impero romano era di nuovo unificato sotto un unico sovrano, ma la sua forza militare proveniva ormai in gran parte dai barbari. Teodosio e il cristianesimo

Per raddrizzare la situazione dopo il disastro di Adrianopoli Teodosio adottò anche gravissimi provvedimenti religiosi. L’imperatore era convinto che bisognava riunificare la società romana, lacerata dagli scontri religiosi fra cristiani e pagani, e anche fra diverse correnti del cristianesimo. Nel 380 Teodosio pubblicò l’editto di Tessalonica, in cui ordinava a tutti i sudditi dell’impero di seguire un’unica religio-

138

Parte VII Il mondo romano-barbarico

ne, e cioè il cristianesimo cattolico, così com’era insegnato dai vescovi di Roma e di Alessandria d’Egitto. Non era più ammesso l’antico culto degli dèi, e non era neppure consentito seguire una delle tante versioni della fede cristiana che si diversificavano dal dogma ufficiale. Chi non seguiva la dottrina cattolica non era più considerato un cristiano, ma un eretico, e Teodosio dichiarò che oltre a essere punito da Dio nell’altra vita, sarebbe stato punito anche dalla legge in questo mondo. Negli anni seguenti l’imperatore proibì tutti i riti pagani, autorizzò i cristiani a distruggere i templi degli dèi, introdusse l’obbligo del riposo la domenica, e abolì le Olimpiadi, che erano sopravvissute ininterrottamente dai tempi dell’antica Grecia, considerandole una festa pagana. Anche se sacche di paganesimo sopravvissero ancora per secoli, soprattutto nelle campagne, si può datare dai provvedimenti di Teodosio la trasformazione del cristianesimo in religione di Stato.

1. Che cosa caratterizzò l’insediamento dei popoli barbari nell’impero alla fine del IV secolo? 2. Per quale motivo scoppiò la rivolta dei profughi goti? 3. Che cosa prevedeva l’editto di Tessalonica?

2. L’età di Stilicone e Alarico

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I



Dittico di Stilicone 400 ca. Tesoro del Duomo, Monza Questo dittico in avorio, donato in occasione della nomina a console, raffigura Stilicone accompagnato dalla moglie Serena e dal figlio Eucherio.

I Goti nell’impero

Alla morte di Teodosio nel 395 l’impero venne suddiviso fra i suoi figli: Arcadio ebbe l’Oriente e Onorio l’Occidente. A partire da allora la suddivisione fra i due imperi diventò permanente, e anzi la rivalità fra i due fratelli e i loro ministri diede origine a una crescente ostilità. In Occidente chi governava davvero, al posto del giovanissimo Onorio, era il generale Flavio Stilicone. Figlio di un ufficiale romano di origine vandala e di una donna romana, Stilicone era un immigrato di seconda generazione; la sua carriera è una bella dimostrazione di come i barbari di successo potessero integrarsi nel gruppo dirigente multietnico dell’impero. Promosso da Teodosio, che gli aveva dato in moglie la nipote Serena, Stilicone si dimostrò abile soldato e abilissimo politico, ma si attirò l’ostilità della corte orientale di Costantinopoli, che lo sospettava di voler imporre il suo potere su entrambi gli imperi.

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

139

I Goti, insediati ormai da anni sul suolo romano, costituivano un pericoloso elemento di instabilità, tanto da minacciare la sopravvivenza stessa dello Stato. Fra i Goti era emerso un capo, Alarico, che seppe approfittare della situazione in cui si trovava il suo popolo, accolto in territorio romano, ma non sottomesso né assimilato. Per i suoi, Alarico era un capo guerriero abile e fortunato, capace di ricompensare largamente i guerrieri che gli erano fedeli e di imporre la sua autorità su tutto il popolo. Era quello che in latino si chiamava un rex, un ‘re’: titolo che i Romani consideravano enormemente più modesto rispetto a quello di imperatore. Ma oltre che capo del suo popolo, Alarico era anche un generale romano, un comandante di mercenari il cui appoggio era indispensabile al governo imperiale, per cui bisognava pagarlo in moneta sonante e promuoverlo ai più alti gradi militari, per esempio quello di comandante di tutte le truppe romane nei Balcani. Alarico approfittò di questa situazione per estorcere al governo sempre più denaro, con cui rafforzava la sua posizione di capo fra i Goti. Alla morte di Teodosio i Goti di Alarico divennero così irrequieti che Stilicone decise di affrontarli e ridurli alla ragione; ma l’impero non era più abbastanza forte per riuscirci. Cominciarono anni di scontri inconcludenti, di scorrerie, di negoziati e di intrighi, finché Alarico non decise di lasciare i Balcani e trasferirsi con tutta la sua gente in Italia. Stilicone inseguì i Goti alla testa di un esercito, anch’esso composto in gran parte di mercenari barbari, e nel 402 sconfisse Alarico a Pollenzo, in Piemonte, ma non riuscì a catturarlo né a distruggere il suo esercito; qualcuno sospetta che i due si fossero messi d’accordo sottobanco. Il governo imperiale si rassegnò a pagare ad Alarico somme sempre più consistenti per ottenere che i Goti non saccheggiassero l’Italia e si trasferissero a nord delle Alpi.

Principali direttrici migratorie dei popoli germanici tra IV e V secolo

Angli

BRITANNIA

a

Elb

nch

Fra

Bu

Unni

rg u

nd

i Vis tola

Vandali Long o b a rdi GALLIA Alamanni Danu bio PANNONIA Milano Aquileia Sirmio Goti MAR NERO Ravenna DACIA Marsiglia TRACIA Costantinopoli Roma PONTO Adrianopoli Nicea

Re

no

Treviri

i

OCEANO ATLANTICO

Sassoni

O

I SP CA

AFRICA

ASIA Efeso

Cartagine

AR

Cartagena

M

SPAGNA

Antiochia ORIENT

MAR MEDITERRANEO

E

Gerusalemme Alessandria

AR O SS

RO

Parte VII Il mondo romano-barbarico

EGITTO M

140

Goti Sassoni Vandali

lo

Unni Franchi Angli Burgundi

Ni

Impero romano d’Oriente Impero romano d’Occidente

Tig r

i

Eu

fra

te

Le invasioni del 406

Fra le popolazioni barbare che vivevano nell’Europa dell’Est e del Nord, la prospettiva di imitare i Goti trasferendosi nell’impero romano si faceva sempre più invitante. Non sappiamo perché proprio in quest’epoca così tanti popoli si siano messi in movimento. Può darsi che la crescita demografica rendesse sempre più difficile sopravvivere con l’allevamento e la primitiva agricoltura che rappresentavano la principale risorsa dei barbari; ma forse la vera causa sono le terrificanti scorrerie degli Unni, che diventavano sempre più frequenti. Quel che è certo è che tanto le tribù seminomadi delle steppe danubiane e ucraine, quanto quelle stanziali delle foreste della Germania cominciarono a prendere in considerazione sempre più volentieri l’idea di trasferirsi con armi e bagagli, per ottenere dall’imperatore il permesso di stabilirsi sul suolo romano; o per entrarci con la forza, se il governo non dava il permesso. Nel 406 un esercito barbaro, che comprendeva guerrieri di molti diversi popoli attirati dalla speranza del bottino, invase l’Italia al comando di un capo guerriero, il goto Radagaiso. Stilicone lo affrontò e lo distrusse a Fiesole, ma per riuscirci dovette sguarnire le difese della Gallia. Nel dicembre 406 un altro esercito barbaro, costituito in prevalenza dai popoli dei Vandali e dei Suebi, attraversò il fiume Reno ghiacciato e penetrò in Gallia. Passato così il limes, la zona di confine fortificata, gli invasori dilagarono in Gallia saccheggiando e distruggendo. In seguito Vandali e Suebi passarono in Spagna, mentre altre popolazioni, come i Burgundi, si riversavano in Gallia nella valle del Rodano, che unisce le Alpi al mare nell’est dell’attuale Francia, e gli Alamanni occupavano i territori romani a nord delle Alpi, fra la Germania meridionale e la Svizzera attuali. Nei secoli precedenti era già successo altre volte che grandi masse di barbari invadessero l’impero, ma lo sfondamento del limes nel 406 rappresenta una data epocale, perché stavolta, diversamente dal passato, i popoli entrati sul suolo romano non se ne andarono più. Inoltre, si trattava fin dall’inizio di un’invasione ostile e distruttiva, diversamente da quello che era accaduto con i Franchi e i Goti nel secolo precedente: il passaggio dei barbari attraverso la Gallia e la Spagna si accompagnò a un terribile strascico di saccheggi e violenze.



Joseph-Noël Sylvestre, Il sacco di Roma da parte dei barbari nel 410 1890 Musée Paul Valéry, Sète, Francia La pittura ottocentesca amava raffigurare le distruzioni dei barbari, rappresentandoli come nemici giurati del mondo civile. In questo quadro, i Goti si preparano per puro vandalismo ad abbattere la statua di un imperatore, mentre sullo sfondo altri barbari armati di fiaccole appiccano il fuoco a Roma. Oggi sappiamo che nella maggior parte dei casi i barbari desideravano approfittare anche loro delle comodità e delle ricchezze del mondo romano, non certo distruggerle.

Il sacco di Roma del 410

Nel 408 Stilicone venne ucciso in una congiura di palazzo, e senza la sua guida l’impero d’Occidente sprofondò nel caos. Alarico, deciso ad approfittare della situazione, marciò col suo popolo verso Roma. Bisogna ricordare che all’inizio del V secolo Roma non era più la capitale dell’impero. L’imperatore d’Oriente risiedeva a Costantinopoli; quello d’Occidente aveva soggiornato a lungo a Milano, che era già allora la metropoli della Pianura Padana. Poi si era stabilito a Ravenna: un porto ben fortificato e circondato da paludi, dove i barbari non potevano arrivare, e da dove l’imperatore era in contatto col

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

141

Il pericolo barbarico Verso l’anno 400 Sinesio di Cirene, grande latifondista africano, filosofo neoplatonico e poi vescovo cristiano, dedicò all’imperatore Arcadio, figlio di Teodosio, il suo trattato sulla monarchia, in cui segnalava il pericolo costituito dalla presenza dei Goti nel paese, e protestava contro la loro promozione ad alte cariche nell’impero. [Sinesio, De Regno, 14-15, in Patrologia Graeca 66, cc. 1089-98; trad. a cura degli autori]

La

voce

PA SSA TO del

Il pastore non deve mescolare i lupi ai suoi cani, anche se li ha presi da cuccioli e sembrano addomesticati, e farebbe male ad affidare a loro il gregge. Infatti appena noteranno un accenno di debolezza o di pigrizia da parte dei cani, attaccheranno i cani, il gregge e i pastori. Così il legislatore non deve dare armi a coloro che non sono nati e allevati sotto le sue leggi, perché non ha nessuna garanzia che siano ben disposti. Solo un pazzo o un ciarlatano potrebbe non avere paura, vedendo tutti questi giovani cresciuti all’estero, e che continuano a vivere secondo i loro costumi, incaricati del servizio militare nel paese. Anziché sopportare ancora che i Goti portino le armi, bisognerebbe chiedere ai nostri amati campi gli uomini capaci di difenderli, e arruolarne così tanti – richiamando anche il filosofo dai suoi studi, il manovale dalla sua fatica, il venditore dal mercato – da convincere questo popolo imbelle, che per il troppo tempo libero passa la vita nei teatri, che è ora di darsi da fare sul serio, prima che il riso si trasformi in pianto. Ma prima di tutto escludiamo dalle magistrature e dalle prerogative del consiglio chi si vergogna di quello che è sempre stato sacro per i Romani fin dai tempi antichi. Adesso infatti tanto la dea della Giustizia quanto il Dio degli eserciti devono coprirsi la faccia per la vergogna quando un uomo vestito di pelli comanda a quelli che indossano la clamide1, e quando uno, spogliatosi

Parte VII Il mondo romano-barbarico

della pelliccetta di pecora di cui era coperto, veste la toga e discute l’ordine del giorno insieme ai magistrati dei Romani, sedendo al posto d’onore accanto al console, mentre quelli che ne avrebbero diritto stanno dietro. Questi tali, poi, appena usciti dalla sala del consiglio, si rimettono subito le pellicce, e quando incontrano i loro soci si mettono a ridere della toga, dicendo che con quella addosso non si riesce neanche a sguainare la spada. Io mi stupisco di tante cose, ma soprattutto della nostra assurda condotta. Perché qualunque famiglia, che abbia anche solo un pochino di benessere, ha lo schiavo goto; in tutte le case sono Goti quello che prepara la tavola, quello che si occupa del forno, quello che porta l’acqua; e fra gli schiavi accompagnatori, quelli che si caricano sulle spalle gli sgabelli pieghevoli su cui i padroni si possono sedere per strada, sono tutti Goti. Insomma è dimostrato da tanto tempo che questa è la razza più adatta a servire i Romani. Ma che questi uomini biondi con i loro capelli lunghi siano i nostri servi in privato e poi ci governino in pubblico è davvero incredibile. Tuo padre li rialzò quando lo supplicavano, e ne fece i suoi alleati, e li considerò degni della cittadinanza, e divise con loro gli onori, e distribuì parte della terra romana a chi aveva ancora le mani sporche di sangue, mostrando la magnanimità e la nobiltà della sua natura con quest’atto di clemenza. Ma il barbaro non capisce la virtù. Dall’inizio fino ad ora questa gente non ha fatto altro che ridere di noi. 1. clamide: il mantello di porpora dei generali romani.



Missorium di Teodosio I: cerimonia d’investitura 388-395 Real Academia de la Historia, Madrid Su questo piatto commemorativo (un missorium, dal verbo mitto, ‘mando’) l’imperatore Teodosio, affiancato dai suoi figli Onorio e Arcadio, è rappresentato mentre consegna ad un alto funzionario il documento ufficiale contenente la sua nomina.

mondo, perché i Romani dominavano i mari. La città di Roma non aveva più un milione di abitanti come al tempo di Augusto, ma era sempre una grande metropoli, piena di ricchezze, dove risiedevano i più ricchi latifondisti italiani, che continuavano a portare l’antico titolo di senatori; la Chiesa di Roma era la più prestigiosa dell’Occidente latino, e aspirava al primato su tutta la Cristianità. Alarico giunse nell’Italia centrale e per due anni si trattenne nella zona, negoziando coi senatori per ottenere il pagamento di un’enorme somma e la conferma del suo grado di generale. Il re dei Goti aveva intenzione di giocare un ruolo simile a quello di Stilicone, e di diventare l’uomo forte dell’impero d’Occidente; tanto che assediò Ravenna nel tentativo di catturare Onorio e sostituirlo con un imperatore di sua scelta. Fallito questo intento, decise che per ricompensare i suoi uomini delle loro fatiche avrebbe permesso loro di saccheggiare Roma. Era il 410. I Goti entrarono nell’Urbe e la saccheggiarono per tre giorni; poi ripartirono verso sud. Alarico intendeva sbarcare in Africa, che era allora la provincia più ricca dell’Occidente, ma morì all’improvviso e i Goti rinunciarono all’impresa, ritornando verso nord. Il sacco di Roma suscitò un’enorme impressione nel mondo romano e costrinse tutti ad aprire gli occhi sulla spaventosa debolezza dell’impero, ora che gran parte del suo esercito era costituito da mercenari barbari, molti dei quali non desideravano integrarsi nella società romana, ma solo predarne le ricchezze. A partire da quel momento fu anche evidente che la separazione fra i due imperi era destinata ad approfondirsi. L’Oriente, infatti, resse meglio alla crisi, ora che i Goti si erano trasferiti in Occidente; e da quel momento la politica dei gruppi dirigenti orientali fu di sbarazzarsi di profughi e mercenari barbari indirizzandoli verso l’Occidente, dove lo sfondamento del limes nel 406 aveva reso estremamente precario il controllo del governo sul territorio.

1. Chi era il più influente capo tra i Goti? Che cosa gli permise di emergere tra gli altri capi? 2. Quali sono le probabili cause delle invasioni barbariche del 406? 3. Che cosa mise in evidenza il sacco di Roma?

3. Dalla nascita dei regni romano-barbarici alla deposizione di Romolo Augustolo

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Regni indipendenti in territorio imperiale

Nei primi decenni del V secolo invasori e foederati barbari si stabilirono in tutte le province dell’Occidente, tranne l’Italia. I Goti, dopo la morte di Alarico, strinsero un accordo col governo romano e nel 418 ricevettero una parte della Gallia; ma non si accontentarono della zona loro assegnata, e si allargarono con la violenza in tutta la Gallia di Sud-ovest e al di là dei Pirenei, in Spagna. I Vandali nel 429 lasciarono la Spagna attraverso lo stretto di Gibilterra e invasero il Nordafrica. I Burgundi erano stabiliti nella valle del Rodano, i Franchi occupavano il Nord della Gallia e gli Alamanni avevano invaso l’alta valle del Reno: tutti questi popoli diedero vita a occupazioni permanenti, sostituendo le autorità romane nel governo di quelle zone. La Britannia, che le truppe romane avevano evacuato giudicando impossibile difenderla, venne invasa dopo il 450 dai popoli marinari degli Angli e

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

143



Veduta aerea del fortino romano di Vindolanda, Inghilterra I-V sec. Uno degli accampamenti militari più importanti dell’Inghilterra settentrionale fu quello di Vindolanda (nell’attuale Chesterholm, a un chilometro di distanza dal Vallo di Adriano e al confine con la Scozia). Il forte fu fondato nel I secolo d.C. e per circa quattro secoli fu continuamente abitato da guarnigioni militari, poste per proteggere i confini dai continui attacchi dei Pitti, abitanti nell’attuale Scozia.

dei Sassoni, che ne conquistarono la maggior parte, nonostante la tenace resistenza delle popolazioni celtiche locali. La vastità di queste occupazioni è tanto più notevole in quanto i popoli barbari erano piuttosto piccoli: i Vandali passarono in Africa con appena 80.000 persone, donne e bambini compresi. In ognuna delle regioni da loro occupate, i barbari erano una minoranza in mezzo alla popolazione romana, che non venne né sterminata né evacuata. Ma erano l’unica forza armata organizzata, e quel che restava dell’amministrazione romana dopo la ritirata delle guarnigioni era costretto a obbedire ai loro capi. Anche la Chiesa cristiana, per amore o per forza, era costretta a collaborare con i barbari. Il governo imperiale continuava a considerare come parte dell’impero romano i territori ceduti ai barbari, e anche i capi, all’inizio, accettavano volentieri questa specie di finzione: anche a loro conveniva andare d’accordo con l’imperatore e con la Chiesa. Di fatto, però, in Occidente stavano nascendo dei veri e propri regni indipendenti, che si facevano continuamente la guerra fra loro. Erano regni modellati sull’amministrazione romana, abitati in stragrande maggioranza da Romani, ma governati e difesi militarmente dai barbari; perciò li chiamiamo “regni romano-barbarici”. Per la popolazione romana, i barbari erano vicini scomodi, alleati di cui si sarebbe fatto volentieri a meno, temuti per la loro rozzezza e prepotenza. Nelle zone in cui si insediavano, il governo romano concedeva loro l’hospitalitas: era un meccanismo per cui un terzo delle terre erano confiscate e assegnate ai capi barbari, che le ridistribuivano fra i loro uomini. Qualche studioso pensa che ad essere distribuita non fosse la terra, ma le imposte che i proprietari pagavano allo Stato; il risultato era comunque che buona parte della ricchezza prodotta finiva in mano agli occupanti. Le province che i barbari si limitavano ad attraversare ne uscivano saccheggiate e impoverite; il loro passaggio rendeva precaria l’esistenza e incoraggiava i più poveri a ribellarsi, dando vita a sollevazioni come quella dei Bagaudi in Gallia. Ma il disordine diffuso incoraggiava anche usurpazioni di generali romani che con l’appoggio dei barbari cercavano di impadronirsi della corona imperiale o si rendevano indipendenti nelle province: come quel Siagrio che si proclamò re in un pezzo della Gallia, fino alla sua sconfitta a opera dei Franchi nel 486. Attila e gli Unni

Intorno alla metà del V secolo l’Occidente dovette affrontare una nuova minaccia: la rinnovata aggressività degli Unni. In passato i Romani erano riusciti a frenare la spinta di questo popolo delle steppe, famoso per la sua ferocia, solo pagando un tributo in oro. Ma nel 440, sotto la guida di un nuovo re, Attila, bande di Unni tornarono a invadere l’impero d’Oriente, causando spaventose distruzioni e giungendo fin sotto le mura di Costantinopoli. Persuasi a fermarsi grazie al pagamento di un nuovo, colossale tributo, gli Unni attaccarono l’Occidente, entrando in Gallia nel 451. All’epoca Attila non era più soltanto il

144

Parte VII Il mondo romano-barbarico

re di alcuni clan unni, ma il capo di un immenso impero che si estendeva dall’Europa centrale ai deserti dell’Asia; sotto il nome di Unni si erano coalizzati molti popoli germanici e slavi. Contro Attila il comandante dell’esercito romano d’Occidente, Aezio, mobilitò le forze dei popoli barbari che occupavano gran parte della Gallia, Franchi e Goti, e sconfisse il re unno nella battaglia dei Campi Catalaunici (451). Attila si rivolse allora all’Italia, che invase nel 452. Presa e distrutta Aquileia, che era una delle città più importanti della penisola, era giunto al Po quando un’ambasciata che comprendeva anche il papa di Roma, Leone I, lo raggiunse e lo convinse a rinunciare all’invasione dell’Italia, probabilmente pagandogli un tributo. Attila era un tipico re dell’epoca delle invasioni, capace di negoziare da pari a pari con le autorità romane; del resto conosceva bene il mondo romano, perché da giovane aveva vissuto per anni a Ravenna, dove era stato mandato come ostaggio, in garanzia della pace fra gli Unni e l’impero. Le spaventose distruzioni compiute dai suoi eserciti erano anche un’arma propagandistica e può darsi che Attila, come altri capi barbari prima e dopo di lui, mirasse a imporre la sua egemonia sul mondo romano, piuttosto che a distruggerlo. Il re unno, però, morì all’improvviso nel 453 e dopo la sua morte l’impero europeo degli Unni si sfasciò. Nei secoli seguenti gli Unni continuarono a essere attivi in Asia, dove costituirono una minaccia costante per gli imperi cinese e indiano [cfr. altri mondi, pp. 158 sg.]; quelli rimasti in Europa, invece, si aggregarono ad altri popoli, come gli Àvari, tanto che la loro identità etnica finì per scomparire.



Elmi unni a calotta VI sec. Da Sveti Vid, Croazia; Kunsthistorisches Museum, Vienna Questi elmi unni riproducono una tipologia piuttosto diffusa in età tardo antica, quella dei cosiddetti Spangenhelme. La calotta è costituita da quattro o sei bande (Spangen) metalliche saldate tra loro da rivetti e unite inferiormente da una fascia metallica che corre lungo tutta la circonferenza.

Il crollo dell’impero d’Occidente

Fino all’epoca di Attila l’Italia era stata attraversata da eserciti barbari, ripetutamente devastata, e spopolata da paurose carestie; ma nessun capo barbaro si era impadronito stabilmente del paese. L’imperatore d’Occidente continuava a risiedere nel suo palazzo di Ravenna, anche se contava sempre meno. A Roma diventava sempre più influente la figura del vescovo cattolico, che portava il titolo orientale di papa; nel resto d’Italia il vero potere era in mano ai generali, i cui eserciti erano composti in larga misura da mercenari barbari, e che controllavano l’elezione imperiale imponendo sul trono di Ravenna “uomini di paglia” o propri parenti. Aezio, il vincitore di Attila, fu per molti anni l’uomo più potente dell’impero d’Occidente, riuscendo a mantenere un certo controllo non solo sull’Italia, ma anche sui popoli barbari stanziati in Gallia. Ma nel 454 Aezio venne assassinato in una congiura di palazzo e l’Occidente precipitò di nuovo nel caos. Genserico, re dei Vandali, che dal suo regno in Nordafrica aveva sviluppato una forte potenza navale, sbarcò in Italia nel 455 e saccheggiò Roma, per la seconda volta dopo il sacco di Alarico del 410. Ripartiti i Vandali, altri generali romani continuarono a giocare in Italia lo stesso ruolo che aveva giocato Aezio. Spesso erano di origine barbarica, discendenti da famiglie regali germaniche, ma erano anche imparentati con la famiglia imperiale romana, e ben addentro agli intrighi delle corti di Ravenna e Costantinopoli. L’élite dirigente dell’impero era or-

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

145

mai decisamente multietnica, e definire un ministro o un generale come Romano o barbaro non aveva più molto senso; più importante è la spietata lotta per il potere a cui tutti prendevano parte, e in cui aveva un’importanza decisiva il consenso dell’esercito e dei mercenari barbari. I generali che imposero la propria autorità sull’Italia e sugli imperatori-fantoccio che regnavano a Ravenna furono prima Ricimero, poi Oreste – che era stato in passato al servizio di Attila, e che riuscì a far acclamare imperatore il figlio Romolo – e finalmente Odoacre. Nel 476 Odoacre si fece proclamare re dai suoi soldati, uccise Oreste e depose Romolo, poi soprannominato spregiativamente Augustolo. Anziché nominare un nuovo imperatore, come tanti altri generali avevano fatto prima di lui, Odoacre mandò a Costantinopoli le insegne imperiali, e continuò a esercitare di fatto il potere in Italia, d’accordo col senato romano e con i vari popoli barbari che formavano l’esercito; il suo titolo era appunto rex gentium, ‘re dei popoli’. Nessuno all’epoca poteva saperlo, ma dopo Romolo Augustolo non ci sarebbe mai più stato un imperatore romano d’Occidente.

1. Che cosa si intende per “regni romano-barbarici”? 2. Quale percorso seguì l’invasione degli Unni guidati da Attila? 3. Chi deteneva realmente il potere nell’Italia del V secolo?



Pàtera di Parabiago metà IV sec. Museo Civico Archeologico, Milano La resistenza dei culti pagani durante il tardo impero è ben testimoniata da questo raffinato piatto rituale in argento, decorato con scene tratte dal mito di Attis e Cibele. Le due divinità, attorniate dai sacerdoti della dea e da altre divinità cosmiche legate ai culti orientali, procedono in trionfo su un carro trainato da leoni.

146

4. Perché finì il mondo antico?

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Un crollo tutt’altro che inevitabile

La deposizione di Romolo Augustolo nel 476 ha ai nostri occhi una forte risonanza simbolica; a volte se ne parla addirittura come della fine dell’impero romano, dimenticando che l’impero romano era ancora vivo e vegeto nella sua parte orientale. Il 476 sembrava una data così importante agli storici del passato, da essere scelto come data convenzionale con cui far finire l’Antichità e iniziare il Medioevo. In realtà all’epoca non se ne accorse quasi nessuno, perché l’eredità di Roma si era trasferita da un pezzo a Costantinopoli, mentre l’impero d’Occidente in pratica si era già dissolto con i grandi stanziamenti di popoli barbari sul suo territorio. Ma come era potuto succedere? Per molto tempo si è pensato che l’impero romano all’epoca delle invasioni barbariche fosse un organismo decrepito, in decadenza morale e materiale, e che il suo crollo fosse inevitabile. Questa interpretazione risale all’opera di un grande storico, l’inglese Edward Gibbon, che nel Settecento scrisse un libro famoso intitolato Declino e caduta dell’impero romano. Oggi, grazie a un nuovo interesse degli studiosi per quest’epoca e ai grandi progressi dell’archeologia, la nostra immagine dell’impero romano del IV secolo, alla vigilia delle invasioni barbariche, non è più così pessimista: la società romana non era affatto sul punto di crollare, e senza le invasioni barbariche avrebbe potuto sopravvivere, come infatti accadde nella parte orientale dell’impero.

Parte VII Il mondo romano-barbarico

Certo, l’impero era molto cambiato rispetto ai tempi di Augusto. Sotto certi aspetti era cambiato in peggio. L’imperatore era diventato una figura sacra e inavvicinabile: non era più il primo fra i cittadini, ma un sovrano tirannico che esercitava sui sudditi un potere assoluto di vita e di morte. Nella società le disuguaglianze erano cresciute: un piccolo numero di grandi latifondisti, generali e funzionari pubblici straricchi, dominava la massa dei poveri. Ma sotto altri aspetti l’impero era cambiato in meglio: dopo l’editto di Caracalla del 212 tutti gli abitanti dell’impero avevano la cittadinanza romana, e il nome infamante di barbari era riservato ai popoli che vivevano fuori dai confini. Nelle campagne, l’antica piantagione schiavistica era sparita; gli schiavi c’erano ancora, ma la maggior parte dei contadini ora erano coloni, che pagavano un affitto ed erano ufficialmente uomini liberi. C’era poi un cambiamento che qualcuno rimpiangeva, e altri esaltavano: la religione dell’impero non era più l’antico politeismo, ma il cristianesimo, anche se una forte minoranza, soprattutto in Occidente, era ancora attaccata ai vecchi riti. In passato gli storici credevano che la diffusione del cristianesimo avesse indebolito l’impero romano, rendendolo meno bellicoso; in realtà non è così. Gli imperatori cristiani erano altrettanto energici e spietati dei loro predecessori pagani, e la Chiesa si rivelò un poderoso alleato del governo nell’inquadrare la popolazione e dirigere la vita collettiva. Era, dunque, un impero diverso da prima, pieno di problemi e di contraddizioni, ma non certo un impero in decadenza, condannato dalla storia a crollare. Fu l’improvvisa spinta dall’esterno rappresentata dall’arrivo dei barbari a mettere in crisi l’impero: essa costrinse il governo di Costantinopoli a sacrificare le province occidentali, culla del potere romano, pur di salvare tutto il resto. L’impero d’Occidente, insomma, non declinò fino a crollare, ma come scrisse lo storico francese André Piganiol, «fu assassinato» dai barbari.



San Pietro e san Paolo IV sec. Museo Archeologico, Aquileia Il culto associato ai santi fondatori della Chiesa, Pietro e Paolo, appare già definito nel IV secolo, come documenta questo blocco scolpito e rimasto incompiuto in cui i profili di san Pietro (a sinistra) e san Paolo (a destra) hanno tratti fisiognomicamente ben caratterizzati.

L’economia mediterranea in crisi

Il crollo politico dell’impero fu certamente un avvenimento molto importante; ma un cambiamento ancora più profondo fu la crisi dell’antica economia mediterranea, che provocò la fine di un’intera civiltà, la civiltà greco-romana. Su questo non è possibile nessun dubbio: gli archeologi ci dicono che tra IV e VII secolo prima l’Occidente, e poi tutto il mondo mediterraneo conobbero una drammatica crisi economica, un declino pesantissimo del tenore di vita, un vero e proprio crollo del livello complessivo di civiltà. Anche in questo caso bisogna chiedersi come mai, esattamente, accadde tutto questo. Non basta dire che fu colpa delle invasioni barbariche, immaginando magari che i barbari, arrivando, abbiano distrutto tutto quello che trovavano. Lo scopo dei capi barbari e dei loro seguaci era di spartirsi le ricchezze del mondo romano; non volevano distruggere le città, i palazzi, i circhi e le ville, le strade, gli acquedotti e i mercati, ma far parte anche loro di quella società ricca e progredita. Perché, dunque, il loro arrivo provocò la fine della prosperità? Cominciamo col dire che sul piano economico l’Occidente latino stava già perdendo terreno rispetto all’Oriente greco. Fin dal III-IV secolo grandi province come la Gallia e la stessa Italia erano state colpite da una gravissima crisi economica ed erano in parte spopolate. Già prima delle invasioni san Girolamo afferma che certe città della Pianura Padana erano «cadaveri di città semidiroccate», e in Gallia del Nord i Franchi si erano stabiliti in

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

147



Proprietario terriero vandalo V-VI sec. Da Cartagine, Tunisia; British Museum, Londra Questo mosaico, rinvenuto in una villa romana nei pressi di Cartagine, raffigura un ricco proprietario terriero vandalo che si allontana a cavallo da una villa fortificata per una battuta di caccia.

un paese ridotto a un deserto. Altre province, però, come la Spagna o l’Africa, erano ricche e prospere; eppure anch’esse entrarono in crisi dopo le invasioni. Per capire come mai, bisogna esaminare i cambiamenti che le invasioni barbariche provocarono nel funzionamento dell’economia. Gli stanziamenti dei barbari non cambiarono le regole di base della vita economica. La proprietà terriera rimase il fondamento della supremazia sociale: chiunque contasse qualcosa, a partire dal re, possedeva vaste estensioni di terra e dava lavoro a un gran numero di coloni e schiavi. Molta terra passò di mano durante le invasioni: fu ceduta dal governo imperiale ai barbari, con i trattati che assegnavano loro le zone in cui stabilirsi; fu confiscata dai re a quei latifondisti romani che erano espatriati oppure erano rimasti coinvolti in qualche ribellione; fu regalata alla Chiesa da cristiani ansiosi di guadagnarsi il Paradiso. I re, a loro volta, distribuivano la terra ai loro uomini, così che ogni Goto, Franco, Vandalo divenne un proprietario terriero, abbastanza ricco da poter dedicare tutto il proprio tempo alla guerra. Sappiamo poco di quel che accadde ai contadini dipendenti: secondo qualche storico la condizione dei coloni peggiorò, e a causa della violenza diffusa la schiavitù tornò ad allargarsi rispetto ai tempi del tardo impero romano. Ma secondo altri storici – e fra loro il più importante studioso oggi vivente dell’epoca romano-barbarica, Chris Wickham – il controllo dei padroni sui contadini si alleggerì col crollo dell’impero, consentendo ai lavoratori della campagna di vivere più liberamente e di pagare affitti e imposte meno pesanti. Non è dunque nelle campagne che bisogna cercare l’origine della crisi. Furono soprattutto i commerci a soffrire della nuova situazione. L’insicurezza ostacolava i movimenti

La tesi Pirenne I dati forniti dagli archeologi dimostrano che il declino materiale dell’Occidente romano risale all’indomani delle invasioni barbariche, anche se la cronologia è diversa a seconda delle regioni. Ma all’inizio del Novecento l’archeologia medievale non esisteva: le informazioni di cui disponiamo oggi, provenienti dagli scavi compiuti nelle città e nelle campagne europee, non c’erano ancora. Perciò un grande storico belga, Henri Pirenne, propose un’interpretazione del tutto diversa della fine del mondo antico, in un libro uscito nel 1937, Maometto e Carlomagno. La sua ipotesi era che il declino dell’economia mediterranea non fosse affatto dovuto alle invasioni barbariche, ma alle invasioni arabe del VII-VIII secolo (ne parleremo più avanti: cfr. cap. 18), e fosse quindi da ritardare di circa duecentocinquant’anni. La tesi di Pirenne non ha smesso da allora di far discutere, e anche se sbagliata nell’idea di fondo, si è rivelata estrema-

148

Parte VII Il mondo romano-barbarico

mente feconda. Qualcuno si chiederà com’è possibile che una tesi sbagliata sia utile al progresso delle conoscenze. Il fatto è che l’ipotesi di Pirenne era sbagliata, appunto, perché ipotizzava che l’economia della Gallia, dell’Italia, della Spagna, dell’Africa avesse continuato a prosperare anche nel V e VI secolo, e oggi sappiamo che non è così; ma era giusta l’intuizione di fondo, per cui a provocare il declino non erano state le distruzioni compiute dai barbari, ma la rottura dello spazio economico unitario che il Mediterraneo costituiva in epoca romana. Pirenne pensava che a rompere quello spazio fossero state solo le invasioni arabe, che sottrassero per sempre il Vicino Oriente e il Nordafrica al mondo greco-romano e cristiano; oggi ci rendiamo conto invece che già le invasioni dei barbari del Nord ebbero quell’effetto. In ogni caso, grazie a Pirenne abbiamo capito meglio come e perché finì la prosperità del mondo antico.

dei mercanti e delle merci, e riduceva i collegamenti fra l’Occidente e l’Oriente; i mercanti delle ricche province orientali avevano sempre meno voglia di spingersi nell’Occidente dominato dai barbari. Ma il colpo più grave all’economia degli scambi fu assestato proprio dal crollo dell’amministrazione imperiale, perché nel tardo impero romano i movimenti di denaro e di merci erano legati soprattutto all’intervento dello Stato [cfr. cap. 15.5]. Il fisco imperiale prelevava con le tasse gran parte della moneta d’oro circolante, e la utilizzava per acquistare a prezzo politico enormi quantità di derrate alimentari, da distribuire all’esercito e alla popolazione di Roma e Costantinopoli: l’economia di intere regioni si reggeva su questo meccanismo. Ora, però, nelle province occidentali le guarnigioni romane stavano scomparendo, e il prelievo fiscale passava direttamente nelle mani dei singoli re barbari, che ovviamente operavano su scala molto più locale; perciò il meccanismo entrò in crisi. Tutti quei movimenti di merci e di denaro che il governo imperiale organizzava da un capo all’altro del Mediterraneo – comprando, per esempio, il grano e l’olio prodotti in Tunisia per portarli a Roma – s’interruppero con la nascita delle nuove frontiere fra un regno e l’altro. L’oro e l’argento disponibili nelle singole regioni non bastavano per battere moneta in grandi quantità. Così, senza che nessuno se ne rendesse conto, la produzione di beni e la circolazione monetaria cominciarono a ridursi, e i re che governavano ampie zone della Gallia, della Spagna, dell’Africa si trovarono ad avere sempre meno risorse da investire. Le infrastrutture che fino a quel momento, per funzionare, dipendevano dagli investimenti statali, strade, acquedotti, fognature, teatri, circhi, cominciarono a decadere, anche se nessuno lo desiderava, meno che mai i barbari. Ad accelerare il declino economico dell’Occidente si aggiunsero le continue guerre fra i regni romano-barbarici, i tentativi di riconquista delle truppe imperiali, le frequenti usurpazioni, che davano luogo a vere e proprie guerre civili e si concludevano regolarmente con un bagno di sangue. Il passaggio degli eserciti rappresentava sempre una catastrofe per il territorio, sottoposto a sistematico saccheggio. La precarietà della situazione politica aggravava le conseguenze delle carestie, anche perché era sempre più difficile nutrire la gente dopo un cattivo raccolto importando grano da altre province dell’impero; perciò le cronache del V e VI secolo parlano continuamente di terribili carestie, che spopolano intere regioni. Alla fame si aggiungevano le malattie, anch’esse propagate dagli eserciti e dai popoli in movimento; col risultato che la popolazione diminuì drammaticamente di numero, le città ricominciarono a svuotarsi, sempre più spesso i campi rimasero incolti e si trasformarono in boscaglia. Non tutte le zone dell’Occidente furono investite allo stesso modo dalla crisi. Nella Gallia del Nord, che rispetto al mondo mediterraneo era sempre stata una regione periferica, e dove l’immigrazione dei Franchi era avvenuta senza troppe violenze e distruzioni, l’economia locale continuò a prosperare anche sotto i nuovi padroni; i re franchi poterono di-

Capitolo 16 Le invasioni barbariche



Deposito di monete fine III secolo Da Autun, Francia © Institut National de Recerches Archéologiques Préventives (Inrap) Recenti scavi nell’antica Augustodunum (l’odierna Autun, nella Francia centro-orientale) hanno permesso di scoprire, raccolte e sepolte in una fossa sigillata, 117.000 monetine romane in bronzo databili alla fine del III secolo. Si tratta di monete “non ufficiali” simili agli originali della zecca ma emesse, secondo una prassi diffusa in periodi di crisi economica, da privati cittadini per fronteggiare le difficoltà del sistema monetario centrale dipendente da Roma. Il deposito, probabilmente, fu conservato per essere poi rifuso e recuperare così il bronzo.

149

stribuire grandi ricchezze ai loro parenti e amici, creando un’aristocrazia guerriera ricca e potente, che a sua volta attirava mercanti e artigiani e stimolava la vita economica. Si spiega così come mai i Franchi – lo vedremo nei prossimi capitoli – siano diventati di gran lunga il più potente dei regni romano-barbarici. Anche in Gallia, però, gli archeologi che scavano le città e le ville rustiche ci dicono che col tempo il tenore di vita si abbassò: la rottura dell’unità economica del Mediterraneo antico faceva sentire i suoi effetti dappertutto. Persino l’impero d’Oriente, maggiormente risparmiato dalle invasioni, ne risentì, e anche lì alla lunga la vita urbana e gli scambi conobbero un declino.

1. La diffusione del cristianesimo aveva indebolito l’impero romano? Perché? 2. Per quale motivo furono i commerci a soffrire maggiormente la crisi economica dell’Occidente? 3. Quali furono le aree meno colpite dalla decadenza economica?



Ambrogio, vescovo di Milano IV sec. Cappella di San Vittore, Basilica di Sant’Ambrogio, Milano

5. La Chiesa e le controversie religiose

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

La spaccatura religiosa e i Padri della Chiesa

L’epoca delle invasioni barbariche fu anche un’epoca di straordinaria vivacità culturale nell’ambito religioso. Il cristianesimo, uscito trionfante dalle persecuzioni, si stava organizzando dal punto di vista delle credenze e dei dogmi, e gli intellettuali cristiani lavoravano intensamente per risolvere le molte contraddizioni e incertezze dell’insegnamento dottrinale. È l’epoca dei cosiddetti “Padri della Chiesa”; da noi sono famosi soprattutto quelli occidentali, che scrivevano in latino, come Girolamo, Ambrogio, Agostino, ma all’epoca erano altrettanto famosi e influenti quelli orientali, che scrivevano in greco, come Giovanni Crisostomo o Gregorio di Nazianzo. Ambrogio, morto nel 397, membro di una grande famiglia senatoria, fu un importante uomo politico e governatore di tutta l’Italia settentrionale prima di accettare l’incarico di vescovo di Milano. Girolamo, morto nel 420, realizzò la prima traduzione integrale della Bibbia in latino, la Vulgata (ricordiamo che l’Antico Testamento era scritto in ebraico e il Nuovo Testamento in greco). Agostino, uno dei più importanti pensatori cristiani di tutti i tempi, era vescovo di Ippona in Africa e morì nel 430 mentre i Vandali assediavano la sua città. Anche se il Concilio di Nicea del 325 aveva stabilito gli elementi fondamentali del Credo, le comunità cristiane continuavano a essere spaccate da profonde divergenze teologiche [cfr. cap. 15.3]. I cristiani di confessione ariana, condannati come eretici a Nicea, erano ancora molto numerosi in Oriente, dove diversi imperatori li avevano sostenuti, e presero piede anche in Occidente coll’arrivo dei barbari: i Goti, i Vandali e i Burgundi infatti erano sì diventati cristiani, ma avevano adottato il cristianesimo ariano. Ambrogio, a Milano, dovette lottare per conservare il controllo della cattedrale contro la comunità ariana, sostenuta dagli ufficiali goti della guarni-

150

Parte VII Il mondo romano-barbarico

gione. Fra la popolazione romana, invece, le spaccature religiose erano particolarmente forti in Africa e in Oriente. In Africa, come sappiamo, era radicato il movimento dei donatisti, una Chiesa separata nata al tempo delle persecuzioni. Il governo imperiale perseguitò duramente i donatisti, senza riuscire però a sradicarli: erano ancora ben presenti all’arrivo dei Vandali. In Oriente le discussioni dei teologi portarono alla nascita di due nuove interpretazioni della Trinità. Secondo Nestorio, patriarca di Costantinopoli intorno al 430, il Gesù fatto uomo e il Figlio di Dio divino erano due persone diverse, anche se unite, e Maria non poteva essere chiamata Madre di Dio. Secondo la dottrina monofisita (che in greco significa ‘una sola natura’), al contrario, Cristo pur fatto uomo aveva una sola natura, quella divina. Entrambe le interpretazioni si discostavano dalla dottrina cattolica stabilita a Nicea, secondo la quale Cristo è una sola persona in cui convivono due nature, divina e umana. Oggi l’interesse dei cristiani per questi problemi è molto diminuito, ma all’epoca queste questioni erano considerate fondamentali e i sostenitori delle diverse posizioni si scontravano con violenza. Un concilio ecumenico convocato a Efeso nel 431 dichiarò eretica la dottrina di Nestorio, e un altro concilio riunito a Calcedonia nel 451 condannò la dottrina monofisita, ribadendo il Credo cattolico. Ma la fede nestoriana divenne prevalente in Asia al di fuori dell’impero romano, si affermò fra i cristiani della Persia, e raggiunse addirittura la Mongolia, l’India e la Cina. La dottrina monofisita rimase largamente diffusa in Egitto e in Siria, e penetrò fino all’Etiopia; ancor oggi i cristiani d’Egitto (i “copti”) e quelli d’Etiopia formano Chiese separate, che si oppongono alle conclusioni del concilio di Calcedonia. Anche qui, come in Africa, il governo imperiale e la Chiesa cattolica perseguitarono duramente quelli che ritenevano eretici, mettendo in crisi la fedeltà a Roma delle popolazioni locali.



Sarcofago da Tebessa, Algeria IV sec. Museo della Civiltà Romana, Roma La figura femminile scolpita nel pannello centrale di questo sarcofago è stata interpretata dagli storici come la personificazione della Chiesa di Roma, rappresentata come una donna assisa in trono tra due candelabri accesi mentre porge in alto un calice.

Il peso politico della Chiesa

I Padri della Chiesa non erano soltanto dei teologi, ma dei politici, come tutti i vescovi cristiani dell’epoca. In ogni città infatti il vescovo, eletto dal popolo, era il vero capo della comunità cittadina, ora che praticamente tutti gli abitanti dei centri urbani erano diventati cristiani. Il vescovo aveva una grande autorità, sia per ragioni morali, sia perché la protezione imperiale e le donazioni dei fedeli avevano messo nelle mani della Chiesa grandi proprietà immobiliari e quindi enormi entrate, di cui il vescovo era l’amministratore. I vescovi delle grandi metropoli, Roma, Costantinopoli, Antiochia, Alessandria, che portavano il titolo di “patriarca” o “papa”, erano fra gli uomini più potenti dell’impero e non di rado ne sfidavano l’autorità, affermando che in questioni di fede e di morale anche l’impe-

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

151

ratore doveva inchinarsi davanti alla Chiesa. Nel 390 Teodosio si rese colpevole di un delitto, facendo massacrare gli abitanti di Tessalonica che avevano assassinato un generale imperiale di origine gotica: Ambrogio, vescovo di Milano, gli negò l’ingresso in chiesa e la partecipazione ai sacramenti, e Teodosio si piegò davanti all’autorità della Chiesa, accettando di fare pubblica penitenza. Anche nell’Occidente occupato dai barbari i vescovi erano figure potenti e autorevoli, tanto più che dopo il ritiro delle guarnigioni romane e dei governatori imperiali il vescovo rappresentava spesso l’unica autorità romana rimasta in città. I re barbari erano perlopiù ariani, come nel caso dei Goti e dei Vandali, o addirittura pagani, come i Franchi. Per loro il rapporto con i vescovi cattolici fu tutt’altro che facile; ma senza la collaborazione dei vescovi governare era quasi impossibile. Quei re che perseguitarono il clero cattolico, come i Vandali, indebolirono senza accorgersene il loro potere; quelli che invece seppero costruire un buon rapporto con la Chiesa, come i Franchi, ne trassero grande vantaggio.

cittadinanza La religione di Stato

L’editto di Tessalonica, emanato da Teodosio nel 380, rappresenta una svolta decisiva nella storia d’Europa, le cui conseguenze si sono sentite fino a pochi anni fa. Con la decisione di imporre a tutti i sudditi un’unica fede religiosa, il cristianesimo cattolico, e di mettere fuori legge tutte le altre, finiva l’antica tolleranza religiosa, la coesistenza di culti diversi che aveva caratterizzato il mondo romano. Si apriva un’epoca durata quasi millecinquecento anni, fino alla Rivoluzione francese (che scoppia nel 1789) e al Risorgimento, in cui lo Stato ha considerato suo dovere controllare le idee religiose dei sudditi, imporre a tutti una stessa religione, e punire chi non si adeguava. A seconda delle epoche e dei paesi, il principio è stato applicato con maggiore o minore durezza: innanzitutto nei confronti degli Ebrei, che vivevano numerosi in molte zone del mondo cristiano. La Chiesa decise di non convertirli con la forza, e all’inizio permise loro di vivere abbastanza liberamente; ma a partire dall’epoca delle Crociate (tra l’XI e il XIII secolo) gli Ebrei furono sottoposti a vessazioni d’ogni genere, e nell’età moderna molti paesi li espulsero oppure li costrinsero a vivere chiusi nei ghetti. Con intolleranza ancora maggiore venne affrontato il problema dei cristiani che non accettavano l’interpretazione ufficiale del dogma. Nella tarda Antichità, ariani, monofisiti, nestoriani, donatisti vennero perseguitati duramente dalle autorità imperiali romane, e a loro volta gli ariani perseguitarono i cattolici quando giunsero al potere. Nel Medioevo

152

Parte VII Il mondo romano-barbarico

(IV-XV secolo) le minoranze religiose scomparvero dall’Occidente, ma il problema riesplose con la Riforma protestante, nel XVI secolo. Per più di cent’anni cattolici e protestanti tentarono di sradicarsi a vicenda, e anche dopo la fine delle guerre di religione le minoranze sopravvissute in certi paesi – come i valdesi protestanti nel Piemonte cattolico – dovettero rassegnarsi a vivere come cittadini di serie B. Quanto ai fedeli dell’altra grande religione monoteista, l’islam, nel Medioevo come nell’età moderna era assolutamente impensabile che comunità musulmane potessero vivere in Europa e praticare liberamente il loro culto. In Italia, il principio della religione obbligatoria stabilito dall’editto di Tessalonica venne abrogato solo in seguito alla Rivoluzione francese e poi con lo Statuto albertino del 1848. Solo allora a ebrei e protestanti fu permesso vivere con gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini. Ma nel 1929 il Concordato firmato da Mussolini con la Santa Sede stabilì che il cristianesimo cattolico era in Italia la religione di Stato, e questo principio è rimasto fino alla revisione del Concordato nel 1984. Il concetto di religione di Stato, nell’accezione moderna, non significava che i cittadini di altre religioni fossero perseguitati o discriminati, ma riconosceva comunque a una sola religione, e alla sua Chiesa, l’appoggio dello Stato: per esempio fu introdotto l’obbligo di esporre il crocifisso nelle scuole e nei tribunali. Attualmente nella Costituzione italiana il principio della religione di Stato non è più previsto, e si può dire che solo ora l’onda lunga dell’editto di Tessalonica si è davvero esaurita.

Nasce in quest’epoca un problema che non esisteva nel mondo antico, e che invece resterà centrale lungo tutto il Medioevo e l’età moderna. Lo Stato – e cioè in pratica l’imperatore o il re – e la Chiesa si considerano entrambi responsabili verso Dio e hanno il dovere di collaborare per assicurare sia il benessere del popolo cristiano su questa terra, sia la sua salvezza nell’aldilà. In pratica, però, la collaborazione si trasforma in concorrenza, e provoca attriti e conflitti, perché non è ben chiaro quale dei due poteri debba essere superiore all’altro. Nel 494 il papa di Roma, Gelasio, un Romano d’Africa, affermò che la Chiesa doveva sì obbedire alle leggi dell’impero, ma che l’imperatore doveva a sua volta sottomettersi alla superiore autorità della Chiesa e non intromettersi nella sua gestione. A questo principio si accompagnava l’idea che la Chiesa di Roma fosse stata fondata da Gesù in persona, quando aveva detto a san Pietro «tu sei Pietro e su questa pietra io fonderò la mia Chiesa», e quindi fosse destinata da Dio a capeggiare l’intera Cristianità. La posizione di Gelasio, però, era minoritaria: le altre sedi patriarcali non accettavano che Roma

 “Iudei” all’inferno, Herrade di Hohenburg, Hortus deliciarum, f. 255

1175 ca. Alcune miniature presenti nell’Hortus deliciarum (‘L’orto delle delizie’, un manoscritto medievale redatto da una colta monaca per istruire le sue novizie) sono dedicate agli ebrei – riconoscibili dal cappello a punta – colpevoli, secondo i cristiani, di aver ucciso Cristo e condannati per questo alle pene dell’inferno.



Il cardinale Pietro Gasparri e Benito Mussolini al Laterano insieme a notabili della Chiesa e del governo febbraio 1929

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

153

avesse un’autorità superiore alla loro, e il papa di Roma era considerato solo un vescovo di grandissima importanza, non il capo di tutta la Cristianità. In mancanza di un potere unico nella Chiesa, molti preferivano pensare che l’imperatore fosse il vero capo dei cristiani, e che anche i vescovi dovessero sottomettersi alla sua autorità.

1. Per quale motivo il cristianesimo ariano prese piede anche in Occidente? 2. Che cosa sosteneva il vescovo di Roma Gelasio?

6. L’etnogenesi, ossia la nascita dei popoli

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Da tribù a popoli

Agli occhi dei Romani, i barbari che avevano invaso l’impero si assomigliavano un po’ tutti. Erano barbari del Nord, «popoli biondi», come li chiamavano a Costantinopoli. Erano divisi in popolazioni, che i Romani chiamavano gentes e i Greci èthne, e si sapeva che le etnie più grandi, come i Goti, i Franchi, gli Alamanni, erano divise in raggruppamenti più piccoli, ciascuno con propri capi o re. Noi oggi sappiamo che la grande maggioranza di quei popoli parlava lingue germaniche: le antenate del tedesco, dell’inglese, dell’olandese e delle lingue scandinave. Perciò noi moderni spesso chiamiamo quei barbari col nome di Germani; loro, però, non si chiamavano così, e anzi non avevano nessun nome che indicasse l’insieme delle tribù e dei popoli. Neanche i Romani li chiamavano così, quando discutevano del problema barbarico in generale: per loro, Germani erano solo i popoli che vivevano nelle foreste e nelle paludi della Germania, e nessuno pensava di includere sotto questo nome i popoli delle steppe orientali, come i Goti. In mancanza di meglio, conviene che li chiamiamo anche noi barbari, anziché Germani: è sempre una parola usata dai loro nemici, ma almeno li include tutti. La storia dei popoli che sono stati protagonisti delle invasioni barbariche ci aiuta a capire un fatto fondamentale: le nazioni non sono entità biologiche, come le specie o le razze animali. Non esistono in natura, ma si formano, e talvolta scompaiono, nel corso della storia umana, e l’appartenenza a una nazione è un dato essenzialmente culturale, non biologico. Gli storici hanno cominciato a ragionare su questo problema quando si sono accorti che i popoli che invadono l’impero tra IV e V secolo non hanno una lunga storia: nella maggior parte dei casi, i loro nomi compaiono solo nel III secolo. Dobbiamo pensare che venissero da lontano, e solo allora si siano trasferiti in zone adiacenti all’impero romano? Oggi non si pensa questo. L’impressione è piuttosto che i popoli siano nati dove prima c’erano solo tribù: raggruppamenti molto più piccoli, di poche migliaia di persone. Fu proprio il lungo contatto col mondo romano a insegnare alle tribù barbare che era utile unirsi, collegarsi, federarsi, per combattere insieme contro i Romani, o per negoziare più efficacemente con loro. Senza l’impero romano, insomma, i popoli germanici non sarebbero mai esistiti: proprio il confronto con la potenza di Roma costrinse le tribù che vivevano lungo i confini dell’impero ad allearsi e poi a fondersi fra loro. Già prima delle invasioni gli imperatori si erano accorti che i barbari del Nord opponevano alle legioni eserciti sempre più numerosi e

154

Parte VII Il mondo romano-barbarico

disciplinati, al comando di re la cui autorità si estendeva su regioni molto vaste. In seguito, l’occasione offerta dalle invasioni convinse molte tribù, o anche solo bande di guerrieri provenienti da tribù diverse, a unirsi a un popolo già in movimento e adottare il suo nome e la sua identità. In questo modo nacquero nazioni nuove, talvolta addirittura con un nome inventato: come i Franchi, che vuol dire ‘i coraggiosi’, o gli Alamanni, che vuol dire ‘tutti gli uomini’. Questo processo è chiamato etnogenesi, che vuol dire nascita dei popoli. Inversamente, un popolo può scomparire quando non è più conveniente farne parte: con la morte di Attila e la fine dell’impero unno in Europa, tutti quei raggruppamenti barbarici, di lingua germanica o slava, che per un po’ avevano pensato e dichiarato di essere Unni abbandonarono questa identità per unirsi ad altri popoli. Il processo di fusione

L’insediamento dei barbari in mezzo ai Romani diede poi inizio a un secondo processo di etnogenesi, caratterizzato dalla fusione fra i nuovi venuti e la popolazione preesistente. Ovunque, tranne nell’estremo Nord della Gallia, i barbari erano una minoranza e in poco tempo finirono per abbandonare la loro lingua, adottando il latino dialettale parlato sul posto. L’italiano e i suoi dialetti, come pure il francese, il provenzale, lo spagnolo, il catalano e il portoghese, derivano tutti dal latino, cui si sono aggiunte poche parole di origine germanica (anche se sono spesso parole importanti, come ricco o guerra, o come i nomi di certi colori, il bianco e il blu). Dal punto di vista linguistico, quindi, i barbari stanziati nell’impero d’Occidente vengono assimilati dalla popolazione romana preesistente; ma da un altro punto di vista, quello dell’identità, sono loro che assimilano gli indigeni romani. Non per niente in Gallia il popolo dominante, i Franchi, ha lasciato il suo nome al paese, che oggi chiamiamo Francia; e lo stesso è accaduto ai Longobardi, di cui parleremo nel prossimo capitolo, che hanno lasciato il loro nome alla Lombardia. Come mai? Il fatto è che nel corso dell’epoca romanobarbarica quasi tutta la popolazione che viveva nel regno dei Franchi e obbediva al re franco ha cominciato a sentirsi franca, e a seguire le usanze e le leggi franche. Alla fine, tutti quelli che vivevano nel regno sono stati considerati membri del popolo franco, anche se noi oggi sappiamo che la grande maggioranza di quei “Franchi” discendeva dagli abitanti gallo-romani del paese. Anche in questo caso, quindi, risulta confermato che l’appartenenza a una nazione è frutto più di una scelta culturale, di solito inconsapevole, che non di una discendenza biologica.



Patena d’argento VI sec. Museo Civico e d’Arte Sacra, Colle di Val d’Elsa, Siena Questa patena (il piattino liturgico usato durante l’eucarestia per appoggiare l’ostia) fa parte del cosiddetto “tesoro di Galognano” trovato in provincia di Siena. Nell’iscrizione latina incisa lungo il bordo è riportato il nome di una donna di origine gota, Sivegerna. Il nome è composto con i termini germanici sibajo‘stirpe’ e -gerno ‘premurosa’.

1. In che modo il contatto con il mondo romano contribuì alla formazione dei popoli barbari? 2. Quale processo di etnogenesi iniziò con l’insediamento dei barbari nell’impero romano?

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

155

7. La testimonianza dell’archeologia

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Quel che sappiamo sulle invasioni barbariche proviene innanzitutto dalle cronache scritte in quell’epoca; ma oggi anche l’archeologia ci fornisce informazioni sempre più abbondanti. Gli archeologi hanno scoperto che i continui movimenti di popoli barbari e di eserciti contrapposti crearono un’insicurezza tale che molti villaggi si ritirarono verso le alture e vennero fortificati, una precauzione a cui nessuno avrebbe pensato nei secoli della Pax Romana. Qualche scavo ha rivelato la presenza nelle campagne italiane o francesi di un’edilizia di tipo nuovo, con capanne di legno seminterrate, simili a quelle in uso nelle re-

La tomba di un capo franco

La

voce

PA SSA TO del

I Germani non erano gente che scrivesse molto. All’epoca delle invasioni, la voce con cui ci parlano è perlopiù quella degli oggetti che seppellivano con i loro morti. Nell’impero romano, il cristianesimo aveva fatto quasi completamente scomparire l’abitudine antica di depositare nelle tombe un corredo funerario; i barbari del Nord, invece, avevano l’abitudine di portare con sé nell’oltretomba armi e oggetti d’uso quotidiano, e in qualche caso addirittura i propri cavalli, sacrificati e sepolti presso la tomba del padrone. L’archeologia funeraria offre quindi un aiuto di grande importanza

per conoscere le popolazioni germaniche dell’età delle invasioni. Il disegno ricostruisce l’aspetto che deve aver avuto in origine la tomba d’un capo franco, ritrovata a Morken, nella regione tedesca della Renania, e risalente al 600 d.C. L’uomo, chiuso in una bara di legno, ha accanto a sé l’arma più importante, la spada. All’esterno della cassa sono deposte le altre armi: l’elmo in bronzo dorato, lo scudo, la lancia e la francisca, l’ascia da guerra così tipica dei Franchi da aver preso il loro nome. Fra gli altri oggetti, notiamo a sinistra le briglie e il morso del cavallo: presso i barbari i cavalli erano pochi e costosi, per cui possederne uno era certamente il segno di uno status elevato.

 Fibula a forma di aquila fine V-inizi VI sec. Dal Tesoro di Dolmagnano (Repubblica di San Marino); Germanisches Nationalmuseum, Norimberga, Germania



Pendenti per collana fine V-inizi VI sec. Dal Tesoro di Dolmagnano (Repubblica di San Marino); Germanisches Nationalmuseum, Norimberga, Germania Nel 1893 a Dolmagnano furono scoperti diversi oggetti appartenenti al ricchissimo corredo funerario di una nobildonna gota. Realizzati tutti in oro e pietre preziose, i gioielli furono creati rielaborando modelli di tradizione romana e introducendo motivi figurativi tipicamente goti, come l’aquila.

gioni da cui provenivano i barbari. Ma è soprattutto l’archeologia funeraria, quella cioè che analizza i ritrovamenti nelle tombe, a fornire le informazioni più interessanti. Ovunque nell’epoca delle invasioni barbariche compaiono cimiteri di tipo nuovo, con le tombe disposte in lunghe file, e dove molti uomini sono sepolti con le loro armi: un’usanza sconosciuta ai Romani. Nelle tombe delle donne si ritrovano invece gioielli, specialmente orecchini o fibbie, di fattura barbarica. Secondo certi archeologi queste sono tutte tombe di barbari, come conferma anche l’alta statura delle persone sepolte; la loro presenza permette di creare la mappa degli insediamenti barbarici in Occidente. Altri archeologi pensano che in realtà anche i Romani più ricchi abbiano cominciato in quest’epoca a imitare le usanze dei barbari, a portare spade e gioielli di nuovo genere, nella vita e anche nella tomba; per cui questi oggetti non rappresenterebbero l’appartenenza etnica, ma lo status sociale dei defunti. I capi barbari, a loro volta, apprezzavano le usanze romane e le imitavano, e sono proprio le loro tombe a dimostrarlo. Il re franco Childerico, sepolto intorno al 482, aveva al dito un anello d’oro usato come sigillo, secondo l’abitudine degli alti funzionari imperiali; sull’anello era rappresentato il suo busto in veste di generale romano, con la scritta latina «Childirici regis». Vicino a lui, però, erano stati seppelliti anche i suoi cavalli, sacrificati per seguire il re nell’aldilà, secondo un’usanza pagana che avrà fatto inorridire i Romani della Gallia, cristiani da un bel pezzo. La testimonianza dell’archeologia dimostra così, al tempo stesso, la distanza fra la società barbarica e quella romana, e la faticosa integrazione in corso.



Anello del re Childerico Copia XVII sec. Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles, Parigi L’anello con il sigillo del re Childerico fu rubato a Parigi nel 1831 ma ne era stata realizzata una copia al momento della scoperta.

1. Quale importante cambiamento si registra in questo periodo nell’edificazione dei villaggi? 2. Quali informazioni fornisce l’archeologia funeraria?

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

157

India e Cina dal III al VI secolo In Cina

Altri

Dopo la caduta della dinastia Han all’inizio del III secolo, l’impero cinese conobbe sviluppi abbastanza simili a quelli dell’impero romano: forse è un caso, ma forse no, dal momento che entrambi gli imperi subirono l’urto dei popoli nomadi delle steppe asiatiche. In Cina l’impero della dinastia Jin, lacerato dalle guerre civili, cadde entro il 420 sotto la pressione di nuovi popoli provenienti dal Nord, di lingua turca e mongola; fra loro c’erano gli Xiongnu, che potrebbero essere una federazione di clan unni. Gran parte della Cina del Nord

fu occupata da questi nomadi, che vi fondarono le loro dinastie. Molti cinesi Han emigrarono nella parte meridionale della Cina, a sud del grande fiume Yangtze, dove nacque una moltitudine di dinastie locali: è l’epoca nota nella storia cinese come “Periodo delle Dinastie del Sud e del Nord”. Proprio come nell’Occidente romano-barbarico, il problema dominante nella Cina di quest’epoca è la convivenza fra la civiltà indigena e gli invasori, che vennero via via acculturati e assimilati. Come in Europa, i territori imperiali occupati dai barbari

conobbero un declino demografico, culturale ed economico; esso fu però controbilanciato dal grande sviluppo della Cina del Sud, che fino a quell’epoca era stata periferica rispetto ai centri del potere e della civiltà cinese, e che ora conobbe una grande fioritura economica, culturale e artistica. Come nel bacino mediterraneo, infine, anche in Cina la dissoluzione politica si accompagnò a un importante rinnovamento religioso: il buddismo, proveniente dall’India e radicatosi in Cina fin dalla dinastia Han, prese sempre più piede, nonostante l’iniziale opposizione delle autorità, e finì per coesistere pacificamente con la tradizione locale del taoismo [cfr. altri mondi, pp. 70 sg.].



Dipinti buddisti cinesi 538-539 Grotte di Mogao, Dunhuang, Cina Tra il IV e il IX secolo lungo un’estesa parete rocciosa nell’oasi di Dunhuang furono scavati e creati da monaci buddisti quasi un migliaio di templi, che resero il sito uno dei maggiori luoghi di culto della Cina. Questa grotta, realizzata tra il 538 e il 539 come attesta un’iscrizione rupestre, era destinata alla meditazione e a questo scopo servivano anche le statue e gli splendidi dipinti a carattere sacro che la decorano.

Parte VII Il mondo romano-barbarico

In India Anche in India quest’epoca conosce una grande fioritura culturale e artistica, tanto che il periodo fra l’inizio del IV e la fine del V secolo è considerato l’età d’oro della civiltà indù: molti fra i capolavori più famosi dell’arte indiana e della letteratura sanscrita sono stati creati allora. A questi anni risale anche l’invenzione dei numeri decimali, che noi chiamiamo numeri arabi, ma che in realtà vennero inventati in India. I matematici indiani elaborarono il concetto dello zero, sconosciuto a Greci e Romani, e scoprirono che la Terra si muove attorno al Sole. In India, diversamente dalla Cina e dall’Europa, questo non è un periodo di dissoluzione politica: dal 320 al 550 un grande impero, quello dei Gupta, governa

gran parte del subcontinente indiano. Ma la differenza è in realtà solo una questione di tempo: anche il potere dei Gupta entrò in crisi alla fine del V secolo, quando le tribù unne conosciute come gli Unni Bianchi invasero l’India settentrionale, e alla fine l’impero si disgregò, lasciando il posto a molti regni regionali. Il re Mahajanaka (precedente  incarnazione di Budda)

VI sec. Grotte di Ajanta, Maharashtra (India) Tra il II secolo a.C. e il VII d.C. in una profonda gola nei pressi di Ajanta fu scavato nella roccia un grande complesso monastico buddista, uno dei capolavori dell’arte indiana. All’impero gupta risalgono le ricche ed elaborate decorazioni presenti in molte grotte e che ripropongono scene legate alle opere, agli insegnamenti e alle vite anteriori del Budda.



India e Cina nel IV secolo

Impero della dinastia Jin

Impero dei Gupta

OCEANO PACIFICO

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

159

SINTESI 1. L’invasione gotica del 376 e le sue conseguenze Negli ultimi decenni del IV secolo cominciò un movimento di popoli barbari verso l’impero. I barbari si insediarono nell’impero, senza però trasformarsi in sudditi di Roma e conservando i propri capi e le proprie leggi. Il primo insediamento fu quello dei Franchi in Gallia, mentre il più drammatico fu quello avvenuto nel 376 quando i Goti furono investiti dall’avanzata degli Unni. I Goti furono accolti dall’imperatore Valente, ma le durissime condizioni di vita dei rifugiati li spinsero alla ribellione. Lo stesso Valente morì nella battaglia di Adrianopoli (378) e il suo successore Teodosio dovette scendere a patti con loro e accettarli all’interno dell’impero non come sudditi, ma come alleati. A Teodosio, inoltre, si deve la trasformazione del cristianesimo in religione di Stato. Nel 380, infatti, emanò l’editto di Tessalonica, con il quale imponeva ai sudditi di seguire il cristianesimo cattolico come unica religione.

2. L’età di Stilicone e Alarico Alla morte di Teodosio (395) l’impero andò ai figli Arcadio in Oriente e Onorio in Occidente, anche se in realtà in Occidente comandava il generale Stilicone. Nello stesso periodo i rapporti con i Goti, guidati da Alarico, comandante di tutte le truppe romane nei Balcani, tornarono a farsi turbolenti. Nel 406 l’impero d’Occidente fu vittima di massicce incursioni di numerose popolazioni barbariche. A differenza delle precedenti, queste incursioni furono ostili e distruttive e i popoli che si insediarono sul suolo romano non se ne andarono più. Alla morte di Stilicone (408), Alarico ne approfittò per invadere l’Italia con le sue truppe, assediare Ravenna e saccheggiare Roma (410). Il sacco di Roma dimostrò l’estrema debolezza dell’impero e marcò l’irreversibile separazione tra l’impero d’Occidente e quello d’Oriente.

3. Dalla nascita dei regni romano-barbarici alla deposizione di Romolo Augustolo Nel V secolo i popoli barbari si stanziarono stabilmente in tutte le province dell’Occidente, tranne che in Italia. Nominalmente l’imperatore continuava a comandare su queste province, ma in Occidente nacquero dei regni indipendenti, modellati sull’amministrazione romana, abitati da Romani e governati e difesi dai barbari: i regni romano-barbarici. A metà del V secolo gli Unni, guidati da Attila, attaccarono l’impero. Dopo aver invaso l’Oriente, nel 451 entrarono in Gallia e l’anno dopo invasero l’Italia, ma si fermarono sul Po. In Italia il potere era in mano ai generali e ai loro eserciti di mercenari barbari. Tra questi vi erano Oreste, che fece incoronare imperatore il figlio Romolo, e Odoacre, che nel 476 depose Romolo, mandò a Costantinopoli le insegne imperiali e si fece nominare rex gentium, sancendo, di fatto, la fine dell’impero romano d’Occidente.

4. Perché finì il mondo antico? Nel corso dei secoli l’impero romano era profondamente cambiato, ma la società romana non era sul punto di crollare e senza le invasioni barbariche, avrebbe potuto sopravvivere. Le invasioni provocarono il crollo politico dell’Occidente, ma ebbero effetti ancora più devastanti sul funzionamento dell’economia e portarono a un graduale crollo del livello complessivo di civiltà. La proprietà terriera rimase il fondamento della supremazia sociale, ma l’unità economica del Mediterraneo si frantumò. Le guerre e la violenza resero insicuri i commerci e gli scambi tra Occidente e Oriente e il crollo dell’amministrazione imperiale e la conseguente crisi del meccanismo di riscossione fiscale portò a un impoverimento dei territori e alla decadenza delle infrastrutture. Le carestie si moltiplicarono, provocando il calo demografico e lo spopolamento di città e campagne. In alcune zone periferiche gli effetti della crisi furono meno drammatici, come la Gallia del Nord, dove il regno dei Franchi, invece, si rafforzava.

5. La Chiesa e le controversie religiose Nel V secolo si assistette a una grande vivacità culturale nell’ambito cristiano. Questa fu l’epoca dei Padri della Chiesa, come Ambrogio, Girolamo o Agostino. Le comunità cristiane erano ancora spaccate da divergenze teologiche. Il cristianesimo ariano si diffuse in Occidente con l’arrivo dei barbari, mentre la fede nestoriana e la dottrina monofisita fornivano nuove interpretazioni della figura divina del Cristo, benché fossero ritenute eretiche dai cattolici. Il peso politico della Chiesa e dei suoi vescovi cresceva, soprattutto in Occidente dove essi rappresentavano l’unica autorità romana rimasta nelle città. Il rapporto tra Stato e Chiesa cominciò a farsi competitivo, ma la mancanza di un potere unico nella Chiesa faceva sì che molti ritenessero l’imperatore il vero capo dei cristiani, alla cui autorità dovevano sottomettersi i vescovi.

6. L’etnogenesi, ossia la nascita dei popoli Grazie allo studio del processo di formazione delle popolazioni barbare che si stanziarono nei territori dell’impero romano è possibile sostenere che l’appartenenza a una nazione è un dato essenzialmente culturale e non biologico. Fu infatti il lungo contatto con il mondo romano a convincere le tribù barbare della necessità di federarsi per fronteggiare i Romani. A questo processo gli studiosi hanno dato il nome di etnogenesi. Un processo simile portò alla fusione dei nuovi venuti con la popolazione preesistente: dal punto di vista linguistico i barbari furono assimilati dalla popolazione romana, mentre dal punto di vista dell’identità furono loro ad assimilare le popolazioni locali.

160

Parte VII Il mondo romano-barbarico

7. La testimonianza dell’archeologia Gran parte delle notizie che ci sono giunte di questo periodo provengono dalle cronache dell’epoca, ma anche i ritrovamenti archeologici aiutano ad analizzare le trasformazioni. I villaggi, per esempio, furono trasferiti sulle alture e fortificati, mentre le case in campagna assunsero alcuni elementi originari delle terre di provenienza dei barbari. I ritrovamenti di tombe dell’epoca, inoltre, testimoniano come in quell’epoca cominciarono a convivere le opposte tradizioni culturali e di come, in qualche modo, fosse in corso una faticosa integrazione tra di esse.

ESERCIZI Gli eventi 1. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette: ❏ a) Il trasferimento dei Franchi nell’impero fu pacifico e concordato con le autorità romane.

❏ f) All’inizio del V secolo i Vandali e i Burgundi si stabilirono definitivamente nel Nord della Gallia.

❏ b) Il generale Flavio Stilicone era il reale detentore del potere nell’impero d’Oriente.

❏ g) Furono soprattutto i commerci a soffrire per le invasioni e l’instabilità politica.

❏ c) Il goto Alarico era il comandante di tutte le truppe romane stanziate sul Danubio.

❏ h) Per fermare gli Unni di Attila, giunti sulle rive del Tevere, fu pagato un forte tributo.

❏ d) Dopo aver invaso la Spagna, i Goti si stabilirono definitivamente in Nordafrica.

❏ i) La fede nestoriana e la dottrina monofisita furono condannate dalla Chiesa.

❏ e) Nei territori in cui si insediavano, i capi barbari ottenevano un terzo delle terre confiscate.

❏ j) I barbari stanziati nell’impero furono linguisticamente assimilati dalla popolazione romana.

Le coordinate spazio-temporali 2. Seguendo l’esempio fornito, completa lo schema inserendo correttamente le lettere relative agli eventi elencati in corrispondenza con le date: a) I Vandali invadono il Nordafrica; b) Editto di Tessalonica; c) Genserico, re dei Vandali, saccheggia Roma;

a

d) Invasione gotica; e) Caduta dell’impero romano d’Occidente; f) Sacco di Roma a opera di Alarico; g) Battaglia di Adrianopoli; h) Attila invade l’Italia; i) Grandi invasioni barbariche; j) Angli e Sassoni invadono la Britannia.

376

380 378

410 406

455

450 429

452

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

476

161

3. Inserisci sulla carta muta i nomi dei territori e delle città elencati; indica le province nelle quali si stanziarono i Franchi, i Goti, i Vandali, i Burgundi, gli Angli e i Sassoni; quindi rispondi alle domande: Territori: Pannonia, Africa, Spagna, Italia, Britannia, Gallia. Città: Roma, Costantinopoli, Treviri, Ravenna, Milano. OCEANO ATLANTICO M AR S CA O PI

MAR NERO

a) Gli stanziamenti delle popolazioni barbare furono sempre violenti? b) Per quali motivi i Goti rifugiati si ribellarono alle autorità romane?

MAR MEDITERRANEO

c) Che cosa provocò le invasioni barbariche del 406? AR

M

d) Da dove provenivano gli Unni? Come si svolse la loro invasione dell’impero?

O

SS

RO

I concetti 4. Definisci brevemente i seguenti termini: Termine

Definizione

Foederati:

Hospitalitas:

Nestorianesimo:

Monofisismo:

Etnogenesi:

162

Parte VII Il mondo romano-barbarico

I processi 5. Completa lo schema relativo alla crisi del V secolo, inserendo correttamente le lettere relative ai termini e alle espressioni elencate:

a) Invasioni barbariche;

Probabile crescita demografica

b) Carestie; c) Riscossione fiscale; d) Romano-barbarici;

Scorrerie degli .............

........................

e) Calo demografico; f) Unni; g) Mercato unitario;

Regni ..............................

h) Amministrazione imperiale;

Insicurezza

i) Campagne;

Crollo della ................

Frammentazione politica Guerre civili

j) Scambi e commerci.

...........................

Riduzione di ............... tra Occidente e Oriente

Crisi del meccanismo di.....................

Fine del ...........................

Abbandono delle ......................

...........................

Declino economico dell’Occidente

L’esposizione orale 6. Rispondi alle seguenti domande: 1) Qual era la situazione politica in Italia alla vigilia del crollo dell’impero romano d’Occidente? Chi deteneva il potere? 2) Fino a che punto si era allargato il divario politico ed economico tra Occidente e Oriente? 3) È possibile affermare che la diffusione del cristianesimo contribuì a indebolire l’impero romano? Perché? 4) Come si svilupparono i rapporti tra Chiesa e Stato nel corso del V secolo? 5) Come si applica il concetto di etnogenesi agli avvenimenti del V secolo? In che modo l’assimilazione tra barbari e Romani fu un processo reciproco?

Capitolo 16 Le invasioni barbariche

163

Capitolo 17

I regni romano-barbarici 1. Dalla deposizione di Romolo Augustolo alla morte di Teodorico

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

L’impero alla fine del V secolo

Dopo la deposizione di Romolo Augustolo nel 476, l’intero territorio dell’impero romano d’Occidente era governato da re autonomi. L’Africa nordoccidentale era posseduta dai Vandali, che avevano stabilito la loro capitale nella più grande città della provincia, Cartagine. La Spagna era occupata in gran parte dai Goti. La Gallia di Sud-ovest era anch’essa in mano ai Goti, il cui regno si estendeva da una parte e dall’altra dei Pirenei; la Gallia di Sud-est era occupata dai Burgundi, stanziati nella valle del Rodano, che va dalle Alpi fino al mare. Nella Gallia del Centro-nord regnava un generale romano che si era incoronato re, Siagrio; ancora più a nord, fino alla bassa valle del Reno, comandavano diversi re franchi; nell’alta valle del Reno, fra le attuali Germania e Svizzera, erano stanziati gli Alamanni. Odoacre, infine, governava l’Italia, forte del suo titolo di rex gentium – capo, cioè, dei popoli barbarici che formavano l’esercito romano nella penisola – e dell’appoggio del senato romano [cfr. cap. 16.3]. A Costantinopoli, l’imperatore d’Oriente era rimasto l’unico imperatore romano. Non era rassegnato alla perdita dell’Occidente, ma non aveva i mezzi per riconquistarlo, perciò doveva negoziare con i re barbari e cercare almeno di convincerli a riconoscere la sua supremazia. L’imperatore Zenone (474-491) strinse un accordo con il re dei Vandali Genserico: si trattava di normalizzare i rapporti con l’unico regno barbarico che era nato da una vera e propria invasione (e non da un trattato più o meno estorto al governo imperiale) e che perciò mancava fino a quel momento di una legittimità formale. L’accordo ebbe successo e mise fine, in Africa, alla persecuzione dei cristiani cattolici da parte dei Vandali, cristiani ariani. In Italia Zenone dovette accettare l’usurpazione di Odoacre, che aveva il consenso dell’aristocrazia romana, e per qualche anno il generale governò l’Italia con l’approvazione, almeno apparente, dell’imperatore. Nell’impero d’Oriente erano ancora insediati grossi nuclei di Goti, che oggi chiamiamo Ostrogoti, o ‘Goti dell’Est’, per distinguerli dai Goti stanziati in Gallia e in Spagna (che chiamiamo Visigoti, cioè ‘Goti dell’Ovest’). Zenone cercò di ottenere la fedeltà degli Ostrogoti pagando loro grosse somme e conferendo gradi militari e incarichi politici ai loro capi: il più importante, Teodorico, nel 484 fu addirittura nominato console, la carica più illustre dell’impero romano. La presenza degli Ostrogoti era però fonte di continui disordini e Zenone trovò il modo di sbarazzarsi di loro: si accordò con Teodorico perché si trasferisse in Italia con tutto il suo popolo, abbattendo con la forza Odoacre. Gli Ostrogoti invasero quindi l’Italia per incarico del governo imperiale; dopo una lunga guerra, durata dal

164

Parte VII Il mondo romano-barbarico

 Il palazzo di Teodorico VI sec. Particolare dai mosaici di Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna Gli scavi condotti a Ravenna all’inizio del XX secolo hanno rilevato che alle spalle di Sant’Apollinare Nuovo esisteva un monumentale complesso residenziale riccamente decorato con mosaici il cui studio ha permesso di datare la costruzione all’età di Teodorico.

489 al 493, Odoacre venne sconfitto e ucciso, e l’aristocrazia romana, che l’aveva sostenuto, si affrettò a passare dalla parte di Teodorico. I Goti in Italia

Nasceva così un nuovo regno romano-barbarico, il regno gotico d’Italia. Teodorico, che governò l’Italia dal 493 al 526, è uno dei più famosi sovrani dell’alto Medioevo (così chiamiamo, per convenzione, i secoli che vanno dal IV al X). Il re regnava sia sui Goti, sia sui Romani, e in realtà si comportava come un imperatore: si era insediato nella capitale imperiale, Ravenna, e i senatori lo acclamavano col titolo di Augusto. Teodorico però non volle assumere il titolo imperiale, e regnò, formalmente, a nome dell’imperatore d’Oriente. Almeno all’inizio la convivenza fra Goti e Romani fu pacifica, anche se gli invasori erano cristiani ariani e la popolazione italica era invece cristiana cattolica. Teodorico ordinò che tutti seguissero le leggi romane e mantenne intatta l’amministrazione romana, grazie anche al suo grande e geniale ministro, il romano Cassiodoro. Fra i due popoli i matrimoni erano vietati e ciascuno svolgeva una funzione diversa: i Romani gestivano l’amministrazione e l’economia e pagavano le tasse, i Goti, esenti da imposte, formavano l’esercito. Fu però proprio la differenza di religione a creare problemi nel regno, verso la fine della vita di Teodorico. Il re, ariano come tutto il suo popolo, non aveva mai perseguitato i cattolici; fu l’imperatore d’Oriente, il cattolico Giustino (518-527) – un duro militare di carriera, poco colto e dai metodi brutali – a cominciare le ostilità. L’arianesimo, condannato nel concilio di Nicea del 325 [cfr. cap. 15.1], era ancora largamente praticato nell’impero d’Oriente; ma nel 524 Giustino lo mise fuori legge e ordinò l’abolizione della Chiesa ariana. Gli abitanti romani dell’Italia, che fino allora non avevano avuto nessun problema a essere fedeli al tempo stesso al re Teodorico e al lontano imperatore, dovettero scegliere da che parte stare.

Capitolo 17 I regni romano-barbarici



Battistero degli Ariani VI sec. Ravenna Il Battistero degli Ariani fu commissionato da Teodorico per i seguaci di questa dottrina; la scelta del sovrano tradiva la volontà di assecondare una convivenza pacifica all’interno del suo stato fra le differenti anime del cristianesimo, l’arianesimo dei Goti e il cattolicesimo degli Italici.

165

Teodorico, preoccupato, cominciò a sospettare i Romani di infedeltà. Per suo ordine il papa Giovanni I andò a Costantinopoli, per chiedere all’imperatore di revocare le sanzioni contro gli ariani; il papa tornò senza esserci riuscito, e Teodorico lo fece chiudere in carcere, dove morì. Diversi senatori vennero accusati di complottare contro il re, e Teodorico li fece giudicare e condannare a morte dallo stesso senato; fra gli altri venne giustiziato anche un potentissimo uomo politico e collaboratore del re, Severino Boezio, che era anche il più grande filosofo latino dell’epoca. Queste condanne fecero grande impressione e rovinarono l’immagine di Teodorico, che fino ad allora era stato esaltato dai Romani come un grandissimo sovrano. Ma il re morì subito dopo, nel 526, e fu sepolto nel mausoleo che s’era fatto costruire a Ravenna; sotto i suoi successori le persecuzioni cessarono, riportando la pace fra Goti e Romani. I Franchi in Gallia

In Gallia del Nord, intanto, stava nascendo il più forte di tutti i regni romano-barbarici, guidato dal grande contemporaneo di Teodorico, il re franco Clodoveo (481-511). Fino a quel momento i Franchi erano divisi in gruppi governati da re rivali fra loro; Clodoveo fu il primo a unificare tutto il popolo franco sotto un solo re. Nel 486 sconfisse Siagrio, abbatté l’unico governo di origine romana ancora esistente in Gallia ed estese il proprio potere fino alla Loira, il grande fiume che divide il Nord dal Sud della Francia. Nel 496 Clodoveo sconfisse gli

I regni romanobarbarici

MARE DEL NORD Lindsfarne

Angli

NORTHUMBRIA

Whitby York

IRLANDA

MERCIA

GALLES

OCEANO ATLANTICO

ESTANGLIA ESSEX Londra WESSEX

Reno

Kent

BritanniSUSSEX BRETAGNA

REGNO DEI FRANCHI (511)

Svevi

Sassoni

Alamanni REGNO REGNO DEGLI DEI OSTROGOTI BURGUNDI

MAR NERO Danubio

Baschi IM Roma

PER O

Costantinopoli

BIZ

REGNO DEI VISIGOTI

AN

TIN

O

REGNO DEI VANDALI

Angli Sassoni Britanni

166

Parte VII Il mondo romano-barbarico

MAR MEDITERRANEO

Alamanni alla battaglia di Tolbiac e sottomise quel popolo all’egemonia franca. Si tratta di una vittoria importantissima, perché a partire da allora il regno franco fu l’unico a governare sia territori appartenuti all’impero romano e quindi abitati da una popolazione romana, sia territori mai controllati da Roma e abitati da popoli germanici: i Franchi sono così all’origine delle due nazioni più potenti dell’Europa continentale, la Francia e la Germania. Nel 507 Clodoveo sconfisse anche i Visigoti, alla battaglia di Vouillé, e conquistò quasi tutto il loro territorio a nord dei Pirenei. Il re franco governava ormai tutta la Gallia, a eccezione di una ristretta zona del Sud rimasta ai Visigoti, e del regno burgundo nella valle del Rodano, che però era troppo debole per fargli concorrenza. Clodoveo rafforzò il suo potere stringendo alleanza con il re ostrogoto Teodorico, il quale sposò sua sorella, e dichiarò la sua amicizia all’imperatore d’Oriente, Anastasio (491-518), che lo ricompensò con la nomina a console. Ma l’atto forse più carico di conseguenze del regno di Clodoveo fu la sua conversione al cristianesimo, nella versione cattolica. I Franchi fino a quel momento erano l’unico fra tutti i popoli entrati nell’impero romano a essere rimasti fedeli ai loro antichi dèi. Goti, Vandali, Burgundi erano cristiani; ma questo non li aveva aiutati molto nel rapporto con la popolazione romana, perché il loro cristianesimo, appreso in Oriente, era nella forma ariana, mentre i Romani d’Occidente erano cattolici. Clodoveo si lasciò convertire al cristianesimo dai vescovi cattolici della Gallia, e impose la nuova religione a tutto il suo popolo. A partire da allora i Franchi ebbero un rapporto di speciale amicizia con i vescovi del loro regno e anche con la Chiesa di Roma, e questo contribuì molto a fare della Gallia franca il più solido e potente dei regni romano-barbarici. C’era però una debolezza: i Franchi non concepivano la primogenitura, e pensavano che tutti i figli di un re dovessero ereditare un pezzo del suo regno. Perciò alla morte di Clodoveo la Gallia tornò a dividersi, in ben quattro regni separati. Sotto i discendenti di Clodoveo, che formano la cosiddetta dinastia merovingia e che rimarranno al potere fino al 751, la potenza dei Franchi sarà quasi sempre frenata dalla divisione del paese in vari regni.

1. Per quale motivo gli Ostrogoti invasero l’Italia? 2. Com’era ripartita la gestione dell’Italia tra Romani e Goti? 3. Quale fattore indeboliva la potenza dei Franchi?

2. L’età di Giustiniano

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Il Corpus Iuris Civilis e la riconquista dell’Occidente

Con il regno del nipote e successore di Giustino, l’imperatore Giustiniano (527-565), si ebbe una brusca e violenta svolta nella storia dei regni romano-barbarici, perché Giustiniano decise di riconquistare l’Occidente e li attaccò uno dopo l’altro. Giustiniano fu uno dei più importanti sovrani dell’epoca e può essere considerato l’ultimo grande imperatore romano, continuatore di Augusto e di Costantino. A dimostrare la sua importanza basterebbe l’enorme lavoro di codificazione del diritto romano da lui intrapreso. Prima di lui, l’imperatore Teodosio II (408-450) aveva fatto compilare una raccolta delle leggi emanate dagli imperatori precedenti, il Codice Teodosiano. Giustiniano intraprese un’opera molto più vasta, il Corpus Iuris Civilis, in cui sono raccolti, accanto alle leggi, anche i com-

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

167

Il Corpus Iuris Civilis Appena salito al trono, Giustiniano decise che uno dei suoi compiti più urgenti era di mettere ordine nel complicatissimo sistema del diritto romano. Per secoli gli imperatori avevano emanato leggi, che erano tutte valide, anche se certe volte erano in contrasto fra loro. Alle leggi si aggiungevano i commenti dei giuristi, che avevano valore in tribunale in caso di incertezza; anche queste interpretazioni, però, erano spesso contraddittorie. Giustiniano incaricò una commissione di esperti, presieduta dal giurista Triboniano, di un lavoro immenso. Si trattava di raccogliere tutte le leggi e i trattati di giurisprudenza, di selezionare il materiale eliminando le contraddizioni, e di ripubblicarlo in forma organica. C’era, per fortuna, un precedente, il Codex Theodosianus, pubblicato nel 438 per ordine dell’imperatore Teodosio II; era molto meno completo del lavoro progettato da Giustiniano, perché raccoglieva solo le costituzioni, cioè le leggi imperiali, ma era un modello a cui ispirarsi. Ogni legge non veniva riportata per intero, col suo testo spesso molto lungo e pieno di formule giuridiche: se ne citava in forma riassuntiva solo il contenuto fondamentale, oltre alla data e al luogo di pubblicazione. Il Codex era organizzato in libri, ognuno diviso in titoli, cioè sezioni suddivise per argomento; in modo che tutte le leggi riguardanti, per esempio, il matrimonio e il divorzio si trovavano una di seguito all’altra, in ordine cronologico. Tutti questi principi organizzatori vennero ripresi anche nel Codex Iustinianus, concepito per sostituire il Codice Teodosiano. Ma il lavoro della commissione istituita da Giustiniano non si fermò qui. Oltre al Codice, vennero preparate altre tre opere: le Istituzioni, cioè un manuale di diritto destinato agli studenti; il Digesto, o Pandette, cioè la raccolta dei pareri di tutti i più importanti giuristi romani del passato; infine le Novelle, cioè le nuove costituzioni emanate sotto il regno di Giustiniano. L’insieme di queste quattro opere è noto come Corpus Iuris Civilis, il corpo – cioè l’insieme – del diritto civile. La creazione del Corpus Iuris Civilis cambiò profondamente la natura del diritto. Fino ad allora il diritto romano si era evoluto come un sistema aperto, in cui i giudici per pronunciare la sentenza potevano far riferimento a sentenze

Una pagina miniata delle Institutiones di  Giustiniano 1330 Biblioteca Malatestiana, Cesena Questa pagina miniata raffigura Giustiniano e la sua corte. La monumentale opera si deve soprattutto al giurista Triboniano, uno dei commissari che lavorarono alla riforma giuridica voluta dall’imperatore.

