Il lavoro intende ricostruire com'� sorto e si � diffuso l'uso dei titoli nella letteratura greca tra V e IV s
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Italian Pages 414 [390] Year 2020
Table of contents :
Premessa
Sommario
Abbreviazioni
Parte I. Teoria e metodo
I Linee generali
II Concetto e funzioni del titolo letterario
III Problemi di metodo
Parte II. La poesia greca tra età arcaica e classica e l’avvento dei titoli
I L’epica
II La lirica
III I drammi
Parte III. La prosa greca dagli albori all’avvento dei titoli
I La prosa prima di Erodoto
II Aspettando il titolo
III Scrivere in prosa tra fine V e IV secolo a. C.
IV Erodoto l’innovatore
V Tucidide l’architetto della prosa
VI Senofonte e la inscriptio libraria
VII Titoli e prosa nel IV secolo a. C.: alcuni approfondimenti
VIII Rotoli e titoli
IX Conclusioni
Appendice. Senofonte, le Elleniche e “the missing portions of Thucydides”⁶⁷³: un caso speciale
Instrumentum bibliographicum
Indice dei nomi e degli argomenti notevoli
Indice delle testimonianze scritte
Emanuele Castelli La nascita del titolo nella letteratura greca
Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte
Herausgegeben von Marcus Deufert, Heinz-Günther Nesselrath und Peter Scholz
Band 148
Emanuele Castelli
La nascita del titolo nella letteratura greca
Dall’epica arcaica alla prosa di età classica
ISBN 978-3-11-070362-7 e-ISBN (PDF) 978-3-11-070374-0 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-070382-5 ISSN 1862-1112 Library of Congress Control Number: 2020942824 Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.dnb.de abrufbar. © 2020 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Druck und Bindung: CPI books GmbH, Leck www.degruyter.com
Premessa Non pochi anni di lavoro sono stati necessari, per giungere ai risultati esposti nel presente volume. Il primo, provvisorio, progetto di una ricerca sul titolo dei libri nella letteratura greca fu impostato nella primavera del 2011. Da allora ho proceduto costantemente a definire e approfondire i problemi che mi sembravano più rilevanti. Data la quantità di dati da raccogliere e di manoscritti da vagliare, una ricerca come questa non sarebbe stata possibile senza il sostegno di alcune istituzioni accademiche. Uno speciale debito di gratitudine sento di dovere esprimere nei riguardi della Alexander von Humboldt Stiftung, che ha voluto conferirmi per il biennio 2012 – 2014 uno Stipendium Postdoc presso la Ruprecht-Karls-Universität Heidelberg, per condurre le prime essenziali ricerche sul titolo nella letteratura greca antica. Ciò mi ha permesso di frequentare le ricchissime biblioteche della sede universitaria e al tempo stesso di fare tesoro dello scambio di idee con molti colleghi europei e americani interessati all’argomento. Dal 2015 al 2018 il coinvolgimento in qualità di ricercatore nel progetto Paratexts of the Bible (Universität Basel – Ludwig-Maximilians-Universität München) mi ha permesso di raffinare ulteriormente le indagini sul tema e di guadagnare inoltre uno sguardo più ampio sulla storia del fenomeno. I nuovi impegni assunti tra il marzo 2018 e il settembre 2019 presso l’Institut des Sources Chrétiennes (Lione) mi hanno invece quasi interamente assorbito per altra ricerca; così il mio lavoro sul titolo dei classici greci ha potuto sperimentare solo poche correzioni e una revisione bibliografica e poche aggiunte in tale periodo. Solo tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020 ho potuto dedicarmi di nuovo assiduamente al manoscritto e così ricavarne la versione finale. Un particolare debito di gratitudine sento di dovere esprimere nei riguardi della Biblioteca Apostolica Vaticana, per l’accoglienza e la generosità con cui mi è stato concesso di visionare numerosi codici. Stessa gratitudine desidero esprimere all’Institut de recherche et d’histoire des textes (Section grecque) di Parigi, per avermi permesso di visionare su microfilm o riproduzione digitale numerosi manoscritti. Sono molto riconoscente al personale bibliotecario dell’Università di Heidelberg, dell’Università di Basilea e ancora della École Normale di Parigi per l’aiuto costante nella raccolta dei numerosi studi necessari e in non pochi casi di difficile reperibilità. Al termine di un così lungo percorso di ricerca sono moltissimi gli studiosi che sento di dover ringraziare. In questa breve premessa non potrò tuttavia che ricordare solo alcuni di loro e in primo luogo l’academic advisor del mio progetto Humboldt, Winrich Löhr (Ruprecht-Karls-Universität Heidelberg), per tutto quello che mi ha insegnato, per la generosità con cui mi ha accolto e per l’entusiasmo https://doi.org/10.1515/9783110703740 001
VI
Premessa
con cui ha seguito questo lavoro. Uno speciale sentimento di gratitudine vorrei esprimere nei riguardi di Michele Bandini (Università degli Studi della Basilicata, Potenza), che è stato autentico compagno di viaggio negli ultimi due anni di questa ricerca, ha letto la seconda e quasi tutta la terza parte del mio manoscritto e ha condiviso con me importanti indicazioni, suggestioni e considerazioni sulla storia dei testi antichi. A Tiziano Dorandi (Centre Jean Pépin, Parigi), Michel-Yves Perrin (École Pratique des Hautes Études, Parigi) ed Emanuela Prinzivalli (Università Sapienza, Roma) debbo la rilettura di una parte importante del manoscritto, vari consigli e molte preziose indicazioni. Ancora molti colleghi hanno condiviso lungo tutti questi anni varie suggestioni o mi hanno inviato le loro pubblicazioni scientifiche sul tema. Qui ringrazio soprattutto: Patrick Andrist (Ludwig-Maximilians-Universität München), Pierre Augustin (Institut de recherche et d’histoire des textes, Section grecque), Menico Caroli (Università degli studi di Foggia), Gianmario Cattaneo (Università di Torino), Davide Dainese (Alma Mater Studiorum, Università di Bologna), Saskia Dirkse (Ludwig-Maximilians-Universität München), Maarit Kaimio (University of Helsinki), Sergey Kim (Moscow Theological Academy), Stefano Martinelli Tempesta (Università degli Studi di Milano), Ivan Matijašić (Newcastle University), Andrea Mele (Ludwig-Maximilians-Universität München), Carl O’ Brien (Ruprecht-Karls-Universität Heidelberg), Rosa Otranto (Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”), Stefano Pepe (Liceo Louis Pasteur, Roma) Pasquale Massimo Pinto (Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”), Enrico Emanuele Prodi (Magdalen College, Oxford), Ulrich Schmid (Universität Münster), Wolfgang Speyer (Universität Salzburg), Aude Cohen-Skalli (CNRS – Université d’Aix-Marseille, Laboratoire “Textes et Documents de la Méditerranée antique et médiévale”), Anna Tzvetkova-Glaser (Ruprecht-Karls-Universität Heidelberg), Martin Wallraff (Ludwig-Maximilians-Universität München). Il mio più vivo ringraziamento va agli editori scientifici delle Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte, Marcus Deufert, Heinz-Günther Nesselrath e Peter Scholz, per avere accolto il mio lavoro nella loro prestigiosa collezione di studi e per avermi aiutato a migliorare il testo. Desidero ancora esprimere la mia riconoscenza nei riguardi di Torben Behm, Martin Hallmannsecker e Florian Ruppenstein, responsabili editoriali di Walter De Gruyter, i quali hanno seguito con molta dedizione e grande cura il processo di lavorazione del manoscritto per la stampa. Questo lavoro è dedicato a mia moglie Maria e ai nostri bambini, Gabriel e Michelle, con tutto l’amore che uno sposo e un papà può nutrire per la sua famiglia; e, con loro, a tutte le persone che mi sono state accanto con amicizia e affetto in questi anni. Parigi, 13 maggio 2020
Emanuele Castelli
Sommario Abbreviazioni
XIII
Parte I. Teoria e metodo I
Linee generali 3 Importanza dei titoli nelle dinamiche letterarie: una 3 introduzione Obiettivi del presente lavoro 9 13 Eduard Lohan ed Ernst Nachmanson: due precursori La ricerca contemporanea e i papiri 16 La prosa degli storici greci come punto focale d’indagine
II
Concetto e funzioni del titolo letterario 22 Che cos’è il titolo letterario 22 Archeologia di un’idea 28 30 Sulle forme dei titoli. Avvertenza Funzione identificativa: valore e limiti 31 Funzione informativa 34 Poetica d’autore, seduzione del lettore e strategie 36 di promozione
III
Problemi di metodo 43 Italics. Letterature moderne e letterature antiche a confronto 43 Nomina e tituli: la legge di E. Lohan 49 Un caso notevole 53
19
Parte II. La poesia greca tra età arcaica e classica e l’avvento dei titoli I
L’epica 59 In principio v’era Omero 59 Il proemio dei poemi omerici 62 Il nome dei poemi omerici 66
VIII
Sommario
L’Iliade, l’Odissea e le lettere dell’alfabeto: le enciclopedie del 72 sapere
II
La lirica 81 Osservazioni generali 81 84 Citare l’incipit Incipit e titoli: un excursus 88 «Anche questo di Focilide»: l’individuo come autore del testo 92 letterario
III
I drammi 98 Fase teatrale e fase libraria: presentazione e problemi di una pista d’indagine 98 100 I concorsi ufficiali ad Atene «Chiedere il coro» 101 Le procedure di concorso in prospettiva diacronica 107 119 Esito degli agoni e registrazione dei risultati Famiglie teatrali e proprietà letteraria 120 Per la storia del titolo delle opere drammatiche: sondaggi nella tradizione manoscritta 126 Sul titolo dei drammi dei grandi autori tragici del V secolo a. C.: 126 alcune osservazioni Il catalogo dei drammi eschilei 126 128 Le hypotheseis dei drammi di Sofocle Il Laur. Plut. 32, 2 e il titolo dei drammi di Euripide 130 Altra documentazione sul titolo dei drammi di Euripide 138 Le commedie 140 Revisioni d’autore e titoli alternativi 140 La lista delle opere di Aristofane 142 Ricerche sul titolo delle opere menandree 144 Prime conclusioni 149
. .. .. .. .. . .. .. .. .
Parte III. La prosa greca dagli albori all’avvento dei titoli I
La prosa prima di Erodoto 155 Primi usi 155 Albori della letteratura in prosa 157 Leggere per un uditorio 159 Pubbliche letture ed esigenze d’autore
161
IX
Sommario
II . . .
Aspettando il titolo 165 165 «Così dice Ecateo di Mileto» Origini di un’arte proemiale 170 La funzione distintiva dell’esordio bipartito 172 Conseguenze per la tradizione dei primi testi in prosa Sui titoli assegnati alla prosa di Ferecide, Eraclito ed 175 Ecateo 175 Ferecide di Siro Eraclito di Efeso 176 Ecateo di Mileto 178
III
Scrivere in prosa tra fine V e IV secolo a. C. Memoria di sé 182 184 Cerchie di intellettuali Dimensioni dell’opera in prosa 185 Prime proiezioni 187
IV
Erodoto l’innovatore 191 Tradizione dell’opera 191 Abbandono del tradizionale schema d’esordio 194 198 L’incipit epigrammatico Da ἀπόδεξις a ἱστορία. Genesi di un titolo 202 Usi antichi ed equivoci moderni sul titolo ἱστορία (e su 205 historia) Il nome delle Muse. Ancora sul titolo dei libri di Erodoto
V
Tucidide l’architetto della prosa 208 Le lacrime di Tucidide 208 L’esordio dell’opera 209 Le formule finali 211 Tucidide come prosatore 217 I titoli della tradizione bizantina 220 Tucidide senza seguaci 229
VI . .
Senofonte e la inscriptio libraria 230 Deduzioni a partire dai proemi 230 Sul titolo dell’Anabasi 236 Testimonianze antiche 236 Tradizione manoscritta 238 Ragioni di una scelta 240
174
182
206
X
. . . . VII . . . . . . . . . VIII
Sommario
Per la storia del titolo della Ciropedia 243 Testimonianze antiche Tradizione manoscritta 246 Sul titolo dei Memorabili 251 Testimonianze antiche 251 253 Tradizione manoscritta Sul titolo di altri scritti: appunti 255
242
259 Titoli e prosa nel IV secolo a. C.: alcuni approfondimenti Le notizie di Dionisio di Alicarnasso su Filisto di Siracusa 259 263 Teopompo di Chio Profilo di un prosatore 263 Sul titolo dei Φιλιππικά 265 Dare un nome ai fatti storici. Genesi e importanza di un 267 titolo Teopompo e l’arte oratoria 270 273 Oratori e titoli Sul titolo dei discorsi di Isocrate: alcune osservazioni 273 Sul titolo dei discorsi demostenici 280 Platone e dintorni 285 ΑΛΗΘΕΙΑ. Sulla ricezione di uno scritto di Protagora nella cerchia 285 platonica Sul titolo dei dialoghi platonici 288 292 Aristotele «il lettore» Titoli in scena: un passo del Lino del commediografo Alessi 296 Il titolo come fenomeno librario preellenistico 299
. .
Rotoli e titoli 301 I “luoghi” del titolo nel rotolo di età ellenistico-romana. Una panoramica 301 Valore e limiti delle rappresentazioni iconografiche del V secolo a. C. 307 ΕΠΙΓΡΑΦΗ. Studi lessicali 310 Accezioni librarie di ἐπιγραφή. Alcune osservazioni 311 Implicazioni del lessico 317
IX
Conclusioni
320
Sommario
Appendice. Senofonte, le Elleniche e “the missing portions of Thucydides”: 323 un caso speciale Paralipomeni di Tucidide ed Elleniche di Senofonte 323 Questioni di metodo e di merito 326 Codici e titoli delle Elleniche 328 340 Un bilancio Problemi aperti. Qualche considerazione 342 Instrumentum bibliographicum
351
Indice dei nomi e degli argomenti notevoli Indice delle testimonianze scritte
372
367
XI
Abbreviazioni Gli studi menzionati più di una volta, sono indicati alla prima occorrenza per esteso, successivamente in forma abbreviata con rimando alla nota della citazione completa. I periodici di scienze dell’antichità e di bizantinistica sono sempre citati in forma abbreviata al modo seguente: Acme = Acme. Annali della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Milano Adamantius = Adamantius. Notiziario del Gruppo Italiano di Ricerca su “Origene e la tradizio ne alessandrina” Aegyptus = Aegyptus. Rivista italiana di egittologia e di papirologia Aevum = Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche AJPh = American Journal of Philology AK = Antike Kunst AnB = Analecta Bollandiana AnPap = Analecta Papyrologica AntPhil = Antiquorum Philosophia APF = Archiv für Papyrusforschung und verwandte Gebiete Apocrypha = Apocrypha. Revue internationale des littératures apocryphes ArcheCl = Archeologia Classica Arctos = Arctos. Acta philologica Fennica ASNSP = Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di lettere e filosofia Athenaeum = Athenaeum. Studi di letteratura e storia dell’antichità AuA = Antike und Abendland Axon = Axon. Iscrizioni storiche greche Baetica = Baetica. Estudios de arte, geografía e historia BASP = The Bulletin of the American Society of Papyrologists BCH = Bulletin de Correspondance Hellénique Belfagor = Belfagor. Rassegna di varia umanità BICS = Bulletin of the Institute of Classical Studies BollClass = Bollettino dei Classici BMCR = Bryn Mawr Classical Review Byzantion = Byzantion. Revue internationale des études byzantines BZ = Byzantinische Zeitschrift CeM = Classica et Mediaevalia CErc = Cronache Ercolanesi Classical Museum = The Classical Museum: A Journal of Philology, and of Ancient History and Literature CorLond = Corolla Londiniensis CPh = Classical Philology CQ = Classical Quarterly CR = The Classical Review DA = Die Antike DAU = Der altsprachliche Unterricht Dike = Dike. Rivista di storia del diritto greco ed ellenistico Dioniso = Dioniso. Rivista di studi sul teatro antico https://doi.org/10.1515/9783110703740 002
XIV
Abbreviazioni
Ελληνικά = Ελληνικά. Φιλολογικό, Ιστορικό και Λαογραφικό Περιοδικό Σύγγραμμα Eos = Eos. Commentarii Societatis Philologae Polonorum Epigraphica = Epigraphica. Rivista italiana di epigrafia Eranos = Eranos. Acta philologica Suecana GGA = Göttingische Gelehrte Anzeigen Gnomon = Gnomon. Kritische Zeitschrift für die gesamte klassische Altertumswissenschaft GRBS = Greek Roman and Byzantine Studies Hermes = Hermes. Zeitschrift für klassische Philologie HL = Humanistica Lovaniensia HSCPh = Harvard Studies in Classical Philology Hyperboreus = Hyperboreus. Bibliotheca classica Petropolitana ICS = Illinois Classical Studies IMU = Italia medioevale e umanistica ITFC = Incontri triestini di Filologia classica JAC = Jahrbuch für Antike und Christentum JHS = The Journal of Hellenic Studies Kernos = Kernos. Revue internationale et pluridisciplinaire de religion grecque antique Klio = Klio. Beiträge zur Alten Geschichte LAC = L’antiquité classique Maia = Maia. Rivista di letterature classiche Mat = Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici Mètis = Mètis. Anthropologie des mondes grecs anciens Methodos = Methodos. Savoirs et textes MG = Medioevo greco MH = Museum Helveticum MGR = Miscellanea Greca e Romana Mnemosyne = Mnemosyne. A Journal of Classical Studies MusCrit = Museum Criticum Νέα Ῥώμη = Νέα Ῥώμη. Rivista di studi bizantinistici NJA = Neue Jahrbücher für das klassische Altertum NJPhP = Neue Jahrbücher für Philologie und Pädagogik PapLup = Papyrologica Lupiensia Philologus = Philologus. Zeitschrift für Antike Literatur und ihre Rezeption PhilW = Philologische Wochenschrift Phronesis = Phronesis. A Journal for Ancient Philosophy PP = La Parola del Passato Prometheus = Prometheus. Rivista di studi classici QS = Quaderni di storia QUCC = Quaderni Urbinati di Cultura Classica RAL = Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia dei Lin cei Ramus = Ramus. Critical Studies in Greek and Roman Literature RCCM = Rivista di Cultura Classica e Medioevale RÉA = Revue d’études augustiniennes (poi: Revue d’études augustiniennes et patristiques) RÉG = Revue des études grecques RÉL = Revue des Études Latines RFIC = Rivista di filologia e d’istruzione classica
Abbreviazioni
XV
RHT = Revue d’histoire des textes RhM = Rheinisches Museum für Philologie RIL = Rendiconti dell‘Istituto Lombardo di Scienze e Lettere RILLC = Rassegna italiana di lingue e letterature classiche RP = Recherches de papyrologie RPh = Revue de Philologie RPL = Res publica litterarum RSBN = Rivista di studi bizantini e neoellenici Rudiae = Rudiae. Ricerche sul mondo classico Sacris erudiri = Sacris erudiri. A Journal of Late Antique and Medieval Christianity SCO = Studi Classici e Orientali Scripta = Scripta. An International Journal of Codicology and Palaeography Scriptorium = Scriptorium. Revue internationale des études relatives aux manuscrits S&C = Scrittura e civiltà S&T = Segno & Testo SIFC = Studi Italiani di Filologia Classica SMU = Studi medievali e umanistici SO = Symbolae Osloenses SR = Seminari Romani TAPhA = Transactions and Proceedings of the American Philological Association Tyche = Tyche. Beiträge zur alten Geschichte, Papyrologie und Epigraphik VetCh = Vetera Christianorum WJfA = Würzburger Jahrbücher für die Altertumswissenschaft WS = Wiener Studien YCS = Yale Classical Studies ZPE = Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik I periodici non afferenti all’ambito delle Altertumswissenschaften o della bizantinistica sono sempre citati per esteso.
Ulteriori abbreviazioni CUF = Collection des Universités de France EI = Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, Roma 1925 – 1937 FrGrHist = F. Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker, Berlin 1923 – 1930; Leiden 1940 – 1958 IG = Inscriptiones Graecae, Berlin 1873– LSJ = H. Liddell – G. Scott, A Greek English Lexicon (Suppl. ed. by E.A. Barber), Oxford 1968 (rip. 1977), revised and augmented throughout by H.S. Jones, with the assistance of R. McKenzie, Supplement edited by P.G.W. Glare, and with the assistance of A.A. Thompson, Oxford 1996 PCG = R. Kassel – C. Austin, Poetae Comici Graeci, Berolini et Novi Eboraci 1983– P.Herc. = Papyri Herculanenses (Herculanensium voluminum quae supersunt. Collection Pri ma, Neapoli 1793 – 1855; Collection Altera, Neapoli 1862 – 1876 P.Oxy. = The Oxyrhynchus Papyri, London 1898–
XVI
Abbreviazioni
RAC = Reallexikon für Antike und Christentum, Bonn 1950– RE = Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft. Neue Bearbeitung, begonnen von G. Wissowa, unter Mitwirkung zahlreicher Fachgenossen, herausgegeben von G. Wissowa (u. a.), Stuttgart – München 1893 – 1980 Titres et articulations du texte = J.-C. Fredouille – M.-O. Goulet-Cazé – Ph. Hoffmann – P. Petitmengin (éd. par), avec la collab. S. de Deléani, Titres et articulations du texte dans les œuvres antiques, Actes du colloque international de Chantilly (13 – 15 décembre 1994), Paris – Turnhout 1997 (Collection des études augustiniennes. Série Antiquité, 152) VS = H. Diels – W. Kranz (herausg. von), Die Fragmente der Vorsokratiker, griechisch und deutsch, I–III, 6. verb. Auflage, Berlin 1951 – 1952
Trascrizioni La trascrizione dei paratesti reperiti in rotoli e codici è compiuta, salvo eccezione, in caratteri minuscoli. Spiriti e accenti vengono normalizzati, se necessario. La trascrizione di documenti epigrafici segue, di norma, quella dell’edizione di riferimento.
Parte I. Teoria e metodo
I Linee generali 1 Importanza dei titoli nelle dinamiche letterarie: una introduzione «Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus». Umberto Eco, Il nome della rosa ¹ (Der Titel) braucht den Inhalt weder anzuzeigen noch zu erschöpfen; aber er sollte doch auch nicht irreführen. Gotthold Ephraim Lessing, Hamburgische Dramaturgie ²
Già professore ordinario di semiotica generale all’Università di Bologna, intellettuale ben noto e stimato, Umberto Eco non poteva tuttavia prevedere l’immensa fortuna del suo primo romanzo, Il nome della rosa. Apparso in Italia nel 1980, il racconto riscosse subito straordinario successo, di critica e di pubblico al tempo stesso. Il valore dell’opera, originale sotto tanti aspetti, fu riconosciuto immediatamente in altri Paesi all’apparire delle prime traduzioni: in francese e in tedesco nel 1982, in inglese nel 1983. Dal romanzo fu tratto qualche anno più tardi anche un film, diretto da un registra scaltrito come Jean-Jacques Annaud e dotato di un eccezionale cast di attori. La pellicola uscì nelle sale cinematografiche nel 1986 e le fu conservato il nome dell’opera letteraria, nonostante i numerosi adattamenti che la trama del racconto aveva dovuto subire in fase di trasposizione cinematografica. Intanto il libro, tradotto in molte altre lingue, ha ininterrottamente continuato a sedurre lettori di ogni parte del mondo. Con piena ragione il romanzo è considerato un capolavoro delle letterature contemporanee. Ma quali fattori hanno giocato un ruolo davvero decisivo per questo straordinario risultato letterario? I pregi dell’opera sono evidenti. Eco ha saputo combinare in modo originale varie esigenze narrative. Il suo romanzo è un giallo e al tempo stesso un noir. Il racconto è ambientato nel medioevo. Tutto è stato studiato nei minimi dettagli ed esposto con grande efficacia: non solo l’ordine degli eventi e i caratteri dei personaggi, ma l’architettura dell’abbazia, la struttura della biblioteca, la scena dei delitti, l’ambiguo valore dei segni, il significato della povertà di Cristo per i teologi dell’epoca, i diritti del papato e quelli dell’impero e le forze contrastanti L’edizione del romanzo da me utilizzata è apparsa nella serie “I grandi tascabili Bompiani”, Milano 1984. G.E. Lessing, Hamburgische Dramaturgie, in Id., Werke 1767 1769, herausg. von K. Bohnen, Frankfurt am Main 1985, 365. https://doi.org/10.1515/9783110703740 003
4
I Linee generali
che ne derivarono, il significato della custodia del sapere, la vita spesa attorno e in funzione di una ricchissima biblioteca. Tutto ciò Eco lo ha trattato con straordinaria accuratezza, senza dubbio dopo molti anni di studio di ben precisi modelli letterari che qui non è necessario rintracciare. Eppure, non credo che tutto ciò basti a spiegare fino in fondo la fortuna del suo capolavoro. A ben vedere, v’è almeno un altro aspetto notevole che merita massima considerazione. Si tratta di un elemento posto sulle soglie del racconto³, una scritta concisa, ma estremamente seducente, qualcosa che i teorici contemporanei classificano normalmente nella categoria dei paratesti: il titolo⁴. Il nome della rosa ha sempre giocato un ruolo di eccezionale importanza per il successo del libro, come del film, stimolando incessantemente la curiosità e l’interesse del pubblico. O meglio: il romanzo ha conquistato i lettori già per l’enigmatico titolo scelto dall’autore. Lo riconobbe in qualche maniera lo stesso Eco: «Da quando ho scritto Il nome della rosa mi arrivano molte lettere di lettori che mi chiedono cosa significa l’esametro latino finale, e perché questo esametro ha dato origine al titolo». Così lo scrittore in apertura delle sue Postille a “Il nome della rosa”, pubblicate sulla rivista Alfabeta, 49 (1983), 19 – 32, e poi riproposte, come fascicolo separato, accanto all’edizione del romanzo l’anno dopo (Milano 1984, 7– 45; mi sono servito di questa edizione del testo)⁵. Nelle Postille Eco rievoca la genesi dell’opera e la sua stessa esperienza di scrittore. Consideriamo ora la parte iniziale delle Postille, dedicata proprio alla questione del titolo. Dopo aver ricordato la curiosità dei lettori, Eco svela anzitutto (Postille, p. 7) l’origine e il significato dell’esametro finale stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. Si trattava – o almeno Eco così allora credeva – di un verso del De contemptu mundi di Bernardo Morliacense, un benedettino del XII secolo. In
Parlando di ”soglie”, mi riferisco ai margini fisici, a livello librario, del testo. Sul concetto di titolo ci soffermeremo nel secondo capitolo del presente lavoro. La categoria dei paratesti è stata introdotta nelle scienze letterarie da G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris 1982; Id., Seuils, Paris 1987. Lo studioso vi include tutti quegli elementi verbali e non verbali che corredano il testo, lo presentano e gli fanno da cornice nel suo stesso supporto librario (peritesti), oppure in modo fisicamente separato (epitesti; nella sottocategoria degli epitesti rientrano non solo brochures e cataloghi editoriali, ma ogni forma di pubblicità del prodotto letterario compiuta per mezzo della televisione, della radio e così via). Nel presente lavoro mi servirò del termine paratesto, e di espressioni derivate, in senso più stretto, cioè solo in riferimento a ciò che correda il testo nel suo stesso spazio fisico, a livello librario. Le Postille sono state successivamente pubblicate in calce a nuove edizioni del romanzo. Eco le ha peraltro riviste alla luce delle discussioni sviluppatesi sul verso stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. In quanto segue mi limito a tenere conto della prima versione delle Postille, senza trattare del dibattito sorto successivamente.
