La Natura degli Dèi - De Natura Deorum

Table of contents :
Indice
Premessa
Introduzione
1. Il contesto storico e culturale
2. La dedica
3. Il dialogo e i suoi interlocutori
4. Struttura generale, fonti, redazione
5. Fortuna e trasmissione del testo
Le Edizioni a stampa
Sommario dell'Opera - Libro Primo
- Libro Secondo
- Libro Terzo
Testo
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Frammenti del libro terzo
Note di commento
Note all'introduzione
Note al libro primo
Note al libro secondo
Note al libro terzo
Bibliografia essenziale
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Collana Altra Conoscenza

Marco Tullio Cicerone

La Natura degli Dei De Natura Deorum Traduzione, introduzione e note a cura di Andrea Rossi Premessa di Chiara Ombretta Tommasi

Edizioni Ester

Al la mia famigl ia, e a Elisab e tta :

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L'Editore ringrazia il Prof. Luca Valentini per il prezioso suggerimento di pubblicare la presente opera.

Collana: Altra Conoscenza

1•

Edizione italiana: maggio 2018

Titolo: La Natura degli Dei De Natura Deorum Autore: Marco Tullio Cicerone Traduzione, introduzione e note: Andrea Rossi Premessa: Ombretta Chiara Tommasi In copertina: Giano Bifronte dipinto della pittrice Antonella Catalano Impaginazione: Giada Morganti Layout di copertina: Dario Pasqualini- [email protected]

Questo testo è stato stampato presso Universalbook S.r.L., Rende - CS per conto di Edizioni Ester Via Traforo Bussoleno, Torino

32, 10053,

Tel. 340 8511512 [email protected] www.edizioniester.com

© Copyright 2018 Edizioni Ester Tutti i diritti riservati sono dell'Editore. Ogni riproduzione, anche par­ ziale e con qualsiasi mezzo, deve essere preventivamente autorizzata dall'autore. Nell'eventualità che testi o illustrazioni altrui siano ripro­ dotti in questa pubblicazione, l'autore è a disposizione degli aventi diritto che non si siano potuti reperire. L'autore porrà rimedio, dietro segnalazione, ad eventuali non volute omissioni e l o errori nei relativi riferimenti.

Indice

Premessa

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Introduzione

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l.

I l contesto storico e culturale

2.

L a dedica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21

3.

Il dialogo e i suoi interlocutori .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22

4.

Struttura generale, fonti, redazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27

5.

Fortuna e trasmissione del testo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31

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17

Le Edizioni a stampa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 Sommario dell'Opera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41 Testo

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57

Libro primo ............................................................................... 59 Libro secondo Libro terzo

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Frammenti del libro terzo l.

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Lattanzio, Istituzioni divine 2,3,1-2

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2.

Lattanzio, Istituzioni divine 2,8,10-11

3.

Scol ì Veronesi all'Eneide 5,95

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111 181 223 223 223 224

LA NAT U RA D E G L I D E I DE NATURA DEORUM

4.

Diomede, Grammatica 1 (GL 1, p. 313 Kei/) .

5.

Ser vio, Commento all'Eneide 3,284 . .

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7.

Ser vio, Commento all'Eneide 6,893 ...

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8.

Lattanzio, L'ira di Dio 13,9-12 . .. . . ... ... .

9.

Lattanzio, L'ira di Dio 13,19-21 . . . .

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Note di commento

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Note all'introduzione .................................................................. 229 Note allibro primo ...................................................................... 249 Note allibro secondo .................................................................. 301 Note allibro terzo ........................................................................ 367 Note ai frammenti del terzo libro ............................................ 441 Bibliografia essenziale ............................................................... 445 l.

Abbreviazioni delle edizioni princi pali ....................... 445

2.

Studi princi pali ................................................................ 446

Premessa

Scritto negli anni del ritiro dalla vita pubblica, il De na­ tura deorum offre, unitamente ad altre opere dello stesso periodo, una summa del pensiero di Cicerone sul pia­ no filosofico e religioso, costituendo un testo di sicura importanza per quanti si accingono allo studio della religione romana, intesa non tanto (o non solo) quale descrizione di un pantheon variegato e complesso, ma anche e soprattutto quale oggetto di riflessione e di spe­ culazione dottrinale. Come è noto, l'opera è strutturata in forma dialogica con tre interlocutori che dibattono a proposito della natura degli dèi, facendosi portavoce rispettivamente delle posizioni stoiche sulla provviden­ zialità divina, la divinizzazione del mondo e l'interpre­ tazione degli dèi in quanto allegorizzazione di fenomeni naturali, quelle epicuree, volte a evidenziare il disin­ teresse delle divinità nei confronti dell'uomo, e quelle accademiche, vale a dire gli esiti, orientati decisamente in senso scettico, della scuola fondata da Platone. Se in un primo momento le simpatie di Cicerone, che agisce come-quarto personaggio, sembrano andare alla posizio­ ne stoica espressa da Balbo, non vanno però trascurati alcuni punti di consonanza con le argomentazioni fatte

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proprie dall'accademico Cotta, che parla anche in qualità di pontifex, ossia di sacerdote, e che, in ultima analisi, si risolvono nella impossibilità di giungere a conclusioni sicure sulla posizione dell'autore. Meno studiato rispetto ad altre opere dell'Arpinate, in tutta probabilità per la complessità e la lunghezza del testo, il De natura deorum presenta una estrema varietà di temi e di fonti. Ci preme rilevare in questa sede che il te­ sto ciceroniano offre significativamente la prima etimo­ logia e la prima riflessione sul termine religio e su quello affine, ma negativo, di superstitio, dimostrando come già la cultura latina pagana avesse sviluppato e dibattuto sul significato e sulla nozione di religione, contrariamente a quanto formulato in recenti ipotesi di tipo decostruzioni­ sta (per una lucida discussione del problema rimandia­ mo a G. Casadio, Historicizing and Translating Religion, in: The Oxford Handbook of the Study of Religion, Oxford 2016, pp. 33-51; Id., Religio versus Religion, in: AA.VV., Myths, Martyrs,and Modernity. Studies in the History of Religions in Honour offan N. Bremmer. Edited by J. Dijkstra, J. Kroesen, Y. Kuiper, Leiden 2010, pp. 301-326; Id., Studying Religious Traditions Between the Orient and the Occident: Modernism vs. Post-modernism, in: AA.VV., Unterwegs. Neue Pfade in der Religionswissenschaft. Festschrift fii.r Michael Pye zum 65. Geburtstag. Herausgegeben von C. Kleine, K. Triplett, M. Schrimpf, Miinchen 2004, pp. 119-135. Si tratta, comunque, di una concezione assai differen­ te rispetto a come i secoli successivi avrebbero declina­ to il concetto. Lo si può osservare allorquando Cicero­ ne discute di termini come pietas e sanctitas, unendoli a formare una triade con la religio: senza questi tre ele­ menti (cui si legano anche gli aspetti esteriori di cultus, honos e preces, cioè il culto, l'onore dovuto agli dèi e le preghiere) vengono meno la fides e la iustitia, che sono invece le virtù che regolano la convivenza umana. Per

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PRE M E S S A

Cicerone, dunque, religio ha una connessione primaria e quasi inscindibile con la società e l'umano consesso, che si traduce in una pratica cultuale e ritualistica. Questo è conforme ad una tendenza generale del paganesimo greco-romano, ove la religione aveva una forte dimen­ sione pubblica, ed era regolata da una serie di norme e da un complesso di pratiche o feste in cui gli elementi fondamentali sono la prassi del sacrificio e gli auspici: ai sacra publica si potevano certamente contrapporre i sacra privata, ma con quest'ultima denominazione di fatto si intendeva la speculazione di tipo filosofico, quella che emerge in altre pagine dell'opera, a proposito delle po­ tenze divine che pervadono l'universo e rappresentano ciò che di mirabile C:è per l'uomo, oppure a proposito del destino e del fato. E solo con l'epoca tardoantica che si può parlare di un passaggio alla dimensione privata del­ la sfera religiosa, parzialmente anticipata, in età classica, dai culti di mistero e in età imperiale, dalle cosiddette "religioni orientali". L'opera ciceroniana si inserisce del resto nella tor­ mentata temperie culturale della fine della Repubblica, affiancandosi e discostandosi da analoghe riflessioni sul tema religioso: il noto caso di Lucrezio, che nel De rerum natura, intriso di epicureismo, si scaglia violentemen­ te contro la religio e di fatto la accomuna alla superstitio, foriera di tanti mali (come nell'esempio di Ifigenia, sa­ crificata in nome della religio); e quello meno noto dell'e­ rudito e· antiquario Varrone, che nelle Antiquitates rerum divinarum parimenti vuole offrire una riflessione sulla religione e sugli aspetti che ad essa ineriscono: signifi­ cativamente in larga misura questi frammenti sono pre­ servati da Agostino, quindi da un autore cristiano che riflette sulle concezioni religiose dei pagani, così come, del resto, i testi filosofici di Cicerone saranno fatti og­ getto di studio e riflessione, talora polemica, da parte

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dello stesso Agostino, ma anche di altri autori cristiani (e a questo riguardo particolarmente significativo appa­ re l'elogio tributatogli da Arnobio, che ne mette in luce il carattere franco e intemerato nella trattazione di una materia delicata, quale appunto la religione: e forse qui Arnobio ha in mente non solo le argomentazioni di Cot­ ta, ma anche altri trattati in cui la posizione di Cicerone sembra improntata a scetticismo e a critica 'razionalista' della credulità popolare). Nel formulare il suo schema di teologia tripartita, Varrone d'altra parte distingue tra una teologia politi­ ca che chiama theologia civilis, una una teologia naturale (theologia physica) e una teologia poetica (theologia mythi­ ca): conformemente alla dottrina stoica, Varrone osserva come i miti esposti dai poeti non abbiano consistenza o senso, ma siano comunque necessari al mantenimento dell'ordine sociale; la vera teologia, infatti, è da ritener­ si quella naturale, di indirizzo stoico, che identifica gli dèi con i fenomeni della natura. Nondimeno, pur ammet­ tendo l'idea della superiorità degli dèi come fenomeni naturali, si riconosce la necessità della teologia politica, un complesso di riti e credenze che devono regolare la vita umana, e ammette inoltre la teologia poetica per il divertimento e per la piacevolezza che si ha nella lettura di questi miti. Anche Cicerone, con gli interlocutori presenti nel De natura deorum che si fanno portavoce dei vari punti di vi­ sta delle dottrine e delle filosofie in voga al tempo, offre una distinzione fra il filosofo che cerca la risposta a do­ mande sui massimi sistemi della vita e la religione così come vista dalla tradizione politica, non risparmiando critiche al sistema politeistico tradizionale: si può quindi in parte sostenere come il De natura deorum presenti la stessa oscillazione che abbiamo riscontrato nella teologia tripartita di Varrone, ossia la distinzione tra una teologia

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PRE M E S S A

che regola la società e lo stato, una teologia filosofica e anche una di tipo più letterario. Sembra peraltro signi­ ficativo confrontare anche l'idea ciceroniana (di matrice stoicheggiante, e attestata per esempio anche in Manilio, Lucano e Seneca) che gli dèi altro non siano che manife­ stazioni di un unico principio divino, con un frammento varroniano (22 Cardauns), pure intriso di stoicismo, in cui si critica implicitamente il politeismo e la venerazio­ ne dei simulacri divini, e per contro si offre una lode del Dio degli Ebrei, dal momento che la vera divinità è priva di forma e non va adorata mediante immagini. Questi sono solo alcuni spunti che desideriamo forni­ re al lettore presentando il testo ciceroniano, col suo lun­ go e articolato ragionamento, spunti che ben risaltano nelle considerazioni sviluppate da Andrea Rossi in que­ sta nuova traduzione italiana, riccamente commentata e solidamente documentata. Chia ra Ombretta Tommasi

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Introduzione

1. Il contesto storico e culturale

Nel panorama degli scritti filosofici ciceroniani, il dialo­ go intitolato De natura deorum, risalente alla seconda metà del 45 a.C., è sicuramente uno degli scritti più celebri e rappresentativi. In tutta la sua estensione, esso si colloca in un ampio progetto di resa, trasposizione e divulga­ zione in lingua latina dell'immenso bagaglio di sapienza filosofica greca su un problema tanto spinoso quanto de­ licato e discusso, quale quello inerente l'esistenza degli dèi e la definizione della loro vera natura; un argomento, questo, che impegnò la speculazione umana sin dai pri­ mordi del suo sviluppo. L'intento dell'autore di cercare di offrire un quadro quanto più esauriente sul problema nasce in un contesto biografico e ideologico ben preciso; pertanto la questione inerente la cronologia dell'opera non è, per il lettore odierno, di ardua risoluzione. Ci troviamo in un periodo specifico della vita di Ci­ cerone, precisamente nel momento in cui, a causa della sua forzata inattività politica durante gli anni della ditta­ tura di Giulio Cesare, era obbligato a tenersi fuori dalla vita pubblica dello Stato1• Fu così che decise, per quanto fosse lontano, causa l'esilio, di giovare ad esso, offrendo ai concittadini un ricchissimo patrimonio di saggezza,

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utile innanzitutto per il corretto andamento della stessa res publica2• La spinta e la necessità di impegnarsi nella filosofia non furono limitate, però, soltanto a questo otium, per così dire, forzato. Sappiamo per certo, infatti, che nello stes­ so periodo l'Arpinate era oppresso da problemi familiari molto gravi, quali il divorzio dalla seconda moglie Publi­ lia (con la quale si era sposato nel 46 a.C.)3 e la morte pre­ matura della giovane figlia Tullia4• La filosofia costituisce, in questo drammatico quadro, un lenimento al dolore e una consolazione per l'animo tormentato del Cicerone della metà del quarto decennio del I secolo a.C., anni cui peraltro devono essere fatti risalire (oltre alla maggior parte delle opere filosofiche che ci sono tramandate inte­ gre dai codici medievali: De senectute, De amicitia, De offi­ ciis), anche il perduto De gloria 5 e i due scritti frammentari Consolatio6 per la morte della figlia e il dialogo Hortensius7• Con il De natura deorum siamo dunque nella seconda metà del 45, quando Cicerone aveva già composto, secon­ do l'ordine cronologico, De re publica, De legibus, Consola­ tio, Hortensius, Academica, De finibus bonorum et malorum e Tusculanae disputationes; e di lì a poco avrebbe dato inizio alla stesura di De divinatione (due libri) e De Jato (un libro), che insieme con il nostro trattato costituiscono un gruppo omogeneo di testi di interesse 'teologico' e religioso. Molto importante per delineare il contesto storico-cul­ turale e le ragioni per cui l'opera venne composta, è l'i­ nizio programmatico del secondo libro del De divinatione (capp. l ss.), dove l'autore ci dà la possibilità di leggere un piano generale del progetto di unità da lui ideato delle sue opere filosofiche8: «Mi sono chiesto, e ho molto e lungamente riflettu­ to, come avrei potuto giovare alla maggior parte dei miei concittadini per non essere costretto, in nessun

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INTRODUZIONE

caso, a smettere di agire a vantaggio dello Stato. La soluzione migliore che mi venne in mente fu di ren­ der note ad essi le vie per raggiungere le più elevate attività dello spirito. Credo di aver già ottenuto que­ sto scopo con molti miei libri. Nell'opera intitolata Ortensio ho esortato i lettori, quanto più ho potuto, allo studio della filosofia: nei quattro Libri Accademici ho mostrato quale sia, a mio parere, l'indirizzo filo­ sofico meno arrogante e più coerente ed elegante. E poiché la base della filosofia consiste nello stabilire qual è il sommo bene e il sommo male, ho chiarito a fondo questo argomento in un'opera composta di cinque libri, in modo da far comprendere che cosa ciascun filosofo sostenesse e che cosa gli obiettassero i suoi avversari. Nei libri delle Discussioni Tusculane, venuti sùbito dopo, altrettanti in numero, ho esposto ciò che soprattutto è necessario a raggiungere la feli­ cità. Il primo di essi tratta del disprezzo della morte; il secondo del modo di sopportare il dolore fisico; il terzo del mitigare le afflizioni dello spirito; il quarto di tutte le altre perturbazioni dell'anima; il quinto af­ fronta quell'argomento che più di tutti dà splendore alla filosofia, giacché dimostra che la virtù basta a sé stessa per ottenere la felicità. Esposti quegli argomen­ ti, ho portato a termine i tre libri Sulla natura degli dèi, nei quali questo problema è discusso da ogni punto di vista. E perché l'esposizione fosse completa e del tutto esauriente, ho intrapreso a scrivere questi due libri Sulla divinazione. Se ad essi aggiungerò, come mi riprometto, un'opera Sul fato, tutto questo problema sarà stato trattato in modo da soddisfare anche i più esigenti. A questi libri, inoltre, vanno aggiunti i sei Sulla Repubblica, che scrissi quando reggevo il timone dello Stato: argomento fondamentale e appartenente anch'esso alla filosofia, già trattato amplissimamente

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da Platone, Aristotele, Teofrasto e da tutta la schiera dei Peripatetici. E che dire della Consolazione? Anche a me essa arreca qualche conforto; agli altri, del pari, credo che gioverà molto. Poco fa ho inserito il libro Sulla vecchiezza, che ho dedicato al mio amico Attico; e siccome più che mai la filosofia rende l'uomo buo­ no e forte, il mio Catone è da annoverare fra i libri filosofici. E se Aristotele e con lui Teofrasto, eccellenti sia per acume d'ingegno sia per facondia, aggrega­ rono alla filosofia anche i precetti dell'arte del dire, ne risulta che le mie opere retoriche devono appar­ tenere anch'esse alla schiera dei miei libri filosofici: vi apparterranno, dunque, i tre libri Dell'oratore, per quarto il Bruto, per quinto l'Oratore»9•

Altri importanti riferimenti che possono aiutare ad in­ quadrare il lavoro dell'Arpinate sono poi ricavabili dalla corrispondenza epistolare con l'editore ed amico fidato At­ tico. In una lettera che risale all'8 giugno del 45 a.C. Cice­ rone, che si trovava allora nella sua villa a Tusculo, chiede al suo editore l'epitome di Bruto degli scritti di Celio An­ tipatro e il perì pronoias di Panezio (Att. 13,8)10; in un'altra, datata al 4 agosto, leggiamo che si stava impegnando a scrivere contro gli epicurei, forse con diretto riferimento alle argomentazioni che Cotta avanza nel libro primo in risposta alle parole di Velleio (Att. 13,38)11• Il giorno succes­ sivo, invece, sappiamo che egli aveva bisogno di consulta­ re il perì theon dell'epicureo Fedro (Att. 13,39)12• Altrettanto utile, infine, il dato presente nella parte iniziale del De fato, dove vengono nominati i tre «libri intitolati Sulla natura degli dèi>P. In quest'ordine di idee, è possibile collocare, con ampio margine di sicurezza, la stesura del De natura deorum nell'estate del 45 a.C. Al contrario, un discorso differente merita la data drammatica del dialogo, che sembra poter essere situa-

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INTRODUZIONE

ta una ventina d'anni prima rispetto al momento stori­ co della composizione. L'incontro tra i dotti personaggi è immaginato in uno scenario domestico, forse campe­ stre14, di proprietà di uno dei tre protagonisti, l'amico e illustre oratore Gaio Aurelio Cotta. La conversazione è immaginata, nella redazione finale a noi pervenuta15, in un unico giorno di uno degli anni tra il 77 e il 75 a.C., quando Cicerone aveva un'età compresa tra i 29 e 31 anni. Siamo, difatti, in un frangente posteriore al viaggio di Posidonio a w (a. 86: cap. 1,123), alla morte di Quinto Scevola (a. 82: cap. 3,80), al pontificato di Quinto Catulo (a. 80: cap. 1,79), al soggiorno di studio di Cicerone in Grecia e in Asia Minore (aa. 79-77: passim), alla convalida della Lex Cornelia testamentaria (ca. 78: cap. 3,74), ma anco­ ra precedente al consolato di Cotta, che nel nostro dialo­ go appare rivestito soltanto dei poteri di pontifex maximus (a. 75). È possibile concludere quindi, facendo un bilancio generale delle notizie relative alla data reale e alla data fittizia del dialogo, che il contesto in cui Cicerone scelse di inserire il suo De natura deorum sia da collocarsi «a metà strada tra quelle di alcuni dialoghi, che potrebbero essere definite "ambientazioni storiche", precedenti cioè di molto o di poco il momento della composizione dei dialoghi stessi, e quelle invece "contemporanee", coinci­ denti cioè con il tempo della redazione»16.

2. La dedica

Come si evince dalla sezione introduttiva del testo17, il dialogo è dedicato a Marco Giunio Bruto, nipote del cele­ bre Catone Uticense, amico e corrispondente di Cicerone,

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LA NATU RA D E G L I D E I D E NATURA DEORUM

personaggio storico noto soprattutto per aver fatto parte nel 44 a.C. alla congiura che portò al cesaricidio18• Nato nell'anno 85, convinto anticesariano e partigiano pompe­ iano durante le battaglie più rovinose della guerra civile presso Durazzo e Farsalo, fu uomo di vastissima cultura retorica e filosofica; seguace convinto dell'Accademia di Antioco di Ascalona (del quale fu allievo), scrisse anche alcuni trattati, oggi perduti, su questioni di natura mora­ le: De virtute, De patientia, De officiis19• Cicerone gli dedicò, oltre al De natura deorum, le se­ guenti opere: Orator, Paradoxa Stoicorum, De finibus bo­ norum et malorum, Tusculanae disputationes; ed inoltre lo inserì come interlocutore nel dialogo retorico Brutus. Per il Cicerone filosofo e speculatore di cui ci stiamo occu­ pando, Bruto rappresentò quindi una grandissima ispi­ razione, tanto che, al termine delle sue Tusculanae (5,121), così si espresse, facendo riferimento all'impulso che que­ sti gli diede: «indirizzerò questi altri cinque libri al mio caro Bruto, dal quale non solo sono stato spinto ma an­ che sfidato a scrivere di filosofia».

3.

Il dialogo e i suoi interlocutori

Il De natura deorum è un dialogo composto secondo la for­ ma aristotelica20, che assume, cioè, fin dalle prime battute, le sembianze di una lunga lectio di filosofia rivolta ai let­ tori. Non vi è, dunque, una discussione rapida e serrata, bensì una serie di esposizioni lente e dettagliate, tenute dai singoli interlocutori, che, discutendo i pro e i contro degli argomenti via via affrontati, si succedono l'una dopo l'altra21• L'autore non partecipa mai direttamente e in pri­ ma persona alla discussione, ma si limita a prendere pa-

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INTRODUZIONE

rola nelle prime pagine dell'opera (dove ha la possibilità di esporre i motivi che lo hanno indotto ad approfondire quel determinato campo della filosofia), e nel corso del dialogo, in modo indiretto, mediante le parole dei perso­ naggi più rappresentativi della dotta riunione. Gli intellettuali che compongono la scaena del De na­ tura deorum sono quattro: Cicerone in persona, Gaio Au­ relio Cotta, Gaio Velleio e Quinto Lucilio Balbo (questi ultimi tre già morti al tempo della stesura dell'opera). Di essi viene data una rapida presentazione al cap. 1,15 dopo una sezione di testo proemiale che serve all'auto­ re - come si diceva già poco sopra - per mettere in luce quali siano gli scopi della sua attività, e di conseguenza difenderli da possibili detrattori, che potevano accusarlo di essere un novello o un inesperto nel campo22. Lasciando da parte il personaggio di Cicerone, che nell'economia del dialogo è per così dire un personaggio secondario, muto (un senator pedarius che vota senza par­ lare)23, il profilo degli altri tre pensatori, nettamente dif­ ferenti tra loro e ben tratteggiati, viene delineandosi nel corso dell'opera, anche grazie alla profonda costruzione retorica che sottende al testo. Va precisato che Cicerone fonda l'opposizione tra le due scuole più rappresentati­ ve, l'epicureismo e lo stoicismo, non solo sulla base del terreno filosofico, ma anche retorico; questo non perché la filosofia influenzi la retorica o viceversa, ma perché entrambe corrono sullo stesso binario, intrecciandosi in un rapporto biunivoco costante24. Velleio, il portabandiera dell'epicureismo, noto sto­ ricamente per la sua attività di oratore e per l'amicizia con Crasso, è caratterizzato come un individuo molto polemico, conciso nell'esposizione, dogmatico25 e alle volte impaziente26 di ascoltare il prossimo. Il suo di­ scorso, benché al cap. 1,56 si scusi coi compagni per es­ sere stato (secondo lui!) troppo prolisso, è il più breve

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ed è presentato, in conformità con il modello teologico debole da lui presentato, nelle vesti di una retorica mol­ to tenue. Quanto a Balbo, rappresentante della filosofia stoica, è un individuo molto colto, istruito e, sulla base del modello di uomo filosofico offerto dalla personali­ tà di Posidonio, di amplissimi interessi; il suo discorso, al contrario dell'esempio precedente, è il più lungo ed articolato di tutti: ad esso Cicerone riserva un ritmo for­ temente retorizzato, elevato ed artificioso che rispecchia un modello di divinità molto 'forte'. Balbo dedica molte delle sue parole ad una spiegazione dei miti teologici in chiave allegorica. Cotta invece, l'illustre oratore nato nel 124 a.C., presente peraltro anche nel De oratore, è il soste­ nitore della causa accademica: la descrizione che emerge dalla lettura delle sue due repliche (nel I libro in risposta a Velleio e nel III in risposta a Balbo) è quella di un uomo dalle buone maniere, cortese e gentile27, ma, da buon rappresentante dell'Accademia, puntiglioso, sistematico, razionale nella critica delle teorie epicuree e stoiche, non­ ché chiaro nen:mustrare le sue posizioni fortemente tra­ dizionaliste28. E a lui che Cicerone si sente molto vicino nella scelta di adoperare il metodo dialettico. Quale è, però, la posizione assunta da Cicerone rispet­ to agli altri tre interlocutori, in merito al problema della definizione della natura degli dèi? A questo proposito gioverà sottolineare fin da subito, anche in questa sede, come egli, seguace convinto dell'Accademia, se da un lato si mostra aderente al metodo filosofico adoperato da Cotta, di cui peraltro dà le giuste direttive in sede intro­ duttiva (ricordando anche i suoi Academica)29, concluda la sua opera condividendo per lo più le idee espresse dallo stoico Balbo30• Una contraddizione? In realtà soltanto apparente. La scuola accademica infatti non si dedicava alla ricerca di un dogma saldo ed unico, bensì ad un'analisi oggettiva

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l NTRODUZION E

e critica delle correnti filosofiche maggiormente diffuse. Ed in effetti lo stesso Cotta si cimenta in una critica che non appare mai influenzata da dogmi di alcun tipo: è una chiara e sistematica refutazione, punto per punto, delle tesi epicuree e stoiche. Cicerone, in conformità con quanto abbiamo appena sostenuto, riteneva che, in ma­ teria di 'teologia: lo Stoicismo fosse quello più adatto a risolvere quei quesiti tanto difficili di cui egli parlava proprio all'inizio del suo trattato (cap. 1,1). Non siamo di fronte ad una contrapposizione ideologica e dottrinaria - anche se comunque la tesi epicurea di Velleio rima­ ne esclusa sin dal principio - ma ad un'esposizione di natura argomentativa, di valore informativo e pedagogi­ co, delle varie posizioni assunte dalle scuole filosofiche più rappresentative dell'età repubblicana, in relazione al problema della definizione della natura divina. La novità dell'opera, che la rende la prima vera e pro­ pria indagine razionale sulla filosofia della religione, sta proprio qui, ovvero nella fusione dei due procedimenti fino a quel momento impiegati separatamente in campo teologico: la polemica, manchevole del procedimento di ragguaglio di altre teorie, e la dossografia, comparativa nella sua natura ma priva della giusta dose di critica. L'opera - si diceva già sopra - non ha nulla del pam­ phlet polemico, ma ha tutte le caratteristiche del discor­ so illustrativo ed educativo. E ciò risulta massimamente evidente dal fatto che il dialogo non dà mai l'impressio­ ne di essere imparziale (cosa che verrebbe meno se alla fine i due accademici, Cotta e lo stesso Cicerone, fossero d'accordo contro gli altri) e, cosa non da meno, che l'epi­ cureo Velleio lasci la riunione condividendo la posizione esposta da Cotta. Nella direzione di queste ipotesi, come del resto è sta­ to notato anche in tempi recenti, sembra orientarsi il fat­ to che Cicerone sostiene, proprio all'inizio (cap. 1,17), di

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LA NAT U RA DEGli D E I D E NATURA DEORUM

non avere alcuna intenzione di partecipare alla riunione come fautore di Cotta, preferendo tenersi da parte come ascoltatore imparziale, privo di qualsiasi pregiudizio, che non ha in mente di sostenere, volente o nolente, una determinata posizione. E inoltre, si noti come al cap. 3,3 Cotta trovi difficoltà a confutare le teorie stoiche, a diffe­ renza di quelle epicuree, contraddistinte, al contrario, da una certa fallacia argomentativa. Questa decisione di far apparire il dialogo caratteriz­ zato da una certa imparzialità si fonde però con il pro­ pendere (anche se mai eccessivamente accentuato) per una tesi in particolare, ovvero quella stoica, che Cicerone - attraverso le parole di Cotta - sembra porre in primo piano rispetto al resto. Ai capp. 5-6 del terzo libro, infatti, quest'ultimo ricorda, in qualità di pontifex e civis roma­ nus, l'importanza delle pratiche divinatorie, rammentata anche dallo stoicismo, e delle tradizioni religiose tra­ mandate dagli avi, che per lo Stato sono di fondamen­ tale importanza; in veste di filosofo, invece, Cotta dovrà attenersi al metodo razionale e di conseguenza dovrà opporsi anche alla causa stoica (tale opposizione, però, non sfocia mai nelle critiche severe dettate dal classico dogmatismo negativo accademico). Non siamo di fronte a un effettivo e netto contrasto tra le due dottrine, bensì ad un'esposizione argomentativa. Sarà fruttuoso rammentare, quindi, per conclude­ re, i punti d'arrivo raggiunti già da alcuni Padri della Chiesa. Nel IV secolo Lattanzio, «pur individuando in Cotta colui che nel De natura deorum meglio rappresenta il pensiero di Cicerone, afferma che questi, anche nella prioritaria scelta accademica, conserva una qualche pro­ pensione per la dottrina stoica. E secondo un altro padre della Chiesa, il grande Agostino, tale propensione per la dottrina religiosa dello Stoicismo giungeva a Cicero­ ne, oltre che dal timore di subire l'accusa di ateismo, dal

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INTRODUZIONE

desiderio di conservare i valori della religione pubblica romana, fondamento della iustitia e della fides, dei lega­ mi più profondi cioè della comunità degli uomini»31• E al loro stesso modo, anche il retore cristiano Arnobio32 considera le parole di Cotta come la personale opinio­ ne di Cicerone, ma si felicita con lui per la posizione di agnosticismo rispetto al pantheon pagano (che l'apologi­ sta valuta come forma di pietas superiore). Tutto ciò non fa altro che facilitare, del resto, la com­ prensione di quell'eclettismo filosofico33, frutto del pro­ babilismo accademico, che spesso si è attribuito al No­ stro e che si rende ben manifesto dalle pagine della sua opera filosofica. Egli è capace di muoversi, calibrando con consapevolezza i suoi passi, da un terreno della filo­ sofia all'altro, ed è capace di discutere con precisione le proposte e le obiezioni fornite dalle correnti filosofiche più in voga dei suoi tempi. Il discorso filosofico è aperto a tutte le teorie e si esprime liberamente, senza l'ostacolo di alcuna autorità34•

4.

Struttura generale, fonti, redazione

Sul piano meramente strutturale e compositivo, i tre libri del De natura deorum risultano di semplice ed immedia­ ta comprensione; una facilità di valutazione, questa, che tuttavia viene meno in relazione alla definizione delle fonti adoperate dall'autore ogni volta per esporre le va­ rie dottrine filosofiche. Il testo è fortemente stratificato, e spesso, fatti salvi quei pochi luoghi in cui viene citato il nome di colui che fornisce le informazioni adoperate, è difficile stabilire con totale certezza quali autori si celino dietro le parole di Cicerone.

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Il primo libro si apre con un proemium all'intera ope­ ra (capp. 1,1-17) che introduce in termini esclusivamente personali il lavoro e si propone di esporre i motivi della decisione, da parte dell'autore, di affrontare l'argomento trattato35: la questione 'teologica' è materia assai difficile - si dice qui - ma la corretta comprensione di essa ga­ rantisce agli uomini una vita (soprattutto quella comu­ nitaria) regolata e conforme alle leggi. Cicerone inserisce tuttavia anche una sezione per così dire autoapologetica in difesa dei suoi studi filosofici e del suo percorso spe­ culativo di impronta accademica. Segue l'inizio del discorso dell'epicureo Velleio, che muove sin da subito contro la dottrina stoica e platonica sulle origini del mondo e le loro nozioni di divinità. In tempi passati si è pensato che per questa zona del testo (capp. 1,18-24) Cicerone avesse potuto adoperare libera­ mente il poema didascalico De rerum natura di Lucrezio36 o l'opera dell'epicureo Fedro37, i cui libri sulla natura di­ vina erano stati da lui chiesti ad Attico in data 5 agosto 45 (come detto sopra); tuttavia la critica moderna38 pro­ pende per riconoscere qui come fonte Zenone di Sido­ ne, che, tra l'altro, Cicerone indica quale rappresentante principale della scuola epicurea in età repubblicana39• La sezione dossografica successiva (capp. 1,25-43) è quasi unanimemente riconosciuta come dipendente da una parte del De Pietate di Filodemo, opera che ci per­ viene frammentaria nel PHerc. 142840• Va notato che in questo momento dell'esposizione Cicerone si mostra più critico rispetto alla sua probabile fonte, forse per meglio adattarla all'interno della colorita retorica epicurea. Più problematica è l'identificazione della fonte ado­ perata per l'esposizione della dottrina epicurea sugli dèi (capp. 1,43-56), anche perché sembra che l'Arpinate ne ab­ bia usate più d'una. Alcuni studiosi hanno pensato che egli avesse potuto adoperare le sue conoscenze sommarie

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l NTRODUZIONE

sull'Epicureismo41; altri invece hanno scorto la presenza in filigrana Zenone42, oppure un prodotto da ricondurre alla speculazione certo epicurea, ma successiva al capo­ scuola (si è pensato al perì theon di Filodemo o una epito­ me di esso quale si legge, ad esempio, nel PHere. 168)43• Più recente la teoria secondo cui Cicerone dipenderebbe da uno scritto derivato dalla discussione tra Epicureismo e Stoicismo, forse allo stadio di Crisippo44• E di natura prettamente stoico-accademica, al contra­ rio, il materiale che sottende alla confutazione operata da Cotta (capp. 1,57-124): possibile in questo caso la di­ pendenza da Carneade (che criticò direttamente le dot­ trine di Epicuro}, mediato forse attraverso Clitomaco e Filone45• Questa sezione tuttavia è connotata da una evi­ dente inconciliabilità tra il materiale presentato da Vel­ leio e quello confutato da Cotta: si tratta di un caso simile a quello presente nel De divinatione, dove la difesa delle pratiche divinatorie esposta nel libro primo (dipendente da Posidonio) risulta più aggiornata rispetto alla confu­ tazione del secondo libro, ricavata invece da Cameade46• Si arriva a questo punto alla parte più densa del dia­ logo, quella contenuta all'interno del secondo libro, il quale, fatti salvi i primi capitoli che fungono da cerniera connettiva con il primo, è dedicato all'esposizione dello stoico Balbo. Il discorso di Balbo si configura come il più scientifico, tecnico e articolato tra tutti, in quanto ven­ gono affrontate tematiche che riguardano la cosmologia, l'astronomia, la zoologia, l'anatomia, la fisiologia e la psi­ cologia. Sul piano dell'identificazione delle fonti, la questio­ ne è invece piuttosto complessa; nessun dubbio, tut­ tavia, sulla paternità ciceroniana di alcune citazioni che ricorrono nel corso del libro. Si ricordano, in par­ ticolare, quelle dai poeti Aedo (capp. 2,89-90}, Pacuvio (capp. 2,91-92}, Ennio (capp. 2,93-94). Notevole, inoltre,

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la sezione contenente le autocitazioni dagli Aratea (capp. 2,104-115). Osservando invece il resto dell'esposizione, è assai verosimile che Cicerone abbia adoperato, vista anche la velocità con cui l'opera venne redatta, poche fonti piuttosto che numerose47• In questo modo, anche le svariate allusioni a Platone, Aristotele, Zenone, Cleante e Crisippo sembrano essere giunte all'interno del De na­ tura deorum per mezzo di una fonte, o al massimo poche più, di epoca posteriore. Parte della critica ha pensato che Cicerone si fosse potuto servire di un'unica fonte, ovvero i quattro libri Perì the8n di Posidonio48• Altri in particolare il Philippson - hanno pensato invece che questa parte del dialogo sia stata redatta sulla base di un testo sempre stoico, ma che includesse materiale di Posidonio e Panezio e che dunque fosse contemporaneo a Cicerone: l'assunto è stato sostenuto a partire da alcu­ ne somiglianze con le opere di Sesto Empirico e Diogene Laerzio49• Ben diversa, al contrario, la ricostruzione adottata da altri studiosi, che propongono di vedere più fonti, divi­ dendo il testo del secondo libro in quattro sezioni temati­ che: (A) capp. 2,3-44; (B) capp. 2,45-72; (C) capp. 2,73-153; (D) 2,153-167. Tra gli altri, Hirzel50 assegna (A) e (D) al Perì the8n di Posidonio, (B) al Perì the8n di Apollodoro e (C) al Perì pronoias di Panezio; Usener51 invece pensa che in (A) Cicerone abbia fuso insieme alcuni excerpta da Posidonio con un manuale accademico influenzato da Carneade. Reinhardt52 crede che (A) e (B) derivino da Crisippo, (C) da Panezio e (D) da Posidonio; di contro Pohlenz53 sud­ divide a sua volta (C) e riconosce in esso una parte deri­ vante dal Perì pronoias paneziano (si tratta, in particolare, dei capp. 2,115-153). Quanto alle fonti adoperate per il terzo libro, va detto in via preliminare che esso è costituito da molte parti originali, di mano ciceroniana: si pensi, ad esempio, alle

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INTRODUZIONE

nozioni relative agli eroi romani deificati (cap. 3,39), ai ri­ ferimenti a culti, personaggi storici e tradizioni di Roma (ad esempio capp. 3,43; 3,46; 3,49; 3,80-81; 3,86; etc.), ad alcune citazioni latine da Ennio (capp. 3,24; 3,40; 3,65-67; 3,75; 3,79), Pacuvio (cap. 3,48), Cecilia (capp. 3,72-73), Te­ renzio (cap. 3,72). Probabile la presenza della dottrina di Carneade, citato direttamente ai capp. 3,29-34 e 3,44-50, nell'ambito del resto della discussione, dove a prende­ re il sopravvento è la risposta dell'accademico Cotta alle argomentazioni di Balbo: Pease54 pensa che Cicerone si sia servito di uno scritto di Clitomaco, diretto allievo di Carneade (che, è bene ricordare, sembra non aver lascia­ to scritti di sua paternità). Di natura compilativa e forse alessandrina, infine, il materiale riguardante l'esistenza degli dèi omonimi (capp. 3,42; 3,53-60), che non trova ri­ scontro in Sesto Empirico e sembra da ritenersi una sorta di intrusione nell'economia generale del terzo libro.

5. Fortuna e trasmissione del testo Citazioni e allusioni tra antichità e modernità

Nell'ambito della storia del testo del De natura deorum, gioca un ruolo di primaria importanza la fama di cui esso dovette godere nei secoli posteriori alla sua pubbli­ cazione55. Riprese tematico-contenutistiche, imitazioni nella forma e nello stile, excerpta estrapolati da gramma­ tici e lessicografi rappresentano soltanto una visione ri­ duttiva dell'ampio grado d'influenza esercitato dal dialo­ go sulla produzione letteraria ad esso successiva56. Dell'uso del testo di Cicerone da parte di scrittori a lui coevi non vi è altro che una flebile traccia: conosciamo

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un frammento di Tirone57, trasmessoci da Aulo Gellio (13,9,4), che riporta la spiegazione del termine opici pre­ sente al cap. 2,111, ed un altro appartenente agli Etyma di Cornificio Longo, questa volta citato da Macrobio (Sat. 1,9,11), dove viene data la medesima etimologia di Ianus che leggiamo al cap. 2,67. Ben più sicura la fortuna esercitata su autori più po­ steriori come Valeria Massimo58 e Igino59• Anche Plinio60, nella sua Naturalis Historia, adopera il nostro dialogo come fonte della sua compilazione, soprattutto per ri­ cavare informazioni sul mondo animale. L'interesse nei confronti del De natura deorum continua durante l'età im­ periale con Quintiliano6I, che discute la coniazione cice­ roniana dei vocaboli beatitas e beatitudo (cap. 1,95) nell'ot­ tavo libro della sua Institutio Oratoria. Decisamente più massiccio è invece l'uso del testo da parte dei primi autori cristiani, in particolar modo gli apologisti, che si servirono sia della dossografia (capp. 1,25-41) sia delle argomentazioni teistiche contenute nel secondo libro di contro alle tesi epicuree. Particolare at­ tenzione è data, inoltre, al motivo della provvidenza e dell'ordine che regola tutto il creato. Un esempio lam­ pante è dato dal dialogo filosofico Octavius di Minucio Felice che, «sul piano della dialettica più diffusa nelle scuole, contrappone due discorsi, l'uno scettico-epicureo (per bocca di Cecilia), l'altro storico-ciceroniano che, po­ tendosi risolvere entro i termini della concezione cristia­ na, tende a dimostrare che come il discorso di Cicerone era più convincente nei confronti della testi epicurea, così ora, inverata la tesi stoico-platonica dalla rivelazione del Cristo, più convincente è il discorso sulla concezio­ ne cristiana»62• Anche Tertulliano63, Cipriano64 (ma con qualche perplessità) e sicuramente Arnobio65 costituisco­ no in questo senso una tappa molto importante: soprat­ tutto quest'ultimo che, oltre a dar prova di conoscere il

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l NTRODUZION E

dialogo nel corso della sua polemica contro il politeismo contenuta nei libri III-VII del suo Adversus Nationes, di­ chiara, a proposito dell'assurdità dell'attribuire un sesso alle divinità, che «primo fra tutti, Tullio, il più eloquente del popolo romano, senza temere alcuna accusa di em­ pietà, nobilmente, con tenacia e franchezza, espresse a tale riguardo il suo pensiero col più grande rispetto»66. Il De natura deorum, e più in generale Cicerone, giocò però un ruolo fondamentale sulla personalità letteraria di Lattanzio (III-IV d.C.), africano di nascita, allievo di Arnobio, retore e scrittore di fede cristiana tra i più im­ portanti del suo tempo, non casualmente denominato il "Cicerone cristiano". Lungo il corso delle sue opere, per lo più nelle Divinae Institutiones67 e nel De ira Dei68, si possono riconoscere più di settanta citazioni dal nostro testo, nonché alcuni frammenti69 che devono essere fatti risalire alla lacuna presente in tutti i manoscritti, dipen­ denti da un unico archetipo collocabile naturalmente in un qualche momento posteriore alla metà del IV secolo7°. Tra gli autori tardoantichi ugualmente degni di esse­ re ricordati, devono essere citati Ambrogio71, lo storico Ammiano Marcellino72, i grammatici Probo73 e Carisio74, il pagano Macrobio75, i grandi Padri Gerolamo76 e Ago­ stino77, numerosi scoliasti e glossatorF8, e così via fino ad arrivare al sorgere della scolastica, periodo in cui si collocano i primi testimoni medioevali che ci sono per­ venuti realmente (IX sec.). Si rammentano, tra i pensatori aderenti a tale corrente, Pietro Abelardo79, Tommaso d'A­ quino80, Giovanni di Salisbury81 . E anche Ruggero Baco­ ne82 vi fa riferimento. Ecco quindi che giungiamo agli anni di Francesco Pe­ trarca83, Giovanni Boccaccio84, Leonardo Bruni85, Erasmo86, Giovanni Calvino87, Francesco Bacone88, John Milton89, per arrivare, infine, ai filosofi David Hume90 e Wilhelm Frie­ drich Hegel91, che in qualche modo chiudono da epigoni

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LA NATU RA D E G L I D E I D E NATURA DEORUM

questa lunga parentesi, fondamentale per la diffusione del testo del De natura deorum. La lista, tuttavia, potreb­ be continuare ancora per molto, ma ci fermiamo qui per non esulare dal nostro compito, sperando comunque che presto si possa giungere allo studio complessivo che già Arthur Pease, nel secolo scorso, esortava a compiere sulla fortuna di cui godette il De natura deorum nella storia della letteratura occidentale92•

Lineamenti di tradizione manoscritta

Un indizio non poco significativo per la conoscenza dei livelli di diffusione del De natura deorum, in particolar modo durante le epoche medioevale e rinascimentale, è dato dalla cospicua quantità di manoscritti che ci sono pervenuti (più di 120) e dall'esistenza, all'interno dei ca­ taloghi delle biblioteche europee, di riferimenti ad altri codici adesso perduti, ma che sicuramente sarebbero stati di notevole importanza per la costituzione del testo ciceroniano e per la ricostruzione della sua storia. In Italia, presso Montecassino93, è attestato un mano­ scritto per il secolo XI; a Pavia94, nel 1426, cinque mano­ scritti dovevano riportare il testo del De natura deorum; ad Urbino95, prima del 1482, esistevano due copie del dia­ logo (ma si tratta, forse, dei due codici Urbinati conserva­ ti oggi alla Vaticana); in Toscana, sia a Fiesole96 che nelle biblioteche private di Francesco Petrarca97 e di Eugenio I�8, vi erano, tra XIV e XV secolo, una copia per cia­ scuno; mentre a Firenze, nella collezione di Cosimo de' Medici99, ve ne erano quattro. Sappiamo per certo, infine, che Papa Sisto lV100 ne possedeva due. La circolazione di manoscritti del De natura deorum è attestata anche in Francia: nel XII secolo il vescovo di

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l NTRODUZIONE

Bayeux, Filippo di Harcourt101, ne donò una copia alla diocesi di Bee; una menzione è presente nella Bibliono­ mia di Riccardo di FournivaP02 (ca. 1250), e ad altri codici fanno riferimento i cataloghi della Sorbona103 (a. 1290), di Avignoné04 (a. 1311) e di Reims105 (sec. XV). Altrettanto si può dire della Spagna (sappiamo che nel 1671 un incen­ dio distrusse un codice escorialense che doveva conte­ nere il De natura deorum insieme ad altri trattati filosofici ed alcune orazioni)106, della Germania (il dialogo com­ pare nei cataloghi delle biblioteche di Liittich107, sec. XI; di Neumiinster108, a. 1233; di Hamersleven109, sec. XIII; di Amelungsborn110, a. 1412; di Chur11, a. 1457; di Fulda112, sec. XVI; e in una lista redatta nel 1412 da Amplonius di Ratingen113), dell'Inghilterra (un codice ciascuno era pre­ servato nella biblioteca di Canterbury114 e nel convento di Syon115, situato nella cittadina di Isleworth, rispettiva­ mente nei secoli XV e XVI). Quanto invece ai manoscritti oggi preservati, essi pos­ sono essere datati tra IX e XVII secolo: una lista comple­ ta, ordinata secondo la cronologia e ricca di bibliografia, è redatta da Arthur Pease nell'introduzione alla sua edi­ zione116. Ad esso rimando per una trattazione quanto più esaustiva. In questa sede ci limiteremo dunque a ricordare i più importanti ai fini della costituzione del testo critico: - Vindobonensis Palatinus 189 (=V), conservato presso la Oesterreichische Nationalbibliothek di Vienna, sec. IX, pergamenaceo, mutilo della parte iniziale e fina­ le, formato da 128 fogli. Contiene De natura deorum (ai ff. 1r-40r), De Divinatione, Timaeus, De fato, Paradoxa Stoicorum, Lucullus. - Leidensis Vossianus Latinus F 84 (= A), conservato alla Universiteitsbibliotheek di Leida, secc. IX-X, perga­ menaceo, formato da 120 fogli. Contiene De natura

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LA NAT U RA D E G L I D E I D E NATURA DEORUM

deorum

(ai ff. 1r-36v),

De Divinatione, De fato, Topica,

Paradoxa Stoicorum, Lucullus, De legibus.

A quanto con­ sta, il codice fu vergato in Francia da quattro copisti, appartenne al monastero di S. Mesmin (Aube) e poi, dopo la distruzione del 1560, fu acquistato dal filolo­ go ed editore Alessandro Petavius. In seguito appar­ tene alla regina Cristina di Svezia e ad Isaac Voss. -

Leidensis Vossianus Latinus F 86 (= B), conservato alla Universiteitsbibliotheek di Leida, secc. IX-X, perga­ menaceo, formato da 192 fogli. Contiene la medesi­ ma lista di opere del codice A, del quale sembra aver passato simili vicissitudini, ad esempio la sua appar­ tenenza allo studioso Petavius. Il De natura deorum è vergato ai ff. 1r-59r.

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Florentinus Laurentianus, S. Marco 257

(=F), conservato a Firenze presso la Biblioteca Medicea Laurenziana, sec. X, pergamenaceo, formato da 90 fogli. Come i co­ dici A e B, contiene De natura deorum (ai ff. 1r-28r), De divinatione, Timaeus, De fato, Topica, Paradoxa stoicorum, Lucullus, De legibus.

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Vaticanus Palatinus 1519 (= P), conservato nella Biblio­ teca Apostolica Vaticana della Città del Vaticano, sec. X, pergamenaceo, formato da 88 fogli. Contiene De natura deorum (ai ff. 1r-40r), De divinatione e i Carmina de Hortorum Cultura dell'abate Walafrido Strabone.

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Leidensis Heinsianus Latinus

118 (= H), conservato an­ ch'esso alla Universiteitsbibliotheek di Leida, sec. XI, pergamenaceo, formato da 102 fogli. Contiene De natura deorum (ai ff. 1r-52v), De divinatione, De legibus. Come messo in evidenza dagli studiosi, fu scritto in grafia beneventana, forse a Montecassino, e precisa-

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INTRODUZIOI'-:E

mente nel periodo in cui l'abate Desiderio - stando alla testimonianza di Pietro Diacono, Monumenta Germaniae Historica, Scriptores 7,747) - codices... non­ nullos in hoc loco describi praecepit, quorum nomina haec sunt... Ciceronem De natura deorum. -

Londinensis Harleianus 2622 ( D), conservato alla Bri­ tish Library di Londra, sec. Xl, pergamenaceo, forma­ to da 27 fogli. Contiene Paradoxa e parte del De natura deorum (ai ff. 9r-27v, fino al cap. 1,114). Fu vergato for­ se nelle Fiandre o in Germania ed appartenne a sir Robert Harley, conte di Oxford (1661-1724).

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528 ( M), conservato alla Bayeri­ sche Staatsbibliothek di Monaco di Baviera, sec. Xl, pergamenaceo, formato da 15 fogli. Contiene De na­ tura deorum (ai ff. 1r-52v), De divinatione, Timaeus, De fato, Paradoxa, Lucullus, De legibus. Fu scritto da due o tre copisti ed in seguito emendato e annotato da Iohannes Aventinus (lat. per Johann Georg Turmair). Nella parte interna della copertina si legge una nota risalente ai secc. XVI-XVII: fuit hic liber aut Aventini

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Monacensis Latinus

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aut ad tempus monasterium Biburgense illi commodaret, dictiones enim in libri marginibus manu Aventini scrip­ tae sunt. Prima di giungere a Monaco di Baviera, ap­

partenne prima al collegio gesuita di Ingolstadt e poi alla biblioteca universitaria di Landshut. -

Oxoniensis Mertonianus 311 ( 0), conservato ad Oxford presso la Merton College Library, sec. XII, pergamenaceo, formato da 134 fogli. Contiene De officiis, Epitaphia Ciceronis, De natura deorum (ai ff. 37r-69v), De divinatione, Philippicae I-IV. Il De divinatio­ ne è incompleto ed è considerato erroneamente come il quarto libro del De natura deorum. Forse scritto in =

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Inghilterra, fu venduto da Thomas Trillek, vescovo di Rochester, a William Reade, vescovo di Chichester, il quale lo donò poi al Merton College. -

17812, olim 178 ( N), conservato presso la Bibliothèque Nationale di Pari­ gi, sec. XII, pergamenaceo, formato da 50 fogli. Con­ tiene Lucullus, De natura deorurn (ai ff. 13r-46r), DeJato, otto libri di Epistole. Proviene dalla Biblioteca della Cattedrale di Notre Dame.

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688 ( T ), conservato a Tours presso la Bi­ bliothèque Municipale, secc. XII-XIII, pergamenaceo, formato da 63 fogli. Contiene frammenti di testo de­ gli Acadernica e del De natura deorurn (ai ff. 9r-26r, dal cap. 1,37 a 2,63 e da 3,33 fino alla fine), De Jato e parte delle Epistulae ad Jarniliares. Il codice è molto danneg­ giato e proviene dall'abbazia di Marmoutier.

Parisinus Nostradarnensis Latinus

Turonensis

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Le Edizioni a stampa

Il De natura deorum, edito più di duecento volte nella storia della tipografia europea117, venne consegnato alle more della stampa per la prima volta nel 1471 a Roma e a Venezia. Due, quindi, le edizioni a contendersi il titolo di editio princeps del dialogo. La prima, di patria romana, vide la luce presso la stamperia di Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz, in due volumi datati al 27 aprile e al 20 settembre del 1471. L'opera, in folio, contiene l'editio prin­ ceps di tutto il corpus filosofico di Cicerone: il De natura deorum è contenuto ai ff. 1r-48v. L'altra edizione è inve­ ce veneziana, fu stampata dal tipografo Vindelinus de Spira e pubblicata da Baignat e Due de la Valière, in un volume composto di 186 fogli. Contiene De natura deorum (ff. 5r-65v), De divinatione, De fato, De legibus, Academica, il De re militari di Pomponio Leto, una vita di Cicerone. Un'altra importante edizione fu poi l'opera omnia pub­ blicata a partire dagli anni 1502-1503 a Venezia da Aldo Manuzio: il De natura deorum, stampato però nel 1523, venne edito nel volume nono (ff. 2r-79v) dopo la morte di Aldo nel 1515. Le opere filosofiche ivi contenute sono De natura deorum, De divinatione, De fato, Somnium Scipionis, De legibus, Timaeus, De petitione consulatus. Della Venezia

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del XVI secolo sono altresì degne di nota l'edizione cu­ rata da Pietro Marso (1508, stampata da Lazaro Soardo), il quale, tra l'altro, compose anche un commento al dia­ logo dedicato al re di Francia Luigi XII, e la giuntina del Vettori (1534-1537). Trent'anni più tardi il dialogo appa­ riva anche a Parigi presso Denys Lambin (latinamente Dionysius Lambinus). Nel 1618 ad Amburgo usciva in due volumi, grazie alle cure di Wilhelm, Gruter e dello stampatore Frobenius, il testo del Vettori riveduto ed ar­ ricchito con le note postume del primo dei tre curatori, morto nel 1584. Di una certa importanza, infine, anche il De natura deorum del 1718 curato da John Davies (con note ed emendazioni di John Walker) e ristampato più volte a Cambridge e ad Oxford.

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Sommario dell'Opera

Libro Primo

1. Dedica a Bruto ed esposizione delle incertezze che sca­ turiscono dalla ricerca filosofica; 2. Differenze tra le ve­ dute dei filosofi in merito alla natura divina; 3. Presenta­ zione della dottrina epicurea (gli dèi non si curano degli affari umani), la cui conseguenza è l'annullamento di ogni forma di religio; 4. Presentazione della dottrina stoi­ ca (la provvidenza divina governa il mondo e gli uomi­ ni); 5. Nonostante la disparità di opinioni, è necessario giungere a una conclusione veritiera; 6. Excursus di Cice­ rone sulla sua esperienza di ricerca filosofica; 7. Cicerone dice di essersi occupato molto di filosofia, soprattutto ne­ gli ultimi anni, per la lontananza dalla vita pubblica; 8. La divulgazione in lingua latina del pensiero filosofico greco: progressi e difficoltà linguistiche; 9. La filosofia che dà consolazione: Cicerone, lo studio filosofico e la morte della figlia Tullia; 10. Critiche nei confronti d�l dogmatismo: è importante investigare la realtà; 11. E fondamentale mettere in discussione tutto, secondo l'e­ sempio fornito da Socrate; 12. Esposizioni di teorie pro­ babilistiche; 13. Cicerone si propone di esporre le opinioni dei filosofi precedenti in merito alla natura divina; 14. Tut­ ti, compresi quanti sono estremamente certi, devono riflet­ tere e ponderare; 15. Viene presentato il dialogo: spazio, occasione e personaggi; 16. Si rimpiange l'assenza del pe­ ripatetico Marco Pisone, di cui viene delineato il profilo filosofico; 17. Velleio è invitato ad esporre la dottrina

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epicurea, che occuperà i capitoli 18-56; 18. Inizio del di­ scorso di Velleio: divergenze epicuree nei confronti delle teorie platonica del demiurgo e stoica della provvidenza; 19. Critica del demiurgo; 20. Come può aver fabbricato il mondo? Come può aver avuto un principio eterno? Criti­ ca della provvidenza; 21. Il problema del tempo legato all'atto creativo; 22. Critica nei confronti degli Stoici in merito all'inattività del dio prima della creazione del mondo; 23. Velleio si chiede se lo abbia creato per i soli saggi, o anche per gli stolti e i malvagi; 24. Critica del panteismo stoico; 25. Inizio della lista dossografica (fino al cap. 41 compreso): Talete e Anassimandro; 26. Anassi­ mene e Anassagora; 27. Alcmeone e Pitagora; 28. Senofa­ ne e Parmenide; 29. Empedocle, Protagora, Democrito e Diogene di Apollonia; 30. Platone; 31. Senofonte; 32. An­ tistene e Speusippo; 33. Aristotele; 34. Senocrate ed Era­ clide Pontico; 35. Teofrasto e Stratone di Lampsaco; 36. Zenone; 37. Aristone di Chio e Cleante; 38. Perseo; 39-40. Crisippo; 41. Diogene di Babilonia; 42. Critica dei poeti e della loro visione degli dèi; 43. Critica dei Magi, degli Egiziani, delle opinioni popolari ed elogio di Epicuro; 44. Esposizione della dottrina epicurea: gli dèi, dei quali l'uomo ha una prenozione, esistono, sono immortali e fe­ lici; 45. Il loro essere felici non include alcuna attività o partecipazione alla sfera umana: non bisogna avere ti­ more di essi; 46. Gli dèi e il loro aspetto antropomorfico; 47. La figura umana è la più bella in natura, quindi ap­ partiene agli dèi; 48. Solo l'uomo possiede la ragione per mezzo della quale può conseguire la virtù, condizione necessaria per essere felici; 49. Gli dèi non hanno un cor­ po e il sangue, ma una specie di corpo e una specie di sangue; visione di Epicuro a proposito delle immagini mentali (per lui aggregazioni di innumerevoli atomi) 50. Teoria dell'isonomia; 51. Inattività degli dèi; 52. Il dio di matrice stoica è eccessivamente indaffarato, in quanto,

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coincidendo con il mondo, è sempre in movimento; 53. La serenità si trova in un animo tranquillo; presentazio­ ne del dio degli Stoici come un deus ex machina; 54. Il mondo è costituito di atomi che, aggregandosi, formano corpi senza la necessità di essere governati da un padro­ ne; 55. Critica del determinismo degli Stoici; 56. Lode di Epicuro, che con i suoi ragionamenti ha liberato gli uo­ mini dalla paura degli dèi; fine del discorso di Velleio; 57. Inizio del discorso dell'Accademico Cotta; 58. Elogio del­ le capacità espositive di Velleio; 59. Elogio di Zenone epi­ cureo e rammarico di Cotta perché tanto ingegno è spre­ cato in dottrine così povere e fallaci; 60. Difficoltà dell'uomo di fronte alla domanda "che çosa e quale è dio?": aneddoto di Simonide e Ierone; 61. E più facile so­ stenere che gli dèi esistono piuttosto che dimostrarlo; 62. Critica dell'opinione di Velleio secondo cui tutti i popoli ammettono l'esistenza degli dèi, dal momento che po­ trebbero essercene alcuni a noi sconosciuti che invece la rifiutano; 63. Ateismo di alcuni grandi pensatori della Grecia classica: Diagora, Teodoro e Protagora; 64. Ragio­ namenti erronei del genere si rintracciano anche in altri filosofi; 65. Gli Epicurei dimostrano tutto con la teoria atomistica; 66. Critica di Democrito e Leucippo; 67. Ina­ deguatezza di tale teoria per spiegare il mondo; 68. Se gli dèi sono formati di atomi, non è possibile attribuire loro l'eternità; 69. Critica della dottrina epicurea del clinamen; 70. Critica di Epicuro in merito alla sua incapacità di as­ sumere una posizione di pensiero chiara; 71. Critica del­ la "specie di corpo" e della "specie di sangue"; 72. Epicu­ ro è un autodidatta della filosofia; 73. Disprezzo di Epicuro per i suoi due unici maestri (Panfilo e Nausifa­ ne): egli non è altro che un plagiatore di Democrito; 74. Ripresa del motivo affrontato al cap. 71; 75. Ironia di Cot­ ta e incertezza sull'aspetto degli dèi; 76. Oratio (fino al cap. 102) a proposito dell'antropomorfismo: Cotta parla

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dell'aspetto umano, della bellezza, della ragione degli dèi; 77. Gli uomini immaginano gli dèi con il corpo uma­ no seguendo le opinioni di filosofi e superstiziosi; 78. Se gli animali potessero ragionare, darebbero agli dèi l'im­ magine di loro stessi, cosa che alcuni uomini fanno (si rammenta il caso del toro amato da Europa e del Tritone marino); 79. Soggettività della bellezza umana; 80. Gli dèi hanno dei difetti o sono tutti belli, ma in tal caso non si potrebbero distinguere; 81. Non tutti i popoli raffigu­ rano gli dèi in sembianze umane (gli Egizi o gli Assiri venerano animali); 82. Le stesse divinità hanno spesso aspetti diversi; 83. Bisognerebbe postulare l'esistenza di dèi con differenze reciproche e difetti; 84. Le medesime divinità vengono venerate con nomi diversi in luoghi di­ versi; 85. Se gli dèi non hanno sembianze umane, allora non esistono; 86. Epicuro ha paura degli dèi più dei mal­ vagi e dei sacrileghi; 87. Non solo gli uomini sono dotati di ragione, ma anche gli astri; 88. Bisogna credere anche a ciò che non vediamo; 89. Critica del ragionamento di Epicuro secondo cui gli dèi hanno aspetto umano in base alla ragione umana; 90. Sarebbe stato meglio sostenere che sono gli uomini ad avere un aspetto simile a quello degli dèi; 91. La somiglianza tra uomini e dèi sarebbe dovuta al caso (caduta degli atomi); 92. Gli dèi, che Epi­ curo vuole oziosi, non avrebbero bisogno delle membra; 93. Inconsistenza delle critiche di Epicuro verso filosofi di grande valore; 94. Scarso valore delle critiche di Vel­ leio ai filosofi precedenti; 95. Avere un aspetto umano non è una prerogativa per essere felici; 96. L'uomo sareb­ be uguale agli dèi solo nell'aspetto; per il resto è in una posizione di netta inferiorità; 97. E possibile che esistano aspetti migliori di quello umano; 98. A forza di escludere le altre, si potrebbe negare l'esistenza degli dèi; 99. Cotta si chiede, a quale scopo gli dèi abbiano le membra uma­ ne; 100. E meno fantasioso chi arriva all'esistenza di dio

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partendo dalla bellezza e dall'ordine dell'universo; 101. L'uso delle membra da parte degli dèi: impossibilità di immaginarli inoperosi; 102. Critica dell'inattività degli dèi di Epicuro (che di riflesso giustificherebbe l'inattività degli uomini); 103-104. Cotta di chiede quale sia la sede del dio di Epicuro e cosa faccia; 105. Se gli dèi esistono solo nel pensiero, l'uomo potrebbe immaginarli in sem­ bianze differenti, a seconda delle immagini che giungo­ no nell'animo; 106. Esempio: il sopraggiungere di imma­ gini di eminenti personaggi storici; 107. Altro esempio: immagini di poeti, filosofi, re; 108. Le immagini mentali si presentano agli uomini in fogge differenti; 109. Critica dell'isonomia; 110. Come deriva tutto questo dagli atomi? Viene introdotto il problema del rapporto tra la felicità e la virtù; 111. Un dio inattivo non può essere virtuoso, perché vive di soli piaceri; 112. In questi termini l'uomo è più felice di dio; 113. Opinioni di altri Epicurei a propo­ sito dei piaceri (fisici e terreni) provati dagli dèi; 114. Il dio di Epicuro non è felice nemmeno perché non prova dolore: esso è costantemente scosso dai flussi di atomi; 115. Epicuro sostiene di venerare gli dèi, ma con le sue teorie ha allontanato gli uomini dal culto di essi; 116. Il filosofo dovrebbe venerare la divinità per la sua natura superiore, ma la dottrina di Epicuro rovescia questa vi­ sione; 117. Epicuro ha annullato la religio; 118. La religio è abolita anche nella concezione secondo cui gli dèi sono stati inventati per tenere sotto controllo la vita civile; 119. Critica della visione evemeristica (gli dèi sarebbero una divinizzazione post mortem di uomini illustri) e delle cor­ renti misteriche; 120. Incertezze a proposito della posi­ zione di Democrito in merito alla natura divina; 121. L'a­ teismo di Epicuro, che non ha privato gli dèi di ogni forma di benevolenza; 122. Di riflesso si annulla la benevolenza tra gli uomini, e l'amicizia ha sol­ tanto uno scopo utilitario; 123. Epicuro nega gli dèi a fatti,

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non a parole (per non attirarsi l'odio degli uomini); 124. Un dio che non è benevolo nei confronti dell'uomo non è un vero dio. Fine del discorso di Cotta.

Libro Secondo l. Velleio elogia l'eloquenza di Cotta ed invita Balbo a esporre la dottrina che rappresenta; 2. Balbo vorrebbe che fosse di nuovo Cotta a parlare, il quale invece prefe­ risce ascoltare per poi controbattere; 3. Balbo espone il piano della sua argomentazione, dividendola in quattro parti: il problema dell'esistenza degli dèi (capp. 4-44), della loro natura (capp. 45-72), del governo del mondo (capp. 73-153) e del governo degli uomini (capp. 154-167); 4. L'esistenza di dio è un dato che si coglie anche dalla sola osservazione della volta celeste; 5. Con il passare dei secoli le credenze fallaci sono venute meno; 6. Casi di dèi che si sono palesati agli uomini (Dioscuri e Fauni); 7. Una conferma di questo proviene dalle predizioni, dai presa­ gi e dagli auspici; 8. Importanza della pratica religiosa e pericolosità derivata dalla sua negligenza; 9. Importanza degli auspici e della divinazione per l'incolumità dello Stato; 10-11. Di nuovo viene trattato il punto precedente, con l'ausilio di esempi storici (popolo dei Deci e Tiberio Gracco padre); 12. Se esiste la divinazione, allora esisto­ no anche gli dèi; 13. Esposizione della teoria delle quat­ tro cause di Cleante a proposito dell'esistenza degli dèi: presentimento del futuro, i benefici che si possono trarre dalla natura; 14. La paura prodotta dai fenomeni natura­ li; 15. L'armonia dell'universo; 16. Opinione di Crisippo

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secondo cui esiste necessariamente qualcosa di superio­ re all'uomo, cioè un dio; 17. Metafora della bella casa e del proprietario (o costruttore) che corrispondono all'u­ niverso e a dio; 18. L'uomo è un microcosmo formato da­ gli elementi che compongono l'universo stesso, che a sua volta è il macrocosmo; 19. !--'ordine del mondo presuppo­ ne una mente divina; 20. E facile confutare i brevi sillo­ gismi di Zenone; 21. Esposizione del sillogismo di Zeno­ ne sulla ragione del mondo: ciò che possiede ragione è superiore a ciò che non la possiede, nulla è superiore al mondo, il mondo è dotato di ragione; 22 . Altri sillogismi di Zenone sula sensibilità, sull'anima e sulla sapienza del mondo; 23. Balbo cerca di dimostrare scientificamen­ te l'esistenza degli dèi a partire dalla nozione di calore; 24. Il calore nel corpo umano; 25. Il fuoco è ovunque: nella terra; 26. Nelle piante e nell'acqua; 27. Nell'aria; 28. Dunque il calore è il fuoco che alimenta il mondo; 29. Esposizione del concetto di guida del mondo, hegemo­ nik6n; 30. La natura che ci circonda è dotata di sensibili­ tà, ragione e sapienza; 31. Il suo movimento non è dato da una forza esterna; 32 . La natura ha un movimento proprio; il mondo è dotato di intelligenza; 33. Scala ge­ rarchica crescente degli e�seri: prodotti della terra; 34. Animali; Uomini; Dio; 35. E necessario che esista una na­ tura perfetta; 36. La natura del mondo è intelligente e sapiente: il mondo è dio; 37. Tutto il mondo è perfetto, e l'uomo è stato creato per contemplarlo; 38. La perfezione del mondo si trova in un essere perfetto; 39. Questo esse­ re perfetto è il mondo stesso: il mondo è dio; di conse­ guenza sono perfette e divine anche le stelle; 40. Esse sono di fuoco e la prova è data dal sole; 41. Il fuoco del sole e degli astri produce vita; 42. Il sole e gli astri sono animati, hanno sensibilità e intelligenza: anch'essi sono manifestazione di dio; 43. Tali caratteristiche sono dedu­ cibili dalla regolarità con cui si muovono; 44. Il loro moto

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è proprio e volontario; chi nega l'esistenza degli dèi di fronte a questi dati è ignorante; 45. Balbo passa al proble­ ma della definizione della natura degli dèi, esclude la teoria della figura umana e propone di vedere il mondo stesso come dio; 46. Critica di Epicuro, che non compren­ de il concetto di dio ruotante e sferico; 47. La sfera è la forma geometrica superiore a tutte le altre; 48. Ignoranza degli Epicurei in materia di geometria; 49. La rotazione del mondo e la circolarità che contraddistingue le orbite celesti sono possibili solo in una forma sferica; vengono esposti i benefici che si possono trarre dalla rotazione del sole; 50. Rotazione della luna e suoi benefici; 51. Ro­ tazione dei cinque pianeti; calcolo del "grande anno"; 52. Movimenti delle orbite di Saturno e di Giove; 53. Movi­ menti delle orbite di Marte, Mercurio e Venere; 54. La regolarità di queste orbite porta a concludere che gli astri sono dèi; sono regolate da armonia anche le stelle fisse; 55. Le stelle fisse sono divine; 56. Regolarità e perfezione del mondo celeste e divino; irregolarità del mondo su­ blunare; 57. Opinione di Zenone sulla artisticità della na­ tura; 58. Sempre secondo Zenone la natura è artista e provvidenza perché provvede alla bellezza del mondo; 59. Gli dèi degli Stoici, a differenza di quelli di Epicuro, non sono inattivi e non provano fatica perché incorporei; 60. Gli dèi sono benevoli nei confronti degli uomini; 61. Divinizzazione da parte degli antenati di forze positive (Fides, Mens, etc.) e negative (Cupido, Voluptas, etc.); 62. Inutili superstizioni derivate dalla deificazione di uomi­ ni benefattori (Ercole, Romolo, etc.); 63. I poeti hanno contribuito a ciò creando altre superstizioni; 64. Tentati­ vi di spiegare certi miti attraverso la natura (Urano, Cro­ no, etc.); 65. Mito di Giove che manda fulmini e tuoni; 66. Di Giunoni, Nettuno, Dite, Proserpina; 67. Di Cerere; Marte, Giano, Vesta; 68. Dei Penati, Apollo, Diana; 69. Ancora su Diana e Venere; 70. Balbo mostra quindi come

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si sia pervenuti a dèi fasulli a partire da fenomeni natu­ rali; 71. Bisogna venerare i principi naturali; 72. In que­ sto modo soltanto terminerebbe la superstizione; 73. Il mondo è governato dalla provvidenza divina; critica dei fraintendimenti della scuola epicurea; 74. Critica dell'i­ gnoranza di Epicuro; 75. Divisione della prossima sezio­ ne di testo in tre parti: il mondo è regolato dalla sapien­ za, il mondo è ordinato dalla natura divina, il cosmo è ordinato in modo impeccabile; 76. Se gli dèi esistono, al­ lora non sono inoperosi perché governano il mondo; 77. Nulla supera dio, dunque è dio a governare il mondo; 78. Gli dèi hanno una ragione e garantiscono un governo simile a quello di uno stato; 79. Gli dèi possiedono una ragione e delle virtù uguali a quelle degli uomini, che da essi le hanno ricevute, ma ad un grado nettamente supe­ riore; 80. Tutto è regolato dall'intelligenza divina; 81. De­ finizione della natura come forza razionale e ordinata; 82. Per Epicuro la natura è tutto, anche il caso, per gli Stoici invece solo ciò che è regolato da un ordine; 83. Un'unica mente divina regola tutto il creato; 84. Il mondo si muove intorno ad un punto centrale e in esso c'è un continuo scambio tra i quattro elementi (terra, acqua, aria, etere); 85. Questa natura è eterna; 86. Se il mondo è perfetto, allora la natura è ad un grado di perfezione su­ periore; 87. Il mondo non è un prodotto del caso, ma di una natura intelligente; 88. L'opera della natura è razio­ nale; 89. Un uomo, quando per la prima volta vede qual­ cosa, nutre dei dubbi (esempio del pastore che vede una nave); 90. Poi però si accorge che si tratta di una realtà animata: allo stesso modo i filosofi prima sono sbigottiti, poi giungono a comprendere la presenza di una natura divina che regola il mondo; 91. La terra è collocata al cen­ tro del mondo ed è circondata d'aria; 92. Intorno all'aria c'è l'etere, da cui scaturiscono i fuochi; 93. Critica della teoria di Epicuro a proposito della nascita del mondo

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dalla casualità degli atomi; 94. Qualsiasi costruzione, quindi, potrebbe nascere dall'aggregazione di atomi; 95. Un uomo che osservi l'universo, è certo che è opera degli dèi; 96. Accadrebbe ciò anche ad uno che rivedesse ciò che lo circonda dopo giornate di buio totale; 97. I movi­ menti del cielo presuppongono una ragione divina; 98. Bellezza della terra, delle piante, delle acque; dei monti; 99. Bellezza degli animali, degli uomini; 100. Bellezza del mare, delle isole, delle coste, delle spiagge, dei pesci; 101. Bellezza dell'aria, delle piogge, dei venti, degli uccel­ li, dell'etere, delle stelle; 102. Bellezza del sole; 103. Bel­ lezza della luna, dei pianeti; 104. Bellezza delle stelle fis­ se; introduzione alla sezione degli Aratea (capp. 105-114); 105. Le due Orse (Cynosura ed Elice); 106. La stella pola­ re; 107. Il Drago; 108. Engonasi e la Corona; 109. Il Ser­ pentario, lo Scorpione e Boote; 110. Arturo, la Vergine, i Gemelli, il Cancro, il Leone, l'Auriga, la Capra, i Capretti, il Toro; 111. Le Iadi, Cefeo, Cassiopea, Andromeda, il Ca­ vallo, l'Ariete, i Pesce; 112. Perseo, le Piccole Pleiadi, la Lira, l'Uccello, l'Acquario, il Capricorno, il Titano; 113. Lo Scorpione, l'Arco, il Cigno, l'Aquila, il Delfino, Orione; 114. Il Cane, la Lepre, Argo, l'Ara, il Centauro, il Lupo, l'Idra, il Corvo, l'Anticane; 115. Tutto questo ordine non può essere casuale, ma è il frutto dell'opera di una ragio­ ne; 116. Il mondo è sferico, ed in quanto tale è dotato in ogni punto di forza uguale: innanzitutto il mare; 117. Poi l'aria, l'etere e gli astri; 118. Le stelle sono ignee; tutto il mondo è in un ciclo di fuoco; teoria della conflagrazione finale (Panezio); 119. I pianeti e la loro reciproca armo­ nia; 120. Il discorso si sposta sul piano delle creature ter­ restri: la natura sapiente delle piante; 121. Varietà degli esseri e precisione della loro struttura fisica; 122. Sensibi­ lità e istinto degli animali; 123. Alcuni animali hanno una struttura fisica impeccabile: la pinna; 124. Anfibi, il pellicano; 125. Le rane marine, il nibbio, le gru; 126. Cer-

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ti animali riescono ad curarsi da soli; 127. Metodi di di­ fesa degli animali e capacità naturale di far progredire la specie mediante la riproduzione; 128. Gli animali possie­ dono una struttura fisica tale da poter procreare e accu­ dire i cuccioli; 129. Gli animali hanno un grande senti­ mento di amore e cura per i loro piccoli; 130. Gli uomini si prendono cura delle piante e degli animali; la terra è resa fertile per l'uomo dai fiumi (Nilo, Eufrate e Indo); 131. La terra è ricca di prodotti; i venti portano benefici; 132. Altrettanti benefici sono ricavabili da fiumi, mari, foreste, saline, piante, trascorrere del giorno e della notte; 133. La provvidenza divina ha messo a disposizione tut­ to questo per gli dèi e gli uomini; 134. Importanza di ogni singola parte e azione del corpo umano: bocca e re­ spiro; 135. Esofago; 136. Trachea, polmoni, cuore, ventre; 137. Intestino, fegato, bile, reni, arterie e vene; 138. Dige­ stione ed escrezione, respirazione; 139. Ossa, tendini, nervi; 140. Tra ' tutte le creature l'uomo è l'unico che può stare eretto, affinché possa guardare al cielo e conoscere gli dèi; focus incentrato sui sensi e sulla loro sapiente di­ sposizione: la vista; 141. L'udito, l'olfatto, il gusto, il tatto; timido cenno alle zone nascoste del corpo; 142. Gli occhi; 143. La protezione degli occhi; 144. L'orecchio; 145. Il naso e le narici; protezione del gusto; capacità da parte dell'uomo soltanto di valutare le arti; 146. L'udito umano riesce a cogliere e comprendere la musica; superiorità dell'olfatto, del gusto e del tatto dell'uomo; 147. L'impor­ tanza e la bellezza della ragione, che l'uomo e dio hanno in comune; 148. Mediante la ragione si dà concretezza a concetti, arti, eloquenza; 149. Lode dell'eloquenza, per la quale la natura ci ha messo nella disposizione di poterla esercitare; 150. Le mani; 151. Attraverso di esse l'uomo domina la terra, le altre creature; 152. Il mare, i venti, e plasma gli elementi; 153. La ragione domina anche il cielo, in quanto si può comprendere il movimento e le funzioni

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degli astri; 154. Ultimo punto dell'esposizione di Balbo: tutto il creato è stato prodotto per l'uomo, che abita in esso insieme con gli dèi; 155. I moti delle stelle sono, per l'uomo, uno spettacolo meraviglioso; 156. L'uomo ha in dono la terra con le piante e gli animali, dunque deve prendersene cura; 157. Tutto è ad uso dell'uomo; 158. An­ che gli animali, che si rivelano utili per molteplici attivi­ tà: pecore, cani; 159. Buoi, muli e asini; 160. Maiali, pesci; 161. Bestie feroci; inoltre la terra e i mari; 162. Utilità del­ le cave e delle miniere; l'arte divinatoria è a disposizione dell'uomo; 163. Utilità dell'arte divinatoria; 164. Gli dèi si prendono cura degli uomini; 165. Gli dèi amano tutta la terra e i singoli individui (esempi di grandi uomini vir­ tuosi Romani e Greci); 166. Solo in questo modo si com­ prende come certi eroi o personaggi storici, omerici e ef­ fettivi, siano stati aiutati in situazioni complicate; 167. L'azione della provvidenza si manifesta per lo più in uo­ mini di valore; 168. Balbo chiude l'esposizione invitando Cotta a parlare.

Libro Terzo l. Cotta decide di rispondere con una serie di obiezioni

a Balbo; 2. Velleio è felice di ascoltare Cotta contro gli Stoici; 3. Maggiore difficoltà di confutare la dottrina stoi­ ca rispetto a quella epicurea; 4. Cotta chiede dei chiari­ menti a Balbo, il quale di buon grado accetta di rispon­ dere; 5. Cotta, in qualità di pontefice, sottolinea di non mettere in discussione il valore della divinatio e delle pratiche religiose che hanno portato Roma allo splendo-

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re; 6. Tuttavia, in quanto filosofo, vuole delle spiegazioni razionali; 7. Prima questione: l'esistenza degli dèi; 8. Se è un'intuizione, è inutile soffermarsi su di esso a lungo: Balbo sostiene di aver ritenuto necessario l'ausilio di più argomentazioni; 9. Dubbi di Cotta; 10. Prima obiezione: il concetto di esistenza degli dèi si può ricavare dall'os­ servazione del cielo; 11. Confutazione da parte di Cotta di racconti fantasiosi che attesterebbero la presenza de­ gli dèi nelle vicende umane; 12. Tali narrazioni sono cre­ denze da vecchiette; 13. Balbo ricorda, di contro, templi e tradizioni che avvalorerebbero quei racconti; 14. Cotta vuole spiegazioni razionali e muove dei dubbi anche nei riguardi della divinazione; 15. Confronto tra la medici­ na e la divinazione; 16. Critica dell'opinione di Cleante a proposito della paura degli dèi derivante dai fenomeni atmosferici; 17-18. Cotta rimanda ad un altro momen­ to nuove obiezioni contro Balbo e contro la filosofia di Crisippo e Zenone; 19. Cotta chiede ulteriori spiegazio­ ni razionali; Balbo ribatte invitandolo ad argomentare in modo organico senza interruzioni; 20. Il concetto di mondo come dio; 21. Dubbi sulla sapienza del mondo; 22. Critica del sillogismo di Zenone sulla saggezza del mondo; 23. Se fosse così, il mondo sarebbe in grado di leggere e comprendere le arti; e se non è il mondo, non lo sono nemmeno gli astri; 24. La regolarità delle orbite non è una prova; vengono esposti altri esempi analoghi (mare, febbri); 25. Critica del pensiero di Crisippo secon­ do cui deve esistere qualcosa di superiore all'uomo; 26. Ciò che è superiore all'uomo non è necessariamente dio; 27. Tutto ciò che ci circonda e ci appartiene è dono della natura, non di dio; 28. L'armonia della natura esiste per natura; 29. Non esiste alcun corpo immortale; 30. Tutti i corpi sono perituri; 31. Tutti gli elementi mutano, quindi sono destinati a venir meno; 32. Ogni essere ha un suo inizio e prova dolore, dunque è mortale; 33. Ogni essere

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deve necessariamente perire poiché possiede sensibilità e avversione verso ciò che è contro natura; 34. Certune sensazioni, se eccessive, possono uccidere; 35. Critica del fuoco come forza di vita; 36. Critica del fuoco come ani­ ma del mondo; 37. Il fuoco è mortale poiché va sempre alimentato; 38. Critica del dio virtuoso; 39. Critica delle pratiche divinatorie popolari; 40. Critica della pluralità di dèi adottata dagli Stoici (divinizzazione del sole e del­ le costellazioni); 41. Gli Stoici divinizzano erroneamen­ te anche alcuni alimenti, come il pane o il vino (Cerere e Libero), e certi eroi (Ercole); 42. Di Ercole è possibile riconoscere sei identità; 43. Se è dio Ercole, allora biso­ gnerebbe considerare tali anche le Ninfe, i Satiri, i Pan, Orco, i fiumi dell'aldilà, Caronte e Cerbero; 44. Se Orco, Giove e Nettuno sono dèi, allora dovrebbero esserli an­ che Saturno, Cielo, Etere, Giorno; 45. In questo ordine di idee, bisognerebbe inserire nel novero delle divinità anche i semidei; 46. Lo stesso vale per Ecate, le Eumenidi e le Furie; 47. La lista prosegue con divinità come Na­ scita, Onore, Fede, Mente, Concordia, Speranza, Mone­ ta, e come Serapide ed Iside; 48. Riferimenti a Ino, Circe, Pasifae, Eeta, Medea, Absirtio; 49. Vengono citati poi gli indovini Anfiarao e Trofonio, gli eroi Eretteo e Codro; 50. Ed infine eroi locali minori, come le figlie di Leo ad Atene ed Alabando alla città di Alabanda; 51. Sono dèi, quindi, anche gli astri, il Sole, la Luna, i pianeti, le stelle fisse e i fenomeni atmosferici; 52. Ed anche la Terra, il mare, i fiumi, etc.; si tratta, però, di superstizioni inuti­ li; 53. Varietà delle identità degli dèi: tre per Giove, tre per i Dioscuri; 54. Tre per le Muse; cinque per il Sole; 55. Quattro per Vulcano; 56. Cinque per Mercurio; 57. Tre per Esculapio; quattro per Apollo; 58. Tre per Dina; quat­ tro per Dioniso; 59. Quattro per Venere; cinque per Mi­ nerva; 60. Tre per Cupido; Cotta sottolinea che gli Stoici perdono del tempo a cercare di spiegare allegoricamente

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tutti questi miti; 61. Si tratta, in generale, di aspirazioni o valori tipici dell'animo umano; 62. Vuotezza nei tenta­ tivi di spiegazione allegorica dei miti e delle etimologie; 63. Zenone, Cleante e Crisippo si affannano inutilmente in ricerche immaginarie; 64. Sugli dèi bisogna dire cose serie e veritiere, non raccontare favole; 65. (Lacuna nel testo, in cui si doveva parlare del problema della materia preesistente, non prodotta da dio e con una sua forza); in natura si trovano anche forze ostili; 66. La ragione non opera sempre a vantaggio dell'uomo (caso di Medea); 67. Racconto delle follie di Medea; 68. Relazione tra ragione e follia in Medea, Atreo e Tieste; 69. La ragione si rivolta contro l'uomo anche nella vita quotidiana, non solo nei miti; 70. Questo accade non soltanto in chi la usa male, ma anche in chi volendo fare del bene ha compiuto azio­ ni malvagie (esempio di Deianira); 71. La ragione è alla base di tanti vizi (esempi di Medea e Atreo); 72 . Citazioni di casi tratti dalla commedia; 73. Altri esempi ricavati dalla produzione comica; 74. Esempi tratti dalla quoti­ dianità dei processi giudiziari; 75. Forse sarebbe stato meglio che gli dèi non avessero dato la ragione agli uo­ mini; 76. La colpa della malvagità degli uomini è, quindi, degli dèi; 77. Anche i filosofi, visto che non potrebbero essere compresi, dovrebbero tacere; 78. Di nuovo, gli dèi non avrebbero dovuto dare la ragione agli uomini; 79. Spesso ai buoni va male e ai cattivi va bene; 80. Esempi storici di uomini virtuosi che finirono male; 81. Esempi storici di uomini malvagi cui invece la sorte riserbò una buona fine; 82. Altri esempi simili a quelli presentati nei due capitoli precedenti; 83. Vanto dei malvagi per le loro azioni (esempio del tiranno Dionisio); 84. Ancora su Dio­ nisio, rimasto impunito dagli dèi e morto felice; 85. In questi termini l'uomo dovrebbe essere tentato ad agire male, ma c'è la coscienza che lo impedisce; 86. Gli uo­ mini chiedono agli dèi beni materiali, non la virtù; 87.

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La virtù, secondo gli uomini, deriva da loro stessi; 88. Nessuno ringrazia gli dèi per la sapienza; 89. Gli dèi non fanno distinzione tra buoni e malvagi nel donare le sor­ ti; 90. Non si deve giustificarli dicendo che non possono stare dietro a qualsiasi questione; 91. I poeti e gli Stoici attribuiscono agli dèi azioni che dipendono dagli uomi­ ni; 92. Il dio appare impassibile di fronte alla caduta ro­ vina di città che un tempo godevano di splendore: o non vuole o non può; 93. Gli uomini quindi non si curano dei singoli individui; fine del discorso di Cotta; 94. Conclu­ sione: Balbo giudica Cotta troppo radicale e violento nel­ le critiche; Cicerone si immedesima più facilmente nello stesso Balbo.

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Testo*

· La traduzione italiana è stata condotta sul testo stabilito da A.S. Pease (Cambridge, Mass. 1 955-1 958).

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l. (l) Poiché nel campo della filosofia molte cose non sono ancora state illustrate in maniera esauriente, assai diffici­ le e oscura - e tu, Bruto\ lo sai bene - è la questione rela­ tiva alla natura degli dèF, che è massimamente rilevante per la conoscenza del proprio spirito3 ed è necessaria per poter regolare il culto religioso4• Dal momento che in me­ rito ad essa sono state formulate tanto varie quanto di­ screpanti opinioni dagli uomini più dotti, questo motivo dovrebbe rappresentare una grande prova del fatto che il principio della filosofia è da rintracciarsi nell'ignoranza5, e che quindi sono prudenti gli Accademici a sospendere l'assenso6 quando si tratta di cose incerte. E infatti, cosa c'è di più turpe della sconsideratezza, o tanto avventato ed indegno per la fermezza e la costanza del sapiente che avere una falsa opinione, o sostenere senza alcun dubbio a riguardo, una qualche percezione o idea che non sia sta­ ta sufficientemente indagata? (2) Per fare un esempio, in merito a tale questione, molti uomini - visto che si tratta dell'opinione più vicina al vero, cui tutti noi giungiamo grazie alla natura che ci guida7 - affermarono l'esistenza degli dèi; Protagora8 disse di avere dei dubbi a riguar­ do; Diagora di Milo9 e Teodoro di Cirene10 la negarono

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totalmente. Quanti sostennero che gli dèi esistono si tro­ vano in tale varietà e dissenso di pareri che sarebbe in­ finito un elenco delle loro opinioni. Infatti, per quel che concerne l'aspetto degli dèi, i luoghi e le sedi in cui vivo­ no, e lo stile di vita che conducono, molte teorie vengono avanzate, e su ciò si discute con la massima discordia tra i filosofi; in realtà però ciò che solleva massimamente la questione è se essi non facciano nulla, non architettino nulla, si tengano lontani da qualsiasi cura e governo del­ le cose, o se, al contrario, tutto quello che ci circonda sia stato creato e regolato sin dal principio da essi � sempre da essi sia guidato e mosso per tutta l'eternità. E su que­ sto, soprattutto, che vi è grande dissenso, e se non ne si fa discernimento, è inevitabile che gli uomini si trovino in una situazione di estremo errore e nell'ignoranza degli argomenti più importanti. 2. (3) Vi sono e vi furono, infatti, dei filosofi11 secondo i quali gli dèi non hanno alcuna preoccupazione delle cose umane. Se la loro opinione è vera, quale devozio­ ne12, quale sentimento religioso13, quale religione14 può esistere? Ed infatti, tutti questi tributi devono essere resi alla volontà degli dèi con purezza e castità, solo se essi sono considerati dagli dèi e se vi è qualcosa attribuito dagli dèi immortali alla stirpe umana. Se invece gli dèi non possono e non vogliono aiutarci, né si curano affat­ to di noi, né comprendono ciò che facciamo, e non c'è nulla che possa insinuarsi nella vita umana a partire da essi, perché dovremmo venerarli, onorarli e rivolgere loro preghiere15? Come accade anche per le altre virtù, la devozione non può acquisire validità sotto forma di una simulazione fittizia; e insieme con essa inevitabilmente si vanno ad annullare il culto e la religione, dalla can­ cellazione delle quali conseguono uno sconvolgimento della vita e grande confusione16• (4) E non so se, una volta sottratta la devozione nei confronti degli dèi, non si va-

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dano a eliminare anche la lealtà17 e il legame sociale tra gli uomini e la migliore delle virtù, vale a dire la giusti­ zia18. Vi sono invece altri pensatorP9, e si tratta di grandi ed illustri, che considerano l'universo intero governato e guidato dalla mente e dalla ragione degli dèi, e invero non solo questo, ma anche che gli stessi provvedano e rivolgano le loro cure alla vita degli uominF0; sono dell'i­ dea infatti che le messi e gli altri prodotti della terra, i cambiamenti del tempo, il trascorrere delle stagioni e le variazioni del clima, grazie alle quali tutto ciò che è pro­ dotto dalla terra cresce e matura, siano un dono degli dèi immortali al genere umano, e adducono molti dati (che verranno esposti nei presenti libri), di natura tale per cui sembra quasi che gli dèi immortali siano stati creati ad uso degli uomini. Contro di essi ebbe a discutere molto Carneade2t, così da spingere gli uomini non privi di in­ telligenza al desiderio di investigare la verità. (5) Non v'è nessun argomento, infatti, in merito al quale tanto discordino non solo i profani ma anche i dotti; e le loro opinioni sono tanto varie e così differenti che è senz'altro possibile che nessuna di esse sia vera, ma non è certo possibile che più di una sia vera. 3 .22 E di sicuro, nell'ambito di questa argomentazio­ ne, posso placare benevoli riprensori e confutare quanti mi biasimano perché sono invidiosi, affinché i primi si pentano di aver ripreso gli altri e i secondi gioiscano di aver imparato; bisogna infatti istruire coloro che critica­ no amichevolmente, e invece respingere quelli che si ac­ caniscono in maniera ostile. (6) Mi accorgo che sui miei libri, numerosi e pubblicati in un breve lasso di tempo23, si sono aperte molte discussioni, in parte di quanti si me­ ravigliavano da dove io avessi tratto improvvisamente questo interesse per la filosofia, in parte di chi deside­ rava sapere che cosa ritenessi certo in ogni occasione. E poi mi sono reso conto che a molte persone è sembrato

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sorprendente che quella filosofia che elimina la luce e per così dire diffonde sulle cose una specie di oscurità24, avesse avuto la mia particolare approvazione, e che io avessi intrapreso una inaspettata manovra di difesa di una dottrina abbandonata e ormai da tempo lasciata in disparte. In realtà non abbiamo iniziato ad occuparci di filosofia dal nulla, ma vi abbiamo dedicato fin dalla pri­ ma giovinezza non poco impegno e cura, e ci occupava­ mo massimamente di essa quando non lo sembravamo affatto; e ciò lo dimostrano le orazioni, in cui venivano riproposte teorie di filosofi, e gli stretti rapporti d'ami­ cizia con gli uomini più istruiti, dei quali la nostra casa sempre fu piena, e con quei notabili maestri, Diodotd5, Filone26, Antiocd7 e Posidonio28, da cui fummo istruiti. (7) E se è vero che tutti gli insegnamenti filosofici si rife­ riscono alla vita29, penso di aver rispettato, sia nell'ambito della vita pubblica sia in quello della vita privata, le cose che la ragione e la dottrina filosofica hanno prescritto. 4. Se poi qualcuno chiedesse quale motivo mi abbia spinto a mettere per iscritto così tardi queste riflessioni, non vi è nulla che io possa esporre così facilmente. In­ fatti, quando me ne stavo lontano dagli affari pubblici, e lo Stato si trovava in una condizione tale per cui era necessario che fossero i propositi e le cure di un solo uomo a governarlo, in primo luogo ritenni, proprio negli interessi dello stesso Stato, che la filosofia dovesse essere spiegata ai nostri uomini, credendo che fosse di grande giovamento al decoro e al merito della città30 e che argo­ menti così seri e tanto illustri fossero contemplati anche nelle lettere latine. (8) E tanto meno mi pento dei miei propositi, dal momento che senza fatica mi accorgo di aver spronato gli interessi di molti non soltanto ad impa­ rare ma anche a scrivere. Infatti, molte persone istruite nelle dottrine greche non potevano comunicare ai loro concittadini ciò che avevano appreso, poiché diffidavano

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dal fatto che quanto avevano imparato dai Greci si po­ tesse esprimere in lingua latina. Eppure mi pare che in questo ambito si sia progredito parecchio, tanto da non risultare inferiori agli stessi Greci per quanto riguarda l'abbondanza delle parole31• (9) Anche l'afflizione dell'a­ nima, mossa da una pesante e insopportabile ingiuria della sorte32, mi esortò a rivolgere l'attenzione a tale oc­ cupazione; e se avessi potuto trovare un qualche sollievo maggiore, non mi sarei rifugiato in questa soprattutto. E in verità non avrei potuto fruirne in nessun altro modo, se non applicandomi non soltanto nella lettura dei libri ma anche nell'indagine diretta della filosofia in tutta la sua interezza. Del resto, tutte le sue parti e suddivisioni si possono conoscere con grandissima facilità quando per iscritto si spiegano le questioni intere33; vi è infatti una sorprendente continuità e concatenazione di concet­ ti, tanto che l'uno risulta essere in stretto legame con l'altro e tutti interconnessi e collegati tra di loro. 5. (10) Per quanto riguarda invece coloro che esigono sapere cosa io pensi su ciascun argomento, si rendono più indiscreti del dovuto; infatti, quando si discute, bi­ sogna ricercare non tanto l'autorità rappresentata da chi scrive quanto l'efficacia dell'argomentazione. Anzi, nella maggior parte dei casi, ciò che reca danno a coloro che vogliono imparare è l'autorità di chi dichiara di insegna­ re; cessano infatti di adoperare il loro criterio di giudizio, e ritengono definitivo quello che vedono riconosciuto da colui che approvano. E a dir la verità, io non sono solito accettare il metodo che ricaviamo dai Pitagorici, i quali così ci viene tramandato -, se nel corso di una discussione affermavano qualcosa, quando veniva chiesto loro il mo­ tivo per cui fosse così, erano soliti rispondere: «L'ha det­ to lui»34; e quel «lui» era Pitagora. L'opinione preconcetta aveva così tanto potere, che l'autorità aveva valore anche senza una spiegazione ragionevole. (11) Passando poi a

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quanti sono meravigliati della mia adesione pressoché to­ tale a questa dottrina, mi sembra di aver già risposto loro a sufficienza nei quattro libri Accademici35• Ad essere preci­ si, non ho preso le difese di argomentazioni abbandonate e trascurate; con la morte degli uomini infati non perisco­ no anche le dottrine, anche se forse sentono la mancanza della luce di un'autorità. Ad esempio, in ambito filosofico questo metodo, che è basato sul mettere in discussione tutte le cose e sul non esprimere apertamente su niente un giudizio36, ebbe la sua origine con Socrate37, fu ripreso da Arcesilao38, venne reso saldo da Carneade39, fino a che mantenne la sua robustezza fino a oggi; adesso compren­ do che esso non ha quasi più seguaci nemmeno all'interno della stessa Grecia. A mio parere ciò non è capitato a causa dell'Accademia, bensì per l'ottusità degli uomini. Se infat­ ti comprendere le singole dottrine è cosa ardua, quanto è più difficile capirle tutte! Ed è necessario che ad assumersi questo incarico non da poco sia chi si propone di pronun­ ciarsi, allo scopo di scoprire la verità, ora contro ora a fa­ vore di tutti i filosofi. (12) Io non voglio dire di aver com­ pletato un compito così vasto e difficile, ma mi vanto di averlo perseguito. Peraltro non si può dire che chi filosofa secondo queste modalità non abbia nulla a cui tendere. In merito a questo punto si è già discusso con scrupolosità in un'altra occasione40, ma, dal momento che certi individui sono oltremodo ignoranti e ottusi, mi sembra opportuno riproporre ancora la questione. Noi non siamo di certo quel genere di uomini che respingono l'esistenza della ve­ rità, ma secondo noi ad ogni verità corrispondono alcuni elementi falsi, di tale somiglianza che in essi non esiste alcun criterio certo che permetta di avanzare un giudizio o un assenso41• Da qui l'idea che molte sono le cose proba­ bili, che, sebbene non possano essere percepite, tuttavia, poiché possiedono una rappresentazione chiara e illustre, regolano la vita del saggio.