168

Parte VII Il mondo romano-barbarico

precedenti o pareri di giuristi, scegliendo quelli che secondo loro erano più adatti al caso: un sistema simile al diritto oggi vigente nei paesi anglosassoni, il Common Law. Giustiniano trasformò il diritto romano in un sistema monolitico, la cui validità derivava esclusivamente dalla decisione dell’imperatore: tutto ciò che era incluso nel Corpus aveva validità, e nient’altro poteva più essere utilizzato. Nasceva l’idea del diritto come un codice unico stabilito dallo Stato, al cui interno i giudici trovano tutte le indicazioni a cui debbono rigidamente attenersi. In questa forma, il diritto romano venne largamente utilizzato nei paesi dell’Europa occidentale solo a partire dal basso Medioevo (secoli XI-XV), quando questi paesi vennero a conoscenza del Corpus (che in precedenza non aveva circolato nei regni romanobarbarici). Esso è tuttora il fondamento del diritto in quasi tutta l’Europa, tranne appunto in Inghilterra dove è in vigore il Common Law.

 L’imperatore Giustiniano VI sec. Particolare dei mosaici della Basilica di San Vitale, Ravenna



L’imperatrice Teodora VI sec. Particolare dei mosaici della Basilica di San Vitale, Ravenna Durante il VI secolo, quando Ravenna divenne capitale dell’Esarcato, la storia artistica di questa città si intrecciò con quella bizantina. Da Costantinopoli Ravenna prelevava idee, materiali costruttivi e squadre di maestranze, tutte risorse riconoscibili nella splendida decorazione musiva della Basilica di San Vitale, in cui la tradizione orientale si fonde felicemente con quella occidentale romana.

menti e le sentenze delle scuole giuridiche romane; l’opera commissionata da Giustiniano ha costituito per secoli la base del diritto nel mondo romano-cristiano [cfr. scheda, p. 168]. All’inizio del suo regno, Giustiniano dovette affrontare opposizioni e congiure. Molti consideravano scandalosa l’influenza che aveva su di lui la forte e capace moglie Teodora, che era stata attrice e forse anche prostituta. Fra i politici e i generali non mancavano i rivali che avrebbero voluto abbattere il giovane imperatore e prendere il suo posto. Gli oppositori trovavano una facile massa di manovra fra gli spettatori delle corse di cavalli dell’ippodromo, che nella Costantinopoli dell’epoca erano organizzati in fazioni contrapposte e si abbandonavano facilmente alla violenza, un po’ come gli hooligans del calcio. Le due squadre principali, i Verdi e gli Azzurri, erano in grado di mobilitare una moltitudine di teppisti, e bastava far nascere il sospetto che l’imperatore non fosse imparziale e favorisse gli uni o gli altri per scatenare disordini. Nel 532 Giustiniano per ristabilire l’ordine fece impiccare i capi dei tifosi; il risultato fu una spaventosa rivolta, chiamata Nikà (dalla parola greca che significa ‘Vinci!’, e che era il grido di incitamento rivolto dai tifosi ai campioni). La rivolta fece tremare il trono dell’imperatore, ma venne repressa nel sangue dai due più fedeli generali di Giustiniano, Belisario e Narsete, provocando migliaia di morti. Subito dopo, ristabilito saldamente il suo potere, Giustiniano intraprese un vasto progetto di riconquista, che doveva abbattere i regni romano-barbarici e riportare tutto il mondo romano sotto il governo diretto dell’imperatore. Nel 533 Belisario sbarcò in Africa e il regno vandalo, lacerato dalle divisioni fra cattolici e ariani, crollò rapidamente: l’intera regione nordafricana tornò sotto il controllo imperiale. Dei Vandali non rimase che il nome, oggi usato in italiano e in altre lingue per indicare chi distrugge insensatamente e per il puro piacere di farlo: un risultato dovuto proprio alla propaganda cattolica e imperiale dell’epoca, così violentemente ostile ai Vandali da trasformare il loro nome in un insulto. Nel 535 Giustiniano intraprese quella che avrebbe dovuto essere un’altra guerra-lampo, contro il regno ostrogoto d’Italia: Belisario sbarcò in Sicilia e da lì cominciò a risalire la Pe-

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

169

nisola. Ma il potere dei re goti si rivelò più forte del previsto; la popolazione italica non parteggiava affatto per i nuovi venuti – che si chiamavano Romani ma parlavano greco – e li considerava degli invasori più che dei liberatori. Il penultimo re goto, Totila, grande comandante e amatissimo dal popolo, liberò addirittura gli schiavi per armarli contro l’invasore. Alla fine Narsete, che aveva sostituito Belisario, sconfisse Totila nel 552 a Tagina, l’attuale Gualdo Tadino (in Umbria), e l’anno dopo sconfisse e uccise il suo successore, Teia. La cosiddetta Guerra greco-gotica durò quasi vent’anni, dal 535 al 553; ma i suoi strascichi proseguirono fino al 562, perché i Franchi avevano approfittato della situazione per invadere l’Italia settentrionale, e dopo aver sconfitto i Goti le truppe imperiali dovettero combattere anche loro. La guerra, accompagnata da carestie ed epidemie, provocò spaventose devastazioni; molte città, fra cui Roma, Milano, Ravenna, vennero più volte assediate, prese, saccheggiate. Alla fine, l’Italia riconquistata e pacificata dai generali di Giustiniano era un paese spopolato e in rovina, la sua economia un tempo florida era distrutta, la popolazione della città di Roma era stata sterminata, e il millenario senato romano aveva cessato di esistere. Si può ben dire che non furono le invasioni barbariche in sé, ma la riconquista romana del VI secolo a mettere fine alla grandezza dell’antica Roma. Con la fine della guerra in Italia Giustiniano intraprese un’ultima riconquista, quella della Spagna. Le sue truppe sbarcarono nel 554 e riconquistarono parte del paese, ma la campagna si esaurì per mancanza di mezzi e il regno visigoto, diversamente da quello vandalo e ostrogoto, sopravvisse. Le grandi campagne in Occidente avevano esaurito le risorse finanziarie e militari dell’impero romano, che faceva fatica ad affrontare gli altri nemici da cui era circondato. A Oriente, infatti, l’impero confinava ancor sempre con un vecchio e odiato avversario, l’impero persiano dei Sasanidi; le tregue con loro non duravano mai molto e la loro minaccia gravava sempre sulla Siria, anzi durante il regno di Giustiniano un’offensiva persiana giunse addirittura a conquistare Antiochia, la cui popolazione venne deportata in Persia.

Dominio dell’impero romano d’Oriente

OCEANO ATLANTICO Franchi

Longobardi Slavi

ari

Àv

Sirmio Visigoti

ILLIRICO

TRACIA

MAR NERO Costantinopoli

Cordova ASIA MINORE

Antiochia Cartagine

MAR MEDITERRANEO Tripoli

Gerusalemme Alessandria

EGITTO

Parte VII Il mondo romano-barbarico

lo

170

Ni

L’impero romano d’Oriente nel 527 Le conquiste di Giustiniano

Sfide e bilanci alla morte di Giustiniano

I Balcani, invece, erano minacciati da nuove popolazioni barbariche, gli Àvari – nomadi della steppa, simili agli Unni – e gli Slavi, che premevano sulle frontiere e che le truppe imperiali faticavano a contenere, tanto che giunsero a minacciare la stessa Costantinopoli. Dall’epoca di Giustiniano il khanato àvaro dominò la regione del Mar Nero e il bacino del Danubio, e costituì uno dei più odiati nemici tanto per gli imperatori di Costantinopoli, quanto per le popolazioni germaniche dell’Occidente. Ma ancor più importante per le sue conseguenze storiche è la grande migrazione slava verso l’Europa del Sud-est, che è durata per secoli e ha cambiato radicalmente la composizione etnica delle popolazioni balcaniche, oggi formate quasi interamente proprio da Slavi. Sottomettere le nuove popolazioni, selvagge e recalcitranti, all’autorità imperiale, assimilarle alla civiltà greco-romana e convertirle al cristianesimo sarà d’ora in poi una delle grandi sfide affrontate dall’impero romano d’Oriente. Nonostante le grandi conquiste in Occidente e i formidabili lavori edilizi, come la costruzione della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, il regno di Giustiniano si chiuse in un clima di depressione e con un bilancio molto dubbio. Lo storico suo contemporaneo, Procopio, che era un feroce avversario di Giustiniano, scrisse che i morti provocati dalle sue guerre erano più numerosi dei granelli di sabbia nel deserto. Ad aggravare la situazione si aggiunsero le stragi provocate dalla peste, che in Europa compare per la prima volta proprio all’epoca di Giustiniano. Gli antichi romani chiamavano “peste” qualsiasi malattia epidemica mortale, anche se si trattava d’influenza o di vaiolo; ma intorno alla metà del VI secolo appare la peste vera e propria, causata dal bacillo Yersinia pestis. Almeno due terribili epidemie di peste attraversarono l’impero nell’ultima fase del regno di Giustiniano, spopolandolo, rovinando l’economia e riducendo il gettito fiscale (cioè i proventi derivanti dalle imposte); l’imperatore reagì aumentando le tasse, cosa che non lo rese certo più popolare. Come se non bastasse, Giustiniano si ritenne obbligato a proseguire la politica religiosa di suo zio Giustino, imponendo a tutti i sudditi la religione cattolica, e perseguitò con ferocia le innumerevoli comunità e chiese cristiane di confessione non cattolica. Per distruggere gli ultimi avanzi del paganesimo antico, ancora sopravvissuti tra Grecia e Asia Minore, nel 529 Giustiniano

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

khanato

Stato governato da un khan, titolo che designa i capi delle popolazioni turco-mongole originarie dell’Asia centrale.

 Basilica di Santa Sofia VI sec. Interno, Istanbul Eretta durante il VI secolo, la basilica di Santa Sofia è il monumento più rappresentativo di Istanbul. In epoca alto medievale fu sede del patriarca ortodosso di Costantinopoli, nonché il luogo deputato all’incoronazione dei sovrani bizantini; nel XV secolo, con la dominazione turco-ottomana, divenne una moschea. Dal 1935 è sede di un museo.

171

ordinò la chiusura della scuola filosofica di Atene, un gesto che soprattutto sul piano simbolico sancisce la fine della civiltà antica. La sua volontà di tenere sotto controllo la vita religiosa e di presentarsi come l’unico garante dell’ortodossia guastò anche i rapporti di Giustiniano con la Chiesa romana; l’imperatore infatti fece condannare in un concilio gli scritti di tre teologi orientali che a giudizio dei vescovi italici erano invece ortodossi. Ne nacque una spaccatura nota come lo Scisma dei Tre Capitoli; il papa Vigilio venne convocato a Costantinopoli per giustificarsi e trattenuto lì per diversi anni, finché non si sottomise all’autorità imperiale. Tenendo conto anche del malessere provocato dall’intransigente politica religiosa di Giustiniano, possiamo concludere che alla sua morte l’impero romano era sì enormemente accresciuto dal punto di vista territoriale, ma non era né prospero né pacificato.

1. Che cos’era il Corpus Iuris Civilis? 2. Che conseguenze ebbe la Guerra greco-gotica per l’Italia? 3. Che politica religiosa seguì Giustiniano?

3. L’invasione longobarda dell’Italia e il papato di Gregorio Magno

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Il regno longobardo



Un cavaliere longobardo VII sec. Museo Storico, Berna, Svizzera I Longobardi attribuivano grande importanza al cavallo e ne facevano il simbolo del prestigio e della posizione sociale dell’individuo.

172

Il ristabilito dominio romano sulla penisola durò pochissimo. Già nel 568 un nuovo popolo barbaro di lingua germanica, quello dei Longobardi, guidato dal re Alboino, scendeva in Italia dal Nord-est e occupava rapidamente tutta la Pianura Padana. I Longobardi erano stabiliti da tempo in un’altra ex provincia dell’impero, la Pannonia, cioè l’attuale Ungheria, dove erano venuti a contatto col mondo romano e in parte si erano convertiti al cristianesimo ariano; ma nel complesso erano forse il più arretrato e primitivo fra i diversi protagonisti delle grandi migrazioni. È un paradosso che proprio in Italia, che era stata la culla e il centro della romanità, si sia stabilito un popolo così poco evoluto; ma la guerra greco-gotica aveva devastato la penisola a tal punto che in molte zone della civiltà antica rimanevano soltanto avanzi. È possibile che la venuta dei Longobardi in Italia non sia stata una vera e propria invasione, ma sia stata preceduta da negoziati con le autorità bizantine: gli archeologi infatti non ritrovano nessuna traccia rivelatrice di distruzioni o incendi nelle città italiche al momento della loro discesa, e secondo alcuni studiosi questa è la prova che la conquista non fu violenta. In ogni caso è certo che diversi vescovi cattolici, compreso l’arcivescovo di Milano, preferirono fuggire prima dell’arrivo dei Longobardi, e forse fecero bene; perché il re Alboino venne assassinato nel 572, in una congiura in cui era coinvolta anche la moglie Rosmunda, e alla sua morte seguì un periodo di guerre civili fra i capi dei diversi raggruppamenti longobardi, i duchi, accompagnato da massacri e confische. Lo stanziamento longobardo diede quindi il colpo di grazia a quel

Parte VII Il mondo romano-barbarico

Ad ige

che restava dell’aristocrazia romana nell’Italia setten- L’Italia divisa tra Longobardi e Romani d’Oriente trionale e alla già dissestata economia della regione. BRENNERO RE Solo nel 584 si ricostituì un regno sostanzialmente Drava GNO DE GRAN GL IÀ unitario, con l’elezione a re di Autari, che seppe im- SAN BERNARDO VA RI porre l’autorità regia ai duchi recalcitranti. Si chiude Pavia così definitivamente l’epoca delle invasioni barbariPo S che e nasce l’ultimo dei regni romano-barbarici. I re la v i longobardi stabilirono la propria residenza, a seconda Arno dei momenti, a Pavia, Monza o Milano; i duchi divenM nero capi di entità territoriali subordinate al re, e doAR TUSCIA AD Spoleto vettero cedergli gran parte delle terre confiscate al moRI AT CORSICA IC mento dell’invasione. Dalla Pianura Padana i LongoO Roma bardi avanzarono poi verso l’Italia centrale e meridioM Benevento nale, stabilendo dei duchi in Toscana, a Spoleto e a BeA R nevento. Questi ultimi due ducati furono spesso abbaT I stanza autonomi rispetto al regno, ed erano molto più SARDEGNA R R E ampi di quel che si potrebbe pensare dal loro nome: il MAR N IONIO O CALABRIA ducato di Spoleto si estendeva fra Umbria, Marche, Abruzzo e Lazio; il ducato di Benevento comprendeva l’intera Italia meridionale longobarda, e quindi Territori longobardi gran parte della Campania con l’importante città di SaSICILIA Impero romano d’Oriente lerno, la Basilicata, il Nord della Calabria, e la Puglia Regno dei Franchi fino a Brindisi. Nonostante il rafforzamento del re, che era ora senza discussione il più grande proprietario terriero del regno e poteva dotare largamente di terre i suoi fedeli, la feroce concorrenza fra i duchi per impadronirsi della corona regia rimase sempre un motivo di debolezza del regno longobardo. Un altro perdurante problema fu il rapporto conflittuale con i territori rimasti sotto il controllo di Costantinopoli. All’inizio erano territori molto vasti, e comprendevano in pratica tutte le zone d’Italia che potevano essere rifornite e difese dal mare: la Liguria; il cosiddetto Esarcato, cioè parte dell’attuale Emilia e Romagna, con capitale a Ravenna; la Pentapoli, cioè la costa romagnola e marchigiana con parte dell’entroterra di Marche e Umbria; il ducato di Roma, comprendente gran parte dell’attuale Lazio; il ducato di Napoli, che controllava gran parte della costiera campana; il Sud della Puglia e della Calabria, e le isole. Col tempo, però, i re longobardi si impadronirono di gran parte di questi territori: in Puglia, per esempio, solo l’estremo Sud, il Salento, rimase sotto il controllo di Costantinopoli; fra tutte le regioni italiane solo Sicilia, Sardegna e Corsica rimasero completamente al di fuori del regno longobardo e ancora sotto il governo degli imperatori romani d’Oriente. MONCE

NISIO

va Sa

Tevere

Il pontificato di Gregorio Magno

Ma soprattutto rimase al di fuori della dominazione dei Longobardi Roma, che continuava a far parte dell’impero romano d’Oriente; anche se in realtà a comandare sul posto era soprattutto il papa, grazie alle vastissime risorse economiche e al prestigio morale della Chiesa romana. Nonostante i re longobardi abbiano cominciato presto a portare il titolo di rex Italiae, in realtà l’Italia era per la prima volta da molti secoli governata da poteri diversi e ostili fra loro. L’unità politica della penisola e il legame organico fra Roma e il resto dell’Italia

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

173



Rilegatura dei Vangeli di Teodolinda VII sec. Tesoro del Duomo, Monza



Chioccia con i pulcini VII sec. Tesoro del Duomo, Monza Un’opera di mediazione fra il regno longobardo e la Chiesa di Roma fu svolta dalla regina Teodolinda che intrattenne rapporti con il papa Gregorio Magno. Questa coperta di evangeliario, unitamente al gruppo in argento e oro che rappresenta una chioccia con i suoi sette pulcini, fa parte dei doni offerti alla sovrana da Gregorio Magno in occasione del battesimo di suo figlio Adaloaldo.

erano spezzati, e come sappiamo c’è voluto moltissimo tempo, fino all’Ottocento con il Risorgimento, per ricostituirli. Sotto il pontificato di un grande ed energico papa, Gregorio Magno (590-604), che difese con successo l’Urbe contro i tentativi di conquista dei Longobardi, Roma e i territori circostanti cominciarono a funzionare come una specie di piccolo Stato autonomo. In ogni città del mondo cristiano, i possedimenti della Chiesa erano considerati patrimonio del santo protettore locale; il vescovo non era il padrone, ma aveva solo il compito di amministrarli a nome del santo patrono. A Roma il patrono era san Pietro e perciò i possedimenti amministrati dal papa vennero chiamati Patrimonio di san Pietro; è il primo nucleo di quello che diventerà lo Stato della Chiesa, o Stato pontificio. Più tardi, nell’VIII o nel IX secolo, qualcuno a Roma fabbricò la cosiddetta Donazione di Costantino, un documento con cui l’imperatore Costantino regalava al papa la città di Roma, l’Italia e addirittura tutto l’impero. Il falso venne prodotto proprio per legittimare il potere territoriale del papa, ed ebbe grandissimo successo: per molti secoli la Donazione fu creduta autentica, e solo nel Quattrocento, in pieno Rinascimento, il filologo Lorenzo Valla dimostrò che era un falso. Sotto il pontificato di Gregorio Magno si ebbe l’avvicinamento dei popoli barbari alla fede cattolica. I Longobardi iniziarono ad abbandonare l’arianesimo grazie all’influenza della regina Teodolinda, appartenente alla popolazione cattolica dei Bavari, e moglie successivamente dei re Autari e Agilulfo (che regnarono uno dopo l’altro dal 589 al 616); il passaggio al cattolicesimo dell’intera popolazione longobarda fu però lento e richiese circa un secolo. I Visigoti di Spagna ebbero per la prima volta un re cattolico, Recaredo (586-601), anche se una parte del popolo goto rimase ancora a lungo fedele all’arianesimo. Gregorio Magno spedì infine un missionario, Agostino, a convertire gli Angli e i Sassoni, che si erano impadroniti della Britannia ed erano ancora pagani. La missione ebbe successo e la conversione dell’isola al cristianesimo cattolico procedette rapidamente; Agostino divenne il primo arcivescovo di Canterbury, la diocesi che da allora è sempre rimasta a capo della Chiesa d’Inghilterra.

1. Quali erano i fattori di debolezza del regno longobardo? 2. Per quale motivo i territori della Chiesa in Italia furono chiamati “Patrimonio di san Pietro”?

174

Parte VII Il mondo romano-barbarico

4. L’Occidente tra VII e VIII secolo

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

La cesura tra Oriente e Occidente e la caduta dei Visigoti in Spagna

Con la morte di Gregorio Magno nel 604 si apre un periodo, il VII secolo, di cui sappiamo poco. È forse il periodo in cui l’economia e la cultura dei regni romano-barbarici toccarono il punto più basso, e in cui la produzione di testi scritti fu minima. Il fatto più importante è che nel corso del VII secolo la storia dell’Occidente si separò sempre più nettamente da quella dell’Oriente. È a partire da quest’epoca che gli storici preferiscono non parlare più di impero romano d’Oriente, ma di impero bizantino, proprio per sottolineare che la storia di quei territori – i Balcani, la Grecia, l’Anatolia, il Vicino Oriente, il Nordafrica – è ormai separata da quella dell’Europa occidentale (affronteremo di nuovo l’argomento al cap.19.1). Le antiche province dell’impero romano d’Occidente corrispondevano ora in gran parte a tre regni indipendenti, i cui re avevano smesso di considerarsi subordinati all’imperatore di Costantinopoli: il regno franco in Gallia (ma ormai possiamo cominciare a chiamarla Francia), il regno goto in Spagna, il regno longobardo in Italia. Fra i tre regni non mancavano le differenze. Il regno franco e quello gotico erano molto vasti; quello longobardo era più piccolo e debole, perché non era riuscito a conquistare tutta l’Italia, e doveva fare i conti con le guarnigioni bizantine e con il potere della Chiesa di Roma. Nel regno franco la popolazione era tutta cattolica, in quello longobardo e in quello gotico l’elemento barbarico era ancora diviso fra arianesimo e cattolicesimo. Il regno franco si divideva spesso in regni minori per ragioni di spartizione ereditaria, quello lon-



San Pedro de la Nave, esterno e interno VII sec. Zamora, Spagna La Spagna e il Portogallo conservano un numero cospicuo di edifici risalenti al regno visigoto di Toledo. La piccola chiesa di San Pedro de la Nave ne costituisce un affascinante esempio: ricostruita nel 1930 conserva l’impianto originario a croce greca e la struttura volumetrica compatta tipica dell’architettura visigota. La densità degli esterni si sposa con l’armonica varietà degli spazi interni, frazionati da numerosi pilastri e decorati con sobrietà.

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

175

gobardo faticava a controllare i ducati più periferici come Spoleto, Benevento, il Friuli, mentre il regno gotico era solido e unito. In tutt’e tre i regni, comunque, i re erano obbediti senza discutere sia dalla popolazione romana sia da quella barbarica, e anzi, per il processo dell’etnogenesi [cfr. cap. 16.6] in ogni regno la popolazione si stava fondendo, dando vita a un popolo unico e nuovo. Fra i tre, il regno goto sembrava il più forte, destinato a un grande futuro. La Spagna era prospera e i suoi re potenti. Toledo, capitale del regno, era una ricca città; la Chiesa spagnola era forse la più organizzata e colta dell’Occidente. Non per nulla il più grande intellettuale di quest’epoca, Isidoro di Siviglia (morto nel 636), che ebbe un ruolo molto im-

La “questione longobarda” In molti paesi europei di oggi, i barbari che si sono stanziati sul loro territorio all’epoca delle invasioni sono considerati un ingrediente fondamentale per la formazione della nazione moderna. È così, per esempio, per i Goti in Spagna e ancor più per i Franchi, che in Francia sono sempre stati popolarissimi: i re di Francia pretendevano di essere discendenti dei re franchi, e ancor oggi Clodoveo è visto come uno dei grandi fondatori della nazione francese. In Italia, invece, il giudizio sui Longobardi è stato più incerto. Pesava il fatto che al loro arrivo essi sono descritti come particolarmente arretrati e violenti, e soprattutto il cattivo rapporto che hanno sempre avuto con Roma. Fin dal Rinascimento gli intellettuali italiani si sono interrogati sulla “questione longobarda”, per capire se i Longobardi possano essere considerati una delle componenti della moderna nazione italiana, o fossero invece soltanto dei dominatori stranieri. Per molto tempo la risposta fu favorevole ai Longobardi: tanto Machiavelli (1469-1527) quanto gli storici del Settecento, come Ludovico Antonio Muratori, riconobbero che essi erano confluiti nella nazione italiana e che il loro regno, una volta convertito al cattolicesimo, era a tutti gli effetti un regno italiano. Ma questa visione venne completamente ribaltata all’inizio dell’Ottocento. La posizione più nota è quella di Alessandro Manzoni, che sceglie proprio la caduta del regno longobardo come tema del suo dramma Adelchi (1822). Per scrivere il dramma Manzoni compì letture storiche approfondite, e nello stesso anno pubblicò anche un testo storico sull’argomento, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia. La visione di Manzoni risente pe-

176

Parte VII Il mondo romano-barbarico

santemente del clima italiano alla vigilia del Risorgimento: Milano, dove viveva l’autore, era sotto la dominazione straniera degli Austriaci, che suscitava un odio tenace. Per Manzoni era ovvio che anche i Longobardi erano stati dei dominatori stranieri, che la popolazione italiana dell’epoca, ridotta in servitù dai barbari, li aveva odiati e non si era mai fusa con loro: nell’Adelchi ci sono pagine potenti sulla contrapposizione fra i biondi padroni stranieri e il «volgo disperso» dei Romani sottomessi. Per di più il Manzoni è cattolico, e vede nel papato la vera forza spirituale che può guidare l’Italia; i frequenti scontri politici fra i re longobardi e i papi del loro tempo sono per lui la prova che l’epoca longobarda è stata un periodo negativo della storia d’Italia. Grande scrittore, il Manzoni era però accecato dai pregiudizi della sua epoca. La “questione longobarda” ha continuato a essere vivacemente discussa fino a poco tempo fa dagli storici italiani, ma oggi non c’è più dubbio che i Longobardi e i Romani al tempo della caduta del regno si erano già fusi in un unico popolo, e che nell’Italia di allora non c’era alcuna traccia dell’antagonismo etnico descritto nell’Adelchi. Anche l’idea di un’ostilità irriducibile fra il regno longobardo e il papato è stata ridimensionata. La storia della “questione longobarda” serve comunque a ricordarci che l’agenda politica del momento e le ideologie in cui viviamo immersi condizionano il nostro modo di guardare alla storia, e anche noi rischiamo, senza saperlo, di esserne vittime.



Miniatura con Adelchi XI sec. Dal Codex Legum Langobardorum; Biblioteca della badia, Cava dei Tirreni, Salerno.

portante nel trasmettere al Medioevo la cultura classica, era un vescovo spagnolo. I vescovi di Spagna si riunivano regolarmente a Toledo per celebrare concili sotto la protezione del re, da quando quest’ultimo era divenuto cattolico. Il re goto, per primo nell’Europa medievale, riprese una tradizione biblica, quella dell’unzione, per cui il re al momento di salire al trono veniva unto dai vescovi con l’olio santo: era lo stesso rituale usato per la consacrazione dei vescovi, e faceva del re una persona sacra. Ma all’inizio dell’VIII secolo il regno dei Goti fu travolto da un’inaspettata catastrofe. Gli Arabi, che nel corso del VII secolo avevano conquistato tutto il Vicino Oriente e il Nordafrica (lo vedremo più avanti: cfr. cap.18.4), nel 711 sbarcarono in Spagna attraverso lo stretto di Gibilterra, sconfissero in battaglia il re Rodrigo e s’impadronirono dell’intera penisola iberica, tranne alcune zone del Nord rimaste sotto il governo di capi cristiani. La popolazione cristiana del regno, nata dalla fusione di Goti e Romani, si ritrovò sotto dominio arabo-musulmano, e la ricca e colta Chiesa spagnola, per poter continuare a funzionare, dovette sottomettersi ai nuovi dominatori. I Franchi e Carlo Martello

Il crollo fulmineo del regno goto lasciava in piedi solo due importanti regni romano-barbarici (se si eccettuano i piccoli regni anglosassoni della Britannia, l’attuale Inghilterra): i Franchi e i Longobardi. I Franchi erano di gran lunga i più potenti e furono loro a mettere fine alle conquiste arabe: invasa la Spagna, infatti, gli Arabi erano giunti fino ai Pirenei, li avevano passati e si erano allargati nella Francia di Sud-ovest. Quando un loro esercito si spinse fino al centro della Francia, i Franchi lo affrontarono e lo sconfissero nella battaglia di Poitiers, del 732, e da allora gli Arabi non tentarono mai più di avanzare così a nord. Può darsi che non si trattasse di una vera invasione, e che quelli giunti fino a Poitiers fossero solo dei razziatori; ma la battaglia è stata comunque celebrata, fin da quell’epoca, come un evento decisivo, che salvò l’Europa (il termine comincia a essere usato proprio allora) dall’invasione araba. Fino a quel momento la potenza dei Franchi era stata frenata dalla loro divisione in diversi piccoli regni, governati dai discendenti di Clodoveo, i Merovingi. Ma già prima della battaglia di Poitiers, con una serie di guerre civili, l’intero paese era stato unificato in un unico regno. Il protagonista di questa unificazione non fu un re, ma il primo ministro o maggiordomo (come lo chiamavano loro) del re di Austrasia, il più settentrionale dei regni franchi. Questo grande capo politico e militare si chiamava Carlo, e fu lui a sconfiggere gli Arabi a Poitiers; da allora fu soprannominato Martello, ‘il piccolo Marte’. Il suo potere era così solido che alla morte del re Teodorico IV, nel 737, Carlo non permise che si incoronasse un successore, e continuò a governare personalmente il regno fino al 741, anno della sua morte, pur senza prendere il titolo di re. Riparleremo di lui quando racconteremo la storia di Carlo Magno [cfr. cap. 20], perché Carlo Martello era suo nonno.

Capitolo 17 I regni romano-barbarici



Charles de Steuben, La battaglia di Poitiers 1834-1837 Musée du Château de Versailles, Francia Il dipinto ottocentesco raffigura, in modo totalmente immaginario, lo scontro tra i Franchi guidati da Carlo Martello, rappresentati come i difensori dell’Europa bianca e cristiana, contro gli Arabi invasori. Il fatto che proprio in quegli anni, a partire dal 1830, i francesi fossero impegnati nella conquista coloniale dell’Algeria rende stridenti le connotazioni ideologiche del dipinto.

177

Longobardi e papato in Italia

Anche i re longobardi dopo l’inizio dell’VIII secolo stavano diventando più potenti, e sembrava che un giorno sarebbero riusciti a unificare l’Italia. Già prima il re Rotari (636652) aveva conquistato la Liguria; i re Liutprando (712-744) e Astolfo (749-756) conquistarono anche Ravenna e l’Esarcato. La conquista longobarda fu favorita dalle popolazioni locali, che non sopportavano la pesante fiscalità imperiale, e che di recente erano state protagoniste di violente ribellioni contro il dominio bizantino. In passato gli storici hanno sempre ritenuto che il papa si sia invece opposto con estrema ostinazione all’avanzata longobarda, temendo che giungesse fino a Roma. Oggi alcuni studiosi sottolineano che i re, ormai, erano cattolici e godevano del pieno sostegno dei vescovi del loro regno, per cui almeno qualche papa prese in considerazione la possibilità di un’alleanza col regno longobardo. Il vescovo di Roma, infatti, non vedeva più molti motivi per rimanere fedele al lontano imperatore bizantino, da cui lo dividevano profondi contrasti teologici (ne parleremo più avanti: cfr. cap. 19.2), e preferiva presentarsi come il capo naturale della popolazione romana d’Italia e come il maggiore interlocutore politico del re longobardo. Nell’Occidente cristiano, insomma, alla metà dell’VIII secolo esistevano due grandi potenze politiche, e una potenza fondata sull’autorità spirituale. Le potenze politiche erano il regno franco e il regno longobardo, che stava consolidando il suo dominio sull’Italia. La potenza spirituale era il papato, che dobbiamo immaginare molto diverso da quello di oggi. All’epoca infatti il papa non era ancora il capo indiscusso della Chiesa cattolica, non interveniva nella vita interna delle diocesi, non nominava i vescovi – che erano eletti sul posto, dal clero e dal re – e non poteva dar loro degli ordini. Ma godeva, in Occidente, di un grande carisma, in quanto successore di san Pietro e vescovo della città più grande e prestigiosa della Cristianità latina, Roma. Come capo, di fatto, di un piccolo Stato incentrato su Roma, il papa in teoria dipendeva ancora dall’impero d’Oriente; ma grazie alla sua autorità spirituale si stava abituando a giocare un ruolo politico indipendente, giostrando fra le due potenze vicine dei Franchi e dei Longobardi. L’antico legame fra la Chiesa e i Franchi, stabilito già al tempo della conversione di Clodoveo, e l’altrettanto antica ostilità dei papi per i Longobardi ariani e invasori suggerivano che un’alleanza fra Roma e il regno franco fosse la più naturale, ma in politica le cose cambiano spesso, e non era affatto sicuro che sarebbe andata a finire così.

1. Come era divisa politicamente l’Europa occidentale nel VII secolo? 2. Per quale motivo il regno dei Franchi si rafforzò nell’VIII secolo? 3. Quale ruolo era svolto dal papato nell’VIII secolo?

5. Da funzionari dell’imperatore a re indipendenti

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

La legittimazione dei re barbari

I capi barbari che si insediavano con la loro gente sul suolo dell’impero erano chiamati dai Romani reges, ‘re’. Erano re ciascuno del suo popolo, e quindi enormemente inferiori all’imperatore romano, che pretendeva di essere signore del mondo e padre di tutti i popoli. Molti di quei re erano soltanto dei capi guerrieri che si erano imposti con la forza, allar-

178

Parte VII Il mondo romano-barbarico

gando con le donazioni la loro cerchia di seguaci, e sbarazzandosi con la violenza dei rivali. Ma al tempo stesso molti sovrani pretendevano di discendere dagli antichi dèi del loro popolo, e di avere nelle vene un sangue speciale che li predestinava al potere. Il fatto è che per le popolazioni germaniche il re era una figura sacra, dotata di una potenza quasi divina: i re dei Franchi, per esempio, portavano i capelli lunghi e si credeva che quella capigliatura eccezionale fosse garanzia di forza e di prosperità per loro e per tutto il popolo. I re avevano diritto di vita e di morte sui sudditi e dovevano rispondere del loro operato soltanto a Dio. I re goti, franchi, longobardi presero l’abitudine di imparentarsi fra loro, fino a costituire una cerchia di famiglie nelle cui vene scorreva davvero lo stesso sangue e che si consideravano le uniche ad avere diritto al potere. Ma nei regni, all’inizio, la stragrande maggioranza della popolazione era formata da Romani. Come facevano i re a farsi obbedire da loro? La forza non bastava, altrimenti nessun regno sarebbe durato. Come sappiamo, il potere dei re era legittimato innanzitutto dai foedera che essi avevano stipulato con l’imperatore, cioè gli accordi che riconoscevano ai loro popoli il diritto di stanziarsi nelle province [cfr. cap. 16.3]. Per tutto il primo periodo dei regni romano-barbarici, fin verso il 630, gli imperatori continuarono a considerare i re come una specie di funzionari che governavano l’Occidente a loro nome. I re, ovviamente, erano molto autonomi, e capitava spesso che fra uno di loro e l’imperatore scoppiasse addirittura una guerra, ma in tempo di pace conveniva a tutti ricordare che il loro potere derivava da una concessione imperiale. Quando Clodoveo, re dei Franchi, ottenne dall’imperatore Anastasio la nomina a console, la festeggiò con solenni cerimonie, spargendo monete d’oro al popolo secondo l’usanza romana, perché sentiva che la sua autorità sugli abitanti romani della Gallia ne usciva rafforzata.



Trionfo di re Agilulfo VII sec. Museo Nazionale del Bargello, Firenze Su questa lamina, la cui funzione è discussa, il sovrano è rappresentato al centro, seduto in trono, assistito da due guerrieri e affiancato da due vittorie alate che recano una tabella con la scritta «Victoria».



Croce votiva di Agilulfo VI-VII sec. Museo del Duomo, Monza

Perché la popolazione e la Chiesa accettarono i re barbari?

Ma se la popolazione romana si abituò a obbedire ai re barbari, è anche perché dell’impero romano, ormai, non importava più molto a nessuno. I grandi latifondisti – che continuavano a portare l’antico nome di senatori –, i vescovi cristiani e la massa del popolo volevano innanzitutto pace e sicurezza. L’arrivo dei barbari aveva provocato proprio il contrario, ma per mettere fine al disordine e all’insicurezza la cosa migliore era sottomettersi al potere di un re barbaro forte e vittorioso. Il potere imperiale era lontano e molti ragionavano in termini localistici, preferivano cioè un’autonomia regionale difesa dalle armi dei barbari. Il senato romano aveva appoggiato Odoacre, che aveva deposto l’imperatore Romolo Augustolo; e quando Odoacre fu sconfitto e sostituito da Teodorico, i senatori e la Chiesa italica si schierarono dalla parte del re goto, e non furono contenti quando cinquant’anni dopo Giu-

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

179

stiniano scatenò i suoi eserciti per riconquistare l’Italia. Il successivo ingresso dei Longobardi in Italia suscitò un certo consenso fra le popolazioni locali, che dopo la riconquista avevano avuto il tempo di sviluppare una decisa antipatia per il governo di Costantinopoli, percepito come greco e quindi straniero. Anche in Gallia senatori e vescovi fecero le loro scelte, decisero che i re franchi erano più affidabili dei re goti, e aiutarono Clodoveo a diventare il padrone di tutta la Gallia. I re quindi non regnavano soltanto sul loro popolo, ma su tutti gli abitanti del territorio occupato: più di un re longobardo o goto prese il titolo di re d’Italia o di Spagna, proprio per sottolineare che il suo potere si estendeva su un territorio e non solo su una popolazione. Quando i re si convertirono al cattolicesimo abbandonando la fede ariana, la Chiesa si abituò a considerare il re, e non più il lontano imperatore, come suo capo e protettore; e i re impararono che il loro compito non era solo di fare la guerra alla testa dei loro uomini, ma anche di garantire la religione e la morale ascoltando i consigli dei vescovi. Così come facevano gli imperatori romani da Costantino in poi, anche per i re barbari divenne un compito normale convocare concili, cioè appunto assemblee di vescovi, per discutere problemi religiosi e teologici. In questo modo il titolo di re perse il suo significato originario e ne acquistò uno nuovo: il re era il sovrano di uno Stato, più piccolo, certo, rispetto all’impero romano, ma che funzionava più o meno allo stesso modo (si parla di imitatio imperii, ‘imitazione dell’impero’). Soprattutto, ogni regno era indipendente rispetto al governo di Costantinopoli. A partire dal 630 circa, i re smisero di considerarsi dei funzionari dell’imperatore; quelli di Spagna e di Francia affermarono addirittura che i loro popoli, per volontà di Dio, avevano sostituito i Romani nel dominio del mondo.

1. Che significato aveva per i Romani il termine “re” riferito ai capi barbari? 2. Che significato assunse lo stesso termine a partire dal VII secolo?

6. Fra civiltà romana e cultura barbarica

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

La sopravvivenza dell’amministrazione romana

All’inizio, i regni romano-barbarici funzionavano raccogliendo l’eredità dell’impero romano. I re nominavano dei funzionari, che portavano gli stessi titoli in uso nell’amministrazione imperiale, come duca e conte (il primo, in latino dux, voleva dire ‘comandante’; il secondo, in latino comes, voleva dire ‘compagno’ dell’imperatore). Questi funzionari erano spesso romani, ed erano incaricati di amministrare la giustizia e di riscuotere le imposte. Lo stanziamento dei barbari aveva provocato il ritiro delle massime autorità romane e soprattutto delle guarnigioni militari, sostituite dai guerrieri barbari; ma non provocò lo smantellamento dell’amministrazione. Questa all’inizio continuò a funzionare come prima: pezzi interi di governo provinciale passarono agli ordini dei re barbari, con il loro capufficio alla testa. La sopravvivenza del sistema fiscale è la cosa più importante, perché da questo dipendeva in parte la capacità d’azione dei re. Nel regno goto d’Italia le imposte, che pesavano essenzialmente sulla proprietà fondiaria detenuta dai senatori romani, continuarono

180

Parte VII Il mondo romano-barbarico

a costituire il fondamento dello Stato, anche se l’Italia, impoverita da carestie, pestilenze e passaggi di eserciti, non era più ricca come una volta. Anche i Visigoti di Spagna mantennero in piedi l’amministrazione romana, e i loro re continuarono sempre a riscuotere l’imposta fondiaria. I Franchi, invece, fecero più fatica a tenere in piedi il sistema fiscale: all’inizio anche in Gallia funzionari romani al servizio dei re franchi continuavano ad aggiornare i registri delle proprietà terriere e a riscuotere l’imposta, ma la grande e potente aristocrazia franca, che si era accaparrata gran parte della terra, non pagava volentieri ed entro il 630 sembra che l’imposta in denaro non sia più stata riscossa. Il re franco si abituò a trarre le sue risorse soprattutto dalle proprietà terriere appartenenti alla corona, che per sua fortuna erano immense. I Longobardi, infine, che occuparono un’Italia messa in ginocchio dalla guerra greco-gotica, non riuscirono neppure all’inizio a tenere in piedi l’imposta, e questo fu certamente un motivo di debolezza del loro regno. All’inizio, dunque, l’amministrazione romana sopravvisse, e con essa la civiltà antica, anche se impoverita. Ma i regni romano-barbarici durarono a lungo, dal V all’VIII secolo, e nel corso di queste centinaia d’anni si trasformarono profondamente. I legami col mondo romano, che continuava a prosperare in Oriente, si allentarono fin quasi a scomparire. Dalle ricche regioni dell’impero bizantino non venivano più mercanti, né ambascerie imperiali. In ogni regno, la differenza fra gli occupanti barbari e la popolazione romana originaria si ridusse fino a scomparire, e fu l’identità dei nuovi arrivati a prevalere: ci si sentiva Franchi, Goti, Longobardi perché si viveva nel regno franco di Gallia, nel regno goto di Spagna, nel regno longobardo d’Italia. È interessante notare che la lingua non contava per definire l’identità etnica. In tutti questi paesi fu la lingua della maggioranza romana a prevalere, per cui dappertutto la lingua parlata era un dialetto del latino; e lo si sapeva benissimo, tant’è che quella lingua parlata, ormai così diversa dal latino classico, era definita “rustica romana lingua”. Ma il fatto di parlare in lingua “romana” o romanza non impediva affatto di sentirsi Goti o Longobardi o Franchi. Questi ultimi avevano addirittura due lingue, perché nelle regioni orientali del regno – corrispondenti oggi a parte del Belgio, Olanda e Germania – i Franchi continuavano a parlare la loro lingua germanica, che proprio a quest’epoca comincia a essere definita “tedesca” (teutisca), mentre quelli della Gallia parlavano in “romanzo”: ma gli uni e gli altri erano egualmente Franchi.

Capitolo 17 I regni romano-barbarici



Dittico di Oreste VI sec. Victoria and Albert Museum, Londra Nella prima fase dei regni romano-barbarici il nuovo governo straniero e il vecchio potere romano tesero a sovrapporsi e convivere in un lento processo di transizione. In questo periodo i sistemi monetari, amministrativi, fiscali e giudiziari rimasero pressoché immutati, compresa l’istituzione senatoriale, ancora attiva fino al VI secolo. Questo dittico raffigura Oreste, console tra il 530 e il 533, tra i due sovrani goti Amalasunta, figlia di Teodorico, e Atalarico, suo figlio ed erede al trono.

181

Il funzionamento del potere

Al centro del regno stavano il re e il suo palatium, il palazzo, termine che non indicava un edificio, ma il gruppo dei consiglieri e collaboratori del re. Alcuni regni ebbero una capitale, una grande città in cui i re, nei limiti delle loro possibilità, costruivano chiese ed edifici pubblici: per i re goti di Spagna la capitale fu Toledo, per i re longobardi d’Italia fu soprattutto Pavia. Altri regni, come quello franco, non ebbero una vera capitale: lì i re, quando non erano in guerra o a caccia, si spostavano continuamente fra le città e le loro immense proprietà terriere. Un’altra caratteristica del regno franco è che dalla fine del VII secolo i re presero l’abitudine di affidare il comando delle truppe e la conduzione degli affari a un uomo di fiducia, che rappresentava gli interessi della grande aristocrazia e ne garantiva la fedeltà al re. Questo ministro prese il nome di maior domus o ‘maggiordomo’ e col tempo, come abbiamo visto parlando di Carlo Martello, finì per diventare ancora più importante del re [cfr. par. 4].

La moneta dei re barbari Lo stanziamento dei barbari sul territorio dell’impero romano d’Occidente non provocò subito la fine del sistema monetario romano. Come nell’Europa di oggi quasi tutti gli Stati appartenenti all’Unione usano la stessa moneta, l’euro, così nei regni romanobarbarici si continuò a usare la moneta romana, il solido d’oro, con i suoi sottomultipli in oro e argento. Queste monete non arrivavano soltanto dall’impero d’Oriente, ma erano coniate anche nelle zecche occidentali, sotto il controllo dei re. Per un certo tempo, i re non osarono mettere sulle monete la propria faccia, o il proprio nome, e continuarono a coniare monete romane, col volto e il nome dell’imperatore. È la prova più evidente che all’inizio un rex non si considerava un sovrano indipendente, ma una specie di fiduciario dell’imperatore. Del resto battere moneta d’oro era considerata una prerogativa imperiale, e i re potevano farlo solo chiedendo il permesso. Il re dei Vandali, che aveva invaso l’Africa senza il consenso delle autorità romane, non osò mai coniare monete d’oro, e si accontentò di battere moneta d’argento. A partire dal 580 circa, le cose cambiano. I re coniano sempre meno monete: in Occidente c’è poco oro, perché il metallo pre-

zioso viene estratto in Oriente e in Africa, e il commercio internazionale è scarso. Per lo stesso motivo, si preferiscono monete più piccole: i re longobardi non coniano quasi mai i pesanti solidi, ma piuttosto i leggeri tremissi, ognuno dei quali vale un terzo di solido. Anche la funzione della moneta cambia. Non esiste più un sistema fiscale capace di rastrellare la moneta d’oro e poi rimetterla in circolazione, e non c’è neppure un esercito regolarmente pagato in moneta, come accadeva nell’impero romano. I re barbari coniavano monete solo per ragioni di prestigio, e per fare regali ai loro fedeli; tant’è vero che solo raramente coniavano moneta in metalli meno pregiati. Per gli scambi quotidiani, per un po’ continuò a circolare la moneta romana di rame, ma è probabile che col tempo si sia assistito a una crescente diffusione del baratto. In compenso, i re si sentono sempre più sicuri del loro potere, e anche se continuano a coniare monete con lo stesso nome, peso e valore di quelle romane, cominciano a metterci il proprio nome. I Franchi, che sono i più sicuri di sé grazie alla conversione al cattolicesimo e all’amicizia della Chiesa, lo fanno per primi, fin dal tempo di Clodoveo (481-511); poi cominciano a farlo i re goti di Spagna, e per ultimi i Longobardi. Bisognerà però aspettare la riforma monetaria di Carlo Magno e l’introduzione del denarius d’argento perché l’Occidente abbia un proprio sistema monetario, del tutto diverso da quello dell’impero bizantino (di questo parleremo nel cap. 20.9).



Solidus aureo a nome di Anastasio coniato sotto Teodorico (recto, verso) 491-518 Civico Medagliere, Milano

182

Parte VII Il mondo romano-barbarico

 Altare di Ilderico, duca di Spoleto VIII sec. Abbazia di San Pietro in Valle, Ferentillo Una delle manifestazioni più raffinate dell’arte alto medievale è costituita dalla scultura longobarda, caratteristica per le rappresentazioni zoomorfe e il disegno geometrico. Tra le sculture longobarde sopravvissute fino ai nostri giorni si annoverano splendide lapidi, fonti battesimali e pannelli d’altare, come questo in figura, corredato di iscrizione dedicatoria di Ilderico, duca di Spoleto.

Nel VII secolo, i regni si scoprirono anche molto più poveri rispetto al passato. Il declino dell’imposta e dei commerci provocò la riduzione della circolazione monetaria: i re continuavano a battere moneta d’oro, ma in piccola quantità e solo per ragioni di prestigio. Circolavano meno uomini e meno idee, e la cultura si provincializzava; del resto i barbari la apprezzavano solo fino a un certo punto, ed erano i loro valori e le loro abitudini a prevalere. Col tempo ci furono sempre meno libri, sempre meno scuole, e sempre meno personale preparato: la Chiesa lo assorbiva quasi tutto. I re continuavano a governare nominando loro uomini di fiducia al comando di città e province, ma non erano più amministratori professionali organizzati in una precisa gerarchia secondo l’usanza romana; erano capi militari talvolta analfabeti, che avevano giurato fedeltà al re e che mantenevano l’ordine con la forza nei territori loro affidati. Alcuni di questi capi erano quasi indipendenti rispetto al re, e si trasmettevano il potere di padre in figlio. Il titolo che usavano era quello romano di duca: nell’Italia longobarda i ducati di Spoleto e Benevento erano in pratica degli Stati indipendenti, così come il ducato d’Aquitania nel regno franco. Quei capi che invece erano nominati dal re e sostituiti a suo piacimento portavano il titolo romano di conte in Francia e in Spagna, i titoli germanici di gastal-

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

 Elmo di un nobile franco VI sec. Da Planig, Germania; Reiss-Museum, Mannheim, Germania

183

 Impugnatura di spatha con pomo ad anello VI-VII sec. Dalla necropoli di Nocera Umbra; Museo dell’Alto Medioevo, Roma Le armi in uso presso le popolazioni barbariche erano di qualità eccellente: in particolare le asce, le lance e le lunghe spade avevano un alto potere offensivo.

do o sculdascio nell’Italia longobarda. I nomi erano diversi, ma i compiti erano più o meno gli stessi: dovevano rappresentare il re e svolgere tutte le funzioni del potere pubblico. Poiché non avevano nessuna specializzazione, e spesso anche nessuna cultura, lo facevano in modo più elementare e brutale rispetto all’amministrazione romana dei tempi antichi. Anziché riscuotere ordinatamente l’imposta in denaro sulla base dei registri fiscali, prelevavano derrate e bestiame quando ne avevano bisogno, per sé o per il re. Risolvevano i casi giudiziari in modo rapido, senza ascoltare avvocati, e producendo pochissima documentazione scritta. Si facevano, invece, aiutare dagli abitanti della zona, convocati appositamente, e specialmente dai più anziani e autorevoli, che conoscevano a memoria le antiche leggi. Questo coinvolgimento degli uomini liberi nel funzionamento del potere è una delle caratteristiche più importanti dei regni romano-barbarici. La giustizia non nasceva più dall’imposizione di un giudice rappresentante dello Stato, ma dal dialogo fra il rappresentante del re e la società locale. Allo stesso modo, la guerra non era più fatta da soldati pagati dallo Stato e ben distinti dai civili: ogni uomo libero era anche un guerriero, tanto che i Longobardi per dire “popolo longobardo” dicevano exercitus Langobardorum, ‘l’esercito dei Longobardi’. I funzionari del re erano anche comandanti militari, ma questo non significa che avessero il comando di reparti permanenti come le legioni romane: quando il re faceva la guerra, radunavano gli uomini della loro zona e li conducevano all’esercito. Intendiamoci: è probabile che gli uomini liberi nel pieno senso della parola, quelli cioè che possedevano terra e bestiame, ed erano quindi in grado di sostenere delle spese, comprarsi delle armi, intervenire alle assemblee giudiziarie, pagare contribuzioni e multe, fossero solo una minoranza della popolazione, e che i contadini che faticavano sotto padrone non fossero compresi in questa idea di libertà, tipica della società barbarica. Resta il fatto che rispetto al tardo impero romano l’apparato dello Stato era molto più debole, e la partecipazione della società alla gestione del potere era più ampia. Questa partecipazione si traduceva in consuetudini importantissime per la vita dei regni, e che non avevano nulla a che fare con la tradizione romana, ma derivavano dalle consuetudini tribali dei barbari. La più importante era la grande assemblea annuale delle Calende di Marzo – cioè il primo marzo secondo il calendario romano –, all’inizio della primavera. In quel giorno tutto il popolo si radunava attorno al re, che annunciava le nuove leggi discusse con i suoi consiglieri durante l’inverno, e dava gli ordini per le campagne militari che intendeva condurre nell’estate. Era una consuetudine tribale testimoniata presso molti popoli, i Franchi, gli Alamanni, i Longobardi, e che rimase viva nei regni, anche se ovviamente non era davvero tutto il popolo a riunirsi, ma solo i capi, compresi i vescovi. I Franchi, che fra tutti i popoli erano forse il più bellicoso, chiamavano quel giorno il Campo di Marzo, o anche il Campo di Marte, dal nome del dio romano della guerra.

1. In che modo differiva il sistema fiscale del regno goto da quello franco? 2. Chi governava in nome del re? 3. Com’era amministrata la giustizia?

184

Parte VII Il mondo romano-barbarico

7. Leggi etniche e diritto romano

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Il matrimonio e la condizione femminile

Ogni popolazione barbarica aveva un proprio insieme di leggi, che venivano tramandate oralmente, e che sotto certi aspetti erano molto diverse da quelle romane. Le differenze più grandi riguardavano il matrimonio, la condizione della donna, l’accertamento dei reati, e la punizione dei delitti di sangue, come l’omicidio. Cominciamo dal matrimonio. All’epoca il matrimonio aveva poco a che fare con l’amore: era un contratto tra due famiglie, con delle condizioni economiche che dovevano essere scrupolosamente regolate. Le leggi barbare regolamentavano in modo diverso dal diritto romano i pagamenti che il padre della sposa doveva fare al genero – cioè quella che nell’uso romano si chiamava la dote – e i donativi che il marito doveva fare alla moglie. I Longobardi davano particolare importanza a quest’ultima donazione e la chiamavano morgengab, ovvero il dono del mattino: il marito, infatti, effettuava la donazione solo all’indomani della prima notte di nozze, dopo essersi accertato della verginità della moglie (è un aspetto a cui molte popolazioni primitive attribuivano enorme importanza, perché solo così un uomo poteva essere certo che il primo figlio nato dal matrimonio fosse davvero suo). Per quanto riguarda la condizione della donna, le leggi barbare le lasciavano meno libertà rispetto alle usanze romane: in pratica, la consideravano un’eterna minorenne. Secondo il diritto romano, la donna era soggetta al marito, ma quando rimaneva vedova riprendeva possesso della dote, e da quel momento era libera di fare quello che voleva. Secondo le leggi dei barbari, invece, la donna doveva sempre trovarsi sotto la tutela dei parenti maschi, e se rimaneva vedova aveva bisogno del loro consenso per risposarsi; se non aveva parenti, era il re che doveva farle da tutore. Nel linguaggio dei Longobardi questa tutela era chiamata mundio; i Franchi usavano una parola simile, mundeburdio, per indicare la dipendenza dei servitori dal padrone, e questo parallelismo la dice lunga sulla posizione della donna nella società barbarica.



Fibule longobarde VI sec. Da Cividale del Friuli, tomba 32; Museo Archeologico Nazionale, Cividale del Friuli, Udine I dati a nostra disposizione per ricostruire la figura di una donna di origine barbarica sono veramente scarsi; tuttavia, grazie ai ritrovamenti dei corredi funerari all’interno delle sepolture è stato possibile risalire ad alcuni caratteri di costume piuttosto frequenti. Le donne longobarde, per esempio, vestivano con bluse e gonne portate avvolte attorno ai fianchi chiuse in entrambi i casi da fibule, come quelle in figura, oppure semplici tuniche fermate in vita da cinture e mantelli trattenuti sul petto da grossi fermagli a disco. Nastri di cuoio legavano alla cintura piccole borse contenenti articoli per la cura del corpo: pettini in osso, specchietti e piccoli oggetti di uso quotidiano. Erano soprattutto i preziosi ornamenti, in oro e argento per le donne di alto rango, in bronzo per le popolane, a impreziosire le vesti, di per sé piuttosto sobrie.

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

185

I reati e il giudizio di Dio

 Il giudizio di re Salomone 870 ca. Bibbia di Carlo il Calvo, f. 188v.; Basilica di San Paolo fuori le Mura, Roma Mantenere la giustizia era uno dei compiti più importanti del re. Salomone, il re giusto per eccellenza dell’Antico Testamento, è spesso proposto a modello per i re medievali, ed è raffigurato come se fosse uno di loro: in questa miniatura dalla Bibbia di Carlo il Calvo, il re e tutti gli altri personaggi sono vestiti come fossero uomini e donne del IX secolo.

186

Per quanto riguarda l’accertamento dei reati, i barbari lasciavano un certo spazio al giuramento o a interventi soprannaturali. In mancanza di prove e di testimoni, chi era sospettato di un crimine era assolto se giurava d’essere innocente e trovava un certo numero di uomini liberi disposti a giurare con lui: secondo la Lex Ribuaria, una delle leggi dei Franchi, l’uomo accusato di aver rubato un gregge di pecore poteva discolparsi facendo giurare settantadue persone. Poiché giurare significava chiamare Dio a testimone e mettere in gioco la propria anima, non è poi così assurdo che l’intervento di uomini disposti a giurare sull’innocenza dell’accusato fosse considerato probante, in assenza di altri elementi di prova, e comunque preferibile a una sentenza arbitraria. Con la conversione al cristianesimo si cominciarono a praticare varie forme di giudizio di Dio, chiamato anche ordalia. Vi si ricorreva solo di fronte ad accuse gravissime e testimonianze contraddittorie. La forma più frequente prevedeva che l’accusato immergesse la mano in una pentola d’acqua bollente, o camminasse scalzo su ferri arroventati: era discolpato se la scottatura guariva entro un tempo stabilito. Si poteva dar da mangiare all’accusato pane e formaggio benedetti da un prete, coll’idea che se era colpevole, gli sarebbero andati di traverso; oppure immergerlo nel fiume, e in questo caso se galleggiava era considerato innocente. Il giudizio di Dio poteva esercitarsi anche in forma di confronto fra accusato e accusatore. Nel cosiddetto giudizio della croce, i due dovevano stare in piedi davanti a una croce, con le braccia levate, e si pensava che chi resisteva più a lungo fosse stato aiutato da Dio, e dicesse quindi la verità. In una forma più rara e più cruenta il giudizio di Dio era un vero e proprio duello, combattuto con scudi e bastoni. Anche se veniva giustificato col riferimento all’intervento divino, in realtà questo modo di verificare le accuse aveva origine in una visione magica del mondo che sembra essere una tendenza comune dell’umanità primitiva, e infatti lo si ritrova anche in altre società: già il Codice di Hammurabi prevede l’ordalia del fiume [cfr. cap. 1.8]. Nel mondo cristiano suscitò sempre dei dubbi: il re longobardo Liutprando ne limitò l’uso, e lasciò capire che se fosse dipeso da lui l’avrebbe abolito del tutto, ma non poteva farlo, perché così voleva la consuetudine del suo popolo.

Parte VII Il mondo romano-barbarico

Molto diversa rispetto al diritto romano era poi la punizione dei delitti di sangue. I barbari consideravano il furto un reato molto grave, e lo punivano severamente; ma se uomini liberi, litigando, si ferivano o si uccidevano, non pensavano che fosse stato commesso un reato. La loro idea era che si trattava di una faccenda privata, e che la famiglia di chi era stato ferito o ucciso aveva il diritto di vendicarsi. Tutti sapevano però che in questo modo la sequenza degli omicidi e delle vendette rischiava di prolungarsi all’infinito, creando un’inimicizia duratura fra le famiglie coinvolte: era la faida, una parola longobarda che non a caso si è conservata in italiano. Per ridurre questo rischio, chi aveva subito un’offesa poteva scegliere di accettare un risarcimento anziché vendicarsi, purché, s’intende, i colpevoli fossero disposti a pagare. Chi uccideva, anche per sbaglio, un cavallo, una vacca o uno schiavo doveva ripagarne il prezzo al padrone, nella misura stabilita dalla legge; per analogia, la legge stabilì anche la somma da pagare quando si feriva o si uccideva volontariamente un uomo libero. I Longobardi chiamavano questa somma guidrigildo, che vuol dire ‘il prezzo dell’uomo’. Perché il sistema funzionasse bisognava naturalmente che il risarcimento fosse adeguato, altrimenti chi si accontentava di un risarcimento troppo basso avrebbe perso la faccia, invece di lavare onorevolmente l’offesa subita. Perciò il guidrigildo fissato dalla legge era molto alto se la vittima era un protetto del re, più basso per un normale uomo libero; era più alto per una donna in età fertile, più basso per una bambina o una donna anziana.



Personalità del diritto

I barbari che si insediarono sul territorio romano continuarono a praticare queste abitudini fra loro, mentre la popolazione romana, che all’inizio non si mescolò con i nuovi venuti, continuava a vivere secondo le regole del diritto romano. Si creava così una situazione particolare, che i giuristi chiamano “personalità del diritto”: sullo stesso territorio, cioè, abitavano etnie, ciascuna delle quali viveva secondo leggi proprie (l’altra situazione possibile è quella in cui viviamo noi, per cui sul territorio dello Stato è in vigore un unico codice di leggi, valido per tutti: si chiama “territorialità del diritto”). Sul territorio del loro regno, i re erano garanti sia della legge barbarica sia della legge romana. Furono proprio i re a

Miniatura con re Rotari XI sec. Dal Codex Legum Langobardorum, ms. 4, f. 15v; Biblioteca della badia, Cava dei Tirreni, Salerno

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

187

prendere l’iniziativa di scrivere le leggi etniche, anziché continuare a tramandarle soltanto a voce. Per scriverle le fecero tradurre in latino, l’unica lingua in cui veniva naturale scrivere. Nacquero così i grandi codici barbarici: il Codice di Eurico nel regno goto di Spagna, la Legge Salica e la Legge Ribuaria nel regno franco, la Legge di Gundebado nel regno burgundo, e l’editto di Rotari nel regno longobardo, così chiamato dal nome del re che lo promulgò nell’anno 643. Ma alcuni re, specialmente quelli di Spagna, si preoccuparono anche di far pubblicare dei manuali di diritto romano, che nella pratica quotidiana veniva usato in forma molto semplificata e imbarbarita.

Liutprando e la Romana [Liutprando, § 127, da Le leggi dei longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C. Azzara e S. Gasparri, La Storia, Milano 1992; trad. a cura degli autori]

La

voce

PA SSA TO del

Quando il re longobardo Liutprando (712-744) conquistò i territori dell’Esarcato e la stessa Ravenna, nel suo regno la stragrande maggioranza della popolazione seguiva il diritto longobardo, codificato nell’editto di Rotari e nelle leggi dei successori. Qua e là qualche famiglia di proprietari continuava a seguire il diritto romano, e lo stesso facevano per consuetudine gli ecclesiastici, ma si trattava di eccezioni. Ora, però, veniva annessa al regno longobardo un’intera regione che fino a quel momento aveva continuato a far parte dell’impero d’Oriente e la cui popolazione viveva secondo il diritto romano; è proprio per questo che la regione venne chiamata Romagna, cioè “terra romana”. Liutprando si trovava quindi di colpo a essere il re di una numerosa popolazione di legge romana, che cominciò subito a incontrarsi con quella longobarda e a stringere, fra l’altro, matrimoni misti. Siccome proprio le regole riguardanti il matrimonio e la situazione della

Parte VII Il mondo romano-barbarico

donna erano diverse nelle due tradizioni giuridiche, il re previde che sarebbero nati dei problemi, e provò a risolverli in anticipo. Il caso discusso in questa legge riguarda la possibilità della donna rimasta vedova di risposarsi senza chiedere il permesso ai parenti del primo marito. Le Romane potevano farlo, le Longobarde no. Ma se una Longobarda era rimasta vedova di un Romano? Se qualcuno, uomo romano, prende una moglie longobarda, e acquista il mundio su di lei, e dopo la morte di lui la donna va da un altro marito senza la volontà degli eredi del primo marito, non ci sia la faida e non si contesti l’anagrip1. Perché dopo che si è accoppiata con un marito romano, e lui ha acquistato il suo mundio, è diventata romana, e i figli che nascono da quel matrimonio vivono secondo la legge del padre; perciò non deve affatto pagare per la faida e l’anagrip chi poi la prende, così come per qualunque altra romana. 1. anagrip: letteralmente ‘attacco, violenza’, indica lo stupro o comunque il rapporto sessuale illecito nei confronti di una donna.



Tremisse aureo di Liutprando VIII sec. Museo Nazionale Romano, Roma

Non dobbiamo pensare che la personalità del diritto fosse completa, e che in ogni regno vivessero due popoli dalle leggi totalmente separate. Gran parte del diritto civile, quella che regola la vita economica, mancava nelle consuetudini barbariche: perciò le regole del diritto romano restavano in vigore per tutti. Per stipulare un contratto o comprare una casa si andava dal notaio, secondo la procedura romana (anche se va detto che col tempo l’abitudine di andare dal notaio e far redigere atti scritti divenne sempre meno diffusa, e nel regno franco sparì quasi del tutto). In secondo luogo, le due tradizioni giuridiche tendevano a influenzarsi a vicenda, come vasi comunicanti: abbiamo appena detto che il diritto romano era praticato in forma imbarbarita, ma anche le leggi dei barbari, quando vennero scritte in latino, accolsero interi pezzi del diritto romano. Nell’editto di Rotari, per esempio, la procedura per l’affrancamento, cioè la liberazione di uno schiavo, venne ripresa dal diritto romano. Infine, va ricordato che durante la lunga vita dei regni romano-barbarici le due popolazioni cominciarono a non vivere più così separate come prima; all’inizio i matrimoni misti erano addirittura vietati, poi il divieto cadde e Romani e barbari cominciarono a sposarsi fra loro. Alla lunga, la maggior parte della popolazione di origine romana adottò certe consuetudini barbare, come il dono del mattino o il risarcimento per i delitti. Entro l’VIII secolo, all’interno di ogni regno praticamente tutta la popolazione seguiva la legge dell’etnia dominante, mescolata e modificata con avanzi di diritto romano.

1. Che cosa significa personalità del diritto? 2. Com’erano risolti, generalmente, i delitti di sangue? 3. Qual era la condizione della donna?

8. Un’economia stagnante

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Calo demografico e lento declino dell’economia

Sul piano economico e demografico, l’epoca dei regni romano-barbarici conobbe un netto declino, seguito da una lunga stagnazione: sostanzialmente un periodo in cui le cose, anche se non peggiorano più perché hanno già toccato il fondo, non riescono neanche a migliorare, la gente continua a essere povera e l’economia non riparte. Nel V e VI secolo, le devastazioni provocate dallo stanziamento dei barbari e dai movimenti degli eserciti, le ripetute carestie, le epidemie di peste avevano decimato la popolazione. Nelle campagne molte zone si erano spopolate: la foresta, la brughiera, la palude avevano preso il posto delle coltivazioni. La manutenzione degli acquedotti e delle strade era sempre più carente, e la circolazione di merci e di denaro si era ridotta: sia a causa dell’insicurezza, sia perché i re avevano molto meno denaro da investire rispetto a quel che un tempo poteva fare il governo imperiale romano. Questo degrado si verificò lentamente e senza stravolgere gli aspetti di fondo dell’economia agricola. La grande proprietà terriera era ancor sempre il fondamento della ricchezza. Il re, i capi guerrieri barbari, i grandi latifondisti romani superstiti, i vescovi, i monasteri fondavano il loro potere sul possesso di immense proprietà e sul lavoro di moltitudini di contadini. Come all’epoca del tardo impero romano, i contadini erano schiavi e soprattutto coloni: lavoratori liberi che coltivavano il podere ricevuto in affitto, ma dovevano obbedire in tutto al padrone e non potevano andarsene dal fondo senza il suo permesso.

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

189

Fino al VII secolo in Gallia, in Spagna, in Africa c’erano ancora grandi latifondisti che vivevano in lussuose ville di campagna, ornate di mosaici. È impossibile dire se fossero romani o barbari: all’epoca delle invasioni i nuovi venuti si riconoscono forse dalle loro sepolture, che rispecchiano usanze barbariche come quella di portare le armi, ma con la conversione al cristianesimo e l’adozione dello stile di vita romano non è più possibile distinguere un ricco barbaro da un ricco romano. Ci sono però differenze fra un regno e l’altro: l’aristocrazia romano-gota in Spagna, quella romano-franca in Gallia sono piuttosto ricche, mentre in Italia il declino della grande proprietà è più evidente. L’aristocrazia romano-italica e gotica venne spazzata via dalla riconquista di Giustiniano e dalla successiva invasione longobarda. La fine del senato romano si colloca nel VI secolo ed è una rottura storica decisiva: i capi longobardi non arriveranno mai allo stesso livello di ricchezza e di lusso che era stato dei senatori romani. Anche nei regni più potenti, comunque, i latifondisti non mantengono a lungo un livello di vita lussuoso secondo gli standard antichi. La tendenza, col tempo, è al degrado e all’abbandono delle ville, sostituite da edifici più poveri in legno. Può darsi che la ragione sia culturale, non solo economica: l’influsso del cristianesimo spingeva molti nobili a investire le proprie ricchezze nella costruzione di chiese e monasteri anziché di ville e mosaici, mentre le tradizioni barbariche valorizzavano soprattutto l’acquisto di armi, cavalli e gioielli. Certo è che il livello di benessere dell’aristocrazia romano-barbarica dopo il VI secolo sarebbe apparso infimo a un latifondista dell’epoca precedente.

La

voce

PA SSA TO del

Gregorio di Tours e il topos del declino [Gregorio di Tours, Historiae, Prefazione; trad. a cura degli autori]

Gregorio, nato nel 538 e figlio di un senatore romano della Gallia, divenne vescovo di Tours nel 573 e morì nel 594. Nella sua opera in dieci libri, intitolata al modo classico Historiae, raccontò le vicende della Gallia durante le invasioni barbariche e poi sotto il dominio franco. Nella prefazione Gregorio segue un topos, cioè un luogo comune letterario, anch’esso di origine classica, dichiarando di non essere all’altezza dell’opera intrapresa; ma vi aggiunge un altro topos più tipico della sua epoca, e cioè la constatazione desolata della drammatica decadenza della cultura e il lamento per il disordine che regna nel mondo. La cultura e la letteratura stanno sparendo dalle città della Gallia, anzi sono morte. Certe cose sono fatte con

Parte VII Il mondo romano-barbarico

giustizia, ma altre no; la ferocia dei barbari impazza, l’ira dei re s’inasprisce, le chiese sono attaccate dagli eretici e difese dai cattolici, la fede di Cristo ribolle nel cuore di molti, ma è tiepida in qualcuno, le chiese sono arricchite dai devoti o spogliate dai malvagi – e non si trovava nessun grammatico capace di scrivere bene e di raccontare tutto questo, in prosa o in versi. Tutti si lamentano, dicendo «Guai alla nostra epoca, perché lo studio delle lettere qui da noi è morto, e non si trova da nessuna parte un retore che possa far conoscere sulla pagina gli avvenimenti del presente». Io ho pensato che tutto questo era vero, e affinché gli uomini del passato siano ricordati, e notizia di loro arrivi a quelli del futuro, anche se non so scrivere bene non ho voluto nascondere né i conflitti dei criminali né la vita di chi vive secondo giustizia. Mi ha spinto a farlo soprattutto una cosa che spesso ho sentito dire dalla nostra gente e per cui mi sono sempre stupito: che «il retore che fa filosofia lo capiscono in pochi, ma il contadino che parla lo capiscono tutti».



Le città

La trasformazione delle città, che oggi conosciamo particolarmente bene grazie agli scavi archeologici, è il sintomo più evidente di un declino economico che è anche un cambiamento di civiltà. Poche grandi città romane vennero del tutto abbandonate, e quasi nessuna venne distrutta dai barbari, ma tutte videro ridursi il numero dei loro abitanti. I grandi porti del Mediterraneo avvizzirono, ora che i commerci con l’Oriente e con l’Africa erano quasi scomparsi. L’edilizia monumentale era solo un ricordo di quella antica: Teodorico a Ravenna, i re visigoti a Toledo, i re longobardi a Pavia, i papi a Roma costruivano o restauravano basiliche e mausolei, ma tutt’intorno il legno e la paglia sostituivano la pietra, i mattoni e le tegole. Anche così rimpicciolite e immiserite, le città rimasero comunque la residenza dei vescovi e anche di molti aristocratici, soprattutto in Italia. Le comunità di cittadini rimasero forti e orgogliose e conservarono le tradizioni civiche, che si coloravano sempre più in senso cristiano: il vescovo era sentito come il vero capo della città, e la comunità si raccoglieva intorno al culto del santo protettore e delle sue reliquie. Intanto, là dove le città romane non esistevano, sulle coste della Manica e del Mare del Nord, cominciavano a nascere agglomerati nuovi, gli empori, abitati non da chierici e nobili, ma da mercanti che commerciavano con l’Inghilterra e la Scandinavia. Queste città di nuovo genere annunciavano un’epoca in cui il Nordeuropa sarebbe stato più ricco e dinamico rispetto alle regioni affacciate sul Mediterraneo.

1. Quali fattori culturali contribuirono al decadimento del livello di vita dell’aristocrazia? 2. Com’erano organizzate le comunità cittadine?

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

Mausoleo di Teodorico VI sec. Ravenna Teodorico è ricordato come un grande sovrano costruttore: sotto il suo governo molti edifici trovarono nuovi assetti grazie a opere di restauro, come a Roma, mentre altri edifici furono inaugurati, soprattutto a Ravenna, dove si edificarono splendide chiese, come quella di Sant’Apollinare. A Ravenna Teodorico fece erigere anche un mausoleo reale per conservare le sue esequie: costruito con pietra d’Istria, materiale pregiato che si distanziava dalla più comune pietra adoperata in questo periodo, il mausoleo ricorda nello stile i grandi sepolcri romani.



Sant’Apollinare VI sec. Particolare del mosaico absidale; Basilica di Sant’Apollinare in Classe, Ravenna Sant’Apollinare fu il primo vescovo della Chiesa ravennate e ancora oggi è il santo patrono della città; questo mosaico del catino absidale lo ritrae orante nel giardino paradisiaco, nell’iconografia tipica del pastore di anime a guida del suo gregge.

9. Una società vischiosa

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Vincoli di dipendenza

La società dei regni romano-barbarici era caratterizzata dalla grande diffusione dei legami personali. Non parliamo qui dei legami familiari, che pure erano molto importanti: presso certi popoli, un uomo non poteva neppure vendere la sua terra senza il consenso dei parenti, ed era ancora ai parenti che spettava la vendetta se qualcuno subiva un’offesa. Ma ancor più tipici dei legami familiari erano i vincoli di dipendenza o di clientela: a tutti i livelli sociali, la maggior parte della gente era legata a qualcun altro da obblighi, ereditati alla nascita oppure scelti volontariamente. In cambio di questi obblighi si otteneva nutrimento e protezione, e si capisce che fosse un vantaggio enorme in un’epoca violenta, in cui lo Stato e la legge garantivano solo fino a un certo punto la sicurezza personale. Vediamo con ordine, partendo dal basso, com’era articolata la società e qual era la natura dei vincoli di dipendenza e di clientela. Fra i contadini che lavoravano i campi dei ricchi, molti erano schiavi, e quindi erano considerati proprietà personale del padrone. Rispetto al mondo antico la loro condizione era migliorata: la Chiesa li considerava dei fedeli con un’anima, e non delle cose; i padroni non avevano più il diritto di vita e di morte su di loro, e dovevano rispettare il loro matrimonio e permettere loro una vita familiare. Ma

cittadinanza La disuguaglianza davanti alla legge

Il principio fondamentale del diritto, oggi, è che «la legge è uguale per tutti». Non è un principio antico: come abbiamo già ricordato [cfr. cittadinanza, p. 120], in Italia è stato affermato per la prima volta sulla scorta della Rivoluzione francese, e poi ribadito dal Risorgimento. Prima di allora, nessuno pensava che la legge dovesse essere uguale per tutti; e non solo per via dei privilegi riconosciuti al clero. Nell’antica Roma c’era una legge per i cittadini romani, una per i cittadini delle città alleate – il cosiddetto diritto latino – e una per gli indigeni delle province conquistate, i peregrini. Dopo l’editto di Caracalla del 212 tutti gli abitanti dell’impero ricevettero la cittadinanza romana, ma le leggi emanate dagli imperatori cominciarono subito a distinguere fra le persone più ricche e importanti, gli honestiores, e la gente qualunque, gli humiliores; ai primi la legge garantiva apertamente ogni sorta di privilegi, simili a quelli che un tempo spettavano ai cittadini romani, mentre gli altri potevano essere arrestati, torturati e condannati a pene infamanti come se fossero stati schiavi.

192

Parte VII Il mondo romano-barbarico

Nei regni romano-barbarici la differenza delle persone venne codificata in modo ancora più preciso, perché c’era un problema nuovo, sconosciuto al diritto romano: fissare il guidrigildo, cioè il risarcimento che doveva pagare chi aveva ucciso un uomo, per ristabilire l’onore della vittima ed evitare la vendetta dei parenti. Al livello più basso della società, gli schiavi non erano neppure compresi nel sistema del guidrigildo: per loro non c’era nessuna vendetta, e non si pagava un risarcimento d’onore ai parenti, ma un rimborso al padrone per il danno subito. Ma fra i liberi il principio più importante era la disuguaglianza: il guidrigildo era fissato a un livello minimo per aldii e altri semiliberi, a un livello medio per i comuni uomini liberi, a un livello alto per i funzionari e i comites (‘compagni’) del re o per i membri della sua trustis, gli antrustioni. All’inizio, quando Romani e barbari convivevano senza essersi ancora fusi in un unico popolo, la disuguaglianza era fissata anche su base etnica: le leggi dei Franchi prevedevano che un Romano potesse essere un uomo importante e anche un “compagno” del re, ma il suo guidrigildo era sempre più basso rispetto a quello di un Franco dello stesso livello sociale.

 «A marzo si vanga e si semina» e «A luglio si taglia il bosco» XI sec. Dal ms. Cotton Jul. A VI ff. 4r-5v; British Library, Londra Queste due miniature, che corredano un manoscritto dell’XI secolo, illustrano alcune delle attività svolte nei poderi dai contadini. La prima fa riferimento ai lavori di aratura e semina, praticate nei mesi primaverili, la seconda illustra un’operazione di disboscamento, svolta nel periodo estivo.

pur con queste garanzie gli schiavi dipendevano comunque in tutto e per tutto dalla volontà del padrone, il dominus, come si diceva in latino. Poi c’erano i moltissimi contadini che, senza essere formalmente schiavi, non erano però considerati veri uomini liberi: facevano parte di questa categoria i coloni, che la legge obbligava a ubbidire al padrone e che non potevano andarsene dal latifondo senza il suo permesso, e soprattutto i liberti. Come si ricorderà [cfr. scheda, p. 58], i liberti esistevano già nell’Antichità, ed erano gli schiavi che il padrone aveva liberato; era una pratica molto diffusa anche nei regni romano-barbarici, anzi più diffusa di prima, perché la Chiesa la incoraggiava, considerandola una delle più importanti opere buone che un ricco potesse fare. Ma proprio per spingere i padroni a liberare i loro schiavi il più spesso possibile, si era introdotta una nuova modalità di liberazione, in base alla quale l’ex schiavo divenuto liberto doveva continuare per tutta la vita, lui e i suoi discendenti, a lavorare per il padrone e per i suoi eredi. Si creava insomma un vincolo perpetuo, ereditario, fra dipendenti e padroni. I vari popoli germanici avevano dei termini specifici per designare questi dipendenti ereditari: i Longobardi, per esempio, li chiamavano aldii, mentre oggi gli storici li chiamano spesso con un termine inventato, “semiliberi”.

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

193

Vincoli di clientela

Il vero uomo libero, nella società romano-barbarica, era soltanto colui che possedeva un po’ di terra sua, e quindi non doveva lavorare sotto padrone, pagava le imposte e poteva andare in guerra quando il re convocava i suoi guerrieri. Ma anche fra i liberi erano molto diffusi dei legami personali, che venivano chiamati col termine di commendatio (è la stessa radice della nostra “raccomandazione”). I vincoli di raccomandazione non erano ereditari e imposti dalla nascita, ma potevano essere scelti liberamente, e quindi non erano sentiti come una macchia, ma al contrario erano onorifici e prestigiosi. La commendatio consisteva nel fatto che un uomo libero si presentava, o veniva presentato dai genitori, al re o a un altro uomo importante, e si metteva al suo servizio dopo avergli giurato fedeltà. Era un legame che oggi chiameremmo clientelare, ed era diffusissimo: chiunque volesse fare carriera al servizio del re o dei grandi funzionari del regno doveva passare di lì. La solidità del legame variava da un popolo all’altro: presso i Goti chi si era raccomandato poteva liberamente scegliersi un altro protettore quando gli faceva comodo; presso i Franchi, invece, l’ingresso in una clientela era vincolante per tutta la vita. Un tipo particolare di raccomandazione era quello che creava, attorno al re e agli altri capi, un gruppo di guerrieri domestici, che avevano giurato fedeltà al capo, vivevano in casa sua, mantenuti da lui, ed erano pronti a dare la vita per lui in battaglia. I Franchi chiamavano questo gruppo di fedeli trustis, una parola in cui riconosciamo la stessa radice del verbo inglese to trust, che significa appunto ‘fidarsi’. Il capo di un gruppo di guerrieri, o più in generale di una clientela di raccomandati, veniva invece chiamato “il vecchio”, in latino senior; da qui deriva la nostra parola signore. Dovremo ricordarci dei legami clientelari creati dalla raccomandazione, e della fedeltà guerriera della trustis, quando più avanti cominceremo a parlare di signori e vassalli, in una parola di feudalesimo [cfr. cap. 20].

1. In che modo era cambiata la figura del liberto rispetto all’Antichità? 2. Chi erano i cosiddetti guerrieri domestici?

10. La barbarizzazione del cristianesimo

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Il battesimo di massa

La conversione dei barbari pagani al cristianesimo, dopo il loro ingresso sul suolo romano, e la conversione dei barbari ariani al cattolicesimo si verificarono con modalità molto diverse rispetto alla conversione della popolazione romana, che era avvenuta in modo graduale e su base individuale. Per secoli i Romani che si erano convertiti al cristianesimo avevano fatto una scelta minoritaria e pericolosa, che rischiava di attirare su di loro le persecuzioni del governo. Dopo l’editto di Milano del 313 e la conversione di Costantino la situazione si ribaltò [cfr. cap. 15.1]: convertirsi al cristianesimo divenne la scelta più facile e comoda per un suddito dell’impero, e dopo l’editto di Teodosio del 380 divenne addirittura obbligatorio [cfr. cap. 16.1]. In ogni caso, aderire al cristianesimo, in una delle molte varianti possibili, oppure restare ostinatamente fedele ai vecchi culti – come fecero alcuni senatori di idee conservatrici e anche molti contadini nelle campagne più sperdute – rappresentò sempre una scelta individuale.

194

Parte VII Il mondo romano-barbarico

I barbari stanziati su suolo romano non dovevano obbedire alle leggi dell’impero ed erano liberi di fare quel che volevano. Erano però soggetti alla pressione politica e culturale della Chiesa, che alla fine trionfò: i vescovi cattolici convinsero i barbari ancora pagani, come i Franchi, ad adottare il cristianesimo, e convinsero i barbari di fede ariana a passare al cattolicesimo. Ma solo raramente si trattò di conversioni individuali: la Chiesa mirava a conversioni collettive, cioè a ottenere la conversione di un intero popolo in un sol colpo, e per ottenere questo risultato faceva pressione innanzitutto sui re. Infatti i barbari attribuivano ai loro re un rapporto diretto con le potenze celesti, ed era responsabilità dei re garantire la prosperità del popolo indicando il modo migliore di soddisfare quelle potenze. Se il re dichiarava che non bisognava più seguire i vecchi dèi ma adorarne uno nuovo, il Cristo dei Romani, c’era bensì il rischio di suscitare malessere e ribellioni, ma gran parte del popolo era disposta a dargli fiducia: così, per esempio, la conversione di Clodoveo provocò come conseguenza il battesimo di tutti i Franchi. Scegliere il dio più potente

È chiaro a questo punto che per i barbari convertirsi al cristianesimo non significava accettare nuovi valori: per questo sarebbe stato necessario un processo di accostamento individuale e libero alla nuova fede, mentre quello che accadde fu il battesimo in massa di interi popoli. Passare alla fede di Cristo significava scegliere un dio che si era dimostrato più potente dei vecchi dèi, più capace di proteggere e di ricompensare i suoi seguaci; e la Chiesa lo sapeva benissimo. Nel VI secolo, il cronista Gregorio di Tours, che era egli stesso un vescovo, racconta che la moglie di Clodoveo, la regina Clotilde, era già cristiana e cercava di convertire il marito; ma quali erano i suoi argomenti? La regina spiegava al re che gli dèi adorati dai Franchi non valevano niente, perché non potevano aiutarli, dal momento che erano soltanto degli idoli di pietra o di legno, mentre il Dio dei cristiani era potentissimo. Clodoveo rispondeva che non era vero, che non gli risultava

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

 Codex Argenteus V-VI sec. Biblioteca dell’Università, Uppsala, Svezia Discendente di Greci cristiani fatti schiavi dai Goti e poi integrati nella società gotica a Nord del Danubio, Ulfila (in gotico, ‘lupetto’) studiò nel IV secolo a Costantinopoli, dove fu ordinato vescovo con l’incarico di andare a convertire i Goti ancora pagani. Ulfila, che era un cristiano ariano, tradusse le Sacre Scritture in lingua gotica e inventò un alfabeto per scriverla. Il Codex Argenteus comprende una parte del Nuovo Testamento, ed è scritto con inchiostro d’argento su pergamena color porpora, il colore riservato all’imperatore. Probabilmente fu realizzato nell’Italia d’inizio VI secolo per ordine del re Teodorico.

195

San Benedetto Nel corso del VI secolo si sviluppò un’importante esperienza di riforma del movimento monastico, dovuta a Benedetto da Norcia, fondatore dei monasteri di Subiaco e Montecassino, non lontano da Roma. Per i suoi monaci Benedetto compose una nuova regola, riprendendo e ampliando una precedente regola anonima, conosciuta come la Regula magistri. La regola benedettina si riassume di solito nella formula notissima ora et labora, prega e lavora. In realtà i seguaci di Benedetto continuavano a dedicarsi innanzitutto alla preghiera, com’era dovere di tutti i monaci; gran parte del giorno e della notte erano occupati da una ricca liturgia, e solo nei momenti lasciati liberi dalla preghiera i monaci, per evitare l’ozio, erano invitati a dedicarsi allo studio o al lavoro. La vera novità della regola benedettina era piuttosto un’altra: rispetto alle regole precedenti, era ispirata alla moderazione, ed evitava gli eccessi di ascesi e di penitenza. Insomma non era pensata per chi voleva vivere un’esperienza estrema, ma per un movimento ormai istituzionalizzato e diffuso. Proprio per questo ebbe grande successo, e diventò rapidamente la regola più seguita e imitata nei monasteri dell’Occidente. Papa Gregorio Ma-

196

Parte VII Il mondo romano-barbarico

gno favorì e protesse il monachesimo benedettino, e scrivendo la Vita di Benedetto contribuì a rendere popolare la sua figura: tanto che nel sentire comune Benedetto è considerato un po’ il padre del monachesimo, benché i monaci, al suo tempo, esistessero già da diversi secoli.



Un’abbazia benedettina Disegno ricostruttivo di D. Spedaliere Basato sui risultati di un lungo scavo archeologico, il disegno ricostruisce l’aspetto dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno, in Molise, nell’820-830, dopo i grandi lavori di costruzione e ampliamento intrapresi con il sostegno di Carlo Magno e dei suoi successori. Oltre alla grande chiesa, l’abbazia è costituita da una serie di edifici collegati da lunghe ali a portico. Si notino vicino alla chiesa le officine specializzate nella produzione di oggetti di ceramica, vetro e bronzo, la grande lavanderia circolare con il tetto in paglia situata in mezzo ai portici e le cucine collocate di fronte al fiume.

che il Dio dei cristiani fosse davvero così potente. Clotilde, riferisce con approvazione Gregorio, cercava di convincerlo anche adornando la chiesa con sontuosi tendaggi, per fargli toccar con mano la grandezza del Dio cristiano: si trattava insomma di impressionare i barbari e farli restare a bocca aperta, non di agire sulle loro coscienze. E infatti Clodoveo si convertì quando ebbe l’impressione che il Dio dei cristiani fosse davvero più potente dei suoi dèi nazionali. Durante la decisiva battaglia di Tolbiac [cfr. par. 1], combattuta contro gli Alamanni, i Franchi stavano perdendo, e il re si convinse che i suoi dèi lo avevano abbandonato: per disperazione si mise a pregare Cristo, garantendo che se avesse sperimentato la sua protezione si sarebbe fatto battezzare. I Franchi vinsero la battaglia, e Clodoveo mantenne la parola, sicuro di essersi messo dalla parte del dio più forte. Il cristianesimo praticato dalla società romano-barbarica risentì fortemente di questa mentalità poco interessata agli aspetti spirituali. A partire dal 600 circa, i contatti culturali coll’Oriente si interruppero, il clero occidentale fu sempre meno colto, i concili si riunirono più raramente, la discussione teologica – che in Oriente continuava ad alto livello – si inaridì. I fedeli, in larghissima maggioranza analfabeti e non più guidati, salvo rare eccezioni, da un clero preparato, ebbero sempre meno coscienza della complessità spirituale del messaggio cristiano, e il loro cristianesimo si ridusse a un nocciolo elementare: la fede cieca in un Dio onnipotente che avrebbe salvato i suoi amici e sterminato i loro nemici.

 Il battesimo di re Clodoveo IX sec. Museo della Piccardia, Amiens Clodoveo, re dei Franchi, si convertì al cristianesimo all’inizio del VI secolo, e fu battezzato a Reims. Oltre due secoli dopo i re dei Franchi introdussero nella loro incoronazione il rituale dell’unzione con l’olio santo. Nel IX secolo, sotto il regno dell’imperatore Carlo il Calvo, l’arcivescovo di Reims, Incmaro, scrisse che in occasione del battesimo di Clodoveo il re era stato unto con l’olio santo, portato in un’ampolla da una colomba mandata da Dio: la vediamo in questo bassorilievo scendere proprio sopra la testa del re. Era un modo per affermare, ben al di là dei fatti storici, l’assoluta continuità della monarchia franca attraverso i secoli.

1. Come fu possibile per i vescovi procedere a conversioni collettive dei popoli barbari? 2. Quale peculiare sviluppo ebbe la fede religiosa quando furono recisi i legami con l’Oriente?

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

197

America e Africa dal III al VII secolo In America A partire dal III secolo si assiste in America alla piena fioritura di due grandi civiltà messicane, la civiltà di Teotihuacan e la civiltà dei Maya. Entrambe presentano le caratteristiche che rimarranno poi tipiche di tutte le civiltà precolombiane, come la concentrazione della popolazione in grandi città, il culto di divinità come il Serpente Piumato e il Dio della Pioggia, l’edifi-



Altri

Il dio delle tempeste e del fulmine VI-VIII sec. Copàn, Honduras Questo rilievo, risalente al periodo classico maya, mostra un essere mostruoso assimilabile al dio delle tempeste e del fulmine. I fenomeni atmosferici erano associati a esseri divini; in particolare il dio della pioggia Chac assunse un ruolo principale all’interno del pantheon maya.



La Piramide del Sole a Teotihuacan I-III sec. Valle di Anahuac, Messico La colossale struttura a quattro corpi, che misurava un’altezza complessiva di oltre 75 metri, venne edificata al di sopra di una grotta naturale, indicando la preesistente valenza sacra del luogo.