1 Importanza dei titoli nelle dinamiche letterarie: una introduzione
5
margine al topos secondo cui tutto svanisce nel nulla – i grandi di un tempo, le città famose, le belle principesse –, Bernardo lo utilizzava per sottolineare che di tutte le cose non rimangono che i nomi. D’altra parte, anche Abelardo usava l’enunciato nulla rosa est, per mostrare come il linguaggio ci permetta di parlare tanto delle cose scomparse quanto di quelle inesistenti. Ciò detto, Eco racconta com’era arrivato a quel titolo così originale. All’inizio, confessa lo scrittore, egli non aveva affatto pensato a designare l’opera in tal modo, ma si era servito di un semplice titolo di lavoro: L’abbazia del delitto. È questa, tuttavia, una intestazione priva di appeal, poiché svela in anticipo la trama poliziesca del racconto e lascia in secondo piano tutto il resto. Eco era consapevole del fatto che il romanzo, prima di essere pubblicato, dovesse cambiare nome. «Il mio sogno era di intitolare il libro Adso da Melk» (Postille, p. 8). Com’è noto, è questo il nome del giovane novizio testimone dei drammatici e mirabili eventi accaduti l’ultima settimana di novembre dell’anno del Signore 1327 in un’abbazia italiana dell’ordine dei benedettini, della quale a inizio del romanzo si dice giusto e pietoso tacere anche il nome. Adso vi era arrivato al seguito di Guglielmo da Baskerwille, un frate francescano d’indubbia perspicacia e cultura, chiamato a partecipare a un delicatissimo convegno sulle sorti degli “spirituali” suoi confratelli francescani e tuttavia ben presto incaricato dall’abate del luogo di fare luce sui delitti che stavano sconvolgendo la vita dei monaci e che si sarebbero conclusi solo col rogo della meravigliosa biblioteca per cui essi tanto s’erano prodigati. Giunto al termine della sua povera vita di peccatore, mentre egli oramai canuto declina insieme al mondo, Adso decide di fissare sulla pergamena memoria dei fatti tremendi di quella lontana e cupa settimana. Il titolo dell’opera avrebbe dunque dovuto coincidere col nome del personaggio nonché voce narrante di tutta la storia. In effetti, secondo Eco: un narratore non deve fornire interpretazioni della propria opera, altrimenti non avrebbe scritto un romanzo, che è una macchina per generare interpretazioni. Ma uno dei principali ostacoli alla realizzazione di questo virtuoso proposito è proprio il fatto che un romanzo deve avere un titolo. Un titolo è già purtroppo una chiave interpretativa. Non ci si può sottrarre alle suggestioni generate da Il rosso e il nero o da Guerra e pace. I titoli più rispettosi del lettore sono quelli che si riducono al nome dell’eroe eponimo, come David Copperfield o Robinson Crusoe, ma anche il riferimento all’eponimo può costituire una indebita ingerenza da parte dell’autore (pp. 7 8).
Adso da Melk non fornisce una chiava interpretativa del testo: è un titolo neutro. Ma nella tradizione italiana sono poche le opere chiamate col nome dei loro protagonisti e persino un grandissimo scrittore come Alessandro Manzoni do-
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I Linee generali
vette rinunciare a chiamare I Promessi Sposi col nome di Fermo e Lucia. Titoli del genere non piacciono molto – o non piacevano, secondo Eco – agli editori italiani. Così anche Adso da Melk fu lasciato da parte. E la scelta cadde su Il nome della rosa. Il titolo, ammette lo scrittore, gli venne in mente quasi per caso, ma gli piacque subito, poiché: la rosa è invece una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno: rosa mistica, e rosa ha vissuto quel che vivono le rose, la guerra delle due rose, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, i rosacroce, grazie delle magnifiche rose, rosa fresca aulentissima. Il lettore ne risultava giustamente depistato, non poteva scegliere una interpretazione; e anche se avesse colto le possibili letture nominaliste del verso finale ci arrivava appunto alla fine, quando già aveva fatto chissà quali altre scelte. Un titolo deve confondere le idee, non irreggimentarle (p. 8).
Questa la genesi del titolo di uno dei romanzi più amati del nostro tempo. In generale, non capita spesso che un autore si pronunci tanto apertamente sul titolo di una sua opera e chiarisca le esigenze che lo hanno orientato nella scelta del nome di una sua composizione. A principio di un libro sul titolo letterario, come è quello che il mio lettore ha davanti a sé, converrà pertanto riservare un po’ di attenzione al caso appena ricordato. A ben vedere, la scelta di Eco è stata alla fine vincolata a una motivazione molto più complessa di quella di un titolo neutro. Certo, è vero che neppure Il nome della rosa fornisce interpretazioni a priori del romanzo. Eppure, questo titolo non va messo sullo stesso piano di Adso da Melk. Nessun lettore avrebbe mai avuto seri dubbi sul significato di quest’ultimo. Si tratta (meglio: si sarebbe trattato) del nome della voce narrante dei fatti accaduti alla fine del 1327 nella misteriosa abbazia benedettina. Qualsiasi lettore lo avrebbe scoperto leggendo le prime pagine dell’opera, dove Eco introduce il racconto con gusto e inventiva letteraria. Invece Il nome della rosa è applicabile a diversi personaggi o realtà o fatti del romanzo e ammette di conseguenza svariate possibilità d’interpretazione. Il lettore ne risulta depistato – come Eco voleva – e così sollecitato a scoprire, pagina dopo pagina, il significato che si cela dietro quel nome così misterioso del testo. In effetti, a chi o a cosa si può riferire Il nome della rosa? Si tratta forse del secondo libro della Poetica di Aristotele, cioè dell’ultima copia sopravvissuta di un testo di cui non era permesso pronunciare neppure il nome, uno scritto proibito e perciò occultato in fine Africae nella labirintica biblioteca dell’abbazia? Oppure il titolo rimanda alla giovane donna incontrata e amata da Adso nella cucina dei monaci, ragazza sventurata e afflitta dalla miseria, ma bella e terribile come un esercito schierato a battaglia, colei che aveva conquistato i sensi e i sentimenti del giovane benedettino, ma della quale quest’ultimo non seppe poi
1 Importanza dei titoli nelle dinamiche letterarie: una introduzione
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mai il nome? Oppure Eco ha steso un velo di silenzio sul nome stesso della sinistra abbazia, teatro d’inganni e delitti, sui quali Guglielmo cerca di fare luce grazie alle deduzioni della sua formidabile logica aristotelica? Dinanzi a queste e ad altre possibilità interpretative del titolo ogni lettore cerca di darsi risposta seguendo l’esempio di frate Guglielmo, cioè sfruttando questo o quell’indizio lasciato dal narratore tra le pieghe del racconto, ossia ponendo in relazione tra loro fatti o eventi apparentemente slegati. Il lettore procede anch’egli per deduzioni, come deve avvenire in un giallo che si rispetti. Ma in questa maniera la relazione tra titolo e testo rimane in sospeso per tutta l’opera: fino all’ultima pagina, fino all’ultima riga, fino all’ultima frase, in latino per giunta, invece che in italiano. Umberto Eco è sfuggito al rischio di offrire una preordinata chiave interpretativa dell’opera invertendo abilmente l’usuale relazione tra titolo e testo. I titoli possono informare sul contenuto dei libri e quindi influenzare la lettura, che da neutra finisce già incanalata in una direzione ben precisa, ovvero in una determinata linea interpretativa. Col romanzo di Eco avviene l’opposto: non è il testo ma il titolo che occorre in definitiva interpretare; e per farlo, bisogna prima leggere il romanzo per intero. Del resto, all’interno dell’opera sono disseminate varie tracce che non puntano nella stessa direzione, cioè non suggeriscono la stessa conclusione. In un tale labirinto interpretativo il lettore dovrà prendere la strada che gli sembra più giusta. Non è stato proprio Umberto Eco a sottolineare che ogni opera d’arte è sempre “opera aperta”, poiché essa presuppone la cooperazione interpretativa del ricevente⁶? I titoli sono indispensabili nella odierna comunicazione scritta. Costituiscono il necessario corredo paratestuale di ogni genere di libri, articoli di quotidiani o contributi accademici. Ne sono per così dire la porta d’ingresso («le titre est la porte d’entrée du livre»: così Antoine Compagnon⁷). E spesso i lettori ne subiscono la forza di seduzione e i condizionamenti senza neppure avvedersene.
Sull’argomento cf. U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contempo ranee, Milano 1962, e soprattutto Id., Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano 1979. Cf. A. Compagnon, La seconde main ou le travail de l’écriture, Paris 1979, 329. Stimolanti considerazioni in proposito offre C. Nord, Der Titel ein Mittel zum Text. Überlegungen zu Status und Funktionen des Titels, in N. Reiter (herausg. von), Sprechen und Hören. Akten des 23. Lin guistischen Kolloquiums, Berlin 1988, Tübingen 1989, 519 528; Ead., Wie der Text zum Leser kommt. Formen und Funktionen von Überschriften in deutschen Illustrierten, in Nouveaux cahiers d’allemand 11/1 (1993), 61 73.
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Lo ha stupendamente rilevato Eric A. Havelock commentando il titolo della Repubblica di Platone⁸. D’altra parte, è anche vero che non sempre, perlustrando gli scaffali di una biblioteca, un lettore ha già in mente un libro preciso da prendere. Talvolta avviene il contrario. Il lettore si lascia sedurre da un titolo assolutamente sconosciuto. È ciò che accade, nel racconto di Eco, anche a frate Guglielmo ormai penetrato in biblioteca: Per questo non compimmo tutta l’opera di seguito. Ci fermavamo a curiosare negli armaria, e ora che Guglielmo coi suoi nuovi vetri sul naso poteva attardarsi a leggere i libri, a ogni titolo che scopriva prorompeva in esclamazioni di allegrezza, o perché conosceva l’opera, o perché da tempo la cercava o infine perché non l’aveva mai sentita menzionare ed era oltremodo eccitato e incuriosito. (Quarto giorno. Dopo compieta.)
I titoli sono il “nome proprio” del testo letterario. Lo “designano” in quanto oggetto, ne occupano le soglie di accesso e/o di uscita. In quanto “nomi propri” dei prodotti letterari, ne permettono l’identificazione. Cionondimeno, possono avere altre importanti funzioni. Tra l’altro, essi “incoraggiano” il pubblico all’acquisto e alla lettura: svolgono in tal caso una funzione réclame. A questo riguardo Harald Weinrich (Sprache in Texten, Stuttgart 1976, 196) ha felicemente osservato che il passante, prima ancora che lettore o acquirente dell’opera letteraria, è Titelleser. In contesti di forte concorrenza commerciale, la funzione réclame dei titoli svolge un ruolo delicatissimo nella promozione, diffusione e successo del prodotto letterario. Gli editori ne sono ben consapevoli. I titoli migliori sono oggi quelli che stimolano l’interesse del pubblico senza dire troppo del contenuto del rispettivo testo. Così è anche per Il nome della rosa, un titolo dal fortissimo appeal. La sua funzione informativa è invece appena percepibile, poiché da un titolo del genere non si ricava una chiara indicazione
Cf. E.A. Havelock, Preface to Plato, Cambridge (Mass.) London 1963, 3: «It sometimes happens in the history of the written word that an important work of literature carries a title which does not accurately reflect the contents. A part of the work has become identified whith the whole, or the meaning of a label has shifted in translation. But if the label has a popular and recognisable ring, it can come to exercise a kind of thought control over those who take the book in their hands. They form an expectation which accords with the title but is belied by much of the substance of what the author has to say. They cling to a preconception of his intentions, insensibly allowing their minds to mould the content of what they read into the required shape». Quindi lo studioso aggiunge: «These remarks apply with full force to that treatise of Plato’s styled the Republic».
2 Obiettivi del presente lavoro
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sul contenuto e la natura del racconto. In fondo, è ciò che Eco voleva: lasciare liberi i lettori di compiere, ciascuno, le proprie scelte interpretative⁹.
2 Obiettivi del presente lavoro Il caso fin qui discusso non ha avuto altro scopo che quello di mettere in luce con considerazioni di tenore generale l’importanza dei titoli nelle dinamiche letterarie del nostro presente. Da questo punto di vista non è ovviamente l’unico esempio possibile. D’altra parte, esso non aiuta neppure a riflettere su altri aspetti legati all’argomento, ovvero sui possibili percorsi di ricerca o sulla novità di risultati a cui conduce lo studio dei titoli di opere apparse prima della stampa, cioè concepite e più o meno a lungo tramandate in forma manoscritta. Oggi pare quasi scontato che ogni opera debba avere un suo nome, segnato da qualche parte sulle soglie fisiche del testo, e che questo nome sia stato scelto dall’autore o almeno stabilito col suo consenso. Le cose non sono andate tuttavia sempre così. Ciò vale anche per alcuni grandi classici della letteratura universale. Molti capolavori hanno dovuto attraversare più di una fase di passaggio, prima di finire stabilmente designati in un modo, che poi non rispecchiava neppure l’autentico sentire dell’autore. Così è ben difficile sostenere che Dante abbia davvero pensato d’intitolare Comedìa il suo capolavoro sui tre regni ultramondani. Nonostante l’abitudine con la quale ce ne serviamo, questo titolo mal si adatta all’opera nel suo insieme e, a dispetto dei numerosi tentativi di giustificarlo, non sembra davvero più possibile ricondurlo alla volontà del poeta fiorentino. Chi vuole spiegarne la genesi e i motivi, è dunque chiamato a riconsi-
La struttura del romanzo e le informazioni fornite nelle Postille consentono comunque di fare puntuali valutazioni sul racconto, che è prima di tutto un noir e un giallo, come sopra accen nato. Lo lascia intendere del resto lo stesso Umberto Eco nelle Postille, rievocando la sua «idea seminale di avvelenare un monaco» e l’Arbeitstitel del suo manoscritto: L’abbazia del delitto. Nonostante l’ambientazione medievale, il romanzo rientra invece assai meno nel genere del romanzo storico per molti motivi. Ma non è questa la sede per riflettere su tali aspetti. Tornando al nostro argomento, si ricordi che la questione dell’importanza del titolo nelle dinamiche letterarie è stata affrontata prima di Eco in numerosi studi e da svariate prospettive. Una succosa panoramica è offerta da H.J. Wulff, Von der Bibliofilie zur Textgrammatik. Eine annotierte Bi bliografie zum Fänomen des Titels, in Id., Zur Textsemiotik des Titels, Münster 1979 (Papiere des Münsteraner Arbeitskreises für Semiotik, 12), 1 128.
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derare le dinamiche di composizione e la storia della tradizione del capolavoro dantesco sin dalle sue primissime sue fasi¹⁰. Casi come quello della Comedìa ¹¹ incuriosiscono naturalmente lo studioso dei testi antichi greci e latini e lo stimolano a porsi subito una serie di questioni.
In casi come quello del titolo dell’opera dantesca uno studioso è quindi chiamato a una sorta d’indagine stratigrafica della tradizione disponibile. A giusta ragione si è quindi recen temente pensato di riconsiderare con maggiore attenzione proprio l’iniziale divulgazione dei canti della Commedia, per fare luce sulla questione della designazione dell’opera. In effetti, il capolavoro dantesco non si presentò sin da principio tutto quanto raccolto in “esemplari or ganici”, cioè completi. In realtà, la sua pubblicazione avvenne invece lentamente e per tappe. Dapprima circolarono solo piccoli gruppi di canti, o cantiche separate, ovvero anzitutto l’Inferno e qualche tempo dopo il Purgatorio. Solo in articulo mortis pare che Dante terminasse il Paradiso. Peraltro, inizialmente, il poeta non dovette avvertire l’urgenza di dare un titolo d’insieme a un’opera che nella sua unitarietà e interezza ancora non esisteva. Solo in un secondo momento, a lavoro realmente concluso, dovette porsi il problema di dare alle tre cantiche, ormai riunite in esemplari completi, un titolo d’insieme. Con la scomparsa dell’autore furono i primi copisti, a quanto è lecito supporre, a giocare un ruolo decisivo nella questione. Essi non esitarono a colmare la mancanza di un titolo d’autore iscrivendo sui loro esemplari il titolo Comedìa in considerazione di due precisi versi dell’Inferno (i due versi sono: Inf. XVI, 128: «e per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro…»; e XXI, 2: «altro parlando / che la mia comedìa cantar non cura…»); d’altra parte, è pure lecito chiedersi se sotto questo titolo non abbia inizialmente circolato già il solo Inferno. Ad ogni modo, non fu certo Dante a chiamare così il suo tripartito capolavoro. Sulla questione si veda ora A. Casadei, Il titolo della “Commedia” e l’Epistola a Cangrande, in Allegoria 60 (2009), 167 181: lo studioso spiega tra l’altro bene perché Dante, nei punti appena menzionati, chiami comedìa la prima parte della sua opera. L’estensione della denominazione alle restanti fu comunque una operazione ingiustificata, non certo imputabile al poeta, scomparso poco dopo la conclusione della sua straordinaria fatica (1321). Non fu la sua mano a fissare una volta per tutte i destini del titolo del più grande capolavoro della letteratura medievale. Per la storia della tradizione dell’opera dantesca è sempre fondamentale G. Folena, La tradizione delle opere di Dante Alighieri, in Atti del Congresso internazionale di studi danteschi (20 27 aprile 1965), a cura della Società Dantesca Italiana e dell’Associazione Internazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura Italiana, Firenze 1965, 40 78; importante ora anche M. Veglia, Sul testo della “Commedia” (da Casella a Sanguineti), in Studi e problemi di critica testuale 66 (2003), 65 119. Sulla pubblicazione separata delle cantiche cf. T. Brückner, rec. a Rotiroti, Codicologia trecentesca, in Deutsches Dante Jahrbuch 81 (2006), 231 236. Con problemi di composizione e storia del testo è obbligato, per es., a confrontarsi anche chi si occupa dei Rerum vulgarium fragmenta del Petrarca e vuol capire com’è avvenuto che questa raccolta poetica sia finita sotto il titolo umiliante di Canzoniere. Sull’argomento cf. M. Feo, s.v. Petrarca, in Orazio. Enciclopedia oraziana, Roma 1998, vol. III, 405 25 (qui in part. 421; la definizione di titolo “umiliante” è sua); E. Scarpa, ‘‘Canzoniere’’: per la storia di un titolo, in Studi di filologia italiana LV (1997), 107 9; N. Cannata, Dal ‘‘ritmo’’ al ‘‘canzoniere’’: note sull’origine e l’uso in Italia della terminologia relativa alle raccolte poetiche in volgare (secc. XIII XX), in Critica del testo IV/2 (2001), 397 429; P. Vecchi Galli, Onomastica petrarchesca. Per il Canzoniere, in Italique 8 (2005), 29 44.
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Come stavano infatti le cose nel mondo antico, epoca diversissima dalla nostra quanto ai meccanismi di composizione, diffusione, fruizione e conservazione dei prodotti letterari? Si curavano normalmente gli autori di dare un titolo alle loro opere? Da quando cominciarono essi a farlo? E quando lasciarono circolare senza nome i propri scritti, o rimisero ad amici e allievi, a futuri lettori o copisti o bibliotecari o mercanti di libri il compito di colmare la “lacuna”? Com’è cambiata l’arte di scrivere un proemio con l’avvento e l’uso dei titoli, ovvero quali conseguenze ha avuto l’emergere e l’affermarsi di questa speciale convenzione letteraria? Da quando i poemi di Omero hanno cominciato a circolare in una suddivisione in 24 parti e perché ciascuna rapsodia fu contrassegnata con una lettera – non con un numero: ne discuteremo – dell’alfabeto ionico? Cosa è avvenuto col teatro ateniese del V e IV secolo a. C.? Può dirsi davvero che i drammi di Eschilo entrarono ciascuno in circolazione con un titolo scelto dall’autore? E cosa avvenne per quelli di Sofocle e di Euripide? Fu Aristofane a chiamare le sue commedie l’una Vespe, l’altra Rane e altre in modi simili, sì da catturare la curiosità e l’interesse del pubblico? Anche per chi si occupa di prosa greca le domande da porsi sono molte. Consideriamo, per esempio, i tre grandi storici Erodoto, Tucidide e Senofonte. È noto che i primi due non si curarono di assegnare un titolo alla rispettiva opera. Come e quando le loro narrazioni furono dunque designate in qualche modo? E quando i libri erodotei furono intestati ciascuno col nome di una Musa? Quali dati offrono in proposito gli esemplari bizantini superstiti? E su Senofonte: fu davvero lui il primo tra gli storici greci a dare un titolo alle sue opere? Per quali motivi? Cosa ci serba a questo speciale riguardo la tradizione manoscritta disponibile? La questione è importante, tra l’altro, per chi si occupa della genesi e della struttura delle Elleniche. Infatti, un grande studioso vissuto due secoli fa, Barthold G. Niebuhr, le considerava come frutto dell’accorpamento di due opere inizialmente ben distinte e separate, l’una corrispondente agli attuali primi due libri, l’altra ai restanti III–VII. Secondo lo studioso, il primo dei due scritti aveva anche avuto un titolo tutto particolare: Παραλειπόμενα Θουκυδίδου. Infatti, gli attuali primi due libri delle Elleniche forniscono (almeno fino a Ell. II, 3, 10) una conclusione al racconto tucidideo, rimasto incompiuto, sulla grande guerra del Peloponneso. Può dirsi ancora valida questa ricostruzione? Su quali fondamenti essa poggia e quale titolo esibiscono davvero le Elleniche nei superstiti esemplari? Più in generale, a quali condizioni un titolo consente di dedurre la preistoria di un testo, ovvero di ricostruire una fase non più direttamente documentata di un’opera o la circolazione separata di alcune sue parti? Per quali opere possiamo parlare di titoli d’autore?
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Ebbero in principio un titolo i vangeli canonici, la letteratura patristica di argomento dogmatico e contro gli eretici, le omelie di Giovanni Crisostomo, le poesie di Gregorio Nazianzeno, gli scritti di altri Padri della Chiesa meno conosciuti? Questi e altri interrogativi¹² hanno dato origine a una ricerca durata vari anni, la quale non poteva tuttavia essere esposta in una sola occasione per ragioni di spazio e di tempo. Alcuni approfondimenti li ho quindi già pubblicati in contributi particolari¹³. Il lavoro che qui si presenta è invece consacrato all’analisi e alla trattazione di problemi di ordine generale. Il primo di questi concerne la definizione del concetto e delle funzioni del titolo letterario. Il secondo problema è di ordine metodologico e mira a mettere a fuoco la maniera corretta di adoperare citazioni e testimonianze indirette, per stabilire se e sotto quale titolo (o titoli) un dato testo fu in circolazione nell’antichità. La problematica, a cui è dedicata gran parte del presente lavoro, concerne ad ogni modo la nascita del titolo nella letteratura greca tra V e IV secolo a. C., ossia l’emergere del fenomeno e il suo graduale dispiegarsi in un universo letterario, che aveva ereditato dall’epoca precedente ben altra forma di presentazione dei testi.
Naturalmente domande del genere potrebbero porsi per la letteratura latina classica e me dievale. In proposito si vedano i lavori di L. Daly, The Entitulature of Pre Ciceronian Writings, in Classical Studies in Honor of William Abbott Oldfather. Presented by a Commitee of His Former Students and Colleagues, Urbana, IL, 1943, 20 38; R.P. Oliver, The First Medicean MS of Tacitus and the Titulature of Ancient Books, in TAPhA 82 (1951), 232 261; N. Horsfall, Some Problems of Titulature in Roman Literary History, in BICS 28/1 (1981), 103 114; O. Pecere, La tradizione dei testi latini tra IV e V secolo attraverso i libri sottoscritti, in A. Giardina (a cura di), Società romana e impero tardoantico, IV: Tradizione dei classici, trasformazioni della cultura, Roma Bari 1986, 19 81 e 210 246; B. J. Schröder, Titel und Text: zur Entwicklung lateinischer Gedichtüber schriften. Mit Untersuchungen zu lateinischen Buchtiteln, Inhaltsverzeichnissen und anderen Gli ederungsmitteln, Berlin New York 1999 (Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte, 54); A. Borgo, Quando il libro si presenta da sé: Arma virumque e i titoli delle opere antiche, in Aevum 81/1 (2007), 133 147; F. Mac Góráin, Untitled/Arma Virumque, in CPh 113/4 (2018), 423 448, e J. Delmulle E. Colombi, Si duos vis codices fieri… La forma del testo agostiniano tra volontà dell’autore ed esigenze della trasmissione, in Il testo mediolatino e le sue forme. Aspetti materiali del libro e volontà degli autori, in FM 26 (2019), 1 55. Mi sia concesso qui subito ricordare: E. Castelli, Sul titolo dei libri nell’antichità. Una nuova interpretazione del framm. 140 (ed. K. A.) del Lino di Alessi, in S&T 12 (2014), 1 18; Id., Omero e il paratesto. Sulla proprietà letteraria nel mondo greco e una irrisolta questione dei papiri dell’Iliade e dell’Odissea, in ZPE 201 (2017), 1 11; Id., Sulla segnalazione dei poemi omerici nel Pap. Vindob. Gr. 39966v, in ZPE 211 (2019) 1 4 (questo lavoro si pone in ideale continuità col precedente). Altri lavori saranno indicati più avanti.