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6. (13) Ma adesso, per allontanare da me qualsiasi cri­ tica invidiosa, metterò in chiaro le opinioni dei filosofi riguardo la natura degli dèi. E a questo punto mi pare giusto convocarli tutti, affinché possano giudicare diret­ tamente loro quale tra di esse sia vera; se vi sarà accordo generale o se verrà trovato uno che abbia scoperto la ve­ rità, soltanto allora l'Accademia mi sembrerà insolente42. Pertanto mi piace esclamare come nei Sinefebi: "In nome degli dèi, di tutto il popolo, di tutti i ragazzi, io invoco, chiedo, scongiuro, prego, grido ed imploro testimonian­ za!"43 non per una cosa da poco, come quel tizio che si la­ menta che in città accadono dei delitti capitali: "una pro­ stituta non accetta il denaro dall'amico amante"44, (14) ma affinché siano presenti, conoscano e capiscano cosa si debba pensare a proposito della religione, della devozio­ ne, del culto, delle cerimonie, della fede, del giuramento, dei templi, dei santuari, dei solenni sacrifici, degli stessi auspici, cui noi siamo a capo45 (tutto ciò infatti è da rife­ rire alla presente questione relativa agli dèi immortali): senza dubbio tanto dissenso tra le persone più colte su una problematica così importante obbligherà a far cala­ re il dubbio su quanti pensano di possedere qualcosa di certo. (15) Questo punto lo ho notato spesso in altre occa­ sioni, ma in modo particolare quando si è discusso assai accuratamente e con precisione sugli dèi immortali a casa del mio carissimo amico Gaio Cotta. Infatti quando andai da lui durante le Ferie Latine, sotto sua richiesta ed invi­ to, lo trovai seduto nell'esedra46 a discutere con il senato­ re Gaio Velleio, che allora gli Epicurei ritenevano il loro rappresentante principale tra i cittadini romani. Era lì an­ che Quinto Lucilio Balbo, che tanto aveva approfondito lo studio della filosofia stoica da poter essere paragonato ai Greci più importanti esperti in materia. Non appena Cotta mi vide, disse: «Arrivi proprio al momento giu­ sto; sta nascendo infatti tra me e Velleio una discussione

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su un argomento veramente importante, al quale tu, vi­ sti i tuoi interessi filosofici, non è inopportuno che par­ tecipi47». 7. (16) «Ebbene, anche a me sembra - dissi - di essere arrivato, come tu dici, al momento opportuno, dato che voi tre, esperti delle tre dottrine filosofiche, siete qui riu­ niti. Se vi fosse anche Marco Pisone48, non mancherebbe nessuna filosofia, o almeno di quelle che vengono tenute in considerazione». Allora Cotta disse: «Se il libro del no­ stro Antioco, che da lui in persona è stato mandato non tanto tempo fa a Balbo qui presente, dice la verità, non vi è nulla che ti possa far desiderare la presenza del tuo caro amico Pisone. Secondo l'opinione di Antioco infatti gli stoici sembrano condividere le medesime opinioni dei peripatetici, servendosi però di un lessico differente49. In merito a questo libro, Balbo, vorrei sapere la tua opinio­ ne». «La mia opinione? - disse - mi sorprende che An­ tioco, uomo di acutissima intelligenza, non si sia accorto della grande differenza50 tra gli stoici, i quali distinguono ciò che è buono da ciò che è utile non sulla base del nome ma del genere, e i peripatetici, che invece confondono il bene con l'utile, così che li differenziano per grandezza e, per così dire, per grado, ma non per genere. Questa non è una spicciola divergenza terminologica, bensì un'enor­ me differenza concettuale. (17) Di questo però parleremo altrove; per adesso, se permetti, riprendiamo da dove avevamo iniziato». «Mi pare sia proprio la cosa giusta - disse Cotta - ma affinché l'ultimo arrivato - guarda verso di me - non ignori ciò di cui si sta discorrendo ... si parlava della natura degli dèi; una questione non poco oscura, mi pare, come sempre, e così domandavo a Vel­ leio cosa pensasse Epicuro in proposito. Perciò, Velleio, se non ti dispiace, riprendi da dove avevi iniziato». «Lo ripeterò senz'altro, anche se costui viene in aiuto a te e non a me; entrambi infatti - disse sorridendo - avete im-

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parato da Filone a non sapere nulla». Allora io: «Quello che abbiamo imparato sarà affare di Cotta; io non voglio che tu pensi che io sia giunto qui per appoggiare la sua opinione, ma come ascoltatore equo, non un giudice per partito preso, né costretto da alcuna necessità a sostene­ re, volente o nolente, una determinata posizione». 8.51 (18) Allora Velleio con grande sicurezza, come co­ storo sono soliti fare, di nulla tanto timoroso quanto di apparire in dubbio su qualcosa, come se fosse da poco disceso dal concilio degli dèi o dagli intermondi52 di Epi­ curo, disse: «Non ascoltate teorie stupide e immaginarie, non il dio di cui Platone parla nel Timeo, artefice e cre­ atore del mondo53, non la vecchia profetica, la Pronoea degli stoici54 (che in latino possiamo rendere con il ter­ mine provvidenza), e nemmeno il mondo stesso, dotato di anima e sensi55, sferico, ardente, divinità che ruota, mostruosità e prodigi non di uomini che filosofano, ma che sognano. (19) Con quali occhi della mente il vostro Platone poté comprendere quel grande processo crea­ tivo per cui il mondo venne costruito ed edificato dal dio? Quale costruzione, quali strumenti, quali leve, quali macchine, quali operai vennero impiegati per un lavo­ ro tanto grande? In che modo l'aria, il fuoco, l'acqua, la terra poterono obbedire e sottostare alla volontà dell'ar­ chitetto? E da dove scaturirono quelle cinque figure56 dalle quali provengono le altre, conformemente adatte a lasciare il segno nell'anima e a produrre le sensazioni? Sarebbe lungo dare una spiegazione a tutte queste teorie, tali da sembrare fantasie piuttosto che teorie scientifiche. (20) Ma l'enunciato che merita la palma della vittoria è che colui che ha asserito che il mondo non solo ha avuto un'origine ma è stato anzi in un certo senso plasmato con le mani57, sostenne che sarebbe stato sempiterno. E tu pensi che si sia, come si dice in giro, appena bagnato le labbra di fisiologia (vale a dire la scienza della natura)58,

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un uomo secondo cui ciò che ha un inizio possa essere eterno59? Quale composto, infatti, non è dissolubile? Op­ pure, esiste qualcosa di cui si abbia un principio e non una fine? Lucilio, se la vostra Pronoea ha le medesime caratteristiche, ripeto le domande di poco fa in merito agli esecutori, ai macchinari, a tutto l'ordinamento e all'organizzazione di cotanta opera; se invece è differen­ te, chiedo perché avrebbe fatto un mondo mortale e non eterno, proprio come vuole il dio di Platone. 9. (21) Ma io chiedo a entrambi perché gli edificatori del mondo siano comparsi improvvisamente, dopo aver dormito per innumerevoli secoli60• Non è vero infatti che se non vi era alcun mondo, non vi erano i secoli. E per secoli non intendo quelli che si esauriscono con il numero dei giorni e delle notti e con il corso degli anni (confesso infatti che senza la rotazione dell'universo essi non avrebbero potuto esistere); bensì esistette da tempo infinito una eternità, che non era delimitata da nessu­ na determinazione temporale. Tuttavia è possibile com­ prenderne la natura sotto l'aspetto dell'estensione nello spazio, dal momento che non si può davvero pensare che ci sia stato un qualche tempo senza che esistesse alcun tempo. (22) Ti chiedo dunque, o Balbo, il motivo per cui in uno spazio così esteso la vostra Pronoea se ne rimase ferma. Scappava forse dalla fatica? Ma questa non si confà al dio né esisteva, dato che tutti gli elementi naturali, cielo, fuochi, terre, mari, erano sottoposti al vo­ lere della divinità. Ed inoltre, che ragione c'era che il dio desiderasse di ornare il mondo di costellazioni e luci alla maniera di un edìle61? Se lo fece per abitarvi meglio, è evidente che prima, per un tempo infinito, aveva vissuto nelle tenebre come in una baracca. Ed ancora: crediamo che si diletti nella varietà di cui il cielo e la terra vediamo essere ornate? Quale godimento può essere questo per un dio? Se così fosse, non avrebbe potuto esserne privo

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per così tanto tempo. (23) Forse che queste cose, come in genere sostenete, furono create dal dio per gli uomini? Per i sapienti? Allora è per pochi che fu voluta una così grande costruzione. Per gli stolti? Ma in primo luogo non c'era motivo per cui ci si sarebbe dovuti comportare bene nei confronti dei malvagi; e poi, cosa si avrebbe ottenuto, dal momento che gli stolti sono senza ombra di dubbio i più miseri tra gli uomini? Proprio perché sono stolti (che cosa possiamo trovare infatti di più misero della stoltez­ za?) e poi perché nella vita le sfortune sono così tante che i saggi le addolciscono compensandole con le comodità, mentre gli stolti non possono né evitarle quando soprag­ giungono né sopportarle quando sono presenti62. 10. Poi, chi ha sostenuto che il mondo stesso fosse ani­ mato e intelligente, non si è proprio reso conto in qua­ le figura potesse rientrare la natura di un animo dotato di intelligenza. In merito a questo senz'altro parlerò un poco più avanti. (24) Per adesso questo soltanto: mi me­ raviglierò della lentezza intellettiva di chi vuole che un essere animato, immortale e per di più felice sia sferico, poiché Platone nega vi sia una forma più bella di que­ sta63. Ma a me64 pare più bella quella del cilindro65 o del quadrato66 o del cono67 o della piramide68. E poi, che ge­ nere di vita si vuole attribuire a codesto dio sferico? Sì certo, ruota su se stesso ad una tale velocità che non si riesce nemmeno a immaginarne una uguale; in una tale situazione non vedo dove possano trovare spazio una mente equilibrata e una vita felice. E ciò che nel nostro corpo risulta spiacevole anche se compare in minima parte, perché non dovrebbe ritenersi sgradevole anche nel dio? Senza dubbio infatti la terra, visto che è parte del mondo, è anche parte del dio; eppure vediamo enor­ mi regioni della terra inabitabili e desolate poiché una parte di esse è bruciata per la vicinanza del sole, mentre un'altra è intirizzita per la neve e per il freddo a causa

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della lontananza del sole69• Se il mondo è dio, visto che queste sono parti del mondo, le membra del dio sono da considerare in parte incandescenti e in parte congelate. (25) Ecco la vostra teoria, Lucilio: quanto alle altre, le pre­ senterò a partire dal più antico predecessore70• Talete di Mileto71, che fu il primo a porsi il quesito su problemi di questo tipo, disse che l'acqua è il principio delle cose, ma che dio fu la mente che dall'acqua plasmò tutte le cose (se gli dèi possono esistere privi di sensazioni). E per­ ché aggiunse una mente all'acqua, se la stessa mente può sussistere senza il corpo? Secondo l'opinione di Anas­ simandro72 invece gli dèi nascono e muoiono a lunghi intervalli di tempo e costituiscono innumerevoli mondi. (26) Ma noi come possiamo comprendere il dio se non come eterno? In seguito Anassimene73 considerò l'aria dio generato, immenso, infinito e sempre in movimento; come se l'aria priva di una forma possa essere dio - tanto più se consideriamo che a dio non si addice soltanto un aspetto, bensì il più bello di tutti - o come se la caducità non raggiunga tutto ciò che ha avuto una nascita. 11. Poi Anassagora74, che recepì la dottrina di Anassi­ mene, fu il primo a volere che la distribuzione e la regola di tutte le cose fossero ordinate e realizzate dalla forza e dalla ragione di una mente eterna. Affermando ciò non si rese conto che non può esservi alcun moto congiunto ad una sensazione e infinitamente ininterrotto, e neppu­ re in generale una sensazione per chi non senta la stessa natura in movimento. Poi, se volle intendere che questa mente è da considerare alla stregua di un essere anima­ to, ci sarà un principio maggiormente profondo dal qua­ le quell'essere animato prenda il suo nome: e che cosa c'è di più interno se non la mente? Sia cinta, dunque, da un corpo esterno; (27) ma dal momento che questo non è am­ missibile, una mente libera e semplice, legata a nulla che abbia la possibilità percepire, sembra sfuggire la capacità

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di comprensione della nostra intelligenza. Alcmeone di Crotone75 invece, secondo cui il sole, la luna e le altre stel­ le ed in più l'anima possiedono una natura divina, non si accorse che attribuiva l'immortalità a realtà mortali. Pita­ gora76, che propose per tutta la natura l'esistenza di un'a­ nima estesa e diffusa, da cui dipenderebbero le nostre, non si accorse che attraverso la separazione delle anime umane dio viene smembrato e lacerato e che, quando gli animi sono infelici (cosa che accade alla maggior parte degli uomini), allora provoca infelicità a una parte di dio: questo non può accadere. (28) E poi l'anima dell'uo­ mo, se fosse dio, come potrebbe ignorare qualcosa? Ed in che modo ancora codesto dio, se non fosse nient'altro se non l'anima, potrebbe essere compenetrato e diffuso nel mondo? Inoltre Senofane77, che aggiunse una mente all'universo e considerò che fosse dio perché è infinito, per quanto riguarda la mente stessa verrà ripreso come gli altri, mentre in merito al concetto di infinito necessi­ terà di una critica ancora più severa, dato che in esso non può esserci nulla che sia dotato di qualche sensazione né la facoltà di stargli congiunto. Pure Parmenide78 si fa portavoce di una dottrina immaginaria: crea un cerchio continuo di fiamme [e luce], simile ad una corona (in gre­ co la chiama stephàne), che cinge il cielo e che chiama dio: in esso nessuno può immaginare la presenza di una fi­ gura divina e della sensazione. E gli appartengono tante mostruose caratteristiche: ad esso rimandano infatti la guerra, la discordia, la cupidigia e altre dello stesso ge­ nere che possono essere annientate dalla malattia o dal sonno o dall'oblio o dalla vecchiezza; e analogamente si pronuncia sulle stelle, che in questo caso tralasceremo, perché criticate già per un altro filosofo79• 12. (29) Quanto ad Empedocle80, invece, oltre ad er­ rare in molti altri punti, sbaglia gravissimamente sulla dottrina degli dèi. Egli vuole infatti che vi siano quattro

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nature divine, dalle quali secondo lui proviene l'inte­ ro universo; ma è evidente che esse nascono, muoiono e mancano di qualsiasi sensazione. Né Protagora8\ che sostiene di non avere per niente chiara un'idea in merito agli dèi, vale a dire se ci siano, non ci siano o come siano, sembra avere qualche teoria riguardo la natura divina. E perché, Democrito82, che riconduce nel novero delle divi­ nità ora le loro immagini e i loro movimenti, ora quella sostanza che produce ed emette le stesse immagini, ora il nostro pensiero e la nostra intelligenza, non cade for­ se in un gravissimo errore? Negando poi del tutto l'esi­ stenza di qualcosa di eterno poiché nulla rimane sempre nel proprio stato, non è forse vero che elimina la divi­ nità in modo tale da non lasciare nessun'altra opinione in proposito? E vogliamo parlare della dottrina dell'aria di Diogene di Apollonia83, che la considera alla stregua di un dio? Quale sensazione o quale forma di divinità può avere? (30) A proposito dell'incoerenza di Platone ci sarebbe troppo da dire; egli che nel Timeo84 sostiene che non si può dare un nome al padre di questo mondo, mentre nelle Leggi85 che non bisogna nemmeno chiedersi che cosa sia la divinità. E invero non è possibile com­ prendere quale possa essere quell'ente del tutto privo di corpo che identifica con dio (in greco lo chiamano asòm­ aton)86; è necessario infatti che sia privo di sensazione, di saggezza, di piacere; tutte caratteristiche che noi com­ prendiamo insieme nel concetto di divinità. Tanto nel Timeo87 quanto nelle Leggi88 egli sostiene che sono dèi il mondo, il cielo, le stelle, la terra, le anime e quelle entità divine che abbiamo ereditato dalle tradizioni degli an­ tenati. Tutte queste opinioni sono chiaramente false di per se stesse e si trovano tra loro in forte contrasto. (31) E anche Senofonte89, se pur con minor quantità di parole, sbaglia più o meno negli stessi punti; infatti, quando ci riferisce le parole dette da Socrate, fa in modo che questi

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sostenga che non occorre ricercare la forma di dio, dica che il sole e l'anima sono delle divinità, e ammetta ora l'esistenza di un unico dio, ora invece di tanti dèi; tutte queste asserzioni ricadono nei medesimi errori di cui ab­ biamo già parlato a proposito a Platone. 13. (32) Anche Antistene90, nel libro intitolato Fisica na­ turale, quando dice che secondo le credenze del popolo vi sono molti dèi ma uno solo in natura, va a sopprimere quella che è la vera essenza e la natura degli dèi. Non troppo diversamente Speusippo9I, ricalcando le orme di suo zio Platone, quando sostiene che vi è una forza animata che regola tutte le cose, cerca .di sradicare dalle anime la nozione di dio. 33. Aristotele, nel terzo libro del Sulla filosofia92, confonde molti concetti, andando così a contrastare con Platone, suo maestro; ora infatti attribu­ isce alla mente la natura divina intera, ora dice che è lo stesso mondo a essere dio, ora pone a capo di esso qual­ cun altro, assegnandogli la funzione di regolare e man­ tenere il moto del mondo mediante un moto rotatorio inverso93, ora dice che l'etere è dio, non facendo caso al fatto che lo stesso cielo è parte integrante del mondo, che in un altro luogo della sua opera aveva appunto definito come dio. E poi com'è possibile che quella coscienza di­ vina del cielo riesca a mantenersi in un movimento così veloce? Dove sono tutti quei numerosi dèi, se dobbiamo considerare come tale anche il cielo? Ma dal momento che vuole un dio senza corpo, lo priva di qualsiasi sensa­ zione, persino della saggezza. Come fa un mondo senza corpo a muoversi? E uno che invece si muove sempre, come fa ad essere tranquillo e calmo? (34) Nemmeno il suo condiscepolo Senocrate94, che in discussioni di que­ sto genere risulta più pratico, si mette a discutere della figura divina nei suoi libri Sulla natura degli dèi. Questi afferma l'esistenza di otto dèi, di cui cinque rientrano tra le stelle erranti, uno, che scaturito da tutte le stelle fisse

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in cielo come da elementi separati, deve essere conside­ rato ua dio semplice, il settimo che sarebbe il sole, l'otta­ vo la luna: in che modo possano essere felici, non è dato saperlo. Dalla stessa scuola di Platone, Eraclide Pontico95 rimpinzò libri di storielle per bambini: egli ritiene che dio siano il mondo e la mente, attribuisce alle stelle er­ ranti un'essenza divina, priva il dio di sensazione e lo rende mutevole nella forma, e nel medesimo libro ricon­ duce nuovamente nella schiera delle divinità la terra e il cielo. (35) Né deve essere tenuta in considerazione l'in­ coerenza di Teofrasto96, che attribuisce una superiorità divina ora alla mente, ora al cielo, ora alle costellazioni e alle stelle celesti. Né bisogna farsi influenzare da quanto sostenuto dal suo allievo Stratone97, detto il fisico, secon­ do il quale ogni forza divina è situata nella natura, che sì ha le cause di far nascere, crescere e declinare, ma è priva di qualsiasi sensazione e figura. 14. (36) Passando a questo punto ai vostri uomini, caro Balbo, Zenone98 considera divina la legge che regola la natura, che secondo lui possiederebbe la forza di pre­ scrivere ciò che è retto e proibire quello che non lo è. In che modo possa renderla animata non ci è dato saperlo; noi crediamo senza dubbio in un dio provvisto di vita. In altri scritti costui dice che dio è l'etere, posto il caso che si possa comprendere un dio che non ha sensazione, che non si presenta mai nelle nostre preghiere, né nei nostri desideri, né nei nostri voti. In altri libri ancora è dell'opi­ nione che una sorta di ragione, costante in tutte le cose, sia fornita di una forza divina. Egli attribuisce questa stessa caratteristica alle stelle, poi agli anni, ai mesi, alle stagioni. Inoltre, quando commenta la Teogonia di Esio­ do99, cioè l'origine degli dèi, elimina alla radice le nozio­ ni relative agli dèi usuali e comunemente accolte: difatti non annovera tra gli dèi né Giove né Giunone né Vesta né qualsiasi altra divinità con un nome del genere, ma

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mostra che questi nomi vennero attribuiti a entità ina­ nimate e mute mediante una specie di interpretazione allegorica. (37) In un errore non minore incappa la teoria del suo discepolo Aristone100, che sostiene sia impossibi­ le comprendere la forma divina, nega la presenza di sen­ sibilità negli dèi e, in generale, dubita sulla presenza o meno dell'anima nella divinità. Cleante101, che assistette alle lezioni di Zenone insieme con quello di cui abbiamo parlato poc'anzi, ora chiama il mondo dio, ora dà questo nome alla mente e all'anima della natura intera, ora con­ sidera senza dubbio che la divinità sia l'ardore chiamato etere, supremo, altissimo, diffuso ovunque, che cinge e abbraccia tutte le cose. E sempre il solito, quasi fosse fuo­ ri di testa, nei suoi scritti Contro il piacere1 02, prima attri­ buisce agli dèi una determinata figura e un determinato aspetto, poi conferisce tutta l'essenza divina alle stelle, e infine pensa che non vi sia nulla più divino della ragio­ ne. In questa maniera accade che il dio che conosciamo con la mente e vogliamo riporre in un preconcetto, come in un'impronta, non si mostri mai da nessuna parte. 15. (38) Perseo103, allievo di Zenone, sostiene che ven­ nero considerati dèi coloro che scoprirono qualcosa di grande utilità per il modo di vivere, e che proprio ai van­ taggi e alle utilità fu dato il nome di dèi, di modo che non sono scoperte degli dèi, bensì gli dèi stessi. E che c'è di più assurdo se non attribuire onori divini a cose di bassa condizione e turpi o elevare al pari degli dèi uomini già annientati dalla morte, il cui culto consisterebbe nel lutto soltanto? (39) Si aggiunga anche Crisippo104, considerato il più furbo interprete dei sogni degli Stoici: raduna in un sol punto una grande moltitudine di divinità ignote, così ignote che non è possibile farsene un'idea nemme­ no per congettura, benché la nostra mente, attraverso il pensiero, sembri essere in grado di formulare qualsiasi concetto. Egli sostiene che la forza divina è situata nella

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ragione, nell'anima e nella mente dell'intera natura, e che dio è il mondo e l'effusione universale della sua anima, sia l'elemento principale del mondo, che dimora nella mente e nella ragione, e la natura universale comune a tutte le cose e che abbraccia tutto, sia l'ombra fatale e la necessità di ciò che avverrà in futuro; inoltre il fuoco e quello che prima ho chiamato etere, e poi tutto ciò che in natura è fluido e scorre, come l'acqua, la terra, l'aria, il sole, la luna, le stelle, e l'universo che abbraccia tutto, e anche gli uomini che hanno raggiunto l'eternità. (40) Costui sostiene che l'etere sia quello che gli uomini chia­ mano Giove105, e l'aria che si diffonde per i mari sia Net­ tuno106, e la terra quella che è detta Cerere107; e seguendo un criterio analogo passa in rassegna le denominazioni delle altre divinità. Aggiunge poi che la forza della legge perpetua ed eterna, che per così dire è la guida della vita e la maestra dei doveri, sia Giove, chiamandola destino del fato, verità immortale degli eventi futuri; niente di tutto questo è tale da sembrar contenere in esso la poten­ za divina. (41) Questi sono gli argomenti trattati nel pri­ mo libro Sulla natura degli dèi; nel secondo vuole invece conciliare i miti di Orfeo, Museo, Esiodo e Omero108 con quello che ha sostenuto nel primo libro sugli dèi immor­ tali, con lo scopo di far apparire stoici anche i più antichi poeti, che nemmeno si sono interrogati su cose di questo genere. Seguendo le sue parole, Diogene di Babilonia109, all'interno di quell'opera intitolata Su Minerva, si separa dal mito traducendo il parto di Giove e la nascita della fanciulla sul piano della fisiologia. 16. (42) Ho esposto pressapoco non giudizi di filosofi, ma sogni di gente che delira. Infatti non sono di tanto più assurde le parole proferite dai poeti110, nocive per la loro dolcezza; essi rappresentarono gli dèi infiammati d'ira e furenti di passione e ci mostrarono le loro guerre, i combattimenti, le battaglie, le ferite, e poi gli odi, i litigi,

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le discordie, le nascite, le morti, i lamenti, i gemiti, le pas­ sioni esternate in ogni sfrenatezza, gli adultèri, i vincoli di prigionia, gli accoppiamenti con la stirpe umana, i fi­ gli mortali nati dagli immortali. 43. Agli errori commessi dai poeti si possono aggiungere le bizzarrìe dei maghim e la follia analoga degli Egiziani112, e inoltre le credenze del popolo, che per l'ignoranza della verità si trova nella massima incoerenza. Chi consideri quanto queste affer­ mazioni siano inconsulte e avventate, dovrebbe venerare Epicuro e inserirlo nel novero degli stessi dèi, intorno ai quali si discute con la presente indagine. Egli solo si ac­ corse in prima istanza che gli dèi esistono poiché fu la natura stessa ad imprimere la loro nozione nell'anima di tutti. E del resto, quale popolo .o quale stirpe di uomini vi è che non abbia, senza alcuna dottrina, una prenozio­ ne degli dèi, quella che Epicuro chiama pr6lepsis113 (cioè un'informazione a priori di una cosa nell'anima), senza la quale niente può essere compreso, indagato e discus­ so? Abbiamo appreso la forza e l'utilità di questa teoria da quel volume, quasi caduto dal cielo, che reca il titolo Sul canone e il giudizio114• 17. (44) Potete accorgervi, quindi, che le basi dell'inda­ gine sono state poste in modo eccellente. E difatti, dato che si tratta di un'opinione non stabilita né da qualche usanza né da una legge, e poiché permare un consenso unanime a partire dal primo di tutti gli uomini, è neces­ sario affermare l'esistenza degli dèi, poiché di essi ab­ biamo una conoscenza insita o meglio innata115; ora, ciò su cui la natura di tutti è concorde, è per necessità vero: quindi bisogna ammettere l'esistenza degli dèi. Poiché ciò è all'incirca comune a tutti, non soltanto ai filosofi ma anche ai profani, noi ammettiamo anche questo altro punto, cioè che noi possediamo o questa conoscenza an­ ticipata (come ho detto in precedenza) o una prenozione degli dèi (bisogna infatti dare nuovi nomi alle cose nuove,

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come lo stesso Epicuro che la denominò pr6lepsis, adot­ tando un vocabolo di cui prima di allora nessuno si era servito). (45) Dunque possediamo questa prenozion�, e abbiamo degli dèi un'immagine beata e immortale. E la natura, infatti, ad averci fornito l'idea degli dèi e a scol­ pirei nella mente la convinzione che essi siano eterni e beati. Se è così, è corretta quella celebre sentenza di Epi­ curo secondo cui ciò che è felice ed eterno non può essere disturbato da un qualche fastidio né imporlo agli altri116, e così gli dèi non possono essere presi né dall'ira né dalla benevolenza, poiché tutto questo è proprio della debo­ lezza. Se non si tendesse ad altro se non che a venerare piamente gli dèi e liberarci della superstizione, sarebbe sufficiente quanto detto finora; infatti la natura superiore degli dèi sarebbe venerata dagli uomini con devozione, in quanto eterna e assai beata (ciò che eccelle infatti ha una debita venerazione)117, ed ogni timore scaturito dalla potenza e dall'ira degli dèi sarebbe allontanato; dunque si comprende che l'ira e la benevolenza non si confanno a una natura beata e immortale. E una volta allontana­ te queste, dal cielo non incombe alcuna paura. Ma per confermare questa opinione l'anima va a cercare qua e là nella divinità una forma, una vita, un'azione, un'attività della mente. 18. (46) Per quanto riguarda la forma118, in parte è la natura ad avvertirci, in parte è la ragione a istruirei. In­ fatti a tutti noi, di ogni stirpe, dalla natura non ci pro­ viene nessun'altra immagine per gli dèi se non quella umana119; e in effetti, quale altra figura si presenta mai ad uno che è sveglio o che dorme? Ma per non fare costan­ temente capo alle nozioni originarie, è la ragione stessa a dichiararlo. (47) Essendo cosa comunemente accolta che la natura migliore, perché o beata o eterna, è la più bella, quale simmetria delle membra, quale armonia dei lineamenti, quale immagine, quale aspetto può essere

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più bello di quello umano? Voi di sicuro, o Lucilio (ed infatti il mio caro Cotta dice ora questa cosa, ora quella), quando raffigurate l'arte e l'opera divina, siete avvezzi a descrivere quanto tutte le qualità umane siano conformi non soltanto all'utilità ma anche alla bellezza. (48) E se la figura umana supera l'aspetto di tutti gli altri esseri viventi, e dio è un essere vivente, tale figura è di certo la più bella di tutte. E dato che di sicuro gli dèi sono gli es­ seri più beati, e nessuno può essere felice senza la virtù, e la virtù non può esserci senza la ragione, e la ragione non può essere da nessuna parte se non nell'umana figu­ ra, bisogna ammettere che gli dèi possiedono un aspetto umano. (49) E tuttavia tale aspetto non è un corpo, ma una specie di corpo120, ed esso non ha il sangue, ma una specie di sangue. 19. Sebbene queste cose siano state concepite troppo acutamente e siano state esposte in maniera eccessiva­ mente sottile da Epicuro affinché tutti potessero ammet­ terle, tuttavia, confidando nel vostro intelletto, faccio un'esposizione più breve di quanto la questione richieda. Ora Epicuro, che non solo ha visto con gli occhi dell'ani­ ma le cose occulte e profondamente misteriose, ma anche le tratta come se le toccasse con mano, insegna che l'es­ senza e la natura divina sono tali che si possono cogliere non con i sensi, bensì con la mente, e non sulla base della solidità121 o del numerd22 (come quei corpi che chiama sterèmnia123 per la loro consistenza materiale), ma che per mezzo delle immagini comprese per analogia e inferen­ za124 (è grazie a una quantità infinita di atomi infatti che nasce una infinita quantità di immagini tra di loro simili e poi fluisce verso gli dèi) la nostra mente, concentrata e attenta in quelle immagini, riesce a cogliere con enorme piacere la vera natura beata ed eterna. (SO) Invero la for­ za dell'infinito è grandissima ed è massimamente degna di un esame lungo e attento. Si deve capire che in essa

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sussiste una natura tale che tutte le cose corrispondono tra di loro; Epicuro chiama questo concetto isonomia 1 25, cioè ripartizione uniforme. Dunque da questo consegue che, se così grande è la quantità dei mortali, non minore deve essere quella degli immortali, e se gli elementi che vanno a distruggersi sono innumerevoli, anche quel­ li che permangono sono infiniti. Voi, Balbo, siete soliti chiederci quale sia la vita degli dèi e che tipo di esistenza essi conducano. (51) Evidentemente è un genere di vita cui non è possibile comparare niente che sia più beato e più abbondante di tutti i beni. Il dio non fa nulla, non è indaffarato in nessuna occupazione, non si affanna in nessuna attività, gode della sua sapienza e della sua vir­ tù, non ha alcun dubbio sul fatto che si troverà sempre in una situazione di massimo ed eterno piacere. 20. (52) Dovremmo opportunamente chiamare que­ sto dio beato, mentre il vostro indaffaratissimo. Infatti se il mondo stesso è dio, cosa può esserci di meno quieto se non ruotare continuamente intorno all'asse del cielo con straordinaria velocità? Niente è beato se non è quieto; e anche nel caso che all'interno del mondo vi sia un dio che dirige, governa, mantiene il corso delle stelle, il tra­ scorrere delle stagioni, l'alternanza e la successione degli avvenimenti, custodisce i privilegi e le vite degli uomini osservando le terre e i mari, certamente egli è coinvolto in affari spiacevoli e impegnativi. (53) Noi invece la vita felice la vediamo nella serenità dell'anima e nella man­ canza di ogni impegno. Colui che ci ha istruito su tutte le altre cose ci ha anche insegnato, infatti, che il mondo venne creato dalla natura, senza che fosse necessario al­ cun processo di costruzione, e quello stesso atto creativo, che voi sostenete essere impossibile da compiere senza l'aiuto di una abilità divina, è talmente facile che la natu­ ra creerà, crea e creò innumerevoli mondi. E dal momen­ to che non vedete in che modo la natura possa creare

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senza l'ausilio di una mente, vi comportate alla stregua dei poeti tragici: quando non riuscite a trovare una so­ luzione all'intreccio, vi rifugiate nella divinità. (54) Di sicuro non desiderereste il suo intervento se voi vedeste l'immensità e l'illimitatezza dello spazio; l'anima, proiet­ tandosi e dirigendosi verso di essa, la percorre in tutte le direzioni senza trovare un'estremità di confine dove po­ tersi fermare. Dunque in questa immensità di larghez­ za, lunghezza e altezza fluttua una infinita quantità di atomi che, pur trovandosi separati dal vuoto, tuttavia si uniscono e, aggregandosi l'�no con l'altro, continuamen­ te vanno a congiungersi. E da qui che nascono quelle forme e figure delle cose che voi non considerate possi­ bili senza mantici ed incudinP26. Così avete posto sopra il nostro capo un signore eterno, del quale dovremmo avere paura giorno e notte. Chi non temerebbe un dio che tutto predispone, abbraccia, osserva, crede che tutto tenda a lui, curioso e indaffarato? (55) Da qui scaturi­ sce per voi in primo luogo quella necessità del fato che chiamate heimarméne127: qualsiasi cosa succeda, dite che è provenuta da una verità eterna e da una sequenza di cause ininterrotta. E quanto valore bisogna dare a una fi­ losofia del genere, secondo cui tutto sembra accadere per destino? Roba da vecchiette, e per di più incolte! Segue poi la vostra mantiké128, in latino detta divinazione, che, se volessimo seguire la vostra opinione, ci imbeverebbe di talmente tanta superstizione che dovremmo onorare gli aruspici, gli àuguri, gli indovini, i vati, gli interpreti dei sogni. (56) Sciolti da queste paure grazie ad Epicuro e avendo rivendicato la nostra libertà, non abbiamo paura degli dèi, che, da quanto ci risulta, non si creano alcun fastidio né lo procurano al prossimo, e veneriamo pia­ mente e devotamente una natura superiore ed eccellente. Temo, però, di essermi tirato un po' troppo per le lun­ ghe, spinto dalla mia passione. Era del resto cosa difficile

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lasciare incompiuta una discussione così importante e nobile, nonostante mi fossi prefissato di ascoltare piutto­ sto che di parlare». 21. A questo punto Cotta, come suo solito con fare af­ fabile, disse: «Eppure, Velleio, se tu non avessi parlato, veramente non avresti potuto ascoltare nulla da me. In­ fatti solitamente non è così facile che mi venga in mente il perché qualcosa sia vero quanto il perché sia falso; e ciò mi capita spesso, in particolar modo poco fa quan­ do ti stavo ascoltando. Immaginiamo che tu mi chieda quale sia la mia opinione sulla natura divina: forse non ti risponderei nulla; immaginiamo che tu mi domandi se secondo me è come tu l'hai esposta: ti direi che niente mi pare più inaccettabile. Prima di proseguire però con le mie riserve su quanto hai trattato, dirò quello penso su di te. (58) Mi sembra di aver sentito dire spesso dal tuo intimo amico Lucio Crasso129 che ti considerava senza al­ cun dubbio superiore a tutti i concittadini romani esperti in materia, e che in Grecia potevi essere paragonato a po­ chi epicurei, ma poiché capivo che da lui eri apprezzato moltissimo, credevo che per la sua benevolenza parlasse un po' troppo di te. Ora io, nonostante esiti a elogiare una persona presente, ritengo che tu abbia parlato di un argomento oscuro e difficile in maniera chiara, non solo per la ricchezza dei concetti, ma anche per l'ornamen­ to del discorso, di un livello maggiore rispetto al vostro solito. (59) Quando soggiornavo ad Atene130, ascoltavo frequentemente le lezioni di Zenone, che il caro Filone era solito soprannominare corifeo131 degli epicurei; e in verità lo facevo su consiglio dello stesso Filone, penso, per giudicare più facilmente quanto tali teorie possano essere confutate, dal momento che avevo sentito diretta­ mente dal primo degli epicurei in che modo venissero esposte. Costui non parlava come la maggior parte degli epicurei, ma nel tuo stesso modo, vale a dire con preci-

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sione, rigorosità ed eleganza. Ma ciò che mi capitò spesso con lui, la stessa cosa capitava poco fa quando ascoltavo te; sopportavo difficilmente che tanto ingegno (ti prego di non offenderti di quanto sto per dirti) fosse precipitato in teorie di così inani, per non dire stupide. (60) Né io adesso sarei in grado di proporre una teoria migliore. Come ho appena detto, infatti, all'incirca in tutte le que­ stioni, ma soprattutto in quelle di fisica, sarei più pronto a dire ciò che non va bene piuttosto che il contrario. 22. Supponiamo che tu mi chieda cosa o quale sia dio; mi servirei dell'autorità di Simonide132, che, essendogli stata posta dal tiranno Ierone una domanda di questo tipo, chiese un giorno di tempo per poterei riflettere; il giorno successivo, quando Ierone gli pose di nuovo il quesito, Simonide chiese due giorni; e dal momento che egli continuava ad aumentare il numero dei giorni, il ti­ ranno, meravigliato, gli chiese il motivo del suo compor­ tamento. Simonide rispose così: "Quanto più ci penso, tanto più incerta mi pare la speranza". Ma credo che Si­ monide (si tramanda che fu non solo un elegante poeta ma anche un uomo colto e saggio in altri ambiti), poiché gli venivano in mente molte idee acute e sottili, dubitan­ do su quale di esse fosse la più vera, disperò di ogni ve­ rità. (61) Ma il tuo Epicuro (preferisco discutere con lui piuttosto che con te) dice qualcosa che sia degno non solo della filosofia, ma anche del buon senso? In questa di­ scussione inerente la natura divina si deve cercare di ca­ pire prima di tutto se gli dèi esistano o meno. "È difficile negare". Lo credo, se la questione fosse avanzata in una pubblica assemblea; ma in una riunione tra amici come questa è molto facile. Così, io stesso, che svolgo la carica di pontefice e ritengo che le cerimonie e i riti religiosi pub­ blici siano da tutelare con grande religiosità, vorrei tro­ vare la piena convinzione di questo punto estremamente fondamentale, cioè se gli dèi esistano, basandomi non

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solamente sull'opinione ma anche su quella che è la chia­ ra verità. Molti sono i pensieri che mi creano talmente tanto turbamento, che alle volte gli dèi sembrano non esistere nemmeno. (62) Ma guarda come sono cortese nei tuoi confronti: non intendo toccare questioni che avete in comune con altri filosofi, proprio come questa; all'incir­ ca tutti infatti, me compreso soprattutto, credono nell'e­ sistenza degli dèi. Pertanto non mi oppongo; cionono­ stante reputo la teoria da te addotta non sufficientemente fondata. 23. Tu hai sostenuto che l'opinione degli uomini di ogni genere e provenienza è un argomento abbastanza grande a favore dell'esistenza degli dèi. Questa asserzio­ ne è di per sé tanto insignificante quanto falsa. Innan­ zitutto, dove hai preso la conoscenza delle opinioni dei popoli? In verità io penso che esistano molte genti così barbare e selvagge, che presso di loro non esiste alcun sospetto su che cosa siano gli dèi. (63) E che dire di Dia­ gora detto "ateo", e di Teodoro? Non hanno forse negato apertamente la natura degli dèi? E certamente Protagora di Abdera, del quale tu hai fatto menzione poco fa, il più grande sofista di quei tempi, per aver posto in apertura di un libro la frase: "Riguardo agli dèi non sono in grado di dire né che esistano né che non esistano"133, per ordi­ ne degli Ateniesi fu bandito dalla città e dal, territorio, e i suoi libri furono bruciati pubblicamente. E per que­ sto, credo, che molti divennero più restii a dichiarare la loro opinione, visto che neanche il dubbio aveva potuto sfuggire la pena. E che diremo dei sacrileghi, degli empi e degli spergiuri? "Se mai Lucio Tubulo, se mai Lupo o Carbone o il figlio di Nettuno"134, come dice Lucilio, avessero ammesso l'esistenza degli dèi, sarebbero stati così spergiuri e immorali? (64) Tale ragionamento dun­ que non è così comprovato come sembra per confermare ciò che voi avete in mente. Ma poiché questo è un punto

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in comune anche con altri filosofi, per adesso lo lascerò da parte; preferisco giungere a quanto da voi sostenu­ to. (65) Ammetto l'esistenza degli dèi; fammi vedere da dove provengono, dove si trovano, come sono nel corpo, nell'anima e nella vita135: desidero sapere questo. Tu abu­ si del potere e della libertà degli atomi per spiegare tutto; a partire da questi tu concepisci e plasmi qualsiasi cosa ti giunga, come si dice, tra i piedi. Innanzitutto gli atomi non esistono. Non vi è nulla infatti che * * * sia privo di un corpo, ma tutto lo spazio è occupato da corpi; e così non può esistere né il vuoto né corpi indivisibili. 24. (66) E ora io riferisco gli oracoli dei naturalisti; non so se siano veri o falsi, ma di certo più verosimili dei vo­ stri. Queste scellerate opinioni le hanno partorite Demo­ crito, o, anche prima, Leucippoi36: vi sono dei corpuscoli, alcuni lisci, altri ruvidi e altri ancora rotondi, in parte angolosi e a guisa d'amo, certi ricurvi e per così dire un­ cinati, dai quali furono creati il cielo e la terra, senza l'in­ tervento di alcuna natura, ma per puro incontro casuale. E tu, Gaio Velleio, ti sei trascinato questa opinione fino a oggi, e sarebbe più facile distoglierti da qualsiasi con­ dizione di vita che da questa teoria; infatti ritenesti di dover essere epicureo ancor prima di venire a conoscere la dottrina. Perciò fu per te necessario accogliere queste mostruosità o mettere da parte il nome della filosofia che scegliesti di seguire. (67) Che cosa vorresti per smettere di essere epicureo? "Nulla - dici - mi farebbe abbando­ nare i principi della vita beata e la verità". Dunque co­ desta è la verità? In merito alla felicità della vita non ho niente su cui ribattere; tu sostieni che non la possieda neppure dio, se non languisce nell'ozio più totale. Ma la verità dov'è? Negli innumerevoli mondi, credo, che di continuo, in brevissimi archi temporali, nascono e muo­ iono? o forse nei corpuscoli indivisibili che plasmano opere sì eccellenti senza l'intervento di alcuna natura o

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alcuna ragione? Ma, dimentico della mia generosità che poco fa avevo iniziato ad utilizzare nei tuoi confronti, estendo il mio discorso ad altre osservazioni. Dunque concederò che tutto è costituito da particelle indivisibili; e con ciò? Si sta discutendo della natura divina. (68) Fac­ ciamo che gli dèi siano formati da atomi; di conseguen­ za non sono eterni, poiché ciò che è fatto di atomi in un qualche momento deve essere nato; se sono nati, non vi era alcun dio prima di nascere; e se gli dèi hanno un'o­ rigine, è necessario che essi muoiano, come tu discutevi poco fa a proposito del mondo di Platone. Dov'è quindi quel vostro beato ed eterno (termini con cui indicate il dio)? Quando volete dimostrare ciò, vi addentrate in ar­ gomentazioni oscure e complicate137• Tu sostenevi difatti che il dio non ha propriamente un corpo, ma una specie di esso, e non proprio il sangue, ma, in modo analogo, una specie di esso. 25. (69) Molto spesso fate in modo che, quando soste­ nete qualcosa di non verosimile e volete evitare una criti­ ca, adducete una teoria che non può realizzarsi in alcun modo, cosicché sarebbe stato meglio abbandonare quel­ la presa di posizione che ha scatenato la controversia, piuttosto che insistere così sfacciatamente. Per esempio Epicuro, nel momento in cui si accorse che, se gli atomi venissero trasportati verso il basso dal loro stesso peso, niente sarebbe stato in nostro potere, poiché il loro movi­ mento era determinato e necessario, scoprì in che modo poter evitare il determinismo (la cosa evidentemente era sfuggita a Democrito). Sostiene che l'atomo, quando è trascinato verso il basso a causa del peso e della gravità, subisce una leggera deviazione di traiettoria138• (70) So­ stenere una cosa come questa è più turpe che non poter difendere la propria opinione. Nello stesso modo si com­ porta contro i dialettici139; dal momento che essi hanno insegnato che in ogni proposizione disgiuntiva in cui si

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pone "o sì o no", uno delle due posizioni è vera, Epicuro temette che, se si fosse fatta una concessione del tipo "do­ mani Epicuro o vivrà o non vivrà'� una delle sue asser­ zioni sarebbe stata necessaria; dunque negò la necessità di considerare tutta la sequenza "o sì o no". Che cosa si sarebbe potuto dire di più stupido? Arcesilao incalzava Zenone dicendogli che sono tutte false le percezioni sen­ sibili, mentre Zenone considerava tali soltanto alcune, non tutte. Epicuro ebbe paura che se una sola impressio­ ne fosse falsa, nessuna potrebbe essere vera: disse che tutti i sensi sono messaggeri della verità. In ciò non vi è niente se non grande t140; si prendeva una ferita più grave per respingerne una più leggera. (71) Fa la stessa cosa a proposito della natura degli dèi; mentre abban­ dona l'idea dell'aggregazione di atomF41, perché non ne consegua la morte e la dissoluzione, dice che non esiste il corpo degli dèi, ma una specie di corpo, né il sangue, ma una specie di sangue. 26. Appare strano che un aruspice non si metta a ri­ dere nel caso veda un altro aruspice; ma questo è ancora più strano del fatto che tra di voi riusciate a trattenere le risate? "Non è un corpo, ma una specie di corpo". Potrei comprenderne la natura se fosse plasmato in cera o in ar­ gilla; io invero non riesco a capire che cosa sia nella divi­ nità quella specie di corpo o che quella specie di sangue; e nemmeno tu lo sai, o Velleio, ma non vuoi ammetter­ lo. (72) Queste nozioni vengono da voi esposte come se fossero delle lezioni che Epicuro ha espresso farnetican­ do durante uno stato di sonnolenza, visto che si vanta come si legge negli scritti - di non aver avuto alcun mae­ stro142. E gli crederei facilmente senza problemi anche se non si vantasse in giro, come al proprietario di una casa mal costruita che si gloria di non aver avuto l'aiuto di un architetto. Ad esser sinceri qui non c'è odore né di Acca­ demia, né di Liceo, né di un qualsiasi altro insegnamento

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ricevuto da bambino. Potrebbe aver presenziato alle le­ zioni di Senocrate (che uomo, per gli dèi immortali!), e vi sono alcuni che lo credono; egli però nega: non c'è nessun altro a cui io creda di più. Sostiene di aver fre­ quentato a Samo - abitava lì quando era giovane, con il padre e i fratelli, in quanto lo stesso padre Neocle vi era venuto come colono, ma visto che il piccolo terreno non gli era sufficiente, se non mi sbaglio, fece il maestro di scuola - le lezioni di un tal Panfild43, allievo di Pla­ tone. (73) Ma Epicuro disprezza grandemente questo platonico; tanta è la sua paura di sembrare di aver mai acquisito qualche nozione. Che abbia ascoltato Nausi­ fane144, democriteo, è cosa certa: non nega di averlo se­ guito, ma lo attacca riservandogli ogni ingiuria. Ma se non aveva ascoltato le dottrine di Democrito, cosa ave­ va udito? Che c'è nella scienza della natura di Epicuro che non derivi da Democrito? Infatti, anche se modificò certi dettagli, ad esempio quello che ho detto poco fa a proposito della deviazione di traiettoria degli atomi, dice in buona sostanza le stesse cose: gli atomi, il vuoto, le immagini, l'infinità degli spazi, gli infiniti mondi, la loro nascita e la loro morte, all'incirca tutto quello che si riconduce allo studio della natura. Ora, che cosa intendi quando dici "specie di corpo" e "specie di sangue"? (74) Io infatti non solo do il mio assenso, ma anche mi ral­ legro del fatto che tu sappia tutte queste cose meglio di me; e quando vengono espresse apertamente, cos'è che Velleio riesce a comprendere e Cotta no? Capisco bene cosa siano il corpo e il sangue, ma non riesco proprio a comprendere cosa siano una "specie di corpo" e una "specie di sangue": e tu non me lo nascondi come era solito fare Pitagora con gli stranieri, né parli di proposi­ to in maniera oscura come faceva Eraclito, ma, sia lecito parlare con schiettezza tra di noi, non riesci a capirlo nemmeno tu.

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27. (75) Vedo che ti batti per questa teoria, cioè che gli dèi hanno un determinato aspetto, che non ha nulla di organico, di solido, di chiaro e definito, e che è puro, liscio e trasparente. Dunque diremo la stessa cosa che diciamo per la Venere di Cos145; non è un corpo, ma una specie di corpo, e quel rossore diffuso misto al candore non è sangue, ma una specie di sangue; analogamen­ te nel dio di Epicuro non vi è realtà ma una specie di essa. Facciamo che io sia persuaso da un ragionamento astruso; mostrami i lineamenti e le forme di questi dèi appena ombreggiatF46• (76) A questo proposito non vi mancano gli argomenti con cui poter mostrare che gli dèi possiedono un aspetto umano: in primo luogo per­ ché nella nostra mente c'è una prenozione tale per cui, quando rivolgiamo il nostro pensiero a dio, esso si pre­ senta in forma umana; poi, visto che la natura divina ec­ celle in tutto, perché deve essere di bellissimo aspetto, e non ne esistono di più belli di quello umano; infine, in terzo luogo, perché la sede della mente non può situarsi in nessun'altra figura. (77) Prendi in esame allora, in or­ dine, ciascuno di questi punti; a me sembrate infatti che vogliate impossessarvi, come se fosse un vostro diritto, di un assunto che non gode di alcuna plausibilità. Chi mai, nell'osservazione di ciò che ci sta intorno, fu così cieco da non accorgersi che agli dèi sono state riferite im­ magini umane o per uno sprone da parte degli uomini saggi con lo scopo di rivolgere più facilmente gli animi degli ignoranti al culto degli dèi, distogliendoli così dal­ la corruzione della vita, o per superstizione, affinché vi fossero delle immagini che, a chiunque le venerasse, fa­ cessero credere di accedere agli dèi? Tutto ciò fu ampli­ ficato poi dai poeti, dai pittori, dagli scultori; infatti non era facile mantenere attraverso l'imitazione di altre figu­ re l'immagine di divinità che svolgono e intraprendono un'azione. For�e entra in gioco anche questa opinione,

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cioè che all'essere umano niente sembra essere più bello dell'uomo. Ma tu, indagatore della natura, non ti accorgi quanto essa sia seducente lusingatrice e, per così dire, adulatrice di se stessa? Credi forse che per terra e per mare non esista bestia alcuna che non sia massimamente attratta da un'altra dello stesso genere? Se non fosse così, perché il toro non smanierebbe al contatto con una caval­ la, e il cavallo a quello con una mucca? Oppure credi che l'aquila o il leone o il delfino preferiscano qualche altra sembianza alla loro? Che c'è di strano, dunque, se la na­ tura ha presc!itto all'uomo di non ritenere nulla più bello di se stesso? E questa la causa per cui dobbiamo ritenere gli dèi simili agli uomini? (78) Cosa credi, che se le bestie fossero dotate di ragione, non darebbero la preminenza ciascuna al proprio genere? 28. Ma, per Ercole, e dirò quello che penso, per quan­ to ami me stesso, tuttavia non oso sostenere di essere più bello di quel toro che portò via Europa147; qui non si sta indagando infatti sul nostro intelletto o sulla nostra capacità oratoria, bensì sull'aspetto e sull'immagine. E se volessimo darci una forma e mescolare le immagini, non vorresti essere simile a quel Tritone148 marino di­ pinto, che si slancia su bestie acquatiche unite al corpo umano? Sono ad un nodo difficile: la forza della natura infatti è così grande che non c'è uomo che non voglia somigliare se non a un uomo. (79) Sì certo, e la formica alla formica. Ma tuttavia a quale uomo desidererebbe es­ sere simile? Quante sono le persone belle? Quando mi trovavo ad Atene, tra i gruppi di giovinetti a stento se ne trovava uno bello - capisco il motivo per cui hai sorriso, ma la situazione è proprio questa. Poi per noi, che con il permesso degli antichi filosofi ci dilettiamo dei giovani, spesso sono piacevoli anche i difetti. Ad Alceo piace un neo sul dito di un ragazzd49; ma un neo è una macchia sul corpo; ciononostante a lui sembrava un pregio. Quin-

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to Càtulo150, padre del mio attuale collega e amico, amò Roscio151, tuo concittadino, e in suo onore scrisse anche questo: "Casualmente mi ero fermato a salutare l'Auro­ ra nascente, quando da sinistra all'improvviso compare Roscio. Mi sia lecito dire questo, dèi celesti, senza che vi offendiate: un mortale mi parve essere più bello di un dio"152• Per Catulo, Roscio era più bello di un dio; ma tanto ieri quanto oggi è strabico. Cosa importa se questo tratto gli sembrava piccante e grazioso? Ritorno agli dèi. 29. (80) Riteniamo che siano, se non strabici, almeno un po' guerci? Che abbiano nei, un naso camuso, orec­ chie pendenti, una fronte grande, una testa grossa, tutte caratteristiche che noi possediamo? O forse in loro non vi sono difetti? Vi sia concesso questo: forse hanno tutti il medesimo aspetto? Infatti, se ne esistono parecchi, è necessario che uno sia più bello di un altro, e di conse­ guenza qualche dio non è bello al massimo grado; se è una sola la sembianza comune a tutti, è necessario che in cielo brilli l'Accademia, perché, se tra un dio e l'altro non vi è alcuna differenza, tra di essi non vi sono conoscen­ za e percezione. (81) O Velleio, e se è totalmente falsa anche questa affermazione, cioè che nel momento in cui noi pensiamo alla divinità non ci si presenta nessun'altra immagine fuorché quella dell'uomo, forse che, cionono­ stante, difenderai codeste assurdità? Forse ci appare pro­ prio come dici; fin dalla più giovane età infatti abbiamo conosciamo Giove, Giunone, Minerva, Nettuno, Vulca­ no, Apollo, e altri dèi con quell'aspetto con cui li hanno voluti rappresentare i pittori e gli scultori, e non solo con quel determinato aspetto, ma anche con quell'ornamen­ to, quell'età e quell'abbigliamento. Questo però non vale per gli Egiziani né per gli abitanti della Siria né per qua­ si tutte le altre popolazioni barbare. Potresti accorgerti che presso di loro sono più salde le credenze verso certi animali rispetto alle nostre per i templi più venerati e

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per le immagini degli dèi. (82) Vediamo infatti che nu­ merosi santuari sono stati saccheggiati dai nostri e che le immagini degli dèi sono state portate via da luoghi veneratissimi, ma, in verità, non si è mai sentito dire che un egiziano abbia compiuto un oltraggio nei confronti di un coccodrillol53, di un ibis o di un gatto154• Che ne pensi? Che quel celebre Api, il bue sacro155, non sembri un dio agli egiziani? Per Ercole, tanto quanto a te sembra esse­ re una divinità quella vostra Sospita156• Tu non la vedi mai, nemmeno durante il sonno, se non con una pelle di capra, un'asta, un piccolo scudo e degli stivaletti con le punte all'insù. Ma la stessa cosa non vale per Giunone argiva né per quella romana. Dunque uno è l'aspetto di Giunone secondo gli ArgivP57, mentre è un altro per gli abitanti di Lanuvio. E così uno è per noi l'aspetto di Gio­ ve Capitolino158, e un altro è quello di Giove Ammone159 secondo gli Africani. 30. (83) Non prova vergogna uno studioso della fisica, cioè un osservatore e indagatore della natura, a chiede­ re testimonio della verità a menti imbevute di consue­ tudine? Secondo codesto criterio sarà lecito sostenere che Giove ha sempre la barba, che Apollo non la ha, che Minerva ha gli occhi glauchi e Nettuno li ha azzurri. E senza dubbio lodiamo il Vulcano che si trova ad Atene, scolpito da Alcamene160, il quale, ritto in piedi e vestito, mette poco in mostra il suo esser zoppo, non senza gra­ zia. Avremo quindi un dio zoppo, poiché a proposito di Vulcano abbiamo appreso così. Su, forza, credi che gli dèi abbiano il nome che gli abbiamo dato noi? (84) Innanzi­ tutto i nomi degli dèi sono tanti quante sono le lingue degli uomini; tu sei Velleio ovunque tu vada, Vulcano invece non è lo stesso in Italia, in Africa, in Spagna. E poi il numero dei nomi non è grande nemmeno nei nostri libri pontificali, invece quello degli dèi è infinito. O forse che non hanno un nome? Di sicuro per voi è necessario

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dire così; cosa importa che ci siano più denominazioni se l'aspetto è solamente uno? Come sarebbe stato conve­ niente, o Velleio, ammettere di non sapere ciò che non si sa, piuttosto che essere disgustati parlando a vanvera e provare un grande dispiacere per se stessi. Pensi che dio sia simile a me oppure a te? Certamente non lo pensi. "E allora, dovrei dire che dio è il sole o la luna o il cielo? E di conseguenza è anche felice? Di quali piaceri gode? Ed è saggio? Che sapienza può esserci in un tronco come questo?" Questo è quello che voi sostenete. (85) Se dun­ que non sono d'aspetto umano (cosa che ho dimostrato) né di qualsiasi altro (come tu sei convinto) perché hai dei dubbi a negare la loro esistenza? Non osi. Senza dubbio è un comportamento saggio, anche se in questo non hai tanto la paura del popolo, quanto degli stessi dèi. Io so di filosofi epicurei che venerano immagini di ogni genere. Per altro mi accorgo che ad alcuni sembra che Epicuro, per evitare l'antipatia degli Ateniesi, abbia affermato l'e­ sistenza degli dèi a parole, ma che di fatto li abbia eli­ minati. E così tra le sue brevi sentenze scelte, quelle che chiamate kyrìai dòxai16\ la prima, mi pare, è quella che segue: "Ciò che è felice ed imperituro, non possiede e non procura al prossimo alcun fastidio". 31. In merito a questa massima, esposta in questi ter­ mini, vi sono alcuni che credono che Epicuro abbia fat­ to a bella posta ciò che ha fatto per la sua ignoranza in ambito di eloquenza; pensano male su un uomo lungi dall'essere stato astuto. (86) Non si capisce se vuole dire che esiste un essere che gode di felicità ed immortali­ tà o che, se esiste, è tale. Non si accorgono che qui si è pronunciato in maniera ambigua, ma che in molti altri punti sia lui sia Metrodoro162 hanno parlato chiaramente come anche tu hai fatto poco fa. Quello veramente crede nell'esistenza degli dèi, e non ho mai visto nessuno che avesse paura più di tutto delle cose che riteneva di non

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doversi temere, cioè la morte e gli dèi. Sono cose, queste, per cui gli uomini comuni non sono così scossi, ma a sentir lui rappresentano la causa del turbamento presen­ te nelle menti dei mortali. Tante migliaia di persone pra­ ticano il brigantaggio con la prospettiva della morte, altri saccheggiano tutti i santuari che possono; penso che i primi siano spaventati dal timore della morte, mentre gli altri da quello della religione. (87) Ma dato che non osi (ormai parlerò a Epicuro in persona) negare l'esistenza degli dèi, cosa ti impedisce di inserire nel novero degli dèi il sole, il mondo o una mente eterna? "Non ho mai visto - risponde - un'anima che abbia in sé la ragione e la capacità di deliberazione in nessun'altra forma se non in quella dell'essere umano". Cosa? Hai visto mai qual­ cosa di simile al sole o alla luna o ai cinque pianeti? Il sole, circoscrivendo il moto alle due parti estreme di una sola orbita, porta a termine il suo corso in un anno; la luna, che risplende grazie ai raggi del sole, compie il suo percorso intorno ad esso nella durata di un mese; quan­ to invece ai cinque pianeti, permanendo nella medesima orbita, alcuni più vicini alla terra, altri più lontani, per­ corrono gli stessi spazi in tempi differenti partendo dallo stesso punto. Hai mai visto una cosa del genere, Epicu­ ro? (88) Dunque non vi sia il sole né la luna né i pianeti, poiché non può esistere nulla se non ciò che possiamo toccare o vedere. Ma come? Hai forse visto dio in perso­ na? Perché credi nella sua esistenza? Cancelliamo dun­ que tutto quello che ci consegnano la ricerca e la scienza. Accade così che gli abitanti della terraferma non credono al fatto che il mare esiste. Perché limitare tanto il nostro animo? Per fare -un esempio, se tu fossi nato a Serifo163 e non fossi mai uscito dall'isola nella quale avresti visto piccole creature come le lepri e le volpi, non crederesti all'esistenza dei leoni e delle pantere, qualora qualcuno ti dicesse come sono fatti; e inoltre, se qualcuno ti parlas-

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se degli elefanti, crederesti senza dubbio di essere preso in giro. (89) Eppure tu, o Velleio, hai terminato l'espo­ sizione della tua dottrina seguendo non il vostro meto­ do, ma quello dei dialettici, un sistema che alla vostra scuola rimane sconosciuto. Hai stabilito come premessa il fatto che gli dèi sono felici; te lo concediamo. Tuttavia nessuno può essere beato senza virtù; anche questo te lo concediamo, e con piacere. 32. La virtù però non può sussistere senza ragione; anche su questo è necessario convenire. Aggiungi che la ragione esiste soltanto nella figura umana. Da chi pensi che ti verrà concesso questo? Se fosse così, che bisogno c'era di arrivare a questo pun­ to grado dopo grado? Avresti dovuto prenderti il diritto di porlo come principio. Che cosa è poi codesto proce­ dimento sviluppato per gradi? Vedo infatti che sei ap­ prodato dalla felicità alla virtù, dalla virtù alla ragione; come ti avvicini però dalla ragione alla figura umana? Questo significa fare un salto logico, non giungere a una deduzione. (90) E poi non capisco perché Epicuro abbia preferito dire che gli dèi sono simili agli uomini piutto­ sto che la cosa opposta164• Mi chiederai che differenza c'è: se infatti dico che questo è simile a quello, anche quel­ lo è simile a questo. Me ne rendo conto: io però intendo dire che il modello della forma non venne agli dèi dagli uomini; gli dèi sono sempre esistiti e non sono mai nati, se sono destinati davvero a essere eterni; ma gli uomini sono nati; la forma umana con cui si presentavano gli dèi immortali è dunque antecedente agli uomini stessi; ne consegue che non dobbiamo chiamare umana la loro sembianza, ma divina la nostra. Anche su questo punto, fate come volete. Chiedo però questo: quale casualità fu tanto eccezionale (voi infatti non volete in natura alcun fatto dovuto alla ragione) (91) quale casualità eccezio­ nale ci fu, dal quale un così fortunato incontro di atomi avrebbe fatto scaturire velocemente uomini con l'aspetto -

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di dèi? Forse dobbiamo pensare che caddero dal cielo sulla terra i semi degli dèi e così, improvvisamente, gli uomini vennero generati simili ai loro genitori? Vorrei che voi lo diceste; non riconoscerei contro voglia la no­ stra parentela con gli dèi. Ma non dite niente del genere, anzi attribuite al caso il fatto che noi siamo simili agli dèi. E adesso vanno ricercati gli argomenti con i quali poter confutare questa tesi. Magari riuscissi a reperire ciò che è vero con la stessa facilità con cui riesco a confu­ tare ciò che è falso. 33. E in realtà hai fatto una esposizione coerente e ric­ ca di argomenti, tale da farmi provare meraviglia che in un romano potesse esserci così tanto sapere, delle opi­ nioni dei filosofi a partire da Talete di Mileto. (92) Ti sono sembrati in preda al delirio tutti quelli che giudi­ carono che gli dèi potessero esistere senza mani e senza piedi? Tenendo presente quale sia per l'uomo l'utilità e la comodità che derivano dal possedere le membra, questo non vi spinge a considerare che gli dèi non ne abbiano bisogno? Infatti che utilità hanno i piedi se non si cam­ mina? Quale utilità hanno invece le mani se non si deve stringere nulla? E che bisogno vi è nella restante distri­ buzione di tutte le parti del corpo, in cui niente risulta inutile, senza una causa, accessorio? E così nessun'altra arte può imitare l'abilità della natura. Dunque il dio avrà una lingua e non parlerà165, i denti, il palato, la gola per nessun uso, e possiederà inutilmente quegli organi che la natura fornì a scopo procreativo al corpo umano; e non solo gli organi esterni, ma anche quelli interni: il cuore, i polmoni, il fegato, e così via; questi organi, privati dell'u­ tilità, possono forse essere belli (visto che voi sostenete che queste cose esistono nella divinità in funzione della loro bellezza)? (93) Basandosi su stravaganze come que­ ste, non soltanto Epicuro, Metrodoro ed Ermarco166 eb­ bero da dire contro Pitagora, Platone ed Empedocle, ma

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anche Leonzid67, una sgualdrinella da quattro soldi, osò parlare contro Teofrasto - sappi però che espose le sue teorie in stile elegante e attico, anche se ... ! Tanta licenza fu del giardino di Epicuro. E voi siete soliti lamentarvi; anche Zenone era un attaccabrighe. Che dovrei dire di Albucid68? Fedro169 - in verità nessuno era più cortese e gentile di lui, ma da vecchio si arrabbiava se dicevo qual­ cosa in termini troppo duri -, avendo Epicuro criticato Aristotele con non pochi oltraggi, ha rovesciato le ingiu­ rie più vergognose su Pedone, allievo di Socrate, ha fatto a pezzi con volumi interi Timocrate170, fratello di Metro­ doro, suo collega, poiché la pensava diversamente in non so quale questione filosofica, non è stato riconoscente nei confronti dello stesso Democrito, del quale fu seguace, e ha trattato malissimo il suo maestro Nausifane, dal cui non c'è nulla che non avesse imparato. 34. Zenone sparlava non solo dei suoi contemporanei, quali Apollodoro, Silli ed altri, ma anche dello stesso So­ crate, il padre della filosofia; utilizzando la lingua latina diceva che era stato il buffone di Atene, e Crisippo non lo chiamava mai se non con il soprannome di Crisippa. (94) Tu stesso poco fa, quando stavi elencavi il senato dei filo­ sofi, dicevi della loro stravaganza, della loro pazzia e de­ menza. Se nessuno di essi riuscì a cogliere la verità sulla natura degli dèi, bisogna temere che non ve ne sia alcu­ na affatto. In verità queste teorie che voi sostenete sono totalmente immaginarie, nemmeno degne delle veglie delle vecchiette. Non vi accorgete quante argomentazio­ ni avete da sostenere, nel caso otteniate il nostro assenso sul fatto che la forma degli uomini è la stessa di quella degli dèi. Il dio dovrà rivolgere la stessa attenzione che rivolge l'uomo alla cura e al riguardo del corpo: al cam­ minare, al correre, allo stare sdraiati a mensa, all'incli­ narsi, allo stare seduti, all'afferrare, ed infine anche alla capacità di conversare e tenere dei discorsi. (95) Poi, in

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merito alla vostra idea che esistono divinità sia maschili sia femminili, vedete voi cosa ne consegue. Veramente non riesco proprio non meravigliarmi di come il vostro celebre capo sia potuto giungere a queste opinioni. Ma voi non cessate di dichiarare questo, cioè che dio è be­ ato e immortale. Cosa impedisce però che sia felice se non è bipede? Oppure codesta "beatità" o "beatitudine", come essa debba esser chiamata (l'uno e l'altro vocabolo sono del tutto austeri, ma dobbiamo essere noi ad am­ morbidirli, utilizzandoli)171, ebbene quale essa sia, perché non può trovarsi nel sole o in questo mondo o in una mente eterna priva della sembianza e delle membra del corpo? (96) Non dici nient'altro che questo: «Non ho mai visto felici il sole e il mondo». Ma come? Hai mai visto un mondo che non sia questo? Negherai. Dunque, perché hai osato sostenere che i mondi non sono, per così dire, seicentomila ma infiniti? "Me lo ha insegnato la ragio­ ne". Quindi la ragione non ti insegnerà che, siccome si sta cercando una natura massimamente superiore, felice ed eterna quale può essere la sola natura divina, siamo sovrastati dalla stessa natura tanto per la sua immorta­ lità quanto per la sua superiorità sia nella mente sia nel corpo? Perché allora, risultando inferiori in tutte le altre cose, dobbiamo essere uguali per quanto riguarda la for­ ma? Infatti si avvicinava di più alla somiglianza con gli dèi la virtù umana che non l'aspetto. 35. (97) O forse che si può asserire qualcosa di così puerile (per continuare ad incalzare ancora sul solito punto), come se dicessimo che quelle specie animali che si riproducono nel mare d'Arabia o d'India non esistono? Eppure neanche gli uomini più assetati di conoscenza, mediante una continua ricerca, riescono ad avere nozio­ ne di tante specie quante ve ne sono sulla terra, in mare, nelle paludi e nei fiumi; forse dovremmo negarne l'esi­ stenza perché non le abbiamo mai viste? E certamente

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l'analogia che vi piace tanto non ha nulla a che vedere con la situazione in esame. Ma come? Il cane non è forse simile al lupo (e, come dice Ennio, "la scimmia, animale turpissima, quanto è simile a noi")172? Tuttavia le usan­ ze dell'uno e dell'altro sono differenti. Nessun animale è più prudente dell'elefante; ma quale è più sgraziato? (98) Parlo degli animali: ma come, non è forse vero che tra gli stessi uomini troviamo caratteri diversi in sembian­ ze fisiche molto simili e viceversa, vale a dire caratteri simili in sembianze fisiche totalmente diverse? E infat­ ti, Velleio, se ci mettiamo una volta per tutte a sostenere un'argomentazione del genere, stai attento a dove essa possa andare ad insinuarsi. Tu ponevi come principio che non può esistere la ragione all'infuori della figura umana; un altro presupporrà invece che può sussistere soltanto in un essere terrestre, che è nato, si è sviluppato, ha appreso, è costituito di un'anima e di un corpo caduco e debole, insomma in un uomo mortale. E se fai resisten­ za a tutte queste affermazioni, per quale motivo il solo aspetto ti crea dei problemi? Tu reputavi che nell'uomo vi era mente e ragione insieme a tutte le caratteristiche che ti ho esposto; anche se le sopprimiamo tu sei convin­ to di conoscere dio, purché ne restino i lineamenti. Que­ sto significa non tenere presente ciò che si è detto, ma per così dire prendere le parole a sorteggio. (99) A meno che tu non faccia attenzione nemmeno al fatto che qualsia­ si cosa sia superflua o non abbia un'utilità non soltanto nell'uomo ma anche nelle piante. Quanto è difficile da sopportare il fatto di avere un dito in più! E perché? Per­ ché le cinque dita non necessitano di un altro dito né per estetica né per utilità. Ma il tuo dio non sovrabbonda sol­ tanto di un dito, ma della testa, del collo, delle spalle, dei fianchi, del ventre, della schiena, delle ginocchia, delle mani, dei piedi, delle cosce, delle gambe. Se è per far sì che sia immortale, cosa c'entrano queste membra con la

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vita? E che cosa la stessa sembianza? Piuttosto quegli organi: il cervello, il cuore, i polmoni, il fegato; questi infatti sono la sede della vita. I lineamenti del volto non riguardano assolutamente il perdurare della vita. 36. (100) E tu rivolgevi note di biasimo contro quelli che, partendo dalla magnificenza e dallo splendore del creato, dal mondo stesso, dalle sue membra, dal cielo, dalla terra, dal mare, e dalle sue parti, il sole, la luna, le stelle, ed essendo venuti a conoscenza dei mutamenti di stagione tempestivi e alterni, ebbero il sospetto della presenza di una natura straordinaria ed eccellente che avesse fatto nascere, muovesse, reggesse e manovrasse tutto ciò. Ma anche se essi sono lontani dal congetturare in maniera ragionevole, tuttavia sono in grado di capi­ re a cosa aspirino; tu, insomma, quale opera grande e singolare adduci, tale che sembri prodotta da una mente divina e grazie alla quale puoi arrivare a supporre che esistono gli dèi? "Io avevo - dici - insita nell'animo una nozione della divinità". Senza dubbio di Giove con la bar­ ba e di Minerva con l'elmo; ritieni che siano proprio così? (101) La sa più lunga il volgo ignorante, che attribuisce a dio non soltanto le membra proprie dell'essere umano, ma anche l'uso di esse; danno loro l'arco, le frecce, l'a­ sta, lo scudo, il tridente, il fulmine e, pur non vedendo quali siano le attività degli dèi, non riescono ad imma­ ginare un dio inoperoso. Gli stessi Egiziani, che vengo­ no presi in giro, non divinizzarono nessun'altra bestia all'infuori di quelle da cui potessero trarre un qualche beneficio. Per fare un esempio, gli ibis, uccelli di grossa taglia, caratterizzati da rigide zampe e da un becco lungo e corneo, uccidono un numero assai elevato di serpenti, e scacciano la peste dall'Egitto, eliminando e sbranando i serpenti alatP73 che provengono dal deserto della Libia, trasportati dal vento Africo; da questo consegue che non producono danno né da vivi, con il morso, né da morti,

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con l'olezzo. Potrei parlare dell'utilità degli icneumonP74, dei coccodrilli, dei gatti, ma non voglio dilungarmi. Con­ cluderò in questo modo: i barbari considerarono divine le bestie per i benefici da esse arrecati, mentre i vostri dèi non solo non recano alcun beneficio, bensì non svol­ gono nemmeno un'azione. (102) Dice: "non è impiegato in nessuna occupazione". Di sicuro Epicuro, consideran­ doli dei ragazzini effeminati, ritiene che non esista nulla di meglio dell'inazione. 37 Ma, del resto, anche gli stessi fanciulli, quando non fanno niente, trovano divertimen­ to in qualche gioco. Vogliamo davvero che un dio tanto libero da occupazioni si intorpidisca nella nullafacenza a tal punto da temere che possa non essere beato se si muove? Questo discorso non soltanto spoglia gli dèi del movimento e dell'azione propriamente divina, ma rende inattivi anche gli uomini, dal momento che nemmeno il dio può essere beato se compie qualche azione. (103) Ma sia pure, come voi sostenete, che dio è il ri­ tratto e l'immagine dell'uomo; quali sono la sua dimora, la sua sede, la sua abitazione? Qual è l'attività della sua vita? Di cosa gioisce, come voi dite? È necessario che colui che deve essere felice usufruisca dei suoi beni. Giacché anche le creature prive di un'anima possiedono una loro sede: la terra occupa quella più bassa, l'acqua la inonda, quella superiore è dell'aria e gli spazi ancora più in alto sono dei fuochi etereil75• Per quanto concerne invece gli animali, alcuni sono terreni, altri acquatici, ed altri an­ cora, come gli anfibi, vivono in entrambi gli ambienti; ve ne sono anche alcuni poi, che, secondo l'opinione comu­ ne, sono nati dal fuoco e si vedono spesso volteggiare nelle fornaci ardenti. (104) Dunque chiedo innanzitutto dove abiti il vostro dio, poi quale causa lo smuova dal suo posto, ammesso e concesso che qualche volta si muo­ va, poi, visto che avere una qualche inclinazione che sia conforme alla natura è cosa propria degli esseri viventi,

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quale sia quella del dio; inoltre voglio sapere a quale sco­ po si serve dell'attività della mente e della ragione, e in­ fine come fa a essere beato ed eterno. Ovunque tu vada a toccare, è come mettere il dito in una piaga aperta: una dottrina istituita così male non può trovare una via d'u­ scita. (105) Tu dicevi così, che l'aspetto del dio si può co­ gliere con il pensiero e non con i sensi, che non ha alcuna solidità, che non permane nella sua singolarità, che la sua visione è tale che si coglie per analogia e inferenza, e che il flusso di immagini simili scaturito dall'infinito numero di atomi non viene mai meno; da ciò si conclude che la nostra mente, attenta su tutto ciò, ritiene quella natura beata ed eterna. 38. Ma, per gli stessi dèi di cui si sta discutendo, che significa? Se infatti gli dèi hanno un valore solamente mentale e non possiedono alcuna solidità e rilevanza, cosa cambia se pensiamo a un ippocentauro o al dio? Di fatto gli altri filosofi chiamano tale nozione dell'anima impressione arbitraria, voi al contrario la definite arrivo e ingresso di immagini all'interno dell'anima. (106) Per fare un esempio, quando mi sembra di vedere Tiberio Graccoi76 che, nel bel mezzo di un comizio sul Campido­ glio, porta l'urna per la votazione relativa alla nomina di Marco Ottavio, io dico che si tratta di una impressione arbitraria, mentre tu sostieni che le immagini di Gracco e di Ottavio continuino a permanere e che, quando salgo sul Campidoglio, si ripresentano alla mia anima - e la stessa identica cosa accade quando si tratta della divi­ nità, la cui immagine viene spesso a trovarsi in contatto con le anime, fatto che ci porta, di conseguenza, ad im­ maginare gli dèi come beati ed eterni. (107) Facciamo che queste immagini che colpiscono l'anima esistano; non andando più in là non si pone davanti che un'immagine: perché sarebbe beata ed eterna? E poi quali sono e da dove provengono queste vostre immagini? Tutta questa

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libertà deriva da Democrito; ma anche lui lo hanno cri­ ticato in molti, e voi non trovate una via d'uscita e tutta la teoria vacilla e fa acqua. Che cosa c'è di meno proba­ bile del fatto che mi si presentano dinanzi le immagini di Omero, Archiloco, Romolo, Numa, Pitagora, Platone, e non in quella forma con cui effettivamente si presenta­ vano? In che modo dunque essi si presentano? E di chi le immagini? Aristotele177 insegna che il poeta Orfeo non è mai esistito e i Pitagorici dicono che l'autore del carme orfico sia stato un certo Cercope; ma Orfeo, vale a dire la sua immagine, secondo la vostra visione, si presenta spesso alla mia mente. (108) E che dire del fatto che della stessa persona vi è un'immagine presente a me ed un'al­ tra a te? E le immagini di quelle creature che non sono mai esistite (e neanche poterono esistere) come Scilla178 o la Chimera179? E quelle degli uomini, dei luoghi e delle città che non abbiamo mai visto? Come è possibile che, non appena mi va a genio, l'i mmagine è subito a dispo­ sizione? In che modo si pr�sentano durante il sonno pur non essendo richiamate? E una questione del tutto ridi­ cola, Velleio. E inoltre, voi inculcate le immagini non solo negli occhi, ma anche nella mente: tanta è la sfrontatezza delle vostre chiacchiere. 39. (109) E quanto arbitrariamente! "Avviene un flus­ so ininterrotto di visionP80, cosicché di tante se ne vede una sola". Proverei vergogna a dire che non capisco, se voi stessi comprendeste che difendete delle opinioni del genere. In che modo puoi provare che le immagini si spostano senza interruzione, oppure, se si sposta­ no ininterrottamente, come fanno a essere eterne? Dici: "È sufficiente l'infinità degli atomi". Dunque sono essi che rendono eterna qualsiasi cosa? Ti rifugi nella legge dell'equilibrio (così infatti, se permettete, traduciamo il vocabolo greco isonomìa), e sostieni che, siccome esiste una natura immortale, è necessario che ne esista anche

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una immortale. In codesta maniera, dato che ci sono uo­ mini mortali, dovrebbero essercene anche di immortali, e poiché nascono sulla terra, dovrebbero nascere anche nell'acqua. "E poiché ci sono forze devastatrici, dovreb­ bero esisterne anche di conservatrici". Sia pure, ma che conservino le cose che esistono; io non credo che questi vostri dèi esistano. (110) Ma come ha origine tutta questa rappresentazione delle cose a partire dagli atomi? An­ che se essi esistessero - e non esistono - forse potrebbero spingersi tra di loro e muoversi fino a scontrarsi, ma non potrebbero mai dare una forma, una figura, un colore, una vita alle immagini. Dunque voi non riuscite a dimo­ strare in nessun modo l'immortalità del dio. 40. Prendiamo in esame adesso la beatitudine. Di si­ curo non può sussistere senza la virtù; ma la virtù spin­ ge all'azione; e il vostro dio non fa nulla: dunque non possiede virtù; e così non può nemmeno essere beato. (111) Quindi che genere di vita conduce? Dici: "Una ab­ bondanza di beni, senza la presenza di alcun male". Ma di quali beni si tratta? Di piaceri, penso, che naturalmen­ te hanno a che fare con il corpo; tu infatti non hai nozio­ ne di nessun piacere dell'anima se non quello che parte dal corpo e al corpo ritorna. Non credo tu voglia essere simile agli altri epicurei che provano vergogna a causa di certe sentenze di Epicuro, attraverso cui egli dichiara di non comprendere nessun bene che sia disgiunto dai piaceri voluttuosi e perversP82: costui, senza arrossire, li elenca tutti nome dopo nome. (112) Dunque, quale cibo, quali bevande, quali varietà di suoni o di fiori, quali sen­ si del tatto, quali profumi darai agli dèi per impregnarli di piacere? I poeti provvedono a fornire il nettare, l'am­ brosia, i banchetti e Giovinezza o Ganimede183 come cop­ pieri, mentre tu, Epicuro, cosa farai? Non capisco pro­ prio da dove il tuo dio possa ricavare tutto questo e in che modo possa goderne. Quindi la natura degli uomini

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è più ricca di beni per poter vivere beatamente di quella degli dèi, poiché ha a disposizione una maggiore quanti­ tà di piaceri. (113) Tu però stimi più insignificanti questi piaceri che provocano, per così dire, adoperando il ter­ mine di Epicuro, un solletico ai sensP84• Fino a che punto hai intenzione di portare avanti questo scherzo? Anche il nostro Filone non riusciva a sopportare il fatto che gli epicurei disprezzassero i piaceri molli e voluttuosi. Con eccellente memoria pronunziava numerose asserzioni di Epicuro utilizzando le stesse parole con cui erano state scritte. E citava molte sfrontatezze di Metrodoro, com­ pagno nella sapienza di Epicuro; Metrodoro accusa suo fratello Timocrate, poiché dubita che tutto quello che ri­ guarda la felicità della vita possa essere misurato attra­ verso il ventreuls, e non lo dice una sola volta ma lo ripete molto spesso. Vedo che fai cenno di sì: si tratta, del re­ sto, di cose a te ben note; se tu invece negassi, chiamerei come testimoni i libri. Adesso non sto criticando il fatto che tutto viene riferito al piacere (questo è un altro pun­ to), ma sto cercando di mettere in luce il fatto che i vostri dèi non provano piacere, e così, secondo voi, non sono nemmeno beati. 41. (114) "Ma sono esenti dal dolore". Ma questo è sufficiente per questa vita abbondante di beni e massi­ mamente beata? Dicono: "Pensa di continuo di essere beato; infatti non ha nient'altro cui rivolgere la sua men­ te". Dunque, prova a immaginarti e a porti davanti agli occhi una divinità che per tutta l'eternità non pensa ad altro se non a "io sto bene" e "io sono felice". Non vedo come questo dio beato non possa avere timore di morire, dal momento che è percosso e agitato senza interruzione dal continuo urto degli atomi, e che da lui defluiscono incessantemente immagini. Così il vostro dio non è né beato né eterno. (115) "Ma Epicuro scrisse libri anche a proposito della religiosità e della devozione per gli

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dèi"186• Ma come ne parla in queste opere? Nel modo che potresti dire di ascoltare i sommi pontefici Co­ runcanio o Publio Scevola187, non colui che ha eradicato ogni culto religioso e ha rimosso i templi e gli altari de­ gli dèi immortali, servendosi non delle mani, come fece Serse188, bensì dei ragionamenti. Che motivo c'è per cui si deve dire che gli uomini devono venerare gli dèi, dal momento che gli dèi stessi non solo non si curano gli uo­ mini, ma non si interessano assolutamente di nulla e non fanno nulla? (116) "Ma costoro possiedono una natura tanto superiore e straordinaria tale da dover essere lei ad attirare il sapiente verso la venerazione di sé". Può for­ se esserci qualcosa di eccezionale in quella natura, che, lieta del suo piacere, non compirà, non compie e non ha mai compiuto un'azione che sia una? E poi, che devozio­ ne si deve a colui dal quale non si è ricevuto nulla? Che debito si può avere nei confronti di uno che non ha alcun merito? Senza dubbio la devozione è giustizia verso gli dèF89; ma, di diritto, che rapporto può esservi tra noi e loro, dal momento che l'uomo non ha alcuna comunanza con la divinità? La religiosità è invece la scienza della ve­ nerazione degli dèi; non capisco, però, per quale motivo debbano essere venerati, dal momento che da essi non si è ricevuto nulla né si spera di ricevere nessun bene. 42. (117) E poi, che motivo abbiamo di venerare gli dèi per l'ammirazione di queiJa natura nella quale non vediamo nulla di superiore? E facile liberarsi della su­ perstizione, cosa di cui siete soliti gloriarvi, cancellando ogni forza divina. A meno che tu, forse, non ritieni che Diagora o Teodoro, i quali negavano l'esistenza degli dèi, potessero essere superstiziosi. Per quanto mi riguarda, non lo fu nemmeno Protagora, per il quale non furono accettabili né l'uno né l'altro caso, vale a dire l'esistenza e l'inesistenza degli dèi. Le opinioni di tutti questi non soltanto eliminano la superstizione, che al suo interno

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contempla un vano timore degli dèi, ma anche la religio­ ne, che si traduce in una forma di pia venerazione degli dèi. (118) Ma che dire di quanti sostennero190 che tutta la credenza negli dèi immortali è stata immaginata da uomini saggi per un fine politico, affinché la religione guidasse al dovere coloro che non vi erano spinti dalla ragione? Costoro non hanno sradicato qualsiasi forma di religione? Ma come? Prodico di Ceo191, il quale sostenne che sono da reputare dèi tutte le utilità per la vita uma­ na, insomma, quale religione ha lasciato? (119) E quanti ci riferiscono la notizia che gli uomini di vigore, virtù e potenza dopo la morte giungono nella schiera degli dèi (e si tratta degli stessi che noi veneriamo, preghiamo e ado­ riamo), non è forse vero che furono totalmente privi di religione? Questa teoria fu esposta in particolar modo da Evemero192, di cui il nostro Ennio, più degli altri, tradus­ se e adattò l'opera alle sue esigenze193; Evemero dimostra anche le svariate modalità in cui gli dèi vengono uccisi e sepolti: ti sembra che abbia consolidato la religione o che la abbia del tutto eliminata? Tralascio la famosa Eleusi, venerata e sacra, "dove le genti delle regioni remote han­ no avuto inizio"194; tralascio Samotracia195 e quei riti che a Lemno "vengono celebrati con processioni notturne se­ grete frequenti nelle siepi silvestri"196• Spiegando e ana­ lizzando razionalmente tali fenomeni, si conosce meglio la natura delle cose che non quella degli dèi. 43. (120) Secondo la mia personale opinione, anche Democrito, grandissimo uomo, dalle cui fonti Epicuro irrigò il suo giardinetto, non ha certezze sulla natura degli dèi. Ora infatti sostiene che nell'universo vi siano immagini dotate di natura divina, ora sostiene che sono divini i principi della mente che si trovano nello stesso universo, ora le immagini viventi che solitamente ci re­ cano giovamento o sono nocive, ora certe immagini enor­ mi, così grandi che abbracciano dall'esterno il mondo

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intero197• Senza dubbio tutte queste affermazioni sono più degne della patria di Democrito che di Democrito stessol98• (121) Chi infatti può comprendere codeste im­ magini all'interno dell'animo? Chi può ammirarle? Chi può giudicarle degne di culto e di religione? Epicuro in­ vece estirpò la religione dall'anima degli uomini perché sottrasse agli dèi im111.ortali la possibilità di venire in aiu­ to e la benevolenza. E proprio nel momento in cui dice che la natura di dio è ottima ed eccelsa infatti che nega in esso la presenza della benevolenza; costui cancella la caratteristica principale di una natura ottima ed eccelsa. E del resto cosa è migliore o più eccelso dell'essere buoni e fare del bene? Quando sostenete che dio ne è privo, non volete che nessuno, dio o uomo, sia caro a dio, che nessuno sia oggetto del suo amore e che nessuno sia suo prediletto. In questo modo accade non soltanto che gli uomini sono trascurati dagli dèi, ma anche che gli stessi dèi si trascurano a vicenda. 44. Quanto meglio dicono gli Stoici, che da voi sono rimproverati! Stando alla loro opinione, i sapienti sono amici anche quando non si conoscono direttamente199• Difatti nulla è più amabile della virtù; e colui che la avrà conseguita, ovunque si trovi, godrà del nostro amore. (122) Voi, al contrario, che male fate quando considerate motivo di debolezza essere riconoscenti e benevoli! La­ sciando da parte l'essenza e la natura degli dèi, pensate forse che nemmeno gli uomini, se non fossero deboli, sarebbero benefici e benevoli? Non esiste alcun affetto naturale tra gli uomini buoni? È caro anche il termine "amore'� dal quale deriva la parola "amicizia"; se la rivol­ geremo a nostro vantaggio, e non a quello della persona che amiamo, questa non sarà amicizia ma una sorta di mercato di interessi. In questo modo si amano i prati, i campi, le greggi, dal momento che da essi si può ricava­ re un guadagno: l'amore e l'amicizia tra gli uomini sono

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disinteressatF00• Quanto più disinteressato, dunque, è l'a­ more degli dèi, i quali, pur non necessitando di niente, si amano tra di loro e sono interessati agli affari degli uo­ mini! E se non è in questo modo, perché li veneriamo e li preghiamo? Perché i pontefici sovrintendono ai sacrifici e gli àuguri agli aruspici? Perché esprimiamo desideri agli dèi immortali e facciamo loro voti? "Ma c'è anche un libro Sulla religiosità201 di Epicuro". (123) Siamo oggetto di scherno2°2 di un uomo che di certo non è scaltro tanto quanto è sfrontato nello scrivere. Che religiosità può esi­ stere, infatti, se gli dèi non si curano delle cose umane? Che valore può avere, a sua volta, una natura vivente che non si cu ra di nulla? Dunque è di gran lunga più vero ciò che il nostro amico Posidonio espose nel quinto libro del­ la sua opera La natura degli dèi203: "Secondo Epicuro non vi è alcun dio, e le cose sostenute da lui in merito agli dèi immortali furono pronunciate per stornare l'invidia"204• E difatti non sarebbe stato così stupido da rappresentare dio simile a un uomo, dotato di lineamenti ma privo di un aspetto solido, provvisto di tutte le membra umane ma senza nemmeno il minimo uso di esse, un essere esi­ le e trasparente, che non dà niente a nessuno, che non dà il suo aiuto, che non si cura di nulla e non fa nulla. In­ nanzitutto una natura come questa non può esistere, ed Epicuro, che se ne era accorto, cancella di fatto gli dèi, ma li maniene a parole. (124) Poi, se più di tutto il resto, dio è tale da non provare alcuna mozione di benevolenza e di affetto nei riguardi degli uomini, arrivederci - perché dovrei dire "sia propizio"205? Infatti non può essere pro­ pizio a nessuno, poiché, a detta vostra, tutta la benevo­ lenza e l'affetto pertengono nella debolezza.

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l. (l) Dopo che Cotta ebbe pronunciato queste parole, Velleio rispose: «Forse sono stato poco prudente a ten­ tare di misurarmi con un filofoso dell'Accademia che per giunta è anche oratore1• In verità non avrei temuto né un accademico privo di facondia né un oratore che, per quanto eloquente, non possiede codesta filosofia; giacché non mi spaventano né un fiume di vuote pa­ role né la sottigliezza dei concetti se lo stile è arido2• Tu invece, Cotta, hai mostrato di essere valente nell'uno e nell'altro ambito; ti sono mancati soltanto l'uditorio e i giudici. Ora, però, rimandando queste considerazioni a un altro momento, prestiamo attenzione a Lucilio, se è in comodo». (2) A questo punto Balbo disse: «In realtà preferirei ascoltare Cotta, purché presenti gli dèi veri con la stes­ sa eloquenza con la quale ha distrutto quelli falsi, dal momento che è cosa di un filosofo, di un pontefice e di Cotta avere in merito agli dèi immortali un'opinione non incerta e vaga, come gli Accademici, ma stabile e certa, come i nostri. Contro Epicuro si è già detto anche troppo; ma voglio ascoltare, Cotta, la tua opinione personale in proposito».

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E quello: «Forse ti sei dimenticato di quel che ho detto all'inizio, cioè che mi è più facile, specialmente su argo­ menti del genere, dire ciò che non penso piuttosto che ciò che penso? (3) E se anche avessi un'idea chiara, tutta­ via preferirei ascoltare te che parli a tua volta, dopo aver parlato io stesso tanto a lungo». Allora Balbo: «Farò quello che preferisci e tenterò di essere il più breve possibile, dato che la precedente con­ futazione degli errori di Epicuro ha privato di una parte considerevole la mia esposizione. In generale i nostri di­ vidono tutta la questione relativa agli dèi immortali in quattro partP. Prima di tutto dimostrano l'esistenza de­ gli dèi, poi come sono, quindi che governano il mondo, e infine che provvedono agli affari umani. Noi invece in questa discussione affrontiamo soltanto i primi due; quanto al terzo e al quarto, dato che sono di impegno maggiore, ritengo che siano da rimandare a un'altra oc­ casione». Cotta ribattè: «Per niente! Abbiamo parecchio tempo e stiamo affrontando un argomento che deve essere ante­ posto anche agli affari». 2 (4) Allora Lucilio: «Il primo punto mi pare che non abbia nemmeno il bisogno di essere affrontato. Cosa ci può essere infatti di così visibile ed evidente quando vol-. giamo lo sguardo verso il cielo e contempliamo i corpi celesti, quanto il fatto che esista una potenza di intelli­ genza eccelsa che regge tutto questo4? Se non fosse così, come avrebbe potuto dire Ennio col consenso di tutti: "Guarda questo sublime splendore che tutti chiamano Giove"5 - proprio quel Giove che governa e regge tutte le cose, e, sempre come sostiene Ennio, è "padre degli dèi e degli uomini"6 e dio insigne e onnipotente? Chi nu­ tre dubbi su ciò, non riesco veramente a comprendere perché non possa averne anche sul sole, cioè se esista o meno. (5) Com'è possibile che quest'ultimo fatto sia più

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evidente del precedente? E se noi non possedessimo nel­ la nostra mente una nozione e un concetto, la credenza non sarebbe così stabile, né sarebbe confermata con il lungo passare del tempo, né avrebbe potuto perdurare nei secoli e nelle diverse generazioni degli uomini. Di­ fatti vediamo che con il passare del tempo tutte le altre credenze false e vane si disfano. Chi crede che siano esi­ stiti l'ippocentaurd o la Chimera8? Oppure esiste una vecchietta così stupida da provare timore per i mostri infernali9 in cui una volta si credeva? Il tempo cancel­ la le falsità dell'immaginazione e rafforza i giudizi della natura. E così tanto nel nostro popolo quanto negli altri, il cul­ to degli dèi e la severa osservanza della religione conti­ nuano a esistere, accrescendo sempre di più, giorno dopo giorno. (6) E questo non avvenne senza una ragione né per un caso fortuito, ma perché gli dèi in persona spesso rivelano la loro potenza: per fare un esempio, durante la guerra contro i Latini, presso il lago Regillo10, quando il dittatore Aulo Postumio stava ingaggiando battaglia con Ottavio Mamilio di Tuscolo, furono visti combattere a ca­ vallo tra le nostre schiere Castore e Polluce11; e secondo una tradizione più recente furono gli stessi figli di Tin­ daro ad annunciare la vittoria su Perseo12• Infatti Publio Vatieno13, il nonno del nostro giovane contemporaneo, mentre se ne stava ritornando a Roma dalla città di Rieti, dove esercitava la perfettura, durante la notte, due gio­ vani su cavalli bianchi lo informarono che il re Perse era stato catturato proprio in quel giorno, e annunciò que­ sta notizia al senato. In un primo momento, come se si fosse pronunciato a proposito della repubblica in modo sconsiderato, venne gettato in carcere, poi però quando giunsero delle lettere da parte di Paolo ed effettivamente la data coincideva, gli furono donati dal senato un terre­ no e l'esenzione dal servizio militare14• E ancora, stando

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a quel che si tramanda, quando i Locresi sottomisero i Crotoniati nella grandissima battaglia presso il fiume Sa­ gra15, in quello stesso giorno si seppe di quello scontro durante i giochi di Olimpia. Spesso le percezioni delle voci dei FaunP6, spesso le visioni di dèi hanno costretto qualunque uomo che non sia sciocco o empio ad ammet­ tere la presenza degli dèi. 3 (7) Invero le predizioni e i presagi degli eventi futu­ ri, che cos'altro annunciano se non che tali avvenimenti sono rivelati agli uomini, mostrati, annunciati, predetti? Da qui derivano le parole rivelazione, avvertimento, pre­ sagio e predizione. E se riteniamo che siano vane fantasie delle leggende Mopso17, Tiresia11l, Anfiarao19, Calcante20, Elend1 (che del resto nemmeno le leggende avrebbero accolto come àuguri, se la realtà fosse in totale contrasto), nemmeno dagli esempi nostrani saremo venuti a cono­ scenza della potenza degli dèi? Non ci farà alcun effetto la temerarietà di Publio Clodid2 durante la prima guerra punica? Costui derideva gli dèi (per scherzo): visto che i polli liberati dalla gabbia non si nutrivano, li fece im­ mergere nell'acqua affinché bevessero, visto che si rifiu­ tavano di mangiare. Questo scherno gli provocò molte lacrime e recò un'enorme sconfitta al popolo romano poi­ ché la flotta venne sbaragliata. E nella medesima guerra il suo collega Giunio23 non perse la flotta a causa di una tempesta, poiché non aveva osservato gli auspici? Così Clodio fu condannato dal popolo, mentre Giunio si tol­ se la vita. (8) Celio24 scrive che Gaio Flaminio25, per aver trascurato i riti religiosi, cadde presso il lago Trasimeno con grande danno per la repubblica. Dalla loro rovina si può comprendere che lo Stato accrebbe grazie al coman­ do di quanti osservarono scrupolosamente i riti religiosi. E se vogliamo mettere sul piatto della bilancia i nostri con quelli stranieri, scopriremo che in altri ambiti siamo pari o anche inferiori, ma che in quello della religione,

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cioè il culto degli dèi, siamo di gran lunga superiori26• (9) Forse che non deve essere tenuto in conto il celebre lituo di Atto Navid7, con il quale delimitò le zone della vigna per trovare il maiale? Lo crederei se il re Ostilio28 non avesse condotto grandi guerre grazie alla sua arte divinatoria. Ma per l'indifferenza della nobiltà, la disci­ plina divinatoria venne lasciata da parte e l'attendibilità degli auspici venne disprezzata e mantenuta soltanto in apparenza: e così gli incarichi statali principali - fra cui le stesse guerre da cui si può garantire la conservazione dello Stato - vengono eseguiti senza alcun auspicio; nes­ sun auspicio viene preso prima di passare un fiume né dalle punte delle lance29, e non viene chiamato nessun uomo mediante appello30, e per questo i testamenti fatti nell'imminenza di battaglia sono caduti in dissuetudi­ ne. E infatti i nostri generali iniziano a condurre guerre dopo aver deposto il potere augurale. (10) Tuttavia pres­ so gli antenati la forza della religione fu così grande che alcuni condottieri offrirono in voto agli dèi immortali se stessi per lo Stato, con il capo coperto e pronunciando parole sicure. Potrei rammentare molti passi dai vaticini della Sibilla, molti dagli oracoli degli aruspici, attraver­ so i quali verrebbero confermate tutte queste cose sulle quali nessuno deve nutrire alcun dubbio. 4. Eppure, ai tempi del consolato di Publio Scipione e Gaio Figulo31, fu la stessa realtà dei fatti a provare la validità della scienza dei nostri àuguri e degli aruspici etruschi. Mentre Tiberio Gracco, durante il suo secondo consolato, sovrintendeva alla loro elezione, lo scrutatore della prima centuria, non appena riferì i loro nomi, morì da un momento all'altro. Ciononostante, Gracco terminò i comizi, ma essendosi accorto che l'evento aveva scosso il timore religioso del popolo, fece una relazione in sena­ to. Il senato stabilì che si doveva consultare chi era d'uso. Convocati gli aruspici, questi risposero che lo scrutatore

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non era legittimo. (11) Allora Gracco - come mi raccontava mio padre - acceso d'ira, disse: "Quindi quello ingiusto sarei io, che ho chiesto i comizi per le elezioni in qualità di console, àugure e dopo aver preso gli auspici? Forse che voi, Etruschi e barbari, avete conoscenza del diritto del po­ polo romano relativo agli auspici e potete essere interpreti dei comizi elettorali?". E così ordinò che se ne andassero. Poi però inviò dalla sua provincia una lettera in cui soste­ neva di essersi ricordato, mentre consultava i libri sacri, che era andato contro le regole avendo scelto come luogo per la sua tenda augurale32 i giardini di Scipione, poiché, quando era entrato all'interno del pomerio33 per tenere una riunione in senato, al ritorno, mentre oltrepassava di nuovo il pomerio, si era dimenticato di prendere gli auspi­ ci; quindi i consoli erano stati eletti in modo irregolare. Gli àuguri riferirono la cosa al senato, il senato decretò che i consoli dessero le dimissioni, e i consoli rassegnarono il loro mandato. Vogliamo esempi più lampanti? Un uomo massimamente saggio, e non so se superiore a tutti, preferì confessare un errore che avrebbe potuto tenere nascosto piuttosto che lasciare che nello Stato venisse meno il cul­ to religioso; i consoli deposero immediatamente la cari­ ca maggiore piuttosto che mantenerla anche un solo mo­ �ento in contrasto con l'osservanza della religione. (12) E grande l'autorevolezza degli àuguri. Allora l'arte degli aruspici non è forse divina? Chi potrebbe tener presenti questi e molti altri fatti analoghi e poi non ammettere l'esistenza degli dèi? Infatti se ci sono i loro interpreti, senza dubbio devono esistere anche loro; dunque ammet­ tiamo che gli dèi esistono. Forse però non accadono tutti gli eventi che sono stati predetti. Neanche tutti i malati guariscono: non per questo annulliamo l'arte della me­ dicina. I segni del futuro ci vengono mostrati dagli dèi; se qualcuno li ha fraintesi, non è colpa della natura degli dèi, ma dell'interpretazione degli uomini.