Parte VII Il mondo romano-barbarico

h

cazione di immensi templi a forma di piramide, la pratica del sacrificio umano. La grande città di Teotihuacan, sorta nel I e II secolo non lontano dall’attuale Città del Messico, rimase la più popolosa città d’America e una delle più grandi del mondo, con forse addirittura 200.000 abitanti, fin dopo il 500. Non sappiamo se fosse la capitale di un impero e neppure quali popoli vi abitassero, perché le fonti di cui disponiamo sono esclusivamente archeologiche; è probabile che fosse una metropoli multietnica, che esercitava un’influenza economica e culturale su tutto il Centroamerica. Il suo declino, nel VI e VII secolo, fu dovuto probabilmente a un cambiamento climatico che inaridì la regione, oltre

huacan

che a rivolte interne che distrussero il gruppo dirigente della città: i templi e i palazzi infatti portano tracce di incendio, il resto della città no. Nella stessa epoca si ha la grande fioritura della civiltà maya, organizzata in città-stato indipendenti tra il Chiapas e la penisola dello Yucatan. Le sue prime tracce risalgono già al 500 a.C., ma è nel periodo dal 250 al 900 d.C., considerato il “periodo classico” dei Maya, che questo popolo conosce il massimo sviluppo culturale, in particolare nel campo dell’arte e dell’astronomia. In questi secoli i Maya, unici fra i popoli dell’America precolombiana, sviluppano un completo sistema di scrittura di tipo geroglifico, combinando pittogrammi, cioè segni con

valore simbolico, e segni sillabici. Nei vasti spazi dell’America del Nord e del Sud la popolazione umana è invece ancora perlopiù nomade e le condizioni di vita sono preistoriche, con manufatti di pietra e d’osso e la caccia come risorsa principale.

In Africa In Africa i primi secoli dell’era cristiana videro lo sviluppo del regno di Axum, in quella che è oggi l’Etiopia [cfr. altri mondi, pp. 70 sg.]. Affacciato sul Mar Rosso, il regno era al centro di un’importante rete di scambi commerciali fra l’Oceano indiano e il Mediterraneo. Un evento decisivo fu la conversione del re di Axum e del suo popolo al cristianesimo, a opera di

missionari greco-siriani, intorno al 350: nasceva così l’unico Stato cristiano in Africa al di fuori dell’impero romano. Nel VI secolo il regno etiopico di Axum era così potente da espandersi fino alla penisola arabica, da dove però fu respinto dai Persiani, entrando in un periodo di decadenza. Il declino fu poi accentuato nel VII secolo dalle grandi conquiste arabe (ne parleremo nel prossimo capitolo), che strapparono agli etiopici il controllo dei commerci del Mar Rosso e li respinsero verso gli altipiani dell’interno. Più a sud continuava la grande espansione dei popoli bantù, che in quest’epoca raggiunse il Sudafrica, anche se in assenza di fonti scritte non è possibile saperne di più.

Teotihuacan

Massima espansione della civiltà maya Diffusione della lingua bantù Regno di Axum

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

199

SINTESI 1. Dalla deposizione di Romolo Augustolo alla morte di Teodorico Dal 476 l’Occidente si frantumò in regni autonomi. Grazie a un accordo con l’imperatore Zenone, il re dei Goti, Teodorico, invase l’Italia e nel 493 uccise e sostituì Odoacre. Teodorico mantenne l’amministrazione e le leggi romane. Nonostante alcune tensioni che contrapposero i Goti ariani ai Romani cattolici, la convivenza tra i due popoli fu pacifica. Nel Nord della Gallia i Franchi, riunificati da Clodoveo, davano vita a un potente regno. Clodoveo sottomise tutta la Gallia, conquistò il territorio degli Alamanni e fece convertire tutto il suo popolo al cattolicesimo. L’unico fattore di debolezza era rappresentato dalla successione dinastica, che prevedeva la ripartizione del regno tra tutti i discendenti. Alla morte del re il regno fu spartito fra i figli. Con Clodoveo ebbe inizio la dinastia merovingia.

2. L’età di Giustiniano Nel 527 fu coronato imperatore Giustiniano, uno dei più importanti sovrani della storia romana. In politica estera Giustiniano perseguì il progetto di riconquista dell’Occidente. Nel volgere di trent’anni (532-562) l’Africa, l’Italia e parte della Spagna tornarono sotto il controllo dell’impero, mentre nei Balcani e sul Mar Nero premevano Àvari e Slavi. Nonostante queste grandi conquiste, l’enorme lavoro di codificazione del diritto romano (Corpus Iuris Civilis) e i grandi lavori edilizi, alla morte di Giustiniano (565) l’impero non era né prospero né pacificato. Gli alti costi delle campagne militari avevano innalzato la riscossione fiscale e impoverito la popolazione; l’Italia usciva devastata economicamente e socialmente dalla guerra trentennale contro i Goti e, come se non bastasse, le epidemie di peste spopolarono l’impero e ne rovinarono l’economia.

3. L’invasione longobarda dell’Italia e il papato di Gregorio Magno Nel 568 la Pianura Padana fu invasa dai Longobardi di re Alboino, una popolazione germanica proveniente dalla Pannonia. Dopo alcuni anni di lotte fra i vari capi, fu con re Autari (584) che si ricostituì un regno sostanzialmente unitario, con entità territoriali subordinate al re e con a capo i duchi. In poco tempo i Longobardi avanzarono in quasi tutta l’Italia centro-meridionale. Gran parte delle coste e le isole rimasero, invece, in mano all’impero. Anche Roma rimase formalmente nelle mani di Costantinopoli, ma in realtà a comandare era il papa. Con papa Gregorio Magno, Roma e il cosiddetto “Patrimonio di san Pietro” cominciarono a funzionare come uno Stato autonomo. A Gregorio Magno si deve anche la progressiva conversione dei popoli barbari al cattolicesimo.

4. L’Occidente tra VII e VIII secolo Nel VII secolo l’economia e la cultura in Occidente toccarono forse il punto più basso. Nelle antiche province occidentali romane si erano installati tre regni indipendenti: il regno franco in Gallia, il regno goto in Spagna, il regno longobardo in Italia. All’inizio dell’VIII secolo mutò il quadro politico. L’invasione arabo-musulmana pose fine al regno goto. I Franchi, dopo aver frenato l’espansione araba, rafforzarono il proprio potere unificando il paese in un unico regno grazie alla spinta impressa da Carlo Martello, “maggiordomo” del regno. Anche i Longobardi avevano consolidato i propri domìni, strappando nuovi territori ai Bizantini. Allo stesso tempo il papa di Roma rafforzava il potere spirituale e il carisma pontifici in Occidente, distaccandosi sempre più da Costantinopoli.

5. Da funzionari dell’imperatore a re indipendenti I re barbari si trovarono a governare su di una popolazione formata principalmente da Romani. All’inizio la loro legittimazione derivava dai patti stipulati con il potere imperiale ed essi stessi erano visti come una sorta di funzionari imperiali. Con il tempo, però, il legame con l’impero e la sua amministrazione si fece sempre più tenue. I latifondisti, le autorità ecclesiastiche e, in generale, la popolazione preferirono l’autonomia regionale all’obbedienza a un imperatore lontano. La Chiesa considerava il re – e già tutti i re erano cattolici – come suo capo e protettore, e i re, a loro volta, si assunsero il compito di garantire la religione e la morale cattolica. Il re era diventato il sovrano di uno Stato più piccolo, rispetto all’impero romano, e totalmente indipendente.

6. Fra civiltà romana e cultura barbarica Per un certo periodo continuò a sopravvivere l’amministrazione romana e, in parte, la civiltà antica. Con il tempo, però, si ridussero tanto la circolazione monetaria, quanto la circolazione e la fruibilità della cultura, mentre l’assimilazione tra i barbari e la popolazione locale si fece totale. L’apparato dello Stato si fece più debole e la partecipazione della società alla gestione del potere più ampia. Al centro del regno vi erano il re e la sua corte – il “palazzo” – e vi erano personaggi scelti dal re al comando di città e province. Alcuni di questi, i duchi, erano quasi indipendenti e si trasmettevano il potere di padre in figlio; altri, i conti, erano nominati dal re e sostituiti a suo piacimento. Le funzioni erano svolte in maniera più elementare e brutale rispetto all’amministrazione romana, e la giustizia era gestita d’accordo con le comunità locali.

200

Parte VII Il mondo romano-barbarico

7. Leggi etniche e diritto romano I barbari avevano leggi differenti rispetto a quelle codificate nel diritto romano. Erano differenti, per esempio, le leggi concernenti le donne o quelle che regolavano i matrimoni. L’accertamento dei reati era spesso affidato a giuramenti o, con la conversione al cristianesimo, al giudizio di Dio. I delitti di sangue erano considerati questione private e la legge interveniva solo a fissare un risarcimento adeguato per evitare annose faide. Nel periodo in cui le diverse etnie coabitarono sullo stesso territorio, ciascuna rispettava le proprie leggi (“personalità del diritto”), pur influenzandosi a vicenda. Dall’VIII secolo, comunque, tutta la popolazione di un regno seguiva la legge dell’etnia dominante, mescolata al diritto romano.

8. Un’economia stagnante Nell’epoca dei regni romano-barbarici l’economia conobbe un netto declino, seguito da una lunga stagnazione. Le guerre, le epidemie e le carestie avevano decimato la popolazione. Alla base della ricchezza vi era sempre la grande proprietà terriera e specialmente in Gallia le élite romano-barbariche erano piuttosto ricche. In Italia, invece, la grande proprietà era in declino. In generale, però, si assistette a un abbassamento del livello di vita dei più ricchi, dovuto tanto a ragioni economiche, quanto a ragioni culturali. Nelle città si ridusse il numero di abitanti e non si edificarono complessi monumentali pari a quelli del passato. Le comunità cittadine erano guidate dal vescovo e si raccoglievano intorno al culto del santo protettore e delle sue reliquie.

9. Una società vischiosa La società era caratterizzata dalla grande diffusione dei legami personali, che potevano essere di dipendenza o clientelari. I legami di dipendenza erano quelli alla base dei rapporti di schiavi, liberti e coloni con i proprietari terrieri. Gli uomini liberi si legavano al re o agli uomini più importanti mediante un vincolo di raccomandazione, la commendatio. Questo era un vincolo clientelare e, spesso, era scelto liberamente. Un tipo particolare di commendatio era quello che vincolava i guerrieri domestici al loro signore: essi giuravano fedeltà al capo ed erano da lui mantenuti.

10. La barbarizzazione del cristianesimo Anche il sentimento religioso fu influenzato dall’incontro con la cultura barbarica. A differenza di quanto avvenuto con i Romani, la conversione dei barbari fu una questione di massa. Le adesioni non avvennero in maniera individuale, ma collettiva. Questo era dovuto all’influenza che i re esercitavano sul proprio popolo, ma spesso per convincere i re bisognava dimostrare la potenza del Dio cristiano rispetto a quelli pagani. Il cristianesimo praticato dalla società romano-barbarica risentì di questa mentalità poco spirituale. Questo fattore, oltre che la fine degli scambi con l’Oriente, portarono a rendere il clero occidentale meno colto e a inaridire la discussione teologica.

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

201

ESERCIZI Gli eventi 1. Completa la frase con l’espressione che ritieni corretta: 1) Il Corpus Iuris Civilis... ❏ a) raggruppava l’insieme delle leggi barbare e di quelle romane; ❏ b) raccoglieva l’insieme delle sentenze emesse dai tribunali ecclesiastici; ❏ c) raccoglieva le leggi, le sentenze e i commenti relativi al diritto romano; ❏ d) era il codice di leggi che regolava i vincoli di clientela e dipendenza. 2) La politica religiosa di Giustiniano... ❏ a) favorì la diffusione in tutto l’impero della dottrina ariana; ❏ b) fu caratterizzata dall’intransigenza cattolica; ❏ c) era tesa a favorire il ritorno ai vecchi culti pagani; ❏ d) era ispirata dal principio di tolleranza verso tutte le confessioni. 3) Per khanato si intende lo Stato governato... ❏ a) dagli Slavi nella regione balcanica; ❏ b) dai Vandali nel Nordafrica; ❏ c) dagli Àvari nella regione del Mar Nero; ❏ d) dai Longobardi in Pannonia. 4) Con papa Gregorio Magno... ❏ a) la Chiesa riannodò stretti legami con l’impero d’Oriente; ❏ b) la Chiesa strinse un patto indissolubile con i re longobardi; ❏ c) fu risolto il secolare dissidio tra cattolici e ariani; ❏ d) Roma e i suoi territori cominciarono a funzionare come Stato autonomo. 5) Il titolo di gastaldo si riferiva... ❏ a) al primo ministro che governava il regno franco; ❏ b) al comandante dei guerrieri domestici fedeli al re; ❏ c) all’ecclesiastico a capo delle piccole comunità cittadine; ❏ d) ai capi longobardi nominati dal re al governo delle province. 6) Nell’epoca dei regni romano-barbarici le città... ❏ a) vennero quasi del tutto abbandonate; ❏ b) videro ridursi il numero dei loro abitanti; ❏ c) conobbero un periodo di grande prosperità economica; ❏ d) rifiorirono grazie alle grandi opere di edilizia monumentale.

202

Parte VII Il mondo romano-barbarico

Le coordinate spazio-temporali 2. Completa le seguenti frasi con le informazioni mancanti, quindi ordinale cronologicamente e inserisci nella linea del tempo le lettere corrispondenti, così come mostrato nell’esempio: a) Il regno dei ............................................................. in Spagna fu travolto dall’invasione degli ............................................................., che sconfissero il re Rodrigo e si impadronirono dell’intera ............................................................. b) Il generale bizantino ............................................................... invase l’Africa, sconfisse i .............................................................. e riportò sotto il controllo imperiale l’intera regione nordafricana. c) Teodorico, re degli ......................................................................., invase l’Italia e dopo una guerra, che si protrasse fino al .................................................................., sconfisse e sostituì il re ............................................................. d) Alla morte del re Teodorico IV Carlo Martello, ........................................................................... del regno, non permise di incoronare un successore e governò personalmente il ............................................................. fino alla sua morte. e) Dopo una lunghissima guerra, terminata nel 553, l’imperatore bizantino ............................................................. sconfisse i ................................................................ e riportò sotto il controllo dell’impero i territori italiani. f) Nella battaglia di .............................................................. il re franco ............................................................. sconfisse e sottomise gli Alamanni. g) I .................................................................., guidati dal re Alboino e provenienti dalla ................................................................, invasero l’Italia spingendosi fino alla ............................................................. h) La decisione dell’imperatore .................................................................. di abolire la Chiesa .................................................................... ebbe ripercussioni gravi per i cattolici che vivevano sotto il re goto ............................................................. i) I Franchi guidati da ............................................................... sconfissero gli Arabi nella battaglia di .............................................................. e ne frenarono l’avanzata in Europa. j) Giustiniano decise di intraprendere la riconquista della ............................................................., ma la campagna si esaurì per ............................................................ e il regno visigoto sopravvisse.

a

489

533

496 493

524

535

732

568

553 554

711

737

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

203

Il confronto 3. Seguendo l’esempio fornito, indica con una crocetta a quale dei seguenti popoli barbari corrispondono le informazioni elencate (attenzione! Alcune affermazioni possono valere per più di un popolo):

Franchi Furono i primi a convertirsi in massa al cattolicesimo

Visigoti

Longobardi

x

Il loro era il regno più piccolo e più debole tra quelli romano-barbarici. Il loro fu il regno nel quale l’amministrazione romana si conservò più a lungo. Nel loro regno vigevano la Legge Salica e la Legge Ribuaria. Nel VII secolo era il regno romano-barbarico territorialmente più unito. Nel loro regno vi erano ancora divisioni tra ariani e cattolici. La loro aristocrazia era piuttosto ricca. Il loro re traeva risorse soprattutto dalle proprietà terriere appartenenti alla corona. Con il termine mundio indicavano la tutela dei parenti maschi a cui erano sottoposte le donne. Nel loro regno erano molto diffusi i legami di dipendenza e di clientela.

Il lessico 4. Collega i termini e le espressioni elencati alle definizioni corrispondenti: Termini

Definizioni

a) Personalità del diritto:

1) Termine che indicava l’insieme dei consiglieri e dei collaboratori del re.

b) Conte:

2) L’uomo di fiducia a cui il re franco affidava il comando delle truppe e la conduzione degli affari.

c) Palatium:

3) Prova fisica a cui l’accusato veniva sottoposto, che rappresentava, a seconda dell’esito, il giudizio di Dio sulla sua innocenza o colpevolezza.

d) Stagnazione:

4) Principio secondo il quale le leggi che si applicano sul territorio sono diverse a seconda del popolo a cui si appartiene.

e) Ordalia:

5) Uomo di fiducia scelto dal re per governare una città o una provincia, che passava il potere per via ereditaria.

f) Maggiordomo:

6) Legame clientelare che si stabiliva quando un uomo libero si metteva al sevizio e giurava fedeltà al re o a un personaggio importante.

g) Commendatio:

7) L’esercizio della vendetta da parte della vittima di un reato o di esponenti della sua famiglia.

h) Morgengab:

8) Capo nominato dal re per governare una città o una provincia e che poteva essere sostituito a piacimento del re.

i) Faida:

9) Il regalo che il marito longobardo faceva alla moglie il giorno dopo la prima notte di nozze, dopo aver comprovato la verginità della donna.

j) Duca:

10) Situazione di tendenziale esaurimento della crescita economica.

204

Parte VII Il mondo romano-barbarico

5. Completa la tabella relativa alla composizione della società dei regni romano-barbarici inserendo le informazioni mancanti:

Il re

Era percepito dal popolo come ............................................................................................ . Aveva intorno a sé consiglieri e collaboratori, il ........................................................... .

I duchi e i conti

Esercitavano tutte le ........................................................... . Non svolgevano un servizio fisso di ............................................................ , ma prelevavano derrate a seconda delle necessità. Amministravano la giustizia ........................................................... .

L’aristocrazia

Basava la propria ricchezza sulla ......................................................................... . Rispetto all’antica aristocrazia senatoria romana aveva ........................................................... .

Gli uomini liberi

Possedevano ................................................................. , pagavano le .................................................................... e potevano partecipare alle guerre. Stringevano liberamente ........................................................... .

I liberti

Sebbene fossero stati liberati ............................................................ , erano vincolati .............................................................. . Questo vincolo era ........................................................... .

I coloni

Erano obbligati dalla legge a ............................................................. e non potevano allontanarsi da ............................................................. in cui lavoravano senza permesso.

Gli schiavi

Continuavano a essere l’ultimo gradino della società, ma le loro condizioni ............................................................... anche grazie alla Chiesa che li considerava ........................................................... .

L’esposizione orale 6. Rispondi alle seguenti domande: 1) Nonostante i numerosi meriti, che bilancio è possibile fare del regno dell’imperatore Giustiniano? 2) Quali cambiamenti sono in atto tra VI e VIII secolo nella Chiesa, tanto al suo interno, quanto nei rapporti con il potere politico? 3) In che modo il cristianesimo fu influenzato dal contatto con la società romano-barbarica? 4) Il consolidamento dei regni barbarici segnò la scomparsa di ogni elemento della precedente civiltà romana? Perché? 5) In che modo era amministrata la giustizia in Occidente tra VI e VIII secolo? 6) Come si presentava l’Europa occidentale sotto il profilo economico, demografico e urbano?

Capitolo 17 I regni romano-barbarici

205

PARTE VIII

L’altra Roma

N

ei capitoli sul mondo romano-barbarico la nostra attenzione si è ristretta all’orizzonte geografico dell’Occidente, soprattutto dopo la fine del regno di Giustiniano, che nel VI secolo riuscì a riunificare per un breve periodo gran parte dell’impero. Ma mentre in Occidente si avviava la fusione fra i popoli barbari, convertiti al cristianesimo, e le popolazioni romane, la metà orientale e nordafricana dell’impero di Roma conobbe un destino completamente diverso: o meglio, due destini, perché all’inizio del VII secolo, con le grandi invasioni arabe, quel mondo si divise in due. Una prima metà, rappresentata da Balcani, Grecia e Anatolia, stretti attorno alla capitale Costantinopoli, la Seconda Roma, è quella in cui l’impero sopravvisse. Sopravviverà ancora a lungo, molto oltre la fine di questo manuale: Costantinopoli cadrà in mano ai “barbari”, che poi in quel caso erano crociati francesi e italiani, solo nel 1204, e poi una seconda volta, definitiva, nel 1453 (e stavolta i conquistatori saranno i Turchi). Fino al 1453 gli imperatori di Costantinopoli continueranno a definirsi orgogliosamente col titolo di “imperatore dei Romani”, anche se lo diranno in greco (basilèus tòn rhomàion), i territori da loro governati saranno conosciuti da tutti come “Romània”, e i popoli cristiani dell’impero, compresi i Greci, chiameranno sé stessi “Romani”. E a essere giusti quello era davvero l’impero di Roma, o meglio ciò che ne restava. Nei secoli si era trasformato, com’era inevitabile, ed era diventato un organismo diverso; sul piano culturale aveva conservato l’eredità greca della civiltà antica, assai più di quella latina; ma le sue leggi

continuavano a essere quelle dell’impero romano, codificate da Giustiniano, e seguite con molta più esattezza di quanto non accadesse nei regni romano-barbarici. Da noi è invalso l’uso di chiamare quell’impero con un nome che i suoi abitanti non avrebbero mai usato, “bizantino”, da “Bisanzio” che era l’antico nome di Costantinopoli. Per molto tempo, e un po’ ancora nell’uso comune, l’aggettivo “bizantino” ha avuto una valenza negativa: indicava una civiltà statica, estenuata, corrotta, priva di veri valori. Queste, diciamolo subito, sono tutte stupidaggini. Il mondo bizantino era diverso da quello occidentale, e se ne allontanava sempre di più, anche e soprattutto sul piano religioso, tanto che a un certo punto la Chiesa greca ruppe tutti i rapporti con la Chiesa latina; ma nel corso dei secoli ebbe una storia gloriosa e produsse una complessa civiltà. L’altra metà del mondo romano sopravvissuto alle invasioni barbariche venne strappata a Costantinopoli con un’altra mutilazione, ancora più traumatica: nel corso del VII secolo l’intero Vicino Oriente, l’Egitto e il Nordafrica vennero conquistati dagli Arabi musulmani. La nascita della religione islamica a opera del profeta Maometto e le grandi conquiste arabe sono uno dei fatti più importanti della storia, considerando che le loro conseguenze durano fino a oggi. Tutti quei paesi erano stati fino a quel momento integrati nell’ecumene romana, ma a partire da allora ebbero una propria storia, separata da quella dei paesi cristiani. Anche qui l’eredità dell’impero greco-romano non scomparve, anzi venne raccolta e rielaborata dalla grande civiltà araba; si trattava però quasi esclusivamente della cultura greca, non di quella latina. In questo senso anche l’impero creato dagli Arabi fu un’altra Roma, ma con differenze così profonde, in particolare sul piano religioso, da diventare rapidamente irriconoscibili.

Capitolo 18

La nascita dell’islam e le conquiste arabe 

Tessuto copto con la raffigurazione di Dioniso e Iside V sec. Musée du Louvre, Parigi Nell’Egitto cristiano le maestraenze copte riadattarono in chiave puramente decorativa alcuni elementi della mitologia pagana di tradizioni ellenistico-romana e anticoegiziana. Su questa stoffa, per esempio, sono raffigurati il dio greco Dioniso e la dea egiziana Iside.

208

1. Maometto e la nascita dell’islam

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Un evento carico di conseguenze

La nascita della religione islamica e le grandi conquiste degli Arabi sono gli eventi più importanti del VII secolo, e rappresentano una svolta decisiva nella storia del mondo. L’islam è la terza grande religione monoteista nata nel Vicino Oriente, dopo l’ebraismo e il cristianesimo, e oggi è in competizione con quest’ultimo per la posizione di fede religiosa più diffusa sulla Terra. La conquista araba del Vicino Oriente e del Nordafrica ha mutato per sempre la geografia del mondo mediterraneo. Prima di allora quelle regioni erano state profondamente influenzate dalla cultura greca, assorbite nell’impero romano e convertite al cristianesimo: la storia di paesi come la Siria, l’Egitto o la Tunisia era inseparabile da quella dei paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo, come l’Italia. La fulminea conquista araba, avvenuta nel corso del VII secolo, sottrasse quegli immensi territori all’impero bizantino, trasformando quest’ultimo da grande potenza imperiale a potenza di medie dimensioni. Poi, non subito ma col passare delle generazioni, trasformò la fede religiosa, la lingua e la civiltà delle popolazioni che vi abitavano: l’identità romano-ellenistica e cristiana fu in gran parte cancellata e ad essa si sostituì una nuova identità, araba e islamica. Da allora la storia del Vicino Oriente, dell’Egitto e di quello che con parola araba chiamiamo il Maghreb (letteralmente, ‘l’Occidente’), dalla Libia al Marocco, rimane sì legata da tanti vincoli alla storia dell’Europa, ma non è più “la stessa storia”, come era accaduto fino ad allora. La conquista araba non investì solo il bacino del Mediterraneo; si trattò in realtà di un fenomeno mondiale, nei termini del mondo antico. Fra VII e VIII secolo gli Arabi costruirono un impero immenso, che dalla Spagna e dal Ma-

Parte VIII L’altra Roma

rocco affacciati sull’Atlantico giungeva fino al Xinjiang, l’area più occidentale dell’impero cinese, ancor oggi abitata da popolazioni musulmane. Per la prima volta nella storia un unico spazio politico riuniva mondo mediterraneo e mondo asiatico; la Siria e la Mesopotamia, che per secoli erano stati la zona di frontiera tra l’impero romano e quello sasanide, divennero ora il centro di un nuovo impero, arabo per lingua e islamico per religione. Gli Arabi e le origini dell’islam

Tutto cominciò appunto con la nascita di una nuova religione in mezzo al popolo arabo. Non si trattava di un popolo nuovo proveniente da chissà quale lontano orizzonte: da secoli gli Arabi vivevano nel Vicino Oriente. Originari della penisola arabica posta tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano – e oggi divisa fra l’Arabia Saudita, lo Yemen, l’Oman e gli Emirati Arabi –, si erano diffusi verso la Giordania, la Siria e l’Iraq. I Romani li conoscevano bene e in parte li avevano sottomessi: nel 106 Traiano aggiunse all’impero una nuova provincia chiamata appunto la provincia d’Arabia, e attorno a essa si formarono piccoli regni arabi vassalli, gli Stati dei Ghassanidi e dei Lakhmidi. Gli Arabi che vivevano nell’orbita di Roma subivano, come tutti i popoli del Mediterraneo orientale, l’influenza della cultura ellenistica, e partecipavano alla vita dell’impero; nel III secolo ci fu addirittura un imperatore romano chiamato Filippo l’Arabo, perché era nato nella provincia d’Arabia e da una famiglia di probabili origini arabe, anche se profondamente romanizzata. Come gli altri popoli dell’impero, anche quelli della provincia d’Arabia e dei piccoli regni circostanti si erano convertiti al cristianesimo. Ma c’erano anche altri Arabi, che non erano sudditi o clienti dell’impero romano. Erano in gran parte nomadi, che vivevano nel deserto e obbedivano soltanto ai loro capi, alle-

Cesarea Alessandria

Bosra

L’Arabia preislamica

IMPERO PERSIANO

Gerusalemme Hira

Petra Duma

GOLFO PERSICO

Suk al-Kurn Kaibar

Su ¯k Duba ¯

Hadjar

Medina (Yathrib) Badr

Suha ¯r Yamama

al-Mashka ¯r ¯

La penisola arabica è stata sin dall’antichità al centro di una intensa rete di traffici commerciali con le regioni mediterranee. Spezie, oro, pietre preziose costituivano le principali ricchezze di una regione il cui territorio è in gran parrte desertico.

Ukaz La Mecca MAR RO SSO Nadjra ¯n Samharm San’a Zafar

Marib

Shabwa

Suk Hadhramaut ¯ HADHRAMAUT

Timna

YEMEN

OCEANO INDIANO

Impero bizantino Vie carovaniere Principali città

al-Shihr ¯

Aden

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

209

 Mano in bronzo con dedica al dio Ta’lab II-III sec. © The Trustees of the British Museum, Londra L’iscrizione incisa su questo ex voto, redatta in sabeo (una delle antiche lingue semitiche parlate nel Sud dell’Arabia), è una dedica al dio Ta’lab. Sebbene ben poco ancora si conosca del variegato pàntheon delle popolazioni della penisola arabica in epoca preislamica, sappiamo che molte tribù avevano le proprie divinità e Ta’lab era una di queste. Il suo culto principale aveva luogo nel regno di Saba e includeva il pellegrinaggio annuale al tempio, seguito da un pranzo rituale.

210

vando cammelli e dedicandosi al commercio e alle razzie. Nel loro territorio, infatti, passavano importantissime piste carovaniere, che collegavano il bacino mediterraneo col Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Erano organizzati in clan familiari; i clan si raggruppavano in tribù, capeggiate ciascuna da uno sceicco, parola araba che significa ‘anziano’. Erano chiamati dagli altri Arabi col nome di Beduini (badawi), che significa appunto ‘abitanti del deserto’, e dai Romani col nome di Saraceni. I Romani stringevano accordi coi loro capi per garantire la sicurezza delle piste carovaniere, e arruolavano fra loro dei reggimenti di cavalleria ausiliaria, ma non li avevano mai sottomessi e li consideravano dei temibili selvaggi. Fra i nomadi c’erano diverse tribù cristiane, ma si trattava d’una minoranza. Altre tribù praticavano la religione ebraica; non sappiamo se fossero discendenti di clan ebraici emigrati nella penisola arabica, o se fossero Arabi convertiti anticamente al giudaismo. Ma la maggior parte dei Beduini era politeista: come tutti i popoli antichi, veneravano un gran numero di divinità. Una di queste era Allah, dio potentissimo e misterioso, che diversamente dagli altri dèi non poteva essere rappresentato da idoli; il suo nome aveva la stessa radice di uno dei nomi di Dio in lingua ebraica, Elohim. Gli Arabi convertiti al cristianesimo usavano – come usano ancor oggi – proprio il nome di Allah per indicare il Dio cristiano. Il principale centro di culto dei politeisti era la Mecca, una città nel deserto in cui sorgeva un santuario chiamato la Kaaba (che significa ‘edificio a forma di cubo’). Oltre che centro religioso, la Mecca era anche un grande luogo di scambio, dove approdavano i mercanti dall’Oriente e dall’Occidente e dove si accumulavano cospicue ricchezze. Una volta all’anno tutte le tribù del deserto si davano convegno alla Mecca, per compiere un pellegrinaggio al santuario, commerciare e cercare di risolvere con l’arbitrato le loro dispute. Ovviamente gli abitanti della Mecca, e di altri centri urbani nati nelle oasi del deserto, non erano nomadi: il mondo della penisola arabica si fondava sulla coesistenza, non sempre facile, tra vita nomade del deserto e vita urbana sedentaria. Proprio fra gli Arabi politeisti e sedentari della Mecca nacque nel 570 un uomo chiamato Muhammad, nome che è stato italianizzato in Maometto. Già avanti negli anni, dal 610 Maometto cominciò ad avere delle visioni in cui Allah, per mezzo dell’arcangelo Gabriele, gli rivelava d’essere l’unico dio, lo stesso che aveva già parlato, molto tempo prima, ai profeti degli Ebrei, come Abramo e Mosé, e che poi aveva mandato sulla Terra Gesù Cristo. Ora Dio voleva trasmettere agli uomini una nuova rivelazione, perché gli ebrei e i cristiani si erano allontanati dai suoi insegnamenti, avevano tradito l’Antico Testamento e il Vangelo, e non seguivano più la vera religione: Maometto era l’ultimo e il più importante dei profeti, l’uomo scelto per ricevere la rivelazione definitiva. Nasceva così una nuova religione, l’islam:

Parte VIII L’altra Roma

il suo nome è una parola araba che significa ‘sottomissione a dio’, ed è strettamente collegata con la parola salam, che vuol dire ‘pace’. I suoi fedeli vennero chiamati muslim, ‘praticanti dell’islam’, in italiano “musulmani”. Le rivelazioni trasmesse da Maometto ai suoi discepoli, un po’ per volta nell’arco di tutta la sua vita, vennero dapprima tramandate a memoria, o trascritte in forma parziale; solo dopo la morte del profeta furono raccolte tutte in un libro sacro, il Corano.

1. Da chi era abitata la penisola arabica intorno al VII secolo? Qual era la religione maggioritaria? 2. Come nacque la religione islamica?

 2. La lotta per imporre l’islam e la nascita del jihad

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Dalla predicazione alla lotta armata

La predicazione di Maometto radunò subito intorno a lui un nutrito gruppo di seguaci, ma suscitò anche violente opposizioni. Il culto degli antichi dèi arabi era ancora forte fra i nomadi; inoltre, i potenti capiclan che dominavano alla Mecca temevano che l’abbandono dei culti tradizionali danneggiasse gli interessi del santuario. La più forte di tutte le tribù, i Quraysh, che aveva la custodia della Kaaba e a cui apparteneva lo stesso Maometto, si schierò contro di lui e cercò di impedire con la violenza la diffusione del nuovo culto. Nel 622 Maometto fu costretto a fuggire dalla Mecca e riparò insieme a tutti i suoi fedeli nella città di Medina; questo evento cruciale, chiamato in arabo hijra cioè ‘emigrazione’, ‘esodo’, è considerato il vero atto di nascita della religione islamica. Il calendario islamico conta gli anni a partire da questa data, che noi, italianizzando la parola araba, chiamiamo “ègira”. Di fronte all’opposizione violenta suscitata dalla sua predicazione, Maometto non scelse la strada della non-violenza o addirittura del martirio; scelse invece la lotta armata. Ai suoi seguaci impose di sguainare la spada, dichiarando che ci sono momenti in cui il credente dev’essere pronto a combattere per il trionfo della vera fede. Entrò così nella religione islamica una dimensione fiera e bellicosa: il termine jihad, che indica lo ‘sforzo’ compiuto per soddisfare la volontà di Dio, cominciò a essere interpretato soprattutto in senso guerriero. Questa accezione bellicosa è espressa nella frase «il jihad sulla via di Dio», che noi spesso traduciamo col concetto cristiano di “guerra santa”. Il Corano non considera il jihad come un obbligo per i fedeli, ma li esorta a combattere ogni volta che l’islam è minacciato, e a continuare la lotta fino alla vittoria e alla resa dei nemici; solo chi si arrende dev’essere risparmiato. Nella storia del mondo islamico, il concetto di jihad è stato spesso lasciato da parte e quasi dimenticato, soprattutto nei periodi in cui i paesi musulmani erano prosperi e non si sentivano minacciati da nessuno [cfr. scheda, p. 212]. Invece, nei mo-

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

Pagina del Corano in scrittura cufica VII-VIII sec. Biblioteca Regale di Rabat, Marocco Gli esemplari più antichi del Corano furono spesso realizzati su codici di ridotte dimensioni, di formato orizzontale e utilizzando i caratteri della scrittura cufica (dal nome della città di Kufa in Iraq dove si crede abbia avuto origine questo stile). In questo manoscritto, proveniente forse da Medina, il titolo della sura è tracciato in oro come la banda sottostante che termina con un disegno floreale.

211

Il jihad nel Corano Cosa dice il Corano sul jihad, che noi traduciamo di solito con ‘guerra santa’? I riferimenti al diritto di combattere per legittima difesa sono frequenti nei 114 capitoli, detti sure, in cui è diviso il libro sacro. Per esempio, nella sura XXII si legge: «È stato dato il permesso di reagire a quelli che vengono attaccati, poiché essi subiscono violenza e certamente Dio li può soccorrere. Hanno il permesso di reagire quelli che sono stati scacciati dalle loro dimore senza diritto, solo perché dicevano “il nostro Signore è Dio”. Dio aiuterà certamente chi aiuterà lui; Dio è forte e potente». Qui si afferma che la guerra è legittima, e che Dio aiuta chi combatte, ma solo in una circostanza specifica, quando cioè si è aggrediti per la propria fede religiosa. Ma l’espressione «jihad sulla via di Dio», che si riferisce specificamente alla guerra in difesa della fede islamica, ricorre solo raramente nel Corano. La teorizzazione più ampia è forse quella contenuta nella sura II. «Combattete nella via di Dio contro coloro che vi faranno la guerra; però non eccedete, poiché Dio non ama quelli che eccedono». Dopo questo invito alla moderazione, però, il Corano prosegue dichiarando che se gli infedeli attaccano i credenti, bisogna ucciderli; e se conquistano territori islamici, bisogna riconquistarli a ogni costo. Quest’ultimo precetto è molto importante per capire certi drammi del mondo d’oggi, come lo scontro fra israeliani e palestinesi per il possesso della Palestina e della città santa di Gerusalemme, o la resistenza dei ribelli – che si considerano mujahiddin, ‘praticanti del jihad’ – contro le recenti occupazioni militari occidentali in Iraq e Afghanistan. Il Corano non afferma mai che combattere è un obbligo per tutti i credenti, anzi c’è addirittura un passo, nella sura XLVII, in cui si dichiara che non sarebbe stato giusto imporre quest’obbligo. «Dicono quelli che credono: perché non è stata fatta scendere una sura che ordini la guerra?». Il Corano prosegue osservando che «se fosse stata fatta scendere una sura precisa e fosse stata comandata in essa la guerra» si sarebbe creato il panico fra i credenti, perché molti sono troppo deboli per combattere, e Dio non vuole metterli in difficoltà ordinando la guerra. Sono

212

Parte VIII L’altra Roma

le autorità musulmane in questo mondo che possono ordinarla, e i fedeli devono sapersi orientare a seconda del caso. Ma c’è ancora un altro luogo, forse il più sorprendente, in cui si parla del jihad, ed è ancora nella sura II. Qui il Corano giustifica il concetto di jihad richiamando addirittura un passo della Bibbia, I Samuele 8. Come avviene anche in altri passi del Corano, il racconto della Bibbia è ripreso in forma semplificata e abbreviata. Si racconta che gli ebrei erano stati governati dal profeta Samuele, il quale però non aveva voluto farsi re; ma quando il profeta si avvicina alla morte, gli ebrei gli chiedono di designare un re. Samuele li avverte che non sanno cosa vuol dire obbedire a un re, che prenderà i loro figli per condurli in guerra, ma gli ebrei ribattono: noi vogliamo essere un popolo come tutti gli altri, avremo un re che ci governerà, che uscirà alla testa dei nostri soldati e combatterà le nostre battaglie. Samuele si rivolge a Dio e col suo permesso designa un re, Saul, il quale infatti conduce gli ebrei in guerra contro i loro nemici, i Filistei; durante la battaglia avviene un episodio famoso, il combattimento del ragazzo ebreo Davide contro il gigante Golia. Ebbene, per il Corano l’idea del jihad trova sostegno proprio in questo episodio della Bibbia: è la Bibbia a dimostrare che i credenti devono combattere i loro nemici, e che Dio è d’accordo. Insomma, quel concetto di jihad che oggi è sbandierato dai gruppi islamici integralisti, e che giustamente spaventa l’Occidente, nasce in realtà in quella stessa tradizione biblica in cui affonda le sue radici anche il cristianesimo; e questo è un bel paradosso!



Guerrieri musulmani XI sec. Museo di Arte Islamica, Il Cairo, Egitto Su questa stoffa di epoca fatimide sono rappresentati un cavaliere (al centro) e quattro guerrieri musulmani. Furono diverse le sette islamiche che scelsero di adottare la lotta armata come strumento per dimostrare in maniera drastica e oltranzista la propria fede.

menti in cui l’islam si è sentito sotto attacco – per esempio nel Medioevo, all’epoca delle Crociate dell’Occidente cristiano contro l’Oriente musulmano, e poi di nuovo fra Ottocento e Novecento, all’epoca in cui le potenze coloniali europee dominavano i paesi arabi – l’esortazione al jihad è tornata a risuonare potente fra i musulmani. La lotta fra Maometto, diventato ormai il capo politico e militare di una vasta comunità di fedeli, e i clan della Mecca che rimanevano attaccati al politeismo tradizionale cominciò con ripetuti attacchi dei musulmani alle carovane dirette alla Mecca, e si concluse nel 630 con la completa vittoria del profeta, che entrò trionfalmente nella città santa. Maometto decise che il luogo sacro degli Arabi politeisti doveva diventare il luogo sacro della nuova religione, e che la Kaaba doveva essere purificata dagli idoli e consacrata ad Allah; e in questo modo diede all’islam una capitale spirituale, che coincideva con il luogo più ricco e frequentato del mondo arabo. Maometto e le altre religioni

A partire da allora quasi tutte le tribù si convertirono alla nuova fede e il politeismo tradizionale venne sradicato; l’islam ha infatti un tale orrore del politeismo, che non considera possibile la coesistenza pacifica con i politeisti. Alla sua morte, nel 632, Maometto era il capo indiscusso di gran parte degli abitanti della penisola arabica; tanto i sedentari delle città come la Mecca e Medina quanto i nomadi del deserto, trasformati ufficialmente nella ‘comunità dei credenti’ (in arabo, umma), erano obbligati a pagare un tributo, ed erano governati da un’unica legge, quella trasmessa dalle rivelazioni divine al profeta, la sharia. Durante la vita di Maometto la diffusione dell’islam non incontrò soltanto l’opposizione dei politeisti, ma dovette confrontarsi anche con le tribù arabe che praticavano il cristianesimo e l’ebraismo. Nei loro confronti Maometto aveva una posizione oscillante, che si riflette nel Corano. Riconosceva infatti che anche cristiani ed ebrei adorano il vero Dio e hanno ricevuto una rivelazione per mezzo dei profeti; sono, come i musulmani, gente del Libro, con cui è possibile convivere. Ma nel momento in cui cristiani ed ebrei minacciavano l’islam, o semplicemente non ne riconoscevano la superiorità, il profeta dichiarò che anch’essi dovevano essere combattuti e sottomessi. In questa duplicità sta la chiave della tolleranza che nella storia, fino a tempi recenti, le potenze musulmane hanno sempre dimostrato nei confronti di cristiani ed ebrei: sotto il dominio musulmano essi potevano conservare la loro religione, e le loro chiese potevano funzionare regolarmente, ma il limite di quella “tolleranza” – che infatti scriviamo fra virgolette – è che erano comunque trattati come sudditi di seconda classe, e considerati inferiori ai musulmani [cfr. cittadinanza, pp. 238 sg.].



Veduta attuale della Mecca ©Abbas/Magnum/Contrasto Il più importante santuario della Mecca è la Kaaba, un edificio cubico (lungo circa 12 metri, largo 10 e alto 15) privo di finestre e ricoperto completamente da un drappo di seta nera. All’interno della Kaaba è custodita la Pietra Nera, una roccia meteoritica di medie dimensioni (30 centimetri di larghezza e 40 di altezza) venerata già in epoca preislamica.

1. Che effetto sortirono le predicazioni di Maometto alla Mecca? 2. Che rapporti stabilì l’islam con ebraismo e cristianesimo?

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

213

3. Le lotte per la successione di Maometto e il califfato

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

I califfi, successori del profeta



La Grande Moschea omayyade di Damasco (Siria) 706-714/5 La Grande Moschea di Damasco sorge su un antichissimo luogo di culto, che subì nei millenni numerose trasformazioni passando da tempio amorreo a basilica cristiana e infine, quando la città divenne capitale musulmana, a moschea. Gli Omayyadi avviarono una poderosa opera di monumentalizzazione, come dimostrano i tre minareti disposti lungo il recinto sacro e la grande cupola del santuario.

214

Dopo la morte di Maometto nel 632, la comunità islamica attraversò una grave crisi. Parecchie tribù nomadi dichiararono di non voler più obbedire ai successori di Maometto né pagar loro il tributo, perché la loro sottomissione era stata un patto personale col profeta; ne nacque una rivolta che i cronisti arabi chiamano la ridda, “l’apostasia” (cioè l’atto di rinnegare la propria fede), e che fu sedata solo con difficoltà dai capi musulmani. L’altro grande problema, che suscitò violenti scontri fra i seguaci di Maometto, fu proprio quello di stabilire chi dovesse essere a capo dell’islam. Nessuno dopo di lui poteva più chiamarsi “profeta”, perché dal Corano risultava chiaramente che la rivelazione trasmessa a Maometto era l’ultima e definitiva. Abu Bakr, suocero e stretto collaboratore di Maometto, venne riconosciuto come capo dalla maggioranza delle tribù, e assunse il titolo di califfo, che in arabo può significare ‘il successore’ (del profeta) o ‘il rappresentante’ (di Dio sulla Terra). La scelta suscitò l’opposizione di una minoranza che avrebbe preferito trasmettere il potere al parente più prossimo del profeta, suo cugino Alì. Morto di lì a poco Abu Bakr, altri due compagni di Maometto, Omar (634-644) e poi Uthman (644-656), vennero eletti califfi; il quarto califfo fu proprio Alì, che però dovette affrontare la ribellione di un importante capo militare, Muawiya. Il suo regno coincise con una vera e propria guerra civile, che

Parte VIII L’altra Roma

gli storici chiamano la Prima guerra civile araba. Nel 661 Alì fu assassinato; con lui finisce la prima fase nella storia del califfato, l’epoca dei primi quattro califfi, passati alla tradizione come i califfi ben guidati. Con la morte di Alì il califfato andò a Muawiya, che riuscì poi a trasmetterlo ai propri discendenti, rendendo ereditaria anziché elettiva la successione al potere. Nasceva così la dinastia degli Omayyadi (dal nome del clan di Muawiya, i Banu Umayya), che rimase al potere fino al 750. Muawiya trasferì la capitale da Medina – dove i primi quattro califfi avevano mantenuto la sede del potere politico, mentre la Mecca era il centro religioso dell’islam – a Damasco, in Siria. La spaccatura religiosa: sunniti e sciiti

Le lotte per la successione di Maometto produssero una spaccatura religiosa nella comunità musulmana. I sostenitori di Alì non riconobbero la legittimità degli altri califfi: secondo loro Alì era stato l’unico califfo veramente legittimo, e il potere spettava ai suoi discendenti. Così il mondo islamico si divise in due, con una maggioranza che riconosceva il califfo in carica e una minoranza ribelle e dissidente. Questa spaccatura è durata fino ai nostri giorni, anche se oggi il califfo non esiste più: i discendenti della maggioranza sono i musulmani sunniti, un termine che significa all’incirca seguaci della tradizione; i discendenti della minoranza, presenti soprattutto in Iran e Iraq, sono gli sciiti, dall’espressione shi’at Ali, il partito di Alì. Mentre le grandi spaccature del mondo cristiano – fra cattolici e ariani, per esempio, oppure fra cattolici e protestanti – si fondano su divergenze teologiche e una diversa interpretazione dei dogmi e dei riti, la principale spaccatura del mondo islamico ha dunque a che fare con la storia di quell’epoca remota e con la legittimità del potere sulla comunità.

1. Quali problemi dovette affrontare la comunità islamica alla morte del profeta? 2. Qual era la natura della divisione tra sunniti e sciiti?

4. Le grandi conquiste arabe

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

L’inarrestabile espansione con i primi califfi

I successori di Maometto non erano più soltanto i capi di un turbolento insieme di clan arabi convertiti alla nuova religione. Il califfo governava un immenso impero, nato da grandi conquiste. Al suo interno l’Arabia vera e propria divenne marginale, anche se le città sante della Mecca e di Medina – dove si trova la tomba di Maometto – rimasero i centri più sacri dell’islam. Sotto i primi califfi fu completata la sottomissione di tutte le tribù dell’Arabia, fino ai lontani Yemen e Oman, costringendo anche le più recalcitranti ad abbandonare il politeismo e pagare il tributo al califfo. A questo punto gli Arabi del deserto, riuniti in un unico popolo, ricchi per i floridi commerci di cui avevano il controllo, bellicosi per tradizione e ora anche infiammati di entusiasmo religioso, cominciarono ad attaccare le grandi potenze confinanti. Erano due, da secoli rivali fra loro: a nord-ovest l’impero bizantino, erede dell’impero romano d’Oriente; a nord-est l’impero persiano dei Sasanidi, che dominava gli attuali Iraq, Iran e Afghanistan. Fra i due una terza potenza, il regno cristiano d’Armenia, controllava vasti territori fra l’Anatolia e il Caucaso, ma era quasi sempre assoggettata all’influenza bizantina o sasanide.

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

215

All’inizio del VII secolo l’imperatore sasanide Cosroe aveva assestato un colpo terribile all’impero bizantino, conquistando la Siria, la Palestina e l’Egitto; ma la controffensiva bizantina, organizzata dal grande imperatore Eraclio (610-641; cfr. cap. 19.1), aveva riconquistato tutti quei territori, riportando la frontiera fino alla Mesopotamia e indebolendo in modo decisivo le forze dei Sasanidi. Le truppe bizantine conquistarono addirittura la capitale sasanide, Ctesifonte. Pareva dunque che gli eredi dell’impero romano d’Oriente fossero sul punto di trionfare sull’antico nemico persiano, quando la situazione cambiò drammaticamente. Nei vent’anni di comando dei primi tre califfi, dal 632 al 656, entrambi gli imperi vennero aggrediti dagli Arabi e subirono devastanti sconfitte. Sul fronte bizantino, il primo obiettivo fu l’invasione della Siria, cui si accompagnò la liquidazione dei piccoli regni arabi cristiani che sorgevano fra questa provincia e la penisola arabica. Grazie anche alla loro superiore mobilità nel deserto, e alla capacità di sopravvivere a lungo con poca acqua e cibo, le forze arabe, benché spesso inferiori di numero, sorpresero e sconfissero una dopo l’altra le guarnigioni bizantine. L’imperatore Eraclio radunò un grande



L’investitura del re Cosroe II VII sec. Montagne di Taq-i Bostan, Iran Tra il III e il VII secolo d.C. nel cuore dei Monti Zagros, in località Taq-i Bostan (Iran occidentale), fu scolpita una serie di rilievi per esaltare il potere regale dei sovrani sasanidi. In questa grotta è illustrata in alto l’investitura del re Cosroe II e in basso lo stesso sovrano, armato alla maniera persiana, che monta il suo cavallo.

L’espansione dell’islam tra VII e VIII secolo

Talas 751

Lago d’Aral Buchara 712

REGNO DEI FRANCHI

AR

PIO

MAR NERO REGNO D’ARMENIA Tig ri

678

Siviglia

IMPERO BIZANTINO

Antiochia Eufra

te

Siffin 657

Cartagine

Ta ¯hu ¯da 683

MA R

Kairuan

Rodi 654

MED ITE

MAGHREB

RRANEO

Alessandria

Baghdad

Kerbela

Damasco

Kufa Yarmuk 636

Gerusalemme

IMPERO PERSIANO

Bassora GOLF O PERS ICO

IND I

Cordova Granada Jerez 711 Gibilterra

Tripoli

LIBIA

EGITTO

Medina

ARABIA

Badr 624

Jerez 711

216

La Mecca

M

L’islam nel 632 (morte di Maometto) Dal 632 al 661 (califfato elettivo) Dal 661 al 750 (califfato omayyade) Battaglie principali

AR

RO

SS

O

Nilo

Parte VIII L’altra Roma

ANO

Roma

ANO

Costantinopoli

OCE

Danubio

725

Toledo

Kabul

CA S

do

Poitiers 732

M

In

OCEANO ATLANTICO

esercito e tentò la riconquista dei territori siriani, ma gli Arabi gli inflissero una sconfitta decisiva nel 636 alla battaglia del fiume Yarmuk. Dopo questo disastro, paragonabile a quello di Adrianopoli del 378, l’impero non riuscì più a reagire e gli eserciti arabi dilagarono verso occidente, conquistando non solo la Siria e la Palestina, ma entro il 646 anche l’Egitto e poco dopo l’isola di Cipro. L’impero bizantino perse così in pochi anni province che per sette secoli erano state fra le più ricche dell’impero romano; tre fra le più importanti sedi patriarcali cristiane, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria, caddero sotto il dominio arabo. La rapidità della conquista si spiega anche con l’atteggiamento delle popolazioni e delle Chiese locali, che odiavano il dominio bizantino per la sua opprimente fiscalità, e che in maggioranza seguivano una variante del cristianesimo, il monofisismo, disapprovata e perseguitata dal governo imperiale: perciò si adattarono senza resistenza alla nuova dominazione (ci torneremo nel par. 10). Molte città negoziarono con gli invasori e aprirono loro le porte, dopo aver ottenuto garanzie di un trattamento di favore; in Egitto la Chiesa copta collaborò attivamente con i conquistatori e pregò per il loro successo. L’amministrazione bizantina di quei vastissimi territori, col suo personale greco, continuò a lavorare per conto dei nuovi dominatori. La disfatta dell’impero sasanide, già messo in ginocchio dalle vittorie di Eraclio, fu ancora più completa. Già nel 637 gli Arabi sconfissero disastrosamente gli eserciti persiani e occuparono l’attuale Iraq, abitato da popolazioni in parte arabe, di religione cristiano-nestoriana o ebraica, che non si opposero all’invasione; i nestoriani, anzi, spesso perseguitati dai Sasanidi, l’accolsero con entusiasmo. L’offensiva proseguì poi in direzione del Mar Caspio e dell’Iran, cuore dello Stato persiano, finché nel 651 l’ultimo imperatore sasanide fu assassinato in Asia Centrale, mettendo fine alla dinastia e all’impero. L’intera Mesopotamia e il mondo persiano, con la sua ricchissima tradizione culturale, vennero assorbiti nell’impero arabo-islamico, anche se l’Iran mantenne, e ha mantenuto fino a oggi, la sua lingua del tutto diversa dall’arabo, e una propria cultura nazionale. L’avanzata omayyade

La Prima guerra civile, coincidente con il califfato di Alì, segnò una sosta nell’espansione degli Arabi; è degno di nota che l’impero bizantino, abbattuto dai disastri degli anni precedenti, non ne approfittò per lanciare una controffensiva, e le popolazioni dei territori già conquistati non ne approfittarono per ribellarsi. Il califfo Muawiya, al potere dal 661 al 680, dovette combattere diverse ribellioni di oppositori, ma questo non gli impedì di allargare ancor più le conquiste arabe. I suoi generali completarono la conquista dei territori orientali dell’ex impero sasanide, spingendosi fino all’Afghanistan, invasero l’Armenia e il Caucaso, e strapparono ai bizantini parte dell’Asia Minore. Gli Arabi erano diventati anche una potenza navale, che contendeva ai Bizantini il dominio del Mediterraneo, e nel 674 Muawiya arrivò addirittura ad assediare Costantinopoli dalla terra e dal mare: l’assedio durò ben quattro anni, anche se si concluse con la completa vittoria dei Bizantini. Ma l’invasione più devastante fu quella lanciata nel 665 dall’Egitto verso il Nordafrica bizantino, che nel giro di qualche anno vide gli eserciti arabi arrivare all’Oceano Atlantico. L’ostacolo principale non furono tanto le guarnigioni bizantine, che controllavano solo le città costiere e il loro entroterra, quanto le tribù berbere, che erano praticamente indipendenti dal governo di Costantinopoli, e furono l’unica popolazione, insieme agli Armeni, che tentò seriamente di resistere alla conquista araba. Ribellioni dei Berberi, controffensive bizantine, insurrezioni di generali, e infine la Seconda guerra civile tra gli aspiranti al califfato, scoppiata alla morte di Muawiya e durata

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

217

Un cronista siriano racconta la conquista araba [da The Seventh Century in the West-Syrian Chronicles, a cura di A. Palmer, Liverpool University Press, Liverpool 1993; trad. a cura degli autori]

Dionisio di Tel-Mahre, patriarca monofisita di Damasco dall’818 all’845, è il più importante cronista in lingua siriaca. Nella sua cronaca il racconto dell’invasione della Siria da parte degli Arabi avvenuta quasi due secoli prima è fondato su fonti sia arabe sia greche, ma è palesemente favorevole agli Arabi e ostile ai Bizantini, che dopo la condanna del monofisismo al Concilio di Calcedonia del 451 avevano abbandonato, agli occhi di Dionisio, la vera religione.

La

voce

PA SSA TO del

Coll’aiuto di Dio torniamo a Damasco e raccontiamo come questa e le altre città vennero sottratte ai Romani. Vedendo che gli Arabi erano decisi a conquistare la città, e che nessuno poteva salvarli, gli abitanti di Damasco persero coraggio e la voglia di combattere li abbandonò. Si arresero a certe condizioni dopo aver ricevuto da Khalid bin al-Walid1 il giuramento che le loro leggi sarebbero state rispettate; e Khalid ordinò di redigere un trattato che rispettava tutti i loro desideri. Così essi stessi aprirono la città agli Arabi; anche se dal lato occidentale uno degli emiri arabi sopraffece i difensori ed entrò a forza da una delle porte, così che in un certo senso Damasco fu anche presa con la spada. Tuttavia Khalid bin al-Walid confermò il trattato e le garanzie che aveva giurato e comprese gli abitanti fra quelli che pagano il tributo. Il mediatore di questo accordo fu il diacono2 Giovanni, figlio di Sargun, anche lui di Damasco, che era amato e ben conosciuto fra gli Arabi. Quando Eraclio seppe queste notizie, radunò più di 300.000 soldati dall’Armenia, la Siria e il paese dei Romani. Gli Arabi ebbero paura di affrontarli e pensarono addirittura di abbandonare le città che avevano conquistato con tanta fatica e ritornare nel loro paese. Tennero consiglio e il senso di quello che si dissero fu questo: «Come possiamo abbandonare un paese così ricco? Se lo facciamo, una cosa è certa: non la riprenderemo mai più. Faremmo meglio ad affrontare i Romani, dopo tutto». Abu Ubayda, che Omar aveva posto al comando degli Arabi, ordinò di restituire il tributo pagato da quelli di Damasco. Agli abitanti disse: «Se torniamo vincitori lo riprenderemo indietro. Ma se siamo sconfitti e ci dimostriamo incapaci di salvarvi dai Romani, ecco qua il

Parte VIII L’altra Roma



Scontro tra Arabi e Bizantini XI-XII sec. Miniatura dalla Cronaca di Scilitze; Biblioteca Nazionale di Madrid, Spagna Gli scontri tra gli Arabi e l’esercito imperiale di Bisanzio, iniziati nel VII secolo, si protrassero fino al XII secolo. I due schieramenti si affrontarono ripetutamente, come mostra questa miniatura che impreziosiva l’opera dello storico Giovanni Scilitze.

vostro tributo: tenetelo! Noi, da parte nostra, saremo sciolti dal giuramento che vi abbiamo prestato». Così gli Arabi lasciarono Damasco e piantarono il campo al fiume Yarmuk. Mentre i Romani marciavano verso il campo arabo, ogni città e villaggio che si era arreso agli Arabi urlava minacce contro di loro. Quanto ai crimini commessi dai Romani sul loro passaggio, sono indicibili, e così scandalosi che non bisogna neppure ricordarli3 [...]. Gli Arabi tornarono a Damasco, orgogliosi per la loro grande vittoria, e gli abitanti di Damasco li accolsero fuori dalla città e diedero loro gioiosamente il benvenuto, e i trattati e le garanzie vennero confermati. Eraclio era ad Antiochia quando la notizia gli fu portata. Neppure uno dei suoi soldati era sopravvissuto per raccontarlo. Il messaggero era un Arabo cristiano. A questa notizia Eraclio lasciò la Siria con gran dolore per Costantinopoli. Raccontano che mentre partiva abbia detto «Addio, Siria», come se disperasse di rivederla. 1. Khalid bin al-Walid: uno dei compagni di Maometto, nato nel 592 e deceduto nel 642, protagonista di molte importanti campagne di conquista arabe. 2. diacono: nella Chiesa cattolica, il diacono può amministrare il battesimo e l’eucarestia, predicare, assistere il sacerdote nella messa leggendo il Vangelo. 3. Segue il racconto della battaglia, che si conclude con la sconfitta dei Romani.

dal 680 al 692, rallentarono la pacificazione definitiva del Nordafrica, che tuttavia era conclusa entro il 700. A questo punto gli Arabi erano pronti per l’ultima ondata delle loro conquiste. La prima direzione fu quella asiatica. Nel 711 si spinsero a oriente fino alla valle dell’Indo, l’attuale Pakistan, conquistando il grande regno indù del Sind; di lì estesero la loro influenza verso le steppe dell’Asia centrale, abitate dai nomadi turchi, che cominciarono a convertirsi all’islam. L’espansione in Asia portò gli Arabi a scontrarsi addirittura con la Cina della dinastia Tang, che tentò di contendere loro il predominio sull’immenso paese delle steppe. Nel 751 un esercito cinese d’invasione subì una sconfitta decisiva alla battaglia del fiume Talas, fra gli attuali Kazakistan e Kirghizistan; questa vittoria consolidò definitivamente il predominio arabo e islamico su gran parte dei regni e delle tribù nomadi dell’Asia centrale. Un secondo obiettivo fu il cuore dell’impero bizantino, che pareva sul punto di disgregarsi – anche per la concomitante penetrazione nei Balcani delle popolazioni slave e di un nuovo popolo nomade delle steppe, i Bulgari – ma che si rivelò un osso più duro del previsto. Nel 717 gli Arabi si spinsero fino a Costantinopoli e la misero nuovamente sotto assedio, ma anche questa volta le poderose mura della capitale imperiale resistettero e il califfo dovette rinunciare al sogno di impadronirsene. Dal punto di vista della storia d’Europa però la direttrice di espansione più importante fu la terza, quella verso la penisola iberica, che per la prima volta portò gli Arabi a confrontarsi col mondo romano-barbarico e con i cristiani di rito latino. Nel 711 il generale Tariq, un ex schiavo berbero convertito all’islam, passò lo stretto di Gibilterra con un esercito composto di Arabi e Berberi e invase la Spagna. Il re goto Rodrigo venne sconfitto e ucciso in battaglia, e il regno crollò; solo nella parte settentrionale della Spagna i capi cristiani riuscirono a conservare il potere, mentre tre quarti della penisola iberica cadevano sotto il dominio del califfo omayyade. Nasceva così la Spagna araba, chiamata in arabo al-Andalus: un nome che deriva dall’antica presenza dei Vandali, e che si è conservato nell’odierna regione dell’Andalusia. Gli Arabi si spinsero fin nel regno franco, ma furono sconfitti a Poitiers nel 732 e definitivamente respinti [cfr. cap. 17.4].

 Statuina di guerriero cinese VII sec. Dalla tomba di Zheng Rentai, Liquan (provincia di Shaanxi, Cina); Museo Nazionale, Pechino Questa statuina in terracotta invetriata, realizzata durante la dinastia Tang, raffigura un guerriero cinese dotato di un ricco equipaggiamento militare costituito da elmo, corazza con pettorale, cintura e lunga gonna che ricopre gli stivali. Nella mano destra doveva essere inserita un’arma, che non si è conservata.

Le conseguenze dell’espansione araba

Le conquiste arabe trasformarono in modo decisivo gli equilibri geopolitici del mondo; e non parliamo solo del bacino mediterraneo, ma di tutto il continente eurasiatico. L’impero bizantino sopravvisse, ma da allora in poi non fu più una grande potenza: la perdita del Vicino Oriente e del Nordafrica lo privò delle sue maggiori risorse economiche, e l’impero si ridusse a parte dei Balcani e dell’Anatolia. Le sconfitte subite provocarono grandi trasformazioni nello Stato bizantino, che riorganizzò la sua amministrazione e il suo esercito per difendersi meglio dalle aggressioni. Così facendo, l’impero si rafforzò, ma diventò sempre più diverso da quell’impero romano di cui pure era il discendente, e di cui continuava ufficialmente a portare il nome (parleremo di queste trasformazioni nel cap. 19).

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

219



Coppa delle suonatrici VII sec. Museo di Teheran, Iran Questo vaso d’argento, inciso e incrostato di pietre, è uno dei capolavori dell’arte sasanide. Ritrovato nell’Iran settentrionale, a Mazandaran, presenta all’esterno una decorazione incisa con quattro ragazze intente a suonare sotto tralci di vite. Nel particolare una muscista suona uno strumento a fiato a cinque canne.

Altrettanto importante in prospettiva mondiale fu la scomparsa dell’impero sasanide. Per mille anni, dagli Achemenidi ai Parti ai Sasanidi, un grande impero iranico aveva dominato dalla Mesopotamia all’India, facendo sentire la sua influenza da una parte fino al Mediterraneo, dall’altra fino all’Asia Centrale, e sfidando la supremazia mondiale di Roma. Ora tutta quell’area era dominata dagli Arabi e assorbita in un impero ancora più esteso, che arrivava dall’India ai Pirenei; mentre le popolazioni locali, via via che si convertivano all’islam, entravano a far parte di una comunità che si proponeva di espandersi in tutto il mondo. La spettacolare affermazione dell’islam ebbe anche un’ultima importantissima conseguenza storica: un decisivo spostamento di equilibri fra le Chiese cristiane. Le maggiori Chiese orientali, di lingua greca, siriana, copta, armena, avevano operato finora entro il quadro dell’impero romano e non avevano nessun sentimento di inferiorità nei confronti delle Chiese occidentali di lingua latina e della loro sede più importante, Roma. La conquista araba non significò affatto la scomparsa di quelle Chiese, che sono sopravvissute fino ad oggi; ma vivendo sotto dominio musulmano esse persero col tempo gran parte dei loro fedeli, perché la conversione all’islam esercitava una grande attrattiva, e rimasero isolate rispetto al resto del mondo cristiano. Perciò la loro importanza diminuì, e lo stesso accadde alla sede patriarcale di Costantinopoli, dato che l’impero aveva perduto così tanti territori e popoli. Si creavano le condizioni perché col tempo la Chiesa di Roma diventasse davvero, come aveva sempre affermato di essere, la più importante fra le sedi vescovili del mondo cristiano; e perché il papa, che come sappiamo è in primo luogo il vescovo di Roma, potesse aspirare al governo di tutta la Chiesa cristiana.

1. A spese di quali potenze l’islam iniziò la propria espansione? 2. Quali direttrici seguirono le invasioni arabe del principio dell’VIII secolo? 3. Che conseguenze ebbe l’affermazione dell’islam per le Chiese orientali?

5. La fine delle conquiste arabe e lo sgretolamento dell’impero

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

L’avvento della dinastia abbaside

Dopo la conquista della Spagna la spinta offensiva degli Arabi era continuata anche oltre i Pirenei, in quelle zone della Francia di Sud-ovest che erano rimaste parte del regno goto, e poi nel territorio dei Franchi. La sconfitta che il maggiordomo, ovvero primo ministro,

220

Parte VIII L’altra Roma

del regno franco, Carlo Martello, aveva inflitto a un esercito arabo a Poitiers nel 732 è da sempre celebrata come un evento decisivo, che mise fine all’espansione islamica verso nord. Oggi si pensa che gli Arabi in realtà non avessero i mezzi per proseguire le loro conquiste, e che il contingente sconfitto da Carlo Martello fosse intento solo a una razzia in grande stile. L’impero arabo aveva raggiunto dimensioni tali che non avrebbe più potuto espandersi senza frantumarsi; anzi, era già troppo grande per essere governato in modo unitario. Infatti dopo di allora l’impero dei califfi si suddivise in diversi Stati indipendenti e spesso rivali. L’inizio di questa nuova fase nella storia dell’impero arabo si può datare al 750, quando una rivolta, sostenuta dal clan familiare dei discendenti di Maometto e di suo cugino Alì, abbatté gli Omayyadi e riportò al potere la famiglia del profeta: nello specifico si trattava dei discendenti di uno zio di Maometto, chiamato Abbas. La caduta degli Omayyadi tuttavia non sanò la spaccatura fra sunniti e sciiti, perché questi ultimi volevano che il califfato fosse trasmesso proprio ai discendenti di Alì, e non si accontentavano di quelli di Abbas. La dinastia che prese nome da quest’ultimo, gli Abbasidi, tenne il califfato per cinque secoli, trasferendo la capitale da Damasco in una nuova città: Baghdad, sul fiume Tigri, che divenne una delle metropoli più fiorenti e cosmopolite del mondo. Sotto il califfato abbaside gli Arabi svilupparono una grande civiltà, assorbendo e rielaborando l’eredità greco-romana, persiana e indiana dei territori da loro conquistati. Il califfato di Harun al-Rashid (786-809), contemporaneo di Carlo Magno, a cui mandò in regalo un elefante, rappresenta il momento culminante di questa vera e propria età dell’oro della civiltà araboislamica. Dagli emirati agli Stati arabi indipendenti

Lo splendore del califfato abbaside non deve però nascondere che in quest’epoca iniziò la frammentazione politica dell’impero arabo. Il trasferimento della capitale a Baghdad voluto dagli Abbasidi, e quindi lo spostamento del centro di gravità del mondo islamico verso l’Iraq e la Persia, significò un progressivo distacco delle regioni occidentali, che divennero via via indipendenti sotto il governo di principi locali, detti con parola araba “emiri”. Subito dopo la caduta della dinastia omayyade nel 750 si manifestarono le prime spinte centrifughe. Nel 756 l’unico superstite della famiglia omayyade sterminata dagli Abbasidi, Abd al-Rahman, prese il potere in Spagna e la trasformò in uno Stato islamico indipendente dal califfo, l’emirato di Cordova. Poco dopo è la volta della Tunisia, dove nell’800 per concessione di Harun alRashid nasce una dinastia indipendente, quella degli Aghlabiti, con capitale a Kairouan. Proprio gli Aghlabiti tunisini dall’827 daranno inizio all’ultima grande conquista araba, quella della Sicilia, che richiederà più di settant’anni per essere

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe



La Moschea di Cordova, interno 784 Cordova, Spagna La Moschea di Cordova è la più grande moschea dopo la Kaaba alla Mecca. Fu iniziata nel 784 per volere di Abd al-Rahman e ampliata nei due secoli successivi; l’interno è caratterizzato da una grandiosa sala ipòstila con 1293 colonne che sorreggono archi a ferro di cavallo.

221



completata, data l’ostinata resistenza bizantina. Nell’868 anche in Egitto nasce un emirato indipendente, governato da un ex schiavo soldato del califfo di origine turca, Ahmad ibn Tulun: il fenomeno per cui comandanti militari turchi, in origine schiavi, prendono il potere in una data regione e creano dinastie di emiri diverrà sempre più diffuso nei secoli successivi, contribuendo a sgretolare l’unità dell’impero arabo. Nel 977 un’altra dinastia turca fondata da un ex schiavo, i Ghaznavidi, prende il potere in Afghanistan e allarga il dominio islamico verso l’India, occupando il bacino dell’Indo e in parte quello del Gange, cioè le zone dove la religione islamica è rimasta predominante fino a oggi. Nel 910, intanto, era nato in Occidente addirittura un califfato rivale di quello di Baghdad: in Tunisia aveva preso il potere la dinastia dei Fatimidi. I Fatimidi

La Moschea Al-Azhar al Cairo, esterno 969-973 Il Cairo, Egitto Nel X secolo durante il califfato fatimide il Cairo divenne una delle capitali più importanti del Mediterraneo. Nel 970 fu costruita la Moschea Al-Azhar (‘La Fiorita’), il più antico istituto accademico per gli studi teologici, sede ancora oggi di una delle più prestigiose università del mondo arabo.

L’islam nel X secolo

OCEANO AT L A N T I C O Syr D

IMPERO

aria

CAROLINGIO

Lago d’Aral

Danubio MAR

Algeri

IMPERO

Tunisi SICILIA

BIZANTINO

Nishapur

Rey Hamadhan Samarra Isfahan Damasco Eu Baghdad CIPRO frat e Bassora Gerusalemme Shiraz Tarso

i gr Ti

Kairouan

Trebisonda

Balkh Merv

Aleppo

MAR MEDITERRANEO CRETA Tripoli

Kandahar

Mossul

o

Tahert

Tiflis

IO

Fez

NERO

SP

Costantinopoli

Ind

Roma

CA

Cordova

AR

Siviglia

Samarcanda Bukhara

M

OMAYYADI DI CORDOVA Barcellona

Daybul

Il Cairo

Mascate Medina

RO

Ni

AR

lo

M

La Mecca SS O

¯

Fatimidi Ghaznavidi

222

Parte VIII L’altra Roma

OCEANO INDIANO

erano sciiti, anzi appartenevano a una speciale setta mistica dello sciismo, gli ismailiti; non riconoscevano quindi il califfo di Baghdad come legittimo successore di Maometto, e perciò non si accontentarono del titolo di emiri, ma assunsero essi stessi il titolo califfale. Nel 969 i Fatimidi conquistarono l’Egitto, che da allora formerà un unico Stato indipendente insieme al Nordafrica e alla Sicilia, con capitale al Cairo. Il califfato fatimide durerà fino al 1171, e grazie anche al controllo delle miniere d’oro africane la sua potenza oscurerà quella del califfato di Baghdad, ormai in piena crisi. Il Cairo, insieme a Palermo, succede a Baghdad come grande metropoli cosmopolita e ricchissimo centro commerciale, in cui si incrociano i commerci del Mediterraneo, dell’Africa e dell’India. Una volta affermato che nel mondo islamico poteva esserci più d’un califfo, anche gli emiri di Cordova non tardarono ad assumere il titolo califfale, sancendo la divisione dell’impero in tre Stati rivali.

1. Che cosa caratterizzò il califfato degli Abbasidi? 2. Quali Stati emergono dalla divisione dell’impero arabo nel X secolo?

6. Islam e cristianesimo: un confronto

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E 

Islam: radici e precetti

L’islam nacque in un popolo che in gran parte era politeista, ma dove l’ebraismo e il cristianesimo non erano affatto sconosciuti. L’insegnamento di Maometto affonda le radici nella Bibbia e si pone in continuità con le altre due grandi religioni monoteiste: il profeta dichiarò che l’islam era il superamento dell’esperienza ebraica e cristiana, e che il suo scopo era di ristabilire la vera osservanza dell’Antico Testamento e del Vangelo. Molto materiale biblico confluì nel Corano: Maometto accettava la rivelazione dell’Antico Testamento per quanto riguarda la creazione del mondo, Adamo ed Eva, la cacciata dal Paradiso Terrestre, il Giorno del Giudizio, e riconosceva anche in Gesù un grande e glorioso profeta. Non accettava però che Cristo fosse figlio di Dio, né che fosse morto in croce, ma pensava che Dio lo avesse assunto vivo in cielo prima della crocifissione: è il motivo per cui i musulmani, pur venerando Gesù e sua madre Maria, non hanno alcun rispetto per la croce, che considerano anzi un ignobile strumento di tortura. Per dare un’identità ai suoi seguaci e trasformarli in una comunità, Maometto riprese diversi obblighi e divieti della tradizione ebraica, in particolare la circoncisione per i maschi e la proibizione di mangiare carne di maiale. Altri precetti vennero introdotti da lui, come il divieto di bere vino, o l’obbligo di digiunare e di astenersi dal sesso, durante le ore del giorno, per un intero mese all’anno, il mese che nel ca-

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

La fine del Ramadan © Corbis/Contrasto La falce di luna crescente, qui fotografata vicino al minareto della Moschea di Amman in Giordania, è per i musulmani il segno della fine del mese sacro del Ramadan e l’inizio della festa del ‘Id al-Fitr (‘festa dell’interruzione’ del digiuno).

223

lendario islamico ha il nome di Ramadan. I precetti fondamentali, quelli che costituiscono un obbligo assoluto per ogni musulmano, sono cinque: la professione di fede, cioè riconoscere che non c’è altro dio tranne Dio, e Maometto è il suo profeta; pregare cinque volte al giorno, seguendo un rituale stabilito; fare l’elemosina ai poveri (zakat), un obbligo che nell’impero costruito dagli Arabi divenne rapidamente una vera e propria tassa riscossa dallo Stato; osservare il Ramadan; e fare almeno una volta nella vita, se si ha la possibilità, il pellegrinaggio alla Mecca.



La Cupola della Roccia a Gerusalemme 691 Gerusalemme, Israele La Cupola della Roccia, detta anche Moschea di Omar, è il più antico santuario del mondo islamico. Di forma ottagonale, l’edificio fu costruito alla fine del VII secolo a Gerusalemme, la terza città santa dell’islam dopo Medina e la Mecca.

224

Specificità teologiche e rituali

Al di là di questi obblighi formali, la fede insegnata da Maometto e tramandata dal Corano era molto più essenziale rispetto alla complessa elaborazione teologica del cristianesimo. Nell’islam non c’è Trinità, non esiste lo Spirito Santo né il mistero dell’Incarnazione (secondo il quale Cristo è Dio che si fa uomo); Dio è unico, e pensarla diversamente significa, per i musulmani, cadere nel politeismo. Tutte le raffinatissime discussioni che avevano animato e reso più complicata la vita cristiana dei primi secoli, intorno ai rapporti fra le tre persone della Trinità e la natura umana e divina di Gesù, non trovano alcuna eco nell’islam. Dio per i musulmani non si è mai fatto uomo, né ha sacrificato suo figlio per la salvezza dell’umanità: a lui è possibile soltanto sottomettersi con piena accettazione della sua volontà. Nell’islam non ci sono dogmi, non ci sono misteri, non ci sono miracoli. Riprendendo un antico comandamento biblico, disatteso dai cristiani, Maometto ribadì che era vietato rappresentare Dio in immagini, perché così lo si trasformava in qualcosa di simile a un essere umano, mentre il Dio dell’islam è interamente trascendente, si trova cioè in un’altra dimensione, al di fuori del nostro universo. La predicazione di Maometto creò una religione che pur partendo dalle stesse radici era, ed è tuttora, profondamente diversa da quella cristiana. La Messa, che è al centro del culto cristiano e commemora il sacrificio di Cristo, nell’islam non esiste; i fedeli si radunano solo per pregare insieme. Il luogo di culto, la moschea, non è una chiesa, perché sarebbe assurdo per i musulmani pensare che Dio sia a casa sua in un posto più che in un altro; è solo il luogo dove ci si ritrova per la preghiera. Non ci sono sacerdoti, perché non c’è nessun sacramento da celebrare; l’imam è solo una figura autorevole che guida la preghiera, e può dare buoni consigli, ma la salvezza di ognuno dipende solo dalla sua fede e dalle sue buone azioni, non dal battesimo, dalla confessione o dall’eucaristia. L’assenza di un clero rappresenta una fondamentale differenza fra le società islamiche e quelle cristiane: nel mondo musulmano non esiste la Chiesa, che in Occidente a partire dal IV secolo ha rappresentato un formidabile contrappeso al potere dello Stato, e non c’è nem-

Parte VIII L’altra Roma

meno un’interpretazione ufficiale dell’ortodossia religiosa, come quella fornita nei primi secoli del cristianesimo dai grandi concili. La libertà d’interpretazione nell’islam è quindi molto maggiore. Essa però non spetta ai semplici credenti, e neppure ai capi politici, compreso il califfo: fin dall’inizio nel mondo musulmano esiste un gruppo influente di dotti, studiosi del Corano e della tradizione religiosa, gli ulema, e tutti gli altri si rimettono al loro parere nelle questioni che riguardano la fede e la sharia.

1. Quali elementi dell’Antico Testamento e del Vangelo furono ripresi dall’islam? 2. Quali sono i cinque precetti fondamentali dell’islam? 3. Qual è la fondamentale differenza tra la società islamica e quella cristiana?

7. L’organizzazione dell’impero arabo

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Le ragioni della conquista

Di fronte a un fenomeno gigantesco come le conquiste arabe, gli storici si sono interrogati sulle ragioni di un successo così rapido e spettacolare, e hanno valutato tutte le spiegazioni possibili. Si trattò di una conquista innanzitutto religiosa, basata sul jihad, e quindi sull’entusiasmo religioso dei combattenti, come pensano i cronisti arabi dell’epoca? Oppure di una grande emigrazione del popolo arabo, spinto dalla sovrappopolazione ad abbandonare un paese arido, alla ricerca di terre più ricche? O fu un’estensione del modo di vita tradizionale dei Beduini, basato sulla razzia e sul bottino? In tutte queste spiegazioni ci può essere qualcosa di vero, perché raramente i grandi fenomeni storici hanno una singola spiegazione. Ma in ogni caso bisogna distinguere fra le cause che mossero gli Arabi alla conquista, e i motivi per cui la loro espansione ebbe un successo così travolgente. Il primo punto sicuro è che le conquiste arabe furono il frutto di una pianificazione deliberata; furono operazioni militari, non migrazioni di popoli. La migrazione avveniva dopo la conquista, non prima. Ogni conquista fu organizzata da capi che stanziavano risorse, radunavano truppe, pianificavano gli obiettivi e le direttrici di marcia. Si può discutere se fin dall’inizio ci sia stata una pianificazione centralizzata da parte del califfo, o se le diverse ondate si siano mosse per iniziative di capi locali; se cioè uno Stato vero e proprio esistesse già alla morte del profeta, o

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe



Castello omayyade di Qasr al-Kharana 710 Amman, Giordania Come altri edifici sparsi nel territoro siro-giordano, questo piccolo palazzo/fortezza di età omayyade presenta una planimetria a pianta quadrata, torri disposte agli angoli e lungo le cortine, una porta centrale d’accesso sul lato meridionale. Qasr el-Kharana era probabilmente una residenza da caccia, ma questo tipo di architettura richiama quella militare dei fortini bizantini e degli accampamenti fortificati romani dislocati lungo il limes imperiale (i castra, da cui deriva il sostantivo qasr).

225

se abbia preso forma solo dopo le prime grandi conquiste. In ogni caso oggi si pensa che la motivazione religiosa, la volontà dei capi di conquistare il mondo alla vera fede, abbia avuto un ruolo decisivo nell’avviare la grande espansione araba; tanto che il califfato arabo sotto i califfi “ben guidati” e poi sotto gli Omayyadi è stato definito «lo Stato del jihad». Un ruolo ebbe ovviamente anche il desiderio di bottino, tanto più forte una volta constatata la facilità delle vittorie. Ma perché le vittorie furono così facili? Una risposta definitiva a questa domanda non c’è, e forse non ci sarà mai, perché le informazioni che abbiamo su quell’epoca sono poche. Un fatto importante da tener presente è che con l’unificazione sotto le bandiere dell’islam gli Arabi costruiscono uno Stato efficiente, capace di reclutare, motivare e pagare grandi eserciti. I tributi pagati dai sudditi sono cospicui fin dal tempo del profeta; già dal regno del primo califfo, Abu Bakr, la definitiva unificazione della penisola arabica mette a disposizione risorse umane ed economiche considerevoli. Ma è anche importante sottolineare che gli Arabi affrontano un impero come quello sasanide, che in quel momento è gravemente indebolito dalla lunga lotta con Bisanzio; e un altro, quello bizantino, che invece sembra forte, ma in realtà fatica a tenere sotto controllo i suoi territori periferici, per la disaffezione delle popolazioni dovuta all’oppressione fiscale e religiosa. Non per nulla gli Arabi, che conquistano in pochi anni immense province, sono fermati quando cercano di invadere il cuore dell’impero bizantino, l’Anatolia, e vengono sconfitti ogni volta che assediano Costantinopoli: il potere imperiale è ancora piuttosto forte, ma non nelle province più lontane. Una fiscalità efficiente e un’economia in crescita

La necessità di organizzare nel modo più efficiente il prelievo fiscale e la spesa militare indusse il califfo Omar (634-644) a istituire il primo vero organo di governo dell’impero islamico, il diwan. Si trattava di una tesoreria incaricata di registrare il tributo pagato dalle tribù arabe e dai popoli sottomessi, nonché il bottino raccolto durante le guerre, e di distribuire i fondi per finanziare  l’esercito e le campagne di conquista. Per gli Arabi un’ammiDinar in oro 715-717 nistrazione regolare capace di produrre documentazione scritMuseo Numismatico della Banca del Marocco, Casablanca ta era una novità, tanto che fino all’inizio dell’VIII secolo i reLa legenda che corre lungo questo gistri del diwan vennero tenuti in greco da personale cristiano. dinar, proveniente forse dal Nelle ex province bizantine e sasanidi il sistema fiscale rimaMaghreb, è scritta sia in caratteri latini sia in caratteri arabi. se in funzione più o meno allo stesso modo di prima, ma fu ca librato in modo tale da gravare soprattutto sui non musulmani. Dirham in argento Il risultato fu che i sudditi cristiani ed ebrei lamentarono a 817-818 Museo Numismatico gran voce il peso opprimente della fiscalità imposta dagli Aradella Banca del Marocco, bi, ma sono più o meno le stesse lamentele che si levavano priCasablanca ma contro la fiscalità bizantina. Per di più, mentre prima gran Nella legenda del parte dell’imposta veniva trasferita a una lontana capitale, il campo centrale di questo diwan spendeva sul posto gran parte del ricavato, per mantedirham, coniato a Watit in nere l’esercito e sostenere l’immigrazione araba. Marocco, è incisa La moneta in uso nell’impero arabo continuò all’inizio a esin caratteri arabi l’invocazione sere quella bizantina e persiana, finché il califfo Abd al-Malik «Non vi è altro Dio all’infuori di (685-715) creò il sistema monetario rimasto poi per secoli in Allah». uso nel mondo islamico. Era basato su una moneta d’oro di valore equivalente al solidus romano, il dinar; una moneta d’argento, il dirham, che fu di gran lunga la moneta più diffusa; e

226

Parte VIII L’altra Roma

una monetina di rame per i commerci spiccioli. I colossali tesori accumulati grazie al bottino delle conquiste vennero così rimessi in circolazione sotto forma di moneta. La riforma monetaria diede sostegno al vigoroso sviluppo economico innescato dalle conquiste arabe. I paesi conquistati dall’islam, dopo un’iniziale crisi dovuta alle spoliazioni della conquista, conobbero fra VIII e X secolo una decisa crescita economica e demografica. In quell’immenso spazio, unificato dal punto di vista politico, culturale e linguistico, oltre che commerciale e monetario, le innovazioni si diffondevano rapidamente, per cui coltivazioni o tecniche provenienti per esempio dalla Persia non tardavano ad arrivare fino in Spagna. In campo agricolo si diffusero la coltivazione del sorgo, del riso, degli agrumi, del cotone, della canna da zucchero. Le tecnologie per l’irrigazione e la macinazione dei cereali, come i mulini ad acqua e a vento, vennero impiegate su scala maggiore rispetto all’Antichità, e vennero sperimentate nuove forme di rotazione delle colture, che permettevano di moltiplicare i raccolti. Le città del mondo islamico divennero fiorentissimi centri di commercio, e il mercato, il bazar, fu da allora il cuore di ogni insediamento musulmano. I benefici, però, furono risentiti più dal Vicino Oriente che dall’area egiziana e nordafricana: qui infatti la separazione traumatica dallo spazio economico bizantino e la lontananza dalle capitali del califfato provocarono un ristagno più prolungato dell’economia. Solo con la nascita dei poteri indipendenti, aghlabita e poi fatimida, anche quelle zone conosceranno la ripresa economica. Un impero militare

L’uso del tributo per mantenere l’esercito fu il primo e fondamentale compito organizzativo intrapreso dai califfi. I guerrieri, reclutati essenzialmente fra i bellicosi Beduini nomadi, erano bene armati; la maggior parte combatteva a cavallo, e molti avevano un armamento pesante, con elmo, scudo e cotta di maglia, lancia e spada, arco e frecce. Il reclutamento e la suddivisione in reparti erano basati sull’appartenenza tribale, e ogni tribù aveva una sua bandiera. Ma l’approvvigionamento era organizzato dal califfo e dai suoi generali: lo Stato requisiva e accumulava vettovaglie, provvedeva mandrie e greggi di bestiame, assegnava alle varie tribù le zone di pascolo nei territori occupati, riforniva le truppe di cavalli e cammelli, inviava rinforzi ai comandanti sul campo. Gli indisciplinati guerrieri del deserto vennero trasformati in soldati a tutti gli effetti, che ricevevano dallo Stato un soldo con cui mantenere sé e le proprie famiglie. In cambio dovettero accettare un comando unificato e una severa disciplina, imparare l’obbedienza agli ordini e mettere da parte le tradizionali rivalità fra tribù, che furono sempre un punto debole del mondo arabo. Gli Arabi consolidarono le loro prime conquiste creando una rete di città di guarnigione. Poteva trattarsi di quartieri nati accanto a centri urbani già esistenti, o di città interamente nuove; all’inizio erano solo accampamenti di soldati per controllare il territorio circostante, ma presto attrassero le famiglie dei soldati e

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

 Statua di califfo Secondo quarto dell’VIII sec. Museo Rockefeller, Gerusalemme Questa grande statua in stucco alta 195 cm proviene da Khirbet el-Mafgiar (nei pressi di Gerico in Cisgiordania) dove sorgeva un imponente palazzo residenziale di epoca omayyade voluto da uno dei figli di Abd al-Malik, il califfo Hisham (al potere dal 723 al 743). La statua rappresenta un califfo, probabilmente lo stesso Hisham, e doveva trovare posto in una nicchia della sala del ricevimento.

227

La legge coranica e le leggi romano-barbariche I precetti religiosi contenuti nel Corano non riguardano soltanto la fede e il culto divino, ma investono tutta la vita della società. La sharia, la legge religiosa islamica, è un codice legale a tutti gli effetti, basato sugli insegnamenti del Corano; perciò ha un valore sacrale, dato che per i credenti è stato dettato direttamente da Dio. Attraverso l’analisi del libro sacro islamico e dei suoi precetti giuridici è possibile capire come fosse organizzata la società araba dell’epoca, anche se va ricordato che Maometto non si propose solo di regolamentare la vita così com’era, ma di trasformarla. Come vedremo, sono possibili molti confronti fra il Corano e le leggi romano-barbariche della stessa epoca: c’erano evidenti paralleli sociali e culturali fra la società araba e quella franca o longobarda. Sappiamo già che gli Arabi erano organizzati in clan, e in federazioni di clan, le tribù, i cui membri credevano di discendere da un antenato comune. Ognuno era quindi inserito in un gruppo parentale, e come accadeva presso le popolazioni germaniche, i parenti erano responsabili della vendetta per chi veniva offeso o ucciso [cfr. cap. 17.7]. Il Corano cercò di regolamentare la vendetta, per evitare che si traducesse in una sequenza interminabile di faide, e stabilì che ogni offesa doveva essere punita con la legge del taglione, rifacendosi ai precetti dell’Antico Testamento. Ma il Corano aggiunge che chi condona la pena rinunciando a vendicarsi fa cosa gradita a Dio, e sarà ricompensato. Dio insomma permetteva la vendetta, ma

228

Parte VIII L’altra Roma

consigliava la pazienza e la sopportazione, e vietava di eccedere con vendette sproporzionate. In caso di assassinio il colpevole, se otteneva il condono della pena, doveva pagare un risarcimento a chi l’aveva perdonato. Questa concezione, che considera la vendetta come legittima ma è consapevole dei suoi rischi per la vita collettiva e cerca di attenuarli, è molto simile a quella espressa nell’editto di Rotari, e non è inutile ricordare che si tratta di testi sostanzialmente contemporanei: l’editto è del 643, mentre il Corano venne messo per iscritto dopo la morte di Maometto, intorno al 650. La stessa analogia tra la sharia e le coeve leggi romano-barbariche si ritrova nella regolamentazione dei risarcimenti. Il Corano li menziona in termini generici, ma i califfi stabilirono cifre precise, valutando la morte di un arabo a un prezzo superiore rispetto alla morte di un indigeno, proprio come faceva la Legge Salica discriminando tra Franchi e Romani: in Siria un Arabo valeva 12.000 dinar, un Siriano la metà.



Al-Muwatta’, trattato di diritto musulmano Copia del 1325-1326 Biblioteca Regale di Rabat, Marocco Il testo è una copia redatta nel XIV secolo della più importante opera di legge islamica: la Muwatta’, il più antico “manuale pratico” di diritto musulmano scritto nell’VIII secolo dall’imam della città di Medina Malik ibn Anas (715-795).

altri immigranti dall’Arabia, e divennero grandi città. Fondazioni di questo tipo furono Kairouan e Tunisi in Tunisia e Basra in Iraq, mentre dalla città di guarnigione di al-Fustat in Egitto, addossata a un centro già esistente, nascerà il Cairo moderno. A loro volta le città di guarnigione costituivano le basi per nuove conquiste, perché almeno fino al pieno VIII secolo l’impero condusse una politica deliberatamente aggressiva, organizzando regolarmente campagne per annettere nuovi territori, nella prospettiva di arrivare a sottomettere il mondo intero.