3 Eduard Lohan ed Ernst Nachmanson: due precursori
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Col presente lavoro non si è avuta la pretesa di esaurire da ogni punto di vista una materia così ampia, sfaccettata e così ricca di dati da vagliare. Troppo altro è il numero degli autori e delle opere e delle notizie da considerare. Piuttosto il mio proposito è stato quello di ricostruire, ovvero di delineare, attraverso una serie di dati, attinti al campo della poesia e poi soprattutto a quello della prosa, le tappe di un processo che ha portato all’adozione dei titoli nella letteratura antica e alla nascita del titolo d’autore. Ho cercato inoltre di illustrare le modificazioni che quest’uso ha comportato in particolare per la composizione del proemio delle opere in prosa. L’impostazione data al lavoro non è stata dunque mai catalogica, ma storica, sebbene io mi sia impegnato a raccogliere e a vagliare quante più informazioni possibili. Per la ricerca esposta nelle pagine seguenti non mi sono ad ogni modo limitato a esplorare “soltanto” le fasi di composizione e di prima circolazione dei testi nell’antica Grecia. Soprattutto (ma non solo) per i grandi tragici greci e per i tre storici Erodoto, Tucidide e Senofonte, mi è sembrato indispensabile allargare le ricerche alla trasmissione diretta dei loro scritti, considerandone gli esemplari più importanti. In questa maniera mi è stato possibile anche osservare le forme di evoluzione della presentazione libraria di qualche “classico” dall’antichità sino all’avvento della stampa o quasi. Ciò detto, conviene offrire adesso qualche informazione sugli studiosi che si sono mossi sino a oggi in questo sfaccettato campo di ricerca, sul metodo da loro adottato per dissodare e coltivare tale terreno, sui risultati raggiunti e soprattutto su quanto rimane da fare.
3 Eduard Lohan ed Ernst Nachmanson: due precursori Il problema del titolo delle opere antiche aveva già attratto l’attenzione di parecchi filologi nel corso del XIX secolo, ma un contributo di decisiva importanza si ebbe in proposito soltanto verso la fine di tale periodo, per la precisione nel 1890, con una dissertazione di Eduard Lohan¹⁴. In quell’occasione lo studioso offrì per la prima volta una raccolta, assai succintamente commentata, dei dati letterari di V–IV secolo a. C. relativi all’apparizione del fenomeno. Il censimento delle informazioni letterarie disponibili può considerarsi completo o quasi (mancano solo alcune indicazioni sulla prosa medica). Il pregio maggiore del
Cf. E. Lohan, De librorum titulis apud classicos scriptores Graecos nobis occurrentibus, Diss. Inaug., Marpurgi Cattorum 1890.
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lavoro è comunque a livello di metodo, come si vedrà più avanti (cf.: infra, Parte I, III, 2). Il periodo immediatamente successivo vide apparire vari contributi sull’argomento, sebbene quasi tutti dedicati al problema del titolo delle opere teatrali di epoca classica o successiva¹⁵. Passarono così cinquant’anni prima che la storia del titolo delle opere greche fosse affrontata con vedute di maggior ampiezza. Nel 1941 lo studioso svedese Ernst Nachmanson pubblicò il noto e ancora oggi prezioso Der griechische Buchtitel. Einige Beobachtungen ¹⁶. Il contributo non era stato concepito al fine di offrire una visione complessiva del fenomeno. Nachmanson stesso lo sottolinea nel suo saggio in molti modi. Ciononostante, il suo lavoro è d’importanza capitale. A differenza di Lohan, egli non si pone limiti cronologici precisi. Il V e IV secolo a. C. – l’età d’oro della letteratura greca secondo una impostazione allora dominante negli studi di filologia classica – costituiscono per Nachmanson “solo” la prima, in ogni caso importantissima, fase di storia del problema. Lo studioso non esita quindi a indagare il fenomeno in epoca romana o tardoantica. Nachmanson tenta in generale di ricostruire le dinamiche concrete che portavano nell’antichità il singolo autore o gli “editori” o semplici lettori ad assegnare un titolo a quanto di scritto in loro possesso. Le osservazioni sulla genesi del titolo delle opere di Plotino sono forse tra le pagine più belle e istruttive del lavoro. Ma l’originalità – per quell’epoca – del saggio è evidente anche su altri aspetti appena toccati dal Lohan, per esempio sul rapporto tra titolo e incipit. Così Nachmanson mostra lucidamente l’importanza attribuita Prescindo qui dal segnalare studi sul titolo dei libri in ambito latino. Per l’ambito greco furono pubblicati: A.E. Haigh, The Tragic Drama of the Greeks, Oxford 1896, 395 402; H. Haas, De comoediae Atticae antiquae fabularum nominibus. Pars Prior, Wien 1902; G. Bender, De Graecae comoediae titulis duplicibus, Marpurgi Cattorum 1904; H. Breitenbach, De genere quo dam titulorum comoediae Atticae, Basileae 1908; N. Terzaghi, Fabula. Prolegomeni allo studio del teatro antico, I vol.: Questioni teatrali, Milano Palermo Napoli [1911], 1 142, 297 330 (opera ricchissima d’informazione e su tanti aspetti fondamentale: molte considerazioni avanzate dalla ricerca successiva sono già in questo lavoro d’insieme); G. Capovilla, De Graecorum comicorum fabularum titulis duplicibus, in SIFC 1912, 360 381. Prima ancora del lavoro del Lohan era apparsa la dissertazione di G. Hippenstiel, De Graecorum tragicorum principum fabularum no minibus, Marpurgi Cattorum 1887, che Lohan contesta in punti essenziali. Al titolo dei testi greci si era dedicato anche Th. Bergk, Griechische Literaturgeschichte, I, Berlin 1872, 220 226: le sue pagine, già ricche di lucide valutazioni del fenomeno, furono un punto di riferimento per Lohan, che in effetti le richiama a più riprese. E. Nachmanson, Der griechische Buchtitel. Einige Beobachtungen, Göteborg 1941 (Göteborgs Högskolas Årsskrift XLVII, 1941, 19), 1 52 (ripubblicato, invariato, nella collana: “Libelli”, Band CLXIX, Darmstadt 1969).
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dagli antichi alla citazione delle prime parole di un testo, poetico o anche in prosa, persino quando lo scritto in questione un titolo già lo aveva. Se prescindiamo da un contributo di Henrik Zilliacus del 1938, un saggio anch’esso dagli ampi orizzonti e tuttavia ispirato a interessi più formali che propriamente di storia dei testi¹⁷ – fu dunque Nachmanson il primo ad ampliare il campo di ricerca sul titolo dei libri greci. Ed egli fu anche il primo a mettere in luce nuovi aspetti della problematica. Questo allargamento di prospettiva costituisce tuttavia anche il limite del saggio dello studioso svedese. Attratto da fonti e testi di età notevolmente più tarda, Nachmanson finì a conti fatti per trascurare la questione principale, da cui egli stesso era a giusta ragione partito: la genesi del titolo letterario nell’antica Grecia. Su tale problematica la sua analisi non può dirsi un progresso rispetto a quella del Lohan. In effetti, Nachmanson osserva che nell’Atene del V secolo a. C.¹⁸ la presentazione a concorso delle opere drammatiche doveva comportare, presso l’arconte competente, una qualche forma di registrazione (così lo studioso alle pp. 6 – 7 del suo lavoro). D’altra parte, egli osserva quasi per inciso – ne sviluppo qui l’intuizione, per meglio presentarla – che la prosa dello stesso periodo era usualmente recitata di fronte a un più o meno ampio pubblico; in casi del genere non si avvertiva pertanto il bisogno di un titolo: bastava che l’autore presentasse sé stesso nel proemio e annunciasse al tempo stesso il tema da trattare. Ma allora – è lecito chiedersi – come maturò tra i Greci l’esigenza di stabilire un titolo anche per i testi in prosa? Quali fattori giocarono un ruolo determinante a favore di tale cambiamento nelle forme di presentazione del testo letterario? Quale documentazione consente di ripercorrere i momenti essenziali di questo processo, che ha segnato la storia stessa della letteratura nel mondo romano e nell’intero Occidente? Tutto ciò rimane di fatto ben poco indagato. Lo studioso si sofferma – sia detto ciò con la massima riconoscenza – sulla prosa essenzial H. Zilliacus, Boktiteln i antik litteratur, in Eranos 36 (1938), 1 41, si era mosso con piena libertà d’indagine e con ampia considerazione della letteratura greca e latina. Anche testi cristiani sono da lui presi in esame: per un’epoca, quella della prima metà del Novecento, in cui vigeva perlopiù una rigida separazione tra cultori di testi ‘classici’ e patrologi, è stata questa una autentica novità. Ma gli interessi dello studioso, come appena rilevato, sono più formali che storici. I processi che portavano all’intitolazione dei prodotti letterari, non appaiono di suo primo interesse. Zilliacus richiama però a ragione l’attenzione su alcuni autori antichi, che avevano discusso del titolo delle loro opere o di quelle altrui, per esempio: Plin., Nat. hist., praef. cap. 24 sgg.; Au. Gell., Noct. Att., praef. 5 10; Clem. Al., Strom. VI, 2, 1; VII, III, 1; Cass., Variae I, praef. 15 17. È noto che il teatro greco del periodo, almeno per quello che ce ne rimane, è attico.
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mente filosofica e medica di V–IV secolo a. C. Nulla di particolare egli dice invece su Ecateo o Erodoto, sostanzialmente nulla su Senofonte, mentre solo en passant egli menziona Tucidide. Assenze notevoli, se si considera che proprio sul conto di tali autori la documentazione in nostro possesso, come vedremo, consente di offrire risposte importanti agli interrogativi appena posti. All’analisi delle testimonianze letterarie si sono poi rivolti ben pochi studiosi. Qui meritano di essere ricordati Karl-Erik Henriksson ed Egidius Schmalzriedt. Il primo ha così illustrato il costume di molti autori latini di dare alle proprie composizioni letterarie titoli greci¹⁹: una tematica che meriterebbe forse oggi una nuova e più approfondita trattazione²⁰; il secondo ha invece ripreso le ricerche del Lohan e del Nachmanson, studiando soprattutto la prima circolazione dei testi presocratici e l’apparizione del titolo Περὶ φύσεως²¹.
4 La ricerca contemporanea e i papiri Negli ultimi decenni, lo studio del titolo dei libri greci ha conosciuto un’autentica esplosione d’interesse grazie anzitutto ai papiri rinvenuti e pubblicati nel corso dell’ultimo secolo e mezzo. Questi materiali fragili e frammentari ci hanno messo a diretto contatto con la produzione libraria greca di epoca ellenistica e romana. Nessuna meraviglia quindi se, dapprima con andamento desultorio, poi con cadenza più regolare e oggi a ritmo serrato, tale documentazione sia divenuta oggetto di ricerche minuziose anche sull’argomento che ci riguarda. A questo tipo d’indagine si era già rivolta l’attenzione di Wilhelm Schubart²², deciso ad assodare le sedi del rotolo usualmente riservate dagli antichi alla
K. E. Henriksson, Griechische Büchertitel in der römischen Literatur, Helsinki 1956 (Annales Acad. Sc. Fennicae, B, 102, 1). L’uso di dare un titolo in una lingua diversa da quella in cui è scritto il testo, si riscontra anche nella tradizione di molte opere medievali in volgare. E. Schmalzriedt, Περὶ φύσεως. Zur Frühgeschichte der Buchtitel, München 1970. L’autore approfondisce pure alcuni aspetti relativi alla nascita del titolo letterario in Grecia. Il libro è stato, nel complesso, positivamente recensito da P. M. Huby, Concerning nature, in CR 23 (2) 1973, 206 208. C. W. Müller lo ha invece duramente criticato su Gnomon 50/7 (1978), 628 638. Le obiezioni del recensore sono tuttavia solo in alcuni punti fondate. Tra l’altro Müller, come del resto Schmalzriedt, non distingue tra semplici denominazioni o indicazioni di contenuto repe ribili nelle fonti e titoli veri e propri (ossia denominazioni di testi effettivamente segnate per iscritto sulle soglie fisiche dei testi stessi). Su tale fondamentale differenza diremo nel capitolo 3 della prima parte del presente lavoro. W. Schubart, Das Buch bei den Griechen und Römern. Eine Studie aus der Berliner Papyrus sammlung (prima ed.: 1907; seconda ed.: Leipzig 1921. Di questo volume si è data una ulteriore
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segnalazione del nome dell’autore e del titolo dell’opera. L’argomento è stato poi ripreso da Carl Wendel²³ e in modo originale: Wendel tiene conto di numerosi papiri, per comprendere meglio le informazioni reperibili nelle fonti letterarie sui titoli e viceversa. La sua analisi di una notizia di Dione di Prusa sui rotoli omerici e sulla collocazione della inscriptio libraria prima e dopo il testo dei canti è metodologicamente esemplare²⁴. Le possibili sedi del titolo su rotolo e poi anche su codice sono state quindi oggetto delle vaste e importanti ricerche di Revilo P. Oliver nel 1951²⁵. Più tardi Wolfgang Luppe ha indagato la presenza del titolo sul lato esterno dei rotoli papiracei²⁶. Ma senza compiere ora una lunga rassegna bibliografica²⁷, basti dire che il titolo dei testi greci nella tradizione diretta è giunto a costituire materia suffiedizione, sprovvista di note, nel 1962. Non mi è stato invece possibile consultarne l’ultima, del 2010, apparsa per i tipi di Walter de Gruyter. Mi sono servito dell’edizione del 1921. Cf. C. Wendel, Die griechisch römische Buchbeschreibung verglichen mit der des Vorderen Orients, Halle 1949 (Hallische Monographien, 3), 24 34, 106 111. Così dice Dione (or. 53, 9 11) della presentazione libraria dei due poemi: Οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ τὸν βίον ἐπαινέσαι τις ἂν τοῦ ἀνδρὸς πολὺ μᾶλλον τῆς ποιήσεως. τὸ γὰρ ἐν πενίᾳ διαγενέσθαι καὶ ἀλώμενον καὶ τοσοῦτον ἀπὸ τῶν ποιημάτων πορίζοντα ὅσον ἀποζῆν θαυμαστῆς ἀνδρείας καὶ μεγαλοφροσύνης· ἔτι δὲ τὸ μηδαμοῦ γεγραφέναι τὸ αὑτοῦ ὄνομα, ἀλλὰ μηδὲ ἐν τῇ ποιήσει αὑτοῦ μνησθῆναι, καίτοι τῶν ἄλλων ἁπάντων, ὁπόσοι τινὰ ἔδοξαν ἔχειν δύναμιν ἢ περὶ ποίησιν ἢ καταλογάδην συγγράφοντες, καὶ πρῶτον καὶ τελευταῖον τὸ ἑαυτῶν ὄνομα γραφόντων, πολ λῶν δὲ καὶ ἐν αὐτοῖς τοῖς λόγοις τε καὶ ποιήμασιν, ὥσπερ Ἑκαταῖός τε καὶ Ἡρόδοτος καὶ Θουκυδίδης (…). C. Wendel, Die griechisch römische Buchbeschreibung (come n. 23), 27, rilevò a mia conoscenza per primo l’importanza della notizia, considerandola una testimonianza elo quente dell’uso ormai generalizzato in età romana di corredare prodotti letterari di una inscriptio nelle opportune sedi librarie. Il resoconto di Dione è di fondamentale importanza per la com prensione della questione omerica nell’antichità: cf. E. Castelli, Omero e il paratesto (come n. 13), 10 11. Sull’assenza del nome di Omero nei manoscritti della sua poesia si veda ancora Dione, or. 36, par. 12 13 (confronto con Focilide), e or. 55, par. 7. Il nome del poeta poteva tuttavia comparire accanto al titolo delle sue opere in elenchi o liste di libri: Castelli, Sulla segnalazione dei poemi omerici (come n. 13), 1 4. Cf. R.P. Oliver, The First Medicean MS of Tacitus (come n. 12), 232 261. Cf. W. Luppe, Rückseitentitel auf Papyrusrollen, in ZPE 27 (1977), 89 99. Ricordo però qui le ricerche di M. H. Marganne sul titolo dei trattati di medicina; della studiosa si vedano in particolare: Les titres de traités hippocratiques attestés dans la littérature médicale papyrologique, in SEP 4 2007, 105 115; Ead., Le signalement des auteurs et oeuvres dans les papyrus littéraires grecs de médecine, in T. Gagos & A. Hyatt (ed. by), Proceedings of the 25th International Congress of Papyrology, Ann Arbor, July 29 August 4, 2007, Ann Arbor 2010, 493 508; La terminologie de la librairie dans la Collection hippocratique, in V. Boudon Millot A. Guardasole C. Magdelaine (sous la dir.), La science médicale antique: nouveaux regards. Études réunies en l’honneur de Jacques Jouanna, Paris 2007, 315 337. Altri studi su titoli e papiri letterari greci saranno indicati più avanti. Per la letteratura copta è di riferimento P. Buzi, Titoli e
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ciente per trattazioni monografiche. Sono state così pubblicate ampie ricerche su liste di libri su papiro²⁸, sul titolo iniziale sul rotolo librario greco-egizio²⁹, sui paratesti nei manoscritti omerici antichi e tardoantichi (e non solo)³⁰ e sui titoli e altre annotazioni bibliologiche nei rotoli rinvenuti a Ercolano³¹. Il titolo delle opere classiche e cristiane è stato inoltre il tema di svariati convegni tenuti nel corso degli ultimi tre decenni. Qui ricordo quello pionieristico, ispirato dal P. Joseph Paramelle sj e tenutosi a Chantilly nel 1994³², e il più recente, svoltosi a Napoli grazie a Luca Arcari, Gianluca Del Mastro, Federica Nicolardi³³. Le nostre conoscenze sul fenomeno del titolo dei testi antichi si sono così notevolmente arricchite³⁴.
autori nella tradizione copta. Studio storico e tipologico, Pisa 2005 (Studi di Egittologia e Papi rologia, 2). Segnalo qui due importanti lavori: R. Otranto, Antiche liste di libri su papiro. Con una premessa di G. Cavallo, Roma 2000 (Sussidi eruditi, 49), ed E. Puglia, Il libro e lo scaffale. Opere bibliografiche e inventari di libri su papiro, Napoli 2013 (Arctos, 5). Cf. M. Caroli, Il titolo iniziale nel rotolo librario greco egizio, Bari 2007 (πίνακες, 6). Cf. F. Schironi, ΤΟ ΜΕΓΑ ΒΙΒΛΙΟΝ. Book ends, End titles and Coronides in Papyri with Hexametric Poetry, Durham, NC, 2010. È questa un’opera preziosa per chi studia i “dintorni” del testo nei rotoli antichi contenenti poesia esametrica e non solo. Alla raccolta della studiosa bisogna aggiungere il P.Berol. 10567, sul quale cf. E. Castelli, I canti separati. Il Pap. Berol. 10567 e la più antica tradizione dei ΔΙΟΝΥΣΙΑΚΑ di Nonno di Panopoli, in ZPE 204 (2017), 47 54. Si veda inoltre F. Schironi, Book ends and book layout in papyri with hexametric poetry, in T. Gagos A. Hyatt (ed. by), Proceedings of the Twenty Fifth International Congress of Papyrology (Ann Arbor, July 29 August 4 2007), Ann Arbor 2010, 695 704. Cf. G. Del Mastro, Titoli e annotazioni bibliologiche nei papiri greci di Ercolano, Napoli 2014 (Cronache Ercolanesi. Supplementi, 5), con vasta analisi della documentazione. A questo lavoro rimando anche per i riferimenti agli studi precedenti sul titolo dei rotoli ritrovati a Ercolano. Del Mastro è inoltre autore di svariati contributi preliminari sull’argomento e su tematiche affini. Segnalo qui: G. Del Mastro, Mega biblion. Galeno e la lunghezza dei libri (Peri alypias 28), in D. Manetti (ed.), Studi sul De indolentia di Galeno, Pisa Roma 2012, 33 61. Per quel che riguarda il titolo degli scritti filodemei, va segnalato qui il contributo di H. Essler, Zu den Werktiteln Philodems, in CErc 37 (2007), 125 134. Gli atti sono stati meritoriamente editi da J. C. Fredouille M. O. Goulet Cazé Ph. Hoff mann P. Petitmengin (éd. par), avec la collab. de S. Deléani, Titres et articulations du texte dans les œuvres antiques, Actes du colloque international de Chantilly (13 15 décembre 1994), Paris Turnhout 1997 (Collection des études augustiniennes. Série Antiquité, 152). Cf. L. Arcari G. Del Mastro F. Nicolardi (a cura di), Dal papiro al libro umanistico. Aspetti paratestuali dei manoscritti dall’antichità all’umanesimo. Atti del convegno internazionale (Napoli 24 25 settembre 2015), in S&T 15 (2017). Alla Katholieke Universiteit de Leuven è stato inoltre impostato un progetto di ricerca su titoli (e capitoli) nella letteratura bizantina («On titles and chapters. Investigations into the nature of patristic and Byzantine literature»), a cura di Peter Van Deun e Reinhart Ceulemans. Da questo progetto deriva lo studio di A. Gribomont, La question du titre dans la littérature byzantine: quelques pistes de réflexion autour du terme
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5 La prosa degli storici greci come punto focale d’indagine Il quadro fin qui tracciato mostra due grandi direttive, lungo le quali si è mossa la ricerca scientifica dell’ultimo secolo e mezzo sul problema del titolo dei libri greci. La prima direttiva, percorsa dal Lohan, solo in parte dal Nachmanson, e poi da pochi altri, ha riguardato un periodo, di cui non rimangono papiri di contenuto letterario, salvo una o due eccezioni; pertanto i nostri tentativi di indagare il fenomeno dei titoli in una fase così antica dipendono essenzialmente dall’analisi dei testi stessi (cioè dall’esame delle loro caratteristiche, per esempio dalla forma data al proemio, dalla eventuale presenza del nome dell’autore a principio o in altri punti del testo e così via) e dallo studio delle testimonianze letterarie indirette di quella stessa epoca. La seconda direttiva, coltivatissima negli ultimi decenni, è stata invece rivolta allo studio dei papiri di età ellenisticoὑπόμνημα, in Byzantion 82 (2012), 89 112. Altri dati sono forniti in R. Ceulemans P. van Deun, Réflexions sur la littérature anthologique de Constantin V à Constantin VII, in Travaux et Mémoires 21/2 (2017), 361 388. Anche sul versante del titolo nella letteratura latina si è scritto moltissimo. Per una infor mazione generale si vedano gli studi citati sopra, alla n. 12. Segnalo ancora qui altri studi sul titolo (o più semplicemente sulla denominazione) di testi greci di varia epoca (anche di età patristica o bizantina), senza pretesa di esaustività: G. Aragione, Justin, “philosophe” chrétien et les “Mémoires des Apôtres qui sont appelés Evangiles”, in Apocrypha 15 (2004), 41 56; T. Whit marsch, The Greek Novel: Titles and Genre, in AJPh 126 (2005), 587 611; M. Simonetti, Alcune osservazioni sul testo della Didachè, in L. Gamberale M. De Nonno C. Di Giovine M. Passalacqua, Le strade della filologia. Per Scevola Mariotti, Roma 2012 (Storia e letteratura, 277), 215 226 (il contributo di Simonetti è dedicato in particolare a un’analisi delle varianti attestate del titolo dell’opera e dunque alla fortuna di quest’ultima); L. Bossina, Tradurre un titolo. Nilo di Ancira e il suo Discorso ascetico tra Cinque e Seicento, in A. Villani (éd. par), Lire les Pères de l’Église entre Renaissance et la Réforme. Avec une prèface de B. Pouderon, Paris 2013 (Collection Christophe Plantin, 2), 97 122; P. Butti de Lima, Nominare le liste, in AntPhil 7 (2013), 11 28; S. Zuenelli, Die Perioche der Dionysiaka als Mittel der Selbstinszenierung, in Mnemosyne 69/4 (2016), 572 596; D. Dainese, Cassiodorus’ Adumbrationes: Do They Belong to Clement’s Hypotyposeis?, in Studia patristica 79 (2017), 87 100 (il lavoro analizza il modo in cui sono denominati o intitolati nella documentazione greco/latina vari testi di Clemente di Alessandria e offre importanti osservazioni in merito); J. Engels, From Ἱστορίαι to Βιβλιοθήκη and Ἱστορικὰ ὑπομνήματα, in L.I. Hau A. Meeus B. Sheridan (ed. by), Diodoros of Sicily. Historiographical Theory and Practice in the BIBLIOTHEKE, Leuven Paris Bristol CT 2018 (Studia Hellenistica, 58), 131 148; F. Middleton, The Poetics of Later Greek Ecphrasis: Christodorus Coptus, The Pa latine Anthology and the Periochae of Nonnus’ Dionysiaca, in Ramus 47/2 (2018), 216 238; G. Azzarello, Titles of parts and parts of a title: incipits as possible indicators of textual traditions in Graeco roman tables of division, in AnPap XXX (2018), 95 111. Sulle iscrizioni della statua di sant’Ippolito in Vaticano e in particolare sulla lista di titoli incisa sul fianco destro della cattedra si veda ora l’ampia ricerca di M. Vinzent, Writing the History of Early Christianity. From Reception to Retrospection, Cambridge 2019, 162 195.