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E così il punto focale risulta chiaro a tutti gli uomini di tutte le nazioni; per tutti, infatti, l'esistenza degli dèi è un concetto innato e per così dire scolpito nella mente34. 5. (13) Su quale natura essi abbiano, non vi è una opinio­ ne unanime; ma nessuno ne nega l'esistenza. Il nostro Cleante invero sostenne che è per quattro ragionP5 che nella mente dell'uomo si è formata la nozione degli dèi. Come prima36 pose quella di cui ho parlato poco fa, che deriva dal presentimento di eventi futuri; come secon­ da37, quella che possiamo cogliere dalla grandezza dei vantaggi, ottenuti grazie al clima temperato, alla fecon­ dità del terreno e all'abbondanza di molti altri vantaggi. (14) La terza causa38 è dovuta alla paura provocata dai fulmini, dalle tempeste, dalla neve, dalla grandine, dalle devastazioni, dalle pestilenze, dai terremoti, spesso da­ gli strepiti della terra, dalle piogge di sassi e dalle gocce insanguinate, dalle frane o dalle voragini che improvvi­ samente si aprono nel suolo, dai prodigi soprannaturali di uomini e bestie, dalle visioni di fuochi celesti, dalle stelle (che i Greci chiamano komètas e noi cincinnatae) le quali, non molto tempo fa, durante la guerra di Ottavio39, preannunciarono gravi calamità, e dal doppio sole, che accadde - come raccontò mio padre - sotto il consolato di Tuditano e Aquilio40, anno in cui morì Publio Africano, detto il secondo sole41. Gli uomini, terrorizzati da tutti questi fenomeni, sospettarono l'esistenza di una forza celeste e divina. (15) Infine la quarta causa42, ed è quella più importante di tutte, viene riconosciuta nel moto uni­ forme e nella rivoluzione del cielo, nonché nella distinzione, nell'utilità, nella bellezza e nell'ordine del sole, della luna e di tutte le stelle, la cui vista è di per sé sufficiente per sostenere che non si tratta di un puro caso. Facendo un esempio, se qualcuno entrasse in una casa43 o in una palestra o in una piazza, vedendo la norma, il metodo, l'ordine che sottostanno a tutte le

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loro parti, non potrebbe stimare che questo sia accaduto senza una causa, ma comprenderebbe che c'è qualcuno che vi presiede e al quale tutto ciò è sottomesso; a mag­ gior ragione, davanti a moti e cambiamenti così grandi e all'ordine di corpi tanto pesanti e numerosi, che nell'in­ finito corso dei secoli mai sono venuti meno, dovrebbe necessariamente concludere che esiste una mente che regola così grandi movimenti della natura. 6. (16) Crisippo, nonostante il suo ingegno acutissimo, sostiene dei concetti in modo tale che pare averli impara­ ti dalla stessa natura piuttosto che averli scoperti da sé40• "Se infatti - dice - in natura vi è qualcosa che la men­ te, la ragione, la forza e la facoltà umana non riescono a compiere, chi lo compie deve necessariamente essere superiore all'uomo; ma i corpi celesti e tutti i fenomeni che hanno un ordine eterno non possono essere opera dell'uomo; dunque ciò che li crea è superiore all'uomo. E come potresti chiamarlo se non dio? Difatti, se gli dèi non esistono, che cosa può esserci in natura di migliore dell'uomo45? In lui solo vi è la ragione, cui niente può es­ sere superiore; ma che possa esistere un uomo secondo cui nulla in tutto il mondo sia meglio di sé, questa è una stravagante manifestazione di arroganza; dunque esiste qualcosa di superiore e senza ombra di dubbio dio esi­ ste. (17) E poi, se tu vedessi una casa grande e bella, non potresti essere indotto a pensare che, anche se non ne vedi il padrone, essa fu edificata per i topi e le donnole; dunque, se consideri che un tale ordinamento del mon­ do46, una tale varietà e bellezza dei corpi celesti, una tale forza e grandezza del mare e delle terre siano la tua casa e non quella degli dèi immortali, non è forse vero che sembreresti pazzo? O non capiamo nemmeno che tutto ciò che è superiore è migliore e che la terra, circondata da uno strato spessissimo d'aria, occupa la posizione più bassa di tutte? Cioè, per il medesimo motivo, quello che

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vediamo verificarsi anche in certe regioni e in certe città (vale a dire che l'intelligenza degli uomini che vi abita­ no è reso più ottuso a causa della maggiore pesantezza dell'atmosfera) è accaduto anche al genere umano sicco­ me è stato collocato sulla terra, che appunto è la zona più densa dell'universo. (18) Ciononostante, è a partire dal­ la stessa intelligenza umana che dobbiamo pensare che esiste una mente più acuta e divina. Infatti, per usare le parole di Socrate nell'opera di Senofonte, da dove l'uomo "se l'è presa"47? Anzi, se qualcuno cercasse di capire da dove abbiamo attinto il liquido e il calore che sono sparsi per il corpo e la stessa solidità terrena delle viscere e il respiro vitale, è evidente che le abbiamo assunte, nell'or­ dine, dalla terra, dal liquido, dal fuoco e dall'aria, che appunto chiamiamo soffio48• 7. Ma dove abbiamo trovato, da dove abbiamo ricava­ to quell'elemento che supera tutti gli altri, intendo la ra­ gione, e, se si vogliono adoperare più termini, la mente, il giudizio, il pensiero, la saggezza? Forse che il mondo avrà tutti gli altri, e non questo che è quello che vale di più? Ma non vi è alcun dubbio che possa esistere in as­ soluto qualcosa di migliore, di più eccellente, di più bello del mondo, e non solo non esiste, ma non si può nemme­ no concepire mentalmente. E se non c'è niente che superi la ragione e la saggezza, è necessario che queste esistano all'interno di quello che ammettiamo essere superiore a tutto il resto. (19) Ma come, chi non rimarrebbe convinto da quel che che sto dicendo di fronte a cotanta coerenza, armonia e stretta compaginazione delle cose49? Potrebbe la terra fiorire in un determinato momento e poi in un altro diventare orrida di brine? Oppure, da tanti nume­ rosi mutamenti si potrebbero riconoscere l'avvicinamen­ to e l'allontanamento del sole durante i solstizi estivi e invernali? Oppure, potrebbero le maree o gli stretti del mare essere influenzati dal sorgere e dal declinare della

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luna50? Oppure, potrebbero i differenti corsi delle stelle essere mantenuti da una unica rivoluzione del cielo inte­ ro? In tal modo questi fenomeni non potrebbero davvero accadere con l'accordo reciproco di tutte le parti del mon­ do, se non fossero governati da un ininterrotto spirito divino51. (20) E quando si discute di argomenti del genere più diffusamente e ampiamente, cosa che io ho intenzione di fare, ci si sottrae con maggior facilità alle sofisticherie degli Accademici; quando però l'argomentazione è con­ dotta con brevità e concisione, alla maniera di Zenone52, allora ricevere un rimprovero è più facile. Infatti, come l'acqua corrente di un fiume difficilmente si inquina o non si inquina in alcun modo, e al contrario quella chiu­ sa si inquina con facilità, così in un fiume di parole i bia­ simi53 di chi critica vanno a dissiparsi, mentre la brevità di un discorso stringato si difende con maggiore difficol­ tà. Tali argomentazioni, che da Zenone erano compresse, da noi vengono ampliate. 8. (21) "Ciò che ha una ragione è migliore di ciò che non la ha; ma nulla è migliore del mondo; allora il mon­ do è dotato di ragione"54• Parimenti è possibile appro­ dare alla conclusione che il mondo è sapiente, beato ed eterno; infatti tutto ciò che è dotato di queste caratteristi­ che è nettamente superiore a ciò che non ne ha, e nulla è superiore al mondo. Ne deriva che il mondo è dio. (22) E sempre Zenone asserisce in questo modo: "Non può esistere una parte sensibile in un essere che è privo di sensibilità; ma le parti del mondo sono sensibili; allora il mondo non è privo di sensibilità"55. E continua anco­ ra, incalzando più concisamente: "Niente - dice - che sia privo di anima e di ragione può generare da sé un essere vivente provvisto di ragione; ma il mondo genera esseri viventi provvisti di ragione; allora il mondo è animato ed è provvisto di ragione"56. Arriva a concludere il ragio-

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namento in questo modo servendosi, come di suo soli­ to, di una similitudine: "Se da un olivo nascessero flauti dall'armonioso suono, per caso dubiteresti che nell'olivo vi sia una certa conoscenza dell'arte del suonare il flau­ to? Oppure, se i platani generassero piccoli strumenti a corda che suonano ritmicamente? Analogamente riter­ resti senza nutrire alcun dubbio che i platani hanno la conoscenza della musica. Perché allora il mondo non dovrebbe essere considerato animato e sapiente, dal mo­ mento che produce esseri animati e sapienti?". 9. (23) Ma siccome ho iniziato ad argomentare diffe­ rentemente da come avevo detto all'inizio (avevo soste­ nuto infatti che questa prima parte non ha bisogno di esposizione, visto che l'esistenza degli dèi è cosa ben chiara a tutti), tuttavia voglio rafforzare proprio questo punto apportando dei ragionamenti di tipo scientifico, cioè naturalistico. La cosa sta in questo modo: tutto ciò che è alimentato e cresce, ha in sé una forza di calore senza la quale non avrebbe possibilità di alimentarsi né di crescere. In verità, tutto ciò che è caldo e ha in sé il fuoco è messo in movimento da un moto proprio; ma ciò che si nutre e cresce possiede un moto definito e co­ stante; la sensibilità e la vita perdurano fintanto che esso permane in noi, ma una volta che il calore si è raffred­ dato e si è estinto, noi periamo e ci estinguiamo. (24) E per di più Cleante, mediante questi argomenti, dimostra quanta forza di calore vi sia all'interno di ogni corpo. Egli57 nega l'esistenza di un cibo talmente pesante che non venga assimilato nell'arco di una notte e di un gior­ no, i cui resti, che la natura porta a espellere, possiedo­ no altresì del calore. Del resto le vene e le arterie58 non smettono di pulsare con un movimento comparabile a quello del fuoco, e più volte si è potuta constatare, al mo­ mento dell'estrazione del cuore di un essere vivente, la presenza di una palpitazione così rapida da uguagliare

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la velocità del fuoco. Dunque tutto ciò che vive, animale o vegetale che sia, vive per il calore che ha dentro di sé. Da ciò si capisce che questo calore possiede una forza vitale59 che si diffonde per tutto il mondo. (25) Potremmo comprendere più facilmente la que­ stione dopo aver esposto con maggior precisione la na­ tura di questo elemento igneo che penetra tutte le cose. Dunque, tutte le parti del mondo - tuttavia farò riferi­ mento alle più importanti - si reggono, sostenendosi re­ ciprocamente, sul calore. Questo è dimostrabile innanzi­ tutto nella natura della terra. Vediamo scaturire il fuoco dallo sfregamento e dall'attrito di pietre, la terra scavata di recente emettere vapore60, e anche l'acqua calda essere tirata da pozzi inesauribili; cosa che accade per lo più in inverno, dal momento che nelle cavità terrene si trova una grande quantità di calore e durante la stagione in­ vernale la terra stessa è più densa e per questo tiene più serrato il calore insito nel terreno. 10. (26) Lungo è il discorso e molti sono i ragionamen­ ti mediante i quali è possibile dimostrare che tutti i semi che la terra accoglie, e tutte le piante che essa genera61 e mantiene salde al terreno con le radici, nascono e si svi­ luppano grazie a questo equilibrio di calore. La stessa li­ quidità e fluidità dell'acqua rivelano innanzitutto che in essa è presente il calore: l'acqua non si ghiaccerebbe per il freddo né si condenserebbe in neve e brina se non si diffondesse liquida e sciolta per il calore. E così il liquido si indurisce quando sopraggiungono i venti nordici e gli altri freddi, e inversamente si scioglie e si liquefà quan­ do si riscalda per il calore. Anche i mari, quando sono agitati dai venti, si intiepidiscono a un punto tale che è possibile comprendere facilmente che in tanta quantità di liquidi è compreso il calore; non dobbiamo pensare che quel tepore sia esterno e casuale, ma piuttosto che sia scaturito dalle parti più profonde del mare grazie al

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movimento: questo capita anche ai nostri corpi quando si surriscaldano per il moto e l'esercizio. La stessa aria, poi, che per natura è assai fredda, non è assolutamente priva di calore. (27) Anzi, in verità ne contiene in grande quantità. Essa nasce dall'evaporazione dell'acqua, ed è da considerarsi come una specie di vapore acqueo scatu­ rito dal movimento del calore presente nell'acqua: pos­ siamo ricavare un termine di paragone con l'acqua che entra in ebollizione a causa del fuoco postovi sotto. Ora passiamo al quarto elemento del mondo, che per la sua natura è rovente e distribuisce a tutte le altre nature un calore salutare e vitale. (28) Ne deriva che, siccome tutti gli elementi del mondo si sostengono sul calore, pure il mondo stesso è preservato per un tempo così lungo da un elemento simile ed equivalente, e tanto più perché il caldo e il fuoco devono essere intesi come diffusi in tutta la natura così che in esso è contenuta la forza generatrice e la causa creatrice, ed è necessario che per suo effetto nascano e crescano tutti gli esseri viventi e le creature che hanno le radici fissate in terra. 11. (29) Esiste, dunque, una natura che abbraccia tutto il mondo e lo custodisce, ed essa non è senza sensibilità e ragione62• Risulta necessario infatti che ogni elemen­ to che non sia isolato e semplice, ma unito e connesso a un altro, abbia dentro di sé un principio predominante, come la mente per l'uomo e una specie di essa per le be­ stie, dalla quale poi derivano le inclinazioni dell'animo. Per quanto riguarda invece gli alberi e i frutti della terra, si crede che questo elemento predominante sia collocato nelle radici. Per elemento predominante intendo quello che i Greci chiamano hegemonikòn 63, a cui in ogni essere dello stesso tipo nulla può e deve essere superiore. E così l'elemento in cui si trova l'elemento predominante di tut­ ta la natura deve necessariamente essere il migliore di tutti e il più degno di avere il potere e il dominio su tutte

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le cose. (30) Inoltre vediamo che nelle parti del mondo (in tutto il mondo non c'è nulla che non sia parte del tut­ to) vi sono sensibilità e ragione. Dunque in quella parte dove ha sede il principio predominante devono necessa­ riamente esserci queste caratteristiche, e di certo in for­ ma più acuta ed eccelsa. Di conseguenza il mondo deve essere sapiente, e la natura che abbraccia e mantiene tut­ te le cose deve eccellere per perfezione della ragione, e quindi il mondo deve essere dio e tutta la sua essenza consiste nella natura divina. Così anche quel calore ardente del mondo è più puro, più splendente, più mobile, e proprio per questo più atto a impressionare i sensi rispetto a questo nostro calore che permette la conservazione e il mantenimento di tutto ciò che ci è noto. (31) Quindi è assurdo dire che, mentre gli uomini e le bestie sono alimentati da questo calore e grazie a esso si muovono e percepiscono le sensazioni, il mondo sia privo di sensibilità; un mondo che è con­ servato da un ardore integro, libero, puro, intensissimo e mobililissimo, tanto più siccome tale ardore, caratteri­ stica propria del mondo, non si muove perché agitato da una forza differente o da un impulso estrinseco, ma di per se stesso e di sua spontanea volontà64• Infatti che cosa può esistere di più energico del mondo che sia in grado di spingere e muovere quel calore da cui il mondo stesso è sostenuto? 12. (32) Prestiamo attenzione a Platone65, quasi il dio dei filosofi, secondo cui esistono due movimenti, uno in­ terno e l'altro esterno; costui sostiene che ciò che si muo­ ve di sua volontà e di per se stesso è più divino di ciò che è messo in movimento da uno stimolo che sopraggiunge dall'esterno. Questo moto è applicato da lui alle anime soltanto, dalle quali - crede - il movimento trarrebbe la sua origine. Dunque, visto che tutti i movimenti sono ge­ nerati dal calore del mondo, ma questo ardore si muove

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spontaneamente e non grazie a un altro impulso, è ne­ cessario che questo sia l'anima; ne deriva che il mondo è animato. Anche dal fatto che il mondo è superiore a qualun­ que altro essere si potrà dedurre che in esso sia insita una qualche forma di intelligenza. Infatti come non vi è parte del nostro corpo che non abbia un valore mino­ re di quanto ne abbiamo noi stessi, così tutto l'universo deve per necessità avere un valore maggiore rispetto a una parte dell'universo. Se le cose stanno così, il mondo è per necessità sapiente; e se non lo fosse, l'uomo, che è parte del mondo, siccome è partecipe della ragione do­ vrebbe avere un valore maggiore rispetto al mondo nella sua interezza. (33) E se poi vogliamo procedere per gradi iniziando dai primi esseri, quelli appena abbozzati, per arrivare agli ultimi, compiuti, per necessità perveniamo alla natura de­ gli dèi66• Vediamo che i primi che la natura nutre sono i frutti della terra, ai quali non attribuì niente di più se non la sua protezione, loro impartita mediante l'alimentazio­ ne e la crescita. (34) In un secondo momento diede alle bestie la sensibilità, la possibilità di muoversi, l'istinto di attrazione verso ciò che è salutare e l'istinto di avversione verso ciò che causa rovina. All'uomo poi diede ancora di più, poiché aggiunse la ragione: da essa vengono regolate le inclinazioni dell'anima, ora cedendovi ora frenandole. 13. Il quarto grado67, quello più alto di tutti, è occupato da­ gli esseri nati buoni e sapienti per natura; costoro fin dal principio possiedono innata una ragione, retta e coerente da considerare sovrumana e da attribuire a dio, ovvero al mondo, che necessariamente deve avere quella ragione perfetta e assoluta. (35) Né è possibile sostenere che in ogni complesso non vi sia un qualche termine estremo compiu­ to alla perfezione. Come accade nel caso di una vite o del bestiame, se non fa opposizione nessuna forza, possiamo

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vedere che la natura giunge al pieno compimento attra­ verso un proprio processo, e come la pittura, l'architettura e le altre tecniche giungono alla realizzazione di un'ope­ ra perfetta, così, a maggior ragione, nell'intero complesso della natura deve esistere qualcosa che sia suscettibile di completamento e perfezione totali. Infatti a tutti gli altri esseri si possono opporre svariati ostacoli esterni per il raggiungimento del pieno sviluppo, ma nulla può costi­ tuire un impedimento per tutta la natura poiché è essa ad abbracciare e contenere tutte le altre. Di conseguenza è necessaria l'esistenza di quel quarto grado più elevat� rispetto agli altri cui nessuna forza può pervenire. (36) E qui che si trova la natura di tutte le cose; e poiché essa è tale che a tutto presiede e nulla le può impedire il corso, il mondo è necessariamente intelligente e di certo anche sapiente. D'altra parte che cosa c'è di più sciocco che negare la superiorità di quella natura che abbraccia tutte le cose, oppure, vista la sua superiorità, dire che innanzitutto è priva di anima e poi che non possiede ragione, senno e infine che non è sapiente? Come altrimenti potrebbe essere migliore? Se fosse simile alle piante, o anche alle bestie, non andrebbe ritenuta migliore quanto piuttosto peggiore. Al contrario, se possedesse la ragione ma non fosse sapiente da principio, la condizione del mondo sa­ rebbe peggiore rispetto a quella umana; questo perché l'uomo può diventare saggio, mentre il mondo, se nell'e­ ternità del tempo passato fu sempre privo di sapienza, senz'altro non la conseguirà mai: così sarà peggiore dell'uomo. Ma dato che questo è assurdo, il mondo deve essere ritenuto fin dall'inizio sapiente e divino. (37) E non vi è nient'altro, eccetto il mondo, al quale manchi nulla e che sotto ogni aspetto sia unito, perfetto e completo in tutte le sue parti costitutive. 14. Con elegan­ za Crisippo68 osserva che, come l'involucro esiste per lo

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scudo e la fodera per la spada, così tutto il resto, tranne il mondo, è creato allo scopo di qualcos'altro. Per fare un esempio: le messi e i frutti della terra sono stati generati per gli animali, gli animali per l'uomo, il cavallo per il trasporto, il bue per arare, il cane per la caccia e la custo­ dia; al contrario l'uomo nacque per contemplare e imitare il mondo69: non è assolutamente perfetto, ma è un piccolo frammento della perfezione. (38) Ma il mondo, siccome abbraccia tutto e non vi è nulla che in esso non si trovi, è perfetto sotto ogni aspetto; come può essere privo di ciò che è migliore? Ma non vi è niente di meglio della mente e della ragione; quindi il mondo non può esserne privo. Dunque ha ragione Crisippo7° che, servendosi dell'analo­ gia, dimostra che tutto è migliore in ciò che è compiuto e pienamente sviluppato: come nel cavallo piuttosto che nel puledro, nel cane piuttosto che nel cucciolo, nell'uo­ mo piuttosto che nel bambino. In modo analogo ciò che è migliore in tutto il mondo deve esistere in un essere perfetto e compiuto; (39) ma non c'è nulla più perfetto del mondo, nulla più perfetto della virtù: dunque la virtù è propria del mondo. Però la natura dell'uomo non è per­ fetta, e tuttavia la virtù si realizza in esso; quindi quanto più facilmente nel mondo; dunque in esso c'è la virtù. Di conseguenza il mondo è sapiente e di conseguenza divino. 15. E una volta che è stata riconosciuta questa natu­ ra divina del mondo, dobbiamo attribuire la medesima natura divina alle stelle, che, nate dalla parte più mobile e pura dell'etere, non sono mescolate a nessun'altra na­ tura e sono sì calde e splendenti che molto giustamente si sostiene che anche esse sono animate e sono dotate di sensazioni e intelligenza. (40) Cleante ritiene fermamen­ te che queste possiedano una natura totalmente ignea, basandosi sulla testimonianza di due sensi, il tatto e la vista. Infatti il calore e la lucentezza del sole sono più

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intensi di qualsivoglia altro fuoco, poiché esso brilla in lungo e in largo nell'immensità del mondo e il suo con­ tatto è tale che non soltanto riscalda ma spesso brucia anche: e di questi due effetti nessuno potrebbe produrne se non fosse di fuoco. "Dunque - dice - poiché il sole è di fuoco ed è nutrito dalle acque dell'Oceano (dato che nes­ sun fuoco può resistere senza alcun alimento), è necessa­ rio che sia simile al fuoco di cui ci serviamo per utilità e per il vitto o a quello che è contenuto all'interno dei corpi degli esseri viventFI. (41) Ora, questo nostro fuoco, che la vita necessita, distrugge e consuma tutte le cose, e in qualunque direzione si diffonde, scompiglia e distrugge tutto; quello corporeo, invece, vitale e salutare, conserva, alimenta, aumenta, sostiene e fornisce di sensibilità ogni essere". Quindi arriva a sostenere che non c'è dubbio in merito a quale di questi due fuochi il sole sia simile, dal momento che esso fa in modo che tutte le cose fioriscano e si sviluppino ciascuna nella propria specie. Per questo motivo, visto che il fuoco del sole è simile a quei fuochi che si trovano nel corpo degli esseri viventi, occorre che anche il sole sia provvisto di anima e così anche le al­ tre stelle che nascono nell'ardore celeste che chiamiamo etere o cielo. (42) Ora, siccome per alcuni esseri viventi la nascita è sulla terra, mentre per altri nell'acqua, e per altri ancora nell'aria, a detta di Aristotele72 è assurdo con­ siderare che nessun essere vivente sia generato in quella parte che è più adatta alla generazione di esseri animati. D'altra parte le stelle occupano la zona dell'etere; poiché questa è sottilissima, sempre in movimento e possiede energia, necessariamente l'essere animato che vi viene generato deve essere dotato di una acutissima sensibilità e di velocissima mobilità. Per questo, dato che nell'etere sono generate le stelle, logicamente in esse sono presen­ ti la sensibilità e l'intelligenza; da questo risulta che gli astri devono essere considerati nel novero delle divinità.

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16. Difatti è possibile notare che quanti abitano le ter­ re in cui l'aria è più pura e sottile possiedono un ingegno più acuto e più adatto a comprendere rispetto a quanti vivono sotto un cielo denso e pesante. (43) E opinione diffusa poi credere che abbiano un valore al fine 9-ell'a­ cutezza della mente anche i cibi che mangiamo73• E pro­ babile quindi che vi sia un'intelligenza superiore nelle stelle, che sono stanziate nella zona eterea del mondo e si alimentano dei liquidi di mare e di terra, assottigliati dalla ingente distanza. L'ordine e la regolarità degli astri rendono massimamente manifesti la loro sensibilità e la loro intelligenza74 (non vi è nulla infatti che possa muo­ versi con ragione e ritmo senza senno); in ciò non c'è nulla di accidentale, variabile e fortuito. Ma l'ordine delle stel­ le e la regolarità per tutta l'eternità non sono un segno né della natura (poiché è piena di ragione) né del caso, che, amico del mutamento, rigetta la regolarità. Ne consegue facilmente, quindi, che esse si muovono di loro propria iniziativa grazie alla loro sensibilità e divinità. (44) Inol­ tre bisogna approvare Aristotele75, secondo cui tutto ciò che si muove, si muove o per natura o per una forza o per volontà; ora, il sole, la luna e tutte le stelle si muovono; ma ciò che si muove per natura cade verso il basso per il peso o sale verso l'alto per la leggerezza, fenomeni che non si verificano affatto nel caso delle stelle, visto che il loro movimento si sviluppa in senso circolare; né è pos­ sibile sostenere che per effetto di una forza maggiore le stelle si muovano contro natura (infatti quale forza più grande può esistere?); rimane solo la possibilità, quindi, che il moto delle stelle avvenga in modo volontario. Chi osserva tutto ciò, non soltanto si comporta da ignorante ma anche da empio se nega l'esistenza degli dèi. Né vi è tutta questa grande differenza tra il negare l'esistenza e privare gli dèi di ogni cura e attività; secondo la mia opinione personale, chi non fa nulla non esiste affatto.

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Dunque che gli dèi esistano è un fatto talmente evidente che chi la nega è da ritenersi ben lungi dall'essere sano di mente. 17. (45) Resta da prendere in considerazione la loro na­ tura76; argomento sul quale niente è più arduo che allon­ tanare l'acutezza della mente da quella che è l'abitudine della percezione degli occhi. Questa difficoltà ha spinto molti profani in massa e quanti tra i filosofi sono simili a essi a non riuscire a figurarsi gli dèi immortali se non sotto forma di uomini; l'inconsistenza di questa teoria, confutata da Cotta, non ha bisogno di un'ulteriore espo­ sizione da parte mia. Ma dal momento che possediamo una nozione innata della divinità, secondo cui dio in­ nanzitutto è animato e poi che in tutta la natura nulla gli è superiore, non vedo quale altra opinione possa sposar­ si con la nostra prenozione e idea se non che questo stes­ so mondo, a cui nulla può essere superiore, è animato e divino. (46) Qui Epicuro faccia pure lo spiritoso fin che vuole, benché non sia un uomo particolarmente portato alla fa­ cezia e in lui non vi sia traccia dello spirito dei suoi con­ cittadinF7, e dica pure di non riuscire a comprendere in che modo dio sia rotondo e in rotazione, ciononostante non mi distoglierà mai da questo punto, che comunque anch'egli approva. Crede nell'esistenza degli dèi, poiché deve esistere per necessità una natura eccezionale alla quale nulla risulta superiore. Di sicuro non c'è niente che sia superiore al mondo; e non vi è dubbio che, poiché è animato e provvisto di sensibilità, di ragione e di men­ te, sia migliore di ciò che invece ne è privo. (47) Così il mondo risulta essere animato, provvisto di sensibilità, mente e ragione: se ne conclude che il mondo è dio. Ma questo sarà più facile comprenderlo tra poco sulla base delle stesse azioni che il mondo compie. 18. In questo, Velleio, per favore, non ostentare la vostra totale man-

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canza di dottrina. Dici che il cono, il cilindro, la pirami­ de ti sembrano più belli della sfera. E anche a proposito della vista avete una strana opinione. Ma facciamo pure che queste figure siano più belle solamente nell'aspetto - cosa che però, secondo me, non è verosimile; cosa c'è di più bello, infatti, di quella figura che da sola abbraccia e comprende tutte le altre, che non può avere nessuna irregolarità di superficie, nessuna sporgenza contro cui si possa urtare, nessuno spigolo, nessuna sinuosità, nes­ suna sporgenza, nessuna rientranza78? E poiché esistono due forme superiori a tutte le altre, fra le figure solide il globo (così mi pare giusto tradurre il greco sphaira), fra quelle piane il circolo o cerchio, in greco kyklos, queste due sole sono caratterizzate dal fatto che ciascuna delle loro parti sono simili tra loro al massimo grado e ogni punto del perimetro è equidistante dal centro e nulla può essere più armonioso -; (48) ma se non vi accorgete di questo, dal momento che non avete mai posto mano a quella polvere erudita79, non avete potuto comprendere, voi fisici, neanche questo punto cardine, vale a dire che questa omogeneità di movimento e disposizione coeren­ te non si sarebbe potuta custodire in nessun'altra figura? Così nulla può essere più incolto di ciò che siete soliti dire. Infatti affermate che non è assolutamente sicuro che il mondo sia rotondo, ma che possa esserci il caso che abbia un'altra forma e che innumerevoli altri mondi abbiano a loro volta altre figure. (49) Di certo Epicuro non si esprimerebbe in questi termini se avesse almeno imparato quanto fa due per due; ma mentre giudicava quale fosse il bene supremo servendosi del metro di giu­ dizio del palato, non rivolse lo sguardo al "palato del cie­ lo"80, come dice Ennio. 19. Ci sono due specie di corpi celesti81: alcuni, muo­ vendosi sempre nella medesima traiettoria da oriente a occidente, non deviano mai la direzione della loro orbita,

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mentre altri compiono due rivoluzioni incessanti nello stesso spazio e nella stessa orbita; da entrambi i casi si deducono la rotazione del mondo, che non sarebbe pos­ sibile se non avesse forma sferica82, e il movimento rota­ torio compiuto dalle stelle. Prendiamo in esame in primo luogo il sole, che tra gli astri è il più importante. Il suo moto è tale che, quando diffonde sulla terra la luce copiosa, ne oscura ora una parte ora un'altra; l'ombra stessa della terra infatti, oppo­ nendosi al sole, produce la notte. Ora, i periodi notturni e quelli diurni sono uniformi dal punto di vista della du­ rata. Inoltre il sole, ora avvicinandosi ora allontanandosi moderatamente, mitiga il livello del freddo e del caldo. Il corso di trecentosessantacinque rivoluzioni solari e all'incirca sei ore, porta a compimento un ciclo annuale83; il sole, piegando il corso ora a nord ora a sud, produce l'estate, l'inverno e le due stagioni che seguono rispetti­ vamente al termine dell'inverno e al termine dell'estate84• Così, dal trascorrere alternato delle quattro stagioni sca­ turiscono gli inizi e le cause di tutto ciò che nasce sulla terra e in mare. (50) Passando alla luna, essa compie in un mese il corso che il sole realizza in un anno; quando è più vicina al sole la sua luce diviene più debole, quando invece è più lontana diviene più forte. E non sono sogget­ ti a mutamento soltanto il suo aspetto e la sua forma, ora aumentando ora diminuendo fino a ritornare allo stato originario, ma anche la zona in cui si trova: quando è a nord o a sud, anche nel suo corso vi sono una specie di solstizi d'inverno e d'estate, e da essa vi sono molte emanazioni e influssi85 che alimentano, fanno crescere e sviluppare gli esseri viventi e permettono ai frutti della terra di maturare. 20. (51) Sono straordinariamente sorprendenti i movi­ menti di quelle cinque stelle che, a torto, sono chiamate erranti86; difatti non è errante ciò che mantiene in ma-

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niera costante e invariabile i movimenti di progressio­ ne, quelli retrogradi e tutti gli altri per tutta l'eternità. E questo fenomeno astrale di cui stiamo parlando è mag­ giormente degno di ammirazione per le stelle, poiché ora si occultano, ora ricompaiono, ora si avvicinano, ora si allontanano, ora precedono, ora seguono, ora si muo­ vono più velocemente, ora più lentamente, ora sono to­ talmente immobili ma per un certo periodo si fermano. Sulla base della differenza che intercorre tra i loro movi­ menti, i matematici hanno stabilito il cosiddetto "gran­ de anno"87, che si ha quando si compie una rivoluzione del sole, della luna e dei cinque pianeti e dopo che tutti hanno portato a termine i loro percorsi e sono ritornati alla medesima e reciproca posizione. (52) Sulla durata di questo periodo molto si discute88, però deve essere per necessità fisso e definito. Infatti89, la stella detta Saturno - in greco Phainon90 -, la più distante dalla terra, percorre la sua orbita in una durata di circa trent'anni e durante il suo corso compie molti ammirevoli fenomeni, ora acce­ lerando, ora rallentando, ora celandosi durante la notte, ora riapparendo al mattino; nulla muta nel trascorrere eterno dei secoli, ma compie gli stessi movimenti negli stessi tempi. Sotto questa, più vicina alla terra, si muo­ ve la stella di Giove, in greco Phaéthon91: in dodici anni percorre la medesima orbita di dodici segni, compien­ do durante il suo corso le stesse varietà di movimenti della stella di Saturno. (53) L'orbita inferiore e più vicina a questa è occupata dalla cosiddetta stella di Marte, in greco Pyr6eis92, che in ventiquattro mesi meno sei gior­ ni (come penso) percorre la medesima orbita delle due precedenti. Sotto questa vi è la stella di Mercurio, in gre­ co Stilbon93, che all'incirca nel giro di un anno percorre l'orbita delle stelle e non si separa mai dal sole per più di una costellazione, ora superandolo, ora tenendogli die­ tro. Il più basso dei cinque pianeti e più vicino alla terra

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è la stella di Venere, che in greco è detta Phosph6ros94; in latino è chiamata Lucifero quando precede il sole, Ve­ spero, in greco Hésperos95, quando lo segue; essa compie il suo corso in un anno attraversando l'orbita dello zo­ diaco nella larghezza e, cosa che fanno anche le altre, in lunghezza; non si allontana mai dal sole per più di due costellazioni, ora precedendolo, ora seguendolo. 21. (54) Non riesco a comprendere come senza una mente, una ragione, un disegno possano realizzarsi nelle stelle que­ sta costanza e questa armonia sì eccellente in orbite tanto diverse durante tutta l'eternità. E accorgendoci della pre­ senza nelle stelle di queste caratteristiche, non possiamo non inserirle nel novero degli dèi. Invero non è che le stelle cosiddette fisse96 non siano contraddistinte dalla presenza della medesima mente e saggezza. La loro rivoluzione avviene in un giorno, è ar­ monica e regolare, e non percorrono orbite celesti né sono fissate al cielo, come sostengono molti fisici ignoranti; in­ fatti non si confà alla natura dell'etere abbracciare e de­ viare le stelle con la sua forza, poiché l'etere, che è sottile, rilucente, pervaso di calore uniforme, non sembra essere sufficientemente idoneo a contenere le stelle. (55) Le stelle fisse possiedono dunque una loro sfera, libera e indipen­ dente dai vincoli dell'etere. Le loro orbite perenni mostra­ no, mediante la loro meravigliosa e straordinaria regolari­ tà, che in esse vi è una forza e una mente di natura divina, tale da far apparire totalmente privo di capacità di giudi­ zio chi non avverte che in esse vi è una natura divina. (56) Quindi in cielo non vi è né il caso fortuito né l'im­ previsto né l'incostanza, bensì al contrario totale ordi­ ne, verità, ragione, invariabilità, e ciò che è privo di tutte queste caratteristiche, ingannevole, falso e ricolmo d'er­ rore è collocato vicino alla terra al di sotto della luna, che è la più bassa di tutte, e sulla terra97• Perciò va considera­ to sprovvisto di ragione chi ritiene privi di mente l'am-

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mirevole ordine e l'incredibile regolarità del cielo, dalla quale hanno origine la conservazione e il benessere di tutte le cose. (57) Penso di non errare, dunque, se darò il via a que­ sta disputa partendo da colui che è maestro nell'indaga­ re la verità. 22. Zenone parla della natura definendola "fuoco artistico che sistematicamente avanza verso la ge­ nerazione"98. Crede che la funzione principale dell'arte stia nel creare e nel generare, e che quello che nelle opere delle arti umane viene creato dalla mano sia realizzato molto più artisticamente dalla natura, cioè, come dissi, dal fuoco artistico, guida di tutte le altre arti. E stando a questa dottrina99, tutta la natura è esperta nell'arte, poiché possiede una specie di regola e dei principi da seguire. (58) Per quanto attiene alla natura dello stesso mondo, che tutto contiene e racchiude nel suo abbraccio, secondo Zenone non è solamente abile nell'arte ma real­ mente artista, in quanto si preoccupa e provvede a tutte le necessità e comodità. E come tutte le altre nature na­ scono, crescono e si conservano ciascuna grazie ai propri semi, in questo modo la natura intera del mondo ha moti volontari, impulsi e inclinazioni, che i Greci chiamano hormai, e in accordo con essi compie delle azioni, come pure noi che siamo mossi da anima e sensi. Dunque, sic­ come la mente del mondo è tale e per questo è possibi­ le chiamarla correttamente saggezza o provvidenza (in greco difatti è detta pr6noia)100, principalmente provvede a questo e massimamente è occupata in queste attività: innanzitutto far sì che il mondo sia il più idoneo possi­ bile a perdurare, poi che non sia privo di nulla, e infine che in esso sia presente una forma suprema di bellezza e ogni ornamento. 23. (59) Si è parlato del mondo nella sua interezza, e si è parlato anche delle stelle, sicché appare piuttosto chia­ ra una moltitudine di dèi che assolutamente non se ne

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stanno in ozio, ma che nemmeno compiono azioni con pesante e fastidiosa fatica. Costoro infatti non sono com­ posti di vene, nervi e ossa, né ingeriscono cibi e bevande tali da produrre liquidi o troppo acri o troppo densi, né possiedono un corpo tale che debbano spaventarsi per degli infortuni o degli urti o temano le malattie dovu­ te alla stanchezza delle membra; tutte paure, queste, che spinsero Epicuro a figurarsi gli dèi come dei bozzettP01 e inattivi. (60) Quelli invece, forniti di una splendida im­ magine, collocati nella regione più pura del cielo, si spo­ stano e regolano il loro corso in modo tale che sembrino essere d'accordo al fine di conservare e proteggere tutte le cose. Molti altri esseri divini, poi, non senza un motivo, sono stati costituiti e indicati con un nome da parte dei più sapienti uomini della Grecia e dai nostri antenati, in seguito ai grandi benefici che ne derivano. Era opinio­ ne diffusa che qualsiasi cosa accordasse grande utilità all'uomo, non potesse accadere senza una qualche bontà divina nei riguardi degli uomini. E così, talora chiamava­ no con il nome dello stesso dio ciò che proveniva da lui, come quando designamo con il nome Cerere le messi op­ pure con il nome Libero il vino, motivo dal quale deriva quel celebre verso di Terenzio: "Senza Cerere e senza Li­ bero, Venere si raffredda"102; (61) talaltra invece è la cosa stessa in cui è situata una forza particolarmente eccelsa ad essere denominata con il nome di una divinità, come per esempio Fede103 e Mente104, a cui Marco Emilio Scau­ ro105 ha dedicato non molto tempo fa i templi sul Campi­ doglio; però già in precedenza Fede era stata consacrata da Atilio Calatino106. Abbiamo davanti ai nostri occhi il tempio della Virtù e il tempio dell'Onore, restau­ rato da Marco Marcellol07, ma già consacrato molti anni prima da Quinto Massimo al tempo della guerra contro i Liguri. E che fare con quelli di OpP08, della Salute109, della

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Concordia110, della Libertà111, della Vittoria112? Siccome la forza di tutte queste entità era tanto grande che non po­ teva essere dominata se non da dio, le stesse ottennero la designazione di divinità. Secondo questo metodo venne­ ro consacrati i nomi di Cupido113, di Voluttà114, di Vene­ re Libentina115, certo vizi contro natura (sebbene Velleio la pensi diversamente), ma che tuttavia spesso causano un energico eccitamento. (62) Dunque per l'importanza delle utilità furono considerati dèi quelli che produce­ vano i singoli vantaggi e mediante i nomi che abbiamo menzionato poco fa venivano indicate le forze collocate in ciascun dio. 24. La vita umana e la consuetudine comune poi si as­ sunsero il compito di innalzare al cielo, per fama e grati­ tudine nei loro confronti, gli uomini che si distinsero per essere stati benefattori. Così si ebbero116 Ercole, Castore e Polluce, Esculapio e anche Libero (faccio riferimento al figlio di Semele117, non a quello che i nostri antenati, in modo sacro e religioso, consacrarono con Cerere e Libe­ ra118, fatto che si può comprendere dai culti misterici; ma dato che chiamiamo i nostri figli adoperando il termine liberi119, i figli di Cerere vennero chiamati Libero e Libe­ ra, vocabolo che si mantiene nel caso di Libera ma non in quello di Libero), nonché Romolo, che certuni identificano con Quirino. Dal momento che la loro anima continuava a sopravvivere e a fruire dell'eternità, furono considerati a dovere degli dèi visto che erano ottimi ed eterni. (63) Anche da un altro procedimento, però di stam­ po fisico, derivò una grande moltitudine di divinità, che, con indosso l'abito dell'aspetto umano, diedero ai poeti del materiale leggendario, e riempirono la vita degli uo­ mini di superstizioni di ogni genere. Questo punto ven­ ne trattato da Zenone120 e poi esposto più diffusamente da Cleante121 e Crisippd22• In Grecia si diffuse questa credenza, cioè che Cielo fu mutilato dal figlio Saturno, il

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quale fu poi incatenato da Giove, suo figlid23; (64) una te­ oria fisica non senza eleganza si cela in queste favole em­ pie. Si è pensato infatti che la natura celeste, altissima ed eterea, ossia ignea, che di per sé genera tutte le cose, fos­ se priva di quella parte del corpo che per la procreazione ha bisogno di essere congiunta con un'altra. 25. Si volle ritenere poi che Saturno fosse colui che regola il corso e la ciclicità del tempo. Questo dio in greco ha proprio questo nome: Kr6nos, equivalente di chr6nos, cioè periodo di tempd24• In seguito venne chiamato Saturno perché "si sazia"125 di anni; si immagina invero che avesse l'abi­ tudine di cibarsi dei propri figli, in quanto il tempo divo­ ra i periodi di tempo e insaziabilmente si riempie degli anni trascorsi. Poi fu incatenato da Giove affinché il suo corso non fosse senza limiti e fosse trattenuto dal vincolo delle stelle. Ma lo stesso Iuppiter, vale a dire "il padre che giova"126, termine che nei casi obliqui della flessione no­ minale è detto Giove a partire dal verbo iuvare, dai poeti "padre degli dei e degli uomini"127, e dai nostri antenati "Ottimo Massimo'� ponendo il termine "Ottimo", ossia molto benefico, prima di "Massimo'� poiché è più impor­ tante e sicuramente più gradita l'azione del giovare a tut­ ti rispetto a quella del possedere enormi ricchezze. (65) Dunque Ennio, come ho già avuto modo di dire sopra, lo appella così: "Guarda questo sublime splendore che tutti chiamano Giove"128, con maggiore chiarezza rispetto a un altro luogo in cui recita: "Per quanto mi attiene, lo maledirò questo astro che brilla, qualunque esso sia"129• Fanno il suo nome anche i nostri àuguri quando dico­ no "per Giove fulminante tuonante"; l'espressione vale infatti "per il cielo fulminante tuonante". Così Euripide, tra i tanti passi eccellenti, si pronuncia con brevità: "Tu vedi in alto l'etere diffuso e immenso, che circonda la terra stringendola nel suo tenero abbraccio: considera lui il sommo dio, chiamalo Giove"130•

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26. (66) Inoltre, l'aria interposta tra il mare e il cielo è consacrata col nome di Giunone, sorella e sposa di Giove, poiché somiglia all'etere e con esso è strettamente con­ giunta131. Tuttavia resero femminile il termine "etere" e lo riferirono a Giunone perché non vi è nulla di più delicato. Credo però che Giunone si chiami così per il verbo iuva­ re132. Rimanevano fuori l'acqua e la terra affinché i tre re­ gni fossero suddivisi secondo la leggenda133. Dunque uno fu chiamato Nettuno, che considerano fratello di Giove, regno dei mari nella sua globalità, e il suo nome, con un piccolo cambiamento nelle prime lettere, è derivato dal verbo nare134, proprio come quello di Portuno che provie­ ne da portus135• Per quanto riguarda tutta la quantità e la natura terrena, esse furono consacrate al padre Dite, che significa "ricco"136, così come Plouton in lingua greca, poi­ ché tutto torna alla terra e da essa nasce. Sua t137 Proser­ pina (nome che è tratto dal greco: essa corrisponde infat­ ti a quella che dai Greci è detta Perseph6ne) è opinione comune ritenerla seme delle messi e immaginare che sia stata nascosta e che la madre sia andata in cerca di lei138• (67) La madre si chiama Cerere, come se da gerere, per il fatto che produce le messi, e casualmente la prima lette­ ra ha subito un mutamento, cosa che accade anche nella lingua greca, dove è chiamata Deméter come se fosse da g€ méter139. Quanto a Mavorte, fu chiamato così da magna vertere140, mentre Minerva da minuere o minare141. 27. E dal momento che in tutte le cose ciò che ha maggiore impor­ tanza sono il principio e la fine, si volle che Giano fosse il primo nei sacrifici, poiché il nome è ricavato dal ver­ bo ire142, dal quale deriva la denominazione dei passaggi aperti, che noi chiamiamo iani, e le porte collocate sulle soglie degli edifici non adibiti alla sacralità, dette ianuae. Il nome di Vesta deriva dal greco (infatti è chiamata He­ stia)143; le pertiene un potere sugli altari e sui focolari, e così, dato che è la custode dell'intimità, tutte le preghiere e -

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i sacrifici terminano con lei. (68) E non sono tanto lontani da questo potere gli dèi Penati, sia che il loro nome derivi da penus (ossia tutto ciò di cui gli uomini si cibano), sia dal fatto che risiedono penitus, termine a partire dal quale i poeti li chiamano penetrales144• Quanto ad Apollo, il suo nome è greco: si pensa che egli sia il sole145; Diana invece è comunemente identificata con la luna146• Il sole derivò il nome o dal fatto che, solus tra tutte le stelle, è di enorme grandezza, o perché, quando è sorto, appare solus men­ tre tutte le altre stelle sono oscurate; al contrario, la luna deriva il nome da lucere; essa è identificata con Lucina147, e così, come in Grecia si invoca Diana Lucifera durante i parti delle donne, noi invochiamo Giunone Lucina. Sem­ pre Diana è detta "Onnivagante" non da venari, ma per­ ché va considerata una delle sette stelle vagantP48; (69) fu chiamata Diana in quanto durante la notte produce una luce di intensità simile a quella diurna. Viene invocata du­ rante i parti perché essi si portano a compimento o in sette o, nella maggior parte dei casi, in nove rivoluzioni lunari, denominate mesi perché corrispondono al compimento di un determinato lasso di tempo. Con l'eleganza che il più delle volte lo caratterizza, Timeo149 racconta un anedotto: dopo aver fornito nella sua storia la notizia che Alessan­ dro nacque nella stessa notte in cui prese fuoco il tempio di Diana Efesia150, aggiunge che questo non è un fatto così strano, poiché Diana aveva voluto essere presente durante il parto di Olimpiade e quindi era lontana da casa. I nostri chiamarono la dea che viene da tutte le cose Venere151, e da essa deriva il vocabolo venustas piuttosto che il contrario. 28. (70) Vi accorgete dunque come da fenomeni natu­ rali, felicemente e utilmente scoperti, il ragionamento sia approdato a dèi immaginari e fittizi? Ciò ha creato delle false credenze e degli errori che generano confusione e superstizioni quasi da vecchietta. Degli dèi ci sono noti l'aspetto152, l'età, le vesti, l'ornamento, e poi la discendenza,

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i matrimoni, le parentele, e tutto ciò è stato trasferito sul piano della fragilità umana. E sono rappresentati anche con l'animo turbato dalle passioni. Conosciamo infatti i loro desideri, i loro affanni, le loro ire; né son privi, come ci raccontano i miti, di guerre e battaglie, e non solo, come ci racconta Omero153, quando difendevano i due eserciti, alcuni schierati da una parte e altri dalla parte opposta, ma anche intrapresero delle loro guerre contro i TitanP54 e contro i GigantP55• Queste storie vengono narrate e pre­ se per vere con grande stoltezza e sono piene di vanità e della più grande inconsistenza. (71) Purtuttavia, una volta disprezzati e rigettati tali miti, sarà possibile comprendere chi siano, che caratteristiche abbiano e il nome tradizio­ nale degli dèi che compenetrano la natura di tutte le cose: Cerere la terra, Nettuno i mari, altre divinità altri elemen­ ti. Questi sono gli dèi che dobbiamo adorare e venerare. Ma il loro culto è ottimo e allo stesso tempo il più pio, sacro e ricco di devozione156, quando noi li onoriamo con mente e parole pure, oneste e incorrotte. Infatti non solo i filosofi ma anche i nostri antenati distinsero la super­ stizione dalla religione. (72) Coloro che pregavano tutti i giorni e immolavano vittime affinché i loro figli soprav­ vivessero, vennero chiamati superstiziosi, termine che poi si aprì a più significati; quanti invece riprendevano in mano con cura e, per così dire, rievocavano tutto ciò che pertiene al culto degli dèi, furono detti religiosi sulla base di relegere157, come elegante deriva da eligere158, diligente da diligere159, intelligente da intelligere160; in tutti questi vocabo­ li infatti vi è la stessa efficacia semantica del verbo eligere che troviamo in religioso. Così successe che superstizioso e religioso andarono a designare uno un difetto, l'altro un pregio. Mi pare di aver dimostrato a sufficienza l'esistenza degli dèi e la loro natura. 29. (73) Il prossimo punto della dimostrazione vuole provare che il mondo è retto dalla provvidenza divina.

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Questo è un argomento importantissimo e molto discus­ so dai vostri, Cotta; e non ci sono dubbi che tutta la no­ stra contesa sia contro di voi. Non avete assolutamente chiaro, Velleio, come sia sostenuta ogni teoria, dato che leggete e amate soltanto i prodotti della vostra scuola e condannate gli altri senza neanche conoscerli. Facciamo un esempio: ieri tu hai detto che gli Stoici immaginano Pronoea, vale a dire la Provvidenza, nelle vesti di una vecchia profetica161; però hai commesso un errore, per­ ché ritieni che secondo loro la provvidenza sia una de? unica che regge e tiene le redini del mondo intero. (74) E una frase sommaria. Ad esempio, se uno dice che lo stato di Atene è guidato dal consiglio, manca quel "dell'A reo­ pago"162, così, quando noi diciamo che il mondo è retto dalla provvidenza, devi pensare che manca (perché è sot­ tinteso) "degli dèi" e considerare che l'asserzione intera e completa suona in questo modo: "Il mondo è governato dalla provvidenza degli dèi". Non consumate il vostro spirito, di cui la vostra genia è priva, prendendovi gio­ co di noi, e, per Ercole, se mi date ascolto, non provate­ ci nemmeno; non è cosa vostra, non vi è concesso, non ci riuscite. E in verità questo non si confà a te, che sei stato reso raffinato dagli usi della tua famiglia e dalla cortesia della nostra stirpe, ma agli altri membri della vostra scuola e soprattutto a colui che l'ha fondata, un uomo senza abilità scientifica, senza cultura, che insulta­ va tutti, senza alcuna forma di acutezza, autorità e senso dell'umorismd63. 30. (75) Dunque io dico che il mondo e tutte le sue parti sono state predisposti all'inizio e che sempre sono regolati dalla divina provvidenza. E solitamente que­ sta disputa viene articolata da noi in tre parti. Il primo punto deriva dal ragionamento che porta a dimostrare l'esistenza degli dèi; una volta concesso questo, bisogna ammettere che il mondo è governato da un disegno divi-

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no. Il secondo punto prova che tutte le cose sono piegate a una natura sensibile che le governa nella maniera mi­ gliore; ammesso ciò, ne consegue che essa è stata genera­ ta da princìpi animati. Il terzo punto si deduce dal senso di ammirazione per gli esseri celesti e terrestri. (76) Allora, innanzitutto, o bisogna negare l'esistenza degli dèi, come fanno in qualche modo Democrito, che li rappresenta sotto forma di simulacri, e Epicuro, che li figura come delle immaginP64, oppure, se ammettia­ mo che esistono, si deve riconoscere che sono in qualche modo attivi e che la loro attività sia eccelsa; tuttavia nulla è più eccelso del governare il mondo; quindi il mondo è regolato da un disegno divino. Altrimenti, senza dubbio deve necessariamente esistere qualcosa di migliore e più forte di dio, qualunque esso sia, o una natura inanimata o una necessità animata da una grande forza che produ­ ce queste opere splendide che abbiamo davanti ai nostri occhi. (77) Quindi la natura degli dèi non è onnipotente e superiore, se è soggetta a quella necessità o alla natura che regge il cielo, i mari e le terre. Nulla però è superiore a dio; dunque è necessario che il mondo sia retto da dio; dunque dio non si piega e non è soggetto a nessuna na­ tura; ne consegue che dio governa tutta la natura. Infatti se ammettiamo che gli dèi sono dotati di intelligenza, ammettiamo anche che siano provvisti di provvidenza e che essa sia presente in tutte le cose più grandi. Quin­ di ignorano quali siano le cose più importanti e in che modo esse debbano essere amministrate e preservate, o non hanno capacità sufficienti per sostenere e ammini­ strare affari così importanti? Però l'ignoranza esula dalla natura degli dèi, e la difficoltà di adempiere alla propria funzione a causa della debolezza minimamente si adat­ ta alla maestà degli dèi. Ne consegue ciò che vogliamo dimostrare: il mondo è retto dalla divina provvidenza. 31. (78) Ebbene, siccome gli dèi esistono (ammettendo

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che esistano, cosa che è fuor di dubbio), devono neces­ sariamente essere animati, e non solo, ma anche prov­ visti di ragione e uniti fra loro in una sorta di associa­ zione e società, e governare un unico mondo come uno stato e una città comuni. (79) Ne consegue che gli dèi possiedono la medesima ragione165 degli uomini, e che in entrambi si trovano la stessa verità e la stessa legge che comanda la rettitudine e scaccia la depravazione. Da ciò si può comprendere che pure la saggezza e la mente sono giunte agli uomini dagli dèi (per questo motivo la Mente, la Fede, la Virtù, la Concordia furono venerate e consacrate pubblicamente dalle istituzioni dei nostri an­ tenatP66; e chi negherebbe che esse si trovano negli dèi, dal momento che veneriamo le loro santissime e venera­ bili immagini? E dato che nel genere umano è presente una mente, una fede, una virtù, una concordia, da dove queste poterono scendere dal cielo alla terra?), e poiché noi possediamo una capacità di riflessione, una ragione, un senno, risulta necessario che gli dèi possiedano que­ ste caratteristiche a un grado maggiore, e non solo, ma anche le adoperino per scopi più grandi e migliori. (80) Tuttavia non vi è nulla che risulti superiore e migliore del mondo; dunque è necessario che esso sia governa­ to dal disegno e dalla divina provvidenza. Da ultimo, siccome abbiamo sufficientemente dimostrato che gli dèi sono quelli di cui vediamo la forza magnifica e l'aspetto splendente (mi riferisco al sole, alla luna, ai pianeti, alle stelle fisse, al cielo, allo stesso mondo, e alla quantità di quelle cose che sono presenti in tutto il mondo arrecando grandi utilità e vantaggi al genere umano), risulta che tutto è regolato da una mente e da un'intelligenza divi­ na. E sul primo punto si è detto abbastanza. 32 . (81) Di conseguenza intendo dimostrare che tutto è soggetto alla natura e che da essa tutto è regolato nel modo migliore. Prima però bisogna spiegare in breve in

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cosa consista la natura stessa, affinché si possa compren­ dere con maggior facilità ciò che vogliamo provare. Al­ cuni ritengono che la natura sia una forza sprovvista di ragione che produce nei corpi dei movimenti necessari, altri invece pensano che sia una forza razionale e rego­ lata che procede secondo una regola e manifesta quali siano la causa e la conseguenza di ogni evento; la sua ingegnosità non potrebbe essere conseguita, mediante l'imitazione, da nessuna tecnica, da nessuna mano, da nessun artigiano. La forza del seme è talmente grande che esso, benché estremamente piccolo, tuttavia, se sarà caduto in un elemento che gli permette la germinazione e lo avrà racchiuso in sé e avrà trovato una natura che gli permette di potersi alimentare e sviluppare, forma e ge­ nera ogni essere, ciascuno nella propria specie, in modo tale che alcuni si nutrono soltanto attraverso le proprie radici, mentre altri possono anche muoversi, essere sen­ sibili, avere inclinazioni e generare corpi a loro simili. (82) Poi vi sono quelli che designano tutto con il nome di natura, tipo Epicurd67, che suddivide la natura di tutte le cose in corpi, vuoto e accidentP68• Noi però, quando sosteniamo che il mondo è retto e dipende dalla natura, non lo diciamo in riferimento a un pezzo di terra o a un frammento di sasso o a qualcosa del genere, che non possiede nessun tipo di coesione, bensì all'albero o all'es­ sere vivente, nei quali nulla è dettato da casualità, ma tutto è regolato da ordine e ha una qualche somiglianza con l'arte. 33. (83) E se gli esseri che sono fissati alla terra con le radici sono vivi e vegeti grazie all'arte della natura, di sicuro la stessa terra è mantenuta dalla medesima forza grazie all'arte della natura, in quanto essa, resa feconda dai semi, produce e genera da sé tutti gli esseri, e, chiu­ dendo le radici nel suo abbraccio, fornisce loro alimen­ to e sviluppo ed essa stessa è alimentata a sua volta da

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elementi superiori e a sé estrinseci; dalle sue esalazio­ ni traggono il nutrimento l'aria, l'etere e tutto ciò che ha sede in alto. In questo modo se la natura conserva e fa fiorire la terra, lo stesso discorso vale anche per il resto del mondo: le radici sono fissate alla terra, mentre gli es­ seri viventi ricavano il loro sostentamento dalla respira­ zione; l'aria stessa vede con noi, ascolta con noi, emette suoni con noP69 (nulla di tutto questo infatti può accadere senza il suo intervento); anzi, si muove anche con noi: in­ fatti dovunque noi andiamo, dovunque noi ci spostiamo, essa sembra quasi farci spazio e cedercelo. (84) Ciò che si sposta verso il centro del mondo, che è il punto più basso, ciò che si sposta verso l'alto e ciò che mediante un moto circolare si muove intorno al centro, rappresentano l'unica e continuata natura del mondo. E poiché ci sono quattro generi di corpi materiali, la natura del mondo è continuata grazie al loro succedersi alternatd70• Dalla terra proviene l'acqua, dall'acqua l'aria, dall'aria l'etere, e poi in senso contrario dall'etere l'aria, quindi dall'aria l'acqua, dall'acqua la terra, che è la più bassa. Così, grazie a questi elementi, dai quali tutte le cose risultano forma­ te attraverso i moti verso l'alto, il basso, in avanti e all'in­ dietro, si mantiene la stretta congiunzione delle parti del mondo. (85) E per necessità essa deve mantenersi eterna in questo stesso ordinamento che vediamo, o per lo meno essere di lunghissima durata e permanere per un esteso periodo di tempo, pressoché smisurato. Qualunque dei due casi sia vero, ne consegue che il mondo è retto dalla natura. Infatti, quale navigazione di flotte, quale prepa­ rativo militare o, per apportare di nuovo degli esempi tratti dall'opera della natura, quale procreazione di vite o albero, e poi quale forma di essere vivente o quale con­ formazione di membra rivela tanta perizia della natura quanto lo stesso mondo? Dunque, o non vi è nulla che sia guidato dalla natura o bisogna riconoscere che il mondo

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è governato da essa. (86) Infatti, esso che contiene tutte le altre nature e i loro semi, come può non essere gover­ nato dalla natura? Per esempio, se uno affermasse che i denti e i peli della pubertà crescono per natura, ma che l'uomo (in cui essi sorgono) non è un prodotto della natu­ ra, non capirebbe che ciò che produce qualcosa possiede una natura più perfetta di ciò che è prodotto da esso. 34. Ma il seminatore, il creatore, il genitore, per così dire, l'allevatore e l'alimentatore di tutte le cose che sono go­ vernate dalla natura è il mondo, e ogni cosa esso sostenta e conserva le sue parti, come se fossero le sue membra. E se le parti del mondo sono governate dalla natura, ne­ cessariamente il mondo stesso deve essere regolato dalla natura. Senza ombra di dubbio, la sua amministrazione non ha niente in sé che possa essere biasimato, visto che dagli elementi che esistevano è stato creato il meglio che potesse essere creatd71• (87) Dunque qualcuno potrebbe dimostrare che avrebbe potuto essere migliore; ma nes­ suno lo dimostrerà mai, e se vorrà apportare delle mo­ difiche, o lo peggiorerà o desidererà qualcosa che non potrà mai essere compiuto. E se tutte le parti del mondo sono state costituite in modo tale che non avrebbero potuto essere migliori quanto a utilità né essere più belle alla vista, vediamo se esse siano un mero prodotto del caso o se siano in uno stato per cui non avrebbero potuto unirsi in nessun modo se non con l'aiuto di una intelligenza sensibile e della divina provvidenza. Se dunque ciò che la natura ha prodotto è superiore a ciò che produce l'arte, e l'ar­ te non produce nulla senza ragione, nemmeno la natu­ ra va ritenuta senza ragione. Quindi, come si conviene che quando osservi una statua o un quadro si riconosce l'intervento dell'arte, e che quando guardi da lontano il movimento di una nave non si dubita che essa sia mossa grazie alla ragione o all'arte, o che quando si osserva un

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orologio solare o ad acqua si capisce che esso indica le ore per arte e non casualmente, pensando che il mondo, che abbraccia queste stesse arti, i loro artefici e tutto il resto, è privo di capacità di riflessione e ragione? (88) E se qualcuno portasse in Scizia o in Britannia la sfera172 che di recente ha costruito il nostro Posidonio - le cui singole rivoluzioni si svolgono nello stesso modo di quelle del sole, della luna e dei cinque pianeti che avvengono in cielo durante il giorno e la notte -, chi in quei paesi bar­ bari nutrirebbe dei dubbi sul fatto che quella sfera è stata costruita attraverso l'uso della ragione? 35. Costoro, invece, nutrono dei dubbi a proposito del mondo da cui nascono e si sviluppano tutte le cose, do­ mandandosi se sia un prodotto del caso o di una qualche necessità, ragione, mente divina, e sono dell'opinione che Archimede sia stato più abile a imitare le rivoluzioni della sfera che la natura a crearle; tanto più che esse sono state prodotte con maggior perizia di quanto siano state emulate. (89) Orbene, presso Accio173, quel pastore che non aveva mai visto una nave prima di quella occasione, come di lungi scorse dal monte quella divina e straor­ dinaria degli Argonauti, in un primo momento meravi­ gliato e spaventato, dice: "Una ingente massa rumorosa scivola dal largo con ingente fracasso e zufolìo; davanti a sé travolge le onde, suscita con forza i gorghi, precipita scivolando, fa schizzare il mare, vi soffia contro; così ora potresti credere che un nembo distrutto stia precipitan­ do, ora che un macigno sia trascinato in alto dai venti o dalla tempesta, o che dei turbini arruffati stiano sorgen­ do scossi dalle onde che urtano - a meno che non sia il mare a causare le devastazioni della terra, o forse Tritone che con il tridente sconvolge la grotta sotto i fondali più remoti del mare ondoso e scaglia verso il cielo un masso enorme dal profondo"174• Sul principio ha il dubbio su quale sia quell'essere che scorge con occhio ignorante;

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poi, dopo aver visto i giovani e udito il canto dei marinai, dice: "Come rapidi e vivaci delfini risuonano ai rostri"175; e ancora: "Simile ad una melodia di Silvano, arreca alle mie orecchie un canto e un suono"176• (90) Dunque, come questi a prima vista crede di vedere un oggetto senza vita e sensibilità, ma poi, grazie a segnali più certi, inizia a sospettare quale sia la natura di ciò su cui aveva avuto dei dubbi, così i filosofi, se per caso erano stati turba­ ti alla prima visione del mondo, poi, dopo aver visto i suoi movimenti determinati e uniformi e tutti i fenomeni equilibrati da un ordinamento fisso e costantemente im­ mutabile, avrebbero dovuto capire che in questa dimora celeste e divina non vi è solamente un abitante ma anche un governatore, una guida e, per così dire, un architetto di una così grande opera e di un così grande lavoro. 36. Ora, invece, mi pare che non abbiano alcun sospet­ to su quanto meraviglioso sia l'apparato delle cose cele­ sti e terrestri. (91) In primo luogo la terra è posizionata al centro del mondo177, totalmente circondata da questa natura animata e che si può respirare, il cui nome è aria (termine greco, ma ormai accolto nell'uso dai nostri; è in­ fatti sulla bocca di tutti più di quello latino). A sua volta l'aria è cinta dall'immenso etere, che è formato dai fuochi più alti. Prenderemo anche questo termine in prestito, e diremo etere in latino tanto quanto ci serviamo di aria, benché Pacuvio178 intenda così: "Questo che io nomino, i nostri lo chiamano cielo, i Greci etere"179, come se a dire ciò non fosse un greco. "Ma parla latino". Certamente, se non lo sentissimo parlare in greco; ce lo ridice in un altro passo: "greco di nascita, lo rivela la sua stessa favella"180• (92) Ma torniamo ad argomenti più importanti. Allora, dall'etere sono prodotte le infinite fiamme delle stelle: di esse la principale è il sole che illumina con la luce più splendente tutte le cose ed è assai più grande ed esteso dell'intera terra; poi vengono le altre stelle di grandezza

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smisurata. E questi fuochi così grandi e numerosi non solo non recano danno alla terra e agli esseri che vi abi­ tano, ma offrono un tale giovamento che, se fossero spo­ stati, la terra inevitabilmente brucerebbe per colpa di un calore così ardente, dal momento che non ci sarebbero più moderazione e temperamento. 37. (93) In questa circostanza, non dovrei meravigliar­ mi se uno avesse la convinzione che delle particelle so­ lide e indivisibili siano mosse dalla forza del loro peso e che dall'incontro casuale dei loro corpi viene creato un mondo perfettamente allestito e bellissimo? Non capisco perché chi pensa che ciò sia potuto succedere non pen­ si anche che, se si radunasse in un solo luogo l'infinità di forme delle ventuno181 lettere dell'alfabeto, in oro o in qualsiasi altro tipo di materiale182, e si gettassero a terra, sarebbe possibile ottenere gli Annali di Ennio in modo tale da poter essere letti di seguito; non so se il caso sia in grado di compiere questo nemmeno per un verso soltan­ to. (94) Costoro, nondimeno, sostengono che il mondo sia stato creato da corpuscoli incolori, privi di alcuna qualità (poi6tes, secondo i Greci)183 e di sensibilità, ma che si uni­ scono accidentalmente e casualmente, o piuttosto, che in ogni istante vi siano infiniti mondi, alcuni che nascono, altri che muoiono; e se l'incontro tra gli atomi può for­ mare il mondo, perché non può formare un portico, un tempio, una casa, una città, tutti lavori, questi, senz'altro meno faticosi e molto più facili? Certo, essi parlano del mondo in maniera così sconsiderata che secondo me non hanno mai alzato lo sguardo verso questa magnifica bel­ lezza del cielo (sul punto si discuterà subito dopo). (95) Si è espresso eccellentemente quindi Aristotele: "Se esistes­ sero degli uomini che avessero dimorato da sempre sotto terra in case comode, ben illuminate, ornate da sculture e dipinti, provviste di tutto quello che gli uomini felici hanno in larga misura, e tuttavia mai fossero usciti sul-

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la terra e fossero venuti a conoscenza, per sentito dire, dell'esistenza di una volontà e di una potenza divina, poi, ad un certo punto, spalancati i baratri della terra, questi uomini avessero potuto uscire dalle loro abitazio­ ni nascoste e giungere nei luoghi dove noi abitiamo, e im­ provvisamente, di fronte alla vista della terra, dei mari e del cielo, avessero appreso la grandezza delle nuvole e la potenza dei venti, e avessero visto il sole e preso coscien­ za non solamente della sua vastità e della sua potenza, ma anche della sua efficacia (in quanto produce il giorno mediante la diffusione della luce in tutto il cielo), e poi, al calare della notte, avessero scorto tutto il cielo punteg­ giato e ornato di stelle, la varietà delle luci della luna, ora crescente ora decrescente, il sorgere e il tramontare di tutti questi corpi celesti e il loro corso regolare e immuta­ bile per tutta l'eternità - di fronte a tutto quest'apparato, senza alcun dubbio avrebbero creduto all'esistenza degli dèi e al fatto che così grandi opere siano il frutto del loro lavoro"184• 38. (96) Questo sostiene Aristotele. Noi poi fi­ guriamo delle tenebre tanto fitte quanto in giro si dice che un tempo, per colpa dell'eruzione dell'Etna185, abbia­ no oscurato le zone limitrofe, a tal punto che nessuno per due giorni riuscì a riconoscere il proprio prossimo; quando poi nel terzo giorno il sole tornò a brillare, gli uomini ebbero l'impressione di tornare a vivere di nuo­ vo: e se ci accadesse una cosa analoga, cioè di vedere la luce immediatamente dopo le tenebre eterne, che aspetto assumerebbe per noi il cielo? Ma a causa della consue­ tudine quotidiana e dell'abitudine degli occhi l'anima si assuefà, né si meraviglia né va in cerca delle ragioni di ciò che ha sempre davanti, proprio come se la novità piut­ tosto che l'importanza dei fenomeni ci dovesse spingere a ricercarne le cause186• (97) Infatti chi chiamerebbe uomo uno che, di fronte a dei movimenti del cielo sì regolari, all'ordine tanto stabile degli astri e a cotanta connessione

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e unione di tutti i corpi celesti, nega che in questo non vi sia ragione alcuna e sostiene che tali fenomeni, il cui disegno non ci è possibile comprendere in nessun modo, accadono per puro caso? Oppure quando vediamo qual­ cosa muoversi per effetto di un qualche congegno, per esempio una sfera, un orologio, e moltissime altre inven­ zioni, non dubitiamo che essi siano il frutto della ragione, quando invece vediamo il movimento rotatorio del cielo attuarsi con incredibile velocità e produrre con massima costanza l'alternarsi continuo degli anni con benessere sommo e preservazione di ogni essere, dubitiamo che tali fenomeni siano il prodotto non solo di una ragione, bensì di una ragione divina e straordinaria? (98) A questo punto possiamo davvero sospendere la sottigliezza della discussione e contemplare in qualche modo con gli occhi la bellezza di ciò che affermiamo es­ sere stato predisposto dalla provvidenza divina. E si osservi innanzitutto la terra intera, situata nella regione centrale del mondo, in forma solida, sferica, ri­ unita uniformemente in un unico globo in virtù della forza di gravità, rivestita di fiori, erbe, alberi, messi, la cui incredibile moltitudine è differenziata da una varietà che mai annoia. Si aggiungano le fonti gelide ed eterne, le limpide correnti dei fiumi, le rive dal manto verdeg­ giante, le profonde cavità delle caverne, gli aspri macigni rocciosi, l'altezza dei monti scoscesi, le sterminate pianu­ re; e inoltre le vene nascoste187 d'oro e d'argento e la in­ commensurabile quantità di marmo. (99) E invero quali animali e quanta varietà di specie, sia di quelli domestici sia di quelli selvaggi, quali voli e canti di uccelli, qua­ li pascoli per le bestie, quale vita delle selve! Cosa dire degli uomini che, stabiliti per così dire come coltivatori della terra, non permettono che essa venga inselvatichita dalle bestie feroci e rovinata dalla crescita irregolare del­ le erbacce, e grazie alla loro opera i campi, le isole, le co-

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ste brillano ornate di case e di città? Se potessimo vedere tutto ciò con gli occhi così come le vediamo con la mente, nessuno, osservando la terra, dubiterebbe dell'esistenza della ragione divina. (100) E quanta è la bellezza del mare, quale lo spetta­ colo dell'universo, quale la moltitudine e la molteplicità delle isole, quali le amenità delle spiagge e dei litorali, quante le differenti specie di animali, alcuni che stanno sotto le acque, altri che galleggiano e nuotano, altri anco­ ra che restano attaccati agli scogli con le loro conchiglie. Il mare stesso, poi, quando raggiunge la terra scherza con il lido in modo tale che due nature sembrano combi­ narsi in una soltanto. (101) Vicino al mare, di giorno e notte l'aria fa le sue variazioni, ora risale verso l'alto diffusa e rarefatta, ora condensata si addensa nelle nuvole e rende la terra fer­ tile con i rovesci dell'acqua che ha raccolto, ora invece passando qua e là produce i venti. Inoltre essa permette le variazioni annuali di freddo e caldo, sostiene il volo degli uccelli e alimenta e dà sostentamento agli esseri viventi che la respirano. 40. Da ultimo, rimane la sfera celeste, il più alto rispet­ to alle nostre dimore, che tutto cinge nel suo abbraccio, chiamato anche etere, l'estremo limite e il confine del mondo, dove le forme di fuoco definiscono il loro corso determinato in modo meraviglioso e perfetto. (102) Tra queste il sole, che per grandezza supera di gran lunga la terra, le gira attorno, e sorgendo e tramontando effettua il giorno e la notte, e, ora avvicinandosi ora invece allon­ tanandosi, compie annualmente due rivoluzioni inverse da punti opposti, e nell'intervallo tra questi ora avvolge la terra in una specie di tristezza, ora la rende lieta in modo tale da farla apparire felice insieme al cielo188• (103) Per quanto attiene poi alla luna, che, secondo l'opinione dei matematici, è per grandezza maggiore di metà della

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terra189, essa si muove nei medesimi spazi percorsi dal sole, ma, ora incontrandosi con esso, ora separandosene, riflette sulla terra la luce che ha ricevuto dal sole e pre­ senta essa stessa dei cambiamenti di luce; e inoltre, ora ponendosi nei pressi o di fronte al sole ne oscura i raggi e la luce, ora imbattendosi nell'ombra della terra, quan­ do è lontana dalla regione del sole, d'un tratto sparisce a causa dell'interposizione e dell'inserimento di quella. Negli stessi spazi si muovono intorno alla terra le stelle dette erranti e in modo analogo sorgono e tramontano, e i loro moti ora sono accelerati, ora rallentati, e spesso anche si arrestano. (104) Non può esserci niente di più meraviglioso di questo spettacolo, niente di più bello. Segue l'immensa moltitudine delle stelle fisse, la cui di­ stinzione è stata definita in modo tale che hanno trovato nome a partire dalla loro somiglianza con forme note190». 41. E a questo punto, guardando verso di me, disse: «Mi servirò delle poesie di Arato191, che tu hai tradotto quando eri ancora molto giovane192; e proprio perché sono in lingua latina, tanto è il piacere che questi versi suscitano in me, che a memoria ne ricordo molti. Dun­ que, come vediamo continuamente coi nostri occhi, sen­ za alcun cambiamento o variazione "gli altri corpi celesti scivolano con rapido movimento e con il cielo trascorro­ no notti e giorni"193; (105) e chi brama di vedere la rego­ larità della natura non può mai saziare la sua mente di contemplarli. "Proprio il punto ultimo delle due estre­ mità è detto polo"194• Attorno a questo si muovono le due Orse che mai tramontano. "Di esse, presso i Greci, una si chiama Cinosura, l'altra Elice"195; vediamo per la notte intera le sue fulgidissime stelle, "che i nostri sono soliti chiamare Settentrione"196; (106) e con ugual numero di stelle, disposte in modo simile, la pjccola Cinosura gira attorno allo stesso vertice del cielo. "E a questa guida not­ turna che i Fenici si affidano in alto mare. Quella prima,

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però, brilla più ornata di stelle e ovunque per prima è vista subito, appena cala la notte. Questa invece è pic­ cola, ma è di essa che si servono i marinai; infatti con un percorso più interno compie un'orbita breve"197• 42. E affinché la vista di tali stelle sia più meravigliosa, "tra esse, come un fiume di impetuosa corrente, il Drago fe­ roce si insinua, girandosi sotto e sopra e formando dal suo corpo spire tortuose"198• (107) Il suo aspetto è bel­ lissimo nella sua totalità, ma in modo particolare biso­ gna osservare la forma della testa e l'ardore degli occhi: "non una stella sola brilla ornandogli il capo, bensì le sue tempie sono contrassegnate da un fulgore doppio, dagli occhi minacciosi brillano due luci arroventate e il mento rifulge di un solo unico raggiante astro; potresti dire che il capo chino, flesso dal ben tornito collo, abbia lo sguar­ do fisso sulla coda dell'Orsa Maggiore"199. (108) Quel che resta del corpo del Drago possiamo vederlo ogni notte: "questa testa un poco si cela improvvisamente, dove in un sol punto si mescolano il suo sorgere e il suo tra­ montare"200. Ma toccandosi la testa, "si volge l'immagi­ ne stanca come quella di un uomo triste"20\ che i Greci "son soliti chiamare Engonasi, poiché si sposta stando­ sene appoggiata sulle ginocchia"202. "Qui ha sede con il suo meraviglioso splendore la Corona"203. E questa si trova alle sue spalle; nei pressi del capo vi è invece il Ser­ pentario, (109) "che i Greci appellano con nome insigne Ofiuco"204. "Questo con la duplice pressione delle palme tiene stretto il Serpente, e rimane legato dal suo corpo attorcigliato; il Serpente cinge l'uomo a metà sotto il pet­ to, e quello tuttavia, sostenendosi, appoggia saldamente i piedi e con essi preme gli occhi e il petto dello Scorpio­ ne"205. Dopo il Settentrione tiene dietro "Actofilace, che dal volgo è detto Boote, perché, alla stregua di un timo­ ne, spinge davanti a sé l'Orsa aggiogata"206. (110) E poi seguono: "sotto il diaframma di tal Boote, si vede fissa

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una stella brillante, dal celebre nome Arturo"207; sotto i suoi «piedi» si porta "la Vergine dal corpo splendente che tiene una spiga luminosa"208• 43. E le costellazioni sono determinate in modo tale che in una disposizione sì ordinata appare evidente l'intervento dell'abilità divi­ na: "vedrai sotto il capo dell'Orsa i Gemelli; sotto la sua metà è collocato il Cancro, e ai suoi piedi il grande Leo­ ne che dal suo corpo fa vibrare una fiamma"209• Auriga "sotto l'ala sinistra dei Gemelli si muoverà nascosto. Di fronte a lui, il capo di Elice volge lo sguardo torvo, ma la Capra luminosa occupa la sua sinistra"210• Poi prose­ gue: "invero questa è provvista di una stella grande e luminosa, mentre i Capretti mandano agli uomini una luce tenue"211• Sotto i suoi piedi "rimane disteso il Toro cornuto con il suo corpo possente"212• (111) La sua testa è punteggiata di numerose stelle, "che i Greci chiamaro­ no per consuetudine Iadi"213 sulla base del verbo pluere (infatti in greco hyein significa piovere); i nostri invece le chiamano con ignoranza Sucule, quasi il loro nome provenisse da sus e non da imber214• Andando avanti, Cefeo tiene dietro all'Orsa Minore tendendo le palme; "e infatti si muove alle spalle dell'Orsa Cinosura"215• Lo precede "Cassiepia, con la debole luce delle stelle"216• "Vicino a questa si volge Andromeda con il suo corpo illustre, scappando mesta alla vista della madre"217• "Il celebre Cavallo, scuotendo la chioma di abbagliante lu­ centezza, tocca con il ventre il punto più alto del suo capo; una sola stella tiene unite due figure in un'unica luce comune, bramosa di tenere congiunte in un nodo eterno le stelle"218• "Di seguito ha sede l'Ariete con le sue corna ritorte"219, e in prossimità di sé "i Pesci: di essi uno scorre via un poco più avanti ed è più esposto ai soffi terribilmente freddi dell'Aquilone"220• 44. (112) Ai piedi di Andromeda si impone Perseo, il quale "dalla regione di estremo nord è vessato dalle raffiche dell'Aquilone"221•

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"Nei pressi del suo ginocchio sinistro"222 "vedrai le Ple­ iadi dalla tenue luce"223. "Poi noterai la Lira lievemente curvata"224. Di seguito "sotto l'ampia volta del cielo vi è il Cigno"225. Vicino alla testa del Cavallo si trova invece la destra dell'Acquario e poi l'Acquario intero. Poi "nel grande cerchio vi è il Capricorno dal corpo mostruoso che soffia gelido freddo dal petto possente; durante la stagione invernale quando lo ha ornato di luce perpetua, il Titano, girando, piega il carro"226. (113) In questo punto si può vedere "lo Scorpione che, mostrandosi, si leva alto trascinando con la forza della coda l'Arco piegato"227. "Lì vicino, con le sue penne splendenti, si avvolge il Cigno, ma appresso si porta avanti l'Aquila con il suo corpo ar­ dente"228. Poi il Delfino, "poi Orione che brilla con il cor­ po inclinato"229. (114) Standogli dietro, risplende "il Cane ardente della luce delle stelle"230. Segue la Lepre "che, mai infiacchita, pone un freno alla sua corsa, ma vicino alla coda del Cane, con un movimento sinuoso va la nave Argo"231. "La coprono l'Ariete e i Pesci dallo squamoso corpo, mentre con il suo corpo luminoso tocca le rive del Fiume"232. Lo scorgerai serpeggiare e scorrere per molto e "vedrai le lunghe Catene che tengono uniti i Pesci, po­ sizionate dalla parte delle code"233. "Così avrai modo di vedere vicino al pungiglione dello splendente Scorpione, l'Ara che il vento Austro accarezza con il suo soffio"234. In loro prossimità il Centauro "viene avanti, affrettandosi ad aggiogare con le Chele le parti del corpo da Cavallo. Costui, tendendo la destra con la quale tiene il possente Quadrupede"235, "avanza e violento si avvicina all'Ara brillante, dove dal basso si solleva il Serpentario"236, il cui corpo si estende per un largo spazio, "e alla metà del seno brilla fulgente il Cratere. Il Corvo, erigendosi con il piumato corpo, ne colpisce con il becco l'estremità, e qui, sotto gli stessi Gemelli, si trova il celebre Anticane, che in greco è chiamato Prokyon"237•

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(115)238 Può tutto questo ordinamento di stelle e que­ sto sì grande apparato del cielo, dare l'impressione a un uomo sano di mente che si sia potuto creare grazie all'in­ contro totalmente casuale di corpuscoli che corrono qua e là? O quale altra natura sprovvista di mente e di ra­ gione sarebbe stata in grado di rendere possibile tutto questo, che non solo ebbe necessità di un'intelligenza per essere creato, ma la cui vera essenza non può essere rile­ vata se non con una forma eccelsa di ragione239? 45. Non c'è soltanto questo di straordinario, ma nulla è più eccelso del fatto che il mondo sia caratterizzato da tanta stabilità e coesione che non è assolutamente possi­ bile pensare l'esistenza di qualcosa di più idoneo a per­ manere240. Tutte le parti che lo formano tendono infatti in maniera uguale e da ogni punto verso quello centrale. I corpi rimangono massimamente uniti tra loro, dal mo­ mento che si trovano legati come se a circondarli fosse un vincolo; è così che agisce la natura, che si espande per tutto il mondo e trascina e muove verso il centro gli estremi, compiendo tutte le sue azioni con la mente e la ragione. (116) Di conseguenza, se il mondo è di forma sferica e per questo tutte le sue parti sono dovunque uni­ formi e unite di per se stesse fra loro, è necessario che la stessa cosa avvenga per la terra241, dimodoché, con­ vergendo tutte le sue parti al centro (che nella sfera è il punto più basso), non si frapponga nessun impendimen­ to che possa i\ldebolire una forza di gravità e centripeta tanto grande. E per questo stesso motivo che il mare, pur trovandosi sopra la terra, tende verso il punto centrale della terra concentrandosi da ogni parte in modo uni­ forme, non trabocca mai né fuoriesce. (117) L'aria, che vi sta congiunta, va verso l'alto per la sua leggerezza, ma nonostante ciò si diffonde ovunque; e così essa risulta congiunta e unita al mare, e per natura si muove verso il cielo, temperata dal suo essere sottile e calda, e offre

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agli esseri viventi il respiro vitale242• Ad abbracciarla è la parte del cielo situata più in alto, quella che è chiamata eterea, che preserva il calore sottile, non mescolato con altri elementi, ed entra in contatto col punto più estremo dell'aria. 46. Nell'etere poi si spostano le stelle che grazie al loro moto permangono nella loro forma sferica e nel loro movimento grazie alla medesima forma e figura; in­ fatti sono rotonde, e a tali forme, come mi sembra di aver già detto prima243, non si può recare alcun danno. (118) Ora, le stelle sono per natura ignee; per questo motivo ad alimentarle sono la terra, il mare e le acque con quei vapori che il sole fa innalzare quando riscalda i campi e le acque; così alimentate e rinvigorite, le stelle e l'etere intero fanno tornare indietro tali vapori e nuovamente li derivano dalla stessa fonte, cosicché nulla suppergiù pe­ risce, oppure al massimo una parte minima, quella con­ sumata dai fuochi delle stelle e dalla fiamma dell'etere. Da questo, secondo l'opinione dei nostri, si verifichereb­ be un evento, a proposito del quale, così si dice, Panezio aveva dei dubbF44: cioè che alla fine tutto il mondo si tra­ sformerà in fuoco, in quanto, esaurito l'elemento umido, la terra non potrebbe essere mantenuta né l'aria potrebbe spirare, poiché non sarebbe più in grado di prodursi a causa dell'esaurimento dell'acqua; così nulla rimarebbe eccetto il fuoco, e di nuovo a partire da esso, animato e divino, si attuerebbe un processo di rinnovamento del mondo e rinascerebbe lo stesso apparato245• (119) Non vo­ glio sembrarvi verboso nelle mie divagazioni sulle stelle, specialmente in quelle relative alle stelle che sono dette erranti; tanta è la loro armonia246 che, seppur percorren­ do movimenti differenti, mentre quella più alta, Saturno, emana freddo, Marte, che sta nella sede centrale, produ­ ce calore, Giove, frapposto a questi, illumina e mitiga, e sotto Marte due si adattano al sole; il sole stesso perva­ de tutto il mondo con la sua luce, e la luna, a sua volta

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illuminata da esso, reca le gravidanze, i parti e i momen­ ti opportuni per nascere. Colui che non è colpito da que­ sta aggregazione delle cose e congiunzione della natura, che, per così dire, concorda per l'incolumità del mondo, so per certo che mai ha preso in considerazione niente di tutto ciò. 47. (120) Su, passiamo dalle cose celesti a quelle terre­ strP47: che cosa c'è qui che non riveli la presenza della ra­ gione di una natura intelligente? Prima di tutto, le radici delle piante recano stabilità alle piante che esse sosten­ gono e derivano dalla terra il succo che alimenta tutto ciò che è congiunto alle radici; e i tronchi si rivestono del libro o della corteccia affinché siano protetti dal freddo e dal caldo. Le viti invero si attaccano ai sostegni con i viticci come se avessero le mani e si ergono ritte come esseri viventi; anzi, si dice che cerchino di evitare i cavoli se sono stati seminati in prossimità, quasi fossero esseri funesti e nocivi, e di non toccarli da nessuna parte248• (121) Inoltre, degli animali, quanta è la varietà, quanta è la forza che li mantiene ciascuno nella propria specie. Alcuni rivestiti di pelle dura, altri di peli, altri irti di spi­ ne; ne vediamo poi di piumati, altri squamosi, altri dota­ ti di corna e altri ancora di ali, un valido mezzo per riu­ scire a scappare. La natura ha fornito a tutti gli animali, in maniera abbondante e copiosa, il cibo adatto a ognuno di essi. Potrei mettermi a elencare quale sia, nella figura degli animali, la natura, l'ingegnosità, la fine precisione delle parti e quanto sia meravigliosa l'architettura delle membra allo scopo di procacciarsi e consumare il pasto. Infatti, tutti i singoli elementi che sono racchiusi all'inter­ no del corpo, sono generati e posti in modo tale che nes­ suno di essi possa risultare inutile e non indispensabile alla conservazione della vita. (122) Inoltre la stessa natu­ ra donò agli animali sensazione e istinto, affinché dalla prima potessero trovare il modo per procacciarsi i pasti

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naturali, e dall'altra potessero distinguere le cose nocive da quelle salutari. Si aggiunga poi che alcuni animali si avvicinano al cibo camminando, altri strisciando, altri volando, altri ancora nuotando249, parte di essi lo afferra aprendo la bocca e servendosi dei denti, parte lo cattura con la tenacità delle unghie e parte con i becchi adunchi; alcuni lo succhiano, altri lo brucano, altri lo divorano, altri ancora lo masticano. Altri sono talmente bassi che sono in grado di raggiungere il cibo a terra con facilità servendosi del becco, (123) invece quelli più alti, come le oche, i cigni, le gru, i cammelli, si aiutano con i loro lun­ ghi colli; l'elefante è dotato anche di una mand50 poiché, a causa della grandezza del corpo, gli era difficile potersi avvicinare al cibo. 48. Ma agli animali il cui nutrimento risiedeva nello sfamarsi di altri animali, la natura diede la forza e la velocità. A certuni venne data poi anche una specie di astuzia e ingegnosità, come ai ragnF51, dei quali alcuni tessono, per così dire, una rete per consumare ciò che vi si impiglia, mentre altri osservano, e se qualcosa vi si presenta, improvvisamente lo afferrano e lo divorano. Quanto alla pinna252 (così è detta in greco), una conchi­ glia aperta formata da due grandi valve, essa stringe, per così dire, una alleanza con un piccolo gambero al fine di procurarsi il cibo; così, quando i piccoli pesciolini, nuo­ tando, penetrano nella conchiglia spalancata, !_a pinna, avvisata dal gambero, chiude le valve a morso. E in que­ sta maniera che bestioline differenti si procurano cibo in comune. (124) A questo proposito bisogna chiedersi se si siano associate per un'unione reciproca o se sia stata la stessa natura a legarle fin dalla nascita. Un sentimento di ammirazione nasce anche nei confronti degli anima­ li acquatici generati sulla terra; come i coccodrilli, le te­ stuggini di fiume e certi serpenti, che, nati fuori dall'ac­ qua, non appena riescono a muoversi si dirigono verso l'acqua. Anzi, molte volte facciamo covare alla galline

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uova di anatre; i pulcini nati da esse dapprima vengono nutriti dalle galline che li hanno fatti nascere e li hanno tenuti al caldo, quasi fossero le loro madri naturali, poi se ne distaccano e fuggono quando li inseguono, appe­ na hanno potuto scorgere l'acqua, che è, diciamo, la loro dimora naturale; sì grande custodia della conservazione si trova innata negli esseri viventF53. 49. Inoltre ho letto in un libro che esiste un uccello chiamato platalea254, che si procura il cibo volando vicino a quegli uccelli che si tuffano in mare, e quando questi escono in superficie e hanno catturato un pesce, con il becco schiaccia il loro capo fino � che non lasciano andare la preda, su cui esso si fionda. E scritto che questo uccello è solito rimpinzar­ si di molluschi, e che, dopo averli digeriti grazie al ca­ lore dello stomaco, li rimette, potendo scegliere così le parti commestibili. (125) Per quanto attiene alle rane di mare255, si dice abbiano l'abitubine di coprirsi di rena e muoversi nelle vicinanze dell'acqua, e quando i pesci vi si accostano come a un'esca, questi vengono uccisi e di­ vorati. Tra il nibbio e il corvo vi è una specie di conflitto naturale256; quindi dovunque l'uno si imbatte nelle uova dell'altro, le rompe. E chi invero può non provare mera­ viglia di fronte a questo fenomeno (constatato da Aristo­ tele257, dal quale derivano la maggior parte degli esempi): le gru, quando attraversano i mari in cerca di luoghi più caldi, creano una formazione a triangolo258; con l'angolo più alto è fatta forza contro la pressione dell'aria, poi gra­ dualmente, dall'uno e dall'altro lato, il volo degli uccelli viene alleggerito dalle ali quasi fossero dei remi; invece la base del triangolo formato dalle gru è aiutata come dai venti che spingono in poppa, ed esse pongono sul dorso di quelle che stanno davanti il collo e il capo. E visto che quella che sta davanti non può farlo, dal momento che non ha nulla su cui appoggiarsi, torna indietro per poter anch'essa riposarsi, e al suo posto subentra una di quelle

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che si sono riposate: questa trafila si ripete per tutta la durata del volo. (126) Potrei fare riferimento a molti casi simili, ma vedete voi qual è il principio che muove alla base. Inoltre ci sono fatti ancora più noti: con quanto im­ pegno le bestie hanno cura di loro stesse, come si guar­ dano attorno mentre consumano il loro cibo e come si nascondono nelle tane. 50. E pure quei fatti straordinari - si tratta di recenti scoperte, cioè di poche generazioni fa, da parte della scienza medica -, come i cani che si curano vomitando259< o gli ibis d'Egitto che per curarsi si liberano il ventre260• E noto che le pantere, le quali nei pa­ esi barbari vengono catturate con della carne avvelena­ ta, possiedono un rimedio che, quando se ne servono, fa evitare loro la morte261; invece le capre cretesi selvatiche, quando vengono trafitte da frecce impregnate di veleno, vanno alla ricerca di un'erba, chiamata dittamo262, la cui assunzione, così dicono, fa sì che le freccie si stacchino dal corpo; (127) e le cerve, poco prima di partorire, si purgano grazie a una erbetta detta seseli263• Del resto, possiamo ben vedere come ciascuna bestia si difende dagli attacchi e dalla paura, facendo uso delle proprie armF64: i tori si servono delle corna, i cinghiali dei denti, i leoni attaccano correndo, alcuni si mettono in fuga, al­ tri si nascondono, le seppie si difendono spargendo del liquido nero, le torpedini con l'intorpidimento265, molte poi scacciano i nemici rilasciando un fetore insopporta­ bile e indegno266• 51. Prefiggendosi come scopo quello di rendere l'ap­ parato del cosmo eterno, la provvidenza divina ha avuto grande cura affinché le specie degli animali, degli alberi e di tutti i vegetali che sono prodotti dalla terra potes­ sero mantenersi; invero tutte queste creature possiedo­ no al loro interno una potenza generatrice tale che da una sola ne nascono molte. E questo seme è situato nella zona più profonda dei frutti che le pianta producono, ed

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è grazie a loro che gli uomini possono nutrirsi in abbon­ danza e le terre riempirsi per il rinnovamento delle spe­ cie. (128) Che dire a proposito del metodo razionale così evidente negli animali, volto alla perpetua conservazio­ ne della loro specie? Prima di tutto, alcuni sono di sesso maschile, altri di sesso femminile: questo lo escogitò la natura per far sì che la specie si perpetuasse; e vi sono degli organi massimamente idonei alla procreazione e al concepimento, e sia nel maschio sia nella femmina un singolare desiderio di accoppiamento dei corpi. Quan­ do il seme si è stanziato nell'utero, porta a sé suppergiù tutto il cibo, e una volta circondato, concepisce un esse­ re vivente; quando poi questo, una volta staccatosi, esce dall'utero, negli animali che si nutrono di latte, quasi tut­ to il cibo assunto dalla madre inizia a trasformarsi in esso e i neonati, senza aver ricevuto alcun insegnamen­ to, con la natura che li guida, subito vanno in cerca delle mammelle e si satollano della loro abbondanza267• A farci comprendere che nulla di tutto ciò avviene per puro caso e che tutto è opera di una natura previdente e intelligen­ te, le specie che procreano molti piccoli, come i maiali e i cani, sono dotate di numerose mammelle, mentre le bestie che ne generano di meno, ne possiedono in minor numero268• (129) Che dovrei dire di quanto amore metto­ no gli animali nell'educare e nel proteggere i loro piccoli, fino a che sono in grado di difendersi da soli269? E tutta­ via, stando a quanto dicono, i pesci abbandonano le uova dopo la deposizione; sono infatti facilmente sostenute dall'acqua e in essa si dischiudono270• 52. Dicono poi che le tartarughe e i coccodrilli, dopo aver partorito sulla ter­ ra, ricoprano le uova e poi si allontanino; in questo modo i piccoli nascono e si allevano da soli. Le galline e gli altri uccelli cercano per partorire un luogo tranquillo, si co­ struiscono giacigli e nidi e li rivestono col materiale più morbido possibile, affinché le uova possano preservarsi

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nel modo migliore; quando poi si schiudono ed escono i pulcini, li tengono protetti a tal punto che li riscaldano con le ali dimodoché il freddo non li danneggi e, se in­ vece c'è calore, possano ripararli dal sole. Nel momento in cui i pulcini sono capaci di servirsi delle loro piccole ali, le madri li seguono durante il volo, liberandosi da ogni altra preoccupazione. (130) Si aggiungono inoltre la capacità e l'attenzione con cui gli uomini si curano del mantenimento e della salute di certi animali e vegetali. Infatti vi sono molte bestie e piante che, senza la cura degli uomini, non potrebbero resistere. Molte sono le risorse per la vita e la ricchezza dell'uo­ mo, alcune si trovano in un luogo, altre in un altro. Il Nilo irriga l'Egitto, e dopo averlo tenuto per tutta la stagione estiva seppellito e ricoperto, si ritira lasciando i campi molli e coperti di fango, pronti per essere seminatF71• La Mesopotamia è resa fertile dal fiume Eufrate, che ogni anno, per così dire, vi porta dei campi nuovi272• L'Indo poi, che è il fiume più grande273 di tutti, non solo rende fertili e molli i campi con la sua acqua, ma anche li se­ mina; si dice che trasporti con sé una grande quantità di sementi simili al frumento. (131) Potrei citare molti altri esempi degni di essere ricordati, peculiari di questo o di quel luogo, e i numerosi campi ricchi di questi o di quei frutti. 53. Ma quanta è la bontà della natura, che, non in un solo periodo dell'anno, produce tanto numerosi, tan­ to vari e tanto piacevoli frutti adatti al nostro nutrimento, affinché sempre possiamo godere della novità e dell'ab­ bondanza. E come sono opportuni e salutari, non solo per gli uomini ma anche per gli animali e per tutto quello che nasce dalla terra, i venti etesii274 che la natura ci ha donato; mediante il loro soffio vengono mitigati i calori eccessivi e i viaggi via mare vengono resi più veloci e si­ curi. Molto si deve lasciar da parte [e tuttavia molto è ri­ ferito]275. (132) Difatti non è possibile elencare i vantaggi

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che derivano dai fiumi, il [copioso] flusso e il reflusso del mare, i monti ricoperti di erbe e di boschi, le saline lonta­ nissime dalla costa marittima, le terre ricchissime di me­ dicamenti salutari, e infine le innumerevoli arti necessarie per il sostentamente e la vita. L'alternanza tra il giorno e la notte mantiene gli esseri viventi, scandendo per loro un tempo per le attività e un altro per il riposo. Così sotto ogni aspetto si approda alla conclusione che tutto ciò che esiste in questo mondo è splendidamente governato da una ragione e da un disegno di natura divina mirati al benessere e alla conservazione di tutte le cose. (133)276 Se invece qualcuno domanderà per chi è stata realizzato un sì grande apparato - forse per gli alberi e le piante, che, per quanto prive della sensibilità, nondime­ no sono mantenute in vita dalla natura? Ma è un'assur­ dità! Forse per gli animali? Non è assolutamente più pro­ babile che gli dèi si siano affaticati per delle creature che non parlano e sono prive di intelletto. Dunque per chi si dovrà dire che è stato creato il mondo? Naturalmente per quegli esseri viventi dotati di ragione, vale a dire gli dèi e gli uomini, dei quali certamente non vi è nulla di meglio: la ragione infatti è superiore a tutte le cose. Così si rende credibile il fatto che il mondo e ciò che in esso è contenuto, è stato costituito per gli dèi e gli uomini. 54. Più facilmente si comprenderà che gli dèi immor­ tali hanno provveduto agli esseri umani se prenderemo in esame la struttura dell'uomo nella sua completezza, l'intera figura e la perfezione della sua natura. (134) La vita degli esseri viventi infatti è mantenuta da tre fatto­ ri: il cibo, le bevande e la respirazione. Adattissima ad assumerli tutti e tre è la bocca, che, insieme alle narici, si riempie d'aria; al suo interno, disposti in fila, i denti assumono, spezzettano e rendono molle il cibo. Di essi quelli posizionati davanti, aguzzi, dividono il cibo con il morso, mentre quelli interni, i molari, lo sminuzzano;

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questa operazione sembra essere adiuvata anche dalla lingua. (135) Dopo la lingua, attaccato alle sue radici, inizia l'esofago, dove in primo luogo entra tutto ciò che la bocca accoglie; dall'una e dall'altra parte della bocca, l'esofago, toccando le tonsille, è delimitato dalla estremi­ tà inferiore del palato: questo, dopo aver ricevuto il cibo mandato giù e, per così dire, fatto precipitare, lo spinge in basso grazie alla spinta e ai movimenti della lingua. Le parti inferiori dell'esofago rispetto al boccone ingur­ gitato si dilatano, mentre quelle superiori si contraggo­ no. (136) Ma dato che l'arteria aspra277 - così è chiamata dai medici - ha l'apertura vicino alla radice della lingua, poco sopra al punto in cui l'esofago si connette alla lin­ gua, e siccome si estende fino ai polmoni e accoglie l'aria respirata e la rimanda a essi, è protetta da una specie di coperchietto278, che ci è stato fornito affinché il respiro non fosse impedito, qualora un frammento di cibo per caso fosse caduto all'interno di essa. Ma dal momento che lo stomaco, posto al di sotto dell'esofago, è il serbato­ io del cibo e delle bevande, mentre i polmoni e il cuore favoriscono l'entrata dell'aria dall'esterno, nello stomaco sono state create delle strutture meravigliose formate per lo più da nervi. La natura dello stomaco è varia e sinuo­ sa, esso rinchiude e trattiene il cibo ricevuto, sia secco sia umido, affinché possa trasformarlo e digerirlo, e ta­ lora si restringe talaltra si allarga, e comprime e mescola tutto quello che accoglie, in modo tale da poter divide­ re con facilità nel resto del corpo, grazie al calore279 che possiede, tutto il cibo che ha elaborato e digerito tramite la triturazione e in più tramite l'aria. 55. I polmoni in­ vece sono caratterizzati da una porosità e una mollezza simile a quella delle spugne280, assai adatta ad assorbire l'aria: ora si contraggono quando inspiriamo, ora si dila­ tano quando espiriamo, per permettere l'assunzione di questo nutrimento frequente di aria, di cui per lo più si

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alimentano gli esseri viventi. (137) Il succo del quale ci nutriamd8I, secreto [dallo stomaco]282 dal resto del cibo, si sposta dall'intestino al fegato percorrendo dei condotti che dall'intestino medio sono diretti alle porte del fegato (così vengono chiamate): esse raggiungono il fegato e vi si attaccano, e a partire da qui si estendono altri canali per mezzo dei quali il cibo dissolto scende dal fegato. Quando da questo cibo è avvenuta la secrezione della bile e degli umori che vengono emessi dai reni, quel che resta si tramuta in sangue e confluisce alle porte del fe­ gato, cui tutti i canali tendono; il cibo passa attraverso di esse, andando a riversarsi nella vena chiamata cava, at­ traverso cui scorre verso il cuore già elaborato e digerito; dal cuore è distribuito a tutto il corpo attraverso nume­ rosissime vene283 che si dirigono in ogni punto di esso. (138) Non è difficile da spiegare, invece, il modo in cui i residui di cibo vengono espulsi grazie all'intestino che ora si contrae e ora si rilassa, ma tuttavia è meglio trala­ sciare la questione, per evitare che l'esposizione assuma un aspetto poco piacevole. Piuttosto, si spieghi quell'in­ credibile opera della natura: infatti l'aria che è introdotta nei polmoni con la respirazione, innanzitutto viene resa calda dalla respirazione stessa, poi, nel momento in cui entra in contatto con i polmoni, una parte viene riman­ data indietro respirando, mentre un'altra viene accolta in uno spazio del cuore chiamato ventricolo, al quale è aggiunto un altro simile284 dove il sangue confluisce dal fegato percorrendo la sopramenzionata vena cava. Così da questi organi il sangue viene diffuso in tutto il corpo tramite le vene, e il respiro tramite le arterie285; entrambe, in grande quantità, fitte e intessute in tutto il corpo, testi­ moniano un'incredibile potenza creativa abile e divina. (139) Cosa dire delle ossa, che tengono eretto il corpo e possiedono straordinarie articolazioni, atte a fornire sta­ bilità, conformi a delimitare gli arti, il movimento e ogni

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azione del corpo? A ciò si devono aggiungere i nervF86 che tengono uniti gli arti e il loro intrecciarsi esteso per tutto il corpo: proprio come le vene e le arterie, essi si diffondono in ogni punto del corpo prendendo il loro avvio dal cuore. 56. (140) A questa attività provvidenziale della natu­ ra così diligente e operosa si possono aggiungere ancora molti esempi, da cui si capisce quanti doni eccellenti gli dèi abbiano recato agli uomini. Innanzitutto, rendendoli alti ed eretti, dio li tenne sollevati da terra affinché potes­ sero cogliere l'idea degli dèi orientando lo sguardo verso il cielo287. Difatti gli uomini non sono da intendersi come abitanti e residenti della terra, ma, per così dire, degli spettatori da terra delle realtà superiori e celesti, la cui vista non spetta a nessun altro genere di esseri viventi. Peraltro i sensi, che sono interpreti e annunciatori della realtà, furono creati e situati nella testa come in una for­ tezza288, in modo mirabile per la necessità dell'uso. Infatti gli occhi, quasi fossero delle sentinelle, occupano la sede più elevata, donde possano adempiere al loro compito scorgendo moltissime cose. (141) Le orecchie, siccome devono cogliere il suono, che per natura è portato verso l'alto, opportunamente sono state collocate nella parte su­ periore del corpo. Allo stesso modo le narici sono situate in alto a ragione, dal momento che ogni odore si muo­ ve verso l'alto, e non senza causa sono vicine alla bocca, poiché il loro giudizio in merito ai cibi e alle bevande è di grande importanza. Il gusto, dovendo percepire il sapore di ciò che mangiamo, ha sede in quella zona del volto dove la natura aprì il passaggio alle pietanze e alle bevande. Il tatto invece si spande uniformemente in tutto il corpo, in modo tale che possiamo percepire qualsiasi urto e ogni attacco eccessivo di freddo e caldo. E come negli edifici gli architetti mirano a tener lontano dagli oc­ chi e dalle narici dei padroni tutti i rifiuti che certamente

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potrebbero essere per loro disgustosi, così la natura ha relegato lontano dai sensi gli organi analoghF89• 57. (142) Del resto quale autore se non la natura, di cui niente di più ingegnoso esiste, avrebbe potuto per­ seguire sì tanta destrezza creativa nell'organizzare i sen­ si? Prima di tutto ricoprì e rivestì gli occhi di membrane sottilissime, rendendole trasparenti, affinché attraverso esse si potesse vedere, e resistenti, per garantire la sta­ bilità. Gli occhi però li fece scorrevoli e mobili, perché potessero sottrarsi al sopraggiungere di qualche pericolo e dirigere facilmente la vista dove volessero; e la stessa parte dell'occhio con cui vediamo, detta pupilla290, è così piccola che in modo agevole evita tutto ciò che potreb­ be nuocerle; le palpebre, le coperture degli occhi, sono morbidissime al tatto affinché non danneggino la vista e perfettamente adibite alla chiusura e all'apertura delle pupille, affinché nulla possa colpirle: e la natura prov­ vide a questo affinché tale azione possa effettuarsi ripe­ tutamente e con la massima velocità. (143) Le palpebre sono munite come da una barriera protettiva di peli291, che respingono i corpi estranei quando gli occhi sono aperti, e li fanno riposare come se fossero avviluppati, quando stanno chiusi durante il sonno, visto che non ne abbiamo bisogno per vedere. Inoltre se ne stanno nasco­ sti non senza utilità e sono circondati da parti dovunque sporgenti. Anzitutto la zona superiore, ricoperta dalle sopracciglie, respinge il sudore che cola dal capo e dal­ la fronte; poi le gote li proteggono dalla parte inferiore, perché sottoposte e lievemente sporgenti; e il naso è di­ sposto in modo tale che sembra interposto tra gli occhi, quasi fosse un muro292• (144) Invece l'organo dell'udito è sempre aperto, dal momento che ne abbiamo bisogno anche quando dormiamo: quando riceve un suono, ve­ niamo svegliati persino dal sonno. Il suo corso è tortuo­ so, adatto a evitare che qualcosa non entri al suo interno,

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cosa che invece accadrebbe se fosse semplice e diretto; è stato fatto così, inoltre, al fine che, se una qualche be­ stiola di piccole misure cercasse di penetrarvi, questa potesse restare intrappolata nel viscido umore prodotto dalle orecchie come nella pania293• All'esterno poi spor­ gono quelle che si chiamano orecchie, fatte a bella posta per coprire e proteggere l'udito, e affinché le voci ad esso soggiunte non svaniscano e non si allontanino prima che lo abbiano toccato. Hanno un punto d'accesso duro come un corno e ricco di curvature, perché il suono, fat­ to riecheggiare da attributi come questi, viene amplifi­ cato. Per questo anche negli strumenti musicali a corda la risonanza viene ottenuta grazie a costruzioni a forma di testuggine o di corno, e il suono viene reso più forte dai punti più impervi e chiusi. (145) In maniera analoga le narici, che restano sempre aperte per le utilità neces­ sarie, sono ca:r:atterizzate da un ingresso più stretto, per evitare che un corpo esterno nocivo possa invaderle; e hanno sempre un elemento umido non inutile che per­ mette di scacciare la polvere e molte altre sostanze. Il gu­ sto è protetto eccellentemente; difatti è racchiuso all'in­ terno della bocca in modo adatto all'uso e alla custodia della sua sicurezza. Tutti i sensi dell'essere umano sono superiori di molto rispetto a quelli degli animalF94• 58. In primo luogo in­ fatti, in quelle arti in cui il giudizio è determinato dalla vista, nei dipinti, nelle rappresentazioni, nelle sagome cesellate, e persino nel movimento e nella gestualità del corpo, gli occhi vedono molte cose con elevata precisio­ ne, e inoltre giudicano i colori, la bellezza, la disposizione delle figure e, per così dire, la loro grazia, e inoltre molte altre caratteristiche di peso maggiore: riconoscono la vir­ tù e il vizio, chi è in collera e chi benevolo, chi è felice e chi triste, chi è coraggioso e chi vigliacco, chi è audace e chi timido. (146) Analogamente le orecchie sono dotate

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di una capacità di giudizio sorprendentemente abile, grazie al quale nei suoni prodotti dalla voce e dagli stru­ menti a fiato e a corda viene valutata la varietà dei toni, degli intervalli di tempo, dei ritmi, e i tanti vari tipi di voce: sonora, sorda, dolce, aspra, grave, acuta, modulata, rigida, che vengono considerati solamente dalle orecchie degli uomini. Ugualmente sono dotati di elevata capaci­ tà di giudizio l'olfatto, il gusto e t295 in parte il tatto. Al fine di attirare questi sensi e di usufruirne, sono state scoperte più arti di quante vorrei; è manifesto infatti il fine a cui tendono i miscugli degli unguenti, i condimen­ ti dei cibi e gli ornamenti del corpo. 59. (147) Inoltre, chi non si accorge che l'anima stessa, la mente, la ragione, la capacità di giudizio e la saggez­ za dell'uomo hanno avuto il loro compimento grazie a una cura divina, mi pare che costui sia privo di queste stesse caratteristiche. Mentre affronto questo argomen­ to, Cotta, vorrei che mi venisse donata la tua eloquenza. In che modo ne avresti potuto parlare: in primo luogo dell'intelletto, poi della capacità che abbiamo di mettere in relazione le conseguenze alle premesse e di compren­ derle296; da questo si rendono evidenti gli effetti prodotti da ogni fenomeno, e noi li riportiamo a una conclusione per mezzo della ragione297, ne diamo le singole definizio­ ni e li riassumiamo concisamente; da qui si comprende che cosa sia la scienza e la sua potenza, di cui non vi è nulla di superiore, nemmeno nella divinità. E invero quanto sono notevoli quelle facoltà che voi Accademici confutate e annullate, poiché noi attraverso i sensi e la mente riusciamo a percepire e comprendere tutto ciò che è esterno; (148) mediante il confronto e il paragone tra le acquisizioni dei sensi noi creiamo anche le arti neces­ sarie in parte alla vita pratica, in parte al divertimento. E ancora, quanto illustre e divina è l'eloquenza, che voi siete soliti chiamare signora di tutte le cose298! Innanzi-

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tutto essa fa sì che noi possiamo imparare ciò che non conosciamo e insegnare agli altri ciò che sappiamo; poi ci permette di esortare, di persuadere, di consolare gli afflitti, di allontanare dallo stato di paura colui che è spa­ ventato, di calmare gli sfrenati, di spegnere i desideri ar­ denti e le ire; essa ci ha vincolati in una società basata sul diritto, sulle leggi, sulle c!ttà, e ci ha allontanati dalla vita ferina e selvaggia. (149) E incredibile, se non badi atten­ tamente, con quanto impegno la natura si sia industriata per l'uso del linguaggio. Innanzitutto c'è un'arteria che si estende dai polmoni fino alla zona interna della bocca, attraverso la quale la voce, originandosi dalla mente299, viene accolta e prodotta. Poi nella bocca è situata la lin­ gua, circoscritta dai denti; essa foggia e limita300 la voce emessa senza modulazione, e produce suoni della voce distinti e chiari siccome batte contro i denti e le altre par­ ti della bocca; e così i nostri sogliano dire che la lingua è simile a un plettro, i denti alle corde e le narici a quei bracci cavi che permettono la risonanza della musica prodotta dalle corde. 60. (150) Quanto sono idonee le mani che la natura ha donato all'uomo e di quante arti esse sono esecutricP01• Sono semplici i movimenti di contrazione e di disten­ sione delle dita in forza dell'elasticità delle giunture, e il dito non si affatica al compimento di nessun movimen­ to. In questo modo la mano risulta adatta, mediante il movimento delle dita, a dipingere, a scolpire, a incidere, a produrre suoni dagli strumenti a corda e a fiato. Di tutte le attività, queste sono di natura ricreativa, altre in­ vece sono necessarie alla vita: la coltivazione dei campi, la costruzione delle case, i vestiti per il corpo (intessuti e cuciti) e la lavorazione del bronzo e del ferro; da ciò si comprende che noi, applicando l'attività manuale degli artigiani alle scoperte della mente e alle percezioni dei sensi, possediamo tutto ciò che ci garantisce di essere

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coperti, vestiti e protetti, e di avere città, mura, abitazio­ ni, templi. (151) E poi grazie ai lavori degli uomini, cioè grazie alle mani, è possibile trovare anche tante varietà e quantità di cibo. Difatti i campi, con il lavoro della mano, danno molti prodotti che si possono consumare all'istan­ te o che possono essere conservati a lungo termine, e inoltre ci cibiamo di animali terrestri, acquatici e volatili, in parte cacciandoli, in parte allevandoli. Abbiamo fatto in modo che i quadrupedi, da noi domati, ci trasportas­ sero: la loro velocità e forza ci donano forza e rapidità. Alcune bestie le carichiamo di pesi o le aggioghiamo; ci serviamo per nostra utilità degli acutissimi sensi de­ gli elefantP02 e della finezza che i cani hanno nell'olfat­ to; estraiamo dalle cavità della terra il ferro, materiale necessario per la coltivazione dei campi, e rinveniamo i filoni di rame, di argento e di oro nascosti in profondità, idonei sia in ambito pratico sia decorativo. Ci serviamo degli alberi abbattuti e di qualsiasi materiale legnoso, sia coltivato sia silvestre, in parte appiccandovi il fuoco per riscaldare il corpo e cuocere il cibo, in parte per costruire edifici affinché potessimo ripararci dal freddo e dal cal­ do, riparandoci sotto un tetto; (152) in verità il legname è di notevole utilità per la costruzione delle navi, che con le loro traversate marine ci forniscono da ogni dove tut­ to il necessario per la vita; e noi soltanto possediamo la chiave per moderare le forze che la natura ha dotato di una violenza inaudita, quali i mari e i venti, grazie alla tecnica della navigazione, e utilizziamo e fruiamo del mare in numerosissime occasioni. Ugualmente riposta nelle mani dell'uomo è la capacità di dominare qualsiasi vantaggio proveniente dalla terra; sfruttiamo i campi, i monti, sono nostri i fiumi e i laghi, seminiamo le mes­ si e piantiamo gli alberi; rendiamo i terreni fertili con i sistemi di irrigazione, tratteniamo i fiumi nel loro letto, dirigiamo e variamo il loro corso; insomma, con le no-

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stre mani cerchiamo di costruire in natura una sorta di seconda natura. 61. (153) Ma come? Forse la ragione umana non è pe­ netrata fino al cielo? In effetti, tra gli esseri viventi, sol­ tanto noi abbiamo nozione del sorgere, del tramontare e delle orbite delle stelle, è il genere umano che ha stabilito la durata del giorno, del mese, dell'anno, appreso le eclis­ si del sole e della luna, e di quelle che si verificheranno nel futuro ha definito il tipo, l'intensità e il momento in cui avverranno. Considerando tutti questi fenomeni, l'a­ nima giunge alla conoscenza degli dèP03, da cui nasce lo spirito di devozione alla quale sono vincolate la giustizia e le altre virtù; da queste ha origine la vita beata, uguale e simile a quella degli dèi, per nessun aspetto inferiore agli esseri celesti se non per l'immortalità304 (che non ha proprio niente a che vedere col vivere una vita beata). Con l'esposizione di questi argomenti, mi pare di aver dimostrato a sufficienza quanto la natura umana sia su­ periore a quella di tutti gli altri esseri viventi. Da que­ sto si deve capire che né la forma e la disposizione del­ le membra né una tale forza dell'ingegno e della mente avrebbero potuto essere frutto del puro caso. (154) Resta da dimostrare (e con ciò concludo) che tut­ to quello che si trova in questo mondo, di cui gli uomini usufruiscono, è stato creato e predisposto per loro. 62 . Innanzitutto, il mondo stesso è stato creato per gli dèi e gli uomini, e tutto quello che in esso si trova è stato allestito ed escogitato per l'uso degli uomini. Il mondo è quasi la casa comune degli dèi e degli uomini o la città di entrambP05, in quanto sono gli unici esseri a fruire di una ragione e a vivere secondo il diritto e la legge. Dun­ que come bisogna ritenere che Atene e Sparta siano state fondate per gli Ateniesi e gli Spartani, e tutto ciò che si trova in queste città giustamente è proprietà di coloro che vi abitano, così qualsiasi cosa esista al mondo è da

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considerare possesso degli dèi e degli uomini. (155) In aggiunta, le rivoluzioni del sole, della luna e delle altre stelle, sebbene pertengano alla coesione del mondo, tutta­ via offrono uno spettacolo agli uomini; nessuna visione è più insaziabile, più bella e più eccellente per razionalità e ingegnosità; infatti, una volta che abbiamo delimitato i corsi dei corpi celesti, abbiamo conosciuto le stagioni, le loro varietà e i loro cambiamenti. Se tutto ciò è osservato solamente dagli uomini, bisogna reputare che sia stato prodotto per loro. (156) La terra, poi, ricca di messi e di legumi di vario genere, che elargisce con grandissima generosità, sembra produrre tutto questo per le bestie oppure per gli uomini? Che dovrei dire delle vigne e de­ gli oliveti? I loro frutti, così abbondanti e rigogliosi, non hanno niente a che vedere con gli animali, i quali non hanno alcuna conoscenza sulla semina, né sulla coltiva­ zione, né sulla mietitura nel momento opportuno, né sul modo in cui i frutti debbano essere raccolti e si conser­ vati; di tutto ciò l'uomo possiede l'uso e la cura. 63. (157) Quindi, come bisogna dire che le cetre e i flauti sono stati costruiti per gli uomini che sono in grado di suonarli, così si deve ammettere che tutto quello di cui ho parla­ to è stato predisposto per coloro che se ne servono, e se qualche animale ne sottrae o ruba qualcosa, non diremo che ciò è stato prodotto anche per loro. Infatti gli uomi­ ni non mettono da parte il frumento per i topi o per le formiche, bensì per le mogli, per i figli e per i loro fami­ liari; così gli animali, come ho detto, se ne servono fur­ tivamente, mentre i padroni apertamente e liberamen­ te; (158) dunque bisogna dichiarare che questa grande quantità di beni è stata apprestata per l'uomo. Salvo che tanta varietà e ricchezza di frutti e la gradevolezza non solo del loro sapore, ma anche del loro profumo e aspetto non ci porti a mettere in discussione il fatto che la natura li abbia donati solamente agli uomini. La possibilità che

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tutto questo sia stato prodotto anche per gli animali è sì remota dalla verità che, stando a quello che abbiamo da­ vanti agli occhi, anche gli animali stessi furono generati per gli uominP06• Infatti quale altro vantaggio recano le pecore se non quello di offrire una veste agli uomini dai loro velli lavorati e intessuti? Di sicuro, senza l'alleva­ mento e la cura a loro riservata dagli uomini, non sareb­ bero state in grado né di alimentarsi, né di sopravvivere, né di offrire alcun prodotto da sole. E che significano la guardia così fedele dei cani, le loro manifestazioni di fe­ sta nei confronti dei padroni, la loro avversione verso gli estranei, il loro fiuto straordinario nel seguire le orme, il loro grande ardore nella caccia? Cosa altro possono si­ gnificare, se non che sono stati generati per l'utilità degli uomini? (159) Che dire dei buoi? Il loro dorso denota che non sono stati creati per portare un peso, mentre il loro collo nacque per il giogo307, e la potenza e la grandez­ za delle spalle per trainare gli aratri. Quando la stirpe dell'oro lavorava la terra arandone le zolle grazie al loro aiuto, come dicono i poeti, non facevano alcuna violen­ za nei loro confronti: "ma poi, da un momento all'altro, nacque la stirpe del ferro, e per prima ebbe il coraggio di fabbricare la funesta spada e di mangiare il toro aggio­ gato e domato dalla mano dell'uomo"308• L'utilità dei buoi era tenuta così tanto in considerazione che si credeva fos­ se un delitto nutrirsi delle loro carnP09• 64. Sarebbe lungo mettersi a elencare i vantaggi che si ricavano dai muli e dagli asini, che certamente furono predisposti per l'uso degli uomini. (160) Il maiale poi che cosa ha da fornire se non il cibo? Crisippo310 dice che gli fu data un'anima con le stesse caratteristiche del sale, per far sì che non andasse a male. La natura non ha generato nessun al­ tro animale più prolifico di lui, in quanto si trattava di un animale adatto a fornire il nutrimento all'uomo. Cosa dire della gran quantità e della piacevolezza dei pesci?