L’arabizzazione dei territori conquistati

Le conquiste arabe modificarono la composizione etnica dei paesi conquistati, dove si impose una nuova élite di governo, di origine araba (oppure berbera, nel Nordafrica e in Spagna, dopo che i Berberi, politeisti, si convertirono all’islam). Ma l’elemento arabo e islamico non costituiva soltanto l’élite. Ad ogni nuova tappa dell’espansione, migliaia di guerrieri con le loro famiglie venivano trasferiti nei territori conquistati, nascevano nuove grandi città di guarnigione, e cominciava l’immigrazione di mercanti e artigiani arabi. La conquista significò anche ridistribuzione massiccia di ricchezza verso questi gruppi sociali: il soldo pagato dal governo era infatti previsto all’inizio non solo per i soldati, ma per tutti gli Arabi che si trasferivano nei nuovi territori. Il fenomeno interessò più massicciamente l’Iraq, la Siria e l’Egitto, e si replicò su scala minore in Nordafrica e poi in Spagna. Dappertutto, però, la maggioranza della popolazione rimase quella indigena, che all’inizio non praticava la fede islamica: nell’amministrazione continuavano a operare gli impiegati greci e persiani, e il mondo contadino indigeno rimase largamente immutato. All’inizio l’arabo non sostituì il greco e il persiano come lingua amministrativa, perché la collaborazione di personale locale era indispensabile per la riscossione delle tasse. Nel 700, però, c’era ormai abbastanza personale musulmano capace di scrivere in arabo, e l’impiego esclusivo di cristiani nell’amministrazione cominciava a suscitare proteste; perciò il califfo Abd al-Malik in quell’anno ordinò di utilizzare d’allora in poi l’arabo. La riforma toccò dapprima l’amministrazione centrale del diwan e si estese poi all’amministrazione provinciale, anche se in Egitto i papiri governativi sono in greco ancora intorno al 710. Verso il 720 un editto proibì ai cristiani di accedere alle più alte funzioni dello Stato, a meno di convertirsi all’islam; in Egitto, in Siria e in Palestina però ancora nel X secolo quasi tutti gli scribi erano cristiani. La trasformazione dell’arabo in lingua amministrativa era una spinta potente perché

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

Una veduta della città di Fez, Marocco Il grande impulso urbanistico seguito alla conquista musulmana del Nordafrica interessò anche il Marocco, e la città di Fez offre un ottimo esempio di quella intensa attività costruttiva, conservando ancora intatti i nuclei urbani più antichi che risalgono ai secoli VIII-IX.

229

la gente parlasse sempre più arabo; un’altra spinta era la conversione all’islam, perché la conoscenza del Corano, in arabo, è fondamentale per il musulmano. Solo in Iran la lingua nazionale, il persiano, si basava su una cultura così complessa e su un’identità nazionale così orgogliosa da rimanere predominante; in Siria, in Palestina e in Egitto il siriaco, l’aramaico e il copto vennero progressivamente marginalizzati dall’arabo. In Nordafrica il berbero rimase lingua parlata da molte tribù indigene, ma l’arabo sostituì completamente il greco, il latino e il punico nel mondo cittadino. I cambiamenti tra VIII e IX secolo

Nel corso dell’VIII secolo, con l’esaurirsi delle grandi conquiste, la struttura dell’impero si assestò. All’inizio il bottino aveva costituito la risorsa economica più importante, e i primi califfi pur trattenendone una parte l’avevano distribuito largamente ai guerrieri, permettendo a ogni Arabo che lo volesse di fare la propria fortuna; ma ora la risorsa più importante dello Stato divenne la fiscalità. Essa gravava pesantemente sui sudditi cristiani ed ebrei, gli unici che continuavano a pagare l’imposta fondiaria (kharaj) e l’imposta personale, o testatico (jizya), ereditate dall’impero bizantino; ma pesava anche sui musulmani, cui era imposto il pagamento dell’elemosina obbligatoria riscossa dallo Stato, lo zakat. L’opposizione fra Arabi e indigeni si diluì grazie a molteplici fattori: le conversioni all’islam, la diffusione della lingua araba, e la crescita delle grandi città di guarnigione, che all’inizio erano concepite solo per gli Arabi, ma col tempo attrassero sempre più popolazione indigena dalla campagna. L’eguaglianza originaria degli Arabi come popolo guerriero e conquistatore andò perdendosi, e anche nell’impero arabo si delineò sempre più netta l’opposizione fra lo Stato, coi suoi funzionari e militari che costituivano un ceto privilegiato, e una popolazione di sudditi sfruttati. A partire dal IX secolo comincia a delinearsi nel mondo arabo un’abitudine che avrà grandi conseguenze, ed è l’ampio uso di schiavi non come manodopera per i lavori più duri, ma per incarichi di grande responsabilità nell’amministrazione e nell’esercito. L’uso di schiavi come funzionari e impiegati degli uffici amministrativi prende piede fin da quando, all’inizio dell’VIII secolo, gli editti del califfo Abd al-Malik impongono l’arabizzazione dell’amministrazione ed escludono le vecchie famiglie di funzionari greci. Ma ancora più importante è l’uso degli schiavi nell’esercito. I califfi impiegano per questo soprattutto schiavi turchi, provenienti dalle popolazioni nomadi in via di conversione all’islam che vivono nelle steppe dell’Asia Centrale. Con gli schiavi turchi si formano reparti di soldati scelti che assumono sempre più importanza. Ex schiavi turchi liberati fanno carriera nell’esercito assumendo comandi militari; saranno spesso loro, come abbiamo visto, i protagonisti delle ribellioni che distaccano dall’impero vasti territori dando vita a nuove dinastie indipendenti [cfr. par. 5]. A loro volta i califfi fatimidi del Cairo fanno largo uso di reparti militari formati da schiavi neri, che saranno sempre il loro sostegno più fidato.

1. Quali i principali fattori che contribuirono a facilitare le conquiste arabe? 2. Per quale motivo le regioni conquistate tornarono a crescere economicamente e demograficamente tra VIII e X secolo? 3. Come avveniva l’approvvigionamento dell’esercito? 4. In che modo cambiò la composizione etnica dei paesi conquistati? 5. Come mutò il rapporto tra Stato e sudditi nel corso dell’VIII secolo?

230

Parte VIII L’altra Roma

8. La donna e la parentela in epoca coranica

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Poligamia e centralità del clan

Il clan arabo era un insieme di famiglie, ognuna incentrata intorno a un capofamiglia maschio, che poteva avere diverse mogli, oltre a concubine e schiave: era quindi una famiglia allargata, patriarcale e poligamica. Il Corano interviene nel campo del matrimonio, del divorzio, della sessualità e dell’adulterio, tentando di regolamentare un settore in cui fino a quel momento la libertà dei maschi era assoluta, e comportava il totale asservimento delle donne. Era usanza degli Arabi sposarsi all’interno del clan, per mantenerne la compattezza; il Corano interviene per moralizzare questa usanza, e proibisce di sposare la vedova del proprio padre o del proprio figlio, la madre, la sorella, la zia, la nipote, la nutrice e le sue figlie, le suocere e le figliastre. Rimanevano le cugine, e infatti a partire da questo momento fra gli Arabi desiderosi di sposarsi all’interno del proprio clan sarà comune specialmente il matrimonio fra cugini primi. La poligamia era profondamente radicata fra gli Arabi; Maometto la accettava pienamente, ma nel suo insegnamento è evidente lo sforzo di migliorare, per quanto possibile, la situazione delle donne all’interno della famiglia poligamica. Sotto l’islam è permesso avere più mogli, ma il Corano insiste che questa possibilità dipende dalla capacità di mantenerle onorevolmente, e che ogni moglie, dopo la prima notte di nozze, ha diritto a una donazione, che dovrà costituire la sua fonte di mantenimento se dovesse restare vedova o divorziare. Come nel “dono del mattino” del diritto longobardo, il riferimento alla prima notte di nozze è simbolico; in realtà la donazione era negoziata al momento in cui si decideva il matrimonio. Per evitare di trovarsi in difficoltà e non commettere ingiustizie, bisogna avere solo due, tre o al massimo quattro mogli, e altrimenti una sola. Chi non ha mezzi sufficienti per sposare una donna libera, è invitato a sposare una schiava, col permesso del padrone di lei e purché sia musulmana.

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe



Le mogli di Maometto XVI sec. In questa miniatura turca sono rappresentate alcune donne e le mogli del profeta Maometto. L’ambiente è ricco e raffinato, più vicino allo stile di vita di un sultano del XVI secolo che alla realtà sociale degli inizi dell’epoca islamica.

231

Il Corano e le donne [dal Corano, II, 226-232, trad. a cura di L. Bonelli, Hoepli, Milano 1979]

Il testo del Corano è caratterizzato nei confronti delle donne da quella che può sembrare una contraddizione. Maometto invita ripetutamente e anzi quasi ossessivamente i credenti a trattare le donne con giustizia e con umanità; al tempo stesso, le regole da lui stabilite prevedono sempre e comunque un’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Il fatto è che nella società araba preislamica la donna sembra essere stata trattata con grande brutalità e aver avuto ben pochi diritti; il Corano rappresenta quindi un miglioramento rispetto alle condizioni precedenti, ma riflette comunque i limiti di una società pesantemente patriarcale, in cui la piena eguaglianza fra i sessi sarebbe impensabile.

La

voce

PA SSA TO del

A coloro che giurano di separarsi dalle loro donne è imposto un periodo di attesa di quattro mesi, per riflettere e non separarsi da esse sconsideratamente; se, durante quel tempo, essi recedono dal loro proposito, sarà bene, poiché Dio è indulgente e compassionevole. Se invece essi avranno deciso fermamente di divorziare, in verità, Dio ode e sa tutto. Le ripudiate attenderanno per tre periodi di purità1 prima di rimaritarsi, né è permesso a loro di nascondere ciò che Dio ha creato nelle loro viscere, se credono in Dio e nel giorno estremo; è più giusto che i loro mariti le riprendano quando sono in questo stato, se desiderano la riconciliazione; ad esse tocca di agire verso i propri mariti come questi agiscono verso di esse, secondo onestà; tuttavia gli uomini hanno su di esse un grado di superiorità; Dio è potente e saggio. Il ripudio è permesso per due volte, dopo di che occorre o ritenerle con umanità o rimandarle con gentilezza; non vi è permesso di riprendere alcunché di quello che ad esse avete dato. [...] Quando ripudiate le vostre donne e sarà giunto il termine loro, non impedite ad esse di rimaritarsi con i loro mariti, quando essi si accordino tra di loro, secondo onestà; ciò viene detto come monito a coloro fra voi che credono in Dio e nel giorno estremo; ciò è più degno per voi e più decente; Dio sa tutto, mentre voi non sapete.

1. tre periodi di purità: tre cicli mestruali, per verificare con certezza che non siano incinte.

Parte VIII L’altra Roma



Affresco con figura femminile 712-715 Qasr Amra, Giordania In questo affresco di età omayyade, che decorava una delle sale del complesso termale di Qasr Amra, è raffigurata una donna a seno nudo con le braccia alzate (interpretata come bagnante, danzatrice sacra o cortigiana del califfo). La rappresentazione di figure nude era tollerata in ambito non religioso ma alla fine dell’VIII secolo, con l’avvento della dinastia abbaside, essa fu completamente vietata.

Una società patriarcale

La natura patriarcale della società non è modificata dall’islam, né l’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo, ma c’è la preoccupazione di garantire anche alla donna dei diritti. Il marito è autorizzato a battere la moglie e a non dormire con lei, se la trova disubbidiente, ma alla moglie ubbidiente bisogna portare rispetto; fra marito e moglie ci devono essere «amore e compassione» (Corano, XXX, 20). La donna non è una proprietà del marito e non può quindi passare a un altro uomo insieme con la sua eredità, come sicuramente avveniva prima dell’islam. La donna che rimane vedova può risposarsi e nessuno ha il diritto di impedirglielo e di riprenderle la donazione che ha ricevuto dal marito; allo stesso modo, chi ripudia una moglie non può riprendersi quello che le ha regalato dopo la prima notte di nozze. All’uomo è riconosciuto il diritto di ripudiare la moglie anche senza motivazioni, ma il Corano introduce cautele intese a scoraggiare in qualche misura la pratica troppo facile del ripudio. Chi vuole ripudiare la moglie deve attendere quattro mesi dopo aver annunciato la decisione, e Dio consiglia di ripensarci; altrimenti il divorzio è definitivo, ma se poi la donna si scopre incinta, il marito deve riprendersela; se sta allattando un neonato, il marito anche dopo il divorzio è tenuto a mantenerli entrambi fino alla fine dell’allattamento. La donna non può ripudiare il marito in mancanza di giusta causa, ma può rivolgersi al giudice chiedendo il divorzio, in caso di inadempienza al contratto matrimoniale, di assenza prolungata del marito, e anche di impotenza: la sessualità nel matrimonio è un diritto riconosciuto sia all’uomo sia alla donna, e quando il Corano avverte che chi prende più di una moglie dev’essere sicuro di poterle trattare tutte allo stesso modo, si riferisce anche a questo. L’adulterio punito è solo quello della moglie, e del suo complice. Per provare l’adulterio occorrono quattro testimoni, e allora il marito ha il diritto di tenere la moglie prigioniera in casa fino alla morte. In un altro passo si stabilisce invece che l’adultera e il suo complice ricevano cento frustate in pubblico. A margine di questa regola il Corano prevede anche la punizione dell’omosessualità maschile, senza specificarla, e aggiungendo comunque che chi si pente e si corregge dev’essere lasciato tranquillo, «poiché Dio è benigno e compassionevole». Vale la pena di sottolineare che la condanna alla lapidazione per le adultere, prevista dall’Antico Testamento e rimessa oggi in uso in taluni paesi islamici, non è menzionata nel Corano. Un aspetto centrale nella vita familiare dell’epoca, regolamentato con grande attenzione anche in Occidente da tutti i codici di leggi, era l’eredità. A chi sta per morire il Corano impone di fare testamento, dividendo in modo equo fra i parenti; alterare le ultime volontà di un defunto è severamente proibito. Ma chi fa testamento non è libero di fare quello che vuole: Dio ha previsto esattamente le porzioni spettanti a ciascuno. La principale preoccupazione è di garantire che anche le donne abbiano una quota dell’eredità; erano loro infatti a correre i maggiori rischi, in una società estremamente maschilista come quella araba dell’epoca. Tenendo conto di questa caratteristica, si capisce che il Corano stabilisca comunque una ripartizione squilibrata: la quota che spetta a ciascun maschio è il doppio di quella che spetta a ciascuna femmina. Altre regole estremamente minuziose regolamentano ciò che spetta ai genitori e ai

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe



Marito e moglie davanti al giudice 1237 Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi Questa miniatura, opera dell’artista Yahya al-Wasiti (XIII secolo), mostra la disputa di una coppia sposata che si accusa reciprocamente davanti a un giudice.

233

fratelli del defunto, nel caso che non ci siano figli, oppure un figlio unico, o ci siano solo femmine: in tutti questi casi Maometto riconosce che il clan familiare ha diritto a una quota dell’eredità. Per gli Arabi dell’età coranica, insomma, la parentela continua a costituire una struttura forte, che limita l’autonomia dell’individuo.

1. Come erano strutturati i clan arabi? 2. In che modo il Corano regolamenta il rapporto tra uomo e donna?

9. La civiltà araba



Una biblioteca araba 1237 Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi In questa miniatura di Yahya al-Wasiti (artista arabo del XIII secolo) è dipinta una scena di lettura e insegnamento all’interno di una biblioteca. Sugli scaffali trovano posto in maniera fitta e ordinata i volumi.

234

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Tra eredità culturale e nuova produzione

Nell’VIII secolo gli Arabi, padroni di un impero, smisero di essere un popolo di conquistatori seminomadi e la loro lingua divenne il veicolo di una complessa civiltà. In essa confluirono il grande patrimonio della civiltà iranica e indiana, e quello della civiltà ellenistica, ereditata dall’impero greco-romano. Gli Abbasidi favorirono un intenso lavoro di traduzione e assimilazione della cultura greca e indiana, soprattutto filosofica e scientifica, in una prospettiva di rivalità con l’impero bizantino: davanti a quel nemico più volte sconfitto, indebolito ma mai abbattuto, i califfi si proposero come i veri continuatori della civiltà classica, basando anche su questo la loro pretesa al dominio del mondo. È attraverso gli Arabi, più che dai Greci dell’impero bizantino, che nel XII-XIII secolo l’Occidente riscoprirà l’opera dei grandi pensatori greci antichi, come Aristotele. Ma accanto alla cultura scientifica ereditata dai Greci ci fu anche il poderoso sviluppo di una cultura più propriamente araba e musulmana, che comprendeva lo studio e il commento del Corano e della tradizione religiosa islamica, la costruzione di una giurisprudenza per chiarire tutti gli aspetti della sharia, lo studio della grammatica araba, e anche una ricca produzione poetica e letteraria. Promuovere la cultura per i califfi era un obbligo di tipo religioso: ogni aspetto dell’attività culturale era infatti visto come collegato alla fede islamica, e i luoghi di studio erano le scuole e le biblioteche annesse alle moschee. Ma i califfi promossero anche la costituzione di grandi biblioteche e centri di studio presso il proprio palazzo, mantenendo studiosi e incoraggiando il lavoro di traduzione delle opere greche. Particolarmente famoso per la sua promozione della cultura è il califfo al-Mamun (813-833), figlio di Harun al-Rashid; partendo dalla biblioteca del padre, al-Mamun creò la più grande biblioteca e accademia di studi del mondo

Parte VIII L’altra Roma

islamico, chiamata Bayt al-Hikma, la ‘Casa della Sapienza’, che giunse a ospitare mezzo milione di manoscritti. La letteratura fiorì a Baghdad e nelle altre grandi città; gli antichi poemi epici che cantavano gli eroi delle tribù, tipici dell’epoca nomade, vennero ricopiati e studiati, ma i poeti di corte dell’epoca abbaside composero opere di tipo diverso, sviluppando soprattutto il genere della poesia amorosa con accompagnamento musicale, il ghazal. Nacque anche una ricca letteratura araba in prosa, che comprendeva favole, aneddoti, satire, trattati, manuali e riflessioni di ogni genere sulla natura umana, sull’amore e sul sesso, e dopo la metà del IX secolo anche opere storiche e geografiche e racconti di viaggio. Nei secoli immediatamente successivi alla conquista nascono anche i primi grandi monumenti dell’architettura islamica. Si tratta innanzitutto di moschee. Le più antiche sono la Moschea di Omar, nota anche come Cupola della Roccia, a Gerusalemme, e quella di Kairouan, la grande città di guarnigione creata in Tunisia, risalenti ancora al VII secolo, e la Grande Moschea di Damasco. Le prime moschee presentano una grande varietà di forme, e riprendono elementi delle tradizioni architettoniche precedenti, come la cupola, di origine romano-bizantina. Il minareto, elemento tipico della moschea, nell’esempio più antico che è appunto quello di Kairouan non è una torre sottile, ma poderosa e a terrazze sovrapposte, forse ispirata dagli ziggurat mesopotamici [cfr. vol. 1, cap. 1.6]. La grande tradizione scientifica

Sul piano scientifico, i dotti arabi si interessarono fin dall’inizio alla chimica, intesa soprattutto come la scienza della trasformazione delle sostanze, traducendo la trattatistica greca, classificando scientificamente gli elementi e conducendo esperimenti per osservare le loro reazioni. La stessa parola “chimica” deriva dall’arabo al-kimiya, alchimia, con cui gli Arabi, e poi gli Europei del Medioevo e del Rinascimento, indicavano una dottrina che cerca di scoprire le relazioni nascoste fra gli elementi e di tramutare i metalli in oro. Sotto il califfo al-Mamun nacque l’astronomia araba, con la traduzione di opere greche e indiane, e la costruzione di osservatori astronomici. Nel IX secolo comincia anche la storia della matematica araba, che ebbe un ruolo fondamentale nel trasmettere all’Occidente i grandi risultati dei matematici indiani: il matematico persiano al-Khuwarizmi, che insegnava alla Casa della Sapienza a Baghdad, introdusse l’uso dei dieci numerali indiani, che noi chiamiamo appunto numeri arabi e che comprendono lo zero. Il nome stesso dello “zero” e la parola “cifra” derivano dall’arabo sifr. Su questa base la matematica araba si spinse rapidamente più avanti: alKhuwarizmi è considerato dalla tradizione l’inventore dell’algebra, e in effetti fu lui a inventarne il nome e ad ampliarne la teoria, anche se le origini del sistema si trovano in realtà nella matematica greca e indiana.

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

 Il minareto della Moschea di Kairouan, Tunisia VII sec. Il minareto costituisce uno degli elementi principali dell’area sacra della moschea ed è la torre da dove il muezzin richiama cinque volte al giorno i fedeli musulmani alla preghiera. Il minareto della Moschea di Kairouan è uno dei più antichi, ha una struttura a tre corpi sormontati da una cupola.



Astrolabio 927 Museo al-Sabah di Arte Islamica, Kuwait City Questo antico strumento astronomico arabo, serviva per calcolare latitudini, localizzare corpi celesti e determinarne la posizione sia sulla terraferma sia in mare aperto.

235



I più antichi numeri arabi 976 Dal Codex Virgilianus ms. Lat. D. I.2, c. 9v; Biblioteca di San Lorenzo dell’Escorial, Spagna Nell’immagine vediamo raffigurata la più antica attestazione dei numeri arabi su una pergamena latina.

Lo studio della medicina fu uno dei campi a cui gli Arabi si dedicarono con maggior passione. La fondazione di ospedali, accompagnati da scuole di medicina, era una delle opere di pietà preferite dai califfi. Entro il 900 tutta la letteratura medica greca era stata tradotta in arabo e la tradizione di Ippocrate e Galeno, che dominerà anche la medicina occidentale fino a tempi recenti, era pienamente assimilata. Anche se priva di un reale fondamento scientifico, la medicina araba basata su quella greca aveva caratteristiche di grande modernità, in particolare la nozione che l’organismo è un tutto unico per cui le malattie non possono essere curate specificamente senza considerare lo stato generale della persona, e la consapevolezza che le condizioni psicologiche hanno un’influenza sulla fisiologia del paziente. Era innanzitutto un medico il primo grande scienziato arabo, Muhammad ibn Zakariya detto al-Razi, vissuto tra IX e X secolo, anch’egli di origine persiana come al-Khuwarizmi; egli però, nel solco della tradizione scientifica antica, si interessò alle discipline più diverse. A Razi sono attribuite più di cento opere mediche, trentatré trattati di scienze naturali, uno di alchimia, undici di matematica e astronomia e quarantacinque di filosofia, logica e religione, in arabo e in persiano.

1. Di che cosa si occupava maggiormente la cultura araba che si sviluppò autonomamente dalla tradizione ellenistica? 2. Su quale principio si basava la medicina araba?

10. I cristiani nell’impero arabo

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Convivenza pacifica e controllo politico del clero

Cristiani ed ebrei costituivano all’inizio l’immensa maggioranza della popolazione nei territori conquistati dagli Arabi (e non dimentichiamo gli zoroastriani, nei territori dell’ex impero sasanide fra la Persia e l’India). La loro conversione non faceva parte del programma dei califfi: lo scopo delle conquiste arabe era di estendere il potere dell’islam su tutte le terre abitate, non di convertire con la forza i loro abitanti. Il Corano prevede che i musulmani possano convivere con cristiani ed ebrei, purché questi ultimi accettino di obbedire alle autorità islamiche. Imporre la vera fede e la sharia significava per i conquistatori stabilire il potere di sovrani musulmani, e imporre i musulmani come classe dirigente e privilegiata; sotto di loro, i cristiani potevano continuare a praticare la loro fede e le loro Chiese continuavano a esistere. I califfi controllavano le nomine di vescovi e abati, come avevano fatto prima di loro gli imperatori bizantini, collocando nelle posizioni più importanti propri uomini di fiducia, e quindi in pratica l’alto clero cristiano era inserito ufficialmente nell’amministrazione dell’impero islamico. Al momento della conquista, i cristiani che abitavano le province bizantine non potevano ovviamente prevedere l’importanza drammatica che avrebbe avuto in futuro il confron-

236

Parte VIII L’altra Roma

to fra il cristianesimo e l’islam. Sembra che gli ecclesiastici non si siano nemmeno accorti che l’islam rappresentava una nuova religione, e un temibile concorrente. Sapevano soltanto che il temuto e odiato potere imperiale era stato abbattuto e rimpiazzato da nuovi dominatori, barbari e bellicosi, ma che dimostravano rispetto per le chiese e i monasteri, come attestano con stupore le testimonianze dell’epoca. La conquista in sé era stata ovviamente devastante, accompagnata da distruzioni, saccheggi, massacri e confische; ma una volta concluse le ostilità, i nuovi padroni si accontentavano di imporre i tributi tradizionali, riscossi dagli stessi uffici che già li riscuotevano per conto dell’impero. Le guarnigioni arabe concentrate nelle loro città separate pesavano sul paese meno delle guarnigioni bizantine, spesso formate da truppe di provenienza e lingua altrettanto estranea. Ma soprattutto il clero monofisita o nestoriano [cfr. cap. 16.5], seguace di confessioni diverse da quella cattolica ufficiale, si accorse che il nuovo potere, diversamente da quello di Costantinopoli, non aveva alcun interesse per i dissensi teologici fra cristiani, rispettava tutte le chiese e i monasteri, e anzi semmai tendeva a favorire proprio il clero monofisita e nestoriano, di cui conosceva l’ostilità a Bisanzio. Il patriarca monofisita di Alessandria, Beniamino, era vissuto in clandestinità per tredici anni, ricercato dalla polizia imperiale; ma la conquista musulmana gli permise di riprendere trionfalmente la guida della sua Chiesa. Ce n’era abbastanza perché nel complesso la società locale cristiana e il suo clero non dovessero rimpiangere la dominazione bizantina. Momenti di tensione non mancarono, come quando nel 723 il califfo Yazid, fedele agli ordini dell’Antico Testamento che proibiscono di fabbricare immagini di Dio, ordinò la distruzione delle immagini sacre nelle chiese e nelle case cristiane, e cercò anche di sterminare tutti i maiali, ritenuti animali impuri dall’islam e dall’ebraismo. Vi furono zone, come l’Armenia, dove la Chiesa alimentò un costante spirito di ribellione contro la dominazione islamica. Vi fu una certa resistenza in Spagna, dove alla metà del IX secolo, per reazione alle crescenti conversioni all’islam della popolazione locale, nacque il movimento dei “martiri” di Cordova: fanatici che insultavano pubblicamente Maometto e l’islam allo scopo di essere condannati e giustiziati. Ma in generale la convivenza pacifica dei cristiani e dei loro vescovi e monaci con i dominatori arabi fu la norma. Questa convivenza pacifica non significa che il clero cristiano rinunciasse a combattere l’islam sul piano religioso, cercando di impedire le rovinose conversioni di un numero sempre crescente di fedeli. Una volta che l’islam cominciò a essere meglio conosciuto e capito, ci si rese conto del pericolo che rappresentava per la fede cristiana: il clero non esitò a confrontarsi con i musulmani in dispute pubbliche e a scrivere trattati in cui affermava la superiorità del cristianesimo, attaccando l’islam in termini anche molto duri (anche se

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe



Airivank, il “Monastero delle Caverne” X-XIV sec. Gheghart, Armenia Airivank, nell’Armenia centro-orientale, è uno dei più grandi insediamenti monastici rupestri. Fu fondato attorno al X secolo e resistette tenacemente alle ingerenze arabe, persiane, turche.

237

cittadinanza Libertà di culto e luoghi di preghiera

Il Corano non è certamente ispirato dal principio di tolleranza, così com’è nato in Europa nell’epoca dei Lumi, il XVIII secolo. Nella tradizione europea, da allora, tolleranza significa riconoscimento che tutte le idee possono essere espresse a eguale titolo, e che tutte le fedi religiose hanno pari dignità, purché ovviamente non comportino violazioni della legge. Nella prospettiva del Corano, invece, non c’è dubbio che i credenti, cioè i musulmani, sono superiori agli altri e che la loro fede è l’unica vera e giusta. Nei confronti degli altri “popoli del Libro”, cioè gli ebrei e i cristiani, la cui fede è basata al pari dell’islam su una rivelazione divina conservata in un libro sacro, il Corano invita a una “tolleranza” di fatto, nel senso che con loro i musulmani possono convivere pacificamente, così come possono sposare donne ebree o cristiane. Il Corano afferma addirittura che fra gli ebrei e i cristiani «quelli di essi che credono in Dio e nel giorno estremo, e facciano del bene», potranno salvarsi (Corano, V, 73). Fra gli ebrei e i cristiani, Maometto esprime maggiore simpatia per i cristiani, e lo giustifica apertamente dichiarando che è merito del loro clero: «Tu, per certo, troverai che i più violenti nell’inimicizia contro coloro che credono sono i giudei e i politeisti e troverai, d’altra parte, che quelli che sono più vicini per affetto a quelli che credono sono coloro che dicono “noi siamo cristiani”; ciò avviene perché di essi alcuni sono preti e monaci, ed essi non sono orgogliosi» (Corano, V, 85). Lo stesso rispetto è dichiarato per i luoghi di culto cristiano: parlando del jihad, il Corano li assimila alle moschee e dichiara che la spada del credente serve a difendere anche quelli dalla violenza dei politeisti – che a differenza dei cristiani, come sappiamo, sono odiati senza riserve dall’islam: «se Dio non respingesse la violenza di alcuni uomini a mezzo di altri, certamente, monasteri e chiese e oratori e moschee, in cui frequentemente viene commemorato il nome di Dio, verrebbero distrutti» (Corano, XXII, 41). I precetti dei testi sacri restano spesso lettera morta, e nella lunga storia dei conflitti fra Cristianità e islam le chiese sono spesso state dissacrate e insultate dai combattenti musulmani, come le moschee da quelli cristiani. Anche oggi il terrorismo integralista di matrice islamica – ma anche quello indù, in un paese come l’India dove gli scontri religiosi più violenti non coinvolgono i cristiani, ma appunto indù, sikh e musulmani – prende spesso come bersaglio proprio i luoghi di culto. Il conflitto, interno all’integralismo islamico, fra sunniti e sciiti porta spesso a compiere attentati e stragi addirittura nelle moschee. È una prova di quanto il fanatismo religioso porti a tradire lo stesso messaggio in nome del quale si pretende di combattere. Resta il fatto che nei paesi islamici sono sempre esistite chiese cristiane regolarmente funzionanti e tollerate dalle autorità, anche se con limitazioni importanti, come la proibizione di suonare le campane; l’Arabia Saudita odierna, governata da un regime estremamente rigido e intollerante, che vieta l’apertura di chiese, è un’eccezione.

238

Parte VIII L’altra Roma

Proprio per questo è tanto più assurdo che in Europa, patria di un principio di tolleranza ancora più universale di quello coranico, la costruzione di moschee, cioè di luoghi di preghiera per le minoranze musulmane, provochi oggi rabbiose opposizioni. Ed è non solo assurdo, ma anticostituzionale che queste opposizioni si manifestino in Italia, dove la Costituzione garantisce espressamente, all’art. 19: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto». È come se, con la pretesa di difendere la nostra identità, ci dimenticassimo proprio di quei princìpi che ne costituiscono il fondamento più luminoso.



La Torah Sinagoga di Djerba, Tunisia

 Il Corano X sec. Kashmir, India



La Bibbia 1450 Germania

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

239

questo, ovviamente, si poteva fare solo in privato e non in pubblico). Ma questo confronto di idee non impediva la convivenza in un unico Stato. San Giovanni Damasceno (c. 676-749), l’ultimo grande Padre della Chiesa, arabo cristiano di Siria, autore di trattati in lingua greca in cui l’islam è violentemente condannato come un’eresia del cristianesimo, era figlio e nipote di altissimi funzionari del diwan, e lui stesso era stato al servizio del califfo fino a quando, nel 720, non venne proibito ai cristiani di fare carriera [cfr. par. 7]. Perché convertirsi?



Piatto con raffigurazione religiosa buddista IX sec. Ashmolean Museum, Oxford La diffusione dell’islam è testimoniata anche da questo piatto di epoca abbaside, decorato con un’immagine di Bodhisattva, divinità buddista importata nell’Asia centrale e adottata come elemento decorativo dai ceramisti musulmani.

Sarebbe dunque un errore credere che la conquista araba abbia significato subito e dappertutto l’imposizione dell’islam alle popolazioni sottomesse. Anzi, si può dire che al tempo dei primi califfi, e per tutta l’epoca degli Omayyadi, l’islam fosse inseparabile dall’identità araba: era la religione degli Arabi, che non tenevano affatto a condividerla con gli altri. Certamente la nuova religione impressionò e attrasse molti fin dal primo momento, ma gli indigeni che si convertivano dovevano in un certo senso diventare Arabi per essere accettati su un piano di eguaglianza, entrando nella clientela di un capo arabo e integrandosi nella sua tribù. Ci volle molto tempo perché la maggioranza degli indigeni si convertisse all’islam, e questa progressiva conversione non dipese da pressioni o persecuzioni; si spiega, invece, col fatto che l’islam era la religione delle autorità di governo e dei gruppi sociali privilegiati, innanzitutto i soldati e più in generale tutti gli Arabi. Seguire una religione diversa significava essere sudditi di seconda categoria, anche se “protetti” (dhimmi): un’inferiorità evidenziata dalla più pesante tassazione cui erano sottoposti i non musulmani. Convertirsi all’islam significava dunque ridurre il peso delle imposte, e più in generale entrare a far parte della comunità dei credenti e aprirsi la strada a tutte le possibilità di avanzamento che questo comportava. Per di più, in tutti i paesi conquistati il flusso di Arabi musulmani provenienti dalla penisola arabica fu piuttosto sostenuto, contribuendo a conferire ai nuovi territori un carattere islamico. Per effetto di tutti questi fattori, col tempo la percentuale dei musulmani fra la popolazione dell’Iraq, della Siria, della Palestina, dell’Egitto, del Nordafrica andò crescendo, e diminuì quella dei cristiani. Ma in certe zone, per esempio la Palestina, culla del cristianesimo, o l’Egitto con la sua potente chiesa copta, una consistente minoranza della popolazione è rimasta cristiana fino a oggi, anche dopo aver adottato la lingua e la civiltà araba.

1. In che modo le autorità arabe influivano sulla vita delle comunità cristiane? 2. Per quale motivo era conveniente convertirsi all’islam?

240

Parte VIII L’altra Roma

SINTESI 1. Maometto e la nascita dell’islam Uno degli eventi più importanti del VII secolo fu la nascita dell’islam e l’espansione araba. Gli Arabi erano originari della penisola arabica e si erano successivamente diffusi nel Vicino Oriente. Alcuni popoli arabi si erano romanizzati, ma nel deserto vivevano le tribù nomadi dei Beduini che controllavano le piste carovaniere. In gran parte queste tribù erano politeiste e come centro di culto avevano la città della Mecca, importante snodo commerciale della regione. Fu in questo luogo che nel 610 Maometto ebbe le prime visioni inviategli da Allah, la più potente e misteriosa delle divinità, che, dopo essersi rivelata a ebrei e cristiani, aveva scelto Maometto come depositario della rivelazione più importante. I seguaci della nuova religione furono chiamati musulmani e le rivelazioni trasmesse da Maometto furono raccolte, alla sua morte, in un libro sacro, il Corano.

2. La lotta per imporre l’islam e la nascita del jihad La predicazione di Maometto attirò l’ostilità dei capiclan politeisti che dominavano alla Mecca e, nel 622, il profeta fuggì con i suoi seguaci a Medina, dando inizio alla lotta armata per affermare la forza della propria religione. Questa accezione bellicosa dell’islam rientra nella gamma di significati del termine arabo jihad, che letteralmente vuol dire ‘sforzo’. Nel 630 Maometto e i suoi entrarono trionfalmente alla Mecca, trasformandola nella capitale spirituale dell’islam. All’epoca della sua morte (632) Maometto era il capo indiscusso di gran parte della penisola arabica, dove la maggioranza degli abitanti si era convertita all’islam, pagava tributi e seguiva la legge coranica, la sharia. Il rapporto tra la nuova fede, l’ebraismo e il cristianesimo fu sempre tollerante: ambivalente nel momento in cui gli islamici dominavano, conflittuale quando l’islam si sentiva minacciato.

3. Le lotte per la successione di Maometto e il califfato Alla morte del profeta la comunità islamica dovette affrontare una serie di problemi dovuti, principalmente, alla ribellione di molte tribù nomadi e alle lotte che si scatenarono per la successione al potere. Alla guida dei musulmani si succedettero quattro califfi: Abu Bakr, Omar, Uthman e Alì, cugino del profeta. Alì fu ucciso nel 661 al termine di una guerra civile e il suo posto fu preso da Muawiya, che diede inizio alla dinastia omayyade e trasferì la capitale da Medina a Damasco. A quest’epoca risale la prima grande frattura nel mondo islamico tra la maggioranza sunnita e la minoranza sciita, la quale sosteneva che la legittimità del potere sulla comunità spettasse unicamente ad Alì e ai suoi discendenti.

4. Le grandi conquiste arabe Nel volgere di poco tempo gli Arabi si trovarono a dominare su un territorio vastissimo. In un trentennio, dopo aver sottomesso l’Arabia, furono strappati la Siria, la Palestina, l’Egitto e Cipro all’impero bizantino; l’intera Mesopotamia e l’Iran all’impero sasanide. Sotto gli Omayyadi gli Arabi si spinsero fino in Afghanistan e conquistarono parte dell’Asia Minore e tutto il Nordafrica. All’inizio dell’VIII secolo portarono sotto la propria egemonia le steppe dell’Asia centrale e la valle dell’Indo e penetrarono in Europa. Dopo aver abbattuto il regno visigoto e conquistato i tre quarti della Spagna furono fermati oltre i Pirenei dai Franchi. Le conquiste arabe mutarono radicalmente il quadro geopolitico euroasiatico. L’impero sasanide scomparve, quello bizantino ne uscì fortemente ridimensionato e le Chiese orientali rimasero isolate, permettendo alla Chiesa di Roma di cominciare ad affermare la propria autorità su tutto il mondo cristiano.

5. La fine delle conquiste arabe e lo sgretolamento dell’impero Intorno alla metà dell’VIII secolo l’espansione islamica si arrestò e furono evidenti gli enormi problemi che poteva comportare la gestione di domìni così vasti. Nel 750 prese il potere la dinastia degli Abbasidi. Sotto di essi la capitale fu spostata a Baghdad e la civiltà araba conobbe il punto più alto della sua storia. Tuttavia, lo spostamento del baricentro a Oriente contribuì alla progressiva frammentazione politica dell’impero tra il IX e il X secolo. Soprattutto in Occidente alcuni territori cominciarono a rendersi autonomi da Baghdad e presero il nome di emirati. Nel X secolo la situazione mutò nuovamente quando, accanto a quello di Baghdad, emersero due nuovi califfati, quello di Cordova in Spagna e quello dei Fatimidi in Nordafrica e in Sicilia.

6. Islam e cristianesimo: un confronto La religione islamica affonda le proprie radici nella Bibbia e si pone in continuità con l’ebraismo e il cristianesimo. Maometto accettò alcune rivelazioni presenti nell’Antico Testamento e nel Vangelo e riprese diversi obblighi e divieti tipici dell’ebraismo. Gli obblighi fondamentali per ogni musulmano sono cinque: la professione di fede, la preghiera cinque volte al giorno, l’elemosina ai poveri, il rispetto del Ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca. L’islam è una religione più essenziale rispetto al cristianesimo, e il suo Dio, la cui rappresentazione è vietata, è interamente trascendente. Nel mondo musulmano non esiste la Chiesa e non c’è un’interpretazione ufficiale dell’ortodossia religiosa. Esistono gli ulema, un gruppo di studiosi che forniscono un loro parere sulla fede e sulla sharia.

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

241

7. L’organizzazione dell’impero arabo Le conquiste arabe furono il frutto di una pianificazione deliberata e l’elemento religioso ebbe un ruolo decisivo in esse. Al successo dell’espansione araba concorse la grande disponibilità di risorse umane ed economiche a cui gli Arabi potevano accedere. Il sistema fiscale e quello monetario furono riorganizzati, e la nascita di un immenso spazio unificato economicamente, politicamente e culturalmente aiutò a rilanciare l’economia dei paesi conquistati e a far rifiorire le città. L’esercito fu riorganizzato e reso professionale e il continuo arrivo di immigrati arabi, oltre alla nascita di un’élite dirigenziale araba, mutò la composizione etnica dell’impero assoggettato. Dall’VIII secolo la fiscalità divenne la risorsa più importante dello Stato e cominciò a gravare non solo su cristiani ed ebrei, ma anche sul resto dei sudditi. Dal IX secolo si fece frequente l’uso di schiavi per incarichi di grande responsabilità nell’amministrazione e nell’esercito.

8. La donna e la parentela in epoca coranica Il nucleo centrale dei clan arabi era la famiglia, patriarcale e poligamica, e le donne erano del tutto subordinate agli uomini. Il Corano cercò di regolare le relazioni familiari e garantire alle donne alcuni diritti, pur senza toccare la struttura fondamentalmente patriarcale della società e mantenendo il ruolo secondario della donna. Il Corano intervenne sui rapporti poligamici, cercò di scoraggiare il ripudio e regolamentò l’eredità, stabilendo, però, una ripartizione squilibrata tra uomo e donna. L’omosessualità era punita, così come l’adulterio compiuto dalle donne. Nella società musulmana la parentela continuava a costituire una struttura forte, a tutto discapito dell’autonomia individuale.

9. La civiltà araba La presenza di tante culture all’interno del vasto territorio dominato permise di far confluire nella civiltà araba il grande patrimonio della civiltà iranica e indiana e della civiltà ellenistica. Grazie alla mediazione degli Arabi l’Occidente ha potuto recuperare i grandi pensatori greci antichi. Gli Arabi svilupparono una ricca produzione poetica e letteraria. Si interessarono di chimica e arricchirono gli studi astronomici. Al matematico al-Khuwarizmi si deve l’introduzione dell’uso dei dieci numerali indiani e la nascita dell’algebra. Fu sviluppato lo studio della medicina, cui seguì la fondazione di ospedali e scuole mediche. Dopo la conquista nacquero anche i grandi monumenti architettonici islamici, soprattutto moschee.

10. I cristiani nell’impero arabo La conversione all’islam non fu il principale obiettivo dei conquistatori. Alle preesistenti comunità ebraiche e cristiane fu garantita una certa libertà di culto. I cristiani monofisiti e nestoriani conobbero la fine delle persecuzioni. Le tensioni non mancarono, ma in generale la convivenza tra le varie confessioni fu pacifica. Tuttavia, con il tempo gran parte della popolazione dei paesi conquistati si convertì all’islam, perché questo significava la riduzione delle imposte e la possibilità di entrare a far parte della comunità di credenti e far avanzare la propria condizione sociale.

242

Parte VIII L’altra Roma

ESERCIZI Gli eventi 1. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette: ❏ a) La maggior parte dei Beduini era stata romanizzata e convertita al cristianesimo. ❏ b) Maometto trasformò la Mecca nella capitale spirituale dell’islam. ❏ c) I musulmani sciiti ritengono che Alì e i suoi discendenti fossero gli unici successori legittimi del profeta. ❏ d) Con la battaglia di Talas gli Arabi furono fermati dai Cinesi che ripresero il controllo delle steppe asiatiche. ❏ e) Durante il califfato degli Abbasidi la civiltà araba conobbe una profonda crisi economica e culturale. ❏ f) Nel mondo islamico non esiste la Chiesa e non c’è un’interpretazione ufficiale dell’ortodossia religiosa. ❏ g) La conquista araba distrusse il preesistente tessuto economico, sociale e urbanistico dei territori assoggettati. ❏ h) Il Corano garantì alle donne dei diritti che prima non avevano, ma non modificò la natura maschilista della società araba. ❏ i) Gli Arabi si dedicarono con grande passione allo studio della medicina e i califfi fecero costruire molti ospedali. ❏ j) L’islam fu sempre intollerante e repressivo nei confronti delle altre religioni.

Le coordinate spazio-temporali 2. Collega correttamente gli eventi elencati alle date; quindi attribuisci colori a tua scelta ai periodi storici elencati di seguito e sottolinea gli eventi a essi connessi: a) 661

1) L’ultimo imperatore sasanide viene ucciso e l’intera Mesopotamia cade sotto l’egemonia araba.

b) 910

2) Abu Bakr viene riconosciuto come legittimo successore del profeta.

c) 610

3) Invasione araba della Spagna e conquista del regno indù di Sind.

d) 651

4) Il califfo Alì viene assassinato e al suo posto diventa califfo Muawiya.

e) 630

5) Inizia la conquista araba della Sicilia.

f) 711

6) I Bizantini vengono sconfitti a Yarmuk dagli Arabi, che presto conquistano la Siria e la Palestina.

g) 827

7) La dinastia dei Fatimidi prende il potere in Tunisia.

h) 622

8) Il Nordafrica bizantino viene conquistato dagli eserciti arabi.

i) 665

9) I Cinesi vengono sconfitti a Talas e viene consolidato il predominio arabo e islamico in Asia centrale.

j) 636

10) Maometto riceve le prime rivelazioni da Allah.

k) 751

11) Maometto fugge a Medina con i suoi fedeli.

l) 632

12) Maometto e i suoi seguaci entrano vittoriosi alla Mecca.

• Predicazione/ègira: • I califfi “ben guidati” • Dinastia omayyade • Dinastia abbaside

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

243

ⵦ ⵦ ⵦ ⵦ

3. Inserisci nella seguente carta i nomi delle città e degli Stati elencati e indica l’estensione raggiunta dall’impero arabo nel X secolo; quindi rispondi alle domande: Città: Cordova, Roma, Costantinopoli, La Mecca, Il Cairo, Baghdad, Damasco, Medina. Stati: Impero persiano, Regno dei Franchi, Impero bizantino.

MARE D’ARAL

O CE A N O AT L A N T I CO AR

M IO SP CA

MAR NERO

e

ri Tig

t fra Eu

MAR MEDITERRANEO

G

OL

FO

PER SICO

N

O

SS

RO

ilo

AR

M OC EA NO IND IA NO

a) Di dove erano originari gli Arabi? Dove erano diffusi prima del VII secolo? b) Per quale motivo l’espansione degli Arabi a spese di Bizantini e Persiani fu così rapida? c) Dove risiedevano i califfi durante la dinastia degli Omayyadi e quella degli Abbasidi? d) Che cosa era il diwan? e) Chi erano gli emiri? f) Per quali ragioni tra l’VIII e il IX secolo si assiste alla frammentazione politica dell’impero islamico? Quali furono i principali Stati arabi indipendenti?

244

Parte VIII L’altra Roma

Il lessico 4. Inserisci il termine o l’espressione corrispondente alle definizioni elencate: ...........................................................: Parola araba che indica la “comunità dei credenti”. ...........................................................: Parola araba che indica lo ‘sforzo’ compiuto per soddisfare la volontà di Dio. ...........................................................: La legge islamica trasmessa dalle rivelazioni divine a Maometto. ...........................................................: Il libro sacro dei musulmani, nel quale sono raccolte tutte le rivelazioni trasmesse a Maometto. ...........................................................: Il mese in cui i musulmani sono obbligati a digiunare e ad astenersi dal sesso durante le ore diurne. ...........................................................: L’elemosina ai poveri, uno dei cinque precetti fondamentali dell’islam. ...........................................................: Ciò che si trova al di fuori del nostro universo, in un’altra dimensione. ...........................................................: Luogo di culto in cui si ritrovano i musulmani per pregare insieme. ...........................................................: Figura autorevole dell’islam che guida la preghiera. ...........................................................: Studioso del Corano e della tradizione religiosa.

L’elaborazione scritta 5. Per descrivere gli elementi di base della religione islamica completa sul tuo quaderno le seguenti frasi, ordinandole in un breve testo scritto (max 20 righe): 1) La religione islamica, pur affondando le proprie radici nella Bibbia, rispetto all’ebraismo e al cristianesimo si pone come .....................................................; 2) Maometto accettò alcuni aspetti caratteristici e riprese alcuni obblighi e divieti dalla “gente del Libro”; della Bibbia e del Vangelo egli accettò ............................................................; dalla tradizione ebraica, inoltre, riprese ............................................................; 3) La fede islamica rispetto alla complessa teologia cristiana era molto più essenziale, perché ............................................................; 4) Il Dio dell’islam è interamente trascendente e per questo motivo ............................................................; 5) I luoghi di culto sono ............................................................; 6) I musulmani sono obbligati a seguire cinque fondamentali precetti, ovvero ............................................................; 7) Nell’islam non esiste un clero, ma figure autorevoli come ............................................................; 8) Le due fondamentali differenze tra islam e cristianesimo sono ............................................................

L’esposizione orale 6. Rispondi alle seguenti domande: 1) Che significato assunse il termine “jihad” al tempo della grande espansione araba? 2) Che conseguenze ebbe la conquista araba sui territori sottomessi da un punto di vista politico ed economico? 3) Come erano organizzati i territori sottomessi dagli Arabi? In che modo si trasformò la composizione etnica dei territori conquistati? 4) Quali furono i rapporti tra i musulmani e i fedeli delle altre confessioni religiose? Per quale motivo a un certo punto risultò conveniente convertirsi all’islam? 5) Qual era la situazione delle donne nella società araba? Quali cambiamenti apportò il Corano? 6) In che modo il patrimonio culturale delle popolazioni sottomesse influì sullo sviluppo della civiltà araba?

Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe

245

Capitolo 19

L’impero bizantino 1. Un impero mutilato e rinnovato

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Quando cominciare a parlare di “impero bizantino”?

“Impero bizantino” è un nome inventato dagli umanisti del XVI secolo, e poi adottato dalla storiografia moderna, per designare l’impero romano d’Oriente, a partire da un certo momento della sua storia. Non tutti gli storici, però, sono d’accordo su quale sia esattamente il momento in cui si smette di parlare di impero romano, e si comincia a usare il nome di “impero bizantino”. Secondo qualcuno, la svolta risale addirittura al 324, quando Costantino ordinò la rifondazione dell’antica città di Bisanzio, sul Bosforo, al confine fra Europa e Asia, le diede il suo nome, ribattezzandola Costantinopoli, e decise di farne la nuova capitale dell’impero. Secondo altri, il primo imperatore bizantino è Zenone, che regna-

Il Mediterraneo nell’VIII secolo

OCEANO ATLANTICO

GN

RE

REGNO DEI FRANCHI

R. DELLE ASTURIE

O

Àvari

AZERBAIGIAN

R

A

MAR

MED

Tripoli

ITER

RAN

Antiochia CIPRO Damasco

te

A

i gr Ti

H

PIO

Trebisonda Tiflis ARMENIA

fra Eu

A

S CA

Tessalonica

Siracusa

S

AR

Bulgari Costantinopoli Calcedonia IMPERO BIZANTINO Cesarea

Bari DI

Cartagine Palermo

MAGHREB

CA SO

MAR NERO

R BA

Napoli

GO

Roma

ON

IL

Siviglia

CA U

Danubio

M

DE

Slavi

EO

Alessandria

Gerusalemme

GO A

Nilo

LF

O

R

A

EGITTO

RS

B

Medina

M AR

Arabi

S RO SO

Bizantini Longobardi Franchi

246

Parte VIII L’altra Roma

PE

La Mecca

IC

I

A

O

va a Costantinopoli nel 476, l’anno in cui Odoacre depose Romolo Augustolo e l’Occidente si ritrovò senza imperatore. In questa prospettiva Giustiniano, che regnò dal 527 al 565, è un imperatore bizantino, e non più romano. Così, però, si dimentica che Giustiniano dedicò tutta la vita a riconquistare le province perdute dell’Occidente, per ricostruire l’impero romano così com’era stato al tempo di Augusto; e che fu proprio lui a ordinare la grande codificazione del diritto romano, il Corpus Iuris Civilis [cfr. cap. 17.2]. In questo manuale adottiamo una prospettiva diversa, proponendo di collocare l’inizio dell’impero bizantino fra il 568 e il 610-641. Alla prima data comincia l’invasione longobarda d’Italia: l’impero perde di nuovo gran parte dei territori riconquistati da Giustiniano. Roma, che fino a quel momento poteva essere considerata parte integrante dell’impero, diventa un avamposto di periferia, e i suoi legami con la capitale cominciano ad allentarsi. L’ultima coppia di date, 610-641, corrisponde al regno di uno dei più grandi e tragici imperatori d’Oriente, Eraclio, e arriva a comprendere le prime grandi conquiste arabe, che strapparono all’impero i suoi territori più ricchi cambiando per sempre la sua fisionomia. Organizzarsi per resistere alle minacce esterne

Eraclio subentrò a un usurpatore, Foca (602-610), che lasciava l’impero in una situazione drammatica. I Longobardi avevano invaso gran parte d’Italia. Nei Balcani, la pressione degli Àvari stanziati nel bacino danubiano e l’immigrazione delle primitive popolazioni slave avevano portato alla devastazione e allo spopolamento di vaste province. In Oriente l’antico, micidiale nemico, l’impero dei Sasanidi, era all’offensiva e nei primi anni del regno di Eraclio l’imperatore sasanide Cosroe II invase l’Armenia, l’Anatolia, la Siria, la Palestina e l’Egitto. L’impero sembrava sul punto di crollare; ma Eraclio seppe risollevare la situazione, ottenendo vittorie così clamorose contro i Sasanidi da persuadere tutti che la mano di Dio lo proteggeva. Riconquistò tutti i territori perduti e penetrò in profondità nel territorio nemico, in Mesopotamia. Le reliquie della croce di Cristo, sottratte nel 614 dai Persiani e portate nella loro capitale Ctesifonte, vennero riprese nel 629 e trionfalmente riportate a Gerusalemme. La situazione sembrava ristabilita e pareva che il dominio imperiale non fosse mai stato così sicuro. Invece l’improvviso dilagare delle invasioni arabe dimostrò la sua intrinseca debolezza. L’esercito di Eraclio venne annientato nel 636 alla battaglia del fiume Yarmuk: Siria, Palestina ed Egitto furono di nuovo perduti, stavolta per sempre. Era un colpo gravissimo, perché si trattava di territori ricchi ed estesi: andò perduta quasi la metà dell’impero, e forse i tre quarti delle entrate fiscali. L’impero romano si ritrovò a lottare per la propria sopravvivenza.

Capitolo 19 L’impero bizantino



Il ritrovamento della Vera Croce 880-886 Miniatura da manoscritto greco 310, Gregorio Nazianzeno; Biblioteca Nazionale, Parigi La tradizione cristiana narra che la croce su cui Cristo fu crocifisso venne ritrovata a Gerusalemme nel IV secolo da Elena, madre dell’imperatore Costantino, la quale la portò con sé a Costantinopoli dandola in custodia al vescovo della città. Le tracce della Vera Croce, nel tempo trafugata, recuperata e poi riportata a Gerusalemme, si perdono nel 1187 con la conquista della Città Santa da parte degli Arabi.

247



Il fuoco greco XI-XII sec. Miniatura dalla Cronaca di Scilitze; Biblioteca Nazionale di Spagna, Madrid Questa raffigurazione dell’uso del fuoco greco, la rinomata arma bizantina, è contenuta in un’opera di Giovanni Scilitze, uno storico bizantino del tardo XI secolo autore di una sinossi della storia bizantina. Le miniature che corredano il testo di Scilitze a noi pervenuto illustrano gli eventi intercorsi tra il IX e l’XI secolo, e documentano vivacemente l’estenuante lotta combattuta dall’impero bizantino contro gli Arabi, i Bulgari e i gli Slavi.

etichetta

Cerimoniale o complesso di norme che regola la relazione tra individui in precisi contesti ufficiali, e in particolare alla corte di un sovrano.

248

Sappiamo già che quella lotta ebbe successo [cfr. cap. 18.4]. Da allora, e fino all’inizio dell’VIII secolo, l’impero seppe resistere alla pressione araba, impedì ai musulmani di avanzare in Anatolia, sconfisse ripetutamente le flotte arabe che gli contestavano il predominio nel Mediterraneo – anche grazie al nuovo ritrovato tecnologico del fuoco greco, una sostanza incendiaria dalla composizione segreta che bruciava anche nell’acqua e che veniva irrorata con sifoni sulle navi nemiche –, e respinse diversi tentativi arabi di assediare Costantinopoli. Su altri fronti la situazione rimase grave. In Italia i lembi di territorio controllati dall’impero andavano restringendosi, con la perdita della Liguria; il tentativo dell’imperatore Costante II, nel 663, di riconquistare l’Italia meridionale longobarda diede scarsi risultati, e dopo di allora certe zone, in particolare Roma col suo entroterra e le città costiere della Campania, si abituarono sempre più a difendersi e governarsi da sole, senza una presenza regolare dell’amministrazione e dell’esercito imperiale. Ma la situazione più drammatica era quella dei Balcani, dove era emersa una nuova potenza, il khanato dei Bulgari. Come il khanato degli Àvari, che occupava il bacino del Danubio, anche lo Stato bulgaro venne costituito da un’aristocrazia di nomadi delle steppe asiatiche, che dominava su una popolazione soggetta in gran parte slava. Intorno al 680 i Bulgari, stanziati alla foce del Danubio, si allargarono nel Sud della penisola balcanica, sottomettendo le popolazioni slave insediate nella zona e minacciando direttamente Costantinopoli. Sotto Eraclio e i suoi successori l’impero dovette trasformarsi profondamente per resistere a tutte queste minacce. L’imperatore, che assunse il titolo greco di basilèus, divenne una figura sempre più sacra e intoccabile, segregata nel suo palazzo dove un’etichetta fastosa e complessa esaltava il suo ruolo semidivino. L’amministrazione centrale, che aveva sede nel palazzo imperiale, si complicò sempre più, con la nascita di un gran numero di uffici, mentre scomparivano le cariche ereditate dall’impero tardo antico, come la prefettura del pretorio. Si accentuò il carattere burocratico dell’impero, la sua natura di Stato assolutista gestito da un sovrano autocratico (in greco, vuol dire più o meno “comanda lui”: e significa che tutto il potere gli appartiene) e da una burocrazia onnipotente, con sede in una capitale gigantesca e accentratrice. Nelle province i cambiamenti furono ancora più profondi. Sul territorio, il tardo impero romano aveva sempre fatto coesistere un potere civile e uno militare, e aveva rispettato le autonomie delle città: le curie, paragonabili a consigli comunali costituiti dai cittadini più ricchi, riscuotevano le tasse e in qualche misura governavano il territorio. Ora invece l’amministrazione civile cedette il passo a quella militare. Uno dei predecessori di Eraclio, l’imperatore Maurizio, aveva capito che nelle zone minacciate la difesa era più efficiente se l’autorità era tutta concentrata nelle mani del comandante militare: perciò aveva deciso che i possedimenti più occidentali dell’impero, quelli appena riconquistati da Giustiniano e più difficili da difendere, dovevano essere governati da funzionari di tipo nuovo, gli esarchi, che univano autorità civile e militare. Gli avanzi dell’Italia del Nord non ancora occupati dai Longobardi erano stati sottoposti all’esarca di Ravenna; l’ex regno vandalo del Nordafrica all’esarca di Tunisi. A partire dal regno di Eraclio, una riforma ispirata allo stes-

Parte VIII L’altra Roma

 Sarcofago dell’esarca Isacio VII sec. Chiesa di San Vitale, Ravenna La chiesa di San Vitale a Ravenna conserva un prezioso sarcofago di fattura bizantina e finemente decorato, in cui sono conservate le spoglie di Isacio, un armeno nominato esarca di Ravenna nel 619.

so principio venne estesa gradualmente a tutto il territorio dell’impero, con l’introduzione di province di tipo nuovo, i temi. Le antiche prefetture e province dell’impero romano vennero abolite e sostituite da queste nuove circoscrizioni, ritagliate innanzitutto in base alle esigenze della difesa militare. In greco il loro nome significava in origine ‘reparto militare’. In pratica ogni distretto dell’impero era concepito come il supporto delle truppe stanziate sul suo territorio, e il comandante delle truppe, lo stratego, era anche il governatore del distretto. Non c’era più un potere civile che potesse controbilanciare quello militare, e non c’erano più le autonomie delle curie cittadine, cancellate dalla riforma. Un sistema di governo del territorio che risaliva addirittura all’epoca delle pòleis greche, poi incorporate ma anche rispettate dall’impero romano, scompariva per sempre.



Solido con Eraclio e suo figlio Eraclio Costantino VII sec. Zecca di Ravenna

Le conseguenze

Il VII secolo segnò una profonda trasformazione del mondo bizantino anche sul piano economico e culturale. L’antica economia dell’impero romano si fondava su commerci che univano tutte le sponde del Mediterraneo, e su un fisco capace di prelevare imposte in territori anche lontanissimi per investirle e distribuirle dove voleva. Adesso, però, non solo l’Occidente invaso dai barbari, ma anche il Vicino Oriente e la sponda meridionale del Mediterraneo erano andate perdute. Il fisco era costretto a spremere sempre più i pochi territori che restavano all’impero, provocando scontento e danneggiando l’economia. I mercanti trovavano ormai un unico sbocco, la capitale Costantinopoli, che non a caso crebbe sempre più, a scapito delle altre città. Proprio come era accaduto in Occidente dopo le invasioni barbariche, anche in Oriente tutti i centri urbani si impoverirono e decaddero, a eccezione di Costantinopoli: l’impero parve quasi ridursi all’immensa metropoli, mantenuta a fatica da territori insufficienti, impoveriti e minacciati. Il solido d’oro introdotto da Costantino e coniato dagli imperatori continuò a essere la moneta di base degli scambi mediterranei, imitata dai re barbari e dai califfi arabi, tanto che il grande storico della tarda Antichità (III-VI secolo), Peter Brown, lo ha definito «il dollaro del Me-

Capitolo 19 L’impero bizantino

249

Bisanzio, “una civiltà inferiore”? Sull’impero bizantino ha gravato per molto tempo un pregiudizio ingiustificato. Nell’immaginario collettivo Bisanzio è luogo di corruzione e di menzogna, di vuota retorica e di estenuata decadenza; basta vedere come sono rappresentati i Bizantini nel film L’armata Brancaleone di Mario Monicelli. In lingua italiana, “bizantinismo” significa pedanteria, sottigliezza inutile, cavillo pretestuoso. La storia bizantina è immaginata come una storia di interminabile declino, la cultura bizantina è vista come statica e bloccata, l’arte bizantina è presentata come goffa e ritardataria; si saluta con entusiasmo Giotto come il pittore che liberò finalmente la pittura italiana dall’eredità della pittura bizantina coi suoi immancabili sfondi dorati. Questa visione caricaturale è il frutto dell’ostilità che fin dall’epoca di Carlo Magno l’Occidente ha coltivato nei confronti dell’impero orientale, considerato un rivale da annientare, anche sul piano dell’immagine e della memoria. Non è un caso se invece di chiamare quell’impero col suo vero nome – era l’impero romano d’Oriente – gli umanisti europei del Cinquecento hanno inventato il nome di “impero bizantino”, in modo da mascherare il fatto che i veri eredi della gloriosa civiltà greco-romana erano i sudditi dell’imperatore di Costantinopoli e non gli europei dell’Occidente. Fino a qualche tempo fa anche gli studiosi erano vittime di questi pregiudizi, che fra Ottocento e Novecento venivano espressi con una sicurezza veramente ridicola. Lo storico W.E.H. Lecky nel 1869 scrisse: «L’universale verdetto della storia sull’impero bizantino è che costituisce senza possibile eccezione la forma più inappellabilmente bassa e deprecabile mai assunta dalla civiltà. Non è mai esistita un’altra civiltà duratura così assolutamente priva di grandezza, e

250

Parte VIII L’altra Roma

alla quale l’epiteto ‘vile’ possa applicarsi in modo così lampante»1. Anche un grande filologo italiano del Novecento, Giorgio Pasquali, definì Bisanzio «una civiltà, diciamo pure, inferiore». Oggi questi giudizi appaiono grotteschi: una nuova generazione di studiosi ha dimostrato che la storia bizantina è estremamente variegata, che quell’impero fu un grande Stato multietnico e culturalmente vivace, governato da un’élite coltissima che citava Omero e i classici greci, e che l’arte bizantina è di estrema raffinatezza. Ma ci vorrà di sicuro molto tempo perché questa consapevolezza diventi parte della cultura collettiva.

1. S. Ronchey, Lo Stato bizantino, Einaudi, Torino 2002, p. 145.



Cristo benedicente XI sec. Particolare di un mosaico, della basilica di Santa Sofia, Istanbul Tra le caratteristiche peculiari dell’arte bizantina si riconosce la tendenza all’anti-plasticità e all’anti-naturalismo con il risultato di un appiattimento e della stilizzazione delle figure. Gli artisti bizantini, che avevano dimenticato la vivacità delle scene dipinte, tipiche del mondo romano, avevano difatti un obiettivo diverso, non legato alla contingenza delle cose terrene ma rivolto all’astrazione dalla realtà perché i soggetti acquisissero un‘aura soprannaturale, simbolo del divino.

dioevo»; ma al di fuori di Costantinopoli avvenne una generale ruralizzazione della società. Al contrario di quel che era sempre accaduto nel mondo antico, le campagne e i loro abitanti erano ora più importanti delle città, impoverite e private della loro autonomia. Anche l’esercito fu coinvolto in questo processo di ruralizzazione. I soldati si trasformarono in una classe sociale ereditaria, a cui lo Stato assegnava delle terre da coltivare, in cambio del loro servizio militare. In pratica, in ogni tema la guarnigione era costituita da soldati-contadini residenti sul posto, fissati lì dalle terre assegnate e dall’obbligo di trasmettersi il mestiere di padre in figlio. Era la risposta alla paurosa riduzione del gettito fiscale, conseguente alle gravi perdite territoriali e alla crisi del mondo urbano. Oltre ai soldati, anche gli altri contadini vennero tutelati dall’impero, che li considerava come la spina dorsale della società, dal momento che dopo il declino della vita urbana erano rimasti solo i contadini a pagare le tasse e a fare il servizio militare. Il governo bizantino cercò sempre di limitare l’espansione delle grandi proprietà terriere e di tutelare dai soprusi dei potenti i soldati-contadini e gli altri piccoli proprietari, favorendo la loro organizzazione in comunità di villaggio. Sul piano culturale, la perdita della Siria, della Palestina, dell’Egitto e delle loro grandi metropoli come Antiochia, Damasco, Alessandria fu drammatica per il mondo bizantino, perché da lì, per secoli, era venuta la grande maggioranza degli intellettuali e dei teologi greci. La crisi del tardo VII secolo significò anche un abbassamento degli standard culturali e scolastici; la cultura greca antica venne in gran parte dimenticata, e tramontò la conoscenza della lingua greca classica, ormai molto diversa dal greco popolare parlato quotidianamente. Solo dalla metà del IX secolo un movimento di rinascita culturale, il cosiddetto “umanesimo bizantino”, porterà alla riscoperta del greco classico e della sua letteratura, compresi Omero e i tragici greci.

1. A quali eventi può essere collegato inizialmente l’uso del nome “impero bizantino”? 2. In che modo cambiò l’assetto territoriale dell’impero per venire incontro alle esigenze difensive? 3. Che posizione raggiunsero i contadini nella società bizantina a partire dal VII secolo?

2. L’età dell’iconoclastia

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Gli imperatori iconoclasti: Leone III e Costantino V

I primi anni dell’VIII secolo furono segnati da ripetute congiure e ribellioni di pretendenti al trono, con la deposizione e l’omicidio di diversi imperatori. La situazione si stabilizzò con la conquista del potere da parte di un generale, Leone III detto l’Isaurico (717741), che tra 717 e 718 respinse l’ultimo tentativo arabo di assediare Costantinopoli annientando le forze attaccanti. Una successiva vittoria sul campo in Anatolia stabilizzò le frontiere orientali dell’impero, mettendo fine al rischio di un collasso improvviso davanti all’aggressione araba. Sotto Leone III e i suoi successori, in particolare il figlio Costantino V (741-775), le truppe e le flotte bizantine furono spesso all’offensiva, riconquistando alcuni territori fra Anatolia, Siria e Mesopotamia, e inflissero sconfitte anche ai Bulgari, ristabilendo la sovranità imperiale su diverse popolazioni slave dei Balcani.

Capitolo 19 L’impero bizantino

251

 Icona della Madonna in trono tra i santi Teodoro e Giorgio VI sec. Monastero di Santa Caterina nel Sinai, Egitto Il monastero di Santa Caterina sul monte Sinai fu fondato dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo; rispettato dai conquistatori arabi del secolo successivo, ha continuato a essere abitato dalla comunità dei monaci fino a oggi, e conserva una straordinaria collezione di antichissime icone. L’abbigliamento dei santi in questa icona dell’epoca della fondazione è lo stesso di Giustiniano e dei suoi cortigiani nei celebri mosaici della basilica di San Vitale a Ravenna.

252

Leone III compì un’opera importante anche in campo giuridico. L’impero ormai parlava greco, ma il suo corpo di leggi, il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, era scritto in latino; l’imperatore fece preparare un rifacimento in greco delle leggi più importanti, chiamato l’Ekloghè (in greco,‘scelta’). Non si trattò solo di un riassunto: Leone III introdusse importanti novità, che contribuiscono a delineare una nuova fase del diritto romano. Per un verso sono innovazioni che possono apparire barbariche: nuove pene corporali, come il taglio del naso, della lingua e delle mani o l’accecamento, vennero introdotte nel diritto penale, che fino a quel momento preferiva applicare la pena di morte per i delitti più gravi, e la deportazione o le ammende nei rimanenti casi. Per altro verso l’Ekloghè limitò la patria potestà (il potere conferito al capofamiglia), antico fondamento del diritto familiare, e introdusse nuove garanzie per le donne e per i minorenni. Ma il regno di Leone III è ricordato soprattutto per l’accendersi di una nuova controversia religiosa, che lacerò l’impero bizantino per oltre un secolo e contribuì a guastare i rapporti fra la Cristianità orientale e quella occidentale. Si tratta dell’iconoclastia, espressione che deriva dal greco e significa distruzione delle icone. Col nome di icone si indicano in greco – e oggi in russo – le immagini sacre venerate dai cristiani. Anche oggi le chiese sono piene di immagini, a cui talvolta i fedeli tributano un vero e proprio culto; questa abitudine era già allora seguita con particolare fervore dai cristiani d’Oriente, tra i quali abbondavano le icone ritenute miracolose o addirittura non fabbricate da mano d’uomo, ma apparse grazie all’intervento divino. Nel corso dell’VIII secolo si sviluppò nell’impero bizantino un dibattito sui pericoli di questo culto: molti teologi ritenevano che i fedeli cadessero nell’idolatria, finendo per venerare non solo Cristo o la Vergine, ma proprio l’oggetto che li raffigurava. È possibile che questa preoccupazione sia nata anche in risposta al recente trionfo dell’islam: la nuova religione infatti aveva ripreso con estremo rigore l’antico divieto biblico contro le immagini, mantenuto dagli Ebrei ma disatteso dai cristiani. Negli anni 723-24 il califfo Yazid cercò di sradicare, fra le popolazioni cristiane dell’impero arabo, tutte le pratiche che contravvenivano al Corano, fra cui proprio il possesso di immagini sacre (ne abbiamo parlato: cfr. cap. 18.6). Subito dopo, nel 726, l’imperatore Leone III prese posizione a favore di quei vescovi che reclamavano la proibizione del culto delle immagini, e diede l’esempio ordinando di rimuovere l’icona di Cristo che si trovava all’ingresso del palazzo imperiale. Cominciava così ufficialmente l’iconoclastia, il periodo cioè in cui il governo di Costantinopoli si sforzò con tutti i mezzi di distruggere le immagini sacre e di allontanare i fe-

Parte VIII L’altra Roma

deli dal loro culto. Sappiamo già che le controversie religiose provocavano spesso conflitti violenti e anche questa volta fu così: se l’alto clero era in parte iconoclasta, la maggioranza dei semplici fedeli vedeva l’attacco alle immagini sacre come un vero e proprio sacrilegio, tanto che l’ufficiale incaricato di rimuovere l’icona dal portone del palazzo venne aggredito e linciato dalla folla. Anche il patriarca di Costantinopoli disapprovò la decisione imperiale, e venne immediatamente deposto. Ci si è spesso chiesti se l’adozione dell’iconoclastia da parte dell’imperatore rispondesse a esigenze politiche di qualche genere, ma non c’è dubbio che la preoccupazione principale di Leone fu religiosa. Per gli uomini del tempo queste questioni erano fondamentali, e fin dai tempi di Costantino era l’imperatore a essere il capo della Chiesa: era sua la responsabilità di stabilire l’ortodossia e imporla ai sudditi per garantire la salvezza di tutti. L’iconoclastia provocò immediate sollevazioni non solo nella capitale, ma in diverse province, come la Grecia e i territori italiani. Le truppe stanziate in quelle province si ribellarono, e solo dopo violenti scontri Leone III riuscì a ristabilire la propria autorità; ma in Italia, dove i contrasti religiosi fra l’imperatore e il papa erano frequenti fin dal tempo di Giustiniano, l’iconoclastia indebolì in modo permanente il già fragile senso di appartenenza all’impero di zone come l’Esarcato di Ravenna o il ducato romano. La diffusa opposizione alla politica iconoclasta si univa alla sempre viva ostilità contro il peso della fiscalità imperiale. Insieme, questi sentimenti favorirono l’allargamento delle conquiste longobarde: Ravenna cadde in mano al re longobardo Astolfo nel 751. Il papa, ormai in conflitto aperto con l’imperatore, si sentì incoraggiato a comportarsi come la vera guida, politica oltre che spirituale, delle popolazioni italiche. La crisi iconoclasta si aggravò sotto Costantino V (741-775). Ancor più del padre Leone III, Costantino V era un imperatore culturalmente preparato, appassionato di teologia e autore di molti trattati religiosi. Le sue posizioni in materia di fede erano estremamente spinte: non era ostile soltanto alla venerazione delle immagini, ma al culto stesso della Vergine e dei santi, che secondo lui non potevano intercedere presso Dio per i fedeli e com-

Capitolo 19 L’impero bizantino



Chiesa di Santa Barbara XI sec. Goreme, Turchia La valle di Goreme, in Cappadocia, è nota per le chiese bizantine rupestri ricche di affreschi di notevole qualità in cui si possono ancora vedere molte icone danneggiate dagli iconoclasti. In alcuni casi, come nella chiesa di Santa Barbara, i decoratori, in linea col repertorio figurativo concesso nel periodo iconoclasta, hanno sostituito la rappresentazione dei personaggi sacri con croci e motivi stilizzati, ritenendoli soggetti non idolatrabili.

253

piere miracoli. Queste posizioni, scandalose e inaudite per i cristiani di allora, allontanarono da lui gran parte dell’episcopato e gli attirarono soprattutto la feroce opposizione dei monaci. I monasteri, infatti, conservavano le icone più venerate e attizzavano la ribellione dei fedeli contro la politica iconoclasta; Costantino V scatenò una violentissima persecuzione, chiudendo i monasteri, confiscando le loro immense proprietà fondiarie e giustiziando, mutilando o esiliando abati e monaci. Il suo regno venne ricordato con orrore nella storiografia ecclesiastica, che coniò per lui il soprannome insultante di “Copronimo” [cfr. la voce del passato, qui sotto].

Il ritratto degli imperatori iconoclasti nella storiografia di parte avversa [da The Chronicle of Theophanes Confessor, a cura di C. Mango e R. Scott, Clarendon Press, Oxford 1997, pp. 551-2, 572-3; trad. a cura degli autori]

La

voce

PA SSA TO del

La vittoria del partito iconodùlo, favorevole cioè alla venerazione delle immagini sacre, provocò la distruzione di tutte le testimonianze di parte iconoclasta. La storia, in quel caso, fu scritta davvero dai vincitori. Gli autori ecclesiastici avversi all‘iconoclastia sfogarono nelle loro opere tutto il feroce odio nei confronti degli imperatori iconoclasti Leone III e Costantino V. All’inizio del IX secolo il cronista Teofane il Confessore descrive l’incidente che sarebbe accaduto durante il battesimo del futuro Costantino V, nel 718, e che spiega il soprannome di Copronimo attribuito all’imperatore. In quest’anno [718] nacque un figlio all’empio imperatore Leone, e cioè l’ancora più empio Costantino, precursore dell’Anticristo. Il 25 dicembre la moglie di Leone, Maria, fu incoronata nella sala dell’Augusteo e andò in solenne processione alla Grande Chiesa, da sola e senza il marito. Dopo aver pregato davanti alle porte del santuario, proseguì fino al Grande Battistero, dove il marito era già entrato insieme a pochi membri del suo seguito. Mentre l’arcivescovo Germano stava battezzando il successore al loro malvagio potere, cioè Costantino, un segno terribile e maleodorante si manifestò fin da quei suoi primi momenti di vita, perché il neonato defecò nel sacro fonte battesi-

Parte VIII L’altra Roma

male, come afferma chi l’ha visto coi suoi occhi. Al che il santissimo patriarca Germano dichiarò profeticamente che quel segno prefigurava i grandi mali che sarebbero accaduti ai cristiani e alla Chiesa per colpa di Costantino. In seguito Teofane riferisce “obiettivamente” la morte di Leone III e l’accesso al trono di Costantino: In quell’anno [741] il 18 giugno, Leone morì non solo nell’anima, ma anche nel corpo e suo figlio Costantino divenne imperatore. I mali che accaddero ai cristiani sotto il regno dell’empio Leone sia dal punto di vista della fede ortodossa che dell’amministrazione civile, in Sicilia, in Calabria e a Creta a causa dei guadagni disonesti e dell’avidità, e in più la secessione dell’Italia a causa della sua malvagia dottrina, i terremoti, carestie, pestilenze e aggressioni straniere sono già stati riferiti nei capitoli precedenti. Adesso è il momento di esaminare le azioni illegali, anzi, ancor più sacrileghe e aborrite da Dio, del suo empio e totalmente miserabile figlio; ma bisogna farlo obiettivamente, dato che Dio, che vede tutto, ci osserva, per il bene della posterità e di quegli uomini sciagurati e malvagi che seguono ancora l’abominevole eresia di quel criminale. Perciò racconteremo le sue empie gesta dal primo anno del suo regno all’anno della sua dannazione. Dunque questa bestia nociva, pazza, selvaggia e assetata di sangue, che s’impadronì del potere con un’usurpazione illegale, fin dall’inizio si separò dal nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo, dalla Sua pura e santissima Madre e da tutti i santi, dato che era tratto in perdizione da magia, lussuria, sacrifici di sangue, dal letame e l’orina dei cavalli, e godeva nell’impurità e nell’evocazione dei demoni.



L’imperatrice Irene e la fine dell’iconoclastia

La linea iconoclasta adottata da Leone III e Costantino V si attenuò sotto i successori, e venne definitivamente abbandonata durante la reggenza dell’imperatrice Irene, che governò dal 780 al 797 a nome del figlio Costantino VI. Proprio nel 797 Irene convocò a Nicea un grande concilio ecumenico, cui parteciparono i rappresentanti della Chiesa romana e dei patriarcati orientali che vivevano sotto dominio arabo: per l’ultima volta l’intera Chiesa cristiana d’Oriente e d’Occidente era riunita in un’unica assemblea. Il concilio decretò la fine del conflitto iconoclasta e permise il culto delle immagini. In quello stesso 797 Costantino VI volle liberarsi dalla tutela della madre, ma questa lo fece deporre e accecare [cfr. scheda, p. 257], e continuò a governare fino all’802 come unica sovrana. Non era mai accaduto che una donna occupasse il trono imperiale, tanto che la stessa Irene nei suoi atti ufficiali prese il titolo di basilèus, al maschile. La diffidenza suscitata da questo governo di una donna in un mondo patriarcale e maschilista come quello dell’epoca contribuì alla decisione di papa Leone III di incoronare imperatore nell’anno 800 il re dei Franchi Carlo Magno (ne parleremo nel capitolo seguente): poiché da secoli l’imperatore romano era uno solo, incoronarne uno nuovo in Occidente equivaleva a dichiarare che il trono di Costantinopoli, occupato da una donna, era a tutti gli effetti vacante, e che Roma non riconosceva più la sua autorità. La nascita dell’impero di Carlo Magno aprì un nuovo fronte conflittuale per l’impero bizantino, che all’inizio non riconobbe il nuovo sovrano e si trovò a scontrarsi con i Franchi sui confini tra i Balcani e l’Italia. Oggetto del conflitto era il possesso di Istria e Dalmazia e della laguna di Venezia, con i suoi piccoli insediamenti, ancora ben lontani dalla grande metropoli dei secoli successivi, ma già governati da un dignitario col titolo di duca, nel dialetto locale doge. Irene fu deposta da una congiura nell’802, e i suoi successori rinunciarono all’ostilità aperta contro Carlo Magno, preferendo concentrare le loro energie nell’area balcanica, dove la situazione era sempre più drammatica. Gli Slavi erano ormai penetrati fino a occupare gran parte della Grecia, modificandone radicalmente la composizione etnica. Ma la minaccia più grave era rappresentata dal khanato bulgaro. Nell’811 il khan Krum sconfisse e uccise l’imperatore Niceforo I; era dal 378, anno di Adrianopoli, che un imperatore non cadeva in battaglia. I Bulgari si spinsero fino ad assediare Costantinopoli, anche se come sempre le poderose

L’imperatrice Irene 1122 Particolare di un mosaico della basilica di Santa Sofia, Istanbul



Il khan Krum festeggia la vittoria su Niceforo I XIV sec. Miniatura dalla Cronaca di Manasse, in una copia del cod. Vatic. slavo 2; Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma Questa miniatura è tratta da una versione del XIV secolo della Cronaca di Costantino Manasse, uno storico bizantino vissuto nel XII secolo, autore di una cronaca universale in 6733 versi. Questa miniatura raffigura Krum con i suoi nobili mentre un coppiere reca a tavola il cranio di Niceforo I colmo di vino.

Capitolo 19 L’impero bizantino

255

mura della capitale resistettero ad ogni attacco. Solo nell’814 la morte di Krum permise la stipulazione di una pace, che lasciava però aperto il problema della vicinanza col rafforzato Stato bulgaro. Grave era anche la situazione nel Mediterraneo, dove la potenza navale araba faceva sì che i Bizantini, per la prima volta nella storia, non fossero più padroni del mare. Nel corso del IX secolo il conflitto fra Bisanzio e gli Arabi si incentrò soprattutto sul controllo della Sicilia, invasa dagli Arabi nell’827, tenacemente difesa dai Bizantini, e definitivamente perduta nel 902. Il partito iconoclasta, sconfitto al concilio di Nicea del 797, era ancora forte nell’alta società e nel clero bizantino, e diversi imperatori del IX secolo ripresero la politica dell’iconoclastia. Il grosso della popolazione, però, era decisamente schierato in favore del culto delle immagini, e gli imperatori che perseguirono una politica iconoclasta se ne trovarono indeboliti. Nell’843, quel che restava del partito iconoclasta gettò la spugna e un concilio proclamò definitivamente il ritorno del culto delle immagini.

1. Che conseguenze ebbe l’iconoclastia nei domìni bizantini d’Italia? 2. Quali popolazioni minacciavano le frontiere bizantine nei Balcani?

3. L’apogeo dell’impero: la dinastia macedone

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Vittorie militari e rinascita culturale

lo

O

SS

RO

Ni

AR

M

Nel periodo che va dall’843 al 1025 la maggior parte degli imperatori appartenne alla dinastia macedone. Quest’epoca vide una decisa ripresa dell’impero, che ottenne importanti vittorie militari contro Arabi e Bulgari, e tornò ad allargare i suoi possedimenti. Sul piano culturale, le lotte reliIl Mediterraneo alla fine del IX secolo giose si erano placate lasciando il posto a un appassionaSTATI ANGLOto movimento di riscoperta della letteratura antica, già SASSONI preparato dai grandi e colti imperatori della dinastia isauOCEANO ATLANTICO rica (da ricondurre a Leone III Isaurico), che prese però IMPERO IMPERO CAROLINGIO DEI nuova forza nel corso del IX secolo. Il periodo macedone KHAZARI Avari è quindi considerato di solito come l’apogeo, cioè il peBarcellona Slavi Danubio riodo culminante e più prospero, della storia bizantina. Siviglia Roma MAR NERO Cordova Bulgari Come sappiamo, il califfato islamico a quest’epoca si Costantinopoli Trebisonda Algeri Fez IMPERO stava frazionando in diversi Stati rivali e la sua potenza Tunisi Tahert BIZANTINO T SICILIA Tarso E igri non era più quella di una volta [cfr. cap. 18.5]. Contro gli Kairouan ufr MAR a Aleppo te MED CRETA Arabi gli imperatori macedoni condussero una vera e proITER CIPRO 825 RAN Damasco EO Tripoli pria controffensiva, riconquistando nel Vicino Oriente i Gerusalemme territori perduti in Anatolia, liberando l’Armenia e spinFustat gendo i confini dell’impero fino alla Mesopotamia, alla Dominio reale degli Abbasidi verso l’875 EGITTO Dinastie autonome Siria e alla Palestina. Nell’Italia meridionale gli Arabi, Altri Stati musulmani indipendenti padroni di gran parte della Sicilia, erano sempre più miDirettrici della pirateria nacciosi, si erano stabiliti in Puglia e nell’846 avevano addirittura saccheggiato la basilica di San Pietro a Roma; ma

256

Parte VIII L’altra Roma

entro la fine del IX secolo gli eserciti bizantini riconquistarono Puglia, Basilicata e Calabria, che da allora e per due secoli appartennero saldamente all’impero. Il Mediterraneo restava conteso fra Arabi e Bizantini, senza che nessuno dei due avversari potesse vantare un pieno controllo del mare; anche qui però i Bizantini erano all’offensiva e riconquistarono le grandi isole di Creta e Cipro. Più difficile fu il conflitto con il khanato bulgaro che dominava i Balcani; dopo aver subìto ripetute sconfitte, e aver visto più volte i Bulgari accampati sotto le mura di Costantinopoli, gli imperatori bizantini furono costretti a pagare un tributo al khan bulgaro, a stringere accordi matrimoniali con lui e a riconoscergli addirittura il titolo di imperatore, in lingua slava zar. Ma il formidabile basilèus Basilio II (976-1025) inflisse ai Bulgari una sconfitta decisiva. L’esercito dello zar Samuele fu annientato in battaglia; i 14.000 prigionieri vennero accecati e rimandati in Bulgaria a gruppi di cento, ognuno dei quali comprendeva un uomo a cui era stato cavato un solo occhio, per poter guidare gli altri. Nel 1018 il khanato bulgaro crollò e il suo territorio fu incorporato nell’impero bizantino, mentre Basilio II passava alla storia col soprannome di Bulgaroctono, ‘l’ammazzabulgari’. Gli imperatori macedoni promossero la rinascita della vita culturale. Nel palazzo imperiale di Costantinopoli venne fondato un grande centro di studi e di insegnamento giuridico e

 Basilio II trionfa sui nemici X sec. Dal Salterio di Basilio II, cod. gr. 17, fol. 3; Biblioteca Marciana, Venezia L’imperatore Basilio II è ritratto in abiti militari mentre stringe nella mano destra la lancia consegnatagli dall’arcangelo Michele; l’arcangelo Gabriele gli porge invece una corona di gemme, mentre Cristo protende la corona del potere imperiale. Ai suoi piedi, i nemici si prostrano in totale sottomissione.

Mutilare e accecare Nel 641, alla morte di Eraclio, gli successe il figlio di primo letto, Costantino III, che però morì quasi subito. La seconda moglie di Eraclio, Martina, prese il potere e governò per qualche mese a nome del figlio minorenne, Erakleonas. Ma l’opposizione contro i due era fortissima e il senato di Costantinopoli riuscì a deporli, esercitando la reggenza a nome del figlio bambino di Costantino III. Quel che ci interessa però non è questa complicata lotta di successione, simile a molte altre che travagliarono la storia dello Stato bizantino. La cosa più interessante è che il senato ordinò di strappare la lingua a Martina, e di tagliare il naso a Erakleonas. Da allora in poi fu normale nell’impero bizantino che quando un sovrano veniva deposto, fosse anche mutilato: ecco perché l’imperatrice Irene, che nel 797 depose il figlio Costantino VI, provvide a farlo accecare.

La logica di questa pratica era semplicissima. Nell’impero bizantino il potere era talmente accentrato nella persona dell’imperatore, e quella stessa persona era attorniata da una tale sacralità, che un uomo mutilato o accecato non avrebbe potuto in nessun modo essere riconosciuto come sovrano. Con le mutilazioni, quindi, si evitava che il concorrente deposto potesse rivendicare nuovamente il trono. Il taglio del naso e della lingua e l’accecamento vennero introdotti come punizioni anche nel diritto penale, a partire dall’Ekloghè di Leone III. La cosa più strana è che questa pratica spaventosa veniva giustificata come una forma di pietà: in passato, infatti, era sempre stato ovvio che un sovrano deposto venisse ucciso, e la pena di morte era prevista dal diritto romano per un’ampia casistica di reati. La mutilazione era riconosciuta come l’alternativa più mite e più cristiana alla messa a morte.

Capitolo 19 L’impero bizantino

257

filosofico, una specie di università in diretta concorrenza con quella “Casa della Sapienza” che il califfo al-Mamun aveva appena creato a Baghdad. L’impegno dei dotti bizantini si rivolse alla riscoperta e alla copiatura delle antiche opere letterarie greche. È grazie ai manoscritti prodotti in quest’epoca a Costantinopoli che noi possediamo i capolavori del teatro e della poesia greca classica. Venne inoltre prodotto un gran numero di antologie, enciclopedie e dizionari, che risultano di importanza immensa per la nostra conoscenza della civiltà antica. Protagonista della vita culturale era un altissimo funzionario del governo imperiale, Fozio (vissuto all’incirca fra l’810 e l’893), autore di una gigantesca opera, la Biblioteca, in cui riassumeva, commentava e citava estratti di innumerevoli opere letterarie. I rapporti fra Stato e Chiesa



Copia manoscritta dell’Iliade di Omero X sec. Cod. Gr. Z. 454; Biblioteca Marciana, Venezia Questa pagina manoscritta appartiene al cosiddetto Venetus A, il più antico e illustre codice grazie al quale ci è stato tramandato il contenuto del poema omerico. Alcuni studiosi attribuiscono la stesura di questo manoscritto all’iniziativa di un allievo di Fozio, Areta, il futuro arcivescovo di Cesarea, attivissimo nel prezioso programma di recupero dei classici greci iniziato dal maestro. Al di là della sua paternità, il codice costituisce uno dei frutti più rilevanti del fervore intellettuale che nel corso del IX e X secolo vivacizzò la storia bizantina sotto la dinastia macedone.