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romana e in generale all’analisi degli esemplari manoscritti conservati di vari autori. La diversità delle due linee di ricerca risiede però non solo nella documentazione relativa all’epoca trattata, ma nei fini stessi dell’indagine. È chiaro infatti che una cosa è approfondire un fenomeno già pienamente in essere, ben altra è indagarne la genesi o e il suo apparire, o persino le ragioni della sua assenza. Affrontata dal Lohan, toccata in parte da Nachmanson, Schmalzriedt e pochi altri, la questione della genesi e delle prime manifestazioni del titolo letterario nell’antica Grecia è dunque rimasta, con lo spostamento d’interessi sopra descritto, abbozzata su alcuni punti e ancora largamente da esplorare per il resto. Quel poco che sino a oggi si è detto in proposito, ha riguardato, infatti, come accennato, soprattutto la poesia, anzi un genere particolare di essa, quello teatrale. Si è così osservato che i drammi rappresentati nel corso del V secolo a. C. ad Atene in occasione delle feste in onore di Dioniso furono i primi prodotti letterari in Grecia a ricevere sistematicamente un nome per ragioni di carattere procedurale, cioè a motivo della registrazione e presentazione delle opere a concorso e per permettere il puntuale pronunciamento dei giudici e così anche la rendicontazione dell’intero evento teatrale. Ma occorre subito dire che tali conclusioni non devono essere sopravvalutate, e per più di una ragione. Siamo in buona parte all’oscuro sulle esatte procedure adottate nel V secolo a. C. per effettuare la registrazione dei pezzi in gara. Inoltre, ci si può legittimamente interrogare sulle reali ripercussioni di tali procedure all’indomani delle rappresentazioni, ovviamente per quei testi teatrali che ebbero poi la ventura di godere davvero di una circolazione su rotolo. Quanti di questi furono forniti di un titolo corrispondente in tutto e per tutto al nome con cui essi erano stati annunciati al pubblico a teatro? Il problema, come si vedrà, è più grave di quanto si pensi per le tragedie che avevano costituito una tetralogia legata. Ad ogni modo, la immediata incidenza di tale pratica (l’uso appunto dei titoli per i drammi) sulla restante produzione letteraria dell’epoca non è affatto provata. Contro tale connessione si pone anzi manifestamente il ritardo dell’apparizione dei titoli sul versante della prosa di argomento storico. Verso la fine del V secolo a. C. né Erodoto né poi Tucidide si erano mossi in questa direzione. Eppure, agli spettacoli teatrali essi erano abituati. La registrazione dei drammi ad Atene durante le procedure del concorso nel V secolo a. C. non è insomma argomento sufficiente a inquadrare e a spiegare nella sua totalità l’emergere dell’uso del titolo nella letteratura greca.
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Per affrontare fino in fondo l’argomento, e coglierne il graduale divenire, la sua complessità³⁵ e tutta una serie di implicazioni e problemi, bisogna pertanto esplorare anche il versante della prosa greca. E ciò faremo cominciando dalle sue prime manifestazioni e procederemo per questa via sino all’inoltrato IV secolo a. C., quando l’uso dei titoli s’era ormai impiantato anche su questo terreno. Ovviamente, con ciò non si vuole negare il valore o il dovere di studiare la più antica poesia greca o la storia delle opere teatrali in relazione alla questione suddetta. Io stesso nel presente lavoro me ne occuperò a lungo. Ma in generale uno studioso deve muoversi parecchio nell’ambito della produzione in prosa tra V e IV secolo a. C., per rivisitare l’emergere del fenomeno dei titoli nella letteratura greca. Dopo avere preso in esame vari testi poetici, ci occuperemo pertanto di quanto è noto o pervenuto in particolare degli storici greci, cominciando da Ecateo, per poi considerare in successione Erodoto, Tucidide, Senofonte, Filisto e Teopompo. L’obiettivo è quello di mettere in luce tutta una serie di aspetti rilevanti sul tema. Naturalmente discuteremo pure di altri generi di prosa composti nel IV secolo a. C., al fine di illustrare la diffusione per così dire trasversale della pratica del titolo. Compiuto ciò, il presente lavoro si concluderà con un breve resoconto sulla segnalazione del titolo nei rotoli papiracei di età ellenistico-romana e con alcune analisi sulla storia dei significati della parola ἐπιγραφή.
In effetti, l’argomento richiede di studiare anche le forme adottate dagli autori per esprimere la paternità delle rispettive creazioni letterarie. Su questo punto ho già richiamato l’attenzione in: Omero e il paratesto (come n. 13), 1 11.
II Concetto e funzioni del titolo letterario Nella lingua italiana il termine “titolo” è adottato non solo in ambito letterario, ma anche in contesti accademici, nel mondo dell’economia, nella sfera del diritto, nel campo dello sport, all’ingresso di un teatro e di un cinema e così via. Una persona può vantare un dato titolo accademico, se supera un certo numero di prove scritte e/o orali. In date circostanze, si suole dire che questo o quel tale intervengono in una discussione a giusto titolo, cioè appropriatamente e con pieno diritto di farlo. Ci sono titoli onorifici per quanti si distinguono in un ramo della scienza o della vita civile e c’è il titolo di campione per l’atleta o la squadra vincitrice di una importante competizione sportiva. Ci sono titoli preferenziali nei concorsi per il pubblico impiego, cioè benemerenze e qualifiche che, a parità di merito e di voto, assicurano una precedenza in graduatoria rispetto ad altri concorrenti. Ci sono poi concorsi per titoli ed esami, titoli di viaggio e di spesa; c’è il titolo di reato e ci sono i titoli finanziari, come quelli di rendita, i titoli ipotecari e quelli a reddito fisso, i cosiddetti titoli spazzatura e altro ancora. Ci sono inoltre i titoli di coda delle pellicole cinematografiche e anche i sottotitoli. E immancabilmente molti modi di dire. Il termine titolo è dunque di uso frequente, oltre che straordinariamente polisemico³⁶. La consuetudine con la quale ci serviamo della parola ci espone tuttavia al rischio, insito in ogni consuetudine che si rispetti, di non mettere ben a fuoco l’oggetto specifico della nostra indagine. In effetti, che cosa esattamente intendiamo per titolo letterario? E prima di tutto, cos’è una letteratura?
1 Che cos’è il titolo letterario Per letteratura qui si intende quel complesso di testi che l’uomo produce non per bisogni elementari e pratici, come lo è tenere registri o verbalizzare sedute, ma «per diletto, elevazione spirituale, allargamento delle conoscenze»³⁷. Inoltre, va rilevato che ogni letteratura, e di conseguenza ogni testo avente carattere letterario, ha sempre a che fare con la scrittura, sebbene le forme della sua fruizione possano essere – così almeno in certi periodi storici – prevalentemente
Cf. G. Bàrberi Squarotti (a cura di), Grande Dizionario della Lingua Italiana, vol. XX, Torino 2000, s.v. «titolo», 1086 1088. Accolgo qui la definizione di U. Eco, Sulla letteratura, Milano 2004 (Tascabili Bompiani. Saggi, 266), 10. https://doi.org/10.1515/9783110703740 004
1 Che cos’è il titolo letterario
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legate alla comunicazione orale. Lo ha rilevato Walter Ong in un suo magistrale lavoro (Did you say ‘oral literature’?, in Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London – New York 1982, 10 – 16). Ciò detto, cerchiamo di chiarire cosa sia propriamente il titolo letterario e quali aspetti lo distinguano e lo caratterizzino rispetto al mondo più ampio, e più semplice, dei nomi. Gérard Genette lo confessava in effetti candidamente una trentina d’anni or sono: «the definition of the title in literature raises several problems, more perhaps than any other element of the paratext, and requires an effort of analysis»³⁸. Sembra infatti che non sia facile darne una definizione³⁹. La più nota è quella di «nome del testo»; in quanto tale, il titolo ha quindi varie funzioni, prima fra tutte quella di identificare il testo stesso⁴⁰. Per quanto
G. Genette, Structure and Functions of the Title in Literature, in Critical Inquiry 14 (1988), 692 720 (la citazione è tratta da p. 692). Il testo di questo contributo è apparso pure in francese come uno dei capitoli di Seuils. Sull’argomento non è sempre chiaro neppure L.H. Hoek, La marque du titre. Dispositifs sémiotiques d’une pratique textuelle, Paris New York 1981 (Approaches to semiotics, 60), 292 293. Parlando di testi, mi riferisco nel presente lavoro sempre e soltanto a testi scritti. Ci muo viamo infatti nel campo delle lettere. Sul titolo come nome (o “nome proprio”, Eigenname) del testo cf.: H.J. Wulff, Semiotische Dimensionen des Titels, in Id., Zur Textsemiotik des Titels (come n. 9), 159 162, con vari riferimenti bibliografici a p. 159, n. 2; A. Rothe, Der literarische Titel. Funktionen, Formen, Geschichte, Frankfurt 1986 (Das Abendland. Neue Folge, 16), 13 15 e 272 274; T. Vogt, Untitled. Zur Karriere unbetitelter Kunst in der jüngsten Moderne, München 2006, 13 15. Molte utili suggestioni offre R. Bouchehri, Translation von Medien Titeln. Der interkultu relle Transfer von Titeln in Literatur, Theater, Film und Bildender Kunst, Berlin 2012 (TRANSÜD. Arbeiten zur Theorie und Praxis des Übersetzens und Dolmetschens, 53), 17 37. Sempre sul concetto di titolo letterario si vedano: D. Delattre, Les titres des œuvres philosophiques de l’épicurien Philodème de Gadara et des ouvrages qu’il cite, in Titres et articulations du texte (come n. 32), 105 126, qui in part. 105 106; R. Sharpe, Titulus. Identifying Medieval Latin Texts. An Evidence Based Approach, Turnhout 2003 (Brepols Essays in European Culture), 21 45, 59 69; R. Jung, s.v.: Titel, in S. Corsten u. a. (herausg. von), Lexikon des gesamten Buchwesens, Bd. 7, Stuttgart 2004, 442; P. Buzi, Titoli e autori nella tradizione copta (come n. 27), 15 30: appro fondita discussione con ulteriori riferimenti bibliografici; H. Weinrich, Sprache, das heißt Spra chen. Mit einem vollständigen Schriftenverzeichnis des Autors 1956 2005, 3. ergänzte Auflage, Tübingen 2006, 101 117: una intera sezione del libro dedicata alla relazione tra titolo e testo, alla luce dei maggiori studi teorici sull’argomento; Ph. Erchinger, s.v.: Titel, in G. Ueding (he rausg. von), Historisches Wörterbuch der Rhetorik, Band IX: St Z, Darmstadt 2009, 581 590: contributo in generale ottimo per un primo orientamento sul tema; D. Lenfant, Des Persica indépendants de l’empire perse? Enquête sur les usages d’un titre, in F. Gazzano G. Ottone L. Santi Amantini (a cura di), Ingenia Asiatica. Fortuna e tradizione di storici d’Asia Minore, Atti della prima giornata di studio sulla storiografia greca frammentaria (Genova, 31 maggio 2007), Tivoli Roma, 2009, 15 33: benché dedicato a un problema specifico, questo contributo offre ottime considerazioni di metodo (cf. in part. pp. 20 21) e una casistica assai utile, su cui
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II Concetto e funzioni del titolo letterario
diffusa, tale definizione è tuttavia insufficiente a esprimere l’oggetto in questione. Infatti, essa pone, per paradosso, il problema di dovere essere a sua volta precisata su aspetti di sostanza. In primo luogo, occorre chiarire che cosa propriamente debba intendersi per nome. Rientrano forse in questa macrocategoria tutte le possibili denominazioni applicabili a una composizione letteraria, orali o scritte che esse siano? Oppure un titolo è anch’esso caratterizzato dalla scrittura, cioè è un nome fissato per iscritto? In quest’ultimo caso dovremmo anche chiederci se e in che misura abbia importanza, e debba rientrare in una adeguata definizione, un aspetto concreto come quello della sede riservata alla segnalazione del nome del testo. E potremmo continuare con altri interrogativi, riguardanti per esempio le forme dei titoli e così via. Come si vede, la definizione corrente è fin troppo generica e non risponde alle principali questioni che abbiamo posto. In quanto segue cercherò di circoscriverla. La natura del titolo letterario è oggettivamente dettata dall’esperienza di chiunque sfogli un libro, una rivista, un quotidiano: il titolo è la denominazione del testo (sulle possibili forme della denominazione diremo a breve) fissata per iscritto sulle soglie fisiche del testo stesso. In quanto tale, il titolo letterario ha quindi almeno tre rilevanti carattestiche o proprietà, che concorrono a distinguerlo bene da altro tipo di denominazioni applicabili a un prodotto letterario. La prima caratteristica sta nel fatto che il titolo è una denominazione scritta ⁴¹; la seconda: che il titolo condivide lo stesso
riflettere; M. Rathmann, Diodor und seine “Bibliotheke”. Weltgeschichte aus der Provinz, Berlin Boston 2016 (Klio. Beiträge zur Alten Geschichte. Beihefte. Neue Folge, 27), qui in part. 118 129: sintesi succosa sull’emergere del fenomeno dei titoli in Grecia antica, ma con una definizione di titolo (p. 118, n. 1) per molti aspetti discutibile; P. Fioretti, Sul paratesto nel libro manoscritto (con qualche riflessione sui ‘titoli’ in età antica), in L. Del Corso F. De Vivo A. Stramaglia (a cura di), Nel segno del testo. Edizioni, materiali e studi per Oronzo Pecere, Firenze 2015 (Papyrologica Florentina), 179 202. Sul titolo come designazione del testo collocata ai margini fisici del testo stesso e in prospettiva storica si veda Castelli, Omero e il paratesto (come n. 13), qui in part. 7 9. Di altri studi dirò in questo e nel prossimo capitolo. Non è possibile discutere qui nel dettaglio tutte le asserzioni e le sfumature colte dai vari studiosi sul concetto e le funzioni del titolo letterario. Nondimeno, mi preme osservare che l’idea di Rothe, Der literarische Titel (come supra), 13, secondo cui un titolo è un testo («Der Titel ist ein kurzer Text, der einen anderen, meist längeren Text bezeichnet»; la definizione è ripresa in buona sostanza dal sopra men zionato studio di H. Weinrich), è da respingere, quantomeno perché un titolo può anche ridursi a una sola parola, mentre un testo, se vale qui la sua etimologia dal latino texere, ne implica necessariamente più d’una. I termini “denominazione” e “designazione” sono spesso usati negli studi moderni come sinonimi. Nel presente lavoro essi sono invece adoperati con una certa distinzione, giacché solo nel secondo caso si esprime l’idea di segno e così anche di scrittura. Mi servo dunque del primo
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supporto del testo, di cui costituisce il nome; la terza è connessa alla seconda ed è data dal fatto che il titolo occupa, più precisamente, i margini fisici (le «soglie») del testo, ovvero è in un rapporto di prossimità con quello, in modo ovviamente che sia chiaro che l’uno è da mettere in relazione all’altro. Il titolo gode così anche di valore segnaletico. Le caratteristiche appena rilevate – la scrittura della denominazione prescelta; il supporto su cui essa è fissata, quello stesso del testo di pertinenza; la collocazione della designazione, ai margini fisici del testo, in modo che sia chiaro che essa è in relazione con questo e non con altri possibili testi presenti sullo stesso supporto – sono essenziali per mettere a fuoco l’oggetto qui in discussione. In effetti, il nudo enunciato di «nome del testo» non ci consentirebbe di distinguere titoli veri e propri da altre possibili denominazioni dei testi. Per chiarire a dovere questo punto procediamo brevemente per ipotesi. Supponiamo che io abbia steso un quaderno di memorie. Il racconto è inedito e io non mi sono ancora deciso a designarlo in qualche modo sul frontespizio o comunque sui suoi margini fisici. Decido però di parlare del mio scritto in una conversazione con alcuni amici e presento oralmente il mio lavoro col nome di «memorie». Durante la conversazione, uno dei miei interlocutori chiama tuttavia il mio testo «diario», un altro interlocutore lo chiama invece «pensieri», un altro «meditazioni», un altro ancora «ricordi di una vita» e così via. Memorie, diario, pensieri, meditazioni, ricordi di una vita, tutti questi sono meri appellativi del testo da me prodotto, non titoli, visto che il mio quaderno è ancora sine inscriptione. In effetti, tra i tanti appellativi possibili, l’unico a potere essere considerato e chiamato a giusta ragione titolo sarà solo quello che avrò indicato per iscritto sullo stesso supporto librario ai margini fisici del mio testo, allo scopo appunto di designarlo. Gli altri sono e resteranno puri nomina, soltanto flatus vocis. La semplice definizione di «nome del testo», se non altrimenti precisata, non permette, come si vede, di fare le dovute differenze tra semplici denominazioni orali e il titolo vero e proprio. E supponiamo adesso che io stia scrivendo un saggio sulla Divina Commedia. Ma poiché a me pare che l’opera di Dante non sia affatto divina e tantomeno una commedia, mi convinco della necessità di indicarla questa volta per iscritto, nel mio saggio, in altri modi. Così la chiamo «viaggio nell’aldilà», oppure «poema tripartito sui regni ultramondani»⁴² o in altri modi. Tutte queste denominazioni, a prescindere dalla loro forma, ora più ora meno elaborata, sono sì
termine in senso lato, per indicare ogni appellativo dato ai testi, scritto o semplicemente orale. Con “designazione” intendo invece indicare proprio una denominazione scritta. I nomi dei testi raramente si riducono a una sola parola: sull’argomento cf. infra, cap. II, 4.
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fissate per iscritto sui fogli del mio ipotetico lavoro accademico, ma non coabitano materialmente con l’opera dantesca, la quale, fisicamente, si presenta, come sappiamo, sotto ben altro nome, cioè sotto ben altro titulus. Le denominazioni da me adottate, sebbene per iscritto, vanno dunque tenute distinte dalla designazione effettivamente esibita dal capolavoro dantesco a livello librario. La nuda definizione sopra ricordata non permettere tuttavia di fare i dovuti distinguo in proposito. Quest’ultimo limite della corrente definizione può essere evidenziato con un esempio concreto. Dell’Eneide di Virgilio Dante fa menzione varie volte nei suoi scritti in volgare. Quasi sempre egli chiama il poema col nome di Eneida: così nella Vita nuova, cap. XXV, due occorrenze; nel Convivio I, 3; II. 5; IV. 4, 24, 26, due occorrenze (una terza nella forma latina di Eneidos in III, 11); una volta nel passo assai famoso del Purgatorio, XXI, 97– 98, dove si legge: «de l’Eneïda dico, la qual mamma / fummi, e fummi nutrice poetando»⁴³. A prescindere dall’adattamento all’espressione volgare, in tutti questi casi Dante non fa altro che menzionare l’opera di Virgilio col titolo effettivamente esibito dagli esemplari allora in circolazione del poema. Ma in un passo non meno famoso dell’Inferno (XX, 112– 114) Dante lascia che Virgilio dica queste parole: «Euripilo ebbe nome, e così ’l canta / l’alta mia tragedìa in alcun loco: / ben lo sai tu che la sai tutta quanta». Qui l’opera è detta «alta (…) tragedìa». Ovviamente questo modo di chiamare l’Eneide è solo un appellativo di comodo⁴⁴. Dante vi ricorre, per sottolineare il valore paradigmatico dell’opera che gli fu «mamma (…) poetando». Sarebbe pertanto sbagliato parlare di titolo anche in questo caso. La differenza di fondo tra i due dati appena illustrati è evidente. Cionondimeno, la nuda definizione di «nome del testo», se presa per quello che essa è davvero, accomunerebbe, a torto, i due dati nella stessa categoria. Che poi un titolo occupi – e debba occupare – non solo lo stesso supporto, ma proprio i margini fisici del relativo testo, è evidente da ciò che ho poco sopra detto. In effetti, tra titolo e testo vige anche fisicamente, a livello librario, una stretta relazione, soprattutto quando uno stesso supporto ospita più testi. Abbiamo così chiarito che cosa propriamente sia il titolo letterario, quali siano i suoi aspetti discriminanti e perché la corrente e semplicistica definizione richieda alcune integrazioni. È fondamentale distinguere bene tra nomen e titulus: nella prima categoria rientra qualsivoglia denominazione (scritta o anche solo orale) di un testo; invece, il titulus è una designazione del prodotto letterario
Per questi dati cf. Casadei, Il titolo della “Commedia” (come n. 10), qui in part. 168. Giustamente lo rileva Casadei, Il titolo della “Commedia” (come n. 10), 168.
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fissata sulle soglie fisiche dello stesso (oppure su una etichetta materialmente solidale al testo)⁴⁵. Il rispetto di tale distinzione⁴⁶ è essenziale in particolare per coloro che si occupano di letterature antiche⁴⁷ e di epoca medievale⁴⁸. Lo vedremo nel prossimo capitolo. Per l’argomento fin qui esposto ho consultato svariati lessici e dizionari moderni. Ho preferito tuttavia in questa sede non offrire un dettagliato resoconto bibliografico del mio percorso d’indagine, poiché quasi tutti gli strumenti di studio da me ispezionati accolgono la definizione approssimativa sopra ricor-
Sulle etichette attaccate ai rotoli in epoca antica cf. infra, n. 639. A conclusioni non molto diverse dalle mie è giunto Michele Feo, per il quale «nomen è il flatus vocis con cui si individua uno scritto, titulus è un elemento di tecnica libraria, la rubrica»: così M. Feo, Fili petrarcheschi, in Rinascimento n.s. XIX (1989), 3 89 (la citazione è da p. 15). In questa formulazione, tuttavia, Feo distingue in maniera netta i due insiemi, quello concernente il nomen e quello proprio del titulus. Invece io li considero uno interno all’altro: il titulus rientra infatti nel mondo più ampio dei nomina. Lungo il solco tracciato da M. Feo si è mossa Vecchi Galli, Onomastica petrarchesca (come n. 11), 29 44, distinguendo opportunamente tra tituli e nomina della produzione petrarchesca. Per chi si occupa di scritti di tradizione plurisecolare o millenaria, la distinzione termino logica e concettuale tra nomen e titulus consente di mettere bene a fuoco casi relativamente complessi o ai quali generalmente non si presta la dovuta attenzione. Prendiamo in esame quello del termine Bibbia (o del fr. Bible, ingl. Bible, ted. Bibel e così via). Si tratta, come tutti sanno, del titolo di una raccolta di testi sacri di matrice giudaica e giudaico cristiana. E ne è il titolo appunto perché tale è la designazione esibita attualmente dalla raccolta a livello librario. Grazie ai progressi della tecnica è stato infatti possibile riunire tutti i libri che la compongono in una sola unità libraria, che dunque ha ricevuto una designazione complessiva. Lo stesso non può banalmente dirsi dell’antecedente greco βιβλία (o con l’articolo: τὰ βιβλία). Esso fu in uso già in ambienti giudaici di lingua greca tra II e I secolo a. C., per indicare buona parte dei testi che oggi formano la stessa raccolta, ma non ne costituì propriamente il titolo d’insieme. Per quale motivo? Perché non v’era ancora una unità libraria: i vari libri circolavano perlopiù separatamente gli uni dagli altri. Mancavano insomma le condizioni essenziali, perché la rac colta fosse designata complessivamente in quel modo. Lo stesso deve dirsi a proposito di Καινὴ διαθήκη: già tra II e III secolo fu questa la denominazione d’insieme degli scritti della c.d. Nuova Alleanza, ma non il titolo inteso appunto nel senso di ἐπιγραφή, ovvero inscriptio, ossia designazione libraria del Nuovo Testamento, poiché almeno nel II e III secolo questo insieme di testi non costituì mai, a quanto se ne sa, una unità libraria: di conseguenza resta escluso che la denominazione fosse già usata a quel tempo come titolo della detta raccolta. Ma ciò vale anche per chi indaga problemi concernenti oralità e scrittura. Nel saggio di C. Lavinio, La formazione del titolo nel passaggio del racconto dall’oralità alla scrittura, in M.A. Cortellazzo (a cura di), Il titolo e il testo. Atti del XV convegno interuniversitario, Bressanone 1987, con una premessa di G. Folena, Padova 1992 (Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano, 14), 57 67, è del tutto assente una riflessione sulla natura del titolo e ciò spiega tutta una serie di errori terminologici e concettuali che hanno viziato il lavoro.
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data. Tuttavia, v’è una eccezione meritevole di essere ricordata. Nella Encyclopædia Britannica ⁴⁹ si legge, alla voce title: an inscription prefixed to a book or other writing, designating the name by which it is to be known, and in many cases indicating the scope of the book or some idea of the nature of its contents.
È la definizione più raffinata che io abbia sinora incontrato. In essa sono stati espressi al meglio molti dei punti fin qui discussi: se si parla del titolo di un testo, si ha anzitutto a che fare con un prodotto scritto (book or other writing) e anche il titolo è una denominazione del testo fissata per iscritto (inscription), la quale condivide (prefixed) il supporto materiale del prodotto letterario che si è inteso designare. Soltanto in un punto mi discosterei dalla definizione appena citata: laddove si afferma che il titolo sia solo prefixed, cioè soltanto anteposto al testo. In realtà, i margini da sfruttare per l’indicazione del titolo sono diversi. In passato, l’intitolazione è stata spesso realizzata anche (o solo) post textum, o addirittura su una semplice etichetta materialmente solidale al supporto del prodotto letterario. Così, almeno, avveniva con i rotoli nell’antichità, come vedremo.
2 Archeologia di un’idea L’idea di designare il testo sul relativo supporto librario non è moderna e non è legata all’invenzione della stampa, nonostante quel che talvolta si legge⁵⁰, ma rimonta all’antichità. Più precisamente, essa risale al V–IV secolo a. C., quando i Greci cominciarono a fornire i loro rotoli letterari di una “iscrizione di corredo”. Questa iscrizione offriva la denominazione del testo tramandato e il nome del relativo autore⁵¹. L’epigrafe libraria così costituita fu successivamente chiamata dai Greci – ma abbiamo motivo di credere che essi già allora la chiamassero – perlopiù mediante due termini: ἐπίγραμμα o ἐπιγραφή. Questi stessi termini furono comunque spesso utilizzati anche in senso più specifico, e in particolare per in-
Ho consultato l’undicesima edizione, anno 1911, vol. 26. La definizione di title è a p. 1026. Cf. Compagnon, La seconde main (come n. 7), 329. È quanto vedremo nel presente lavoro sia sul versante della prosa sia della poesia.
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dicare proprio ciò che noi intendiamo per titolo, cioè la designazione del testo posta ai margini fisici del testo stesso⁵². I Romani recepirono l’uso librario appena descritto. E chiamarono l’epigrafe libraria in molti modi, primo fra tutti inscriptio. Il termine subì tuttavia assai presto la concorrenza di un altro sostantivo, che alla lunga si sarebbe rivelato, in proposito, assai più fortunato: intendo ovviamente titulus. Parola dall’etimo incerto – la sua radice fu forse tel*, usata per veicolare inizialmente l’idea di “superficie piatta”⁵³ –, le sue più antiche e sicure attestazioni non risalgono a prima della metà del I secolo a. C.⁵⁴. Il vocabolo ebbe poi significati e accezioni svariatissime⁵⁵.