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E degli uccelli? Da essi si ricava così tanto piacere che alle volte sembra che la nostra Pronoea sia stata epicu­ rea. Ed essi non si possono nemmeno catturare, se non mediante la ragione e l'astuzia; ciononostante reputiamo che certi uccelli, volatili e canterini (come i nostri àuguri li chiamano)311, esistano per fornire presagi. (161) Inoltre attraverso la caccia catturiamo belve immani e feroci al fine di cibarcene e sfruttiamo la stessa caccia per tener­ ci in esercizio quasi fosse una simulazione di guerra; le bestie che catturiamo le utilizziamo una volta che sono state domate e ammaestrate (ad esempio gli elefanti), e dai loro corpi estraiamo molti rimedi per le malattie e le ferite, come da certe radici ed erbe delle cui utilità siamo venuti a conoscenza grazie all'uso e alla duratura espe­ rienza che abbiamo di esse. Si può passare in rassegna, con la mente come con gli occhi, la terra e i mari nella loro totalità: potrai vedere gli immensi spazi coltivati ca­ richi di messi e la densissima vegetazione sulle monta­ gne, i pascoli del bestiame, e poi i percorsi via mare di mirabile velocità. (162) E non solo sulla terra ma anche nei suoi più intimi recessi si nascondono numerosissime utilità che, nate per l'uso degli uomini, sono scoperte da essi soltanto. 65. E poi quell'argomento che forse adotterete tutti e due per la vostra critica312, Cotta perché Carneade at­ taccava volentieri gli Stoici, Velleio perché non c'è nulla che Epicuro derida tanto quanto la predizione del futu­ ro, mi pare confermare al massimo grado il fatto che la saggezza degli dèi si curi degli affari umani. Senza dub­ bio vi è la divinazione, che si manifesta in molti luoghi, occasioni e circostanze, tanto in contesti privati quanto specialmente in quelli pubblici. (163) Molto è segnala­ to dagli aruspici, molto è previsto dagli àuguri, molto è dichiarato dagli oracoli, molto dai vaticini, dai sogni e dai prodigi: la conoscenza di tutte queste cose ha porta-

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to spesso a situazioni coincidenti con il parere e l'utilità degli uomini, e ha allontanato anche molti eventi peri­ colosi. Dunque o che si tratti di una forza o di un'arte o di un'inclinazione naturale relativa alla conoscenza del futuro, essa di sicuro è propria dell'uomo e non è stata data dagli dèi immortali a nessun altro. E se per caso non sono questi singoli argomenti a smuovervi, di sicuro pre­ si tutti insieme, connessi e tra loro congiunti, avrebbero dovuto farvi mutare opinione. (164) Ma tuttavia gli dèi immortali hanno cura e prov­ vedono non solo a, tutto il genere umano, ma anche ai singoli individui. E infatti possibile ridurre, attraverso un restringimento graduale, la totalità del genere uma­ no, giungendo prima a un numero limitato e poi ai sin­ goli individui. 66. Infatti se riteniamo per le ragioni espo­ ste sopra che gli dèi si preoccupano della totalità degli uomini, ovunque siano, in qualsiasi zona e parte della terra lontana da queste zone che noi abitiamo, provve­ dono anche a questi uomini che con noi abitano queste terre da oriente a occidente. (165) Ma se si preoccupano di coloro che abitano questa specie di grande isola (che chiamiamo terra)313, allora si preoccupano anche di co­ loro che stanno nelle parti di tale isola: l'Europa, l'Asia, l'Africa. Dunque amano anche le loro parti, come Roma, Atene, Sparta, RodP14, e di queste città amano i singoli in­ dividui indipendentemente dalla totalità315: nella guerra contro Pirro Curio316, Fabrizio317, Coruncanio318; nella pri­ ma guerra punica Calatino319, Duilio320, Metello32\ Luta­ zio322; nella seconda Massimo323, Marcello324, l'Africano325; e dopo questi Paolo326, Gracco327, Catone328; e al tempo dei nostri padri Scipione329 e Lelio330; inoltre il nostro Stato e la Grecia hanno prodotto uomini eccezionali, di cui dobbiamo considerare che nessuno sarebbe stato di tale livello se non con l'aiuto degli dèi. (166) Questo motivo spinse i poeti, e in particolare Omero, a porre accanto

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agli eroi principali, quali Ulisse, Diomede, Agamennone e Achille, certi dèi come compagni nei pericoli e nei ri­ schi. E il fatto che questi siano stati spesso presenti, cosa che ho rammentato sopra331, non fa che mettere in evi­ denza che si interessano dei popoli e dei singoli indivi­ dui. Ciò si coglie chiaramente anche dagli annunci degli eventi futuri che si presentano tanto durante il sonno quanto nelle veglie. Molti avvertimenti li riceviamo poi dai prodigi, dall'osservazione delle interiora e da altri numerosi segni che sono stati ravvisati dalla continua pratica di essi: così si è costituita l'arte della divinazio­ ne. (167) Quindi non vi fu mai un grande uomo senza un'ispirazione divina332. E del resto non bisogna obietta­ re che, se una tempesta ha distrutto le messi e le vigne di qualcuno, o la sorte lo ha privato di un qualche agio della vita, colui al quale sono capitate queste disgrazie sia malvisto o negletto dalla divinità. Gli dèi si curano di grandi affari e lasciano da parte quelli di poca im­ portanza333. Tuttavia ai grandi uomini va sempre tutto bene, se i nostri e Socrate, il principe della filosofia, si sono pronunciati a sufficienza in merito agli innumere­ voli vantaggi della virtù334. 67. (168) Questo è suppergiù ciò che mi era venute in mente e che pensavo fosse degno di essere detto in rela­ zione al problema della natura divina. Invece tu, Cotta, se vuoi darmi retta, dovrai difendere la stessa causa e pensare che sei uno dei cittadini più eminenti e un pon­ tefice e, siccome vi è permesso esaminare i punti forti e i punti deboli di una tesi, aderire piuttosto alla mia, rivolgendo preferibilmente verso questa direzione quella capacità oratoria che, ricavata dagli esercizi di retorica, l'Accademia ti ha amplificato. Infatti è cosa malvagia ed empia aver l'abitudine di dibattere contro gli dèi, tanto che venga fatto con serietà quanto per finta.

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l. (l) Dopo che Balb? ebbe concluso il suo discorso, Cotta disse sorridendo: «E troppo tardi, Balbo, per indicarmi quale teoria io debba difendere. Infatti, mentre stavi di­ scutendo, riflettevo tra me e me su cosa obiettare, non tanto per confutarti quanto per chiederti quello che mi era difficile da comprendere. Ma visto che ognuno deve servirsi della propria capacità di discernimento, risul­ ta in effetti difficile per me condividere l'opinione che tu vorresti». (2) Allora Velleio disse: «Tu non sai, Cotta, quanto io desideri ascoltarti. Il tuo discorso contro Epi­ curo è piaciuto al nostro Balbo; dunque mi dimostrerò a mia volta attento alle parole che hai in serbo contro gli stoici. Spero infatti che, come al solito, tu giunga ben pre­ parato». (3) Allora Cotta: «Sì, per Ercole, Velleio, perché con Lucilio ho una faccenda differente da quella che ho con te». E quello: «Sarebbe a dire?». «Perché mi sembra che il vostro Epicuro non sia così combattivo a propo­ sito degli dèi immortali: semplicemente non osa negar­ ne l'esistenza, per non esporsi a invidie o ad accuse di crimine; poi quando sostiene che gli dèi non compiono alcuna azione, non si curano di nulla e sono provvisti di membra umane ma non ne fanno alcun utilizzo, pare

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che scherzi e che reputi sufficiente aver affermato l'esi­ stenza di una natura felice ed eterna. (4) Tuttavia, penso tu ti sia accorto della gran quantità di argomenti recati da Balbo, e come essi siano tra di loro collegati e coe­ renti, nonostante siano minimamente vicini alla verità. Pertanto la mia intenzione, come già ho avuto modo di dire, non è quella di confutare le tue parole, ma di chie­ dere delle spiegazioni su ciò che mi risulta meno chiaro. Perciò, Balbo, a te la scelta se rispondere alle mie singole domande su quello che non ho compreso appieno o se ascoltare tutto intero il mio discorso». Allora Balbo rispo­ se: «Per quanto mi riguarda, se vuoi ricevere da me una qualche spiegazione, preferisco rispondere alle doman­ de; se invece hai intenzione di interrogarmi non tanto per capire quanto per confutarmi, farò quello che vuoi tu: o risponderò subito a ogni singola domanda o a tutte una volta che avrai concluso il discorso». (5) Allora Cotta disse: «Benissimo, allora facciamoci guidare dallo stesso discorso. 2. Ma prima di appro­ darvi, !asciami fare una premessa su una cosa che mi riguarda personalmente. Mi scuotono l'animo, Balbo, e non poco, la tua autorevolezza e ciò che hai detto verso la conclusione, quando mi esortavi a ricordare di essere Cotta e un pontefice; questo voleva dire, almeno penso, che devo difendere le credenze che ci sono state traman­ date dai nostri antenati riguardo gli dèi immortali, i riti, le cerimonie e le pratiche religiose1• Io in verità sempre li difenderò e sempre li ho difesi, né sarà un discorso di un uomo, colto o ignorante che sia, a smuovermi dall'opinio­ ne relativa al culto degli dèi immortali che ho ricevuto da­ gli antenati. Ma quando si ha a che fare con la religione, io tengo dietro a Tiberio Coruncanio2, Publio Scipione3, Publio Scevola4, tutti pontefici massimi, e non a Zenone, Cleante o Crisippo, e ho Gaio Lelio5, àugure e per giunta sapiente, da ascoltare a proposito della religione in quel-

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la sua nobile orazione, piuttosto che qualunque grande pensatore stoico. Tutta la religione del popolo romano si suddivide6 in riti sacri e auspici, cui si è aggiunta una terza ripartizione che consiste negli ammonimenti che gli intepreti della Sibilla7 e gli aruspici hanno ricavato dai prodigi e dai fenomeni soprannaturali; di tutte que­ ste cose io non ho mai ritenuto di doverne disprezzare qualcuna, e mi sono convinto che Romolo con gli auspici e Numa con l'instituzione dei sacrifici abbiano gettato le fondamenta della nostra città8, che di certo non avreb­ be mai potuto essere tanto importante senza la massima propiziazione degli dèi immortali. (6) Ecco, Balbo, cosa pensa Cotta in veste di pontefice; adesso voglio capire qual è la tua posizione, giacché da te, che sei filosofo, debbo avere una spiegazione della religione, mentre ai nostri antenati debbo credere senza alcuna spiegazione razionale». 3. Quindi Balbo disse: «Che spiegazione razionale desideri sentire, Cotta?». E questi: «Il tuo discorso si è ripartito in quattro punti: in primo luogo volevi dimo­ strare l'esistenza degli dèi, poi come fossero, poi il fatto che governano il mondo, e infine che essi si curano degli affari umani». Balbo: «Proprio così, ma aspetto la tua do­ manda». (7) Cotta: «Prendiamo in esame ciascun punto, e se il primo è l'esistenza degli dèi, credenza accolta da tutti meno che dagli empi, che non può essere cancellata in nessun modo dal mio animo, nemmeno con il fuoco, tuttavia di questo stesso argomento, di cui io sono con­ vinto grazie all'autorità degli antenati, tu non mi spieghi affatto la ragione». «Cosa è che vuoi sapere da me allora - replicò Balbo - se ne sei convinto?». Cotta: «Perché mi avvicino a questa discussione come se non avessi mai sentito parlare degli dèi immortali e non ci avessi mai ra­ gionato su; trattami come un discepolo rude e ignorante, e spiegami quello che ti chiedo».

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(8) «Allora dimmi cosa vuoi sapere». «lo? Innanzitut­ to vorrei sapere perché ti sei dilungato così tanto, dopo aver detto che questo primo punto non necessita nean­ che di essere discusso, visto che l'esistenza degli dèi è un fatto evidente su cui tutti accordano». E Balbo: «Poiché ho notato che spesso anche tu, Cotta, quando parlavi nel foro, fornivi al giudice quante più prove eri in grado di recare, se solo la causa te ne desse l'occasione. Questo è lo stesso procedimento dei filosofi, e anch'io l'ho segui­ to per quanto mi riuscisse. Tu però, rivolgendoti così, è come se mi chiedessi perché uso due occhi per guardarti e non ne chiuda uno, visto che con uno soltanto posso conseguire il medesimo risultato». 4. (9) Allora Cotta disse: «Quanto valga codesto para­ gone, sarà compito tuo giudicare. Infatti, durante le cau­ se, se c'è un punto su cui tutti accordano, di solito non intendo discuterlo (l'argomentazione infatti diminuisce l'evidenza), e se anche mi comportassi così nell'ambito delle cause giudiziarie, di certo non lo farei in una di­ scussione così delicata. In merito al dover chiudere un occhio, non ne trovo il motivo, dal momento che la for­ za visiva di entrambi è identica e la natura, che tu dici essere sapiente, ha voluto che noi avessimo due finestre luminose che vanno dalla mente agli occhi9• Ma siccome non confidavi sul fatto che questo punto fosse così evi­ dente come volevi, ecco la ragione per cui tu hai voluto dimostrare l'esistenza degli dèi servendoti di numerosi argomenti. A me bastava soltanto questo, cioè che sono stati i nostri antenati a tramandarci questa credenza. Ma tu rigetti l'autorità e combatti la ragione. (10) Lascia al­ lora che la mia ragione venga a confrontarsi con la tua. Tu adduci tutti questi argomenti a favore del-l'esistenza degli dèi, e, a forza di aggiungerne, fai calare dei dubbio su un fatto che a mio avviso ne è totalmente privo; ho fis­ sato bene nella mente infatti non soltanto il numero ma

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anche l'ordine dei tuoi argomenti. Il primo era consisteva in questo: quando guardiamo il cielo, subito ci accorgia­ mo che esiste una volontà divina che governa queste cose. Da qui, anche quel famoso verso: "Guarda questo sublime splendore che tutti chiamano Giove"10• (11) Proprio come se davvero qualcuno di noi invocasse questo piuttosto che Giove Capitolino, o fosse chiaro e accolto da tutti che siano dèi gli esseri che Velleio e tanti altri non ammetterebbero nemmeno se esistessero. Ti sembrava poi un argomento di notevole importanza il fatto che l'opinione sugli dèi im­ mortali fosse universale e aumentasse giorno dopo gior­ no. Vi pare giusto allora che argomenti così importanti si­ ano giudicati sulla base dell'opinione degli stolti, proprio a voi che li reputate dei pazzi? 5. "Ma vediamo presentarsi gli dèi in persona, come accadde a Postumio presso il lago Regillo e a Vatieno sulla via Salaria ..." e non so cos'altro anche durante la battaglia dei Locresi presso il Sagra11• Quindi, quelli che tu chiamavi Tindàrei, cioè uomini nati da un uomo, e che Omero, vissuto poco tempo dopo di loro12, dice es­ sere stati sepolti a Sparta13, pensi si siano presentati al cospetto di Vatinio su cavalli bianchi senza alcuna scor­ ta, e abbiano annunciato la vittoria del popolo romano a lui, un contadino, piuttosto che a Marco Catone, che a quel tempo era il cittadino più importante di tutti? Allora credi che quella traccia sulla pietra14, che ancor oggi si conserva presso il lago Regillo come se fosse l'impronta di un'unghia, sia del cavallo di Castore? (12) O forse non preferisci credere a quel fatto verosimile, cioè che le ani­ me degli uomini illustri (quali furono gli stessi figli di Tindaro) siano divine ed eterne, piuttosto che, una volta cremati, abbiano potuto essere a cavallo e combattere in battaglia? Altrimenti, se dici che questo è potuto verifi­ carsi, bisogna che tu dimostri in che modo, senza cercare di propinarci le favole della nonna15».

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(13) Allora Lucilio disse: «Ti sembrano delle favole? Non vedi nel foro il tempio dedicato a Castore e Polluce da Aulo Postumio? E il decreto del senato su Vatinio? A proposito della battaglia sul fiume Sagro, anche pres­ so i Greci c'è un proverbio d'uso comun�, che la gente utilizza per confermare quanto si dice: "E più certo dei fatti del Sagra" 16• Dunque non ti scuotono queste testi­ monianze?». E allora Cotta: «Balbo, tu combatti con me a suon di chiacchiere, quando in realtà ti sto chiedendo delle spiegazioni razionali * * *17 6. (14) Seguono gli eventi che avverranno; nessuno può sfuggire al futuro. Spesso poi non è neanche utile conoscerlo18, perché è triste19 stare a tormentarsi inutil­ mente e non avere nemmeno l'estrema seppur universa­ le consolazione della speranza, tanto più che voP0 consi­ derate ogni evento figlio del destino e definite il destino stesso ciò che fu sempre vero per tutta l'eternità; a che giova e quale apporto al fine di evitarlo ci viene recato dalla conoscenza di un evento futuro, dal momento che è certo che esso accadrà? E poi, da dove viene codesta divinazione? Chi ha scoperto le fessure sul fegato? Chi ha osservato il canto della cornacchia? E chi le tavolette divinatorie? Io credo a tutto questo, e non posso rigettare il lituo di Atto Navio21 di cui parlavi, ma devo capire dai filosofi come esse vengano comprese, tanto più che que­ sti individui ispirati sono per lo più dei mentitori. (15) "Ma anche i medici - tu dicevi - spesso sbagliano". Che hanno di simile la medicina, il cui metodo razionale lo conosco bene, e la divinazione, che non capisco da dove abbia avuto origine? Tu poi sei dell'opinione che i sacri­ fici dei Deci22 abbiano placato gli dèi. Ma quanto dovette essere grande la loro iniquità per non potersi placare nei confronti del popolo romano se non che perissero uomi­ ni di tal genere? In quel caso si trattò di una decisione dei comandanti (quello che i Greci chiamano stratégema),

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ma di quei comandanti che si prendono cura della patria senza far parsimonia della vita; credevano infatti che se il comandante si fosse lanciato a briglia sciolta contro il nemico, l'esercito lo avrebbe seguito, e così accadde. Io in verità non ho mai udito la voce del Fauno23; ma se lo dici, ti crederò, benché io non sappia proprio che cosa sia un Fauno. 7. Allora fino a questo punto, Balbo, per quanto dipende da te, io non capisco se gli dèi esistono; senza dubbio ci credo, ma gli stoici non ne danno dimostrazio­ ne alcuna. (16) Infatti Cleante, come sostenevi, crede che la nozio­ ne di dio si sia formata nella mente dell'uomo in quattro modF4• Il primo è quello di cui ho già parlato a sufficien­ za, che si ricava dalla previsione degli eventi futuri; il se­ condo è dato dalle perturbazioni meteorologiche e da altri sconvolgimenti; il terzo dalle numerose e svariate como­ dità che noi riceviamo; il quarto dall'ordinamento delle stelle e dalla regolarità del cielo. In merito alla previsione degli eventi futuri ci siamo già pronunciati. Quanto alle perturbazioni del cielo, del mare e della terra non possia­ mo negare che quando si verificano non siano molti quelli che li temono e credono che siano causati dagli dèi im­ mortali. (17) Ma la questione non ruota attorno a questo, cioè se vi sia chi crede nell'esistenza degli dèi; il problema è se gli dèi esistano o meno. Infatti le altre cause recate da Cleante, tra cui la notevole quantità di vantaggi che otte­ niamo e il succedersi delle stagioni e la regolarità del cie­ lo, verranno da noi trattate al momento della discussione sulla provvidenza divina, in merito alla quale tu, Balbo, ti sei molto dilungato. (18) E rimanderemo a quella stessa occasione anche le parole, a detta tua, di Crisippo, secon­ do cui nella natura delle cose esiste qualcosa che non può essere stato creato dall'uomo ed è a lui superiore; e anche il parallelo da te istituito tra la bellezza di una casa e quel­ la del mondo, e la tua argomentazione relativa all'armonia

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e all'accordo di tutte le parti del mondo. Rimanderemo poi a quella parte del discorso che ho testé nominato anche i ragionamenti dialettici brevi e cavillosi di Zenone; in quello stesso momento verranno affrontate poi, ognuna al proprio posto, tutte le questioni pertinenti alla fisica25 che hai sollevato a proposito della forza del fuoco e del calore da cui, secondo te, tutto deriva; e riserverò per la stessa occasione tutte le parole che hai pronunciato due giorni fa, quando volevi dimostrare l'esistenza degli dèi e spiegare il motivo per cui tutto il mondo, il sole, la luna e le stelle possiedono sensibilità e intelligenza. (19) Tuttavia, ti por­ gerò ancora sempre la solita domanda: quali spiegazioni razionali ti inducono a ritenere che gli dèi esistono? 8. Allora Balbo disse: «A dir la verità mi pare di aver addotto delle solide ragioni, ma tu le confuti in modo tale che, quando sembra che tu stia per farmi delle domande ed io mi sono preparato per rispondere, tutt'a un tratto cambi discorso e non mi concedi lo spazio per risponder­ ti. In questo modo sono passate sotto silenzio questioni di enorme importanza, ad esempio la divinazione e il destino, argomenti su cui i nostri, a differenza di te che li sorvoli, sono soliti trattare in modo approfondito, ma che sono distinti dal problema che stiamo affrontando qui. Perciò, se ti pare, non trattare la questione con disordine, così da poterei permettere di sviluppare con chiarezza ciò su cui stiamo adesso indagando». (20) «Benissimo» disse Cotta. «Allora, visto che hai suddiviso in quattro parti tutta la questione e sulla pri­ ma ci siamo soffermati, prendiamo in esame la secon­ da, che, mi pare, è stata di natura tale che, mentre volevi mostrare quale fosse la natura degli dèi, hai dimostra­ to che non esistono. Sostenevi che la cosa più ardua è distogliere la mente dall'abitudine degli occhi, ma, dal momento che niente risulta essere superiore a dio, non esprimevi alcun dubbio sul fatto che il mondo fosse dio,

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poiché nella natura non esiste nulla di migliore; certo, purché si potesse pensarlo nella veste di essere animato, o meglio vederlo con la mente proprio come vediamo le altre cose con gli occhi. (21) Ma quando dici che niente è migliore del mondo, cosa intendi per "migliore"? Se vuoi dire "più bello': sono d'accordo; e sono d'accordo anche se vuoi dire "più adatto alle nostre necessità"; ma se in­ tendi che niente è più saggio del mondo, allora non sono per niente d'accordo, non perché sia difficile separare la mente dagli occhi, ma perché quanto più cerco di dis­ sociarla tanto meno riesco a capire ciò che tu vuoi dire. 9. "Nella natura delle cose non c'è niente migliore del mondo" 26. Anche sulla terra non c'è niente migliore del­ la nostra città; forse allora ritieni che per questo la città sia provvista di ragione, di pensiero e di mente? Oppu­ re, poiché non possiede queste caratteristiche, credi che una formica27 debba essere preferita a questa bellissima città perché essa non ha alcuna sensibilità, mentre la for­ miea non soltanto P!JSSiede sensibilità ma anche mente, ragione, memoria? E necessario che tu prenda in con­ siderazione, Balbo, quale premessa ti sia concessa, non prendere di tua spontanea volontà quella che vuoi. (22) Questo argomento, nella sua completezza, fu ampliato28 da quel vecchio sillogismo di Zenone, breve, e a tuo pa­ rere acuto. Così conclude Zenone: "Ciò che è provvisto di una ragione è migliore di ciò che ne è privo; ma nulla è migliore del mondo; dunque il mondo è dotato di ra­ gione"29. (23) Se sei d'accordo su questo, giungerai alla conclusione che il mondo sembri leggere benissimo un libro30; infatti, seguendo le orme di Zenone, potrai arri­ vare a questa deduzione: "Un essere colto è superiore ad uno che non lo è; ma nulla è migliore del mondo; quin­ di il mondo è colto". In quest'ordine di idee sarà anche eloquente, esperto in matematica e in musica, insomma istruito in ogni campo del sapere, e infine filosofo. Spesso

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hai sostenuto che niente accade senza l'intervento del dio, e che in natura non vi è alcuna forza in grado di produrre esseri differenti da sé; dovrò ammettere che il mondo sia non soltanto animato e sapiente ma anche suonatore di lira e di tromba, poiché da esso sono gene­ rati gli uomini che praticano tali arti? Dunque codesto padre31 degli Stoici non favorisce alcuna prova per farci arrivare a credere che il mondo sia provvisto di ragione e sia animato. Dunque il mondo non è dio; e tuttavia nulla è migliore di esso; giacché nulla lo supera in bellezza, nulla è per noi più vantaggioso, nulla è più ornato nell'a­ spetto e più costante nel movimento. E se l'universo intero non è dio, non possono esserlo nemmeno le stelle infinite, che tu riconducevi nel novero degli dèi. Erano di tuo gradimento le loro orbite costan­ ti ed eterne, e non a torto, per Ercole, dal momento che sono caratterizzate da una regolarità meravigliosa e in­ credibile. (24) Non tutto ciò che ha un corso determinato e costante, però, Balbo, può essere attribuito a dio piut­ tosto che alla natura. 10. Pensi forse che nel movimento alterno del flusso e del riflusso possa esistere qualcosa di più regolare dell'Euripo di Calcide32? O dello stretto di Sicilia33? O del ribollire dell'Oceano34 in quei luoghi "dove l'onda travolgente separa l'Europa e la Libia"35? E i flutti del mare della Spagna o della Britannia, il loro flusso e riflusso ad intervalli temporali definiti non pos­ sono verificarsi senza l'intervento di dio? Presta atten­ zione, per piacere, a questo: se indichiamo come divino ogni movimento e ogni fenomeno che a tempi stabiliti osserva un determinato ordine proprio, non dobbiamo considerare divine anche le febbri terzane e quartane36; cosa può esistere di più regolare della loro ricorrenza? Bisogna però che di tutti questi fenomeni si renda ragio­ ne; (25) e dato che voi non ci riuscite, vi rifugiate nella divinità come all'altare37•

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E Crisippo, a tuo parere, si esprimeva in modo acuto, lui che senza dubbio è un uomo scaltro e avveduto (chia­ mo scaltri coloro la cui mente opera velocemente, e avve­ duti coloro la cui mente, come una mano per il lavoro, ha fatto il callo a forza di esercitarsi) - dunque costui diceva: "Se c'è qualcosa che l'uomo non è capace di creare, chi la crea è migliore dell'uomo; ma l'uomo non può creare quello che è nel mondo; dunque chi può creare tali cose risulta superiore all'uomo; ma chi può essere superiore all'uomo se non dio? Dunque dio esiste"38• Tutto ciò si trova nella medesima condizione d'errore in cui versa­ vano le parole di Zenone. (26) Cosa sia migliore, cosa sia superiore, che differenza intercorra tra la natura e la ra­ gione non si può determinare. Sempre lui afferma che, se gli dèi non esistono, in tutta la natura non vi è niente che possa superare l'uomo; però il fatto che un uomo possa pensare che non c'è nulla di superiore a se stesso, lo con­ sidera un atto di grandissima presunzione. Ammettiamo che sia veramente una presunzione reputarsi superiori al mondo; ma capire che noi abbiamo sensibilità e ragio­ ne a differenza di Orione e della Canicola39 che invece ne sono prive, non è un atto di presunzione, bensì di sag­ gezza. Poi dice: "Se una casa è bella, capiamo che è stata costruita per i padroni, non per i topi; così allora dob­ biamo credere che il mondo sia la casa degli dèi"40. Sarei totalmente d'accordo, se solo credessi il mondo costruito e non plasmato dalla natura, cosa che avrò modo di di­ mostrare. 11. (27) Socrate però, nell'opera di Senofonte41, chiede da dove abbiamo ricavato la mente se il mondo ne è privo. E io chiedo da dove abbiamo preso il linguaggio, il numero, il canto; a meno che non riteniamo che il sole si metta a parlare con la luna quando le si fa più vicino, o che il mondo suoni armoniosamente, come pensa Pita­ gora42. Questi, Balbo, sono fenomeni della natura, e non di una natura che procede con arte, come dice Zenone (e

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di che cosa si tratta lo vedremo presto), ma di una natura che muove tutto attraverso i propri moti e mutamenti. (28) E così mi trovavo in accordo con quel tuo discorso relativo all'armonia e all'accordo della natura, che, stan­ do a quanto dicevi, agisce in accordo quasi vi fosse tra le sue parti un rapporto di parentela; non ero d'accordo invece quando sostenevi che ciò non sarebbe potuto ac­ cadere senza l'opera di conservazione per mano di uno spirito divino. La natura, in realtà, mantiene la sua con­ nessione e perdura grazie alla forza di sé, non a quella divina, e in essa vi è una sorta di accordo armonico che i Greci chiamano sympatheia43; ma tanto più grande essa è per un impulso di natura propria, quanto meno bisogna credere che sia il frutto della ragione divina. 12. (29) In che modo, invece, confutate le argomenta­ zioni di Carneade44? Se nessun corpo è immortale, nes­ sun corpo è eterno; ma non esiste nessun corpo immor­ tale né indivisibile né che non si possa dividere in parti; e poiché ogni essere vivente ha una natura sensibile, non c'è nessun essere vivente che possa sfuggire alla neces­ sità di ricevere uno stimolo dall'esterno, vale a dire, di sopportare e subire, e se ogni essere vivente è tale, allora nessuno di essi è immortale. Dunque, in maniera ana­ loga, se ogni essere vivente può essere diviso in parti, nessuno di essi è indivisibile ed eterno; ma ogni essere vivente è pronto ad accogliere una forza dall'esterno e a sopportarla; dunque ogni essere vivente è per necessità mortale, separabile e divisibile. (30) Facciamo un esem­ pio: se tutta la cera45 fosse malleabile, non esisterebbe al­ cun oggetto di cera che non potrebbe essere trasformato, ugualmente nessun oggetto di argento né di rame, se la materia prima dell'argento e del rame non fosse mallea­ bile - allo stesso modo, quindi, se tutti gli elementi che sono alla base di tutte le cose possono essere soggetti a una trasformazione, non può esserci corpo che non sia

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mutabile; però, secondo voi, gli elementi che costituisco­ no tutte le cose sono mutabili; dunque ogni corpo è mu­ tabile. Però, se esistesse un corpo immortale, non tutti i corpi sarebbero trasformabili; ne consegue che tutti i corpi sono mortali. E infatti ogni corpo è acqua o aria o fuoco o terra o una mescolanza di essi o di una parte di essi; tuttavia non vi è nessuno di questi elementi che non sia soggetto alla dissoluzione. (31) E infatti ogni cor­ po costituito di terra si divide, e l'acqua è così molle che può facilmente essere schiacciata e compressa; il fuoco e l'aria invece si possono allontanare agevolmente con un urto qualsiasi e in virtù della loro natura si ritirano e si dissipano con enorme facilità. E in aggiunta tutti questi elementi, quando mutano in un altro, periscono, come succede quando la terra si trasforma in acqua, quando dall'acqua nasce l'aria, quando dall'aria nasce l'etere, e quando gli stessi elementi compiono il medesimo pro­ cedimento ma in direzione contraria. E se perisce ciò di cui è costituito ogni essere vivente, allora nessun essere vivente è eterno. 13. (32) E per lasciare da parte questo aspetto, non è possibile trovare nessun essere animato che non sia mai nato e che esisterà per sempre. Ogni es­ sere animato infatti è dotato di sensibilità; dunque sente il caldo, il freddo, il dolce e l'amaro, e non c'è alcun sen­ so con il quale possa cogliere sensazioni piacevoli e non quelle contrarie; quindi se ha sensibilità per il piacere, la ha anche per il dolore; però ciò che riceve dolore, inevi­ tabilmente riceverà anche la morte: allora bisogna am­ mettere che ogni essere vivente è mortale. (33) Poi, se un essere non percepisce né piacere né dolore, non può trat­ tarsi di un essere vivente; se invece un essere è vivente, è necessario che abbia sensibilità, e, visto che la possiede, non può essere eterno; ogni essere vivente ne è dotato, quindi nessuno di essi è eterno. Inoltre, non può esiste­ re un essere vivente nel quale non vi siano propensioni

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e repulsioni naturali. Si aspira a ciò che è secondo natu­ ra, mentre si cerca di respingere quello che non lo è; ogni essere vivente propende per certe cose e rifugge da altre, ma ciò da cui rifugge è contro natura e ciò che è contro natura ha la forza di sopprimerlo. Di conseguenza ogni essere vivente è necessario che perisca. (34) Sono innu­ merevoli gli argomenti ricavabili dai quali si può giun­ gere alla conclusione che non esiste niente che sia dotato di sensibilità e che non perisca; infatti le sensazioni stes­ se che riceviamo (vedi il freddo, il caldo, il piacere, il do­ lore e tutto il resto), quando si intensificano, portano alla morte; dunque non c'è alcun essere vivente che sia eter­ no. 14. Infatti la natura di un essere vivente o è semplice, ad esempio quella composta di terra, di fuoco, d'aria o d'acqua (e non si può capire neanche come possa essere), oppure è formata dall'unione di più elementi, ciascuno dei quali ha il posto in cui è portato dalla forza della na­ tura: una più in basso, una più in alto e una nel mezzo. Essi possono avere coesione per un determinato tempo, ma per sempre non è affatto possibile; ciascun elemento infatti è spinto nella propria sede dalla natura. Quindi nessun essere vivente è eterno. 35. I vostri, però, Balbo, sono soliti ricondurre tutto alla potenza del fuoco, seguendo, mi pare, Eraclito46, i cui scritti non sono interpretati nello stesso modo da tutti, e poiché47 non ha voluto che le sue parole fossero comprese, lo mettiamo da parte. Voi vi fate sostenitori di questa teoria: il fuoco rappresenta ogni forza, dunque gli esseri viventi, nel momento in cui viene meno il calore, periscono, e in tutta la natura ciò che ha calore vive e ha vigore. Ma io non capisco come sia possibile che i corpi possano perire una volta che si è estinto il calore, mentre non periscono per mancanza di liquido o di aria, tanto più che essi possono perire anche per l'eccessivo calo­ re. 36. Per questo motivo quello che voi dite a proposito

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del caldo vale anche per gli altri elementi; vediamone però le conseguenze. Voi sostenete, se non mi sbaglio, che in natura e nel mondo non vi è alcun essere a noi estrinseco a parte il fuoco; ma per quale motivo dire "a parte il fuoco" e non "a parte l'aria': che è l'elemento co­ stitutivo degli esseri viventi, dal quale deriva il termine "vivente"? In che modo assumete come concesso questo presupposto, cioè che niente può essere animato se non c'è il fuoco? Sembra più probabile infatti che l'anima sia una sorta di giusta combinazione tra fuoco e aria48• "E se il fuoco è di per se stesso animato senza che nessun altro elemento vi si mescoli, poiché, quando si trova all'inter­ no del nostro corpo, produce sensibilità, non può essere esso stesso privo di sensibilità". E ancora si possono dire le medesime cose: tutto ciò che è dotato di sensibilità, è necessario che senta il piacere e il dolore; però chi è colpito dal dolore, deve essere colpito anche dalla morte. Il risultato è che non potete rendere eterno neanche il fuoco. 37. Ma come? Non siete proprio voi ad avere l'o­ pinione che tutto il fuoco ha bisogno di nutrirsi e che in nessun modo può resistere se non viene alimentato? Pensate che il sole, la luna e gli altri astri non siano ali­ mentati dall'acqua, alcuni da quella dolce, altri da quel­ la salata? Cleante adduce la medesima ragione: "perché il sole torna indietro e non procede oltre il tropico del Cancro"49 e quello del Capricorno, per non allontanarsi troppo dal cibo. Quale sia il valore di questo, lo vedremo presto; per adesso limitiamoci a questa conclusione: ciò che può perire, per natura non è eterno; tuttavia il fuo­ co perirà se non viene alimentato; quindi il fuoco non è eterno per natura. 15. (38) Quale dio si può concepire che sia privo di al­ cuna virtù50? Ma come? Attribuiremo a dio la saggezza, che consiste nella conoscenza di ciò che è positivo, di ciò che è negativo e di ciò che non è né l'uno né l'altro? Ma

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un essere che non è né può essere soggetto a nulla di ne­ gativo, che bisogno ha di fare distinzione tra il bene e il male? Che bisogno ha della ragione e dell'intelligenza? Siamo noi ad aver bisogno di tutto ciò, affinché possiamo giungere alla conoscenza di ciò che è oscuro a partire da ciò che è evidente; niente però può essere oscuro a dio. Infatti la giustizia, che distribuisce a ciascuno la parte che gli spetta5\ cosa c'entra con gli dèi? Furono la società e la comunità degli uomini (così la chiamate) a crearla. Poi, la temperanza consiste nel lasciar correre i piaceri fisici; e se in cielo c'è posto per questo, c'è posto anche per i piaceri. Com'è possibile poi immaginare un dio forte? Forse nel dolore? Nella fatica? O nel pericolo? Niente di tutto questo ha a che fare con la divinità. 39. Dunque, come possiamo concepire un dio privo di ragione e ogni virtù? E in verità non posso sdegnare la rozzezza del vol­ go e degli ignoranti, quando esamino le teorie esposte dagli Stoici. Questo è quello che credono gli ignoranti: i Siri venerano un pesce52; gli Egiziani hanno reso sacro praticamente ogni genere animale53; mentre in Grecia ci sono numerose divinità di origine umana: Alabando ad Alabanda54, Tene a Tenedo55, Leucotea (prima detta Ino) e suo figlio Palemone in tutta la Grecia56, Ercole, Escula­ pio, i figli di Tindaro, il nostro Romolo57 e molti altri che si pensa siano stati accolti in cielo come fossero, per così dire, dei nuovi cittadini iscritti58• 16. (40) Questo è quello che crede la gente senza una cultura; voi che siete filosofi, avete teorie migliori? Trala­ scio quelle argomentazioni, dal momento che sono chia­ rissime: ammettiamo pure che il mondo stesso sia dio. Credo si riferisca a questo punto quel "sublime splendo­ re che tutti chiamano Giove"59• Perché, però, aggiungia­ mo molti altri dèi? Quanto è grande poi il loro numero! [A me invero sembrano veramente molti]60• Infatti tu in­ cludi nel novero degli dèi le singole stelle e le chiami con

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dei nomi che appartengono alle bestie: Capra, Scorpione, Toro, Leone; oppure a oggetti inanimati: Argo, Ara, Co­ rona61. 41. Ma pur ammettendo questo, come è possibile non solo ammettere, ma anche soltanto comprendere il resto? Quando si appellano le messi con il nome di Cere­ re, il vino con quello di Libero, adoperiamo un modo di dire consueto, ma pensi possa esserci uno tanto folle da credere che ciò che ingurgita sia dio62? Infatti, a proposi­ to di coloro che tu sostieni essere divenuti dèi da uomini che erano, dovrai rendere ragione del modo in cui ciò sia potuto accadere e del perché abbia cessato di accadere: lo imparerò volentieri. Come stanno ora le cose, non vedo in che modo colui al quale "furono gettate contro le torce sul monte Eta" - per dirla con Accio - sia potuto giun­ gere da quell'incendio "alla dimora eterna del padre"63; Omero però fa sì che costui si incontri con Ulisse negli inferi64, proprio come gli altri morti. 42. Tuttavia, vorrei sapere con precisione qual è l'Er­ cole che veneriamo65; molti studiosi66 di testi segreti e oscuri ce ne tramandano più di uno: quello più antico fu generato da Giove, ma, allo stesso modo, dal Giove più antico, dato che nelle antiche lettere greche ne tro­ viamo più di uno67; dunque da tale Giove e da Lisitoe68 nacque quell'Ercole che, stando alla tradizione, gareggiò con Apollo per il tripode69• Quanto al secondo, dicono invece sia figlio del Nilo e che sia stato l'autore degli Scrit­ ti FrigF0• Il terzo, cui vengono offerti sacrifici, proviene dai Digiti dell'Ida71• Il quarto è figlio di Giove e Asteria, sorella di Latona, venerato per lo più a Tiro, e si dice che sua figlia fu Cartagine72• Il quinto è detto Belo ed è in India73, mentre il sesto è questo, figlio di Alcmena e Gio­ ve74, però del terzo Giove poiché, come avrò modo di di­ mostrare, anche di questo ne esistono più di uno. 17. (43) Ora, visto che il discorso mi ha condotto a que­ sto punto, dimostrerò di aver appreso, a proposito del

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culto degli dèi immortali, nozioni migliori secondo il rito sacerdotale e il metodo seguito dagli antenati da questi vasettF5 che ci ha lasciato Numa, sui quali si pronuncia Lelio in quel suo breve ma bellissimo discorso, piuttosto che dalle dottrine esposte dagli Stoici. Se infatti tenessi dietro a ciò che sostenete, dimmi come potrei rispondere a uno che mi venisse a chiedere questo: "Se esistono gli dèi * * *76 forse che non sono dee anche le Ninfe? E se le Ninfe sono dee, forse lo sono anche i Panisci77 e i Satiri? Questi però non sono dèi; quindi non sono tali nemmeno le Ninfe. Ad esse però sono stati dedicati e consacrati dei templi in nome dello Stato. Forza, allora dimmi: tu an­ noveri tra gli dèi Giove e Nettuno; dunque anche Orco, loro fratello, e i fiumi che si dice scorrano negli inferi, vale a dire l'Acheronte, il Cocito, il Periflegetonte78, e poi Caronte79 e Cerbero80. (44) Ma una cosa del genere non si può proprio ammeterla; quindi nemmeno Orco è un dio; che cosa dire poi dei suoi fratelli?". Carneade procedeva in questo modo, non per eliminare gli dèi (cosa potreb­ be essere meno consono, infatti, ad un filosofo?), ma per dimostrare che gli Stoici non danno alcuna spiegazione a riguardo degli dèi; e così li incalzava dicendo: "Ma come? Se questi fratelli rientrano nel novero degli dèi, si può forse negarlo per il loro padre Saturno, che in Occi­ dente è massimamente venerato presso la maggior parte dei popoli81? Se questo è un dio, anche suo padre Cielo82 lo è. E se è così, bisogna considerare dèi anche i geni­ tori del Cielo, Etere e Giorno83, e i loro fratelli e sorelle, che nelle genealogie antiche sono chiamati così: Amore e Inganno84, tmodo85, Fatica86, Invidia87, Fato88, Vecchiaia89, Morte90, Oscurità9t, Sventura92, Lamento93, Favore e Fro­ de94, Perseveranza95, Parche96, Esperidi97, Sogni98. Secon­ do quel che si tramanda, tutti questi sono stati generati dall'Erebo e dalla Notte99. Dunque, o si accettano questi esseri mostruosi o bisogna eliminare anche quei primi".

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18. (45) Allora dirai che sono dèi Apollo, Vulcano, Mer­ curio e gli altri, e dubiterai di Ercole, Esculapio, Libero, Castore e Polluce? Eppure questi ultimi vengono venera­ ti nello stesso modo dei primi, e presso certi popoli an­ che molto di più. Allora bisogna ritenere che questi, nati da madri mortali, siano dèi? E allora Aristeo100, figlio di Apollo, che si dice essere stato lo scopritore dell'ulivo, e Teseo10\ figlio di Nettuno, e tutti gli altri che come padre hanno un dio, non saranno da includere nel novero de­ gli dèi? Che dire poi di quelli le cui madri sono dee? A maggior ragione, penso, perché come secondo il diritto civile il figlio di una madre libera è libero102, così secondo il diritto naturale chi ha come madre una dea deve ne­ cessariamente essere un dio. E così gli abitanti dell'isola di Astipalea venerano religiosissimamente Achille103; se questo è un dio, allora lo sono Orfeo e Resoi04, che eb­ bero come madre una Musa; a meno che le nozze mari­ ne siano più importanti di quelle terrene. Se questi non sono dèi, ché non vengono mai venerati, perché gli altri lo sono? (46) Fai attenzione quindi che questi onori po­ trebbero essere attribuiti alle virtù degli uomini e non all'immortalità; su questo punto mi pare che ti sia pro­ nunciato pure tu, Balbo. Ma come fai a non considerare Ecate105 una dea, se consideri come tale Latona? Essa ha come madre Asteria, sorella di Latona. Anche lei è una dea? In Grecia abbiamo visto infatti i suoi santuari. Se invece è una dea, perché non sono dee anche le Eumeni­ dP06? E se queste sono dee, cui ad Atene è stato dedicato un tempio, e presso di noi, come penso, il bosco sacro di Furina107, sono dee anche le Furie, osservatrici e punì­ triei dei crimini e dei delitti. (47) Se poi gli dèi sono tali da intervenire nella sfera umana, va inserita nella loro schiera pure Nascita108: presso i suoi santuari, quando li visitiamo nella campagna di Ardea109, siamo soliti com­ piere riti sacri; e poiché protegge i parti delle matrone,

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le è stato assegnato il nome Nascita sulla base del termi­ ne che indica "coloro che nascono". Se questa è una dea, allora sono dèi tutti quelli che tu menzionavi nel corso della tua esposizione110: Onore, Fede, Mente, Concordia, e quindi Speranza111, Moneta112 e tutto ciò che possiamo creare con l'immaginazione. E se queste parole non sono verosimili, allora non lo sono nemmeno quelle da cui tut­ to è scaturito. 19. Poi dici: se sono dèi quelli che vene­ riamo e che abbiamo ricevuto dagli antenati, perché non includiamo in questa medesima categoria Serapide113 e Iside114? E se li accettassimo, perché dovremmo rigettare le divinità dei barbari? Dunque inseriremo nel novero delle divinità i buoi e i cavalli115, gli ibis116, i falchi117, gli aspidi118, i coccodrilli119, i pesci120, i cani121, i lupi122, i gat­ ti123 e molti altri animali. E se non li accettasimo, allora dovremo rigettare anche ciò da cui sono stati generati. (48) E poi? Considereremo Ino una dea e verrà chiamata Leucotea dai Greci e da noi Matuta124, perché figlia di Cadmo, mentre invece Circe125, Pasifae126, Eeta127, nati da Perseide (a sua volta figlia di Oceano) e da Sole, non sa­ ranno ritenuti dèi? Pensare che anche i nostri coloni di Circei venerano con religiosità Circe. Dunque consideri anch'essa una dea; cosa risponderai a Medea128, che ebbe Sole e Oceano come nonni, e Eeta e Idia come genitori? E a suo fratello Absirto129 (che in Pacuvio è detto Egialeo, ma l'altro nome è più comuni nelle opere letterarie degli antichi)? Se questi non sono dèi, ho paura della fine che farà Ino, visto che tutti risalgono alla stessa origine. (49) Saranno forse dèi Anfiarao130 e Trofonio131? Invero, i no­ stri appaltatori d'imposte, dato che in Beozia le terre di proprietà degli dèi immortali erano state esonerate dalla legge censoria, dicevano che non potevano esistere esseri immortali che in precedenza non fossero stati uomini132• Ma se questi sono dèi, di sicuro lo è anche Eretteo133: di lui ad Atene abbiamo visto il tempio e il sacerdote. Se lo

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reputiamo un dio, come possiamo dubitare di Codro134 o degli altri che caddero battendosi per la libertà della pa­ tria? E se non è possibile approvare questo, non bisogna approvare nemmeno ciò da cui proviene. (50) Ed è possi­ bile capire che, per aumentare il coraggio, nella maggior parte degli stati, affinché tutti i migliori cittadini fronteg­ giassero più volentieri i pericoli per il bene dello stato, la memoria degli uomini valorosi fu consacrata con il con­ ferimento dei divini onori. Proprio per questo infatti ad Atene Eretteo e le sue figlie vennero inseriti nel novero degli dèi, e sempre ad Atene c'è un santuario delle figlie di Leo, chiamato Leocorion135• Gli abitanti di Alabanda venerano Alabando136, fondatore della loro città, e nel modo più religioso rispetto a qualsiasi altro degli dèi più famosi; presso di loro Stratonico137, con l'eleganza che ha esibito anche in altre occasioni, quando qualcuno lo infa­ stidiva sostenendo che, a differenza di Ercole, Alabando era un dio, diceva: "Allora che Alabando sia adirato con me ed Ercole con te". 20. (51) Quelle considerazioni poi, Balbo, che tu de­ ducevi dal cielo e dagli astri, non vedi quanto portino lontano: il sole e la luna, che per i Greci l'uno è Apollo e l'altra Diana138, sono dèi. E se la luna è una dea, allora an­ che Lucifero e gli altri pianeti saranno da inserire nel no­ vero degli dèi; allora anche le stelle fisse. Perché poi non si dovrebbe reputare dio anche l'Arcobaleno139, ché è bel­ lo (e proprio a causa della sua bellezza visto che ha una causa meravigliosa, si dice sia nato da Taumante)140? E se è divina la sua natura, come pensi di comportarti con le nuvole? Lo stesso Arcobaleno infatti è concepito da nu­ vole colorate in un determinato modo; si dice anche che una di esse abbia creato i Centauril41• E se consideri dee le nuvole, dovrai considerare tali anche le tempeste142, che dai Romani sono state consacrate con dei riti. Dun­ que anche le piogge, le burrasche, gli uragani, i turbini;

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e invero i nostri generali, prima di entrare in mare, sono soliti immolare una vittima ai flutti marinP43. (52) Ora, se Cerere deriva da gero (così tu dicevi)144, la stessa ter­ ra è una dea (e così è considerata; che altro è, infatti, la dea Terra145?). Ma se la terra è una dea, allora lo è anche il mare, che tu dicevi essere Nettund46; quindi anche i fiumi e le fonti. E così Massd47, una volta tornato dalla Corsica, dedicò un santuario alla Fonte, e nell'invoca­ zione degli àuguri vediamo i nomi di Tiberino, Spino­ ne, Anemone, Nodind48 e di altri fiumi vicini. Quindi, o questo procedimento si prolungherà all'infinito o non ammetteremo nulla di tutto ciò, né accetteremo questa interminabile lista di superstizioni. Allora non bisogna accogliere ni�nte di tutto questo. 21. (5 3)149 E opportuno, Balbo, confutare anche coloro che sostengono che gli dèi, che noi veneriamo con cul­ ti solenni e con devozione, furono condotti in cielo da uomini che erano, non di fatto ma per credenza. Innan­ zitutto, i cosiddetti teologP50 contano tre Giove151: di essi il primo e il secondo sono nati in Arcadia, uno che ebbe come padre Etere (da cui sarebbero nati, come dicono, anche Proserpina e Libero)152, l'altro il Cielo, che si dice abbia dato alla luce Minerva, comunemente considerata la responsabile e la scopritrice della guerra153; il terzo è quello Cretese, figlio di Saturno, la cui tomba si mostra in quell'isola154. In Grecia anche i DioscurP55 sono chiamati in modi differenti: i primi tre son detti Anacti ad Atene, figli del re Giove più antico e di Proserpina: i loro nomi sono Tritopatreo156, Eubuleo157 e Dioniso158; i secondi, nati dal terzo Giove e da Leda, sono Castore e Polluce159; i ter­ zi, figli di Atreo, a sua volta nato da Pelope, sono chia­ mati da alcuni Alcone160, Melampd61 e Tmolo162. (54) Per quanto attiene alle Muse, le prime quattro furono gene­ rate dal secondo Giove e da ... 1 63: Telsinoe164, Aede1 65, Ar­ che166, Melete167; le seconde sono nove e sono figlie del ter-

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zo Giove e Mnemosyne168; le terze, nate invece da Piero e Antiopa, sono quelle che i poeti sogliano chiamare Pieri­ di o Pierie169, e hanno gli stessi nomi e numero di quelle citate sopra. E nonostante tu dica che il sole si chiama così perché sta da solo, quanti sono i Soli che vengono menzionati dai teologi! Il primo di essi è nato da Giove ed è nipote di Etere170; un altro da Iperione171; un altro ancora da Vulcano, figlio del Nilo, la cui sede, a detta degli Egiziani, è la città chiamata Eliopoli172; il quarto è quello che si dice che sia stato generato a Rodi da Acanto al tempo degli eroi (quest'ultimo è padre di Ialiso, Cami­ ro e Lindo, donde ebbero origine i Rodiesi)173; il quinto invece dicono che in Colchide abbia dato vita a Eeta e a Circe174• 22. (55) Analogamente vi sono parecchi Vulca­ no: il primo nacque dal Cielo, dal quale Minerva ebbe quell'Apolld75 che secondo gli antichi storici è il protetto­ re di Atene; il secondo, nato dal Nilo, è Ptha (secondo gli Egiziani) ed è considerato il custode dell'Egitto176; il terzo è figlio di Giove e Giunone, e si dice abbia presieduto l'of­ ficina di Lemnd77; il quarto è nato da Memalio e occupò le isole in prossimità della Sicilia chiamate Vulcanie178• (56) Quanto a Mercurio, uno è figlio del Cielo e Giorno, e, secondo la tradizione, la sua natura subì un'eccitazione oscena poiché fu colpito dalla vista di Proserpina179; un altro, figlio di Valente e Foronide, è quello che sta sotto terra ed è identificato con Trofonid80; il terzo, procreato da Giove e Maia, è quello che insieme a Penelope si dice aver generato Pan181; il quarto ebbe come padre il Nilo, e secondo gli Egiziani è cosa empia nominarld82; il quinto invece è venerato dagli abitanti di Feneo, e la tradizio­ ne vuole che abbia ucciso Argo e per questo motivo sia scappato in Egitto, dove insegnò le legislatura e le lettere: gli Egiziani lo nominano tTheyn183, e con questo stesso nome indicano anche il primo mese dell'anno. (57) Dei vari Esculapio, il primo, figlio di Apolld84, venerato dagli

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Arcadi, si dice abbia scoperto lo specillo e abbia bendato la prima ferita; un altro è fratello del secondo Mercurio e la tradizione vuole che, colpito da un fulmine, sia stato sepolto a Cinosure185; il terzo è figlio di Arsippo e Arsi­ noe, e fu il primo che scoprì (così dicono) le pratiche per purgare il ventre e per estrarre i denti: il suo sepolcro e il bosco a lui sacro si mostrano in Arcadia non lontano dal fiume Lusio186• 23. Degli Apollo, il più antico è quello che poco fa ho detto esser nato da Vulcano e essere custode di Atene187; un altro, figlio di Coribante, nacque a Creta, e per con­ quistare quell'isola si dice abbia combattuto con lo stes­ so Giove188; un terzo è nato dal terzo Giove e Latona, e dicono sia giunto a Delfi venendo dagli IperboreP89; un quarto fu generato in Arcadia e gli abitanti di questa zona lo chiamano Nomione, dal momento che dicono di aver recepito da lui le leggP90• (58) Allo stesso modo, anche di Diana ne esistono numerose: la prima è nata da Giove e Proserpina, e si dice aver generato il Cupi­ do alatd91; la seconda è quella più famosa, che sappia­ mo essere stata procreata dal terzo Giove e Latona192; la terza, secondo quel che si dice, ebbe come padre Upi e come madre Glauce193: i Greci la chiamano spesso Upi dal nome paterno. Poi abbiamo parecchi Dioniso: il pri­ mo fu generato da Giove e da Proserpina194; il secondo dal Nilo e si dice abbia ucciso Nisa195; il terzo ebbe come padre Cabiro, ed è opinione diffusa ritenere che sia stato re dell'Asia (per lui furono istituite le feste Sabazie)196; il quarto è il figlio di Giove e della Luna, e si ritiene che in suo onore siano stati celebrati i misteri orfici197; il quin­ to è nato da Niso e da Tione, e si crede che le Trieteri­ di siano state istituite da luP98• (59) In merito a Venere, la prima nacque dal Cielo e da Dia: un suo santuario lo vediamo a Elide199; la seconda fu creata dalla schiuma marina200, e sappiamo che dalla sua unione con Mercu-

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rio è stato generato il secondo Cupido; la terza è figlia di Giove e Dione e si sposò con Vulcano, ma si dice che essendosi unita con Marte abbia dato alla luce Antero201; la quarta, concepita dalla Siria e da Ciprd02, è chiamata Astarte, e, stando alla tradizione, si sposò con Adone203• La prima Minerva, invece, è quella che sopra abbiamo detto essere la madre di Apolld04; la seconda fu generata dal Nilo ed è venerata dagli Egiziani di Sais205; quanto alla terza, abbiamo detto sopra essere stata generata da Giove206; la quarta fu messa al mondo da Giove e da Co­ rife, figlia dell'Oceano, che gli Arcadi chiamano Koria e si dice abbia introdotto tra gli uomini le quadrighe207; la quinta è figlia di Fallante: di lei si narra che uccise suo padre mentre tentava di oltraggiare la sua verginità, e le sono attribuiti i talarF08• (60) Di Cupido, il primo si narra che sia figlio di Mercurio e della prima Diana209; il secon­ do di Mercurio e della seconda Venere210; il terzo (che è identificato con Antero) di Marte e della terza Venere211• Questi e altri racconti mitologici di questo genere sono stati raccolti dalla antica tradizione greca. Capisci bene che bisogna opporvi resistenza per evitare che i culti re­ ligiosi ne siano sconvolti; ma i vostri non soltanto non li confutano, bensì li rafforzano, dedicando a ciascuno di essi un'interpretazione. Ora ritorniamo però al punto da cui avevamo incominciato la nostra digressione212• 24. (61) Pensi forse che serva un ragionamento più sot­ tile per poter confutare queste opinioni? Vediamo infat­ ti che la mente, la lealtà, la speranza, la virtù, l'onore, la vittoria, la salute, la concordia e altre cose di questo tipo hanno un valore materiale, non divino. O sono dentro di noi, come la mente, [la speranza]213, la lealtà, la virtù e la concordia, o sono da desiderare, come l'onore, la salute, la vittoria; io ne vedo l'utilità, e vedo anche le icone a loro consacrate; ma comprenderò la ragione per cui in esse vi sia un valore divino nel momento in cui mi verrà

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spiegato. In questa stessa categoria bisogna inserire so­ prattutto la sorte, che nessuno potrà separare dall'incer­ tezza e dalla casualità degli eventP4: sono doti, queste, non certo degne di un dio. (62) E poi cosa è che vi dilet­ ta nella spiegazione dei miti e nell'interpretazione dei nomi? Il Cielo fu mutilato dal figlio, allo stesso modo Saturno venne incatenato dal figlio: queste e altre sto­ rie del genere vengono da voi difese in modo tale che i loro inventori sembrano essere stati non solo sani di mente ma anche sapienti. E in più vi affaticate nel cerca­ re di dare delle spiegazioni ai nomi; una pratica, questa, che fa compassione: "Saturno perché si satura di anni215, Marte perché sconvolge grandi cose216, Minerva perché diminuisce o perché minaccia217, Venere perché perviene a tutte le cose218, Cerere da gestare219". Che consuetudine rischiosa! Per molti nomi infatti non rimarrete che impi­ gliati. Cosa farai con Veiove220? E con Vulcano? Eppure, siccome credi che Nettuno sia stato chiamato così sulla base del verbo "nuotare"221, non ci sarà alcun nome di cui tu non possa spiegare la provenienenza mediante una sola lettera; a dire il vero, mi è parso che in tutto que­ sto tu stessi nuotando più di Nettuno stesso. (63) Zenone per primo, poi Cleante e infine Crisippo222 si sono tirati addosso delle grandi noie, peraltro minimamente neces­ sarie, a voler dare una spiegazione ragionevole a delle favole immaginarie e, per quanto riguarda i nomi, a spie­ gare le cause per cui una determinata cosa sia chiamata proprio in quel modo. Ma così facendo, indubbiamente ammettete che la realtà è molto differente dalle opinioni degli uomini; infatti quelli che sono chiamati dèi sono entità naturali, non figure divine. 25. Questo fu un errore di tale portata che alle realtà nocive non solo venne dato il nome di dèi ma vennero istituiti anche dei riti sacri in loro onore. Vediamo che sul Palatino fu consacrato un santuario della Febbre223, quel-

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lo «di Orbona vicino» all'altare dei LarF24 e poi sull'E­ squilino un'ara della Cattiva Fortuna225• (64) Dunque sia allontanato dalla filosofia ogni errore di questo tipo, co­ sicché, quando si parla di dèi immortali, possiamo dire cose degne di loro. Su di essi io ho la mia idea personale, non ho invece dei validi elementi per approvare la tua. Tu sostieni che Nettuno è un'anima provvista di una in­ telligenza che si spande nel mare, e di Cerere dici lo stes­ so; io però non solo non sono in grado di comprendere razionalmente quest'intelligenza del mare o della terra, ma proprio non riesco a farmene un'idea. E così devo an­ dare a ricercare altrove per poter capire l'esistenza degli dèi, quali siano le loro caratteristiche, quale, secondo te, la loro natura * * *226 (65) * * * Prendiamo in esame i prossimi punti: innan­ zitutto se il mondo sia retto dalla provvidenza divina, poi se gli dèi si curino degli affari umani. Della suddi­ visione che hai fatto mi restano infatti questi due punti; su di essi, se vi sembra opportuno, credo sia necessario discutere in modo più accurato». «Senz'altro; - disse Velleio - attendo riflessioni più im­ portanti e mi trovo totalmente in accordo con quello che hai detto». Allora Balbo: «Non voglio interpellarti, Cotta, ma ci prenderemo altro tempo; senza dubbio farò in modo che sarai in accordo con me. Ma * * *227 "La cosa non andrà certo in questo modo; ormai vicina è una grande lotta. Dovrei infatti supplicarlo con parole così dolci, se non per il mio vantaggio?"228• 26. (66) Non sembra vagamente che essa rifletta e macchini per se stessa una tremenda rovina? In questo poi, con quanta astuzia dice: "A chi vuole ciò che vuo­ le, così gli eventi si presentano così come egli vorrà"229• Questo verso è seminatore d'ogni male. "Oggi egli, con mente accecata, mi ha consegnato i chiavistelli coi quali

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dischiuderò ogni ira e gli procurerò rov i:�1 a, a me afflizio­ ne, a lui lutto, a lui morte, a me esilio"230. E evidente che le bestie non possiedono questa ragione, che, secondo voi, appartiene soltanto all'uomo grazie a un beneficio dato dagli dèi; (67) non vedi quanto è meraviglioso il dono che gli dèi ci hanno assegnato? E la stessa Medea, fug­ gendo dal padre e dalla patria, "nel momento in cui il padre si avvicina e già si prepara quasi a catturarla, essa intanto sgozza il bambino e ne fa a pezzi le membra, e per i campi dispende il corpo in tutte le direzioni; que­ sto perché, mentre il padre raccoglie le membra del figlio sparse qua e là, ella frattanto riuscisse a fuggire, la tri­ stezza lo rallentasse nell'inseguimento, e predisponesse per sé la salvezza con l'omicidio di un familiare"231. (68) A Medea non mancò né la scelleratezza né la ragione. E l'altro, allestendo i banchetti funesti per il fratello, forse non adopera la ragione rivolgendo il pensiero ora a que­ sto e ora a quel dettaglio? "Devo compiere uno sforzo maggiore, devo compiere un male maggiore, che sia in grado di abbattere e opprimere il suo aspro cuore"232. 27. Né bisogna lasciare da parte quello stesso, "per il quale non bastò l'aver adescato la coniuge nell'adulte­ rio"233. Di lui parla bene e in modo veritiero Atreo: "è questo che io ritengo essere il massimo pericolo in una situazione di enorme importanza: macchiare di colpa le madri dei re, contaminare la stirpe, sconvolgere la fami­ glia"234. Ma quanta astuzia in questo misfatto per otte­ nere il regno con l'adulterio: "A ciò aggiungo - dice - il prodigio, stabilità del mio regno, che il padre degli dèi celesti mi ha inviato con un portento: un agnello splen­ dente per il vello dorato in mezzo al gregge di pecore, che nascostamente Tieste osò rubare dalla reggia, e nel compiere l'atto prese come aiutante mia moglie"235. (69) Non sembra forse che si sia servito della massima malvagità e nello stesso tempo della massima raziona-

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lità? E invero non è soltanto il teatro ad essere pieno di queste scelleratezze, ma molto più è la vita quotidiana che presenta delle situazioni quasi più gravi. Se ne rende conto la casa di ciascuno, se ne rendono conto il Foro, la Curia, il Campo Marzio, gli alleati, le province, di come mediante la ragione si possa far del bene così come del male: il primo è compiuto da pochi e sporadicamente, il secondo sempre e da moltissimi, tanto che sarebbe stato meglio che gli dèi immortali non ci avessero assegnato alcuna ragione, Riuttosto che avercela donata con risul­ tati tanto nocivi. E meglio non dispensare vino ai malati, poiché di rado giova e molto spesso nuoce, piuttosto che incorrere in un danno evidente per la speranza di una dubbia guarigione; così non so se sarebbe stato meglio che agli uomini non fosse attribuito questo rapido mo­ vimento di pensiero, questa acutezza d'ingegno, questa destrezza che chiamiamo ragione, dal momento che è rovinosa per molti e salutare per pochissimi, piuttosto che averla dispensata in modo tanto generoso e copioso. (70) Per questo motivo, se la mente e la volontà degli dèi provvidero appunto agli uomini per dotarli di ragione, provvidero soltanto a quelli cui donarono una buona ragione; e costoro, benché ve ne siano, sono pochissimi. Tuttavia non è accettabile che gli dèi immortali abbiano provveduto soltanto a pochi; di conseguenza, dunque, non provvidero a nessuno. 28. A questo argomento voi siete soliti controbattere in questo modo236: il fatto che molti uomini si servano male dei benefici dati dagli dèi non costituisce un valido motivo per sostenere che gli dèi non provvidero a noi in maniera ottima237; molti fanno cattivo uso anche dei patrimoni, ma non per questo non ottengono alcun bene­ ficio dal loro padre. C'è qualcuno che può negarlo? Che analogia c'è in questo confronto? Difatti Deianira non voleva fare alcun male a Ercole quando gli consegnò la

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tunica lordata di sangue del Centauro238, né voleva gio­ vare a Giasone di Pere colui che con la spada gli aprì un ascesso che i medici non erano stati in grado di curare239• Molti hanno fatto del bene quando volevano nuocere e nocquero quando volevano giovare240• In questo modo dal dono non appare la volontà di colui che ha donato, e il fatto che colui che ha ricevuto un dono ne fa buon uso, questo non vuol dire che chi ha fatto un dono, lo abbia fat­ to con buone intenzionF41• (71) Infatti quale atto di bra­ ma, quale di avidità, quale di crimine si intraprende se non dopo averci riflettuto sopra o viene realizzato senza l'attività della mente e del pensiero, cioè senza l'attività della ragione? Ogni opinione è frutto della ragione, e di una ragione buona se è vera l'opinione, di una cattiva in­ vece se è falsa. Ma noi da dio abbiamo ricevuto soltanto la ragione (ammesso che la abbiamo): che sia buona o no è un fatto che dipende da noi. La ragione infatti non fu data agli uomini per beneficio degli dèi, allo stesso modo in cui viene lasciato un patrimonio; infatti che cosa gli dèi avrebbero dato agli uomini se avessero avuto inten­ zione di far loro del male? Quali sarebbero i semi dell'in­ giustizia, della mancanza di temperanza, della paura, se alle fondamenta di questi stessi vizi non vi fosse la ragione? 29. Poco fa ricordavamo Medea e Atreo, eroici perso­ naggi, che ponderavano delitti abominevoli con la ra­ gione. (72) Ma le leggerezze delle commedie non hanno sempre qualcosa a che vedere con la ragione? Disputa forse con poca sottigliezza quel personaggio presente nell'Eunuco? "Dunque che farò? Mi ha chiuso fuori, mi richiama; tornerò? Nemmeno se mi scongiurasse"242• E poi quello nei Sinefebi non ci pensa su due volte a lottare con la sua ragione contro l'opinione comune, seguendo il metodo degli Accademici; dice: "nell'amore sommo e nella somma povertà è dolce avere un padre avaro,

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rozzo, difficile coi figli, che non ti ama né si interessa di te"243• (73) E a questa affermazione incredibile aggiunge dei sottili ragionamenti: "O lo inganni sottraendo una somma o attraverso dei documenti, intercetti il debito di qualcuno o lo spaventi per mezzo di un servo; e infine la ricchezza che ricevi da un padre avaro, quanto più vo­ lentieri la dissipi"244• Sempre tale personaggio è dell'idea che un padre affabile e generoso costituisce un ostacolo per un figlio innamorato: "Io non so né come ingannarlo, né cosa portargli via, né quale inganno o insidiosa mac­ chinazione potergli rifilare; è così che la generosità di mio padre ha fermato tutti i miei inganni, le mie astuzie, le mie gherminelle"245• Allora forse che questo genere di frode, di macchinazione, di inganno e presa in giro, non poterono esistere senza la ragione? O magnifico dono di­ vino, tale che Formione è in grado di dire: "Date qui il vecchio; nella mia testa ho già pronti tutti i piani"246• 30. (74) Ma usciamo dal teatro e veniamo al Foro. Il pretore è appena andato a sedersi. Per giudicare cosa? Uno che ha dato fuoco al Tabulario247• Quale misfatto po­ trebbe essere più nascosto? Ma Quinto Sosio248, illustre cavaliere romano del Piceno, confessò di averlo com­ piuto. Ecco chi ha copiato gli atti pubblici: è stato Lucio Aleno249, imitando la scrittura di ben sei scribi ufficiali; esiste cosa più geniale di costui? Esamina altri proces­ si: quello dell'oro di Tolosa250, quello della congiura di Giugurta251; vai più indietro nel tempo: quello di Tubulo per aver preso del denaro per giudicare una questione252; procedi verso fatti posteriori: quello relativo all'incesto sotto richiesta di Peduceo253; e poi questi che ci troviamo davanti agli occhi tutti i giorni: omicidi, avvelenamenti, peculato, questioni che riguardano i testamenti secondo la nuova legge254• Di qui quella formula: "Dichiaro che il furto è stato compiuto per opera ed intenzione tua"255; di qui tanti processi per mala fede: tutela256, mandatd57,

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associazione258, fiducia259, e altri in cui sono compiuti ge­ sti contro la buona fede: compra e vendita, conduzione e locazione260; di qui il giudizio pubblico sugli affari priva­ ti sulla base della legge

letoria261; di qui, il raduno di tutte le malefatte, cioè il giudizio relativo alla frode, che fu introdotto dal nostro caro Gaio Aquilio262• Per lui la frode si compie quando si fa finta di fare una cosa mentre invece se ne fa un'altra. (75) Pensiamo allora che sia stato grazie agli dèi che fu fatta questa seminagione di mali? Se infatti gli dèi diedero agli uomini la ragione, diedero loro anche la malvagità, dal momento che la malvagità è un modo di ragionare scaltro e fraudolento per fare del male. Allo stesso modo gli dèi hanno dato la frode, il delitto e tutto il resto che non si può assolutamente con­ cepire e compiere senza l'intervento della ragione. Dun­ que, come si augura quella vecchia, "non fossero caduti a terra nel bosco del Pelio i tronchi dell'abete tagliati dal­ le accette"263; così gli dèi non avessero dato agli uomini questa astuzia, della quale pochissimi ne fanno un uso retto, e tuttavia sono oppressi da coloro che se ne servo­ no male; sono innumerevoli, al contrario, quelli che la usano a torto, tanto che questo dono divino della ragio­ ne e del discernimento sembra essere stato concesso agli uomini per frodare, non per compiere del bene264• 31. (76) Ma voi continuate ugualmente ad incalzare dicendo che la colpa è degli uomini, non degli dèi. Come se il medico accusasse la gravità della malattia, il noc­ chiero la violenza della tempesta; per quanto essi non si­ ano che omuncoli, tuttavia sono ridicoli: "chi sarebbe ri­ corso a te - qualcuno potrebbe dire - se tutto questo non esistesse?". Ma contro un dio è possibile discutere più apertamente: "tu dici che la colpa è nei vizi degli uomini; allora avresti dovuto dare loro una ragione che tagliasse fuori i vizi e la colpa". Dunque dove fu posto per l'er­ rore degli dèi? Infatti noi lasciamo in eredità patrimoni

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con la speranza di consegnarli in buone mani, ma è pro­ prio in essa che possiamo cadere in inganno; quale dio può essersi sbagliato? Forse come il Sole, che caricò sul suo cocchio il figlio Fetonte265, o Nettuno, quando Teseo mandò in rovina Ippolito, siccome suo padre Nettuno gli diede la possibilità di realizzare tre desiderF66? (77) Queste sono storielline da poeti, noi invece vogliamo es­ sere dei filosofi, portabandiera del vero, non di favole. E tuttavia questi stessi dèi dei poeti, se fossero stati a co­ noscenza del fatto che quei doni avrebbero portato alla rovina i loro figli, sarebbero considerati colpevoli in un atto di beneficio. E se è vero - come era solito sostenere Aristone di Chio267 - che i filosofi danneggiano gli allie­ vi che fraintendono i loro insegnamenti positivi (infatti dalla scuola di Aristippo268 potrebbero uscire individui dissoluti, e da quella di Zenone arcigni), di sicuro, se gli stessi allievi uscissero dalle scuole viziosi perché frain­ tesero gli insegnamenti dei filosofi, sarebbe meglio che i filosofi stessi se ne stessero zitti, piuttosto che recare danno a chi segue le loro lezioni; (78) così, se gli uomi­ ni trasformano in inganno e malvagità la ragione che fu donata loro di buon grado dagli dèi immortali, sareb­ be stato meglio non darla, piuttosto che darla al genere umano. Per esempio: se un medico sapesse che il malato al quale ha somministrato del vino ne assumerà di quel­ lo troppo schietto e subito morirà, si troverebbe in gran colpa; allo stesso modo bisogna biasimare codesta vostra Provvidenza che diede agli uomini la ragione, sapendo comunque che la avrebbero utilizzata in modo perver­ so e malvagio. A meno che voi non diciate che non lo sapeva. Magari! Ma non oserete; infatti non sottovaluto quanta stima riponiate nel suo nome. 52. (79) Ma su questo punto si può già arrivare ad una conclusione. Se infatti, col consenso di tutti i filosofi, la soltezza costituisce un male più grande di tutti i mali

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della sorte e del corpd69 riposti tutti insieme dalla parte opposta della bilancia, e se nessuno riesce a conseguire la sapienza, ci troviamo tutti nella più grande sventura, noi ai quali - stando alla vostra opinione - gli dèi hanno provveduto in maniera ottima. E come non c'è alcuna dif­ ferenza tra il fatto che nessuno stia bene e che nessuno possa stare bene, così non riesco a capire che differenza vi sia tra il fatto che nessuno sia sapiente e che nessuno possa esserlo. Ma noi abbiamo discusso su un punto che in realtà è chiarissimo; d'altra parte Telamone, con un verso solo, riesce a riassumere tutta la questione, dando la spiega­ zione del perché gli dèi trascurino gli uomini: "Se aves­ sero qualche preoccupazione, questa sarebbe una cosa positiva per i buoni e negativa per i malvagi; un fatto ben lontano dal potersi realizzare"270• Gli dèi avrebbero dovuto fare tutti buoni, se davvero si fossero curati del genere umano; (80) altrimenti, dovevano come minimo pensare agli uomini buoni. Perché dunque i due Scipio­ ni, uomini assai valorosi e coraggiosi, furono sconfitti in Spagna dai CartaginesF71? Perché Massimo seppellì suo figlio ex-console272? Perché Annibale uccise Marcello273? Perché Canne fu la rovina di Paold74? Perché il corpo di Regolo fu offerto alla crudeltà dei CartaginesF75? Perché l'A fricano non fu salvaguardato dalle pareti di casa276? Ma questi e altri numerosi sono avvenimenti vecchi; ve­ niamo a quelli più vicini a noi. Perché mio zio Publio Rutilid77, uomo assai integro e colto, è esiliato? Perché il mio collega Druso venne ucciso nella sua casa278? Perché il pontefice massimo Quinto Scevola, modello di tempe­ ranza e saggezza, fu assassinato davanti alla statua di Vesta279? Perché anche prima tanti cittadini di prim'or­ dine furono annientati da Cinna280? Perché Gaio Mario, il più perfido di tutti, poté ordinare l'esecuzione di un uomo così meritevole, quale fu Quinto Catulo281? (81)

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Non basterebbe un giorno se volessi elencare gli uomini buoni cui accaddero fatti maligni, né se volessi citare i cattivi che ebbero un'ottima fortuna. Perché infatti Ma­ rio fu sì fortunato da morire vecchio in casa sua, dopo il settimo consolato282? Perché Cinna, l'uomo più credele, regnò così a lungo283? 33. "Però ne pagò il fio"284. Sarebbe stato meglio proi­ birgli e impedirgli di uccidere tanti uomini valorosi piut­ tosto che fargli pagare un giorno il fio. Quinto Vario, uomo insolentissimo, morì tra torture e tremendi sup­ plizF85; se accadde questo perché aveva eliminato Druso con il ferro e Metello con il veleno286, di certo sarebbe stato meglio salvare questi piuttosto che far pagare a Va­ rio il prezzo delle sue scelleratezze. Dionisio fu tiranno per trentotto anni di una città ricchissima e felicissima287; (82) e prima di lui per quanti anni nel fiore della Gre­ cia regnò Pisistrato288! "Ma Falaride289, ma Apollodoro290 pagarono il fio". Di sicuro, ma dopo aver fatto soffrire e ucciso molti uomini. Anche tra i predoni molti paga­ no spesso il fio, però non possiamo dire che non siano stati violentemente uccisi più prigionieri che predoni. Abbiamo imparato che Anassarco, discepolo di Demo­ crito, fu torturato dal tiranno di Cipro291; che Zenone di Elea rimase ucciso sotto tortura292; e che dire di Socrate? La storia della sua morte mi fa piangere ogni volta che leggo Platone293. Non ti accorgi quindi che, se vedono gli affari umani, ogni discriminazione è stata cancellata per giudizio degli dèi stessi? 34. (83) Diogene il Cinico294 era solito dire che Ar­ palo, un pirata considerato a quei tempi fortunato, era testimone contro gli dèi, poiché viveva tanto a lungo in quella fortuna. Dionisio, che ho chiamato in causa prima, dopo aver saccheggiato il tempio di Proserpi­ na a Locri295, navigava verso Siracusa, e siccome la sua rotta era guidata da un vento molto favorevole, disse

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ridendo: "Vedete, cari amici, che navigazione favorevole gli dèi immortali permettono agli uomini sacrileghi?". Quell'uomo, acuto come era, aveva colto bene il punto e quindi perdurava nella medesima opinione. Quando poi approdò con la flotta nel Peloponneso e giunse al sal­ tuario di Giove Olimpid96, rubò un mantello dorato di enorme valore, con cui il tiranno Gelone aveva ornato Giove dopo la vendita del bottino dei CartaginesF97, e nel farlo vi aggiunse la facezia che un mantello d'oro era pe­ sante d'estate e freddo d'inverno, e gli mise addosso una mantella di lana dicendo che era adatta ad ogni periodo dell'anno. Sempre il solito fece sottrarre la barba d'oro di Esculapio ad Epidauro298; diceva che non si confaceva al figlio l'esser dotato di barba, mentre il padre ne era pri­ vo in tutti i santuari. (84) Poi ordinò che fossero portati via da tutti i templi i servizi d'argento299, su cui, secondo l'antica usanza della Grecia, c'era scritto "degli dèi buo­ ni", dicendo che voleva servirsi della loro bontà. Inoltre, senza pensarci su due volte, portava via le statuette d'oro della Vittoria e le coppe e le corone sostenute dalle mani distese delle statue300, e sosteneva che non le portava via, ma che le accettava: infatti è una stoltezza chiedere dei benefici e poi, quando ce li porgono e ce li offrono, non accettarli. Dicono poi che abbia portato nel Foro tali re­ furtive dei templi, le abbia messe all'asta e poi, dopo aver riscosso il denario, abbia ordinato che tutti i detentori di oggetti appartenenti a luoghi sacri, li riportasse ciascu­ no all'interno del proprio tempio entro un determinato giorno prestabilito301• E così all'empietà verso gli dèi ag­ giunse l'ingiustizia verso gli uomini. 35. Dunque quest'uomo non fu colpito da un fulmine di Giove Olimpio né Esculapio lo fece perire lentamente per una malattia lunga e dolorosa: morì nel suo letto, fu posto su una pira302 e quel potere che egli stesso aveva ottenuto per mezzo della scelleratezza, come se giusto e

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legittimo, passò in eredità al figlio. (85) Su questo parlo a mio malgrado, perché sembra di dare un'esortazione ad agire male. E questa sembrerebbe una cosa giusta, se, pur senza l'interferenza della ragione divina, non ci fos­ se il peso della stessa consapevolezza sia della virtù sia dei vizP03: cancellata questa, crolla tutto. Come infatti né una famiglia né uno stato sembrano regolati da un crite­ rio razionale e da una regola, se in essi non vi è alcuna ricompensa per le buone azioni né alcuna punizione per le colpe, allo stesso modo nel mondo non esiste alcuna regola divina sugli uomini, se in esso non vi è alcuna differenza tra i buoni e i cattivi. (86) "Ma gli dèi trascurano i fatti minori3°4, né si inte­ ressano dei campicelli e delle viti dei singoli individui, né va attribuito a Giove il danno recato dalla golpe o dal­ la grandine; nemmeno nei regni i re si curano di tutte le minime questioni"; è così che voi dite. Come se poco fa mi fossi !agnato del podere a Formia di Publio Rutilio, e non del fatto che abbia perduto i diritti di cittadino305• 36. E invero tutti gli uomini la pensano in questo modo: credono di derivare dagli dèi tutti i beni esterni: vigneti, terreni, uliveti, la quantità delle messi e dei frut­ ti, insomma ogni agio e prosperità della vita; ma nessu­ no ha mai considerato come ricevuta da dio la virtù306• (87) E senza dubbio a ragione: infatti per la virtù giusta­ mente siamo lodati e in essa troviamo il giusto motivo per vantarci; questo non accadrebbe se la virtù ci fosse donata dagli dèi e non da noi stessi. In verità, però, se riceviamo onori o beni familiari, o se abbiamo ottenu­ to un qualche altro bene dalla sorte o scacciato qualche male, rendiamo grazie agli dèi e pensiamo che nulla sia stato aggiunto al nostro merito. Forse qualcuno ha mai ringraziato gli dèi per il fatto di essere un uomo onesto? No, però li ringrazia di essere ricco, onorato, in salute, e per questo motivo danno a Giove gli attributi Ottimo

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e Massimo, non perché ci rende giusti, moderati e sa­ pienti, ma perché ci mantiene salvi, in salute, ricchi e ben provvisti. (88) Non è mai esistito nessuno che ab­ bia dedicato ad Ercole307 una decima se fosse diventato sapiente - nonostante si dica che Pitagora, quando ebbe scoperto una nuova teoria di geometria, abbia immola­ to un bue in onore delle Muse308• Io però non ci credo, perché quello non volle sacrificare una vittima nemme­ no ad Apollo Delio per non lordare l'altare di sangue309• Ma tornando alla questione, questo è il giudizio comune a tutti i mortali: la fortuna va chiesta alla divinità, men­ tre la sapienza va ricavata dentro noi stessi. Per quanto noi vogliamo consacrare templi alla Mente, alla Virtù e alla Lealtà, tuttavia vediamo che queste doti si trovano dentro di noi; agli dèi bisogna chiedere la speranza, la salute, la ricchezze e la vittoria. Quindi le prosperità e le condizioni favorevoli in cui versano gli uomini malvagi offrono, come sosteneva Diogene, l'occasione per confu­ tare tutta la forza degli dèi e il loro potere. 37. (89) "Però certe volte i buoni fanno una bella fine". Certo, e noi questi casi li afferriamo prontamente e senza alcuna ragione li attribuiamo agli dèi immortali. Ma Dia­ gora detto l'Ateo310, quando venne a Samotracia311 e un amico gli chiese: "Tu, che secondo la tua opinione gli dèi non sono interessati alle cose umane, non ti accorgi da tutte queste tavolette votive312 quanti uomini con i loro voti riuscirono a scampare la violenz..a delle tempeste e a salvarsi in porto sicuro?'� rispose: "E proprio così, dato che non furono mai raffigurati quelli che fecero naufra­ gio e morirono in mare". Lo stesso Diagora poi, poiché durante un viaggio per mare i naviganti, terrorizzati e impauriti dall'arrivo di una tempesta, sostenenevano che quella sventura sarebbe capitata a loro non ingiu­ stamente perché lo avevano imbarcato su quella nave, mostrò loro molte altre navi in difficoltà che stavano per-

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correndo la medesima rotta, e chiese se credevano che anche su quelle navi stesse viaggiando Diagora. Così in­ fatti stanno le cose: davanti alla prospera o all'avversa fortuna, quale tu sia o in che modo tu abbia vissuto non conta nulla. (90) "Gli dèi - dice - non stanno dietro a ogni affare, e nemmeno i re". Ma che c'è di simile? Infatti, se i re lasciano correre un crimine nonostante sappiano che sia avvenuto, grande è la colpa; nel caso della divini­ tà invece non c'è nemmeno la scusante dell'ignoranza313• 38. E voi ne fate una difesa magistrale quando dite che la forza degli dèi è tale che, anche se uno è sfuggito alla punizione per mezzo della morte, la punizione sarà inflitta anche ai figli, ai nipoti, ai discendentP14. O me­ ravigliosa equità degli dèi! Forse che una città potrebbe sopportare un promulgatore di leggi di questo genere, che stabilisse di estendere al figlio e al nipote un crimine commesso dal padre o dal nonno? "Quale la fine che si porrà all'uccisione dei figli di Tantalo? In che modo poter saziare il desiderio di supplizio per la morte di Mirti­ lo?"31s. (91) Non mi riesce facile dire se sono stati i poeti a distorgere la visione degli Stoici o se sono stati gli Stoici a rendere autorevoli le voci dei poeti; sia gli uni sia gli altri dicono parole mostruose e vergognose. Infatti tutti coloro che sono stati colpiti dai giambi di Ipponatte316 o sono stati feriti dai versi di Archiloco317 non portavano in grembo un dolore inviato da dio, ma frutto di se stessi, né quando vediamo la fame insaziabile di Egisto o di Paride318 non ne cerchiamo la causa nella divinità, dato che quasi ascoltiamo la voce della colpa, né penso che la guarigione di molti malati sia dovuta a Ippocrate piutto­ sto che a Esculapio, né dirò mai che l'ordinamento dello stato di Sparta è stato dato da Apollo piuttosto che da Li­ curgo319. Critolao, dico, ha distrutto Corinto320, Asdruba­ le Cartagine321 : furono questi due a oscurare quelle perle

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della costa marittima, non un qualche dio adirato (che, a detta vostra, non può assolutamente adirarsi). (92) Di sicuro, però, sarebbe potuto accorrere in aiuto e salvare delle città tanto grandi e belle; 39. voi infatti siete soliti dire che non c'è niente che il dio non possa fare, e per di più senza impiegare alcuna fatica. E come le membra dell'uomo possono muoversi senza lo sforzo della stessa mente e della volontà, così tutto può formarsi, muover­ si, cambiare per volere degli dèi. E non dite questo se­ guendo una superstizione da vecchiette, ma sulla base della scienza naturale e di stabili ragionamenti: dite che la materia, da cui tutto si costituisce e in cui tutto è con­ tenuto, è totalmente malleabile e mutevole, così che non c'è niente che da essa non possa essere prodotto e mutato all'istante, mentre il principio che modella tutta questa materia è la divina provvidenza; dunque essa, ovunque si muova, può produrre ciò che vuole. E così o non cono­ sce le sue possibilità, o trascura le cose umane, o non è capace di giudicare cosa sia la cosa migliore322• (93) "Non si cura dei singoli uomini". Non è una cosa di cui me­ ravigliarsi; non si interessa nemmeno delle città. E non solo questo, ma neanche delle nazioni e dei popoli. E se disdegna anche queste, che c'è di strano se ha trascurato tutto il genere umano? Come potete dire, però, che non si preoccupano di tut­ to e poi che sono gli stessi dèi immortali a distribuire e assegnare i sogni agli uomini (comunico queste cose a te perché la teoria sulla veridicità dei sogni è vostra) e che bisogna fare dei voti? Naturalmente sono i singoli individui a rivolgere i voti: quindi la mente divina por­ ge l'orecchio anche ai singoli casi; vedete che non è così indaffarata come dicevate. Facciamo che sia veramente occupata nella rotazione il cielo e nel controllo della ter­ ra e dei mari; perché ammette che tanti dèi se ne stiano in comodo a far nulla? Perché non antepone agli affari

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umani qualcuno di questi dèi oziosi, che tu, Balbo, hai menzionato in numero interminabile? Questo era all'incirca quello che volevo dire in merito alla questione sulla natura degli dèi, e non per annullar­ la, ma per farvi comprendere quanto essa sia oscura e quanto difficili siano le spiegazioni di cui necessita». 40. (94) Detto questo, Cotta terminò. E Lucilio allora: «Ti sei scagliato molto impetuosamente, Cotta, contro la dottrina stoica, che essi hanno fondato in maniera molto rispettosa e saggia sul concetto di provvidenza divina. Ma visto che si sta facendo sera, ci concederai un altro giorno per poter controbattere le tue teorie. Tra noi due c'è infatti una lotta in corso per difendere gli altari, i fo­ colari, i templi, i santuari degli dèi e le mura della città, che secondo voi pontefici sono sacre323, e circondate più diligentemente la città con la religione piuttosto che con le mura stesse. Quanto a me, finché avrò fiato, giudicherò un'azione nefanda abbandonare tutto questo». (95) Allora Cotta: «Veramente, Balbo, io vorrei essere confutato e avrei preferito esporre, più che giudicare, ciò su cui si sta disputando, e sono del tutto sicuro che puoi sconfiggermi facilmente». «Di certo - disse Velleio - perché pensa che anche i sogni siano inviati agli uomini da Giove324, e del resto gli stessi sogni non sono così inutili quanto lo è invece l'argomentazione prodotta dagli Stoici sulla natura degli dèi». Detto ciò, così divergemmo: a Velleio sembrava più vera la discussione di Cotta, io invece ero dell'opinione che ad avvicinarsi maggiormente alla verità fossero le parole di Balbo325•

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Frammenti del libro terzo

1. Lattanzio, Istituzioni divine 2,3,1-2 Cicerone aveva ben compreso che gli uomini rivolgono la loro venerazione a cose false. Infatti, avendone elenca­ te molte capaci di sovvertire il culto religioso, aggiunge tuttavia che non bisogna discutere in pubblico di questi argomenti per non distruggere, mediante tale disputa, le credenze religiose dello Stato1•

2. Lattanzio, Istituzioni divine 2,8,10-11 Infatti Cicerone, nel corso della discussione sulla natura degli dèi, dice quanto segue: in prima istanza, dunque, non è probabile che quella materia da cui tutto è nato sia stata prodotta dalla provvidenza divina, ma piuttosto che essa abbia e abbia avuto una forza e una natura pro­ pria. Quindi, come quando un costruttore che si accin­ ge a costruire qualcosa non crea la materia ma si serve di quella già pronta, e allo stesso modo il modellatore si serve della cera, così fu necessario che codesta provvi­ denza divina avesse in uso una materia non creata da lei,

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ma che aveva già pronta. Ma se la materia non è creata da dio, non lo sono nemmeno la terra, l'acqua, l'aria e il fuocd.

3. Scoli Veronesi all'Eneide 5,95 Scauro: in modo erudito, infatti dice (scil. Virgilio) che il serpente nasce dal midollo osseo dei cadaveri umani, come le api da quello dei cavalli e dei vitelli ... si legge anche in Cicerone, nel libro Sulla Natura degli Dèi, a pro­ posito di Cleomene lo Spartano3•

4. Diomede, Grammatica l (GL l, p. 313 Keil) Cicerone nel libro Sulla Natura degli Dèi: "gli uomini sono superiori a tutte le bestie"4•

5. Servio, Commento all'Eneide 3,284 Glossa a "grande anno": di questo parlano diffusamente Mentore, Eudosso e lo stesso Tullio; nei libri Sulla Natura degli Dèi ha detto infatti che un grande anno contiene a sua volta tremila anni5•

7. Servio, Commento all'Eneide 6,893 Glossa a "Sono due le porte del sonno": gli occhi sono compresi attraverso la cornea porta, essendo entrambi cornei e più duri delle altre parti del corpo; non sentono infatti il freddo, come dice Cicerone nei libri Sulla natura degli Dèi6•

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F R A M M E N TI DE L L I B RO TERZO

8. Lattanzio, L'ira di Dio 13,9-12 Ma solitamente gli Accademici discutono contro gli Stoi­ ci chiedendosi il motivo per cui, se Dio avesse creato tutto per l'uomo, non si riesca a trovare altresì tanto in mare quanto sulla terra ciò che ci è contrario, avverso e funesto. Ora gli Stoici, che non vedono la verità, hanno risposto a questa obiezione in modo assai inopportuno. Dicono infatti che l'utilità che si ricava dai vegetali e da­ gli esseri animati che ancora ci sono sconosciuti è molta, ma che verrà scoperta con il passare dei secoli, proprio come la necessità e il bisogno renderanno note molte cose che nei secoli precedenti erano invece sconosciute. Quale utilità infine si può trovare nei topi, nelle blatte, nei serpenti, tutte creature che producono disturbo e pe­ ricolo all'uomo? Esiste forse in essi un qualche rimedio? Se esiste, un giorno o l'altro verrà scoperto, ma con il fine di combattere veramente dei mali, visto che quelli si la­ mentano proprio di questo, cioè se il male esiste. Si dice comunque che una vipera, bruciata e ridotta in cenere, possa aiutare a guarire dal morso di un'altra vipera. Sa­ rebbe stato molto meglio però se non fosse proprio esisti­ ta, piuttosto che necessitare noi di un rimedio contro di essa che proviene proprio da essa7•

9. Lattanzio, L'ira di Dio 13,19-21 Vedi dunque che necessitiamo della saggezza per lo più a causa dei mali; e se questi ultimi non fossero stati pre­ stabiliti, non saremmo degli animali razionali. Se è vero questo ragionamento, che gli Stoici non riuscirono a ve­ dere in nessun modo, viene demolita quella celebre argo­ mentazione di Epicuro che dice: "Dio o vuole eliminare i mali e non può, o può e non vuole, o non vuole e non può, o vuole e può. Se vuole e non può, è debole, cosa

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che non gli si confà; se può e non vuole, è invidioso, e ciò gli è ugualmente estraneo; se non vuole e non può, è invidioso e debole e perciò non è dio; se vuole e può, e ciò è l'unica cosa che si adatta a dio, da dove si originano i mali o per quale motivo non li elimina?"8•

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Note di commento

Nelle note che seguono si è voluto offrire un quadro gen�rale delle questioni principali che emergono dal te­ sto. E evidente il nostro debito contratto nei confronti del monumentale lavoro di Pease, ancora oggi insuperabile per il commento al De natura deorum. A esso si rimanda per tutte le questioni che, per ovvi motivi, non abbiamo potuto affrontare in questa sede. •

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Note all'introduzione

1 Un quadro d'insieme chiaro e preciso, con ulteriori ri­ mandi bibliografici, è fornito in Cicerone, Tusculane. In­ troduzione di E. Narducci, traduzione e note di L. Zuc­ coli Clerici, Milano 1997, p. 5: «La filosofia ciceroniana è un frutto dell'emarginazione. Da quando la dittatura di Cesare aveva soffocato la libertà del dibattito politico, sembrava tramontato per sempre il tempo delle grandi battaglie in senato e di fronte al popolo, dei processi ai governanti che per decenni avevano appassionato l'opi­ nione pubblica dell'Italia intera. Tagliata fuori dagli spa­ zi civici in cui aveva lungamente prosperato, l'oratorio romana appariva avviata a un decadimento inarrestabi­ le. [...] Ma dalle ceneri dell'eloquenza nasceva la filosofia (Tusculanae II 5). Nel forzato ritiro, Cicerone vedeva in essa il modo di continuare la sua battaglia per il rinnova­ mento della res publica, attraverso una profonda riflessio­ ne sui valori che erano alla base dell'esistenza del singolo e della convivenza tra gli uomini». Sul motivo, si legga anche M. Tullio Cicerone, Lettere dall'esilio. Introduzione, traduzione, commento a cura di R. Degl'Innocenti Pieri­ ni, Firenze 1996, in part. pp. 11 ss.