258

L’epoca di Fozio, che nell’858 divenne patriarca di Costantinopoli, aprì una nuova fase anche nei rapporti fra lo Stato e la Chiesa. Si dice di solito, in modo un po’ sbrigativo, che l’impero bizantino era caratterizzato dal cesaropapismo, per cui l’imperatore agiva anche da capo assoluto della Chiesa. Questa affermazione in realtà è vera fino a un certo punto. Nei primi secoli, già a partire da Giustiniano, e poi soprattutto nel periodo dell’iconoclastia, l’imperatore impose spesso la sua volontà alla Chiesa con estrema decisione e brutalità, arrestando e deponendo patriarchi e papi. Sotto la dinastia macedone però, dalla metà del IX secolo e poi durante il X, il rapporto fra il basilèus e il patriarca di Costantinopoli divenne più equilibrato. Vennero pubblicate nuove leggi in cui si tentava di stabilire i limiti dei rispettivi poteri, e di costruire una collaborazione fra l’imperatore e il patriarca, titolari l’uno del regno, l’altro del sacerdozio. Questa evoluzione politica ebbe anche un fondamento filosofico, legato alla concorrenza fra le due grandi correnti della filosofia antica, quelle di Platone e di Aristotele. L’assolutismo imperiale si fondava su una concezione platonica, che vedeva il cosmo ordinato in modo gerarchico, per cui tutto il potere discendeva dal vertice ed era trasmesso direttamente da Dio al sovrano. Nel IX e X secolo, invece, a Bisanzio prevalse una visione aristotelica, per cui il potere non aveva origine divina, era il frutto di un accordo fra gli uomini ed era subordinato alla legge. I rapporti con la Chiesa di Roma e la cristianizzazione degli Slavi

Sotto la dinastia macedone i rapporti fra l’impero bizantino e la Chiesa romana rimasero freddissimi, anche se ufficialmente non c’era ancora una rottura dichiarata fra i cristiani latini e quelli greci. Quando Fozio venne nominato patriarca di Costantinopoli, il papa rifiutò di riconoscerne la nomina, perché si trattava d’un laico. Per tutta risposta l’imperatore Michele III convocò nell’867 un concilio che scomunicò il papa, e dichiarò che non aveva nessun diritto di intromettersi nella vita della Chiesa greca, la quale obbediva all’imperatore. La cosa finì lì, perché i successori di Michele III preferirono tentare una con-

Parte VIII L’altra Roma

 I santi Cirillo e Metodio XII sec. Castello di Kreuzenstein, Austria



Pagina in cirillico 1180-1190 Evangeliario del principe Miroslav; Museo Nazionale, Belgrado Ai fratelli Cirillo e Metodio si deve la cristianizzazione delle popolazioni slave e la traduzione della Bibbia in paleoslavo mediante la creazione di un nuovo alfabeto, il cirillico, di cui la seconda figura ci mostra un esempio.

ciliazione con Roma, ma in pratica fra le due metà del mondo cristiano era già calata una barriera di incomprensione e di ostilità. Un altro avvenimento fondamentale del periodo macedone fu la riuscita conversione al cristianesimo delle popolazioni slave. Non solo nei Balcani, ma anche nell’Europa centrale le tribù slave si stavano organizzando in veri e propri popoli, governati da sovrani ereditari. Trovandosi fra l’impero latino e cattolico dei Franchi e quello greco e ortodosso di Bisanzio, alcuni principi slavi decisero di allearsi con quest’ultimo e si offrirono di convertirsi al cristianesimo. Nell’862 Michele III affidò a due missionari, i fratelli Cirillo e Metodio, l’incarico di evangelizzare gli Slavi. Era necessario tradurre la Bibbia e Cirillo creò un alfabeto che permettesse di scrivere la lingua slava: da esso deriva l’alfabeto detto appunto cirillico, ancor oggi usato da gran parte delle nazioni slave. Anche il khan bulgaro, Boris, accettò il battesimo nell’864 e nel suo impero venne creata una Chiesa dipendente da quella di Costantinopoli. Più tardi, nel X secolo, anche un nuovo e potente popolo slavo, quello dei Russi, che avevano stabilito un regno nelle pianure dell’attuale Ucraina con capitale a Kiev, si convertì al cristianesimo nella versione greco-ortodossa: il principe di Kiev, Vladimiro, accettò il battesimo nel 989. La cristianizzazione degli Slavi rappresentò un immenso successo politico per Bisanzio, perché sottrasse per sempre la maggior parte dell’Europa Orientale e dei Balcani all’influenza occidentale e li legò all’impero bizantino e alla Chiesa di Costantinopoli.

1. Che esiti ebbero gli sforzi militari dei cosiddetti “imperatori macedoni”? 2. Quali differenze c’erano tra la visione platonica e quella aristotelica del potere? 3. Per quale motivo la cristianizzazione degli slavi fu un grande successo politico per Bisanzio?

Capitolo 19 L’impero bizantino

259

4. Un impero romano, greco e cristiano

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

“Nel nome di Roma”

Nell’epoca bizantina, il nome di Roma continuò a essere usato per designare l’impero d’Oriente, il suo territorio (la “Romània”) e i suoi abitanti (i Rhomàioi). Usavano questo linguaggio tanto gli imperatori e i loro sudditi, quanto i loro avversari musulmani: nell’XI secolo, quando un nuovo popolo islamico, i Turchi, conquistò parte dell’Anatolia strappandola all’impero bizantino e vi costituì un sultanato, lo chiamò il sultanato di Rum, “Roma”. In Occidente, invece, a partire dall’VIII-IX secolo gli avversari politici dell’impero bizantino, per esempio i sovrani franchi e i papi, preferivano parlare di “Greci” e si riferivano all’imperatore bizantino come all’imperatore o il re dei Greci. Quest’uso aveva un valore spregiativo. Nella Roma antica, nonostante l’immensa ammirazione per la cultura greca, i Greci come popolo erano considerati degenerati e imbelli.

Maurizio imperatore e i comandi militari [Maurizio Imperatore, Strategikon. Manuale di arte militare dell’Impero Romano d’Oriente, a cura di G. Cascarino, Il Cerchio, Rimini 2007]

La

voce

PA SSA TO del

Nell’esercito dell’impero d’Oriente gli ordini continuarono a essere dati in latino anche molto tempo dopo che la lingua d’uso era diventata il greco. Il trattato di arte militare attribuito all’imperatore Maurizio (582-602), lo Strategikon, è ricco di informazioni sul minuzioso addestramento cui erano sottoposte le truppe. In questo passo sono descritti gli ordini per la manovra di quello che è chiamato in greco un tagma, cioè un reggimento di cavalleria di 300 uomini. Al comando: «Lunge!» (‘Serrate i ranghi!’) i soldati serrano i ranghi da dietro per la carica. Con le truppe che marciano in formazione perfetta, in particolare dopo che hanno serrato strettamente i ranghi sui fianchi, quando gli arcieri iniziano a tirare viene dato il comando: «Percute!» (‘Carica!’). I decarchi e i pentarchi1 si protendono quindi in avanti, coprono la loro testa e parte del collo del cavallo coi loro scudi, tengono le lance al-

Parte VIII L’altra Roma

l’altezza delle spalle, alla maniera dei popoli dai capelli biondi2, e protetti dal loro scudo cavalcano in buon ordine, non troppo velocemente ma al trotto, per evitare che l’impeto della loro carica scompagini i ranghi prima di venire a contatto con il nemico, il che è pericoloso. Tutti gli arcieri dietro di loro devono tirare. [...] Per ritirarsi momentaneamente e quindi effettuare di nuovo una conversione, quando il comandante vuole ritirarsi mentre è in ordine aperto grida: «Cede!» (‘Rientrare!’) e al galoppo gli uomini si ritirano, a distanza di un tiro d’arco o due, verso i defensores. Egli grida di nuovo: «Torna mina!» (‘Voltarsi e caricare!’). Essi ora effettuano una conversione come per fronteggiare il nemico. Devono fare frequente pratica con questa manovra, non solo caricando frontalmente, ma anche a destra e a sinistra. [...] Per cambiare fronte verso sinistra o verso destra in formazione, manovra questa necessaria per i fiancheggiatori e gli aggiratori, nel primo caso il comando è: «Depone senestra!» (‘Fronte a sinistra!’). Se a destra: «Depone dextra!» (‘Fronte a destra!’) ed essi cambiano fronte. 1. decarchi... pentarchi: sottufficiali comandanti rispettivamente di dieci e cinque uomini [nota del curatore]. 2. popoli... biondi: così erano chiamati i popoli germanici [nota del curatore].

Gli abitanti del mondo bizantino non si consideravano Greci, ma Romani, anche se parlavano greco: per loro la Grecia era l’antica Ellade pagana, e definirsi Greci o Elleni avrebbe significato identificarsi con la civiltà pagana, mentre il mondo bizantino era orgogliosamente cristiano. Il nome di Roma evocava l’accordo fra l’impero e la fede cristiana, voluto da Costantino I [cfr. 15.1]; non era una definizione etnica, ma politica e religiosa. “Roma” significava l’impero universale cristiano, e anche nei periodi in cui l’impero bizantino controllava solo un territorio piuttosto ristretto, il suo sovrano continuò sempre a considerarsi il signore del mondo, in greco kosmokràtor. Sulla Terra poteva esserci un solo imperatore, l’imperatore di Roma, e quel titolo dava diritto al dominio su tutta l’umanità; nessun altro sovrano, per quanto potente, poteva fregiarsi del titolo imperiale (bisognerà ricordarci di questo modo di pensare quando nel capitolo successivo leggeremo del titolo di imperatore assunto dal re franco Carlo Magno, col consenso del papa, nel Natale dell’800).

 Rilievo con aquila bicipite XV sec. Chiesa di San Demetrio, Mistra, Grecia L’emblema dell’aquila, già simbolo della potenza imperiale romana, fu reinterpretato dai Bizantini per rappresentare l’unione dei due imperi, quello d’Occidente e quello d’Oriente: l’aquila è rappresentata difatti con due teste, una rivolta verso destra e una rivolta verso sinistra, separate al centro da una corona. Questo rilievo, esempio tardo nella storia bizantina, fu scolpito sul pavimento della chiesa di San Demetrio, a Mistra (Grecia), a indicare il luogo esatto in cui Costantino XI Paleologo, ultimo sovrano bizantino regnante, fu incoronato imperatore il 6 gennaio 1449.

L’identità dell’impero di Bisanzio

Alla fine, qualificare l’impero di Bisanzio come greco o come romano non è sufficiente: se vogliamo definire la sua identità dobbiamo basarci non su due, ma su tre caratteristiche. Era un impero romano, in quanto continuava l’assolutismo imperiale tipico della tarda Antichità e la concezione romana di dominio del mondo, e si reggeva secondo il diritto romano. Era un impero greco, in quanto la lingua della corte era il greco, e il greco era la lingua ufficiale in tutto il territorio; lo stesso codice di Giustiniano rimase in vigore solo attraverso il riassunto in greco compilato al tempo di Leone III (l’Ekloghè). Fu l’antica letteratura greca, non quella latina, a essere ricopiata e studiata dai dotti bizantini, e in greco vennero tradotti tutti i termini fondamentali dell’ideologia imperiale. Infine, fu un impero cristiano, che rivendicò orgogliosamente la fede cristiana come tessuto comune di tutti i suoi popoli, e la difesa della religione come compito principale del suo sovrano.

1. A che cosa si riferisce il termine kosmokràtor? 2. Come si spiega la definizione di “impero romano, greco e cristiano” riferita all’impero bizantino?

Capitolo 19 L’impero bizantino

261

5. Un impero centralista e burocratico

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Imperatore per concessione divina



Basilèus in veste da cerimonia XII sec. Cà Angaran, Venezia Questo rilievo di epoca romanica raffigura un imperatore bizantino nella sua classica rappresentazione; la sua figura stante ostenta potenza e sacralità, qualità simboleggiate peraltro dagli oggetti che stringe tra le mani: il globo sormontato dalla croce bizantina, emblema di potenza benedetta dal cielo, e il bastone del comando.

262

L’impero bizantino ereditò dall’impero romano d’età tardo antica l’idea del potere autocratico dell’imperatore. Nel VII secolo il ruolo del sovrano era ancora bilanciato, in qualche misura, dal senato di Costantinopoli, voluto da Costantino per equiparare a Roma la nuova capitale. Quando il potere imperiale era forte, il senato era poco più di una palestra oratoria, un luogo dove politici e burocrati tenevano bei discorsi in lode dell’imperatore; ma nel corso del VII secolo esso giocò ancora un ruolo importante nelle crisi di successione e nei periodi di reggenza, per esempio dopo la morte di Eraclio. Dopo di allora, però, perse qualunque importanza politica. All’idea romana di imperatore i sovrani bizantini, vincitori con Eraclio del rivale impero sasanide, aggiunsero definitivamente l’idea persiana di Gran Re, che già aveva influenzato la regalità romana fin dal tempo di Diocleziano e Costantino. Il sovrano era ora una figura semidivina ai cui piedi i sudditi si prosternavano nel rituale persiano della prosky`nesis, odiato dagli antichi Greci, che lo consideravano il simbolo della tirannide. Il titolo stesso di basilèus, con cui i Greci indicavano il Gran Re persiano, venne assunto da Eraclio e dai suoi successori. Si completava così il passaggio dal princeps, l’imperatore dell’epoca di Augusto, che si considerava un primus inter pares e dialogava col senato, a una figura di monarca divinizzato, sacro e addirittura invisibile per i sudditi, rinchiuso com’era nel suo palazzo e inaccessibile a tutti tranne i più alti funzionari: una concezione del potere imperiale che i bizantini trasmetteranno secoli dopo ai conquistatori turchi, fondatori dell’impero ottomano. L’apparato burocratico di uno Stato centralizzato

L’imperatore era dunque il detentore di un potere sacrale, concesso da Dio; ma operava tramite una complessa burocrazia. Accanto al basilèus si riuniva un consiglio, il Concistoro (termine ancora oggi usato dalla Chiesa per indicare il consiglio dei cardinali riunito attorno al papa), in cui sedevano funzionari civili e militari. Il più importante era l’eparco, che è il nome greco del praefectus Urbi, il prefetto di Costantinopoli, incaricato di garantire il vettovagliamento dell’immensa metropoli, di mantenervi l’ordine pubblico, e di gestire la giustizia. Al di sotto del Concistoro operava un numeroso apparato burocratico, anch’esso ereditato dal tardo impero romano, ma profondamente trasformato nel corso del VII secolo. I logoteti, presenti sia a palazzo sia nelle province, erano i responsabili della riscossione delle imposte e della gestione finanziaria. L’amministrazione del patrimonio imperiale e delle spese decise personalmente dal sovrano era affidata al sakellàrios, l’uomo cioè che te-

Parte VIII L’altra Roma

 L’imperatore e il Concistoro XI-XII sec. Dalla Cronaca di Scilitze; Biblioteca Nazionale di Spagna, Madrid Questa miniatura, che illustra la proclamazione di Teofilo (IX secolo), raffigura l’imperatore seduto in trono: protetto da due guardie munite di lancia, il sovrano è circondato dai dignitari ecclesiastici in abito da cerimonia con il caratteristico copricapo.

neva la borsa (sacellus) dell’imperatore. Il domèstikos comandava le scholài, cioè i reparti scelti della guardia imperiale. Si potrebbe continuare, ma non è necessario imparare a memoria tutta questa terminologia. Quel che è importante è capire che al vertice dell’impero c’era una numerosissima macchina burocratica, un complicato organigramma di uffici e dirigenti. L’impero bizantino fu sempre uno Stato centralizzato, dove le risorse fiscali affluivano alla capitale prima di essere ridistribuite, e l’appartenenza alla burocrazia era la strada principale per il successo e il prestigio. Per contare, nella società bizantina, la cosa più importante non era appartenere alla grande aristocrazia, essere nati in una famiglia che possedeva immensi latifondi; del resto l’aristocrazia nella parte orientale dell’impero romano era sempre stata meno ricca rispetto a quella dell’Occidente, i latifondi meno estesi, il ceto dei piccoli proprietari contadini più solido. Per contare, in quell’impero burocratico, bisognava fare carriera nella burocrazia. Siccome l’accesso alla burocrazia, come anche la carriera nell’esercito, era aperto al talento da qualunque parte provenisse, l’élite bizantina fu sempre socialmente mobile e multietnica, traendo i suoi membri da tutte le popolazioni soggette all’impero, dai barbari venuti a stanziarsi sul suo territorio e perfino dai popoli confinanti, fossero Slavi, Bulgari o Armeni. La capacità di Bisanzio di assimilare le etnie in un unico corpo politico va di pari passo con il costante ricambio ai vertici della sua classe dirigente e ai livelli inferiori dell’amministrazione. I burocrati, spesso di origini sociali modeste e promossi grazie alla loro cultura, erano pervasi da uno spirito di servizio in cui la fedeltà all’imperatore e all’ortodossia cristiana erano le caratteristiche richieste, mentre l’appartenenza etnica e l’origine familiare non avevano importanza. La capacità di integrare le etnie e il dinamismo sociale, cioè la possibilità di far carriera aperta anche a persone di modesta origine, sono tratti che riprendono le migliori qualità del tardo impero romano e smentiscono l’immagine tradizionale di un mondo bizantino immobile o, peggio, decadente.

1. Come cambia, dopo il VII secolo, la figura dell’imperatore? 2. Come era possibile contare qualcosa nella società bizantina?

Capitolo 19 L’impero bizantino

263

6. Un’economia statalista in lotta contro i ricchi

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Il controllo sulla produzione e i commerci monopolio

Situazione per la quale, in un determinato mercato, un solo soggetto controlla l’offerta complessiva di una data merce, a fronte di una domanda elevata.

In termini di oggi l’economia dell’impero bizantino sarebbe definita statalista e centralista. L’attività artigianale e commerciale era concentrata in gran parte nell’immensa capitale, Costantinopoli, ed era sottoposta a un rigido controllo statale. I principali settori della produzione, come la seta, l’oreficeria, le armi, erano monopolio statale. I movimenti di merci avvenivano con navi appartenenti allo Stato, prezzi e stipendi erano fissati per legge

cittadinanza Lo Stato deve ridistribuire la ricchezza?

Michele di Efeso era un intellettuale che visse a Costantinopoli intorno al 1100 e insegnò nell’università del palazzo imperiale. Commentando Aristotele, si soffermò a riflettere sulle forme di governo degli antichi Greci, e trovò che sia nella tirannide, sia nella democrazia c’erano dei vantaggi: nel primo caso i ricchi erano puniti, nel secondo caso i poveri ricevevano una paga (di quest’ultimo aspetto abbiamo parlato a proposito del sistema politico di Atene: cfr. vol. 1, cap. 7.3). Ma secondo Michele si poteva far meglio: «è necessario adottare un contemperamento di questi due sistemi, che cioè i ricchi siano puniti e che i poveri ricevano una paga»1. Idee come quelle di Michele di Efeso erano condivise da molti uomini di governo a Costantinopoli, e hanno fatto sì che nell’impero bizantino qualcuno abbia intravisto addirittura una prefigurazione del socialismo di Stato come quello incarnato, nel XX secolo, dall’Unione Sovietica. Lo Stato sovietico era nato all’indomani della rivoluzione d’Ottobre, la rivoluzione comunista scoppiata in Russia nel 1917, ed è stato il primo esempio al mondo di Stato costruito sul ribaltamento dei rapporti sociali precedenti: non bastava, cioè, garantire l’eguaglianza economica, requisendo e mettendo al servizio della collettività la ricchezza privata, ma c’era anche la volontà di discriminare e punire quelli che in precedenza erano stati ricchi. In realtà l’impero bizantino non ha mai “punito” i ricchi e non si è mai spinto, come la democrazia ateniese, a “dare una paga” ai poveri. La politica imperiale si è però spesso sforzata di colpire con le imposte la grande proprietà, e di impedirne la crescita per legge, evitando che i poveri fossero danneggiati dalla prepotenza dei ricchi. Ovviamente si può essere d’accordo oppure no con questa impostazione politica, ma

264

Parte VIII L’altra Roma

non si può dire che l’impero bizantino non facesse i conti con problemi concreti e duraturi. La Costituzione della Repubblica italiana, approvata nel 1947, mantiene elementi di un principio simile a questo. L’eguaglianza economica fra i cittadini è apertamente dichiarata come un obiettivo desiderabile, all’art. 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». La proprietà privata è ovviamente tutelata, ma c’è l’idea che deve comunque essere utilizzata nell’interesse collettivo, all’art. 42: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale». L’Italia del 1947 era ancora un paese in gran parte agricolo, con fortissime tensioni fra agrari e latifondisti, da una parte, e braccianti senza terra dall’altra. La Costituzione indirizza lo Stato a tutelare questi ultimi, all’art. 44: «Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà». 1. S. Ronchey, Lo Stato bizantino, Einaudi, Torino 2002, p. 75.

e chi gestiva il commercio dipendeva in tutto dalle autorizzazioni statali. Pesanti imposte doganali facevano sì che i profitti del commercio fossero rastrellati quasi esclusivamente dallo Stato. I guadagni dei commercianti non potevano eccedere un limite fissato per legge; il governo evitava così aumenti eccessivi dei prezzi al consumo. Arricchirsi commerciando era considerato ignobile e l’imperatore faceva il possibile per impedire che ciò accadesse: sulle navi dello Stato il comandante guadagnava appena il doppio di un marinaio semplice, mentre in altri paesi un mercante che armava una nave poteva garantirsi profitti immensi. Nei secoli dell’Alto Medioevo, quando l’economia dell’Occidente era stagnante e quasi esclusivamente agricola, il commercio di Costantinopoli rimase prospero e la sua rigidità non provocò gravi conseguenze; tuttavia, a partire dall’XI-XII secolo, l’economia del mondo bizantino, troppo poco dinamica, fu letteralmente “mangiata” dal capitalismo occidentale, rappresentato dalle città comunali italiane e in particolare da Venezia, che avevano adottato nuove e più aggressive modalità di intervento sul mercato.



Orecchini in oro e paste vitree Da Senise, Potenza; Museo Archeologico Nazionale, Napoli



Lo scontro con i grandi proprietari terrieri

Il controllo dello Stato si estendeva anche alla proprietà terriera. La terra appartenente ai grandi latifondisti o alle comunità di villaggio era trattata dal governo come se fosse una proprietà pubblica, concessa in uso solo in cambio del pagamento di pesanti imposte. Se una comunità contadina non coltivava tutta la terra che aveva a disposizione e la lasciava in abbandono, doveva pagare un’imposta aggiuntiva. L’ideale del governo imperiale era di limitare i trasferimenti di proprietà, garantendo la stabilità dell’imponibile fiscale (cioè la quota di reddito o patrimonio su cui calcolare l’entità delle tasse); concretamente, questo significava anche proteggere la piccola proprietà contadina dalle pressioni dei grandi latifondisti, i quali nel mondo antico avevano sempre allargato i loro possedimenti a spese dei piccoli proprietari indebitati. Il conflitto fra la burocrazia di Costantinopoli, che cercava di impedire l’allargamento della grande proprietà e di tutelare il mondo contadino, e i latifondisti delle province è uno dei grandi problemi della storia bizantina durante l’età macedone. Fin dal tempo di Giustiniano la legge vietava ai funzionari statali, compresi i militari, di acquistare possedimenti fondiari e di accettare donazioni finché erano in carica. La legge scontentava molti e alla fine del IX secolo fu abolita; a partire da allora non fu più possibile impedire nelle campagne il formarsi di un’aristocrazia di potenti, aggressivi ed espansionisti, composta soprattutto dai capi militari, ma anche dai grandi funzionari pro-

Scampolo di seta bizantina Museo sacro della Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma Gli esordi bizantini nella produzione della seta si fanno risalire al VII secolo, quando, secondo la leggenda, due monaci persiani che erano riusciti a trafugare dei bachi dalla Cina ne avevano fatto dono all’imperatore Giustiniano. In breve tempo, e almeno fino al XII secolo, Costantinopoli rappresentò il centro tessile più importante d’Europa; le esportazioni avvenivano solo in quantità prestabilite dallo Stato ed erano rivolte ad acquirenti scelti, criterio che permetteva di mantenere alto il prezzo della merce. In questo scampolo di seta il soggetto tessuto è la caccia del re, di derivazione persiana, ma reinterpretato nella vivacità dei colori, nella fantasia compositiva e in alcuni dettagli dell’abbigliamento: di particolare originalità è il diadema sul capo del re, attributo tipico degli imperatori bizantini.

Capitolo 19 L’impero bizantino

265

vinciali e dall’alto clero. Nel corso del X secolo diverse leggi testimoniano lo sforzo sempre più affannoso degli imperatori di proteggere i “deboli” dalla pressione di questi “potenti”, com’erano chiamati. Le leggi stabilivano che se un contadino era costretto a vendere la sua terra, parenti e vicini avevano il diritto di prelazione (avevano cioè la priorità sugli altri acquirenti); e che nessun potente poteva farsi regalare o lasciare in eredità la terra, o comprarla a meno del suo vero valore. La legge più drastica fu adottata da Basilio II nel 995: il tremendo basilèus stabilì che tutte le terre contadine cedute ai ricchi negli ultimi settant’anni dovevano essere restituite senza indennizzo, e che le tasse dovute dalle comunità di villaggio per le terre non utilizzate dovevano d’ora in poi essere pagate dai latifondisti locali. Nonostante questi interventi, alla lunga furono i “potenti” a vincere, dando vita anche nel mondo bizantino a un ceto aristocratico che si trasmetteva in eredità potere e proprietà fondiaria. La burocrazia di Costantinopoli, che aveva governato l’impero per secoli, dopo il Mille sarà emarginata da quella che appare come una vera, nuova nobiltà, suddivisa in tre gruppi: civile, militare ed ecclesiastica. I possedimenti dei nobili e del clero però erano molto diversi dai latifondi antichi: la spinta all’affrancamento degli schiavi, favorita dalla Chiesa, aveva portato entro il IX secolo alla scomparsa della schiavitù rurale. I contadini che lavoravano sotto padrone ora erano affittuari liberi, e lo Stato tutelava anche loro come tutelava i piccoli proprietari, garantendo agli affittuari il diritto di trasmettere ai figli la terra coltivata.

1. In che modo lo Stato interveniva nelle attività commerciali? 2. Che cosa provocò l’abolizione della legge che vietava ai funzionari statali di acquistare possedimenti fondiari?

7. Un impero dilaniato dai contrasti religiosi

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Sanare i contrasti religiosi a colpi di editti?

All’epoca di Eraclio e dei suoi primi successori l’impero continuava a essere piagato dal dissenso religioso, in particolare della minoranza monofisita. Gli imperatori non potevano sempre perseguitare. Essi incaricarono i patriarchi orientali e il papa di cercare una soluzione, e nel corso del tempo vennero avanzate numerose nuove teorie che cercavano di mettere tutti d’accordo sulla natura di Cristo. Gli imperatori si illudevano che una volta trovata una dottrina soddisfacente, abbracciata da tutti i maggiori teologi, un editto imperiale avrebbe potuto imporla ai sudditi e ottenere così la pace religiosa. Da sempre, nell’impero romano-cristiano, spettava all’imperatore trasformare in legge l’interpretazione della fede che la Chiesa stabiliva ufficialmente come ortodossa, cioè giusta. Nel 638 Eraclio pubblicò un editto in cui imponeva la nuova dottrina del monotelismo, formulata dal patriarca di Costantinopoli Sergio: secondo il monotelismo – il termine deriva dall’espressione greca che significa ‘una sola volontà’ – in Cristo esistevano due nature, divina e umana, ma un’unica volontà. Dallo scontro con i papi di Roma allo scisma

Imporre l’unità religiosa a colpi di editti, però, era un’illusione, perché ogni proposta di compromesso suscitava opposizioni. Soprattutto i papi di Roma reagirono spesso negativamente alle dottrine elaborate dai patriarchi orientali, e questo contribuì a rendere diffi-

266

Parte VIII L’altra Roma

cile il loro rapporto con l’impero: non dimentichiamo infatti che Roma era ancora parte dell’impero bizantino, anche se dopo l’invasione longobarda dell’Italia era diventata un bastione di frontiera. Nel 640 papa Severino rifiutò di accettare la dottrina monotelista imposta da Eraclio; il comandante della guarnigione bizantina di Roma lo scacciò dal palazzo del Laterano, residenza ufficiale dei vescovi di Roma, e ne approfittò per confiscare i tesori della Chiesa e distribuirli ai soldati, che altrimenti non era in grado di pagare. Il nuovo papa Martino I, che confermò il rifiuto del monotelismo e dichiarò di non voler obbedire all’imperatore, fu arrestato nel 653, tradotto a Costantinopoli e condannato a morte per alto tradimento, anche se la condanna fu commutata nell’esilio. Si capisce che in questa situazione i funzionari e i militari mandati da Costantinopoli fossero sempre meno popolari a Roma e a Ravenna: cominciava a prendere piede l’idea che la popolazione italica, sotto la guida del papa, avrebbe potuto governarsi e difendersi da sola. I soldati stanziati in Italia si erano integrati nella popolazione locale e obbedivano sempre meno volentieri ai funzionari mandati dall’imperatore, i quali dovevano spesso usare la forza per riuscire a entrare a Roma. Nel 692 un funzionario imperiale fu mandato ad arrestare papa Sergio I, che tanto per cambiare s’era opposto alle conclusioni di un concilio ecumenico riunito a Costantinopoli, ma le truppe delle guarnigioni italiche si ribellarono e difesero il papa, impedendone l’arresto. La situazione si aggravò ulteriormente nel periodo dell’iconoclastia. La decisione dell’imperatore Leone III di vietare il culto delle immagini, non condivisa dalla popolazione, accentuò i desideri indipendentisti delle élite e degli eserciti locali. Le truppe stanziate nell’Esarcato e nella Pentapoli si ribellarono, e l’esarca di Ravenna fu assassinato. Papa Gregorio III riunì nel 731 un concilio che condannò la politica iconoclasta; l’imperatore rispose confiscando le proprietà della Chiesa romana in Calabria e Sicilia, cioè nelle uniche zone d’Italia che erano rimaste saldamente sotto il suo controllo. Ma Leone III non poté spingersi fino a deporre o arrestare il papa, come avevano fatto spesso i suoi predecessori: l’autorità imperiale su Roma, ormai, era solo nominale. Anche fra la Chiesa greca e la Chiesa latina, così spesso ribelle alle decisioni che provenivano da Costantinopoli, si stava già da tempo scavando un solco, e non c’era quasi più nessuna collaborazione fra il clero dell’Oriente e quello dell’Occidente. L’elezione al patriarcato di Fozio, un laico, rischiò di provocare un vero e proprio scisma, cioè una spaccatura ufficiale fra le due Chiese. Poi in qualche modo si riuscì a metterci una pezza, ma era solo questione di tempo perché si arrivasse allo scisma, che infatti si verificherà nel 1054, con la scomunica reciproca fra il papa Leone IX e il patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario. Cattolico e ortodosso non furono più appellativi comuni di una Chiesa che si considerava unica pur pregando in due lingue diverse, ma divennero appellativi contrapposti, che indicavano nel primo caso i fedeli della Chiesa latina, nell’altro quelli della Chiesa greca.



Icona del Cristo benedicente VI sec. Monastero di Santa Caterina del Sinai, Egitto

1. Che cosa sosteneva la dottrina monotelita? 2. Quali rapporti si stabilirono tra il clero d’Occidente e quello d’Oriente?

Capitolo 19 L’impero bizantino

267

SINTESI 1. Un impero mutilato e rinnovato Nel VII secolo l’impero romano d’Oriente – al quale da questo momento ci si riferisce come “impero bizantino” – conobbe un periodo di grande crisi. L’impero era debole, i suoi domìni in Italia precari, le sue ormai ridotte frontiere minacciate dalle invasioni degli Arabi e dall’arrivo dei Bulgari nei Balcani. Dal regno di Eraclio in poi, la struttura dell’impero cambiò profondamente. Lo Stato era ormai di natura assolutista ed era gestito da un sovrano autocratico e da una burocrazia onnipotente. Le province furono trasformate in temi, governati da uno stratego militare che svolgeva anche incarichi civili; nei temi le guarnigioni erano costituite da soldati-contadini. Le città, tranne Costantinopoli, decaddero e si assistette a una ruralizzazione della società. I contadini divennero la spina dorsale della società, garantiti e difesi dallo Stato contro i soprusi dei grandi proprietari terrieri. Si verificò, inoltre, un generale abbassamento del livello culturale e scolastico.

2. L’età dell’iconoclastia Con Leone III (717-741) la situazione alle frontiere dell’impero si stabilizzò. Sotto il suo regno prese avvio una controversia religiosa che rovinò ulteriormente i rapporti tra cristiani d’Oriente e d’Occidente. L’imperatore, infatti, appoggiò i vescovi che volevano la proibizione del culto delle immagini, provocando immediate sollevazioni nell’impero, specie in Grecia e in Italia. Il suo successore, Costantino V, non solo continuò la politica religiosa del padre, ma accentuò le persecuzioni contro gli oppositori. L’iconoclastia terminò con l’imperatrice Irene, che nel 797 convocò a Nicea un concilio ecumenico nel quale fu decretato il permesso di venerare le immagini. I successori di Irene dovettero fronteggiare nuovamente la minaccia rappresentata nei Balcani da Slavi e Bulgari, mentre il dominio dei mari e il controllo della Sicilia era loro strappato dagli Arabi.

3. L’apogeo dell’impero: la dinastia macedone Tra il IX e l’XI secolo l’impero bizantino fu governato dalla dinastia degli imperatori macedoni e visse il periodo culminante e culturalmente più prospero della sua storia. I conflitti con gli Arabi e gli Slavi proseguirono, ma i Bizantini riaffermarono il proprio dominio in Italia meridionale, e agli inizi dell’XI secolo sottomisero i Bulgari. Sotto la dinastia macedone furono promulgate nuove leggi che stabilirono i limiti del potere religioso e di quello imperiale, facendo prevalere la concezione di un’origine non divina di quest’ultimo. I rapporti con la Chiesa d’Occidente, tuttavia, continuarono a essere tesi e distanti. Nel periodo macedone, Bisanzio ottenne un grande successo politico con la cristianizzazione dei popoli slavi, che passarono, così, sotto la sua influenza.

4. Un impero romano, greco e cristiano In Occidente, in maniera dispregiativa, ci si riferiva ai Bizantini chiamandoli Greci, ma essi stessi continuavano a definirsi Romani e i loro sovrani continuavano a considerarsi signori del mondo e unici imperatori legittimi. L’identità stessa dell’impero si basava su tre caratteristiche. L’impero era romano perché continuava la tradizione imperiale tardo antica e si reggeva sul diritto romano, era greco perché il greco era la lingua ufficiale dello Stato, ed era cristiano perché la fede cristiana formava il tessuto comune degli abitanti dell’impero e la difesa della religione era il compito principale del sovrano.

5. Un impero centralista e burocratico Nell’impero bizantino il sovrano era un monarca divinizzato, sacro e inaccessibile ai più. Operava tramite una complessa burocrazia ed era coadiuvato dal Concistoro, un consiglio di funzionari civili e militari, tra cui spiccava l’eparco, il prefetto della capitale. L’impero bizantino era uno Stato centralizzato e l’appartenenza alla burocrazia procurava successo e prestigio. L’accesso alla burocrazia e all’esercito era aperto a tutti, quindi l’élite bizantina era socialmente mobile e multietnica. La capacità di integrare le etnie e il dinamismo sociale furono tratti caratteristici del mondo bizantino.

6. Un’economia statalista in lotta contro i ricchi L’economia bizantina era centralista e statalista. Tutti i principali settori della produzione erano monopolio statale. Il controllo dello Stato si estendeva anche alla proprietà terriera e il governo imperiale cercava di limitare i trasferimenti di proprietà per garantire la stabilità dell’imponibile fiscale. Questo significava proteggere la piccola proprietà contadina e fece entrare in conflitto la burocrazia con i latifondisti delle province. Quando al termine del IX secolo fu abolita la legge che proibiva ai funzionari statali di acquistare possedimenti fondiari si andò formando un’aristocrazia di capi militari, grandi funzionari provinciali e alti ecclesiastici che si tramandava il potere per via ereditaria.

7. Un impero dilaniato dai contrasti religiosi La storia dell’impero bizantino tra VII e X secolo fu segnata dal dissenso religioso. Eraclio aveva provato a risanare la frattura con i monofisiti imponendo il monotelismo, che sosteneva le due nature di Cristo, divina e umana, ma un’unica volontà divina. La Chie-

268

Parte VIII L’altra Roma

sa d’Occidente rifiutò ripetutamente di accettare questa dottrina, incorrendo nella repressione dell’imperatore. La popolazione italica si convinceva sempre di più di potersi governare da sola sotto la guida del papa e in diversi casi le guarnigioni italiche si schierarono contro Bisanzio. Nell’VIII secolo il solco tra Chiesa greca e Chiesa latina era molto profondo e fu più volte scongiurato lo scisma tra le due Chiese, che giunse, inevitabile, nel 1054. Da allora i cattolici latini si contrapposero agli ortodossi greci.

ESERCIZI Gli eventi 1. Completa la frase con l’espressione che ritieni corretta: 1) Durante il regno di Eraclio...

2) Per tutto il VII secolo...

❏ a) gli Slavi occuparono gran parte della Grecia;

❏ a) i centri urbani conobbero uno stupefacente aumento demografico;

❏ b) fu sottomesso il khanato dei Bulgari;

❏ b) Costantinopoli fu l’unico sbocco commerciale dell’impero;

❏ c) fu imposta la nuova dottrina del monotelismo;

❏ c) la grande proprietà fondiaria fu favorita dalla burocrazia imperiale;

❏ d) venne preparato un rifacimento in greco del Corpus Iuris Civilis.

❏ d) rifiorì la cultura, tanto da far parlare di “umanesimo bizantino”.

3) Lo stratego...

4) L’imperatore Costantino V...

❏ a) era il governatore militare delle province occidentali;

❏ a) respinse l’ultimo tentativo arabo di assediare Costantinopoli;

❏ b) comandava i reparti scelti della guardia imperiale;

❏ b) convocò il concilio ecumenico che permise il culto delle immagini;

❏ c) era incaricato di mantenere l’ordine pubblico nella capitale;

❏ c) era ostile al culto della Vergine e di tutti i santi;

❏ d) era il governatore civile e militare dei temi bizantini.

❏ d) riuscì a riprendere il definitivo controllo della Sicilia.

5) Lo Stato bizantino...

6) I rapporti tra clero d’Oriente e clero d’Occidente...

❏ a) non riuscì a integrare le varie etnie;

❏ a) furono improntati a una proficua collaborazione;

❏ b) controllava tutti i settori della produzione;

❏ b) si rafforzarono per far fronte alla minaccia islamica;

❏ c) non promuoveva la mobilità sociale;

❏ c) si normalizzarono dopo l’imposizione del monotelismo;

❏ d) procedette alla privatizzazione delle terre pubbliche.

❏ d) si deteriorano tanto da arrivare allo scisma.

2. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette: ❏ a) Nei primi anni del regno di Eraclio i Persiani invasero gran parte dei territori bizantini del Vicino Oriente e l’impero fu sul punto di crollare. ❏ b) La burocrazia imperiale considerava la classe dei grandi proprietari fondiari la spina dorsale della società. ❏ c) Nell’Ekloghè furono inserite non solo nuove e dure pene corporali, ma anche nuove garanzie per le donne e per i minorenni. ❏ d) Al contrario dell’alto clero d’Oriente, il clero d’Occidente fu entusiasta della politica iconoclasta introdotta da Leone III. ❏ e) Nel IX e X secolo nell’impero bizantino prevalse una visione del potere imperiale secondo la quale il potere non aveva origine divina. ❏ f) Nonostante la perdita di vasti territori, i sovrani bizantini continuavano a considerarsi signori del mondo e unici, legittimi imperatori.

Capitolo 19 L’impero bizantino

269

❏ g) Nell’impero bizantino si perse del tutto il retaggio dell’impero romano di epoca tardo antica che vedeva nel sovrano una figura semidivina. ❏ h) Il cursus honorum per raggiungere i livelli più alti della burocrazia imperiale era riservato ai membri dell’aristocrazia greca. ❏ i) Nel X secolo una serie di leggi cercarono di arginare lo strapotere esercitato dall’aristocrazia provinciale sui piccoli proprietari terrieri. ❏ j) Lo scisma tra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente si consumò quando il laico Fozio fu proclamato patriarca di Costantinopoli.

Le coordinate spazio-temporali 3. Seguendo l’esempio fornito, inserisci correttamente nella linea del tempo le lettere corrispondenti agli eventi elencati: a) Ravenna viene conquistata dai Longobardi; b) Inizia la dinastia macedone e finisce definitivamente l’iconoclastia; c) Scisma tra la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente;

a

d) Con un editto Eraclio impone il monotelismo; e) Il concilio ecumenico di Nicea permette il culto delle immagini; f) Cirillo e Metodio iniziano l’opera di evangelizzazione degli Slavi; g) Leone III dà inizio all’iconoclastia;

638

h) L’imperatore Basilio II sottomette definitivamente i Bulgari;

726

i) L’imperatore Niceforo I cade in battaglia contro i Bulgari.

811

751 797

1054

862 843

1018

I concetti 4. Completa lo schema relativo all’organizzazione dello Stato bizantino inserendo le informazioni mancanti; quindi rispondi alle domande: a) Come definiresti la struttura dello Stato bizantino? Perché? b) Quali erano i requisiti necessari per entrare nella burocrazia? c) Come definiresti la società bizantina?

Assunse il titolo di .................................. Era percepito come .......................................................................................................... ..........................................................................................................

IMPERATORE

Era il consiglio in cui sedevano i funzionari Civili e militari. Il funzionario più importante era ............................................, che era incaricato di garantire .................................................. ......................., di mantenere....................................................... ......................................... e di gestire .........................................

....................................

NUMEROSO APPARATO BUROCRATICO

270

Parte VIII L’altra Roma

Si occupava di gestire ................................................................. .......................................................................................................... ..........................................................................................................

Il lessico 5. Collega i termini e le espressioni elencate alle definizioni corrispondenti: Termine

Definizione

1) Monotelismo:

a) Cerimoniale o complesso di norme che regola la relazione tra individui in precisi contesti ufficiali, e in particolare alla corte di un sovrano.

2) Monopolio:

b) Sistema di rapporti tra Stato e Chiesa caratterizzato dal controllo o predominio del primo sulla seconda.

3) Fuoco greco:

c) Controllo esclusivo da parte di un solo soggetto del mercato di una merce o di un servizio.

4) Etichetta:

d) Distretti ritagliati in base alle esigenze della difesa militare che sostituirono le antiche prefetture e province dell’impero romano.

5) Esarchi:

e) Dottrina secondo la quale in Cristo esistevano due nature, divina e umana, ma un’unica volontà.

6) Temi:

f) Adorazione di oggetti ritenuti divinità o abitacoli di essa o partecipi di una divinità.

7) Iconoclastia:

g) Alfabeto composto dai caratteri di scrittura di alcune lingue slave.

8) Idolatria:

h) Sostanza incendiaria che bruciava anche nell’acqua e che veniva irrorata con sifoni sulle navi nemiche.

9) Cesaropapismo:

i) Movimento religioso che vietava il culto delle immagini e ne propugnava la distruzione.

10) Cirillico:

j) Funzionari che governavano le province più occidentali dell’impero e che univano autorità civile e militare.

L’esposizione orale 6. Rispondi alle seguenti domande: 1) Quali trasformazioni caratterizzarono l’assetto territoriale e amministrativo dell’impero bizantino durante il regno di Eraclio? 2) Quali furono le conseguenze della politica iconoclasta promossa da Leone III e da suo figlio Costantino V? 3) Che differenze c’erano tra la visione platonica del potere imperiale e quella aristotelica? In che epoche prevalsero? 4) Per quale motivo fu importante per l’impero bizantino promuovere la cristianizzazione delle popolazioni slave? 5) Per quale motivo è possibile sostenere che la politica economica dell’impero bizantino era di tipo statalista e centralista? 6) Che politica perseguiva la burocrazia imperiale riguardo alla grande proprietà fondiaria? Che conseguenze ebbe questa politica? 7) Quali rapporti si stabilirono tra Stato bizantino e Chiesa, e tra clero d’Oriente e clero d’Occidente?

Capitolo 19 L’impero bizantino

271

PARTE IX

Verso una nuova Europa

C

on i prossimi capitoli usciamo dalla tarda Antichità per addentrarci in pieno nel Medioevo. È un mondo ormai del tutto diverso da quello antico. A partire dalla metà dell’VIII secolo si assiste alla formazione di un grande Stato: l’impero carolingio, nato dalle conquiste dei re dei Franchi e specialmente di Carlo Magno. Il regno franco diventa così grande e potente che il papa decide di farsi proteggere da Carlo Magno, anziché dall’imperatore bizantino, e nell’800, a Roma, gli riconosce il titolo di imperatore. In tutti i territori dell’impero, Carlo e i suoi successori, chiamati i Carolingi, impongono strutture di governo simili, aiutano la rinascita culturale, vigilano sulla preparazione degli uomini di chiesa, diffondono un’unica scrittura, la bella minuscola carolina. Ma le conseguenze più durature del loro governo vanno cercate nelle ricchezze e nel potere che i nobili e i vescovi di tutte le regioni acquistano al servizio dell’impero. Nobiltà e Chiesa traggono poi particolare vantaggio della crisi che colpisce lo Stato carolingio, a partire dalla metà del IX secolo. L’Europa è dilaniata da lotte interne fra i discendenti di Carlo Magno, che si combattono per conquistare la corona imperiale, mentre il territorio è devastato da incursioni di razziatori stranieri: Saraceni, Vichinghi e Ungari. In questa situazione di crisi, la potenza dell’aristocrazia e della Chiesa fa sì che l’impero si frammenti in regni indipendenti, e poi continui a disgregarsi in unità sempre più piccole. Nell’anno Mille, i territori un tempo unificati da Carlo Magno sono divisi fra re, all’atto pratico molto deboli, e migliaia di signorie di varie dimensioni, sottoposte a nobili, vescovi e monasteri. I signori sono padroni delle signorie, ma non come semplici proprietari terrieri: sul loro territorio comandano, organizzano la difesa, amministrano la giustizia, riscuotono le imposte e svolgono tutte le funzioni tipiche dello Stato. Le signorie sono insomma piccoli Stati in proprietà. Ma non è solo l’impero che si disgrega: è tutto un mondo che cambia. I gradini più alti della società sono occupati da una nobiltà dedita al combattimento a cavallo, numerosa, violenta e molto aggressiva. Si diffondono il vassallaggio e la concessione di feudi che legano i nobili fra loro e al re. Per la massa della popolazione l’età carolingia e la successiva età delle signorie rappresentano un peggioramento. I contadini sono costretti a lavorare di più e a consegnare una parte maggiore del raccolto ai signori e ai proprietari. Grazie alle loro fatiche, però, la produzione e i commerci iniziano una crescita destinata a durare per molti secoli. Vengono creati innumerevoli nuovi villaggi, chiese e castelli, utilizzati per proteggere e dominare le campagne. I maggiori protagonisti di questa storia, lo Stato e le aristocrazie, compaiono per la prima volta anche in regioni settentrionali, come l’Irlanda e la Scandinavia, e in tutta l’Europa orientale, popolate fino ad allora da società semplici e

poco organizzate. Nel contempo prosegue la conversione al cristianesimo di nuovi popoli. Il continente europeo inizia a definirsi come un mondo caratterizzato da alcuni elementi comuni: la cavalleria, le signorie, i vassalli e i feudi, un certo tipo di potere regio, un reticolo di chiese, monasteri e vescovi. È un mondo sempre più colmo di energie. Si sta preparando alla crescita interna e alle aggressioni verso l’esterno, come le crociate, che caratterizzeranno i secoli successivi al Mille.

Capitolo 20

L’impero di Carlo Magno 1. L’ascesa dei Carolingi e il papato

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Da ministri a re di un grande Stato

RE

Fino all’inizio dell’VIII secolo l’Europa occidentale aveva continuato a subire molte invasioni. L’ultima, molto grave, era stata quella degli Arabi in Spagna nel 711. Proprio nell’VIII secolo, però, avvenne una svolta importante: iniziò un processo inverso, un processo di espansione dell’Occidente cristiano. Questo cambiamento avveniva in un momento in cui la popolazione e l’economia, dopo la gravissima crisi dei secoli precedenti, mostravano segni di ripresa. Tuttavia le cause dell’espansione dell’Occidente non possono venire ricercate nello sviluppo dell’economia, che era ancora debolissimo, e neanche in una crescita demografica, che era appena agli inizi. Piuttosto, i fattori che, nel corso dell’VIII secolo, diedero all’Occidente cristiano una forza e un dinamismo inimmagiI confini dell’impero carolingio nabili ancora poco tempo prima furono di natura politicoMARE militare: lo sviluppo dei Franchi e la nascita di un grande DEL NORD dominio statale che andava dalla Catalogna, nella Spagna FRISIA Brema SASSONIA orientale, fino alla Carinzia, ad est di Vienna, e dalla ToTURINGIA Colonia scana meridionale fino al confine fra Germania e DanimarAquisgrana Fulda ca. Si formò allora uno Stato, detto carolingio, che fino a A Magonza SI Reims R A Würzburg Treviri U S T TRIA S oggi è restato il più grande Stato mai esistito in Europa doParigi MARCA N E U Metz A Lorsch Ratisbona DI Rennes po la fine dell’impero romano, fatta eccezione per i domìni Strasburgo BAVIERA BRETAGNA Tours Salisburgo BORGOGNA ALEMAGNA conquistati per pochi anni da Napoleone all’inizio del XIX San Gallo Poitiers CARINZIA Coira secolo e da Hitler durante la Seconda guerra mondiale. AQUITANIA Lione Milano La formazione di questo nuovo grande Stato avvenne atVenezia Pavia GUASCOGNA Tolosa PROVENZA traverso numerosi eventi. Una premessa necessaria fu la SETTIMANIA Arles creazione di un unitario regno dei Franchi compiuta nel Nizza MARCA DI DUCATO SPAGNA 688 a opera di un potente ministro dei re della dinastia meDI SPOLETO Barcellona Roma rovingia, il maestro di palazzo Pipino di Héristal. Pipino Benevento DUCATO riuscì a unificare tutti i diversi regni in cui fino ad allora era Napoli DI BENEVENTO stato diviso il dominio dei Franchi, e impose la sua autorità sopra l’aristocrazia di quel popolo, molto ricca e per questo MAR ME DIT ER molto potente e turbolenta. Il potere effettivo era nelle sue RA NE mani, piuttosto che in quelle del re, e dopo la sua morte O Regno franco nel 771 conquiste di Carlo Magno (714) passò in quelle del figlio Carlo Martello (714-741), aree di influenza dell’impero carolingio divenuto famoso in tutta Europa per aver sconfitto un contingente di Arabi a Poitiers nel 732 [cfr. cap. 17.4]. G

N

O

D

’I

TA

LI

A

274

Parte IX Verso una nuova Europa

Non deve meravigliare quindi che, alla fine, un figlio di Carlo Martello, Pipino detto il Breve (era di bassa statura), abbia deciso di assumere anche formalmente il titolo regio: nel 751 depose l’ultimo esponente dei Merovingi. Nasceva una nuova dinastia regia che fu poi detta, dal nome di Carlo Magno, dei Carolingi. Perché il papato appoggiò i Carolingi?

Il papato e la Chiesa influirono molto sul processo di ascesa dei Carolingi fino al trono dei Franchi, dando alla dinastia legittimazione e sostegno ideologico. Va infatti sottolineato che pur detenendo nei fatti tutto il potere, sia Pipino di Héristal, che il figlio Carlo Martello e il nipote Pipino il Breve erano formalmente solo i maestri di palazzo, cioè i ministri dei re Merovingi. Per più di mezzo secolo i maestri di palazzo non erano stati in grado di sottrarre il titolo regio ad una dinastia che, secondo le antiche credenze dei Franchi, deteneva facoltà quasi magiche [cfr. cap. 17.5]. Pipino il Breve decise che, dopo tre generazioni di potere effettivo, era giunto il momento di cambiare le cose. Si appoggiò allora al papa. L’autorità del papa sulla Chiesa era a quei tempi forte, ma soltanto di tipo politico e morale, non amministrativo e giuridico come oggi: solo tre-quattro secoli più tardi il papato sviluppò poteri reali di comando e di controllo sopra le chiese e gli altri vescovi della Cristianità occidentale. Proprio di un’autorità morale aveva però bisogno Pipino. Perciò nel 751 scrisse al papa Zaccaria. Gli pareva corretto che il titolo di re dei Franchi toccasse a chi non aveva reale potere? E il papa rispose quel che Pipino voleva sentirsi dire: il titolo spettava a chi aveva l’effettiva autorità. Forte di questo parere, subito Pipino si fece acclamare re da un’assemblea di nobili, e poi ottenne che tre anni dopo, nel 754, il successore di Zaccaria, Stefano, affrontasse il lungo viaggio da Roma fino in Gallia per consacrare il nuovo re con un unguento sacro. Fra i papi e i sovrani carolingi si era stabilito un rapporto destinato a portare all’incoronazione di Carlo Magno a imperatore, compiuta dal papa qualche decennio più tardi. I papi furono pronti a rispondere alle richieste di Pipino perché nella prima metà dell’VIII secolo la loro situazione, in Italia, era drasticamente mutata. A partire dall’invasione dei Longobardi, nel 568, Roma e il Lazio facevano parte delle regioni restate sotto il governo dell’imperatore di Bisanzio. La capacità del lontano imperatore di governare e difendere le province italiane era però scarsa, e i re longobardi si erano minacciosamente espansi nei territori bizantini. Avevano conquistato la Romagna, e con re Liutprando si erano spinti a poche decine di chilometri da Roma: si erano poi ritirati nel 728, consegnando il Lazio settentrionale al papa, con la “donazione di Sutri”. Per i pontefici, continuare a confidare nella protezione di Bisanzio era ormai impossibile. Con l’imperatore, del resto, era scoppiato anche un conflitto religioso, la cosiddetta “iconoclastia” [cfr. cap. 19.2]. Quando l’imperatore bizantino Leone III (717-741) aderì all’iconoclastia e ordinò la distruzione di tutte le immagini sacre, il papa si rifiutò di accettare la decisione imperiale. Il contrasto con l’impero era divenuto esplicito, e aveva diminuito ancora di più la già debole protezione bizantina su Roma. Occorreva trovare dei nuovi sostenitori, e la scelta non poteva che cadere sui Franchi, il popolo più potente dell’Occidente cristiano.

1. Chi furono gli artefici dell’unificazione e del rafforzamento del regno franco? 2. Che ruolo svolse la Chiesa nel passaggio dalla dinastia merovingia a quella carolingia?

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno

275

2. La conquista di un impero e il ruolo del vassallaggio

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Carlo: da conquistatore a imperatore

 Statuetta equestre di Carlo Magno IX sec. Musée du Louvre, Parigi L’iconografia della statua equestre richiama alla memoria i fasti imperiali e la potenza militare dei grandi imperatori e condottieri romani.

 Dalmatica imperiale detta “di Carlo Magno” X sec. Biblioteca delle Arti Decorative, Parigi Ricevuta l’unzione del pontefice, l’imperatore non può più essere considerato un semplice laico; in virtù della consacrazione egli è ormai associato alla gerarchia ecclesiastica, investito da sacralità e venerazione. Nelle funzioni di diacono assiste alla messa papale, e in questa occasione indossa una tunica, la dalmatica. Questa dalmatica è detta di Carlo Magno perché si pensava l’avesse indossata l’imperatore per la sua incoronazione nell’800; studi più recenti la datano invece all’inizio del X secolo.

276

La famiglia di Pipino già prima di raggiungere il titolo regio aveva dato prova di buone capacità militari quando Carlo Martello sconfisse gli Arabi a Poitiers. Tutta la forza e la volontà di conquista dei nuovi re dei Franchi risultarono evidenti quando salì al trono Carlo Magno, il figlio maggiore di Pipino il Breve (morto nel 768). Carlo Magno regnò dal 768 all’814 (per i primi tre anni, cioè fino al 771, dovette dividere il potere con il fratello Carlomanno). Carlo fu un grande conquistatore, impegnato quasi ogni anno del suo lungo regno in vittoriose campagne militari. Oltre che nel regno dei Longobardi in Italia, conquistato nel 774 a re Desiderio, Carlo spinse i suoi eserciti in Spagna orientale, sottraendo agli Arabi la Catalogna fino a Barcellona. Soprattutto, però, Carlo si indirizzò verso nord e verso oriente. La conquista più difficile fu quella dei vicini dei Franchi, i pagani Sassoni, che popolavano la parte settentrionale dell’attuale Germania e che tante volte furono sconfitti, si sottomisero, e poi tornarono a ribellarsi e di nuovo a venire sconfitti. Carlo sottomise anche i Bavari, nella Germania meridionale, e poi ancora più a est gli Àvari e una parte della penisola balcanica, che apparteneva all’impero bizantino. A sancire il grande cambiamento che Carlo Magno aveva determinato nella politica europea venne anche un titolo altisonante: l’incoronazione a imperatore. Carlo fu incoronato da papa Leone III, a Roma, il giorno di Natale dell’anno 800. Il vassallaggio, un’efficace gestione delle clientele

Era stata realizzata un’espansione impressionante e ricca di conseguenze. Questa espansione non dipese soltanto dalle capacità strategiche di Carlo Magno, ma anche da tanti altri fattori: dalla potenza dell’esercito dei Franchi; dall’organizzazione amministrativa che il nuovo Stato seppe darsi; dal ruolo importante nel funzionamento dello Stato che fu assunto da vescovi, monasteri e altre strutture della Chiesa. Fra tutti, il fattore

Parte IX Verso una nuova Europa

principale fu la potenza della nobiltà dei Franchi: una nobiltà che Carlo Magno seppe tenere sotto controllo e legare a sé con le guerre di conquista e le cariche di governo. Nella seconda parte del capitolo approfondiremo l’analisi di tutti questi elementi che determinarono la forza dapprima del regno e poi dell’impero carolingio. Fin d’ora occorre però spiegare uno di questi fattori: la diffusione dei rapporti di vassallaggio e di feudo. Essi vennero usati per stabilire e rafforzare l’alleanza fra Carlo e i nobili, oppure anche fra i nobili più potenti e i loro seguaci. Erano i primi passi del feudalesimo, un fenomeno destinato a caratterizzare buona parte dell’età medievale. Con Carlo Magno, vassallaggio e feudo si diffusero molto fra i Franchi e presso tutte le popolazioni da essi conquistate. Poi, per molti secoli, restarono un aspetto importante delle relazioni politiche, cioè dei rapporti che facevano capo ai potenti di ogni tipo, dal piccolo nobile su su fino al re. Di che si trattava? Il vassallaggio e il feudo furono un modo sviluppato presso i Franchi per dare maggiore forza e visibilità alle clientele che legavano re e nobili franchi fra loro e con gli uomini liberi più potenti. L’ingresso nella clientela di un nobile, come anche in quella del re, avveniva prestando un giuramento pubblico e solenne di vassallaggio. Davanti ai dignitari della corte regia (se si giurava al re) o a tutta la clientela di un nobile (se era lui a ricevere il giuramento), un uomo giurava fedeltà. Il legame stabilito dal giuramento veniva considerato molto stretto. Secondo molti, doveva addirittura essere più importante dei più intimi legami di parentela, come quelli con i fratelli. Chi prestava il giuramento veniva chiamato vassus, vassallo; chi lo riceveva senior, signore. Il giuramento era detto omaggio. L’etimologia di questi termini aiuta a capire quanto il legame fosse stretto. Vassus in origine voleva dire ‘ragazzo’, giovane garzone; senior sta per ‘il più anziano’: il rapporto di vassallaggio doveva dunque essere come quello di un giovane della famiglia con il membro anziano, il capofamiglia. Prestare l’omaggio voleva dire essere l’uomo (homo) del signore. Il vassallaggio comportava obblighi per entrambe le parti. Il vassallo doveva essere fedele al suo signore, e aiutarlo in molti modi: accompagnarlo nei combattimenti o a riunioni importanti di nobili, consigliarlo, fare di tutto per il suo bene. Anche il signore doveva assistere il vassallo. Lo aiutava se era attaccato da nemici e lo proteggeva in qualsiasi occasione. Il signore, inoltre, ricompensava il vassallo con doni. In quei tempi (ma in fin dei conti anche nel mondo odierno, sebbene molto meno!), chi voleva proclamare la propria superiorità doveva fare grandi doni, troppo grandi perché il beneficiato potesse anche solo pensare di ricambiarli. Essere generosi e donare a piene mani era un obbligo per chiunque volesse conservare un seguito di fedeli. Ma il dono migliore era quello che stabiliva un legame protratto nel tempo, obbligando chi lo riceveva a restare fedele se non voleva perderlo: di qui la pratica di concedere al vassallo una terra del signore non in piena proprietà, come quando si fa un regalo, ma attraverso un dono revocabile, chiamato beneficio (in latino) o feudo (con termine di origine germanica). Il dono consisteva di solito in terra e contadini, piuttosto che in denaro. Nessuno poteva essere potente e fare politica senza la terra, e senza i contadini che la lavoravano. In un’epoca in cui le tasse erano assenti o molto scarse e il mercato limitato, per assicurarsi a lun-

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno



Il vassallo rende omaggio al suo signore XIV sec. Miniatura dall’Archivio Dipartimentale di Perpignan, Francia Nel complesso sistema di relazioni che legavano i signori feudali ai propri sudditi, il gesto di “rendere omaggio” significava confermare la dipendenza di un uomo da un altro: in cambio della promessa di fedeltà il vassallo otteneva la promessa di protezione e, spesso, anche l’assegnazione di un feudo.

277

Carlo: il nome, la nascita, gli amori I contemporanei di Carlo Magno si sarebbero stupiti a sentirlo cambiati i modi di sposarsi in uso presso i Franchi, con l’effetto chiamare così. Per loro, era semplicemente Carlo, o meglio Karo- di definire come legittimo uno solo dei due tipi di matrimonio lus in latino e Karl in “lingua Theotisca”, cioè nel dialetto germa- che fino ad allora erano stati usati. La tradizione dei popoli gernico antenato del tedesco odierno, in quel tempo parlato dai Fran- manici prevedeva infatti due diversi tipi di matrimonio: sia il chi che vivevano nella parte orientale del regno (i Franchi della “matrimonio pubblico”, formale e impegnativo, sia il “matrimoparte occidentale, viceversa, parlavano la “lingua Romana”, cioè nio d’amore”, meno stringente e facilmente revocabile. Ora, il una via intermedia fra il latino e il francese odierno). Il sopranno- matrimonio fra Berta e Pipino il Breve non era stato un “matrime di “Magno” fu dato a Carlo soltanto dopo la morte. Durante la monio pubblico”, solenne e proclamato a tutta la popolazione, vita dell’imperatore l’aggettivo Magnus (‘il Grande’) fu utilizza- ma un “matrimonio d’amore”, celebrato in privato, di fronte a to per distinguerlo da uno dei sui figli, che era anch’egli chiama- poche decine di persone. La Chiesa si opponeva alla tradizione to Carlo. E poi compariva all’inizio delle sue lettere e degli altri dei due tipi di matrimonio, e cercava di convincere i cristiani ad documenti: «Io Carlo, il grande imperatore, ordino che...». Era avere una sola moglie, e a non divorziare. Ma il matrimonio non dunque un aggettivo riferito alla carica imperiale, non al nome. era stato ancora definito come un sacramento, e le nozze avveCon il passare del tempo, però, il ricordo di questo personaggio in nivano senza alcun intervento dei sacerdoti. Furono proprio Careffetti grandioso fece sì che l’aggettivo venisse attribuito a lui, e si lo Magno e poi il figlio Ludovico il Pio a favorire uno sviluppo incollasse al suo nome. Dunque l’inizio dei suoi documenti fu let- della liturgia e della teologia, che spostò il confine fra matrimoto in modo diverso: “Io Carlo il Grande, imperatore, ordino che...”. nio lecito e illecito: e il “matrimonio d’amore” finì per venire Era una lettura sbagliata, ma causata dalla prestigiosa memoria del considerato come illegittimo. personaggio. Anche fuori dai confini dell’impero, la sua fama era Carlo Magno ebbe cinque mogli, almeno sei concubine e un tale che tuttora, presso gli Slavi, proprio dal nome Karl deriva la gran numero di figli (venti quelli noti a distanza di un millennio parola che significa, in quelle lingue, “re”: kral in ceco e korol’ e due secoli, ma certamente molti altri). Questi numeri ci aiutain polacco. no a capire quanto fosse diverso il mondo di allora. Le donne si Cosa sappiamo di Carlo Magno? Pare fosse molto alto. Secondo sposavano in giovane età, e morivano con frequenza di parto. il suo biografo, Eginardo, arrivava ai sette piedi, cioè oltrepassa- La Chiesa, poi, non era ancora riuscita a imporre l’idea della va il metro e novanta. Per quei tempi era molto, e saremmo tenta- monogamia. Per i potenti, era normale avere più di una compati di non prestare fede alla notizia se non fosse che lo scheletro tro- gna di vita. Inoltre era ancora possibile cambiare la moglie levato un secolo e mezzo fa nella tomba di Carlo misurava per l’ap- gittima, se questa non dava figli oppure se lo richiedeva la conpunto 192 centimetri. La sua lingua venienza politica. materna fu quella dei Franchi orienCarlo Magno infatti divorziò più tali, cioè la “theotisca”, ma imparò volte. Il suo primo matrimonio era presto anche il latino e la lingua “rostato un “matrimonio d’amore”, almana” parlata nelle parte occidentale l’epoca considerato legittimo (e ledell’attuale Francia. gittimo venne appunto definito adEra nato nel 742, forse in aprile. Ma dirittura dal papa). Però durò poco sono date approssimative, perché, tempo, e gli diede un solo figlio. come sempre nel Medioevo, il calcoOccorreva stabilire stretti rapporti lo dell’età esatta era difficile. Non si con il re dei Longobardi Desiderio, faceva attenzione alla data di nascita e dunque Carlo ripudiò la prima in un mondo dove la mortalità infanmoglie e sposò la figlia di re Desitile era altissima e dove solo i più colderio. Ne ignoriamo il nome, anche ti sapevano seguire la tecnica, oggi se spesso ci piace chiamarla con il così scontata, di numerare gli anni a nome di fantasia, Ermengarda, che partire dalla nascita di Cristo. Pochisle diede Alessandro Manzoni tanto simi, dunque, conoscevano il proprio tempo dopo nel suo dramma Adelanno di nascita. chi. Anche questo matrimonio venIl nome della madre era Berta o Berne tuttavia sciolto nel giro di un antrada. Apparteneva a una famiglia no, poiché si profilava la violenta importante, alleata con quella del conquista del regno di Desiderio, e marito e padre di Carlo, Pipino il occorreva avere le mani libere. La Breve. Era un marito solo in parte, terza moglie durò più a lungo: spova detto. Anzi, un secolo più tardi il satasi come sempre in quel tempo matrimonio fra i genitori di Carlo giovanissima, a tredici anni, morì a Magno sarebbe stato senz’altro conventicinque anni di età, dopo avere siderato illegittimo, e il bambino, di messo alla luce almeno nove figli. Carlo Magno e una delle sue mogli sec. conseguenza, un bastardo. Perché IX Dopo di allora Carlo Magno non diquesta strana affermazione? Duran- Miniatura da un manoscritto di epoca carolingia; Biblioteca vorziò più, ma si risposò ogni volta te il regno di Carlo Magno erano dell’Abbazia St. Paul im Lavanttal, Carinzia, Austria che la moglie moriva.

278

Parte IX Verso una nuova Europa

go nel tempo un buon gruppo di sostenitori, che senso aveva ricorrere solo a stipendi, pensioni o vitalizi? La moneta era rara e in certe fasi era davvero difficile mettere insieme le somme da pagare. D’altra parte, il mercato dei prodotti agricoli funzionava ancora molto male, e in certe situazioni, quando per esempio il raccolto era cattivo, poteva accadere che anche chi disponeva di denaro non riuscisse a trovare nessuno disposto a vendergli gli approvvigionamenti necessari. Non ci sono dubbi: il modo migliore per conquistarsi dei sostenitori era dare loro della terra. Ovunque, vediamo così nobili e re impegnati nel trovare terre e distribuirle ai propri sostenitori. A dare loro dei benefici, o feudi. Queste elargizioni di terra erano temporanee. I benefici o feudi duravano fin quando resisteva il rapporto fra il potente e il suo sostenitore. Se il vassallo non andava in guerra, o peggio ancora se si ribellava, il beneficio gli veniva sottratto. Ma poteva perderlo anche se il suo signore (senior) moriva, e gli eredi preferivano dare ad altri sostenitori la terra. Naturalmente spesso la relazione di vassallaggio, e dunque anche la concessione di terra in beneficio, durava nel tempo, trasmettendosi dai padri ai figli. In età carolingia, però, non era una relazione ereditaria. Lo diventerà solo nei secoli successivi, come vedremo nel prossimo capitolo.

1. Quali territori conquistò Carlo Magno? 2. Come spiegano il rapporto di vassallaggio le parole vassus, senior e omaggio? 3. Per quale motivo le elargizioni di terre erano più preziose del denaro?

3. L’eredità di Carlo Magno

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Lotte per il potere

Nella cultura, nella religione, nell’economia, nella politica e quasi in ogni campo, l’impero carolingio ha lasciato una duratura eredità in molte regioni europee, lo vedremo nel corso del capitolo. E non a caso, proprio in Carlo Magno alcuni storici individuano “un paGenealogia carolingia Carlo Martello † 741 Pipino il Breve maestro di palazzo re dei Franchi dal 751 † 768 Carlo Magno † 814 Pipino re d’Italia † 810

Carlomanno † 771 Ludovico I il Pio re d’Aquitania poi imperatore † 840

Lotario I imperatore † 855

Ludovico il Germanico re dei Franchi orientali † 876

Ludovico II re d’Italia e imperatore † 875

Carlo il Grosso imperatore † 888

Carlo il Calvo re dei franchi occidentali poi imperatore † 877

dre dell’Europa”. Riflettiamo però in primo luogo sull’eredità dell’impero: non bisogna infatti credere che l’impero sia sopravvissuto intatto per secoli. Già durante il regno del figlio e successore di Carlo, l’imperatore Ludovico il Pio (814-840), iniziarono le difficoltà. Creava problemi, in primo luogo, l’idea radicata tra i Franchi che i diversi figli maschi legittimi avessero tutti diritto alla medesima quota dell’eredità paterna. Quando salì al trono, Ludovico il Pio aveva tre figli. Per evitare che l’impero fosse suddiviso al momento della sua morte, emanò nell’817 una disposizione, l’Ordinatio imperii (‘Ordinamento dell’impero’), che proclamava suo unico successore il primogenito, Lotario, assegnando agli altri due fratelli quote molto minori. Dopo l’830, i figli minori si ribellarono al padre e al fratello primogenito. Verso la frammentazione dell’impero

no

Re

Era l’inizio di una serie di guerre interne, rese tanto più pericolose e devastanti da quella che, fino ad allora, era stata la maggiore causa della potenza carolingia, e cioè il numero e la forza delle famiglie aristocratiche. Finché i sovrani erano stati capaci di indirizzare verso l’esterno, in campagne di conquista, i desideri di bottino e ricchezza dei nobili, la forza dell’aristocrazia era stata un fattore positivo. Ma ora che le lotte si spostavano all’interno dell’impero, divenendo lotte civili, proprio la potenza delle aristocrazie diveniva un fattore di grande pericolo per il governo e la società, poiché ognuno dei contendenti alla corona poteva contare su un vasto gruppo di nobili seguaci molto aggressivi e desiderosi di combattere. Nell’843, tre anni dopo la morte di Ludovico il Pio, si giunse infine a un accordo, sancito con il trattato di Verdun, che stabiliva una spartizione dei territori. Al figlio minore di Ludovico, Carlo il Calvo, fu assegnata la parte occidentale dei possessi appartenuti al padre (Francia La divisione dell’impero dopo il trattato di Verdun e Catalogna), mentre al secondo, detto Ludovico il Germanico, fu data la parte orientale, la Germania. Al primogenito Lotario restò una lunga striscia di territori intermedi, che dall’Olanda a nord MARE DEL giungeva a meridione fino a Roma. Come aveva NORD stabilito l’Ordinatio imperii dell’817, il titolo di imperatore restava a Lotario (840-855): ma ormai era un attributo onorifico, privo di ogni reale capacità di comando sui regni dei fratelli. Aquisgrana Nel trentennio successivo a Verdun le lotte inParigi Verdun testine furono meno accentuate, anche se mai asOCEANO Strasburgo ATLANTICO senti. L’idea di impero restava, anche se era inDan ubio tesa solo come un coordinamento fra regni indipendenti (a un certo punto ce ne furono ben sette!). Le lotte ripresero con maggiore intensità Pavia dopo l’875, alla morte dell’imperatore Ludovico II, ultimo figlio di Lotario. Nell’881 Carlo il Grosso, figlio di Ludovico il Germanico, approRoma fittò della morte senza eredi dei fratelli e dei cugini, e riuscì a riunificare l’impero. Ma era un imRegno di Carlo il Calvo pero incomparabilmente più debole di quello apMA Regno di Lotario I RM partenuto al nonno Ludovico il Pio, per non parEDI Regno di Ludovico il Germanico TER RAN lare del bisnonno Carlo Magno. Come vedremo EO nel prossimo capitolo, il potere centrale era incaRoda

no

a

Elb

280

Parte IX Verso una nuova Europa

pace di difendere il territorio da una serie di incursioni e di attacchi che provenivano dall’esterno dell’impero, a opera di Vichinghi, Saraceni e Ungari. Carlo il Grosso fu deposto nell’887, e l’anno dopo, alla sua morte, l’impero venne frammentato in modo definitivo.

1. Che cosa decretava l’Ordinatio imperii? 2. Che cosa sancì il trattato di Verdun?

4. Spiegare la potenza dei Franchi: strategia e politica

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

In una sola campagna di guerra, nel 773-774, la monarchia dei Longobardi fu distrutta per sempre. Sotto il dominio dei Carolingi passarono tutti i territori del regno, che comprendevano grosso modo l’Italia settentrionale e centrale. Fu una delle tante vittorie di Carlo Magno. Osserviamola un po’ più in dettaglio per cercare di capire il segreto di tanti successi. Vediamo, in primo luogo, i fatti. Nell’estate 773, Carlo Magno fece radunare il suo esercito vicino a Ginevra, lo divise in due parti e intraprese da due direzioni (dai valichi del Moncenisio e del Gran San Bernardo) il difficile passaggio delle Alpi. Le potenti fortificazioni, chiamate “chiuse”, che sbarravano poco prima dell’ingresso nella Pianura Padana le strade che scendevano dai monti, vennero aggirate senza colpo ferire. Le truppe di re Desiderio, suocero di Carlo Magno (o meglio, ex suocero, perché Carlo aveva ripudiato la figlia di Desiderio sposata pochi anni prima; cfr. scheda, p. 278) si rinchiusero nella capitale del regno dei Longobardi, Pavia. Iniziò un assedio durato fino al giugno del 774. Allo stremo, re Desiderio si arrese e venne mandato prigioniero oltralpe. Carlo si installò nel suo palazzo e distribuì ai propri guerrieri il tesoro della monarchia longobarda. Da questi eventi traiamo una prima conclusione, e cioè l’indubitabile abilità strategica di Carlo Magno. Tante volte egli divise le sue truppe per prendere con una manovra a tenaglia il nemico (operazione difficile, perché a quei tempi coordinare il movimento di grandi contingenti era molto complesso). Più ancora che nella strategia, però, in questo come in altri casi Carlo appare abile in politica. Lo si sarà notato, la resistenza dei Longobardi fu minima. Le fonti non ricordano né un nobile, né una città (tranne Pavia) che lottarono contro gli invasori. Ci viene detto soltanto che Desiderio si rinchiuse nella capitale con i guerrieri che gli restavano. E i duchi e gli altri grandi nobili longobardi? Non sembra che abbiano opposto una grande resistenza, e anzi si sottomisero con prontezza al nuovo padrone, conservando spesso tutti i loro beni. La vittoria del 774 non provocò nessuna immigrazione massiccia di Franchi vincitori, e nessuna espropriazione sistematica dei vinti. Scesero in

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno

 La corona ferrea dei re d’Italia VII-VIII sec. Tesoro del Duomo, Monza Con la caduta di Desiderio, Carlo Magno si proclamava “re dei Franchi e dei Longobardi”; secondo la tradizione in quest’occasione l’imperatore cinse la cosiddetta “corona ferrea”, emblema del potere dei re d’Italia fino a quel momento, e così chiamata perché ha all’interno una piccola fascia di ferro ricavata, si credeva, da uno dei chiodi usati per la crocifissione di Cristo.

281



Cavalieri carolingi all’attacco XI sec. Miniatura dal manoscritto del De Universo di Rabano Mauro; abbazia di Montecassino Questa miniatura, che illustra come fossero i cavalieri carolingi a distanza di due secoli dal fatto, è tratta da un manoscritto posteriore appunto di due secoli alla redazione dell’opera del De Universo di Rabano Mauro, una delle opere enciclopediche più rilevanti composte in epoca carolingia. Abate erudito, teologo e autore di una vastissima produzione letteraria, Rabano Mauro fu arcivescovo di Magonza e successore del suo maestro Alcuino di York alla guida della cosiddetta rinascenza culturale carolingia.

Italia solo un numero ristretto di personaggi legati a Carlo Magno, che occuparono una serie di cariche e posizioni di comando; ma la maggioranza dei nobili longobardi riuscì a mantenere il proprio ruolo. Ne deduciamo che erano avvenute delle trattative politiche, e Carlo era stato abile nel convincere l’aristocrazia longobarda. Si trattò dunque di un successo da attribuire solo alle capacità strategiche e politiche di Carlo Magno? Sbaglieremmo a crederlo. In Italia come in Sassonia e in tanti altri scenari militari, la ragione principale delle vittorie carolingie va cercata nella superiorità militare. I Franchi disponevano, in quell’epoca, di un esercito più numeroso, più armato e più efficace.

1. Come reagì la nobiltà longobarda all’invasione dei Franchi? Che cosa se ne può dedurre?

5. Spiegare la potenza dei Franchi: la macchina militare

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Sfatiamo subito un mito: un tempo gli storici credevano che la superiorità militare dei Franchi dipendesse da un nuovo accorgimento tecnico, la staffa. La staffa consente in effetti al cavaliere, soprattutto se dotato di una pesante corazza, di ancorarsi meglio al cavallo, e di manovrare con più facilità. Invece le indagini archeologiche mostrano che all’epoca di Carlo Magno la staffa in Occidente era ancora poco diffusa. Certamente solo una minoranza dei cavalieri già ne faceva uso. Altri mutamenti erano invece più importanti. Era avvenuto, per esempio, un cambiamento nelle forme di reclutamento dei militari. Nei primi tempi del regno dei Franchi tutti gli uomini liberi erano tenuti a combattere nell’esercito del re. Il grosso dei combattenti era costituito da piccoli proprietari di terra, che non avevano le risorse per acquistare un cavallo e tanto meno per un’armatura o una spada lunga. Combattevano a piedi, protetti da uno scudo di legno e armati di coltelli, lance, giavellotti e ascie da lancio (le temibili franciske). Solo pochi riuscivano a mettere insieme tutta questa attrezzatura; alcuni, poi, nemmeno avevano una vera e propria arma, e andavano a combattere muniti solo di bastoni. Già prima della nascita di Carlo Magno, il reclutamento dell’esercito era cambiato. Il numero di quanti erano chiamati a farne parte era diminuito, ma era molto migliorata la qualità delle loro armi e del loro addestramento. In guerra andava ormai solo una minoranza di quelli che potevano combattere a piedi, mentre gli altri dovevano contribuire con denaro e viveri. Coloro che partivano, scelti fra i più abbienti e aiutati dai vicini che restavano a casa, erano molto meglio armati di un tempo. Tutti, per esempio, avevano un arco. Ma il cambiamento principale riguardava i cavalieri. Adesso erano molti di più, e molto meglio armati.

282

Parte IX Verso una nuova Europa

I cavalieri erano più numerosi, poiché con le guerre vittoriose era cresciuta la ricchezza dell’aristocrazia e dei guerrieri, che partecipavano alla spartizione dei bottini sottratti ai nemici e ai doni elargiti dai sovrani. Si dividevano in cavalleria leggera, armata sempre di lancia, scudo, spada lunga e spada corta, e in cavalleria corazzata. Ai cavalieri che possedevano terreni lavorati da almeno una dozzina di famiglie contadine, Carlo Magno faceva obbligo di acquistare, oltre alle armi, una costosa brunia, cioè una corazza di cuoio ricoperta di placche di metallo. Un nucleo di alcune migliaia di cavalieri corazzati costituiva la principale forza d’urto dell’esercito. La maggiore ricchezza permetteva anche di allestire tutta la complessa logistica richiesta da una spedizione militare. In genere, occorreva portare con sé i rifornimenti per parecchi mesi di campagna. Sapendo che il carro allora in uso, tirato da una coppia di buoi, poteva portare poco più di mezza tonnellata di farina o vino, è stato calcolato che una forza di diecimila uomini, dei quali tremila cavalieri, doveva essere accompagnata da più di seimila carri, tirati da dodicimila buoi!

1. Come veniva reclutato l’esercito al tempo di Carlo Magno? 2. Da chi era composta la cavalleria?

6. Spiegare la potenza dei Franchi: la ricchezza

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Sarà chiara, a questo punto, una differenza importante fra l’esercito dell’impero carolingio e gli eserciti dell’impero romano e di tanti altri Stati moderni e contemporanei: la gran parte dei soldati appiedati e dei cavalieri, delle loro armi e degli approvvigionamenti non era pagata dallo Stato, ma veniva fornita dai combattenti stessi. Chi era chiamato nell’esercito, vi andava a proprie spese, con le proprie armi e le proprie provviste. Per avere un esercito potente, era dunque importante che i combattenti avessero un buon patrimonio, oppure risorse di altro tipo. Per capire questo punto, confrontiamo la situazione dei Longobardi e quella dei Franchi nel 773-774. Nel regno dei Longobardi erano rari i grandissimi proprietari di terre, che possedevano diverse centinaia o persino migliaia di mansi (il termine, come vedremo, indica il podere affidato a una famiglia contadina). Prevalevano i medi e i piccoli proprietari. Così, l’esercito era composto soprattutto da combattenti appiedati (i piccoli proprietari), da cavalieri leggeri (i medi proprietari) e da un certo numero di cavalieri meglio attrezzati (i grandi proprietari). Molti di costoro spesso si incontravano per la prima volta solo al momento del combattimento. Presso i Franchi, invece, i grandi e i grandissimi proprietari erano molto più numerosi. Con le loro

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno



Nobile-guerriero franco IX sec. Chiesa di San Benedetto, Malles Venosta, Bolzano L’affresco, proveniente dalla chiesa di San Benedetto in Val Venosta, raffigura il dignitario carolingio cui si deve la committenza dell’edificio. Estrazione sociale e risorse economiche permettevano ai nobili di disporre di un’attrezzatura militare, qui testimoniata dalla grossa spada.

vaste terre, soprattutto i nobili più ricchi riuscivano non soltanto a comprare le migliori attrezzature per sé stessi, ma anche a circondarsi di un gruppo numeroso di sostenitori, ai quali distribuivano armi e cavalli. Reclutati fra i medi e i piccoli proprietari dei dintorni, questi sostenitori formavano la “clientela” dei grandi nobili, erano i loro “vassalli”. Da essi ricevevano terre, doni, e appunto armi e cavalli. Così, quando ciascuno di questi grandi nobili era convocato nell’esercito del re, non vi andava da solo, ma con tutta la sua clien-

Campi e fiumi di ferro [Noktero Balbulo, Gesta Karoli Magni imperatoris, p. 44; trad. a cura degli autori]

La

voce

PA SSA TO del

A distanza di oltre un secolo dalla conquista del regno dei Longobardi, ancora restava la memoria dell’impressionante diseguaglianza di esercito e di attrezzatura tra Franchi e Longobardi. Ormai veniva però deformata in racconti più o meno di fantasia. Uno di questi ci è fornito dal monaco Notker. Egli immagina che nel 773 re Desiderio assista all’arrivo dell’esercito di Carlo Magno dall’alto di una torre di Pavia. A spiegargli la disposizione delle truppe nemiche è un disertore franco, Uggieri. Il racconto descrive bene lo stupore e la paura che i Longobardi, come tutti i nemici dei Carolingi, dovettero provare di fronte all’ampiezza degli approvvigionamenti, al numero degli armati e soprattutto alla frequenza con cui costoro potevano permettersi di utilizzare il ferro, materiale a quel tempo costoso. E vedendo arrivare carri e provviste in grandissimo numero, re Desiderio disse a Uggieri: «C’è Carlo in questa grande armata?». «Non ancora», gli rispose. Venendo poi l’esercito di semplici combattenti, raccolti dall’immenso impero, il re disse con sicurezza a Uggieri: «Certo Carlo si trova tra queste truppe». Rispose Uggieri: «Ma non ancora, non

Parte IX Verso una nuova Europa

ancora». Allora il re cominciò ad agitarsi e a dire: «Che faremo, se verrà con forze ancora maggiori?». Disse Uggieri: «Vedrai! Quanto a noi, non so cosa ci accadrà». Ed ecco che apparve la guardia del corpo, tutta serrata; e vedendola Desiderio, stupefatto, disse: «Questo è Carlo». E Uggieri: «Non ancora, non ancora. [...] Quando vedrai una messe di ferro spuntare nei campi, e il Po e il Ticino neri di ferro inondare le mura della città, quello sarà forse il segno che Carlo sta arrivando». Non ebbero il tempo di finire, quand’ecco che da occidente apparve un temporale simile a una nube nera, che trasformò la luce del giorno in paurosa ombra [...]. E allora videro il ferreo Carlo, con un elmo di ferro, alle braccia maniche di ferro, il ferreo petto e le larghe spalle coperti da una corazza di ferro, una lancia di ferro levata alta con la sinistra, mentre la destra era protesa verso la invitta spada. [...] E tutti coloro che lo precedevano, lo affiancavano e lo seguivano imitavano, secondo i loro mezzi, quello stesso armamento. Il ferro riempiva i campi e le pianure. I raggi del sole si riflettevano nella schiera di ferro. Al gelido ferro si inchinava il popolo raggelato. Echeggiava il confuso clamore dei cittadini: «Oh, il ferro! Ohimè, il ferro!»



La cosiddetta “spada di Carlo Magno” VIII-X sec. Kunsthistorisches Museum, Vienna Questa bella spada di epoca carolingia è una delle numerose spade attribuite a Carlo Magno. In questo caso si sostiene che sia stata ritrovata nella tomba dell’imperatore ad Aquisgrana.

tela. Si muoveva con decine, a volte con centinaia di cavalieri che il nobile stesso aveva contribuito ad armare al meglio. Queste truppe, inoltre, erano addestrate a combattere fianco fianco, cosa che le rendeva molto più formidabili nel combattimento.

1. Qual era la grande differenza tra l’esercito longobardo e quello franco?

7. L’organizzazione dell’impero carolingio

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Conti e marchesi

Il territorio dell’impero di Carlo Magno era diviso in un gran numero di province, circa seicento, chiamate contee. A capo di ogni provincia veniva inviato un funzionario, chiamato conte, che godeva della fiducia del sovrano. In genere, il conte era scelto nel numeroso gruppo di nobili che facevano parte del seguito del sovrano, e gli avevano giurato vassallaggio. In questi casi, fra il conte e l’imperatore esistevano due legami, che si rafforzavano a vicenda: il rapporto pubblico, cioè quello che lega il funzionario al capo dello Stato; e un rapporto più personale, del vassallo verso il suo senior. A piacimento del sovrano, il conte poteva restare in carica a lungo, anche tutta la vita, o venire spostato in un’altra contea dopo poco tempo. Assieme ai suoi aiutanti, svolgeva nella propria contea tutti i compiti dello Stato. Amministrava la giustizia e manteneva l’ordine pubblico; comunicava e faceva rispettare le leggi e gli ordini dell’imperatore; reclutava i combattenti per l’esercito, e li guidava di persona fino al luogo scelto dall’imperatore per iniziare la campagna militare. Inoltre amministrava le proprietà del fisco regio: cioè le terre, sempre molto estese, che in ciascuna provincia appartenevano alla corona. Nella sua contea, poteva fare affidamento sul sostegno dei sudditi fedeli al sovrano, e in particolare di quelli che le fonti dell’età di Carlo Magno chiamano ‘vassalli del signore’, i vassi dominici. Questi erano i vassalli diretti dell’imperatore, ricompensati attraverso la concessione in beneficio di una qualche proprietà della corona nella contea, e dunque particolarmente pronti a ubbidire. Come avveniva per il vassallaggio di molti conti, anche in questo caso vassallaggi e benefici aiutavano molto il sovrano a esercitare il proprio potere sulle aristocrazie e sui diversi territori dell’impero. In ogni contea, i vassi dominici erano i nobili più attenti agli ordini e ai desideri del sovrano. Nelle aree di frontiera, dove l’impero confinava con i pagani, le contee erano troppo piccole per opporre una buona difesa a eventuali invasori. Vennero allora raggruppate in province più grandi, dette marche, con a capo un funzionario chiamato marchese. Per controllare l’operato di conti e marchesi, il sovrano nominava degli inviati speciali, missi dominici (cioè ‘inviati del signore’) che, muniti di pieni poteri, ricevevano l’incarico di recarsi in una o più province al fine di effettuare controlli e di porre rimedio alle situazioni sbagliate. “Sovranità itinerante” e ruolo del clero

Se conti e contee costituivano la principale struttura statale sul territorio, come era articolato, al centro, lo Stato carolingio? Al centro vi era la corte del sovrano, con i suoi uffici. I principali erano la cancelleria, la cappella e il palatium. La cancelleria era l’ufficio incarica-

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno

285

cittadinanza Nascita dell’Europa?

“Re e padre d’Europa”: così, poco prima dell’incoronazione imperiale dell’800, un poeta di corte definiva Carlo Magno. Ma cosa era l’Europa, e davvero nacque solo con Carlo Magno? Come la intendiamo oggi, cioè per indicare le regioni che vanno dalla penisola iberica fino alle grandi pianure russe, l’idea di Europa in effetti è un’invenzione medievale. Il termine, in realtà, era stato coniato dagli antichi Greci. Ma essi lo usavano per definire i loro territori posti a occidente dell’Asia Minore, e in primo luogo la stessa Grecia. Designava dunque un’area geografica molto diversa da ciò che oggi chiamiamo Europa. Proprio con l’età di Carlo Magno il termine non soltanto incominciò a essere usato con frequenza, ma intraprese il lungo cammino destinato a fargli assumere il significato odierno. Alla fine del periodo medievale, nel XV secolo, Europa indicava grosso modo le stesse regioni di oggi. Qual è stato allora il ruolo di Carlo Magno nello sviluppo dell’idea di Europa? In primo luogo, Carlo Magno ha unificato in un’unica organizzazione politica uno spazio molto vasto, che dal Lazio andava fino al Mare del Nord, e da Barcellona fino a Vienna. Era uno spazio molto diverso da quello dell’impero romano, il quale aveva al centro il Mediterraneo: il centro di questo nuovo mondo si era allontanato dalle rive del Mediterraneo, spostandosi a settentrione delle Alpi. Era un mondo, inoltre, dove proprio il dominio unitario di Carlo Magno determinava la diffusione di forme di governo e di cultura molto simili. Proprio a questa nuova realtà iniziò a essere applicato il termine di Europa, che dunque in una prima fase voleva dire sostanzialmente “i domini di Carlo Magno”. Nei secoli successivi il termine Europa conobbe alterne fortune, con momenti di eclissi e altri di successo. Nel suo insieme, comunque, si andò affermando sempre più, ed estendendo a sempre nuove regioni. Ma in quei secoli fu soprattutto importante un altro fenomeno, che gli sto-

286

Parte IX Verso una nuova Europa

rici chiamano «europeizzazione dell’Europa». Con questa espressione un po’ strana, essi vogliono descrivere un processo di diffusione, nelle regioni che oggi chiamiamo Europa, di tutta una serie di elementi comuni che hanno finito per dare una somiglianza di base a tutto il continente, al di là delle tante differenze politiche, culturali e di lingua. Oggi ci sembra normale, per esempio, che esistano università, che le città siano dotate di un proprio comune, che ai bambini si dia il nome di santi, che le leggi fondamentali seguano determinati princìpi (per esempio, l’idea che l’imputato è innocente se non se ne prova la colpevolezza), che esistano Stati nazionali e via dicendo. Ebbene, questi elementi tipici della civiltà europea sono nati nel Medioevo, e durante il Medioevo si sono diffusi nel continente. Attraverso un processo di più secoli, avvenne così che le strutture di base della società, della politica e della cultura prendessero in tutta l’Europa tratti abbastanza simili. Più ancora che essere un’espressione geografica, volta a indicare una certa parte del mondo, l’Europa era divenuta una civiltà lacerata al suo interno da infinite divisioni, ma pur sempre caratterizzata da una serie di elementi comuni, che la rendevano ben diversa dai mondi circostanti. Proprio con Carlo Magno era iniziata la diffusione di questi elementi comuni, quel processo, cioè, di “europeizzazione” di quello che oggi chiamiamo Europa.