Già nella testimonianza più antica a nostra disposizione, cioè in un frammento (PCG II, n. 140) del Lino del commediografo Alessi (IV III secolo a. C.), l’epigrafe libraria nel suo complesso e poi più più specificamente il titolo di un ben preciso testo sono parimenti indicati (cf. vv. 4 e 10) per mezzo del termine ἐπίγραμμα. Nelle fonti greche di epoca successiva è però mediante la forma ἐπιγραφή che si indica, perlopiù, l’iscrizione libraria nel suo complesso o uno soltanto dei suoi elementi fondamentali. In accezione libraria ἐπιγραφή ricorre per la prima volta a mia conoscenza in Polibio III, 9, 1 3. Sul frammento del Lino cf. Castelli, Sul titolo dei libri nell’antichità (come n. 13), 3 7 e ora soprattutto quanto scrivo nella Parte III, cap. 7, 5 del presente lavoro. In generale, sulle principali accezioni librarie di ἐπίγραμμα ed ἐπιγραφή e sul passo di Polibio cf. Parte III, cap. VIII, 3, 1 2. Per indicare l’intestazione di un dato testo si è fatto ricorso nell’antichità (almeno in epoca romano imperiale) anche al termine προγραφή. Di esso si servono soprattutto vari autori cristiani dagli inizi del III secolo in poi, quando richiamano l’attenzione sull’intestazione di singoli salmi. Di uso assai più raro, e di valore comunque generico, sono invece i termini ὄνομα e προσηγορία, su cui cf. Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29), 22, n. 40. Cf. J. André, Les mots à redoublement en latin, Paris 1978, 79. Cf. E. Castelli, Titulus. Un contributo alla storia della parola nel mondo romano, in Tyche 31 (2016), 51 73. Sulla storia della parola titulus manca ancora un quadro d’insieme. Per le sue connotazioni epigrafiche cf. Castelli, Titulus. Un contributo (come n. 54), 51 73. Per le connotazioni più propriamente librarie e letterarie e per le definizioni fornite a riguardo dai grammatici tardo antichi si raccomanda la lettura di M. Skeb, Exegese und Lebensform. Die Proömien der antiken griechischen Bibelkommentare, Leiden Boston 2007, 307 319; e di M. Mülke, Der Autor und sein Text. Die Verfälschung des Originals im Urteil antiker Autoren, Berlin New York 2008 (Unter suchungen zur antiken Literatur und Geschichte 93), in particolare 64, 72, 132, 180, 187 188, n. 572, 189 201, 283. Sui significati di titulus, inscriptio e altri termini, per es. index, si vedano ancora Schröder, Titel und Text (come n. 12), 319 328; C. Moussy, Les appellations latines des titres de livres, in Titres et articulations du texte (come n. 32), 1 7 (quest’ultimo non sempre convincente). Nella lettera prefatoria della Vita Martini, Sulpicio Severo chiede a un certo punto a Desiderio di eradere titulum frontis: sul significato di questa espressione e sulle sue impli cazioni polemiche cf. E. Castelli, Sulpicio Severo contro Girolamo. Per una nuova interpretazione della lettera prefatoria e del primo capitolo della Vita Martini, in RÉA 64 (2018), 17 35.
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Già dalla fine dello stesso I secolo a. C. lo troviamo applicato a realtà librarie/letterarie. Inizialmente fu forse riferito all’etichetta sporgente dal rotolo, mediante la quale si segnalava il contenuto del volume. Ben presto, però, esso indicò proprio la denominazione del testo indicata sulle soglie fisiche del testo stesso, oppure l’intestazione libraria nel suo complesso (l’intestazione forniva, come detto, anche il nome dell’autore del testo tramandato)⁵⁶. È nella prima delle due accezioni che noi moderni, parlando di aspetti librari e letterari, siamo ormai abituati a servirci delle forme discese dal capostipite latino, cioè dell’italiano titolo, del francese titre, dell’inglese title, del tedesco (Buch‐)Titel ⁵⁷.
3 Sulle forme dei titoli. Avvertenza Nelle letterature moderne, assai raramente i titoli sono costituiti da una parola soltanto. In effetti, nella maggior parte dei casi la denominazione scelta e fissata ai margini del testo consiste piuttosto in un enunciato articolato, che può andare da qualche parola, per indicare il contenuto dello scritto in questione – per esempio: Sulla natura –, a una proposizione intera, ora di forma affermativa ora anche interrogativa, diretta o persino indiretta, come avviene con Se questo è un uomo dello scrittore italiano Primo Levi. Dunque, la designazione che accompagna il prodotto letterario può presentarsi, sotto il profilo delle forme, in modi assai diversi tra loro. Questa varietà si nota anche in sede di studio del titolo delle opere letterarie greche e latine, classiche e cristiane. Il titolo delle tragedie greche come poi anche di quelle latine coincise spesso e volentieri col nome del personaggio principale trattato.
In proposito si veda Skeb, Exegese und Lebensform (come n. 55), 307 319. Lo studioso ha ottimamente mostrato che due grammatici come Donato e Servio definiscono titulus in senso parzialmente diverso. Per Donato titulus indica in senso tecnico l’intestazione libraria nel suo complesso, cioè la inscriptio costituita dal nome dell’autore e dal titolo dell’opera. Servio in tende titulus in senso più circoscritto, cioè in riferimento alla sola denominazione del testo indicata sulle soglie fisiche del testo stesso. Sugli usi di titulus nelle fonti latine si veda inoltre Mülke, Der Autor und sein Text (come n. 55), specialmente 64, 72, 190 201. Secondo E. Littré, Dictionnaire de la langue française. Edition integrale, vol. I VII, Paris 1956 1958, s.v. “titre”, anche il nome dell’autore può, talvolta, essere incluso nel concetto di titolo del testo letterario. Ciò vale anche per la forma tedesca (Buch )Titel. Quest’uso così comprensivo ricorre comunque in campo biblioteconomico e ai fini della catalogazione dei prodotti letterari. Cf. H. Fuchs, Kommentar zu den Instruktionen für die alphabetischen Kataloge der Preußischen Bibliotheken, Wiesbaden 51973, 22 25. Si tratta ad ogni modo di un uso piuttosto limitato. Cf. Rothe, Der literarische Titel (come n. 40), 12 15.
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Nell’ambito della prosa, molti scritti ebbero invece un titolo costruito mediante preposizione, in modo da informare su cosa (o magari contro chi) si scriveva: così sono sorti titoli come Περὶ ψυχῆς, Περὶ φύσεως, Περὶ τοῦ παντός e così via. Scritti indirizzati contro qualcuno furono invece perlopiù intitolati con la preposizione κατά e il genitivo del nome del personaggio accusato o contestato. A un certo momento si escogitarono però titoli molto più elaborati, che potevano presentarsi in forma di una interrogazione. Così il cristiano Clemente Alessandrino (II–III secolo) intitolò un suo scritto Τίς ὁ σῳζόμενος πλούσιος, Quale ricco sarà salvato. E Luciano di Samosata chiamò un suo lavoro di metodo storico Πῶς δεῖ ἱστορίαν συγγράφειν, cioè Come si deve scrivere la storia. Ma gli esempi potrebbero continuare, giacché, specie nella tarda antichità, scritti in prosa di vario genere furono intitolati in forme particolarmente lunghe ed elaborate per svariate ragioni. In generale, sulle forme dei titoli nella letteratura antica si raccomandano le ricerche di Zilliacus, Boktiteln i antik litteratur (come n. 17), 1– 41, e per l’ambito latino M. Fruyt, Sémantique et syntaxe des titres en latin, in Titres et articulations du texte (come n. 32), 9 – 34. Oggigiorno molte opere vengono pubblicate con un doppio titolo: si tratta di una prassi già ben studiata per quel che riguarda le letterature moderne⁵⁸. Non bisogna tuttavia dimenticare che lo stesso fenomeno si era già manifestato nell’antichità: lo vedremo nel presente lavoro parlando, tra l’altro, dei dialoghi di Platone. Dunque, il titolo di un prodotto letterario può oggi, e poteva già nell’antichità, o essere brevissimo – non più di una parola – oppure raggiungere la lunghezza e la complessità di una frase interrogativa. Dovremo tenere a mente tutto ciò per il discorso che affronteremo nelle pagine seguenti. Dal punto di vista delle forme, è proprio in un senso così comprensivo che i titoli sono detti “nomi” dei testi.
4 Funzione identificativa: valore e limiti Sono stati essenzialmente gli studiosi delle letterature moderne a confrontarsi con la questione delle funzioni dei titoli. È chiaro pertanto che i valori da loro individuati e classificati sono stati osservati in un complesso di dati letterari
Sul tema è fondamentale A. Rothe, Der Doppeltitel. Zu Form und Geschichte einer literari schen Konvention, Mainz 1970 (Abhandlungen der geistes und sozialwissenschaftlichen Klasse / Akademie der Wissenschaften und der Literatur, 10 [1969]).
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molto diverso da quello a cui è rivolto il presente lavoro⁵⁹. Nulla tuttavia ci vieta di tenere conto dei risultati da loro raggiunti, per valutare al meglio la documentazione di nostra stretta pertinenza. Peraltro, non rinunceremo a esemplificare le varie o possibili funzioni dei titoli considerando qualche caso concreto di epoca greco-romana. I benefici saranno presto evidenti. Abbiamo sopra detto che la prima ragion d’essere di un titolo ha a che vedere con l’identificazione del testo a cui è assegnato. L’importanza di questa primaria funzione non deve tuttavia eccedere i giusti limiti. Infatti, è erroneo sostenere che il titolo basti sempre, da solo, a rendere «unico» il relativo testo letterario⁶⁰, cioè ne consenta sempre e comunque la perfetta individuazione. Giacché le opere letterarie non sempre si distinguono le une dalle altre da questo specifico punto di vista. Al contrario, i casi di omonimia sono stati e continuano a essere piuttosto frequenti. I titoli appartengono, per loro natura, al mondo dei nomi propri, un mondo linguisticamente limitato⁶¹. Ovviamente, l’omonimia dei testi letterari può costituire un problema per chi si occupa dell’ordinamento e della conservazione dei testi. Di tutto ciò erano consapevoli gli antichi, chiamati – non farò qui che un solo esempio – a orientarsi tra tanti scritti filosofici forniti del titolo Περὶ φύσεως⁶². In casi del genere era abituale ricorrere ad altre informazioni di carattere librario, al fine di favorire l’esatta individuazione dello scritto in questione. Particolarmente utile in proposito era la citazione dell’incipit dell’opera⁶³.
Sull’argomento è importante soprattutto Rothe, Der literarische Titel (come n. 40), 29 264 e 286 298: lo studioso offre una classificazione molto articolata delle possibili funzioni del titolo in letteratura, funzioni che peraltro in molti casi concreti non sempre possono essere nettamente distinte. Sulla questione delle funzioni del titolo letterario cf. pure: H.J. Wulff, Texte, Themen, Titel. Die Überschrift im Rahmen der Textsemantik, in Id., Zur Textsemiotik des Titels (come n. 9), 199 239; L.H. Hoek, Pour une sémiotique du titre, Urbino 1973 (Documents de travail et pré publications, 20 21), 1 52; Hoek, La marque du titre (come n. 39); M. Di Fazio Alberti, Il titolo e la funzione paraletteraria, Torino 1984 (Le comunicazioni di massa, 24). Così invece afferma S.F. Bokobza, Déictique, énonciatrice et poétique: les fonctions du titre, in French Literature Series 11 (1984), 35. Ma Bokobza non è un caso isolato. Anche Genette pare muoversi in tale ordine di idee. Cf. Bouchehri, Translation von Medien Titeln (come n. 40), 20 23, che muove da un pre cedente lavoro di U. Eco. A questo specifico riguardo si ricordi che secondo Galeno tutte le opere dei primi pensatori greci erano intitolate appunto in tale maniera. Così era per Melisso, Parmenide, Empedocle, Alcmeone, Gorgia e ancora Prodico e tutti quanti gli altri: Τὰ γὰρ τῶν παλαιῶν ἅπαντα Περὶ φύσεως ἐπιγέγραπται, τὰ Μελίσσου, τὰ Παρμενίδου, τὰ Ἐμπεδοκλέους, ᾿Aλκμαίωνός τε καὶ Γοργίου καὶ Προδίκου καὶ τῶν ἄλλων ἁπάντων: Gal., De elementis secundum Hippocratem I, 9. Sul ricorso all’incipit cf. infra, parte II, cap. II, 2.
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D’altra parte, non sempre l’omonimia dei prodotti letterari è stata vista dagli antichi (e dai moderni) come un male, con cui fare i conti. Almeno nell’antichità essa è stata alcune volte un fatto intenzionale. Un autore vi ricorreva per evocare l’opera che lo aveva ispirato e con cui egli intendeva competere o tutt’e due le cose. Questa sorta di convenzione letteraria pare fosse diffusa soprattutto tra autori greci e latini di epoca imperiale e tardoantica. Basti qui ricordare il caso di Arriano di Nicomedia (m. intorno al 175 – 180), il quale compose e ripartì in sette libri un’opera da lui stesso intitolata Anabasi di Alessandro. Il titolo e la suddivisione libraria richiamano in modo scoperto un classico della storiografia greca del IV secolo a. C., l’Anabasi di Ciro di Senofonte, la quale era appunto intitolata nel modo che s’è appena detto ed era ripartita – o almeno così circolava al tempo di Arriano – in sette libri. Arriano volle dunque palesare sin dalle soglie del testo il suo proposito di entrare “in singolar tenzone” col grande modello ateniese⁶⁴. Ma l’omonimia letteraria, quand’anche intenzionale e concepita per indicare un preciso modello, può nascondere a volte anche macroscopiche differenze nell’impostazione dei testi. Per illustrare concretamente questo punto, approfondiamo il caso appena ricordato delle due Anabasi, quella di Senofonte e quella di Arriano. La prima è a ben vedere una sorta di diario, perché Senofonte prese realmente parte alla marcia dei mercenari greci al cuore del mondo persiano e poi alla loro difficilissima ritirata. Quanto composto da Arriano sul conto di Alessandro il Macedone è invece il racconto di fatti ripensati e rivissuti a tavolino alcuni secoli più tardi. Ma soprattutto: il termine ἀνάβασις, che vuol dire «risalita» o «marcia verso l’interno», si adatta al massimo al contenuto dell’attuale primo libro dell’opera senofontea. Infatti, i mercenari greci furono costretti, dopo la morte di Ciro il Giovane a Cunassa nel 401 a. C., a una ritirata tra mille e indicibili sofferenze. Di conseguenza, la loro fu poi soprattutto una «catabasi»: quel che Senofonte narra appunto nei successivi sei libri dell’opera. I sette libri di Arriano sono invece per davvero il racconto di una ἀνάβασις, essendo in larghissima parte dedicati alla narrazione della marcia di Alessandro «verso l’interno» del mondo orientale. Insomma, il rapporto tra titolo e testo nel caso dell’opera di Arriano è molto diverso da quello che si osserva a proposito del suo modello. L’omonimia delle Non mi soffermo qui sui casi di omonimia di opere letterarie di età moderna o contempo ranea. Il mio lettore potrà facilmente rievocarne parecchi. Frequente è per esempio l’omonimia dei prodotti teatrali, un fenomeno del resto osservabile pure con le opere dei maggiori trage diografi greci del V secolo a. C. A quest’ultimo riguardo si veda il quadro offerto da A. Wartelle, Histoire du texte d’Eschyle dans l’antiquité, Paris 1971 (Collection d’études anciennes), 369 370.
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due opere – omonimia parziale, del resto, perché limitata a un solo termine, ἀνάβασις appunto – nasconde dunque, o rischia di nascondere, una netta diversità d’impostazione narrative. Il titolo serve dunque in prima istanza a identificare il testo di appartenenza, cionondimeno si danno spesso e volentieri casi di omonimia tra prodotti letterari, sicché siamo costretti a ricorrere ad altro genere di informazioni, per poter individuare precisamente un dato scritto. Infatti, i titoli non sono altro che denominazioni economiche ⁶⁵ degli innumerevoli prodotti della cultura scritta.
5 Funzione informativa Un titolo assolve spesso, ma non sempre o non ogni volta allo stesso modo, anche la funzione di orientare preliminarmente il pubblico sull’argomento trattato nel testo e in tal senso esso svolge una funzione informativa. Così è per opere intitolate Summa theologica o semplicemente historiae o De viris inlustribus e via dicendo. Per i teorici moderni, un titolo orienta però il lettore anche quando rimanda al tempo o al luogo di ambientazione del racconto e persino al genere letterario dello scritto o a tutt’e due le cose⁶⁶. È lecito chiedersi in quale maniera interagiscano le due funzioni appena indicate: quella identificativa e quella informativa. Il problema merita attenzione. In effetti, un titolo non sempre esercita le due funzioni allo stesso modo o grado. A conti fatti, avviene non di rado il contrario. Per sottrarre il testo al rischio di omonimia con altri prodotti letterari o per altre ragioni – nel caso di Umberto Eco: impedire una preordinata chiave di lettura del suo romanzo –, un autore può adottare un titolo singolare, che dice poco o nulla del contenuto del testo. In casi del genere si nota un gap di natura informativa del titolo. Talvolta, il vuoto informativo può disorientare o costituire un problema per quanti devono accostarsi al testo. E in qualche caso si è cercato in passato di porvi adeguato rimedio. Si pensi a questo proposito alla storia del titolo dei dialoghi platonici. Almeno buona parte di essi ricevette da Platone in persona, o comunque all’interno della sua scuola⁶⁷, un titolo corrispondente al nome di un preciso disce-
Ottimo in proposito H. Kalverkämper, Textlinguistik der Eigennamen, Stuttgart 1978, qui in part. 41; ma si veda anche Bouchehri, Translation von Medien Titeln (come n. 40), 25. È il caso di un’opera di Shakespeare, intitolata The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark. Sull’affascinante questione del titolo delle opere platoniche mi limito per ora a rimandare a: H. Alline, Histoire du texte de Platon, Paris 1915 (Bibliothèque de l’École des Hautes Études, 218), 54 56, 124 135; Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 8 13; J. Andrieu, Procédés
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polo o interlocutore di Socrate. In accordo a questa antica tradizione, parliamo ancora oggi del Timeo, del Fedone, del Fedro, del Menone e così via. È impossibile in effetti confondere i dialoghi intestati in ossequio al suddetto criterio. D’altra parte, è pur vero che da titoli del genere non si ricava alcuna informazione sul tema di volta in volta trattato da Platone. Schematizzando, si potrebbe dire che la funzione identificativa esercitata dai titoli suddetti è al grado più alto: infatti, ogni scritto è intestato col nome di un ben preciso personaggio e quindi non c’è modo di confondere quei dialoghi tra loro; la funzione informativa è invece al grado zero, o quasi, visto che da titoli del genere non si ricava alcuna notizia sul tema effettivamente trattato. Tutto questo lo volle studiatamente Platone? E per quale motivo? Si tratta di una questione che meriterebbe di essere indagata assai più di quanto sino a oggi si sia fatto. Essa ha forse più di una spiegazione e in ogni caso torneremo a considerarla con attenzione nella terza parte del presente lavoro. Comunque, sta di fatto che il “difetto informativo” del titolo dei dialoghi, se così può essere chiamato il gap di funzionalità appena evidenziato, fu percepito a un certo punto come una lacuna da colmare. Forse già Platone dovette porsi il problema di dialoghi chiamati soltanto col nome di un interlocutore di Socrate. Ma, come detto, senza toccare adesso la questione, basterà dire che poi gli antichi agirono con molto rispetto nei riguardi della tradizione in loro possesso. Conservarono scrupolosamente i titoli corrispondenti al nome di singoli personaggi, essendo quei titoli perfettamente funzionali alla esatta individuazione degli scritti platonici. Ma assegnarono ai vari dialoghi anche un secondo titolo, a scopo eminentemente informativo, indicando così lo σκoπός di ciascun lavoro. È Diogene Laerzio a fornirci a questo riguardo una notizia di eccezionale valore: un intellettuale di nome Trasillo, vissuto, come sembra, al tempo dell’imperatore Tiberio, dunque nella prima metà del I secolo d. C., s’era sistematicamente servito «di doppi titoli per ciascuno degli scritti platonici»: διπλαῖς τε χρῆται ταῖς ἐπιγραφαῖς καθ’ ἑκάστου τῶν βιβλίων. Il primo titolo di ogni coppia coincideva appunto col nome del principale interlocutore di Socrate. Il secondo era stato assegnato in considerazione della materia di volta in volta trattata: ἀπὸ τοῦ πράγματος. Lo stesso Diogene (cf. III, 56 – 61) fornisce la lista completa dei doppi titoli.
de citation et de raccord, in RÉL 26 (1948), 268 293 (qui in particolare 278 279, con giuste considerazioni alla n. 2); G.J. Boter, Parisinus A and the title of Plato’s Republic, in RhM 135 (1992), 82 86.
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Quella di Trasillo non fu un’operazione isolata. Egli non fu certo il primo a muoversi in questo senso sul titolo dei dialoghi di Platone e di sicuro non fu l’ultimo. Operazioni del genere si sono poi compiute molte altre volte nelle scuole neoplatoniche della tarda antichità, se non altro per accordare e accomodare al meglio l’indicazione fornita dal titolo alla interpretazione di volta in volta sostenuta per ciascun dialogo⁶⁸. Tutto ciò ha avuto concrete ripercussioni sul titolo dei dialoghi nella tradizione manoscritta in nostro possesso⁶⁹. Il discorso fin qui condotto ha messo in luce i problemi che i titoli ponevano, dal punto di vista delle loro funzioni primarie, già nel mondo antico e l’interesse con cui gli esegeti li affrontavano, al fine di ordinare e interpretare al meglio il sapere loro tramandato. Di altro genere di problemi e in particolare del ricorso all’incipit, per distinguere prodotti letterari omonimi o privi di titolo⁷⁰, diremo invece in dettaglio più avanti.
6 Poetica d’autore, seduzione del lettore e strategie di promozione Consideriamo un sonetto del XIX secolo: J’implore ta pitié, Toi, l’unique que j’aime, Du fond du gouffre obscur où mon cœur est tombé. C’est un univers morne à l’horizon plombé, Où nagent dans la nuit l’horreur et le blasphème;
Su questa tematica è fondamentale J. Mansfeld, Prolegomena. Questions to Be Settled Before the Study of an Author or a Text, Leiden New York Köln 1994 (Philosophia antiqua, 61), 58 108. In paticolare su Trasillo si veda, s.v., quanto scrivono M. Chase e R. Goulet nel Dictionnaire des Philosophes Antiques, VI, Paris 2016, 1150 1172. Sulla storia del testo dei dialoghi di Platone e sulla questione del loro titolo cf. la bibliografia citata alla n. 67; cf. inoltre: A. H. Chroust, The Organization of the Corpus Platonicum in Antiquity, in Hermes 93 (1966), 34 46; A. Carlini, Studi sulla tradizione antica e medievale del Fedone, Roma 1972; C.W. Müller, Die Kurzdialoge der Appendix Platonica. Philologische Beiträge zur nachplatonischen Sokratik, München 1975 (Studia et testimonia antiqua, 17), in part. 27 41 e 328 329 sulla costituzione delle tetralogie platoniche. Sulla prima fase del testo delle opere platoniche si veda ora C.M. Lucarini, Osservazioni sulla prima circolazione delle opere di Platone e sulle trilogiae di Aristofane di Bisanzio (D. L. 3. 56 66), in Hyperboreus 17 (2011), 346 361. Sull’ordinamento delle raccolte librarie nel mondo antico e in particolare sui criteri adottati per l’ordinamento della biblioteca voluta dai Tolomei ad Alessandria d’Egitto cf. la sintesi di C. Wendel, Bibliothek, in RAC, vol. II, coll. 268 271. Sull’incipit come mezzo di identificazione e individuazione del prodotto letterario diremo più avanti.
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Un soleil sans chaleur plane au dessus six mois, Et les six autres mois la nuit couvre la terre; C’est un pays plus nu que la terre polaire Ni bêtes, ni ruisseaux, ni verdure, ni bois! Or il n’est pas d’horreur au monde qui surpasse La froide cruauté de ce soleil de glace Et cette immense nuit semblable au vieux Chaos; Je jalouse le sort des plus vils animaux Qui peuvent se plonger dans un sommeil stupide, Tant l’écheveau du temps lentement se dévide!
Pubblicato dapprima col titolo La Beatrice, poi senza alcuna intestazione, il componimento di Charles Baudelaire fu infine da lui pubblicato sotto il titolo De profundis clamavi, il famoso incipit del salmo 130(129). In funzione del titolo adottato (o della rinuncia a darne uno!) il tu del componimento cambia ogni volta d’identità e la stessa poetica di Baudelaire assume accenti e significati diversi⁷¹. Il titolo non serve quindi soltanto a identificare il testo e a indicarne il contenuto. Piuttosto è evidente che un autore se ne serve, se lo vuole, per fare valere sue personali esigenze espressive. In casi del genere si è parlato di funzione poetica e di estetica dei titoli⁷². D’altra parte, un titolo può esercitare anche una sorta di Appellfunktion nei riguardi del pubblico, in quanto è elemento di stimolo all’acquisto e alla lettura del prodotto letterario. Nella prima parte del Don Quijote il fatto è messo in evidenza così: un parroco legge qualche riga di un manoscritto intitolato Novela del Curioso impertinente. E subito commenta: Cierto que no me parece mal el título desta novela, y que me viene la voluntad de leella toda (parte I, cap. XXXII)⁷³. In contesti di forte concorrenza commerciale i titoli possono essere oculatamente studiati per sedurre il pubblico e catturarne l’attenzione e le aspettative, che a volte non sono poi neppure soddisfatte a dovere⁷⁴. Essi acquistano così una Sul componimento e le sue intitolazioni cf. Rothe, Der literarische Titel (come n. 40), 1 3. Cf. Rothe, Der literarische Titel (come n. 40), 49 85. Su questo passo cf. Rothe, Der literarische Titel (come n. 40), 105. Da questo punto di vista i titoli possono riuscire persino depistanti, come nel caso del De doctrina christiana di Agostino, un titolo certamente voluto dall’autore, ma che non rispecchia affatto i contenuti dello scritto, essendo questo un trattato di ermeneutica e non un compendio (o qualcosa di simile) di dottrina cristiana, come rilevato da M. Simonetti nella sua edizione commentata dell’opera (Milano 1994; cf. commento ad locum).