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2 Lo strettissimo rapporto che intercorre tra la ricerca filosofica e la sua utilità sotto l'aspetto sociale e politi­ co emerge sin dagli inizi dell'opera, dove leggiamo che se venisse eliminato il culto degli dèi, verrebbero meno anche i pilastri fondamentali che reggono la res publica, vale a dire fides, societas e iustitia: cfr. in particolare il cap. 1,4. Il ragionamento, che appare coerente con la visione dell'Accademia potrebbe spingere il lettore a pensare egli considerasse la religio come un mero strumento per conservare lo Stato. In realtà l'autore si dimostra in accor­ do, al cap. 2,73, con l'opinione dello stoico Balbo il quale afferma che il mondo è retto dalla provvidenza divina: questo ben si accorda con l'affermazione presente in Div. 2,148, dove Cicerone sostiene che è qualità del saggio non soltanto rispettare i culti e la tradizione degli antenati, ma anche credere che la bellezza del mondo e l'ordina­ mento celeste siano una evidente manifestazione dell'e­ sistenza di una natura divina e perfetta che l'uomo deve contemplare. Sul punto, cfr. altresì E. Narducci, Introdu­ zione a Cicerone, Roma-Bari 1997, pp. 131 s.; G. Cambiano, Cicerone e la necessità della filosofia, in: AA.VV., Interpretare Cicerone. Percorsi della critica contemporanea. Atti II Sympo­ sium Ciceronianum Arpinas (Arpino, 18 maggio 2001). A cura di E. Narducci, Firenze 2002, pp. 66-83. 3 Publilia fu appunto la seconda moglie di Cicerone, il quale già si era sposato con Terenzia. Terenzia era stata ripudiata dall'oratore all'età di 57 anni dopo 30 di matri­ monio, per motivi non chiarissimi: Plutarco, in Cic. 41, ac­ cusa Cicerone di non aver nutrito delle cure nei confronti della moglie durante la guerra civile e che al suo ritorno ella era maldisposta nei suoi confronti. Lo scrittore greco ci informa anche che Terenzia non era andata a Brindisi dove il marito, dopo la battaglia di Farsalo, soggiornò per molto tempo in attesa del permesso da parte di Cesare per

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rientrare in patria; questi, così come altri di minore porta­ ta, furono le cause del divorzio secondo Plutarco. Il matri­ monio con Publilia, giovane di ottima estrazione sociale, durato peraltro molto poco (Plut. Cic. 41,8 dice che essa si rallegrò addirittura della morte della figlia Tullia), si col­ loca subito dopo questi avvenimenti e costituì, durante la causa del primo divorzio, l'appiglio giudiziario di Teren­ zia al momento della difesa in tribunale. Per tutto questo e molti altri dettagli, cfr. C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Concubinato. Divorzio. Adulterio. Parte terza, Roma 2005, in particolare le pp. 102 s. 4 Correva la metà di febbraio dell'anno 45 a.C. quando Tul­ lia morì nel Tusculanum all'età di 33 anni, dopo il secondo parto avuto dal suo terzo marito Cornelio Dolabella (i pre­ cedenti erano stati, secondo l'ordine cronologico, Calpur­ nio Pisone Frugi e Furio Crassipede): cfr. P.A. Clark, Tullia and Crassipes, "Phoenix" 45, 1991, pp. 28-38. 5 L'opera perduta De gloria, di cui ci restano pochissimi frammenti, è nominata da Cicerone stesso in Att. 15,27; 16,2; 16,6; Off. 2,31. La datazione è collocata unanime­ mente dagli studiosi nell'estate del 44. Per le testimo­ nianze e i frammenti, si consulti l'edizione di Plasberg e Simbeck (Leipzig 1997); cui si deve aggiungere l'artico­ lo di A. Souter, A Probable Fragment of Cicero's De Gloria, "The Classica! Review" 46, 1932, pp. 151-152, che discu­ te un probabile frammento presente in una pagina del Commento al Vangelo di Matteo di san Gerolamo (cap. 5,12). In generale vd. invece S. Freund, Die Hetiire Leaina in Cice­ ros De gloria, "Rheinisches Museum fiir Philologie'� 158, 2015, pp. 247-258. 6 Della Consolatio scritta per la morte di Tullia abbiamo solamente dei frammenti, ma è certo che dovette essere

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considerata un capolavoro del genere letterario, tanto da divenire un modello per le consolazioni latine successive (la sua importanza è sottolineata da Plin. Nat. Hist. praef. 22, che la paragona al perì pénthous di Crantore, modello indiscusso in ambiente grecofono). Per i frammenti, ri­ mando all'edizione di C. Vitelli, M. Tuili Ciceronis Conso­ lationis fragmenta, Milano-Roma 1979; mentre per un in­ quadramento generale sull'opera e sulle sue funzioni, non solo filosofiche ma anche retoriche, si veda A. Setaioli, La vicenda dell'anima nella Consolatio di Cicerone, "Paideia" 54, 1999, pp. 145-174. Vd. altresì S. Audano, Il giudizio di Lat­ tanzio sulla Consolatio di Cicerone, "Koinonia" 30-31, 20062007, Forme della cultura nella Tarda Antichità, Il. Atti del VI Convegno dell'Associazione di Studi Tardoantichi, Napoli e S. Maria Capua Vetere, 29 settembre-2 ottobre 2003. A cura di U. Criscuolo, pp. 101-109; e, recentissimamente, W. Englert, Fanum and philosophy: Cicero and the death of Tullia, "Ciceroniana online" n.s. l, 2017, pp. 41-66. 7 CHortensius, dialogo d'esortazione alla filosofia proba­ bilmente improntato sul modello offerto dal Protrettico di Aristotele, fu composto anch'esso nel 45 a.C.; dedica­ to a Quinto Ortensio Ortalo, i personaggi erano, oltre a quest'ultimo, Catulo, Lucullo e lo stesso Cicerone. Copera è per noi perduta, ma siamo certi della sua fama nei secoli centrali dell'età tardoantica: si ricordino, a questo propo­ sito, i riferimenti fatti da sant'Agostino nel corso delle sue opere e l'importanza che tale testo rivestì nella sua forma­ zione di pensatore. Per un'edizione con commento detta­ gliato dei frammenti, si consulti Marco Tullio Cicerone, Ortensio. Testo critico, introduzione, versione e commento a cura di A. Grilli, Bologna 2010 (con bibliografia). 8 Secondo A. Grilli, Il piano degli scritti filosofici di Cicerone, "Rivista critica di Storia della Filosofia" 26, 1971, pp. 302-

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305, nel proemio del secondo libro del De divinatione Ci­ cerone costruirebbe una unità degli scritti che prima non esisteva: infatti una decina d'anni prima, quando stava componendo il De re publica, aveva in mente soltanto un altro trattato sulle leggi, il De legibus. Sull'organizzazio­ ne del corpus degli scritti filosofici ciceroniani, cfr. inoltre Pease, De natura deorum, pp. 5 ss., che amplia la discus­ sione sul piano della tripartizione aristotelica (ethikè, po­ litikè, physikè) della speculazione filosofica. 9 La traduzione italiana è ricavata dal volume di Timpa­ naro, Della divinazione, ad loc. 10 Epitomen Bruti Caelianorum velim mihi mittas et a Philoxe­ no ITavaui.ov nEQÌ. nQovoi.aç. La prima opera è nominata al cap. 2,8, mentre la seconda sarebbe stata fondamentale per la stesura di buona parte del libro II (si veda, comun­ que, il cap. 2,118). Ulteriori approfondimenti in Dyck, De natura deorum, in particolare pp. 2 s. n. 8. 11 Ante lucem cum scriberem contra Epicureos de eodem oleo et opera exaravi nescio quid ad te et ante lucem dedi. 12 Libros mihi de quibus ad te antea scripsi velim mittas et maxime a i.bQOV nEQÌ. 8Ewv. Cicerone fa riferimento a Fedro al cap. 1,93. Di poco posteriori a questa episto­ la sono anche i riferimenti che si leggono in Att. 13,40 quid mihi auctor es ? advolone an maneo? Equidem et in libris haereo et illum hic excipere nolo; 13,45 quod me hortaris ut eos dies consumas in philosophia explicanda, currentem tu quidem; 13,47 instituta omisi; ea quae in manibus habebam abieci, quod iusseras edolavi; che, secondo Pease, De natu­ ra deorum, p. 21, possono essere collocate con un buon margine di sicurezza in prossimità della stesura del no­ stro dialogo.

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13 Quod autem in aliis libris feci, qui sunt De natura deorum. 14 L'immagine di un'ambientazione di questo genere sem­ bra emergere dalla lettura del cap. 1,15, in cui la discussio­ ne tra Cotta e Velleio è immaginata all'interno di un'esedra, cioè un porticato (cfr. nota ad loc. per ulteriori chiarimenti). 15 Il dialogo, ideato in un primo momento per un tempo di tre giorni, era considerato, già dagli umanisti del Cin­ quecento, come svolto in un solo giorno: si veda, a questo proposito, il dettaglio che emerge dal cap. 3,94. Il testo che noi abbiamo, per quanto non presenti segni lampanti di cesure cronologiche e rimaneggiamenti, nasconde tut­ tavia delle tracce di quella che doveva essere l'imposta­ zione iniziale, quale ad esempio l'espressione al cap. 2,73 velut a te ipso hesterno die dictumst, con diretto riferimento a quanto era stato detto al cap. 1,18. Inoltre, gli studiosi pensano che possano costituire un indizio fondamentale anche l'inserimento degli estratti dalla traduzione degli Aratea nell'ambito del discorso di Balbo (capp. 2,104 ss.), opera terminata al momento della composizione dello scritto, ma non in quello in cui si immagina essere avve­ nuto l'incontro tra i filosofi, o l'uso dell'avverbio supra per designare qualcosa che è stato detto in precedenza. Cfr. Dyck, De natura deorum, pp. 3 s. 16 Cfr. Lassandro-Micunco, Opere politiche e filosofiche, p. 13. 17 Si confronti con quanto si dice nell'incipit, al cap. 1,1. 18 Celeberrima la frase kaì su, téknon (oggi nota a tutti nel­ la forma latina di uso proverbiale, Tu quoque Brute, fili mi) attribuita a Cesare che moriva sotto le pugnalate dei con­ giurati, tra i quali vi era lo stesso Bruto. Cfr. Svet. Caes. 82; Dio Cass. 44,19,5.

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19 Un profilo storico e culturale su Bruto è dato, con bi­ bliografia precedente aggiornata, in Marco Tullio Cice­ rone, Epistole al fratello Quinto e altri epistolari minori. Ma­ nualetto di propaganda elettorale. A cura di C. Di Spigno, Torino 2002, pp. 21 ss. Si consultino poi le pp. 259 ss. per l'epistolario e un approfondimento ulteriore nelle note. 20

Per un primo, ma preciso approfondimento sul dialogo aristotelico e sulle sue modalità e tematiche, si può leg­ gere il saggio di E. Berti, La filosofia del «primo» Aristotele. Presentazione di G. Reale, Milano 1997.

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Il metodo è spiegato da Cicerone in Att. 13,19,4: «Nei miei scritti recenti seguo la "maniera" aristotelica, per cui il dialogo degli altri interlocutori viene strutturato in modo tale che il ruolo principale spetta all'autore. Se­ condo tale indirizzo ho composto i miei cinque libri Sui termini estremi, per cui ho assegnato a Lucio Torquato l'e­ sposizione delle teorie epicuree, a Marco Catone quella delle stoiche, a Marco Pisone quella delle peripatetiche» (trad. italiana da Marco Tullio Cicerone, Epistole ad Attico. Volume secondo. Libri IX-XVI. A cura di C. Di Spigno, To­ rino 1998). Per un quadro moderno sul dialogo ciceronia­ no, cfr. invece gli studi di M. Ruch, Le préambule dans les cruvres philosophiques de Cicéron, Paris 1958; R. Gorman, The Socratic Method in the Dialogues of Cicero, Stuttgart 2005 (secondo cui Cicerone, adoperando il metodo dia­ lettico socratico, avrebbe intenzione nei suoi dialoghi di distaccare dalla falsa opinione coloro che non condivi­ dono la visione più verosimile); M. Schofield, Ciceronian dialogue, in: AA.VV., The End of Dialogue in Antiquity. Edi­ ted by S. Goldhill, Cambridge 2008, pp. 63-85; e i due contributi di C. Steel, Structure, Meaning and Authority in Cicero's Dialogue, e l. Gildenhard, Cicero's Dialogues: Histo­ riography Manqué and the Evidence of Fiction, nel volume:

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AA.VV., Der Dialog in der Antike. Formen und Funktionen einer literarischen Gattung zwischen Philosophie, Wissensver­ mittlung und dramaticher Inszenierung. Herausgegeben von S. Follingen und G.M. Miiller, Berlin-Boston 2003, rispet­ tivamente pp. 221-234 e 235-274 . 22 Cfr. in particolare i capp. 1,5 s. 23 L'espressione, molto evocativa, è mutuata da Pease, De natura deorum, p. 29. 24 Sul rapporto tra filosofia e retorica in Cicerone, cfr. A. Michel, Rhétorique et philosophie chez Ciceron, Paris 1960; mentre sul De natura deorum in particolare, C. Schaublin, Philosophie und Rhetorik in der Auseinandersetzung um die Religion: zu Cicero, De natura deorum I, "Museum Helve­ ticum" 47, 1990, pp. 87-101 e la sezione introduttiva for­ nita da Calcante, La natura divina, pp. 5 ss. Fondamentale invece, per comprendere il giusto rapporto tra filosofia e retorica nelle scuole antiche dell'ultimo ellenismo, è il contributo di M.T. Luzzatto, Filosofia e retorica nel curricu­ lum ellenistico: una convivenza (im)possibile, "Prometheus" 34, 2008, pp. 129-159. 25 Cfr. ad esempio il cap. 1,18. 26

Cfr. ad esempio il cap. 3,2.

27 Cfr. i capp. 1,57-59; 3,1; 3,4; 3,95. 28 Cfr. in particolare i capp. 3,5-6. Su questo particolare, si vedano anche le riflessioni, seppur datate, ma sempre utili, avanzate da Mayor, De natura deorum, pp. XXIV s., dove Cotta è accostato ad alcuni uomini di stato di età imperiale come Traiano.

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29 Si confronti, in particolare, con i capp. 1,11 ss. In par­ ticolare al cap. 1,17 Cicerone dichiara espressamente di appartenere all'indirizzo accademico. In generale vd. an­ che C. Lewy, Cicero Academicus. Recherches sur les Académ­ iques et sur la philosophie cicéronienne, Rome 1992. 30 Si tenga qui presente l'espressione con cui si chiude il capitolo finale 3,95: Haec cum essen t dieta, ita discessimus, ut Velleio Cottae disputatio verior, mihi Balbi ad veritas similitu­ dinem videretur esse propensior. Un bilancio sugli svariati tentativi di spiegare il passo è dato da A.S. Pease, The Conclusion of Cicero's De natura deorum, "Transactions and Proceedings of the American Philological Association" 44, 1913, pp. 27-37. Cfr. poi Pease, De natura deorum, pp. 33 ss., e poi, anche se più in generale, possono essere d'aiu­ to, per inquadrare il problema della presenza dello Stoi­ cismo in Cicerone, il saggio di L. Taran, Cicero's Attitude Towards Stoicism and Skepticism in the De natura deorum, in: AA.VV., Florilegium Columbianum. Essays in honor of Paul Oscar Kristeller. Edited by K.-L. Selig and R. Som­ merville, New York 1987, pp. 1-22. 31 Così Lassandro-Micunco, Opere politiche e filosofiche, pp. 14 s. con le relative note e i testi ivi citati. 32 Cfr. Arnob. 3,6 (il testo è citato anche più oltre). 33 Cfr., su tutti, Tusc. 5,83: «Usiamo dunque della libertà che a noi soli è concessa in filosofia, giacché la nostra trattazione non formula giudizi proprii ma si rivolge in tutte le direzioni, in modo che gli altri possano giudi­ carla per il suo valore intrinseco, indipendentemente dall'autorità di chicchessia», con il saggio di J. Glucker, Cicero's Philosophical Affiliations, in: AA.VV., The Question of "Eclecticism ": Studies in Later Greek Philosophy. Edited by

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J.M. Dillon and A.A. Long, Berkeley-Los Angeles 1988, pp. 34-69. 34 Il metodo è, come dice Cicerone stesso, di natura socra­ tica (cfr. Div. 2,150): dalla lettura dell'opera si evince, in particolare, la consapevolezza di non riuscire a giungere a una conclusione definitiva sul piano della gnoseologia (cfr. Tusc. 4,7), senza ammettere però una forma radicale di scetticismo. Su un piano generale si può leggere inol­ tre il ricchissimo capitolo dedicato a Cicerone e al suo metodo di ricerca filosofica nel vol. 7/2 de Lo Spazio Let­ terario di Roma Antica. A cura di A. Fusi, A. Luceri, P. Parroni, G. Piras, Roma 2012, pp. 327-385. 35 Tale uso del proemium, comune anche alle altre opere del corpus a tema filosofico e retorico, discende dal mo­ dello fornito dai prooimia demegorika di Demostene. Cfr. Pease, De natura deorum, p. 30 n. 2; e, su un piano genera­ le, A. Grilli, I proemi del De re publica di Cicerone, Brescia 1971, in part. pp. 18 ss. 36 Così secondo A. B. Krische, Die theologischen Lehren der Griechischen Denker. Eine Prii.fung der Darstellung Cicero's, Gottingen 1840, p. 22, e Lassandro-Micunco, Opere filo­ sofiche e politiche, p. 19. Sul tema della presenza di Lu­ crezio nel De natura deorum, si può consultare altresì C. Auvray-Assayas, Lucrèce dans le De natura deorum de Ci­ céron: une réflexion sur les implications de la poétique atomi­ ste, in: AA.VV., Présence de Lucrèce. Actes du colloque tenu à Tours (3-5 décembre 1998). Textes réunis et présentés par R. Poignault, Tours 1999, pp. 101-110. 37 Cfr. C. Thiacourt, Essai sur les Traités Philosophiques de Cicéron, Paris 1885, p. 213.

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38 Cfr. Pease, De natura deorum, p. 39. 39 Si confronti con quanto si legge al cap. 1,59. 40 Per un panorama generale sulla questione e una di­ scussione a proposito delle variazioni e omissioni attuate da Cicerone sul testo di Filodemo, cfr. Pease, De natura deorum, p. 39 ss. 41 Cfr. A.B. Krische, Die theologischen Lehren der Griechi­ schen Denker. Eine Prii.Jung der Darstellung Cicero's, Gott­ ingen 1840, p. 33; et alii in Pease, De natura deorum, p. 42. 42 Cfr. ad esempio il Thiacourt (nel suo Essai sur les Traités Philosophiques de Cicéron, Paris 1885, pp. 214 ss.); et alii in Pease, De natura deorum, p. 43. 43 La teoria è già nella dissertazione di R. Philippson, De Philodemi libro qui est 71EQÌ. arn.tdwv Kaì. arn.t nwaEwv, Ber­ lin 1881, p. 71. 44 Cfr. Dyck, De natura deorum, pp. 8 s. 45 Cfr. ibid., pp. 9 s.; ma anche Pease, De natura deorum, pp. 43 ss. per uno sguardo a tutte le teorie formulate in precedenza. 46 Per questo rimando alla discussione avanzata da Ar­ thur Stanley Pease nell'introduzione alla sua monumen­ tale edizione del De divinatione (in part. pp. 22 s. e 28 s.). 47 Cfr. Pease, De natura deorum, pp. 45 s. e n. l. Un bilancio più recente anche in H. Essler, Cicero's use and abuse of Epicurean theology, in: AA.VV., Epicurus and the Epicurean Tradition. Edited by J. Fish and K.R. Sanders, Cambridge

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2011, pp. 129-151, e S. Maso, Grasp and Dissent: Cicero and Epicurean Philosophy, Turnhout 2015. 48 Cfr. ad es. Mayor, De natura deorum, pp. XVI ss.; C. Giambelli, Di Posidonio fonte principale del II libro De na­ tura deorum di M. Tullio Cicerone, "Rivista di Filologia Classica" 31, 1903, pp. 450-463. 49 Per riferimenti bibliografici e discussione, rimando a Pease, De natura deorum, p. 46. 5° Cfr. R. Hirzel, Untersuchungen zu Cicero's philosophischen Schriften, I, Leipzig 1877, pp. 191 ss. 51 Cfr. H. Usener, Epicurea, Lipsiae 1887, p. LXVII. 52 Cfr. L. Reinhardt, Die Quellen von Cicero's Schrift de deo­ rum natura, Breslau 1888, pp. 54 s. 53 Il grande Pohlenz è tornato sull'argomento più volte: la bibliografia è raccolta da Pease, De natura deorum, p. 47. 54 Cfr. ibid. pp. 48 s. 55 Sin dai primi studi moderni dedicati al De natura deo­ rum la critica non si è trovata unanime circa la questione relativa alla pubblicazione dell'opera (in particolare si è discusso in che momento essa fosse stata effettivamente pubblicata). Il primo ad essersi posto il punto interrogati­ vo fu Mayor, De natura deorum, pp. XXV s., il quale pone­ va per lo più l'accento sulla presenza di alcune parti del testo non revisionate, prive dell'impegno di labor limae cui si era soliti dedicarsi prima dell'ekdosis; seguirono questa teoria molti degli studiosi più accreditati, quali Plasberg nella sua editio minor del 1917, e M. Pohlenz, An-

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tikes Fiihrertum. Cicero de Officiis und das Lebensideal des Panaitios, Leipzig 1934, p. 8, che invece volle rimarcare i numerosi punti di contatto tra il terzo libro del De na­ tura deorum e il terzo del De officiis (in particolare i capp. 3,66-71 del primo e i capp. 3,60-73 del secondo): viste le somiglianze, sostiene lo studioso, Cicerone non avrebbe adoperato le medesime fonti in due momenti differenti del suo lavoro. L'opinione opposta fu supportata invece, tra gli altri, da R. Philippson (in Pauly-Wissowa, 7, 1939, coll. 1151 s.), che in particolare mise in evidenza come anche in altri dialoghi ciceroniani siano presenti delle imperferzioni compositive (cfr. ad es. in Ac. 1). Pease, De natura deorum, p. 52, propende per un rifiuto della pub­ blicazione postuma dell'opera, anche per i rimandi che leggiamo in De divinatione e in De fato (per il testo e la discussione, cfr. già supra).

56 Le informazioni qui riportate dipendono per lo più dalle ricerche (per molti aspetti ancora pionieristici) di Pease, De natura deorum, pp. 52 ss. Si rimanda pertanto ad esso per ulteriori approfondimenti e informazioni. Cfr., tuttavia, anche Dyck, De natura deorum, pp. 14 ss. 57 La questione è affrontata anche da G. Calboli, Cicerone, Catone e i neoatticisti, in: AA.VV., Ciceroniana. Hommages à K. Kumaniecki. Publiés par A. Michel et R. Verdière, Leiden 1975, pp. 51-103, in part. pp. 85 s. 58 Cfr. Val. Max. 1,1,3 (De nat. deor. 2,10-11); 1,4,3 (De nat. deor. 2,7); 1,8,1 (De nat. deor, 2,6); etc. 59 In due passi del suo De astronomia, Igino cita alcuni versi degli Aratea che leggiamo nel secondo libro del De natura deorum: cfr. 3,29 (De nat. deor. 2,111); 4,3 (De nat. deor. 2,108). Cfr. anche fab. 14 (p. 21 Rose), ove invece è

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241

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LA NATU RA D E G L I D E I D E NATURA DEORUM

riportato un verso da De nat. deor. 2,114: tuttavia Pease, De natura deorum, p. 53, sottolinea che la successiva presenza di altri versi «seems to indicate that he quoted directly from a complete ms of the poem». 6°

Cfr. Nat. Hist. 2,16 (De nat. deor. 3,63); 8,112 (De nat. deor. 2,127); 10,63 (De nat. deor. 2,125); 10,115 (De nat. deor. 2,124); 19,247 (De nat. deor. 2,111); etc.

61

Cfr. Inst. Or. 1,5,72; 8,2,32. Sul punto si veda anche M. von Albrecht, Cicero's Style: A Synopsis. Followed by Se­ lected Analytic Studies, Leiden-Boston 2003, p. 35.

62

Cfr. F. Adorno, La filosofia antica: cultura, filosofia, poli­ tica e religiosità (Il-VI secolo d. C.), Milano 1992, p. 186. Per ulteriori approfondimenti su Minucio e Cicerone, cfr. F. Kotek, Ankl ange an Ciceros De natura deorum bei Mi­ nucius Felix und Tertullian, Wien 1901, pp. 3 ss.; S. Colom­ bo, Osservazioni sulla composizione letteraria e sulle fonti di M. Minucio Felice, "Didaskaleion" 3, 1914, pp. 79-121; C. Becker, Der Octavius des Minucius Felix: Heidnische Philosophie und fruhchristliche Apologetik, "Stizungbe­ richte der bayerische Akademie der Wissenschaften" 2, 1967, pp. 12-19; I. Vecchiotti, La filosofia politica di Minucio Felice: un altro colpo di sonda nella storia del cristianesimo primitivo, Urbino 1973, in particolare pp. 36, 124 ss., 195 e 220. 63

Cfr. J.-C. Fredouille, Tertullien et la conversion de la cul­ ture antique, Paris 1972, p. 68 n. 4; G. Lazzati, Il De natu­ ra deorum fonte del De testimonio animae di Tertulliano?, "Atene e Roma" 8, 1939, pp. 153-166.

64

Cfr. Pease, De natura deorum, p. 54: «Some likenesses in the Quod idola Dii non sint of Cyprian probably derive

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N OTE A L L' I N TRODUZ I O N E

from Minucius and Tertullian rather that directly from Cicero». 65 Per Arnobio, cfr. Tommasi, Contro i pagani, da cui rica­ viamo la traduzione citata infra. 66 Cfr. i capp. 3,6 s. 67 Cfr. Div. Inst. 1,5,16 (De nat. deor. 1,25); 1,5,20 (De nat. deor. 1,36); 2,4,26 (De nat. deor. 1,30-34); etc. per cui si può consultare l'index auctorum stilato da S. Brandt e G. Lau­ bmann in L. Caeli Firmiani Lactanti Opera Omnia, vol. 27 CSEL, 2/II, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1897, pp. 246 ss. 68 Cfr. De ira Dei 9,1 (De nat. deor. 1,63); 13,1 (De nat. deor. 2,154); etc. 69 Tutti i frammenti sono tradotti in questo volume in ap­ pendice al testo del De natura deorum. 7° Cfr. Pease, De natura deorum, p. 83: «That the archetype of our mss may have been written in rustic capitals is suggested by such a passage as 1,59 where ACPNO [cfr. più avanti per le sigle dei codici principali] read acciderat but B has accidebat, a confusion of b and r less likely to occur in minuscules. Further, since Arnobius, Lactan­ tius, and the Verona Scholia to Virgil (S. IV?) evidently possessed intact copies - for it to them that we owe our scanty remains of the contents of the great lacuna at 3,65 - it is clear that mutilation could not have occurred ear­ lier that the fourth century». 71 Cfr. De Cain. et Abel 1,13 (De nat. deor. 1,77). 72 Cfr. 20,8,11 (De nat. deor. 1,4); 21,1,14 (De nat. deor. 2,12).

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243

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LA NATU RA D E G L I D E I D E NATURA DEORUM

73 Cfr. Gram. Lat. 4,212 Keil (De nat. deor. 2,143); 4,223 (De nat. deor. 2,112); etc. 74 Cfr. Gram. Lat. 1,137 Keil (De nat. deor. 2,157). 75 Cfr. in particolare Sat. 1,24,4 dove Pretestato parla po­ sitivamente della nostra opera; e poi anche 1,9,11 (De nat. deor. 2,67). 76 Cfr. Epist. 60,5 (De nat. deor. 1,120); 119,11 (De nat. deor. 1,10); Adv. Ruf 1,6 (De nat. deor. 1,18); etc. 77 Cfr. Epist. 118,23-27 (De nat. deor. 1,26-29); Contr. Acad. 2,24 (De nat. deor. 1,16-17); Contr. Iul. Pelag. 4,58 (De nat. deor. 2,128; 2,136; 2,138); De Const. Evang. 1,32 (De nat. deor. 1,119); etc. 78 Cfr. ad esempio Ps.-Acr. Comm. in Hor. Epod. 3,1 (De nat. deor. 2,101); Schol. ad Iuv. 15,3 (De nat. deor. 1,101); Vat. Myth. 218 (De nat. deor. 3,83); Isid. Etym. 371,1-2 (De nat. deor. 2,68); etc. Su Isidoro si veda altresì F. Gasti, L'antropo­ logia di Isidoro. Le fonti del libro XI delle Etimologie, Corno 1998, specialmente pp. 13 e 44 ss. 79 Cfr. Theol. Christ. 2,385 Cousin (De nat. deor. 2,15). 8° Cfr. Summ. Theol. 1,103,1,3 (De nat. deor. 2,15). 81 Cfr. Policr. 2,22 e 5,12 (De nat. deor. 1,10). 82 Cfr. Op. maius 1,2 (De nat. deor. 1,83); Quaest. Supra Pri­ mum Metaphys. Aristot. p. 185 Steele (De nat. deor. 2,32); etc. 83 Petrarca loda Cicerone in Epist. de reb. fam. 24,4 fama rerum celeberrima atque ingens et sonorum nomen, perrari autem studiosi; che abbia letto il De natura deorum è invece

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N OTE A L L'INTRODUZIONE

attestato in numerosi passi della sua opera: cfr. lo studio generale di P. de Nolhac, Pétrarque et l'humanisme, I, Paris 1907, ad esempio pp. 156; 183 n. 7; 233 n. l; e le citazioni nel De sui ipsius et aliorum Ignorantia raccolte da A. Hortis, M. T. Cicerone nelle opere del Petrarca e del Boccaccio, Trieste 1878, in part. pp. 46 e 83-88. 84 Su Boccaccio si veda sempre Hortis, Cicerone nelle opere, pp. 73 e 81 s. Come si può immaginare, le citazioni ricor­ rono per lo più nel suo De Genealogia Deorum. 85 Leonardo Bruni sembra ricavare una opinione di Ari­ stotele a proposito dei poemi di Orfeo attraverso la me­ diazione di De nat. deor. 1,107. 86 Anche Erasmo da Rotterdam pone nella prefazione al quarto volume di San Gerolamo una citazione da De nat. deor. 1,107. 87 Cfr. In evang. Ioh. 15,1 (De nat. deor. 3,86). 88 Bacone conosce De nat. deor. 1,18; 1,22; 2,62; 3,89 nel suo Advancement of learning. 89 Milton cita De nat. deor. 1,63 nel suo opuscolo politico Areopagitica. 9° Cfr. in particolare i Dialogues concerning natura[ Religion 4,241 (De nat. deor. 1,116); 4,469 (De nat. deor. 1,82). Vd. an­ che G. Paganini nel suo David Hume, Dialoghi sulla re­ ligione naturale. Introduzione, traduzione e note di G.P., Milano 2013, pp. 13 e 413. 91 Cfr. Werke 17,45 (a proposito della dossografia del libro I); 17,225 (De nat. deor. 1,25).

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245

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LA NAT U RA D E G L I D E I DE NATURA DEORUM

92

Cfr. Pease, De natura deorum, p. 52 e n. 10 per una biblio­ grafia precedente sulla questione.

93

Cfr. M. Manitius, Handschriften antiker Autoren in mitte­ lalterlichen Bibliothekskatalogen, Leipzig 1935, p. 33.

94

Cfr. Manitius, Handschriften, pp. 34 s.

95

Cfr. Manitius, Handschriften, pp. 37 s.

96

97

Cfr. Manitius, Handschriften, p. 38. Cfr. Manitius, Handschriften, p. 34.

98 Cfr. Manitius, Handschriften, pp. 35 s. 99

Cfr. Manitius, Handschriften, pp. 36 s.

10°

101

102

103

104

105

Cfr. Manitius, Handschriften, p. 37. Cfr. Manitius, Handschriften, p. 27. Cfr. Manitius, Handschriften, p. 28. Cfr. Manitius, Handschriften, p. 29. Cfr. Manitius, Handschriften, p. 30. Cfr. Manitius, Handschriften, p. 31.

106

Cfr. P.G. Antolin, Catalogo de los c6dices Latinos de la Real biblioteca del Escorial, V, Madrid 1923, p. 367. 107

Cfr. Manitius, Handschriften, pp. 20 s.

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N OTE A L L' l NTRODUZION E

108

109

11°

m

112

Cfr. Manitius, Handschriften, p. 22. Cfr. Manitius, Handschriften, p. 22. Cfr. Manitius, Handschriften, p. 23 . Cfr. Manitius, Handschriften, p. 24. Cfr. Manitius, Handschriften, p. 26.

113

Cfr. Manitius, Handschriften, p. 24. Amplonio di Ratin­ gen fu filosofo e bibliofilo tedesco vissuto nel XV secolo: nel 1412 regalò gli oltre 600 manoscritti che compone­ vano la sua biblioteca al Collugium Amplonianum. Per ulteriori approfondimenti, cfr. J. Jadenbach, Die Bibliothek des Amplonius Rating de Bercka. Entstehung, Wachstum, Pro­ fil, in: AA.VV., Die Bibliotheca Amploniana. Ihre Bedeutung im Spannungsfeld von Aristotelismus, Nominalismus und Humanismus. Herausgegeben und fiir den Druck besorgt von Andreans Speer, Berlin-New York 1995, pp. 16 ss. 114

Cfr. Manitius, Handschriften, p. 33.

115

Cfr. M. Bateson, Catalogue of the Library of Syon Mona­ stery, Cambridge 1898, pp. 20 s.: qui si legge che l'anti­ co catalogo della biblioteca è conservato ora al Corpus Christi College di Cambridge. Il codice conteneva, oltre al De natura deorum, De divinatione, De legibus, Academica, De finibus, De petitione consulatus, De fato, Timaeus, Som­ nium Scipionis, ed altre opere più tarde. 116

Cfr. Pease, De natura deorum, pp. 62 ss.; cui si posso­ no aggiungere T.J. Hunt, The Medieval Tradition of Cice­ ro's Theological Works, "Pergamus" 5, 1966, pp. 52-57; B.O.

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LA NATURA DEGLI DEl

DE NATURA DEORUM

Munk, L'é tude des auteurs classiques latins aux Xle et Xlle siècle: Catalogue des manuscrits classiques latins copiés du IXe au Xlle siècle: Apicius-Juvenal, Paris 1982. 118 L'unico catalogo esistente delle edizioni del testo è of­ ferto da Pease, De natura deorum, pp. 88 ss.

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Note allibro primo

1 Su Marco Giunio Bruto, dedicatario dell'opera, e sul suo

ruolo nella formazione dell'uomo filosofico che fu Cice­ rone, si vedano le osservazioni ad esso dedicate nella se­ zione introduttiva. Cicerone mette in evidenza fin da subito l'importanza e i vantaggi che si possono trarre dallo studio della natura degli dèi: sotto l'aspetto puramente retorico e argomenta­ tivo può essere costruttivo un raffronto con le movenze assunte dell'Arpinate in altri incipit di trattati filosofici e retorici, dove viene fatto altrettanto con il materiale di volta in volta presentato (cfr. Inv. 1,2; Leg 1,16; Off. 1,16; etc.). Vd. inoltre Dyck, De natura deorum, p. 101. 2

3 L'anima degli uomini proviene dalla divinità: la dottri­

na, già platonica, è riproposta da Cicerone in luoghi come Fin. 2,114 e 5,57; Leg. 1,59; Tusc. 1,56, 65 e 70; Div. 1,64; Leg. 6,26; etc. L'indagine sulla natura divina corrisponde dun­ que ad una ricerca di sé e della propria essenza, che di conseguenza conduce al raggiungimento della saggezza. Il pensiero viene espresso in maniera similare anche da un autore cristiano come l'apologeta Minucio Felice, che

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

nel suo Octavius (cap. 17,2) espone chiaramente il concet­ to, ribadendo come l'uomo riesca a riconoscere se stesso attraverso la comprensione della natura che lo circonda. Per ulteriori attestazioni del concetto, cfr. Aristot. fr. lO Rose = Sext. Emp. Adv. Phys. 1,21; Sali. Cat. 1,2; Hippol. Haer. 10,34. 4 L'autore vuole far comprendere che prima di eccedere

nell'inutilità dei riti superstiziosi è necessario conoscere prima la divinità. Si vedano, in aggiunta a quanto ap­ pena sostenuto, anche i capp. 1,45, 77, 117; 2,63 e 71. Cfr. inoltre Div. 2,149. Sul concetto di ignorantia, qui da intendersi con il greco agnoia, e quindi come punto di partenza del filosofare, si vedano in particolare Plat. Thaeth. l55d e Aristot. Me­ taph. 982b19 ss. 5

Sulla sospensione del giudizio, nozione di stampo scet­ tico, propria di pensatori quali Pirrone (cfr. Diog. Laert. 9,70) e Arcesilao (cfr. Sext. Emp. Pyrrhon. 1,232), che in­ dica l'astensione dall'affermazione o dalla negazione di qualcosa sulla cui natura non si hanno sufficienti dati per poter formulare una valutazione, si possono con­ frontare Ac. 1,45; 2,57; 2,104; Fin. 3,31. Cfr., in generale, �· Coussin, L'origine et l'évolution de l'epoché, "Revue des Etudes Grecques" 42, 1929, pp. 373-397. 6

7 Ricorre qui un'espressione chiave della trattatistica filo­

sofica latina (duce natura), che probabilmente è un calco del dativo greco physei. Sono moltissimi i casi in cui Ci­ cerone se ne serve: cfr. Fin. 1,71; Tusc. 1,30; Leg. 1,20; Off. 1,129; etc. Alcuni studiosi vedono in essa un'espressione centrale della visione monistica di certe correnti filoso­ fiche antiche, ad esempio quelle di Panezio, Antioco e

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NOTE AL LIBRO PRIMO

Posidonio. Sul punto può essere altresì illuminante la lettura di un frammento di Cleante (Stoicorum Veterum Fragmenta 1,527 Von Amim), fedelmente tradotto peral­ tro da Sen. Epist. 107,11, una lettera dedicata al motivo dell'obbedienza alla volontà universale e all'esistenza di una forza che si colloca al di fuori delle decisioni razio­ nali dell'uomo: vd. F.E. Brenk, Deum ... comitari: retorica, virtù e progresso in Seneca e Paolo, in: AA.VV., Seneca e i cri­ stiani. A cura di , pp. 87-112, specialmente pp. 107 ss., e A. Setaioli, Ancora sulla traduzione senecana dei versi di Cleante a Zeus e al Fato, "Prometheus" 28, 2003, pp. 171-178. 8 Protagora di Abdera (ca. 480-411 a.C.) fu uno dei principali

e più influenti sofisti dell'Atene del V secolo: tra tant episodi per cui viene rammentato, dalla celebre asserzione "l'uomo è misura di tutte le cose'� alla stesura della costituzione di Turii del 444 a.C., deve essere menzionata, nel nostro caso, quella relativa all'espulsione da Atene per la professione di assoluto agnosticismo nei confronti dell'esistenza della divinità; tematica di cui si doveva leggere nella sué! opera, attualmente perduta, Sugli dei (cfr. Diog. Laert. 9,51). E a essa che il nostro autore fa qui riferimento. Insieme a Diagora e Teodoro ricompare più avanti al cap. 1,63. 9 Diagora di Melo (sec. V a.C.) fu filosofo, sofista e poe­

ta, contemporaneo di Protagora e soprannominato l'Ateo per la sua radicale presa di posizione negativa nei con­ fronti delle divinità olimpiche, che gli causò la condanna di asébeia nel 415 a.C. La sua forma di ateismo dovette colpire moltissimo gli autori antichi, tanto da divenire un locus proverbialis ed un esempio negativo in moltissi­ mi autori sia pagani (cfr. Aristoph. Ran. 318-320; Av. 10711075; Ael. Var. Hist. 2,23; Sext. Emp. Pyrrhon. 3,218; Max. Tyr. 11,5; etc.) che cristiani (cfr. Tat. adv. Graec. 27,1; Clem. Alex. Protr. 2,24; Lact. De Ira 9,7; Ioh. Chrys. Horn. in l

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

Cor. 4,5; etc.). Per un profilo più approfondito su Diagora, si consulti, anche per lo statuto aggiornato della biblio­ grafia ivi raccolta, il recente volume di M. Winiarczyk, Diagoras of Melos. A Contribution to the History of Ancient Atheism, Berlin-Boston 2016, specialmente pp. 61 ss. per una disamina delle fonti storiche e per una ricostruzione coerente del suo pensiero filosofico. 1 0 Teodoro di Cirene (sec. IV-III a.C.), da non confondere

con l'omonimo e compatriota matematico, fu seguace di Aristippo, maestro di Evemero (cfr. Tusc. 1,102), e appar­ tenne alla scuola cirenaica, che abbandonò per recarsi definitivamente ad Atene: proprio come accadde a Dia­ gora, si guadagnò l'appellativo di "ateo" e venne espulso dalla città. Sul suo ateismo si leggano Sext. Emp. Adv. Phys. 1,51 e 55; Arnob. 4,29; Epiph. Haer. 3,2,9. 11 L'autore fa diretto riferimento a tutti coloro che aderi­

rono alle scuole di Democrito ed Epicuro, secondo cui le divinità, pur esistendo, non si interessano dei fatti che riguardano gli uomini (sul passo, cfr. ora anche il com­ mento ad loc. di Dyck): la discussione verrà comunque ripresa con più concretezza in seguito, ai capp. 1,115-124 nell'ambito dell'argomentazione di Cotta. 12 Il termine latino originale è pietas (che coincide con il

greco eysèbeia, per cui cfr. Ps.-Plat. Def 412c): il significato preciso lo ricaviamo direttamente dalla lettura dei capp. 1,116 e 2,153. Vd. inoltre Inv. 2,66.

1 3 In latino è sanctitas, nel senso di severa osservanza dei

riti religiosi: si veda anche più avanti ai capp. 1,116 e 2,5.

14 La religio è da intendersi come il culto pio delle divini­

tà, ben distinto dalla pericolosa e negativa superstitio: cfr.

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NOTE AL LIBRO PRIMO

il cap. 1,117 e anche Div. 2,148. Sul tema rimando anche al contributo di L Ronca, What's in Two Names: Old and New Thoughts on the History and Etimology of Religio and Superstitio, "Respublica Literarum: Studies in the Classi­ ca Tradition" 15, 1992, pp. 43-60. 1 5 Alla base del concetto qui esposto sta il principio cul­

tuale reciproco tra uomo e divinità, comune a tutte le religioni dell'antichità, del do ut des (per la bibliografia aggiornata sul tema, cfr. Tommasi, Contro i pagani, p. 518): a questo proposito si tenga a mente che poco prima del testo che stiamo analizzando ricorreva il verbo tribuere, che Pease, De natura deorum, p. 127, mette giustamente in evidenza nel suo commento, dal momento che esso ser­ ve ad enfatizzare ancora di più la già marcata relazione "contrattuale" esistente tra uomo e dio. 16 Secondo l'idea espressa da Dyck, De natura deorum, nota

ad loc., i nessi qui adoperati da Cicerone, perturbatio vitae e magna confusio, devono essere messi in relazione al fatto che con la mancanza della religio vengono meno anche le organizzazioni dei rituali religiosi che permettevano di scandire il calendario dell'anno romano. 1 7 È fides il termine adoperato dall'autore per sottolineare,

ora come poco oltre, l'importanza sociale e politica della religione, che garantisce altresì il rispetto dei patti tra gli uomini. Seguendo il modello lasciato da Platone, Cicero­ ne ne parla apertamente nelle sue Leggi (cap. 2,16): «E chi negherebbe che questi pensieri siano utili, se ci si rende conto di quanti patti sono corroborati dal giuramento, di quanto vantaggio tornino gli accordi solenni, quan­ ti siano quelli allontanati dalla colpa per il timore della punizione divina, e quanto sia santa l'associazione dei cittadini, quando tra di loro si interpongono gli stessi dèi

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

immortali, ora come giudici, ora come testimoni? Eccoti qui il preambolo della legge; così infatti lo chiama Plato­ ne». Vd. anche la nota successiva. 18 Il valore della questione affrontata è di enorme im­

portanza non soltanto dal punto di vista meramente te­ ologico, ma anche da quello politico, sociale e civile: il pensatore romano sta sostenendo, di nuovo sulla base di un'idea già appartenente alla filosofia di Platone (Leg. 10,885b), che senza la pietas nei confronti degli dèi, si per­ derebbero anche i legami su cui si fonda la res publica, vale a dire fides, societas, e iustitia. Cicerone ripropone la discussione anche in altri luoghi della sua opera: si vedano passi come Leg. 1,43 e 2,15; Fin. 3,73 e 4,11; Tusc. 1,72 e 5,70; Off. 3,28. Per ulteriori rimandi bibliografici e appronfondimenti sulla tematica, cfr. Pease, De natura deorum, p. 130 s. 1 9 Il focus è ora spostato sui filosofi stoici. 20 I due concetti appena espressi, della divina mens che re­

gola tutto il mondo e della sua attività di consultrix, pos­ sono essere messi in parallelo con ciò che si dice ai capp. 2,73 s. a proposito della providentia deorum. Vd. ancora, in aggiunta, Fin. 4,12. 21 Carneade di Cirene (214-129 a.C.), allievo dello stoico

Diogene, fu il principale rappresentante dell'Accademia scettica. Accesissimo avversario dello stoicismo e molto abile nel genere oratorio (cfr. Tusc. 5,83; De Or. 3,68; Diog. Laert. 4,62), collocava il sommo bene nella possibilità di fruire dei principi naturali (cfr. Fin. 2,35). Cicerone risentì moltissimo delle sue influenze, le cui idee dovette vero­ similmente conoscerle grazie all'opera di pubblicazione svolto da parte dell'allievo Clitomaco.

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NOTE AL LIBRO PRIMO

22 Va sottolineato a questo punto come l'autore, a parti­

re da qui, abbandoni l'argomento teologico e filosofico per lasciare lo spazio ad un ragionamento di stampo maggiormente apologetico e autocelebrativo, nel quale è evidente una certa necessità di difendere il valore dei propri scritti filosofici. Il passo, forse parte integrante del cosiddetto volumen prohoemiorum di cui si ha notizia nell'epistola ad Attico 16,6,4 (dal quale l'autore avrebbe ricavato i suoi incipit nel momento del bisogno), deve essere confrontato con quanto leggiamo in Fin. 1,1 ss.; Tusc. 1,1 ss.; Off. 2,2 ss.; anche per il costante riferimento ai vituperatores delle sue opere e del suo percorso filo­ sofico. Ulteriormente interessante è il fatto che l'autore scelga di parlarci della nascita e dello sviluppo del suo rapporto con lo studio della filosofia, da lui approfondi­ ta fin dai tempi della giovinezza (su questo vd. le note successive). 23 Nella celebre lista delle opere filosofiche da lui com­

poste, che leggiamo in Div. 2,1 ss. (e che abbiamo ripro­ posto qui in sede introduttiva), Cicerone elenca i quattro dialoghi (De republica, De oratore, Brutus, Orator) databili prima del 45 a.C., anno che corrisponde alla morte della figlia Tullia, e gli altri (Hortensius, Academica, De finibus, Tusculanae disputationes, De natura deorum, Consolatio, De senectute, De divinatione) che invece si collocano tra il feb­ braio di quello stesso anno e il marzo del 44. 24 L'accusa che leggiamo qui può essere considerata alla

stregua di un cliché diatribico, comune tanto al pensiero pagano quanto a quello cristiano: tra gli svariati esempi ricavabili dalla letteratura, cfr. ad esempio Acad. 2,16 e 2,30; Phil. Alex. De Post. Cain. 58; Sext. Emp. Pyrrhon. 1,20; Hier. Adv. Ruf. 2,10; Aug. Ac. 2,29; etc. in Pease, De natura deorum, p. 136.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

25 Il periodo di studio di Cicerone con l'epicureo Fedro

(II-I sec. a.C.) si colloca con ogni probabilità prima del 90 a.C., come si evincerebbe da Ac. 2,115. Cfr. anche Tusc. 5,113; Brut. 309; Tac. Dial. 30. Vd. anche più oltre, n. 169. 26 È nel periodo immediatamente successivo a quello se­

gnato dalla presenza di Fedro, cui si deve far risalire l'in­ contro tra Cicerone e l'accademico Filone di Larissa (II-I sec. a.C.), il caposcuola dell'Accademia, giunto a Roma nell'88, dopo gli sconvolgimenti politici che colpirono Atene, insieme ad altri concittadini di orientamento po­ litico oligarchico. L'influenza da lui esercitata sulla car­ riera filosofica e retorica dell'Arpinate, cosa ben nota a tutti, può essere ricordata attraverso le eloquenti parole di Tusc. 2,9: «A nostra memoria poi, Filone, di cui spesso ho frequentato i corsi, introdusse il sistema di insegnare retorica in alcune ore ed in altre filosofia. Io fui indotto dalle preghiere degli amici a seguir questo sistema, e ab­ biamo quindi trascorso in tal modo nella villa di Tuscolo tutto il tempo a nostra disposizione». 27 Pupillo di Filone, e suo successore nella direzione

dell'Accademia, Antioco di Ascalona (II-I a.C.), fu mae­ stro di Cicerone per sei mesi. Si legga Brut. 315: «Giunto ad Atene, ascoltai per sei mesi Antioco, il famosissimo e dottissimo filosofo dell'antica Accademia: con lui, al­ tissima guida e sommo maestro, ripresi lo studio della filosofia, che io non avevo mai abbandonato, ma avevo sempre fin da ragazzo coltivato e seguìto con grande interesse». 28 La lista dei maestri termina con il paneziano Posidonio

di Apamea (II-I a.C.), ascoltato per la prima volta da Cice­ rone nel 77 a Rodi (stando almeno all'informazione che ci

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NOTE AL LIBRO PRIMO

arriva da Plut. Cic. 4,4) e in seguito divenuto suo maestro e fidato amico: cfr. Div. 1,6; Fat. 5. Per quanto concerne la sua opera, amplissima, benché giuntaci in frammenti, si veda l'edizione italiana curata da E. Vimercati, edita per Bompiani (Milano 2004) in cui si raccolgono, con testo a fronte, tutte le testimonianze e i frammenti. 29 Asserzioni di questo tenore (del tutto simili a quelle

ricorrenti in Fin. 1,42; Ac. 2,23; etc. dove leggiamo che la sapientia è ars vivendi) sono caratteristiche del pensiero postaristotelico, quando la filosofia perse molto del suo valore speculativo, per lasciare definitivamente spazio all'importanza della sua applicabilità nell'ambito della vita pratica sia pubblica sia privata. 30 Manifesto più che mai, in questo passaggio, l'atteggia­

mento filosofico di cui si parlava già nella nota prece­ dente. Ora Cicerone si focalizza sullo stretto rapporto tra filosofia e vita pubblica, ora divenute binomio inscindi­ bile, dal momento che la prima si mette a totale disposi­ zione per l'ottimo funzionamento della seconda: su tale motivo, cfr. Div. 2,1; Leg. 1,5; Fin. 1,10; Tusc. 1,5. 31 È naturalmente iperbolica l'ultima espressione di

Cicerone (in latino ut a Graecis ne verborum quidem co­ pia vinceremur). Il latino, come ben si comprende dalla lettura del cap. 8, fu spesso bollato come insufficiente per la trattazione filosofica (di ogni tipo) proprio dagli stessi scrittori latinofoni: note di risentimento contro la lingua, rivolte non solo alla difficoltà di rendere cer­ ti concetti, ma anche alla povertà lessicale, si possono leggere sia presso autori pagani (cfr. Lucr. 1,136-139; Vitr. 5,4,1), sia presso scrittori di epoca cristiana (cfr. Aug. De civ. Dei 10,1; Hier. Epist. 106,2): vd. inoltre J. Marouzeau, Patrii Sermonis Egestas, "Egestas" 45,

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1947, pp. 22-24. Ulteriori esempi, con un focus sull'opera epistolare ciceroniana, sono raccolti da R .B. Steele, The Greek in Cicero's Epistles, "American Journal of Philolo­ gy" 21, 1990, pp. 387-410. 32 Lo scrittore fa evidente riferimento alla disgrazia fa­

miliare che lo colpì nel febbraio del 45 a.C., cioè la morte della amatissima figlia Tullia: si può leggere, in partico­ lare, Att. 13,14,3. In Fam. 4,6, invece, il dolore per il lutto si mescola alla delusione provocata dai fallimenti pub­ blici. Utile alla contestualizzazione, infine, è anche il fr. 23 Vitelli della Consolatio, tramandatoci dal Padre della Chiesa Lattanzio (Div. Inst. 1,15,20). 33 Pease, De natura deorum, p. 146, e prima di lui Mayor,

osserva che Cicerone segue la tripla suddivisione aristo­ telica della filosofia in ethikè, dialektikè e physikè: cfr. Ac. 1,19; Fin. 4,4; De Or. 1,68; etc. 34 Fittissima ed estremamente ricca è la tradizione let­

teraria di cui gode il motto pitagoreo ipse dixit (in gr. aut6s épha), per la prima volta attestato - a quanto con­ sta - proprio in Cicerone: per qualche esempio in più, si confronti con Val. Max. 8,15,1; Clem. Alex. Strom. 2,24,3; Iambl. Vit. Pyth. 82; Greg. Naz. Or. 4,102 e 27,10; Boeth. De Mus. 1,33.

35 Gli Academici libri (o semplicemente Academica) sono

un'opera filosofica in forma dialogica che godettero di una doppia redazione: la prima, comprendente soltanto due libri, il Catulo e il Lucullo, fu terminata il 13 maggio 45; la seconda, invece, in quattro libri e dedicata a Var­ rone, vide la luce nell'estate immediatamente successi­ va. Molteplici e di notevole importanza, su questo tema, gli studi di C Lévy, Cicero Academicus. Recherches sur les

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NOTE AL LIBRO PRIMO

Académiques et sur la philosophie cicéronienne, Roma 1992, pp. 129 ss., e, su un piano più tecnico, E. Malaspina, A. Borgna, D. Caso, M. Lucciano, C. Senore, I manoscritti del Lucullus di Cicerone in Vaticana: valore filologico e colloca­ zione stemmatica, "Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae" 20, 2014, pp. 589-620. 36 Tale pratica filosofica, tipica dell'Accademia - ma pro­ babilmente già presente in nuce nel pensiero degli ele­ atici e dei sofisti, come anche mette in evidenza Pease, De natura deorum, pp. 152 s. - è menzionata più volte da Cicerone nelle sue esposizioni filosofiche. Cfr. Tusc. 2,9: «Pertanto mi è sempre piaciuta la consuetudine dei Pe­ ripatetici e dell'Accademia di discutere il pro e il contro di ogni questione; e non solo perché altrimenti non si potrebbe trovare che cosa c'è di verosimile in ciascuna questione, ma anche perché ciò costituisce un ottimo esercizio per l'arte retorica»; Div. 2,150; Fat. l; Off. 2,8. 37 Per alcuni paralleli ciceroniani sull'uso da parte di So­

crate di tale metodo, cfr. Ac. 1,16; Tusc. 1,8; Div. 2,150.

38 Arcesilao di Pitane (IV-III a.C.), fondatore dell'Accade­

mia di mezzo, fu prodigo sostenitore del metodo testé menzionato: cfr. Fin. 2,2: «Arcesilao la richiamò in vigore e stabilì che quelli che volevano ascoltarlo non gli faces­ sero domande ma esponessero essi stessi la loro opinio­ ne; dopo che l'avevano fatto, egli controbatteva. Ma i suoi uditori, finché potevano, difendevano la loro opinione. Nelle altre scuole filosofiche invece chi ha posto una questione tace; e così avviene ormai anche nell'Accade­ mia)); Ac. 2,59; Min. Fel. 13,3 (che dipende dal nostro pas­ so); Lact. Inst. 3,4,11; etc. 39 Per Carneade, cfr. supra, n. 21.

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4° Cicerone rimanda ai suoi stessi Academica (su cui vd.

supra, n. 35).

41 Centrale, a questo punto, il problema delle sensa­

zioni e delle posizioni prese dalle scuole filosofiche ellenistiche in merito ad esse. Secondo gli Epicurei tut­ te le sensazioni sono vere, e lo sbaglio è dovuto alla erronea interpretazione di esse (cfr. Fin. 1,22; Ac. 2,79); gli Stoici pensano che alcune siano vere ed altre fal­ se sulla base della chiarezza con cui si presentano ai nostri occhi (cfr. Ac. 1,41; 2,18; 2,45; etc.); gli scettici in­ vece - ed è a loro cui Cicerone si mette in parallelo - sono dell'opinione che non è possibile distinguerle, e che quindi l'unica strada percorribile è quella della probabilità: il concetto è spiegato diffusamente e con precisione in Ac. 2,103. 42 La rappresentazione dell'Accademia come procax (così

nel testo latino, cioè arrogante, sfrontata) e impudens ri­ torna similmente in luoghi come Ac. 2,115; Div. 2,109; Tert. De Anim. 17,11 con ulteriori osservazioni nel com­ mento di J. Waszink, Quinti Septimi Florentis Tertulliani De Anima, Leiden-Boston 2010, pp. 249 s. 43 La citazione è ricavata dalla commedia Sinefebi di Ce­

cilia Stazio (si tratta, in particolare, del fr. 211 Ribbeck), poeta insubro, fatto prigioniero dai Romani nel 223 a.C. ed in seguito divenuto un importante comico della tra­ dizione drammatica latina. Abbiamo di lui quarantadue titoli, per un totale di circa trecento versi di frammenti. Cicerone, nonostante l'opinione contraria in merito alla sua lingua di cui si legge in Brut. 258 e Att . 7,3,10, lo con­ sidera il migliore tra tutti i poeti comici in G en. Or. 2. Ulteriori giudizi lusinghieri si leggono in suo favore in Varr. Men. 399 Astbury; Hor. Epist. 2,1,59; etc. su cui si

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NOTE AL LIBRO PRIMO

può rimandare all'analisi di W. Beare, I Romani a teatro, Roma 1986, in particolare pp. 99 ss. 44 Siamo di fronte ad un'altra citazione comica ricavata

dalla solita commedia di Cecilia Stazio. Il verso è esatta­ mente quello successivo ai due citati poco fa.

45 Cicerone fa riferimento al 53 a.C., anno in cui venne in­

cluso nel collegio degli àuguri su designazione di Pom­ peo e Ortensio: cfr. Phil. 2,4; Leg. 2,30; etc.

46 Con il grecismo exedra si indica uno spazioso am­

biente aristocratico adibito a ricevimenti ed utilizza­ to spesso per banchetti, cene e discussioni di elevato livello culturale (filosofia, politica, etc.). Si tenga pre­ sente in particolare, a questo proposito, Vitr. 5,11,2: «Si costituiscano altresì nei tre portici ampie esedre, con sedili su cui filosofi, retori e altri che si dilettano di studi possano disputare stando seduti» (trad. italiana da Vitruvio, De Architectura. A cura di P. Gros, tradu­ zione e commento di A. Corso e E. Romano, I, Torino 1997). Cicerone riutilizza questo spazio scenico anche in De orat. 3,5. 47 Nonostante le diversità di pensiero dei partecipanti

all'altercatio (così nel testo latino, cioè una controversia), Cicerone viene invitato a discutere per la sua acuta intel­ ligenza in campo filosofico.

48 Marco Pupio Pisone, figlio di Calpurnio, fu questore

di Scipione (console nell'83 a.C.), pretore, proconsole in Spagna, luogotenente di Pompeo nelle guerre contro i pirati e Mitridate, e infine console nel 61. Sotto l'aspetto filosofico, oltre a essere rinomato per una notevole abilità oratoria (cfr. Brut. 236), Cicerone ci informa che fu allievo

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del peripatetico Stasea di Neapoli, dal quale venne in­ fluenzato moltissimo. 49 La teoria di Antioco di Ascalona, basata sull'opinione

che la divergenza tra la filosofia stoica e quella peripa­ tetica si attui soltanto su un piano essenzialmente ter­ minologico traspare anche da altri passi, come Fin. 2,41: «Carneade con certa pratica di dialettica e con somma eloquenza condusse ad un punto critico, perché non ces­ sò di controbattere che in tutto questo problema, cosid­ detto del bene e del male, la divergenza fra gli Stoici e i Peripatetici non riguarda i concetti, ma la terminologia». Cfr. poi Tusc. 5,32. 50 Vd. Fin. 2,68: «Gli Stoici sono in lotta con i Peripatetici.

Gli uni sostengono che non è bene se non ciò che è one­ sto, gli altri che l'onestà ha moltissima importanza, la più grande, la massima importanza, ma che esistono purtut­ tavia certi bene anche nel corpo e all'esterno»; e poi Tusc. 5,119; Aug. De civ. Dei 9,4.

51 Termina ora l'introduzione generale dell'opera e si en­

tra nel vivo della discussione con una lunga sezione pro­ nunciata da Velleio, che appare articolata in più punti: ad una prima critica rivolta contro i filosofi platonici e stoici (capp. 1,18-24), seguono la dossografia delle dottrine an­ tiche (capp. 1,25-41), un attacco contro le false credenze popolari e letterarie (capp. 1,42-43), e infine un'esposizio­ ne della dottrina epicurea. 52 Con il termine latino intermundia (gr. metakòsmia), si indi­

cano gli spazi tra i mondi, nei quali erano situate, secondo la teologia epicurea, le sedi degli dèi; in proposito si legga­ no Diog. Laert. 19,88 s.; Lucr. 5,146 ss.; Hippol. Haer. 1,22,3. Il topos dei concilia deorum, il cui uso è frequente anche nel-

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NOTE AL LIBRO PRIMO

la satira, è attestato da Omero a Dante: vd. Pease, De natura deorum, pp. 173 s., con l'opportuno rimando a M. Ham­ mond, Concilia Deorum from Homer to Dante, "Studies in Philology" 30/1, 1933, pp. 1-16. Vd. ancora, in tempi più re­ centi, G. Manuwald, Concilia deorum: Ein epischen Motiv in der romischen Satire, in: F. Felgentreu-F. Mundt-N. Rii.chen (edd.), Per att entam Caesaris aurem: Satire - die unpolitische Gatt ung? Eine internationale Tagung an der Freien Universitii t Berlin vom7. Bis 8. Miirz 2008, Tii.bingen 2009, pp. 46-61. 53 Cfr. in particolare Plat. Tim. 28c-29a: « È nato: esso, in­

fatti, si può vedere e toccare, ha un corpo, e queste cose sono tutte sensibili, e le cose sensibili, che sono oggetto d'opinione attraverso la sensazione, è chiaro che son tut­ te sottoposte al divenire, sono generate. D'altra parte, noi diciamo che tutto ciò che è nato è necessariamente nato in quanto frutto di una certa causa. Ma questo è difficile, trovare chi sia padre e poeta di questo universo, e quando si sia trovato è impossibile esprimerlo a tutti. Intanto ciò che subito dobbiamo domandarci intorno all'universo è su quale dei due modelli sia stato realizzato da quello che è generato. Se questo mondo è bello, e l'artefice è buono, è chiaro che tenne presente il modello eterno: se no [...] ha tenuto l'occhio al generato. Certo a tutti è chiaro che l'artefice ha contemplato quello che sempre è, ché questo mondo è fra tutte le opere la più bella che è stata generata ed egli, fra le cause, è la più perfetta causa» (trad. italiana da Platone, Opere Politiche. A cura di F. Adorno, l, Torino 1953). Cicerone conosceva molto bene il Timeo, che tradus­ se e rese accessibile al mondo occidentale. Di tale versione latina non ci rimane che un ampio frammento. 54 Con il termine greco prònoia è indicata, fin dai tempi di

Erodoto (cap. 3,108), la provvidenza divina, poi imperso­ nificata, nell'immaginario filosofico stoico, da una donna

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anziana: tra i numerosi paralleli adducibili si può con­ frontare, ad esempio, con Plut. Suav. Viv. Epic. 21,110lc; Lucian. Iup. Conf. 10; Mart. Cap. 2,213. 55 Eccetto gli atomisti, la maggior parte dei pensatori an­

tichi (come si potrà evincere anche dall'esposizione dos­ sografica che seguirà a breve) aveva ben salda l'opinione di un mondo animato e cosciente. L'epicureo Velleio na­ turalmente la rifiuta. 56 Si intende i cinque poliedri regolari (tetraedro, cubo, octa­

edro, icosaedro, i quali rappresentano nell'ordine il fuoco, la terra, l'aria e l'acqua), che la geometria euclidea poneva alla base dell'universo, perché a loro volta composte dalle tre figure elementari, cioè il triangolo, il quadrato e il penta­ gono. Si confronti, a questo proposito, con Plat. Tim. 53c ss. 57 Cfr. Plat. Tim. 41a s. 58 Nell'ambito della triplice suddivisione della filosofia

operata in ambiente accademico (tò physikòn, tò loghikòn, tò ethikòn), la fisiologia rientra ovviamente nella prima categoria, che a sua volta, secondo gli Stoici e gli Epicu­ rei, contempla anche la teologia; differente l'opinione di Aristot. Metaph. 1064b2 s. che invece distingue physikè, mathematikè e theologikè. 59 Tra tutti i paralleli citati da Pease, De natura deorum,

pp. 185 s., vd. in modo particolare Plat. Tim. 41a ss., dove si dice che tutto ciò che è composto è dissolubile, per­ tanto nemmeno gli dèi, che sono stati generati, non sono immortali né incorruttibili. Il tempo, per tutti i filosofi antichi accetto Platone e i suoi seguaci, è ingenerato: cfr. Aristot. Phys. 206a9 ss.; Metaph. 1017b7 ss.; Sext. Emp. Pyrrhon. 3,141; Phil. Alex. De Aetern. Mundi 53; etc.

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NOTE AL LIBRO PRIMO

60 In Tim. 29d ss., Platone giustifica l'atto creativo soste­

nendo che il dio desiderò un cosmo simile a sé, non chia­ rendo tuttavia il motivo per cui esso non è sempre esisti­ to. Tale problematica, di natura meramente metafisica, interessò da vicino gli epicurei e gli scettici, che sovente fanno riferimento a questo aspetto quando muovono una critica contro Platone e la tradizione da esso derivante: a questo proposito appare assai calzante un confronto con i versi di Lucr. 5,168 ss. 61 Il riferimento alla sfera dell'amministrazione pubbli­

ca non è casuale ed è decisamente più lampante se si legge il testo latino: Quid autem erat quod concupisceret deus mundum signis et luminibus tamquam aedilis ornare? Cicerone sta giocando infatti con il doppio valore che signum e lumen possono assumere; vocaboli che desi­ gnano ora le stelle e le luci del cielo, ora le statue e le lampade che gli edìli dovevano procurare per le feste pubbliche. 62 I saggi e gli stolti, immagini corrispettive del bene e

del male, sono le due categorie entro le quali, secondo la visione stoica, si suddividerebbe l'umanità, che tuttavia è rappresentata per lo più da gente comune: cfr. Sen. Epist. 42,1 «Dunque costui è già riuscito a persuaderti che egli è un uomo virtuoso? Eppure nessuno può diventare né essere riconosciuto uomo virtuoso così rapidamente. Sai chi, ora, intendo per uomo virtuoso? Quello di seconda qualità. Infatti l'altro, come la fenice, forse appare una volta ogni cinquecento anni. E non dobbiamo meravi­ gliarci che esseri mediocri e destinati a far parte della folla, ma quelli di eccezionale valore li raccomanda colla stessa rarità» (trad. italiana da Seneca, Lettere a Lucilio. A cura di U. Boella, Torino 1983). Per Cicerone rimando a Div. 2,61; Tusc. 2,51; Ac. 2,145.

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63 Il riferimento è a Plat. Tim. 33b: «Ecco la ragione ed il

criterio con cui egli ha costituito in unità questo tutto totale, perfetto e immune da vecchiezza e da malattie. E gli diede uno schema conveniente ad a sé congeniale. Ora, all'essere vivente che in sé doveva raccogliere tutti i viventi, lo schema che più conveniva era quello che in sé comprendesse tutti gli schemi possibili. Ecco perché tor­ nì l'universo come una sfera, in forma circolare, ugual­ mente distante, in ogni parte, dal centro alle estremità, che è fra tutte le figure la più perfetta e la più simile a se medesima, ché Dio giudicò il simile infinitamente più bello del dissimile. E la superficie esterna tutta, per mol­ te ragioni, egli fece perfettamente liscia» (trad. italiana da Platone, Opere Politiche. A cura di F. Adorno, I, Tori­ no 1953). Quanto agli altri autori, si leggano Diog. La­ ert. 8,35; Quint. Inst. 1,10,41; Aet. Plac. 1,6,3 a proposito di certi stoici; Macr. In Somn. Scip. 1,14,9; Hier. In Ezech. 12; etc. Importante anche Parmenide, che riferisce la forma sferica alla completezza dell'Essere: cfr. fr. 8,42 ss. Diels­ Kranz. 64 Qui Velleio sta seguendo da vicino le idee di Epicuro:

cfr. più avanti al cap. 2,47 e poi Aet. Plac. 2,2,3.

65 Anassimandro sostenne la cilindricità del pianeta ter­

ra: cfr. Hippol. Haer. 1,6,3; Aet. Plac. 3,10,2.

66 Cfr. Plat. Tim. 55e. 67 Cfr. Ps.-Galen. Hist. Phil. 29,264 Kiihn. Porfirio (presso

Eus. Praep. Ev. 3,7,4 attribuisce la forma conica alla luna), mentre Cleante (SVF 1,508; 2,683) alle stelle.

68 La piramide, costruita su quattro triangoli, era consi­

derata la figura che stava alla base di tutti gli altri solidi:

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NOTE AL LIBRO PRIMO

cfr. Aristot. De Cael. 304a14 s., nonché Plut. De E apud Del­ ph. 11,390a. 69 Sono molti i passi letterari antichi in cui si rimarca l'im­

possibilità per l'uomo di poter abitare certe zone della terra a causa dei climi insopportabili (sia per il caldo sia per il freddo): cfr. Tusc. 1,45; Rep. 6,21; ma anche Anaxag. fr. 67 Diels-Kranz; Xen. Cyrop. 8,6,21; Lucr. 5,204 s.; Verg. Georg. 1,233 ss.; Hor. Carm. 1,22,17 ss.; Plin. Nat. Hist. 4,88; Tert. Ad Nat. 2,5; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 202 s. 70 Inizia qui, per concludersi al capitolo 41, una lunga se­

zione dossografica dove l'epicureo Velleio espone le te­ orie inerenti l'esistenza e la natura degli dèi da parte di ventisette filosofi greci (presocratici naturalisti, Socrate e i pensatori a lui successivi), citati secondo l'ordine cro­ nologico. La presenza di una sezione dossografica trova un riscontro oggettivo, innanzitutto, all'interno del pa­ norama dell'opera filosofica ciceroniana: si leggano Div. 1,5 s. e Acad. 2,118 (dove l'elenco inizia con Talete pro­ prio come nel nostro caso). Per quanto riguarda invece il resto della letteratura filosofica antica, si può richiama­ re a passi quali Sext. Emp. Adv. Phys. 1,49 ss.; Min. Fel. 19,4 ss.; Clem. Alex. Protr. 5,64 ss.; etc. Fortissima, come si può facilmente desumere, l'influenza esercitata dalla tradizione aristotelica (siano d'esempio i primi capitoli della Metafisica e della Fisica), e da quella teofrastea (si ri­ cordino, a questo proposito, le vmKwv L16E,cu in 18 libri, che costituiscono la prima vera dossografia sistematica dell'antichità classica). 71 Talete di Mileto (VII-VI a.C.) è regolarmente conside­

rato il primo pensatore della storia della filosofia occi­ dentale, cui si deve il primo tentativo di riconoscere il principio di tutto ciò che circonda l'uomo: si leggano, ad

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esempio, Diog. Laert. 1,22 e 27; Ps.Plut. Plac. Phil. 875d; Min. Fel. 19,4. 72 Proveniente anch'esso da Mileto, e successore di Tale­

te, suo maestro, Anassimandro (VII-VI a.C.) identificava l'arché di tutte le cose nell'apeiron, principio eterno dal quale tutto nasce e ritorna: cfr. Ac. 2,118; Hippol. Haer. 1,6,1.

73 Anassimene fu a sua volta allievo di Anassimadro, dal

quale prese l'idea di un principio infinito, applicandolo però all'aria, che mai si placa ed è in eterno movimento: cfr. Diog. Laert. 2,3; Aug. Civ. Dei 8,2.

74 Anassagora di Clazomene (V a.C.), pupillo di Anas­

simene, è considerato l'ultimo grande pensatore della scuola ionica: la sua vita fu segnata dall'amicizia con Pe­ ricle ed Euripide, e dall'obbligo di abbandonare Atene per un'accusa di ateismo. Trascorse gli ultimi anni del­ la sua vita a Lampsaco, dove morì nel 428 a.C. Secondo la sua dottrina filosofica, il mondo sarebbe regolato da un'intelligenza superiore, chiamata Nous. Si legga dun­ que Plut. Pericl. 4,4 «Ma colui che più vicino a Pericle e più gli comunicò un senso maiestatico e un atteggiamen­ to mentale più dignitoso di quello degli altri politici, e in complesso accrebbe e innalzò la dignità del suo carat­ tere, fu Anassagora di Clazomene, che i contemporanei chiamavano Noùs, sia perché ammiravano la sua grande capacità di capire la natura, che appariva eccezionale, sia perché per primo non ritenne che all'universo presiedes­ se come principio ordinatore il caso o la necessità, ma una Mente pura e semplice, che distingue, nella grande confusione di elementi che costituiscono l'universo, gli elementi simili» (trad. italiana da Plutarco, Vite. A cura di D. Magnino, II, Torino 1992).

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NOTE AL LIBRO PRIMO

75 A giudicare dalle poche fonti che ci sono pervenute,

Alcrneone di Crotone (VI-V a.C.) fu contemporaneo e al­ lievo di Pitagora: la tradizione lo ricorda soprattutto in riferimento ai suoi interessi filosofici di natura pretta­ rnente fisiologica (per un ottimo bilancio delle fonti, con rivalutazione della bibliografia precedente, cfr. L. Perilli, Alcmeone di Crotone tra filosofia e scienza. Per una nuova edi­ zione delle fonti, 'Quaderni Urbinati di Cultura Classica' 69, 2001, pp. 55-79). 76 Pitagora di Sarno (VI-V a.C.), fu matematico, scienziato,

maestro e fondatore della celebre setta filosofico-religiosa dei pitagorici; spinosa la questione relativa alle opere da lui composte: non sappiamo infatti se le teorie da lui ela­ borate fossero state esposte in uno scritto Sugli Dèi (Iarnbl. Vit. Pyth. 90), in un Trattato Fisico (Diog. Laert. 8,6), o se le avesse presentate per via orale. In merito al suo pensiero, qui probabilmente contaminato da rielaborazioni stoiche posteriori, Velleio pone l'accento sulla dottrina del nous di­ vino universale, compenetrato in tutta la natura. 77 Senofane di Colofone (VI-V a.C.), dopo essere stato

espulso dalla città nativa, si rifugiò a Zancle, a Catana e a Elea, dove fondò l'omonima scuola eleatica. La sua dottrina ruota si fonda su un attacco al sistema politeista e antropomorfico degli dèi ornerici, cui si opporrebbe un solo essere divino che viene identificata con l'universo sferico: cfr. Ac. 2,118; Plat. Soph. 242d. 78 Parrnenide di Elea (VI-V a.C.) fu pupillo o collega di

Senofane, nonché anziano contemporaneo di Socrate, in­ sieme al quale compare nel Parmenide di Platone; è inoltre autore di un poema didascalico molto famoso, intitolato Sulla Natura, del quale ci rimangono diversi frammenti (cfr. fr. 1-19 Diels-Kranz).

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79 Il riferimento è ad Alcmeone: cfr. supra alla n. 75. 80 Empedocle di Agrigento (V a.C.), importantissimo ed

influente physicus, fu, secondo la tradizione, allievo di Pitagora e autore di un poema esametrico Sulla Natura di cui ci rimangono attualmente poco più di 150 versi. Secondo la sua dottrina filosofica, tutto nasce dai quattro elementi naturali (o radici, per adoperare il suo lessico), terra, acqua, aria e fuoco: cfr. fr. 6 Diels-Kranz; Lact. Inst. Div. 2,12,4. 81 Su Protagora, cfr. quanto detto supra alla n. 8. 82 Democrito di Abdera (V-IV a.C.), allievo di Leucippo,

tralasciato da Cicerone, fu il principale rappresentante dell'atomismo antico. Sulla sua dottrina si possono legge­ re (oltre a Philod. De Piet. 69 Gomperz che probabilmente è la fonte del nostro passo) Min. Fel. 19,8 e Sext. Emp. Adv. Phys. 1,19 «Democrito afferma che certe "immagini" si accostano agli uomini e che alcune di esse sono bene­ fiche ed altre malefiche (perciò egli pregava di ottenere immagini propizie), e che esse sono straordinariamente grandi e si possono difficilmente corrompere, ma incor­ ruttibili non sono, e segnalano in anticipo il futuro agli uomini, non appena vengono contemplate ed emettono voci. Ragion per cui gli antichi, poiché recepivano una rappresentazione di queste stesse immagini, supposero l'esistenza di Dio, mentre in realtà, oltre siffatte cose, non ne esiste alcun'altra che sia dio e che abbia una natura incorruttibile» (trad. italiana da Sesto Empirico, Contro i fisici. Contro i moralisti. Introduzione di G. Indelli, tradu­ zione e note di A. Russo, Roma-Bari 1990). 83 L'opinione più comune tende a considerare Diogene

di Apollonia (V a.C.) contemporaneo di Anassagora, del

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NOTE Al LIBRO PRIMO

quale avrebbe anche conosciuto le opere. La sua dottri­ na, che dovette essere verosimilmente esposta all'interno di un Sulla Natura adesso perduto, sembra aver risentito di un forte influsso delle teorie di Anassimene, del quale fu effettivo seguace: si confronti ancora con passi come Min. Fel. 19,5; e, più nello specifico, con il fr. 5 Diels che ci viene tramandato dal neoplatonico Simplicio, che nel secolo VI d.C. leggeva ancora la sua opera. Per un ap­ profondimento sulla figura di Diogene, la monografia fondamentale è A. Laks, Diogène d'Apollonie. La dernière cosmologie présocratique, Lille 1983. 84 Si confronti soprattutto con Plat. Tim. 28c, che abbiamo

già citato supra.

85 Il passo normalmente identificato dalla critica è Plat.

Leg. 821a, che tuttavia pone qualche problema dal mo­ mento che l'autore, di opinioni ben differenti, starebbe riferendosi piuttosto all'opinione comune del popolo, come del resto traspare dall'uso del verbo «diciamo»: è possibile che in questo caso Cicerone si sia confuso o, a nostro parere meno verosimilmente, che si sia riferito alle Leggi in tutta la sua totalità. 86 Il termine greco ricorrente (utilizzato in riferimento

alla divinità da Ps.-Aristot. De Zen. 979a4-9; lulian. Epist. ad Sacerd. 293b), è reso in latino con la perifrasi sine corpo­ re, dal momento che gli aggettivi incorporalis e incorporeus iniziano a comparire soltanto a partire dall'età imperiale (cfr. Sen. Brev. Vit. 8,1 e Aul. Gell. 5,15,1). Platone non uti­ lizza mai, nel suo Timeo, il vocabolo, anche se i dossogra­ fi posteriori glielo attribuiscono (vd. ad esempio Diog. Laert. 3,77). 87 Cfr. Plat. Tim. 34b; 40a; 40d; 41a; 92c.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

88 Cfr. Plat. Leg. 821b; 821c; 886d.

89 Celebre autore ateniese di svariate opere storiche, quali l'Anabasi, le Elleniche, la Costituzione degli Spartani, Seno­ fonte (V-IV a.C.) ci ha lasciato anche diverse opere filoso­ fiche, profondamente segnate dalla costante presenza di Socrate: tra di esse i Memorabili sono certamente lo scrit­ to più famoso, anche per ricchezza di dati ivi contenu­ ti per la ricostruzione della filosofia socratica. Cicerone, che senz'altro conobbe tale opera (cfr. anche Senofonte, Tutti gli scritti socratici. Saggio introduttivo di G. Reale. Introduzione ai testi, traduzione, note e apparati di L. De Martinis, Milano 2013, pp. 196 s.), sembra attribuire a Velleio, non senza pochi radicali cambiamenti, quan­ to leggiamo in Mem. 4,3,13 s., dove Socrate sostiene che l'uomo non deve ricercare la natura divina, poiché l'esi­ stenza di dio si può desumere dalla presenza delle sue opere nel mondo. 90 A proposito di Antistene di Atene (V-IV a.C.), seguace

di Socrate nonché fondatore della scuola cinica, leggasi il resoconto biografico offertoci da Diog. Laert. 6,1-19. Sulla sua dottrina teologica, cfr. anche Min. Fel. 19,7.

91 Speusippo di Atene (IV a.C.) era figlio di Potone, so­

rella di Platone, del quale fu allievo e successore nella direzione dell'Accademia a partire dalla 108a Olimpiade (348-344 a.C.). Per la dottrina, cfr. ancora Min. Fel. 19,7.

92 Di questa opera aristotelica, composta in forma dia­

logica, non ci rimangono che 26 frammenti (per il testo, cfr. l'edizione di Rose, nn. 1-26): essa deve verosimil­ mente collocarsi nel periodo di transizione tra le ope­ re ancora legate alla filosofia platonica e gli scritti della maturità.

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NOTE AL LIBRO PRIMO

93 Qui Cicerone sembra tradurre, attraverso l'uso di repli­

catio, il termine greco aneìlixis, adoperato nel medesimo senso da Plat. Polit. 270d e 286b. Cfr., però, anche Aristot. Metaph. 1074a2. 94 Senocrate di Calcedonia (IV a.C.), pupillo di Platone,

diresse l'Accademia dopo Speusippo: a questo proposito si legga Ac. 1,17. Sulla teoria qui presentata, invece, a pro­ posito dell'esistenza di otto entità divine che governano il mondo, cfr. Xenocr. fr. 213 Isnardi-Parente. 95 Anche Eraclide Pontico (IV a.C.) è da ricondurre alla

cerchia di Platone, in quanto svolse anche l'attività di di­ rettore dell'Accademia dopo Senocrate. Fu autore di alcu­ ne opere di fisica, di uno scritto Sulla Natura e di uno Sul­ le Cose del Cielo, pervenutici in frammenti. In relazione a quanto leggiamo qui, cfr. Ps.-Plut. Plac. Phil. 888d. 96 Teofrasto di'Ereso (IV-III a.C.) fu pupillo di Aristotele e

suo successore. Le opere da lui composte sono numero­ sissime e mostrano la sua notevole versatilità intellettua­ le: tra di esse devono essere annoverati lo scritto Sugli Dèi in tre libri, diverse opere sulla natura, sul cielo, e infine alcuni scritti perduti nei quali avrebbe trattato di critica letteraria e retorica. 97 Stratone di Lampsaco (IV-III a.C.), successore di Teofra­

sto nella direzione del Liceo per circa dieci anni, aveva interessi volti per lo più a problematiche di natura fisica e naturalistica. Da qui il soprannome physicus di cui leg­ giamo anche nel nostro testo: cfr. Ac. 1,34 e 2,121. 98 Zenone di Cizio (IV-III a.C.) fu il fondatore della scuola

stoica, così appellata per il porticato (in gr. stati) dove te­ neva le sue lezioni.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

99 Esiodo di Ascra (VIII-VII a.C.), primo poeta della lette­

ratura greca con una vera identità, è autore di un poema didascalico di oltre 800 esametri intitolato Opere e Giorni e di una Teogonia, sulla quale Zenone avrebbe composto un commento. La notizia, tuttavia, non è accertata, ben­ ché negli apparati scoliografici giuntici per tradizione medievale vi sia effettivamente un'impronta abbastanza stoicheggiante. Nel suo commento ad locum, Pease nota che la spiegazione zenoniana della Teogonia avrebbe cer­ cato di trovare un punto di conciliazione tra la cruda mi­ tologia esiodea e la concezione filosofica del suo tempo. 1 00 Su Aristone di Chio (IV-III a.C.) le informazioni bio­

grafiche sono molto scarse: esse si limitano alla cartella ad esso dedicata da Diog. Laert. 7,160 ss. Fu discepolo di Zenone e dunque aderente allo stoicismo, dal quale ben presto si distaccò per avvicinarsi al cinismo. 1 01 Cleante di Asso (IV-III a.C.) fu allievo e successore di

Zenone, nonché maestro di Crisippo: scrisse svariate opere tra cui una Sugli Dèi. 1 02 Un'opera Contro il Piacere è attestata per Cleante da

Diog. Laert. 7,87 e Clem. Alex. Strom. 2,22,131.

1 03 Perseo di Cizio (vissuto nel III a.C.), fu allievo di Ze­

none, insegnò ad Atene e visse presso la corte di Antigo­ no Gonata a Pella. La sua teologia, esposta nello scritto perduto Sugli Dèi, fu fortemente influenzata da quella di Prodico (a sua volta debitore di Evemero), secondo cui la religione si sviluppò prima nella deificazione di oggetti benefici e successivamente in quella dei loro inventori. 1 04 Crisippo di Soli (III a.C.) fu successore di Cleante nella

direzione della scuola stoica, della quale divenne gran-

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NOTE AL LIBRO PRIMO

dissimo rappresentante. Non è un puro caso, a questo proposito, che un proverbio recitasse proprio così: «Se non c'era Crisippo, non ci sarebbe stata nemmeno la Stoa» (cfr. Diog. Laert. 7,183). Tra i suoi scritti, che nel ca­ talogo di Diogene Laerzio ammontano a ben 377 libri, è contemplato anche un Sugli Dèi in due libri, di cui Velleio fa qui un sunto generale. 105 Nella letteratura classica non mancano dei casi in cui

il nome di Giove viene adoperato per indicare l'aria: cfr., Enn. Epicharm. 54 s. Vahlen; Procl. In Tim. 2,48 Diehl, dove Zeus è detto appunto aér ouranios. Pease ritiene che Cri­ sippo avesse trattato questo punto nel primo libro del suo Sugli Dèi (come sostiene Cicerone) o nello scritto Su Zeus. 106 Il motivo è ripreso anche ai capp. 2,71 e 3,64; tuttavia si

confronti anche con Plut. De Is. et Os. 367b, dove l'autore mette in evidenza che proprio secondo le dottrine teolo­ giche stoiche Poseidone è lo spirito che pervade il mare. 107 Cfr. più oltre al cap. 2,67 dove del nome greco Demèter

si ricostruisce un'etimologia a partire dal nesso ghè mèter, cioè madre terra.

108 La medesima lista di poeti (due figure leggendarie e i

primi due poeti della letteratura greca) compare in Tusc. 1,98 ma secondo l'ordine Orfeo, Museo, Omero, Esiodo. Platone in Apol. 41a6 s. li elenca invece in questo modo: Orfeo, Museo, Esiodo e Omero.

109 Diogene di Babilonia (III a.C.), allievo di Crisippo, fu

un influente scolarca e uno dei rappresentanti principali dell'ambasceria di filosofi recatasi a Roma nel 155 a.C. In merito all'opera Su Atene attribuitagli da Velleio, cfr. Philod. De Piet. 82 s. Gomperz e Min. Fel. 19,12.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

110 Non è l'unica occasione in cui un filosofo si pone in

contrasto con i poeti e con i loro racconti in merito alla natura divina e al genere di vita condotto dagli dèi: si veda anche più avanti al cap. 2,70 dove a parlare sarà lo stoico Balbo. Pease (cui si rimanda ad loc. per la quantità di passi paralleli citati) ritiene che la critica epicurea qui presente, poggi su due principi ben chiari: l'antropomor­ fismo divino da una parte e dall'altra il politeismo, che, rispettivamente, provocherebbero negli dèi le passioni della vita terrena e le rivalità tra gli uomini. 111 Il riferimento è alla casta dei maghi persiani: cfr. Div.

1,46 s. e 90 s.; Leg. 2,26; Strab. 15,3,13 (questo in particolare per la teologia: essi veneravano il sole, chiamato Mitra, la luna, Venere, il fuoco, la terra, i venti, l'acqua); Sidon. Ap. Carm. 2,83 s. 112 Un simile attacco verso la teriolatria (la venerazione de­

gli animali), tipica della religione egiziana, si può legge­ re anche in Tusc. 5,78 e Rep. 3,14. Tale pratica religiosa, in Grecia nota già ad Erodoto (cfr. per esempio 2,65), subisce il rimprovero di moltissimi scrittori, non soltanto pagani (cfr. Plat. Gorg. 482b; Virg. Aen. 8,698; Iuv. 15,1-8), ma anche giudaici e cristani (cfr. Sap. 15,18; Phil. Alex. De Vit. Moys. 23; Tert. Apol. 24; Arnob. 3,15; Greg. Naz. Or. 34,5 e Carm. 11,1,11 vv. 839 s.; Ioh. Chrys. Hom. 3 in Rom. 3). 11 3 Con questo termine greco si designa un'immagine derivante dalla sensazione: si legga la definizione offer­ ta da Clem. Alex. Strom. 2,4,16: «Persino Epicuro, colui che più d'ogni altro sopravvalutò il piacere rispetto alla verità, ritiene la fede una "prolessi" del pensiero; e la "prolessi" a sua volta la definisce un fermare l'atten­ zione a qualcosa di evidente e alla nozione evidente dell'oggetto: nessuno può né indagare, né dubitare, né

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NOTE AL LIBRO PRIMO

tanto meno concepire un'opinione e neppure confutare senza la "prolessi"» (trad. italiana da Clemente Alessan­ drino, Gli Stromati. Note di Vera Filosofia. Introduzione di M. Rizzi, traduzione e note di G. Pini, Milano 2006). Per un inquadramento generale, vd. invece, da ultimo, lo studio di H. Dyson, Prolepsis and Ennoia in the Early Stoa, Berlin-New York 2009, con ampia bibliografia preceden­ te sulla questione. 114 L'opera risulta attestata da Diog. Laert. 10,27. Per i

frammenti, vd. H. Usener, Epicurea, Lipsiae 1887, pp. 104 ss. ed Epicuro, Opere. Introduzione, testo critico, tradu­ zione e note di G. Arrighetti, Torino 1960, pp. 169 ss. 115 Secondo la ricostruzione di Pease, l'espressione lati­ na qui presente, insitas eorum vel potius innatas cognitiones habemus, si riferirebbe al tipo di cognitio impiantata nella mente umana dalla natura, dunque sine doctrina, subito dopo la nascita. 11 6 Si tratta di una celebre sententia epicurea, che ritrovia­

mo, tra i tanti altri testimoni, anche in Diog. Laert. 10,139. Cfr. ancora H. Usener, Epicurea, cit. supra, p. 394.

11 7 Il riconoscimento della perfezione divina porta l'uomo

al rispetto e al culto degli dèi stessi: cfr. anche Plat. Rep. 500c; Philod. De Diis 3 fr. 86a; Sen. De Ben. 4,19,4.

11 8 A questo punto Velleio argomenta a proposito della

forma degli dèi (capp. 46-50: secondo la sua opinione è di natura antropomorfica perché partecipe della bellezza e della virtù), e del genere di vita da loro condotto (capp. 51-56: esso viene descritto come eterno e felice; pertan­ to gli uomini non dovranno nutrire alcun sentimento di paura nei loro confronti).

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

11 9 L'antropomorfismo degli dèi è una caratteristica del­

la religione greca nota a tutti: presente già nella cultura minoica, così come nella prima poesia epica di Omero e di Esiodo (dove degli dèi si tenta di fissare le genealogie e di descrivere i loro caratteri) trova il terreno più fertile nell'ambito delle arti figurative, specialmente in quello della scultura. Furono molti i pensatori antichi che cerca­ rono di contrastare questo tratto della religione: si ricor­ dino in particolare Senofane, Empedocle, Aristotele, gli Stoici, ma non Epicuro che piuttosto fu sostenitore della tesi contraria (le testimonianze in H. Usener, Epicurea, Lipsiae 1887, pp. 238 ss.). Secondo la sua dottrina la no­ zione della forma degli dèi ci deriva direttamente dalla mediazione dei sogni e dalla ratio, che ci permetterebbe di dedurre logicamente tale conclusione: cfr. rispettiva­ mente Sext. Emp. Adv. Phys. 1,25 e Philod. De Sign. 22. 120 La fonte della dottrina qui esposta è da ricondurre a

Philod. De Diis 3 fr. 6 ss., che la attribuisce per ben due volte ad Epicuro. Su questo passo, si veda da ultimo K. Sanders, Cicero De natura deorum 1.48-9: quasi corpus ?, "Mnemosyne" 57/2, 2004, pp. 215-218. 121 È possibile che alle spalle del nesso latino soliditate

quadam vi sia il vocabolo greco pyknòtes, presente in Phi­ lod. De Diis 3, col. 11,19. 122 L'espressione latina ad numerum è una chiara trasposi­

zione del greco kat'arithmòn, che leggiamo, tra i tanti, in un interessante scolio a Diog. Laer. 10,139 che condivide con il passo ciceroniano di cui ci stiamo occupando mol­ te somiglianze concettuali. 123 Con il plurale neutro sterèmnia si suole indicare gli og­

getti solidi dai quali sono tratte le immagini (in gr. eìd-

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NOTE AL LIBRO PRIMO

ola): cfr. Diog. Laert. 10,46 e 48; Philod. De Diis 3, col. 11,8 ss.; Dyck, De natura deorum, pp. 126 s. 124 Nel testo latino similitudo e transitio sembrano tradurre

i termini omoi6tes (o analoghìa) e ypèrbasis (o metàbasis) che troviamo in greco. Una discussione con bibliografia ag­ giornata in Dyck, De natura deorum, pp. 127 s. 125 Questo termine (il cui significato originario, mutua­ to dal lessico storico-politico indica la legge degli uguali e l'abolizione della tirannide, cfr. Herodot. 3,142) non è presente, a differenza di quanto sostiene Cicerone, nelle opere di Epicuro. Si legga però Lucr. 2,569 ss. e 1077 ss., dove dell'isonomia si dà una spiegazione come distribu­ zione delle cose e dei viventi: è a partire da qui, dunque, che si può sostenere l'esistenza degli esseri immortali e osservare il bilanciamento delle forze distruttive e con­ servative contenute nel mondo. Sul tema vd. altresì M. Isnardi Parente, La "isonomia" epicurea, "Studi Classici e Orientali" 26, 1977, pp. 287-298. 126 L'immagine ricorda da vicino la descrizione delle offi­

cine di Vulcano riportata da Verg. Aen. 8,419 ss.

127 Per una definizione è opportuno leggere Div. 1,125 ss.;

Ac. 1,29; Tusc. 5,70; Aul. Gell. 7,2,1; Ps. Apul. Asclep. 19 e 40. Secondo gli antichi, il vocabolo era etimologicamen­ te legato a eiromai/ero (il corrispettivo in lat. è for, da cui fatum), a eirm6s (cioè "serie" o "sequenza"), o a meiromai (cioè "prendere la propria parte"). Per ulteriori informa­ zioni, vd. Pease, De natura deorum, pp. 338 ss. 128 La pratica divinatoria non veniva accettata da Epicuro

perché presupponeva una forma di predestinazione: cfr. Div. 1,5; Ps. Galen. Hist. Phil. 105 Kiihn.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

1 29 Si tratta dello stesso Lucio Licinio Crasso, celebre ora­

tore romano nato nel 140 a.C., che ritroviamo anche nel De oratore. Per un inquadramento storico-culturale del personaggio, vd. A. Cavarzere, Oratoria a Roma. Storia di un genere pragmatico, Roma 2000, pp. 101 ss. 130 Dopo la morte del succitato Crasso nel 91 a.C., Cotta fu

condannato e si ritirò in esilio in Grecia, dalla quale rien­ trò dopo la vittoria di Silla nell'82. Di tutto questo danno testimonianza alcuni passi ciceroniani: De Or. 3,11; Brut. 303 e 311. 131 Il termine "corifeo" indica il membro principale di un

coro drammatico. Qui è utilizzato ovviamente in acce­ zione metaforica, secondo una modalità pressoché tradi­ zionale di rappresentare le scuole filosofiche come veri e propri cori teatrali: cfr., ad esempio, a proposito di Epicuro e della sua cerchia, Fin. 1,26; Dion. Hai. De Comp. Verb. 24. 132 Simonide di Ceo (VI-V a.C.) fu poeta professionista iti­ nerante, autore di svariati epinici. Delle mete da lui rag­ giunte si rammentano quella presso gli Scopadi a Cran­ none in Tessaglia, e, appunto, quella a Siracusa alla corte di Ierone nel 476 a.C. L'episodio è rimembrato ancora da Xen. Hiero (tutto); Aristot. Rhet. 1391a8 ss.; Min. Fel. 13,4; Tert. Ad Nat. 2,2; etc. 133 Il detto è riportato anche da Diog. Laert. 9,51. Quanto in­

vece all'aneddoto poco successivo sulla morte e la pubblica combustione dei libri, cfr. sempre Diog. Laert. 9,52; e poi Val. Max. 1,1, ext. 7; Lact. De Ira 9,1 s.; Hier. Chron. ann. 1578.

1 34 Questa citazione è tratta da Lucillio 1312 s. Marx. Li­ mitatamente ai personaggi citati, si tratta di Lucio Osti­ Ho Tubulo pretore nel 142 a.C.; di Cornelio Lentulo Lupo

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NOTE Al liBRO PRIMO

console nel 156, censore nel 147 e princeps senatus nel 131; e del Gaio Papirio Carbone coinvolto nell'omicidio di Scipione l'Emiliano, nonché difensore di Lucio Opimio, uccisore di Gracco. L'espressione latina Neptuni filius do­ veva essere invece una espressione proverbiale per indi­ care qualcuno di brutale crudeltà, forse riferita da Luci­ Ho alla persona citata nel verso successivo: per un'analisi sulla questione, cfr. A. S. Pease, The Son of Neptune, "Har­ vard Studies in Classica! Philology" 54, 1943, pp. 69-82. 135 Cotta porta avanti una confutazione di tesi epicuree

che non trova una coerente corrispondenza con quanto precedentemente sostenuto da Velleio: ciò sembra essere un indizio a favore del fatto che Cicerone si fosse basato su una fonte differente a quella utilizzata per i capp. 1,43-56. 136 Leucippo di Elea, Abdera o Mileto (V a.C.) fu allievo

di Zenone e ideatore della teoria atomistica: si leggano Diog. Laert. 9,30; Ps. Galen. Hist. Phil. 3 Kiihn; Lact. Div. Inst. 3,17,23. 137 Rendo così l'espressione latina in dumeta corripere, che

letteralmente significa "introdursi nei cespugli". Tale im­ magine, elettivamente adoperata in discussioni di gene­ re filosofico diatribico, è d'ampio utilizzo sia nella lette­ ratura latina (cfr. ad esempio Sen. Epist. 82,22; Hier. Epist. 133,5; Adv. Ruf 1,16; Aug. Serm. 352,3) sia in quella greca (cfr. ad esempio Plat. Sophist. 326d; Lucian. Dial. Mort. 10,9; Greg. Thaum. 14; Anth. Pal. 11,322,3). Per ulteriori ricorrenze, si consulti il commento ad loc. di Pease, De natura deorum, pp. 368 s. 138 Si tratta della teoria della inclinatio o clinamen (in gr.

parénklisis) degli atomi: cfr. specialmente Lucr. 2,216 ss.; e poi ancora Cicerone in Fat. 22 s.; Fin. 1,18 s.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

139 Non fa diretto riferimento a una scuola filosofica ben

precisa, ma a un modo di filosofare che è comune a più pensatori: ad esempio Platone, Eraclide di Bargilia in Ca­ ria, gli Stoici e gli Accademici. Sul disprezzo provato da Epicuro nei confronti di atteggiamenti del genere, cfr. ad esempio Ac. 2,97; Fin. 1,22 e 63. 140 Il testo della maggior parte dei manoscritti presenta

la lezione nisi callide, accettata da C.G. Schi.itz, Opuscula Philologica et Philosophica, Halae 1830, p. 233, ma non dal resto degli editori che hanno preferito emendare il testo nei modi che seguono: Plasberg legge nisi valde ; Allen nimis callide; Davies nisi calide. Al contrario il Pease, seguendo Ax, pone la crux (vd. la sua nota ad loc., pp. 377 s. per ulteriori approfondimenti sulla questione, peraltro di ardua risoluzione). Per il concetto espresso in questa breve sezione, relativo al timore di Epicuro di ammettere l'esistenza del Jatum, cfr. Fat. 18 ss.; Diog. La­ ert. 10,127. 141 Nel testo latino è presente il termine concretio (in gr.

symploké), che probabilmente rinvia all'atto di congrega­ zione degli atomi al fine di formare i corpi. Il moto oppo­ sto, cioè la disgregazione di essi, è detto invece dissipatio. 142 Come fecero Pitagora, Eraclito, Socrate, Demade e altri

ancora, allo stesso modo Epicuro, sottolineando spesso la sterilità del modello educativo dei suoi tempi, sostene­ va di essere autodidatta: cfr. Diog. Laert. 10,2 s. Il motivo si prestava bene ad essere parodiato: cfr. Plut. Suav. Viv. Epic. llOOa; Lact. Inst. 3,17,3. 143 Su Panfilo, retore collega di Callippo, si sa molto poco:

oltre al nostro passo, cfr. Aristot. Ret. 1400a4; De Or. 3,81; Quint. 3,6,34.

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NOTE AL LIBRO PRIMO

144 Su Nausifane di Teo (IV-III a.C.), allievo di Pirrone e

maestro di Epicuro, si confronti anche quanto detto più avanti nella nota relativa a Metrodoro (n. 162). 145 La Venere di Cos, detta Anadiomene (etimologia dal

verbo gr. anaduomai, cioè "emergere" dal mare), era un dipinto, oggi perduto, 9-i Apelle, artista contemporaneo di Alessandro Magno. E probabile che Cicerone l'avesse visto di persona nella strada di ritorno a Roma dalla Ci­ licia nel 50 a.C. Per alcuni riferimenti letterari, cfr. Strab. 14,2,19; Plin. Nat. Hist. 35,91 s.; e alcuni carmi dell:4.ntholo­ gia Planudea (cioè i nn. 178-182 del libro 16 dell:4.nthologia Palatina). 146 L'aggettivo adoperato, adumbratus, appartiene al les­

sico specialistico delle arti figurative e indica in prima istanza la tecnica artistica della skiagraphia (cioè l'effetto di chiaroscuro introdotto da Apollodoro: cfr. Plut. De Glor. Athen. 346a1 ss.). Nella prosa filosofica il termine assume, per traslato, il significato metaforico di "abboz­ zato", ed è adoperato spesso in riferimento a concetti non completi, vagamente delineati: cfr. ad esempio Tusc. 3,3; Leg. 1,59; Lucr. 4,362 s. 147 Il riferimento è al mito del ratto di Europa da parte di

Zeus sotto forma di toro. L'episodio godette di molta for­ tuna non soltanto in poesia, ma anche presso moltissimi artisti, sia pittori sia scultori: ce ne danno notizia il Padre della Chiesa orientale Teodoreto di Cirro in Graec. Aff. 3,80; e già prima Tat. Ad Graec. 33 e Lucian. De Syria Dea 4. Vd. ancora Pease, De natura deorum, pp. 400 s. 148 Tritone, dio marino considerato di norma figlio di Po­

seidone, veniva rappresentato come un essere formato da metà corpo di uomo (parte superiore) e da metà di

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

pesce (parte inferiore). Di una sua rappresentazione arti­ stica ci parla il geografo Pausania (9,21,1). 149 È probabile che Cicerone faccia riferimento al poeta Alceo di Mitilene (VII-VI a.C.), rappresentante principale insieme con Saffo della lirica eolica, e al giovane Lico, che anche Orazio mette in collegamento appunto con il lirico (cfr. Hor. Carm. 1,32). Non va escluso, tuttavia, an­ che se è meno probabile, che Cicerone potesse riferirsi all'omonimo filosofo epicureo, bandito da Roma durante il consolato di L. Postumio (nel 173 o nel 155 a.C.) a causa della sua influenza negativa esercitata sui giovani. 150 Il politico e scrittore Quinto Lutazio Catulo, suocero

di Ortensio (nonché padre dell'omonimo che combattè contro Lepido nel 78 a.C. e che fu candidato a pontifex maximus nel 64), fu console nel 102 e prese parte nella spedizione mariana contro Cimbri e Teutoni. 151 Quinto Roscio Gallo, nato intorno al 130 a.C., fu difeso

da Cicerone nel 67/66 nell'orazione Pro Roscio Comoedo.

152 Cfr. Lut. Cat. fr. 2 Bli:insdorf, su cui si leggano anche

le riflessioni di A. Canobbio, Superare divos: evoluzion e di un topos, "Prometheus" 30, 2004, pp. 67-90, specialmente pp. 79 ss. A proposito dell'adorazione dell'Aurora (in lat. Auroram [ ... ] salutans, all'inizio della citazione poetica), ri­ mando a Aristoph. Plut. 771; Plat. Symp. 220d; Leg. 887d s.; Lucian. De Salt. 17; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 407 ss. 153 Sulla teriolatria egiziana in generale si è già detto

supra, n. 112. Limitatamente al coccodrillo, si veda He­ rodot. 2,69: «Per alcuni degli Egiziani i coccodrilli sono sacri, per altri no, e li trattano anzi come nemici. Quelli

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che vivono intorno a Tebe e al lago di Meri li considerano assolutamente sacri. In ognuna di queste due regioni al­ levano un coccodrillo scelto fra tutti, ammaestrato e ad­ domesticato; gli mettono alle orecchie pendenti di smalto e d'oro, e intorno alle zampe anteriori dei braccialetti; gli danno da mangiare i cibi prescritti e le vittime dei sacri­ fici e, finché è in vita, lo trattano nel migliore dei modi; quando poi muore lo seppelliscono, dopo averlo imbal­ samato, in urne sacre» (trad. italiana da Erodoto, Storie, L A cura di A. Colonna e F. Bevilacqua, Torino 1996). 1 54 Per l'ibis cfr. Herodot. 2,65: «Ma chi uccide un ibis o

urto sparviero, sia volontariamente che involontariamen­ te, deve morire comunque» (la traduzione è ricavata dal volume citato nella nota precedente), cui si aggiunga an­ che Plat. Phaedr. 274c. Quanto invece alla venerazione del gatto, si tratta di un culto antichissimo, che vede i suoi primi sviluppi già a partire dall'anno 2000 a.C.: per al­ cune testimonianze greco-romane, cfr. Diod. Sic. 1,83,3; Plut. De Is. et Os. 376e s.; Tert. Ad Nat. 2,8; etc. Un ricco catalogo di passi è in Pease, De natura deorum, pp. 415 ss., ma vd. anche J.F. Quack, Tier des Sonnengottes und Schlan­ genbekéimpfer, in: AA.VV., Eine seltsame Geféihrtin. Katzen, Religion, Theologie und Theologen. Herausgegeben von R. Kampling, Frankfurt am Main 2007, pp. 11-40. 155 È sempre Erodoto, questa volta a 2,28, a fornirci una

chiara descrizione del bue sacro Api: «Api o Efalo è un vitello nato da una vacca che non è più in grado, in se­ guito, di concepire nel suo ventre altra prole; gli Egiziani sostengono che un lampo di luce discende dal cielo su questa vacca che, fecondata dal lampo, mette al mondo Api. Il vitello chiamato Api presenta i seguenti contras­ segni: è tutto nero con una macchia bianca di forma qua­ drangolare sulla fronte e un'altra macchia, che ricorda

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un'aquila, sul dorso; i peli della coda sono doppi e sopra la lingua ha l'immagine di uno scarabeo», vd. supra, n. 153 per il riferimento bibliografico della traduzione, e ancora Pease, De natura deorum, pp. 417 s. per altri paral­ leli. Altresì utile può essere un rimando a R.L. Vos, The Apis Embalming Ritual, Leuven 1992 (edizione introdotta e riccamente commentata del P.Vindob. 3873, importan­ tissimo papiro ad argomento liturgico, che descrive la cerimonia di imbalsamazione del toro) 1 56 Il tempio più antico di Giunone Sospita era ubicato a

Lanuvio: più tardi però, presso il Foro Olitorio, le venne dedicato un altro santuario grazie alle cure di Cornelio Cetego, censore nel 194 a.C. Moltissimi furono i ricono­ scimenti e i privilegi che i Romani dedicarono ad essa: importanti, sotto questo aspetto, i vari riferimenti di Liv. 8,14,2; 21,62,8; 23,31,15. Per un bilancio sulla questione storica e religiosa, già affrontata da G. Dumezil, che con­ netteva la triplice denominazione della dea Sospes Mater Regina alla trifunzionalità indoeuropea, vd. il capitolo Giunone Sospita ed Ercole a Lanuvio, in A. Pasqualini, La­ tium Vetus et Adiectum. Ricerche di storia, religione e an­ tiquaria, Roma 2014, pp. 495-521. 1 57 Secondo la testimonianza di Horn. Il. 4,51 s. i centri

principali del culto di questa dea erano Micene, Sparta ed Argo: non molto lontano da quest'ultima (circa 5 miglia a nord, come dice Pease, De natura deorum, p. 421) era collo­ cato il celebre Ereo, il tempio più importante del mondo antico per il culto di Era, dove tra l'altro era conservata la statua crisoelefantina di Policleto, di cui Pausania ci offre una descrizione a 2,17,4 della sua opera geografica. 1 58 Il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio,

edificato dal re Tarquinia il Superbo, fu dedicato dal con-

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sole Marco Orazio nell'anno 509 a.C. Dopo essere stato incendiato nell'83, fu immediatamente ricostruito e la vecchia statua venne rimpiazzata da una nuova crisoele­ fantina di Apollodoro di Atene. 1 59 A Roma, così come in Grecia, con il nome Ammone

veniva identificato il dio egizio Amen-Ra, il re degli dèi, corrispettivo di Giove e Zeus. Cfr. Lucan. 9,513 s. e He­ rodot. 2,42.