Statua di Carlo Magno XI-XII sec. Chiesa abbaziale di Müstair, Svizzera Carlo Magno divenne per le generazioni successive il modello della regalità. Questa statua fu realizzata per la chiesa abbaziale di Müstair tra l’XI e il XII secolo e raffigura il sovrano non nelle sue sembianze reali (alla sua epoca i Franchi portavano i baffi e non la barba), ma come s’immaginava che dovesse apparire un sovrano universale. Il suo aspetto trasmette difatti prestigio e potenza, qualità sottolineate dalle insegne imperiali con cui il sovrano è fregiato: la corona, il globo sormontato dalla croce, simbolo del potere universale consacrato da Dio, e lo scettro, su cui è presente un giglio, elemento simbolo della regalità per i sovrani francesi a partire dall’epoca carolingia.

 La Cappella Palatina Particolari dell’interno e del trono imperiale 790-800 Aquisgrana Carlo Magno fece edificare il Palazzo di Aquisgrana sul modello delle costruzioni imperiali di Roma, Ravenna e soprattutto Costantinopoli. Accanto agli edifici della reggia e agli annessi servizi militari e amministrativi, sorgeva la Cappella, consacrata da papa Leone III nell’805 (è l’unica parte ancora intatta del complesso originale), collegata al palazzo da una galleria lunga duecento metri. Al suo interno è conservato il trono marmoreo di Carlo Magno, posto significativamente di fronte all’altare, a simboleggiare la concezione sacrale del potere dell’imperatore.

to di redigere le leggi e tutti i documenti del sovrano. La cappella raggruppava i sacerdoti e i chierici che dicevano messa alla presenza del re, e che lo aiutavano in tutto quello che riguardava il controllo delle chiese e in tante altre incombenze. Il palatium non era un edificio, ma l’insieme dei collaboratori personali del sovrano: i nobili a lui più vicini (e suoi vassalli), i responsabili delle finanze, della giustizia, della stalla regia, delle dispense e via dicendo. Ai nostri occhi di uomini moderni, in questa struttura mancava un elemento che siamo abituati a pensare come indispensabile per qualsiasi Stato: la capitale. Carlo Magno amava soggiornare ad Aquisgrana, e vi costruì alcuni importanti edifici. Ma non fu mai una capitale, dove risiedeva stabilmente e dalla quale governava lo Stato. Per gran parte della sua lunga vita, Carlo Magno viaggiò attraverso l’impero. Non dobbiamo sorprenderci. Per oltre mezzo millennio, dalla fine dell’impero romano fino al XII secolo, in Europa occidentale tutti i re e gli imperatori erano privi di una capitale (poche le eccezioni, fra cui il regno dei Longobardi in Italia, che aveva a Pavia la capitale). Questi sovrani erano itineranti, cioè si spostavano continuamente nel loro regno, assieme a tutti gli uffici e a tutto il loro seguito. Questa “sovranità itinerante” aveva diverse buone ragioni. Permetteva di consumare sul luogo i prodotti delle ingenti proprietà che la corona possedeva in ogni provincia, risparmiando sui trasporti. Era l’occasione per praticare in posti nuovi il principale passatempo di nobili e sovrani, cioè la caccia. Soprattutto, però, la presenza fisica del sovrano era il modo migliore per esercitare in una provincia il potere regio. Quando il re arrivava, ascoltava le lamentele dei sudditi, esaminava l’amministrazione dei conti, giudicava le cause irrisolte, puniva i violenti e i ribelli. Per governare con una simile efficacia, un sovrano lontano, chiuso nelle mura della sua remota capitale, avrebbe avuto bisogno di schiere di funzionari, di poliziotti e di amministratori. E

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno

287

 Monastero benedettino di San Giovanni Battista a Müstair 801 Müstair, Svizzera Carlo Magno promosse la costruzione di numerosi monasteri, conventi e abbazie che non solo sancissero la cristianizzazione e la definitiva conquista dei territori, ma svolgessero anche la funzione di centri di potere e di diffusione dell’ideologia imperiale. Il Monastero di Müstair, per esempio, fu costruito per volere dell’imperatore al fine di presidiare l’arco alpino e quelle zone che oggi stanno tra la Svizzera, il Tirolo e la Germania.



Abbazia benedettina di Echternach VIII sec. Echternach, Lussemburgo Questa abbazia, fondata da Pipino di Héristal all’inizio dell’VIII secolo, ottenne il titolo di “abbazia reale” da Pipino il Breve, requisito che garantiva ai suoi possedimenti l’immunità da ogni intromissione dei funzionari pubblici. Il centro conobbe grande splendore con il suo terzo abate, Beornrado, uno dei più validi collaboratori di Carlo Magno, grazie al quale nell’abbazia fu allestita un’ottima officina di copia degli antichi manoscritti (scriptorium).

all’epoca di Carlo Magno mancavano i denari per pagarli, le vie di comunicazione per restare in contatto frequente con loro, le scuole per insegnare a leggere e scrivere a così tanta gente! Se i Carolingi mancavano di una capitale e di un apparato burocratico, disponevano però della Chiesa: una vera e propria colonna portante dello Stato furono infatti i vescovi, gli abati, i chierici. Protettori e propagatori del cristianesimo, i Carolingi per governare l’impero si servivano ampiamente del clero. Per mantenere l’ordine pubblico, per diffondere le leggi imperiali, per amministrare la giustizia e anche per convocare l’esercito i sovrani facevano affidamento anche su vescovi e abati oltre che sui loro funzionari. Bisogna considerare che ancora mancava la distinzione, divenuta comune solo in epoche successive, fra Stato e Chiesa. Viceversa i sovrani intervenivano ampiamente sia in questioni religiose, sia nella nomina di vescovi e altri chierici importanti. In ogni provincia del vasto impero, così, proprio i vescovi, gli abati dei monasteri e i chierici delle chiese erano il personale amministrativo più colto e più pronto a rispondere agli ordini del sovrano.

1. Quali compiti svolgeva il conte in nome del re? 2. Che ruolo svolgeva il clero all’interno della struttura dello Stato?

8. Proprietari e contadini

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Centralità dell’economia rurale

Cosa sappiamo dell’economia in età carolingia? Un dato certo è che stava allora avvenendo un cambiamento di fondo. Proprio quando nasceva Carlo Magno, la popolazione e l’economia dell’Europa occidentale stavano uscendo da un movimento negativo, un movi-

288

Parte IX Verso una nuova Europa

mento di calo della popolazione e di semplificazione del tono della vita economica, che andava avanti da secoli, ed era stato causato dalla crisi dell’impero romano e dall’immigrazione delle popolazioni barbariche. La fine di questa fase negativa segnava l’inizio, ancora lentissimo, sia della crescita dell’economia – destinata a durare, salvo poche interruzioni, fino ai nostri giorni –, sia dell’aumento di popolazione, che si protrasse per sei secoli, fino alle grandi pestilenze del XIV secolo. Un secondo elemento sicuro era l’importanza dell’agricoltura. Fra tutte le attività economiche, la coltivazione della terra fu quella principale, che produceva la maggior parte del reddito e che faceva lavorare la stragrande maggioranza della popolazione. Nella massa enorme dei coltivatori, una minoranza erano piccoli e medi proprietari, che abitavano in casa propria, zappavano la propria terra e, se necessario, ricorrevano all’aiuto di contadini privi di terre in proprietà. I contadini senza terra erano di solito la maggioranza. Lavoravano soprattutto nelle grandi proprietà, appartenenti al sovrano, ai nobili, a monasteri, chiese e vescovi. Ogni grande patrimonio era articolato in aziende agrarie dette (i due termini hanno lo stesso significato) curtes (curtis al singolare) o villae (villa al singolare). I proprietari più ricchi arrivavano a possedere decine di curtes (usiamo d’ora in poi questo termine, che era quello più comune in Italia, mentre in Francia si usava più spesso quello di villa), quelli di minore importanza ne avevano solo una. L’abitudine di organizzare le grandi proprietà secondo il sistema della curtis si diffuse molto in età carolingia, e questo fece aumentare le entrate dei proprietari. L’organizzazione interna della curtis

Ogni azienda agraria, naturalmente, era diversa dalle altre. Poteva essere più o meno grande, su suoli fertili o poco produttivi, con molto o con poco bosco, e via dicendo. Tutte

 Calendario dei mesi 830 Miniatura dal ms. 387, f. 90v; Österreichische Nationalbibliothek, Vienna In questa miniatura di epoca carolingia sono raffigurate le attività svolte in campagna da contadini e nobili durante l’intero anno: i contadini seminano i campi, lavorano la terra, raccolgono i frutti e allevano gli animali, mentre i nobili signori si dedicano alle attività di svago, come la caccia.



La coltivazione della vite X sec. Miniatura dal Salterio di Stoccarda, ms. bib. Man. 23, f. 96v; Württembergische Landesbibliothek, Stoccarda Questa miniatura illustra due contadini intenti nella coltivazione della vigna mentre dall’alto la mano di Dio scende a benedire il loro lavoro; più in basso si raffigura la vanificazione della coltivazione a opera di un cinghiale, simbolo della selvatichezza distruttrice. La coltura della vigna ha un posto di rilevanza nell’iconografia medievale data l’importanza simbolica del vino nel cristianesimo.

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno

289

Vivere in un manso Grazie agli scavi archeologici, in alcuni casi possiamo farci un’idea di come vivevano i contadini di un manso. In un villaggio poco a nord di Parigi, gli archeologi hanno trovato i resti delle tre case contadine dove abitavano i massari di altrettanti mansi, che appartenevano a una curtis della ricca abbazia di Saint Denis. Le case erano abbastanza spaziose, lunghe una dozzina di metri e larghe la metà. In ognuna abitava una coppia di sposi con i loro figli, in media è stato calcolato quattro o cinque. La stalla per gli animali era dentro l’edificio, e comunicava direttamente con il locale dove vivevano gli uomini. Poco male, perché si poteva così utilizzare il calore degli animali. Per cucinare e scaldarsi vi era anche, al centro del pavimento in terra battuta, un focolare pavimentato in pietra per accendere il fuoco. Dunque la casa era calda, ma certamente fumosa, poiché per fare uscire il fumo non v’era un camino, ma solo un buco in mezzo al tetto. Per costruire questi edifici non erano stati utilizzati mattoni o pietre, ma solo legno, terra e paglia. Questa assenza di vera e propria muratura non ha nulla di sorprendente. A quei tempi, e in verità ancora per molti secoli, si costruivano ottime case, talvolta a più piani, utilizzando per la struttura portante travi di solido legno di quercia o faggio. Le pareti erano fatte intrecciando legni sottili e

Tetto di paglia

Stalla

290

Colmo in argilla

Piano per il fuoco

Parte IX Verso una nuova Europa

flessibili (per esempio il salice) per formare un graticciato, che veniva poi coperto con argilla e fango misti a paglia. La paglia, poi, era usata anche per il tetto. Fuori dalle case vi erano un forno scavato nel terreno, e zone per attività artigianali. A una prima casa era annessa una forgia per i metalli: oltre a coltivare campi, chi vi abitava sapeva fare semplici lavori da fabbro. Un’altra casa aveva all’esterno, sotto una tettoia, un telaio dove le donne tessevano la lana e soprattutto (dicono i resti ritrovati) il lino. Nelle tombe, l’altezza media dei sepolti è di 1,65 metri per gli uomini e 1,56 per le donne: meno di oggi, ma in fondo la stessa altezza media dei soldati italiani che, all’inizio del XX secolo, combattevano nella Prima guerra mondiale. L’attrezzatura di questi contadini era molto semplice. Per cucinare, si usava il forno per il pane oppure delle pentole di coccio poggiate sulle braci del focolare. Nessun recipiente era di metallo, troppo costoso. L’elevato costo del metallo faceva sì che anche gli attrezzi per coltivare fossero prevalentemente in legno. Il ferro era impiegato solo per la scure e per la falce, e non per attrezzi che noi siamo abituati a immaginare possibili solo in ferro. Per esempio anche la zappa era tutta in legno, come pure gli aratri.

Foro per il fumo

Giaciglio



Lo spaccato di un manso Disegno ricostruttivo di D. Spedaliere

Telaio

però presentavano una struttura simile, basata sulla divisione in due parti del territorio coltivabile: il dominico e il massaricio. Il dominico o pars dominica (cioè ‘la parte del signore’) veniva coltivata direttamente per il profitto del padrone. Un amministratore la faceva lavorare da una squadra di schiavi. Di solito era meno grande della restante parte della curtis, detta massaricio o pars massaricia, che era divisa tra famiglie di contadini dipendenti, chiamati “massari”. Ogni famiglia aveva in affitto una casa con la stalla, un orto, una vigna e qualche campo. La concessione di questi beni veniva di solito effettuata per periodi molto lunghi, e anzi in genere casa e terre passavano di padre in figlio. Il massaro concessionario poteva coltivare liberamente campi e orto, come meglio preferiva, con l’aiuto dei familiari. La casa e gli altri beni concessi venivano detti manso: di fatto erano una piccola azienda contadina quasi indipendente. Abbiamo detto quasi indipendente. In cambio della concessione del manso, ogni contadino doveva versare un canone di affitto, costituito da pochissimo denaro e da una quantità maggiore dei prodotti ricavati dai campi. Inoltre doveva andare a lavorare, gratis, nell’altra parte della curtis, cioè nel dominico. Per alcune settimane l’anno, di solito al tempo della mietitura, della vendemmia e in tutti i momenti in cui la coltivazione della terra richiedeva la presenza di molti lavoratori, schiere di massari lavoravano assieme agli schiavi del dominico, sotto la direzione degli amministratori, per produrre i raccolti destinati a finire direttamente nei magazzini del padrone. Queste giornate di lavoro gratuito e obbligatorio si chiamano corvées. Questo tipo di organizzazione, per quanto strana possa sembrare oggi, aveva in quei tempi una propria razionalità. Rispetto all’età antica, il numero degli schiavi si era ridotto. Le cause di questa riduzione erano tante: la contrarietà della Chiesa alla schiavitù dei cristiani, oppure le liberazioni compiute dai padroni per ricompensare gli schiavi migliori o per guadagnare la salvezza della propria anima, oppure le fughe degli schiavi o altre ragioni ancora. Coltivare la grande proprietà ricorrendo soltanto a schiavi, come si faceva nei latifondi dell’età antica, era ormai impossibile o molto antieconomico. Dunque era meglio dividere in mansi una parte della proprietà, perché in tal modo si ottenevano almeno due vantaggi: da un lato, senza alcuna fatica nei magazzini del padrone arrivavano i prodotti versati dai massari come canone; dall’altro lato, quando la coltivazione del dominico richiedeva tante braccia, si ricorreva, gratuitamente, alle corvées.

1. Quali elementi caratterizzavano l’economia in epoca carolingia? 2. Com’era organizzata internamente la curtis? Quali erano gli obblighi dei “massari”?

9. Commerci e monete

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Traffici a lunga distanza, mercati, autoconsumo

Anche in età carolingia, l’economia non era fatta soltanto di agricoltura. Certo, la coltivazione della terra era l’attività di gran lunga più importante, ma esistevano i commerci e le monete. Occupiamoci innanzitutto dei commerci, distinguendo quelli internazionali da quelli locali.

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno

291

La famiglia aristocratica in età carolingia Oltre che della famiglia di re e nobili, ci piacerebbe parlare di quella della gente comune. Ma per quest’epoca remota le notizie sono davvero poche. Per i contadini, che erano la parte di gran lunga maggiore della popolazione, le poche fonti attestano che la famiglia più diffusa era costituita, proprio come oggi, da una coppia di coniugi con i loro figli. Nei rari censimenti, la media dei figli per famiglia oscilla fra i 2,6 e i 4. Ma le incertezze sono tante. Per esempio, perché i figli maschi risultano molto più numerosi delle femmine? Forse chi redigeva i censimenti era meno interessato a registrare le bambine, oppure esse abbandonavano la famiglia molto presto, andando in spose giovanissime. Addirittura, alcuni storici hanno pensato che nelle famiglie troppo numerose le neonate venissero uccise. Siamo più informati, invece, sulla famiglia degli aristocratici. Contava un numero molto maggiore di figli e, come si è visto, vi erano talvolta più di una moglie o di una concubina. Inoltre spesso nella stessa dimora vivevano i genitori e i figli sposati e già adulti. Ma spostiamo l’attenzione sull’altro significato che ha, in italiano, il termine famiglia: quando cioè utilizziamo la parola per indicare, fra coloro che ci sono legati per via di sangue, quelli che noi sentiamo più vicini, a cui più ci rivolgiamo per aiuto, per affetto, per assistenza. Si tratta di quella che, con maggiore precisione terminologica, viene chiamata la parentela. E qui balza agli occhi una differenza fra il modo di concepire la parentela dei nobili dell’età di Carlo Magno, e il modo con il quale la parentela veniva invece concepita sia nell’antica Roma che più tardi, a partire dal 1000 fino a pochi decenni fa. Per le aristocrazie di Roma come per quelle dell’ultimo millennio, i parenti per eccellenza sono coloro che portano il medesimo cognome: coloro cioè che sono legati per via maschile. Ancora oggi nelle monarchie, come in Inghilterra, un nobile eredita il proprio titolo dal padre. I nobili vanno fieri della propria genealogia, e si inorgogliscono della lunga serie dei loro antenati. Ma nel periodo compreso fra la fine della civiltà romana e l’XI secolo, i nobili non pensavano in questo modo. Per loro, i parenti principali non erano per forza quelli legati per via maschile, e tutti discendenti da un antenato maschio comune. I nobili di quel tempo davano invece eguale importanza ai parenti per via femminile, sia a quelli della madre, che a quelli della moglie o, talora, anche di una sorella. Terre, appoggi politici, aiuti economici e militari circolavano non soltanto di maschio in maschio, ma anche attraverso le

292

Parte IX Verso una nuova Europa

donne. La concezione della parentela dava dunque pari importanza ai maschi come alle femmine. Più degli avi defunti, più della discendenza da uno stesso antenato, contavano i parenti vivi, di qualsiasi tipo. Per questa ragione, il gruppo dei parenti con i quali si avevano i rapporti più stretti cambiava del tutto a seconda dei casi. Potevano contare soprattutto i fratelli e figli, certo. Ma se per esempio un nobile sposava una donna appartenente a un casato importante, cessava di fare affidamento sui parenti per via maschile, e di fatto entrava a fare parte della parentela della moglie. Non di rado i suoi figli ricevevano i nomi comuni a quella famiglia e talora, se necessario, al loro nome proprio si aggiungeva il matronimico (si diceva cioè “Carlo figlio di Berta”, e non, usando il patronimico, “Carlo figlio di Pipino”). Quest’uso era tanto più naturale in quanto il cognome, che per noi identifica la famiglia, all’epoca non esisteva neppure: tutti avevano solo il nome di battesimo (quando parliamo della famiglia dei Merovingi o dei Carolingi, usiamo un nome inventato da noi per comodità, ma non si tratta di un cognome).



Una coppia di sposi regali XI sec. Miniatura dal manoscritto del De Universo di Rabano Mauro; abbazia di Montecassino

I commerci internazionali, cioè i traffici su lunghe distanze, erano molto minori che nel mondo antico. Proprio all’inizio dell’età carolingia percepiamo però alcuni elementi di ripresa. A venire sempre più spesso percorsa da navi cariche di merci e a riempirsi di un numero crescente di portimercato era soprattutto un’area nuova, che il mondo antico aveva trascurato: il Mare del Nord. Esso metteva in comunicazione l’Inghilterra meridionale, la costa nordorientale dell’impero carolingio, la Danimarca, e le economie delle regioni retrostanti. Gli scavi archeologici mostrano che i nuovi porti-mercato, detti emporia, crebbero rapidamente soprattutto alle foci dei principali fiumi. L’emporium più grande fu forse Dorestad, nell’attuale Olanda (ma può anche essere un’impressione sbagliata, dovuta al fatto che è stato quello scavato con maggiore ampiezza). Oltre che nei traffici a lunga distanza, la popolazione di questi emporia era impegnata in attività artigianali. Lo sviluppo di questi centri si interruppe nel corso del IX secolo. La crisi fu dovuta alle devastazioni causate dai Vichinghi, che studieremo nel prossimo capitolo, ma nasceva anche dal fatto che, sul Mare del Nord, gli interlocutori economici dei Franchi avevano ancora economie poco attive. Invece nelle regioni del Mediterraneo appartenenti all’impero carolingio le potenzialità per il commercio internazionale erano rese molto maggiori dalla presenza, sulle altre sponde del mare, di economie ben sviluppate, come quelle degli Arabi e dei Bizantini. A partire dall’inizio del IX secolo, soprattutto in Italia il numero dei porti internazionali si accrebbe, iniziando un processo di sviluppo dei traffici a lunga distanza destinato a durare per secoli e secoli. Il migliore esempio è Venezia, che proprio allora cominciava a manifestare la sua vocazione per il commercio internazionale. Tutti restiamo molto colpiti dai commerci internazionali, che riguardano merci esotiche e di valore. Tuttavia va detto che, per la vita economica, molto più importanti erano i commerci locali, dove venivano scambiati i prodotti di una piccola area. Gli scambi internazionali interessavano una quantità modesta di merci, di solito di grande valore, e dunque arricchivano solo pochi mercanti; agli scambi locali, invece, partecipava una gran massa di persone, che scambiavano una quantità di merci infinitamente superiore, pur se di valore minore. Non dobbiamo immaginare, peraltro, che le cose fossero come oggi, quando compriamo tutto quello che ci serve. Sia per i grandi proprietari che per i contadini, un grande spazio aveva l’autoconsumo, cioè l’abitudine di mangiare quello che era prodotto nei propri campi e di usare i tessuti, i vestiti e gli attrezzi fabbricati in casa. Per esempio, secondo gli archeologi gli abitanti di tre mansi rinvenuti nei pressi di un villaggio poco a nord di Parigi consumavano la grandissima parte dei prodotti agricoli che restavano loro dopo aver pa-

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno



Due diversi mezzi di trasporto XI sec. Miniatura dal De Universo di Rabano Mauro; abbazia di Montecassino Questa miniatura illustra due mezzi di trasporto diffusi in epoca carolingia: un carro nobiliare trainato da cavalli, e un carro rurale trainato da buoi, molto comune tra i contadini o tra i mercanti che trasportavano merce da vendere.

293

gato il canone ai padroni; inoltre usavano la lana e indossavano i panni tessuti nel telaio che avevano in casa [cfr. scheda, p. 290]. Però sia pure raramente, magari appena un paio di volte l’anno, andavano nel più vicino posto dove si teneva un mercato (un villaggio, oppure un incrocio di strade, o il porto lungo un fiume). Qui i “massari” vendevano qualche gallina o qualche prodotto eccedente il loro fabbisogno, o una stoffa tessuta dalle loro donne. E in questi mercati andavano anche gli amministratori delle curtes dei dintorni, per vendere i prodotti che restavano nei magazzini dopo aver provveduto al mantenimento del padrone, della sua famiglia e di tutto il gruppo dei suoi schiavi. In questi mercati, proprio in età carolingia si iniziava a percepire un’aria nuova. Le merci portate a vendere erano meno scarse di un tempo, e più persone si recavano a comprarle. I prodotti dell’artigianato divenivano meno rudimentali. Stava cominciando a crescere l’economia quotidiana, di base, cioè quella che coinvolgeva la gran massa della popolazione, e non solo pochi mercanti internazionali. Le leve della crescita



Denario in argento con l’effige di Carlo Magno VIII-IX sec. Fitzwilliam Museum, Cambridge

Questo cambiamento era determinato da tanti fattori. Contavano la pace interna garantita dallo Stato, la diffusione del sistema delle curtes, la lenta crescita della popolazione. L’elemento principale, comunque, era la crescita di numero e di ricchezza degli aristocratici: il che vuol dire che aumentavano il numero e le risorse dei consumatori più abbienti. I risultati della crescita economica, cioè, avvantaggiavano i più ricchi, e questo era uno stimolo positivo per l’economia. Per comprendere la ragione di quella che ci può apparire un’ingiustizia basta pensare che, se le nuove ricchezze fossero state distribuite in modo egualitario, sarebbero andate in piccolissime quote soprattutto ai contadini, che costituivano la stragrande maggioranza. Ora un contadino, sempre alle prese con la fame, avrebbe utilizzato i piccoli guadagni aggiuntivi per mangiare di più. Invece un nobile più ricco non mangiava di più (già si nutriva più che a sufficienza), ma utilizzava le nuove risorse per comprare merci nuove e di maggiore pregio. Così facendo, stimolava gli artigiani a produrre meglio e di più, e i mercanti a intensificare i loro traffici. Stimolava cioè la crescita economica. A tutto questo processo economico, i re e gli imperatori carolingi contribuirono molto, ma in modo indiretto. Garantirono la pace e fecero arricchire i nobili. Vi furono anche interventi diretti e espliciti di politica economica, come il tentativo di imporre un sistema di misure unitario, valido per tutto l’impero, e soprattutto l’introduzione di una nuova moneta, il denaro (denarius) di argento. Era una moneta di buona qualità, in grado di favorire i commerci. Da una libbra di argento (circa 400 grammi) venivano creati 240 denari, contenenti ognuno 1,7 grammi di argento. Dodici denari erano considerati pari al solidus, il soldo d’oro, la moneta principale dell’antico impero romano e, ora, dell’impero bizantino; perciò si prese l’abitudine di dire “un soldo” invece di dire “12 denari”. Poiché dalla libbra si coniavano 240 denari, si prese anche l’abitudine di dire “una libbra” (in italiano, “una lira”) per indicare una somma di 240 denari.

1. Che cos’era l’autoconsumo? Che parte della produzione vi era destinata? 2. In che modo la ricchezza dell’aristocrazia stimolava la crescita economica?

294

Parte IX Verso una nuova Europa

10. La rinascita carolingia

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E 

Pur se era in grado di leggere il latino, la sola lingua a venire messa per iscritto in quel tempo, Carlo Magno non sapeva scrivere: all’epoca, era un’abilità difficile riservata a pochi tecnici, come oggi saper programmare un computer. Sia Carlo che gli altri sovrani carolingi si preoccuparono molto però di stimolare la cultura. L’insieme dei loro provvedimenti portò a un miglioramento così marcato del livello culturale che è stato definito come un “rinascimento carolingio”. Il termine “rinascimento” o “rinascita” indica che una delle preoccupazioni maggiori dei sovrani carolingi fu quella di fare “rinascere” almeno in parte la cultura letteraria antica. Tuttavia lo scopo principale di questa politica non era astrattamente culturale, ma religioso: si trattava di garantire che i sacerdoti e i monaci fossero in grado di leggere e interpretare in modo corretto i testi sacri. I chierici ben preparati erano inoltre indispensabili per il funzionamento di tutta la burocrazia dello Stato.

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno

Una pagina della Historia Langobardorum IX sec. Museo Archeologico Nazionale, Cividale del Friuli, Udine La Historia Langobardorum, scritta in latino da Paolo Diacono, racconta in sei libri la storia del popolo longobardo dalle origini al suo apice, raggiunto nel 747 con la morte del re Liutprando. L’opera fu redatta da Paolo Diacono nell’abbazia di Montecassino nei due anni successivi al ritorno dalla corte di Carlo Magno, dove era stato chiamato in quanto esperto di grammatica.

295



Quando Pipino il Breve ottenne il titolo di re, nel 751, la situazione era catastrofica. L’educazione era quasi scomparsa, e la vita culturale ridotta pressoché a niente. Il latino che veniva scritto nel regno franco era così zeppo di errori grammaticali e ortografici da risultare quasi incomprensibile. Occorreva rilanciare la cultura e, soprattutto, il sistema educativo con lo scopo di garantire il funzionamento della Chiesa e, più in generale, la corretta celebrazione della messa e degli altri uffici sacri. L’iniziativa culturale di Pipino venne proseguita e molto ampliata dal figlio Carlo Magno. Prima ancora di diventare imperatore, Carlo chiamò presso la sua corte i maggiori intellettuali del tempo. Dall’Italia venne per esempio Paolo Diacono, che ha scritto una famosa Storia dei Longobardi. L’intellettuale di maggiore spicco fu il chierico inglese Alcuino di York, che fra le tante cose si preoccupò di organizzare una scuola di corte (Schola palatina), e di provvedere alla creazione o alla riforma delle scuole presenti presso le cattedrali di molte città. Carlo Magno aveva del resto i mezzi per ricompensare questi intellettuali: ad Alcuino furono assegnate cinque abbazie, e si diceva che avesse possedimenti così immensi da permettergli di viaggiare attraverso tutto l’impero facendo sempre tappa nelle sue proprietà. Il successo di questi sforzi è indubbio. Il livello culturale e morale del clero migliorò molto, e con esso la capacità di guidare il popolo cristiano. L’uso della scrittura e della lettura si diffuse. Vennero copiati in nuovi manoscritti non soltanto i testi sacri, ma anche le opere di molti letterati dell’Antichità. Fu persino elaborata una nuova scrittura, che è poi il modo di

Una pagina dalla Bibbia di Alcuino IX sec. British Museum, Londra La cosiddetta “Bibbia di Alcuino” è una delle prime trascrizioni della Bibbia a opera della Schola palatina di Carlo Magno.

 Pagina da un codice miniato in minuscola carolina IX sec. Dal Salmo 91 dell’Antico Testamento

296

Parte IX Verso una nuova Europa

tracciare le lettere che ancora oggi usiamo per la stampa. Quando Carlo Magno salì al trono, si usavano molte scritture diverse e complicate da leggere, perché piene di ghirigori e svolazzi. Alla morte dell’imperatore, invece, in tutto l’impero ormai veniva utilizzata una scrittura fatta di lettere uniformi, bene allineate e molto più leggibili: la cosiddetta minuscola carolina.

1. Qual era lo scopo della politica culturale carolingia? 2. Che cosa era la “minuscola carolina”?

11. Fu un governo efficiente?

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Tanti elementi attestano l’importanza del periodo che va dall’incoronazione di Pipino il Breve nel 751 fino alla frammentazione definitiva dell’impero nell’887-888. Per esempio l’eredità carolingia continuò a essere evidente, nei secoli successivi, nei modi con cui si amministrava la giustizia, nella diffusione di conti e contee, nelle forme con cui si scrivevano leggi e documenti, nella cultura, nel tipo di moneta usata, nei termini utilizzati per descrivere incarichi di governo e in tanti campi ancora. Dai Carolingi proveniva l’idea stessa che in Europa occidentale vi dovesse essere un’autorità suprema, esercitata da un imperatore e collegata strettamente al papato romano. L’importanza dell’età carolingia nella storia europea è dunque fortissima. Tuttavia dobbiamo anche notare i limiti dello Stato creato dai sovrani carolingi. Forse essi furono troppo ambiziosi, cercando di imporre regole e strutture di governo che non erano adatte a quei tempi, e che infatti entrarono in crisi nel giro di breve tempo. La contraddizione principale, comunque, già l’abbiamo più volte ricordata: lo stimolo fornito alla aristocrazia dalla politica di Carlo Magno e degli altri sovrani. Per effettuare le conquiste e per governare i vasti territori, i Carolingi fecero affidamento su tantissime famiglie nobili e su monasteri e vescovati, che erano sotto il controllo di abati e vescovi nati in quelle stesse famiglie. Favorire l’ascesa di una nuova famiglia potente, dare a essa immensi beni e importanti cariche, insediare alcuni suoi membri alla guida di vescovati e di monasteri: tutto questo aiutava l’imperatore a fare rispettare le proprie leggi e la propria volontà in ogni angolo dell’immenso impero. Allo stesso tempo, però, era pericoloso. Quegli stessi personaggi, così cresciuti in ricchezze e potere, potevano a un certo punto cessare di ubbidire agli ordini del sovrano, e rendersi autonomi. E proprio questo accadde appena il potere centrale fu messo in difficoltà dalle contese interne alla famiglia carolingia e dagli attacchi che iniziarono a provenire dall’esterno dei confini della Cristianità. Si apriva un’altra epoca.

1. Quale fu il grande limite dello Stato strutturato da Carlo Magno?

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno

297

Altri

Asia, Africa e America fra VIII e X secolo

sorti misero insieme un esercito male armato, ma forte di tre o quattrocentomila uomini!

In Asia

In Africa

Nel periodo trattato in questo capitolo, anche l’India fu direttamente coinvolta nello stesso fenomeno – l’espansione islamica – che già aveva interessato l’impero bizantino, la penisola iberica e la Francia meridionale. All’inizio dell’VIII secolo gli Arabi, dopo essersi impadroniti della Persia, terminarono la conquista dell’Afghanistan, penetrando poi nell’attuale Pakistan. Erano desiderosi di invadere anche l’India, che era una regione popolosa, ricca, con vasti commerci internazionali e con materie prime da favola (proprio in India si trovava la sola miniera di diamanti conosciuta in quel tempo). Sembrava del resto una preda facile, poiché il re Harsha, che aveva costruito un impero esteso su tutta l’India settentrionale e sul Nepal, era morto nel 647 e da allora l’India si era divisa in molti regni, spesso in lotta fra loro o minati da guerre di successione fra i sovrani. Tuttavia la conquista islamica, limitata alle regioni settentrionali e occidentali dell’immensa penisola indiana, fu lentissima, richiese svariate guerre e venne realizzata nell’arco di oltre tre secoli. I conquistatori cercarono di diffondere l’islamismo, ma la conversione fu accettata da una parte soltanto della popolazione. L’induismo e il buddismo restarono le religioni più diffuse, a fianco di altri culti, come per esempio quello degli zoroastriani (seguaci della religione di Zarathustra, il filosofo vissuto in Persia orientale nell’VIII secolo a.C., o forse ancora prima). In India meridionale, poi, in quest’epoca l’influenza islamica fu del tut-

Parte IX Verso una nuova Europa

to assente. Esistevano qui regni grandi e molto prosperi, guidati da famose dinastie come quelle dei Pallava prima, e dei Chola dopo. Come in Europa occidentale, ma a un livello molto maggiore, anche in Cina l’epoca studiata in questo capitolo vide la riunificazione sotto un vasto Stato delle regioni che si erano frammentate in regni indipendenti in seguito alle invasioni del V secolo. Rispetto a quello di Carlo Magno, l’impero costituito dalla dinastia Tang (618-907) fu tuttavia incomparabilmente più grande, più popoloso e più avanzato dal punto di vista dell’economia, della capacità di governo, delle conoscenze tecniche e sotto molti altri aspetti. La struttura statale si avvaleva di una folta schiera di funzionari reclutati non in base ai legami della famiglia con l’imperatore, ma secondo il loro successo negli studi. Questi funzionari erano detti mandarini, e ottenevano la carica solo dopo avere superato un difficile esame. La struttura dello Stato era complessa. A fianco dei mandarini, vi erano i governatori militari delle diverse province e i funzionari di ogni tipo, civili e militari. Il peso di tutti questi apparati statali gravava sulla popolazione contadina, che era di conseguenza obbligata a pagare imposte elevate. Proprio il malcontento dei contadini fu la causa di periodiche rivolte, che finirono per indebolire il potere imperiale. Durante la sollevazione più grande, avvenuta nella provincia dello Shantung nell’874-880 e comandata dal mercante di sale Huang Chao, gli in-

Anche in Africa la storia di questi secoli fu molto condizionata dall’espansione della religione islamica. Tuttavia tranne che nell’Africa settentrionale, conquistata dagli eserciti arabi, l’Islam si diffuse in modo pacifico. La Somalia fu la prima regione a convertirsi alla nuova religione, secondo alcuni già alla fine del VII secolo, in seguito ai continui contatti che marinai e mercanti avevano con la vicina penisola arabica. I territori degli attuali Etiopia e Sudan restarono invece cristiani; anzi i regni che in Nubia (oggi Sudan) avevano preso il posto dello scomparso regno di Kush sconfissero nel 652 gli arabo-musulmani che dall’Egitto tentavano di proseguire la conquista verso meridione. Più a sud, sulle coste dell’Oceano Indiano fra gli attuali Kenya, Tanzania e Mozambico l’influsso sulle locali popolazioni bantù di mercanti e immigrati musulmani fu tale da determinare la nascita di popolazioni che si consideravano nuove, diverse dai Bantù, e presero il nome di Swahili. Nell’Africa occidentale subsahariana, infine, i secoli VIII e IX videro il massimo sviluppo del cosiddetto impero del Ghana, situato negli attuali Mauritania e Mali, che controllava i commerci di oro e altre merci preziose che dal cuore dell’Africa attraversavano il Sahara.

Nelle Americhe Nel continente americano stava nel frattempo proseguendo la civiltà Maya, che era articolata come sappiamo in una serie di città-stato. Pro-

zione delle piogge verificatasi a partire dall’800 circa. Il tutto sarebbe stato poi aggravato dalla rivolta dei contadini, testimoniata dalle tracce di saccheggi e distruzioni presenti in alcuni templi. Ma in realtà le ragioni della scomparsa della civiltà maya restano ancora incerte. Per spiegarla, si è giunti a chiamare in causa anche le credenze religiose: i Maya avrebbero pensato di essere giunti alla fine del mondo, e, presi dal terrore, sarebbero fuggiti, dando vita a una disordinata emigrazione di massa.



Le Guardie d’onore di un principe Tang VII-X sec. Questa pittura murale, ritrovata all’interno della camera sepolcrale di Li Xian, un principe della dinastia Tang, raffigura le Guardie d’onore, ovvero le guardie personali addette alla difesa del sovrano. Raffigurate armate e con eleganti divise da palazzo, le guardie vegliano sulla “nuova dimora” del principe con la loro fedele e minacciosa presenza.

Impero bizantino Impero Tang

va

lla Pa Chola

Espansione islamica

nte

Diffusione della civiltà maya

sw

ahi

li

Impero del Ghana

Ge

prio per questo periodo, però, gli scavi archeologici hanno rivelato la comparsa di gravissime difficoltà. Alcune città situate nella parte meridionale del territorio dei Maya, soprattutto nella penisola messicana dello Yucatan, iniziarono a declinare rapidamente, e spesso vennero abbandonate da tutti gli abitanti. Storici e archeologici discutono molto intorno alle cause di questa decadenza. Vi è chi ha pensato all’invasione di nuovi popoli provenienti dal Sud, chi a devastanti epidemie. Le spiegazioni ritenute oggi più probabili sono però diverse. Si pensa che l’intero sistema sia collassato in seguito a un eccessivo sfruttamento della terra, lavorata con metodi di coltivazione primitivi che non prevedevano né periodi di riposo per il suolo, né la rotazione delle colture. Con ancora maggiore probabilità, un duro colpo venne dalla forte diminu-

Territori cristiani Diffusione delle lingue bantù

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno

299

SINTESI 1. L’ascesa dei Carolingi e il papato Nell’VIII secolo iniziò un processo di espansione dell’Occidente cristiano. Per avviare questo processo fu decisivo lo sviluppo del regno dei Franchi e la nascita dello Stato carolingio. Nel VII secolo il regno era stato unificato grazie a Pipino di Héristal, maggiordomo (e cioè ministro del re), ma di fatto detentore del potere reale. Questo potere fu trasmesso al figlio Carlo Martello, prima, e al nipote Pipino il Breve, poi. Pipino fece il passo successivo, incoronandosi re dei Franchi e dando vita alla dinastia dei Carolingi. La Chiesa di Roma, distante da Bisanzio e pressata dai Longobardi, influì molto sull’ascesa dei Carolingi, dando loro legittimazione e sostegno ideologico in cambio di protezione. Pipino fu consacrato re da papa Stefano nel 754.

2. La conquista di un impero e il ruolo del vassallaggio A Pipino il Breve successe il figlio Carlo Magno, che regnò dal 768 all’814 e portò il regno franco alla sua massima espansione. Furono sottratte la Catalogna agli Arabi e l’Italia centro-settentrionale ai Longobardi, mentre a Nord-est venivano sottomessi i Sassoni, i Bavari e gli Àvari. Nell’800 Carlo fu incoronato imperatore da papa Leone III. L’espansione del regno dipese da molteplici fattori, il più importante dei quali fu certamente la potenza della nobiltà franca, che Carlo Magno riuscì a legare a sé grazie ai rapporti di vassallaggio e di feudo. Questi erano un modo per rafforzare i rapporti di clientela che legavano il re e i nobili franchi tra loro e con i più potenti fra gli uomini liberi. Il vassallaggio era il risultato di un giuramento pubblico e solenne e comportava obblighi reciproci fra le due parti. Il signore ricompensava il vassallo con elargizioni temporanee di terra e contadini, il feudo.

3. L’eredità di Carlo Magno Alla morte di Carlo Magno furono evidenti i problemi connessi alle regole di successione della monarchia franca. Il successore, Ludovico il Pio, tentò di trasmettere l’impero al figlio maggiore, ma i figli minori si ribellarono. Iniziò un periodo di guerre civili in cui la potenza delle famiglie aristocratiche ebbe un peso enorme. Nell’843 i fratelli si misero d’accordo e con il trattato di Verdun l’impero fu diviso fra i tre figli di Ludovico. L’idea di impero restava, ma era intesa solo come coordinamento fra regni indipendenti e i conflitti tra le varie parti continuarono per decenni. Nell’881 Carlo il Grosso riuscì brevemente a riunificare l’impero, ma dopo la sua morte (887) l’impero venne frammentato in modo definitivo.

4. Spiegare la potenza dei Franchi: strategia e politica Per ottenere i suoi grandi successi Carlo Magno seppe combinare abilmente strategia militare e contatti politici. Questo fu evidente nella conquista del regno dei Longobardi nel volgere di un solo anno. Le operazioni belliche furono condotte con un uso sapiente della strategia, ma è accertato che la resistenza fu minima. C’è quindi da supporre che ci furono abili trattative politiche per sottomettere pacificamente l’aristocrazia longobarda, che mantenne i propri beni e il proprio ruolo.

5. Spiegare la potenza dei Franchi: la macchina militare Non è da dimenticare, comunque, la superiorità militare dei Franchi. Al tempo di Carlo Magno il reclutamento dell’esercito era cambiato, il numero dei soldati diminuito, ma era migliorata la qualità dell’armamento e dell’addestramento. Grazie alla maggiore ricchezza dell’aristocrazia franca, erano aumentate le unità di cavalleria, e l’intero corpo dei cavalieri si divideva in cavalleria leggera e cavalleria corazzata.

6. Spiegare la potenza dei Franchi: la ricchezza L’esercito carolingio, a differenza di molti eserciti che lo avevano preceduto, non era armato e approvvigionato dallo Stato, ma dagli stessi combattenti. La potenza militare dell’esercito risiedeva, dunque, nel fatto che era composto in gran parte dai membri della ricchissima aristocrazia franca che forniva ai propri vassalli gli armamenti migliori.

7. L’organizzazione dell’impero carolingio Al centro dell’impero vi era la corte del sovrano con i suoi uffici, i più importanti dei quali erano la cancelleria, la cappella e il palatium. La corte imperiale era itinerante e non esisteva una vera e propria capitale. Il territorio era diviso in un gran numero di province che si chiamavano contee ed erano governate dai conti. Questi svolgevano nella propria contea tutti i compiti dello Stato. Nelle zone di frontiera le contee vennero raggruppate in marche, rette da un marchese. A controllare l’operato di conti e marchesi erano inviati periodicamente i missi dominici. La Chiesa rappresentò una colonna portante dello Stato carolingio. I vescovi e il clero affiancavano i funzionari imperiali nell’amministrazione dei territori.

8. Proprietari e contadini In epoca carolingia la popolazione e l’economia cominciarono a mostrare una certa ripresa. L’agricoltura era ancora la principale attività produttiva. La grande maggioranza dei contadini era senza terra e lavorava nelle numerose aziende in cui erano ripartiti i

300

Parte IX Verso una nuova Europa

patrimoni agrari. Queste aziende erano chiamate curtes e il loro territorio coltivabile era diviso in due parti. La parte più piccola era il dominico, ed era coltivata direttamente per il profitto del padrone. La parte più grande era rappresentata dal massaricio ed era divisa tra famiglie di contadini dipendenti, i massari. Questi dovevano pagare un canone d’affitto al padrone ed erano obbligati a prestare giornate di lavoro gratuito nel dominico, le cosiddette corvées.

9. Commerci e monete I commerci internazionali ricominciarono, in questo periodo, a svilupparsi. Un numero crescente di porti-mercato apparve nell’area del Mare del Nord, anche se i commerci più vivaci continuavano nel Mediterraneo. La parte più importante era svolta dai commerci locali, sebbene gran parte della produzione fosse comunque destinata all’autoconsumo. A fare leva sulla crescita furono certamente la ricca aristocrazia, che stimolava i commerci e la produzione artigianale, e gli interventi dello Stato, che introdussero un sistema di misure unitario e una nuova moneta, il denaro d’argento.

10. La rinascita carolingia I sovrani carolingi si preoccuparono molto di stimolare la cultura. Questa politica culturale ha fatto parlare di “rinascimento” o “rinascita” carolingia, anche se lo scopo principale di questa politica era religioso. Si voleva garantire la preparazione culturale del clero, indispensabile per il funzionamento della burocrazia dello Stato. Il livello culturale e morale del clero migliorò. L’uso della scrittura e della lettura si diffuse. Vennero ricopiati i testi sacri e le opere di molti letterati dell’Antichità. Fu anche elaborata una nuova scrittura fatta di lettere uniformi, bene allineate e molto più leggibili, la cosiddetta “minuscola carolina”.

11. Fu un governo efficiente? L’influenza che il periodo carolingio esercitò sulla storia europea è stata enorme. L’eredità di questo periodo è chiara negli assetti territoriali, nell’amministrazione, nella giustizia e nella cultura dei secoli seguenti. Tuttavia, il grande peso attribuito da Carlo Magno alle famiglie aristocratiche, che aumentarono il proprio potere, si rivelò un limite notevole, e portò alla fine dell’unità imperiale e alla frammentazione politica.

ESERCIZI Gli eventi 1. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette: ❏ a) Il papato, intimorito dalle ambizioni della dinastia carolingia, cercò la protezione dei sovrani longobardi. ❏ b) Il signore elargiva appezzamenti di terra ai propri vassalli per stabilire con loro un legame solido e protratto nel tempo. ❏ c) Con l’emanazione dell’Ordinatio imperii l’imperatore Ludovico il Pio scongiurò definitivamente la frammentazione dell’impero. ❏ d) L’aristocrazia longobarda non oppose una grande resistenza all’invasione franca e ottenne di mantenere gran parte dei propri privilegi. ❏ e) L’esercito carolingio era composto principalmente da piccoli proprietari terrieri armati e approvvigionati dallo Stato. ❏ f) Le province poste ai confini dell’impero carolingio erano raggruppate in grandi contee governate da un conte nominato dal re. ❏ g) I rappresentanti del clero aiutavano i funzionari imperiali a mantenere l’ordine pubblico e ad amministrare la giustizia. ❏ h) La rinascita economica che caratterizzò l’epoca carolingia mise in primo piano la produzione artigianale a scapito di quella agricola. ❏ i) Lo Stato carolingio introdusse una nuova moneta, il denaro d’argento, e cercò di imporre un sistema di misure unitario. ❏ j) All’epoca di Carlo Magno fu introdotta la “minuscola carolina”, un nuovo tipo di scrittura dalla quale derivano le lettere oggi usate per la stampa.

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno

301

Le coordinate spazio-temporali 2. Per descrivere gli eventi più importanti che caratterizzarono il regno dei Franchi e la dinastia carolingia, completa il seguente schema introducendo le informazioni mancanti:

Maggiordomo del re franco

.....................................

Nel .................. riuscì a unificare il regno dei Franchi.

...................................

CARLO MARTELLO

Nel 732 ............................................................................... ..............................................

Maggiordomo del re. Nel 751 ............ ............................

.....................................

Nel ............ fu consacrato re con un unguento sacro da papa Stefano.

768-............

CARLO MAGNO

Regnò per tre anni con il fratello ................................ . Conquistò il regno dei ............................ . Sottrasse la ...................................... agli Arabi. Sottomise i Sassoni, i ........................ e gli Avari. Nell’.............. fu incoronato imperatore del papa.

817-............

........................................

Emanò l’............................................. , che proclamava come unico successore il primogenito ..................... . Ma i fratelli minori si ribellarono.

CARLO IL CALVO

..............................

LOTARIO

Mantenne il ................................ .................................... e ottenne una fascia di terra che andava dall’Olanda alla ......................... Ottonere la parte ....................... .................................. dell’impero (............................... e Catalogna)

302

Parte IX Verso una nuova Europa

Ottonere la parte orientale dell’impero (............................... )

I tre fratelli scatenarono una guerra civile. Nell’.............. sottoscrissero il ........................ ......................... , che pose fine per un certo periodo alle ostilità.

3. Sulla carta muta indica l’estensione del regno franco, i territori conquistati da Carlo Magno e la divisione dell’impero dopo il trattato di Verdun; quindi rispondi alle seguenti domande:

MARE DEL NORD

a) In che modo Carlo Magno riuscì a conquistare il regno dei Longobardi? b) Quali fattori portarono alla frammentazione dell’impero carolingio? c) Vi era una capitale fissa nei regni europei? Perché?

MAR

ME

DIT

ER

RA

NE

I concetti 4. Definisci sinteticamente i seguenti termini e rispondi alle domande: Termine

Definizione

Vassallaggio: Feudo: Contea: Marca: Vassi dominici: Missi dominici: Cancelleria: Cappella: a) Come funzionava il vassallaggio? b) Per quale motivo le elargizioni di terra erano più preziose di quelle di denaro? c) Che durata aveva la concessione dei feudi? Perché? d) Che relazione lega il vassallaggio alla ripartizione territoriale dell’impero?

Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno

303

O

L’elaborazione scritta 5. Usando i termini elencati di seguito descrivi in un breve testo scritto (max 20 righe) il funzionamento del sistema delle curtes: a) Curtes/Villae; b) Dominico; c) Massaricio; d) Massari; e) Manso; f) Corvées.

L’esposizione orale 6. Rispondi alle seguenti domande: 1) Quali fattori determinarono il successo dell’espansione carolingia? 2) Come si presentava il quadro economico dell’impero? Quali fattori contribuirono alla crescita economica? 3) Per quali motivi si diffuse il sistema curtense? 4) Per quale motivo i sovrani carolingi favorirono la rinascita culturale? 5) Che rapporti legavano il papato e il clero alla dinastia carolingia? 6) Come si svilupparono le relazioni tra sovrano e aristocrazia durante il periodo carolingio? Quale limite rappresentarono questi rapporti per la storia e lo sviluppo dell’impero?

304

Parte IX Verso una nuova Europa

Capitolo 21

L’età dei signori 1. Divisioni all’interno e incursioni dall’esterno

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Dalle ceneri dell’impero carolingio ai regni indipendenti

Il principale argomento di questo capitolo è la nascita di un mondo nuovo, molto diverso da quello di Carlo Magno dal punto di vista politico, sociale ed economico. Le maggiori trasformazioni dipesero da un lento processo di frammentazione: l’impero carolingio si divise in regni, e questi a loro volta si divisero in innumerevoli nuclei di potere autonomi o semiautonomi che gli storici, riprendendo una parola già usata dai contemporanei, chiamano “signorie”. Il lungo processo che portò alla nascita delle signorie iniziò alla metà del IX secolo, quando l’impero carolingio venne colpito da una grave crisi. Questa crisi ebbe diversi aspetti, che come sempre succede si sommarono fra loro. All’inizio, come sappiamo, a dare problemi fuRegni postcarolingi rono le successioni al trono, complicate dal fatto che secondo le usanze dei Franchi tutti i figli maschi avevano diritto a ereditare una parte del patrimonio del padre: dunque i figli di un imperatore rifiutavano l’idea che l’intero impero andasse solo al fratello maggiore. Questi contrasti di successione causarono guerre REGNO fra i diversi esponenti della dinastia dei CaroDEI FRANCHI ORIENTALI lingi, e alla fine portarono alla creazione di regni indipendenti [cfr. cap. 20.3]. I principali furono i regni dei Franchi occidentali (l’attuaREGNO DEI FRANCHI le Francia centro-settentrionale), dei Franchi OCCIDENTALI REGNO orientali (l’odierna Germania), d’Italia (dalle DI BORGOGNA Alpi fino al Lazio), di Borgogna (nella Francia centro-orientale) e di Provenza (nella Francia REGNO meridionale). Dopo la morte di Carlo il GrosDI so, nell’888, nessuno tentò più di riunificare PROVENZA l’impero costruito da Carlo Magno. Alla divisione e alle lotte fra i vari regni si sommarono presto anche altri contrasti interni, che scoppiavano violenti quando la corona di uno di questi regni era contesa fra più aspiranti.

Capitolo 21 L’età dei signori

REGNO D’ITALIA

305

Oltre a seminare distruzioni e morte, le lotte interne minarono la capacità di difesa del mondo carolingio. Nessuno fu in grado di bloccare una serie di attacchi e di minacce di invasione provenienti da tre direzioni: dalle coste meridionali del Mediterraneo, da oriente e da settentrione. L’Occidente cristiano sotto attacco

Da sud venivano gli assalti dei Saraceni. Il nome Saraceni, nato nell’Antichità per indicare gli Arabi del deserto, adesso designava tutte le popolazioni musulmane che vivevano sulle coste meridionali e le isole del Mediterraneo [cfr. cap. 18.1]. Le incursioni saracene avvenivano soprattutto via mare: i combattenti sbarcavano all’improvviso, si dirigevano con rapidità verso l’interno, colpivano e saccheggiavano i loro obiettivi e poi si davano alla fuga. Così avvenne nell’846 con la basilica di San Pietro in Vaticano, spogliata di ogni tesoro da un contingente di Saraceni sbarcato a Ostia. Approfittando della debolezza militare degli Stati nati dalla disgregazione dell’impero carolingio, i Saraceni svilupparono anche nuove tecniche di aggressione: anziché ripartire, crearono delle basi fortificate all’interno del territorio cristiano, dalle quali muovevano per compiere nuove razzie e richiedere pagamenti di riscatti. La base saracena più forte fu quella di Frassineto, situata in Provenza, che i Saraceni conservarono per oltre ottant’anni, dall’890 al 972-973. Le scorrerie causarono distruzioni e perdite immense. Negli ultimi decenni del IX secolo uno dopo l’altro i principali monasteri dell’Italia centrale vennero presi, saccheggiati e Gli attacchi del IX-X secolo

ISLANDA

FAERÖER Lechfeld 955

AN

Lincoln Londra

Novgorod

es ed

Danesi

MARE DEL NORD

Sv

SC

BRITANNIA

IRLANDA Dublino

DI

No

rv

NA VI

eg

A

es

i

SHETLAND

i

OCEANO ATLANTICO

Confini del mondo cristiano all’inizio delle invasioni Attacchi saraceni Direzioni della grande invasione ungara del 937 Spedizioni normanne Battaglie

Colonia

RUSSIA DI KIEV

IA

D AN

M OR

Treviri

Kiev

Parigi

N

FRANCIA

Lechfeld 955 Ungari Pisa

Roma

RI LEA

BA

Saraceni

306

MAR NERO

Frassineto

EMIRATO DI CORDOVA Cordova

Parte IX Verso una nuova Europa

Bari Taranto

IMP BIZA ERO NTIN O

MAR MEDITERRANEO

 Attacco saraceno XI sec. Dalla Cronaca di Giovanni Scilitze; Biblioteca Nazionale di Madrid In questa miniatura è raffigurato uno degli avvenimenti più importanti della conquista araba della Sicilia: l’occupazione di Siracusa da parte dei Saraceni, che nell’878 dopo un lungo assedio fecero breccia nelle mura della città e se ne impossessarono.



distrutti, e lo stesso accadde a molti altri monasteri del Nord italiano e dell’attuale Svizzera. Nelle zone vicine alle basi saracene e in quelle più di frequente razziate i villaggi vennero abbandonati e le campagne restarono incolte. Molte città si salvarono solo rassegnandosi a pagare pesanti tributi. La potenza dei Saraceni era aumentata anche dal fatto che venivano reclutati come mercenari dai cristiani. Per esempio nel 941 i Saraceni di Frassineto occuparono i passi delle Alpi occidentali su ordine del re d’Italia Ugo; in questo modo il re riuscì a prevalere contro un contendente al trono, ma i Saraceni restarono poi per anni a taglieggiare i viaggiatori. Nella seconda metà del X secolo cessò la fase più intensa delle incursioni saracene, ma il pericolo di qualche loro scorreria rimase in realtà presente lungo le coste italiane e francesi molto a lungo, per tutto il Medioevo e l’età moderna. La minaccia che proveniva da Oriente erano gli Ungari. Questa popolazione nomade di cavalieri, formatasi nelle pianure della Russia orientale, dopo una lunga migrazione nell’894-897 si stabilì nei territori che in età romana formavano la provincia della Pannonia, e che da allora presero il nome di Ungheria. Da qui l’esercito ogni anno, con l’arrivo della buona stagione, partiva in lunghe spedizioni di saccheggio, anche in questo caso rese più gravi dal fatto che spesso gli assalitori venivano reclutati come mercenari nei conflitti interni alla Cristianità. Le incursioni cessarono solo dopo la metà del X secolo grazie alle prime conversioni degli Ungari al cri-

Capitolo 21 L’età dei signori

Cavaliere dell’Est europeo IX sec. Tesoro di Nagy Szent; Kunsthistorisches Museum, Vienna Questa immagine, tratta dalla decorazione di brocca in oro, raffigura un ungaro o bulgaro di ritorno da una razzia. Il bottino è rappresentato da un prigioniero, da destinare probabilmente al redditizio e fiorente mercato degli schiavi.

307



Pietra di Smiss IX sec. Historiska Museet, Stoccolma, Svezia Su questa stele funeraria, trovata a Smiss nell’isola baltica di Gotland, sono raffigurati il combattimento tra due fanti e, in basso, una nave vichinga carica di guerrieri.

stianesimo, al rafforzarsi del potere del re di Germania Ottone I e, soprattutto, alla schiacciante vittoria che egli ottenne a Lechfeld, nel 955 (sulla figura di Ottone I torneremo nelle pagine successive, al par. 4). Per oltre mezzo secolo la Germania e gran parte dell’Italia e della Francia furono più volte percorse e saccheggiate dagli Ungari. Le incursioni ungare, che avevano un raggio di azione ancora maggiore di quelle saracene, accrebbero il sentimento di insicurezza della popolazione dello scomparso impero carolingio. Rispetto a quelle dei Saraceni, le loro conseguenze furono però diverse. Gli Ungari infatti non crearono delle basi stabili nel territorio da saccheggiare, e quindi potevano passare anni fra un’incursione e l’altra; inoltre la loro tecnica di combattimento, basata sulla cavalleria e l’arco, era poco efficace contro le fortificazioni di città e castelli. Così, mentre i Saraceni provocarono l’abbandono di villaggi e campagne, gli Ungari stimolarono la creazione di migliori difese. Rimane da parlare degli attacchi che provenivano da nord. I protagonisti, in questo caso, erano i popoli stanziati in Danimarca e nella penisola scandinava e che sono noti con due nomi famosi: Normanni, cioè ‘uomini del Nord’, e Vichinghi, che in antico scandinavo significa ‘spedizione’. Sulle loro barche agili e robuste, che potevano sia risalire i grandi fiumi che affrontare l’oceano, questi avventurieri raggiunsero mete molto lontane, alla ricerca di terre da colonizzare, popolazioni da taglieggiare e beni da razziare oppure, se non si potevano ottenere con la forza, da acquistare. I battelli vichinghi si diressero verso aree disabitate e remote, come l’Islanda e la Groenlandia, verso i fiumi della Russia fino al Mar Nero, e verso occidente. I saccheggi colpirono Inghilterra, Irlanda, Germania, Francia, e qualche volta anche regioni del Mediterraneo come la Catalogna, la Provenza e la Toscana. Per un certo periodo, i Normanni riuscirono a conquistare l’Inghilterra nordorientale, e poi si insediarono stabilmente in una regione situata sulle coste francesi della Manica, che da loro ha preso il nome di Normandia. Questa regione era destinata ad avere grande importanza nella storia d’Europa. Conquistata da una serie di bande normanne indipendenti, la Normandia venne unificata dal capo normanno Rollone. Carlo il Semplice, re dei Franchi occidentali, decise allora di far buon viso a cattivo gioco, e nel 911 riconobbe a Rollone il diritto di governare la regione con il titolo dapprima di conte e poi di duca; in cambio ottenne il giuramento di vassallaggio. In breve tempo, i conquistatori della Normandia si integrarono nel mondo dei Franchi, acquisendone lingua e costumi, ma conservando una grande potenza militare: dopo il 1000 proprio dalla Normandia partiranno (lo vedremo il prossimo anno) le truppe che conquistarono sia la vicina Inghilterra, sia un’area lontana, l’Italia meridionale.

1. Quali fattori interni determinarono la crisi dell’impero carolingio? 2. Quali erano le differenze tra le scorrerie di Saraceni, Ungari e Vichinghi?

308

Parte IX Verso una nuova Europa

2. Il potere si frammenta

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Ereditare il titolo di conte

Il lungo periodo di lotte interne e incursioni dall’esterno trasformò la natura delle strutture amministrative create dall’impero carolingio. Avvenne un cambiamento davvero singolare. Da strumenti di governo nelle mani di un potere unitario, quello dell’imperatore, le istituzioni amministrative divennero fattori che spingevano a frammentare il potere statale in tanti piccoli nuclei. Come fu possibile un cambiamento così completo? Per comprenderlo va in primo luogo ricordato che ai tempi di Carlo Magno e dei suoi primi successori il conte mandato ad amministrare una provincia era potente soprattutto perché godeva della fiducia e dell’amicizia del sovrano, e operava su suo ordine. Spesso gli imperatori spostavano i conti da una provincia all’altra, a seconda delle necessità. I grandi nobili ai quali venivano conferiti questi incarichi erano rispettati dai sudditi solo fino a quando avevano strette relazioni con l’imperatore. Tuttavia già all’epoca degli ultimi imperatori carolingi le cose iniziavano a cambiare. Conti e marchesi volevano avere tempo sufficiente per avvantaggiarsi di tutte le possibilità che la carica dava loro: grazie ai suoi poteri e ai suoi redditi, nella provincia governata un conte poteva con facilità comprare estese proprietà e far sposare figli e parenti con le maggiori famiglie della nobiltà locale; e naturalmente desiderava che la sua carica potesse passare ai discendenti. Per questo conti e marchesi facevano pressione per venire lasciati ad amministrare la stessa provincia tutta la vita, e per trasmettere il posto a un figlio. Quando vi riuscivano, il loro potere cessava di dipendere solo dall’incarico ricevuto dal sovrano e acquistava delle radici locali: in caso di bisogno il conte o il marchese poteva infatti contare, oltre che sui poteri conferitigli dal sovrano, anche sulle risorse delle sue terre e sull’aiuto fornito dalle alleanze matrimoniali e dalle parentele che lui stesso o il padre avevano stabilito con i nobili della provincia. Le pressioni sui sovrani per ottenere l’ereditarietà della carica di conte si fecero molto forti, e in effetti numerosi figli furono confermati nell’incarico appartenuto al padre. Nell’877, quando Carlo il Calvo partì per una spedizione in Italia dovette emanare una legge importante, il capitolare di Quierzy, in cui stabiliva che se un conte fosse morto durante l’assenza del sovrano, la contea sarebbe passata provvisoriamente sotto il governo di suo figlio. Si trattava dunque di una legge relativa a una situazione specifica, che non va interpretata, come si fa sbagliando, come la concessione definitiva dell’ereditarietà del titolo di conte. La legge dimostra però che il problema era molto sentito, e infatti dopo alcuni decenni l’ereditarietà divenne davvero una pratica generale.

Capitolo 21 L’età dei signori



Carlo il Calvo 875 Abbazia di San Paolo fuori le Mura, Roma In questa pagina miniata della Bibbia commissionata da Carlo il Calvo, il sovrano è raffigurato seduto in trono, sotto le virtù; alla sua destra un ministro e una guardia, alla sua sinistra la moglie assistita da una dama.

309

Da funzionari del sovrano a signori autonomi



Abbazia di Santa Maria di Farfa a Fara Sabina (Rieti) VIII-IX sec. Dopo la fase di declino dovuta all’invasione longobarda, l’antico monastero laziale di Santa Maria di Farfa (attivo già nel VI secolo) divenne uno dei centri monastici più importanti e ricchi di tutta l’Europa. Forte dell’appoggio imperiale (lo stesso Carlo Magno si fermò qui prima di essere incoronato a Roma), l’abbazia godette di particolari immunità ed esenzioni fiscali, e tra VIII e IX secolo ampliò e monumentalizzò l’interno complesso.

310

Gradualmente i conti si resero sempre più indipendenti dal potere dell’imperatore e dei re. Continuavano a rispettare i sovrani e a cercare di ubbidire ai loro ordini, ma spesso facevano politica anche per conto proprio. Adesso ne avevano gli strumenti perché, dopo decenni che una contea era amministrata dalla stessa famiglia, il conte aveva a sua disposizione, all’interno di quella contea, grandi proprietà fondiarie, amici, parenti e vassalli: tutte fonti di potere locale che lui stesso, il padre e forse già il nonno avevano accumulato con il tempo. Forte delle sue autonome risorse, un conte poteva anche tentare di contendere per il trono regio, come per esempio fece Guido, duca di Spoleto, che riuscì a diventare re d’Italia dall’889 all’894. Altri conti s’impadronirono di più province contemporaneamente, creando così grossi “principati” semi-autonomi, come quelli di Tolosa, Champagne, Fiandra, Baviera, Sassonia e molti altri. Numerosi conti si trasformavano dunque in signori autonomi: quelli che all’epoca di Carlo Magno erano stati i funzionari di un’amministrazione unitaria, diventavano una forza che spingeva alla frammentazione del potere statale. Ma il processo che portava alla nascita di tanti piccoli nuclei autonomi di potere non si fermò qui. Le signorie create dai conti non riuscivano a essere estese quanto l’antica contea che i loro antenati avevano governato in qualità di funzionari dell’imperatore. Sempre più spesso accadeva che anche nobili, vescovi e grandi monasteri riuscissero a creare proprie signorie all’interno dei confini dell’antica contea. In queste signorie, il conte non riusciva più a riscuotere tasse e amministrare la giustizia: erano i signori, adesso, che volevano svolgere per conto proprio queste funzioni. Inoltre molti monasteri e vescovi ottenevano da imperatori e re il cosiddetto privilegio di immunità, che esonerava i loro beni dall’autorità e dal controllo degli ufficiali laici. Dunque non solo gli antichi funzionari dello Stato si trasformarono in signori autonomi, ma nacquero anche molte altre signorie a opera di nobili e istituzioni ecclesiastiche. Questa evoluzione fu più rapida in Francia e in Italia, dove la signoria nacque già verso il 950; in Germania e altre regioni la sua formazione fu più lenta, e avvenne solo dopo il 1050 o addirittura dopo il 1100. Prima o poi, comunque, la signoria comparve quasi in tutta l’Europa medievale.

1. Per quale motivo conti e marchesi premevano affinché le cariche diventassero ereditarie? 2. Come avvenne la frammentazione delle antiche contee in numerose signorie?

Parte IX Verso una nuova Europa

3. La signoria

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

Quale potere per il signore?

Descriviamo una signoria e il suo territorio. La prima cosa a colpirci è la presenza di uno o più castelli. Il loro aspetto è diverso a seconda delle regioni, delle epoche e di chi li ha costruiti: ma tutti hanno la funzione di difendere i contadini che lavorano nei campi, il bestiame, i raccolti e le altre risorse del territorio. Questa difesa, però, non è curata dal sovrano e dai suoi funzionari, ma da un personaggio che le fonti chiamano dominus, ‘signore’. Di solito costui vive nel castello assieme a parenti, cavalieri amici, combattenti di minore rilievo e servitori; se è un abate o un vescovo risiede in un robusto monastero o nella città vicina. Il potere del signore si estende su tutti gli abitanti: sui contadini che coltivano le terre dello stesso signore, come sui piccoli proprietari e sui coltivatori dei campi che appartengono a chiese, cavalieri e altri proprietari. Da questo punto di vista il signore è molto diverso dal proprietario di una curtis di età carolingia, che comanda solo chi coltiva le sue terre [cfr. cap. 20.8]. Egli infatti vuole ubbidienza, lavoro e pagamenti da tutti, indistintamente. Il signore, in primo luogo, ha diritti di tipo militare. Una ristretta parte degli abitanti ha il dovere di combattere ai suoi ordini a tempo pieno. Si tratta dei cavalieri, un gruppo di professionisti delle armi che non lavorano la terra poiché possiedono beni sufficienti per comprare un destriero, cioè un cavallo da combattimento, la corazza e le armi, e per avere tempo libero in abbondanza per apprendere le complesse tecniche della guerra a cavallo. Nelle signorie di ogni parte d’Europa questi cavalieri sono il braccio armato del signore, il suo principale strumento di offesa e di oppressione. Alcuni obblighi militari gravano però anche sul resto della popolazione. Bottegai, artigiani e soprattutto contadini, che immancabilmente costituiscono la stragrande maggioranza degli abitanti, devono fare a turno la guardia alle mura. In caso di grave pericolo, per rintuzzare gli attacchi mossi al castello dai nemici tutti gli uomini combattono di persona, a

Capitolo 21 L’età dei signori

 Castello di Puilaurens, Francia X sec. Il castello di Puilaurens, situato nei Pirenei orientali, fu per molto tempo la fortificazione più meridionale del regno di Francia. Le fonti scritte attestano l’esistenza del castello già nel 985, quando il complesso era alle dipendenze dell’abbazia catalana di San Michele di Cuxa. Solo nel XIII secolo la zona passò sotto controllo francese.

311

piedi e armati come possono. Se necessario, inoltre, vengono chiamati a lavorare gratis per il restauro o il miglioramento delle fortificazioni. Responsabile della difesa e della guerra, il signore è anche a capo della giustizia. Ogni reato, piccolo o grande che sia, è sottomesso al suo giudizio. Può persino pronunciare condanne a morte. Giudica anche le cause di tipo civile – una lite per una dote, per il possesso di una terra, per un debito insoluto. Da questo ruolo di giudice il signore ritrae redditi elevati e importanti vantaggi. Di solito i colpevoli sono puniti, piuttosto che con il carcere e le pene corporali, con ingenti multe e con il sequestro dei beni. E a chi vanno queste condanne? Detratta una piccola quota che spetta come risarcimento alla parte lesa, le multe finiscono nelle mani del giudice, cioè dello stesso signore. La giustizia, di conseguenza, rappresenta una delle migliori entrate del signore. Ma garantisce anche vantaggi ancora più importanti. Dal punto di vista politico, dà modo al signore di controllare e punire chiunque contesti il suo potere. Dal punto di vista simbolico, gli conferisce un prestigio prezioso: convocare in tribunale e punire era in origine una prerogativa dei re e dei suoi funzionari, e dunque il signore che riesce a farlo dimostra di essere, nella sua signoria, quasi un piccolo re. E questa è proprio la caratteristica fondamentale della signoria. Amministrare la giustizia e organizzare la difesa militare sono le funzioni basilari di ogni Stato. Svolgendo queste funzioni, dunque, il signore esercita nella sua signoria poteri e diritti di tipo “pubblico”, cioè statale. Sono facoltà che ai tempi dei Carolingi come a quelli dell’impero romano erano monopolio del sovrano e dei suoi rappresentanti (e tali sono poi tornate a essere, un po’ per volta, a partire dal XIII-XIV secolo). Nei secoli di cui parliamo qui, invece, dal X fino alla fine del Medioevo e anche oltre, la signoria è come uno Stato in miniatura. Non ci dobbiamo allora meravigliare se, accanto alla difesa e alla giustizia, il signore ha anche una terza prerogativa tipica di ogni Stato: la facoltà di riscuotere imposte. In que-

Feudalesimo e signoria Alla televisione, nei film e persino nei libri per la scuola viene spesso riproposto un luogo comune: si dice che i signori fossero i feudatari di re e principi, e si pensa che essi avessero acquistato i loro poteri appunto grazie a una concessione in feudo. Questa idea risale agli storici del XVIII-XIX secolo, i quali credevano che gli ultimi sovrani carolingi e i loro successori, essendo incapaci di difendere i regni dagli attacchi esterni e di frenare le ambizioni della nobiltà, avessero dato vasti territori in feudo alle famiglie più importanti. Così i principali feudatari avrebbero acquisito il diritto di comandare gli abitanti dei territori loro affidati. Poi, a loro volta, questi feudatari maggiori avrebbero concesso in feudo a propri seguaci parte delle terre e dei poteri ricevuti. Il tutto viene di solito accompagnato da uno schema a piramide: al vertice c’è il re, sotto un gruppo di alcuni grandi nobili suoi vassalli, e più in basso ancora un numero elevato di piccoli nobili vassalli dei nobili maggiori. Questa interpretazione ha il fascino della semplicità, ma è sbagliata. Infatti il feudalesimo ha contribuito alla nascita della signoria soltanto in una piccola minoranza di casi. La maggioranza delle signorie è stata creata da altri fattori, ben più importanti. Insomma, fare del feudo il fattore principale è un po’ come credere che un singolo ingrediente costituisca da solo l’intera ricetta di una pietanza complicata. E la maggior parte dei signori non erano affatto “feudatari” di qualcuno.

312

Parte IX Verso una nuova Europa

Il rapporto tra feudo e signoria, in realtà, è diventato stretto soltanto molti secoli dopo, nel tardo Medioevo e in età moderna. Risale cioè a epoche in cui le signorie si erano già da tempo tutte formate. Oltre che dalla diffusione della signoria, queste epoche erano caratterizzate dalla rinascita del potere dei re: proprio per meglio affermare i diritti del sovrani, i loro esperti di diritto sostennero che ogni facoltà di comando e di governo apparteneva in linea teorica al sovrano. Stabilirono così una identificazione della signoria con il feudo. Il loro ragionamento era grosso modo questo: «se noi vediamo che in effetti molti signori esercitano da tempo poteri pubblici, i quali appartengono e debbono appartenere solo al re, dobbiamo pensare che lo possono fare solo perché, in un passato di cui si è persa conoscenza, li hanno ricevuti in feudo da qualche sovrano; con le buone o con le cattive, tutti i signori vanno dunque costretti a riconoscere che le loro signorie sono feudi della corona, o di qualche principe». Così ogni signoria divenne un feudo, e i poteri di comandare, punire e giudicare che i signori esercitavano da tanto tempo come piena proprietà si trasformarono in “poteri feudali”, che il re assegnava dando in feudo le signorie. A questo punto, ma non prima – in pratica, dalla fine del Medioevo in poi –, ogni signore era effettivamente un “feudatario”.

sto campo la varietà è massima, perché le signorie sono molto diverse le une dalle altre. Alcune sono grandi quando una provincia italiana di oggi, altre si limitano a governare su pochi chilometri quadrati. Cambia anche l’ampiezza dei poteri del signore: di solito le signorie create dalle famiglie dei conti hanno poteri maggiori di quelle dei semplici grandi proprietari. Quindi è difficile fare un discorso generale, valido per tutte le situazioni. Alcuni signori possono richiedere tasse solo in caso di spese straordinarie, come quando devono pagare un riscatto, dare la dote a una figlia o compiere una grande spesa. In genere però i signori riscuotono molte imposte: quando riescono a vincere la resistenza dei sottoposti, tutte le occasioni sono buone per prelevare una tassa. Si paga per passare con le merci per i ponti e le strade della signoria, per comprare e vendere beni, per entrare in possesso di un’eredità, e per tante altre ragioni. In Campania, per esempio, le viti continuavano a venire coltivate, come nell’Antichità, in filari alti parecchi metri tesi da albero ad albero; per vendemmiare, occorrevano dunque scale: ecco allora i signori inventarsi lo “scalatico”, una tassa che colpiva i possessori di scale...



La rapacità del ricco opprime i contadini 1030 Dal De vitiis et virtutibus, ms. 2077, f. 170r; Bibliothèque Nationale de France, Parigi Questo disegno, tratto da un manoscritto realizzato nell’abbazia di San Pietro di Moissac in Francia, risale alla prima metà dell’XI secolo ma è una copia di un originale del X. La vignetta è un’ammonizione contro l’avarizia e contro la rapacità di coloro che, pur disponendo di ricchezze, non distribuiscono cristianamente i propri beni.

Un piccolo Stato in proprietà

Sappiamo, a questo punto, qual è l’essenza della signoria. È il diritto a comandare e farsi ubbidire, la facoltà di giudicare, la cura della difesa militare e dell’ordine sociale, la possibilità di richiedere imposte e contributi, in denaro, in natura e in lavoro. La signoria è uno Stato in versione locale. Come ogni Stato degno di tale nome, la signoria è un organismo autonomo. Bisogna intendersi, però. Autonomia non vuole dire che il signore può agire liberamente in qualsiasi campo e rifiutare ogni autorità superiore. In molti casi, deve tenere conto delle pretese degli altri proprietari che possiedono terreni nella sua signoria – chiese, monasteri e cavalieri –, i quali vorrebbero comandare i contadini che coltivano le loro terre. Il signore si oppone, e spesso ne nascono contrasti [cfr. scheda, p. 320]. Inoltre il signore riconosce la superiorità dei sovrani e

 La coltivazione della vigna 1030 Miniatura dal De Universo di Rabano Mauro; abbazia di Montecassino La miniatura testimonia l’altezza raggiunta dalle viti in alcune regioni (come la zona di Montecassino, dove venne miniato questo scritto), e la scomodità che ne derivava per il contadino che doveva vendemmiare.

Capitolo 21 L’età dei signori

313

dei grandi principi. È felice di essere invitato alle cerimonie di re e imperatori, e non manca di portare doni e dichiararsi pronto a servire in tutto i sovrani. Ma solo una minoranza di signori lo fa poi per davvero; gli altri vogliono decidere loro quando e come aiutare il sovrano e, soprattutto, ritengono che nessuno, nemmeno il re, possa dire loro come comportarsi all’interno della signoria. I re, di fatto, riescono a comandare solo nei territori che appartengono loro direttamente, dove non sono nate signorie. Il signore, del resto, non ha nessun bisogno di sostegni esterni per legittimare il proprio potere. Sarebbe un errore credere che i signori fossero “feudatari” dei re e dei principi, cioè che avessero ricevuto in feudo da loro la signoria. Nella grande maggioranza dei casi, i signori non hanno ricevuto i loro poteri dai sovrani, e non debbono dunque rendere ad essi conto di quanto fanno. La signoria è una loro proprietà, come se fosse un campo o una casa. Possono darla in eredità, in dote, in pegno; possono venderla; possono anche rinunciare a parte dei loro diritti in favore degli abitanti, che pagano per questo alleggerimento della signoria. E tutte queste cessioni ed alienazioni avvengono di norma liberamente, senza richiedere il consenso di poteri superiori. Questo porta a una situazione che sarebbe stata giudicata inammissibile in età romana, carolingia e in tanti altri periodi: l’esercizio di poteri pubblici tipici dello Stato viene privatizzato ed entra a far parte del patrimonio dei signori. Le signorie non sono solo dei piccoli Stati: sono dei piccoli Stati in proprietà privata.



Un re attorniato dai potenti 803-814 Bibliothèque Nationale de France, Parigi In questa pagina miniata, contenuta nel cosiddetto Breviarium Alaricianum (una sintesi del Codice Teodosiano emanata nel 506 dal re dei Visigoti Alarico II), è dipinto un re franco assieme ai potenti del tempo: un vescovo, un conte e un duca.

1. Per quale motivo la gestione della giustizia era un’attività importante per il signore? 2. Come era concepita la signoria da parte dei signori stessi?

4. Gli Stati postcarolingi e l’impero degli Ottoni

E V E N T I E P R O TA G O N I S T I

I Capetingi in Francia e le sorti del regno d’Italia

Nella Francia centro-settentrionale, che all’epoca costituiva il regno dei Franchi occidentali, il potere dei re crollò abbastanza rapidamente. Già all’inizio del X secolo la gran parte dei conti e dei marchesi tributava ai sovrani solo un riconoscimento formale; per il resto, si comportavano come dei principi autonomi. I re continuavano a venire scelti fra i discendenti di Carlo Magno, ma contavano ben poco. Nel 987, con l’incoronazione di Ugo

314

Parte IX Verso una nuova Europa

Il regno di Francia all’avvento dei Capetingi REGNO D’INGHILTERRA Londra CONTEA DI FIANDRA REG

Parigi

OIS

CONTEA DI NEVERS

Domìni diretti del re di Francia Signorie locali

DU CA TO

DI

GU IE

NN

A

CONTEA DELLA MARCA

ANIA

Bourges

OCEANO ATLANTICO

GERM

BL DI

CONTEA D’ ANGIÒ

CONTEA DI CHAMPAGNE

Orléans

DU BO CATO RG OG DI NA

EA NT

CONTEA DI BRETAGNA

DI

DUCATO DI NORMANDIA

NO

CONTEA DI VERMANDOIS

CO

Capeto, iniziò la nuova dinastia dei Capetingi, destinata a regnare per tre secoli e mezzo e a rendere la monarchia francese il più forte Stato d’Europa. Ma questo era ancora un futuro lontano: Ugo Capeto governava solo sulle terre di proprietà personale della famiglia e su pochi altri territori. Per i re italiani le cose andarono appena un poco meglio. Nell’888 un’assemblea di nobili incoronò re d’Italia Berengario I marchese del Friuli. In teoria Berengario fu re fino al 924, ma in realtà spesso il suo potere fu ridotto a nulla da una serie di avversari, che talora riuscirono a strappargli anche il titolo regio. Il primo a sottrargli il trono fu Guido, duca di Spoleto, che dopo due anni di durissimi scontri ottenne dal papa e dalla maggioranza della nobiltà italiana la corona di re. A Guido seguì il figlio Lamberto, e poi altri contendenti al trono, ma nel 905 tornò a prevalere Berengario, che regnò senza troppe contestazioni fino al 924, quando venne assassinato. Il gran numero di sovrani, contendenti al trono, deposizioni e ritorni al potere rendono difficile raccontare le vicende del regno d’Italia sotto Berengario I e i suoi successori; chiedere a uno studente di impararle sarebbe poi una crudeltà inutile. Accontentiamoci allora di notare due cose. La prima è che le lotte cessarono solo dopo il 951, quando la corona del regno d’Italia fu presa da quello che era il più potente sovrano del tempo: Ottone I di Sassonia, re di Germania. La seconda è che durante queste lotte alcune famiglie nobili scomparvero, ma molte altre trovarono modo di accumulare potere combattendo per uno o l’altro dei contendenti; le città italiane, da parte loro, cercarono di organizzarsi per conto proprio intorno ai propri vescovi. Il potere del re si indeboliva, mentre cresceva quello di nobili e di altre realtà locali, come le città.

CONTEA D’ALVERNIA

Lione

CONTEA DI GEVAUDAN

CONTEA DI PROVENZA

CONTEA DI TOLOSA

 Tavoletta eburnea con Ottone imperatore X sec. Musei del Castello Sforzesco, Milano La tavoletta in avorio raffigura l’imperatore Ottone I con la moglie Adelaide e il figlio Ottone II inginocchiati ai piedi di Gesù seduto in trono tra san Maurizio (protettore della dinastia imperiale) e la Vergine.

L’impero ottoniano: un progetto troppo ambizioso

Nel regno dei Franchi orientali, che ormai iniziava a esser chiamato regno di Germania, i sovrani restarono invece abbastanza forti. Anche qui molti conti, marchesi e duchi divennero semiautonomi, e talvolta i re faticavano a imporre la

Capitolo 21 L’età dei signori

315

propria autorità. Ma nessuno metteva in discussione il loro diritto di continuare a ricevere, come accadeva al tempo dei Carolingi, l’aiuto militare da tutti gli uomini liberi del regno. Il forte esercito a loro disposizione permise ai sovrani dei Franchi orientali di combattere con successo gli Ungari e, in seDUCATO DI guito, di concepire l’ambizioso progetto di ricreare l’impero. SASSONIA MARCA La salita al trono di Enrico I di Sassonia, nel 919, segnò l’iniDEL NORD LORENA zio della dinastia sassone, chiamata anche ottoniana. Il più DUCATO DI importante membro della dinastia fu infatti Ottone I (936FRANCONIA MORAVIA BOEMIA 973) che, durante il suo lungo regno, rafforzò l’autorità regia, MARCA DUCATO estese i suoi poteri anche al regno d’Italia nel 951, e infine D’AUSTRIA DI DUCATO venne incoronato imperatore a Roma nel 962. SVEVIA DI BAVIERA REGNO Il nuovo impero si presentava come la restaurazione di DI MARCA BORGOGNA quello di Carlo Magno. Aveva in effetti un programma in parDI CARINZIA REGNO D’ITALIA te simile. I simboli e i rituali seguiti a corte erano gli stessi; come quello carolingio, utilizzava molto vescovi e abati per l’amministrazione imperiale; infine, si poneva come princiDUCATO DI pale compito quello di difendere la Chiesa, controllandola e PATRIMONIO SPOLETO DI sforzandosi di migliorarne i costumi. Non a caso Ottone I, riSAN PIETRO Il regno di Germania prendendo una vecchia legge carolingia mai applicata da olalla morte di Enrico (936) tre un secolo, impose al papa di venire confermato dall’impeImpero ottoniano alla morte di Ottone I (973) ratore prima di essere consacrato (il Privilegium Ottonianum del 962). Inoltre voleva esPossedimenti in Italia sere un impero universale che, come quello dell’antica Roma, aspirava a comandare l’indell’impero bizantino Territori sottoposti tero mondo. Per sottolineare questi aspetti gli storici usano la definizione Sacro romano alla protezione dell’impero impero (che in realtà compare nei documenti solo dopo il 1000): sacro, per sottolineare la funzione di proteggere la religione; e romano perché si ricollegava idealmente alla grandezza della Roma antica. La realtà fu invece più modesta. Sia sotto Ottone I che sotto il figlio Ottone II (973-983) e il nipote Ottone III (983-1002) l’impero ottoniano restò molto più piccolo di quello carolingio, comprendendo soltanto l’Italia centro-settentrionale e il regno di Germania. Gli imperatori, inoltre, dovevano lasciare ai duchi e agli altri nobili un’ampia autonomia, al punto che rinunciarono a emanare leggi valide per tutti i sudditi e a organizzare un sistema di giustizia unico per l’intero impero. Piuttosto che governare direttamente, l’imperatore si avvaleva della mediazione di chi era già potente nelle diverse province. Questa impossibilità di un diretto governo imperiale e la necessità di ricorrere a poteri locali che fungessero da mediatori fra la corona e i sudditi era particolarmente forte nel regno d’Italia. Quando l’imperatore era presente, la forza del suo esercito vinceva facilmente ogni oppositore. Ma presto l’imperatore ripartiva, perché i suoi luoghi di soggiorno abituali erano lontani, al di là delle Alpi. Così la politica tornava a venire dominata dalle forze potenti localmente: i conti e gli altri grandi nobili, ma anche i vescovi. Come mai i vescovi, che in teoria erano soltanto i capi della chiesa cittadina, avevano questa importanza politica? Essa derivava da un’evoluzione secolare e, infine, dalla crisi dell’impero carolingio. Fin dalla tarda Antichità, i vescovi erano nominati fra le famiglie più importanti della città. Da molti secoli i ceti dirigenti delle città erano soliti discutere i problemi comuni più importanti in presenza di questi personaggi così prestigiosi dal punto di vista religioso, e tutti di buona famiglia. Poi, con le lotte di successione fra i carolingi e il ripetersi di attacchi nemici, il ruolo dei vescovi era molto cresciuto: nei momenti di emer-

L’impero degli Ottoni

316

Parte IX Verso una nuova Europa

genza, quando nessun aiuto poteva venire dal sovrano e dai suoi rappresentanti, spesso era toccato ai vescovi assumersi il compito di organizzare la difesa, di curare il restauro di mura e fortificazioni e di prendere altre decisioni importanti. In questo modo molti vescovi avevano acquisito un potere locale sulle città. Per governare il regno d’Italia, di conseguenza, gli imperatori ottoniani si appoggiarono spesso anche ai vescovi, donando loro terre e beni e, soprattutto, assegnandogli diritti di governo, come la facoltà di amministrare la giustizia all’interno della città e nel territorio più vicino alle mura. Naturalmente queste concessioni avevano avuto l’effetto di aumentare ulteriormente il potere vescovile assieme a quello dei ceti dirigenti cittadini che eleggevano il vescovo e lo assistevano. Non solo i signori delle campagne, ma anche molte città stavano dunque diventando centri di potere semiautonomi. Ecco perché il Sacro romano impero della dinastia degli Ottoni fu un organismo politico peculiare. Ogni tanto interveniva con forza, eliminando brutalmente avversari e sudditi infedeli; di solito però era un potere distante, che in Italia come in Germania si limitava a coordinare i poteri locali di conti, nobili e vescovi cittadini. Non meraviglia che gli insuccessi siano stati numerosi. Ottone II fallì nel tentativo di battere i Saraceni e i Bizantini dell’Italia meridionale, e quando nel 983 il trono passò al figlio ancora bambino, Ottone III, gran parte della nobiltà tedesca si ribellò. Ottone III venne educato dal più grande intellettuale del tempo, Gerberto d’Aurillac, che probabilmente contribuì a fargli elaborare un progetto politico molto ambizioso, che prevedeva una radicale riforma del potere imperiale. Divenuto adulto, Ottone III lasciò a sé stessa la Germania e si stabilì a Roma. Il suo programma era tanto vasto quanto irrealistico: restaurare l’impero romano sottomet-

Capitolo 21 L’età dei signori

 Il villaggio e l’abbazia di Conques, Francia Durante il X secolo l’abbazia benedettina di Conques, nella Francia meridionale, crebbe molto di importanza e attorno a essa si andò organizzando un villaggio, come mostra l’assetto urbanistico attuale che ha conservato intatto l’impianto di età medievale.



Ottone III in trono fine X sec. Bayerische Staatsbibliothek, Monaco Nella miniatura di questo Evangeliario (prodotto in monastero di Reichenau) Ottone III è ritratto con tutte le insegne che rappresentano il suo potere: lo scettro, il globo e la corona. Il sovrano è seduto in trono e affiancato a destra dai nobili guerrieri e a sinistra dai rappresentati del clero.

tendo tutti i sovrani e i potenti del mondo cristiano, promuovendo allo stesso tempo una riforma spirituale basata sulla stretta collaborazione fra papato e impero. A questo scopo Ottone III fece eleggere papa il suo precettore Gerberto d’Aurillac, che assunse il nome di Silvestro II (999-1003). Ma la nobiltà romana si ribellò, lo cacciò dalla città e lo costrinse a rifugiarsi in un monastero nel quale morì, ancora giovanissimo, nel 1002.

1. Qual era il potere dei re nel regno dei Franchi occidentali e nel regno d’Italia? 2. Qual era il progetto politico degli imperatori ottoniani? 3. Che ruolo politico svolgevano i vescovi?

5. Il castello, centro di potere

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Perché si costruirono così tanti castelli?

I secoli posteriori alla fine dell’impero carolingio furono molto condizionati da una realtà che, a ragione, consideriamo come tipicamente medievale: il castello. Va detto che i castelli non erano una novità: già ne erano stati costruiti in passato in molte parti d’Europa a opera dello Stato, e avevano aiutato i re e i loro funzionari a controllare strade, porti e altri luoghi strategici, oppure a dare protezione, in caso di emergenza, agli abitanti delle campagne Montarrenti Uno scavo archeologico durato diversi anni ha permesso di ricostruire l’evoluzione del castello di Montarrenti, vicino Siena. All’inizio Montarrenti è un villaggio di contadini senza molte differenze sociali interne, come mostra il fatto che tutti abitano in case costituite da un’unica piccola stanza. Probabilmente il villaggio nasce nel VII-VIII secolo, quando i contadini che vivevano sparsi nelle campagne vicine decidono di andare a stare assieme sulla collina, occupandone i fianchi e la cima con le loro piccole case. Presto costruiscono una palizzata in legno per chiudere in basso l’accesso al villaggio (fig. 1). Già in età carolingia si osserva un cambiamento significativo: sulla parte più alta del villaggio un personaggio a noi sconosciuto ma molto più ricco e potente degli altri abitanti sostituisce le piccole case contadine con un grosso edificio in muratura, e poi circonda con mura di pietra tutta quest’area posta in cima alla collina. Più tardi in questa zona sorge anche una torre alta e robusta, mentre più un basso un circuito murario in muratura prende il posto della palizzata che circondava e difendeva il villaggio. Anche le case dei contadini vengono edificate in muratura. Il risultato finale di questa lunga evoluzione è un castello signorile: sui fianchi della collina vivono i sudditi del signore, protetti dalle mura e controllati dal signore, che abita più in alto, in un grosso edificio dotato di una torre e di una seconda cinta di mura (fig. 2).