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II Concetto e funzioni del titolo letterario
notevole importanza per le strategie di marketing del prodotto letterario. I teorici moderni hanno riflettuto a lungo su questi aspetti, ma solo in considerazione del mercato librario che si è sviluppato dall’invenzione della stampa a oggi⁷⁵. Eppure, nel mondo romano (e credo di potere dire già in quello greco, e lo vedremo) le intestazioni librarie avevano assunto, anche a questo speciale riguardo, un particolare rilievo. Ricorderò qui un caso noto forse soltanto agli specialisti della letteratura cristiana antica, ma non per questo meno interessante. Intorno alla metà del III secolo d. C. fu attivo a Roma un presbitero di nome Novaziano, uomo colto, raffinato, dalla prosa ciceroniana, autore di scritti teologici di vario genere. Uno di questi ci è stato tramandato sotto il titolo di De trinitate nonché sotto falso nome d’autore⁷⁶. L’intitolazione è molto antica. Le fonti in nostro possesso ce ne danno testimonianza già per il IV secolo⁷⁷ e non pochi dei moderni l’hanno recepita senza metterla in discussione. Eppure, è ben difficile che essa sia quella voluta dall’autore. Novaziano, a rigor di termine, non parla della trinità nel suo scritto. Egli afferma apertamente soltanto la divinità del Padre e del Figlio,
A questo proposito è stato giustamente osservato che i titoli delle opere letterarie del XVI e XVII secolo occupano spesso una pagina intera: gli editori e gli autori dell’epoca erano ben consapevoli che l’invenzione della stampa aveva in breve tempo pericolosamente sbilanciato il rapporto tra domanda e offerta dalla parte di quest’ultima. Non rimaneva che trovare il modo di conquistare il mercato, ormai sempre più affollato di libri in vendita che di potenziali acquirenti e lettori. La prima e forse migliore alleata in tale dinamica di conquista del mercato fu la pagina riservata al titolo, dove poteva rientrarci l’annuncio di tutto quello che un libro conteneva (e a volte anche di quel che non conteneva affatto). Cf. H.J. Wulff, Zur Geschichte des Buchtitels. Eine Skizze, in Id., Zur Textsemiotik des Titels (come n. 9), 129 156, in part. 141 152. C’erano titoli di libri che garantivano al lettore l’offerta di tutto un sapere. Oggi siamo attratti piuttosto da titoli brevi, dotati di un certo appeal e che spesso non rivelano nulla sul tema del libro; essi invitano piuttosto al percorso inverso, alla scoperta del contenuto. La psicologia del pubblico e i suoi gusti sono in buona parte cambiati. Su questi aspetti (e in particolare sull’importanza attribuita alle soglie del testo nei secoli passati) cf. il gustoso saggio di U. Eco, Para Peri Epi, e dintorni in un falso del XVIII secolo, in Paratesto 1 (2004), 137 144. Nel medioevo l’opera, di cui oggi non sopravvive più alcun manoscritto, era tramandata tra gli scritti di Tertulliano, ma nell’antichità circolò pure sotto il nome del vescovo di Cartagine Cipriano. D’altra parte, nel IV secolo si serbava ancora memoria del nome del vero autore: Novaziano appunto. Le fonti principali sulla circolazione del testo nell’antichità sono: Ruf., De adulteratione librorum Origenis cap. 12; Hier., De viris inl. 70 e Apol. contra Ruf. II, 19. L’attri buzione a Cipriano pare nota a Gregorio Nazianzeno, or. 24, 13: cf. H. Delehaye, Cyprien d’An tioche et Cyprien de Carthage, in AnB 39 (1921), 314 332 (qui in part. 327 328). L’edizione critica dell’opera da me consultata è quella di V. Loi (introduzione, testo critico, traduzione a cura di), Novaziano. La trinità, Torino 1975 (Corona Patrum, 2): qui si vedano in particolare 12 14. Cf. Ruf., De adulteratione librorum Origenis, cap. 12; Hier., De viris inl. 70 e Apol. contra Ruf. II, 19.
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mentre non qualifica mai lo Spirito Santo con l’appellativo di deus o come terza persona del mondo divino. Lo presenta invece come dono del Padre o del Figlio⁷⁸. E questa è probabilmente la ragione per la quale egli rinuncia a servirsi della parola trinitas, già da tempo in uso (anche se non possiamo dire quanto diffusa) nel cristianesimo di lingua latina. Abbiamo comunque argomenti sufficienti, per escludere che Novaziano abbia intitolato così il suo lavoro. Quando e come l’opera è dunque finita sotto quella ingannevole o fuorviante intestazione? È possibile che ciò sia avvenuto per motivi tutt’altro che banali nel corso del IV secolo, durante l’accesa controversia sul riconoscimento della divinità dello Spirito Santo. Una setta direttamente coinvolta in quella polemica teologica, ovvero il gruppo dei Macedoniani, essendo contraria al riconoscimento della divinità dello Spirito Santo, aveva infatti spacciato a Costantinopoli proprio l’opera di Novaziano sotto il nome di un altro personaggio, di provata fede trinitaria e allora altamente venerato anche in Oriente, san Cipriano di Cartagine, pur di diffondere e accreditare presso un largo pubblico, ignaro evidentemente dell’inganno, le idee contenute nel testo⁷⁹. Ed è possibile che gli stessi Macedoniani, oltre a sostituire il nome dell’autore, abbiano soppresso nella stessa circostanza – sebbene nulla le fonti ci dicano in proposito – anche il titolo originario dello scritto (si trattava forse di De regula veritatis ⁸⁰?), imponendogli
Cf. De trinitate 29, 163 172. È quanto si ricava dalla lettura di Ruf., De adulteratione librorum Origenis 12: «Sancti Cypriani martyris solet omne epistularum corpus in uno codice scribi. Huic corpori haeretici quidam, qui in Spiritum Sanctum blasphemant, Tertulliani libellum de trinitate, reprehensibi liter quantum ad veritatem fidei nostrae pertinet scriptum, inserentes et quamplurimos codices de talibus exemplaribus conscribentes, per totam Constantinopolim urbem maximam distrahi pretio viliori fecerunt, ut exiguitate pretii homines inlecti ignotos et latentes dolos facilius conpararent, quo per hoc invenirent haeretici perfidiae suae fidem tanti viri auctoritate conquirere. Accidit tamen ut recenti adhuc facto quidam ex nostris fratribus, catholici inventi, admissi sceleris commenta retegerent et ex parte aliqua, si quos possent, ab erroris huius laqueis revocarent. Quamplurimis tamen in illis partibus, sanctum martyrem Cyprianum huius fidei, quae a Tertulliano non recte scripta est, fuisse persuasum est» (riporto qui il brano secondo l’edizione apparsa per la collezione di Sources Chrétiennes, 464, a cura di R. Amacker E. Junod, Paris 2002, 312 314). Come si vede, qui Rufino sostiene che il vero autore dello scritto sia Tertulliano. A Novaziano lo riconduce invece Girolamo, il quale riconosce pure che in alcuni ambienti lo si riteneva di Cipriano. Ancora Girolamo mette peraltro lo scritto in relazione a Tertulliano se non altro a livello di contenuto: cf. Hier., De viris inl. 70. Sulle affermazioni geronimiane contenute in Apol. contra Ruf. II, 19 cf. note seguenti. Lo scritto si apre in effetti con queste parole: «Regula exigit veritatis, ut primo omnium credamus in Deum Patrem et Dominum omnipotentem…» (1, 1), mentre la seconda parte dello scritto comincia in questa maniera: «Eadem regula veritatis docet nos credere post Patrem etiam in Filium Dei, Christum Iesum, Dominum Deum nostrum…» (9, 46). Diversamente formulato
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quello di De trinitate, in modo da attrarre compiutamente l’attenzione dei lettori su di un testo che doveva conseguentemente apparire, sin dalle sue soglie, di estrema attualità⁸¹. I lettori, convinti a priori di trovare affermata la divinità dello Spirito da parte di un venerato padre della Chiesa latina, l’avrebbero invece vista sorprendentemente negata. Sappiamo peraltro che gli stessi Macedoniani, per promuovere ulteriormente la diffusione dello scritto, lo avevano messo in vendita a Costantinopoli a basso prezzo⁸². l’inizio della terza parte, destinata a trattare brevemente il tema dello Spirito Santo: «Sed enim ordo rationis et fidei auctoritas digestis vocibus et litteris domini admonet nos post haec credere etiam in Spiritum sanctum, olim ecclesiae repromissum, …» (29, 163). In effetti, che senso poteva avere attribuire falsamente lo scritto a Cipriano, se non gli si cambiava prima il titolo, in modo appunto da intercettare una fascia ben precisa di lettori interessati? In questo ordine di idee è da respingere la posizione di Loi (a cura di), Novaziano. La trinità (come n. 76), 12, secondo il quale l’opuscolo di Novaziano diffuso dai Macedoniani non avesse il titolo De trinitate. È vero semmai il contrario: proprio con un titolo del genere lo scritto poteva richiamare l’attenzione e avere qualche incidenza sulla controversia relativa alla divinità dello Spirito Santo. Non discuto invece qui l’idea di E. Dekkers, Les traductions grecques des écrits patristiques latins, in Sacris Erudiri 5 (1953), 197 199, secondo il quale lo scritto novazianeo era in circolazione a Costantinopoli non in latino, ma in versione greca, insieme a tutta la corrispondenza di Cipriano. Dalle fonti a nostra disposizione questo non si ricava. E bene ha fatto P. Petitmengin, Une nouvelle édition et un ancien manuscrit de Novatien, in RÉA 21 (1975), 256 272 (qui in part. 256, n. 1 e 257, n. 6) a tenere conto piuttosto della concreta possibilità che lo scritto circolasse nell’originale latino nella stessa Costantinopoli. In quest’ordine di idee si muove del resto già Delehaye, Cyprien d’Antioche et Cyprien de Carthage (come n. 76), 328. Il latino era ben conosciuto all’epoca nella capitale della parte orientale dell’Impero e lo sarebbe rimasto ancora a lungo: cf. R.A. Kaster, Guardians of language: the grammarian and society in late antiquity, Berkeley Los Angeles London 1988, 237 379 e 464 465; N. Horsfall, Tra smissione del latino a Costantinopoli: ritorno dei testi in patria, in Messana 16 (1993), 75 94; G. Cavallo, La cultura dello scritto. Continuità e discontinuità nel tardoantico, in RFIC 141/2 (2013), 375 378, 281 382. È quanto ancora una volta si ricava dalla ricordata testimonianza di Rufino. In aggiunta a quanto appena sopra detto circa le svariate attribuzioni dello scritto, osservo qui che Girolamo, in Apol. contra Ruf. II, 19, accusa Rufino di aver palesemente mentito sulla paternità dell’opera, la quale non era di Tertulliano né era detta di Cipriano, «sed Novatiani, cuius et inscribitur titulo, et auctoris eloquium stili proprietate demonstrat». Queste informazioni paiono in con trasto con quanto Girolamo stesso aveva precedentemente detto in De viris inl. 70, dove di fatto riconosceva problemi di attribuzione dello scritto: «scripsit (scil.: Novaziano)… et De trinitate grande volumen, quasi ἐπιτομὴν operis Tertulliani faciens, quod plurimi nescientes Cypriani aestimant». Nel vago nescientes si nasconde ovviamente il fatto che l’opera, almeno in alcuni ambienti, non circolava sotto il nome di Novaziano. Quanto poi all’attribuzione a Tertulliano, polemicamente contestata da Girolamo, è stato pure giustamente osservato che «Rufino, tut tavia, non è in mala fede in quanto non fa altro che riportare un errore di attribuzione comune ad altri suoi contemporanei; anche nel Medioevo il De trinitate fu trasmesso tra le opere di Tertulliano, al quale lo attribuiscono anche le prime edizioni a stampa del Cinquecento»: così M.
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Se è corretta la ricostruzione del problema – ma è chiaro che il discorso vale anche se non furono i Macedoniani a intitolare così lo scritto, ovvero se questo si trovava già da qualche tempo designato come De trinitate –, un titolo poteva avere già nell’antichità, o almeno in contesti caratterizzati da accese dispute dottrinali, un peso tutt’altro che secondario nella promozione e quindi nel marketing e nella diffusione/circolazione del prodotto letterario⁸³. Preferisco tuttavia non dilungarmi su tali aspetti, che meritano indubbiamente una trattazione a parte. Mi accontento invece di avere rilevato che i titoli possiedono importanza nella “pubblicità” e nella vendita dei testi letterari da epoca molto più antica di quanto oggi generalmente si creda⁸⁴. Ricapitoliamo adesso il discorso. Nel titolo letterario diverse funzioni possono attivarsi ed entrare a fare parte di un gioco, che ha i suoi due estremi nell’autore e nel pubblico. Le modalità di compartecipazione delle varie funzioni rimangono tuttavia da determinare sempre caso per caso. Il che vale non solo per la funzione identificativa e quella informativa, ma anche e soprattutto per quelle “secondarie”, attraverso le quali autori (e editori) cercano di soddisfare esigenze e obiettivi di vario tipo. Pur essendo in linea teorica ben distinte tra loro, tali funzioni ammettono nella pratica varie possibilità di combinazione. È comunque sempre in considerazione del contesto che dobbiamo cercare di determinare il peso delle possibili funzioni del titolo. Tutto ciò vale non solo quando ci occupiamo di opere moderne, ma anche di quelle antiche. Si pensi, in conclusione, a quanto compiuto poco dopo la metà del I secolo a. C. da Cicerone. La sua scelta di pubblicare, tra il 44 e il 43 a. C., una serie di orazioni contro Marco Antonio ponendole sotto il titolo di Philippicae richiama palesemente i Simonetti (a cura di), Rufino di Concordia. Scritti apologetici, Roma 1999 (Scrittori della Chiesa di Aquileia V/1), 46, n. 25. Del resto, spesso bastava il nome di un autore famoso, opportunamente segnalato nell’in testazione libraria, ad attrarre subito l’attenzione di acquirenti al mercato librario. È quanto apprendiamo da Galeno, il medico bibliofilo che sui titoli e in generale sulle intestazioni librarie ci ha lasciato un vero e proprio trattato. Egli narra infatti (De libris propriis 1) che al Sandalario, luogo deputato nella Roma del tempo pure al commercio dei libri, aveva assistito a una disputa sulla paternità di una certa operetta. La questione era sorta a motivo della intestazione stessa del rotolo, corredato in effetti della ambigua scritta (tutta al nominativo): Galeno medico. S’era tenuta dunque subito lettura dell’inizio del testo. E uno che si riteneva sufficientemente istruito per giudicare in materia, aveva concluso che quello non era il modo di scrivere di Galeno e quindi l’intestazione era falsa. Sui problemi del passo e sull’esatta lettura dell’informazione fornita da Galeno cf. M. H. Marganne (compte rendu de), V. Boudon Millot (texte établi, traduit et annoté par), Galien, tome I: Introduction générale. Sur l’ordre de ses propres livres. Sur ses propres livres. Que l’excellent médecin est aussi philosophe, Paris 2007, in LAC 79 (2010), 419 422, qui in part. 421. Utili considerazioni a riguardo in Zilliacus, Boktiteln i antik litteratur (come n. 17), 1 41.
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discorsi che Demostene aveva indirizzato contro Filippo il Macedone. Questa scelta ha due facce. Da un lato risulta chiaro che l’oratore romano presuppone determinate conoscenze storico-letterarie e librarie presso il pubblico dei suoi discorsi. Dall’altro, è evidente che Cicerone, facendo di Marco Antonio il nuovo barbaro aggressore⁸⁵, sfrutta e fa valere un’altra particolare funzione dei titoli, della quale non avevamo ancora parlato: quella polemica.
Sono qui debitore delle lucide considerazioni di Rathmann, Diodor und seine “Bibliotheke” (come n. 40), 128.
III Problemi di metodo 1 Italics. Letterature moderne e letterature antiche a confronto La definizione di titolo letterario offerta nel precedente capitolo si presenta, quale idea guida, vantaggiosa soprattutto per chi si occupa di letterature antiche ed è chiamato a prestare molta attenzione ad aspetti che sono invece di massima evidenza e quindi non costituiscono neppure un problema per chi si dedica a opere di epoca moderna. Le condizioni di lavoro di un filologo classico non sono eguali a quelle di uno studioso delle lettere degli ultimi secoli, apparse a mezzo di stampa. Lo studioso delle lettere moderne gode generalmente della possibilità di un confronto diretto con le opere di suo interesse. Ne studia solitamente il testo per intero da uno qualsiasi degli esemplari conservati. Normalmente il suo lavoro non si esplica su frammenti, citazioni o testimonianze relative a scritti altrimenti perduti. Egli sa bene che tra i vantaggi offerti dall’invenzione di Gutenberg, e dalle forme in cui essa è evoluta, v’è la riproduzione di ciascuna composizione letteraria così pubblicata in un alto numero di copie meccanicamente conformi. Se dunque egli ha con sé uno solo di tali esemplari, non avrà più bisogno di consultarne altri. Non sono vantaggi da poco. Esplorare tradizioni letterarie ben più antiche, concepite e divulgate e a lungo tramandate per mezzo di copie manoscritte, pone invece innumerevoli problemi. E tali problemi diventano particolarmente gravi, se ci si occupa di testi greci risalenti a epoca arcaica o composti nel V o IV secolo a. C. Testimoni altrettanto antichi sono inesistenti, mentre i primi esemplari completi, quando conservati, non risalgono generalmente a prima dell’epoca bizantina. Il codice Marc. Gr. 454 dell’Iliade, il famoso Venetus A, è della metà del secolo X. Il Laur. Plut. 69, 2, uno degli illustri testimoni del testo di Tucidide, è degli inizi dello stesso decimo secolo. Allo stesso periodo è datato il Laur. Plut. 70, 3, che ci preserva tutto quanto Erodoto. Nessuno degli esemplari completi delle Elleniche senofontee risale a prima del XIV secolo: il divario tra l’epoca di apparizione dell’opera e i primi testimoni completi del testo supera in quest’ultimo caso abbondantemente i milleseicento anni. La sopravvivenza di questi testi per periodi così lunghi è stata ovviamente legata agli interessi di singoli o cerchie, che li hanno ricopiati, ovvero replicati, in nuovi esemplari e ne hanno così assicurato la conservazione. Ma proprio perché l’operazione si faceva a mano e ogni volta non se ne otteneva che un solo nuovo testimone, di copia in copia, in questo o quel ramo della tradizione, un https://doi.org/10.1515/9783110703740 005
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III Problemi di metodo
dato testo ha sempre inevitabilmente proseguito nella sua marcia di inesorabile allontanamento dal modello iniziale, c’est-à-dire: esso ha sperimentato alterazioni (aggiunte, sottrazioni, errori) intenzionali o involontarie, cambiando formato librario (dal rotolo al codice per i testi composti appunto prima dell’età romano-imperiale) e il tipo di scrittura (dalla maiuscola alla minuscola) e così via. Pertanto, è chiaro che le copie manoscritte ancora conservate dei più antichi testi greci divergono dai primissimi testimoni su svariati aspetti. Avere oggi nelle mani un esemplare di un dato testo composto nel mondo greco di epoca classica (ma vale lo stesso anche per quelli di epoca più tarda) non esonera peraltro lo studioso dal controllarne gli altri ancora eventualmente disponibili: testimoni manoscritti identici in tutto e per tutto non esistono. Ma ciò accade solo in alcuni casi tutto sommato fortunati. Molto spesso, infatti, il filologo classico deve accontentarsi di esercitare il suo spirito critico soltanto su citazioni, frammenti e testimonianze relative a opere altrimenti perdute. Da questo poco egli è chiamato a stabilire, nella misura del possibile, come si presentava il testo di suo interesse, quali erano i suoi contenuti, quali i suoi aspetti caratterizzanti. Il naufragio di gran parte della letteratura antica non ha bisogno di essere ricordato⁸⁶. Sui fattori storico culturali e non solo che hanno condotto alla perdita di tanta letteratura antica cf. G. Wissowa, Bestehen und Vergehen in der römischen Literatur, Halle 1908; H. Ger stinger, Bestand und Überlieferung der Literaturwerke des griechisch römischen Altertums, Graz 1948 (questo lavoro dipende in alcuni punti fin troppo dal precedente); K. Büchner, Überliefe rungsgeschichte der lateinischen Literatur des Altertums, in H. Hunger O. Stegmüller E. Erbse u. a. (herausg. von), Die Textüberlieferung der antiken Literatur und der Bibel, I, München 21988, 309 422; in particolare per l’ambito greco cf. G. Cavallo, Conservazione e perdita dei testi greci: fattori materiali, sociali, culturali, in A. Giardina (a cura di), Società romana e impero tardoantico, IV: Tradizione dei classici, trasformazioni della cultura, Roma Bari 1986, 83 172; T. Dorandi, Tradierung der Texte im Altertum; Buchwesen, in H. G. Nesselrath (herausg. von), Einleitung in die griechische Philologie, Stuttgart Leipzig 1997, 3 16. Sulla conservazione e perdita della storiografia greca si vedano H. Strasburger, Umblick im Trümmerfeld der griechischen Geschichtsschreibung, in Historiographia Antiqua. Commentationes Lovanienses in honorem W. Pèremans septuagenarii editae, Leuven 1977 (Symbolae. Series A, v. 6), 3 52; V. Fromentin, La mémoire de l’histoire. La tradition antique, tardo antique et byzantine des historiens grecs Ve siècle avant Xe siècle après J. C., in B. Flusin J. Cl. Cheynet (éd.), Autour du Premier humanisme byzantin et des Cinq études sur le XIe siècle. Quarante ans après Paul Lemerle, in Travaux et Mémoires 21/2 (2017), 339 360; sulla storia della tradizione delle opere senofontee cf. M. Bandini, La Ciropedia dell’Escorial e il suo contesto a Costantinopoli (sec. IX X), in F.G. Hernández Muñoz (ed.), Manuscritos griegos en España y su contexto europeo: Greek Manuscripts in Spain and their European Context, Madrid 2016, 31 46. Per le considerazioni che a breve seguiranno sul problema del titolo nelle citazioni antiche si raccomanda la lettura di Lenfant, Des Persica indépendants de l’empire perse? Enquête sur les usages d’un titre (come n. 40), 15 33. Sull’importanza delle ricerche di E. Lohan diremo anche a breve.
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La condizione di disparità appena descritta, già in sé molto grave, diventa addirittura critica nel campo dei titoli. Dall’invenzione della stampa a oggi, salvo un iniziale breve periodo di transizione da un modo di produrre libri (ancora a mano) a un altro, per mezzo del torchio e poi in altri modi, il titolo del libro moderno è cosa generalmente garantita⁸⁷. E così sono stati egualmente caratterizzati tutti gli esemplari di uno stesso testo prodotti grazie alle nuove tecniche. Invece nel mondo antico il titolo non era sempre garantito. Nell’antica Grecia, come poi nel mondo romano fino alla tarda antichità e ancora in epoca medievale/bizantina, prodotti letterari di svariato genere facilmente entravano in circolazione sprovvisti, sulle loro soglie, di una inscriptio. E poteva trascorrere anche un periodo non breve prima che qualcuno si decidesse a intitolare il proprio esemplare in qualche maniera. Questo eventuale atto di scrittura non condizionava ad ogni modo la presentazione di altre possibili copie in circolazione. Queste rimanevano prive di un titolo, a meno che altri possessori non ne stabilissero a loro volta uno. D’altra parte, quando v’era, un titolo facilmente si perdeva per meri accidenti materiali⁸⁸. Sic stantibus rebus, è chiaro che chi studia testi di epoca moderna ha accesso diretto a quel che gli interessa e gli basta consultare un solo esemplare di stampa per assodarne il titolo. Consultando uno soltanto degli esemplari conservati, egli saprà anche subito come si presentano – o si presentavano – tutti gli altri della stessa edizione che egli non ha visto e certo non vedrà mai nel loro insieme. E se in qualche raro caso, ovvero per mancanza di esemplari, egli è costretto a ricavare per via indiretta il titolo di un libro moderno, cioè se si trova a dipendere da una citazione, per far luce sulla questione, normalmente egli aspetta di vederselo indicato con la prima lettera in carattere maiuscolo e soprattutto in scrittura distintiva, cioè in corsivo, ossia in italics: un accorgimento tipografico che impegna all’esattezza scientifica. La citazione del titolo di un dato testo non è dunque per lui un problema. Essa non presenta alcuna ambiguità.
Il “sovraffollamento” del mercato librario, rapidamente manifestatosi a seguito dell’inven zione di Gutenberg, ha imposto in effetti in tempi relativamente brevi, e se non altro per ragioni di ordine pratico, legate alla diffusione e allo smercio, che ogni volume entrasse in circolazione con un titolo suo proprio, indicato quantomeno sul frontespizio. Si veda a riguardo il bel volume di L. Baldacchini, Aspettando il frontespizio. Pagine bianche, occhietti e colophon nel libro antico, Milano 2004. Indicati in principio e/o in fine di rotolo, se non addirittura su una etichetta pendente, o, più tardi, sulle parti liminari della nuova tipologia libraria del codice, il nome dell’autore e il titolo dell’opera letteraria facilmente si perdevano proprio a causa della loro posizione particolar mente esposta.