160 Stando alle parole di Plin. Nat. Hist. 36,16, Atene do­

veva essere ricca delle opere di questo scultore, che fu anche allievo di Fidia. La sua statua di Vulcano, bronzea e in coppia con quella di Atena, doveva verosimilmen­ te trovarsi nell'Efesteo. Si basa sul testo di Cicerone Val. Max. 8,11, ext. 3. 161 Per il testo, la traduzione e un puntuale nonché ricco

commento alle Ratae Sententiae di Epicuro (quaranta in tutto quelle pervenuteci grazie a Diog. Laert. 10,139 ss.), si veda l'edizione con traduzione e commento di Epicu­ ro, Opere. Introduzione, testo critico, traduzione e note di G. Arrighetti, Torino 1960, pp. 119-137 e 497-504. 162 Sono due i filosofi di nome Metrodoro provenienti da

Lampsaco, uno allievo di Anassagora e l'altro, cui fa ri­ ferimento Cicerone qui, amico di Epicuro (cfr. Nat. 1,93; 1,113; Fin. 2,92; Sen. Epist. 14,17). Il Philippson ritiene che Epicuro e Metrodoro dovettero essere allievi di Nausifa­ ne intorno al 310 a.C., con il quale poi Metrodoro dovette entrare in polemica. La confutazione era contenuta con ogni probabilità in un'opera, citata da Filodemo, intito­ lata Contro coloro che dicono che dalla scienza della natura derivano buoni retori. Sulla questione, vd. F. Longo Auric­ chio e A. Tepedino Guerra, Per un riesame della polemica

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epicurea contro Nausifane, in: F. Romano, Democrito e l'Ato­ mismo antico. Atti del convegno internazionale. Catania 18-21 aprile 1979, Catania 1980, pp. 467-477. 1 63 Serifo è una piccola isola dell'arcipelago delle Cicladi,

considerata con disprezzo dagli antichi come il luogo più indegno appartenuto ad Atene. In età imperiale divenne anche un luogo d'esilio. Tutte le testimonianze in Pease, De natura deorum, p. 437. 1 64 La critica mossa da Cotta contro il pensiero epicu­

reo suona simile alla dottrina cristiana dell'uomo crea­ to da Dio a propria immagine e somiglianza. Di gran­ de effetto il parallelo offertoci da Tert. Adv. Mare. 2,16: «Certo tu ammetti che il creatore sia Dio. Certo, tu dici. E come, dunque, tu pensi che in Dio ci sia qualcosa di umano, e non sia tutto divino? Colui che tu non neghi essere Dio, tu confessi essere non umano, se è vero che, ammettendolo essere Dio, lo hai già stabilito diverso da ogni qualità delle condizioni umane. Inoltre, poiché tu ammetti ugualmente che l'uomo ricevette il soffio divi­ no per diventare anima viva, e non che Dio ricevette il soffio dall'uomo, è assurdo che tu stabilisca delle caratte­ ristiche umane in Dio piuttosto che divine nell'uomo, e che tu rivesta Dio dell'immagine dell'uomo piuttosto che l'uomo dell'immagine di Dio» (trad. italiana da Tertullia­ no, Opere Scelte. A cura di C. Moreschini, Torino 1974). Il pensiero, comunque, è già presente nella cultura pagana: Leg. 1,25; Plat. Rep. 50lb; Lucian. Pro Imag. 13. 1 65 Come mette in luce Pease, De natura deorum, pp. 447

s., la fonte attuale di Cicerone propone una figura divi­ na che non parla; su questo punto, cfr. Sext. Emp. Adv Phys. 1,178 s.: «Inoltre, se egli esiste, o è fornito di voce o ne è privo. Ma affermare che Dio è privo di voce è

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NOTE AL LIBRO PRIMO

completamente assurdo e contrastante con le comuni nostre nozioni. Se, invece, è fornito di voce, egli usa la voce ed ha gli organi fonetici, come polmoni e trachea, lingua e bocca. Ma questo è assurdo e si accosta al favo­ leggiare di Epicuro. Pertanto bisogna affermare che Dio non esiste. E invero, se egli usa la voce, parla. E se parla, parla certamente in un qualche dialetto. Ma, se le cose stanno così, perché mai egli usa la lingua ellenica piut­ tosto che quella dei barbari? E se usa la lingua ellenica, perché la ionica piuttosto che l'eolica o qualche altra? E neppure, ovviamente, si mette a parlare tutte quan­ te: dunque non ne parla alcuna» (trad. italiana da Sesto Empirico, Contro i fisici. Contro i moralisti. Introduzione di G. Indelli, traduzione e note di A. Russo, Roma-Bari 1990), che dipende da Carneade, a sua volta mediato at­ traverso Clitomaco. 166 Ermarco di Mitilene (IV-III a.C.) fu allievo e amico di

Epicuro, del quale fu successore nella direzione del Giar­ dino. Tra le sue opere si ricordano un Contro Platone e un Contro Aristotele (cfr. Diog. Laert. 10,25). Philod. De Piet. 71 Gomperz e Porph. De Abst. 1,26 rammentano invece degli scritti Sulla virtù degli dèi, Contro Empedocle e Contro il vegetarianesimo pitagorico. 167 Leonzio, cortigiana ateniese, è tradizionalmente mes­

sa in collegamento con la scuola epicurea di Lampsaco. La letteratura biografica e dossografica la vuole amante di Epicuro o concubina di Metrodoro, dal quale avrebbe avuto anche due figli. L'opera polemica contro Teofrasto che qui le viene attribuita è in realtà di Epicuro (cfr. Plut. Adv. Col. 1110cc). Sul comportamento avverso di Epicuro e dei suoi seguaci nei confronti degli altri pensatori, cfr. invece, su un piano generale, Philod. De Piet. 82 Gom­ perz; Plut. Adv Colot. 1107c; Diog. Laert. 10,8.

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168 Tito Albucio, propretore romano in Sardegna, sedicen­

te epicureo nonché oratore di poco valore, venne esiliato ad Atene per cattiva amministrazione e concussione: cfr. Orat. 149. 169 Su Fedro, successore di Zenone nella direzione della

scuola epicura, cfr. già supra, alla n. 25.

1 7° Fedone è colui dal quale prende nome il dialogo pla­

tonico: su di lui cfr. Diog. Laert. 2,105. Quanto invece a Timocrate, fu fratello di Metrodoro, insieme al quale fre­ quentò la scuola di Epicuro. Il suo allontanamento dal Giardino gli costò un severo attacco sia da parte del fra­ tello sia del maestro (cfr. Diog. Laert. 10,24 e 28 dove ven­ gono nominate rispettivamente le opere Contro Timocrate di Metrodoro e Opinioni sulle passioni contro Timocrate di Epicuro, datate tra il 301 e il 285 a.C.). 1 71 Dal testo latino aut ista sive beatitas sive beatitudo dicen­ da est, sembra che Cicerone stia cercando di rendere il concetto greco di eudaimonìa o makarìa. L'alternanza tra i suffissi -tudo e -tas è piuttosto diffusa nella lingua latina (vd. la lista fornita da Pease, De natura deorum, p. 458 nel commento a questo passo, e in generale il saggio impor­ tante di M.T. Sblendorio Cugusi, I sostantivi latini in -tudo, Bologna 1991, dove alle pp. 25 ss. si rammenta la cifra sti­ listica elevata della prima formazione, connotata da una dimensione specialistica più accentuata). Limitatamente a beatitudo e beatitas, anche Aul. Geli. 17,2,19 s. considera il primo migliore del secondo. 1 72 Il verso di Ennio che leggiamo qui (= Sat. 69 Vahlen)

è solo uno dei numerosissimi esempi che possiamo rica­ vare dalle letterature classiche a proposito della notevole somiglianza tra la scimmia e l'uomo: per citarne alcu-

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ni, si possono ricordare Heraclit. fr. 82 e 83 Diels-Kranz; Aristot. Top. 117b18; Aesop. Fab. 305 e 306 Chambry; Plin. Nat. Hist. 8,215; Claud. In Eutr. 1,303; etc. in Pease, De na­ tura deorum, pp. 461. Sono moltissimi, inoltre, i casi in cui viene rimarcato che la scimmia rappresenta la maligni­ tà celata dell'uomo: a questo proposito merita di essere rammentata la descrizione, offertaci dal Padre Cappado­ ce Gregorio di Nissa, della scimmia che nel momento più inopportuno si dimentica della sua maschera, rivelando così la propria natura maligna (cfr. Prof. Christ. 8,1,131 ss. Jaeger, su cui si legga lo studio dello stesso W. Jaeger, Von Affen und wahren Christen, in: id., Scripta Minora, II, Roma 1960, pp. 429-439; W. V6lker, Gregorio di Nissa fi­ losofo e mistico. Traduzione dal tedesco e indici di Ch.O. Tommasi, presentazione e traduzione dei testi greci di C. Moreschini, Milano 1993, p. 214 e n. 138). 1 73 Sul serpente alato africano, da identificare proba­

bilmente con il Draco volans, rettile della famiglia Aga­ midae, cfr. Herodot. 2,75 s.; Aristot. Hist. Anim. 490a10 s.; Plin. Nat. Hist. 10,75; Pomp. Mel. 3,82; Amm. Mare. 22,15,26. Cicerone sembra considerarli il prodotto della fantasia umana in Inv. 1,27. 1 74 Sull'icneumone, mammifero nordafricano assimilabi­

le alla mangusta, si consulti la recente rassegna di fon­ ti letterarie e archeologiche raccolta da L. Campanella e B. Wilkens, Una mangusta egiziana (herpestes ichneumon) dall'abitato fenicio di Sant'Antioco, "Rivista di Studi Fenici" 32, 2004, pp. 25-48. 1 75 Il medesimo motivo trova una lettura parallela in Tusc. 1,40: «In questo caso sono i matematici a convincerci che la terra è situata nel mezzo dell'universo e occupa, ri­ spetto all'orbita di tutto quanto il cielo, per così dire la

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figura di un punto, che quelli chamano con parola greca "centro". Essi insegnano pure che la natura dei quattro elementi generatori di ogni cosa si comporta nel seguen­ te modo: come se fra di loro si fossero spartiti e distinti i movimenti, gli elementi della terra e dell'acqua per la loro propria tendenza e per il loro peso sono attratti in direzione verticale verso la terra e il mare, gli altri due invece, il fuoco e l'aria, al contrario dei precedenti che sono attratti al centro dell'universo per la loro grandezza e peso, si innalzano in linea retta verso la regione del cielo, sia per la loro natura stessa si dirigano in alto, sia che per legge naturale gli elementi più leggeri vengano respinti da quelli più pesanti». Il tema è diffusissimo nel­ la letteratura filosofica: vd. Plat. Tim. 57c e 81b; Aristot. Top. 130a39 ss.; Phil. Alex. De Aetern. Mund. 29 ss.; Ov. Met. 1,52 s.; Sen. Nat. Quaest. 2,13,1 e 24,3; Diog. Laert. 2,8 (opinione secondo Anassagora); 7,137 (secondo Zenone); etc. in Pease, De natura deorum, pp. 474 ss. 1 76 Tribuno della plebe nel 133 a.C., Tiberio Gracco pro­ pose una lex agraria che fu poi ostacolata dal compagno Marco Ottavio, il quale pose il veto alla sua rogatio: di conseguenza egli propose ai comizi tributi la deposizio­ ne dall'incarico del collega, trovando l'appoggio del con­ cilio della plebe. L'episodio è narrato da Liv. epit. 58; Plut. Tib. Gracch. 12,1 s.; Appian. Bell. Civ. 1,12. 1 77 Questa affermazione di Aristotele potrebbe apparte­

nere al dialogo perduto De Philosophia (cfr. fr. 7 Rose).

1 78 Spaventoso mostro mitologico, presente nel dodice­

simo libro dell'Odissea (e in Ov. Met. 13,730), richiamato spesso alla memoria da parte dei letterati come emblema del 'non-essere' e dunque come termine di paragone per dimostrare l'assurdità di qualcosa: cfr. ad esempio Iuv.

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NOTE AL LIBRO PRIMO

15,19 ss.; Sext. Emp. Adv. Phys. 1,49; Min. Fel. 20,3; etc. La funzione di questo exemplum è la medesima svolta dalla Chimera, citata di seguito, e dagli ippocentauri, che Ci­ cerone ha già nominato al termine del cap. 1,105. 179 Altra creatura bestiale con testa di leone, corpo di ca­

pra e coda di serpente, spesso rappresentata nell'atto di vomitare fuoco dalle fauci e considerata l'incarnazione di una potenza distruttrice. Nel VI libro dell'Iliade leggiamo a proposito della sua uccisione da parte di Bellerofonte. Anche in questo caso gli antichi adoperavano la sua im­ magine per indicare una cosa vana e inesistente: cfr. Lucr. 2,705 ss. e 5,904 ss.; Ov. Trist. 4,7,9 ss.; Bas. c. Eunom. 1,6. 180 Per il pensiero, cfr. già supra n. 124 a proposito del cap.

1,49 dove occorrono i vocaboli similitudo e transitio; e poi Diog. Laert. 10,47 = Epic. Epist. Ad Herodot. 47 Arrighetti; Lucr. 4,228. 181 Il concetto di beatitudo del dio è per lo più improntato

sulle parole di un passo come Aristot. Eth. Nic. 1098a16 (ma vd. ancora 1099a3 ss.; Magn. Mor. 1185a9 ss.; Sen. Epist. 109,2; Mare. Aur. 9,16; e limitatamente a Cicerone, Fin. 2,19; Off. 1,19; Rep. 1,2) dove lo Stagirita sottolinea l'importanza della continua attività dell'anima (in gr. enérgheia), propria dell'uomo e non degli animali, secon­ do la virtù migliore e perfetta. Il tema è ovviamente stu­ diatissimo: per un inquadramento generale vd. le pagine ad esso dedicate da T. Irwin, I princìpi primi di Aristotele. Presentazione di G. Reale, introduzione e indici a cura di R. Davies, traduzione del testo inglese di A Giordani, Milano 1996, pp. 535 ss. 182 Cicerone traduce ciò che Epicuro avrebbe esposto nel

suo perì tèlous: le citazioni greche sono in Athen.546e s.;

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Diog. Laert. 10,6. Leggasi, inoltre, !imitandoci a Cicerone, Tusc. 3,41: «In quel libro che contiene tutta la tua dottrina (ora farò il traduttore affinché non si creda che io inventi) dici così: "Per conto mio io non riesco a capire quel famo­ so bene, se tolgo i piaceri del gusto, se tolgo quelli offerti dalle relazioni sessuali, se tolgo quelli dell'udito prodotti dalla musica e dal canto, se tolgo anche le piacevoli sen­ sazioni provenienti dalla visione della bellezza, o qua­ lunque altro piacere si produce in tutto l'essere umano per mezzo di qualsiasi senso. E non si può affermare che solo la letizia della mente è da annoverare fra i beni. Io so infatti che la mente si allieta nella speranza di tutto ciò che ho detto sopra, nella speranza cioè che la natura, entrandone in possesso, sia priva di dolore"»; Fin. 2,7 e 31; Ac. 1,7; etc. 183 Si tratta della dea Ebe, figlia di Zeus e di Era, personi­

ficazione dell'eterna giovinezza e, secondo la tradizione mitologica, sposa di Eracle; e di Ganimede, figlio di Troo, rapito per la sua bellezza da Zeus, deificato e poi incari­ cato di essere il coppiere amante del re dell'Olimpo. 184 Anche negli altri passi in cui compare il termine titil­

latio (o il verbo corradicale titillare) Cicerone fa diretto ri­ ferimento ai piaceri puramente edonistici e corporei: cfr. Fin. 1,39; Tusc. 3,47; Off. 2,63; Sen. 47. Il vocabolo risulta es­ sere un calco del greco gargalismòs utilizzato proprio da Epicuro per indicare, in particolare, i godimenti sessuali. Per alcune attestazioni si vedano Cleom. 2,91; Phil. Alex. Leg. Alleg. 3,160; Plut. Quaest. Conv. 7,5,2; Athen. 12,546e. 185 Sul motivo, cfr. Clem. Alex. 2,21,131,1: «Metrodoro poi

nel libro intitolato Sulla maggiore importanza che per la fe­ licità ha la causa dipendente da noi rispetto alle cause esterne scrive: "Il bene dell'anima che altro è se non uno stabile

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equilibrio della carne e la sicura fiducia circa questa?"» (trad. italiana da Clemente Alessandrino, Gli Stromati. Note di Vera Filosofia. Introduzione di M. Rizzi, traduzio­ ne e note di G. Pini, Milano 2006). Vd. altresì Fin. 2,92; Tusc. 2,17 e 5,27; Off. 3,117. 186 La tradizione dossografica antica ci permette di com­

prendere che tra le opere di Epicuro erano contempla­ te uno scritto Sugli Dèi (in gr. perì theon) e un altro Sulla santificazione (in gr. perì osi6tetos): cfr. Diog. Laert. 10,27 e Plut. Suav. Viv. Epic. 21,1102c. Nelle parole di Cicerone, tuttavia, De sanctitate e De pietate non sembrano essere due opere differenti, tanto che nessuna delle fonti testé citate ci informa dell'esistenza di un libro perì eusebeias, attestato invece per Filodemo (su questo si legga alme­ no il contributo di T. Dorandi, Una 'ri-edizione' antica del TIEPI EYL.EBEIAL. di Filodemo, "Zeitschrift fiir Papyrolo­ gie und Epigraphik" 73, 1988, pp. 25-29). Una discussione anche in Pease, De natura deorum, pp. 506 ss., che - a ra­ gione - preferisce vedere nei due titoli dati dall'Arpinate una unica opera. Per il motivo generale qui espresso, vd. invece Fin. 2,70; Off. 3,117; Diog. Laert. 10,10; e già Philod. De Piet. 74, 100, 102 e 108 Gomperz. 187 I due nomi si riferiscono rispettivamente al Tiberio

Coruncanio console nel 280 a.C. e primo pontefice mas­ simo plebeo nel 254 a.C. (il praenomen è un restauro di Heindorf), e al Publio Muzio Scevola, figlio dell'omoni­ mo citato più oltre nel terzo libro (cap. 80), console nel 133 a.C. e pontefice massimo nel 130. 188 Opera qui, come anche in Rep. 3,14 e Leg. 2,26, la me­

moria incancellabile della devastazione dell'acropoli ate­ niese per opera di Serse. Sull'evento si leggano, in parti­ colare, Herodot. 8,109 e Aesch. Pers. 809 ss.

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189 Il motivo è già stato esposto in precedenza ai capp. 1,3

e 1,56; ed è ancora ripreso da Cicerone in Rep. 6,16; Part. orat. 78; etc. Cfr. in aggiunta Plat. Euthyphr. 12c dove Eu­ tifrone si rivolge a Socrate sottolineando che parte della giustizia si realizza nella religiosità e nella cura del culto degli dèi; Sext. Emp. Adv. Phys. 1,123 s. 1 9° Cfr. già supra, cap. 1,77. La concezione qui presente era

espressa innanzitutto da Crizia nel suo Sisifo: si veda il fr. 25 Diels-Kranz, trasmesso da Sext. Emp. Adv. Phys. 1,54.

1 9 1 Prodico di Ceo (V a.C.), celebre sofista menzionato

svariate volte da Platone nei suoi dialoghi, fu allievo di Pitagora, maestro di Isocrate e autore di un'opera Sulla Natura. Per le idee qui esposte da Cicerone, cfr. Philod. De Piet. 6 e 9 ss. Gomperz; Sext. Emp. Adv. Phys. 1,14 e 18. 1 92 Fiorito circa un secolo prima di Ennio, Evemero di

Messina (di Messene secondo Diod. Sic. 6,1,1; di Agrigen­ to secondo Clem. Alex. Protr. 2,24,1 e Arnob. 4,29) fu con­ temporaneo di Epicuro e autore di un diario di viaggi in­ centrato sulla descrizione di una organizzazione politica utopica, sviluppatasi in un'isola sacra agli dèi chiamata Panchaia, collocata in un arcipelago dei mari orientali e visitata di persona dall'autore. Dal punto di vista teolo­ gico, tale pensatore cercò di dimostrare che gli dèi ebbe­ ro origine da uomini divinizzati dopo la morte. Si tratta della dottrina esposta da Cicerone poco sopra (attribuita a Evemero anche da Sext. Emp. Adv. Phys. 1,17), accolta anche dagli Stoici. Vd. Pease, De natura deorum, pp. 515 ss. 193 Il lavoro di traduzione dell'opera di Evemero da parte

di Ennio (ricordata, sulla scorta del passo in oggetto e di Tusc. 1,29, anche da Agostino in De cons. evang. 1,32) potrebbe aver influenzato, sotto l'aspetto stilistico, l'u-

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sus scribendi del rudiense: cfr. E. Norden, Agnostos Theos, trad. it. a cura di Ch.O. Tommasi, Brescia 2002, p. 491 ss. Per una panoramica generale sul punto si veda altresì L. Canfora, Studi di Storia della Storiografia Romana, Bari 1993, pp. 317 ss. 194 Il passo è riportato in Tragicorum Romanorum Fragmen­

ta 279,43 Ribbeck. Sui misteri di Eleusi mi limito a riman­ dare alla celebre pagina di Leg. 2,35 s. (con riferimento all'iniziazione di Cicerone), su cui vd. Dyck, De Legibus, pp. 351 ss. 195 Samotracia e Lemno erano considerati i centri princi­

pali dei riti misterici dei Cabiri, divinità di origine frigia, tracia o beotica, di norma rappresentate ora in coppia di padre e figlio, ora in "trinità" di padre, madre e figlio. Ini­ zialmente considerati delle creature divine di natura cto­ nia, i Cabiri erano associati per lo più alla fertilità ed erano spesso messi in parallelo ai Dioscuri, ai Coribanti, ai Pena­ ti e ad altre figure mitologiche di questo genere. Durante l'età ellenistica divennero divinità marine, care ai marinai per l'aiuto da loro portato durante le tempeste (cfr. Diod. Sic. 4,43,1). Il loro santuario, allineandoci alle fonti anti­ che, fu visitato e frequentato per pratiche di iniziazione da personaggi mitologico e storici di altissimo rilievo, quali appunto Agamennone (cfr. schol. ad Apoll. Rhod. 1,916-918), Orfeo (cfr. Diod. Sic. 5,48,4 s.) Filippo e Olimpia (cfr. Plut. Alex. 2,1) e Varrone (cfr. Aug. Civ. Dei 7,28). E altrettanto possibile, come nota anche Pease, De natura deorum, pp. 520 ss. (cui rimando per una discussione più dettagliata con bibliografia e ulteriori paralleli letterari), che durante l'età della tarda repubblica e del primo impero membri di eminenti gentes romane vi si recassero anche per la con­ nessione di tali divinità con la leggenda di Enea. Vd. anco­ ra Dyck, De natura deorum, p. 198.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

196 La citazione è ricavata dalla tragedia Filottete di Aedo:

cfr. fr. 525 ss. Ribbeck (tutto il passo è ricostruito grazie alla citazione dei due versi anapestici qui riportati, e di altri che leggiamo in Tusc. 2,23 e in Varr. Ling. Lat. 7,11). Sulla celebrazione notturna del culto dei Cabiri, vd. an­ che Nonn. Dion. 4,183 ss. 19 7 Secondo C. Bailey, The Greek Atomists and Epicurus,

Oxford 1928, p. 177 (opinione condivisa anche dal Pease), le parole di Cicerone mettono in evidenza la divergenza dottrinale di Democrito rispetto ad Epicuro per quanto riguarda la dottrina della divinizzazione delle immagi­ ni. La critica torna simile in Sext. Emp. Adv. Phys. 1,19 e 42; Aug. Epist. 118,28 s. Cfr. altresì Tusc. 1,42. 198 Un fortunato detto popolare antico vuole che gli abitan­

ti di Abdera, patria di Democrito (ma anche di Protagora, Anassarco ed altri pensatori), fossero sciocchi: cfr. He­ rond. 2,57 ss.; Iuv. 10,48 ss. dove si dice che la saggezza di Democrito dimostra che grandi uomini possono nascere anche in una terra di sciocchi e sotto un cielo di ignoranti; Amob. 5,12; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 525 s. 199 A questo punto della confutazione delle teorie di Epi­

curo, Cotta chiama in causa la nozione stoica della caritas naturalis fra gli uomini, i quali devono amarsi reciproca­ mente in qualsiasi luogo del mondo essi si trovino. Tale concezione, caratteristica della cultura ellenistica, è fon­ data su una legge naturale che abbraccia tutto il cosmo: cfr. Fin. 4,7; Leg. 1,61; Parad. Stoic. 18. La nozione è legata all'idea dell'uomo cosmopolita, abitante di una terra che tutta insieme rappresenta la sua patria e che mai lo fa sen­ tire solo: per qualche esempio, sia di natura pagana che cristiana, limitato a quest'ultimo concetto, cfr. Phil. Alex. De Opif. 3; De Ios. 29; Diog. Laert. 6,63 (dove si dice che

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NOTE AL LI BRO PRIMO

tutta la terra è patri�); Plut. De Alex. Virt. 329a8 ss.; Paul. Nol. carm. 17,321 ss. E da un tale ragionamento che deriva l'asserzione ciceroniana, secondo cui i saggi sono tra loro amici anche se non si conoscono personalmente: il filosofo sa, dunque, di poter trovare felicità e benessere in ogni an­ golo del cosmo (di qui, poi, l'idea secondo cui l'esilio non è un male). Si leggano ancora Apul. De Plat. 2,22; Min. Fel. 9,2; Clem. Alex. Strom. 5,14,95,2; Iambl. Vit. Pyth. 229 e 237; etc. con discussione in Pease, De natura deorum, pp. 529 ss. Forse è utile, inoltre, un rimando a H.C. Baldry, The Unity of Mankind in Greek Thought, Cambridge 1965. 200 Per la definizione di amicizia disinteressata tra gli

uomini (di base propriamente aristotelica, cfr. Aristot. Eth. Nic. 1158a), si legga la definizione offertaci in Fin. 2,78: «E che altro significa amare, da cui derivò il nome dell'amicizia, se non volere che ad uno tocchino i mag­ giori beni possibili, anche se a stessi non ne vien nulla? Si obietta: "A me giova avere tali sentimenti". Piuttosto ti giova forse sembrare di averli: averli effettivamente non ti è possibile, a meno che li abbia. Non è la calcolata con­ siderazione dell'utilità che suol produrre questo effetto, ma esso trae da se stesso la propria origine e nasce di sua iniziativa. "Ma io seguo l'utilità". Quindi l'amicizia durerà fin tanto che ne seguirà utilità, e se l'utilità starà alla base dell'amicizia, essa medesima la sopprimerà». Sul concetto, cfr. inoltre Am. 31 s.; Sen. Ep. 9,9; e infine P. Gagliardi, Un legame per vivere (Sul concetto di amicitia nelle lettere di Seneca), Potenza 1991, le pp. 15 ss. per un panora­ ma circoscritto a Cicerone. 201 Cfr. già supra al cap. 1,115 e la rispettiva n. 186. 202 Il lessico è simile anche più oltre al cap. 2,74 (dove oc­

corre il verbo inridere in riferimento agli Epicurei). Come

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DE NATURA DEORUM

nota Pease, De natura deorum, p. 534, cui rimando anche per una disamina bibliografica, in questa sezione e nel­ la seguente, la fonte di Cicerone sembra assumere un accento marcatamente stoico piuttosto che accademico (cogliamo l'occasione per ricordare, inoltre, che non sono attestate opere accademiche contro gli Epicurei). In par­ ticolare, R. Philippson, Des Akademikers Kritik der epiku­ reischen theologie im ersten Buche der Tuskulanen Ciceros, "Symbolae Osloenses" 20, 1940, pp. 21-44, p. 26, ha pen­ sato alla stessa fonte stoica su cui Cicerone avrebbe im­ prontato il secondo libro, mentre R. Hirzel, Untersuchun­ gen zu Cicero's philosophischen Schriften, I, Leipzig 1877, p. 33, pensa allo stesso Posidonio e alla sua opera Sugli dèi. Vd. altresì Dyck, De natura deorum, p. 202. 203 L'esistenza di quest'opera posidoniana è attestata da

Diog. Laert. 7,138 e 148 (dove si legge rispettivamente del tredicesimo e del primo libro). Forse un rimando a que­ sto scritto anche in Lyd. De mens. 4,71. 204 L'autore riprende un'affermazione già presente al cap.

1,85. Su Epicuro e la sua dottrina relativa alla non esi­ stenza degli dèi le fonti sono molte e di varia estrazione: cfr. ad esempio Plut. Suav. Viv. Epic. 21,1102b; Adv. Colot. 22,1119d-e; Tert. Ad Nat. 2,2; Lact. De Ira 4,7. 205 È una frase di rito: per Cicerone, cfr. Att. 2,9,3; 8,16,2;

e poi Plaut. Cure. 557; Liv. 1,16,3; 22,37,12; Arnob. 2,8; etc. Vd. Pease, De natura deorum, p. 537.

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Note allibro secondo

1 Il termine rhetor, qui adoperato, designa una persona

che si destreggia nell'arte della parola, e non, come inve­ ce accade comunemente, un maestro di retorica. Dietro le parole di Cicerone soggiace una considerazione ben più ampia per cui la retorica era ritenuta parte dell'inse­ gnamento filosofico: su quest'ultimo punto, cfr. Div. 2,4; Tusc. 2,9; Fat. 3; Orat. 12; De Or. 1,63 e 3,19 ss. 2 Si riconoscono le due degenerazioni degli stili oratori

grave (gravitas, cfr. Rhet. Ad Her. 4,15) e tenue (siccitas, cfr. Demetr. De Eloc. 236,ss. e Long. 3,3), di cui Cicerone parla anche in Brut. 89: «E noto che due sono le virtù fonda­ mentali dell'oratore: sapere istruire gli uditori con una serrata discussione e saperli commuovere con una viva­ ce e appassionata difesa». Un buon bilancio delle fonti è in M.P.J. van den Hout, A Commentary on the Letters of M. Cornelius Franto, Leiden-Boston-KOln 1999, pp. 615 s. 3 Tutto il secondo libro poggia sulla seguente quadripar­

tizione della questio intorno alla natura degli dèi: i capp. 4 ss. hanno come oggetto l'esistenza o inesistenza degli dèi; i capp. 45 ss. la loro natura; i capp. 73 ss. il governo

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provvidenziale del mondo; e infine i capp. 154 ss. la cura rivolta dalla divinità alle vicende umane. Secondo K. Reinhardt, Poseidonios, Miinchen 1921, p. 216 la fonte del­ la suddivisione, funzionale alla confutazione presente nel libro terzo, sarebbe accademica; W. Theiler, Die Vor­ bereitung des Neuplatonismus, Berlin 1930, p. 142 propende invece per una fonte stoica, basandosi sul confronto con Sext. Emp. Adv. Phys. 1,61; P. De Lacy, The Stoic Categorie as Methodological Principles, "Transactions and Procee­ dings of the American Philological Society" 76, 1945, pp. 246-263, invece, confronta il passo con Arr. Epict. 2,14,25 ss. giungendo alla conclusione che sia Cicerone sia Epit­ teto si siano serviti delle quattro categorie stoiche di so­ stanza, disposizione, qualità e disposizione relativa. Vd. infine Pease, De natura deorum, pp. 543 s. 4 Questo concetto, largamente presente anche in opere

giudeo-cristiane (cfr. in primo luogo Ps. 19,1 I cieli raccon­ tano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l'opera delle sue mani; e Min. Fel. 17,4; Lact. Inst. 1,2,5; etc.) è di evidente derivazione platonica: cfr. Plat. Leg. 897c «Meraviglioso uomo, se noi sosteniamo che ogni corso e andamento del cielo e di tutti i corpi che sono in esso hanno la stessa natura dei moti, delle rivoluzioni, dei calcoli dell'intel­ ligenza, se l'intelligenza e l'universo seguono i medesi­ mi procedimenti, è chiaro che dobbiamo affermare che l'anima piena di virtù è quella che si cura dell'universo tutto e che lo guida lungo la sua via» (trad. italiana da Platone, Dialoghi politici. Lettere. A cura di F. Adorno, I, Torino 1953). 5 La citazione (ripetuta anche più oltre ai capp. 2,65; 3,10

e 40), è da ricondurre a Enn. Thyest. 345 Vahlen. Il fram­ mento è a sua volta è una traduzione latina di Eur. fr. 941 Nauck (dramma comunemente ritenuto incerto, ma

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NOTE AL LIBRO SECONDO

di grande fama, come si può constatare dalla quantità di testimoni indiretti che ce ne trasmettono il testo). Per passi simili, vd. Pease, De natura deorum, pp. 547 s. 6 Altra citazione da Enn. Ann. 175 e 581 Vahlen (simile a

Ann. 175); qui Ennio renderebbe il testo di Horn. Il. 1,544 o meglio di Hes. Theog. 47. 7 Sull'ippocentauro, cfr. già supra al cap. 1,105 e la n. 178

al cap. 1,108.

8 Sulla Chimera, cfr. già supra al cap. 1,108 e la relativa n.

178.

9 Tra i monstra infernali più antichi degni di nota, meri­

tano di essere ricordati Ade, Tantalo, Titio e Sisifo, già presenti in Omero (cfr. Od. 11,576 ss.); altre figure furo­ no poi introdotte più tardi, anche grazie allo sviluppo delle arti figurative che alimentarono ulteriormente il bagaglio tradizionale. Nelle civiltà antiche lo studio e l'interesse nei confronti dell'aldilà trovarono terreno fertile soprattutto nel campo della filosofia: per Demo­ crito, Antistene ed Eraclide Pontico sono infatti attesta­ te delle opere Sulle creature dell'Ade (cfr. rispettivamente Procl. In Rep. 2,113; Diog. Laert. 6,17; 5,87). Cfr. infine Plat. Rep. 330d s.; Leg. 904d; Phaed. 113e; Lucr. 1,110 s. e 3,79 ss. e 978 ss.; Sen. Epist. 24,18 e 82,16; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 551 s. 10 Di norma identificato con Pantano Secco vicino a Fra­

scati (nella zona del Tusculano), il lago Regillo è il luogo storico dove Aulo Postumio e Tito Ebuzio, allora magi­ ster equitum, sconfissero le armate della lega delle città latine alleate con Tarquinia il Superbo e il suo genero Ottavio Manilio (qui nominato). La data della battaglia

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è normalmente collocata nel primo decennio del V a.C. (si tratta del 499 o, secondo altri, del 496). Cfr. Tusc. 1,28; Dion. Hal. Ant. 6,13,1 ss.; Frontin. Strat. 1,11,8. 11 Castore e Polluce, qui presentati come figli del re di

Sparta Tindaro (cfr. Horn. Od. 11,298 ss.), sono chiamati in causa spesso nel corso di descrizioni di guerre e bat­ taglie, durante le quali portano il loro benefico aiuto: per un esempio, utile anche per ricavare qualche infor­ mazione in più sulla natura dei loro interventi, si legga Hymn. Horn. 33,1 ss. «0 Muse dagli occhi vivaci, cantate i figli di Zeus, i Tindaridi, splendidi figli di Leda dalle belle caviglie, Castore domatore di cavalli e l'irrepren­ sibile Polluce, che, sotto la cima del Taigeto, alto monte, unitasi in amore al Cronide dalle nere nubi, ella generò come salvatori per gli uomini terrestri e per le veloci navi, quando procelle invernali imperversano sul mare implacabile. Gli uomini dalle navi pregando invocano i figli del grande Zeus con il sacrificio di bianchi agnelli, salendo sul ponte di poppa)) (trad. italiana da Inni Ome­ rici. A cura di S. Poli, introduzione di F. Ferrari, Torino 2010); Theocr. 22,5 ss.; Plut. De Fac. In Orb. 944d; etc. 1 2 Riferimento storico alla celebre battaglia di Pidna del

168 a.C., momento che sancì la definitiva sconfitta del re di Macedonia Perseo per mano del generale Lucio Emilio Paolo. Diversamente da Cicerone, Plutarco (v. Aem. Paul. 24,2 s.) attesta l'arrivo della notizia della vittoria quattro giorni dopo la conclusione della battaglia. 13 Publio Vatieno (o Vatinio, secondo la lezione dei codici

deteriores, accettata da molti editori, cfr. Pease, De natura deorum, p. 555), fu governatore di Rieti per conto dello stato romano e nonno dell'omonimo contro cui Cicerone si scagliò in tribunale nel 56 a.C., quando pronunciò la

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NOTE AL LIBRO SECON DO

sua orazione In Vatinium: su tale personaggio, questore nel 63 a.C. e console nel 46, vd. il recente contributo di A. Pistellato, Imago nominis. Lo strano caso di Publio Vatinio e del suo doppio, in: T.M. Lucchelli e F. Rohr Vio (edd.), Viri militares. Rappresentazione e propaganda tra Repubblica e Principato, Trieste 2015, pp. 201-230). 14 Un resoconto simile è fornito, nel corso di una discus­

sione inerente i prodigi, da Val. Max. 1,8,1: «Mentre il dittatore Aulo. Postumio e il supremo condottiero dei Tu­ scolani Mamilio Ottavio si azzuffavano con grandi forza tra loro presso il lago Regillo, non retrocedendo per un certo periodo di tempo nessuna delle due parti, Casto­ re e Polluce, apparsi a difesa dei Romani, sbaragliarono le soldatesche nemiche. Similmente, durante la guerra macedonica, un tale della prefettura di Rieti, certo Pu­ blio Vatinio, mentre era diretto a Roma credette di vede­ re due giovani di bell'aspetto, che montavano su cavalli bianchi, farglisi incontro ed annunziargli che nel giorno appena trascorso Perseo era stato fatto prigioniero da Pa­ olo. Quando egli riferì la cosa in senato, fu deciso che fosse gettato in carcere come colpevole di avere offeso la maestà dell'ordine senatorio mettendo in giro vuote chiacchiere. Ma quando il giorno dopo il messaggero di Paolo confermò l'avvenuta cattura di Perseo, fu non solo liberato, ma per di più ricevette in dono un campo e l'esenzione da ogni servizio» (trad. italiana da Valerio Massimo, Detti e Fatti Memorabili. A cura di R. Faranda, Torino 1976). 1 5 Nel secolo VI a.C., forse intorno al 560, presso il Sagra

(probabilmente da identificare con il torrente Turbolo si­ tuato nei pressi di Caulonia in Calabria) si consumò una rovinosa sconfitta degli abitanti di Crotone per opera dei Locresi: per una descrizione, si legga quella offerta dallo

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storico Giustino nel XX libro della sua epitome dell'opera storica di Pompeo Trogo: «Recuperata la salute, gli abi­ tanti di Crotone non rimasero a lungo in pace. Sdegnati poiché, durante l'attacco contro Siri, questa città era sta­ ta aiutata dai Locresi, mossero guerra contro quest'ul­ timi. Atterriti da tale minaccia, i Locresi ricorsero agli Spartani, supplicandoli di venir loro in aiuto. Ma quelli, rifuggendo da una spedizione lontano dalla patria, or­ dinarono loro di chiedere aiuto a Castore e Polluce. [...] Pertanto, quando cesero in battaglia e i Crotoniati si pre­ sentarono con centoventimila soldati, i Locresi, osser­ vando il proprio scarso numero (infatti avevano soltanto quindicimila soldati), perdettero la speranza di vincere e si proposero di voler morire tutti insieme. Ma, men­ tre cercavano di morire con onore, riportarono un felice successo e la loro vittoria non ebbe altra causa che la loro disperazione. Mentre i Locresi combattevano, un'aqui­ la non si allontanò mai dal campo di battaglia e volò a loro intorno fintanto che non vensero. Inoltre, nelle ali del loro esercito furono visti combattere due giovani con armatura diversa dagli altri, di eccezionale statura, con cavalli bianchi e con mantelli scarlatti: né essi apparvero se non fino a quando si combatté» (trad. italiana da Giu­ stino, Storie Filippiche. Epitome da Pompeo Trogo. A cura di L. Santi Amantini, Milano 1981). Cfr. anche Strab. 6,1,10; Plut. v. Aem. Paul. 25,1; e le occorrenze, peraltro numero­ sissime del detto ormai comune, qui ripetuto al cap. 3,1 1 ss., "è più vero dei fatti del Sagra": Ael. Hist. Anim. 1 1,10; Zenob. 2,17; Apostol. 2,12; etc. 1 6 I Fauni erano creature divine che dimoravano nei bo­

schi e mandavano oracoli salvifici e miracolosi: da qui la ricostruzione etimologica antica del loro nome dalla radice del verbo fari (cioè "parlare"). La loro connessione con l'arte divinatoria e le facoltà oniriche è presente al-

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NOTE AL LIBRO SECON DO

tresì più oltre, al cap. 3,15; e poi in Div. 1,101; Dion. Hal. Ant. 5,16,2 s.; Liv. 1,31,3; 2,7,2; e soprattutto in Verg. Aen. 7,81 ss. Vd. infine, su un piano generale, il saggio di C.A. Addesso, Il 'dolce parlar' di Fauno nella poesia latina e volgare tra Quattro e Cinquecento, in: C.A. Addesso-S. Grandone, L'innocenza del fauno. Da Bembo a Mallarmé, Rimini 2015, pp. 11-32; Tommasi, Contro i pagani, p. 404 con materiale bibliografico aggiuntivo. 1 7 Secondo la tradizione più diffusa e seguita, Mopso è

figlio di Apollo e di Manto, a sua volta figlia di Tiresia, ed è di norma considerato l'indovino per eccellenza della cultura classica. Le fonti ce lo descrivono quale girova­ go, guida di popoli e fondatore di molti centri dell'Asia minore. Un altro filone tradizionale lo reputa al contra­ rio figlio di Ampico e originario di Titaro in Tessaglia; sarebbe morto in viaggio a causa di un morso di un ser­ pente di Libia.

18 L'indovino Tiresia si incontra già in Horn. Od. 10,490

ss., dove è consultato da Odisseo al momento della di­ scesa negli Inferi. Fu l'indovino dei Cadmei di Tebe dai tempi di Cadmo (Euripide nelle Baccanti dice che era già anziano) a quelli in cui vissero gli Epigoni, cioè sette ge­ nerazioni più tardi. Stando alla tradizione riportata dal­ la Melampodia esiodea, la cecità e il conseguente dono di prevedere il futuro gli furono donati rispettivamente da Era e Zeus. Sulla sua figura si possono consultare svaria­ ti studi: cfr. ad esempio W.H. Owen, Teiresias: a Study in Dramatic Tradition and Innovation, Ph.D. Princeton 1963; L. Brisson, Le mythe de Tirésias: essai d'analyse structurale, Leiden 1976; G. Ugolini, Tiresia e i sovrani di Tebe: il topos del litigio, "Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici" 27, 1991, pp. 9-36; Id., Untersychungen zur Figur des Sehes Teiresias in den mystischen Vberlieferungen und

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in der Tragodie, Tiibingen 1995; Id., Le sette metamorfosi di Tiresia secondo il poeta ellenistico Sostrato, in: AA.VV., Pai­ gnion. Piccola Festschrift per Francesco Donadi. A cura di A. Mastrocinque e A. Tessier, Trieste 2016, pp. 129-147. 1 9 Anfiarao, nominato anche più avanti al cap. 3,49, figlio

di Oicle e Ipermestra, ricevette da Apollo il dono profe­ tico: avendo previsto la sconfitta della guerra dei Sette a Tebe, non volle partire per parteciparvi, ma venne obbli­ gato dalla moglie. Morì precipitando con il carro all'in­ terno di una voragine aperta da Zeus. La figura di Anfia­ rao e la sua vicenda godettero di considerevole fortuna specialmente presso i poeti tragici (Eschilo ed Euripide, quest'ultimo lo cita anche in Phoen. 173 e 1111), i comici, la poesia epica staziana (vd. V. Valenti, Stazio e Anfiarao: effetto soterico della parola, "Studi Classici e Orientali" 57, 2011, pp. 231-259, con bibliografia ulteriore) e in Dante (celebre è lnf 20,34 ss.). 2° Calcante, di Argo e figlio di Testore, è l'indovino che

presenziò all'assedio di Troia. Tra le sue predizioni si ricordano quelle che leggiamo nel primo e nel secon­ do libro dell'Iliade: l'una relativa all'ira di Apollo, l'altra alla durata decennale della guerra di Troia. Lo ritro­ viamo spesso anche negli autori posteriori a Omero, però sempre in riferimento ad eventi legati al destino di Troia (ad esempio il sacrificio di Ifigenia, cfr. Aesch. Ag. 201; o la costruzione del cavallo ligneo, cfr. Verg. Aen. 2,185).

21 Eleno, figlio di Priamo, si ritrova come guerriero e in­

dovino per lo più nell'opera di Omero: catturato da Odis­ seo profetizzò ai Greci che per ottenere la vittoria su Tro­ ia sarebbe dovuto giungere Filottete con il suo arco, un tempo appartenuto a Eracle.

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NOTE AL LIBRO SECON DO

22 Publio Clodio Pulcro, forse figlio di Appio Claudio Cie­

co, fu console nel 249 a.C., anno in cui fu sconfitto da Aderbale presso il porto di Deprano dove aveva tentato di sorprendere la flotta cartaginese senza aver tenuto in conto gli auspici: la battaglia è descritta da Polyb. 1,52,2 s. Limitatamente all'aneddoto sui polli qui riportato, cfr. invece Liv. epit. 19; Fior. 1,18,29; Svet. Tib. 2,2; etc.: secon­ do il rito, prima della battaglia, gli auspici erano presi offrendo del mangime ai polli, i quali, se si fossero ciba­ ti, avrebbero dato un segnale favorevole per l'esito della battaglia. 23 Lucio Giunio Pullo, collega di Clodio nel consolato du­

rante il 249 a.C., è ricordato per aver attraccato al molo la flotta a Camarina, dove poi fu devastata da una violenta tempesta: cfr. ancora Polyb. 1,54,1 ss. 24 Lucio Celio Antipatro fu uno storico e retore vissuto

in età graccana: un giudizio positivo da parte di Cicero­ ne lo leggiamo in Brut. 102. L'edizione dei frammenti è a cura di W. Hermann, Die Historien des Coelius Antipater. Fragmente und Kommentar, Miesenheim-Glan 1979. 25 Gaio Flaminio fu tribuno della plebe del 232 a.C. e

due volte console nel 223 e nel 217. Cercò di arrestare l'a­ vanzata di Annibale, che tuttavia riuscì a sconfiggerlo tendendogli un'imboscata sul Trasimeno. Tale battaglia, rovinosissima anche per l'esercito romano, è spesso ac­ costata dagli storici antichi a quella combattuta a Canne nel 216 a.C.: cfr. ad esempio Liv. 24,8,20 e 13,1; 25,10,9; Ma­ nil. 4,37 ss. Per il resoconto della battaglia cfr. Div. 1,77 s.; Polyb. 3,80,1 ss.; Liv. 22,4,1 ss. 26 Sull'idea di superiorità della religione romana, si con­

fronti con Polyb. 6,56,6 s.; Liv. 6,41,8 e 44,1,11; Val. Max.

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1,1,8; Min. Fel. 25,1; Aul. Gell. 2,28,2; Tert. Apol. 25; Aug. De Civ. Dei 4,8; Prud. C. Symm. 2,488 s.; etc. 27 Per questo, cfr. Div. 1,31 s.: «E ancora: c'è qualche scrit­

tore antico che non racconti come, molti anni dopo Ro­ molo, sotto il regno di Tarquinia Prisco, sia stata fatta da Atto Navio una ripartizione delle regioni celesti median­ te il lituo? Costui era un povero ragazzo che menava al pascolo le scrofe. Si dice che, avendone perduta una, fece voto a un dio che, se l'avesse ritrovata, gli avrebbe offerto la più bella uva di una vigna che c'era lì. Trovata la scro­ fa, dicono, sostò in mezzo alla vigna, rivolto verso sud, e divise la vigna in quattro parti. Tre parti ricevettero dagli uccelli segni sfavorevoli; avendo allora distribui­ ta in regioni la quarta parte restante, trovò (lo traman­ dano gli scrittori) dell'uva di meravigliosa grandezza. La cosa si seppe: tutto il vicinato si rivolgeva a lui per consigli; aveva acquistato grande rinomanza e prestigio. Avvenne quindi che il re Tarquinia Prisco lo mandasse a chiamare. Desideroso di mettere alla prova le sue doti di àugure, il re gli disse che stava pensando a una cosa: gli chiese se questa cosa si poteva fare. Atto, dopo avere compiuto il rito augurale, gli rispose che era possibile. Tarquinia allora disse che aveva pensato alla posibilità di tagliare una cote con un rasoio, e ordinò ad Atto di provare a far ciò. Ed ecco che una pietra, portata nel co­ mizio, alla presenza del re e del popolo fu spaccata con un rasoio. In seguito a ciò Tarquinia assunse Atto Navio come àugure, e il popolo andava a chiedergli consiglio per il da farsi» (trad. italiana da Timpanaro, Della divina­ zione, ad loc.). Cfr., tuttavia, anche Leg. 2,33; Liv. 1,36,3 ss.; Dion. Hai. Ant. 3,70 ss.; Plin. Nat. Hist. 34,21 e 29. 28 Dal confronto con il passo dal De Divinatione che ab­ biamo citato nella nota precedente, emerge che il re che a

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NOTE AL LIBRO SECON DO

quel tempo era al potere sarebbe stato in realtà Tarquinia Prisco, non Tullo Ostilo. 29 Si trattava di auspicia dal valore militare: cfr. Div. 2,77

e Arnob. 2,67. Questi, come anche i rituali che Cicerone cita subito dopo, avevano innanzitutto un valore di con­ servazione delle linee di confine: in generale, vd. il sag­ gio di R. Fiori, Gli auspici e i confini, "Fundamina" 20/1, 2014, pp. 301-311.

30 Su questo punto può essere di grande aiuto Varr. De

Ling. Lat. 6,86: «Ora anzitutto riporterò brani dalle tavo­ le dei censori: "Quando di notte il censore avrà preso gli auspici nello spazio a tal fine delimitato e verrà un segno dal cielo, così egli comandi al banditore di con­ vocare gli uomini. Che ciò sia vantaggioso e fortunato e propizio e salutare al popolo Romano dei Quiriti e allo Stato del popolo Romano dei Quiriti e a me e al mio col­ lega, alla nostra lealtà e alla nostra magistratura, invita a presentarsi qui da me tutti i Quiriti, cavalieri e fanti, armati e privati, i curatori di tutte le tribù, se qualcuno vorrà che sia reso conto per sé o per un altro"» (trad. ita­ liana da Varrone, De lingua latina. Libro VI. Testo critico, traduzione e commento a cura di E. Riganti, Bologna 1978) . 31 Scipione Nasica e Figulo furono consoli insieme nel

162 a.C. Sull'avvenimento raccontato di seguito, si tenga presente anche Val. Max. 1,1,3: «Se degno di lode è il ri­ spetto tributato alla religione dai dodici fasci, più degna è l'obbedienza dei ventiquattro in una circostanza simile alla precedente: come quando Tibero Gracco inviò dalla provincia al collegio degli àuguri un messaggio, in cui rendeva noto che, leggendo i libri riguardanti i riti del popolo, si era accorto che il luogo per la tenda augurale

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

era stato scelto, durante i comizi consolari da lui tenuti, senza le formalità prescritte; per questo, una volta che la cosa fu riferita dagli àuguri al senato, per ordine dei Pa­ dri coscritti Quinto Figulo e Scipione Nasica tornarono rispettivamente dalla Gallia e dalla Corsica a Roma e ri­ nunziarono spontaneamente al consolato» (trad. italiana da Valerio Massimo, Detti e fatti memorabili. A cura di R. Faranda, Torino 1976). 32 Nel testo latino vi è il termine tabernaculum, che indica

una sorta di capanna o di tenda montata per prendere gli auspici. Cfr. Div. 1,33. 33 Il pomerio era la delimitazione augurale che separava

la città vera e propria dalla zona dedicata agli auspici militari: cfr. ancora Div. 1,33 e poi Aul. Gell. 13,14,1.

34 Cicerone spesso chiama in causa la dottrina delle idee

innate (non accettata dai primi rappresentanti dello Stoi­ cismo precedenti a Crisippo, cfr. Plut. Plac. 900b), che na­ turalmente deriva dalla distinzione tra idea èmphytos e epìktetos presente nel noto passo di Plat. Phaedr. 237b. Per Cicerone, si legga invece, per qualche esempio, Fin. 5,59 e Tusc. 1,5Z 35 Il medesimo argomento, con la attribuzione a Cleante,

è ripreso più oltre al cap. 3,16, però secondo una dispo­ sizione delle quattro cause diversa. Pease, De natura dea­ rum, p. 580, ricorda come tutte e quattro siano di natura empirica, riconducendo la prima e la quarta al frammen­ tario De Philosophia aristotelico (cfr. anche Sext. Emp. 1,20 ss.), e le altre due a Democrito e Prodico. La seconda po­ trebbe derivare, comunque, anche da Plat. Leg. 10,866a. 36 Per la prima causa, cfr. già supra, ai capp. 2,7 ss.

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NOTE AL LIBRO SECON DO

37 Per la seconda causa, cfr. anche più avanti ai capp. 2,80

e 3,16; Tert. Ad Nat. 2,5. W. Jaeger, The theology of the early Greek philosophers, Oxford 1947, p. 249, ritiene che Cleante abbia derivato questo punto da Prodico.

38 La terza causa è quella di natura maggiormente violen­

ta e catastrofica: il motivo è ripreso ai capp. 3,16 s e in Div. 2,42. Sembra, comunque, che la teoria dell'esistenza degli dèi basata sul terrore prodotto dai fenomeni naturali ab­ bia avuto il suo avvio con Democrito: cfr. Sext. Emp. Adv. Phys. 1,24 e Philod. De Piet. Sa Gomperz. Naturalmente gli Epicurei negarono la natura divina di tali fenomeni: cfr. Lucr. 1,151 ss. e 5,1218 ss.; etc. 39 Il riferimento è all'evento accaduto nell'anno 87 a.C.,

di cui ci dà una descrizione precisa Plin. Nat. Hist. 2,92: «Nel complesso, è un genere di stelle che porta il ter­ rore con sé e non si placa facilmente; come al tempo delle guerre civili, sotto il consolato di Ottavio, e poi, di nuovo, durante la guerra tra Cesare e Pompeo; nella nostra epoca, poi, in occasione dell'avvelenamento per cui Claudio Cesare dovette lasciare l'impero a Nerone, e quindi durante il suo principato, quando il fenomeno fu quasi ininterrotto, e minaccioso» (trad. italiana da Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale. Cosmologia e Geo­ grafia, Libri 1-6. Prefazione di L Calvino, saggio introdut­ tivo di G.B. Conte, nota bibliografica di A. Barchiesi, C. Frugoni, G. Ranucci, traduzioni e note di A. Barchiesi, R. Centi, M. Corsaro, A. Marcone, G. Ranucci, I, Torino 1982). Cfr. anche Div. 1,4 e Timpanaro, Della divinazione, pp. 235 s. 40 Siamo nel 129 a.C. 41 La metafora è ricorrente: su tutti si veda Rep. 1,15 ss.

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DE NATURA DEORUM

42 Come quarta causa vengono nominati l'ordine, la re­

golarità e la bellezza del cielo: sul punto si sono espres­ si in molti, cfr. Plat. Leg. 966e; Ps.-Aristot. De Mund. 288a13 ss.; Sext. Emp. Adv. Phys. 1,26; Sen. Nat. Quaest. 7,1,2; Sallust. De Diis 9; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 587 s. L'argomento sarà ripreso naturalmente anche dai teologi cristiani, che ritenevano la bellezza dell'u­ niverso il prodotto benevolo di Dio (Gen. 1,1 ss.; Lact. Inst. 1,2,5; etc.). 43 Immagini metaforiche come questa, tratte dall'imma­

ginario dell'edilizia, sono molto care a Cicerone: cfr. più oltre ai capp. 2,17, 90 e 154; 3,18 e 85; Div. 1,131; Rep. 3,14; Leg. 1,23 e 26; etc.

44 L'argomentazione è ripresa anche più avanti, ma più

concisamente, ai capp. 3,18 e 3,25. Cicerone mette in evi­ denza la capacità dialettica e la capziosità delle parole di Crisippo, un tratto, questo, che rimarrà per così dire indelebile nelle sue rappresentazioni letterarie: un esem­ pio lampante è dato, tra gli altri, da due passi patristici: Greg. Naz. Or. 32,25 e Hier. Naum 3 (in questo secondo parallelo le sue argomentazioni vengono rappresentate come delle spinose sterpaglie da cui è difficile uscire). Cfr. ancora Div. 1,6; Ac. 2,75; Off. 3,42.

45 Secondo Pease, De natura deorum, p. 590, qui abbiamo

un'anticipazione del celebre asserto antologico che leg­ giamo nel Prologion di Anselmo di Aosta (Dio è l'essere più grande di tutti e nessun altro può superarlo). 46 Il nesso latino ornatum mundi equivale al gr. k6smon,

per cui vd. Plat. Gorg. 508a e Orig. De Princ. 2,3,6 (ciò che i Greci chiamano kòsmos non significa soltanto mundum ma anche ornamentum).

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NOTE AL LIBRO SECON DO

47 Cicerone si serve del verbo arripio per rendere il greco

synarpàzo, utilizzato in Xen. Mem. 1,4,8: «E credi che in nessun altro luogo vi sia una forma di intelligenza? E pensi questo, pur sapendo che nel corpo hai una pic­ cola parte di terra, mentre ce n'è molta, e poca acqua, mentre ce n'è molta, e che il corpo ti è stato messo in­ sieme prendendo una piccola parte di ciascuno degli altri elementi, che pure esistono in grande quantità? E l'intelligenza, che è la sola che non si troverebbe da nes­ suna parte, come pensi di aver avuto la fortuna di ac­ chiapparla?» (trad. italiana da Senofonte, Tutti gli scritti socratici. Apologia di Socrate, Memorabili, Economico, Sim­ posio. A cura di L. De Martinis, Saggio introduttivo di G. Reale, Milano 2013). Sui valori del verbo greco e della metafora che implica, vd. W. Jaeger, Eine stilgeschichtli­ che Studie zum Philipperbrief, "Hermes" 50, 1915, pp. 537553, specialmente p. 545. 48 L'uomo è il microcosmo composto dai quattro elemen­

ti naturali del macrocosmo, cioè il mondo. La dottrina sembra delinearsi già nel pensiero di Democrito (cfr. fr. 34 Diels-Kranz), in quello di Anassimene (cfr. Aet. Plac. 1,3,4), e poi, più definitamente, nella speculazione di Ari­ stotele (cfr. Phys. 252b24 ss.). 49 Il lessico rimanda alla speculazione stoica (probabil­

mente alla dottrina posidoniana della sympàtheia): nel te­ sto latino l'espressività è di gran lunga maggiore rispetto alla possibilità di resa italiana, in quanto Cicerone sotto­ linea il concetto della pienezza e dell'armonica compa­ tezza del mondo mediante la ripetizione del prefisso con: Quid vero, tanta rerum consentiens, conspirans, continuata cognatio. In generale, comunque, può essere utile un con­ fronto con Div. 2,33 s.; Plut. De Fato 574c; Cleomed. 1,1,4; Diog. Laert. 7,140; Alex. Aphrod. De Mixt. 142a.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

5° Forse Posidonio espose la questione inerente l'influsso

dei moti della luna sulle maree nello scritto Sull'oceano (perduto): cfr. però Strab. 3,5,8.

51 La dottrina stoica si accorda con quella cristiana, per

cui lo spirito di Dio pervade l'universo in ogni dove: l'af­ finità venne riconosciuta anche dal filosofo Celso confu­ tato da Origene (cfr. Orig. C. Cels. 6,71), «ma la differenza fondamentale sta nel fatto che lo Spirito giudaico-cristia­ no è un Dio trascendente, non immanente come invece quello degli Stoici» (così il Marinone in Lassandro-Mi­ cunco, Opere politiche e filosofiche, pp. 219 s.). 52 Per la brevità di Zenone cfr. Diog. Laert. 7,18. 53 Il termine latino è convicia, emendazione di Davies per

la lezione vitia (o vicia) tradita dai manoscritti: cfr. Fin. 1,69; De Domo 16; Pro Cluent. 39; nonché Min. Fel. 16,1 che sembrerebbe imitare il passo in questione. Vd. Pease, De natura deorum, p. 599.

54 Il passo è in Stoicorum Veterum Fragmenta 1,11 1 von Ar­

nim. Cfr. poi Leg. 2,16: «E poiché tutto quanto è fornito di ragione è superiore a quanto è privo della ragione mede­ sima, e non essendo lecito affermare che alcunché di sin­ golo sia superiore all'universale, fa d'uopo ammettere in questa universale natura una ragione»; Sext. Emp. Adv. Phys. 1,85 e 104 ss.; Diog. Laert. 3,71. 55 Il passo è in Stoicorum Veterum Fragmenta 1,114 von

Arnim (cfr. però anche i nnr. 2,686 e 1111) . Vd. altresì Sext. Emp. Adv. Phys. 1,85; Lact. Inst. 2,5,29 e De Ira 10,35. 56 Cfr. Sext. Emp. Adv. Phys. 1,77 e 101.

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NOTE AL LIBRO SECON DO

57 Il passo è in Stoicorum Veterum Fragmenta 1,513 von Ar­

nim.

58 La differenziazione tra vene e arterie è attribuita per

la prima volta al medico di IV secolo a.C. Prassagora. Sulle loro funzioni secondo gli antichi, si leggano Sen. Nat. Quaest. 3,15,1; Galen. De Puls. 19,639 Kiihn; Aul. Gell. 18,10,9 ss.

59 La vis vitalis, in gr. zotikè dynamis, era situata da Cleante

nel cuore, da Posidonio nello pneuma (cioè aria mescolata col fuoco), mentre da Seneca nello spiritus (cioè aria).

60 Nel testo latino terram fumare calentem Pease, De natura

deorum, p. 608, ha riconosciuto una chiusa di esametro, forse però involontaria. Cicerone (o la sua fonte) sembra fare confusione tra il fenomeno delle evaporazioni dal terreno appena arato e la produzione del fumo da parte del fuoco. 61 L'atto creativo è da intendere come spontaneo, secondo

la dottrina di Aristotele: cfr. Hist. An. 5,1,539a15 ss.

62 Pease, De natura deorum, p. 614, rimanda a Sext Emp.

Adv. Phys. 1,83-84: «L'universo [...] accoglie cangiamenti rilevanti, secondo che l'atmosfera talora diventi gelida e talora torrida, talora asciutta e talora umida, e talora, infine, si alteri in qualche altro modo in dipendenza dei movimenti dei corpi celesti. Epperò l'universo non è te­ nuto insieme da mera "attrazione". Ma se non da questa, cercamente da una organicità naturale. Difatti le cose che sono sotto il controllo di un'anima, sono state ancor molto prima tenute insieme da una naturale organicità>> (trad. italiana da Sesto Empirico, Contri i fisici. Contro i moralisti. Introduzione di G. Indelli, Traduzione e note di

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A. Russo, Roma-Bari 1990), e l. Heinemann, Poseidonios ' metaphysische Schriften, II, Breslau 1928, p. 178. 63 Il termine è utilizzato nel medesimo senso da Philod.

De Piet. 16 Gomperz; Diog. Laert. 7,159; etc. per cui vd. Pease, De natura deorum, pp. 615 s.

64 K. Reinhardt, Kosmos und Sympathie, Mi.inchen 1926,

p. 87 ha notato che, proprio come nel passo in oggetto, secondo Posidonio esisterebbero due tipi di movimento, uno esterno e l'altro interno, meccanico e organico. Cfr. anche Sext. Emp. Adv. Phys. 1,76. 65 Si confronti con Plat. Phaedr. 245c (che l'Arpinate rende

in Tusc. 1,53 e Rep. 6,27); Tim. 89a; Theaet. 156a; ma anche Aristot. Phys. 211a1 ss.; De Anim. 406a4 s. l. Heinemann, Poseidonios' metaphysische Schriften, II, Breslau 1928, pp. 390 s., pensa invece che Cicerone abbia ricavato il materiale da Posidonio. Per il motivo della deificazione degli scolarchi, qui Platone, e supra, al cap. 1,43 a proposito di Epicuro, vd. tutti i paralleli offerti in Pease, De natura deorum, pp. 619 s.

66 La scala gerarchica che classifica tutte le creature, dalle

più semplici alle più complesse (piante, animali, uomini), per pervenire infine al concetto di divinità, è un modello filosofico che si ritrova per la prima volta in Aristotele: cfr. fr. 16 Rose (preservato da Simplicio nel commento al De Caelo di Aristotele, 7,289 Heiberg); cfr. anche De Cael. 292b7 ss.; De Anim. 410b22 ss.; Hist. Anim. 588b4 ss.; e poi Phil. Alex. De Opif. Mund. 65 s.; De Aet. Mund. 75; Plotin. Enn. 1,4,3 e 3,2,11; Aug. De Civ. Dei 5,11; De Doctr. Christ. 1,8; etc. 67 L'identificazione del quarto grado è deduttiva, a diffe­

renza di quelli precedenti che erano asseriti sulla base di un procedimento induttivo.

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NOTE AL LIBRO SECONDO

68 Il passo è in Stoicorum Veterum Fragmenta 2,1153 von

Arnim. Il confronto con Fin. 2,40 sembra tradire l'origine aristotelica, forse dal De philosophia, della teoria qui pre­ sentata: «Essi non s'avvidero che, come il cavallo è nato per correre, il bue per arare, il cane per andare a caccia, così l'uomo - come dice Aristotele - è nato, come se fosse un dio mortale, per due cose: il pensiero e l'azione; volle­ ro invece che questo essere divino fosse nato, come una qualche besti lenta e fiacca, per mangiare e per il piacere di generare, e a mio parere non v'è nulla di più assurdo». 69 Il motivo della contemplazione del mondo, già presen­

te in qualche modo nel pensiero dei Pitagorici e di Anas­ sagora (cfr. Aristot. Eth. Eud. 1215b6 ss. e Iambl. Protr. 9) pervade la maggior parte della cultura filosofica antica: si vedano, a scopo illustrativo, Plat. Rep. 500c e Tim. 47b s.; Epict. 1,6,19; Corp. Herm. 3,3, e 4,2; Lact. Inst. 3,9,13 e De Ira 14,1; Greg. Nyss. De Horn. Opif. -7; Boeth. Cons. Phil. 3, . pros. 8; etc. Ne consegue, naturalmente, il concetto di imitazione del mondo, basato sulla stretta relazione che intercorre tra macrocosmo (il mondo) e microcosmo (l'uomo): su tutti cfr. Sen. De Vit. Beat. 3,3. 70 Il seguente passo è raccolto in Stoicorum Veterum Frag­

menta 2,641 von Arnim.

71 Secondo la visione stoica erano due i generi di fuochi:

uno technik6n, creativo, un altro atechn6n, distruttivo. Si legga la dottrina di Zenone, come ci viene tramandata da Stobeo, in un frammento raccolto in Stoicorum Veterum Fragmenta 1,120 von Arnim: «Zenone sostiene che il sole, la luna e ciascun astro sono dotati di intelletto e di intel­ ligenza, e sono fatti di fuoco, del fuoco-artefice. Ci sono infatti due generi di fuoco, quello non-artefice che tra­ muta in sé stesso il combustibile, e il fuoco-artefice che

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determina la crescita e la conservazione, come ad esem­ pio quello che si trova nelle piante e negli animali: e tale fuoco è natura e anima. L'essenza degli astri è composta di tale fuoco. Il sole e la luna si muovono secondo due movimenti: uno al di sotto del cosmo dalla regione del solstizio d'estate a quella del solstizio d'inverno, l'altro sullo sfondo del cosmo, di costellazione in costellazio­ ne. Le loro eclissi hanno cause diverse: quelle del sole si hanno in occasione delle congiunzioni, quelle della luna nella fase di luna piena, e sia in un caso che nell'altro, le eclissi possono essere più o meno estese» (trad. italiana da Stoici antichi, Tutti i frammenti raccolti da H. von Arnim. Introduzione, traduzione, note e apparati a cura di R. Ra­ dice, Milano 2002). Per l'Oceano che alimenta il sole, vd. Pease, De natura deorum, pp. 635 s. 72 Tutto il passo corrisponde al frammento 23 Rose, for­

se appartenente all'opera De Philosophia. W.W. Jaeger, Aristotle. Fundamentals of the History of His Development, Oxford 1962, pp. 143 s., pensa che la teoria fosse stata espressa in qualche modo già da Plat. Tim. 39e ss., e che Cicerone abbia desunto il testo non direttamente dallo scritto integrale aristotelico, ma da un estratto all'interno di una raccolta antologica. 73 Siamo di fronte a un topos comune e caratteristico del­

la cultura filosofica antica: cfr. Div. 1,61 s.; Plat. Tim. 24c; Sen. Epist. 108,22; Iambl. Vit. Pyth. 13 e 68; etc.

74 Secondo K. Reinhardt, Kosmos und Sympathie, Miinchen

1926, p. 81, il concetto qui espresso è interrotto dall'intru­ sione di materiale non aristotelico (le tre cause, physis, tyche e nous, non corrispondono ai tre tipi di movimento esposti poco più avanti al cap. 44), pertanto esso conti­ nuerebbe ai capp. 2,49 ss. M. van den Bruwaene, La théol-

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NOTE AL LIBRO SECONDO

ogie de Cicéron, Louvain 1937, pp. 117 s. è per difendere l'u­ nità del sillogismo per cui alla premessa maggiore (che la rivoluzione delle stelle avviene per un ordine preciso), seguirebbero una premessa minore (che l'ordine non è il risultato né della natura né del caso) e una conclusione (che le stelle si muovono per un movimento consapevole e divino). E. Bignone, L'Aristotele perduto e la formazione fi­ losofica di Epicuro, II, Firenze 1936, p. 358 fa risalire invece la teoria alla speculazione giovanile di Aristotele. Per la centralità dei concetti di orda e constantia, vd. i capp. 15 s. e più oltre 55 s.; Div. 2,146; Off. 1,14; Plat. Epinom. 982c s.; Aristot. De Cael. 270b13 ss.; Sext. Emp. Adv. Phys. 1,112; etc. in Pease, De natura deorum, p. 642. 75 La porzione di testo che segue, fino al terzultimo punto

prima del capoverso e dell'inizio del cap. 45, è registrato da Rose come frammento 24 del perduto De Philosophia.

76 Inizia, per concludersi al cap. 2,72, l'esposizione del se­

condo punto della teologia stoica, di cui era stata data la definizione supra, al cap. 2,3. 77 Epicuro nacque ad Atene nel demo del Gargetto (cfr. Att. 15,16,1; Diog. Laert. 10,1). Come segnalato da Pease, De natura deorum, p. 648, il passo deve essere letto alla luce del contrasto creato da loci come De Or. 2,217; Or. 90; Quint. Inst. 6,3,18; etc. dove dell'Attica si dà un ritratto di un luogo in cui i cittadini eccellono massimamente per lo spirito e lo scherzo. 78 Cicerone ricalca la dottrina esposta da Platone in Tim.

33b (che peraltro conosce molto bene e traduce nel suo Tim. 17): «Ecco la ragione ed il criterio con cui egli ha costituito in unità questo tutto totale, perfetto e immu­ ne da vecchiezza e da malattie. Ed una forma gli diede,

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conveniente ed a sé congeniale. Ora, all'essere vivente che in sé doveva raccogliere tutti i viventi, la forma che più conveniva era quella che in sé comprendesse tutte le forme possibili. Ecco perché tornì l'universo come una sfera, in forma circolare, ugualmente distante, in ogni parte, dal centro alle estremità, che è fra tutte le figure la più perfetta e la più simile a se medesima, ché Dio giu­ dicò il simile infinitamente più bello del dissimile. E la superficie esterna tutta, per molte ragioni, egli fece perfet­ tamente liscia» (trad. italiana da Platone, Opere Politiche. A cura di F. Adorno, l, Torino 1953). Cfr. ulteriormente Aristot. De Cael. 290b1 ss.; Galen. De Usu Part. 1,11 e 4,7; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 650 s. 79 In Fin. 5,50 e Tusc. 5,64 Cicerone rammenta che Archi­

mede tracciava le figure geometriche nella polvere. Cfr. anche Aristoph. Nub. 177 ss. (dove Socrate tenta di ingan­ nare la fame dei discepoli all'interno del pensatoio con una lezione di geometria, tenuta con della cenere e uno spiedo al posto del compasso); Callim. Iamb. fr. 191,56 ss. Pfeiffer; Liv. 25,31,9. Il gesto, anche se in un contesto ben diverso, è registrato per Gesù da Giovanni (8,6): «Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accu­ sarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra». 80 Si legga il testo latino e si noti il gioco di parole ef­

fettuato da Cicerone con palatum (la citazione poetica enniana è da Fab. Inc. 16 Vahlen): sed dum palato quid sit optimum iudicat, 'caeli palatum � ut ait Ennius, non suspexit. Non sappiamo se «palatum aveva già al tempo di Ennio il significato di "palato", [e se così fosse] potremmo spie­ gare l'espressione come un calco contrometaforico del greco ouranòs (che aveva il doppio significato di "cielo" e di "palato". Ma è possibile che il vocabolo avesse antica-

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mente il significato generico di "vòlta"» (così B. Migliori­ ni, La metafora reciproca, in: id., Saggi linguistici, Firenze 1957, pp. 23-30, p. 30). 81 Intende le stelle fisse e i pianeti: cfr. più oltre, ai capp.

2,101 ss.; Rep. 6,17 «Tutto è connesso in nove cerchi, o me­ glio sfere, dei quali uno solo è il celeste, l'estremo, che abbraccia tutti gli altri, esso stesso dio supremo che com­ prende e contiene gli altri; ed in esso sono infisse quelle eterne orbite che sono percorse dalle stelle; ed al quale sono sottoposte le sette sfere che ruotano in senso oppo­ sto al cielo»; Plat. Tim. 36c s.; Aristot. Met. 1073b; Cleo­ med. 1,3; etc. con Pease, De natura deorum, pp. 655 s. 82 Questa visione è applicata da Pitagora, Leucippo, De­

mocrito, naturalmente dagli Stoici, Aristotele. Per lo Stoi­ cismo, che qui ci interessa, cfr. Diog. Laert. 7,140; per il resto dei pensatori Pease, De natura deorum, p. 656.

83 Il tentativo di definizione della durata dell'anno so­

lare è presente, nell'ambito della ricerca filosofica e scientifica greca, fin dall'età arcaica: cfr. ad esempio Herodot. 1,32 (con riferimento a Solone) e il panorama offerto da Censorin. 19,2 s., che registra svariate ipote­ si, ad esempio di Filolao, Callippo, Aristarco di Samo, Metone, Ennio, e così via. Vd. anche Pease, De natura deorum, pp. 658 s. Il calcolo riportato da Cicerone, di 365 e % giorni, sembra essere di origine egiziana, e molto probabilmente fu importato nel mondo greco-romano tramite Eudosso di Cnido, che visitò l'Egitto intorno al 380 a.C.; successivamente, durante il II secolo, la teoria venne perfezionata da lpparco in 365 e % giorni meno circa un trecentesimo di un giorno. A Roma fu introdot­ ta da Sosigene di Alessandria due anni prima della ste­ sura del De natura deorum: cfr. Plin. Nat. Hist. 18,211; Dio

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Cass. 43,26,1 ss.; Censorin. 20,8 ss.; etc. Cicerone, che di certo aveva la dottrina ben fresca nella sua mente, non si accorge di causare così un anacronismo con quella che è la data drammatica del dialogo. 84 Pease, De natura deorum, p. 660, osserva che Cicerone

«had here started to mention but two seasons correspon­ ding to the farthest northern and southern limits of the sun's apparent course, and then had added the two other seasons as appendages to the first two, not so strikingly related to the sun's position in the heavens». Un com­ portamento simile, in cui si rileva una subordinazione delle stagioni mediane, sembra trovarsi anche in Sen. De Ben. 4,28,1. Per inverno ed estate, cfr. già Horn. Od. 7,117 s.; Aesch. Ag. 5 s.; Aristot. Meteor. 361a12 s.; quanto inve­ ce all'anno solare costituito da quattro stagioni, la prima delle innumerevoli attestazioni sembra essere in Hipp. De Diaet. 3,68. 85 La luna era considerata dagli antichi una fonte benefica

di umidità, essenziale per la circolazione della linfa nelle piante (cfr. ad esempio Div. 2,33 s.) e salutare per gli ani­ mali (cfr. più oltre, al cap. 2,119; Plin. Nat. Hist. 1 1,71 con riferimento alle vespe). In generale, si possono aggiunge­ re Ps.-Aristot. Probl. 937b3 s.; Verg. Georg. 3,337; Plin. Nat. Hist. 2,223; Plut. Quaest. Conv. 659b s.; Bas. Hexaem. 6,10; Lyd. De Mens. 3,11. Vd. Pease, De natura deorum, pp. 664 s. 86 Cfr. Div. 1,17 (con una citazione dal poemetto De Consu­

latu suo) e 2,10; Tusc. 1,62; Rep. 1,22; e soprattutto il prece­ dente in Plat. Leg. 822a «In realtà, o miei cari, non è giusta la comune opinione secondo cui la luna, il sole e gli altri astri vanno errando: vero è anzi il contrario. Ciascuno di essi percorre con moto circolare la sua vita, non molte, ma una sola e sempre la stessa, mentre sembra che ne

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NOTE AL LIBRO SECON DO

percorra tante. Sempre per errore si ritiene inoltre che tra essi più veloce sia quello che va più lentamente e vice­ versa» (trad. italiana da Platone, Dialoghi politici e Lettere. A cura di F. Adorno, II, Torino 1988); Phil. Alex. De Decal. 103 s.; Bas. Hexaem. 6,7; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 664 s. (anche nella nota al lemma progressus et regressus). 87 Il concetto di grande anno, in altri termini catastasi o

ritorno alla fine di un ciclo accompagnato dalla palinge­ nesi, ritorna in termini assai più chiari in un noto passo del De Republica (6,24): «Infatti gli uomini volgarmente commisurano l'anno soltanto alla rivoluzione di un solo astro, del sole; ma in realtà soltanto quando tutti gli astri siano ritornati al medesimo punto, donde sono partiti, ed abbiano ricostituito a lunghi intervalli la medesima ordi­ nata disposizione di tutto il cielo, allora soltanto si può denominare veracemente quello il ritorno dell'anno; ed appena appena osa dire a quanto numerose generazioni di uomini questo corrisponda». Il concetto è pienamente stoico (con l'eccezione di Panezio, che sosteneva l'eternità del mondo), e si trova attestato per la prima volta in Plat. Tim. 39d, benché talvolta si incontrino false attribuzioni ai Pitagorici, Democrito ed Eraclito. Cfr. ancora Fin. 2,102; i vari passi dal commento di Servio all'Eneide di Virgilio, ad 1,269 e 3,284; Nemes. De Nat. Horn. 38 = Stoicorum Vete­ rum Fragmenta 2,625 von Arnim. 88 Come già indica Cicerone, sono molte le teorie in meri­

to: 30 anni sulla base della lunghezza dell'orbita di Satur­ no, 59 per Filolao, 82 per Democrito, 304 per Ipparco, 365 per Diogene di Babilonia, 440 per Varrone, 1461 per gli Egiziani, 10800 per Eraclito, e così via fino a numeri esa­ geratamente alti. Secondo Tac. Dial. 16, Cicerone, nel suo Hortensius, lo avrebbe calcolato a una quantità di 12954 anni (duodecim milia nongentos quinquaginta quattuor).

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA 0EORUM

89 La lista che segue inizia con i pianeti più distanti dalla

terra e termina con quelli più vicini: di essi l'autore for­ nisce il nome latino e il corrispettivo greco (su questo cfr. F. Curnont, Les noms des planètes et l'astrolatrie chez le Grecs, "L'antiquité classique" 4, 1935, pp. 5-43; e anche A. Bou­ ché-Leclercq, L'astrologie grecque, Paris 1899, pp. 66 ss.; F. Boli-C. Bezold-W. Gundel, Sternglaube und Sterndeutung, Berlin 19314, pp. 48 ss.). A proposito dell'ordine con cui i pianeti vengono presentati, merita un confronto con Rep. 6,17 dove Cicerone elenca nell'ordine Saturno, Giove, Marte, il sole con Venere e Mercurio, e infine la luna: cfr. Macr. Somn. Scip. 1,19,1 s. Nelle fonti antiche, in merito ai primi tre vi è sostanzialmente accordo generale (cfr. Ptol. Synt. Math. 9,1); quanto agli altri, troviamo invece qualche discrepanza: da una parte una dottrina di pro­ venienza egiziana (accolta da Pitagora, Filolao, Platone, Aristotele e Crisippo) colloca i pianeti di Venere e Mer­ curio come quarto e quinto, seguiti dal sole, dalla luna e dalla terra; dall'altra una dottrina caldea pone al centro del sistema il sole, che a sua volta è posto più lontano rispetto ai pianeti di Mercurio, Venere e la luna. Nel no­ stro passo Cicerone sembra essere debitore di Posidonio: si legga K. Reinhardt, Kosmos und Sympathie, Miinchen 1926, p. 129 n. l e Pease, De natura deorum, pp. 670 s. 90 Letteralmente è "ciò che appare, che risplende": a que­

sto proposito si confronti con Plin. Nat. Hist. 2,79 dove a ogni pianeta corrisponde un epiteto descrittivo in termi­ ni di colore e luce (Saturno è legato a candidus). 91 L'epiteto è spesso associato al sole per via del suo va­

lore "risplendente" (cfr. ad esempio Horn. Il. 11,735; Hes. Theog. 760; Soph. El. 824; Nonn. Dian. 5,81; 6,79; etc.). Non mancano, però, casi in cui lo troviamo in riferimento a costellazioni, come quella dell'Auriga, e.g. in Nonn. Dian.

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NOTE AL LIBRO SECON DO

1,355 ss., o a singoli pianeti, come il nostro Giove: cfr. Maneth. fr. Sa Miiller tòn dè Diòs tòn phaéthonta. 92 Il vocabolo vale come "infuocato". Marte è difatti il pia­

neta rosso: cfr. Hymn. Horn. 3,6; Plat. ,Rep. 10,617a; Nonn. Dian. 38,232. Vd. anche P. Boyancé, Etudes sur le songe de Scipion: Essais d'histoire et de psychologie religieuses, Paris 1936, p. 65. 93 Il significato dell'epiteto rimanda al campo semantico

del "brillare": cfr. Simplic. Cael. 2,8 Heiberg 6ti gàr kai o Ermès en tols planesi stilbei deloi

94 Il termine significa "portatore di luce'� proprio come il

calco latino Lucifer. Venere è identificata, infatti, con la stel­ la del mattino, che anticipa il sopraggiungere della luce solare: cfr. Plin. Nat. Hist. 2,37 e Diog. Laert. 8,14 (in riferi­ mento a Pitagora); Aet. Plac. 2,15,7 (in riferimento a Parme­ nide); e poi, più in generale, Catuli. Carm. 62,35; Hor. Carm. 2,9,10 ss.; Vitruv. 9,1,7; etc. J. Hubaux et M. Leroy, Le mythe du Phénix dans les littératures grecque et latine, Liège-Paris 1939, pp. 3 s., riconoscono che la cultura orientale conobbe tale associazione molto tempo prima dei Greci. 95 Hésperos fa riferimento all'aspetto notturno di Venere:

cfr. Sapph. fr. 104a; Eur. Ion 1149; etc.

96 Cicerone traduce con il termine inerrantes il greco apla­

neìs presente in Plat. Tim. 40b. Al contrario, Seneca (Nat. Quaest. 2,32,8) adopera l'aggettivo immotus. Vd. altresì Pe­ ase, De natura deorum, p. 679, nota a caelo inhaerentes e tutti i paralleli lì citati. 97 La luna rappresenta il confine tra il cosmo, che è for­

mato dall'etere e dalle sfere delle stelle fisse e dei pianeti

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LA NATURA DEGLI DEl

DE NATURA 0EORUM

(caratterizzati da ordine e costanza del movimento), e la regione sublunare, nel cui punto centrale si colloca il pianeta terra, composto dei quattro elementi, sempre soggetto al mutamento, all'irregolarità, all'imperfezio­ ne: cfr. Rep. 6,17. La visione, se diamo credito a Ps. Hip­ pol. Ref 1,4, si trova già in Eraclito ed Empedocle; è attri­ buita a Pitagora e s} sviluppò con Filolao (cfr. Aet. Plac. 2,7,7) e Aristotele. E possibile che l'influenza esercitata su Posidonio in generale sullo Stoicismo provenga dallo pseudoaristotelico De Mundo: cfr. K. Reinhardt, Poseido­ nios, Miinchen 1921, p. 246. Vd. Pease, De natura deorum, p. 682 per tutti i riferimenti letterari alla dottrina. 98 Cfr. Stoicorum Veterum Fragmenta 1,171 von Arnim. 99 Cfr. Stoicorum Veterum Fragmenta 1,172 von Arnim. 100 Sulla Pr6noia, cfr. già supra, al cap. 1,18. 101 Il testo latino presenta il grecismo monogrammos, voca­ bolo impiegato nell'ambito delle arti figurative che indica lo schizzo sul quale devono ancora essere applicati i colori. 102 Cfr. Ter. Eun. 732. 103 La personificazione di Fides risale ai tempi di Numa

(cfr. Dion. Hai. Ant. 2,75,2 e Plut. v. Num. 16,1) e, come anche leggiamo poco dopo, il suo tempio sul Capitolino fu consacrato da Attilio Calatino nel 254 o nel 250 a.C., e poi restaurato da Emilio Scauro nel 115. 104 Alla dea Mens fu dedicato un tempio dopo la sconfit­

ta sul lago Trasimeno da Otacilio Crasso nel 215 a.C.; in seguito, sempre grazie a Emilio Scauro venne restaurato nel 115 o nel 107.

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NOTE AL LIBRO SECONDO

105 Marco Emilio Scauro (163-90 a.C.) fu console nel 115 e

censore nel 109.

106 Aulo Attilio Calatino visse nel pieno del III secolo a.C.:

fu console nel 258 e nel 254, dictator nel 249, censore nel 247. Cicerone lo richiama spesso alla memoria: cfr. più oltre, al cap. 2,165; Fin. 2,116; Tusc. 1,13 e 110; etc. 1 07 Marco Marcello dedicò i templi di Virtus e Honos nel

222 a.C., durante la battaglia di Clastidio, nonostante la forte opposizione dei pontefici (cfr. Liv. 27,25,7 ss.). Già in precedenza, tuttavia, Quinto Fabio Massimo Cunctator consacrò un tempio a Honos nel 233 in seguito alla vitto­ ria sui Liguri. 1 08 Opis era dea dell'abbondanza del raccolto, moglie di

Saturno nonché madre di Giove, Giunone e Nettuno. Un tempio le fu dedicato sul Campidoglio già nel 186 a.C. (cfr. Liv. 39,22,4). 1 09 Il tempio di Salus sul Quirinale fu costruito durante la

guerra Sannita del 311 a.C., e consacrato nel 302 (cfr. Liv. 9,43,25 e 10,1,9).

110 Di templi dedicati a Concordia abbiamo svariate testimo­

nianze: si ricordano, in ordine cronologico, quello datato al 367 a.C., costruito da Camillo dopo la fine della lotta tra plebei e patrizi (cfr. Ov. Fast. 1,637 ss. e Plut. v. Camill. 42,1 ss.), quello voluto da Lucio Manlio nel 216 (cfr. Liv. 22,33,7 e 23,21,7), e un altro fatto erigere tra il Campidoglio e il Volcanale da Lucio Oimio nel 121 dopo la morte di Gaio Gracco (cfr. Cic. Pro Sext. 140 e Aug. De Civ. Dei 3,25). 111 Sempronio Gracco, padre del vincitore a Benevento, e

console nel 238 a.C., consacrò sull'Aventino un tempio in

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LA NAT U RA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

onore di Libertas (per lo sfondo storico cfr. Liv. 24,16,19). Tuttavia, Pease, De natura deorum, p. 696, ritiene che Cice­ rone stesse pensando, anche se non ne parla direttamen­ te per non creare un problema anacronistico con la data drammatica del dialogo, al santuario voluto da Clodio nella casa confiscata dell'Arpinate: cfr. Leg. 2,42 vexati no­ stri Lares familiare, in eorum sedibus exaedificatum templum Licentiae. 11 2 La dea Victoria ebbe un tempio sul Palatino nel 294 a.C.

grazie a Lucio Postumio (cfr. Liv. 10,33,9 e 29,14,13).

11 3 Per Cupido, cfr. anche più oltre, ai capp. 3,58-60. Que­

sto dio non ebbe un tempio proprio, ma venne venerato all'interno di quello della madre Venere (così per Servio nel suo commento ad Aen. 6,830). 114 Voluptas è inserita tra gli dèi massimamente dannosi

da Plaut. Bacch. 115. Varrone, in De Ling. Lat. 6,47, parla di un suo tempietto sulla Nova Via, mentre Macrobio, in Sat. 1,10,8, fa riferimento all'esistenza di un altare. 11 5 Di templi dedicati a Venere Libentina non abbiamo

alcuna attestazione; Varr. De Ling. Lat. 6,47 ricollega l'eti­ mologia dell'epiteto al campo semantico della libido. Cfr. Tommasi, Contro i pagani, p. 358 con bibliografia aggiun­ tiva. 11 6 Il canone di eroi (Ercole, Libero, i Dioscuri, Esculapio,

Romolo, e così via) presentato in questo passo è attestato anche in altri autori, cosicché gli studiosi hanno pensato alla presenza di una lista analoga nell'opera Sugli eroi d i Posidonio. Ercole era riconosciuto benefattore nei con­ fronti del genere umano e filosofo dai pensatori stoici; i Dioscuri mostravano il loro aiuto in mare e durante le

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NOTE AL LIBRO SECONDO

battaglie; Esculapio era un medico deificato; Libero era invece divinità italica, in seguito identificata con Dioniso, simbolo della forza procreatrice della natura. Per quanto riguarda infine Romolo e la sua deificazione, si potrebbe trattare o di un collegamento instaurato con la città di origine sabina di Curi (idea di G. Dumezil, Jupiter, Mars, Quirinus, Paris 1948, pp. 168 ss.), nome peraltro utilizza­ to quale attributo di Marte, di cui Romolo, secondo la leggenda, sarebbe stato figlio. A. Walde, Lateinisches ety­ mologisches Worterbuch, 1906, p. 510, pensa invece a una etimologia popolare. Per ulteriore rimandi bibliografici, vd. anche Tommasi, Contro i pagani, p. 122. 1 17 Figlio di Semele e Zeus era, in realtà, Dioniso, assimi­

lato dai Latini a Libero.

1 18 Il culto primitivo, festeggiato nei Liberalia il 17 marzo,

dedicato alla coppia Liber e Libera, fu ampliato succes­ sivamente con l'inserimento di Cerere, per far sì che si potesse creare una corrispondenza con la triade greca formata da Demetra, Dioniso e Persefone. 11 9 Non � chiaro il legame etimologico tra Liber e liber (cioè

figlio). E possibile che Cicerone abbia accettato la dipen­ denza nel caso di Libera e non di Liber poiché il femmi­ nile latino ha un equivalente nella divinità greca Kòre, mentre Liber non presenta alcun corrispettivo greco che indichi il "figlio". 1 20 Sulle interpretazioni allegoriche di Zenone, cfr. già su­

pra, al cap. 1,36 e la relativa n. 99.

1 2 1 Cfr. Stoicorum Veterum Fragmenta 1,166 ss. von Arnim. 1 22 Cfr. Stoicorum Veterum Fragmenta 2,1066 ss. von Arnim.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

123 Il mito è narrato in una sezione relativamente ampia

della Teogonia di Esiodo: si vedano dunque i vv. 159 ss. Molte, poi, le allusioni successive: cfr. ad esempio Plat. Rep. 377e; Apoll. Rhod. 4,984 ss.; Philodem. De Piet. 93 Gomperz; Apollod. Bibl. 1,1,4; etc. in Pease, De natura de­ orum, pp. 708 s. 124 All'interesse degli Stoici per l'etimologia si è già alluso

al cap. 2,7. La confutazione di tale sistema sarà operata invece da Cotta ai capp. 3,62 s. Nel dettaglio, Crisippo scrisse due opere etimologiche, rispettivamente in 7 e 4 libri. Tuttavia Cicerone sembra rivolgere lo sguardo più verso l'orientamento della scuola di Elio Stilone, che pro­ poneva di ricostruire le etimologie di parole latine da al­ tre parole latine (differentemente da Cloazio Vero che a sua volta le ricercava in quelle greche: si veda Aul. Geli. 16,12,1 ss.). Per il legame tra i termini Krònos e chrònos, troviamo un'attestazione già in Ferecide di Siro grazie a Diog. Laert. 1,119 (vd. J.-P. Vemant, Le origini del pensiero greco, trad. italiana di F. Codino, Milano 2007, p. 109; e per le attestazioni, Pease, De natura deorum, pp. 710 s.). 125 Per questa etimologia si veda Aug. De Cons. Evang. 1,34;

ma già prima, in ambito greco, Plat. Cratyl. 396b, poi ri­ preso da Plot. Enn. 5,1,4, dove leggiamo la dipendenza del nome Crono dal nesso k6ron nou (Pease, De natura deorum, p. 711, pensa che il nostro autore vi dipenda a pieno effet­ to). Per la pedofagia di Crono, cfr. Hes. Theog. 459 ss. 126 Così secondo Crisippo (Arius Did. 30) ed Ennio (Epi­

charm. 54 ss. Vahlen). Cfr. altresì Varr. De Ling. Lat. 5,67 e Apul. De Mund. 37. 127 Per questa citazione, cfr. già supra, al cap. 2,4 e la rela­

tiva n. 6.

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NOTE AL LIBRO SECON DO

1 28 Anche per questa citazione, cfr. già supra, al cap. 2,4

ma con la relativa n. 5.

1 29 La citazione è da Enn. Fab. Inc. 401 Vahlen. 13° Cicerone traduce quello che oggi corrisponde al fr. 941 Nauck di Euripide. Sul rapporto tra Cicerone e il testo di Euripide, vd. E. Malcovati, Cicerone e la poesia, Pavia 1943, pp. 69 ss.; mentre per un approfondimento ulteriore sulla conoscenza da parte di Cicerone del testo euripideo, e circa la sua applicabilità e funzionalità alla rappresen­ tazione politica della Roma di fine età repubblicana, vd. invece E. Pianezzola, Politica e poesia in Cicerone: le Fenicie di Euripide, "Ciceroniana" 5, 1984, pp. 167-172 (con biblio­ grafia ulteriore passim). 1 31 Cicerone fa riferimento a una etimologia popolare

che connette il nome di Era al suo anagramma aér. La teoria, ampiamente attestata in ambiente stoico, pare essere presente già in Parmenide ed Empedocle: cfr. Men. Rhet. 1,5. 1 32 Per questa etimologia, cfr. Varr. De Ling. Lat. 5,67 e 69;

Lact. Inst. 1,11,40 (che parla del nostro passo); Mart. Cap. 2,149. 133 Cfr. Horn. Il. 15,187 ss.; Plat. Gorg. 523a; etc.

134 Sono diverse le etimologie riportate da Varr. De Ling. Lat. 5,72 che propone nuptus, e da Isid. Etym. 6,11,38 che invece ricollega il nome a quasi nube tonans. 135 Potrebbe derivare tanto da "porta" quanto da "porto'�

essendo i due termini etimologicamente indistinti. Vd. Pease, De natura deorum, p. 719.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

136 Balbo ragiona in questi termini: se Dis sta a dives, al­

lora Plouton sta a ploutos. Cfr. Plat. Cratyl. 403a e Iambl. v. Pyth. 122 s.

137 Il testo dei manoscritti principali della tradizione è

corrotto. Pertanto Baiter propone di emendare con cui (congettura che peraltro è accolta da Cal­ cante, La natura divina, p. 210); mentre Reitzenstein con cui . 138 Per la leggenda, si può rimandare a 2 Verr. 4,106 e al

secondo Inno Omerico. Una ripresa tardoantica del mito è nel De Raptu Proserpinae di Claudiano. 139 Per l'etimologia di Cerere da gerere, cfr. già Enn. Epi­

charm. 50 Vahlen (in Varr. De Ling. Lat. 5,64). Quanto in­ vece a ghé méter, cfr. invece Diod. Sic. 1,12,4. 140 Un'etimologia differente è data da Varrone in De Ling.

Lat. 5,73 dove si dice che Mars ab eo quod maribus in bello praeest. 141 La ricostruzione etimologica proposta per il nome di

Minerva si concentra sulle qualità militari della dea piut­ tosto che su quelle della mente (cfr. Cornut. 20). 142 Un'altra etimologia si rintraccia in Ov. Fast. 1,125 ss.,

dove Ianus è collegato a ianua, cioè "porta": Giano custo­ diva infatti gli ingressi degli edifici. 143 Così anche in Leg. 2,29 e Serv. Aen. 1,292. Gli studiosi

moderni però preferiscono non accettare questa etimolo­ gia, vedendo nel greco una derivazione da èzo, cioè "se­ dersi'� o da ìstemi, "stare" (cfr. Ov. Fast. 6,299).

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NOTE AL LIBRO SECONDO

144 Un altro filone fa derivare il nome da penes, "presso':

mettendo in evidenza l'importanza dei Penati per la pro­ tezione della casa: cfr. Plaut. Trin. 733. 145 L'identificazione di Apollo con il sole è antica e larga­

mente attestata: cfr. ad esempio Eur. fr. 781,11 ss. Nauck e Plat. Crat. 405d s. In particolar modo, è frequente nel pensiero stoico: cfr. Stoicorum Veterum Fragmenta 3,33 von Arnim, e Pease, De natura deorum, p. 727. 146 Diana e la luce notturna sono associate fin da Aesch.

fr. 170 Radt.

1 47 Tanto il nome della luna quanto quello di Lucina sono riconducibili al verbo lucere, cioè "risplendere": cfr. Varr. De Ling. Lat. 5,68. Lucina, tuttavia, è adoperato di norma come epiteto di Giunone, protettrice di quanti vengono alla luce; il trasferimento su Diana deriva probabilmente da un sincretismo con la dea Ilitia, anch'essa protrettrice del parto. 148 Cicerone si riferisce al numero totale formato dai cin­

que pianeti, dal sole e dalla luna. L'epiteto omnivaga ritor­ na anche in Or. Sat. 1,8,21 e Verg. Aen. 1,742 in riferimen­ to, però, alla luna. 149 Timeo di Tauromenium (oggi l'attuale Taormina) fu

uno storico di età ellenistica, vissuto nel III a.C., di tenden­ ze fortemente alessandrine, scrisse una Storia della Sicilia duramente criticata da Polibio nel dodicesimo libro della sua opera (si leggano, in particolare, i capp. 3 28). Vd. R. Vattuone, Sapienza d'Occidente. Il pensiero storico di Timeo di Tauromenio, Bologna 1991 e C.A. Baron, Timaeus of Tauro­ menium and Hellenistic Historiography, Cambridge 2012. -

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

1 50 Il riferimento è al noto incendio doloso appiccato da

Erostrato, che compì l'atto per acquistarsi fama eterna presso gli uomini: la narrazione dei fatti, accaduti il 21 luglio del 367 a.C., è in Plut. v. Alex. 3,3. 1 51 Cfr. anche più oltre, al cap. 3,62 e Arnob. 3,33. L'etimo­

logia antica non ha molta consistenza, in quanto Venere appare piuttosto legata alla radice indoeuropea wen, che esprime idea di desiderio e di aspirazione (ornoradicale è il verbo venor, cioè "andare a caccia di"). Vd. anche R. Schilling, La religion romaine de Vénus depuis les origines jusqu'au temps d'Auguste, Paris 1954, 1 52 La lettura di Philodern. De Piet. 17 s. Gornperz rive­

la, in realtà, che gli Stoici non assegnavano alcuna forma agli dèi. Cfr. anche Lact. De Ira 18,13 Stoici negent habere ullam formam deum. 1 53 Cfr. ad esempio Horn. Il. 4,7 ss.; 8,10 ss.; 20,67 ss.; 20,23

ss.; 20,67 ss.

1 54 I Titani, figli di Urano e Gea, furono impegnati pri­

ma nella lotta contro il padre, poi contro Crono e infi­ ne contro Giove nella cosiddetta Titanornachia. Furono introdotti per la prima volta in poesia da Ornero, e in seguito vennero interpretati allegoricamente dagli Stoici e ridicolizzati dagli Epicurei. 1 55 I Giganti nacquero dal sangue di Urano caduto sulla

Terra: sfidarono il cielo, ma gli dèi, aiutati da Ercole, li distrussero seppellendoli sotto i vulcani. 1 56 Pensiero già espresso supra, al cap. 1,3. Cfr. ancora Leg.

2,24; e poi Eur. fr. 946 Nauck; Xen. Mem. 1,3,3; Hor. Carm. 3,23,17 ss.; Sen. Epist. 95,50.

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NOTE AL LIBRO SECON DO

157 Per questo legame etimologico cfr. anche Aug. De Civ.

Dei 10,3 e Retrnct. 1,13,9; Isid. Etym. 8,2,2.

158 Cioè "scegliere". 159 Cioè "prendersi cura". 1 6° Cioè "capire". 1 61 Su questa immagine, cfr. già supra, al cap. 1,18 e la re­

lativa n. 54.

1 62 L'Areopago era il nome del severissimo tribunale ate­

niese composto dai cittadini più illustri (coloro che rive­ stirono la carica di arcontato), che a partire dal V secolo vide sempre più ridotti i propri poteri alla giurisdizione sui soli delitti di sangue. 1 63 Epicuro e i suoi seguaci erano stati oggetto di biasimo

simile già ai capp. 1,58, 72, 85 e 89.

1 64 La distinzione operata in questo passo appare piutto­

sto inusuale, in quanto Lucrezio usa indistintamente sia simulacra che imagines, termini che qui Cicerone riferisce rispettivamente a Democrito e a Epicuro. 1 65 Sulla presenza di ratio negli dèi, cfr. già supra, al cap.

2,54; e più oltre a 2,133 e 3,38. ?i vedano anche Leg. 1,23; Sen. Epist. 66,12; M.O. Liscu, Etude sur la langue de la philosophie morale chez Cicéron, Paris 1930, specialmente pp. 131 ss. per gli usi di l6gos. 1 66 Per queste divinità, cfr. già supra, al cap. 2,61 e le rela­

tive nn. 103 ss.

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LA NATURA DEGLI DEl

DE NATURA DEORUM

1 67 Un parallelo per questo si rintraccia in Sext. Emp. Adv.