318

Parte IX Verso una nuova Europa

1

2



Evoluzione dell’abitato di Montarrenti, da villaggio alto medievale a castello signorile Disegno ricostruttivo di D. Spedaliere

circostanti. Questi castelli della tarda Antichità e dell’epoca dei regni romano-barbarici furono però abbastanza pochi e rimasero sempre nelle mani dei re e dei loro rappresentanti. Le cose cambiarono del tutto con le lotte interne e gli attacchi dall’esterno dell’età postcarolingia. I pericoli si moltiplicavano e i sovrani si rivelavano incapaci di bloccarli: così sempre più di frequente i contadini e i proprietari subivano razzie a opera di Vichinghi, Saraceni e Ungari, e ancora più spesso da parte delle truppe dei contendenti al trono che si combattevano. In questa nuova realtà, ci si rese conto che ogni territorio doveva organizzare la difesa per conto proprio, senza più attendere la protezione del sovrano. E la migliore difesa era, in quel tempo, costruire un castello. All’inizio, nella seconda metà del IX secolo e al principio del X, i nuovi castelli vennero costruiti soprattutto da pochi personaggi importanti: conti, vescovi e abati di grandi monasteri. I nobili di minore rilievo e talvolta le comunità di contadini tuttalpiù dotarono le loro abitazioni e i loro villaggi di qualche piccola difesa. In alcune regioni, come la Toscana, gli abitanti delle campagne erano andati a vivere assieme sulla cima delle colline, dove era possibile difendersi sbarrando con una palizzata i punti di più facile accesso. A partire dal 950 la spinta a costruire veri e propri castelli divenne fortissima, diffondendosi anche al di fuori del ristretto gruppo di conti e grandi istituzioni religiose. Ormai tutti i maggiori proprietari cercavano di trasformare le proprie aziende in castelli. Gli scavi archeologici datano proprio a quest’epoca la costruzione ex novo di molti castelli; dove già esistevano villaggi e residenze aristocratiche solo sommariamente protetti, in questo periodo nacquero difese molto più efficaci e robuste. I documenti scritti per descrivere i grandi patrimoni smisero di elencare le semplici aziende agrarie, e iniziarono a menzionare soltanto castelli: avere un castello era adesso la sola cosa che realmente contava.



Castel Tasso a Vipiteno, Alto Adige XI sec. Realizzato nell’XI secolo, l’impianto originario di Castel Tasso prevedeva un grande recinto difensivo con all’interno un massiccio torrione costruito nel punto più alto del dislivello.

Proteggere e pretendere

A seconda dei casi l’aspetto materiale del castello era diverso. In alcune regioni i castelli erano fortezze destinate a ospitare soltanto il proprietario con il suo seguito di servitori e di combattenti. In altre regioni, come per esempio l’Italia centrale e altre parti dell’Europa meridionale, il castello era un villaggio circondato da difese, dove oltre al signore e al suo seguito abitavano anche contadini e artigiani. Anche il tipo di difese cambiava a seconda dei luoghi e del periodo. Nelle zone pianeggianti, alcuni castelli erano costruiti sopra piccole colline artificiali, chiamate motte. Quasi tutti, all’inizio, avevano palizzate in legno, che via via vennero migliorate con fossati, torri e altre difese; infine, ma quasi sempre solo dopo il 1000 o anche il 1100, le cinte in legno furono sostituite da mura di pietra o mattoni. Nel giro di poche generazioni, tutto l’Occidente si coprì di un manto serrato di fortificazioni. Il loro aspetto materiale poteva cambiare molto, ma il castello svolgeva sempre due funzioni fra loro collegate: proteggeva un territorio e consentiva a chi assolveva questo compito basilare di accrescere il suo potere. Alla ricerca di pace sociale e sicurezza, la popolazione delle campagne doveva confidare non nel sovrano lontano, ma soltanto in chi era potente in quel territorio e in quel dato villaggio, vi aveva co-

Capitolo 21 L’età dei signori

319

struito un castello, e lo utilizzava per la difesa ma anche per dominare gli abitanti. Sempre di più contava soltanto chi possedeva un castello e un seguito di armati. Costui era ormai nella posizione di intensificare il proprio potere, e tutta una serie di redditi a esso legati. Non assicurava forse la difesa di tutti? Poteva per questo richiedere un compenso crescente, imporre tasse, lavori obbligatori, aiuti militari; e poteva anche pretendere di garantire la pace interna al castello amministrando la giustizia. Gradualmente, attraverso un processo durato a volte più di un secolo, il castello permetteva così anche a chi non discendeva da una famiglia di conti di acquisire quei poteri di governo locale che abbiamo visto caratterizzare la signoria, e che i discendenti dei conti avevano fatto propri per primi.

1. Per quale motivo dal IX secolo si moltiplica la costruzione di castelli? 2. Quali funzioni fondamentali svolgeva il castello?

6. Nobili e cavalieri

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

I cavalieri, professionisti delle armi

Il diffondersi dei poteri signorili e il disgregarsi dello Stato cambiarono i rapporti fra i gruppi sociali. Nacque una netta distinzione fra chi subiva la signoria, i contadini, e chi invece esercitava i poteri signorili, cioè il signore e suoi collaboratori. Usare le armi divenne un privilegio riservato solo a chi comandava, e vietato a tutti gli altri. Tranne che in alcune zone (per esempio in Spagna, vicino al confine con i territori musulmani), non era più sufficiente essere un uomo libero per esercitare il diritto/dovere di combattere: ormai solo

Ordine o disordine signorile? L’epoca delle signorie è stata a lungo considerata un’età di anarchia. Fu in effetti un periodo della storia europea in cui anche gli imperatori e i re più potenti riuscivano a comandare solo in alcuni momenti e su alcune aree del loro regno. Fra gli stessi signori, inoltre, erano frequenti i contrasti e gli scontri. A causarli poteva essere il desiderio di impossessarsi della signoria di un vicino meno potente, o almeno di imporgli il pagamento di tributi e il riconoscimento della sua subordinazione. Molti conflitti nascevano anche all’interno stesso di una signoria. Il signore era il maggiore proprietario fondiario della zona, ma in molti casi un certo numero di terreni appartenevano ad altri proprietari. Chiese grandi e piccole possedevano un loro patrimonio di terre, che davano in affitto a coltivatori; in molte signorie vi erano anche le proprietà di monasteri, di qualche nobile e di cavalieri, che facevano la stessa cosa. Di conseguenza poteva accadere che un uomo avesse più signori. Vi era il signore principale, che controllava il castello e pretendeva di comandare e giudicare tutti gli abitanti. Ma le chiese maggiori, i monasteri e i proprietari nobili diversi dal signore erano gelosi dei contadini che coltivavano le loro terre situate all’interno della signoria. Le possibilità di un contrasto erano numerose. A chi

320

Parte IX Verso una nuova Europa

doveva ubbidire l’abitante di una signoria, al signore generale o a chi era proprietario delle terre che il contadino coltivava? Chi dei due aveva diritto a ricevere per primo i suoi pagamenti se c’era la carestia e il raccolto era scarso? Innumerevoli sono dunque le occasioni di conflitto, all’esterno e all’interno della signoria. E tuttavia il mondo signorile riesce bene anche a garantire un proprio ordine. Il tribunale del signore non è soltanto uno strumento di prevaricazione, ma anche un luogo dove il contadino tiranneggiato da un compaesano più forte o prepotente può ottenere giustizia. Con la sua autorità, poi, il signore riesce a organizzare con maggiore efficacia le iniziative collettive, come la costruzione di una chiesa o la complessa bonifica di una palude. L’ordine signorile è osservabile anche nelle relazioni interne al mondo dei nobili. Il signore controlla e disciplina in primo luogo il proprio seguito di armati. Limita i desideri di saccheggio e avventura dei cavalieri più poveri, imponendo loro di astenersi dal razziare i territori dei signori con i quali non è in guerra. Egli stesso stabilisce delle relazioni con altri signori. Ottiene che quelli meno potenti gli giurino fedeltà e vassallaggio, e a sua volta si dichiara fedele di signori più forti.

chi apparteneva all’élite poteva farlo. Le tecniche di combattimento cambiarono, e s’incentrarono tutte sulla cavalleria. Solo la minoranza di chi possedeva armi e cavalli e aveva imparato a usarli con un costante esercizio faceva parte dell’élite guerriera. Il termine miles, che nel latino classico indicava quello che era allora il combattente per eccellenza, cioè il soldato appiedato, passò a indicare il cavaliere, che era adesso il solo a usare le armi. I cavalieri avevano le origini più diverse. Molti, naturalmente, erano figli di cavalieri e di signori. Altri venivano dalle classi inferiori: servi fedeli ai quali un nobile potente aveva dato armi e cavalli, oppure contadini ricchi che volevano entrare a far parte del seguito del signore. Il passaggio alla condizione di cavaliere era dichiarato con una cerimonia pubblica, che nel periodo qui studiato rimase molto semplice e sbrigativa: davanti agli altri cavalieri, il giovane riceveva le sue armi e il diritto a fare parte del gruppo privilegiato della cavalleria. Come cambiano i valori del ceto aristocratico

Come già in età carolingia, tutti i nobili potenti avevano proprie clientele di seguaci, che di solito gli giuravano fedeltà, prestavano l’omaggio come vassalli e ricevevano in cambio doni o feudi. Ma dopo la fine dello Stato carolingio e la nascita delle signorie le clientele militari erano cresciute di numero e avevano in parte cambiato di significato. Un nobile dei tempi di Carlo Magno usava la sua clientela soprattutto nell’esercito imperiale e, più in generale, per essere potente e ben visto dal sovrano. Adesso invece le clientele servivano quasi soltanto per fare una politica locale: per distinguersi rispetto ai proprietari dei castelli vicini e, soprattutto, per fare funzionare meglio la signoria, opprimendo e dominando i contadini. Inoltre in questo mondo più localizzato mutavano anche i valori dei grandi nobili: il punto di riferimento non erano più i costumi del sovrano e della sua corte, ma lo stile di vita dei cavalieri, con i quali il signore viveva e che lo accompagnavano in tutte le occasioni. Era uno stile di vita fatto di violenza, gusto per la razzia e la sopraffazione, pretesa di comandare. I soprannomi che alcuni di questi personaggi si davano rivelano bene questa mentalità: per esempio, Pelavicino (‘tosa il vicino’), Guastavillani (‘rovina i contadini’), Maltolti (‘prende ingiustamente’). Anche se avevano ricchezze molto diseguali, signori e cavalieri appartenevano tutti al ceto aristocratico.



Rapine e razzie IX sec. Manoscritto 412, f. 1v; Biblioteca Municipale di Valenciennes, Francia

1. Chi poteva entrare a far parte dell’élite guerriera? 2. Quali valori esprimeva lo stile di vita dei cavalieri?

Capitolo 21 L’età dei signori

321

7. Ingabbiare i contadini

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Una condizione comune: la soggezione al signore

 L’aratura 1030 Miniatura dal De Universo di Rabano Mauro; abbazia di Montecassino

322

In questa nuova realtà, a perdere furono in primo luogo le comunità di contadini indipendenti. La protezione garantita a tutti gli uomini liberi dal sovrano andava svanendo, e prima o poi quasi tutte queste comunità furono costrette ad accettare il dominio di un signore. Questi poteva essere un grosso proprietario dei dintorni, che aveva costruito un castello sulla sua azienda e, ben protetto dalle mura e spalleggiato dalla sua clientela di cavalieri, aveva costretto i contadini a rinunciare alla loro indipendenza, imponendo loro – proprio come un mafioso dei giorni nostri – la sua protezione. In altri casi il signore era comparso dall’interno stesso del villaggio attraverso una lunga evoluzione: generazione dopo generazione una famiglia di contadini aveva accumulato terre, era divenuta grande proprietaria, era entrata nel seguito di qualche potente e, alla fine, era riuscita a imporre il suo dominio sui vicini. Tutte le strade conducevano comunque allo stesso risultato: dopo il 1000 nell’Europa occidentale diviene difficile trovare quei villaggi di piccoli proprietari contadini ancora diffusi in numerose regioni dell’impero carolingio. Sotto il dominio signorile, molti proprietari contadini furono obbligati a vendere, donare o comunque a cedere al signore la piena proprietà delle loro terre. Se volevano continuare a coltivarle, dovevano adesso pagare un canone di affitto. In ogni caso anche chi restava proprietario era obbligato a pagare le imposte e gli altri contributi signorili. In questa evoluzione, a guadagnarci furono soltanto i contadini di condizione non libera, per la verità numerosi ormai solo in poche zone. Invece la situazione dei contadini liberi andava peggiorando. Adesso liberi e non liberi erano accumunati dalla soggezione al signore, tanto che con il passare del tempo le antiche distinzioni fra liberi e non liberi erano state dimenticate, e tutti gli abitanti si erano fusi in un unico gruppo di sudditi del signore. La condizione della popolazione rurale, nel complesso, subì un peggioramento. I contadini vennero come ingabbiati in un nuovo sistema che li sottoponeva a maggiori controlli e li obbligava a pagare di più, a causa dei canoni di affitto e delle tasse vecchie e nuove che i signori imponevano loro.

Parte IX Verso una nuova Europa

Chi se ne avvantaggiò?

Per far fronte alle richieste signorili furono dunque costretti a lavorare più a lungo e in modo più produttivo. Iniziarono ad adottare nuove tecniche, come il sistema della rotazione triennale, che A B consentiva di ridurre il terreno lasciato a riposo per riacquistare la fertilità consumata dalle semine, aumentando così la superficie che veniva coltivata ciascun anno. Fino ad allora, infatti, i contadini semine autunnali avevano lasciato il campo a riposemine primaverili A 1° anno so un intero anno, dopo avere preB 2° anno C levato il raccolto: ogni campo vecampo a riposo (maggese) C 3° anno niva dunque coltivato solo un anno su due. Con la rotazione triennale, invece, le terre erano coltivate due anni su tre, e due anni su tre ciascuno dei tre campi ospitava una coltura diversa, permettendo al terzo di restare a riposo. Il contadino divideva infatti la sua terra in tre campi: nel primo, che era stato lasciato a riposo tutto l’anno precedente, seminava in autunno i cereali migliori, come il grano e la segale, che richiedono il terreno più fertile; nel secondo, che l’anno precedente aveva ospitato il grano, seminava in primavera piselli, fave e altri legumi, che possono crescere anche su terreni di media fertilità, come appunto quelli che



La rotazione biennale Disegno di A. Baldanzi

 Pettine in avorio IX sec. Musée du Louvre, Parigi Questo prezioso pettine in avorio è decorato a rilievo con una scena che raffigura Sansone mentre uccide un leone.

 Acquamanile in cristallo XI sec. Musée du Louvre, Parigi Il possesso di oggetti come questo acquamanile, realizzato in cristallo di rocca e filigrana d’oro, indicava in maniera inequivocabile la ricchezza e il lusso raggiunto dal suo proprietario.

Capitolo 21 L’età dei signori

323

l’anno precedente hanno dovuto dare le loro sostanze nutrienti al grano; il terzo campo, invece, che nei due anni precedenti aveva ospitato dapprima il grano e poi i legumi, esaurendo così la sua capacità di far crescere bene le piante, veniva lasciato riposare per ricreare la fertilità del suolo. Col crescere delle pretese dei signori, la vita dei contadini divenne più dura, ma per l’andamento complessivo dell’economia questo fu un bene. Secondo un meccanismo che abbiamo visto cominciare a funzionare in età carolingia, crebbero le entrate dei più ricchi, in questo caso i signori laici e i cavalieri, e di conseguenza aumentò anche la loro domanda di beni [cfr. cap. 20.9]. Nelle casse di questi potenti vi erano adesso più soldi da spendere in prodotti di pregio e di lusso. L’artigianato specializzato e il commercio ne ebbero grande impulso, e a sua volta l’aumento del numero e della ricchezza di artigiani e mercanti stimolò nuove produzioni e nuovi commerci. L’affermarsi della signoria e il peggioramento della situazione contadina aiutarono dunque l’economia europea ad accelerare quel processo di ripresa che era cominciato già nell’VIII secolo, ma che era proseguito a ritmi lentissimi. La svolta si nota intorno al 950. Il numero dei villaggi inizia a moltiplicarsi, sintomo chiaro di un aumento della popolazione. Nuovi campi vengono strappati ai boschi; le menzioni di mercati e mercanti divengono meno rare; nelle città si nota una vitalità economica ancora modesta, ma già promettente. Fu su queste basi che, dopo il 1000, l’economia e la popolazione europee iniziarono a crescere a ritmi sostenuti e per un lungo periodo.

1. In che condizioni vivevano i piccoli proprietari terrieri sottoposti alle signorie? 2. Come funzionava la rotazione triennale?

Le armi del debole Di fronte allo strapotere del signore e dei suoi cavalieri, come potevano i contadini impedire alle tasse e alle altre richieste di aumentare senza fine? A volte in effetti non vi riuscirono; alcuni signori introdussero le tasse cosiddette ad arbitrio, per cui era loro diritto insindacabile stabilire l’ammontare di una tassa e la sua frequenza. Di solito però ci accorgiamo che le pretese signorili venivano in qualche modo limitate dai sottoposti, che talvolta riuscivano anzi a ottenerne una diminuzione. Ma i mezzi concreti con cui questo avveniva non vengono descritti dalle fonti a nostra disposizione, che rispecchiano tutte le opinioni dei signori. Quello che sappiamo è che la resistenza contadina violenta, basata sulla rivolta, era una strategia perdente. La vittoria poteva esser solo di breve periodo. Magari i contadini inferociti riuscivano a uccidere il signore e bruciarne il castello; ma subito scattava la solidarietà degli altri signori, e non vi era scampo. Tutte le rivolte contadine conosciute vennero represse nel sangue. Questo è uno dei casi in cui l’antropologia viene in aiuto della storia. Qualche decennio fa un antropologo americano, James Scott, andò a vivere alcuni anni in un remoto villaggio della Malesia dove i rapporti fra contadini e élite locale assomigliavano molto a quelli fra contadini medievali e i loro signori. Scrisse un libro intitolato Le armi del debole, dove illustrava le tecniche di resistenza che anche contadini così duramente assoggettati erano in

324

Parte IX Verso una nuova Europa

grado di portare avanti. Il primo modo di resistere era fare appello a una concezione mentale comune nella Malesia come nel mondo medievale: il valore legittimante della consuetudine, cioè l’abitudine di considerare giustificato tutto ciò che già avveniva nel passato, e solo quello. Un’imposizione nuova, non sancita dalle antiche consuetudini, è illegittima, e può essere più facilmente contestata. Ma anche nei casi in cui fare appello alla consuetudine è impossibile, il malcontento contadino dispone di armi efficaci. I contadini non possono uscire allo scoperto, e contestare apertamente il signore; ma se sono d’accordo fra loro, e nessuno denuncia il compagno, i contadini insoddisfatti praticano piccoli sabotaggi. Nottetempo qualcuno rompe il mulino del signore, o apre il cancello della sua stalla facendo scappare il bestiame; oppure, del tutto inaspettatamente, va a fuoco il fieno destinato ai cavalli dei cavalieri. Contro questo tipo di sorda resistenza ben poco possono il signore e i suoi collaboratori. Essi dunque debbono tenere conto dei reali rapporti di forza, di quanto cioè riescono a far accettare, con le lusinghe e con la violenza, ai loro sottoposti. Anche perché i contadini disperati hanno pur sempre a loro disposizione la più elementare forma di ribellione: fuggire di nascosto, rinunciando alla casa e ai campi, ma liberi di cercare un villaggio con un signore meno oppressivo o, magari, senza signori affatto!

8. Papato, chiese e monasteri nell’età dei signori

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Chiese e monasteri nei domìni dei grandi signori

Se per un verso, come sappiamo, non mancarono in questo periodo signorie nate per iniziativa di vescovi o abati di grandi monasteri [cfr. par. 2], per l’altro, fra IX e X secolo, la crisi di imperatori e re fece mancare il sostegno del potere statale alla Chiesa. I sovrani smisero di sorvegliare e stimolare la preparazione culturale di vescovi e sacerdoti, che decadde molto. Ancora più grave si rivelò la pressione sulle istituzioni ecclesiastiche da parte dei signori grandi e piccoli. Essi ebbero anche un ruolo positivo, perché oltre a costruire castelli e fondare villaggi fecero innalzare un gran numero di nuove chiese, donando le terre necessarie a mantenere i sacerdoti che vi amministravano il culto. Tuttavia chiese e terre restavano, in questo caso, parte del loro patrimonio: erano chiese private. I signori sceglievano liberamente i sacerdoti e usavano il patrimonio della chiesa come una loro proprietà, decidendo come amministrare i campi e, se ne avevano bisogno, vendendoli come un loro bene qualsiasi. In una situazione solo leggermente migliore si trovavano molti piccoli monasteri, fondati in gran numero dalle famiglie nobili, perché i fondatori spesso mantenevano il diritto di nominare l’abate e di intervenire nella vita monastica. Per scegliere sacerdoti e abati i signori badavano soprattutto agli interessi della famiglia, e poco si curavano della preparazione culturale e del livello morale: ai loro occhi era molto meglio che nella chiesa della signoria predicasse un sacerdote rozzo e im-

Capitolo 21 L’età dei signori

 Chiesa di Santa Maria “foris portas”, esterno IX sec. Castelseprio, Varese



La fuga in Egitto, affresco in Santa Maria “foris portas” IX sec. Castelseprio, Varese Le recenti ricerche scientifiche che hanno interessato la Chiesa di Santa Maria “foris portas” a Castelseprio hanno permesso di datare alla metà del IX secolo il complesso e i magnifici affreschi che decorano l’interno. Secondo alcuni studiosi, a commissionare l’opera fu il conte Giovanni del Seprio, figlio del conte di Milano.

325

morale, ma fedelissimo al signore e magari suo parente, piuttosto che un sacerdote ben preparato e desideroso di seguire solo la propria coscienza e gli ordini del vescovo. Il papato in difficoltà

 Abbazia dei Santi Pietro e Paolo, Cluny 1115-1120 Cluny, Francia Del più antico impianto dell’abbazia di Cluny oggi si conserva solo parte del braccio meridionale con una delle due grandi torri campaniere gemelle.

L’intervento dei laici nelle istituzioni ecclesiastiche aveva effetti negativi anche nella nomina dei vescovi e dello stesso papa. Spesso l’elezione dei vescovi veniva contesa fra le principali famiglie nobili; altre volte era effettuata dal sovrano, che mirava a rafforzare la sua influenza nella città inviandovi un vescovo pronto a ubbidire ai suoi ordini. Anche il vescovo di Roma, il papa, si trovava in una situazione simile. L’antica capitale imperiale si era enormemente ridotta e impoverita, e contava solo 20-25.000 abitanti; tuttavia la gravissima crisi che dopo la fine dell’impero romano aveva colpito anche tutte le altre città faceva sì che Roma restasse di gran lunga il centro più popoloso dell’Europa occidentale. L’aristocrazia romana, di conseguenza, era più numerosa e potente di quella delle altre città, e le lotte per la nomina del vescovo ancora più intense. Si giunse anche a episodi sorprendenti, come quello del Natale 896, quando il nuovo papa fece disseppellire e processare il cadavere del suo predecessore, Formoso, che era stato un suo acerrimo rivale. A lungo il papato venne monopolizzato da membri della famiglia Crescenzi; alla fine del X secolo gli imperatori, soprattutto Ottone III, riuscirono a imporre la nomina di alcuni papi tedeschi, ma ben presto il trono papale tornò a essere conteso fra la nobiltà romana, e il suo prestigio continuò a diminuire. L’intervento degli imperatori ebbe però almeno un effetto duraturo: fino ad allora il papa eletto conservava, proprio come qualsiasi vescovo, il suo nome di battesimo; invece i papi tedeschi imposti dagli imperatori scelsero di “romanizzare” il loro nome per meglio farsi accettare dalla popolazione. Abbandonarono dunque il loro nome di battesimo, e assunsero il nome di un papa del passato. Da allora l’adozione di un nuovo nome è divenuta una consuetudine di tutti i papi. Le scelte dei monaci di Cluny

La situazione di decadenza della Chiesa suscitava insoddisfazione soprattutto nei maggiori monasteri, che raccoglievano quasi tutti gli intellettuali e gli uomini di cultura del tempo. Comparvero gruppi di monaci decisi a riformare, cioè migliorare, la vita monastica. Il gruppo più famoso fu quello di un monastero francese, Cluny, fondato nel 910 in Borgogna. I monaci cluniacensi curarono molto la preparazione cul-

326

Parte IX Verso una nuova Europa

turale e, soprattutto, il rigore morale e il culto. La preghiera divenne una cerimonia solenne, collettiva, cantata e sfarzosa. In un’Europa assediata dalla violenza e che si ricopriva di fortezze, i monasteri dovevano diventare fortezze della preghiera, al cui interno gli eserciti dei monaci, pregando giorno e notte, combattevano ininterrottamente la battaglia contro il Male. Questo nuovo modo di interpretare il monachesimo ebbe subito grande successo, e in tutta l’Europa nacquero monasteri che si rifacevano a Cluny e si sottomettevano al suo abate. Di fronte a vescovi e sacerdoti poco preparati e, spesso, più interessati alla gestione dei beni e alla vita politica che non alle questioni religiose, i monaci cluniacensi si proponevano come i campioni del vero cristianesimo. Propugnavano la castità più assoluta, e ritenevano sbagliato il matrimonio dei preti, che in quel tempo era una pratica comune e accettata dalle gerarchie della Chiesa. La propaganda monastica condannò anche il comportamento dei laici: ai principi e ai cavalieri, che governavano con la spada, i monaci ricordavano che chi si sporca le mani di sangue è destinato a bruciare nell’inferno. Solo chi rispettava i monaci e i loro consigli poteva sperare di salvarsi. L’influsso dei monaci crebbe moltissimo, e nell’XI secolo contribuì in modo determinante a quel processo di complessiva riforma della Chiesa che studieremo il prossimo anno.

 Un cavaliere disarcionato precipita all’inferno 1130 ca. Abbazia di Sainte-Foy, Conques, Francia

1. Che rapporto legava i signori ai rappresentanti del clero? 2. Qual era la situazione della Chiesa di Roma? 3. Quale forma di monachesimo proponevano i monaci cluniacensi?

9. Donne e potere

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Regine nel X secolo

Nella storia dei rapporti fra le donne medievali e il potere, il X secolo rappresenta un caso a parte. Prima di allora pochissime donne avevano avuto un’importanza politica; e comunque queste rare eccezioni furono costituite perlopiù da regine che erano potenti non in prima persona, ma per l’influenza che esercitavano sul marito. La stessa cosa si può dire per i secoli del tardo Medioevo. Il X secolo, invece, è ricco di regine e donne dell’aristocrazia che agivano autonomamente sulla scena politica.

Capitolo 21 L’età dei signori

327

Pornocrazia romana [Liutprando di Cremona, Antapodosis, libro II, cap. 48; trad. a cura degli autori]

La

voce

PA SSA TO del

A volte si pensa che il Medioevo sia stato l’età dell’odio per le donne e per la sessualità, ma è una delle tante esagerazioni relative a un’epoca che, in realtà, non fu più misogina e sessuofobica di molte altre. Tipico dell’età medievale è semmai il fatto che la gran parte degli scritti giunti fino a noi furono prodotti da intellettuali ecclesiastici e soprattutto da monaci, cioè da un ambiente che in effetti nutriva la massima ostilità contro il sesso e le donne. Le nostre conoscenze di molti eventi politici del tempo dipendono dunque da scrittori ossessionati dalla visione del sesso come peccato e delle donne come esseri tentatori, che con le loro arti di seduzione portano gli uomini all’inferno. Quest’ambiente attaccò con violenza il potere raggiunto da alcune donne del X secolo. Per monaci e alti ecclesiastici non vi erano dubbi: il successo politico era dovuto solo al sesso. Era una tecnica di denigrazione delle donne potenti già praticata tante volte in passato, a partire dagli scritti su Messalina, Poppea e altre donne delle famiglie imperiali prodotti dagli storici romani favorevoli al senato. La cosa grave è che gli storici moderni, anche loro maschi e sotto sotto misogini, fino a qualche tempo fa hanno creduto a tutte le falsità di questi denigratori. Pensarono che davvero la vita politica romana del X secolo fosse tutta determinata dalla facilità con cui Teodora, Marozia e altre donne potenti usavano il proprio corpo per guadagnare sostenitori, e coniarono un termine specifico, “pornocrazia”, cioè ‘governo delle prostitute’, per designare il sistema politico romano del tempo. Diedero così pieno credito a racconti del tutto inverosimili come quello qui riportato, scritto verso il 960 dal vescovo Liutprando di Cremona per denigrare Roma e la sua politica, del quale era un grande avversario. Teodora, impudente puttana, nonna dell’Alberico che da poco [954] è passato di vita, teneva la monarchia della città di Roma con energia da uomo (cosa che è vergognosissima solo da dire). Ella ebbe due figlie, Marozia e Teodora, non solo a lei pari, ma anche più pronte all’esercizio di Venere. Commettendo con papa Sergio III un orribile adulterio, Marozia generò Giovanni XI, che dopo la morte di papa Giovanni X occupò il trono pontificio. Dal marito Alberico di Spoleto ebbe Alberico da poco morto, che si appropriò

Parte IX Verso una nuova Europa



La Grande prostituta sulla bestia a sette teste 1000 ca. Dal Codex Beatus, Archivio Capitolare, Seus d’Urgell, Spagna Gli autori cristiani utilizzarono spesso in chiave allegorica la figura femminile per rappresentare il peccato, la tentazione, il pericolo. In questa miniatura, tratta da uno dei molti manoscritti dei Commentari dell’Apocalisse del monaco Beatus di Liébana, ad assumere le sembianze di donna è la città del male (la Babilonia dell’Apocalisse), raffigurata nelle vesti della “Grande prostituta” a cavallo di una creatura mostruosa e adornata di oro e pietre preziose. La mano regge la coppa che contiene tutte le nefandezze del mondo.



La Lussuria che danza X sec. Dalla Psicomachia, British Museum, Londra Il disegno tracciato su questo manoscritto (una copia illustrata della Psicomachia di Prudenzio, autore cristiano del IV secolo) raffigura la danza della Lussuria e i cavalieri che, per seguirla, hanno abbandonato le armi.

ingiustamente del principato della medesima città di Roma. Quanto a Teodora, meretrice svergognata, essa conobbe Giovanni, ministro della Chiesa di Bologna, e arse violentemente per la bellezza del suo aspetto, sì che non solo volle, ma anche spinse più volte costui a fornicare con lei. [Fatto nominare Giovanni arcivescovo di Ravenna,] Teodora, per non godere troppo di rado degli amplessi del suo amante a causa delle duecento miglia che separano Ravenna da Roma, lo costrinse ad abbandonare l’arcivescovato e a usurpare (oh, infamia!) il sommo pontificato romano [con il titolo di papa Giovanni X].

 Diploma di matrimonio dell’imperatrice Teofano 972 Niedersächsisches Staatsarchiv, Wolfenbüttel, Germania Il certificato di matrimonio tra Ottone II e la principessa greca Teofano attesta, oltre alla lista dei doni, che alla sposa fu conferito il titolo di imperatrice. Il certificato è realizzato su pergamena con caratteri d’oro su sfondo porpora, colore riservato agli imperatori, mentre la cornice è decorata con una teoria di animali stilizzati.

A volte questo era reso possibile dalle grandi donazioni matrimoniali che, soprattutto in Italia, i sovrani elargivano alle loro spose. Per esempio quando nel 938 Adelaide, figlia del re di Borgogna, andò sposa a Lotario II, re d’Italia, ricevette vaste proprietà sparse in tutto il regno; e assieme a questi beni acquisì anche la fedeltà di molti nobili. La conseguenza fu che alla morte di Lotario II, nel 950, chiunque volesse divenire re d’Italia doveva in qualche modo controllare Adelaide. Si rivelò però impossibile imporle scelte estranee ai suoi progetti. Appoggiata dalle sue vaste clientele, la vedova riuscì a resistere alle pressioni di vari pretendenti (uno addirittura la imprigionò in un castello, da cui Adelaide fuggì con l’aiuto dei suoi seguaci). Come secondo marito scelse infine il più potente sovrano del tempo, il re di Germania Ottone I: fu proprio grazie a questo matrimonio che Ottone divenne re anche del regno d’Italia e in seguito imperatore. La forza delle relazioni

Nel X secolo, la presenza di donne potenti non è circoscritta alle famiglie reali, ma riguarda anche le signorie e altre realtà politiche. In questi casi, l’anomala potenza di alcune donne derivava dall’affermarsi di una politica svolta in prevalenza a livello locale, sulla base delle relazioni di clientela e di parentela. Va infatti osservato che in una monarchia o un principato tutta una serie di norme rendono impossibile alle donne un esercizio diretto del potere. La Legge Salica [cfr. cap. 17.7], utilizzata da molti sovrani per stabilire i diritti ereditari, prevedeva per esempio che le donne potessero ereditare solo se erano morti tutti i maschi della famiglia.

Capitolo 21 L’età dei signori

329

Le cose vanno diversamente in una signoria e nelle altre realtà dove la politica non è sottoposta a regole precise, ma si basa sulle relazioni di alleanza e parentela: in questi casi le donne più intraprendenti hanno la possibilità di usare i propri beni, le proprie alleanze e le proprie abilità sociali per crearsi un ampio gruppo di sostenitori. A Roma, per esempio, nei primi decenni del X secolo spicca la figura di Marozia, figlia del più influente aristocratico romano del tempo, Teofilatto, e della nobile Teodora. Sposata più volte con i massimi personaggi della politica italiana, fra cui lo stesso re Ugo di Provenza, Marozia dal 925 fino al 932 divenne la guida del principale partito politico di Roma e infine assunse direttamente il dominio della città con il titolo di senatrice dei Romani. Per spiegare questo potere, e per odio politico, gli avversari dissero che era l’amante di papa Sergio III, la madre di papa Giovanni XI, nonché la mandante dell’assassinio di papa Giovanni X ordinato allo scopo di ottenere l’elezione al papato del suo nuovo amante, Leone VI. Marozia infine fu allontanata dal potere da un suo stesso figlio, Alberico, che valendosi anche delle relazioni di clientela messe in piedi dalla madre governò Roma e controllò il papato fino alla morte, nel 954.

1. In che modo le donazioni matrimoniali potevano accrescere il potere delle donne aristocratiche? 2. Da che cosa derivava la potenza di alcune donne aristocratiche?



Architettura islamica a Saragozza, Spagna IX sec.

10. Alla periferia dell’Europa

I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E

Spagna e Inghilterra

In età carolingia, il cuore d’Europa aveva definitivamente smesso di coincidere con il Mediterraneo e si era spostato più a nord, nelle zone delle odierne Francia e Germania, oltre che nell’Italia centro-settentrionale. In questo capitolo fino ad ora abbiamo parlato soprattutto di queste regioni. Ma cosa accadeva nelle altre parti del continente? Nella Spagna centrale e meridionale fioriva una civiltà avanzata, quella dell’emirato musulmano di Cordova, che proprio nel X secolo toccava il suo apogeo. Lo sviluppo delle produzioni artigianali, delle tecniche agricole, dei sistemi amministrativi e della cultura era qui incomparabilmente superiore a quello di qualsiasi altra regione europea. Passeranno ancora secoli prima che l’Occidente cristiano raggiunga uno sviluppo analogo. Sempre in Spagna, alcuni piccoli Stati cristiani governavano i territori risparmiati dall’occupazione araba. La Catalogna settentrionale, dopo il dominio di Carlo Magno, era passata sotto il governo di una dinastia locale di conti; in Navarra e Asturie v’erano due regni. Alla fine del IX secolo iniziò un lentissimo processo di espansione dei territori cristiani. Nel secolo successivo i conti di Catalogna attaccarono a più riprese l’emirato di Cordova; il re delle Asturie divenne anche re di Leon e conquistò la contea di Castiglia. Dopo il 1000 proprio la Castiglia fu il centro del reame e il fulcro del processo di riconquista cristiana della penisola iberica.

Parte IX Verso una nuova Europa

In Inghilterra fra IX e X secolo il principale problema furono gli attacchi vichinghi provenienti dalla Danimarca. La resistenza venne portata avanti con successo da re Alfredo il Grande, morto nell’899, e dai suoi successori, che riuscirono a cacciare i Danesi e dotarono l’isola di un fitto reticolo di castelli e di una buona flotta. In questo modo i re anglosassoni tennero a bada i Danesi per tutto il X secolo. Europa settentrionale e orientale

In Danimarca e nella penisola scandinava la società vichinga andava nel frattempo cambiando. Il cambiamento era dovuto, in primo luogo, al moltiplicarsi degli attacchi mossi all’Europa cristiana. Le cause che spinsero a questi attacchi vanno cercate all’interno del mondo vichingo. All’inizio del IX secolo l’introduzione delle vele e di solidi scafi aveva permesso alle navi di affrontare il mare aperto. I mercanti vichinghi che così raggiungevano porti lontani si resero conto che spesso le difese erano deboli ed era possibile prendere con la forza i beni, anziché acquistarli. Le scorrerie divennero una moda. Prima di mettersi a fare i contadini nelle fattorie dei loro padri, i giovani scandinavi ansiosi di gloria e di bottino vi dedicavano alcuni anni. Altri vichinghi, poi, decidevano di imbarcarsi e andare a combattere lontano perché non accettavano i cambiamenti che stavano avvenendo in patria: la società scandinava diveniva più diseguale, nasceva l’aristocrazia e si andavano formando alcuni regni, come quelli di Danimarca e Norvegia. Intorno al 965, i loro re divennero cristiani e cercarono di convertire al cristianesimo anche i sudditi. Stati e aristocrazia andavano nascendo anche nell’Europa orientale. Nella pianure della Russia alla fine del IX secolo gruppi di mercanti vichinghi e di popolazioni slave indigene crearono un regno che aveva come capitale Kiev. Anche il mondo degli Slavi che vivevano più ad occidente si trasformava: alle piccole tribù senza grandi differenze interne si andavano sostituendo società più estese, dove nascevano gruppi aristocratici agiati e, presto, anche i primi semplici Stati. I più importanti furono i regni di Polonia e Boemia.



La nave di Oseberg fine VIII sec. Universitetets Oldsaksamling, Oslo, Norvegia La nave scoperta nel tumulo di Oseberg è un esempio della tipica nave vichinga, veloce e potente. Le sue dimensioni ridotte (circa 21 metri) la fanno ritenere più un’imbarcazione per brevi spostamenti che una vera e propria nave da guerra, le cui dimensioni sfioravano i trenta metri.



Il rostro a forma di drago della nave di Oseberg fine VIII sec. Universitetets Oldsaksamling, Oslo, Norvegia

1. Qual era la situazione politica in Spagna tra X e XI secolo? 2. Quali cambiamenti caratterizzarono il mondo scandinavo e l’Europa orientale?

Capitolo 21 L’età dei signori

331

La scoperta dell’America Fra le imprese dei Vichinghi vi sono anche la colonizzazione di una remota regione dell’Artico, la Groenlandia, e la scoperta dell’America. La storia della Groenlandia vichinga inizia nel 985. Una flotta di venticinque navi fece sbarcare allora sulle coste meridionali dell’immensa isola artica un gruppo di coloni, con donne, bambini, animali e attrezzi. Per quattro secoli e mezzo i discendenti di questi pionieri vissero e valorizzarono un ambiente ostile, costruendo una cattedrale, due monasteri, tredici chiese parrocchiali e altre chiese più piccole. Al termine del Medioevo, nel XV secolo, tutto ciò ebbe fine: fattorie e chiese furono abbandonate, e i loro abitanti sparirono nel nulla, inghiottiti dal gelo. Gli storici discutono le cause di questo disastro, attribuendolo al mutamento del clima, agli attacchi degli Eschimesi, a disordini avvenuti all’interno delle colonie, e ad altri fattori ancora. Qui dobbiamo però occuparci dell’inizio di questa storia. A condurre i pionieri nell’Artico fu Erik il Rosso, uno di quei capi vichinghi che, in Norvegia, avevano perso la loro lotta contro la formazione della monarchia. Accusato di violenze e di omicidi, intorno al 980 Erik fu costretto a partire. Si diresse allora verso l’Islanda, che era stata colonizzata dai Norvegesi fra 870 e 930. Ma anche in Islanda gli fu impossibile raggiungere quel potere a cui aspirava. Condannato nel 982 a un esilio di tre anni, si diresse alla ricerca delle isole che pochi anni prima erano state viste da altri islandesi. Scoprì così un territorio immenso, frastagliato di fiordi, e – per la breve estate! – verdeggiante di pascoli: lo chiamò dunque Groenlandia, che vuol dire ‘Terra verde’, e vi condusse dei coloni, che fondarono due insediamenti. Nel principale, gli archeologi hanno contato le rovine di 444 case e fattorie. Fu da questa base che qualche anno prima del 1000 partirono verso occidente due figli di Erik il Rosso, prima Leif e poi Thorvall. Con una nave carica anche di

animali e donne in modo da potere eventualmente fondare una colonia, navigarono per circa tremila chilometri, fino a giungere in Terranova, nel Canada settentrionale. Leif decise di chiamare quella terra in base alla sua principale risorsa: Markland, cioè ‘Terra delle foreste’. Qui costruirono una base dove soggiornare durante l’inverno, e da cui esplorarono la costa americana verso sud, spingendosi fino alla Nuova Scozia. In questa regione dal clima meno rigido trovarono piante di uva selvatica: così battezzarono i nuovi territori Vinland, ‘Terra del Vino’. Per chi veniva dall’Artico, l’America settentrionale era una terra ricchissima di risorse naturali, un vero paradiso. Altre quattro spedizioni si succedettero negli anni successivi, di solito con una nave sola e venti-trenta membri, in un caso con due o tre navi e almeno una sessantina di uomini e donne. Una volta gli esploratori si fermarono tre anni consecutivi. Ma dopo dieci anni di esplorazioni i Vichinghi dovettero rinunciare alla fondazione di una nuova colonia, perché gli indigeni americani erano troppo numerosi e aggressivi. Nei secoli seguenti nessuno viaggiò più verso l’America. Le antiche saghe continuarono a raccontare la scoperta del Vinland, ma si pensava fossero invenzioni. Le cose cambiarono soltanto nel 1960, quando un esploratore norvegese dichiarò di avere scoperto i resti di un insediamento vichingo ad Anse-aux-Meadows, sulla costa della Terranova. Gli storici accolsero con scetticismo la notizia, ma diedero inizio alle indagini. Dieci anni di scavi archeologici hanno in effetti accertato che si trattava davvero di una dalle basi stabilite intorno al 1000 dagli esploratori vichinghi. Era costituita da otto edifici: abitazioni, magazzini per i preziosi beni raccolti nel nuovo territorio, e officine per riparare navi e attrezzi. Il merito di avere scoperto (e dimenticato) l’America spetta davvero ai Vichinghi.

G R O E N L A N D I A

Esplorazioni e colonie di Erik il Rosso e dei suoi figli

Colonie vichinghe

ISLANDA

ND LA

RK MA

Anse-aux-Meadows

VINLAND

Rovine di costruzione  vichinga del cosiddetto insediamento orientale, fondato da Erik il Rosso Brattahlid, Groenlandia © Werner Forman/Corbis

332

Parte IX Verso una nuova Europa

cittadinanza Gli ebrei da tollerati a perseguitati

Durante l’Età tardo antica e il Medioevo comunità ebraiche erano presenti in gran parte d’Europa, dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente. La loro presenza era nata con la “diaspora ebraica”, il nome dato dagli stessi ebrei alla diffusione della popolazione ebraica nel Mediterraneo e in altre zone. La diaspora è un fenomeno di origine remota. Iniziata già nel VI secolo a.C. (ne abbiamo parlato: cfr. vol. 1, cap. 9.6), si accentuò molto a causa delle dure repressioni romane contro le ribellioni ebraiche avvenute tra il 66 e il 73 e in seguito tra il 132 e il 135, che portarono alla distruzione del tempio di Salomone e alla trasformazione di Gerusalemme in una colonia romana dove ai Giudei era vietato entrare. La situazione degli ebrei era nettamente migliore nei territori conquistati dagli Arabi. Gli Stati musulmani accettavano l’esistenza di sudditi cristiani ed ebrei, richiedendo loro solo il pagamento di tasse speciali. Secondo l’islam, cristiani ed ebrei adoravano il giusto Dio, pur se credevano in testi sacri corrotti o sbagliati. Nelle città spagnole, egiziane e del Vicino Oriente le comunità ebraiche furono dunque molto floride e non subirono attacchi. La sola eccezione fu costituita dalle persecuzioni intraprese nel XII secolo dai califfi della Spagna. Negli Stati cristiani la posizione delle comunità ebraiche era più difficile. Un ebreo insegna la propria lingua La religione cristiana avea san Girolamo va verso gli ebrei un at846 teggiamento doppio. DaMiniatura su pergamena, Bibbia di Carlo il Calvo; Bibliothèque Nationale de France, gli ebrei i cristiani avevaParigi no ricevuto la Bibbia; eppure essi erano colpevoli di avere respinto e messo a morte Cristo. Secondo la dottrina elaborata fra IV e V secolo da sant’Agostino, gli ebrei erano come servi destinati a portare i libri del padrone senza capirli, o come fratelli maggiori obbligati per la loro ignoranza a servire i fratelli minori, i cristiani. Essi non facevano parte della società cristiana, ma la loro presenza poteva venire tollerata. Fino al X secolo verso le comunità ebraiche prevalse appunto la tolleranza. Solo in Spagna nel VII secolo i re visigoti emanarono alcune leggi antiebraiche. Certo, ovunque gli ebrei venivano spesso guardati con diffidenza in quanto diversi per fede e riti, e naturalmente era loro vietato cer-

care di convertire i cristiani. Ma di solito le relazioni con i cristiani erano buone, tanto più che gli ebrei partecipavano in modo libero e attivo alla vita economica. Possedevano case e campi, erano esperti in lavori artigianali di pregio come l’oreficeria e la lavorazione del vetro, e praticavano commerci. Nell’alto Medioevo (dal V al X secolo circa) una parte consistente dei traffici a lunga distanza fra Oriente e Occidente era in mano a mercanti ebrei, che rispetto a quelli cristiani avevano l’enorme vantaggio di potere contare sull’appoggio delle comunità ebraiche presenti nei territori musulmani della Spagna e delle coste meridionali del Mediterraneo. Un mercante ebreo poteva viaggiare senza problemi nei territori cristiani come in quelli musulmani; e poteva anche fare affari con i correligionari lontani, chiedendo loro di spedirgli le merci. In Egitto si conservano lettere di mercanti ebrei spagnoli e siciliani che ordinavano beni di ogni tipo ai colleghi delle comunità ebraiche locali. Intorno al Mille le cose iniziarono a cambiare. Per la prima volta in alcune città e villaggi avvennero violenze contro le comunità ebraiche. Da allora gli attacchi agli ebrei hanno tristemente caratterizzato, per secoli, la storia d’Europa: pogrom, ‘devastazione’, è la parola di origine russa con cui vengono chiamati questi attacchi. Alla fine della tolleranza contribuirono molto le crociate cristiane del 10961099 e del secolo successivo. I crociati che si preparavano a partire pensavano che non avesse senso andare a combattere in Oriente gli “infedeli” musulmani quando nello stesso mondo cristiano vivevano altri nemici della vera fede, discendenti di chi aveva crocifisso Cristo. Mercanti ebrei  sec. Attraversando la Germa- XIII nia e l’Europa orientale Da Cantigas de Santa Maria, ms. T.I.1. f. per raggiungere la Terra 39r; Biblioteca del Real Monasterio, Santa massacrarono cen- Escorial, Madrid tinaia di ebrei che rifiuta- In questa miniatura i due mercanti sono raffigurati con marcati tratti somatici (il naso vano di battezzarsi seduta aquilino) mentre contano le loro ricchezze. stante; altri ebrei si suici- Nel XIII secolo molti sovrani europei cominciarono a imporre agli ebrei particolari darono pur di evitare la contrassegni, come il cappello giallo a punta raffigurato nella miniatura. La stella di conversione. sui tendaggi è un altro riconoscibile Questi attacchi per fortu- Davide simbolo ebraico. Più difficile è spiegare il na restarono episodici. I simbolo della svastica, che oggi ci appare per la sua associazione col sovrani e i vescovi inter- stridente nazismo, ma che nell’arte medievale vennero a difendere le co- compare a volte anche in contesti cristiani.

Capitolo 21 L’età dei signori

333

cittadinanza munità ebraiche, e anche la maggioranza della popolazione manteneva buone relazioni con i vicini ebrei. Tuttavia l’epoca della tolleranza era finita. Contro gli ebrei venivano mosse false accuse, come quella di profanare l’ostia o di uccidere bambini cristiani nel corso di immondi riti segreti. La Chiesa, temendo che gli ebrei potessero in qualche modo contaminare i cristiani, nel 1215 impose loro di portare cucito sull’abito un cerchio di panno giallo come chiaro segno di riconoscimento. A chi era di fede ebraica fu vietato possedere terre e case in proprietà e di praticare una serie di mestieri; gli ebrei si specializzarono allora nel prestito a interesse, un’attività che la Chiesa vietava ai cristiani nel timore che potessero commettere il peccato di usura. Il prestito ebraico era molto utile all’economia, ma suscitava il rancore di quanti dovevano restituire il denaro e l’accusa di arricchirsi succhiando il sangue dei cristiani. L’odio per i prestatori si stendeva a tutta il resto della popolazione ebraica, che viveva di solito in povertà. A partire dalla fine del XIII secolo alcuni sovrani ordinarono l’espulsione degli ebrei dai loro domìni; in altre regioni era loro permesso restare, ma a patto di vivere in ghetti, cioè in quartieri separati dai quali era vietato uscire dopo il tramonto. L’odio cresceva, stimolato molto da alcuni predicatori, e ogni tanto accadevano gravi violenze. Andava mutando nel frattempo la natura di quest’odio: l’ostilità antiebraica all’inizio aveva un’origine religiosa, e infatti le vittime dei pogrom potevano salvarsi con la conversione; ma dal XV-XVI secolo l’odio divenne di tipo razziale, diretto contro gli ebrei in quanto popolo: un popolo descritto come avido, attaccato al denaro, infido, tarato dall’orrendo crimine del deicidio che portava nel sangue. Nel XVI secolo quasi tutti gli ebrei erano ormai stati cacciati da Spagna, Francia, Inghilterra e Italia meridionale. Molte comunità si erano trasferite in Europa orientale e centrale, oppure nell‘Italia centro-settentrionale. Tuttavia nel corso del XVII-XVIII secolo l’ostilità antiebraica diminuì molto, permettendo agli ebrei di ritornare numerosi in Francia e Inghilterra. Sempre più si apprezzava il loro dinamismo economico e l’elevata cultura media. Alcuni intellettuali ebraici presero parte al rinnovamento culturale e politico dell’Illuminismo. Per influsso proprio del pensiero illuminista e della Rivoluzione francese, alla fine del XVIII secolo nell’Europa occidentale iniziò la fase dell’emancipazione, cioè la fine dello stato di segregazione e asservimento in cui gli ebrei erano vissuti fino ad allora. Nei nuovi Stati nazionali agli ebrei era chiesto di essere cittadini e patrioti come gli altri, integrandosi al resto della popolazione. Durante la prima metà del XIX secolo i ghetti vennero aboliti, le limitazioni rimosse. L’odio antiebraico restò invece forte in Europa orientale, a causa della generale arretratezza culturale ed economica e della presenza di una popolazione ebraica molto numerosa e povera. Qui l’epoca dei pogrom più violenti iniziò proprio durante quella che a Occidente fu la fase dell’emancipazione. Alla fine del XIX secolo in Occidente gli ebrei si erano ormai pienamente integrati. L’antisemitismo (appunto l’ostilità preconcetta verso gli ebrei) restava però presente in alcuni partiti politici e nella Chiesa cattolica. Era un antisemitismo non esclusivamente di tipo religioso, ma basato sull’idea di

334

Parte IX Verso una nuova Europa

un’inferiorità etnica del popolo ebraico e fomentato dall’invidia per il benessere raggiunto da molte famiglie ebraiche di banchieri, industriali, liberi professionisti e uomini politici. Cresceva, inoltre, il numero di quelli che consideravano con sospetto il movimento politico sionista volto a creare uno Stato-nazione destinato agli ebrei. Gli antisemiti immaginavano supposti complotti ebraici per conquistare il potere sul mondo intero, o comunque per condizionare occultamente la vita delle nazioni. Leggendo oggi i loro scritti antiebraici, così pieni di evidenti assurdità e invenzioni, potremmo sorridere: ma non lo facciamo, perché sappiamo che proprio di queste farneticazioni si è nutrito il più feroce regime antisemita di tutti i tempi, quello nazista di Adolf Hitler. Salito al potere in Germania nel 1933, il nazismo colpì gli ebrei con leggi sempre più dure, persecuzioni e massacri, culminati con la sistematica uccisione di milioni di ebrei di tutta Europa avvenuta fra 1942 e 1945: un orribile sterminio che chiamiamo shoah, parola ebraica che significa ‘catastrofe, tempesta devastante’. Anche il governo dell’Italia fascista, alleato dei nazisti, ha partecipato a questa immane tragedia, dapprima emanando nel 1938 dure leggi contro i cittadini ebrei e poi, dal 1943, contribuendo alla loro cattura e al loro trasferimento nei campi di sterminio organizzati dai tedeschi. Dopo la shoah essere antisemita è divenuto ancor più inammissibile. A prima vista evitare l’antisemitismo sembra oggi una cosa facile, visto che viviamo in un mondo che sempre più conosce il mescolarsi dei popoli. Invece le cose sono più complicate perché dal 1948 gli ebrei hanno uno Stato, Israele, nato da sacrifici, circondato da pericoli e causa esso stesso di grandi sofferenze per la popolazione palestinese, che da secoli viveva nel territorio divenuto allora israeliano. Di conseguenza c’è sempre il pericolo di passare dalla critica alla politica del governo israeliano e di quanti lo appoggiano, che è una critica del tutto legittima, a un sentimento di ostilità verso gli ebrei in quanto tali, che invece è inaccettabile antisemitismo. A volte l’accusa di antisemitismo è mossa, del tutto a sproposito, contro chi attacca le scelte dei politici israeliani. Ma il rischio di cadere nell’antisemitismo quando critichiamo Israele, lo Stato degli ebrei, è reale: dunque occorre sempre vigilare affinché mai, mascherati da critica politica, riaffiorino i pregiudizi e i sentimenti antiebraici che così profondamente sono radicati nella storia dell’Europa cristiana.



Un gruppo di deportati del campo di concentramento di Buchenwald, in Germania Buchenwald, località della Turingia, in Germania

SINTESI 1. Divisioni all’interno e incursioni dall’esterno I contrasti di successione che sconvolsero il mondo carolingio tra IX e X secolo sprofondarono l’impero in una grave crisi politica che lasciò le frontiere indebolite di fronte alle invasioni straniere. Da sud si intensificarono le incursioni e i saccheggi dei Saraceni, che presto portarono allo spopolamento di molte campagne vicine al mare, mentre da est la minaccia era rappresentata dagli Ungari. Le scorrerie di questi popoli proseguirono fino alla metà del X secolo. Da nord, invece, cominciarono le incursioni dei Normanni, o Vichinghi, che raggiunsero gran parte dell’Europa settentrionale e si spinsero anche fino al Mar Nero e al Mediterraneo. I Normanni si stanziarono stabilmente in un’area della Francia settentrionale, che da loro prese il nome di Normandia.

2. Il potere si frammenta Sin dai tempi degli ultimi imperatori carolingi i conti e i marchesi spingevano per ottenere dall’imperatore l’ereditarietà delle proprie cariche. Gradualmente, tra IX e X secolo l’ereditarietà divenne una pratica generale e i conti si resero sempre più indipendenti dal potere dei sovrani, trasformandosi in signori autonomi. Con il tempo nacquero molte altre signorie non solo a opera di nobili, ma anche di istituzioni ecclesiastiche, che ottenevano dai sovrani il cosiddetto privilegio di immunità. Tra il X e l’XI secolo la signoria comparve in quasi tutta l’Europa.

3. La signoria Le signorie rappresentarono dei piccoli Stati in proprietà privata. I signori estendevano il proprio dominio su tutti gli abitanti e svolgevano le funzioni basilari normalmente affidate allo Stato. Il signore, infatti, curava la difesa militare e dell’ordine sociale, aveva la facoltà di giudicare e riscuoteva le imposte. Formalmente era sottoposto all’autorità del sovrano, ma in realtà non rendeva conto a nessuno della gestione dei propri domìni, che concepiva come una proprietà privata.

4. Gli Stati postcarolingi e l’impero degli Ottoni Nel regno dei Franchi occidentali e nel regno d’Italia il potere dei re si indeboliva sempre di più. In Francia i conti e i marchesi si comportavano come principi autonomi, mentre in Italia cresceva il potere dei nobili e delle città. In Germania, invece, i re continuavano a gestire una certa potenza militare. Grazie a questa potenza la dinastia ottoniana poté avere la meglio sugli Ungari, estendere il proprio dominio sull’Italia e far incoronare imperatori i suoi membri. Gli imperatori ottoniani concepirono l’ambizioso progetto di ricreare l’impero carolingio, difendere la Chiesa e migliorarne i costumi. In realtà, dominarono su un territorio ridotto e si scontrarono con la necessità di ricorrere ai poteri locali per gestire i loro domìni. Tanto in Italia quanto in Germania il potere imperiale si limitò, quindi, a coordinare i poteri di conti, nobili e vescovi cittadini.

5. Il castello, centro di potere Il simbolo più evocativo dell’epoca medievale è il castello, e infatti dal X secolo l’Occidente si ricoprì di castelli e fortificazioni. La fine dell’impero carolingio aveva portato confusione, violenza e incursioni esterne, e si rese necessario organizzare la difesa del territorio. Il castello, pur con tutte le differenze nell’aspetto materiale, non solo soddisfaceva questa necessità, ma accresceva il potere dei proprietari, che, pur senza discendere da una famiglia di conti, acquisivano i poteri di governo locale peculiari della signoria.

6. Nobili e cavalieri L’uso delle armi divenne un privilegio riservato a una ristretta élite guerriera, formata dai signori e dai loro cavalieri, che appartenevano tutti al ceto aristocratico. Si accrebbe il numero delle clientele militari, che servivano principalmente a dimostrare la propria forza ai proprietari dei castelli vicini e a poter meglio dominare e opprimere i contadini. I nobili mostravano una totale adesione allo stile di vita dei cavalieri, fatto di violenza, gusto per la razzia e per la sopraffazione.

7. Ingabbiare i contadini Le comunità di contadini indipendenti furono gradualmente costrette ad accettare il dominio di un signore e a cedere la proprietà delle terre. Nel tempo, inoltre, le distinzioni tra contadini liberi e contadini non liberi si assottigliò fino a scomparire. A causa di una maggiore richiesta di prodotti da parte dei signori, i ritmi lavorativi aumentarono, così come la produzione. A tal fine fu introdotta la rotazione triennale. A fronte di un generale peggioramento delle condizioni di vita dei contadini, però, l’aumento della domanda di prodotti di pregio e di lusso da parte dei più ricchi diede impulso al commercio e all’artigianato, alimentando quel processo di ripresa economica cominciato nell’VIII secolo.

8. Papato, chiese e monasteri nell’età dei signori La crisi del potere imperiale provocò una crisi culturale e morale delle istituzioni ecclesiastiche. I poteri laici cominciarono a intervenire direttamente nella gestione dei beni ecclesiastici e nelle nomine di chierici, vescovi e abati, mentre il clero tutto si interessa-

Capitolo 21 L’età dei signori

335

va di affari materiali, piuttosto che di questioni spirituali. Stessa situazione si viveva al vertice della Chiesa occidentale, a Roma, dove il papato era fortemente condizionato dalla potente aristocrazia romana. I monaci cluniacensi – dal monastero francese di Cluny – riformarono la vita monastica e proposero una generale moralizzazione dei costumi ecclesiastici e aristocratici. Il modello cluniacense ebbe molto successo e in tutta Europa apparvero monasteri che si rifacevano a Cluny e si sottomettevano al suo abate.

9. Donne e potere A differenza di altri periodi storici, nel X secolo si possono trovare molte donne ai vertici del potere. A volte, questo era possibile grazie alle donazioni che venivano fatte nei matrimoni reali. Ma l’accesso al potere non era riservato solo alle donne di stirpe reale. L’affermarsi di una politica svolta in prevalenza a livello locale e basata su relazioni di clientela e parentela spiega l’anomala potenza raggiunta da alcune donne di provenienza anche nobile e aristocratica.

10. Alla periferia dell’Europa In età carolingia il cuore dell’Europa si era spostato nella zona centro-settentrionale del continente. Nella Spagna centro-meridionale fioriva l’emirato musulmano di Cordova, mentre a nord della penisola iberica si erano formati alcuni piccoli Stati cristiani, che, dal X secolo, riuscirono a strappare ampie porzioni di territorio agli Arabi. In Inghilterra, invece, i re anglosassoni riuscirono ad arginare gli attacchi dei Vichinghi provenienti dalla Danimarca. Anche il mondo scandinavo cominciava a trasformarsi e la sua società a stratificarsi. In Danimarca e in Norvegia nacquero due nuovi regni. Un fenomeno analogo contraddistinse le aree dell’Europa orientale, dove cominciò a formarsi un’aristocrazia slava e nacquero entità statali importanti come il regno di Kiev e i regni di Polonia e di Boemia.

ESERCIZI Gli eventi 1. Completa la frase con l’espressione che ritieni corretta: 1) Nel regno dei Franchi occidentali...

2) Il signore comandava...

❏ a) il re continuava a ricevere l’aiuto militare da tutti gli uomini liberi;

❏ a) solo su chi coltivava le sue terre;

❏ b) cresceva costantemente il potere e l’autonomia delle città;

❏ b) su tutti gli abitanti della signoria;

❏ c) si affermò un sistema di potere fortemente accentrato;

❏ c) solo sui cavalieri del suo seguito;

❏ d) conti e marchesi riconoscevano solo formalmente il potere del re.

❏ d) solo sui contadini non liberi. 4) Ottone I...

3) Il Privilegium Ottonianum... ❏ a) sanciva definitivamente l’ereditarietà dei titoli nobiliari;

❏ a) sconfisse i Vichinghi nella battaglia di Lechfeld;

❏ b) imponeva la conferma imperiale prima della consacrazione di un papa;

❏ b) iniziò la nuova dinastia dei Capetingi;

❏ c) riaffermava i diritti della corona tedesca sull’Italia;

❏ d) scacciò definitivamente i Bizantini dall’Italia meridionale.

❏ d) riportava sotto il controllo diretto della corona le terre dell’impero.

❏ c) cercò di ripristinare l’impero carolingio;

6) I contadini indipendenti... 5) Nel corso del X secolo i Vichinghi... ❏ a) strapparono l’Inghilterra agli anglosassoni; ❏ b) si stabilirono sulle coste settentrionali della Spagna; ❏ c) fondarono i regni di Polonia e di Boemia; ❏ d) cominciarono a convertirsi al cristianesimo.

336

Parte IX Verso una nuova Europa

❏ a) erano la colonna portante della società; ❏ b) iniziarono ad usare manodopera schiavile; ❏ c) dovettero accettare il dominio di un signore; ❏ d) videro migliorare le proprie condizioni di vita.

2. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette: ❏ a) A causa delle incursioni dei Saraceni molti villaggi furono abbandonati e molte campagne rimasero incolte. ❏ b) L’amministrazione della giustizia rappresentava per i signori un’ottima fonte di guadagno. ❏ c) Il capitolare di Quierzy concedeva definitivamente ai conti l’ereditarietà della carica. ❏ d) L’imperatore Ottone I si avvalse della collaborazione delle autorità ecclesiastiche per gestire l’impero. ❏ e) Per resistere agli attacchi esterni i sovrani fecero costruire una rete di castelli e fortificazioni che gestivano direttamente. ❏ f) Per entrare a far parte della élite guerriera bastava essere un uomo libero e possedere un armamento minimo. ❏ g) La ricchezza di cui disponevano i ceti più alti diede impulso all’artigianato specializzato e al commercio. ❏ h) Tra X e XI secolo la Chiesa conobbe un periodo di rinascita culturale e morale che le permise di riaffermare la propria autorità sulle istituzioni laiche. ❏ i) Nel X secolo gli Arabi riuscirono a conquistare i piccoli regni cristiani nati dalla frammentazione dell’impero nella Spagna settentrionale. ❏ j) A partire dal X secolo in Europa orientale si assistette alla nascita di un’aristocrazia e dei primi regni slavi.

Il confronto 3. Seguendo l’esempio fornito, indica con una crocetta a quale dei seguenti popoli corrispondono le informazioni elencate (attenzione! Alcune affermazioni possono valere per più di un popolo): Saraceni Crearono delle basi stabili nei territori da saccheggiare.

Ungari

Vichinghi

x

Si stabilirono nell’antica provincia romana della Pannonia. Erano originari della Scandinavia. Nell’846 riuscirono a saccheggiare la basilica di San Pietro in Vaticano. Si convertirono al cristianesimo. Furono sconfitti dall’imperatore Ottone I nella battaglia di Lechfeld. Le loro scorrerie avvenivano soprattutto via mare. Furono saltuariamente ingaggiati come mercenari nei conflitti interni. Si insediarono stabilmente sulle coste francesi della Manica. Un gruppo di loro mercanti e di popolazioni slave diede vita al regno di Kiev.

L’elaborazione scritta 4. Descrivi la struttura e il funzionamento della signoria in un breve testo scritto (max 30 righe), seguendo gli argomenti elencati nella seguente scaletta: a) L’ereditarietà della carica e la progressiva autonomia dal potere centrale; b) La nascita dei castelli e la loro funzione pratica e simbolica; c) Le funzioni del signore: 1) la difesa militare, 2) l’amministrazione della giustizia, 3) la riscossione delle imposte; d) Il rapporto tra il signore e il re e i grandi principi.

Capitolo 21 L’età dei signori

337

L’esposizione orale 5. Rispondi alle seguenti domande: 1) Qual era il progetto politico portato avanti dagli imperatori della dinastia ottoniana? Che esiti ebbe? 2) In che modo cambiò la natura delle clientele militari? Quali valori esprimeva il mondo della cavalleria? 3) Come cambiò la condizione dei contadini indipendenti con l’affermarsi della signoria? 4) Quali fattori determinarono il processo di ripresa economica che caratterizzò il X secolo? 5) Quali fattori determinarono la crisi culturale e morale delle istituzioni ecclesiastiche? Chi si fece carico di un tentativo di moralizzazione della Chiesa? 6) Che ruolo svolgevano le donne nella società dell’epoca postcarolingia?

Discutere la storia 6. Scegli quale dei seguenti schemi rappresenta meglio la struttura della società del X secolo, quindi motiva la tua scelta in un breve testo scritto (max 15 righe):

PIRAMIDALE

338

CENTRALIZZATA

Parte IX Verso una nuova Europa

RETICOLARE

geoSTORIA

I diritti umani

‘‘

’’

La tutela dei diritti umani è il presupposto necessario alla pace (Gandhi)

Perché I diritti umani: un diritto da quando? Il primo passo da compiere per far girare il mondo nel giusto modo, arginando ingiustizie, divari e squilibri di ogni sorta è permettere che tutti gli esseri umani vivano in uno stato di libertà, giustizia, uguaglianza e pace. Agli uomini infatti si riconosce il diritto di vivere liberi e condurre un’esistenza dignitosa, a prescindere dalla etnia di appartenenza, dalla lingua che parlano, dalla religione in cui credono, dall’età che hanno, dalla regione geografica da cui provengono, dal loro sesso. Sulla base di questi princìpi imprescindibili si fonda l’idea di diritto umano. I diritti umani sono: naturali perché ognuno di noi li acquisisce con la nascita e non li può ottenere per denaro, concessione o eredità; universali in quanto uguali per tutti senza alcuna distinzione; indivisibili perché la violazione di uno comporta la compromissione di tutti gli altri; inalienabili perché appartengono al singolo e nessuno mai può negarli. Perché poi sia così importante affermare questi semplici princìpi e definirli come “diritti umani” è presto detto. Costantemente, nella storia, sono state compiute ingiustizie, inflitte vessazioni, torture, negazioni, sottrazioni di libertà, pene e condanne sproporzionate, e spesso da parte dei più forti nei confronti dei più deboli; è capitato che gli squilibri economici fossero tali – un po’ come ancora oggi accade – da creare fratture tra le classi sociali, e far scoppiare guerre e rivoluzioni contro disparità e soprusi; si sono ripetuti, e si ripetono ancora, episodi di isolamento ed emarginazione ai danni di uomini e donne dalla pelle di diverso colore, o che professano religioni differenti, affetti da malattie o disabilità, o ancora di diverso orientamento sessuale; oppure episodi di violenza sulle donne da parte di uomini, o ancora di sfruttamento nei confronti dei bambini. L’affermazione dei diritti umani non è stata, insomma, cosa facile nel corso della storia. Governi tiranni, sovrani prepotenti, mentalità diffuse che legittimavano discriminazioni e sopraffazioni hanno a lungo prevalso sul pensiero che la dignità e la libertà fossero un diritto innegabile per qualunque essere umano. Solo verso la fine del 1700 iniziano a circolare idee nuove, quando due grandi rivoluzioni (quella americana e quella francese), scoppiate come rivolte contro regimi vessatori e ingiusti, segnano in mo-

340

geoSTORIA

do indelebile la storia, non solo per la portata degli eventi, ma anche e soprattutto per alcune dichiarazioni, in cui compare il concetto di “diritto del cittadino”: è la prima volta che ciò accade in un atto ufficiale e istituzionale. In particolare, è nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, redatta in Francia nel 1789, che si scrive un importante pezzo della storia dell’uomo, sancendo l’idea di cittadinanza, come oggi la intendiamo: lo Stato garantisce ai suoi cittadini il rispetto di uguali diritti e ne punisce la violazione. E oggi? Dal momento della prima dichiarazione del 1789 ad oggi sono stati compiuti, in materia di tutela dei diritti umani, passi da gigante. Molto si deve a una decisione fondamentale, presa alla conclusione della Seconda guerra mondiale, rivelatasi poi propizia per il mondo intero. È il 1945, e lo scempio di vite provocato da questo conflitto come pure da quello immediatamente precedente (la Prima guerra mondiale) ha proporzioni enormi. Troppo grande per passare inosservato, troppo grave per permettere che si ripeta. Occorre, dunque, trovare una soluzione che garantisca la pace e la gestione delle forze in campo in modo attento e oculato, impedendo che gli Stati facciano ricorso con facilità alle proprie risorse militari. Nasce l’Onu, Organizzazione delle Nazioni Unite, un consesso di Stati che insieme e in modo democratico si pone l’obiettivo di lavorare nell’ottica della tutela della pace, accanto a tutti i paesi del mondo. All’inizio, il 24 ottobre del 1945, a firmarne lo statuto sono 51 Stati, ma gradualmente entrano a far parte dell’organismo internazionale molti altri paesi; oggi all’Onu aderiscono quasi tutti i paesi del mondo (193 su 201). L’Organizzazione delle Nazioni Unite non ha il potere di emanare le leggi, ma è un organo di controllo deputato al «mantenimento della pace e della sicurezza internazionale», alla tutela dei diritti umani, all’agevolazione di una cooperazione economica e sociale e di relazioni amichevoli tra i paesi, alla promozione del disarmo. L’Onu emana dunque direttive, oltre ad agevolare la stipula di trattati: una volta approvati (grazie al voto favorevole almeno del 55% degli Stati membri), i suoi atti entrano in vigore e hanno carattere di obbligo di osservanza. Il 10 dicembre del 1948, l’Onu scrive e approva la Dichiarazione Universale, in cui si riconoscono per la prima volta, a ogni individuo, diritti umani «senza alcuna distinzione per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica, o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di condizione» (art. 2). È il passo fondamentale: da questo momento qualunque diritto umano negato non può passare inosservato; in qualsiasi angolo del pianeta si riscontrino, le negazioni dei diritti umani vengono considerate lesive dell’intera comunità internazionale. Nel 1966 le Nazioni Unite elaborano il Patto internazionale sui diritti civili e politici e quello sui diritti economici, sociali e culturali che sanciscono, con carattere formale, l’obbligo per gli Stati di rispettare i princìpi della Dichiarazione. Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo Adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 Preambolo Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo. Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell’uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godono della libertà di paro-

la e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo. Considerato che è indispensabile che i diritti dell’uomo siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione. Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo dei rapporti amichevoli tra le Nazioni.

I diritti umani

341

I diritti umani Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’eguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un migliore tenore di vita in una maggiore libertà. Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Considerato che una concezione comune di questi diritti e di queste libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni.

Il concetto di personalità giuridica permette di attribuire al singolo individuo diritti e doveri.

Art. 6 Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica.

Art. 7 Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un’eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad un’eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione. Art. 8 Ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibiltà di ricorso a competenti tribunali nazionali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge. Art. 9 Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.

L’Assemblea Generale proclama la presente Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo come ideale da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione. Art. 1 Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Art. 2 1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. 2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità. Art. 3 Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona. Art. 4 Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma. Art. 5 Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti.

342

personalità giuridica

geoSTORIA

Art. 10 Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. Art. 11 1. Ogni individuo accusato di reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie per la sua difesa. 2. Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato perpetrato, non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso. Art. 12 Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni. Art. 13 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese. Art. 14 1. Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni. 2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai princìpi delle Nazioni Unite. Art. 15 1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. 2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.

Art. 16 1. Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento. 2. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi. 3. La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato. Art. 17 1. Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà privata sua personale o in comune con gli altri. 2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà. Art. 18 Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti. Art. 19 Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro. 3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, ad altri mezzi di protezione sociale. 4. Ogni individuo ha il diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi. Art. 24 Ogni individuo ha il diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite. Art. 25 1. Ogni individuo ha il diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. 2. La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.

Art. 21 1. Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio Paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti. 2. Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio Paese. 3. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.

Art. 26 1. Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito. 2. L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace. 3. I genitori hanno diritto di priorità nella scelta di istruzione da impartire ai loro figli.

Art. 22 Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.

Art. 27 1. Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici. 2. Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.

Art. 23 1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione.

Art. 28 Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati.

Art. 20 1. Ogni individuo ha il diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica. 2. Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione.

I diritti umani

343

I diritti umani Art. 29 1. Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità. 2. Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e della libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica.

3. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni Unite. Art. 30 Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati.

Il 20 novembre del 1959, l’Assemblea delle Nazioni Unite stila e approva all’unanimità una Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo. In questo modo aggiunge a quella sui diritti dell’uomo un documento attento e sollecito a garantire la tutela dell’infanzia. Dieci in tutto gli articoli che esprimono i bisogni primari dei bambini e ne sanciscono la sacrosanta inviolabilità. Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo (Onu, 1959) Preambolo Considerato che, nello Statuto, i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo e nella dignità e nel valore della persona umana, e che essi si sono dichiarati decisi a favorire il progresso sociale e a instaurare migliori condizioni di vita in una maggiore libertà. Considerato che, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, le Nazioni Unite hanno proclamato che tutti possono godere di tutti i diritti e di tutte le libertà che vi sono enunciate senza distinzione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di ogni altra opinione, d’origine nazionale o sociale, di condizioni economiche, di nascita o di ogni altra condizione. Considerato che il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali compresa una adeguata protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita. Considerato che la necessità di tale particolare protezione è stata espressa nella Dichiarazione del 1924 sui diritti del fanciullo ed è stata riconosciuta nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo come anche negli statuti degli Istituti specializzati e delle Organizzazioni internazionali che si dedicano al benessere dell’infanzia. Considerato che l’umanità ha il dovere di dare al fanciullo il meglio di sé stessa. L’Assemblea Generale proclama la presente Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, affinché esso abbia una infanzia felice e possa godere, nell’interesse suo e di tutta la società,

344

geoSTORIA

dei diritti e delle libertà che vi sono enunciati; invita i genitori, gli uomini e le donne in quanto singoli, come anche le organizzazioni non governative, le autorità locali e i governi nazionali a riconoscere questi diritti e a fare in modo di assicurare il rispetto per mezzo di provvedimenti legislativi e di altre misure da adottarsi gradualmente in applicazione dei seguenti princìpi: Principio primo Il fanciullo deve godere di tutti i diritti enunciati nella presente Dichiarazione. Questi diritti debbono essere riconosciuti a tutti i fanciulli senza eccezione alcuna, e senza distinzione e discriminazione fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione o opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, le condizioni economiche, la nascita, o ogni altra condizione che si riferisca al fanciullo stesso o alla sua famiglia. Principio secondo Il fanciullo deve beneficiare di una speciale protezione e godere di possibilità e facilitazioni, in base alla legge e ad altri provvedimenti, in modo da essere in grado di crescere sano e normale sul piano fisico, intellettuale, morale, spirituale e sociale in condizioni di libertà e di dignità. Nell’adozione delle leggi rivolte a tal fine la considerazione determinante deve essere del fanciullo. Principio terzo Il fanciullo ha diritto, sin dalla nascita, a un nome e una nazionalità. Principio quarto Il fanciullo deve beneficiare della sicurezza sociale. Deve poter crescere e svilupparsi in modo sano. A tal fine devono essere assicurate, a lui e alla madre le cure mediche e le protezioni sociali adeguate; specialmente nel periodo precedente e seguente alla nascita il fan-

ciullo ha diritto a una alimentazione, a un alloggio, a svaghi e a cure mediche adeguate. Principio quinto Il fanciullo che si trova in una situazione di minoranza fisica, mentale o sociale ha diritto a ricevere il trattamento, l’educazione e le cure speciali di cui esso abbisogna per il suo stato o la sua condizione. Principio sesto Il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità, ha bisogno di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e morale. Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre. La società e i poteri pubblici hanno il dovere di aver cura particolare dei fanciulli senza famiglia o di quelli che non hanno sufficienti mezzi di sussistenza. È desiderabile che alle famiglie numerose siano concessi sussidi statali o altre provvidenze per il mantenimento dei figli. Principio settimo Il fanciullo ha diritto a una educazione, che, almeno a livello elementare deve essere gratuita e obbligatoria. Egli ha diritto a godere di un’educazione che contribuisca alla sua cultura generale e gli consenta, in una situazione di eguaglianza di possibilità, di sviluppare le sue facoltà, il suo giudizio personale e il suo senso di responsabilità morale e sociale, e di divenire un membro utile alla società. Il superiore interesse del

fanciullo deve essere la guida di coloro che hanno la responsabilità della sua educazione e del suo orientamento; tale responsabilità incombe in primo luogo sui propri genitori. Il fanciullo deve avere tutte le possibilità di dedicarsi a giuochi e attività ricreative che devono essere orientate a fini educativi; la società e i poteri pubblici devono fare ogni sforzo per favorire la realizzazione di tale diritto. Principio ottavo In tutte le circostanze, il fanciullo deve essere fra i primi a ricevere protezione e soccorso. Principio nono Il fanciullo deve essere protetto contro ogni forma di negligenza, di crudeltà o di sfruttamento. Egli non deve essere sottoposto a nessuna forma di tratta. Il fanciullo non deve essere inserito nell’attività produttiva prima di aver raggiunto un’età minima adatta. In nessun caso deve essere costretto o autorizzato ad assumere un’occupazione o un impiego che nuocciano alla sua salute o che ostacolino il suo sviluppo fisico, mentale, o morale. Principio decimo Il fanciullo deve essere protetto contro le pratiche che possono portare alla discriminazione razziale, alla discriminazione religiosa e ad ogni altra forma di discriminazione. Deve essere educato in uno spirito di comprensione, di tolleranza, di amicizia fra i popoli, di pace e di fratellanza universale, e nella consapevolezza che deve consacrare le sue energie e la sua intelligenza al servizio dei propri simili.

Nel 1989 seguirà la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, documento con cui l’Assemblea revisiona e amplia la Dichiarazione in 54 articoli. A garantire il rispetto della tutela dei diritti umani oggi contribuiscono, insieme all’Onu, moltissime organizzazioni umanitarie – Amnesty International, Save the Children, Emergency, e altre – che hanno lo scopo di assistere e proteggere le popolazioni in difficoltà, nel caso disgraziato esse siano vittime di eventi catastrofici (carestie, calamità naturali), o vivano in condizioni rovinose (sottosviluppo, analfabetismo, ecc.). Le organizzazioni umanitarie operano in diversi campi, su scala mondiale, e si avvalgono della collaborazione professionale di migliaia di persone. Le questioni sono tante e non semplici da risolvere. Proprio nel 2000, a New York, si è fatto il punto della situazione sulle esigenze prioritarie del pianeta, cercando di individuare le problematiche più gravi cui fare fronte. L’Onu ha firmato la cosiddetta Dichiarazione del Millennio, nella quale sono stati fissati otto Obiettivi di Sviluppo da raggiungere entro il 2015. Tra i più importanti: ridurre la fame, combattere la povertà e debellare le malattie che flagellano in particolare il Sud del mondo. I paesi più ricchi si sono impegnati a contribuire concretamente finanziando gli interventi, ma la forte crisi finanziaria ed economica che si è scatenata a partire dal 2008 e i numerosi conflitti internazionali hanno fatto confluire le risorse altrove, rallentando di parecchio le fasi esecutive di questo ambizioso progetto e compromettendone forse la riuscita complessiva.

I diritti umani

345

I diritti umani OBIETTIVI DI SVILUPPO DEL MILLENNIO Obiettivo

Azioni

Obiettivo

Azioni

Eliminare fame e povertà estrema

Dimezzare il numero di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno.

Migliorare la salute materna

Ridurre di tre quarti il tasso di mortalità materna.

Garantire l’istruzione primaria a tutti

Garantire a tutti i bambini la conclusione della scuola primaria.

Combattere Hiv/Aids e malaria

Fermare la diffusione di malattie come aids e malaria, e di altre gravi malattie infettive.

Garantire pari opportunità tra i sessi

Eliminare le disparità tra i sessi nei cicli di educazione primaria e secondaria, possibilmente entro il 2005, e in tutti i settori entro il 2015.

Assicurare la sostenibilità ambientale

Ridurre la mortalità infantile

Ridurre di due terzi il tasso di mortalità tra bambini con meno di cinque anni.

Sviluppare un’alleanza globale per lo sviluppo

Dimezzare il numero di persone che non hanno accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici. Migliorare, entro il 2020, le condizioni di vita di 100 milioni di persone che vivono nelle baraccopoli. Favorire la cooperazione allo sviluppo tra Nord e Sud. Agevolare la riduzione del debito e l’accesso ai farmaci. Creare decorose condizioni di lavoro per i giovani.

Dove I diritti violati sono tanti, e alcuni sono particolarmente gravi. Vi sono luoghi poi nei quali le violazioni sono più numerose e persistenti, tali da mettere in discussione la sopravvivenza degli individui. Tutto questo nonostante l’impegno di molti Stati, i trattati, le dichiarazioni, le risorse spese e le campagne umanitarie. I luoghi “a maggior violazione di diritti umani” sono perlopiù nelle regioni del sottosviluppo, in particolare nell’Africa subsahariana, nel Sud-est asiatico e in alcune zone dell’America Latina, dove la povertà e la miseria sono tali da mettere in ginocchio la popolazione: la gente non ha casa dove abitare, acqua e cibo di cui nutrirsi, i bambini non vanno a scuola, ma a lavorare come piccoli schiavi per molte ore e pochi spiccioli, le condizioni igieniche sono così precarie da favorire l’attecchimento e la diffusione

346

geoSTORIA

rapida di infezioni e malattie. Le persone che hanno fame, nel mondo, sono all’incirca 1 miliardo e vivono in particolare in Africa. Sono adulti, ma soprattutto bambini, che si ammalano a causa della mancanza quasi totale di cibo, poiché non hanno un’alimentazione adeguata, ma una sottoalimentazione. La loro speranza di vita è bassa (sono destinati cioè a una vita più breve di quelli che vivono nei paesi sviluppati); spesso la fecondità delle donne è compromessa e la mortalità infantile altissima. Nelle aree sottosviluppate proliferano infezioni e malattie, persino alcune che sembravano debellate da tempo come il colera e la tubercolosi. Il virus dell’Hiv/Aids, una piaga per l’umanità, colpisce soprattutto alcune zone dell’Africa subsahariana, dove la concentrazione di malati è particolarmente elavata. Si cerca di intervenire con la prevenzione, ma le cure mediche spesso costano troppo per i paesi sottosviluppati. Anche l’istruzione difetta e l’analfabetismo avanza: l’Asia meridionale sembra essere la più colpita. La poca istruzione genera, come effetto a catena, una grossa difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro e un tasso di disoccupazione altissimo che compromette ulteriormente la condizione disastrosa di aree già così disagiate. Di seguito una serie di mappe, aggiornate al gennaio 2011, che analizzano, in particolare, i tassi di fame, analfabetismo, mortalità infantile, mortalità per Hiv, disoccupazione nel mondo. Più è intenso il colore, più è diffuso il fenomeno preso in esame.

La mappa della fame (morti per denutrizione nel mondo)

nessun dato

[da www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it]

I diritti umani

347

La mappa dell’alfabetizzazione (gli individui scolarizzati nel mondo)

nessun dato

[da www.indexmundi.com]

La mappa della mortalità infantile (morti entro il primo anno d’età in un anno solare

nessun dato

da www.indexmundi.com]

348

geoSTORIA

La mappa dell’Hiv (morti per Aids in un anno solare)

nessun dato

[da www.indexmundi.com]

La mappa della disoccupazione (i disoccupati nel mondo)

nessun dato

[da www.indexmundi.com]

I diritti umani

349

I diritti umani Chi Identikit del diritto umano I diritti umani spesso vengono catalogati in tre gruppi: civili e politici; economici, sociali e culturali; di solidarietà. Quelli civili e politici contemplano i bisogni primari di un individuo come la vita, la libertà, l’essere cittadino, il potersi esprimere senza vincoli, il non essere tenuto in schiavitù e sotto tortura, l’essere messo nelle condizioni di formare una famiglia e partecipare alle vicende del proprio paese. Quelli economici, sociali e culturali sono relativi alla sicurezza sociale, alla possibilità di avere, a parità di impiego, un uguale salario, di avvalersi delle istituzioni sindacali, di mantenere un tenore di vita che sia dignitoso, e di vedere garantita la sicurezza in materia di malattie, invalidità, disabilità, maternità, vecchiaia, disoccupazione. I diritti di solidarietà, infine, sono legati a idee di pace, sviluppo e autodeterminazione, difendono la salute e il principio di salvaguardia dell’ambiente dall’inquinamento provocato dall’uomo. Nonostante il grande impegno del mondo, la difesa dei diritti umani è in più di un caso una battaglia dura e senza speranza. Chi si impegna in questo campo, svolgendo un’azione concreta e meritevole nei confronti dell’intera umanità, sono le organizzazioni governative (Oig), le associazioni non governative (Ong) e singoli individui che hanno fatto della loro vita una missione di pace. Le associazioni governative Le organizzazioni internazionali sono definite “governative” perché ne fanno parte gli Stati. Il massimo esempio è l’Onu, Organizzazione delle Nazioni Unite, che opera per la sicurezza internazionale attraverso interventi diretti, e nello specifico: aiuti di emergenza, in caso di catastrofi naturali – cataclismi, terremoti –, o di crisi economiche e sociali; aiuti ai rifugiati, soccorrendo e sostentando chi è stato espulso dal proprio paese d’origine o è scappato a causa di guerre, povertà, persecuzioni politiche, guerre di religione ed è obbligato a “rifugiarsi” in altri paesi; aiuti alimentari, attraverso l’invio di cibo ai paesi in gravi difficoltà economiche e colpiti da carestie. L’Onu dispone di numerose organizzazioni interne che si occupano ciascuna di una particolare problematica. Tra le più note: Unesco, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura; Fao, Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura; Unicef, Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia. Le associazioni non governative Le associazioni non governative sono gestite da soggetti non riconducibili in alcun modo agli Stati e ai loro governi, ma riconosciute a livello internazionale dai singoli paesi. Operano senza fini di lucro (cioè non per fare profitto) e si pongono diversi obiettivi: garantire agli uomini condizioni di vita sicure, tutelare la vita umana da qualsiasi tipo di abuso (violenza, tortura, sopruso e sopraffazione), proteggere i bambini da qualsiasi atto di violenza o sfruttamento compiuto nei loro confronti, promuovere le donne e abbattere le barriere sociali tra i due sessi, conseguenza dell’emarginazione femminile, preservare il patrimonio storico e ambientale. Le associazioni non governative lavorano su scala planetaria e riescono a finanziare le loro azioni grazie alla rete di solidarietà, estesa oramai a livello mondiale, e alle donazioni. Hanno spesso grandi staff di medici, infermieri, e specialisti in diverse professioni, che a titolo di volontariato svolgono missioni in paesi del sottosviluppo realizzando scuole, ospedali da campo, abitazioni o portando cibo; ma sono attive anche dove ci sono condizioni di grande emergenza a causa di guerre, catastrofi naturali, disagi. Tra le più note: Amnesty International, Save the Children, Emergency, Wwf, Greenpeace.