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III Problemi di metodo
Chi si occupa del titolo di opere antiche dipende invece spesso e volentieri da tradizione indiretta, cioè da citazioni e testimonianze sul conto di testi di cui non si conservano esemplari manoscritti (o non così antichi come sarebbe necessario) per lo studio e la ricerca. Ma tanto i Greci nell’antichità come poi i loro eredi nel mondo bizantino, citando o alludendo o comunque offrendo qualche notizia intorno a opere altrui, non si servirono mai di scritture distintive o di particolari accorgimenti grafici, al momento di indicare il titolo di un testo. Quali le conseguenze di tutto ciò? Lo studioso delle letterature antiche, oltre a non potere dare in molti casi per scontata l’esistenza di un titolo a monte della tradizione di un’opera, deve muoversi spesso con molta prudenza maneggiando tradizione indiretta (citazioni e notizie sui testi). Occorre resistere alla tentazione di prendere meccanicamente per titolo ogni tipo di indicazione di contenuto o appellativo che sia possibile rinvenire in una data testimonianza letteraria a proposito di questo o quello scritto in prosa o in poesia. Questa sana “diffidenza” rispetto alla informazione reperita per via indiretta ha una evidente ragion d’essere. Espressioni come ἀπομνημονεύματα o ἀποστολικὴ παράδοσις, ξυγγραφή o ἱστορία, παραλειπόμενα o altro ancora – per la poesia omerica si pensi a: νεῶν κατάλογος o λύτρα, Καλυψοῦς ἄντρον oppure ᾿Aλκίνου ἀπόλογοι; per la letteratura filosofica e dottrinale: si pensi solo a περὶ φύσεως o περὶ τοῦ παντός o περὶ τῆς Ὁμήρου φιλοσοφίας; per la polemica tra pagani e cristiani: κατὰ χριστιανῶν; ma gli esempi potrebbero continuare per ogni genere letterario di ambito greco e così anche latino – espressioni come queste, dicevo, se non altrimenti precisate, potrebbero in realtà rivelarsi, a un’analisi più approfondita e attenta della documentazione o a seguito di scoperte papiracee, mere informazioni di contenuto intorno a un dato scritto, o anche soltanto a una parte (!) di esso, e quindi non rispecchiare affatto un dato paratestuale, cioè proprio il titolo che un dato scritto effettivamente esibiva anticamente in questo o quell’esemplare. Per chi si occupa di filologia dei testi concepiti e divulgati per via manoscritta, e in particolare per quelli di epoca greco-romana, il rischio di confondere i due piani fin qui delineati – quello del riferimento al contenuto, o dell’appellativo di comodo, e quello della effettiva realtà libraria, del titulus appunto di un testo – è frequente e assai più insidioso di quanto generalmente si pensi. Si tratta di un pericolo da non sottovalutare né in sede di edizione critica né al momento di ricostruire le dinamiche letterarie di un dato periodo storico e tantomeno quando si cerca di stabilire la consistenza della letteratura andata perduta. Di tutto ciò daremo un saggio concreto già in questo capitolo, parlando di una ricerca condotta alcuni anni fa sui papiri omerici, la quale ha spazzato via d’un colpo convinzioni inveterate su presunti titoli dei canti omerici.
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Dunque, è o può rivelarsi problematico determinare il titolo di un testo antico soltanto sulla base di testimonianze indirette. In effetti, a quali condizioni possiamo pronunciarci con sicurezza in merito? Quando siamo certi che una data fonte ci fornisce davvero il titolo sotto cui uno scritto era in circolazione? Quando invece occorre usare prudenza e come muoversi in casi incerti? Per ciò che concerne l’ambito di lingua greca, assoluta certezza sulla menzione del titolo noi l’abbiamo, ovviamente, in presenza di un lessico tecnicolibrario, cioè quando le fonti indicano mediante termini come ἐπίγραμμα o ἐπιγραφή (o simili), oppure col verbo ἐπιγράφω, che questo e quel testo erano appunto intitolati in questo o quel modo, per esempio come περὶ φύσεως o περὶ τοῦ παντός o in altri modi più o meno sofisticati⁸⁹. Le cose non cambiano di molto, se gli stessi termini sono adottati per riferire l’intestazione libraria nel suo complesso, comprensiva cioè non solo del titolo ma anche del nome dell’autore dell’opera considerata. Così fa, tra gli altri, Luciano di Samosata nel cap. 32 del suo Come si deve scrivere la storia, laddove appunto egli fornisce entrambe le informazioni⁹⁰. Senza adottare un lessico tecnico-librario, le testimonianze indirette offrono il titolo di un componimento letterario anche quando rimandano a un dato volume di un’opera divisa in più libri secondo questo schema: ἐν + numero del libro + genitivo del nome dell’opera (spesso accompagnato dall’articolo), con o senza segnalazione del nome del relativo autore⁹¹. È noto d’altra parte che molti testi nell’antichità ebbero un titolo costruito mediante preposizione, per esempio con περί + genitivo, oppure con πρός + Ma sulle possibili accezioni librarie di ἐπίγραμμα, ἐπιγραφή e del verbo ἐπιγράφω cf. Parte III, cap. VIII. Per indicare l’intestazione libraria, e in particolare il titolo, in latino si usavano invece i termini inscriptio, titulus o anche index, come sopra accennato. L’azione di intitolare un prodotto scritto era espressa per mezzo del verbo inscribere; in questo senso sono usate, sia pur meno frequentemente, espressioni come titulare, nomine praenotare e altre ancora. A mo’ di esempio, si legga a riguardo quanto scrive Cass., Variae I, praef. 15 17, per spiegare il titolo assegnato alla raccolta di epistole. Come detto sopra, n. 52, la prima occorrenza sicura di ἐπίγραμμα al fine di indicare l’inte stazione libraria nel suo complesso o anche più strettamente il titolo di un dato prodotto letterario è in un frammento di una commedia del comico Alessi (IV III sec. a. C.), su cui cf. infra, parte III, 7, 5 del presente lavoro. Sul term. ἐπιγραφή in accezione libraria, disponiamo di testimonianze più tarde. Sui termini ἐπίγραμμα, ἐπιγραφή e sul verbo ἐπιγράφω cf. Parte III, cap. VIII, 3, 1 3. A tale conclusione è possibile pervenire in maniera documentata, cioè mediante una com parazione tra le citazioni così strutturate di date opere antiche e la tradizione manoscritta superstite delle stesse. In proposito rimando alle parti del presente lavoro (III parte) dedicate alle citazioni delle opere di Senofonte e di Teopompo e alla tradizione manoscritta antica superstite di tali autori.
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accusativo, o ancora con κατά + genitivo o ὑπέρ + genitivo. Conseguentemente, negli studi moderni, si riconosce la citazione esatta di un titolo tutte le volte che una data fonte fa rimando a un dato scritto secondo lo schema: ἐν + articolo al dat. (qui considerando sottinteso il termine λόγῳ oppure βιβλίῳ o altro sostantivo per indicare il testo) + περὶ e genitivo (oppure: πρός con acc. / κατά e gen. / ὑπέρ e gen.). Non è mia intenzione contestare quest’ultima conclusione, che nella stragrande maggioranza dei casi sarà giusta (e credo lo sia sempre quando il riferimento così impostato è accompagnato dall’indicazione del nome dell’autore dell’opera). Tuttavia, mi preme osservare che rimandi letterari così strutturati devono essere valutati comunque sempre caso per caso, e in considerazione di svariati aspetti, tra cui quello della loro antichità e della storia del testo a cui essi si riferiscono. Altrimenti si rischia di cadere in indebite generalizzazioni. Mi limito a questo proposito a segnalare già adesso quel passo della tredicesima lettera di Platone – se la lettera è sua e non di altro autore poco più tardo, come peraltro a me sembra –, in cui si legge: «Ti è noto di certo il nome di Cebete: nei discorsi socratici è menzionato insieme con Simmia ed è interlocutore di Socrate ἐν τῷ περὶ ψυχῆς λόγῳ»⁹². Il riferimento al Fedone è fuor di dubbio. Nondimeno, non possiamo dirci assolutamente sicuri che ἐν τῷ περὶ ψυχῆς λόγῳ attesti l’uso di un secondo titolo per il Fedone già tra IV e III secolo a. C., sebbene sia noto che questo dialogo circolò poi davvero anche sotto la designazione di περὶ ψυχῆς. In effetti, il passo citato potrebbe testimoniare, data tra l’altro la sua notevole antichità, soltanto la prassi di alludere al dialogo platonico con una semplice indicazione di contenuto, meramente alternativa alla designazione (Φαίδων), che lo scritto all’epoca effettivamente aveva; sul titolo dei dialoghi platonici e sul passo appena ricordato diremo comunque in dettaglio nella III Parte. Il riferimento a un dato testo secondo il semplice schema ἐν + denominazione al dat. preceduta dall’articolo (così per esempio Tucidide rimanda allo scritto del suo “rivale” Ellanico: ἐν τῇ ᾿Aττικῇ ξυγγραφῇ) non offre invece garanzie sulla esatta citazione del titolo. Anzi, il rimando costruito in questa maniera può riguardare talvolta soltanto una parte di una data opera e dunque non avere a che fare neppure col tutto. Nelle testimonianze indirette si nota peraltro un uso particolare, che merita sin da ora di essere rilevato. A volte, infatti, la denominazione adottata per un
Questa la traduzione di M.G. Ciani in M. Isnardi Parente (a cura di), M.G. Ciani (traduzione di), Platone. Lettere, Milano 2002, 183, da me ritoccata in un solo punto.
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certo testo è accompagnata da avvertimenti del tipo “cosiddetto/a” o “così chiamato/a”, come avviene per esempio nel caso di una famosa elegia di Tirteo, ricordata appunto come la καλουμένη εὐνομία, e di una poesia di Stesicoro, la καλουμένη παλινῳδία. Analizzeremo questi due casi tra poco (invece sui “versi arimaspei” cf. infra, parte II, cap. 4; sulle “cosiddette” sentenze cnidie cf. infra, n. 418). Avvertimenti del genere non obbligano affatto a prendere per titolo la denominazione così presentata, come vedremo. Le due ultime possibilità appena segnalate ci hanno messo di fronte a rimandi letterari alquanto generici e ambigui. In casi del genere rimane in effetti molto difficile stabilire l’esatto valore dell’indicazione reperita: questa potrebbe riflettere proprio il titolo che lo scritto in questione aveva, oppure, più semplicemente, essere soltanto una informazione di contenuto o un appellativo di comodo, per indicare il testo preso in esame (o anche soltanto una parte di esso). Se non abbiamo evidenze manoscritte sufficientemente antiche, e utili per effettuare un controllo, e in assenza di altre citazioni/menzioni dello stesso scritto, il dilemma posto da rimandi generici come quelli sopra visti può resistere a ogni tentativo di soluzione. In casi del genere, è dunque preferibile lasciare aperta la questione della esatta interpretazione dei dati raccolti. Altrimenti si rischia di procedere in modo arbitrario. Molto spesso, negli studi passati, sono state confuse semplici informazioni di contenuto, che non avevano alcuna implicazione a livello di tradizione manoscritta, con titoli veri e propri; oppure si è presa posizione in favore dell’una delle due possibilità, senza avere le necessarie garanzie per farlo. Il mio lettore può immaginare i danni che tutto ciò ha comportato nella ricostruzione della storia dei testi e in generale della valutazione della effettiva produzione letteraria degli antichi. Se dunque in molti casi non è possibile prendere posizione sicura rispetto alle informazioni reperite indirettamente, qual è il metodo corretto di classificarle e in che modo schivare indebite deduzioni ed errori? Già Eduard Lohan si pose sul finire del XIX secolo la questione. Ed egli fu anche il primo, a mia conoscenza, a adottare un lessico concettualmente adeguato al problema.
2 Nomina e tituli: la legge di E. Lohan Accade talvolta, e non solo nelle scienze letterarie, che alcune differenze tra certe cose siano a tutti chiare, perché lo sono immediatamente. Invece, altre volte esse lo diventano solo dopo che qualcuno è riuscito a metterle a fuoco. In questo secondo caso dovrebbe oggi rientrare, nonostante la sua ricezione travagliata, una “conquista metodologica” di Eduard Lohan, il quale per primo tenne conto, in un trattato sul titolo delle opere antiche, della differenza che
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III Problemi di metodo
corre tra semplici appellativi (o denominazioni o indicazioni del contenuto) dei testi e designazioni degli stessi sulle rispettive soglie librarie. Detto in altri termini, fu Lohan il primo a comprendere lucidamente la differenza che corre tra nomina e tituli. Esaminando con cura le fonti, questo brillante filologo si era accorto che gli autori greci di epoca più antica divulgavano le loro creazioni letterarie senza titolo. Il pubblico di età classica, abituato a recepire composizioni letterarie tramite l’ascolto, dava pertanto da sé un qualche nome almeno ai testi più apprezzati, al semplice fine di poterne discutere anzitutto nelle conversazioni orali. Questa prassi non implicava però né subito né sempre che la denominazione scelta venisse registrata, appunto come titolo, sugli esemplari dei testi stessi. Poteva anzi darsi il contrario: si verificava, o poteva verificarsi, una divaricazione tra la divulgazione e discussione orale e la tradizione diretta, manoscritta. Il pubblico si abituava a chiamare un dato componimento in una certa maniera, cioè con un dato appellativo; il testo continuava invece a circolare – nei limiti di quel che nel V o IV secolo a. C. ciò avrà potuto significare – esattamente come prima: senza titolo. A tali lucidissime conclusioni Lohan era giunto riflettendo su alcune testimonianze di epoca classica. Egli notava, per esempio, che Isocrate, Hel. 64, e Platone, Phdr. 243 a, ricordano il secondo di due componimenti stesicorei su Elena in termini sostanzialmente identici, ovvero come «la cosiddetta palinodia»: τὴν καλουμένην παλινῳδίαν. Lohan fissa la sua attenzione su «cosiddetta». La precisazione è in entrambe le fonti, benché indipendenti l’una dall’altra sul componimento. Così Lohan ne deduce: 1. che παλινῳδία era una denominazione del testo stesicoreo in uso a livello orale tra il pubblico del IV secolo a. C.: «colligendum esse videtur hoc nomen in omnium quidem ore fuisse»; 2. che non derivava da Stesicoro («sed ab ipso Stesichoro profectum non esse»); 3. e, soprattutto, che essa non era stata registrata, e dunque non figurava, in testa al componimento («neque in libro qui παλινῳδίαν continebat inscriptum fuisse»). Le parole di Isocrate e Platone – sia lecito qui aggiungere – non inducevano quantomeno a crederlo. Lohan evita perciò di considerare παλινῳδία come titulus del componimento stesicoreo al tempo di Platone e di Isocrate. Piuttosto, egli parla di nomen, cioè di un appellativo, allora in uso tra il pubblico colto, per indicare quella poesia. La più neutra “qualifica” di nomen non implica in effetti per forza (ma nemmeno
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per forza la esclude) una ripercussione a livello librario – intendo proprio sul supporto dello stesso testo – della denominazione allora usata⁹³. Queste conclusioni appaiono condivisibili a chi voglia oggi rileggere la testimonianza di Isocrate⁹⁴ e di Platone⁹⁵. Per il resto, Lohan tiene a sottolineare un altro fatto: le fonti di epoca più tarda chiamano lo stesso componimento stesicoreo in ben altra maniera; dunque, la denominazione nota a Isocrate e a Platone non era stata recepita nella tradizione manoscritta dei versi neppure in seguito (o almeno non risulta che essa fosse stata recepita)⁹⁶. La raffinatezza del giovane filologo nel maneggiare le fonti indirette è evidente anche dalla sua analisi di una nota elegia politica di Tirteo, della quale rimangono pochi frammenti (West 1– 2 = 1ab G.–Pr.). Lohan confronta in proposito due testimonianze, quella di Aristotele, dunque del pieno IV secolo a. C., e quella di Strabone, quindi degli inizi dell’età romano-imperiale. Aristotele presenta il componimento come ἡ καλουμένη εὐνομία: così nella Politica 1306b. Strabone la ricorda come l’elegia ἣν ἐπιγράφουσιν εὐνομίαν «che intitolano εὐνομία» (8, 4, 10)⁹⁷. Dal confronto risulta evidente che al tempo di Strabone i manoscritti presentavano davvero un titolo del genere (εὐνομία) – anzi, Strabone pare avere anche coscienza del fatto che εὐνομία non fosse un titolo d’autore –, mentre ciò non si poteva dedurre, per il IV secolo a. C., dalle parole di Aristotele: «hoc ex Aristotelis verbis desumi non potest iam eius temporibus hoc nomen in exemplaribus inscriptum fuisse, cum attributum καλουμένη nos potius eo adducat, ut tum nomen in consuetudine tantum Graecorum positum fuisse arbitremur»⁹⁸. Grazie a testimonianze come queste, Lohan aveva dunque compreso un fatto fondamentale: gli antichi davano volentieri un nomen, cioè una denominazione,
Per altre considerazioni cf. ancora Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 13. Così Isoc., Hel. 64: Ἐνεδείξατο δὲ καὶ Στησιχόρῳ τῷ ποιητῇ τὴν αὑτῆς δύναμιν· ὅτε μὲν γὰρ ἀρχόμενος τῆς ᾠδῆς ἐβλασφήμησέν τι περὶ αὐτῆς, ἀνέστη τῶν ὀφθαλμῶν ἐστερημένος, ἐπειδὴ δὲ γνοὺς τὴν αἰτίαν τῆς συμφορᾶς τὴν καλουμένην παλινῳδίαν ἐποίησεν, πάλιν αὐτὸν εἰς τὴν αὐτὴν φύσιν κατέστησεν, «dimostrò la sua potenza anche al poeta Stesicoro. Quando infatti questi a principio della sua ode pronunziò parole irriverenti nei riguardi di lei, si levò privo della vista; ma dopoché, capita la causa della sua disgrazia, ebbe composto la cosiddetta palinodia, ella lo restituì alla condizione originaria». La traduzione del brano, da me lievemente ritoccata, è tratta da M. Marzi (a cura di), Opere di Isocrate, vol. I, Torino 1991 (Classici greci), 515 517. Pl., Phdr. 243 a: καὶ ποιήσας δὴ πᾶσαν τῆν καλουμένην παλινῳδίαν. Cf. Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 13. La differenza tra la testimonianza aristotelica e quella straboniana è rilevata da Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 11. Così Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 11.
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ai loro prodotti letterari (o almeno ai più significativi), per farvi riferimento nei loro trattati o semplicemente per discuterne oralmente. Ma non sempre – o almeno non subito – la denominazione adottata rispecchiava o si traduceva in un titulus (= inscriptio) per il testo in discussione⁹⁹. Detto altrimenti, non sempre la denominazione usata era registrata negli esemplari del testo preso di volta in volta in considerazione. La distinzione, concettuale oltre che terminologica, tra nomen da un lato e titulus (o anche inscriptio) dall’altro è di fondamentale importanza per comprendere la dissertazione del Lohan. In effetti, lo studioso sviluppa l’esegesi delle testimonianze antiche in tale ordine di idee, schivando così parecchi dogmatismi. Questo così importante approccio ermeneutico è rimasto poi largamente inosservato negli studi sul titolo e lo stesso lavoro del Lohan non è stato compreso su questo punto. Una parte di responsabilità va però riconosciuta allo stesso Lohan, che non aveva ritenuto necessario illustrare preliminarmente i principia del suo lavoro, cioè gli aspetti e i concetti che ho fin qui esposto. Il lavoro del Lohan è stato così più consultato che letto nel corso dell’ultimo secolo e con parecchi fraintendimenti. È stato, cioè, trattato come un qualsivoglia Nachschlagewerk, senza che alcuno ne esplorasse i criteri di fondo. Così Egidius Schmalzriedt giunge ad affermare che l’opera del Lohan sarebbe «eine übersichtliche Zusammenstellung des Materials über die frühen Buchtitelzitate, allerdings meist ohne weiterführende detaillierte Interpretation». In realtà, se è vero che il lavoro del Lohan è assai succinto (a volte sin troppo), è anche vero che a Schmalzriedt sono sfuggiti i presupposti metodologici del Lohan e così l’importanza di certe sue considerazioni. Allo Schmalzriedt sfugge egualmente la differenza che corre tra nomen da un lato e titulus e inscriptio dall’altro nel lavoro del Lohan¹⁰⁰. Anche in tempi recenti si è attinto ai dati raccolti dal Lohan, senza notare che i termini nomen e titulus non sono usati come sinonimi. Il mio lettore potrà immaginare quali confusioni tutto questo abbia ingenerato. La dissertazione di Lohan mantiene insomma pressoché inalterata la sua validità. E converrà discutere adesso di un ultimo caso importante, al fine di mettere in rilievo la bontà delle acquisizioni, concettuali e non solo, che possono essere messe sotto il nome di “legge di E. Lohan”¹⁰¹.
Lohan si serve di titulus e inscriptio perlopiù come sinonimi. Talvolta si serve pure in simile accezione anche del term. index. Invece, come appena detto, lo studioso tiene ben distinto l’uso di nomen da quello di titulus e inscriptio per le ragioni che oramai ben conosciamo. Il giudizio riduttivo dello Schmalzriedt è a p. 10, n. 3, del suo libro. Accanto al De librorum titulis (come n. 14), merita qui pure di essere ricordato un altro lavoro di Eduard Lohan, dal titolo: Poesis melicae generum nominibus quae vis subiecta sit a
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Nota di precisazione. Come detto, vi sono anche casi, e Lohan ne era perfettamente consapevole, in cui una fonte non permette di stabilire se l’indicazione offerta corrisponde a una semplice informazione di contenuto o denominazione in senso lato di un testo, oppure proprio al titolo che lo scritto davvero esibiva. In tutti questi casi Lohan adotta, e a ragione, una linea pru denziale: parla in linea generale di nomen fornito dalla fonte. Infatti, tutti i tituli o inscriptiones sono anche nomina dei testi, ma non tutte le possibili denominazioni in senso lato di uno scritto sono per questo anche tituli, come si è visto.
3 Un caso notevole Erodoto, Tucidide, Platone e Aristotele richiamano alla memoria vari episodi dell’Iliade e dell’Odissea e parlano (o citano per esteso anche qualcosa) di quanto narrato nella «aristia di Diomede» o nella «consegna dello scettro», nel «catalogo delle navi»¹⁰², nell’«apologo di Alcinoo» o in occasione della «battaglia presso le mura»¹⁰³. Leggendo questi e altri riferimenti, si pone puntualmente il problema di definirne l’esatta natura. Sono forse tali espressioni puri appellativi o semplici indicazioni di contenuto, sfruttati dal pubblico di allora, per indicare questo o quell’episodio della poesia omerica? Oppure «catalogo delle navi», «battaglia presso le mura», «consegna dello scettro» e altre espressioni del genere sono titoli di certi canti di Omero nei manoscritti di quell’epoca? In altre parole, le suddette maniere di chiamare certe porzioni dei due poemi riflettono sì o no la presentazione libraria dei canti tra V e IV secolo a. C.? Alla questione sono state date risposte diverse. Alcuni intendono ancora oggi quelle espressioni senz’altro come traccia di titoli messi a corredo dei manoscritti omerici di allora¹⁰⁴. Altri preferiscono parlare di semplici indicazioni di temi o di episodi narrati nei due poemi. In realtà, è evidente che il dilemma potrebbe essere risolto solo se avessimo esemplari altrettanto antichi della poesia omerica, per compiere i necessari controlli. Pertanto, esso è destinato a rimanere aperto, se non altro per ragioni di prudenza. Vedremo meglio tutto questo nel prossimo capitolo, laddove parleremo della divisione del testo dei due poemi secondo le lettere dell’alfabeto ionico.
classicis scriptoribus Graecis, Pars I, Lauban 1898. In questo lavoro lo studioso esplora l’uso dei termini παιάν, παιών e ὕμνος in testi di epoca arcaica o del V o IV secolo a. C. Non mi soffermerò tuttavia qui su questo contributo, peraltro ottimo. Cf. Thuc. I, 9, 4 e I, 10, 4. Cf. Pl., Resp. 614b, Ion 537a, Ion 539b; Arist., Poet. 1454b 30 1455b 2, Rhet. 1417a13. Così anche Schironi, ΤΟ ΜΕΓΑ ΒΙΒΛΙΟΝ (come n. 30), 21 22.
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Invece è oggi finalmente possibile esprimere un giudizio fondato sulla testimonianza di un erudito del II–III secolo d. C., Claudio Eliano. Questi riferisce che gli antichi avevano inizialmente cantato Omero per parti separate: οἷον ἔλεγον τὴν ἐπὶ 〈ταῖς〉 ναυσὶ μάχην καὶ Δολώνειάν τινα καὶ ἀριστείαν ᾿Aγαμέμνονος καὶ νεῶν κατάλογον καὶ [που] Πατρόκλειαν καὶ λύτρα καὶ ἐπὶ Πατρόκλῳ ἆθλα καὶ ὁρκίων ἀφάνισιν. ταῦτα ὑπὲρ τῆς Ἰλιάδος. ὑπὲρ δὲ τῆς ἑτέρας τὰ ἐν Πύλῳ καὶ τὰ ἐν Λακεδαίμονι καὶ Καλυψοῦς ἄντρον καὶ τὰ περὶ τὴν σχεδίαν 〈καὶ〉 ᾿Aλκίνου ἀπολόγους 〈καὶ〉 Κυκλώπειαν καὶ νέκυιαν καὶ τὰ τῆς Κίρκης 〈καὶ〉 νίπτρα 〈καὶ〉 μνηστήρων φόνον 〈καὶ〉 τὰ ἐν ἀγρῷ 〈καὶ〉 τὰ ἐν Λαέρτου¹⁰⁵.
A molti studiosi la notizia di Eliano è parsa offrire un nutrito elenco di titoli di canti omerici, sebbene Eliano non si pronunci in questa direzione, cioè non parli propriamente di ἐπίγραμμα o ἐπιγραφή delle rapsodie. Ciononostante, il resoconto di Eliano è stato perlopiù interpretato al modo che si è detto e ciò ha avuto importanti ripercussioni anche in sede di edizione dell’Iliade e dell’Odissea. Molte delle indicazioni fornite da Eliano sono state considerate dagli editori come titoli veri e propri dei canti dei due poemi¹⁰⁶. Ma con la scoperta e soprattutto grazie all’analisi sistematica delle inscriptiones presenti negli esemplari antichi ancora disponibili della poesia omerica, quel radicato convincimento si è rivelato completamente erroneo, anche se sino a oggi non mi risulta che alcuno lo abbia rilevato. In effetti, nei manoscritti sopravvissuti di età romana, le varie rapsodie omeriche sono ripartite e designate ciascuna mediante una lettera dell’alfabeto ionico, accompagnata sovente dal titolo del poema di appartenenza. Dei pretesi titoli forniti da Eliano non si vede alcuna traccia. Ciò quantomeno nei testimoni manoscritti di sicura interpretazione in nostro possesso e appunto di epoca romana¹⁰⁷. Tiriamo a questo punto le conseguenze del discorso. La testimonianza di Eliano non offre un elenco dei titoli dei libri dell’Iliade e dell’Odissea, ma semplici indicazioni di contenuto o denominazioni più o meno diffuse e familiari
Così Ael., Varia hist. XIII, 14. L’edizione da me consultata è quella di N.G. Wilson (edited and translated by), Aelian, Historical Miscellany, Cambridge, Mass. London 1997 (LOEB), 426. Si veda per es. T.W. Allen, Homeri Ilias I III, Oxford 1931. Anche S. West, The Ptolemaic Papyri of Homer, Köln Opladen 1967 (Papyrologica Coloniensia 3), 20, n. 35, ritiene che la notizia di Eliano fornisca i titoli dei canti. Così già G. Capone, L’Omero Alessandrino. I venti quattro libri della Iliade e della Odissea, Padova 1939, in part. 71 76, 94 96, 108 110. Così almeno dove la documentazione è integra e non soggetta a congetture dei moderni: fondamentale in proposito Schironi, ΤΟ ΜΕΓΑ ΒΙΒΛΙΟΝ (come n. 30), 21. Sul PSI inv. 1914 cf. Castelli, Omero e il paratesto (come n. 13), 2, n. 6.