Phys. 1,333: «Epicuro, invece, suole chiamare indifferen­ temente "intero" e "tutto" la natura dei corpi e quella del vuoto: egli, infatti, asserisce talore che "la natura delle intere cose s'identifica con corpi e vuoto'� talora, invece, che il tutto è infinito sotto entrambi i profili: sotto quello dei corpi e sotto quello del vuoto - vale a dire secondo il numero dei corpi e secondo la grandezza del vuoto, quantunque l'infinità dell'uno sia in contrasto con quella dell'altra» (trad. italiana da Sesto Empirico, Contro i fisici. Contro i moralisti. Introduzione di G. lndelli, traduzione e note di A. Russo, Roma-Bari 1990). 1 68 Cicerone traduce con la perifrasi quaeque iis accidant il

termine greco symptòmata (o symbebekòta) adoperato da Epicuro (cfr. Diog. Laert. 10,40 e 68 ss.; Sext. Emp. Adv. Phys. 2,221 ss). 1 69 Diogene di Apollonia sembra essere stato il primo

ad aver attribuito all'aer una vera e propria capacità di provare delle sensazioni: cfr. Theophr. De Sens. 1,39 s. Il pensiero è altresì largamente presente in ambito stoico: cfr. ad esempio Stoicorum Veterum Fragmenta 2,863 ss. von Arnim; Aet. Plac. 4,15,3; Diog. Laert. 7,157 s. 1 70 Il concetto è assimilabile alla dottrina del flusso degli

elementi teorizzata dai filosofi ionici (si può confrontare con i frammenti 9 e 16 Diels-Kranz di Anassimandro e Anassagora) e da Eraclito (cfr. fr. 76 Diels-Kranz). Cfr. an­ cora supra, al cap. 1,39 e più oltre a 3,31. 1 71 Su questo punto è doveroso un confronto con Sen. De

Prov. 1,5,9 dove leggiamo che «l'artista non è in grado di mutare la materia», o Epist. 58,27 «cose che al dio non fu possibile rendere immortali, in quanto la materia lo

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NOTE AL LIBRO SECON DO

impediva». Vd. anche Pease, De natura deorum, pp. 761 s. e la nota di G. Viansino nel suo Lucio Anneo Seneca, I Dialoghi: Della provvidenza, Della costanza del saggio, Dell'i­ ra, l, Milano 1992, p. 371: «Le manchevolezze sono attri­ buite alla materia, che, del resto, per manifestarsi nella forma voluta doveva manifestarsi proprio con queste de­ bolezze; ed il "creatore-artista" ha dovuto accettare certi inconvenienti della materia, che però non inficiano le fi­ nalità perfette della sua creazione». 1 72 I riferimenti geografici alla Scizia e alla Britannia sono

adoperati da Cicerone come evidenti exempla con il fine di indicare dei luoghi assai remoti, barbari e incolti. Con la voce sphaera si farebbe riferimento, invece, a una sor­ ta di planetario che forse l'autore aveva visto durante il suo soggiorno a Rodi. Con ogni probabilità tale oggetto era molto simile a quello ideato da Archimede. Per una descrizione dettagliata dello strumento, si confronti con Rep. 1,21 s.: «Ma pur avendo sentito spessissimo fare il nome di questo planetario, non ne ammirai poi eccessi­ vamente l'aspetto; ché più bello e più noto era quello che, costruito dallo stesso Archimede, quel medesimo Mar­ cello aveva lasciato al tempio della Virtù. [...] Ma questo tipo di sfera, in cui fossero riprodotti i movimenti del sole e della luna e di quei cinque pianeti che sono detti mobi­ li e in certo senso vaganti, non poteva essere incluso in quella sfera massiccia, e appunto per questo l'invenzione di Archimede era ammirevole, per aver trovato il modo in cui una sola rotazione mantenesse, malgrado movi­ menti disparatissimi, corsi svariati e diseguali. Quando Gallo metteva in movimento questa sfera accadeva che la luna succedesse al sole su quel bronzo come per i giorni in cielo, per il che si verificava anche sulla sfera quella medesima scomparsa del sole e la luna entrava in quel cono formato dall'ombra della terra quando il sole dalla

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LA NAT U RA DEGLI DEl

DE NATURA DEORUM

regione ... » (il passo si interrompe per una corruttela mec­ canica che accomuna i codici della tradizione manoscrit­ ta). Altri numerosi paralleli in Pease, De natura deorum, pp. 766 ss. 1 73 Lucio Accio (ca. 170-85 a.C.), di Pesaro, fu un noto tra­

gediografo, generato da liberti e poi appartenente all'ari­ stocrazia tradizionalista e conservatrice. Letterato di tipo alessandrino, oltre alla poesia, coltivò anche interessi po­ litici, ereditando la tradizione enniana. Della sua produ­ zione ci rimangono 45 titoli e numerosi frammenti. Per un profilo e una bibliografia, vd. la voce a esso dedicata da R. Degl'Innocenti Pierini, in Enciclopedia Oraziana 1, 1996, pp. 618 s. Quanto invece al frammento riportato di seguito, preservato dal solo Cicerone, si veda, sempre da parte della stessa studiosa, l'analisi offerta nell'articolo L'apparizione di Argo nella Medea di Accio. Storia e fortuna di una scena mitica, "Quaderni di cultura e di tradizione classica" 11, 1995, pp. 45-60. Per Accio in Cicerone 1 74 Cfr. Ace. Med. 391 ss. Ribbeck. 1 75 Cfr. Ace. Med. 403 s. Ribbeck. 1 76 Cfr. Ace. Med. 405 s. Ribbeck. Silvano era una d ivinità

italica dei boschi, equivalente al greco Pan.

1 77 Ad esclusione di Aristarco, pioniere e sostenitore del­

la teoria eliocentrica, la visione geocentrica era accolta dalla totalità dei pensatori antichi: per Cicerone, si veda già supra, al cap. 1,103 e più oltre, ai capp. 2,98 e 116; Tusc. 1,40. 1 78 Marco Pacuvio (220-130 a.C.), nato a Brindisi, giunse a

Roma ancora giovane e venne introdotto negli a mbienti

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NOTE AL LIBRO SECON DO

aristocratici grazie allo zio Ennio il tragediografo. Della sua produzione possediamo 12 titoli e circa 400 versi in frammenti. Per la sua presenza in Cicerone, vd. A. Tra­ glia, Pacuvio nella critica storico-letteraria di Cicerone, "Cice­ roniana" 5, 1984, pp. 55-67. 1 79 Cfr. Pacuv. Chryses 90 Ribbeck. 1 8° Cfr. Pacuv. Fab. Inc. 364 Ribbeck. 1 8 1 L'alfabeto latino si componeva dei seguenti grafemi:

ABCDEFGHIKLMNOPQRSTVX. Non c'era distinzione grafica tra U e V e inoltre si utilizzavano, extra alphabetum, Y e Z solo per la traslitterazione di parole greche. Solo in età rinascimentale i segni U e V entrarono nell'uso, se­ gnatamente a opera del calvinista Pierre de La Ramée (Petrus Ramus, sec. XVI), da cui presero il nome di let­ tere ramiste. Cfr. A. Traina e G.B. Perini, Propedeutica al latino universitario, Bologna 2007', pp. 51 ss. 1 82 Cicerone si riferisce ai caratteri mobili, generalmente

in avorio o oro, adoperati dai maestri nell'insegnamen­ to: cfr. Quint. Inst. 1,1,25 s. e Hier. Epist. 104,4. Su questa linea si veda anche R. Cribiore, Gymnastics of the Mind: Greek Education in Hellenistic and Roman Egypt, Princeton 2001, p. 165. Il paragone tra lettere e atomi si ritrova an­ che in Lucr. 1,196 ss. 183 A coniare il vocabolo greco è Platone in Theaet. 182a,

sulla base del quale Cicerone crea qualitas in Ac. 1,24 s. (su cui vd. Reid, Academica, p. 117).

1 84 Il passo corrisponde ad Aristot. fr. 12 Rose. L'opera cui

il frammento deve essere ricondotto è il De Philosophia, in cui si ravvisa una forte influenza della filosofia platonica:

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

l'immagine degli uomini che vivono sotto terra e che successivamente ascendono alla visione del mondo può essere comparabile infatti al celebre mito della caverna raccontato in Rep. 514a ss. Vd. Pease, De natura deorum, pp. 783 s. per altri paralleli classici e una discussione più approfondita sulla questione. 1 84 Vista la data drammatica in cui si immagina il dialogo,

l'eruzione dell'Etna qui menzionata non può corrispon­ dere a quella accaduta nel 44 a.C., rammentata anche da Virgilio (Geprg. 1,471 ss.): si tratterebbe, difatti, di un anacronismo. E ben più prudente pensare che Cicerone alluda all'eruzione dell'anno 122, simile nella tipologia a quella vesuviana descritta da Plinio. Per la ricostruzione, vd. P.D. Del Carlo, M. Coltelli, L. Vezzoli, Discovery of a plinian basaltic eruption of Roman age at Aetna volcano, "Ita­ lian Geology" 26, 1998, pp. 1095-1098. 1 86 È difficile scindere il pensiero dall'abitudine degli oc­

chi. Il locus è tritus: cfr. ad esempio Tusc. 1,38; Div. 2,49; Fin. 4,74; Caes. Bell. Civ. 2,4,4; Lucr. 2,1028 ss.; Sen. Nat. Quaest. 7,1,1 ss.; Plotin. 4,4,37. 1 87 Cioè i giacimenti di minerali, menzionati di nuovo an­

che più oltre al cap. 2,151.

1 88 L'attribuzione di caratteri e sentimenti alla natura, o a

parti di essa, è presente molte volte nella letteratura anti­ ca, sia greco-romana sia giudaica: cfr. ad esempio Verg. Eclog. 4,50 ss., dove il poeta pone l'accento sulla gioia che pervade la natura all'arrivo della nuova età aurea, e Ps. 95,11 ss. in cui si legge: «gioiscano i cieli, esulti la terra, fre­ ma il mare e quanto racchiude; esultino i campi e quanto contengono, si rallegrino gli alberi della foresta davanti al Signore che viene, perché viene a giudicare la terra».

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NOTE AL LIBRO SECONDO

189 La misura della luna fu oggetto di analisi già al tempo

di Talete di Mileto (cfr. Diog. Laert. 1,24). Numerosissime sono le teorie posteriori che ci sono pervenute: Parme­ nide riteneva che la luna fosse grande come il sole (cfr. Aet. Plac. 2,26,2), secondo Olimpiodoro sarebbe stata 49 volte inferiore alla terra (cfr. in Meteor. 1,3), mentre per gli Stoici sarebbe stata più grande della terra (cfr. Aet. Plac. 2,26,1). 1 90 Sono le stesse costellazioni che oggi conservano i

nomi dati dagli astronomi sulla base del loro legame con forme animali (si intende, naturalmente, sotto il punto di vista della forma con cui appaiono all'occhio degli uomini). Si leggano, in aggiunta al nostro passo, Vitruv. 9,5,4; Plin. Nat. Hist. 2,7 s.; Vitruv. 9,5,4; Sext. Emp. Adv. Astrol. 97. 1 91 Arato di Soli (ca. 315-240 a.C.) è stato uno dei principali

esponenti della poesia greca si età ellenistica. Studiò ad Atene, fu discepolo di Zenone, in seguito visse presso la corte del re Antigono Gonata di Macedonia, cui de­ dicò la trasposizione in 1154 versi esametrici dell'opera astronomica di Eudosso di Cnido (così in Rep. 1,22). L'o­ pera, di chiara impostazione didattica e retorica piutto­ sto che scientifica, è suddivisa, come già si riconosceva in epoca antica, in due sezioni: i Phaenomena (vv. 1-732) e i Prognostica (vv. 733-1154). Essa divenne molto popolare e godette di numerosi commenti e rifacimenti posteriori bizantini e medioevali, e anche di svariate traduzioni in lingua latina (e araba), tra cui, appunto, quella appron­ tata dal nostro Cicerone, che tra le altre è senz'altro la più celebre e influente. Per un panorama sulla struttura del poema, le sue finalità e la sua fortuna, vd. Pease, De natura deorum, pp. 802 s. e, molto più recentemente, A. Santoni, I Fenomeni di Arato e i Catasterismi di Eratostene

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LA NATURA DEGLI DEl

DE NATURA DEORUM

nelle illustrazioni del manoscritto Vat. gr. 1087, in: AA.VV., Antiche stelle a Bisanzio. Il codice Vaticano greco 1087. A cura di F. Guidetti e A. Santoni, Pisa 2013, pp. 91-192. 1 92 È piuttosto problematica la datazione precisa dell'im­

presa ciceroniana di tradurre il testo di Arato: accettiamo qui la datazione degli Aratea al 90/89 a.C. e dei Prognostica al 60 a.C., cioè, nell'ordine, la prima e la seconda parte del poemetto di Arato (su cui si veda la n. precedente), secondo la ricostruzione precisa e molto ben documen­ tata operata da D. Pellacani nel suo Cicerone, Aratea e Prognostica. Introduzione, traduzione e note di D.P., Pisa 2015, pp. 8 ss., cui rimando anche passim per il commento ai singoli frammenti. Per i nomi dei singoli corpi celesti, vd. C. Bishop, Naming the Roman Stars: Constellation Ety­ mologies in Cicero's Aratea and De natura deorum, "The Classica! Quarterly" 66/1, 2016, pp. 155-171. 1 93 Cfr. fr. 3 Buescu (= Arat. 19 s.). 1 94 Cfr. fr. 4 Buescu (= Arat. 24). 1 95 Cfr. fr. 6 Buescu (= Arat. 36 s.). 1 96 Cfr. fr. 5 Buescu (il verso non trova corrispondenza

alcuna nel poema di Arato).

1 97 Cfr. fr. 7 Buescu (= Arat. 39 ss.). 1 98 Cfr. fr. 8 Buescu (= Arat. 45 ss.). 1 99 Cfr. fr. 9 Buescu (= Arat. 54 ss.). 20 ° Cfr. fr. 10,1 Buescu (= Arat. 61 s.). 201 Cfr. fr. 10,2 Buescu (= Arat. 63 ss.).

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NOTE AL LIBRO SECONDO

202 Cfr. fr. 11 Buescu (= Arat. 66 s.). 203 Cfr. fr. 12 Buescu (= Arat. 71 ss.). 204 Cfr. fr. 13 Buescu (= Arat. 74 ss.). 205 Cfr. fr. 14 Buescu (= Arat. 82 ss.). 206 Cfr. fr. 15,1 s. Buescu (= Arat. 91 ss.). 207 Cfr. fr. 15,3 s. Buescu (= Arat. 94 s.). 208 Cfr. fr. 15,6 Buescu (= Arat. 97). 209 Cfr. fr. 21 Buescu (= Arat. 147 s.). 21 ° Cfr. fr. 23 Buescu (= Arat. 156 ss.). 211 Cfr. fr. 24 Buescu (= Arat. 165 s.). 212 Cfr. fr. 26 Buescu (= Arat. 167 s.). 21 3 Cfr. fr. 27 Buescu (= Arat. 172 ss.). 214 Sus significa "maiale': imber "pioggia". 21 5 Cfr. fr. 28 Buescu (= Arat. 182). 216 Cfr. fr. 29 Buescu (= Arat. 188 s.). 217 Cfr. fr. 30 Buescu (= Arat. 197 s.). 218 Cfr. fr. 31 Buescu (= Arat. 205 ss.). 21 9 Cfr. fr. 32 Buescu (= Arat. 225).

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

22° Cicerone omette la descrizione del Triangolo presente

in Arat. 233 ss., proseguendo direttamente con Phaenom. 12 s. (= Arat. 240 s.).

221 Cfr. Phaenom. 20 ss. (= Arat. 248 ss.). 222 Cfr. Phaenom. 27 (= Arat. 254 s.). 223 Cfr. Phaenom. 28 (= Arat. 255 s.). 224 Cfr. Phaenom. 42 (= Arat. 268 ss.). 225 Cfr. Phaenom. 47 (= Arat. 275). 226 Cfr. Phaenom. 58 ss. (= Arat. 285 s.). 227 Cfr. Phaenom. 76 ss. (= Arat. 304 s.). 228 Cfr. Phaenom. 85 ss. (= Arat. 312 ss.). 229 Cfr. Phaenom. 102 (= Arat. 322 s.). 23° Cfr. Phaenom. 108 (= Arat. 326 s.). 231 Cfr. Phaenom. 126 (= Arat. 342 s.). 232 Cfr. Phaenom. 143 (= Arat. 356 ss.). 233 Cfr. Phaenom. 150-151 (= Arat. 362 s.). 234 Cfr. Phaenom. 183-184 (= Arat. 402 s.). 235 Cfr. Phaenom. 209-212 (= Arat. 437 ss.). 236 Cfr. Phaenom. 213-214 (= Arat. 443 ss.).

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NOTE AL LIBRO SECONDO

237 Cfr. Phaenom. 219-222 (= Arat. 448 ss.). 23 8 M. Pohlenz, nella voce Panaitios, in Pauly-Wissowa 18,

1949, coll. 418-440, col. 431, suddivisa in questo modo la porzione di testo che si estende dal cap. 115 al cap. 153: capp. 115 ss. struttura del cosmo; capp. 120 ss. piante e animali; capp. 127 ss. preservazione delle specie; capp. 134 ss. struttura del corpo; capp. 140 ss. qualità umane fisiche e mentali; capp. 151 ss. utilizzi dell'uomo dei doni della natura.

239 Pease, De natura deorum, p. 840 s. rimanda a Leg. 2,16;

Sext. Emp. Adv. Log. 92; Min. Fel. 17,6 (che ricalca il passo in esame). 240 È dibattuta la fonte adoperata da Cicerone in questo

e nel successivo capitolo: L Heinemann, Poseidonios Me­ taphysische Schriften, II, Breslau 1928, pp. 194 ss., pensa a Panezio, mentre secondo K. Reinhardt, Poseidonios, Miinchen 1921, pp. 248 ss., l'autore farebbe riferimento a Posidonio. 241 La deduzione presente in questo passo della sfericità

della terra, basata sulla sfericità dell'universo è da ricon­ durre a Posidonio (cfr. Cleom. 1,1,9). Tuttavia, la prima definizione del pianeta terra come sferico è di difficile identificazione, poiché le fonti non sempre sono unanimi nel condividere le informazioni. La dossografia parla di Talete (cfr. Aet. Plac. 3,10,1), Parmenide (cfr. Diog. Laert. 9,21) o Pitagora (cfr. Diog. Laert. 8,48); tuttavia un vero e proprio sviluppo della teoria sembra ravvisarsi con cer­ tezza soltanto a partire da una età di poco precedente a Platone, forse grazie alla scuola pitagorica: per la teoria in generale, cfr. Plat. Tim. 40b; Aristot. De Caelo 298a18 s.; Censor. fr. 4,1; etc.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

242 R. Philippson, Verfasser und Abfassungszeit der sogenan­

nten Hippokratesbriefe, "Rhienisches Museum fiir Philolo­ gie" 77, 1928, pp. 292-328, p. 301, pensa che Cicerone stia rendendo, mediante l'espressione latina vitalem et saluta­ rem spiritum, il concetto greco di pneyma zotikòn caratte­ ristico della scuola ippocratica (cfr. Galen. De Puls. Diff. 4,10). Tale espressione è presente anche nella letteratura giudaica, cioè nella Sapienza di Salomone (15,11), dove in­ dica lo spirito vitale infuso nell'uomo da Dio al momento dell'atto creativo. 243 Cfr. supra, al cap. 2,47. 244 Panezio di Rodi (ca. 180-110 a.C.) fu il primo rappre­

sentante del medio Stoicismo (a noi noto grazie al De Of ficiis ciceroniano), e tentò di mitigare il rigidissimo dog­ matismo proprio del pensiero stoico con l'inserimento di elementi civili, sociali e politici inerenti la sfera della vita pratica. In questo passo viene evidenziato il suo rigetto nei confronti della teoria, sempre stoica, della conflagra­ zione cosmica, di cui Cicerone parla subito dopo (vd. an­ che la n. seguente). 245 Sulla dottrina della conflagrazione, si leggano almeno

Stoicorum Veterum Fragmenta 1,106 ss. e 497 von Arnim (quest'ultimo in particolare, attribuito a Cleante): «Con­ sumatasi ogni cosa nel fuoco, la parte centrale della mas­ sa è la prima a consolidarsi, poi si raffreddano le parti vicine a questa via via per l'universo. Quando tutto que­ sto nucleo è passato in acqua, la parte estrema di fuoco, per effetto della forza opponentesi della parte mediana, innesca nuovamente un'azione contraria; e così - dicono - il nucleo si orienta verso l'alto, di dilata e comincia a ordinare l'universo. Percorrendo sempre lo stesso ciclo e ricostituendo il medesimo ordine, la tensione della so-

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NOTE AL LIBRO SECONDO

stanza del tutto non si allenta mai. E come le parti di un essere organico si generano tutte dai medesimi semi nei tempi dovuti, così pure nei tempi dovuti si generano le parti del tutto, fra le quali si dà il caso che ci siano anche gli animali e i vegetali. E come alcune ragioni delle par­ ti, confluendo nei semi si mescolano e poi di nuovo di dividono formando le parti, così dall'unità scaturiscono tutte le cose, e da tutte le cose scaturisce l'unità, attuan­ dosi armonicamente il ciclo secondo una regola» (trad. italiana da Stoici antichi, Tutti i frammenti raccolti da H. von Arnim. Introduzione, traduzione, note e apparati a cura di R. Radice, Milano 2002). Vd. inoltre Pease, De na­ tura deorum, pp. 848 s., e molto più recentemente, con un buon bilancio sulle fonti e sulla letteratura secondaria, E. Vimercati, Il mediostoicismo di Panezio. Presentazione di R. Radice, Milano 2002. 246 L'armonia musicale e il movimento dei pianeti sono al

centro del dibattito che leggiamo in Rep. 6,18: «Mirando io stupito tutto ciò, appena mi riebbi, "Che cosa è'� dissi, "que­ sto dolce suono così sonoro e piacevole che riempie le mie orecchie?" "Questo'� egli disse, "è il suono che, scandito da intervalli non equidistanti, ma pure ragionevolmente distinti con determinati rapporti, è originato dall'impulso e dal movimento delle sfere stesse, e, fondendo armonica­ mente i toni acuti con quelli gravi, determina accordi varii eppur armoniosi; difatti movimenti così grandi non pos­ sono compiersi in silenzio, e la loro natura comporta che gli estremi da una parte suonino gravi, e dall'altra acuti. Per questo motivo quella più alta orbita stellata del cielo, la cui rotazione è più veloce, si muove ad un suono acuto e vibrante, ad uno bassissimo invece quest'orbita più bassa della luna; e la terra, che viene nona, restando immobile in una sola sede sempre sta ferma occupando il luogo cen­ trale dell'universo. Quelle otto orbite poi, tra le quali due

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hanno lo stesso tono, determinato sette toni distinti da in­ tervalli, e questo numero è per così dire il nodo di tutte le cose; i dotti imitando queste armonie con gli strumenti a corda e col canto si aprirono il ritorno a questo luogo, così come altri, che con eccezionale genio coltivarono nella loro vita umana gli studi delle scienze celesti». Sulla que­ stione, in generale, cfr. anche M.P.R. Coleman, Cicero and the Music of the Spheres, "Classica! Joumal" 45, 1950, pp. 237-241. Il vocabolo qui impiegato, concentus, appartiene al less�co musicale: cfr. Fin. 4,75; Off. 1,145; Leg. 1,21; P. Boyan­ cé, Etudes sur le songe de Scipion: Essais d'histoire et de psychologie religieuses, Paris 1936, pp. 91 ss.; e, per uno sguardo volto anche al periodo rinascimentale, C. Santa­ relli, «La rota che tu sempiterni». Musica e danza delle sfere nella cultura visiva fiorentina del Quattrocento, "Gli spazi del­ la musica" 4/1, 2015, pp. 39-65. 247 M. van den Bruwaene, La théologie de Cicéron, Louvain

1937, p. 120, confronta i capp. 2,120 ss. con Tusc. 5,37 s., postulando la dipendenza di entrambi da Panezio, a sua volta influenzato dalla dottrina aristotelica. 248 Il testo latino edito da Pease si presenta così: quin etiam

a caulibus [brassicis], si propter sati sint, ut a pestiferis et no­ centibus refugere dicuntur nec eos ulla ex parte contingere, dove brassicis dei codd. APVB, corretto in brassicisque dai codici deteriori e in brassicae da Plasberg, è da conside­ rare, con il codice O e Mayor, come una glossa a caulibus (vd. Pease, De natura deorum, p. 853 per una discussione più approfondita). Quanto all'avversione delle viti nei confronti dei cavoli, si vedano Theophr. Hist. Plant. 4,16,6 e Varr. Res Rust. 1,16,6. 249 Una classificazione simile trova riscontro in Aristot.

Hist. Anim. 487b6 ss.

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NOTE AL LIBRO SECONDO

25° Cicerone intende, naturalmente, la proboscide. Un

paragone analogo si legge in Aristot. Part. Anim. 658b33 ss.: «L'elefante ha questa parte più caratterizzata che ogni altro animale: il suo naso è infatti eccezionale per gran­ dezza e potenza. Servendosene come di una mano, è col naso che porta alla bocca il cibo, sia solido sia liquido, e avvolgendolo intorno agli alberi li sradica; lo usa in­ somma proprio come se fosse una mano» (trad. italiana da Aristotele, Opere Biologiche. A cura di D. Lanza e M. Vegetti, Torino 1971). 251 Cicerone fa netta distinzione tra i ragni che tessono le

tele e quelli che si nascondono nelle tane (Pease, De natu­ ra deorum, p. 862 a proposito delle famiglie degli aracnidi dei Lycosidae e dei Mygalomorphae). 252 Con il termine pina si identifica un genere di mollusco

conchifero, cui è attaccato un piccolo gambero parassi­ ta che vi trova protezione e cibo. Gli antichi pensavano che tra i due ci fosse una specie di patto di collaborazio­ ne, cfr. Plin. Nat. Hist. 9,142: «Al genere delle conchiglie appartiene anche la pinna. Nasce nei luoghi fangosi, sta sempre diritta e non è mai senza un compagno, che alcu­ ni chiamano pinnottere, altri pinnofilace. E una piccola squilla, o altrimenti un granchio che fa da parassita. La pinna si apre, offrendo dall'interno ai pesci minuti il suo corpo, privo di occhi. Subito essi vi si lanciano dentro e, con audacia tanto maggiore in quanto possono fare ciò liberamente, la riempiono. Avendo spiato questo momen­ to, l'altro animale che svolge la funzione di vedetta glielo indica con un leggero morso. Essa, comprimendosi, uc­ cide tutto quello che ha racchiuso e ne assegna una par­ te al socio» (trad. italiana da Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, II, Antropologia e Zoologia, Libri 7-11. Tradu­ zioni e note di A. Borghini, E. Giannarelli, A. Marcone,

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G. Ranucci, Torino 1983); e inoltre Aristot. Hist. Anim . 547b; Plut. De Soll. Anim. 980a s.; Athen. Deipn. 3,89c s.; Opp. Anaz. Hal. 2,186 ss. Vd. infine Pease, De natura dea­ rum, pp. 862 s. 253 L'autoconservazione costituisce la prima legge natura­

le che regola la vita sulla terra: cfr. Fin. 3,16 ss. e 4,16 ss.; Aristot. Part. Anim. 652b6 s.; Diod. Sic. 2,50,7; Boeth. Cons. Phil. 2, pros. 11; etc.

254 Nel testo latino si legge la forma platalea, che sembra

non comparire altrove; Plinio invece, in Nat. Hist. 10,115 (che legge Cicerone), utilizza platea. Probabilmente biso­ gna identificare l'animale in questione con il pellicano: Aristot. Hist. Anim. 614b gli attribuisce la seconda carat­ teristica qui riferita. 255 Secondo Pease, De natura deorum, p. 868 la rana pe­

scatrice, Lophius piscatorius, è più un pesce che una rana . Qualche antica descrizione di essa ci rimane presso Aristot. Hist. Anim. 620b13-19; Plin. Nat. Hist. 9,143; Opp. Anaz. Hal. 2,86 ss. 256 Cfr. Aristot. Nat. Hist. 608b19 ss. 257 La maggior parte delle informazioni presenti in que­

sta sezione, come si è potuto già vedere, sono riprese da Aristotele, non direttamente, ma forse attraverso la me­ diazione di Panezio o Posidonio (così M. van den Bruwa­ ene, La théologie de Ciceron, Louvain 1937, p. 111).

258 Nelle opere integrali di Aristotele non ci sono passi in

cui si parla delle formazioni di volo triangolari tipiche delle gru. Il passo in esame è inserito da Rose nella sua edizione dei frammenti di Aristotele (jr. 342, secondo lui

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NOTE AL LIBRO SECON DO

da ricondurre al perduto De Avibus). Sul motivo, cfr. Plin. Nat. Hist. 10,63; Plut. De Soll. Anim. 967b; Ael. Nat. Hist. 3,13; Ambr. Hexaem. 5,51; Greg. Naz. Or. 28,25; etc. 259 Cfr. Aristot. Hist. Anim. 594a29 e 612a; Plin. Nat. Hist.

29,58.

26° Cfr. Plin. Nat. Hist. 8,97; Ael. Nat. Anim. 2,35. 261 Cfr. Aristot. Hist. Anim. 612a7 s.; Plin. Nat. Hist. 8,100. 262 Il dictamnus (da Diete, un monte dell'isola di Creta) era

una pianta utilizzata per lo più a scopo medico: delle sue proprietà curative ci parla Aristot. Hist. Anim. 612a2 ss. Cfr. anche Verg. Aen. 12,411 ss. 263 Probabilmente Cicerone allude al seseli officinale, una

pianta della famiglia delle Ombrelliferae, le cui radici ve­ nivano considerate un rimedio assai efficace contro l'epi­ lessia: cfr. Aristot. Hist. Anim. 611a15 ss. e Plin. Nat. Hist. 8,112. 264 È un luogo comune: cfr. Anacreontea 24,1 ss.; Plat. Prot. 320e; Aristot. Part. Anim. 655b2 ss.; Lucr. 5,857 ss.; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 875 s. 265 La Torpedo è una bestia marina a forma appiattita, ca­

ratterizzata da un organo in grado di produrre scariche elettriche per allontanare i pericoli. Nelle fonti viene ri­ cordata, ad esempio, da Plat. Men. 80a; Aristot. Hist. Nat. 620b19 ss.; Plin. Nat. Hist. 9,143. 266 Siccome gli animali cui qui allude Cicerone non pos­

sono essere quelli riconducibili al genere dei Mefitidi (le cosiddette puzzole incontrate da Charles Darwin nel suo

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

Viaggio di un naturalista intorno al mondo), in quanto non erano noti a Cicerone, bisogna immaginare che con il termine latino generico multae l'autore intendesse indi­ care tutte le altre bestie che emanano odori nauseabondi per difesa: basilisco, serpente, polipo, balena. 267 Il fenomeno dell'allattamento è un fenomeno ammira­

to da moltissimi scrittori dell'antichità: cfr. Hippocr. De Nat. Puer. 21,401 ss.; Aristot. Gen. Anim. 776a15 ss.; Lucr. 813 ss. Dai cristiani il fenomeno è visto spesso come dono della provvidenza divina: cfr. Min. Fel. Oct. 18,2.

268 Un altro fenomeno notato con meraviglia: cfr. Aristot.

Part. Anim. 688a32 ss.; Galen. De Usu Part. 7,22; Plin. Nat. Hist. 11,233 ss.; Nemes. De Nat. Horn. 4; etc.

269 Questo pensiero è esposto anche in Am. 27, dove as­

surge a vero e proprio exemplum, atto a dimostrare la vera natura dell'amicizia: «Perci6 l'origine dell'amicizia va vista, secondo me, in un fatto di natura più che nel bi­ sogno, in una inclinazione dell'animo accompagn ata da un qualche sentimento d'amore, più che nella conside­ razione di quanti vantaggi l'amicizia procurerà. E tutto questo possiamo constatarlo perfino in certi animali che tanto amano per un determinato tempo i loro nati e tanto ne sono riamati, che è facile vedervi dei sentimenti». Cfr. anche Off. 1,11; Aristot. Gen. Anim. 753a7 ss. e Eth. Nic. 1155a16 ss.; Bas. Hexaem. 9,4. 270 Questa osservazione èaltresì presente in Aristot. Hist.

Anim. 588b32 ss.

271 Gli effetti benefici delle acque del Nilo sul suolo egi­

ziano è notato molto presto nella storia delle letteratura occidentale. Per una descrizione più approfondita del fe-

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NOTE AL LIBRO SECONDO

nomeno, i cui limiti temporali si estendono all'incirca dal 20 giugno al 20 settembre, cfr. Herodot. 2,19: «Quando è in piena, il Nilo non invade solo il Delta, ma anche par­ te del territorio che è detto libico e di quello arabico, per due giorni di cammino da entrambi i lati, talvolta anche di più, talvolta di meno. Sulla natura del fiume non riuscii a ottenere nessuna informazione, né dai sacerdoti né da alcun altro. Ecco ciò che volevo sapere da loro: perché il Nilo scorra in piena a partire dal solstizio d'estate per cen­ to giorni; quindi, toccato il numero di questi giorni, esso si ritiri indietro abbassando le acque, così da mantener­ si modesto per tutto l'inverno fino al ritorno del solstizio d'estate» (trad. italiana da Erodoto, Le Storie, II, L'Egitto. Introduzione, testo e commento a cura di A.B. Lloyd, tra­ duzione di A. Fraschetti, Milano 1989). Moltissimi i paral­ leli raccolti da Pease, De natura deorum, pp. 886 s. 2 72 È sempre Erodoto a informarci dell'opera fertilizzante

delle acque dell'Eufrate sulle terre poco piovose di As­ siria, cfr. Herodot. 1,193: «In terra di Assiria piove poco, quanto basta per nutrire la radice del frumento: le messi maturano irrigate dal fiume ed il grano cresce, tuttavia non come in Egitto dove è il fiume a straripare nei campi, bensì irrigando a mano e con macchine che sollevano l'acqua. Infatti, tutta la regione di Babilonia, come l'Egitto, è attraversata da canali; il canale più grande è navigabile, rivolto là dove il sole si leva d'inverno, e va dall'Eufrate a un altro fiume, il Tigri, lungo il quale sorgeva la città di Ninive» (trad. italiana da Erodoto, Le Storie, I, La Lidia e la Persia. Testo e commento a cura di D. Asheri, traduzio­ ne di V. Antelami, Milano 1988). 273 Vista la quantità spropositata delle testimonianze, pe­

raltro affetta da vistose oscillazioni, non è facile stabilire con certezza il valore dell'aggettivo maximus, cioè se "il

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

più lungo" o "il più capiente". Vd. Pease, De natura dea­ rum, pp. 888 s. 274 I venti etesii sono venti stagionali che soffiano dopo il

solstizio d'estate, verso la fine di luglio, durante il giorno: cfr. Aristot. Meteor. 361b35 ss. e Sen. Nat. Quaest. 5,10,4.

2 75 Tra parentesi quadre una probabile glossa a margine

di un copista o di un lettore annoiato dalla lunga lista ciceroniana; Plasberg mantiene a testo l'espressione.

276 Così si interrompono gli argomenti teleologici per pas­

sare a un ragionamento di natura dialettica e retorica. K. Reinhardt, Poseidanios, Miinchen 1921, p. 259, pensa che il passo sia del tutto inappropriato, mentre Pease, De natura deorum, p. 894 (partendo da alcune osservazioni lingui­ stiche di M. van den Bruwaene, La théolagie de Ciceran, Louvain 1937, pp. 120 s.) ritiene che il passaggio avven­ ga in modo naturale nel contesto, in quanto, dopo aver mostrato che il mondo è regolato da una provvidenza divina, Cicerone indica l'uomo come il fine dell'organiz­ zazione provvidenziale dell'universo intero. 277 La aspera arteria è la trachea: cfr. Plat. Tim. 78c; Aristot.

Part. Anim. 664a35 ss.; Lucr. 4,528 s.; Aul. Gell. 17,11,3.

278 L'epiglottide: cfr. Aristot. De Respir. 476a33 s. e Galen.

De Usu Part. 7.

279 Il calar e la tritura erano due diverse cause della d i­

gestione che opponevano la speculazione della s cuola di Ippocrate a quella di Erasistrato: cfr. Cels. prooem. 20 duce alii Erasistrata teri cibum in ventre contendunt, alii Pli­ stanico Praxagorae discipula putrescere, alii credunt Hippacra­ ti per calarem cibas cancoqui.

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NOTE AL LIBRO SECON DO

28° Cfr. Plat. Tim. 70c; Aristot. Part. Anim. 669a13 ss. 281 Secondo Pease, De natura deorum, p. 906 è da identifi­

care con il chilo, mentre Plasberg pensa al chimo. Si leg­ gano Plat. Tim. BOd ss.; Galen. De Usu Part. 4,1 s.; Nemes. De Nat. Hom. 23.

282 Il termine è di troppo nell'economia della frase: op­

portunamente Pease, De natura deorum, p. 905 la defini­ sce «troublesome».

283 Si tratterebbe, in verità, delle arterie, che dagli antichi

erano spesso confuse con le vene: cfr. Galen. De Usu Part. 16,1.

284 Galeno (De Usu Part. 6,7) distingue il ventricolo pney­

matik6s (sinistro) che fornisce aria dai polmoni e dalle arterie, da quello aimatik6s, che invece espande il sangue a partire dalla vena cava. 285 La dottrina, valida per Diogene di Apollonia, Prassa­

gora di Cos ed Erasistrato, è erronea perché desunta dal fatto che, al momento della dissezione dei corpi, le arte­ rie risultavano vuote a differenza delle vene. A questo proposito, Pease, De natura deorum, p. 911, nota che, nono­ stante Galeno avesse già rifiutato tale teoria, la vera spie­ gazione della circolazione del sangue nel corpo dell'esse­ re umano non venne compresa fino agli studi di William Harvey nel 1628. 286 Impiegando nervus Cicerone indica con ogni probabi­

lità sia i nervi che i tendini. Il tratto può essere ricondotto al filone determinato da Aristot. Hist. Anim. 515a27 ss.: «l tendini presentano negli animali il seguente assetto. An­ ch'essi hanno inizio dal cuore; nel cuore stesso, infatti,

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LA NATURA DEGLI DEl

DE NATURA OEORUM

sono presenti tendini nel ventricolo maggiore, e la cosid­ detta aorta è una vena tendinea» (trad. italiana da Ari­ stotele, Opere Biologiche. A cura di D. Lanza e M. Vegetti, Torino 1971), e ancora seguito da Plin. Nat. Hist. 11,217. 287 Cicerone intende porre un forte accento sulla diffe­

renza che intercorre tra uomo e animale, l'uno capace di sollevare lo sguardo al cielo, l'alt�o invece con lo sguardo fisso verso terra (cfr. Leg. 1,26). E importante sul punto Plat. Crat. 399c, in cui viene ricordato che «questo nome anthropos, "uomo", significa che, mentre gli altri animali non considerano né ripensano né anathrousin, "riesami­ nano'� mai nulla di ciò che vedono; l'uomo, non appe­ na "ha visto" [ ... ] subito anathrei, "riesamina" e riflette su ciò che ha visto; donde a ragione soltanto l'uomo tra gli animali fu denominato anthropos, cioè anathron ha opope, "che riesamina ciò che ha visto"» (trad. italiana da Pla­ tone, Cratilo. Introduzione e note di C. Licciardi, tradu­ zione di E. Martini, Milano 1989). Interessante notare, in questo frangente, la strettissima somiglianza tra il nostro passo e la dottrina cristiana della creazione, secondo la lucida esposizione di Bas. Horn. 3,8. Qui il Padre sottoli­ nea che Dio ebbe plasmato gli uomini su due piedi per permettere loro di guardare verso l'alto, a differenza dei quadrupedi che invece stanno chini a terra, schiavi del ventre. Già di posizione stoicheggiante, si confronti an­ che con i primi versi delle Metamorfosi di Ovidio. 288 Questa metafora è impiegata spesso: cfr. Plat. Tim. 70a;

Galen. De Rem. Parab. prooem. (la testa è come una "acro­ poli" del corpo); Min. Fel. Oct. 17,11; Ioh. Chrys. De Van. 27 ss.; etc. in Pease, De natura deorum, p. 916. 289 Cicerone ferma la digressione per motivi di pudore.

Il medesimo pensiero ritorna in Off. 1,126 s.: «Anzitutto

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NOTE A L LIBRO SECON DO

sembra che la stessa natura abbia tenuto grande con­ to del nostro corpo, essa che pose in vista quel nostro aspetto ed il resto della nostra figura che è di decente apparenza, e ricoperse e nascose quelle altre parti del corpo che, da essa date per le necessità fisiche, avreb­ bero avuto un aspetto ripugnante e sconcio. Il pudore umano imitò questo così diligente criterio strutturale seguito dalla natura. Gli organi che la natura nascose, tutti coloro che sono in senno, rimuovono dalla vista e fanno sì di soddisfare alle necessità nel modo più riser­ vato; e quelle parti del corpo il cui uso è necessario, né esse stesse né i loro usi sono denominati con i loro nomi specifici: oscenità è il dire quanto non è sconveniente fare, purché nascosamente. Pertanto né l'agire aperta­ mente in questo campo è esente da spudoratezza, né il parlarne da oscenità». 290 Nel testo latino abbiamo il diminutivo di pupa, cioè

popula, rispettivamente "giovincella" e "pupilla", equiva­ lenti al termine greco kòre, «from the reflection in the eye of the figure of the observer» (così nelle parole di Pease, De natura deorum, p. 921, che peraltro rimandava già a un passo importante come Plat. I Alc. 132e ss.: qui si legge che la pupilla umana è identificata quale una delle deter­ minazioni della vita, in quanto l'essere vivente è proprio colui che ha delle pupille in grado di riflettere il volto del proprio prossimo). 291 Per l'immagine cfr. Xen. Mem. 1,4,6. 292 Per l'immagine cfr. Xen. Symp. 5,6. 293 Il viscum cui si fa riferimento sarebbe il Loranthus, pre­

parato dalle bacche del vischio, adoperato dagli uomini per catturare vivi gli uccelli.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

294 È naturalmente iperbolica l'espressione di Cicerone.

Il concetto ricorre spesso nelle fonti antiche, anche se più mitigato (si fa riferimento infatti alla capacità pro­ pria soltanto dell'uomo di provare, mediante i sensi, certe sensazioni e piaceri): cfr. Off. 1,105; Inv. 1,5; The­ ophr. De Sens. 41 che riporta un'opinione di Diogene di Apollonia; Aristot. De Anim. 421a9 s.; Sen. Epist. 76,8 s.; Plin. Nat. Hist. 10,191; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 927 s. 295 L'omissione di parte tangendi da parte di H e di Mayor

interrompe la corrispondenza simmetrica con l'olfatto e il gusto che emerge dall'originale latino. Il Plasberg pro­ pone di emendare con , mentre Pease sceglie di obelizzare il testo.

296 Balbo descrive i due stadi che costituiscono il proces­

so sillogistico, vale a dire la coniunctio (gr. synthesis) e la comprehr nsio (gr. katàlepsis): cfr. Ac. 2,31; Fin. 5,26; e M.O. Liscu, Etude sur la langue de la philosophie morale chez Cicéron, Paris 1930, pp. 129 s.

297 Si tratta del procedimento di inferenza, che in greco è

chiamata apòdeixis: cfr. Ac. 2,26 e Fin. 3,27.

298 La superiorità dell'eloquenza è ribadita ancora in O.ff.

1,132; Inv. 1,5; Isocr. Nic. 6; Aristot. Pol. 1253a9 s.; etc.

299 Il ragionamento è platonico: cfr. Plat. Soph. 263e; ma

anche Aristot. De An. 420a27 ss. e Stoicorum Veterum Frag­ menta 2,836 von Arnim.

300 Il processo di articolazione delle parole è espresso nel

testo latino attraverso fingo e termino, che corrispondereb­ bero, secondo il Plasberg, ai verbi greci plàsso e diarthròo:

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NOTE Al LIBRO SECON DO

cfr. quindi Xen. Mem. 1,4,12; Plat. Prot. 322a; Lucr. 4,549 ss.; Phil. Alex. De Somn. 1,29. 301 Nel testo latino le mani sono dette artium ministrae. Al­

cuni validi raffronti provengono da Off. 2,12; Xen. Mem. 1,4,11; Plat. Tim. 76d s.; Aristot. Part. Anim. 687a7 ss.; Vitr. 2,1,2. Tra i cristiani sono invece degni di menzione Greg. Nyss. De Hom. Opif. 8 e Aug. Civ. Dei 22,24. Vd. ancora Pease, De natura deorum, p. 939. 302 Sullo sfruttamento da parte degli uomini degli elefan­

ti si possono leggere Fam. 7,1,3 e Orig. c. Cels. 4,78.

303 Osservando ciò che lo circonda, il cielo in modo par­

ticolare, l'uomo è portato alla venerazione di colui che lo ha creato: cfr. già in precedenza ai capp. 2,15; 2,55 s.; 2,88 ss.; 2,95 ss.; 2,101 ss.

3 04 L'uomo può vivere una vita beata, pari a quella degli

dèi, eccetto che per l'immortalità, la quale invece è una prerogativa di questi ultimi soltanto. Si tratta di un topos molto ricorrente nella letteratura filosofica classica: cfr. Fin. 1,63 e 2,40; Heraclit. fr. 62 Diels-Kranz; Eur. Hec. 356; Phil. Alex. De Opif. Mundi 135; Sen. Epist. 73,13; Nemes. De Nat. Hom. l; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 947 s. 305 Il concetto è ricorrente nella produzione ciceroniana: cfr.

Div. 1,131; Fin. 3,64; Par. Stoic. 18; Rep. 1,19; Leg. 1,23 (quest'ul­ timo passo, secondo T. Zielinski, Cicero im Wandel der ]a­ hrhunderte, Leipzig-Berlin 1908, p. 389, avrebbe offerto ad Agostino lo spunto per la composizione del De Civitate Dei). Cfr. ancora Plat. Gorg. 507e ss.; Ps.-Aristot. De Mund. 400b27 s.; Stoicorum Veterum Fragmenta 2,527 von Arnim (frammen­ to di Crisippo); Phil. Alex. De Opif. Mund. 3 e 142 s.; Sen. De Ben. 7,1,7; Dio Chrys. 36,38; Min. Fel. 17,2; Lact. Inst. 2,5 e

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

5,37; etc. Sul motivo vd. J. Bidez, La Cité du Monde et la Cité du Soleil chez le Stoiciens, "Bulletins de l'Académie Royale de Belgique, Classe des Lettres" s• ser. 18, 1932, pp. 244-294. 306 Cfr. già supra, ai capp. 2,37 e 151; Tusc. 1,69; Aristot. Pol. 1256b15 ss.: «Perdo è ugualmente chiaro che anche per gli esseri cresciuti bisogna estendere il suddetto principio e stabilire che le piante esistono in vista degli uomini, gli animali domestici in quanto servono all'uso ed al nutrimento e i selvatici, se non tutti, almeno per la maggior parte, in quanto servono per fornire cibo e ad altri usi, come materiale per vesti ed altri strumenti. Se dunque la natura non fa nulla di inutile né di imperfetto, è necessario che essa abbia fatto tutte queste cose in vista dell'uomo» (trad. italiana da Aristotele, Politica e Costitu­ zione di Atene. A cura di C.A. Viano, Torino 1955); Orig. c. Cels. 4,54 e 78; Lact. Inst. 2,10,1. 307 È piuttosto il contrario, in quanto è il giogo ad essere

stato creato sulla base della forma del collo dei bovini.

308 La citazione poetica corrisponde al fr. 17 Buescu degli Aratea (= Arat. 129 ss.). 309 L'opinione è condivisa anche da Verg. Georg. 2,536 ss.;

Ov. Met. 15,123 ss.; Ael. Var. Hist. 5,14; Porph. De Abst. 2,14.

310 Si leggano ancora Fin. 5,38; Plin. Nat. Hist. 8,207 e 31,87

(per la conservazione della carne fresca nel sale); Clem. Alex. Strom. 2,20,105,2 e 7,6,33,3 (quest'ultimo raccolto in Stoicorum Veterum Fragmenta 1,516 von Arnim).

311 Nonostante le parole siano di Balbo, ben si compren­

de che qui emerge l'opinione personale di Cicerone, egli stesso membro del collegio degli àuguri nel 53 a.C.

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NOTE AL LIBRO SECON DO

312 Per Carneade contro gli Stoici si vedano Div. 1,7; Ac. 2,87;

Tusc. 4,53 e 5,83; Diog. Laert. '7,182. Quanto invece a Epicuro e al suo rigetto nei confronti della divinazione, rimando a Div. 2,39; Rep. 6,3; H. Usener, Epicurea, Lipsiae 1887, pp. 261 s.

31 3 Per la terra (o i continenti) come insula, cfr. Rep. 6,21;

Ps.-Aristot. De Mund. 392b20 ss.; Cleomed. 1,15. Qui Cice­ rone intende riferirsi alla totalità dell'Europa, dell'Asia e dell'Africa. Tale ripartizione in tre continenti del globo (attestata già in Herodot. 4,42) fu accolta anche da Posi­ donio nel suo scritto Sull'Oceano. 314 L'inclusione di Rodi accanto alle altre tre grandi po­

tenze del Mediterraneo sembra indicare in questo passo la presenza di una fonte posidoniana.

31 5 Gli exempla che seguono sono topici: numerazioni si­

mili di ritrovano in Tusc. 1,110; Am. 18; Rep. 1,1; Sen. 15; Par. Stoic. 48; Pro Mur. 31; Quint. Inst. 12,2,30; etc.

316 Manio Curio Dentato fu console nel 290, 275 e 274 a.C.

e, in campo militare, sconfisse Pirro a Benevento. È ricor­ dato come exemplum di incorruttibilità e come immagine della antica romanitas. 317 Gaio Fabrizio Luscino fu console nel 278 a.C. Duran­

te la guerra combattuta contro Roma, Pirro provò a cor­ romperlo durante i negoziati di pace, ma il suo tentativo fu vano. Nella Vita di Pirro Plutarco ci ricorda come l'in­ tegrità morale di Luscino avesse persino suscitato l'am­ mirazione del nemico.

318 Su Tiberio Coruncanio cfr. già supra, al cap. 1,115. 31 9 Su Aulo Atilio Calatino cfr. già supra, al cap. 2,61.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

320 Gaio Duilio, console nel 260 a.C., sconfisse la flotta car­

taginese a Milazzo durante la prima guerra punica.

32 1 Lucio Cecilia Metello, console nel 251 a.C., fu uno dei

principali fautori, dopo il trionfo di Palermo, della vitto­ ria romana nella prima guerra punica.

322 Gaio Lutazio Catulo, console nel 242 a.C., dopo aver

sconfitto i Cartaginesi presso le isole Egadi, pose fine alla prima guerra punica.

323 Quinto Fabio Massimo è il celebre dictator che durante

la seconda guerra punica adottò la strategia del tempo­ reggiamento che gli fece guadagnare il soprannome di Cunctator.

324 Marco Claudio Marcello fu console cinque volte: nel

222, 215, 214, 210 e 208 a.C. Trionfò sui Galli a Casteg­ gio nel 222 e nel 212, durante la seconda guerra punica, espugnò la città di Siracusa. 325 Publio Cornelio Scipione Africano Maggiore, sconfis­

se le truppe cartaginesi guidate da Annibale a Zama nel 202 a.C., ponendo fine alla seconda guerra punica. 326 Lucio Emilio Paolo vinse i Macedoni a Pidna nel 168

a.C. e portò a Roma Perseo, il loro re, come prigioniero.

327 Tiberio Sempronio Gracco, console nel 177 e 163 a.C.,

fu padre dei due celebri riformatori e tribuni della plebe Tiberio e Gaio.

328 Marco Porcio Catone, detto il Censore, combattè as­

siduamente per osteggiare l'ingresso della cultura elle­ nistica a Roma: fu instancabile uomo d'armi, politico,

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NOTE AL LIBRO SECONDO

oratore, agricoltore e scrittore. È ricordato inoltre per l'in­ tegrità morale, per la severità e l'austerità: nei 44 processi in cui fu coinvolto, ne uscì sempre assolto. A lui Cicerone dedicò il dialogo sulla vecchiaia, intitolato Cato Maior De Senectute. 329 Publio Cornelio Scipione Africano Minore, o Emiliano,

rase al suolo Cartagine nel 146 e Numanzia nel 133 a.C.

330 Gaio Lelio, console nel 140 a.C., grande amico di Sci­

piane l'Emiliano, fu oratore e filosofo seguace della cor­ rente stoica. A lui Cicerone dedicò il dialogo sull'amici­ zia, intitolato Laelius De Amicitia. 331 Il rimando è a supra, al cap. 2,6. 332 Con l'espressione latina adflatus divinus Cicerone si ri­

collega al concetto greco di enthousiasmòs, cioè lo stato di invasamento ed eccitazione prodotto dalla presenza del divino in un individuo: cfr. Div. 1,12 e 38; Tusc. 1,64; De Or. 2,194; Verg. Aen. 6,50 s.; Sen. Epist. 41,2 bonus vero vir sine deo nemo est, e 73,16. Il tema è centrale anche nell'in­ nologia classica e nella produzione cristiana delle origi­ ni. Cfr. anche Ch. O. Tommasi, Lucan's Defectus Oraculo­ rum, in: AA.VV., Studium Sapientiae. Atti della Giornata di Studio in onore di G. Sfameni Gasparro, Messina 27. 1. 201 1 . A cura di M . Monaca e A . Cosentino, Soveria Mannelli 2013, pp. 257-276, con ulteriore bibliografia. 333 Nel testo latino leggiamo magna di curant, parva negle­ gunt. La sententia compendia un motivo assai frequente, largamente discusso da Plat. Leg. 900c ss. Cfr. in aggiunta Eur. fr. 974 Nauck; Sen. De Prov. 3,1 e Epist. 95,5; Stoicorum Veterum Fragmenta 2,1171, 1176, 1181 e 1184 von Arnim; Hier. In Ababuc 1,1.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

334 In proposito si legga la conclusione dell'Apologia di So­

crate di Platone (41d): «Ad un uomo buono non può avve­ nire nulla di male, né in vita né in morte e le sue vicende non sono trascurate dagli dèi».

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Note al l ibro terz o

1 Su questo motivo cfr. supra, ai capp. 1,61 s.; e ancora Div. 2,28 e 148; Leg. 2,19; Liv. 39,15,2; Lact. Inst. 2,6,7; etc. 2 Su Coruncanio cfr. supra, al cap. 1,115 e la relativa n. 187. 3 Su Scipione Nasica vd. già supra, al cap. 2,10 e la relativa

n. 31.

4 Su Scevola cfr. supra, al cap. 1,115 e la relativa n. 187. 5 Su Gaio Lelio cfr. supra, al cap. 2,165 e la relativa n. 330.

All'orazione cui Cicerone fa qui riferimento si allude an­ che in Rep. 6,2 e Brut. 83. 6 Tale ripartizione si legge anche in Leg. 2,20 e 30. 7 Gli interpretes della Sibilla erano originariamente due

(al tempo dei Tarquini quando fu istituito il collegio), in­ caricati di custodire i libri sibillini. Nel 367 a.C. il nume­ ro aumentò a dieci, per poi arrivare fino a quindici (quin­ decemviri, numero già menzionato dallo stesso Cicerone in Fam. 8,4,1): cfr. Pease, De Divinatione, pp. 51 s.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

8 Questa tradizione si legge in Liv. 1,19,1; 1,20,2; 1,21,6. Li­

mitatamente ai singoli re, Romolo e Numa, e alle loro pratiche religiose, si vedano, in particolare, questi paral­ leli tratti dal De Republica: per il primo, Rep. 2,16 «Allora Romolo prestava il massimo rispetto agli auspìci, cosa che ancor oggi conserviamo con grande vantaggio della salvezza pubblica. Infatti egli medesimo all'inizio stesso del suo governo fondò la città traendo gli auspìci, e nel dare inizio a tutte le faccende pubbliche si aggregò, affin­ ché lo assistessero negli auspìci, un augure per ciascuna tribù, e divise la plebe in clientele dei maggiorenti [ ... ] e riduceva all'obbedienza con l'infliggere una multa di pecore e di buoi [ ... ] e non già con la violenza e con i sup­ plizi»; per il secondo, Rep. 2,26 «Il medesimo Pompilio, introdotti gli auspìci maggiori, aggiunse due al numero originario degli àuguri e prepose ai riti cinque pontefici scelti dal numero degli ottimati, e con l'introduzione di quelle leggi che ci sono conservate nei monumenti, mitigò gli animi ardenti per l'abitudine e la brama del guerreg­ giare con le cerimonie religiose; aggiunse ancora i flami­ nini, i Salii e le vergini Vestali e stabilì santissimamente ogni parte della religione». Altre attestazioni in Pease, De natura deorum, pp. 985 s .. Per la religione come fonda­ menta dello Stato romano (motivo peraltro ampiamente contrastato dagli autori cristiani: ad es. da Tert. Apol. 25; Min. Fel. 25,1 ss.; Aug. Serm. 296,7), cfr. invece già supra, al cap. 2,8. 9 L'immagine, di discendenza aristotelica e piuttosto for­

tunata nella letteratura dei secoli a venire (cfr. Aristot. Pol. 1287b26 ss.; e quindi Plin. Nat. Hist. 11,145 s.; Lucian. Dial. Marin. l; Sext. Emp. Adv. Log. 1,130 e 350; Lact. De Opif. 8,6 ss.; Bas. Epist. 97; Hier. Adv. Iovian. 2,8; etc. in Pe­ ase, De natura deorum, pp. 991 s.), viene ripresa in modo più approfondito in Tusc. 1,46: «Non distinguiamo con

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NOTE AL LIBRO TERZO

gli occhi ciò che vediamo; giacché il corpo non ha nes­ suna facoltà di sentire, ma [...] esiste come una specie di canali che uniscono la sede dell'anima con gli occhi le orecchie e le nari. Pertanto accade spesso che, assortiti in qualche pensiero o colpiti da grave malattia, non ascol­ tiamo né vediamo pur avendo aperti e sani gli occhi e le orechie; di conseguenza si può facilmente comprendere che è l'anima che vede ed ascolta, non quegli organi che sono per così dire le finestre del'anima, mediante le quali tuttavia nulla potrebbe percepire la mente se non vi par­ tecipasse attivamente». 10 Questa citazione occorreva già supra, al cap. 2,4. 11 Su tutti questi riferimenti storici rimando al cap. 2,6. 1 2 Anche il nostro autore si pronuncia su un punto criti­

co della tradizione letteraria antica quale la collocazione cronologica di Omero e del suo operato letterario. Utili a comprendere l'idea dell'Arpinate in materia, sono Tusc. 5,7 e soprattutto Rep. 2,18 s., dove leggiamo che quanti si attengono a un calcolo prudente collocano il poeta all'in­ circa trent'anni prima dell'età di Licurgo. Secondo Pease, De natura deorum, p. 995, Cicerone avrebbe pensato agli anni intorno al primo quarto del X secolo, dunque circa 270 anni dopo la caduta di Troia (ca. 1183). 1 3 Cfr. Horn. Il. 3,243 s.; Arnob. 4,25. 14 Impronte e segni lasciati sull'ambiente naturale era­

no spesso ritenuti veri e propri reperti storici di enor­ me importanza (anche religiosa): si pensi, ad esempio, a quelle lasciate da Pegaso che fecero scaturire la fonte di Ippocrene (cfr. Dio. Chrys. 36,46; Rut. Nam. 1,266), e a quelle di divinità come Afrodite (Nonn. Dian. 41,117

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LA NATURA DEGLI DEl

DE NATURA DEORUM

s.), Dioniso (cfr. Lucian. Var. Hist. 1,7), Pan (Philostr. Vit. Apoll. 3,13). Nella cultura cristiana delle origini abbiamo delle attestazioni anche a proposito di Cristo: si ricordi, ad esempio, il riferimento che leggiamo nei Chronicorum libri di Sulpicio Severo (2,33,7) alle orme che il Salvatore avrebbe lasciato al momento dell'Ascensione al cielo. Un ampio regesto bibliografico sulla questione è in Pease, De natura deorum, pp. 996 s. 1 5 Il detto è proverbiale: cfr. già supra, ai capp. 1,55 e 2,70,

e più oltre al cap. 3,92; nonché Plat. Rep. 350c; Gorg. 527a; Theaet. 176b; Sen. Epist. 94,2; etc. in Pease, De natura deo­ rum, pp. 997 s. con ulteriore bibliografia. 1 6 Su questo vd. supra, al cap. 2,6. 1 7 Vi è qui una lacuna forse non troppo ampia, visto che

al cap. 2,6 il riferimento alla voce del Fauno segue imme­ diatamente quello alla battaglia del Sagra. In Pease, De natura deorum, p. 999, cui rimando per una discussione più dettagliata sul problema, sono raccolti i tentativi di emendazione del testo. 1 8 Sul motivo cfr. Div. 1,82 e 2,22 ss.; Sen. Epist. 88,15; Nat.

Quaest. 2,35,1 s.; Lucian. Demonax 37; etc. in Pease, De Di­ vinatione, pp. 382 s. 1 9 Produttivo, a questo proposito, il confronto con Aul. Geli.

14,1,36 (citazione di Favorino, a proposito dell'importanza di allontanare i giovani dai facitori di oroscopi): «Gli even­ ti che predicono sono o contrari o favorevoli. Se li predico­ no favorevoli e si sbagliano, tu diventi infelice aspettando invano; se predicono sciagure e mentono, diventi infelice temendo invano; se invece assicurano quel che è vero e si tratta di eventi non favorevoli, diventi già spiritualmente

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NOTE AL LIBRO TERZO

infelice prima di esserlo per destino; se promettono feli­ cità che poi si realizzano, allora gl'inconvenienti saranno due: da un lato t'affaticherà l'attesa perché la speranza ti tiene sospeso, dall'altro la speranza ti avrà già fatto appas­ sire in anticipo il futuro frutto della gioia. A nessun titolo, dunque, si deve praticare questa gente che presagisce il futuro» (trad. italiana da Aulo Gellio, Notti Attiche. A cura di G. Bernardi-Perini, II, Torino 1992). 20 Riferimento ai filosofi stoici. Per il fatalismo, vd. supra,

ai capp. 1,40 e 55.

21 Vd. supra, al cap. 2,9 e la relativa n. 27. 22 Al popolo dei Deci si alludeva già al cap. 2,10, quando

si parlava dei generali che sacrificano loro stessi in batta­ glia. Cfr. anche Orig. c. Cels. 1,31 (dove vengono messi in parallelo a Cristo, che si è sacrificato per l'umanità).

23 Sul Fauno, vd. supra, al cap. 2,6 e la relativa n. 16. 24 Il riferimento è ai capp. 2,13-15. Come nota Pease, De

natura deorum, p. 1003 Cotta inverte il secondo e il terzo argomento di Cleante, forse seguendo la fonte accademi­ ca che sottende al testo.

25 Il testo latino presenta l'avverbio physice, che ben si ac­

corda alla figura di un filosofo epicureo, ma non a quella di uno stoico. Per fraseologie simili, cfr. Div. 1,110 e 126. Nel suo commento al Timeo di Platone (p. 117 Diehl) Pro­ do adopera il vocabolo (in gr. physikos) in riferimento a Giamblico. 26 Doveroso il confronto con una pagina importante dal

Timeo di Platone (30a s.): «Chi accoglie da uomini saggi

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37 1

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

questa come la ragione più valida del divenire e dell'uni­ verso l'accetta senza dubbio molto rettamente: sì, perché volendo Dio che tutte le cose fossero buone, e, per quanto possibile, nessuna cattiva, prese quanto v'era di visibile e senza quiete, ma si agitava sregolatamente e disordi­ natamente, e dal disordine lo ridusse all'ordine, avendo giudicato l'ordine di gran lunga migliore del disordine. All'essere che è ottimo non fu, né è, mai, permesso fare altro se non ciò che è più bello» (trad. italiana da Platone, Opere Politiche. A cura di F. Adorno, I, Torino 1953), la cui dottrina cosmologica di base è notoriamente richiama­ ta anche dai filosofi cristiani. Su tutti basterà rimandare a Greg. Naz. carm. I,2,10 vv. 84 ss. «Infatti, colui che ha creato l'universo col suo Logos sapiente ed ha compagi­ nato l'ineffabile compagine del cosmo con la mescolanza dei contrari e dal caos ha tratto all'ordine questo mondo, ha mostrato la natura dell'essere vivente miracolo mag­ giore» (trad. italiana da Gregorio Nazianzeno, Sulla virtù carme giambico. Introduzione, testo critico e traduzione di C. Crimi, commento di M. Kertsch, appendici a cura di C. Crimi e J. Guirau, Pisa 1995, vd. la p. 211 per il com­ mento). 27 Un paragone con la formica era già al cap. 1,79 (si tratta

innanzitutto di una prassi proverbiale: cfr. ancora Prov. 30,25; Ov. Met. 7,656 s.; etc.). In questo caso è adoperato, come si può notare, nell'ambito di una reductio ad absur­ dum. In modo simile Claudiano Mamerto, teologo di V sec., si serve del verme nella polemica contro Fausto di Riez: «Dei vari gradi secondo cui, a partire dal nulla, si specificano, in senso ascendente, tutti gli esseri (mate­ ria informis, formatum inanimum, formatum animatum), gli angeli, stando alla concezione che ne ha , sono da considerarsi meri corpi (Jormatum inanimum ...). Ma nessun corpo è principio di vita per se stesso: giacché il

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NOTE AL LIBRO TERZO

corpo non può vivere senza l'anima, come l'anima senza Dio. - Perciò, o si ammette, nell'angelo, la presenza an­ che dello spirito di vita (vivificans spiritus ...), o lo si pone al di sotto di un verme, che di vita invece è dotato» (cfr. De Stat. Anim. 3,7 e lo studio di M. Di Marco, La polemica sull'anima tra e Claudiano Mamerto, Roma 1995, p. 96 da cui cito le parole sopra menzionate). 28 Ciò contrasta con le parole di Balbo al cap. 2,20 (dove

si parla appunto della concisione di Zenone), pertanto alcuni studiosi, come Walker e Mayor, hanno ipotizzato la presenza di una lacuna nel testo: cfr. Pease, De natura deorum, p. 1009 per una discussione. 29 Cfr. Sext. Emp. Adv. Phys. 1,85 e 104. 3 0 Altra reductio ad absurdum: cfr. Sext. Emp. Adv. Phys.

1,108. 31 Il termine pater è spesso impiegato per indicare il capo

di una scuola filosofica: cfr. già supra, al cap. 1,93 (Socra­ te); Lucr. 3,9 (Epicuro); Cyr. Alex. Contr. Iul. 3 (Platone). 32 Con questo toponimo si indica lo stretto situato tra

l'Eubea e la terraferma, richiamato spesso alla memoria dalle fonti antiche a causa delle sue correnti irregolaris­ sime (numerosi scrittori ci parlano addirittura di sette cambi nel corso di sole ventiquattro ore: cfr. ad esempio Strab. 1,2,13; Liv. 28,6,10; Plin. Nat. Hist. 2,219). Va detto, inoltre, che la fama del luogo portò alla nascita di alcuni usi metaforici e proverbiali del termine Euripo, ora ado­ perato per indicare l'irregolarità morale di certe persone: cfr. Aeschin. Ctes. 90; Aristot. Eth. Nic. 1167b31; Quint. Inst. 8,6,49; Liban. Epist. 618,1; Or. 25,62; Greg. Naz. Or. 4,72 e 42,22; Carm. II,1,12 vv. 336 s.; etc.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

33 È l'odierno stretto di Messina, che secondo gli antichi,

oltre a essere la dimora di Scilla e Cariddi, era caratteriz­ zato anch'esso da violentissime correnti: cfr. Thuc. 4,24,5; Verg. Aen. 3,420 ss.; Paus. 5,25,2 s. 34 Per questa immagine, cfr. Lucr. 6,436 ss.; Lucan. 5,234. 35 La citazione è tratta da Enn. Ann. 302 Vahlen (Baehrens

lo attribuisce invece alla perduta Chorographia di Varrone Atacino) ed è ripresa analogamente in Tusc. 1,45. Molto si­ mile quanto si legge in Cat. 64,178 s. (su cui vd. la nota di G. Nuzzo nel suo Gaio Valerio Catullo, Epithalamium Thetidis et Pelei (c. LXIV). A cura di G.N., Palermo 2003, p. 119). Si tratta, comunque, dello Stretto di Gibilterra, per cui cfr. altresì Hor. Carm. 3,3,46 s.; Sen. Nat. Quaest. 6,30,3; etc. 36 Per le febbri semiterzane, terzane, quartane, e così via,

rimando a Hippocr. De Morb. Sacr. 1; Phil. Alex. De Conf Ling. 151. I medici moderni le riferiscono ai cicli febbrili della malaria. Per la deificazione da parte dei Romani della Febbre, cfr. più avanti al cap. 3,28.

37 Frase proverbiale: cfr. Tusc. 1,85; Pro Rose. 30; 2Verr. 2,8;

etc. in Pease, De natura deorum, pp. 1015 s.

38 Cfr. Stoicorum Veterum Fragmenta 2,1011 von Amim. 39 Su Orione, cfr. già supra al cap. 2,113. La Canicola indica

talvolta la stella Sirio (la più luminosa tra tutte), talaltra una intera costellazione.

4° Cfr. già supra, al cap. 2,17. 41 Cfr. Xen. Mem. 1,4,8 e supra, al cap. 2,18 e la relativa

n. 47.

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NOTE AL LIBRO TERZO

42 Su questo motivo, cfr. supra, al cap. 2,19 e la amplissima

lista di paralleli sull'armonia musicale prodotta da parte delle sfere, fornita da Pease, De natura deorum, pp. 1019 s. Qui mi limito a rimandare soltanto a Rep. 6,18 s. Per Pita­ gora come il primo ad aver formulato tale teoria, cfr. C. Riedweg, Pitagora: vita, dottrina e influenza. Presentazione, traduzione e apparati a cura di M.L. Gatti, Milano 2007, pp. 78 ss. 43 Cfr. Div. 2,34 con il commento di Pease, De Divinatio­

ne, pp. 411 s. Tale dottrina, propriamente stoica, ma già presente in qualche modo in filosofi come Senofane, Pi­ tagora e Democrito, si fonda sulla teoria dell'unità fisica del cosmo. Centrale sul punto è Mare. Aur. 9,9 «Tutti gli esseri che hanno qualche cosa in comune tendono ver­ so il loro simile. Tutto ciò che è fatto di terra tende verso la terra, tutti i corpi liquidi tendono a confluire insieme, e così pure gli aeriformi, sicché per separarli è necessa­ rio ricorrere agli sbarramenti e usare la forza. Il fuoco tende a salire in alto in virtù del fuoco elementare, e quaggiù è talmente pronto a unirsi a ogni altro fuoco che ogni materiale appena un po' più secco dell'ordina­ rio è facilmente infiammabile perché in esso si trovano mescolati meno elementi che impediscono la combu­ stione. In modo analogo, o ancora di più, tutto ciò che partecipa della comune natura razionale tende verso il suo simile: infatti, quanto più esso è superiore rispetto agli altri esseri, tanto più è pronto a unirsi e a fondersi con il suo simile. Tant'è vero che subito tra gli esseri privi di ragione si sono potuti individuare sciami, greg­ gi, nidiate e come degli amori; infatti in essi vi erano già delle anime e, in quanto si trattava di esseri superiori, la forza di coesione che si poteva riscontrare in essi era più intensa, quale non era possibile riscontrare nelle pian­ te, nelle pietre o nella legna» (trad. italiana da Marco

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

Aurelio, Scritti. Lettere a Frontone, Pensieri, Documenti. A cura di G. Cortassa, Torino 1984). 44 A partire da qui fino al cap. 3,34, Pease, De natura dea­

rum, p.l022, nota delle strette vicinanze sia stilistiche che contenutistiche tra Cicerone e Sesto Empirico (Adv. Phys. 1,137-181): entrambi risalirebbero allo stesso Carneade, presumibilmente l'ultimo anello di questa tradizione. In particolare, per quello che si legge di seguito, si può con­ frontare con Sex. Emp. Adv. Phys. 1,151: «Se la divinità è qualcosa, essa è o corpo o incorporea: ma non è incorpo­ rea, perché l'incorporeo è inanimato e insensibile e inca­ pace di alcuna attività; né è corpo, perché ogni corpo è mutevole (metablet6n) e corruttibile (jthart6n), mentre la di­ vinità è incorruttibile. Pertanto la divinità non ha esisten­ za» (trad. italiana da Sesto Empirico, Contro i fisici. Contro i moralisti. Introduzione di G. Indelli, traduzione e note di A. Russo, Roma-Bari 1990), con M. van den Bruwaene, La théologie de Cicéron, Louvain 1937, p. 130 e n. 2. 45 Paragoni simili con la cera si leggono in De Or. 3,177;

Aristot. Phys. 245b9 ss.; De Cael. 305b29 s.; Verg. Ed. 8,80 s.; Ov. Met. 15,169 s.; etc. 46 Il presente passo è raçcolto in Stoicorum Veterum Frag­

menta 2,421 von Arnim. E da Eraclito di Efeso che Zenone derivò la dottrina del fuoco eterno e delle sue mutazioni negli altri elementi (su questo, si veda già supra, al cap. 2,118), nonché la teoria riguardante il Logos divino. A proposito della diffusione del pensiero di Eraclito nella Stoa, si ricordi, inoltre, che, tra gli altri, Cleante compose quattro libri di esegesi alle opere del filosofo di Efeso, mentre Aristone uno scritto di impostazione per lo più biografica intitolato Su Eraclito (cfr. rispettivamente Diog. Laert. 7,174 e 9,5). Su quest'ultimo, la cui identificazione è

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NOTE Al liBRO TERZO

tutt'altro che sicura, cfr. F. Decleva Caizzi, Il libro IX delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, in: AA.VV., Aufstieg und Niedergang der romischen Welt. Teil II: Principat, Band 36. Herausgegeben von W. Haase, Berlin-New York 1992, pp. 4218-4240, in part. pp. 4225 s. e n. 27. Per altre attestazioni della dottrina del fuoco, vd. invece Pease, De natura dea­ rum, pp. 1030 s. 47 Per la corretta comprensione del testo latino qui quo­

niam quid diceret quod ... si rende necessaria l'espunzione della congiunzione, come accade nel manoscritto V e in seguito nell'edizione di Pease (vd. De natura deorum, p. 1031 per una discussione più approfondita). 48 Per questa teoria, cfr. Tusc. 1A2; nonché Fragmenta Vete­

ra Storicorum 2,787 von Arnim.

49 Si tratta di una citazione poetica costituita da un esa­

metro e dalle due parole incipitarie quello successivo (in lat. cur se sol referat nec longius progrediatur l solstitiali orbi). Da quale poeta Cicerone lo abbia ricavato non è dato saperlo. L'ideologia di fondo, comunque, si registra già in Aristotele: cfr. Aristot. Meteor. 354b33 ss.; e poi anche Lucr. 5,523 ss.; Macrob. Somn. Scip. 2JOJO. 50 La superiorità del mundus aveva portato Balbo ad attri­

buire alla divinità le principali virtù umane: cfr. supra, ai capp. 2,79 e 153. Il pensiero è accolto, ad esempio, da Isocrate in Busir. 41, ma è contrastato da Aristot. Eth. Nic. 1145a25 ss. (il fine di Aristotele, diversamente da quanto vuole Cotta, è quello di dimostrare la superiorità delle virtù teoretiche su quelle della vita pratica), e soprattut­ to da Sext. Emp. Adv. Phys. t152 ss., la cui somiglianza con il nostro passo era già stata notata da M. van den Bruwaene, La théologie de Cicéron, Louvain 1937, p. 132.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA DEORUM

Cfr. altresì Arnob. 3,19 e Pease, De natura deorum, p. 1036. Nel dettaglio, qui vengono chiamate in causa prudentia, iustitia, fortitudo e temperantia, le cosiddette virtù cardi­ nali, cui Cicerone fa spesso riferimento nella sua opera, anche se in maniera alternata o leggermente diversa: cfr. ad esempio Fin. 1,42 ss.; Tusc. 2,31 s.; Off. 1,15. Il canone, nonostante compaia già nel teatro classico con Aesch. Sept. 610 (dove si accumulano in riferimento a un solo uomo gli aggettivi s6phron, dikaios, agath6s, eusebés) trova terreno fertile nella filosofia di Platone (cfr. Protag. 330b; Rep. 428b ss.; Phaed. 69b s.; Leg. 630a ss. e 679e2 s.; lAlcib. 121e; etc.), di Aristotele (cfr. Eth Nic. 10,8,1178b10 ss.; fr. 58 Rose; etc.) e della maggior parte dei pensatori posterio­ ri, pagani, giudaici ed anche cristiani: basti ricordare il classico passaggio dal libro veterotestamentario di Sap. 8,7 «Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la pru­ denza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini nella vita». Vd. Pease, De natura deorum, 1037 s. 51 Concetto spesso ricorrente: per Cicerone, cfr. Rep. 3,18;

Leg. 1,19; Off. 1,15; De Inv. 2,160; mentre per altri autori, cfr. Plat. Rep. 331e; Aristot. fr. 85 Rose (riportato da Lact. Epit. 50,5); Sext. Emp. Pyrrhon. 1,67; Macrob. Somn. Scip. 1,8,7; Aug. De Civ. Dei 14,27; 19,4; 19,21; etc. in Pease, De natura deorum, p. 1039. 52 Sono molti i rimandi letterari alla venerazione da parte

dei Siri di una dea con volto di donna e corpo ittiomorfo: cfr. ad esempio Xen. Anab. 1,4,9; Eratosth. Catast. 38; Diod. Sic. 4,2 s.; Plin. Nat. Hist. 5,23; Plut. Quaest. Conv. 730d s.; Lucian. De Dea Syr. 14 e 45. Il suo tempio era situato a Gerapoli in Siria, ma era venerata anche nel regno meso­ potamico di Osroene: molto presto, dopo la conversione

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NOTE AL LIBRO TERZO

al cristianesimo del re Abgar il Grande di Edessa, furono proibite le mutilazioni rituali che gli uomini erano soliti procurarsi per venerare la dea. 53 Sulla teriolatria egiziana, cfr. già supra al cap. 1,43 e la

relativa n. 112.

54 Il centro di Alabanda in Caria corrisponde all'odierna

Arabhissar, situata a 75 miglia a nord rispetto a Rodi. Cice­ rone ne parla in Fam. 13,56,1 (lettera del 51 a.C.), in occasio­ ne del suo viaggio in Cilicia. Il dio lì venerato, Alabando, è figlio di Car e Calliroe, a sua volta discendente di Me­ andro; una sua descrizione ci è data dallo storico Stefano di Bisanzio nel suo lessico geografico alla voce Alabanda (il testo è citato da Pease, De natura deorum, p. 1043, cui rimando altresì per una discussione più approfondita).

55 A Tenedo, isola dell'Egeo spesso rammentata anche da

Omero, vi era il culto del fondatore Tene, figlio di Cicno e Proclia. Le testimonianze sono molto povere, tanto che Pease, De natura deorum, pp. 1043 s., nota l'assenza in loco di attestazioni epigrafiche che rimandino a qualcosa di certo. Tuttavia sappiamo che la vicenda mitologica di Tene dovette trovare fortuna in campo teatrale, in quanto una tragedia di nome Tennes è attribuita a Euripide dal dosso­ grafo Aezio (cfr. Plac. 289 Diels, che la unisce nella tetralo­ gia con Radamanto, Piritoo, Sisifo) e, forse meno verosimil­ mente, a Crizia da Sesto Empirico (cfr. Adv. Math. 9,54). 56 Per l'oscillazione del nome, cfr. più oltre al cap. 3,48

e Tusc. 1,28. Leucotea, chiamata Ino prima della deifica­ zione a dea marina, era sorella di Tene, figlia di Cadmo e moglie di Atamante: si gettò con il figlio Melicerte in mare (qui citato immediatamente di seguito), dove en­ trambi vennero trasformati nella dea Leucotea e nel dio

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA OEORUM

Palernone. Su questo, si possono leggere Horn. Od. 5,333 ss. e Aristot. Rhet. 1400b5 ss. 57 Per la deificazione di Ercole, Esculapio, i figli di Tinda­

ro e Rornolo, cfr. già supra, al cap. 2,62 e la relativa n. 116.

58 Il testo latino presenta il nesso quasi novos et adscripti­

cios cives. Il secondo aggettivo è raro, ma in questo senso può essere d'aiuto l'uso del verbo adscribo in Pro Arch. 6, dove occorre in associazione con il complemento in civi­ tatem. 59 La citazione da Ennio ricorreva già ai capp. 2,4, ma cfr.

anche più oltre a 3,10.

60 Si tratta, con ogni probabilità, di una glossa marginale

introdotta poi nel testo: vd. Pease, De natura deorum, p. 1046.

61 Per questi nomi rimando a quanto si dice ai capp. 2,110

ss. con le relative note.

62 Cfr. Eur. Bacch. 284; Iuv. 15,9 ss.; Sext. Ernp. Adv. Phys.

1,39; Pease, De natura deorum, p. 1047.

63 La citazione è da Accia, fab. inc. 670 s. Ribbeck. La pira

di Eracle era collocata sul monte Eta: cfr. Liv. 36,30,2; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 1048 ss.

64 Riferimento a Horn. Od. 11,601 ss. 65 Una pluralità di Ercole è attestata già presso Herodot.

2,43 s., per poi divenire molto frequente presso numero­ si autori più tardi: cfr. per esempio Plin. Nat. Hist. 11,52; Paus. 10,13,8; Arnob. 1,36. Si ricordi, a questo proposito,

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NOTE AL LIBRO TERZO

dell'esistenza della frase proverbiale, "costui è un secon­ do Ercole/Eracle", per indicare persone che si contrad­ distinguono per vigore fisico e buona salute: Diogene Laerzio (7,170) se ne serve, ad esempio, a proposito di Cleante per la sua laboriosità e infaticabilità. Su questo punto si veda, anche per la bibliografia aggiornata, Lu­ cillio, Epigrammi. Introduzione, testo critico, traduzione e commento di L. Floridi, Berlin-Boston 2014, p. 196. 66 Si tratta dei teologi di professione: si legga supra, la

distinzione operata da Cotta al cap. 1,61, luogo in cui si ponevano a confronto le teorie popolari prive di verità con le discussioni dei filosofi, maggiormente sofisticate e di non semplice avvicinamento per i cosiddetti imperiti. L'espressione latina interiores [...] et reconditas litteras deve essere confrontata con altre che leggiamo, ad esempio, in Ac. 1,8 multa admixta ex intima philosophia; Fin. 5,12 de sum­ mo autem bono quia duo genera librorum sunt, unum popula­ riter scriptum, quod (in gr.) exoterik6n appellabant, alterum li­ matius; Brut. 252; Aug. De Civ. Dei 18,12; De Trin. 15,21; etc. 67 Per la pluralità di Giove, cfr. più oltre, al cap. 3,53. 68 Il nome è un restauro di Friedrich Creuzer (Frankfort

1826) sulla base del confronto con Lyd. De Mens. 4 (unico luogo parallelo che menzioni Lisitoe).

69 Per questo, cfr. Apollod. Bibl. 2,6,2; Hygin. Fab. 32,3;

etc. in Pease, De natura deorum, p. 1053. La vicenda della disputa per il tripode delfico è largamente attestata in ambito figurativo, forse anche perché allusiva a conflitti di culto oracolare tra Eracle e il dio Apollo: essa «rientra nel repertorio figurativo eclettico di gusto arcaistico ed è attestata in quattordici repliche, prodotte in ambito urba­ no ed attico, ma anche in contesti periferici, durante un

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ampio arco temporale che va dal I secolo a.C. al II d.C.» (così, da ultimo, A. Ambrogi, Frammento di rilievo con la disputa per il possesso del tripode, "Archeologia Classica" n.s. 63/2, 2012, pp. 619-636, p. 622). 70 Sul secondo Eracle, cfr. già Herodot. 2,43 e 113; Diod.

Sic. 1,24,1; etc. Per il dettaglio sugli Scritti Frigi, probabil­ mente una sorta di genealogia degli dèi, si leggano Plut. De Is. et Os. 29,362b ed Eus. Praep. Ev. 3,1,1. Altri critici, ad esempio Calcante, La natura divina, p. 338 n. 43, rife­ riscono invece la notizia al fatto che Eracle fosse stato, secondo la tradizione mitologica, un allievo di Lino, dal quale venne iniziato alla musica. 71 I Dattili del monte Ida erano figure mitologiche par­

ticolarmente abili nella lavorazione del metallo (cfr. già nel poema epico arcaico Foronide, fr. 2 Bernabé; e poi an­ che Plin. Nat. Hist. 7,197), e spesso associate alla fertilità e alla taumaturgia (cfr. Paus. 5,7,6), nonché alla musica e alla poesia. 72 La notizia genealogica relativa ad Asteria come madre

di Eracle non si ritrova che in un frammento di Eudosso di Cnido trasmesso da Athen. 9,392e (ripreso molto più avanti da Eustazio nel suo Commentario a Od. 11,601). Ben più sicura, invece, l'identificazione tra l'Eracle venerato a Tiro e il dio semitico Melqart (scil. "re della città"), il cui culto è attestato fino all'età cristiana inoltrata: su questo, rimando alle pagine ben documentate di G. Caputo-F. Ghedini, Il Tempio di Ercole di Sabratha, Roma 1984, spe­ cialmente pp. 14-18; e, in generale, al ricco saggio di C . Bonnet, Melqart. Cultes e t mythes de l'Héraclès tyrien en Méditerranée, Louvain-Namur 1988. Vd. altresì Pease, De natura deorum, pp. 1055 s.

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NOTE AL LIBRO TERZO

73 Il nome Belus (scii. Baal, "Signore") è il titolo più co­

mune per una divinità maschile in ambito semitico. In riferimento ad Eracle non compare altrove: probabile, ma non del tutto sicuro (vista l'esistenza di un Eracle in­ diano secondo Diod. Sic. 2,39,1 e di un Eracle Sandes in Nonn. Dian. 34,192), un errore di confusione da imputare all'autore stesso.

74 Il sesto Eracle, figlio di Zeus e Alcmena, è quello più

celebre e suffragato dalle testimonianze antiche: cfr. già Horn. Od. 11,266 ss. Le attestazioni, numerose, sono rac­ colte nella voce di K. Wernicke in Pauly Wissowa l, 1894, coll. 1572 ss.

75 Nel testo latino vi è il termine capeduncula: esso non

ricorre altrove, ma il significato è di agile comprensione grazie alla presenza dei simili capidula, capedo e capudo. Si tratta, nel dettaglio, di vasetti votivi con un unico manico adoperati durante i sacrifici: cfr., anche per il riferimento a Lelio (su cui si veda già supra, al cap. 3,5), Rep. 6,2 «Il discorso di Lelio, che tutti abbiamo a portata di mano, (ricorda) quanto le tazze di creta dei pontefici ed i vasi fittili alla maniera samia, com'egli scrive, fossero graditi agli dèi immortali». Cfr. poi, per il motivo della semplici­ tà dei culti delle origini come quello in esame, Plin. Nat. Hist. 35,158; Iuv. 6,342 ss.; Apul. Apol. 18; etc. 76 Seguendo Mayor, Pease, De natura deorum, p. 1058 po­

stula la presenza di una breve lacuna. Questo sorite con­ tro il politeismo - il medesimo motivo è ribadito anche poco più avanti al cap. 44 - risalirebbe a Carneade, (cfr. Sext. Emp. Adv. Phys. 1,182 ss.). Su tale questione, e anche a livello generale sulla sezione che qui prende avvio e si prolunga fino al cap. 52 (ripresa poi in età posteriore da Arnobio nel suo Adversus Nationes, su cui cfr. Tommasi,

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Contro i pagani, osservazioni ad loc.) si legga già il saggio di P. Coussin/ Les sorites de Carnéade contre le polythéisme, "Revue des Etudes Grecques" 54, 1941, pp. 43-57. 77 Sui Panisci, piccole divinità associate alla figura di

Pan, le cui attestazioni si accumulano per lo più in età repubblicana e augustea, cfr. Div. 1,23. In ambito greco si parla di Panes già in Plat. Leg. 815c e Aristoph. Eccl. 1069. 78 Acheronte, Cocito e Periflegetonte rientrano nel canone

classico e poi medievale dei tre o quattro fiumi infernali (in questo secondo caso insieme con lo Stige: cfr. Horn. Od. 10,513 s.; forse Cicerone vi allude citando il traghetta­ tore Caronte). Le attestazioni sono raccolte in Pease, De natura deorum, p. 1060. 79 Caronte è, come già si accennava nella nota precedente, il traghettatore delle anime sullo Stige, quarto fiume in­ fernale non citato direttamente da Cicerone insieme agli altri tre Acheronte, Cocito e Periflegetonte. 8° Cerbero, figlio di Tifone ed Echidna, è il cane-guardia­

no degli Inferi, rappresentato nell'arte e nella letteratura antica con una, due o - a partire dal secolo IV a.C. circa - tre teste. Cfr. Tusc. 1,10 triceps apud inferos Cerberus.

81 A questo proposito si devono tenere presenti le parole

di Hes. Op. 167 ss. (dove leggiamo che il potere di Crono si estende fino alle isole prossime all'Oceano). Cfr. anco­ ra Dion. Hal. Ant. 1,38,1; Diod. Sic. 3,61,3; Plut. De Is. et Os. 378e.

82 Cfr. Hes. Theog. 116 s., 123 ss. e 132 ss. 83 Cfr. Hygin. Fab. praef. 2.

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NOTE AL LIBRO TERZO

84 La giustapposizione di Amore e Inganno presuppone

Hes. Op. 224, dove troviamo accostati, anche se in ordine invertito, Apate (Inganno) e Phil6tes (Amore). Secondo Pe­ ase, De natura deorum, p. 1063, Amor apre la presente lista per il proverbio "Amore è la divinità più antica di tutte" (cfr. Men. sent. e pap. 2,5 Jaekel).

85 La lettura errata dei manoscritti (modus) è stata varia­

mente emendata: le possibilità sembrano circoscriversi a Metus, cioè Paura (cfr. Verg. Aen. 6,276; Prud. Psych. 464), o a Momus, vale a dire Biasimo (cfr. Hes. Theog. 214; Lu­ cian. Deor. Cane. 14). Vd. altresì Pease, De natura deorum, p. 1063.

86 Cfr. Hes. Theog. 226. 87 Dal momento che in Esiodo manca una diretta personi­

ficazione di Phth6nos, la corrispondenza potrebbe essere nel termine Zélos, attestato a Theog. 384 (una spiegazione del concetto è in Hes. Op. 195 s., dove si dice che l'invidia attacca tutti gli uomini miserabili). 88 Cfr. Hes. Theog. 211 s. 89 Cfr. Hes. Theog. 225. 9° Cfr. Hes. Theog. 211 s. 91 Tenebre non è presente in Esiodo né in altre liste di

divinità; sul nome vd. però Pease, De natura deorum, p. 1064: «appropriate for a child of Erebus and Nox».

92 Cfr. Hes. Theog. 214. 93 Cfr. Hes. Theog. 229.

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94 I concetti possono essere assimilati, forse, a quelli di

Amore e Inganno: cfr. supra, n. 84.

95 Cfr. Hes. Theog. 225 (ma anche già Horn. Il. 4,440 dove

compare con Defmos e Ph6bos, cfr. LSJ, defmos s.v.).

96 Cfr. Hes. Theog. 217 ss. 97 Cfr. Hes. Theog. 215 s .. 98 Cfr. Hes. Theog. 212. 99 L'unione matrimoniale tra Notte ed Erebo è attestata

in Hes. Theog. 124 s.; ai vv. 211 ss. Esiodo dice invece che Notte generò il Fato e la Morte, ma senza unirsi con nes­ suno. La Notte e l'oscurità sono all'inizio del mondo an­ che all'inizio del libro della Genesi (cfr. in particolare 1,2: Le tenebre coprivano l'abisso). 100 Aristeo, figlio di Apollo e Cirene, è identificato con la divinità benefica che vigila sui prodotti della terra. Fu af­ fidato alle ninfe, che lo iniziarono alla coltura dell'olivo: cfr. 2Verr. 4,128; Diod. Sic. 4,81,2; e si ritrova nella poesia ellenistico-alessandrina di Theocr. 5,53 ss.; Apoll. Rhod. 4,1132 s.; Nonn. Dian. 5,258 ss.; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 1065 s. 101 Teseo torna anche più avanti al cap. 3,76. Secondo una tradizione differente, Teseo era figlio di Egeo re di Atene. La coincidenza dei padri Egeo/Nettuno è dovuta al fatto che quella che permise la nascita di Teseo fu un'unione mista, in quanto sia Egeo sia Poseidone giacquero la me­ desima notte insieme con Etra. Il culto di Teseo iniziò in­ torno alla fine del VI sec., acquistando un peso maggiore nel V, quando Cimone portò le ossa del personaggio ad

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Atene. Vd. A.M. Aloni, Teseo, un eroe dalle molte identità, in: AA.VV., Forme di comunicazione nel mondo antico e meta­ morfosi del mito: dal teatro al romanzo. A cura di M. Gugliel­ mo e E. Bona, Alessandria 2003, pp. 1-22. 1 02 Per questo aspetto legislativo, cfr. Gai. 1,82; Ulpian. 5,8

ss.; lustin. Inst. 1,4; in greco Dian. Hai. Ant. 11,29,3.

1 03 Achille era stato divinizzato come protettore dei na­

viganti durante le tempeste: le testimonianze di un suo culto presso Astipalea non è documentato, se pur con un buon margine d'incertezza, che da una sola iscrizione in cui leggiamo cho Achillik6s, cioè "terra di Achille" (cfr. Inscr. Mar. Aeg. 3,182). 1 04 Orfeo e Reso sono rispettivamente figli di Eagro e Cal­

liope, e del fiume Strimone e di una musa variamente identificata con la stessa Calliope, Euterpe o Terpsicore. 1 05 Ecate, identificata con Artemide o Selene, discendente

di Perse e Asteria, è già attestata da Hes. Theog. 404 ss. e 409 ss. 1 06 Sono le divinità ctonie conosciute anche con il nome di Erinni. Il luogo di culto ateniese cui Cicerone fa rife­ rimento di seguito è da ricollegare a Colono (cfr. Soph. OC 39 ss.) e sul lato est dell'A reopago (cfr. Aesch. Eum. 804 ss.). 1 07 Il luogo è situato a sud est del Gianicolo, nei pressi

dell'attuale Villa Sciarra. Per Furina, creatura divina mi­ steriosa, i cui culti erano già nominati nei Fasti, si veda Varr. De Ling. Lat. 5,84 (che espone già dei dubbi a riguar­ do) e Pease, De natura deorum, pp. 1070 s. (ancora oggi la migliore disamina sulla questione).

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1 08 Da mettere in parallelo alla dea greca Genetillide, ci­

tata, tra gli altri, da Aristoph. Nub. 52 e Lucian. Pseud. 11. Cfr. però anche Tert. De An. 37,1 dove è citata una dea chiamata Partula, che presiede i parti delle donne. 1 09 Intende vicino ad Ardea. 11° Fa riferimento al cap. 2,61, dove già trovavamo i nomi

di Onore, Lealtà, Mente, Concordia.

111 La dea romana Speranza corrisponde a quella greca

Elpìs (cfr. Hes. Op. 96).

11 2 L'etimologia di Moneta è incerta (in età antica era ri­

condotta al verbo moneo: cfr. Div. 1,101 e 2,69; Isid. Etym. 16,18,8). Il suo tempio venne consacrato nel 345 a.C. dal dictator Camillo nel corso della guerra contro gli Aurun­ ci, ed eretto nell'anno successivo sulla cittadella: per il resoconto storico cfr. Liv. 7,25,4 ss. Un altro tempio a Mo­ neta fu dedicato nel 173: cfr. ancora Liv. 42,7,1. 113 Serapide è una divinità sincretistica greco-egiziana di

norma associata a Osiride, Apis, Zeus, Plutone, Asclepio, nonché alla divinità universale egiziana (cfr. Macrob. Sat. 1,20,16 dove si dice Serapis, quem Aegyptii deum maximum prodiderunt). L'introduzione del suo culto a Roma, come ci testimonia, tra gli altri, Tert. Ad Nat. 1,10, non fu per niente facile, tanto che esso, osteggiato durante la repub­ blica, conobbe discreta fama solamente a partire dall'età imperiale. Cfr. anche Dio Cass. 40,47,3 s. e 42,26,2. 114 Iside era identificata con la terra, con Io o con le mag­

giori divinità femminili d'Asia: anche nel caso di Iside, il culto entra a Roma relativamente tardi, dal momento che i primi sacrifici iniziano a comparire p oco dopo la

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NOTE

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metà del sec. I a.C., e il primo tempio risale al 43 (per questo, rimando a Dio Cass. 42,26,2 e 47,15,4). In gene­ rale, cfr. i contributi che si leggono nel volume AA.VV., Isis en occident. Actes du Ilème Colloque interna!ional sur les études isiaques, Lyon III, 16-17 mai 2002. Edités par L. Bricault, Leiden-Boston 2004; L. Bricault, Les cul­ tes isiaques dans le monde gréco-romain, Paris 2013; non­ ché il ricchissimo panorama offerto da S.A. Takacs, Isis and Serapis in the Roman World, Leiden-New York-Koln 1995. 11 5 Con questa coppia inizia una lista di animali ritenuti

sacri dagli Egiziani. Per i buoi e le mucche, vd. già supra al cap. 1,82 e la relativa n. 155. Quanto invece ai cavalli, sembra che non siano attestati per la religione egiziana, pertanto Mayor, pensa che qui Cicerone si riferisca piut­ tosto agli ippopotami, ovvero gli equi fluviatiles chiamati in causa anche in Diod. Sic. 1,35,8. 1 1 6 Per l'ibis, cfr. già supra, al cap. 1,82 e la relativa n. 154. 117 Sui falchi, considerati sacri nella religione egiziana

(nel dettaglio erano consacrati a Ra, come ci informa Clem. Alex. Strom. 5,7,41,4) si leggano Herodot. 2,67; Ael. Nat. Anim. 7,9 e 10,24; Plut. De Is. et Os. 37le. 1 1 8 Anche l'aspide, le cui varietà sarebbero state studiate

da Filarco di Naucrati in un'opera di dodici o più libri, era venerato per lo più in Egitto: cfr. Phil. Alex. Decal. 78; Athenag. Leg. Pro Christ. l; Plut. De Is et Os. 380f; etc. Tra le vittime di questo animale si ricordano Demetrio del Falero e Cleopatra. 11 9 Sui coccodrilli, si veda già supra, al capp. 1,82 e la re­

lativa n. 153.

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120 Probabile, in questo punto, un richiamo implicito al

culto siro della dea ittiomorfa, già nominato in preceden­ za al cap. 3,29 (su cui si veda la relativa n. 52). Il culto del pesce, tuttavia, è attestato anche per l'Egitto: cfr. almeno Phil. Alex. De Decal. 78 e Plut. De Is. et Os. 380b. 121 Un altro riferimento alla religione egiziana: cfr. Plat.

Gorg. 461b ss.; Diod. Sic. 1,87,2; Phil. Alex. De Decal. 79; Ov. Met. 9,690; Prud. Apoth. 195 s. 122 Per i lupi sacri, cfr. Diod. Sic. 1,88,6 s.; Phil. Alex. De

Decal. 79; Plut. De Is. et Os. 380b; Clem. Alex. Protr. 2,39,5.

123 Per il gatto, cfr. già supra, al cap. 1,82 con la relativa n.

154.

124 Su Leucotea cfr. già supra, al cap. 3,39 e la relativa n. 56 125 Circe era ritenuta una divinità già da Horn. Od. 10,135

s. Si vedano in aggiunta Plin. Nat. Hist. 25,10 e Strab. 5,3,6 (quest'ultimo in particolare per il luogo di culto situato a Circei, vd. poco più avanti).

126 Pasifae era considerata divinità della luce ed era iden­

tificata spesso con la luna; sappiamo che un suo tempio era a Sparta: cfr. Div. 1,96. 127 Eeta re della Colchide era fratello di Circe nonché pa­

dre di Medea.

128 Le fonti letterarie sulla divinizzazione di Medea sono

molto scarse e riposano per lo più su testi filologicamente problematici: cfr. su tutti Athenag. Leg. pro Christ. 14 (ma il passo è stampato con le cruces). Servio nel commento a Verg. Aen. 7,750 la mette in parallelo, invece, alla dea

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italica Angizia, la quale è considerata a sua volta sorella di Medea da Celio Antipatro: cfr. anche Solin. 2,28. 1 29 Absirto, figlio di Eeta e fratello di Medea, venne as­

sassinato dalla sorella. Durante la fuga, Medea disper­ se i frammenti del cadavere per far ritardare i suoi in­ seguitori: cfr. più oltre, al cap. 3,67 dove è citato uno stralcio dalla Medea di Accio relativo a questo episodio. Quanto a Pacuvio, si tratta del fr. 24 Ribbeck (tragedia Medus). 130 Per Anfiarao, cfr. supra, al cap. 2,7 e la relativa n. 19. 131 Trofonio era una divinità locale venerata specialmen­ te a Lebadea: qui veniva consultato come oracolo all'in­ terno di una spaventosa caverna. Le modalità del culto, spesso ridicolizzate dagli autori comici, sono esposte da Paus. 9,39,4 ss. Vd. P. Bonnechere, Trophonios de Lébadée. Cultes et mythes d'une cité béotienne au miroir de la mentalité antique, Leiden-Boston 2003. 132 Nonostante la data drammatica del dialogo sia da si­

tuare in un momento non posteriore al 75 a.C., il dato qui esposto, risalente al 73 (la notizia ci proviene da una preziosa iscrizione da Oropo: vd. W. Dittenberger, Sylloge Inscriptionum Graecarum 2, 1917, n. 747; Pease, De natura deorum, p. 1081), costituisce un vero e proprio anacroni­ smo. Fu nel corso di questo anno, infatti, che gli abitan­ ti di Oropo inviarono a Roma tre rappresentanti affin­ ché protestassero contro la lex censoria che prevedeva la tassazione dei possedimenti del santuario di Anfiarao, opponendo un decreto di Silla secondo cui i beni sacri sarebbero stati esenti da tasse. I pubblicani risposero che il decreto non era valido, dal momento che Anfiarao era stato un uomo prima di essere divinizzato.

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133 Eretteo, figlio di Erittonio, è il più celebre re mitico

di Atene. Durante la guerra con Eleusi, sotto consiglio dell'oracolo di Delfi, dovette sacrificare le figlie per assi­ curarsi la vittoria: cfr. Tusc. 1,116. Il tempio a lui dedicato si trova sull'Acropoli ed è ancora oggi conservato. 134 Codro, altro re di Atene, cronologicamente colloca­

to nel XI secolo a.C., si tolse la vita affinché gli Ateniesi potessero vincere la guerra contro i Peloponnesiaci: cfr. ancora Tusc. 1,116. 135 Le figlie di Leo (chiamate Prassitea, Teope ed Eubule),

cui fu dedicato appunto il santuario detto Leocorio, ven­ nero sacrificate dal padre per allontare da Atene una ca­ restia o la peste. Tutti i riferimenti letterari dal VI sec. in avanti, sono raccolti in Pease, De natura deorum, p. 1084. Per l'identificazione del tempio, vd. invece S. Batino, Il Leokorion. Appunti per la storia di un angolo dell'Agora, "An­ nuario della Scuola archeologica di Atene e delle Missio­ ni italiane in Oriente" 79, 2001, pp. 55-82, e la bibliografia precedente ivi raccolta. 136 Sul culto di Alabando, cfr. supra, al cap. 3,39 e la rela­

tiva n. 54.

137 Stratonico, citaredo attico, la cui akmé è collocata a ca­ vallo tra i secc. V e IV a.C., divenne celebre per i suoi det­ ti a sfondo umoristico, raccolti e ampiamente letti dopo la sua morte. Alcuni di essi sono rintracciabili nell'opera di Ateneo di Naucrati (per questo, si vedano le osserva­ zioni di L. Canfora nel suo Ateneo, I Deipnosofisti. 1 Dotti a banchetto, Roma 2001, p. 859 n. 2). 138 Cfr. supra, al cap. 2,68.

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1 39 Sull'Arcobaleno, sulla sua bellezza e sulle cause che lo

fanno scaturire, cfr. in modo particolare Sen. Quaest. Nat. 1,5,10 ss. e Diog. Laert. 7,152 (entrambi riportano le opi­ nioni di Posidonio); ed inoltre lo studio di A. Bonadeo, Iride: un arco tra mito e natura, Firenze 2004. 140 Il nome di Taumante, figlio di Ponto e Gea, nonché pa­

dre di Iride e delle Arpie, è collegato al verbo greco thau­ màzo (provare meraviglia): cfr. Plat. Theaet. 155d. In realtà il verbo deve intendersi qui con una sfumatura passiva, in quanto non è lui a meravigliarsi, bensì gli altri che si meravigliano di fronte alla realizzazione del fenomeno dell'arcobaleno. Il locus è tradizionale e frequente: cfr. Plut. Plac. Phil. 894b; Serv. Aen. 9,5; Procl. in 1 Alcib. 341 Cousin; in Tim. 133 Diehl; etc. 1 41 La discendenza dei Centauri dalle nuvole è rammen­

tata ancora da Diod. Sic. 4,12,6; Aristot. De Somn. 461b19 ss.; Verg. Aen. 7,674 s.; Ov. Met. 12,211; etc. 142 Altro luogo tradizionale, in quanto le tempeste erano

spesse intese come il prodotto della potenza divina: cfr. già supra, al cap. 2,14; Lucr. 5,1229 s.; Verg. Aen. 3,120 e 528 s.; Ov. Fast. 6,193; etc. su cui vd. Pease, De natura deorum, p. 1088 che raccoglie molto materiale anche di natura epigrafica. 143 Si possono ricordare, a mero scopo illustrativo, Liv.

29,27,2 ss., dove si parla delle preci di Scipione l'Africano prima di partire per l'Africa (anno 204 a.C.), o Aur. Vict. De Vir. Ill. 84,2 a proposito di Sesto Pompeo, o ancora Plin. Nat. Hist. 11,195 su Ottaviano prima della battaglia di Azio. Per la Grecia, cfr. invece Herodot. 7,189; Thuc. 6,32,1 ss.; Apoll. Rhod. 1,534; etc.

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1 44 Rimando al cap. 2,67. 1 45 Altrimenti nota con il nome di Terra Mater, la divinità, antichissima, rappresenta la terra, non come elemento, bensì come fonte di nutrimento per tutte le creature: cfr. ad esempio Hor. Carm. Saec. 29; Anth. Lat. 5,12 ss. Riese; Verg. Aen. 7,137 s. Un suo tempio a Roma, situato nelle Carinae (sul pendio lato sud dell'Esquilino), era spesso impiegato per le sedute senatorie. 1 46 Cfr. supra, al cap. 2,66. 147 L'autore fa riferimento alla fondazione del tempio di

Fans, divinità romana indigena molto antica, da parte di C. Papirio Masso nel 231 a.C., in seguito alla vittoria sulla Corsica. 148 Dei quattro nomi citati abbiamo notizie sicure soltanto

sul primo e, con qualche incertezza in più, sul terzo: si tratta rispettivamente del Tiberina, divinità del Tevere, e Anemone, da identificare o con l'odierno fiume Lamone nei pressi di Ravenna o con l'Almone, un piccolo affluen­ te del Tevere situato vicino a Roma. Spinone e Nodino non trovano invece nessun'altra testimonianza, pertanto non è possibile avanzare proposte di identificazione. Per la preghiera degli àuguri, cfr. Schol. Dan. Aen. 3,265 e 12,176; nonché Pease, De natura deorum, pp. 1090 s. 149 Inizia ora, per poi concludersi con il cap. 60, una com­

plessa sezione (e per di più prolissa e abbastanza noiosa) nella quale vengono descritte le varie pluralità dei singo­ li dèi, secondo il metodo già seguito al cap. 42 per l'elen­ co dei diversi Ercole. Procedimenti similari si ritrovano anche in altre opere, come ad esempio nell'Adversus Na­ tiones di Arnobio (cfr. 4,13 ss.) e nel De Mensibus di Gio-

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vanni Lido (cfr. 4, passim). È probabile che la fonte non corrisponda, almeno in questo caso, a Carneade (come accade invece per il resto del terzo libro), bensì a un mo­ dello di tipo alessandrino, al Péplos aristotelico oppure a Varrone. Per una discussione più approfondita del pro­ blema, cfr. Pease, De natura deorum, pp. 1092 s. 15° Cfr. già supra, al cap. 3,42 dove si fa riferimento a colo­ ro che interiores scrutantur et reconditas litteras, e più oltre al cap. 54. Il termine greco theològoi è elettivamente asso­ ciato a poeti, cosmologi, divinatori e mitografi (cfr. Phi­ lod. De Piet. 48 Gomperz), nonché agli Orfici (cfr. Aristot. Metaph. 1071b27; Galen. De Antid. 2,7; Aug. De Civ. Dei 18,14; etc. in Pease, De natura deorum, p. 1094. 151 La pluralità di Giove è spesso attestata: cfr. Plaut. Cas. 334; Tert. Apol. 14; Plin. Nat. Hist. 2,140; Theophil. Ad Au­ tol. 1,10; Ampel. 9,1; Clem. Alex. Protr. 2,28,1; Lact. Inst. 1,11,48 (che cita il nostro passo); Aug. De Civ. Dei 7,11 s. 152 In Hes. Theog. 124 Etere è figlio della Notte e di Erebo,

mentre in Hygin. Fab. praef. 1 viene ricollegato a Caos, suo padre, e Erebo, suo fratello; Anecd. Oxon. 4,424 Cramer = Tzetz. In Hes. Op. 23 Gaisford, ci parla inve­ ce, come Cicerone, di Zeus figlio di Etere. Proserpina, qui sorella, torna anche poco dopo, ma come moglie del primo Zeus e madre di tre figli, mentre al cap. 3,58 come moglie di Zeus e madre della prima Diana e del primo Dioniso. 153 Minerva è spesso rappresentata come scopritrice delle

arti: cfr. Quintil. Inst. 3,7,8 e 11,1,24 (questo secondo è un frammento del poemetto ciceroniano De Consolatu suo, cfr. L. Canfora, Studi di storia della storiografia romana, Bari 1993, pp. 139 ss.); Ael. Aristid. Or. 2, p. 11 Jebb; etc.