350

geoSTORIA

Le persone Nella storia ci sono state grandi personalità che hanno speso la propria vita nella difesa strenua dei diritti umani. Hanno promosso la pace, portato aiuti concreti e indispensabili ai poveri e alle persone in grave difficoltà, combattuto il razzismo e la negazione dei diritti. Ricordiamo qui quattro figure esemplari vissute tutte nel Novecento: Martin Luther King, Gandhi, Nelson Mandela e Madre Teresa di Calcutta. Martin Luther King, americano nero di Atlanta, Georgia, nel sud degli Stati Uniti, simbolo della “rivoluzione nera”, negli anni ’60 porta avanti campagne antirazziste, dopo aver subìto in prima persona l’emarginazione e la violenza da parte di uomini dalla pelle bianca. Promuove e favorisce l’integrazione dei neri fino a ottenere nel 1964 il Premio Nobel per la pace con questa motivazione: «Il Premio Nobel per la pace è stato assegnato a Martin Luther King per aver fermamente e continuamente sostenuto il principio della non-violenza nella lotta razziale nel suo Paese». Mohandas Karamchand Gandhi, detto anche Mahatma Gandhi – così lo chiamava il poeta indiano Rabindranath Tagore, dandogli questo soprannome che in sanscrito vuol dire ‘Grande Anima’ –, ha sostenuto strenuamente la non-violenza e ha promosso l’indipendenza dell’India dalla Gran Bretagna che aveva ridotto il paese a sua colonia. Alla fine del XIX secolo, quando si reca in una delle colonie britanniche in Africa come consulente legale di una ditta, Gandhi è colpito dalla grande emarginazione razziale da parte del governo britannico nei confronti della gente indiana lì residente. Si fa promotore della lotta per l’eguaglianza e mette in atto una protesta improntata alla nonviolenza, detta satyagraha, una specie di resistenza passiva, una forma di non-collaborazione sociale. In breve tempo raggiunge ottimi risultati. Il movimento si allarga anche all’India, dove Gandhi fa ritorno, e nel 1947 il suo paese raggiunge l’indipendenza. Nelson Mandela è un personaggio simbolo del Sudafrica. Nato nel 1918 e ancora in vita, si è battuto contro l’apartheid, il regime politico che in quel paese giustifica la segregazione fra neri e bianchi a tutto svantaggio dei neri. Ha mosso campagne di rivolta, ha promosso la pace, è stato arrestato per aver provato a rovesciare il regime e condannato all’ergastolo. Questo un pezzo del suo discorso fatto di fronte ai giudici prima della sentenza definitiva: «Sono pronto a pagare la pena anche se so quanto triste e disperata sia la situazione per un africano in un carcere di questo paese. Sono stato in queste prigioni e so quanto forte sia la discriminazione, anche dietro le mura di una prigione, contro gli africani [...] In ogni caso queste considerazioni non distoglieranno me né altri come me dal sentiero che ho intrapreso. Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle proprie aspirazioni. Niente può distoglierli da questa meta. Più potente della paura per l’inumana vita della prigione è la rabbia per le terribili condizioni alle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigioni, in questo paese [...] non ho dubbi che i posteri si pronunceranno per la mia innocenza e che i criminali che dovrebbero essere portati di fronte a questa corte sono i membri del governo». Dopo anni di carcere viene offerta a Mandela la libertà in cambio dell’abbandono della ribellione e della protesta, ma lui rifiuta. Resta segregato, diventando il simbolo della libertà. Nel 1990 viene liberato e nel 1993 insignito del Premio Nobel per la pace. Madre Teresa di Calcutta è stata un simbolo dell’impegno cristiano per l’assistenza dei diseredati nei paesi del Terzo Mondo. Albanese di nascita e «indiana di cittadinanza», come amava definirsi, a diciotto anni viene colta dal desiderio di diventare missionaria ed entra in un ordine di suore. Dopo alcune esperienze, nel 1946 si reca a Calcutta e qui riceve la «chiamata nella chiamata» per accudire e dare amore ai poveri e fondare una comunità religiosa che possa essere al servizio degli indigenti. La comunità delle Missionarie della Carità da quel momento diventa un punto di riferimento e Madre Teresa, nonostante i problemi di salute, trascorre la vita a disposizione dei poveri, dei bisognosi e dei malati.

I diritti umani

351

I diritti umani LE ASSOCIAZIONI GOVERNATIVE Dal Preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite redatto nel 1945: «Noi, Popolo delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità [il riferimento è alle due guerre mondiali], a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole, [...] ad impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli, abbiamo risoluto di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini.»

Onu

La Fao si occupa del problema alimentare in tutto il mondo e sostiene il diritto alla nutrizione corretta per ogni individuo. Sul sito ufficiale della Fao leggiamo: «In un mondo dove c’è cibo a sufficienza per tutti, la fame non è solamente inutile – è ingiusta. Questa ingiustizia è ovvia in modo irritante, non è vero? Ognuno ha il diritto di vivere, no? Ognuno ha bisogno di cibo per vivere, giusto? Allora ognuno ha diritto al cibo, non è così? Questo è il pensiero della Fao e di tutta l’Onu. Tutti i paesi del mondo hanno sottoscritto la Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite per i diritti umani. Ecco cosa dice l’articolo 25 della Dichiarazione: “Ognuno ha diritto a uno standard di vita adeguato per la salute e il benessere di sé stesso e della propria famiglia, incluso il cibo, gli indumenti, la casa, le cure mediche e i servizi sociali necessari...”. Sembra una buona idea, non ti pare?» [da www.fao.org]

L’Unicef lavora in Italia e nel mondo per la tutela dell’infanzia, difendendo i diritti dei bambini. I suoi slogan sono: «Ci mobilitiamo per favorire il cambiamento sociale e migliorare la vita dei bambini più svantaggiati ed emarginati.» «Salviamo la vita dei bambini, lottiamo perché nascano e crescano sani, li aiutiamo a realizzare le loro potenzialità.» «Aiutiamo milioni di bambini vittime di conflitti, disastri naturali ed epidemie.»

LE ASSOCIAZIONI NON GOVERNATIVE Amnesty International nasce nel 1961 ad opera dell’avvocato inglese Peter Benenson per la difesa dei «prigionieri dimenticati». Il suo simbolo, una candela avvolta dal filo spinato, simboleggia la speranza. «Cinquant’anni fa Peter Benenson, seduto al tavolo di un bar nel Lussemburgo, scrisse su un tovagliolino di carta i tre principali obiettivi che Amnesty avrebbe dovuto perseguire: la scarcerazione di ogni essere umano arrestato per le sue opinioni, l’abolizione della tortura, la cancellazione della pena di morte.» [da A. Cannavò, I 50 anni di Amnesty, «Corriere della Sera», 13 maggio 2011]

352

geoSTORIA

Emergency è stata fondata nel 1994 da Gino Strada, medico specializzato in chirurgia d’urgenza, e da sua moglie Teresa Sarti insieme a Carlo Garbagnati. Strada decide di fondare Emergency dopo una lunga serie di interventi in paesi in guerra e in difficoltà, insieme alla Croce rossa. Sul sito dell’associazione leggiamo: «Emergency è un’associazione italiana indipendente e neutrale, nata per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà. Emergency promuove una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani.» [da www.emergency.it]

«Che ogni bambino affamato sia nutrito, ogni bambino malato sia curato, ad ogni orfano, bambino di strada o ai margini della società sia data protezione e supporto.» Questo dichiarò Eglantyne Jebb, quando nel 1919 decise di fondare Save the Children, dopo aver visto le condizioni pessime in cui versavano i bambini in Europa a seguito del primo conflitto mondiale. Oggi l’associazione è una delle più impegnate per la tutela dell’infanzia e opera in tutto il mondo per assicurare i beni primari ai più piccoli: cibo, acqua, scuola, casa, cure mediche. Greenpeace è una delle associazioni che si occupano della tutela dell’ambiente. Nata nel 1971, ha molti sostenitori nel mondo ed è famosa per le sue campagne pacifiste in difesa e a tutela del pianeta. Sul sito italiano dell’associazione i suoi responsabili dichiarano: «Greenpeace è un’associazione non violenta, che utilizza azioni dirette per denunciare in maniera creativa i problemi ambientali e promuovere soluzioni per un futuro verde e di pace. Greenpeace è indipendente e non accetta fondi da enti pubblici, aziende o partiti politici.» [da www.greenpeace.org/italy/it]

PERSONE «Gli uomini che aspirano ad essere liberi difficilmente possono pensare di rendere schiavi gli altri. Se cercano di farlo, non fanno che rendere più strette anche le proprie catene di schiavitù.»

«Il mio sogno è che i miei quattro bambini possano vivere un giorno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per il loro carattere.»

Gandhi

Martin Luther King

«Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso.»

«Sono albanese di sangue, indiana di cittadinanza. Per quel che attiene alla mia fede, sono una suora cattolica. Secondo la mia vocazione, appartengo al mondo. Ma per quanto riguarda il mio cuore, appartengo interamente al Cuore di Gesù.»

Nelson Mandela

Madre Teresa di Calcutta

I diritti umani

353

I diritti umani Punti di vista Di seguito due articoli che testimoniano come la difesa dei diritti umani sia ancora una battaglia da combattere. Due episodi differenti a confronto: nel primo, il caso di una ragazza con gravi problemi di integrazione a causa del velo islamico indossato in un paese occidentale; nel secondo la notizia del Premio Nobel per la Pace assegnato nel 2011 a tre donne.

NESSUNO MI DÀ UN LAVORO SOLO PERCHÉ PORTO IL VELO Caro direttore, mi chiamo Sama, sono nata in Egitto ma mi sento ‘milanese’ perché abito in questa città da quando avevo 16 anni, qui ci sono i miei affetti, il mio futuro. Eppure, in questa città che sento mia, per me, ragazza di 25 anni, laureata in Scienze Politiche alla Statale, è impossibile trovare lavoro. Quando sono fuori casa, indosso il velo islamico, lo ‘hijab’, un fazzoletto annodato al collo che lascia completamente scoperto il mio volto. È una tradizione che ho portato dal mio Paese e che fa parte della mia fede religiosa. Nessuno me lo impone, è una scelta personale che la mia famiglia rispetta, avendomi trasmesso i valori della libertà, del rispetto e dell’onestà. Eppure, proprio per il velo islamico che indosso, superare un colloquio di lavoro è un’impresa ardua. Come molti miei coetanei passo molto tempo a leggere le inserzioni sui giornali e a navigare in Internet per trovare opportunità di lavoro. Ho fatto decine e decine di telefonate

354

geoSTORIA

e molto spesso ho poi concordato appuntamenti con chi offriva stages per praticanti. Ma ogni volta, dopo un iniziale interesse manifestato al telefono da parte dei miei interlocutori per il mio curriculum, ho dovuto confrontarmi con la freddezza e l’imbarazzo palpabile di chi si trovava di fronte una ragazza velata, come me. La settimana scorsa ho sostenuto un colloquio per un progetto formativo del Comune di Milano [...] Come altri ragazzi mi sono presentata per il colloquio, dopo aver spiegato i miei titoli di studio. Ma a differenza di altre mie amiche che hanno fatto lo stesso colloquio, ho subito percepito che il mio velo sarebbe stato d’ostacolo. La funzionaria che ho incontrato mi ha fatto diverse domande per farmi spiegare i motivi per cui lo porto e mi ha spiegato che lavorando in un ufficio pubblico, lo ‘hijab’ avrebbe potuto essere un problema. Le stesse osservazioni che mi erano state fatte in un precedente colloquio per un posto da mediatrice culturale. Le stesse frasi che tante altre volte

ho dovuto ascoltare, presentandomi per un colloquio di lavoro in negozi e uffici privati. Inutile dire che pochi giorni fa ho verificato di non aver ottenuto quel posto da tirocinante presso il Comune. Non saprò mai se il motivo sia stato il velo che porto, ufficialmente non mi è stato detto niente in proposito, anche se lo scetticismo di chi mi ha fatto il colloquio era più che evidente. Un’idea sulle ragioni per cui non sono stata selezionata, quindi, me la sono fatta, dopo l’interrogatorio che ho subìto sul velo islamico che porto. Ora io mi domando: è questa la sorte scontata per chi, come me, vivendo a Milano, pur venendo dall’Egitto ed essendo di fede musulmana, non si sente straniera? Sono cresciuta nella vostra cultura anche se indosso il velo: quanto a lungo dovrò restare disoccupata? Dovrò rinunciare a un mio modo di sentire e di essere per poter sperare di essere considerata come tutti gli altri giovani laureati milanesi? [Sama Alaa, RepubblicaMilano.it, 27 giugno 2011]

PREMIO NOBEL PER LA PACE 2011 A TRE DONNE Il Comitato norvegese ha assegnato il Premio Nobel per la pace 2011, scegliendo tre donne, Ellen Johnson Sirleaf, Leymah Gbowee e Tawakkul Karman [attive in Africa e Medio Oriente]. Di seguito le motivazioni del premio: «Non possiamo raggiungere la democrazia e la pace duratura nel mondo, se le donne non otterranno le stesse opportunità degli uomini di influenzare gli sviluppi a tutti i livelli della società. Nel mese di ottobre 2000, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato la risoluzione 1325. La risoluzione per la prima volta ha fat-

to della violenza contro le donne nei conflitti armati una questione di sicurezza internazionale. Ha sottolineato la necessità per le donne di partecipare in condizioni di parità con gli uomini nei processi di pace e nel lavoro per la pace in generale. Ellen Johnson Sirleaf è stato il primo presidente africano donna eletto democraticamente. Sin dal suo insediamento nel 2006, ha contribuito a garantire la pace in Liberia, a promuovere lo sviluppo economico e sociale, a rafforzare la posizione delle donne. Leymah Gbowee ha mobilitato e organizzato le donne [...] per porre fine alla lunga guerra in Liberia e per garantire la partecipazione delle donne alle elezioni. Da allora ha lavora-

to per aumentare l’influenza delle donne in Africa occidentale durante e dopo la guerra. Nelle circostanze più difficili [...] Tawakkul Karman ha svolto un ruolo di primo piano nella lotta per i diritti delle donne e per la democrazia e la pace nello Yemen. La speranza è che il premio a Ellen Johnson Sirleaf, Leymah Gbowee e Tawakkul Karman possa concorrere a porre fine alla repressione delle donne che si verifica ancora in molti paesi, e a mettere a frutto il grande potenziale per la democrazia e la pace che le donne rappresentano. Oslo, 7 ottobre 2011». [da LeggiOggi.it, 8 ottobre 2011]

I diritti umani

355

Verso quale futuro?

‘‘

Tutti dovremmo preoccuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto della nostra vita (Charles Franklin Kettering)

’’

Perché Problemi di oggi: il punto della situazione Nel corso degli ultimi duecento anni, come abbiamo visto nelle schede precedenti, sono cambiati alcuni assetti che hanno radicalmente modificato gli equilibri precostituiti. E se durante il corso dei secoli determinate problematiche si sono riproposte con esiti diversi, a seconda dell’epoca storica, delle esigenze dell’uomo, dei cambiamenti climatici, delle crisi finanziarie, dei regimi (moderati o tirannici), dei condizionamenti religiosi, della guerra e della pace, oggi sembra che tutti i processi siano accelerati verso una rapida e importante trasformazione. A partire dal XIX secolo, si è innescato un complesso concatenarsi di eventi, simile piuttosto a una reazione a catena, i cui principali protagonisti sono l’uomo e il pianeta. L’industrializzazione ha favorito l’economia, incrementato e facilitato gli spostamenti di uomini e merci, creato posti di lavoro, modificato lo stile di vita di un numero davvero alto di persone. Moltissimi hanno cominciato a migrare per conquistare migliori condizioni di vita; per accogliere flussi migratori sempre maggiori l’urbanizzazione è cresciuta: sono stati creati o ingranditi i centri urbani, le megalopoli o le baraccopoli (a seconda delle zone del mondo interessate ai flussi migratori); la gente arrivata nei paesi si è mescolata con quella che già ci abitava, sposando uomini e donne del luogo, lavorando insieme, portando usi e costumi del proprio paese d’origine aggiunti col tempo a quelli del paese di arrivo, quando non fusi con questi: ciò ha contribuito in modo rilevante alla creazione di una società oggi definita globale, senza insormontabili barriere di razza, religione e lingua. I flussi di denaro si sono concentrati in alcune zone, mentre in altre si sono determinate o aggravate condizioni di povertà. Nel complesso, si è generata una serie di squilibri, e si è fatto sempre più netto lo squilibrio tra il Nord e il Sud del mondo: il Nord è divenuto benestante, il Sud resta provato dalla miseria. Questo complesso fenomeno, descritto qui a grandi linee, ha ingenerato meccanismi di sfruttamento delle ri-

356

geoSTORIA

sorse umane e ambientali, spesso violando i diritti di uomini e donne, di bambini, di malati; l’industrializzazione, in particolare, ha corroso le risorse primarie della Terra per dare energia alla produzione, provocando inquinamento, danni all’ecosistema e alla salute dell’uomo, e chiudendo in questo modo il cerchio: il processo che l’uomo ha messo in moto si è ritorto contro di lui. E (se) domani? Parafrasando la famosissima canzone di Mina che leggete nel titolo, le domande da porsi per il nostro domani sono tante e non a tutte riusciamo a dare una risposta. Il quadro appena illustrato presenta le cause del cambiamento avvenuto, quello che invece ci resta da tracciare, come in una mappa che illustri al viaggiatore la strada delle trasformazioni in atto e di prossima attuazione, sono gli scenari futuri. Nel 2009, il sociologo Zygmunt Bauman pose l’attenzione sulla crisi economica che già da qualche anno iniziava a compromettere gli equilibri del mondo: Che cosa temono maggiormente i nostri contemporanei, in particolare gli abitanti delle dieci città più grandi e più importanti del pianeta, e quali sono le loro (e le nostre!) più assillanti e tormentose preoccupazioni, quali le cause più minacciose all’origine dei loro (e nostri!) incubi (se ne hanno)? Dal sondaggio del World Social Survey del luglio 2008 è stato possibile dedurre differenze sbalorditive tra i vari Paesi. Tra le principali preoccupazioni

che assillano gli americani in cima all’elenco ci sono la paura che il loro standard di vita precipiti in un immediato futuro, la paura di perdere il posto di lavoro, il timore che la vita dei loro figli sia più difficile di quella dei loro genitori. [Z. Bauman, Così la crisi cambia il nostro stile di vita. La riflessione di un grande sociologo contemporaneo, in «la Repubblica», 10 gennaio 2009]

Insomma, gli americani temono di impoverirsi. E non si tratta di timori infondati. Perché? Alcune ragioni si rintracciano nel cambiamento degli equilibri economici e politici mondiali; vediamoli disegnando quella carta delle trasformazioni che serve al nostro viaggiatore. Facendo i conti, possiamo individuare almeno quattro grandi punti da segnare sulla mappa; si tratta di punti apparentemente privi di relazione, ma invece correlati tra loro: l’ascesa di India e Cina, l’aumento demografico, la scarsezza d’acqua, la violazione dei diritti delle donne. Il baricentro economico e politico del mondo si sposta progressivamente da ovest a est: alcune potenze economiche, a Occidente, sono in difficoltà o in declino, altre, a Oriente, risorgono a nuova vita, e tra queste soprattutto India e Cina; è qui che dobbiamo fissare il primo punto. India e Cina finiscono per costituire un unico grande “blocco”, sì da guadagnare un nome a sé, risultante dalla fusione di entrambi: con il neologismo Cindia viene definito il nuovo “impero” che comprende i due colossi economici. Le due antichissime potenze, oggi nuovamente in risalita, così come altri paesi emergenti, hanno da tempo investito le proprie energie in una rincorsa ai campioni dell’economia mondiale, riuscendo a imporsi di diritto sulla scena dei mercati internazionali. Il Fondo Monetario Internazionale ha ipotizzato che già nel 2016 il Pil cinese supererà quello americano, segnando la fine di un’era, come ha commentato il «Wall Street Journal»: «Il prossimo presidente americano, chiunque egli sia, sarà l’ultimo a governare la più grande economia mondiale». Inoltre, la popolazione mondiale negli ultimi due secoli ha registrato un innalzamento demografico impressionante, passando da 1 miliardo a 6 miliardi (nel 2000) – stime recenti prevedono peraltro il raggiungimento della soglia di 10 miliardi di individui nel giro di qualche decennio. Più la popolazione aumenta, più le risorse del pianeta vengono saccheggiate per far fronte alle esigenze primarie: cibo e acqua in primo luogo. E qui fissiamo un altro punto sulla nostra mappa, poiché la maggior parte della popolazione mondiale è oggi concentrata nei due paesi asiatici di cui abbiamo appena detto. E ancora, strettamente legata all’aumento demografico è, in India e Cina, la condizione femminile. È questo l’ultimo, ma non il meno importante, punto della mappa: le donne indiane e cinesi, la cui esistenza è fortemente compromessa. Da decenni, infatti, per contrastare l’incremento demografico di Cina e India si è imposto alle famiglie di generare un unico figlio, al massimo due

Verso quale futuro?

357

Verso quale futuro? dando precedenza ai maschi. Nei fatti ciò ha indotto moltissime madri a mettere al mondo i soli figli maschi abortendo o addirittura lasciando morire le figlie femmine appena nate (cfr. La maledizione di nascere bambina, p. 366). La discriminazione che è alla base di questo meccanismo demografico infligge al genere femminile una condanna gravissima che rischia di divenire definitiva. In breve un domani possibile La mappa del prossimo futuro, per quanto emerge dal quadro tracciato, ha come protagonisti i cinesi e gli indiani, nuovi attori di un mondo in cui l’asse del potere economico (ma non solo) tende a spostarsi a est, in un’area nella quale si registra peraltro un incremento demografico impressionante; per soddisfare i bisogni delle regioni densamente popolate si consumano le risorse del pianeta, in particolare l’acqua, e per fermare la crescita demografica si mettono in atto misure restrittive, spesso a scapito delle donne. Vediamo la questione più nel dettaglio.

Dove Le regioni più popolate del mondo Ci sono paesi in difficoltà, attanagliati dalla miseria e altri dove la vita è migliore. Non è solamente la povertà che affligge il mondo, ma l’incapacità di risollevarsi dopo decenni di deprivazione, regimi sbagliati e condizioni di sottosviluppo difficili da ribaltare. Questo capita a

Una strada di Kathmandu (Nepal), novembre 2005  [© Pavel Novak/Wikimedia Commons]

358

geoSTORIA

molti paesi in via di sviluppo e a quelli emergenti, ovvero ai paesi meno floridi della media mondiale (dove per “media” si deve intendere quella influenzata dal blocco dei paesi più ricchi), ma che puntano a uno status superiore, da paese sviluppato. Alcuni di questi paesi, approfittando delle nuove possibilità offerte dalla globalizzazione sui mercati internazionali, tenacemente si sono conquistati un posto sul podio tra le maggiori potenze mondiali. Si tratta, per esempio, di India e Cina, che hanno raggiunto un indice di sviluppo economico elevato, ma uno di sviluppo umano non adeguato. Questi paesi sono spesso anche quelli più popolati, dove la popolazione è in continuo aumento: oggi Cina e India risultano le regioni più popolate (rispettivamente 1,336,717 e 1,189,172 miliardi di abitanti); seguono gli Stati Uniti (313,232,032), l’Indonesia (245,613,040) e il Brasile (203,429,776). La mappa che segue illustra la concentrazione di popolazione nelle regioni del mondo, aggiornata al gennaio 2011. India e Cina risultano le più popolate, con un numero di abitanti di gran lunga superiore a qualunque altro paese.

nessun dato

[da www.indexmundi.it]

Verso quale futuro?

359

Verso quale futuro? Le regioni della disuguaglianza Da sempre la disuguaglianza tra uomini e donne ha interessato il pianeta. Questo è capitato e capita in modi diversi, ma tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, oggi, la differenza è ancora netta: superare barriere religiose, sociali, politiche in alcune zone del mondo è per le donne una fatica doppia. La mappa che segue illustra chiaramente come tra Nord e Sud ci sia una spaccatura notevole (le gradazioni di colore più intense e scure esprimono un grado di disuguaglianza minore): specialmente nei paesi dell’Africa, in India (e dintorni) e in alcune zone dell’America meridionale la condizione femminile è in forte crisi.

nessun dato

[da www.undp.org]

La mappa dell’acqua L’acqua, risorsa primaria per la vita degli esseri umani, nel mondo non è distribuita in maniera uniforme. Ci sono paesi che hanno grandi riserve naturali, come Brasile, Stati Uniti, Canada, Indonesia, Sudafrica, Russia, Cina, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, e detengono il 60% del potenziale di acqua dolce utilizzabile; ce ne sono molti altri a cui tali riserve mancano; altri ancora che versano in condizioni particolarmente gravi, come quelli dell’Africa del Nord e del Medio Oriente. Circa il 70% dell’acqua viene assorbito dall’agricoltura, il 20% è speso nei processi industriali e il restante 10% per usi domestici.

360

geoSTORIA

Le due mappe mostrano le zone in cui è maggiore la disponibilità di acqua dolce nel mondo. La prima è aggiornata al 2007, mentre la seconda è una previsione di quello che potrà accadere nel mondo nel 2025, se l’uomo continuerà a utilizzare le riserve in maniera sconsiderata. In diverse regioni del pianeta la situazione peggiorerà, si farà più critica.

Disponibilità di acqua potabile rinnovabile per Stato nel 2007

dati in metri cubi di acqua per abitante all’anno

situazione critica penuria critica forte penuria d’acqua fortissima penuria d’acqua

0 500 1.000 1.700 2.500

2.500 5.000 10.000 40.000 >40.000

[da www.ladocumentationfrancaise.fr]

Disponibilità di acqua potabile rinnovabile per bacino di raccolta nel 2025 dati in metri cubi di acqua per abitante all’anno

situazione critica penuria critica forte penuria d’acqua

10.000

nessun dato

[da www.ladocumentationfrancaise.fr]

Verso quale futuro?

361

Verso quale futuro? Chi Identikit di alcuni gravi squilibri alla vigilia del futuro Nei paesi avanzati la gente vive più a lungo, a causa di condizioni di vita favorevoli: ha a disposizione cibo, acqua, ospedali dove curarsi, un lavoro e uno stipendio, una casa dove vivere e vestiti per coprirsi. Tutto quello che invece manca nei paesi più poveri, dove le persone vivono per strada, non hanno un lavoro, non hanno cibo e un tetto sotto il quale ripararsi, tantomeno la possibilità di un’assistenza sanitaria. Eppure i dati relativi alla densità di popolazione sono inversamente proporzionali. Nei paesi sviluppati l’incremento demografico è basso: si vive più a lungo, la mortalità è bassa, ma non c’è grande aumento delle nascite, spesso si ha un figlio per famiglia e così la popolazione cresce lentamente. Diversamente accade nei paesi in via di sviluppo dove la mortalità è elevata, soprattutto quella infantile, a causa di malnutrizione e scarsa igiene, ma i dati registrano una crescita notevole della popolazione. Le tradizioni di questi paesi vogliono famiglie numerose: anche se le condizioni di vita da offrire ai nascituri non sono delle migliori, i figli sono la ricchezza di questi popoli. Come abbiamo visto però in alcuni paesi le cose stanno cambiando: India e Cina, in particolare, attualmente i paesi più popolati al mondo, sono protagonisti di un cambiamento che li ha portati a un blocco delle nascite per ridurre la popolazione e il consumo di risorse, e a preferire i nuovi nati di sesso maschile piuttosto che femminile. Queste scelte politiche trovano facile sponda in una mentalità diffusa da secoli: per indiani e cinesi le figlie femmine sono un peso economico, è facile considerarle bocche da sfamare, e fanciulle cui dover procurare in pochi anni una dote per il matrimonio. Ma è nel mondo intero che le donne sono vittime di ingiustizie, discriminazioni, emarginazioni, violenze. Spesso, in alcune culture specialmente del Sud del pianeta, sono più analfabete dei maschi perché tenute a casa a badare alla famiglia di origine o alla propria, se spose bambine. Il tasso di analfabetismo e la scarsa autonomia le rende discriminate socialmente e quindi il divario con gli uomini si accresce. In alcune culture tipo quella araba, sono di proprietà prima del padre e poi del marito che viene rigorosamente scelto dalla famiglia. In Pakistan o in India, se non obbediscono alle regole imposte dalla comunità, sono mutilate, sfigurate o addirittura uccise. Nei paesi in guerra sono vittime di stupri, rese schiave, fatte diventare serve o prostitute. Nei paesi in via di sviluppo, in generale, lavorano sia a casa sia nei campi, ma la loro fatica non viene riconosciuta; anche nei paesi avanzati il fenomeno si manifesta, seppure la situazione è meno grave, e spesso, entrare a far parte del mondo del lavoro o ricoprire incarichi di prestigio è difficilissimo a causa dell’ostilità e del pregiudizio maschile. C’è poi un terzo grande problema: l’acqua. Senza risorse idriche nessun essere vivente può  Una classe femminile in una scuola di Gaza, in Palestina

362

geoSTORIA

sopravvivere. Oltre a soddisfare il bisogno primario della sete, l’acqua viene impiegata in agricoltura, nella produzione industriale e nel quotidiano uso domestico. Il problema della carenza d’acqua, oggi, sta diventando urgente perché le riserve idriche si stanno esaurendo. Nel mondo moltissima gente non ha a disposizione acqua per il proprio fabbisogno personale. Si conta che nei paesi in via di sviluppo quasi 3 miliardi di persone non abbiano accesso ai servizi sanitari, non possano bere, usino acqua inquinata e spesso si ammalino di conseguenza. Quello che fa la differenza è il consumo o, meglio, lo spreco che se ne fa. In America un abitante consuma in meL’acqua, bene comune in Africa occidentale dia anche 600 litri al giorno, in Africa  [da www.accri.it] invece dai 10 ai 50 litri. Il massiccio aumento della popolazione è stato senza dubbio spiazzante, e la gestione della risorsa idrica non ha prodotto una distribuzione oculata. La produzione alimentare necessita di acqua, per irrigare i campi c’è bisogno di un’elevatissima quantità d’acqua, spesso anche la disattenzione del singolo può essere causa di spreco. Bisogna correre ai ripari, soprattutto stimando i numeri che vogliono entro pochi decenni circa 10 miliardi di persone sulla Terra. Identikit di un mondo possibile tra Cindia e Occidente Federico Rampini, giornalista di Repubblica, oggi corrispondente da New York, per cinque anni lo è stato da Pechino. Nell’introduzione al suo libro, L’impero di Cindia, già nel 2006 descriveva chiaramente il fenomeno che oggi sta travolgendo il mondo, l’inarrestabile ascesa di India e Cina e dintorni: Sono tre miliardi e mezzo. Sono più giovani di noi, lavorano più di noi, studiano più di noi. Hanno più risparmi e più capitali di noi da investire. Hanno schiere di premi Nobel della scienza. Guadagnano stipendi con uno zero in meno dei nostri. Hanno arsenali nucleari ed eserciti di poveri. Sono India, Cina e dintorni. Cindia non indica solo l’aggregato delle due nazioni più popolose del pia-

neta: è il nuovo centro del mondo, dove si decide l’umanità. Tutto il meglio e tutto il peggio dipende da loro. Le speranze di progresso così come i rischi di catastrofi, il riscatto dalla miseria e la guerra all’inquinamento, la libertà o la repressione, la salvezza o l’orrore: la partita del XXI secolo si gioca qui. [F. Rampini, Introduzione a L’impero di Cindia, Mondadori 2006]

Verso quale futuro?

363

Verso quale futuro? Non bisogna immaginare che Cina e India costituiscano un solo blocco geopolitico o che non vi siano differenze tra di essi. Ma le convergenze stanno rafforzandosi: i due paesi hanno gli stessi bisogni energetici, le stesse necessità di innovazione continua, gli stessi obiettivi di crescita economica. Il progresso e la capacità di avanzare nel mercato mondiale di questi paesi sono stati una grossa sorpresa, soprattutto per potenze economiche come gli Usa, che oggi temono di vedersi soffiare lo scettro e il primato mondiale. Il rovescio della medaglia però c’è sempre, e le contraddizioni legate a questa repentina salita in auge non sono da sottovalutare. Come è avvenuto tutto questo? La Cina, in particolare, ha investito e sfruttato le proprie risorse; una volta esaurite, per non abbassare la produttività, ha ulteriormente investito nell’approvvigionamento dall’estero (in particolare dall’Africa) di materie prime e fonti di energia, soprattutto di petrolio. Questo comporta tuttora un dispendio di energie e di denaro enormi e un tasso di inquinamento sempre crescente a causa della grande quantità di emissioni di CO2 (anidride carbonica). In più, essendo concentrata in quelle zone la maggior fetta della popolazione mondiale, la richiesta di cibo e, soprattutto acqua, è fortissima. Anche in India si registrano problemi simili e la contraddizione risiede proprio in una convivenza forzata di modernità e sottosviluppo: l’innovazione, il progresso, la necessità di rispondere presto e bene alle richieste del mercato impongono ritmi, infrastrutture e sistemi lavorativi avanzati anch’essi, che spesso però scarseggiano in aree dall’identità ancora non del tutto delineata, o in via di definizione, come quelle di cui parliamo. I problemi da risolvere saranno diversi anche per l’Occidente che dovrà probabilmente razionare le proprie risorse ed energie per dar spazio all’Oriente, lasciare uno stile di vita per abbracciarne un altro, rivedere le proprie abitudini e intendere il mondo sotto un’ottica non più centrata sugli standard e i modelli occidentali, come ha fatto fino ad ora.

 L’ingresso del

Centro ricerche e sviluppo della Microsoft-India, Hyderabad, India, 2000

364

geoSTORIA

Punti di vista Negli articoli che seguono due ritratti del nuovo mondo: India e Cina. Nel primo vengono illustrati alcuni tra i motivi dell’ascesa repentina dei due paesi, uniti nel neologismo Cindia; nel secondo uno sconcertante racconto di quello che accade alle bambine in queste regioni del mondo.

CINDIA...RELLA NON È PIÙ CENERENTOLA La Cina e l’India, quasi due miliardi e mezzo di abitanti, di nuovi capitalisti che si affacciano sul mercato, e nella storia, sconvolgendo le nostre economie e le nostre vite. Negli Stati Uniti è ormai diventato uso comune definire quest’area del mondo con un nuovo nome, un termine coniato apposta per l’impero politico ed economico che dominerà il pianeta nel prossimo futuro: Cindia, come va di moda dire e scrivere nei libri e sui giornali. Il fenomeno degli investimenti esteri dei paesi emergenti riguarda almeno sei di essi che sono, oltre ai due citati, anche la Russia, il Brasile, il Messico e la Corea del Sud, quello che gli americani chiamano Big Six, o B6. Per decenni gli investimenti provenivano dai paesi considerati il “Primo mondo”. La questione è che non è più così, perché se è vero che gli investimenti esteri continuano a originare dai paesi ricchi verso altri paesi, da alcuni anni si è venuto a creare un nuovo fenomeno: quello degli investimenti all’estero provenienti dai paesi emergenti o dalle loro più floride aziende. E non si tratta di flussi marginali o trascurabili: un dato per tutti è quello della Cina che, grazie alle riserve accumulate per anni in seguito ai forti surplus commerciali con il resto del mondo, ha stanziato oltre 100 miliardi di dollari per andare all’acquisto di aziende interessanti in altri paesi. Nel 2005 questi mercati hanno attirato la grande maggioranza degli investimenti esteri destinati ai paesi emergenti e

nell’insieme hanno ricevuto ben il 36% degli investimenti all’estero mondiali. È il segnale di un crescente successo delle aziende di questi paesi nei mercati esteri. E non si tratta assolutamente di aziende che competono solo sulla base dei bassi costi del lavoro, perché al contrario sono organizzazioni solidissime e spesso all’avanguardia tecnologica. Una recente ricerca di Accenture su questi flussi di investimenti rileva che le motivazioni per investire all’estero dei paesi emergenti sono l’esigenza di assicurarsi una crescita sostenibile, l’accesso ai mercati avanzati, la necessità di acquisire competenze e l’accresciuta concorrenza nei propri mercati. Ma chi sono questi giganti emergenti? Per fare alcuni nomi oramai molto noti, si tratta di aziende come Tata (India), Hutchinson Whampoa (Hong Kong), Petronas (Malaysia), Singtel (Singapore), Samsung (Sud Corea), ma l’elenco è lungo. [...] Queste imprese non investono solo nei mercati maturi, ma stanno impiantando molte teste di ponte anche nei paesi poveri dell’Africa, sui quali saranno molto ben posizionate quando finalmente arriverà anche lì il momento del decollo. Sono sempre più presenti, però, anche nei paesi dell’Est Europa e dell’America Latina, senza contare la loro massiccia penetrazione nei mercati asiatici. Un successo dovuto al fatto che fino ad ora – nonostante ci si stia rendendo conto che il centro del mondo hi-tech, dopo essersi mosso per duecento anni verso ovest ha invertito la propria direzione di marcia, e che nei prossimi

Sede principale dell’azienda sudcoreana  Samsung a Seul

decenni quasi certamente non sarà più dov’è oggi – nessuno aveva ancora cercato di studiare seriamente l’impatto che questa svolta epocale potrebbe avere non solo sul futuro dell’It, [information technology] ma anche sull’economia del mondo occidentale o addirittura su quella del mondo “tout-court”. Oggi Cina e India non solo stanno già sfornando i migliori laureati del mondo in ingegneria elettronica e in scienze della formazione, ma lungi dal continuare ad essere semplici fornitori di manodopera a basso costo, ben presto saranno in grado di misurarsi con il mondo occidentale non solo in termini di prezzi ma anche di competenze e di capacità. [R. Giovanelli, aprile 2008, da www.ated.ch]

Verso quale futuro? LA MALEDIZIONE DI NASCERE BAMBINA La stanza è come quella della tortura in un lager. Il tettuccio arrugginito è schiacciato contro il muro schizzato di sangue. Una donna legata da cinghie nere urla. Sta per avere un bambino. Ma quando la testa del neonato appare, il medico affonda una siringa nella fronte e il piccolo scompare. Dopo un attimo il boia lo tira fuori. È morto. Era una bambina. Così racconta il video che un infiltrato di una famosa organizzazione non governativa francese travestito da infermiere ha girato in una città del Sud della Cina. Così i cinesi ammazzano le loro figlie. Lasciandole sospese e impietrite tra la vita e la morte. Solo perché sono femmine, figlie di un dio minore. In Cina ogni anno spariscono, condannate dalla loro femminilità, almeno 2 milioni di bambine. Una di

366

geoSTORIA

loro è stata fotografata da poco da un reporter di The mirror – fotografia della vergogna: la piccola era per terra, buttata su un marciapiede come un gatto morto. Una bambina con il naso pieno di sangue e la pelle ancora calda. La gente le camminava accanto, forse sopra, come se niente fosse. Colpa, si dice, di una legge del 1979 intitolata «Legge eugenetica e protezione salute» che proibisce ai cinesi di avere più di un figlio in famiglia [...]. Ma anche della tradizione e della convinzione che una figlia femmina sia una vera maledizione, un peso. Ma la Cina non è sola. Nascere femmina è una condanna in troppe parti del mondo. Dall’Asia meridionale al Nord Africa, dal Medio Oriente alla Cina, sono 100 milioni le bambine che mancano all’appello .[...] Le figlie femmine anche in Pakistan e in Bangladesh sono torturate soprattutto dalla famiglia. Ai figli maschi va il cibo migliore, alle fem-

mine le briciole. Anche da neonate. «Avevo una cugina con due gemelli. Un giorno la trovo a casa con i due bambini in braccio: il maschio tondo, bello. La femmina un fagottino di ossa che moriva di fame. Perché le ho chiesto. “Perché ho poco latte e devo darlo solo a lui se no mi ammazzano” mi ha risposto». Anche se sopravvivono le bambine mangeranno dopo i bambini. Come le mogli dopo i mariti. In India la crescita è ritardata del 79% nelle femmine e del 43% nei maschi. I bambini studiano, le bambine faticano. E quando sono sfinite, ammalate, nessuno pensa a loro. Anzi. Alle piccole femmine non è permesso di cedere. Se lo fanno, la malattia diventa la conferma della debolezza, il marchio dell’inferiorità. La prova che possono morire.

[S. Pende, in «Panorama», 5 aprile 2000]

L’uomo e il paesaggio

‘‘

Siamo tutti in una fogna, ma alcuni di noi guardano le stelle (Oscar Wilde)

’’

Perché L’uomo e l’ambiente: un rapporto difficile L’uomo ha sempre vissuto interagendo con l’ambiente. Si è servito delle risorse naturali, ha sfruttato il sole, il vento, la terra, l’acqua per i propri bisogni, ma ha anche provocato una serie numerosa di danni e distruzioni. I suoi interventi sulla flora e la fauna hanno piegato le leggi della natura, forzato alcuni meccanismi naturali tanto da provocare mutamenti irreversibili nel paesaggio. Fin dagli albori della storia dell’umanità, l’uomo ha abbattuto e bruciato alberi per scaldarsi; per sfamarsi ha cacciato grossi mammiferi, ormai estinti; per stanziarsi in modo sedentario, ha modificato l’ambiente creando habitat a sé favorevoli, e disboscato foreste per fare spazio a campi e città; ha coltivato i campi sfruttandone al massimo le potenzialità, senza immaginare di compromettere la fertilità del suolo; ha arginato corsi d’acqua, deviato fiumi. L’intervento umano sull’ambiente ha sempre avuto un impatto forte, ma non paragonabile a quello cui abbiamo assistito negli ultimi due secoli. E oggi? È dai tempi della rivoluzione industriale (XIX secolo) che i conti in tasca non tornano più. Uomo e ambiente sono entrati definitivamente in conflitto, e oggi si sta cercando di arrivare a un trattato di pace che giovi a entrambi. Con l’aumento della popolazione, dovuto a un progressivo miglioramento delle condizioni di vita, e il processo di industrializzazione sono aumentate le necessità e la richiesta di risorse. Lo sfruttamento sconsiderato delle risorse (cfr. la scheda successiva Lo sviluppo sostenibile) ha provocato però danni enormi e prodotto effetti su larga scala. Mentre metteva a punto sistemi economici complessi, progrediva in campo industriale, avanzava in mol-

L’uomo e il paesaggio

367

L’uomo e il paesaggio ti settori, l’umanità comprometteva anche la stabilità ambientale. E il paradosso è evidente, soprattutto osservando il forte divario tra il Nord e il Sud del mondo, dove la presenza o meno delle industrie ha determinato una stridente contrapposizione: in alcune zone del pianeta regna un forte benessere, ma l’aria è irrespirabile (Nord), in altre c’è solo miseria, ma spesso splende un sole alto e pulito (Sud). Naturalmente la distinzione non è così netta, perché anche nei paesi in via di sviluppo danni di diversa natura sono stati provocati dall’azione dell’uomo, ma l’immagine, pur se esasperata, dà il senso della spaccatura del mondo, oggi idealmente sezionato in una zona ricca e in una povera, in una industrializzata e in una meno, e di conseguenza in una molto inquinata e una più salubre. Uno dei problemi maggiori è l’inquinamento non solo dell’aria, ma anche delle acque e del suolo. La sopravvivenza della Terra è legata a quella dei suoi ecosistemi, cioè agli insiemi complessi di organismi vegetali e animali che interagiscono con l’ambiente e fra loro, producendo un equilibrio che si autoregola. Quando questo equilibrio è intaccato dall’azione dell’uomo in maniera violenta o innaturale, si va incontro a rischi per il paesaggio e a vere e proprie emergenze ambientali. Cosa provoca tutto questo? L’eccesso di sostanze di scarto delle industrie, le emissioni di gas dai mezzi di trasporto, le perdite di petrolio in mare, il difficile smaltimento dei rifiuti (sia domestici sia industriali) creano una generale condizione inquinante che a sua volta ingenera processi nefasti per il pianeta. L’effetto serra, la desertificazione, i cambiamenti climatici sono alcuni degli effetti di rimbalzo che derivano principalmente, ma non solo, dall’eccesso di anidride carbonica (CO2) sprigionato dall’attività umana. Nell’atmosfera l’anidride carbonica, insieme al vapore acqueo e ad altri gas (detti tutti “gas serra”), ha una funzione positiva, poiché trattiene le radiazioni e il calore solare, regolando la temperatura. Bruciando in modo massivo i combustibili fossili (petrolio, gas naturale e carbone), l’anidride carbonica “in più” provoca però nell’atmosfera un forte innalzamento della temperatura e conseguenti cambiamenti negli ecosistemi, anche i più complessi. Strategie di intervento Le emissioni eccessive di gas serra e il conseguente innalzamento della temperatura del pianeta colpiscono ormai sia i paesi sviluppati, sia quelli in via di sviluppo. Per arginare il problema, che potrebbe definirsi, dunque, globale, l’impegno deve essere di tutti. Nel 1997 a Kyoto, in Giappone, 170 paesi hanno firmato un Protocollo, un accordo con cui si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra, entro il 2012, almeno del 5,2%, rispetto ai valori registrati nel 1990. Riducendo l’impiego di energia generata da combustibili fossili e quindi rallentando la produzione industriale, il provvedimento ha indotto alcuni paesi ad esitare prima di aderire, tanto da rendere operativo l’accordo solo nel 2005. Gli Stati Uniti, tra i maggiori responsabili di emissioni di carbonio, non hanno firmato. Nel 2007, a Bali in Indonesia, si è tenuta una conferenza sul clima e in questa occasione si è discusso anche d’inquinamento, andando oltre Kyoto. Si è giunti a un accordo, firmato a Copenaghen nel 2009 anche dagli Usa, in cui, data la situazione di grave emergenza, il mondo si è impegnato a stabilire come limite massimo dell’aumento della temperatura globale i 2°C. Vista l’ascesa di alcuni paesi, per esempio India e Cina (cfr. in proposito Verso quale futuro?, pp. 356 sgg.), si è anche deciso di stanziare grosse cifre che, da qui al 2050, agevolino entro i loro confini la creazione di impianti di energia pulita.

Dove Nell’ottobre 2010 la concentrazione media di CO2 nell’atmosfera era di 387,15 ppm (parti per milione), nel 2009 era di 384,34 ppm; nell’ottobre 2011, il picco si è ulteriormente innalzato raggiungendo un valore medio di 388,92, come si può osservare nel grafico. Il Mauna Loa Observatory delle Hawaii monitora la situazione mondiale, calcolando in media quanto gas serra opprime l’atmosfera quo-

368

geoSTORIA

concentrazione di CO2 nell’atmosfera (ppm)

400 390 380

370 tidianamente. I dati sono sconfortanti, se si pensa agli obiettivi di Kyoto. Le 360 emissioni aumentano invece di ridursi, e le zone del pianeta in cui si con350 centrano oggi, rispetto a qualche anno fa, sono diverse. Ma quali sono i pae340 si maggiori produttori di emissioni nocive? E chi contribuisce nel mondo 330 a inquinare maggiormente? Nel 2009, gli Stati Uniti (responsabili, da soli, di 320 un terzo della quantità mondiale), Russia e Cina sono stati i maggiori inqui310 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010 2015 anno nanti; di seguito venivano Giappone e India e successivamente Brasile, Canada, Australia e Iran. Si era comunque, per quell’anno, registrata una fles-  Concentrazione di CO2, dal 1995 al 2015 [da www.co2now.org] sione in negativo (cioè una diminuzione delle emissioni) che aveva lasciato sperare. Tra il 2009 e il 2011 i valori hanno subìto un’impennata, sfiorando il +5,8% nel 2010. I paesi maggiormente responsabili sono India e Cina, in testa, e a seguire Stati Uniti e Giappone, mentre hanno contribuito a una sostanziale diminuzione delle emissioni (e dunque del consumo di combustibili fossili) alcuni paesi dell’Europa, con –7% rispetto ai dati del 1990; tra questi è compresa l’Italia.

La carta che segue illustra le zone del pianeta in cui si è concentrata maggiormente l’emissione di CO2 , anidride carbonica fortemente inquinante, nel 2009.



Emissioni di CO2 nel 2009 [dati aggiornati al 2009. © carta di Laura Canali, «Limes, la Rivista italiana di geopolitica»; per gentile concessione]

L’uomo e il paesaggio

369

L’uomo e il paesaggio Il grafico illustra la situazione mondiale relativa al consumo di CO2 per paese, nel ventennio 1990-2010. I paesi avanzati e quelli emergenti sono segnalati con colore differente.

paesi Cina Stati Uniti Eu 27 Eu 15 India Federazione Russa

paesi industrializzati

Giappone

1990

Germania

2000

Corea del Sud

2010

Canada

paesi in via di sviluppo

Regno Unito Indonesia

1990

Messico

2000

Brasile

2010

Arabia Saudita Italia Australia Iran Sudafrica Francia Polonia Ucraina Spagna Taiwan Tailandia



Emissioni di CO2 prodotte dal consumo di combustibile fossile e dalla produzione di cemento, per paese [da www.qualenergia.it]

Paesi Bassi

milioni di tonnellate di CO2 0

2.000

4.000

6.000

8.000

10.000

La sigla Eu15 nel grafico si riferisce ai paesi primi membri dell’Unione Europea: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia, Regno Unito. Eu 27 si riferisce invece ai paesi attualmente membri della Unione europea, che il primo maggio 2004 sono diventati 27, perché ai 15 si sono aggiunti Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. Il grafico dunque restituisce sia la quantità di emissioni di molti Stati dell’Unione Europea, sia quella complessiva dell’area dell’Ue (precedente e successiva al maggio del 2004). La situazione italiana Il consumo energetico in Italia è alto. I combustibili fossili più usati sono gas naturale e, in percentuale maggiore, petrolio; buona parte di questi combustibili è impiegata per la produzione di energia elettrica. Nonostante questo l’Italia, rispetto agli obiettivi di Kyoto, è at-

370

geoSTORIA

milioni di tonnellate di CO2 (e gas serra equivalenti)

tualmente al passo perché dal 1990 al 2010 ha ridotto le emissioni di gas serra del 4,8%. La flessione, dovuta probabilmente alla crisi economica che nel 2009 ha investito il nostro paese, si è ridimensionata nel 2010, ma ci si deve augurare che i dati non peggiorino. 600 580 560 540 520 500 valore soglia protocollo Kyoto 2010

2009

2008

2007

2006

2005

2004

2003

2002

2001

2000

1999

1998

1997

1996

1995

1994

1993

1992

1991

1990

480



Emissioni di gas serra in Italia, 1990-2010 [da www.aspoitalia.blogspot.it]

anni

Chi Identikit del disastro ambientale Se guardiamo il mondo dall’alto, come da un aereo, vediamo un pianeta florido, ancora meraviglioso, ma di cui si intravedono ferite e regioni dagli equilibri minacciati o compromessi. Ciò che oggi affligge la Terra è una serie di disastri ambientali prodotti dall’azione dell’uomo, in particolare negli ultimi due secoli. Ma cosa intendiamo esattamente per disastro ambientale? Intendiamo un fenomeno catastrofico con una ampia ricaduta sull’ambiente, e cioè con effetti gravi su un numero elerisorse rinnovabili Sono definite risorse rinnovabili quelle che vatissimo di organismi viventi e su un territorio esteso. Le azioni dell’uomo possono pronon diminuiscono con l’uso da parte delvocare improvvisi disastri ambientali (la fuoriscita di petrolio da una piattaforma marina, l’uomo, sebbene in molti casi ciò sia vero per esempio), ma insieme le azioni e le abitudini umane sono causa di alcuni disastri conentro certi limiti di sfruttamento. L’energia solare e l’energia eolica sono, per esempio, sumati nel tempo, e ormai di proporzioni molto vaste. Il processo di industrializzazione, lo risorse rinnovabili permanenti. Una foresta sfruttamento delle risorse rinnovabili e non, e uno stile di vita improntato al benessere però è una risorsa rinnovabile non permae al “consumismo” vorace – almeno in Occidente – hanno generato una situazione grave nente, poiché rischia di scomparire quando l’uomo inizia a tagliare più alberi di quanti che urge cambiare. Un inizio può essere modificare alcune tra le nostre più semplici abine nascano. tudini quotidiane: non possedere più di una automobile in famiglia, non fare un uso ec-

L’uomo e il paesaggio

371

L’uomo e il paesaggio cessivo degli elettrodomestici, evitare di tenere in carica cellulari e computer, o accesa una lampadina, quando non è necessario. Quanta più energia si consuma, tanto più l’ambiente subisce contraccolpi. I danni al suolo Il suolo è una delle risorse più importanti e sfruttate dall’uomo. Può essere catalogato come risorsa non rinnovabile, dal momento che i suoi tempi di rigenerazione sono lunghissimi, spesso stimati nell’ordine di secoli. La sua più importante funzione è quella di permettere la crescita della vegetazione, ma da tempo l’uomo gli “chiede troppo”. Oltre alla coltivazione diretta per soddisfare i bisogni alimentari, il suolo accoglie la sempre più crescente urbanizzazione, soprattutto nei paesi avanzati, e questo crea non pochi problemi: la pressione umana che viene esercitata quotidianamente, visto il progressivo aumento demografico, la costruzione di infrastrutture e di industrie, il passaggio continuo di mezzi di trasporto causano un degrado del terreno che difficilmente può essere sanato. Nei paesi in via di sviluppo, invece, le problematiche sono differenti. Spesso ci sono meno case e più vegetazione, soprattutto nelle zone tropicali, e la necessità di coltivare i campi è legata a quella di sfamarsi. In questi casi, dunque, l’agricoltura è praticata in modo aggressivo e il suolo, sovrasfruttato, deperisce in fretta. Altro fenomeno legato ad un bisogno primario è la deforestazione, cioè l’abbattimento di alberi nelle foreste, per avere terra coltivabile e legna da bruciare. Se nei paesi del Nord del mondo le foreste sono sottoposte a tutela e a stretta osservazione, nel Sud del mondo ciò non avviene; la deforestazione selvaggia in alcune zone, come in Brasile, Indonesia, Congo e India, è una piaga da estirpare. Abbattere gli alberi crea condizioni nefaste per l’ambiente: oltre alla fauna scompare la flora così importante per trattenere le emissioni di anidride carbonica in eccesso. In questo modo la temperatura globale si innalza, il clima subisce inevitabili cambiamenti e le piogge iniziano a scarseggiare, provocando una condizione diffusa di siccità. I suoli, inariditi e impoveriti di sostanze, diventano difficilmente coltivabili. Questo fenomeno viene definito desertificazione. I danni all’aria e all’atmosfera Nelle regioni più industrializzate l’eccesso di emissioni di anidride carbonica – lo abbiamo visto – rappresenta una delle cause maggiori di inquinamento. L’aria che respiriamo è contaminata dai gas di scarico delle automobili, dai vapori delle industrie e delle centrali elettriche, dal funzionamento del riscaldamento domestico. A risentirne sono il clima e l’uomo stesso. Ma cosa si verifica nell’atmosfera? E quali sono i danni reali? All’effetto serra abbiamo fatto un cenno, vediamo ora la questione più nel dettaglio. La Terra riceve dal Sole dell’energia che poi la superficie terrestre rimanda nuovamente nell’atmosfera. Una parte di questo calore viene trattenuto da alcuni gas presenti nell’atmosfera, fino a formare come una calotta, una coperta che avvolge il globo terrestre, regolando le temperature in modo da favorire l’esistenza della vita di uomini, flora e fauna. Effetto serra viene chiamata questa coperta che intorno alla Terra crea una protezione; quando si produce, per mano dell’uomo, un aumento dell’effetto serra, la temperatura globale subisce un forte aumento, nocivo per gli esseri viventi. Si parla di global warming, ‘riscaldamento globale’: un cambiamento climatico che genera forti ondate di calore, lo scioglimento dei ghiacci nella regione artica (Siberia, Canada del Nord, Alaska) e l’innalzamento del livello del mare; nelle regioni calde o temperate, invece, si verificano o forti precipitazioni che determinano inondazioni e straripamenti di fiumi, o siccità e desertificazione. Anche l’ozono è un gas che avvolge l’atmosfera, proteggendola però dalle radiazioni Uv, ultraviolette. L’inquinamento e alcuni altri gas, come quelli prodotti dalle bombolette spray, provocano danni all’ozono, assottigliandone la coltre che attualmente ci protegge. È così nata l’espressione buco nell’ozono, che sta proprio ad indicare la persistente perforazione della calotta (ovvero dello strato di ozono) e che, lasciando passare le radiazioni del Sole, nocive per la pelle, ci espone al rischio sempre più crescente di cancro.

372

geoSTORIA

I danni all’acqua Nonostante le normative a tutela dell’ambiente, in fiumi e laghi confluiscono rifiuti urbani fognari, scarichi di industrie e scarti tossici (materiali organici, metalli, prodotti chimici), residui di attività agricole (fertilizzanti, pesticidi) e acque reflue degli allevamenti. Le acque dolci, così inquinate, confluiscono in mare, già soggetto a inquinamento industriale e domestico. A volte hanno creato seri danni alle acque marine anche le fuoriuscite di materiale dalle grosse petroliere. Lo sversamento di petrolio, causato da incidenti, naufragi e dall’apertura di grosse falle nelle piattaforme, genera un grande sconquasso: il petrolio ha un peso specifico minore dell’acqua e quindi galleggia, formando una specie di film, una pellicola sul mare; le alghe e la flora marina, gli uccelli e i pesci non hanno ossigeno e non hanno possibilità di sopravvivere. I disastri ambientali EFFETTO SERRA

«”Brasile, ferma le motoseghe”, questo è il messaggio scritto sulla mongolfiera di Greenpeace durante l’inaugurazione del ponte sul Rio Negro nello Stato di Manaus Amazzonia in Brasile. Il messaggio è indirizzato al Presidente Dilma Rousseff, presente alla cerimonia, per chiederle di rispettare le promesse fatte durante la campagna elettorale: non cambiare il Codice Forestale che causerebbe un aumento della deforestazione illegale» (25 ottobre 2011).

«L’effetto serra è quel fenomeno che provoca la conservazione dell’energia solare all’interno dell’atmosfera. Gentile pensiero delle multinazionali che desiderano trasformarci tutti in orchidee.»

[da www.greenpeace.org/italy.it]

[© Rodrigo Baleja/Greenpeace

DEFORESTAZIONE

SOLE PARTE DELLA RADIAZIONE VIENE RIEMESSA DALLA TERRA

ATMOSFE

CO2

[Anonimo]

BUCO NELL’OZONO

INQUINAMENTO DELLE ACQUE

«Il buco nell’ozono? La colpa è di Toto Cotugno: usa talmente tanta lacca che ogni volta che si dà un colpo di spazzola si stacca un pezzo di Antartide.»

Eppure soffia «E l’acqua si riempie di schiuma, il cielo di fumi, la chimica lebbra distrugge la vita, nei fiumi uccelli che volano a stento malati di morte, il freddo interesse alla vita ha sbarrato le porte.»

[Stefano Benni]

[Pierangelo Bertoli]

 Bombolette spray alimentate con clorofluorocarburi

 Moria di pesci

lungo il fiume Arkansas, Usa

L’uomo e il paesaggio

PARTE DELLA RADIAZIONE VIENE RIFLESSA VERSO LA SUPERFICIE

373

RA

L’uomo e il paesaggio Punti di vista I due stralci di articoli che seguono fanno luce in maniera dettagliata su due dei problemi che affliggono il pianeta, la desertificazione e il buco nell’ozono. Entrambi pongono la questione come urgente, ma se il primo ha più un carattere di condanna, il secondo trova un compromesso tra progresso e difesa dell’ambiente.

DICIAMOLO, È UN BRUTTO AMBIENTE Woo-a, woo-a, woo-a woo woo-a woo-a, ooo, ooo, ooooh: così la primatologa Jane Goodall ha aperto la sua audizione sul destino delle foreste al Parlamento statunitense. È il saluto degli scimpanzé con i quali lei vive tra gli alberi di Gombe, in Tanzania; e ha spiegato la scienziata: «Se vogliamo continuare a sentirlo, fermiamo le seghe, le strade e le coltivazioni di olio di palma che stanno distruggendo le nostre foreste in tutto il mondo». E l’appello è diventato materia per le Nazioni Unite che celebrano il prossimo 5 giugno la Giornata Mondiale dell’Ambiente e hanno in-

374

geoSTORIA

dicato il 2011 l’anno delle foreste. È sempre più chiaro infatti che da esse dipendono le sorti del clima, ma anche la qualità dell’acqua, la fertilità del terreno, la biodiversità e la sopravvivenza di circa un miliardo di persone che vivono sui suoi prodotti: dal legname, ai frutti, ai medicinali naturali. Il clima anzitutto: nel mondo le foreste «immobilizzano» una quantità di carbonio superiore a tutta la CO2 che c’è in atmosfera: secondo le stime dell’agenzia scientifica sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc), le piante ne contengono 283 miliardi di tonnellate, il legno morto 38 miliardi e i suoli forestali altri 317 miliardi. Ogni pianta ta-

gliata o bruciata è una brutta notizia per il clima. Per questo durante il summit sul cambiamento climatico tenutosi a Cancun nel dicembre 2010, i paesi si sono accordati per fermare la deforestazione [...] spiega il grande biologo Edward Wilson: «Solo negli Stati Uniti contiamo circa 100 mila specie animali, vegetali e micorganismi, molti dei quali devono la loro esistenza alle foreste primarie. Tagliarle non significa solo rimuovere qualche albero e gli uccelli che vi svolazzano intorno. Con la scomparsa delle foreste più antiche è a rischio un terzo delle specie esistenti, molte ancora sconosciute alla scienza». [L. Carra, in www.l’Espresso.it, 3 giugno 2011]

IL BUCO NELL’OZONO VENT’ANNI DOPO Vent’anni fa, nel 1987, gli scienziati lanciarono un allarme al mondo intero. Lo strato di ozono che scherma la Terra dalle radiazioni “ultraviolette”, nocive per gli organismi viventi al punto tale da poter provocare nell’uomo eritemi e nei casi più gravi anche tumori della pelle, si stava assottigliando pericolosamente. In alcuni punti, in corrispondenza delle zone polari, era praticamente scomparso: per questo si cominciò a parlare di “buco dell’ozono” [...]. La comunità internazionale corse ai ripari elaborando il Protocollo di Montreal: il trattato, firmato il 16 settembre 1987 ed entrato in vigore nel 1989, prevedeva la messa al bando dei clorofluorocarburi (Cfc), considerati responsabili dei danni allo strato di ozono, e quindi il divieto di continuare a produrre frigoriferi, condizionatori di automobili, materiali schiumosi e tutti gli altri oggetti contenenti questi famigerati gas. Oggi, a vent’anni di distanza, Guido Di Donfrancesco, ricercatore dell’Enea (Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente) fa il punto della situazione con Panorama.it.

«Negli anni Settanta-Ottanta nessuno pensava che i Cfc facessero male al pianeta, poiché essi erano inerti, cioè innocui, nella troposfera, la fascia dell’atmosfera più vicina alla superficie terrestre», spiega Di Donfrancesco: «Ma non sapevamo che invece, una volta saliti nella stratosfera, questi Cfc reagivano con l’ozono. In prossimità del Polo Nord e del Polo Sud avvenivano delle reazioni [...] che distruggevano lo strato d’ozono». Quando gli scienziati se ne accorsero, ormai il danno era fatto: «In alcuni punti dell’Artide e dell’Antartide, in particolari periodi dell’anno, vi erano milioni di chilometri quadrati di atmosfera completamente privi di ozono; inoltre, si era verificata una diminuzione globale della percentuale di ozono in tutta l’atmosfera, anche alle medie latitudini». L’allarme impose una cooperazione internazionale: «Si può considerare il Protocollo di Montreal come il primo grande accordo per la salvaguardia dell’atmosfera del pianeta» dice Di Donfrancesco: «Da quel momento la produzione dei Cfc dannosi per l’ozono si è quasi fermata, anche se naturalmente rimangono da smaltire quelli prodotti prima del 1989. Per esempio, nei prossimi decenni continueran-

no purtroppo ad essere immessi nell’atmosfera Cfc provenienti dai materiali schiumosi prodotti in questi ultimi vent’anni». I risultati però sono globalmente incoraggianti: «Entro il 2060 la fascia di ozono dovrebbe essere completamente recuperata» conclude il ricercatore: «Ormai tutti i frigoriferi e i condizionatori sono alimentati con ‘gas verdi’, Cfc ‘rielaborati’ in modo da essere inattivi alle reazioni con l’ozono». Una grande vittoria anche per il fronte ecologista: «Abbiamo dimostrato che non è vero che l’ambiente è nemico del progresso», dice Andrea Poggio, vicedirettore di Legambiente: «Sembrava una sfida quasi impossibile: risolvere il problema del buco dell’ozono coinvolgendo e responsabilizzando tutti, governi e grandi imprese. Eppure, salvo rare eccezioni di Paesi in cui ancora si viola il trattato, ce l’abbiamo fatta: la battaglia è stata vinta. Noi pensiamo che questa sia stata la ‘prova generale’: adesso la grande battaglia che bisogna affrontare è quella contro l’emissione dei gas climalteranti, cioè quelli che provocano mutamenti climatici come il surriscaldamento della Terra». [E. Voltolina, in www.Panorama.it, 2 gennaio 2008]

L’uomo e il paesaggio

375

Lo sviluppo sostenibile

‘‘

Non chiedetevi cosa può fare il vostro paese per voi. Chiedetevi che cosa potete fare voi per il vostro paese (John Fitzgerald Kennedy)

’’

Perché Un mondo a caccia di risorse Una risorsa è qualcosa che si trova in natura e che può essere sfruttata dall’uomo. L’acqua, il suolo, l’aria, la luce del sole, le piante, le pietre, e vari altri elementi, sono risorse naturali per definizione. Sin dalle origini l’uomo le ha utilizzate, impiegandole materialmente per i propri bisogni, cercando soluzioni ingegnose che potessero aiutarlo a gestire le attività quotidiane: ha costruito usando il legno dei tronchi d’albero, ha tagliato con sassi appuntiti, si è riscaldato con i raggi solari, ha bevuto l’acqua dolce dei fiumi, ha navigato in mare grazie alla forza del vento. Nel tempo le risorse naturali sono cambiate, sia perché il paesaggio ha subito ordinarie modifiche (per l’intervento di agenti atmosferici o a causa dell’azione dell’uomo), sia perché il progresso della tecnologia ha permesso di spostare l’attenzione su nuove tecniche e dunque nuovi materiali. È quasi superfluo dire quanto importanti siano per l’uomo le risorse materiali, e in genere naturali. Basti ricordare che le tre epoche preistoriche, “della Pietra”, “del Bronzo” e “del Ferro”, cronologicamente in progressione, prendono il nome da un materiale di cui, di volta in volta, l’uomo si è avvalso. Le risorse primarie, usate inizialmente in modo diretto per assecondare le basilari necessità di nutrizione e sopravvivenza (caccia, raccolta, pesca, difesa personale), sono state poi “trasformate”, manipolate, convertite in prodotti o tecniche al fine di soddisfare un ventaglio di bisogni sempre maggiore. Le risorse naturali possono così essere chiamate fonti primarie, mentre quelle ricavate dalla trasformazione delle primarie sono dette fonti secondarie (il petrolio, per esempio, è una fonte primaria, la benzina, che dalla sua lavorazione deriva, secondaria).

376

geoSTORIA

E oggi? Fino al XIX secolo, quando è avvenuta la Rivoluzione industriale, lo sfruttamento delle risorse non è stato eccessivo; si faceva un più largo uso delle risorse primarie, era minore la produzione di fonti secondarie, e la vita quotidiana e lavorativa procedeva con maggiore lentezza. Subito dopo, le esigenze sono cambiate, proprio in virtù del processo di industrializzazione. In primo luogo l’uomo ha avuto bisogno di essere più veloce per agevolare la produzione, combattere la concorrenza, far circolare la merce e la moneta, raggiungere in tempi utili posti sempre più lontani; le comunicazioni, non solo gli spostamenti, hanno richiesto tempestività. Ma altre e numerose sono state le trasformazioni: nelle case ci si è riscaldati con stufe e poi termosifoni; le cucine, prima a carbone, sono diventate a gas; le candele sono state eliminate e sostituite con lampade a petrolio prima, e lampadine poi; ai cavalli sono succeduti le automobili e i veicoli meccanici; per funzionare l’industria ha fatto ricorso a una quantità forse incalcolabile di minerali estratti dal sottosuolo. Le trasformazioni descritte hanno richiesto un impiego delle risorse energetiche mondiali davvero imponente e comportato un loro utilizzo smodato: in un paio di secoli il nostro pianeta è andato in deficit. La questione delle risorse dunque non è secondaria. A questo concetto abbiamo fatto cenno nelle pagine precedenti, ma è giunto il momento di approfondire l’argomento. Le risorse non hanno una durata infinita e molte di loro necessitano di un tempo di rigenerazione difficile da quantificare; per alcune si può anche pensare a milioni di anni. Si parla così di risorse rinnovabili quando il loro processo di rigenerazione è naturale e facilmente realizzabile, di risorse esauribili o non rinnovabili quando il processo di rinnovamento comporta tempi troppo lunghi rispetto a quelli umani, o quando si va incontro all’impossibilità della rigenerazione e quindi al totale esaurimento. Le fonti di energia, per esempio, sono solo in parte rinnovabili – energia solare, eolica, idrica, geotermica (sprigionata dal calore contenuto nella Terra) –, ma quelle maggiormente usate sono purtroppo esauribili (carbone, petrolio, gas naturale). Oggi, sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo, il consumo di energia e di materie prime è moltiplicato rispetto al passato, ma lo stile di vita ormai connaturato all’uomo del XXI secolo impedisce di tornare indietro. Bisogna, dunque, trovare soluzioni che per un verso tamponino l’emergenza e per l’altro custodiscano le riserve del pianeta Terra. E come? Si parla molto di sviluppo sostenibile, ma non è chiaro a tutti cosa sia. Due testimonianze ce lo spiegano chiaramente: la prima è uno stralcio di articolo comparso su un supplemento della rivista dell’associazione ambientalista Legambiente; la seconda una dichiarazione di Lester Russell Brown, scrittore, ambientalista ed economista statunitense. Brown è anche il fondatore del Worldwatch Institute, il primo istituto dedicato all’analisi delle questioni ambientali mondiali, e il fondatore e presidente del Earth Policy Institute, organizzazione di ricerca non profit di Washington, D.C.

Lo sviluppo sostenibile rappresenta una visione globale del concetto di sviluppo, una strategia che si articola a diversi livelli: esso, in sintesi, potrebbe essere definito come una forma di sviluppo non solo economico ma anche sociale, in cui la crescita economica avviene entro i limiti delle possibilità ecologiche degli ecosistemi e della loro capacità di soddisfare i bisogni delle generazioni future. Infatti tutti gli esseri umani, al di là della loro struttura sociale, politica ed economica, hanno bisogno di materiali naturali biologici per soddisfare i loro bisogni inerenti l’alimentazione, l’abitazione, l’energia, i medici-

nali ed in generale per raggiungere un buon livello di qualità della vita. Poiché lo sviluppo economico dipende dallo stock di risorse naturali della Terra, mantenerne la riproducibilità rappresenta la chiave per la sostenibilità. Tale riproducibilità viene mantenuta solo da un uso razionale delle risorse che tenga conto dei meccanismi di funzionamento degli ecosistemi e in generale delle capacità di carico ambientali (in senso ampio). [da Progettiamo il futuro, in «Educazione Ambientale», supplemento a «Legambiente notizie», n. 8, Anno VII, 15 ottobre 1996]

Lo sviluppo sostenibile

377

Lo sviluppo sostenibile Quando le persone mi chiedono «Cosa posso fare?», di solito si aspettano che la mia risposta sia: «Ricicla i tuoi giornali, cambia le tue lampadine con altre più efficienti, ecc.». Ma la cosa più importante che noi come individui possiamo fare è di diventare politicamente attivi, impegnarci perché agli attuali trend di distruzione ambientale e crescita demografica, che minano il nostro futu-

ro, sia imposto uno stop. La scommessa ora è di salvare la nostra civiltà. E la posta non potrebbe essere più alta. Questo non è certo uno sport da spettatori. Se non vogliamo perdere, è indispensabile che tutti siano coinvolti in questo processo di cambiamento totale: unica chance alla salvezza dell’umanità. [L.R. Brown]

Il dibattito sullo sviluppo sostenibile ha preso il via negli anni ’60-’70, quando si è iniziato a parlare di un modello di crescita economica e di progresso che preservasse le risorse energetiche della Terra, in via di esaurimento. La Conferenza di Stoccolma, nel 1972, è la prima occasione in cui si discute di sviluppo e ambiente e il cui tema è emblematico: «La Terra come capitale da preservare, nella considerazione del rapporto critico tra crescita ed ecosistema e del processo irreversibile costituito dallo sfruttamento delle risorse non rinnovabili». Ne scaturisce una Dichiarazione che pone l’accento sulla imprescindibilità di considerare l’ambiente come parte integrante del processo evolutivo futuro. Prende così il via l’idea di sviluppo sostenibile o sostenibilità che trova la sua proclamazione e definizione più conosciuta nel Rapporto Our Common Future (1987) della World Commission on Environment and Development (Commissione Bruntland): «garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri».

Dove Le regioni dello spreco Circa il 90% dell’energia usata dall’uomo è prodotta da fonti non rinnovabili, in particolare da combustibili fossili, petrolio, gas e carbone. La concentrazione di queste risorse in alcuni Stati, e non in altri, dipende da fattori geologici molto antichi: le maggiori riserve di petrolio sono in Medio Oriente, in particolare in Arabia Saudita; sempre nella regione mediorientale, ma anche in Russia, si trovano le più grandi riserve di gas. Quanto invece ai consumi, Stati Uniti, Cina e Giappone sono i maggiori consumatori di petrolio e di energia elettrica (quest’ultima, una fonte di energia secondaria); Stati Uniti, Russia ed Iran, inoltre, detengono il primato del consumo di gas naturale. Ci sono paesi, insomma, che fanno largo uso di fonti non rinnovabili, “sprecando” risorse che appartengono a tutti e che andrebbero condivise in modo più equo. Un abitante degli Stati Uniti, per esempio, consuma in media, annualmente, il doppio dell’energia elettrica di un europeo e dieci volte quella di un africano. Per un quadro chiaro delle conseguenze di questo comportamento sconsiderato si tengano presenti altri due dati: il consumo di energia pro capite mondiale si va moltiplicando di anno in anno; e l’Onu prevede che nel 2050 la popolazione mondiale continui ad aumentare raggiungendo quota 10 miliardi di individui circa. Le tre mappe che seguono, aggiornate al gennaio 2011, mostrano i consumi mondiali di gas naturale, energia elettrica e petrolio, i tre combustibili fossili da cui scaturisce il fabbisogno mondiale di energia. Le aree di colore più intenso e scuro sono quelle nelle quali si registrano i consumi maggiori. La sproporzione tra le diverse parti del mondo nel consumo di queste risorse non rinnovabili è molto evidente e assume i contorni dell’emergenza.

378

geoSTORIA

Consumo di gas naturale

nessun dato

[da www.indexmundi.it]

Consumo di energia elettrica

nessun dato

[da www.indexmundi.it]

Lo sviluppo sostenibile

379

Lo sviluppo sostenibile Consumo di petrolio

nessun dato

[da www.indexmundi.it]

Le regioni rinnovabili L’attenzione verso un uso intelligente delle risorse è, per fortuna, un atteggiamento diffuso tra i paesi del mondo. La consapevolezza di andare incontro a un esaurimento delle risorse ha fatto muovere molte nazioni verso l’utilizzo di fonti alternative e pulite, come l’energia solare, eolica, idrica, geotermica. Gli Stati che utilizzano energia sostenibile sono quelli avanzati, stabili economicamente, che hanno grandi capitali da investire in queste misure alternative e che sono predisposti anche geograficamente a ospitare strutture adatte: le centrali idroelettriche o l’installazione di pale eoliche, per esempio, hanno bisogno di alcune condizioni metereologiche e geologiche fondamentali (le prime necessitano di bacini d’acqua o corsi fluviali, le seconde di aree estese e esposte quanto basta ai venti). Tra i paesi impegnati nello sviluppo sostenibile troviamo gli Stati Uniti, la Cina e l’India, che affiancano allo sfruttamento di risorse non rinnovabili quello di energia pulita, i paesi del Nordeuropa (Norvegia e Finlandia, soprattutto), il Canada e alcuni paesi europei come la Germania, la Francia, l’Olanda e l’Italia. Un’alternativa interessante, per ricavare energia pulita, è costituita dalle centrali nucleari. Bombardando dell’uranio con neutroni, si ottiene energia nucleare (il processo è complesso da spiegare) con il vantaggio, rispetto ai combustibili fossili, di avere riserve più grandi e di non sprigionare nell’atmosfera gas dannosi. Di contro, però, gli svantaggi sono notevoli: 1. l’uranio è un combustibile radioattivo e in caso di incidenti provoca danni enormi per la salute dell’uomo e per l’ambiente; 2. i costi di produzione e mantenimento degli impianti sono alti e le centrali hanno necessità di molta acqua per funzionare; 3. le scorie radioattive devono essere smaltite in posti sicuri perché hanno tempi molto lunghi di decadimento, costituendo un pericolo.

380

geoSTORIA

Molte delle centrali nucleari si trovano in Giappone, negli Stati Uniti, in Russia e in Francia, mentre Cina, India e Corea del Sud stanno attualmente provvedendo a costruirle per dare supporto alla loro crescita economica, cercando di ridurre lo sfruttamento del carbone. La carta e il grafico che seguono illustrano gli investimenti che alcuni paesi nel mondo hanno fatto nel rinnovabile e la crescita dell’uso delle energie rinnovabili tra il 2005 e il 2010. I dati nella carta sono espressi in miliardi di dollari.

 Investimenti in energia

rinnovabile, 2005-2010 [da www.mondoelettrico.blogspot.com]

Germania

41

Usa

miliardi di dollari

30

Italia

miliardi di dollari

14

miliardi di dollari

Cina

50

miliardi di dollari

Brasile

7



Tasso medio di crescita annuo della produzione di energia rinnovabile e biocarburanti, 2005-2010 [da www.mondoelettrico.blogspot.com]

solare fotovoltaico solare fotovoltaico per connessione a una rete

81%

60% 25% 27%

eolico solare termodinamico a concentrazione

77%

25%

geotermico

3% 4%

idroelettrico

3% 3% 16% 16%

solare termico

17%

produzione di etanolo produzione di biodiesel

72%

49%

7%

solo 2010

23%

nel quinquennio 2005-2010

38%

Lo sviluppo sostenibile

381

Lo sviluppo sostenibile La situazione in Italia In Italia il maggiore impiego di energia è fatto dal sistema produttivo e dei trasporti e per il consumo domestico. Specialmente quest’ultimo ha un’incidenza fortissima poiché altamente energivori sono gli strumenti che quotidianamente si usano in una casa (frigoriferi, lavatrici, televisori, apparecchi di illuminazione, ecc.), ma in particolar modo i sistemi di condizionamento e di riscaldamento che consumano una quantità di energia spropositata. Alla data di luglio 2011 il fabbisogno di energia elettrica richiesta, nel nostro paese, è stato di 29,7 miliardi di Kwh (chilowattora), ripartito in questo modo: 44,9% al Nord, 29,5% al Centro e 25,6% al Sud. Il grafico che segue riporta l’andamento dei consumi di energia (espressa in miliardi di Kwh) in un arco di tempo che va dal 2006 al 2011. 34

2006

2007

2008

2009

2010

2011

32

miliardi di Kwh

30

28

26

24

22

20 gen

feb

mar

apr

mag

giu

lug

ago

sett

ott

nov

dic

mesi dell’anno

[da www.terna.it]

La situazione italiana, dunque, non è delle più rosee. La richiesta di energia elettrica e gas è altissima e l’impatto che tutto ciò ha sull’ambiente, a livello di inquinamento, colloca il nostro paese in una posizione di seria difficoltà. Le strategie adottate fino ad oggi sono mirate verso una forte attenzione al risparmio energetico e l’utilizzo di fonti rinnovabili. Il risparmio energetico è uno degli obiettivi che l’Unione Europea si è prefissa di raggiungere nel 2020 e il nostro paese in quest’ottica si è mosso attraverso alcune strategie significative, quali l’utilizzo di veicoli a basso consumo, di elettrodomestici nuovi, i cui consumi rispetto ai vecchi sono dimezzati, l’introduzione di processi di produzione industriale che riducano gli sprechi energetici. A questo contribuisce l’uso sempre più diffuso di fonti rinnovabili: l’energia idroelettrica è una delle risorse più utilizzate in Italia; impianti eolici sono largamente presenti nelle regioni del Mezzogiorno; l’energia geotermica è usata per riscaldare abitazioni e serre soprattutto nel Lazio e in Toscana.

382

geoSTORIA

Chi Identikit della risorsa: fonti non rinnovabili e rinnovabili Le risorse energetiche esauribili o non rinnovabili sono definite anche fonti energetiche fossili o combustibili fossili perché derivano dalla fossilizzazione di elementi organici animali o vegetali che, una volta combusti, sprigionano grandi quantità di calore. Si trovano allo stato solido, come il carbone, allo stato liquido, come il petrolio, e allo stato gassoso come il gas naturale. La loro produzione è concentrata in alcune zone e la richiesta mondiale è altissima. Molti paesi avanzati consumano quantità elevatissime di energie non rinnovabili e, pur producendole, le comprano altrove per conservare intatte le proprie riserve. Spendono così ingenti capitali per procurarsele; qualora non ci riescano, investono denaro per comprare materiali sostitutivi. Ormai la domanda supera di gran lunga l’offerta e la situazione di emergenza è tale da dover correre ai ripari. Il petrolio è la risorsa esauribile più ricercata. Serve come combustibile per i mezzi di trasporto e gli impianti di riscaldamento; viene usato come materia prima nell’industria chimica e da esso si ricavano gomme, vernici, plastica; è sfruttato nelle centrali termoelettriche. Proprio perché la più ricercata è anche la più a rischio di esaurimento. Non si sa quanto i giacimenti attualmente noti riusciranno a soddisfare la richiesta mondiale. Si suppone che presto avverrà il peak oil (letteralmente ‘picco del petrolio’), cioè il fenomeno per cui la produzione mondiale di petrolio toccherà il suo picco massimo con lo sfruttamento intensivo dei giacimenti più facili da raggiungere e migliori, e diventerà sempre più difficile imponendo spese enormi, a volte insostenibili, per utilizzare i giacimenti più lontani e meno ricchi. Ogni previsione rimane vaga e imprecisa, dal momento che nessuno può conoscere la vera disponibilità di petrolio presente nel sottosuolo. La riduzione dei consumi è auspicabile comunque, specialmente in virtù delle forti conseguenze che l’utilizzo dei combustibili fossili ha sull’ambiente. Se il petrolio inquina soprattutto i mari e le coste, in caso di affondamenti di petroliere generando veri e propri disastri, il carbone, fonte primaria per la produzione di energia elettrica, pare sia il combustibile fossile più nocivo, avendo un alto carico di componente inquinante e dannosa per l’atmosfera. Il gas naturale, invece, è il meno dannoso per l’ambiente. È utilizzato nel riscaldamento delle case, per produrre energia elettrica, come combustibile per autovetture (Gpl) e negli impianti di condizionamento. Per alcuni utilizzare le fonti rinnovabili, piuttosto che infilare un filo in una presa elettrica, sembra essere un salto nel passato lontanissimo, al tempo in cui gli uomini si servivano delle forze della natura, ma non è proprio così. L’uso del sole, dell’acqua e dell’aria, o ancora del calore sprigionato dalla Terra, oggi, assume una valenza maggiore, sia per la consapevolezza di andare incontro a un avvenire più pulito, sia perché queste risorse naturali, incanalate in modo corretto, danno un plusvalore al semplice operato dell’uomo: coniugare la tecnologia e le macchine con l’energia naturale vuol dire potenziare le risorse e ottenere risultati più che soddisfacenti con costi ridotti, meno spreco di energia e una sensibile riduzione dell’inquinamento atmosferico. ENERGIA IDROELETTRICA L’energia idrica è stata una delle prime risorse sfruttate dall’uomo. La forza dell’acqua riusciva a spostare e mettere in moto diversi macchinari. Oggi viene utilizzata come mezzo per azionare le turbine delle centrali elettriche, per cui si parla di energia idroelettrica. Ha costi ridotti, non inquina e ovunque ci sia presenza di acqua si può installare una centrale che fornisca energia elettrica, purché le condizioni idrogeologiche del terreno siano favorevoli e sicure (e cioè purché sia sicuro il rapporto del terreno con le acque che lo bagnano o attarversano).

 Centrale idroelettrica, Cleveland (Ohio), Usa Lo sviluppo sostenibile

383

Lo sviluppo sostenibile ENERGIA EOLICA L’energia eolica utilizza la forza del vento; se una volta muoveva le pale dei mulini, oggi invece produce elettricità. Le turbine eoliche sono giganteschi piloni sormontati da pale (come quelle dei mulini) che, girando, catturano la forza del vento e, attraverso un generatore la trasformano da energia meccanica in energia elettrica. I progressi compiuti nella progettazione di questi macchinari hanno permesso di avere pale che funzionano anche in caso di ridotta velocità del vento.

 Installazione di pale eoliche in un campo ENERGIA SOLARE L’energia solare è la fonte più pulita e sicura che ci sia. Viene usata per produrre energia termica ed elettrica. Il sole ha un forte potenziale perché riscalda in modo inesauribile, ma a volte discontinuo: dipende dalle condizioni atmosferiche, dalla sua presenza, limitata alle ore del giorno, dalla stagione. Alcune zone della Terra, poi, non hanno un’esposizione favorevole e non possono utilizzare questa fonte energetica in maniera proficua. Uno dei modi più in voga per convertire i raggi solari in energia pulita, pur se ancora molto costoso, è il pannello fotovoltaico, una specie di grande specchio usato soprattutto in città e per abitazioni collegate alla rete elettrica, ma anche in campagna o in zone isolate, non collegate alle centrali elettriche.

 Pannelli fotovoltaici installati sul tetto di una abitazione ENERGIA GEOTERMICA L’energia geotermica sfrutta il calore presente nel centro della Terra per trasformarlo in energia elettrica. Le centrali di energia geotermica necessitano di zone precise, dove si verifichino le condizioni ideali per estrarre il calore e convertirlo in fonte rinnovabile. Hanno costi ridotti, ma la loro diffusione è ancora limitata.

 Getto di Geyser a Te Puia, Rotorna, Nuova Zelanda

384

geoSTORIA

Punti di vista Di seguito due articoli che testimoniano come il mondo sia proiettato verso un orizzonte più “verde”. Nel primo caso si racconta di una scoperta che potrebbe essere davvero sensazionale, utile per portare energia alternativa nei paesi in via di sviluppo; nel secondo, invece, si illustrano le professioni del futuro, in materia di sviluppo sostenibile.

ENERGIE ALTERNATIVE: LA “FOGLIA” ARTIFICIALE Milano Una foglia artificiale che riscalda un intero appartamento. Alcuni studiosi l’hanno già definita «il Santo Graal della scienza» e affermano che grazie al suo ulteriore sviluppo ogni casa del futuro potrebbe riuscire a produrre autonomamente l’energia elettrica di cui ha bisogno. Questa cella solare, sviluppata da un gruppo di ricerca del Massachusetts Institute of Technology (Mit) guidato dal professor Daniel Nocera e presentata al 241esimo meeting nazionale dell’American Chemical Society ad Anaheim, in California, è grande più o meno quanto una carta da gioco e riproduce il processo di fotosintesi clorofilliana delle piante trasformando la luce del sole e l’acqua in energia. Ma con una sostanziale differenza: l’energia prodotta dalla foglia artificiale è 10 volte superiore a quella creata dalla fotosintesi naturale. Paesi in via di sviluppo Come racconta il tabloid britannico «Daily Mail» non è la prima

volta che degli scienziati portano a termine un’invenzione del genere. Circa dieci anni fa John Turner, ricercatore dell’U.S. National Renewable Energy Laboratory di Boulder, in Colorado, aveva creato il primo prototipo di foglia artificiale, ma il suo costo era troppo elevato e l’energia prodotta era scarsa. La cella del Mit invece risulta davvero singolare: piazzata in un recipiente pieno d’acqua ed esposto al sole essa impiega dei materiali relativamente a buon mercato come catalizzatori fatti di nichel e di cobalto che sono in grado di accelerare le reazioni chimiche e di dividere l’acqua nei suoi due componenti principali, idrogeno e ossigeno. Una volta separati, i due elementi vengono inviati in una cella a combustibile e utilizzati per creare energia elettrica. Gli studiosi stimano che oggi con meno di 4 litri d’acqua la foglia artificiale riesca a produrre l’elettricità necessaria per riscaldare una casa in un Paese in via di sviluppo. Nei test portati avanti dagli scienziati del Mit la foglia

artificiale ha dimostrato di poter funzionare continuamente per almeno 45 ore senza alcun calo di attività. Commercializzazione L’invenzione è pronta per essere commercializzata. Il gigante automobilistico indiano Tata ha già sottoscritto un accordo con i ricercatori del Mit per costruire nei prossimi 18 mesi una piccola centrale elettrica, grande quanto una cella frigorifera. Per adesso lo sguardo è rivolto principalmente ai paesi in Africa e in Asia, ma ulteriori sviluppi di questa tecnologia la potrebbero rendere efficiente anche in Occidente: «Il nostro scopo è quello di fare in modo che ogni casa abbia la propria centrale elettrica», spiega al sito web Wired [www.wired.it] Daniel Nocera, professore di chimica al Mit. «Si possono immaginare interi villaggi in India e in Africa che riescono a produrre tutta l’energia di cui hanno bisogno utilizzando questa nuova tecnologia.» [F. Tortora, www.Corriere.it, 29 marzo 2011]

Lo sviluppo sostenibile

385

Lo sviluppo sostenibile LAVORO PIÙ “VERDE” Roma I professionisti del futuro hanno una divisa verde. «Ci sono nuove energie da imbrigliare e nuovi lavori da creare» disse Obama nel primo discorso dopo l’elezione. Per poi aggiungere più tardi: «Costruiremo in America un’economia dell’energia verde che creerà 5 milioni di posti di lavoro». L’ultimo rapporto Isfol dimostra che non solo in America questo assunto è valido, e non solo al futuro può essere declinato ma anche al presente. Lo studio “Progetto ambiente” dell’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori ha pubblicato ieri i dettagli dell’ondata verde che permea il mondo dell’occupazione. “Boom delle professioni ecologiche. Tutelare l’ambiente aiuta a trovare lavoro” è il titolo. «Un anno dopo il completamento di un master in materie ambientali – scrive l’Isfol – l’80,6% ha già un’occupazione». Il mercato delle professioni verdi è in continua crescita: dai 264 mila addetti del 1993 ai 372 mila nel 2008, con un incremento del 41%. E nel verde cresce la componente rosa, con la quota femminile di lavoratori che passa dal 12,7% del 1993 al 25,5% del 2008. Il fenomeno non è sfuggito a Marco Gisotti e Tessa Gelisio, autori di Green Jobs. Come l’ambiente sta cambiando il mondo del lavoro (Edizioni Ambiente, 400 pagine, 16 euro), che in 100 schede e 20 interviste analizza le opportunità di impiego offerte dall’ondata verde. «Anche il terziario è molto ben rappresentato» spiega Gisotti. «Basta pensare agli avvocati che si occupano di cause ambientali. E nel

386

geoSTORIA

campo delle rinnovabili, la professione più richiesta non è l’installatore, ma il rappresentante incaricato di contattare i clienti.» Secondo Gisotti e Gelisio i lavori verdi coinvolgono oggi tra gli 850 mila e i 950 mila italiani (la differenza con i dati Isfol è dovuta a una definizione più estesa di “green job”) e nei prossimi dieci anni raggiungerà i 1,3-1,5 milioni. Fra gli esempi, prosegue Gisotti, ci sono gli ecoparrucchieri: «Il nome può far ridere. Eppure FederParrucchieri e L’Oréal hanno organizzato dei corsi di formazione per la riduzione dei prodotti inquinanti. Ci sono anche esperti in riciclaggio, progettazione agroforestale o educazione ambientale che difficilmente resteranno senza impiego». Ad analizzare il fenomeno ci ha pensato anche l’Unep (United Nations Environment Programme) nel rapporto “Green Jobs 2008”: «Nel 2006 il solo settore delle rinnovabili dava lavoro a 2,25 milioni di persone nel mondo. L’espansione è in corso sia nei paesi avanzati che in quelli in via di sviluppo». Oltre agli Usa (dove il segretario per l’energia Steven Chu ha annunciato 36 miliardi di dollari per rinnovabili ed ecoprofessioni), anche la Cina è ai primi posti per numero di impieghi verdi. «Qualcosa è cambiato – scrivono Gisotti e Gelisio – se la svolta verde coinvolge un Paese attento ai conti, non all’ecologia».

I lavori verdi Art director verde: sceglie le campagne di comunicazione per dare un’immagine ecologica ai prodotti. Assicuratore ambientale: specializzato in eco-polizze, come l’Rc inquinamento. Avvocato ambientale: specializzato in diritto di conservazione e tutela dell’ambiente. Certificatore energetico: redige le certificazioni energetiche necessarie nelle compravendite immobiliari. Ecochef: organizza la cucina con menù e materie prime controllate e certificate. Ecocool hunter: è un “cacciatore di tendenze” in chiave ecologica. Ecoauditor: controlla che i processi produttivi delle aziende rispettino le norme. Ecoblogger: cura e gestisce per conto di aziende un blog scientifico-ambientalista. Ecobrand manager: responsabile della progettazione di linee di prodotti sostenibili. Ecodiplomatico: rappresenta le istituzioni delle politiche di ratifica dei trattati internazionali. Ecoparrucchiere: coiffeur che utilizza solo prodotti ambientalmente corretti. Esperto del riciclo: commercializza prodotti del riciclo. Pedologo: esperto conoscitore del suolo (classificazione, interpretazione e conservazione). Restauratore di giardini: riprogetta aree verdi. [E. Dusi, in «la Repubblica», 23 gennaio 2010]