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DE NATURA DEORUM

154 Nato da Crono e Rea in una caverna a Creta, o sul

monte Ida o sul monte Ditte: cfr. Hes. Theog. 477 ss.; Eur. Bacch. 120 ss.; Callim. Hymn. 1,4; Verg. Georg. 4,149 ss.; etc. in Pease, De natura deorum, p. 1096 e s. per i riferi­ menti relativi alla tomba di Zeus a Creta (tra le svariate localizzazioni, ricordiamo quella di Ennio, in Lact. Inst. 1,11,46, che parla di Cnosso; Varrone, presso Solin. 11,6, e Porfirio, in Vit. Pyth. 17, del monte Ida; mentre Nonno di Panopoli in Dion. 8,114 ss., del monte Ditte; in ogni caso, sembra che la tomba fosse ancora nota ai tempi del monaco bizantino Michele Psello, e che nell'anno 1415 il dotto Cristoforo Buondelmonti ad essa di riferisca, par­ lando di una caverna sul monte Iuktas e di una iscrizio­ ne ormai pressoché illeggibile e svanita). 155 Con il termine Dioscuri si indicano di norma Castore e Polluce. 156 Molto più frequente è la forma plurale Tritoptitreis (o

Tritoptitores, di qui vari e vani tentativi di emendare il testo): sotto l'aspetto etimologico, tale sostantivo va ricol­ legato al numerale greco trìtos, come già in Anecd. Graec. l, p. 307 Bekker.

157 Eubuleo rimanda alla sfera semantica del buon consi­

glio: si tratta di un epiteto assai frequente in riferimento agli dèi del pantheon greco (ad esempio Dioniso in Plut. Quaest. Conv. 714c9 e Hymn. Orph. 42,2). 158 Dioniso non è così differente dal nome precedente: in

particolare si veda Macrob. Sat. ll8,12 con una citazione orfica (cfr. C.F.H. Bruchmann, Epitheta Deorum, Leipzig 1893, p. 84). 159 Su Castore e Polluce, cfr. già supra, ai capp. 2,6; 2,62; 3,11; etc.

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160 Alcone è uno dei Cabiri a Lemno, figlio di Efesto e Cabi­

ro: cfr. Nonn. Dian. 14,18 ss. A questo proposito, risulta in­ teressante notare che Tacito (Germ. 43,4) identifica Castore e Polluce con delle divinità germaniche autoctone chiama­ te Alci, celebrati da un sacerdote in abbigliamento mulie­ bre (si veda anche Tacito, La Germania. A cura di L. Canali, Pordenone 1983, p. 106, che mette in luce come il culto dei Dioscuri fosse esteso dalla Gallia alla Scandinavia).

161 Il Melampo qui menzionato, da non confondere con

il ben più celebre divinatore omonimo, che corrisponde a tutt'altra persona (per cui cfr. Herodot. 2,49; Pind. Pyth. 4,126; etc.), non pare attestato in nessun altro scritto classico.

162 A differenza di Pease, De natura deorum, pp. 1099 s., che

sceglie di obelizzare il passo, accolgo qui l'emendamento Tmolus (nonno di Pelope e padre di Tantalo) per le lezioni indifendibili meviolus del cod. B1 e oviolus dei codd. AB2F. Quest'ultima, in particolare, è stata difesa, tuttavia, da van den Bruwaene sulla base del confronto con Herodot. 4,149 Oi6lukos (ma il nome si trova in connessione con quello di Egeo nelle zone di Sparta: per questo cfr. D. Asheri-A. Lloyd-A. Corcella, A Commentary on Herodotus Books I-IV. Edited by O. Murray and A. Moreno, Oxford 2007, p. 676). 1 63 Pease, De natura deorum, p. 1100 immagina che il testo

(corrotto nei codici) sarebbe stato così: Musae primae quat­ tuor lave altero natae Thelxinoe, Aoede, Arche, Melete. La ricostruzione si fonda sul confronto con Tzetz. In Hes. Op. 23 Gaisford, dove si legge che le quattro Muse sono figlie di Zeus e della ninfa Plusia. 164 La prima Musa, Telsinoe, compare soltanto qui e nello

scolio di Giovanni Tzetze a Esiodo che abbiamo menzio­ nato nella nota precedente.

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LA NATURA DEGLI DEI

DE NATURA 0EORUM

165 La seconda, Aede, è citata ancora da Tzetze, e da Paus.

9,29,2 s.

166 Per la terza Musa la tradizione è invece assai più ricca

(la connessione con il concetto di arché era del resto fre­ quente; si pensi ai vari incipit di poemi epici: cfr. Horn. Il. 1,1 e Od. 1,1; Hes. Theog. l; Verg. Aen. 1,8). 167 La quarta, Melete, è presente nei testi d i Tzetze e

Pausania citati supra. Pease, De natura deorum, p. 1101, cita, comunque, per l'appropriatezza del nome, un passo da Lucio Anneo Cornuto (De Nat. Deor. 14), che lega la nascita delle Muse all'acquisizione naturale delle discipline dell'educazione con l'esercizio (rneléte) e la memoria. 1 68

La stessa discendenza è attestata da Diod. Sic. 4,7,1. Spesso, poi, è sottolineato il solo legame tra le Muse e la madre Mnemosyne, cioè Memoria: cfr. Hes. Theog. 53 s. e 915 s.; Hyrnn . Horn. 4,429 s.; Plut. De Lib. Educ. 9e; etc. 169 Piero è l'eponimo della Pieria: per i suoi legami con

le Muse cfr. Ov. Met. 300 ss. e Paus. 9,29,3. Non sembra ricorrere altrove, invece, il suo matrimonio con Antiopa. 170 Se il primo Sole è nipote di Etere, allora è figlio del

primo Giove: cfr. già supra, cap. 3,53.

171 Il sostantivo Hyperion è messo in relazione al Sole già

in Horn. Il. 8,480 e Od. 1,8, dove ricopre la funzione di suo epiteto. Cicerone segue la tradizione mitografica se­ condo cui esso sarebbe un titano, padre di Helios e ma­ rito di Teia: per questo, cfr. Hes. Theog. 134 s . e 371 ss.; Hyrnn. Horn. 2,26 e 28,13; Ov. Met. 4,192 e 241.

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1 72 Non si tratta dell'omonima città siriaca di Baalbek, ma

della città di On, localizzata a sud del delta del Nilo, che, secondo la tradizione seguita da Diod. Sic. 5,57,2, fu fon­ data da Actis, uno dei figli delle Eliadi. Questa città era considerata la sede del dio Atum, spesso identificato con il dio corrispettivo greco Helios. 1 73 Il legame di Helios con Rodi e la presenza di un cul­

to locale sono accertati dall'esistenza della storica statua bronzea del Colosso, di Carete di Lindo, e dalla lista dei sacerdoti di Halios: vd. anche Diod. Sic. 5,56,3 s. La tra­ dizione vuole che proprio Helios fosse il padre delle tre città dell'isola di cui qui Cicerone fornisce i nomi. 1 74 Cfr. già supra, al cap. 3,48. 1 75 Per questa discendenza, si veda anche più oltre, al cap. 3,56 e Clem. Alex. Protr. 2,28,8. 1 76 L'identificazione del dio egiziano Ptha con Vulcano è

frequentissima: cfr. Herodot. 2,99 e 108 ss.; Strab. 17,1,31; Iambl. Myst. 8,3; etc. per cui mi limito a rimandare ai nu­ merosi passi citati da Pease, De natura deorum, pp. 1105 s. e, molto più recentemente, all'aggiornamento bibliografi­ co di Ch.O. Tommasi, «Immenso Fthà»: Verdi tra antichità e patriottismo, "Paideia" 66, 2011, pp. 339-363, in particolare p. 355 e n. 37. 1 77 Vulcano figlio del terzo Giove e Giunone è forse la di­

scendenza più nota (certamente la più antica): cfr. Horn. Il. 1,578; 14,167 e 239 ss. Per il riferimento all'officina di Lemno, cfr. Horn. Il. 24,753; Soph. Philoct. 800 e 986 s.; Verg. Aen. 8,454; Arnob. 4,24; Nonn. Dion. 2,224 s. Vd. in­ fine V. Masciadri, Eine Insel im Meer der Geshichten. Unter­ suchungen zu Mythen aus Lemnos, Stuttgart 2008.

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1 78 Il nome Memalio non compare altrove, ma è possibile

che sia connesso con quello di Maimalides che leggiamo in Horn. Il. 16,194 (così già H. Usener, Kleine Schriften, I, Lei­ pzig-Berlin 1912, p. 354). Le isole di Vulcano sono le Eolie e Lipari, in tutto sette: cfr. Plin. Nat. Hist. 3,92; e poi, per il loro legame con Vulcano, Thuc. 3,8 e Callim. Hymn. 3,48 ss. 1 79 Il legame tra Mercurio e Proserpina è oscuro (si ha

un riferimento simile a quello che leggiamo qui soltanto in Arnob. 4,14 e Schol. Dan. Aen. 4,577; mentre altrove Mercurio è figlio di Proserpina: cfr. ad esempio Ampel. 9,5). Quello che interessa maggiormente, però, è la men­ zione di Ermes itifallico, il cui culto è menzionato per la prima volta da Herodot. 2,51: «Ma a scolpire le statue di Ermes con il pene eretto lo hanno appreso non dagli Egiziani, bensì dai Pelasgi: i primi fra tutti i Greci fu­ rono gli Ateniesi e da loro impararono gli altri» (trad. italiana da Erodoto, Le storie. A cura di A. Colonna e F. Bevilacqua, I, Torino 1996). In epoca posteriore tale culto sarà destinato a godere di fortunate letture filosofiche: ricordiamo Cornuto (De Nat. Deor. 16) che lo intende in chiave stoica come simbolo del logos fecondatore (in gr. g6nimos), Porfirio (in Eus. Praep. Ev. 3,11,42) che lo giudica il simbolo del principio razionale seminale e creatore (in gr. spermatik6s e poietik6s). Vd., infine, le parole di Plati­ no in Enn. 3,6,19: «Credo che a questo gli antichi oscura­ mente alludessero nei loro misteri, quando descrivevano l'Ermes originario con l'organo sessuale sempre pronto alla riproduzione, volendo con questo mostrare che nel mondo sensibile l'elemento generatore è la ragione nella forma dell'intelligibile, mentre la sterilità della materia che resta sempre inalterata si raffigura negli eunuchi che circondano la dea» (trad. italiana da Platino, Enneadi. Saggio introduttivo, prefazioni e note di commento di G. Reale, traduzioni di R. Radice, Milano 2002).

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180 Il termine Valente potrebbe apparire una traduzione

di Ischus, dio itifallico, ma U. von Wilamowitz-Mollend­ orff, Isyllos von Epidauros, Berlin 1886, p. 81 n. 54 parla di forma ipocoristica, cioè accorciata, di nomi come Ischo­ machus. Foronide invece è stato emendato più volte in Coronide dagli editori, e pure lo stesso Pease, De natura deorum, p. 1109 ne sarebbe tentato, ma l'esistenza di Fo­ ronide, epiteto per Io, sorella o figlia di Foroneo, orien­ ta verso il mantenimento della lezione manoscritta. Per Trofonio, cfr. già supra, al cap. 3,49 e la relativa n. 131. 181 Per Pan figlio di Mercurio e Penelope, cfr. Hymn. Horn.

19,1 e 33 ss. (anche se non c'è l'identificazione della ma­ dre); Herodot. 2,145 s.; Hygin. Fab. 224,5; Nonn. Dian. 14,87 ss. (i Pan figli di Ermes sono due, di cui uno, il Pan Nomios, è anche figlio di Penelope); etc. 182 Nel pensiero religioso delle origini molto peso veniva

dato alla potenza soprannaturale delle parole pronunciate ad alta voce, soprattutto se si trattava di termini appar­ tenti a culti stranieri, minori e poco conosciuti (cfr. F. Cu­ mont, Les religions orientales dans le paganisme romain, Paris 19294, p. 241). Spesso, però, tale prassi era estesa anche a riti e credenze patrie: il nome, infatti, denota la potenza e l'essenza di colui che lo porta, e rivelarlo non gli arreca che un pericolo. La funzione, dunque, è di selfprotection. Senza allentarsi troppo dal quadro ciceroniano, basterà rammentare la questione della segretezza del vero nome di Roma e della sua divinità tutelare: per questo, si veda M. De Martino, L'identità segreta della divinità tutelare di Roma. Un riesame dell'affaire Sorano, Roma 2011; G. Ferri, Tu­ tela Urbis. Il significato e la concezione della divinità tutelare cit­ tadina nella religione romana, Stuttgart 2010; Ch.O. Tomma­ si, Il nome segreto di Roma tra antiquaria ed esoterismo. Una riconsiderazione delle fonti, "Studi Classici e Orientali" 60,

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2014, pp. 187-219 (vd. pp. 192 s. e nn. 16 e 17 con ulteriore bibliografia sul motivo). 1 83 Ermes era la divinità maggiormente venerata a Feneo

(città situata a nord-est rispetto all'Arcadia): cfr. ad esem­ pio Paus. 8,14,10 e Epigr. Gr. 781 Kaibel. Sul mito di Argo, il guardiano dai molti occhi posto da Era a guardia di Io, quando questa venne mutata in una giovenca, cfr. Apoll. Bibl. 2,1,3 e Arnob. 4,14. Quanto invece all'invenzione dell'alfabeto ad opera del dio (assimilabile a Theut della tradizione egiziana, e a sua volta identificato con Erme­ te Trismegisto), cfr. invece Diod. Sic. 1,16,1; Plat. Phaedr. 273c ss. (il passo è importantissimo perché si inserisce, inoltre, nella discussione relativa al rapporto di Platone con il testo scritto e, di riflesso, con il percorso educativo verso la saggezza, che il libro scritto emana solo in modo apparente: cfr. M. Erler, Il senso delle aporie nei dialoghi di Platone: esercizi di avviamento al pensiero filosofico. Introdu­ zione di G. Reale, Milano 1991, pp. 87 ss.); Plin. Nat. Hist. 7,192; Hygin. Fab. 277,1 s.; Eus. Praep. Ev. 1,9,24 e 10,14; etc. raccolti da Pease, De natura deorum, pp. 1112 ss. 1 84 Oscura la discendenza di parte materna, come anche

in Plat. Rep. 408b; Val. Max. 1,1,19; Hygin. Fab. 49; etc. Al­ trove la madre di Asclepio è Coronide, figlia di Flegia. 1 85 La vicenda del fulmine si rintraccia anche in Hes. Scut.

27 ss.; Aesch. Ag. 1022 ss.; Eur. Alc. 3 s.; Philodem. De Piet. 45 Gomperz; etc. Per quanto attiene ai luoghi di sepoltu­ ra, essi vengono di norma localizzati sul fiume Lusio, a Epidauro e a Cinosura; un toponimo quest'ultimo, cita­ to peraltro anche da Lact. Inst. 1,10,2 e Clem. Alex. Protr. 2,30,2, molto diffuso nelle fonti e di poco sicura identifi­ cazione, per il quale sono state avanzate differenti ipote­ si di localizzazione geografica: una penisola sulla costa

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di Salamina, un porto a Creta, una montagna in Arcadia, un villaggio vicino a Sparta, una regione del Megarese. A un luogo vicino a Epidauro pensa invece F. Pfister, Der Reliquienkult im Altertum, GieBen 1912, p. 389; vd. altresì Pease, De natura deorum, pp. 1116. 1 86 Arsippo non è altrimenti conosciuto. Il fiume Lusio è

un affluente dell'Alfeo, da identificarsi con l'odierno Di­ mitsana (cfr. Paus. 5,7,1 e 8,28,2).

187 I Coribanti erano tradizionalmente identificati con i

Dattili del monte Ida (per cui cfr. supra, al cap. 3,42 e la relativa n. 71), oppure con i Cureti. 1 88 Pease, De natura deorum, p. 1118 rimanda a Fulg. Serm.

ant. 2 (riferimento non diretto, ma molto allusivo a tale episodio). 1 89 È la tradizione più nota: cfr. già Horn. Il. 1,9. Gli Iper­

borei (hyperb6reos significa letteralmente "oltre il vento di Bòrea) erano un popolo del nord, che gli antichi mette­ vano in connessione con le tradizioni delfiche sulla base della notizia mitologica che lo stesso Apollo si sarebbe recato da loro, avendo amministrato la giustizia per un anno. Su questa stirpe, cfr. ora, con bibliografia aggior­ nata, L. Moscati Castelnuovo, Iperborei ed Eubei, "Studi Italiani di Filologia Classica" 3, 2005, pp. 133-149. 1 90 L'epiteto Nomione è ricollegato da Cicerone al greco

nòmos, cioè legge, anche se, in realtà, l'etimologia ricon­ duce al campo semantico del pascolo: cfr. Apoll. Rhod. 4,1218 Nomioio [...] Ap6llonos (genitivo); Verg. Georg. 3,2 pa­ stor ab Amphryso, dove Servio nota che il termine Nomius potrebbe discendere da nomé (cioè il pascolare). Si noti, inoltre, a questo proposito, che l'attributo di legislatore

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DE NATURA DEORUM

degli Arcadi non ricorre, in riferimento ad Apollo, in nessun altro scritto classico. 1 9 1 Secondo O. Gruppe, Griechische mythologie und religion­

sgeschichte, II, Miinchen 1906, p. 1285 n. 5, questa genea­ logia rivela alcuni caratteri orfici. 1 92 Come già intende Cicerone, si tratta della discendenza

più comune.

1 93 Upi come maschio ricorre solo qui; è, infatti, un epite­

to normalmente associato alla dea A rtemide (in Egitto è messa in relazione con la luce feondante): vd. Pease, De natura deorum, p. 1120. Glauce, invece, è una figura piut­ tosto oscura e di difficile identificazione: G. Weicher (in Pauly Wissowa 7, 1912, coli. 1394 ss.) raccoglie ben nove personaggi mitici con questo nome. 1 94 La tradizione che riconduce Dioniso a Giove e Proser­

pina trova largo sostegno nelle fonti classiche: cfr. Hy­ gin. Fab. 155 e 167; Arrian. Anab. 2,16,3; Hymn. Orph. 30,6 s.; Lyd. De Mens. 4,51; etc.

1 95 Nisa è il nome con cui solitamente troviamo designa­

to il luogo natale di Dioniso (centri con tale toponimo sono situati sul monte Elicona, in Tracia, in Caria, in Palestina e in India). Q ui è possibile, però, che indichi una ninfa che accudì Dioniso da piccolo: cfr. Hygin. Fab. 182,2. 1 9 6 Le Sabazie erano delle feste di stampo misterico e or­

giastico che venivano celebrate in onore di una divinità frigia, appunto Sabazio (che presiedeva alla vegetazione e ai boschi), talvolta identificata con il nostro Dioniso: cfr. Diod. Sic. 4,4,1. Vd. Pease, De natura deorum, p. 1122 s.

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N O T E AL L I B RO T E R ZO

197 Ampel. 9,11 e Lyd. De Mens. 4,51 leggono il nome Se­

mele, pertanto W. Michaelis, De origine indicis deorum cognominum, diss. Berlin 1898, p. 17 n. 2 e pp. 32 s., ha ritenuto opportuno considerare il passo di Cicerone (o la sua fonte) corrotto, perché Dioniso è figlio di Zeus e Se­ mele (vd. anche Diod. Sic. 1,23,17); al contrario W.H. Ro­ scher, Ùber Selene und Verwandtes, Leipzig 1890, p. 100 n. 403, osserva che Selene, cioè Luna, è moglie di Zeus: cfr. Diod. Sic. 3,57,4 s. e Plut. De Is. et Os. 355e. Vd. altresì Pease, De natura deorum, pp. 1123 s. Per il dionisismo in rapporto con l'orfismo, cfr. già Herodot. 2,81; poi Diod. Sic. 1,23,2 e 7; 3,65,6; Apollod. Bibl. 1,3,2; Lact. Inst. 1,22,15; Lyd. De Mens. 4,51; etc. Vd., in generale, A.L. Festugière, Les mystères de Dionysos, "Revue Biblique" 44, 1953, pp. 366-396; M.P. Nilsson, The Dionysiac Mysteries of the Hel­ lenistic and Roman Age, Lund 1957; e più recentemente, A. Henrichs, Dionysos: One or Many?, in: AA.VV., Redefining Dionysos. Edited by A. Bernabé, M. Herrero de Jauregui, A.l. Jiménez San Cristobal, R. Martin Hernandez, Ber­ lin-Boston 2013, pp. 555-582. Su Dioniso orfico vd. anche la monografia di M. Herrero de Jauregui, Orphism and Christianity in Late Antiquity, Berlin-New York 2010. 198 Il favolista Igino racconta che Dioniso nacque da Semele e poi fu affidato a Niso affinché lo allevasse (cfr. Fab. 131,1 s. e 167,3; e anche in poesia cristiana, Commod. Instr. 1,12,6 ss.); Tione è il nome della madre dopo la sua deificazione (cfr. Hymn. Horn. 1,21). Le Trieteridi, invece, erano feste a sfondo orgiastico celebrate a Tebe ad anni alterni: cfr. in particolare Diod. Sic. 4,3,2. Sul punto si rimanda anche allo studio di Ch.O. Tommasi, Orge e orgiasmo rituale nel mondo antico. Alcune note, "Kervan" 4-5, 2006-2007, pp. 113-130. 199 Per una descrizione di questo tempio, cfr. Paus. 6,25,1:

«Dietro il portico costruito con il bottino di Corcira c'è

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DE NATURA OEORUM

un tempio di Afrodite; non molto distante dal tempio c'è il recinto sacro, a cielo aperto. La divinità nel tempio la chiamano Urania, è in avorio e oro, opera di Fidia, e ha uno dei piedi posto sopra una tartaruga; il recinto sacro dell'altra è circondato da un muretto e ha all'interno un basamento con, sopra, un simulacro in bronzo in Afro­ dite seduta su un capro, anch'esso di bronzo: questo è opera di Scopa e chiamano questa Afrodite Pandemos. Quanto al significato della tartaruga e del capro, lascio e chi ne abbia voglia di fare ipotesi» (trad. italiana da Pau­ sania, Guida della Grecia. Testo e traduzione a cura di G. Maddoli e M. Nafissi, Commento a cura di G. Maddoli, M. Nafissi e V. Saladino, VI, Milano 1999). 200 Il celebre episodio della nascita di Venere dopo la ca­

strazione di Urano per mano di Crono è resa dettaglia­ tamente da Hes. Theog. 176 ss.: «E venne il grande Urano portando la notte, e la Terra avviluppava desideroso d'a­ more e s'espandeva per ogni dove; allora il figlio dal luogo dell'insidia protese la mano sinistra, con la destra prese la smisurata falce lunga, dai denti aguzzi, e i genitali del padre suo subitamente recise e gettò poi con un movimen­ to all'indietro; e non fu senza conseguenze quanto sfuggì dalla sua mano. Perché gli schizzi di sangue, quanti s'e­ rano prodotti, tutti accolse Gaia; e col passare degli anni ella fece nascere le potenti Erinni e i grandi Giganti lam­ peggianti nelle loro armi, tra le mani i lunghi giavellotti, e le Ninfe che chiamano Melie sulla terra senza confini. I genitali, non appena, tagliatili con l'acciaio, li ebbe gettati dalla terra nel mare dai molti flutti, furono trascinati così sul mare per molto tempo; e attorno bianca schiuma dal membro immortali fuorusciva; in questa una figlia crebbe e da principio Citera divina accostò, da dove poi giunse a Cipro circondata dall'onda. Vi sbarcò la dea bella e vene­ rabile, e attorno a lei erba sotto ai suoi agili piedi cresceva;

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lei Afrodite, dea nata dalla schiuma, e Citerea dalla bella corona sogliano chiamare gli dei e gli uomini, perché nel­ la schiuma crebbe, e pure Citerea, perché giunse a Citera» (trad. italiana da Esiodo, Tutte le Opere e i Frammenti con la prima traduzione degli Scolii. Introduzione, traduzione, note e apparati di C. Cassanmagnago, Milano 2009). 201 La menzione dell'unione di Venere con Marte è fre­

quente nella poesia epica: cfr. Horn. Od. 8,266 ss.; e poi Apoll. Rhod. 3,36 ss.; Verg. Aen. 8,372 ss.; etc. Antero è identificato, poco più avanti, al capitolo successivo, con il terzo Cupido. Si tratta di una divinità assai antica del pantheon greco, spesso messo in parallelo al dio Eros/Cu­ pido, ma dell'amore rifiutato: rimando a Pease, De natura deorum, pp. 1127 s. per le ricorrenze in letteratura. 202 Il passo è di assai difficile risoluzione. La lezione dei

manoscritti ciroque o cyroque (difesa peraltro da van den Bruwaene, De natura deorum, ad loc., sulla base di Lu­ cian. De dea Syr. 452 s., dove si parla di un eroe di Siria chiamato Tyros equivalente a Cyros), è stata emendata dall'editore basileense, da Heindorf e da Moser in Tyro­ que. Tuttavia, il confronto con Ampel. 9,9 e Lyd. De Mens. 4,64 sembra supportare Cyproque, già correzione di un anonimo (che il Pease stampa apponendovi però la crux), e forse confortata da Herodot. 1,105: qui, infatti, lo storico di Alicarnasso connette il culto di Astarte in Siria (da lui chiamata Afrodite Urania) con quello analogo di Cipro. 203 Il termine Adone significa "Signore'� e rimanda alla

divinità orientale Tammuz. Molte sono le attestazioni per il culto a lui dedicato nelle zone comprese tra la Siria e Cipro (cfr. su tutti Athen. 157b e Porph. De Abst. 2,61); e non meno rare sono le occasioni in cui esso si trova connessione con la stessa Venere (cfr. Apollod. Bibl. 1,3,3

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e Hygin. Fab. 251). Vd. Pease, De natura deorum, pp. 1041 s. Sul rapporto tra queste due divinità, cfr. ora il saggio di A. Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio, Udine 2012. Per Adone come "dio in vicenda", si veda lo studio di G. Casadio, The Failing Male God: Emasculation, Death and Other Accidents in the Ancient Mediterranean World, "Numen" 50/3, 2003, pp. 231-268. 204 Minerva come madre di Apollo è già stata menzionata

al cap. 3,55. Per la pluralità di Minerva si può rimandare a Clem. Protr. 2,28,2; Arnob. 4,14 ss.; Ampel. 9,10; etc. in Pease, De natura deorum, p. 1129.

205 Minerva è detta figlia del Nilo anche da Arnob. 4,16.

Sais, cittadina situata nella zona centro-ovest del delta del Nilo, aveva come culto principale quello di Neith, di­ vinità che dai Greci era messa in collegamento ad Atena: cfr. Plat. Tim. 21e; Plut. De Is. et Os. 354c; Orig. c. Cels. 5,29. 206 Cfr. già supra, cap. 3,53. 207 Cfr. innanzitutto Anecd. Graec. 1, pp. 207 s. e 305 Bekker,

nonché Arnob. 4,16. Per il nome Koria, si può rimandare a Paus. 8,21,4 (Callimaco invece in Hymn. 3,234 lo rife­ risce ad Artemide): la testimonianza degli Arcadi vene­ ratori di una Atena Caria, figlia di Zeus e Carife, deve essere riferita all'Atena Caria di Lusoi a Clitore, luogo in cui peraltro erano celebrati i giochi ginnici Cariasi. Per quanto rigua_rda invece la nozione dell'invenzione delle quadrighe, le attestazioni per Minerva si circoscrivono ad Ampel. 9,10 e ad altre menzioni lessicografiche più tarde (Suida e Fazio). 208 La notizia dei calzari alati, presumibilmente simili a

quelli posseduti da Ermes, non trova invece attestazione

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diretta in nessun altro documento; cfr. però Aesch. Eum. 1001 s., dove si parla degli Ateniesi "sotto le ali di Pallade". 209 Secondo O. Waser (in Pauly Wissowa, 6, 1909, col. 488)

Ermes padre del primo Cupido è il primo dio itifallico di cui si parla al cap. 3,56. Per la pluralità di Cupido, cfr. Aesch. Suppl. 1043; Pind. Nem. 8,6; Eur. Med. 627 e 842; Catuli. 3,1; Hor. Silv. 1,2,61; etc.

210 Cfr. già supra, al cap. 3,59; e Diod. Sic. 4,6,5. 2 11 Cfr. già supra, al cap. 3,59. 2 1 2 Si torna alla discussione lasciata in sospeso al cap. 3,52. 21 3 [ut Spes]: è omessa da certi deteriores e dalle edizioni

Romana e Aldina, invece è trasposta dopo optandae nobis sunt da Walker e Heindorf, sulla base del confronto con 3,88 (la Speranza non sarebbe una qualità personale, ma un dono divino), cfr. Pease, De natura deorum, p. 1134. 214 Nel testo latino vi è il nesso ab inconstantia et temeritate,

che va confrontato con quanto già si legge ai capp. 2,43 e 56 (già menzionati da Mayor, De natura deorum, p. 140), e in Div. 2,18. Vd. Pease, De natura deorum, p. 1135. 21 5 Cfr. supra, al cap. 2,64. 2 1 6 Cfr. supra, al cap. 2,67. 21 7 Cfr. supra, al cap. 2,67. 21 8 Cfr. supra, al cap. 2,69. 21 9 Cfr. supra, al cap. 2,67.

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22° Con il termine Ve(d)iovis - su cui vd. anche più oltre in

questa nota - si indicava in epoca antica la natura ctonia, spesso considerata maligna, di Giove, cfr. anzitutto Aul. Gell. 5,12,8 (che ne enfatizza gli aspetti ostili e il caratte­ re di divinità punitrice, sebbene più oltre ne ricordi anche le connessioni con Apollo): «Mentre dunque trassero dal "giovare" il nome di Giove e di Diove, invece quella di­ vinità che aveva non già il potere di giovare ma la facoltà di nuocere (alcuni dei li veneravano per i loro benefici, al­ tri cercavano di placarli perché non facessero del male) la chiamarono Vediove, con un nome cioè che indica nega­ zione e privazione della facoltà di giovare» (trad. italiana da Aulo Cellio, Notti Attiche. A cura di G. Bernardi-Perini, I, Torino 1992). Cfr. inoltre il Mythogr. Vatic. 3,6,1 che lo identifica con Orcus e Dion. Hal. Ant. 2,10,3 che invece lo pone accanto a Zeùs Katakth6nios. Molto vicino, in questo senso, Marziano Capella che lo menziona come Vedius, ora connettendolo alla religione etrusca, ora facendone una di­ vinità che presiede a svariate tipologie di demoni: cfr. 2,142 e 166. Il nome della divinità compare tuttavia anche altro­ ve, con differenti varianti, e spesso, come già si è potuto accennare sopra, risulta connesso a certi aspetti di vita quotidiana che erano sotto la potestà di divinità ctonie, cfr. in particolare Macr. Sat. 3,9,10 che tramanda una formula di devotio, degna di essere citata in questa sede: «0 padre Dite, Veiove, Mani, o con qualsiasi altro nome sia lecito no­ minarvi, riempite di fuga, di paura e di terrore tutti, la città di Cartagine e l'esercito, che io intendo dire, e quelli che porteranno armi e dardi contro le nostre legioni e il no­ stro esercito, portate via con voi quell'esercito, quei nemici e quegli uomini, le loro città e i loro campi e quelli che abi­ tano in questi luoghi e regioni, nei campi e nelle città, pri­ vateli della luce del sole, e così l'esercito nemico, le città e i campi di coloro che io intendo dire, e voi considerate male­ dette e a voi consacrate quelle città e quei campi, le persone

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e le generazioni, secondo le leggi e i casi per cui soprattutto son maledetti i nemici. Io li do e li consacro in voto come sostituti per me, per la mia persona e la mia carica, per il popolo romano, per il nostro esercito e le nostre legioni, affinché lasciate sani e salvi me, la mia persona e il mio comando, le nostre legioni e il nostro esercito impegnati in questa impresa. Se farete ciò in modo che io sappia, inten­ da e capisca, allora chiunque farà questo voto, dovunque lo faccia, sarà valido se compiuto con tre pecore nere. madre Terra, e te, Giove, prendo a testimoni» (trad. italiana da Macrobio Teodosio, I Saturnali. A cura di N. Marinone, Torino 1967). Da ultimo, il prefisso Ve- è stato interpretato dagli scrittori antichi anche come un rimando effettivo alla leggenda della giovinezza di Giove: Pesto, grammatico di II d.C., lo glossa come parvus Iuppiter (519,21), mentre Ovi­ dio lo connette direttamente al racconto dell'infanzia del re degli dèi (Fast. 3,429 ss.). Il suo culto, largamente attestato anche in ambito epigrafico (cfr. ad esempio CIL 1,80'7, che ricorda la costruzione di un altare dopo la Lex Albana, e lo stesso dio come patrono della gens Iulia, cfr. anche Verg. Georg. 3,35), aveva luogo nella cosiddetta sella inter Arcem et Capitolium. Plinio (Nat. Hist. 16,40,79 simulacrum Veiovis in arce e cupresso durat a condita urbe DLXI anno) rammenta la presenza di una sua statua lignea sull'Arce risalente all'an­ no 192 a.C., ancora ben conservata. In generale, cfr. anche A.M. Colini, Il Tempio di Veiove: Aedes Veiovis inter arcem et Capitolium, Roma 1943; A Stazio, Sul culto di Veiove in Roma, "Rendiconti della Accademia di Archeologia, Lette­ re e Belle Arti di Napoli" 23 n.s., 1946/1948, pp. 137-147; Pe­ ase, De natura deorum, p. 1136 s. 221 Cfr. supra, al cap. 2,66. 222 I metodi etimologici sono attestati, nella Stoà, soprat­

tutto per Crisippo, che, prima delle critiche di Carneade,

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ne rappresenta l'ultimo grande esponente: cfr. Philod. De Piet. 15 Gomperz; Sen. Ben. 1,3,8; Galen. De plac. Hipp. et Plat. 3,5,328,8 ss.; ed infine Stoicorum Veterum Fragmenta 2,1076 ss. von Arnim. 223 La malaria fu personificata per il valore apotropaico

del suo culto: si tenga presente in particolar modo, oltre al cap. 3,24 sulle febbri terzane, il resoconto di Val. Max. 2,5,6, che ben ci espone le varie modalità di venerazio­ ne: «Quanto agli altri dèi, li veneravano per averne dei benefici, mentre la dea Febbre era onorata, perché non nuocesse, in templi, dei quali uno si trova ancor oggi sul Palatino, un altro nella zona dei monumenti di Mario, e il terzo nella parte terminale del Vicus Longus: in essi veniva raccolto tutto ciò che fosse servito di rimedio al contatto col corpo dei malati. Tali oggetti erano stati escogitati con l'esperienza, per lenire il delirio derivante dallo stato febbrile. Del resto la loro salute era protetta in maniera sicura ed infallibile dalla stessa vita attiva che conducevano, e madre del benessere fisico era la frugali­ tà, nemica dei banchetti lussuosi, aliena dagli eccessi del bere e moderata nei rapporti sessuali» (trad. italiana da Valerio Massimo, Detti e Fatti Memorabili. A cura di R . Fa­ randa, Torino 1971). Cfr. in aggiunta Ael. Var. Hist. 1 2,11; Cypr. Quod Idol. 4; Prud. Hamartig. 157 s. 224 Il testo latino è una inserzione dell'edito­

re Cristoforo Pincio (ed. 1494) sulla base del confronto di­ retto con Plin. Nat. Hist. 2,16, che sembra aver modellato le sue parole sul precedente ciceroniano (si noti anche la presenza dell'altare dei Lari): «E per questo, anche uffi­ cialmente, si è dedicato un tempio sul Palatino alla Feb­ bre, un altro a Orbona presso quello dei Lari, e un altare pure alla Cattiva Sorte, sull'Esquilino» (trad. italiana da Gaio Plinio Secondo, Storie Naturale. Prefazione di I. Cal-

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vino, saggio introduttivo di G.B. Conte, nota bibliografi­ ca di A. Barchiesi, C. Frugoni, G. Ranucci, traduzioni e note di A. Barchiesi, R. Centi, M. Corsaro, A. Marcone, G. Ranucci, I, Torino 1982). Sarebbe piuttosto improbabile, infatti, che Cicerone citasse l'altare dei Lari in un conte­ sto dedicato a divinità negative: Orbona veniva invocata dai genitori che avevano perso o che stavano per perdere un figlio (etimologia da arbus, che rimanda cioè agli orfa­ ni o a chi ha perso dei figli). Cfr. anche Arnob. 4,7. 225 Un culto di questo genere, dedicato a una potenza ne­

gativa come la Sfortuna, si spiega solamente con atteg­ giamenti propiziatori ed apotropaici: cfr. Plaut. Rud. 501 Malam Fortunam in aedis te adduxi meas; Plin. Nat. Hist. 2,16. 226 Pease, De natura deorum, p. 1141 (cui rimando per le

varie soluzioni degli editori) ritiene che la frase, oltre ad essere corrotta alla fine, difetti anche della parte iniziale. 227 A questo punto il testo si interrompe bruscamente a

causa di una lacuna abbastanza estesa. Nella porzione di testo caduta sarebbero state presenti le tematiche della cura da parte della Provvidenza e degli dèi rispettiva­ mente per il mondo e per gli uomini. La lacuna è comune a tutti i codici medievali; e l'unica certezza che abbiamo è che il testo doveva essere sicuramente disponibile fino alla seconda metà inoltrata del IV sec., come ci dimostra­ no i frammenti supersti� i, qui raccolti in traduzione al termine del terzo libro. E probabile che in questo taglio dell'opera sia da scorgere una soppressione per ragioni religiose, forse da parte di uno scriba di fede cristiana scandalizzato dalle argomentazioni di Cotta. Su questo vd. anche Pease, De natura deorum, pp. 1142 s. e quan­ to detto da noi nell'Introduzione, nella sezione dedicata alla trasmissione del testo.

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228 Cfr. Enn. Med. exul 266 ss. Vahlen e il suo ipotesto pre­

sente in Eur. Med. 364 ss.

229 Cfr. Enn. Med. 269 Vahlen. 23° Cfr. Enn. Med. 270 ss. Vahlen. Si sta parlando del suo­

cero di Giasone, Creante di Corinto.

231 Quest'altra citazione non appartiene alle Medea di

Ennio, ma, probabilmente, a quella di Accio, già impie­ gata da Cicerone al cap. 2,89. Per la vicenda qui raccon­ tata della morte di Absirto, fratello di Medea (su cui cfr. supra al cap. 3,48), si legga in particolare Ov. Trist. 3,9,5 ss.: «Si dice che, con quella nave costruita dall'opera della bellicosa Minerva, che per prima solcò acque ine­ splorate, l'empia Medea, fuggendo il padre dopo averlo abbandonato, depose i remi su queste spiagge. Quando la vedetta dall'alto del promontorio scorse da lontano il padre, gridò: "Giunge uno straniero dalla Colchide, riconosco le vele" [...] Dunque, appena vide sopraggiun­ gere la nave: "Ci hanno presi", esclamò, "bisogna tenere a bada mio padre con qualche inganno". Mentre si do­ mandava che cosa dovesse fare e girava attorno in ogni parte lo sguardo, per caso, volgendo gli occhi, li posò sul fratello. Non appena si accorse della sua presenza, esclamò: "Abbiamo visto; costui con la sua morte sarà la causa della mia salvezza". Subito col duro ferro trapas­ sa il fianco innocente del fratello, che ignaro non teme­ va nulla di simile, poi lo fa a brani e sparge per i campi le membra dilaniate, perché siano trovate in più luoghi. E perché non sfuggano al padre, espone sopra un alto scoglio le pallide mani e il capo sanguinate, cosicché il genitore sia trattenuto dal nuovo lutto, e, raccogliendo le membra dell'ucciso, ritardi il suo viaggio funesto». (traduzione italiana da Publio Ovidio Nasone, Opere. A

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cura di F. Della Corte e S. Fasce, II, Torino 1986). Vd. ancora Pease, De natura deorum, pp. 1145 s. 232 Cfr. Ace. Atreus 200 s. Ribbeck. È introdotto a questo

punto un nuovo exemplum mitico altrettanto noto, quello di Atreo che si vendicò del fratello Tieste, il quale a sua volta aveva sedotto Aerope, moglie di Atreo. Per il mito, si veda anche Hygin. Fab. 86 e 88. 233 Cfr. Ace. Atreus 205 Ribbeck. 234 Cfr. Ace. Atreus 206 ss. Ribbeck. 235 Cfr. Ace. Atreus 209 ss. Ribbeck. Si racconta la storia re­

lativa all'agnello d'oro donato da Zeus ad Atreo come ga­ ranzia del suo regno: il furto dell'agnello venne operato da Aerope sotto l'impulso di Tieste. La tradizione, come si può immaginare, è assai ricca e variamente documen­ tata: cfr. Pease, De natura deorum, pp. 1149 s. per i paralleli letterari e una discussione del materiale ivi elencato. 236 Gli studiosi principali del testo sono concordi nel ri­

tenere che nella sezione compresa tra i capp. 65 e 78 si verifichino alcune ripetizioni: in particolare, si veda la ri­ presa a 3,74 e a 3,78 del cap. 3,69; nonché l'esposizione del cap. 3,70 comune a quella di 3,76. Mayor è dell'opinione che l'autore abbia prima esposto una sorta di sommario degli argomenti (capp. 3,39 ss.), per poi affrontarli di nuo­ vo più diffusamente in seguito (capp. 3,71 ss.), ma è pro­ babile che qui giochi un certo peso anche la mancanza di una revisione finale del terzo libro. Cfr. altresì Pease, De natura deorum, p. 1153. 237 In questo senso ragiona anche Gorgia nelle parole di

Plat. Gorg. 456d ss.: «Di ognuna di queste (scil. le tecniche

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competitive) non bisogna far uso contro tutti gli uomini: il fatto che si sia imparato a fare a pugni, a lottare al pan­ crazio e a combattere con le armi in modo da battere amici e nemici, non è un motivo per colpire gli amici, ferirli o ucciderli. Così, per Zeus, se uno, a forza di frequentare la palestra, è diventato robusto nel corpo e buon pugile e si mette quindi a picchiare il padre, la madre o qualcun altro dei suoi familiari o degli amici, ciò non è un motivo per odiare e cacciare dalla città i maestri di ginnastica e quelli che insegnano a combattere con le armi. Costoro hanno trasmesso la loro tecnica perché ne fosse fatto un giusto uso contro i nemici e quanti commettono ingiustizia, per difendersi, non per sopraffare. Quelli che la pervertono ad altri scopi fanno un uso scorretto della forza e della tecni­ ca. La tecnica non è colpevole né cattiva per tale motivo, e malvagi, dunque, non sono i maestri ma coloro che ne fan­ no un uso scorretto, credo» (traduzione italiana da Platone, Dialoghi Filosofici. A cura di G. Cambiano, I, Torino 1970). 23 8 Il mito è al centro delle Trachinie di Sofocle (si leggano,

in particolare, i vv. 555 ss. per l'esposizione della vicenda qui riassunta).

239 All'episodio mitico di Deianira, per cui vd. la n. pre­

cedente, si accosta la realtà storica di Giasone di Fere, uomo militare di elevatissimo spessore, molto ambizio­ so (è storicamente legato alla nascita della seconda Lega delio-attica del 375 a.C.), che trovò la morte nel 370 per mano di sette giovani congiurati beoti. La narrazione dell'assassinio si può leggere, tra gli altri, in Xen. Hell. 6,4,31 s. Cicerone, però, fa riferimento a u n capitolo pre­ cedente della vita di Giasone, che non sempre è garantito dall'unanimità delle fonti letterarie: cfr. Val. Max. 1,8, ext. 6; Sen. De Ben. 2,18,8; Plin. Nat. Hist. 7,166; e infine Plut. De Cap. ex Inim. Util. 89c.

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240 La sententia trova riscontro in Theogn. 137 s.; Plat. Leg.

9,862a; Aug. Serm. 10,5.

241 Le differenze che intercorrono tra intento e risultato

di un'azione sono un tema ricorrente nell'ambito della let­ teratura moraleggiante e sentenziosa: cfr. Parad. 20; Att. 9,7a,1; e poi Soph. Trach. 1136; Aristot. Eth. Eud. 1225b3 s.; Pubi. Syr. 284; Sen. De Ben. 1,6,1.

242 Cfr. Ter. Eun. 46 e 49, assemblati a formare un blocco

unitario.

243 Cfr. Caecil. Stat. Syneph. 199 ss. Ribbeck. 244 Cfr. Caecil. Stat. Syneph. 202 ss. Ribbeck. 245 Cfr. Caecil. Stat. Syneph. 206 ss. Ribbeck. 246 Cfr. Ter. Phorm. 321 (con la variante mi al posto di mihi

attestato da Cicerone). Per il concetto generale del cuore umano come sede delle facoltà intellettive e centro del pensiero, della memoria e della volontà, si vedano Plaut. Poen. 578; Cist. 509; Verg. Aen. 4,533; Aul. Geli. 2,29,20. 247 A Roma vi erano numerosi Tabularia, cioè archivi, ma

il più celebre era collocato nei pressi del tempio di Sa­ turno sul Campidoglio. Il 6 luglio dell'83 a.C. venne di­ strutto da un incendio sul colle (non è certo se fosse stato doloso o meno). Venne ricostruito nel 78 a.C. dal console Quinto Lutazio Catulo: cfr. Pro Rab. Perd. 8. 248 Questo personaggio non è altrimenti noto. 249 Anche in questo caso la tradizione non ci aiuta a com­

prendere con precisione chi sia costui: peraltro il nome

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in questione è un'emendazione delle lezioni errate pre­ senti nei manoscritti medievali, dove leggiamo asenus, aienus, lalenus. Un'iscrizione del IV d.C. (cfr. CIL 9,687) attesta l'esistenza di un tal Ulpius Alenus, che però è da identificare con il corrector Apuliae et Calabriae che, tra il 305 e il 310 d.C., pose un monumento per Galerio Valerio Massimino Cesare (vd. D. Kienast, Romische Kaisertabel­ le: Grundziige einer romischen Kaiserchronologie, Darmstadt 1996, p. 288). 2 50 Nell'anno 106 a.C., dopo aver sconfitto i Cimbri, il

console Quinto Servilio Cepione saccheggiò la città di Tolosa, rubando un'ingente quantità d'oro che si ritene­ va provenire dal santuario di Delfi: per la narrazione degli eventi, cfr. Strab. 4,1,13; Dio Cass. 27,90; Aul. Geli. 3,9,7; Paul. Oros. 5,15,25. Sulla leggenda e soprattutto il motivo della maledizione dell'aurum Tolosanum, vd. A. Hofeneder, Die Religion der Kel��n in den antiken litera­ rischen Zeugnissen. Sammlung, Ubersetzung und Kom­ mentierung, I, Von den Anfangen bis Caesar, Wien 2005, pp. 125 ss. 251 Un diretto riferimento a Sali. Bell. Iug. 40,1 ss. (l'evento

risale al 110 a.C.): «A Roma, nel frattempo, Caio Mamilio Limetano, tribuno della plebe, presenta al popolo una proposta di legge intesa a promuovere un'inchiesta nei confronti di colori per cui istigazione Giugurta aveva trasgredito le disposizioni del senato; e di chi, nelle am­ bascerie o in funzione di comando, aveva accettato dena­ to da lui o gli aveva consegnati elefanti e disertori; e di chi, ancora, aveva concluso col nemico patti di pace o di guerra. A questa proposta, alcuni perché profondamen­ te conscii delle proprie colpe, altri temendo imputazioni del partito ostile, poiché non potevano manifestamente opporvisi senza rivelare che approvavano quelle ed altre

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simili scelleratezze, segretamente, per messo di amici, e soprattutto per mezzo di Latini e di alleati Italici, suscita­ vano remore. Ma è incredibile a dirsi quanto la plebe sia stata ferma nel suo proposito, e con quanta forza abbia voluto a tutti i costi la legge, più per odio verso i nobili, contro cui si apprestavano quelle sanzioni, che per amo­ re dello Stato: tanta era la passione di parte! Così, men­ tre tutti gli altri erano colpiti dal timore, M. Scauro, che sopra ho riferito essere stato luogotenente di Bestia, tra l'esultanza della plebe e la pavida costernazione dei suoi, profittando dell'agitazione che ancora regnava in Roma, agì in modo da venire eletto fra i tre magistrati istruttori richiesti dalla legge Mamilia. L'inchiesta, però, fu condot­ ta con severità e rigore, in conformità delle accuse e del­ le passioni della plebe: così, in quella circostanza, come già spesso la nobilità, in seguito al successo divenne tra­ cotante la plebe». 252 Per questo, cfr. già supra, al cap. 1,63. 253 Cicerone richiama alla memoria un evento accaduto

nel 114 a.C., anno in cui il tribuno Sesto Peduceo si oppo­ se al pontifex maximus Lucio Metello e a tutto il collegio dei pontefici, poiché di tre vestali, una, di nome Emilia, era stata condannata a morte per incestus, mentre le altre due, Marzia e Licinia, erano state assolte: la narrazione storica si ritrova in Dio Cass. 26,87,1 ss. (assai dettagliata) ed è richiamata dal grammatico Asconio nel suo com­ mento alla Pro Milone di Cicerone: cfr. il cap. 32 Harries, dove leggiamo che nello stesso momento in cui il tribu­ na Peduceo accusò Metello, pontefice massimo, e tutto il collegio dei pontefici di aver giudicato male il crimi­ ne a sfondo sessuale contro la natura e la religione delle vergini Vestali. Sulla questione in generale relativa alle Vestali, sul loro obbligo di castitas e di osservazione della

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giurisdizione pontificate, cfr. C. Lovisi, Vestale, incestus et juridiç tion pontificale sous la République romaine, "Mélanges de l'Ecole française de Rome. Antiquité" 110, 1998, pp. 699-735. 254 Giocherebbe qui, secondo Pease, De natura deorum, p.

1164, la recente memoria della lex Cornelia de sicariis et veneficiis promulgate da Silla nell'81 a.C.

255 Per la formula legislativa, cfr. Gai. Inst. 3,202: «Talvolta

risponde di furto colui che non ha commesso personal­ mente l'illecito, quale è il soggetto con il cui contributo il furto è stato realizzato. Si annovera in questo ambito colui che ti ha fatto cadere delle monete, affinché un altro le sottraesse, ovvero ti ha ostacolato, affinché un altro le sottraesse, o ha messo in fuga le tue pecore e i tuoi buoi, affinché un altro li catturasse. [...] Ma se qualcosa del ge­ nere sia stato fatto per giocosità e non con l'intenzione che fosse commesso un furto, vedremo se si debba con­ cedere un'azione utile, poiché mediante la legge Aquilia che è stata emanata riguardo al danno, si punisce anche la colpa» (trad. italiana ricavata dal saggio di L. Desanti, La legge Aquilia: tra "verba" legis e interpretazione giurispru­ denziale, Torino 2015, p. 78). 256 Si tratta del crimine di tutela male administrata, concer­

nente le responsabilità di vigilanza dei tutori sui minori: da Off. 3,61 comprendiamo che tale azione era contem­ plata già nelle Leggi delle XII Tavole. 257 L'accusa per mandatus riguardava le commissioni as­

sunte per il vantaggio di un mandante: a questo propo­ sito, cfr. Gai. Inst. 3,155 dove si sottolinea, appunto, che si ha mandato sia che venga dato un incarico in favore nostro sia in favore altrui.

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258 L'azione pro socio consiste nella violazione del contrat­

to di societas: vd. R. Zimmermann, The Law of Obliga­ tions: Roman Foundations of the Civilian Tradition, Oxford 1996, pp. 460 s.

259 Cactio fiduciae è l'azione a garanzia del fiduciante: sulla

questione, che implica anche una discussione sul piano etico-comportamentale, perché in linea con la nozione di vir bonus (cfr. O.ff. 3,61 in fiducia "ut inter bonos bene agier"), si vedano le pagine ben documentate di G. Falcone, La for­ mula "ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione" e la nozione di "vir bonus '� "Fundamina" 20, 2014, pp. 258-274. 260 Su questi crimini, legati alla compravendita e alla

definizione dei pretia dei negozi, si veda il recentissimo studio di G. Falcone, La trattazione di Gai. 3,140-141 sul pretium nella compravendita, tra 'regulae' e ius controversum, "Annali del Seminario Giuridico dell'Università degli Studi di Palermo" 58, 2015, pp. 39-56. 261 La Lex

laetoria (questa la lezione accolta a testo da

Pease, già sostenuta da Heindorf, Mayor e Miiller, sulla base dell'apporto epigrafico e letterario di Inscr. Lat. Se­ lect. 2066; 2660; 5468; etc.; Att. 5,10,36; etc.; altri leggono in­ vece Laetoria) proteggeva i minori di 25 anni dai contratti fraudolenti, imponendo la presenza di un curator nomi­ nato dal pretore durante la stipula dei contratti stessi: cfr. Off. 3,61 e Plaut. Pseud. 303 (per un'attestazione della sua esistenza già all'inizio del II secolo a.C.). 262 Gaio Aquilio, discepolo di Scevola il Pontefice, fu pre­

tore con Cicerone nel 66 a.C. e dovette stabilire le norme relative ai processi di frode contrattuale. Egli viene ri­ evocato in O.ff. 3,60 sempre a proposito del dolus malus, di cui Cicerone dà una definizione equivalente a quella

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presente nel nostro De natura deorum: «Il mio amico e collega G. Aquilio non aveva ancora stabilito gli estremi della frode; interpellato sui quali, questi stesso risponde­ va: dire una cosa e farne un'altra». Il nesso dolus malus, spesso compendiato nelle iscrizioni con la abbreviazione d.m., è adoperato ancora in O.ff. 3,64; Top. 40; Pro Tull. 7,23 ss.; Isid. Etym. 5,26,7. Cfr. infine la voce, s. v. di J.C. Abbot, in The Encyclopedia of Ancient History, Malden 2012, con bibliografia aggiornata. 263 Citazione da Enn. Med. 246 s. Vahlen, ma si legga­ no anche i versi successivi per un quadro generale sul motivo filosofico ivi esposto (si tratta, sommariamente, della relazione intrinseca e del concatenarsi tra cause ed effetti degli eventi). La citazione operata da Cicerone è proverbiale, quasi a scopo puramente estetico: i versi in questione, che riprendono da vicino i concetti espressi da Eur. Med. l ss., godettero infatti di grande fam a nell'an­ tichità, come dimostrano non solo le svariate citazioni presenti negli scritti del nostro Cicerone (cfr. ad esempio Fin. 1,5; Fat. 35; De Inv. 1,91; etc.), ma anche le parafrasi e imitazioni che si riscontrano in altri autori (cfr. ad esem­ pio Ov. Am. 2,11,1 ss.; Met. 1,94 s.; Lucan. 6,400 s.; etc. in Pease, De natura deorum, pp. 1167 s.). Sul passo di Ennio in generale e sul suo modello greco, si leggano le pagine, recenti e ben documentate, di A. Gullo, L'incipit della Me­ dea di Ennio, "Dioniso" l n.s., 2011, pp. 133-154. 264 Il medesimo concetto torna in Arnob. 2,44 e, in ambito

greco, in Nemes. De Nat. Horn. 41.

265 Questa tradizione, con tutte le sue variazioni letterarie

e artistiche figurative, trova già spazio in Esiodo e am­ pio terreno fertile in Ovidio (soprattutto ricordiamo Met. 2, ss., e per il primo la testimonianza di Hygin. Fab. 154

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Phaethon Hesiodi). Cfr. Pease, De natura deorum, p. 1171, e, più recentemente, con discussione, gli aggiornamenti più recenti di M. Ciappi, La narrazione ovidiana del mito di Fetonte e le sue fonti, "Athenaeum" 88, 2000, pp. 117-168, e A. Debiasi, Fetonte, gli Argonauti e l'immaginario arcaico, in: E. Gavi (ed.), Dal Mediterraneo all'Europa. Conversazioni adriatiche, Roma 2009, pp. 175-199. Limitatamente a Ci­ cerone, invece, il mito ritorna anche in O.ff. 3,94: «Per ri­ tornare ai miti, il Sole disse al figlio Fetonte che avrebbe fatto tutto ciò che egli avrebbe desiderato. Ed egli desi­ derò di salire sul cocchio del padre; fu accontentato; ma egli prima di porsi a sedere fu colpito e bruciato da un fulmine. In questo caso quanto sarebbe stato meglio che la promessa del padre non fosse stata mantenuta!». 266 Anche in questo caso la tradizione mitografica è fit­

ta: oltre all'Ippolito di Euripide e alla Fedra di Seneca, si possono menzionare Plat. Leg. 11,931b; Diod. Sic. 4,62,1 ss.; Ov. Met. 15,497 ss.; e, limitando lo sguardo agli scritti di Cicerone, Off. 1,32: «Può accadere che mantenere una promessa od un patto diventi dannoso o a colui al quale è stato promesso o a chi ha promesso. Se infatti, come è nelle tragedie, Nettuno non avesse mantenuto la pro­ messa fatta a Teseo, questi non sarebbe stato orbato del figlio Ippolito; delle tre richieste infatti, come si racconta, terza fu appunto la morte di Ippolito, che quegli scelse per ira; ed esaudito, cadde in gravissimo lutto». 267 Per Aristone di Chio, cfr. già supra, al cap. 1,37 e la

relativa n. 100.

268 Aristippo, vissuto a cavallo tra V e IV secolo a.C., è

considerato il fondatore della scuola cirenaica: tra i suoi allievi si rammenta, in particolare, Teodoro di Cire­ ne, soprannominato l'Ateo, sostenitore, proprio come il

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maestro, dell'edonismo come fine ultimo della vita. Al­ tre critiche rivolte ad Aristippo si leggono nel secondo libro del De Finibus ciceroniano, in Diog. Laert. 2,66 ss., e in Lact. Inst. 3,15,15 s. (che deriva, con ogni probabilità da Cicerone). In particolare, a proposito della dissolutez­ za degli allievi, si possono ricordare Fin. 2,22; Plat. Rep. 560e; Aristot. Eth. Nic. 1107b9 s. e 1119b34 ss.; etc. per cui vd. la nota ad asotos in Pease, De natura deorum, p. 1173. 269 Questa distinzione tra dolori del corpus e della fortuna

ritorna anche in Tusc. 5,22 ss. e Fin. 2,68; altrove troviamo invece una tripartizione: si vedano Tusc. 5,23 e 85; Plat. Leg. 697b; Sext. Emp. Pyrrhon. 3,180; etc. in Pease, De na­ tura deorum, p. 1176.

270 La citazione appartiene a Enn. Telamo 318 Vahlen, per

la cui contestualizzazione rimando alla discussione di F. Caviglia, Il Telamo di Ennio, "Annali della Scuola Nor­ male Superiore di Pisa. Lettere, Storia e Filosofia. II Se­ rie" 39, 1970, pp. 469-488, in particolare pp. 475 ss. Per il concetto in generale, le attestazioni sono molteplici e rivelano il carattere quasi proverbiale dell'enunciato: cfr. ad esempio Plat. Rep. 364b; Leg. 885c ss.; Trasymach. fr. 8 Diels-Kranz; Plaut. Merc. 6 s.; Ter. Hecyr. 772; Lucr. 6,387 ss.; Martial. 4,21,1 ss.; Sext. Emp. Pyrrhon. 1,32; Orig. c. Cels. 1,10; Boeth. De Cons. Phil. l, poet. 5,25 ss.; etc. 271 Cicerone fa riferimento a P. Cornelio Scipione e a Gneo

Cornelio Scipione Calvo, entrambi uccisi nel 212 a.C. du­ rante la seconda guerra punica: cfr. Off. 1,61 e 3,16; Parad. 12; Rep. 1,1,; Pro Balb. 34; Val. Max. 1,6, 2; 9,11, ext. 4; Sii. Ital. 7,106 s.

272 Console nel 213 a.C., Quinto Fabio Massimo morì tra

il 207 e il 203: fu suo padre Quinto Fabio Massimo, detto

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Cunctator, a pronunciarne l'elogio funebre. Il ricordo di questo evento sopravvive nella memoria di Cicerone an­ che in Sen. 12; Tusc. 3,70; Fam. 4,6,1; Plut. v. Fab. 24,4. 273 Marco Claudio Marcello, cinque volte console, morì a

Venosa nel 208 a.C.

274 La rovinosa battaglia di Canne del 2 agosto del 216 a.C.

costò la perdita di Lucio Emilio Paolo, che quell'anno era console con il .compagno Gaio Terenzio Varrone.

275 Marco Attilio Regolo condusse la guerra nel 256 a.C.

in Africa contro i Cartaginesi, i quali, dopo averlo scon­ fitto, lo catturarono e lo inviarono a Roma per trattare lo scambio dei prigionieri di guerra. Regolo sconsigliò i Romani di accettare la proposta dei Cartaginesi, ma, una volta tornato a Cartagine, venne fatto prigioniero e torturato a morte dai nemici. La retorica e la filosofia antica lo hanno dipinto come un personaggio virtuosis­ simo, e molto è stato scritto sul triste capitolo della sua morte: alcuni intendono che i Cartaginesi lo avessero punito impedendogli il sonno (Aul. Gell. 7,4,1 che ripor­ ta la teoria di Sempronio Tuditano), altri che gli fosse­ ro state cucite le palpebre (Aul. Gell. 7,4,3 che fa riferi­ mento a Ennio), e altri ancora che non gli fosse dato da mangiare (lo stesso Cicerone in Fin. 2,65) o fosse stato 'crocifisso' all'interno di una cassa con chiodi conficcati (Sen. De Prov. 1,3,9). 276 Celebre comandante dell'esercito romano durante la

terza guerra punica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, detto l'Africano, fu trovato morto nel suo letto nell'anno 129 a.C. Il nostro autore sembra accettare la tradizione secondo cui l'Africano fosse stato assassinato (cfr. anche Val. Max. 4,1,12 e Veli. Pat. 2,4,5); un altro filone interpreta

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invece la morte per cause naturali o, addirittura, per sui­ cidio. 277 Publio Rutilio Rufo, spesso elogiato per la sua integrità

morale, nacque nel 154 a.C. e visse all'incirca ottant'anni. Studiò con Panezio, partecipò al Circolo di Scipione, con il quale fu a Numanzia nel 133, e fu console nel 105 a.C. Durante il suo servizio in Asia insieme a Quinto Muzio Scevola, nel 94, incontrò il malcontento dei cavalieri, in seguito al suo progetto di tutelare le popolazioni locali, allora vessate dai riscossori delle tasse. Al suo ritorno a Roma nell'anno 92, venne accusato di concussione e fu obbligato a pagare un'ingente ammenda, che non potè sostenere. Si ritirò in esilio prima a Mitilene e poi a Smir­ ne, dove Cicerone lo incontrò nel 78 a.C. La sua presenza nell'opera filosofica e retorica dell'Arpinate (e non solo) è costante: cfr. ad esempio Fin. 1,7; Rep. 1,17; Off. 2,47; De Or. 1,227 ss.; Brut. 113 ss.; etc.; Sen. De Prov. 1,3,4; Quintil. lnst. 5,2,4 e 11,1,12; etc. in Pease, De natura deorum, p. 1182. 278 Marco Livio Druso fu tribuno della plebe nel 91 a.C.:

propose molte riforme, tra cui una lex frumentaria e l'e­ stensione del diritto di cittadinanza agli Italici, ma fu fortemente osteggiato dal senato. Incontrò la morte nella sua casa sul Palatino, poi acquisita da Crasso e in seguito acquistata da Cicerone in persona nel 62. Cotta lo chiama sodalis in quanto fu candidato al consolato nello stesso anno in cui Druso era tribuno. 279 Quinto Scevola, figlio del Publio Scevola già nomi­

nato ai capp. 1,115 e 3,5, fu anch'esso pontifex maximus; Cicerone lo conobbe direttamente durante gli studi di giurisprudenza (cfr. Brut. 306). Morì per mano di Dama­ sippo nell'82 a.C., stando a quello che ci riferiscono an­ che le altre fonti, all'interno del tempio di Vesta presso il

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Foro. Si presti attenzione al riferimento di Cicerone circa la presenza di una statua di Vesta (anche in De Or. 3,10 simulacrum Vestae), la cui esistenza sembrerebbe negata da Ovidio in Fast. 6,295 s., ma non in Fast. 3,45 s., dove ne leggiamo una effettiva, se pur breve, descrizione. Da ultimo, R. Joy Littlewood, A commentary an Ovid's Fasti, book 6, Oxford 2008, pp. 95 s., osserva a questo proposito che «Recent scholarly opinion is divided over wheter this represented Vesta herself and was therefore a radical de­ parture from normal cult pratice in the Aedes Vestae [. .] or whether Augustus had simply installed in his house a replica of the Vestal flame and the Palladium [con riferi­ mento a Fasti Caeretani, dove è attestata l'installazione da parte di Augusto di un signum Vestae] [...] It was not unu­ sual for Roman writers, alluding to a statue in the tempie of Vesta, to mean by this the Palladium, which was a statue». Cfr. infine anche Pease, De natura deorum, p. 1183. .

280 Lucio Cornelio Cinna istituì insieme con Mario nell'87

a.C. un vero e proprio regime di terrore, mantenendo ille­ galmente la carica nei tre anni successivi e portando alla morte di molti uomini illustri. Di questo, Cicerone ci dà un quadro fugace, ma molto efficace, in Tusc. 5,55 s.: «Ebbene? Tu preferiresti, se ti fosse data facoltà di scelta, essere con­ solte una sola volta come Lelio oppure quattro volte come Cinna? Non ho dubbi sulla tua risposta; capisco a chi mi rivolgo. Non farei la stessa domanda a chiunque; giacché un altro forse risponderebbe che non solo antepone quat­ tro consolati ad uno solo, ma anche una sola giornata di Cinna all'intera vita di molti uomini illustri. Se Lelio aves­ se toccato uno col dito, l'avrebbe scontato; Cinna invece fece tagliar la testa al console Gneo Ottavio suo collega, a Publio Crasso, a Lucio Cesare, personaggi molto in vista di cui si era conosciuto il valore in pace e in guerra, a Mar­ co Antonio, l'uomo più eloquente di quanti io abbia mai

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udito, a Gaio Cesare, che a mio parere fu un modello di finezza, di spirito, di gentilezza, di amabilità». Cfr. altresì Phil. 2,108; 11,1; Pro Sest. 77; Att. 8,9,4; Dio Cass. 5,47,1; Paul. Oros. 5,19,23 s. In generale, sull'epoca di Cinna, si veda lo studio di M. Lovano, The Age of Cinna: Crucible of Late Re­ public Rome, Stuttgart 2002. 281 L'evento cui l'autore fa riferimento accadde nell'anno

87 a.C., quando Lutazio Catulo (menzionato anche su­ pra, al cap. 1,79), già console con Mario nel 102, cadde in prescrizione a causa degli stessi mariani. Si presti atten­ zione all'atteggiamento ostile di Cicerone nei confronti di Mario, suo concittadino, da lui spesso elogiato, forse oggetto di un poemetto esametrico intitolato Marius e databile tra 1'87 e 1'83 o verso il 50 a.C. Sul rapporto tra Mario e Cicerone, vd. Pease, De natura deorum, p. 1184; F. Santangelo, Cicero and Marius, "Athenaeum" 96, 2008, pp. 597-607; H. van der Blom, Cicero's Role Models. The Politi­ cal Strategy of a Newcomer, Oxford 2010. 282 Mario fu console per sette volte, negli anni 107, 104,

103, 102, 101, 100 e 86 a.C.; un vero e proprio record nella storia della Repubblica romana (sei, invece, i consolati di Quinto Capitolino e Valerio Corvo). Morì all'inizio del suo settimo consolato: cfr. Plut. v. Mar. 45,5 ss. e 46,5. 283 Cinna fu console per quattro anni, dall'87 all'84 a.C.

Per la definizione del suo consolato come tirannide, cfr. anche Sall. Hist. l fr. 60 La Penna-Funari Tyrannumque et Cinnam maxima voce appellans (cioè: «chiamandolo a gran voce 'tiranno' e 'Cinna'»); Tac. Ann. 1,1. 284 Cicerone allude alla morte di Cinna, avvenuta a Brin­

disi per mano del suo stesso esercito: cfr. Liv. Perioch. 83 e Appian. Bell. Civ. 1,78.

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285 Quinto Vario Severo Sucronensis, detto Hybrida per

l'oscurità del suo parentado, fu tribuna della plebe nel 90 a.C.: propose una Iex Varia de maiestate volta a condan­ nare per alto tradimento tutti coloro che avevano parteg­ giato per Livio Druso (la spiegazione della legge, per cui anche lo stesso Cotta fu esiliato, si legge, non senza un tono di risentimento e una punta d'ironia per la sua fine, in Val. Max. 8,6,4). 286 Dei due personaggi rammentati, Druso è già stato ci­

tato poco sopra (in proposito vd. la n. 278), mentre Me­ tello potrebbe essere identificato, forse, con Quinto Ce­ cilia Numidico, anche se in realtà non abbiamo alcuna informazione circa il suo assassinio per avvelenamento da parte di Vario.

287 Dionisio l, nato nel 432 a.C., fu prima generale e poi

tiranno assoluto di Siracusa dal 405 al 367 (cfr. Tusc. 5,57; Diod. Sic. 13,96,4; ma soprattutto Aristot. Poi. 1310b30 s.): da uomo mite che era, ben presto divenne dispotico, sa­ crilego, avaro, crudele. Le fonti letterarie relative a questi ultimi particolari sono, come si può facilmente immagi­ nare, molto numerose e piuttosto faziose: cfr. Rep. 1,28; Off. 2,25; Isocr. Paneg. 126; Plat. Epist. 7,347d s.; Quintil. Inst. 8,6,72; Min. Fel. 5,12; Iulian. Caes. 332c; etc .. 288 Pisistrato, tiranno di Atene, prese il potere nel 560 a.C.,

lasciò la città nel 556 e vi rientrò nel 546. Regnò quindi fino alla morte, che si fa risalire al 527. Cfr. Herodot. 5,65; Aristot. Poi. 1315b30 ss.; Ath. Poi. 17. 289 Falaride fu tiranno di Agrigento dal 565 al 549 a.C.

Le fonti lo dipingono come uno degli uomini di stato più crudeli, in quanto esercitò il suo potere senza alcu­ no scrupolo (da qui l'abbondanza di riferimenti, quasi

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proverbiali, alla sua crudeltà: cfr. Off. 2,26; Fin. 4,64; Rep. 1,44; Aristot. Magn. Mor. 1203a22; Sen. De Ir. 2,5,1 qui in coppia con Apollodoro; De Ben. 7,19,5 ss.; Liban. Decl. 13,58; Epist. 112,5; Greg. Naz. Or. 4,91; etc.). È opinione molto diffusa che facesse perire i suoi nemici all'interno di un toro bronzeo, che Perillo costruì appositamente per lui: cfr. Tusc. 2,17 s.; Pind. Pyth. 1,95 s.; Diod. Sic. 9,18 s.; Ov. Trist. 3,11,41 ss.; Ex Pont. 2,9,43; Lucian. De Mort. Peregr. 21; Greg. Naz. Epist. 32; Claudian. In Ruf 1,253; etc. 290 Apollodoro fu tiranno di Cassandria (antica mente Po­

lidea) per breve tempo, dal 279 al 276 a.C., anno in cui fu deposto da Antigono Gonata: come gli altri tiranni testé nominati, la sua tirannia fu sì crudele da divenire proverbiale, frequente in opere a sfondo moraleggiante (cfr. Polyb. 7,7,2; Diod. Sic. 22,5,1; Ov. Ex Pont. 2,9,43; Sen. Ben. 7,19,5; etc.). 291 Il democriteo Anassarco di Abdera, precettore perso­

nale di Alessandro Magno, morì per mano del tiranno di Cipro, Nicocreonte, che lo torturò fino al supplizio capi­ tale. Il suo 'martirio' (così come quello di Zenone, citato immediatamente dopo) è spesso rammentato dalle fonti, sia pagane sia cristiane, come grande exemplum e riprova di coraggio. Tutte le testimonianze e i frammenti sono ora raccolti da T. Dorandi, I frammenti di Anassarco di Ab­ dera, "Atti e Memorie dell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaria" 59, 1994, pp. 9-60. 292 Allievo e intimo amico di Parmenide, Zenone di Elea,

da non confondere con gli omonimi Zenone stoico e Zenone epicureo), visse nel pieno del secolo V a.C., rag­ giungendo l'akmé intorno alla 79a Olimpiade (464-460). Fu catturato durante un suo tentativo di liberare la città

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dalla tirannide: le fonti (numerose, e non sempre unani­ mi) ci raccontano che, alla richiesta di chi fossero i con­ giurati, Zenone, per non rivelare i nomi dei compagni, si strappò la lingua coi suoi stessi denti e la sputò in faccia al tiranno. Per qualche passo da confrontare: Tusc. 2,22; Diog. Laert. 9,26 s.; Phil. Alex. Quod. Omn. Prob. 108; Tert. De Anim. 58,5; Clem. Alex. Strom. 4,8,56,1; etc. 293 Fa riferimento a Plat. Phaed. 116e ss. 294 Da non confondere con Diogene di Babilonia citato

al cap. 1,41 (su cui vd. la n. 109), questo Diogene fu se­ guace di Antistene, nonché il più celebre rappresentate della scuola cinica. L'aneddoto qui presentato relativo ad Arpalo, corrisponderebbe, con ogni probabilità, a quello simile raccontato anche da Diogene Laerzio (6,74) a pro­ posito di Scirpalo. Lo citiamo qui estesamente per como­ dità del lettore: «Fu anche abilissimo nel dare risposte alle domande che gli venivano fatte, come risulta chia­ ro da quello che abbiamo detto in precedenza. E seppe pure sopportare nel modo più nobile di essere venduto come schiavo. Infatti, mentre stava navigando verso Egi­ na, catturato dai pirati capeggiati da Scirpalo e condotto a Creta, venne messo in vendita; e quando il banditore gli domandò che cosa sapesse fare, rispose: "Comandare agli uomini". Fu allora che indicò un uomo di Corinto con la veste bordata di porpora, Seniade di cui abbiamo sopra parlato, e disse: "Vendimi a questo: ha bisogno di un padrone". A quel punto, Seniade lo comperò e, con­ dettolo a Corinto, ne fece il precettore dei suoi giovani figli, e gli affidò la direzione dell'intera casa. E Diogene seppe amministrarla, sotto tutti i ri,spetti, in modo tale che quello andava in giro dicendo: "E entrato in casa mia un demone buono"» (trad. italiana da Diogene Laerzio, Vite e Dottrine dei più celebri filosofi. A cura di G. Reale

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con la collaborazione di G. Girgenti e l. Ramelli, Milano 2005). Ovviamente Arpalo e Scirpalo (o Scirtalo, secondo il lessico di Suida) sono la medesima persona. 295 Locri era considerato il centro principale del culto di

Persefone: il santuario, collocato a ridosso della cinta muraria della polis, ci viene descritto da Diod. Sic. 27,4,2 come il più celebre del mondo antico: su questo vd. C. Sourvinou-lnwood, Persephone and Aphrodite at Locri: A Model for Personality Definitions in Greek Religion, "Journal of Hellenic Studies" 95, 1978, pp. 101-121. Su Dionisio e i furti di beni religiosi, cfr. Strab. 5,2,8; Ael. Var. Hist. 1,20; Arnob. 6,21 con Tommasi, Contro i pagani, pp. 506 ss. 296 Non abbiamo nessun altro dato evidente circa questa

spedizione del tiranno Dionisio nel Peloponneso, per­ tanto si è opportunamente pensato che Cicerone si po­ tesse essere confuso, e che il tempio qui descritto non sia tanto quello di Olimpia, bensì quello di Siracusa (cfr. Ael. Var. Hist. 1,20 e Paus. 6,19,7). A favore di questa ipotesi sussiste, inoltre, il fatto che Cicerone citi immediatamen­ te Gelone, tiranno di Siracusa dal 485 al 478 a.C., il quale, con ogni probabilità, donò le spoglie alla sua città dopo aver sconfitto i Cartaginesi nella battaglia di Imera del 480: vd. la nota successiva e Pease, De natura deorum, p. 1193 per tutti i riferimenti letterari. 297 Si fa riferimento ad un momento successivo alla batta­

glia di Imera nel 480 a.C.

298 Cfr. Val. Max. 1,1, ext. 3; Arnob. 6,21; etc. in Pease, De

natura deorum, p. 1195.

299 Il valore religioso di questi servizi d'argento può para­

gonarsi a quello attribuito dai fedeli cristiani agli altari.

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L'usanza, comunque, è abbondantemente documentata (grazie ai numerosi ritrovamente archeologici) anche per altre culture: minoica, ittita, egiziana, punica, etc. 300 In generale, nonostante qualche differenza, il passo

può essere confrontato con Ps.-Aristot. Oec. 1353b20 ss.; Ael. Var. Hist. 1,20; Val. Max. 1,1, ext. 3. 301 Un racconto di questo episodio è dato anche da Polya­

en. Strat. 5,2,19.

302 Qui il testo dei manoscritti principali è corrotto: tyran­

ni dis B, typanidis APV, timpanidis H. Gli editori propon­ gono quindi soluzioni differenti, molte delle quali, forse, eccessivamente macchinose: Plasberg tyranni dis ; Clark espunge tyrannidis pensando che sia una glossa marginale all'espressione eamque potestatem; Da­ vies traspone in dopo rogum e considera in lectulo tyranni­ dis equivalente a in suo lectulo et in tyrannide. Pease inve­ ce, che noi seguiamo, stampa con l'espunzione: atque in suo lectulo mortuus in [tyrannidis] rogum inlatus est. 303 Il passo ha un parallelo piuttosto evidente in Leg. 2,43

s.: «Infatti non sappiamo valutare esattamente, Quinto, qual sia il castigo divino, ma dalle volgari opinioni sia­ mo trascinati in errore e non vediamo il vero; noi misu­ riamo le miserie umane o dalla morte o dal dolore fisico o dalla tristezza spirituale o dall'onta ricevuta nei pro­ cessi; tutte cose che confesso essere inerenti alla natura umana e che sono accadute a molti uomini dabbene. Ma la punizione di un delitto è triste, e, pur prescindendo dalle conseguenze, è già gravissima di per se stessa. Ve­ diamo coloro, i quali mai mi sarebbero stati avversari se non avessero odiato la patria, ora bruciati da cupidigia, ora da timore, ora da rimorso, ora dubbiosi, qualunque

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cosa facciano, e d'altra parte sprezzanti della religione; i processi violentemente troncati da costoro, per disonestà di uomini, non per volontà degli dèi. Ma debbo tratte­ nermi ormai, e non continuare oltre, tanto più che essi si ebbero punizioni maggiori di quanto ne avessi richieste; soltanto vorrei stabilire concisamente questo, che dupli­ ce è la punizione divina, in quanto consiste nel tormen­ tarne l'animo mentre sono in vita, e la loro reputazione dopo morti è tale che la loro rovina è accolta dal giudizio e dalla gioia dei viventi». Sul peso della coscienza del vizio e della virtù, cfr. altresì Leg. 1,40; Parad. 18; Pro Mil. 61; e poi Lucr. 3,978 ss.; Iuv. 13,192 ss. 3 04 Su questo cfr. Plat. Leg. 902a ss.; Menand. Epitr. 872 ss.;

Plut. Stoic. Repugn. 1051 b s. = Stoicorum Veterum Fragmen­ ta 2,1178 von Arnim.

305 Il termine latino salus va inteso così: cfr. Pro Mil. 39; Pro

Sest. 107; In Pis. 35. Per Publio Rutilio, cfr. già supra, al cap. 3,80. Cicerone, così come altri esponenti dell'élite politica romana, possedeva una villa (forse estiva) a Formia: le informazioni sono ricavabili dall'epistolario inviato ad Attico. Vd. S. Ciccone, Indicazioni sul 'Formianum' di Cice­ rone presso l'Appia, in: R. Lefevre (ed.), Il Lazio nell'antichità romana, Roma 1982, pp. 527-538. 306 Questa idea è comune a moltissimi scrittori dell'anti­

chità: cfr. Horn. Il. 13,730 ss.; Pind. Isthm. 3,4 s.; Eur. Med. 635 s.; Aesch. Ag. 927 s.; Eur. Med. 635 s.; Plat. Phaedr. 279b; Leg. 631c; Aristot. Eth. Nic. 1099b19 ss. e 1179b15 ss.; etc. Di opinioni contrarie, invece, tra gli altri, Sen. Epist. 41,1; Iuv. 10,356 s.; Plut. De comm. Not. 1075e s.; e molti Padri della Chiesa, quali Aug. De Grat. Christ. 5 e Bas. Hom. de Inv. 5. A questo proposito, si rammenta anche che secon­ do W.R. Inge, Christian Ethics and modern Problems, New

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York 1930, p. 204 "the extent to which Stoicism has been changed in being Christianized may be gauged by one sentence from the De natura deorum of Cicero: men con­ fess that they have received prosperity from the gods; no one ever alleges that he has received a virtue from God". 307 Il riferimento è al culto di Ercole presso l'Ara Massi­

ma: cfr. anche Plaut. Truc. 562; Bacch. 665; Varr. De Ling. Lat. 6,54; Dion. Hal. 1,40,3; Plut. v. Sull. 35,1.

308 L'aneddoto è connesso da Diog. Laert. 8,12 e Vitr. 9,

praef. 7 alla scoperta del celebre teorema matematico che prende nome dal suo scopritore: nel triangolo rettangolo l'area del quadrato costruito sull'ipotenusa è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti (si veda Euclid. Elem. 1,47 per la definizione e la dimostrazione).

309 Nelle fonti classiche i motivi dell'astensione di Pitago­

ra al sacrificio sono ricondotti per lo più al vegetarianesi­ mo e al rifiuto dei sacrifici cruenti.

310 Per Diagora, si legga supra, ai capp. 1,2 e 1,63. L'aned­

doto del viaggio è riportato anche da Diog. Laert. 6,59, che però, pur rammentando che alcuni lo riferiscono a Diagora, preferisce raccontarlo a proposito di Diogene il cinico: questo naturalmente a causa della natura flessi­ bile del racconto, che ben si presta ad essere applicato in più contesti. 311 Sull'importanza di Samotracia come centro di culto e

venerazione dei Cabiri, divinità protettrici della naviga­ zione, cfr. supra, al cap. 1,119 con la relativa n. 195.

31 2 Sono le tavolette ex voto appese alle pareti dei santuari

attestate anche da Horn. Carm. 1,5,13 ss. e Iuv. 12,22 ss.

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DE NATURA DEORUM

31 3 Sull'onniscienza degli dèi, di cui Cicerone ha già avu­

to modo di dar conto più volte (già supra, ai capp. 1,28 e 3,78; e poi in Div. 1,82). Il concetto è largamente attestato tanto nelle lettere pagane quanto in quelle cristiane: cfr. Horn. Od. 4,379 (Zeus); Plat. Leg. 10,902a ss.; Xen. Mem. 1,1,19; Phil. Alex. De Opif. Mund. 149 dove si dice che «nulla è ignoto alla divinità»; Cornut. 11; Ps. 139; Clem. Alex. Protr. 6,68,3 ss.; Iulian. Or. 6,184b s.; Bas. Ep. 8,11; Nonn. Dian. 5,609 e 24,73; etc. 31 4 Il motivo dell'ereditarietà della colpa è presente spes­

sissimo nella tradizione letteraria classica: cfr. Horn. Il. 160 ss.; Solon fr. 13,29 ss. West; tutta la trilogia Orestea di Eschilo (Agamennone, Le Coefore e Le Eumenidi); Herodot. 7,137; Soph. Ai. 1177 s.; Eur. IT 199 ss. e 987 s.; Hipp. 831 ss.; in ambito latino Hor. Carm. 1,28,30 s.; Liv. 10,38,10; Val. Max. 1,1, ext. 3; e infine, nel solco della letteratura giudaica, Ex. 20,5; Deut. 5,9; Iob 21,19; Ps. 109,14; etc. Con­ trari alla visione, invece, sono Theogn. 205 s. e 731 ss.; Phil. Alex. De Prov. 2. Sul tema, naturalmente, si è scrit­ to moltissimo in tempi moderni: basti qui, a mero scopo esemplificativo, un rimando passim agli studi di W. N est­ le, Menschliche Existenz und politische Erziehung in der Tra­ godie des Aischylos, Stuttgart-Berlin 1934; J. De Romilly, La tragedié grecque, Paris 1970; V. Di Benedetto, L'ideologia del potere e la tragedia greca. Richerche su Eschilo, Torino 1978; H. Lloyd-Jones, The Justice of Zeus, Berkeley-Las Ange­ les-London 19832• 31 5 Citazione ricavata da Accio (cfr. 657 ss. Ribbeck), ma la

tragedia è ignota. La paternità è suffragata dalla citazio­ ne del primo dei tre versi nelle Institutiones del gramma­ tico tardoantico Carisio, che introduce il frammento con l'espressione ut Accius dicens.

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N O T E AL L I B RO T E R Z O

316 Ipponatte nacque a Efeso, ma ben presto si trasferì a

Clazomene, presso Smirne, a causa di alcune inimicizie con i tiranni efesini. Egli si colloca, se pur con alcune incertezze, tra VII e VI secolo a.C.; probabilmente di ori­ gine aristocratica, ma poi caduto in povertà, la sua po­ esia è da ricondurre al genere poetico giambico. Cele­ bre la contesa con lo scultore Bupalo, che avrebbe fatto un ritratto caricaturale del poeta, per il quale si offese e trovò lo spunto per attaccarlo nei suoi giambi. La tra­ dizione vuole che Bupalo si fosse addirittura suicidato per la pesantezza delle invettive a lui lanciate dal poeta nativo di Efeso. Cfr. Aristoph. Lys. 360 s.; Callim. Iamb. fr. 191 Pfeiffer (su cui si veda il recente contributo di M.-R. Falivene, Callimaco, Ipponatte e la querelle di Bupalo. Un di­ scorso sull'arte, pubblicato sulla rivista francese online in open access "Aitia. Regards sur la culture hellénistique au XXIe siècle" l, 2011); Hor. Epod. 6,13 s.; Lucian. Pseud. 2; etc. 317 Archiloco è, per noi, l'iniziatore della tradizione poe­

tica giambica. Vissuto nel VII secolo e nativo di Paro, fu soldato mercenario e aderì al movimento colonizzatore dell'isola di Taso da parte degli abitanti di Paro. Morì in battaglia difendendo l'isola dalle genti di Nasso. Di tutti i frammenti che ci sono giunti, i giambi sono senza dub­ bio quelli che hanno favorito maggiormente a delineare la sua figura di poeta aggressivo e spregiudicato. Essi trattano per lo più (ed è a questo che Cicerone fa riferi­ mento) la vicenda amorosa con la figlia di Licambe, Neo­ buie, promessa sposa al poeta ma poi negatagli da colui che costituirà il bersaglio principale dei giambi, appunto il padre della fanciulla. Cicerone menziona i giambi di Archiloco anche in Att. 16,11,2; ma cfr. anche Hor. Epist. 1,19,30 s. e Epod. 6,13.

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DE NATURA DEORUM

318 Egisto e Paride sono citati per fornire due exempla di

adulterio (nel primo caso abbiamo, in realtà, anche un omicidio).

31 9 Licurgo, famosissimo personaggio della storia greca

delle origini, collocato a metà tra realtà storica e racconto leggendario, è menzionato da Cicerone come legislatore di Sparta in Div. 1,96; Rep. 2,2 e 18; Tusc. 1,100 ss. Cfr. an­ cora Plat. Rep. 599d; Symp. 209d; Polyb. 10,2,11; Aug. De Civ. Dei 2,16; etc. su cui vd. Pease, De natura deorum, p. 1218 (con la principale bibliografia precedente). 32° Critolao fu il generale della Lega Achea nel 147/146 a.C.

Quanto alla sola caduta di Corinto, va detto che Cicerone ne parla anche altrove, ma la ricollega a cause ben diffe­ renti da quella esposta qui: si parla infatti dell'eccessivo desiderio di commercio dei suoi abitanti (cfr. Rep. 2,7), e della conquista da parte dei Romani per la strategicità del luogo in cui si trovava (cfr. Off. 1,35). Sulla sua figura vd. ancora Pease, De natura deorum, pp. 1218 s. 321 Asdrubale fu generale delle truppe cartaginesi duran­

te la terza guerra punica (149-146 a.C.).

322 Su questo punto può forse essere d'aiuto la lettura di

Sext. Emp. Pyrrh. 3,9 ss.: «Chi afferma che la divinità esiste, o afferma ch'essa provvede alle cose del mondo, o che non provvede; e, nel caso che provveda, se prov­ vede a tutte, o solo ad alcune. Ma se provvede a tutte le cose, non ci dovrebbe essere né male né difetto nel mondo. Dicono, invece, che tutto è pieno di difetti. Che se provvede solo ad alcune, perché a queste provvede e a quelle no? E invero, o vuole e può provvedere a tutto, o vuole ma non può, o può ma non vuole, o né vuole né può. Se volesse e potesse, provvederebbe a tutte le cose.

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Ma non provvede a tutte le cose, perciò che s'è detto. Dunque non è vero che vuole e può provvedere a tutte le cose. Che se vuole, ma non può, essa è più debole di quella causa, per la quale non può provvedere alle cose a cui non provvede. Senonché è contrario al concetto di divinità ch'essa sia pià debole di qualche cosa. Che se può provvedere a tutte le cose, ma non vuole, si do­ vrebbe credere ch'essa sia invidiosa. Se poi né vuole né può, essa è invidiosa e impotente: asserzione da empi. Dunque la divinità non provvede alle cose del mondo» (trad. italiana da Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani in tre libri. Tradotti da O. Tescari, Bari 1926). Altri importanti passi paralleli in Div. 1,82 s.; Min. Fel. 12,2; Corp. Herm. 14,8. 323 Sulla sacralità delle mura e del pomerio si possono

leggere, tra gli altri, Dion. Hai. Ant. 1,88,2; Liv. 1,7,2; Plut. v. Rom. 11,2; Quaest. Rom. 27; Iustin. Inst. 2,1,10; Dig. 1,8,8; etc. Per Cicerone, cfr. Div. 1,98. Sul pomerium in par­ ticolare, cfr. ade�so G. De Sanctis, Solco, muro, pomerio, "Mélanges de l'Ecole française de Rome. Antiquité" 119, 2007, pp. 503-526.

324 La credenza trova spazio già nell'epica delle origi­ ni: cfr. Horn. Il. 1,63 (celebre passo, dove si racconta del sogno di Agamennone inviatogli da Zeus) e Il. 2,56 s. (qui si dice che il sogno è una visione inviata da dio). Sul punto si confronti poi con Plat. Rep. 382e; Phil. Alex. De Somn. 1,1; Sen. Nat. Quaest. 2,32,3. La teoria contrasta fortemente con quanto sostenuto da Velleio a proposito della negazione della divinazione da parte degli Epicu­ rei: cfr. quindi supra, al cap. 1,55 con la lettura parallela di Epic. Gnom. Vat. 24 (si dice che i sogni non hanno una natura divina né potere divinatore, in quanto provengo­ no da un afflusso di simulacri).

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LA NATURA DEGLI DEl

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325 Sui significati del capitolo conclusivo dell'opera e sulla

preferenza per Balbo rivelata da Cicerone, si veda quan­ to detto nell'Introduzione.

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Note a i fra mmenti del terz o libro

1 La stessa argomentazione si legge anche ai capp. 1,61;

2,2; 2,168; 3,5. Secondo K.J. Neumann, Zu Cicero und Mi­ nucius Felix, "Reinisches Museum fiir Philologie" 36 (1881), pp. 155-157, seguito poi da Pease, De Natura De­ orum, p. 1229, il frammento è da collocare alla fine del paragrafo 3,64. 2 Il concetto del dualismo provvidenza-materia qui espo­

sto ricorre anche al cap. 3,92. Lattanzio cita Cicerone nell'ambito della confutazione delle teorie dei filosofi pagani, in riferimento al problema del processo creativo divino ex nihilo. 3 Il frammento constiste in una citazione da Terenzio Scau­

ro (grammatico attivo all'epoca di Adriano), che, attingen­ do dal testo di Cicerone, probabilmente illustrava la te­ oria sostenuta da Plutarco in Cleom. 60,1-3: «Pochi giorni dopo, quelli che facevano la guardia al corpo appeso di Cleomene videro un grosso serpente che stava arrotolato attorno alla sua testa e gli copriva il volto, in modo che nessun uccello da preda potesse posarvisi. In seguito a

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questo prodigio il re fu colto da timore superstizioso e la paura indusse le donne a celebrare sacrifici espiatori, poi­ ché pensarono che era stato ucciso un uomo caro agli dèi e di natura superiore» (trad. italiaf!a da Plutarco, Vite. A cura di G. Marasco, V, Torino 1994). E possibile arguire che le parole appartenessero originariamente a Cotta, il quale avrebbe cercato di annullare l'esistenza di una prima cau­ sa razionale, seguendo forse un'argomentazione simile a quella di Lucr. 2,865-871: «Ora, quanto alle cose che vedia­ mo fornite di senso, devi ammettere che tuttavia son com­ poste di princìpi insensibili. A questo non contraddicono né si oppongono i fatti palesi, che son noti dall'esperienza, ma piuttosto ci conducono essi stessi per mano e ci co­ stringono a credere che da elementi insensibili, come dico, si generino gli esseri animati»; e 5,797-800: «E anche ora molti animali scaturiscono dalla terra, formati dalle piog­ ge e dall'alito caldo del sole; non fa dunque meraviglia se ancor più ne sorseto allora, e più grandi, cresciuti quando erano nuovi la terra e il cielo» (trad. italiana da Tito Lucre­ zio Caro, La Natura. A cura di A. Fellin, Torino 1963). 4 Cotta avrebbe ripreso a questo punto la teoria di Balbo

esposta al cap. 2,145 in cui veniva rimarcata la superiori­ tà dei sensi degli uomini rispetto a quelli degli animali. Sul motivo, vd. anche Off. 1,105 (con le osservazioni di Dyck, De Officiis, p. 268). 5 A proposito del cosiddetto "grande anno" si parlava già

ai capp. 2,51 s., ma senza che ne venisse data una defini­ zione in termini di durata. Sembra probabile quindi che l'allusione di Servio sia da ricondurre piuttosto al terzo libro, nell'ambito della confutazione operata da Cotta. 6 L'attributo della durezza "simile a quella del corno" è

adoperato da Cicerone soltanto in riferimento alle orec-

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N O T E A l F R A M M E N T I D E L T E R Z O L I B RO

chie: si veda la descrizione di esse al paragrafo 2,144. È possibile quindi che Servio abbia ripreso in modo erro­ neo tale particolare. Altrimenti siamo davanti ad un'altra frase di Cotta (certamente parafrasata) pronunciata in ri­ sposta alla sezione precedente. 7 Secondo Pease, De Natura Deorum, p. 1231, non è da esclu­

dere che, nel citare Cotta dalla parte di testo mancante dopo il cap. 3,64, Lattanzio abbia espanso il ragionamen­ to avanzato in Ac. 2,120 (passo che mostra di conoscere bene in Inst. 7,4,11). Obiezioni di questo tipo contro la di­ vina provvidenza, di matrice epicurea o cameadiana, si trovano anche in Crisippo, per cui vd. almeno Stoicorum Veterum Fragmenta 2,1048 von Amim: «Come può essere degna della prenozione che abbiamo di dio la tesi che egli sia diffuso nella materia-sostrato di tutte le cose, e che permane in essa coi caratteri propri di questa materia, e la sua attività principale consiste nel generare in conti­ nuazione e nel dar forma alle potenzialità di quella stessa materia? In tal modo facciamo di dio un creatore di lom­ brichi e zanzare, un maldestro costruttore di bambole che passa il tempo ad impastare fango, traendone tutto ciò che è possibile trame» (trad. italiana da Stoici antichi, Tutti i frammenti raccolti da H. von Arnim. Introduzione, traduzio­ ne, note e apparati a cura di R. Radice, Milano 2002). Molti altri autori vedono invece nell'atto creativo degli animali terrestri una spinta all'azione per gli uomini, che posso­ no trame benefici, altri vantaggi, o ricevere da essi danni. Una classificazione di essi sulla base delle utilità e dei pe­ ricoli è offerta da Aug. De Gen. Contr. Manich. 1,26. 8 Anche questa porzione di testo apparteneva con ogni probabiltà alla parte perduta del terzo libro dopo il cap. 3,64. Sul piano strettamente filosofico, può essere interes­ sate notare come la fonte non sia né epicurea né stoica,

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ma riconducibile allo spirito scettico di Carneade, per il quale si può rimandare opportunamente a Sext. Emp. Pyrrhon. 3,9-11: «Dunque non si dirà che la divinità prov­ vede a tutte le cose. Che se provvede solo ad alcune, per­ ché a queste provvede e a quelle no? E invero, o vuole e può provvedere a tutto, o vuole ma non può, o può ma non vuole, o né vuole né può. Se volesse e potesse, provvederebbe a tutte le cose. Ma non provvede a tutte le cose, perciò che s'è detto. Dunque non è vero che vuole e può provvedere a tutte le cose. Che se vuole, ma non può, essa è più debole di quella causa, per la quale non può provvedere alla cose a cui non provvede. Senonché è contrario al concetto di divinità ch'essa sia più debole di qualche cosa. Che se può provvedere a tutte le cose, ma non vuole, si dovrebbe credere ch'essa sia invidiosa. Se poi né vuole né può, essa è invidiosa e impotente: as­ serzione da empi. Dunque la divinità non provvede alle cose del mondo» (trad. italiana da Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani. A cura di A. Russo, Roma-Bari 1988). Su que­ sto punto, vd. la bibliografia citata da Pease, De Natura Deorum, pp. 1232 s. nella nota al passo in oggetto.

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T. Zielinski, Cicero im Wandel der Jahrhunderte, Leipzig-Ber­ lin 1908. Si segnala, infine, tulliana.eu, sito digitale del progetto So­ cietà Internazionale degli Amici di Cicerone (SIAC), p er il ricchissimo repertorio di informazioni di alto livello scien­ tifico e rimandi bibliografici su Cicerone e la sua opera.

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Elenco dei titoli pubblicati da Edizioni Ester

1.

L'Urna del Dono Antico (collana Poesia): autrice Pao­ la Re Viglietti - anno 2000.

2.

La Società Comunitaria secondo i Principi della Ester (collana Filosofia): autore Michele Bellavia-Gil­ les Burle - anno 2006.

3.

Uguaglianza, Ragione e misura della Giustizia (collana Filosofia): autore Michele Bellavia - anno 2013.

4.

Esistenze di vetro (collana mo Mauro - anno 2013.

5.

Narrativa): autore Massi­

Il Simbolismo magico del Caffè (collana Altra

cono­

scenza): autrice Sarah Perini- anno 2013. 6. 7.

Chiedi alla Terra (collana Sarah Perini - anno 2013.

Altra conoscenza): autrice

Simboli e Riti delle donne Celtiche (collana

Altra

conoscenza): autrice Sarah Perini- anno 2013. 8.

Priestesses and Queens of Avalon in King Arthur's age (collana Altra conoscenza): autrice Sarah Perini anno 2013.

9.

La Sacerdotessa di Avalon, Sacerdotessa della Dea (collana Altra conoscenza): autrice Katy Jones- anno 2014.

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10. L' Illusione della Realtà (collana Ivo Salvini - anno 2014.

Filosofia): autore

11. Il Cranio, il cristallo e la Luna Piena (collana Nar­ rativa): autore Alessandro Rodolfo Neri- anno 2014. 12. Il Cammino di Maat (collana Altra conoscenza) auto­ re Joannes Yrpeck - anno 2014. 13. La Luce del Cammino (collana

Narrativa): autrice

Isha Schwaller De Lubicz - anno 2014, a cura di Sil­ via Salese. 14. De La Causa, Principio et Uno (collana

Filosofia):

autore Giordano Bruno - anno 2014. 15. Il Sentiero delle Sacerdotesse dell'Amore (collana Altra conoscenza): autrice Katinka Soetens- anno 2014. 16. Grandezza e Umiltà (collana ro Bellavia - anno 2015.

Poesia): autore Caloge­

17. Gran Galà della Poesia 2015 IV edizione EXPO M ILANO (collana Poesia): AA.VV - anno 2015. -

18. Il processo di guarigione dell'anima secondo la tra­ dizione di Avalon (collana Altra conoscenza); autrice Katy Jones- anno 2015. 19. Distanti T rasparenze (collana Atisha- anno 2015. 20. Il Punto tanGibile (collana Marika - anno 2015.

Poesia): autrice Elita

Poesia): autrice Gentiana

21. Gaia e la Scienza della Vita (collana za): autrice Silvia Salese- anno 2015.

Altra conoscen­

22. L' Origine della Teoria dei Numeri e la sua Saggez­ za (collana Altra conoscenza): autori Mia Peddemors e Henk Leene - anno 2015.

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23. Sussurri del mare (collana

Poesia): AA.VV. - anno

2015.

24. Sette isole Sette oceani, Bhumiparvan (collana

An­

tiche Realtà del Sacro) a cura di Pietro Chierichetti anno 2016. 25. La città dei Sogni (collana

Narrativa): autore Salva­

tore Piedepalumbo- anno 2016. 26. Il Fuoco del Silenzio (collana

Altra conoscenza): au­

trice Elita Atisha - anno 2016. 27. La via della Sacerdotessa del Mare (collana Altra co­

noscenza): autrice Louise Tarrier - anno 2016. 28. Essere e Spazio (collana

Altra conoscenza): autore

Giancarlo Paci- anno 2016. 29. Camminando sulla Ruota della dea Ana (collana

Altra conoscenza): autrice Katy Jones- Anno 2016. 30. Fermata alla stazione di Portbou (collana

Narrati­

va): autore Riccardo Marchina - anno 2016. 31. L' Alchimia dei Metalli (collana

Altra conoscenza):

autore Mia Peddemors e Henk Leene- anno 2016. 32. Fuoco Sacro (collana Altra

conoscenza): autore Silvia

Salese- anno 2016. 33. Concezioni dell' Anima tra gli Indiani del Nord America (collana Altra conoscenza): autore Àke Hul­ tkrantz - anno 2016. 34. Il solo punto fermo (collana

Poesia): autore Federico

Astel - anno 2017. 35. Inermi (collana

Altra conoscenza): autore Gianfranco

Longo- anno 2017.

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45 3

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36. Piena di Vita (collana Altra

conoscenza): autrice Saje­

eva Hurtado- anno 2017. 37. La Ierogamia e il simbolismo del Graal (collana Al­

tra conoscenza): autrice Corinna Zaffarana anno 2017. 38. Gesù e la Gnosi (collana

Altra conoscenza): autore

Emile Gillabert- anno 2017. 39. L' Inno a Ra e la spirale d' Egitto (collana

Cronache dell'insolito): autore Algemon Henry Blackwood -

anno 2017. 40. Il Sentiero della nonviolenza e della liberazio­ ne-Tattvarthasutra (collana

Antiche Realtà del Sacro):

autore Umasvati- traduzione a cura di Pietro Chie­ richetti- anno 2017. 41. Confessione di una follia divina ovvero diario me­ tafisica moderno (collana

Altra conoscenza): autore

Fabio Duranti- anno 2017. 42. L' Incantatore, il codice dell'inganno e l'arte della menzogna (collana

Altra conoscenza): autore Sergio

Audasso- anno 2017. 43. Mithra il Dio dei Misteri (collana Altra

conoscenza): au­

tore Maarten Vermaseren, traduzione a cura di Barbara de Munari- anno 2017.

44. Teurgia, riti magici e divinatori nell'età tarda-anti­ ca collana Altra conoscenza): autore Giuseppe Museo­ lino - anno 2018. 45. L'Archetipo nel mito e nella fiaba (collana

noscenza): autrice Corinna Zaffarana- anno 46. Il Libro della Luce (collana

Altra co­ 2018.

Antiche Realtà del Sacro):

autore Mul)ammad ibn 'Ali al-Sahlajl- anno 2018.

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47. Anima e Ombra (collana Katy Jones - anno 2018. 48.

Altra conoscenza): autrice

Cammino artististico dell'Anima (collana autrice Francesca ceracchini - anno 201. 8

49. Eticamente belle (collana Equilibrio trice Silvia Polesello - anno 2018. 50. Il Fedele d'Amore (collana Alexis - anno 2018.

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Poesia):

e Benessere): au­

Narrativa): Autore Paul­