3 Un caso notevole
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al pubblico di allora dei vari episodi dei due poemi. Puri nomina, avrebbe detto in un caso del genere Lohan, non vere inscriptiones o tituli. Come si vede, è rischioso parlare di titoli, se le fonti indirette non offrono indicazioni precise in tal senso. Il caso appena studiato è particolarmente istruttivo in merito, ma non è certo l’unico che potremmo considerare. D’altra parte, è anche vero che gli stessi antichi si esprimevano, quando volevano, in modo tale da non lasciare dubbi sulla presenza del titolo negli esemplari di questo o quel testo: adottavano, cioè, un lessico specifico, per darne notizia. Vi abbiamo già sopra accennato, ma avremo modo di mettere in rilievo questa pratica nella II e III parte del presente lavoro. Conviene invece adesso lasciare spazio all’esposizione propriamente storica sulla nascita del titolo nella letteratura greca.
Parte II. La poesia greca tra età arcaica e classica e l’avvento dei titoli
I L’epica 1 In principio v’era Omero Pur essendo per definizione un elemento separato dal testo, il titolo non gli è per questo assolutamente indipendente o estraneo. Al contrario, permane nonostante tutto una stretta relazione tra i due. Il titolo occupa pur sempre le “soglie fisiche” della composizione letteraria, inoltre ne costituisce il nome e in quanto tale serve a presentarla al lettore. Come componente a tutti gli effetti dell’opera letteraria, il titolo deve dunque essere sempre strettamente studiato in rapporto alla storia del prodotto scritto e più in generale della letteratura, a cui esso è legato. È alla luce di tali considerazioni – ispirate a una pagina preziosa di Herbert Volkmann¹⁰⁸ – che cercheremo da questo momento in avanti di illustrare l’emergere del fenomeno del titolo nella letteratura greca e di valutarne, tra l’altro, l’impatto nelle forme di composizione del proemio. Il nostro discorso dovrà tuttavia partire da un’epoca in cui non v’erano titoli, anzi neppure se ne avvertiva l’esigenza. A fare da ponte tra l’artista e il suo pubblico era la voce. E a introdurre gli interessati al contenuto del componimento letterario bastava il proemio. Nella Grecia antichissima fuit diu haec (scil: ars rhapsodorum) unica via publice prodendi ingenii: così Friedrich August Wolf nel suo splendido latino dei Prolegomena ad Homerum, Halis Saxonum 1795, xcviii. In effetti, la letteratura greca di epoca arcaica (VIII–VI secolo a. C.) si differenzia nettamente da quella di età successiva anzitutto perché essa fu quasi esclusivamente in versi e la sua fruizione fu essenzialmente orale. È noto che l’adozione della scrittura alfabetica nel mondo greco sia cronologicamente da collocare nel IX secolo a. C. o al più tardi, ma non lo credo, al principio del successivo¹⁰⁹. I primi tentativi di comporre opere in prosa si fecero
H. Volkmann, Der deutsche Romantitel (1470 1770). Eine buch und literaturgeschichtliche Untersuchung, in Archiv für Geschichte des Buchwesens 8 (1967), 1150: «Der Buchtitel ist kein isolierter Begriff, sondern ein fester literarischer Bestandteil des Werkes, das er repräsentiert. Eine Betrachtung der Buchbenennung muß folglich stets im Zusammenhang mit der Lite raturgeschichte im engeren Sinne erfolgen». Sull’adozione e diffusione della scrittura alfabetica nella Grecia arcaica: M. Guarducci, Epigrafia greca, vol. I: Caratteri e storia della disciplina. La scrittura greca dalle origini all’età imperiale, Roma 1967; Ead., Epigrafia greca, vol. II: Epigrafi di carattere pubblico, Roma 1970; G. Pfohl, Die ältesten Inschriften der Griechen, in QUCC 7 (1969), 7 25 (in particolare 13 16); L.H. Jeffery, The Local Scripts of Archaic Greece. A Study of the Origin of the Greek Alphabet and its https://doi.org/10.1515/9783110703740 006
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tuttavia solo nell’avanzato VI secolo a. C., quando l’arte del verso poteva già vantare una cospicua produzione. Nel corso dell’età arcaica erano stati coltivati diversi generi poetici. Il più diffuso era l’epos, la poesia delle storie degli dèi e degli uomini, delle origini del mondo o delle città, delle prodigiose avventure e dei viaggi di eroi per terra e per mare. Lo praticavano veri e propri professionisti del genere, gli aedi, che erano poeti e cantori, compositori ed esecutori al tempo stesso. Organizzati in vere e proprie gilde, erano essenzialmente questi professionisti a possedere materia epica fissata per iscritto. Disponevano così di un repertorio poetico, sul quale esercitarsi in vista dell’esecuzione davanti all’uditorio. La fruizione dell’epica era a quel tempo essenzialmente auditiva. Il pubblico era di ascoltatori. E la funzione della scrittura non era ancora quella di mettere in contatto l’autore con un più o meno ampio gruppo di lettori, ma di fissare il testo da recitare. In età arcaica l’ascolto fu di gran lunga più importante della vista e la scrittura fu anzitutto supporto alla memoria¹¹⁰.
Development from the Eighth to the Fifth Centuries B.C. Revised Edition with a Supplement by A.W. Johnston, Oxford 1990; M. Lombardo, Marchands, transactions économiques, écriture, in M. Detienne (éd. par), Les savoirs de l’écriture en Grèce ancienne, Lille 1988 (Cahiers de Philologie, 14, série «Apparat critique»), 159 187; F. Ghinatti, Alfabeti greci, Torino 1999 (Problemi e pro spettive del mondo antico). Sull’uso dell’alfabeto nell’VIII secolo si veda la scoperta di E. Peruzzi, Cultura greca a Gabii nel secolo VIII, in PP 47 (1992), 459 468; W. Burkert, Die Griechen und der Orient. Von Homer bis zu den Magiern. Aus dem Italienischen ins Deutsche übertragen vom Verfasser, München 2003, 9 27, 136 139. Sui problemi della scrittura in età arcaica cf. G. Nieddu, La scrittura ‘madre delle Muse’: agli esordi di un nuovo modello di comunicazione culturale, Amsterdam 2004 (Supplementi di «Lexis» 9). Preziosa raccolta di studi è quella di G. Pfohl (herausg. von), Das Alphabet. Entstehung und Entwicklung der griechischen Schrift, Dar mstadt 1968 (Wege der Forschung 88). Sul rapporto tra oralità e scrittura in età arcaica la bibliografia è sterminata. Si vedano almeno: W. Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London 1982; E.A. Have lock, The Literate Revolution in Greece and Its Cultural Consequences, Princeton 1982 (Princeton Series of Collected Essays); Id., The Muse Learns to Write. Reflections on Orality and Literacy from Antiquity to the Present, New Haven 1986; W. Rösler, Dichter und Gruppe. Eine Untersuchung zu den Bedingungen und zur historischen Funktion früher griechischer Lyrik am Beispiel Alkaios, München 1980 (Theorie und Geschichte der Literatur und der schönen Künste. Texte und Ab handlungen, 50), in part. 45 91; Id., Schriftkultur und Fiktionalität. Zum Funktionswandel der griechischen Literatur von Homer bis Aristoteles, in A. und J. Assmann / Chr. Hardmeier (herausg. von), Schrift und Gedächtnis (Archäologie der literarischen Kommunikation, Bd. 1), München 1983 (2. Aufl. 1993), 109 122; W. Rösler, Mündlichkeit und Schriftlichkeit im archaischen Grie chenland bei Friedrich August Wolf und aus heutiger Sicht, in J. Ebert H. D. Zimmermann (herausg. von), Innere und äußere Integration der Altertumswissenschaften. Konferenz zur 200. Wiederkehr der Gründung des Seminarium Philologicum Halense durch Friedrich August Wolf am
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In tali condizioni di comunicazione letteraria, com’era esposta la materia epica agli ascoltatori? Tutto avveniva in forme semplici e dirette. L’aedo poteva essere invitato dal suo stesso pubblico a esibirsi su di un dato episodio o tema. In tal caso egli esordiva indicando il punto esatto da cui cominciava a narrare. È quanto si ricava dalla fine del canto θ dell’Odissea, dove il figlio di Laerte, ospite alla corte di Alcinoo, esorta Demodoco a narrare lo stratagemma del cavallo di legno. L’aedo accoglie ovviamente la richiesta. Esordendo, egli invoca quindi la Musa e comincia «da qui» (ἔνθεν): «da quando gli Argivi, saliti sopra le navi dai solidi ponti, salparono in mare» (vv. 499 – 501)¹¹¹. Ma l’aedo poteva anche scegliere liberamente la materia della performance. E allora orientava l’uditorio in termini assai più generali, invocando però sempre la dea, a cui un’antica e veneranda consuetudine riconosceva l’appartenenza della materia narrata¹¹². Esemplari in questo senso i primi sette versi dell’Iliade: Μῆνιν ἄειδε θεὰ Πηληϊάδεω ᾿Aχιλῆος οὐλομένην, ἣ μυρί’ ᾿Aχαιοῖς ἄλγε’ ἔθηκε, πολλὰς δ’ ἰφθίμους ψυχὰς Ἄϊδι προΐαψεν ἡρώων, αὐτοὺς δὲ ἑλώρια τεῦχε κύνεσσιν οἰωνοῖσί τε πᾶσι, Διὸς δ’ ἐτελείετο βουλή, ἐξ οὗ δὴ τὰ πρῶτα διαστήτην ἐρίσαντε ᾿Aτρεΐδης τε ἄναξ ἀνδρῶν καὶ δῖος ᾿Aχιλλεύς. L’ira canta, o dea, del Pelide Achille rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei, gettò in preda all’Ade molte vite gagliarde d’eroi, ne fece il bottino dei cani e di tutti gli uccelli consiglio di Zeus si compiva da quando prima si divisero contendendo l’Atride signore di eroi e Achille glorioso¹¹³.
Nel primo verso è riconosciuta alla divinità la piena appartenenza del racconto, quasi che l’aedo non esista¹¹⁴. Al tempo stesso è espresso in termini generali il 15. 10. 1787, Halle (Saale) 1989, 55 63. Ancora sulla diffusione della scrittura in Grecia arcaica cf. Ø. Andersen, Mündlichkeit und Schriftlichkeit im frühen Griechentum, in AuA 33 (1987), 29 44. L’aedo segnalava il punto di partenza del racconto: cf. L.E. Rossi, On the Written Redaction of Archaic Greek Epic Poetry, in SO 76 (2001), 103 112 (qui in part. 109). Cf. S. Accame, L’invocazione alla Musa e la “verità” in Omero e in Esiodo, in RFIC 91 (1963), 257 281 e 385 415. Traduzione di R. Calzecchi Onesti in Omero. Iliade, pref. di F. Codino, Torino 2014, 3. Lo rileva Accame, L’invocazione alla Musa (come n. 112), 259. Sull’anonimato di determinati testi antichi sono fondamentali gli studi di W. Speyer, Religiöse Pseudepigraphie und literarische Fälschung im Altertum, in JAC 8/9 (1965 1966), 88 155; Id., Fälschung, pseudepigraphische freie Erfindung und ‚echte religiöse Pseudepigraphie‘, in K. von Fritz (herausg. von), Pseudepigrapha I,
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tema prescelto: l’ira di Achille. Nei versi successivi se ne preannunciano gli effetti rovinosi. In maniera non molto diversa è strutturato l’inizio dell’Odissea, dove l’aedo chiede alla Musa di narrargli di un «uomo versatile», «che a lungo / errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia; / di molti uomini le città vide e conobbe la mente, / molti dolori patì in cuor suo sul mare, / lottando per la sua vita e per il ritorno dei compagni. / Ma neppure così li salvò, per quanto lo desiderasse: / infatti perirono per le loro folli colpe, stolti, che mangiarono i buoi del Sole Iperione, ma egli tolse loro il giorno del ritorno»¹¹⁵. Di tutto questo la Dea è invitata a dire liberamente: da dove (ἁμόθεν) essa vuole (vv. 1– 10). A principio della performance l’aedo aveva dunque due compiti: invocare la divinità e annunciare il punto d’inizio (o più in generale il tema) del racconto. In questa maniera gli ascoltatori venivano istruiti su quanto avrebbero udito¹¹⁶. In età arcaica, in condizioni di divulgazione orale, il proemio rappresentò per l’uditorio la chiave di accesso al racconto epico e fu autentico trait d’union tra cantore e uditorio. Un esperto della composizione letteraria della Grecia arcaica ha quindi ottimamente osservato: «Les titres proprement dits sont d’origine tardive. L’aède n’en avait nul besoin. Son auditoire non plus. Seule était utile l’indication du sujet, en d’autres termes ce qu’expriment les proèmes»¹¹⁷.
2 Il proemio dei poemi omerici L’Iliade e l’Odissea sono “solo” una selezione della molteplice materia epica nota e recitata in età arcaica. È una selezione già in sé l’Iliade, perché nulla vi leggiamo circa l’inizio della guerra tra Greci e Troiani, nulla poi sulla sua con-
Genève 1972 (Coll.: Entretiens sur l’Antiquité classique, 18), 331 366; Id., Göttliche und men schliche Verfasserschaft im Altertum, in J. Frey et alii (herausg. von), Pseudepigraphie und Ver fasserfiktion in frühchristlichen Briefen. Pseudepigraphy and Author Fiction in Early Christian Letters, Tübingen 2009 (=WUNT 246), 105 124. Per la traduzione dei versi cf. R. Calzecchi Onesti, Omero. Odissea, pref. di F. Codino, Torino 1989, 3, ritoccata tuttavia in alcuni punti. Sulle forme di comunicazione dell’epica in età arcaica è eccellente H. Fränkel, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums. Eine Geschichte der griechischen Epik, Lyrik und Prosa bis zur Mitte des fünften Jahrhunderts, München 21962, 6 103. B.A. van Groningen, La composition littéraire archaïque grecque. Procédés et réalisations, Amsterdam 1958, 65. Sul proemio dei componimenti poetici in età arcaica e sull’invocazione alla Musa cf. Accame, L’invocazione alla Musa (come n. 112), 257 281 e 385 415; Id., L’ispirazione della Musa e gli albori della critica storica nell’età arcaica, in RFIC 92 (1964), 129 156.
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clusione. Tutto ciò era narrato in altri componimenti, andati presto o tardi perduti, che completavano il ciclo troiano. A conti fatti è una selezione la stessa Odissea, perché quello di Odisseo e dei suoi compagni è solo uno dei tanti racconti anticamente circolanti sull’avventuroso ritorno in patria degli eroi greci¹¹⁸. D’altra parte, è pur vero che i due poemi sono essi stessi lo straordinario, mirabile, risultato di un lungo processo di selezione di materiali poetici. Tutto ebbe inizio già prima dell’età arcaica con la recitazione e la trasmissione a memoria di singoli episodi relativi alla guerra di Troia o al ritorno degli eroi greci in patria¹¹⁹. Con l’introduzione della scrittura alfabetica questa materia fu gradualmente messa per iscritto. È lecito credere che si fissassero al principio singoli episodi (la lite tra due capi, il duello tra due combattenti e così via) o unità narrative. Così anche si comunicavano al pubblico, singolarmente, ma sempre a viva voce e per mezzo di un proemio. L’epica, pur essendo già messa per iscritto, visse in quei secoli essenzialmente nella recitazione degli aedi¹²⁰. Nel corso dell’età arcaica questo enorme “arcipelago poetico”, com’è stato anche chiamato dagli studiosi moderni, andò comunque incontro a un processo di revisione, selezione e geniale accorpamento. Si formarono così raccolte narrativamente unitarie di eccezionale ampiezza. L’Iliade e l’Odissea sono i frutti più illustri di tale dinamica. Nell’Iliade sono narrati in circa 15.700 versi vari episodi collocabili quasi alla fine della guerra decennale. Nell’Odissea sono raccontate in circa 12.000 versi le favolose peregrinazioni di Odisseo e il suo ritorno a Itaca, dove lo attende una dura riconquista della casa e del trono. Secondo gli studiosi, i due poemi presero la forma che conosciamo al più tardi nel 522 a. C., allorché fu ordinata dai Pisistratidi alle Panatenee la recitazione continuata dei versi di Omero¹²¹.
Cf. P. von der Mühll, Homers Ilias: Einleitung, in MH 52 (1995), 193 202, lavoro già pub blicato in Homers Werke. Übersetzt von Johann Heinrich Voss, herausg. von P. von der Mühll, 1. Bd., Homers Ilias, Basel 1943 (Birkhäuser Klassiker, 23), IX XXIII. Rossi, On the Written Redaction (come n. 111), 103, sottolinea: «In fact, even in the variety of scholarly positions one can hardly deny that both poems as we have them had an oral pre history and one or more written redactions as well». Sulla genesi dei poemi omerici e sul rapporto tra oralità e scrittura in età arcaica cf. L.E. Rossi, I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in AA. VV., Storia e civiltà dei Greci, 1/1, Milano 1978, 73 147; L.E. Rossi, L’epica greca fra oralità e scrittura, in Reges et proelia. Orizzonti e atteggiamenti dell’epica antica, Como 1994, 29 43. Per queste e altre osservazioni cf. von der Mühll, Homers Ilias: Einleitung (come n. 118), 193 202. Nel dialogo pseudoplatonico Hipparch. 228b, Socrate dice a un suo discepolo: Πολίτῃ μὲν ἐμῷ τε καὶ σῷ, Πεισιστράτου δὲ ὑεῖ τοῦ ἐκ Φιλαϊδῶν, Ἱππάρχῳ, ὃς τῶν Πεισιστράτου παίδων ἦν
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Conclusosi solo allora o già parecchio tempo prima, il processo di audace reimpiego e di riadattamento di materiali preesistenti coinvolse perfino i versi iniziali dell’uno e dell’altro poema, ovvero i proemi che conosciamo. La loro originaria funzione dovette essere molto più modesta dell’attuale. Erano stati inizialmente proemi “occasionali”, concepiti per la singola performance, non per introdurre opere così lunghe e complesse come quelle che abbiamo¹²².
πρεσβύτατος καὶ σοφώτατος, ὃς ἄλλα τε πολλὰ καὶ καλὰ ἔργα σοφίας ἀπεδείξατο, καὶ τὰ Ὁμήρου ἔπη πρῶτος ἐκόμισεν εἰς τὴν γῆν ταυτηνί, καὶ ἠνάγκασε τοὺς ῥαψῳδοὺς Παναθηναίοις ἐξ ὑπολήψεως ἐφεξῆς αὐτὰ διιέναι, ὥσπερ νῦν ἔτι οἵδε ποιοῦσιν (…). Come si vede, qui non c’è traccia di un nome specifico dei due poemi. Si parla genericamente di τὰ Ὁμήρου ἔπη, il che dà pure qualche problema a chi vuole interpretare la fonte in stretto riferimento all’Iliade e all’Odissea. Si tenga anche presente la testimonianza di Diogene Laerzio I, 57, il quale attribuisce la recitazione continuata delle rapsodie piuttosto all’iniziativa di Solone: Τά τε ῾Ομήρου ἐξ ὑποβολῆς γέγραφε ῥαψῳδεῖσθαι, οἷον ὅπου ὁ πρῶτος ἔληξεν, ἐκεῖθεν ἄρχεσθαι τὸν ἐχόμενον, «… dove il primo terminava, di lì il successivo cominciava». Peraltro, la notizia di Diogene presenta poco dopo una lacuna, che i moderni hanno cercato di sanare alla luce del passo appena citato di Hipparch. 228b, ma con scarsa cautela: cf. le dotte indicazioni offerte in apparato da T. Dorandi (ed. with introduction by), Diogenes Laertius. Lives of Eminent Philoso phers, Cambridge 2013 (Cambridge Classical Texts and Commentaries, 50), 100. Va ricordata inoltre la testimonianza di Cicerone (De or. 3, 137), secondo cui l’ordinamento in due corposi poemi dei canti omerici, ante confusi, sarebbe avvenuto ad Atene al tempo e per volontà di Pisistrato, dunque verso la fine dell’età arcaica. Si sono versati fiumi d’inchiostro su tale notizia. Molti studiosi moderni ritengono che i poemi fossero in realtà già costituiti e che ad Atene si fosse compiuta solo una redazione, caratterizzata da determinate aggiunte. Sul passo cicero niano cf. H. Flach, Peisistratos und seine litterarische Thätigkeit, Tübingen 1885, 3: lo studioso ritiene che Cicerone dipenda da erudizione pergamena. Sulla redazione pisistratea cf. R. Mer kelbach, Die pisistratische Redaktion der homerischen Gedichte, in RhM 95 (1952), 23 47 (ora in Id., Philologica. Ausgewählte Kleine Schriften, Stuttgart Leipzig 1997, 1 23). Così Rossi, On the Written Redaction (come n. 111), passim. Tuttavia, va detto che sul proemio dell’Odissea la questione è ancora più complessa di quanto sembri. L’identità dell’«uomo versatile», di cui la Dea è invitata a narrare, è espressa “in ritardo”, al v. 21. Si tratta di una scelta intenzionale. Tutta la storia del peregrinare di Odisseo è impostata sul “nome taciuto per un certo periodo di tempo”. Inizialmente Odisseo tace il suo nome al ciclope Poli femo: la rivelazione, avverrà, com’è noto, solo quando l’eroe si sentirà, a torto, al riparo da ogni possibile conseguenza. Odisseo tace per un certo tempo il suo nome anche ad Alcinoo. In effetti, solo in un momento inoltrato, cioè dopo aver ascoltato il canto di Demodoco alla corte del re, l’ospite piangente sarà “obbligato” a rivelare il suo nome. Odisseo cela la sua identità, ovvero il suo nome, persino a Penelope alla corte di Itaca: egli si rivelerà solo al momento di fare strage dei proci. Sull’argomento, importantissimo, qui non mi dilungo, poiché conto di trattarlo in un prossimo lavoro. Da quanto detto è chiaro però un fatto: il titolo del poema finisce per anticipare il nome dell’eroe greco al lettore: ciò che il poeta, a cui si deve quella mirabile e geniale costruzione del racconto, non avrebbe certamente mai desiderato.
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Ciò spiega la maniera singolare di presentare, a principio dell’Iliade, la μῆνις ᾿Aχιλῆος. Preso alla lettera, il proemio ci tratteggia non l’eroe che conosciamo, ma un potentissimo combattente talmente accecato d’odio verso un gruppo di nemici Achei, da farne spietata carneficina e lasciarli in pasto agli animali¹²³. Sic stantibus rebus, è chiaro che solo in un secondo momento tale proemio fu piegato a uno scopo diverso: introdurre il sordo rancore di un eroe che si ritira dalla battaglia e che dunque solo indirettamente diventa causa di dolore per gli Achei, suoi alleati, e alla fine persino per lui stesso¹²⁴. Anche il proemio dell’Odissea è alquanto singolare. Il nome dello straordinario eroe, di cui la Dea è invitata a raccontare, è taciuto nei versi d’esordio. Dal v. 5 al 9 si fissa l’attenzione sui suoi compagni. Colpevoli di un tremendo sacrilegio – il sacrificio dei buoi del Sole – perirono tutti, nonostante gli sforzi dell’“uomo versatile” per salvarli dalla morte. Il tema del reinsediamento dell’eroe in patria è lasciato così sullo sfondo, anzi non qui è neppure annunciato. Quel che poi si legge al v. 10, dove la Dea è invitata a raccontare liberamente, “da
Cf. R. Renehan, The Heldentod in Homer: One Heroic Ideal, in CPh 82 (1987), 99 116, qui spec. 115. Questo rovesciamento di significato è stato ovviamente compiuto da parte del poeta, a cui si deve il reimpiego dei versi, non senza accorgimenti e astuzie di vario genere. Il tema dell’ira, sebbene non più rivolta contro Agamennone, ma contro Ettore, è tra l’altro di nuovo la chiave di volta degli ultimi libri dell’Iliade. L’inadeguatezza del proemio dell’Iliade appare ancora più manifesta a chi considera il proemio delle Argonautiche di Apollonio Rodio o quello dell’Eneide di Virgilio e persino delle Dionisiache di Nonno di Panopoli: l’intento di abbracciare nel proemio i temi dell’intero poema è in tali casi evidente. Il confronto con le Argonautiche di Apollonio Rodio o l’Eneide è stato suggerito da Rossi, On the Written Redaction (come n. 111), 110. Per le Dionisiache va tenuto presente che l’opera, ripartita in 48 canti, è caratterizzata da due grandi proemi: l’uno al canto I, l’altro al XXV. L’autore deve avere lasciato circolare l’opera, una volta terminata, in due grossi tomi, l’uno contenente i primi 24 canti e l’altro i restanti. Solo in questa maniera si spiega il suo proposito di cominciare il canto XXV con una nuova lunga invocazione. Questo naturalmente non esclude la possibilità che più piccole porzioni di testo (ovvero modesti gruppi di canti) abbiano avuto, in una prima fase della storia della tradizione dell’opera, circolazione autonoma: questa possibilità è anzi confermata dalle importanti informazioni lib rarie presenti nel P. Berol. 10567, sulle quali cf. Castelli, I canti separati. Il Pap. Berol. 10567 e la più antica tradizione dei ΔΙΟΝΥΣΙΑΚΑ (come n. 30), 47 54. Rispetto a quanto precedentemente affermato, tendo tuttavia oggi ad escludere che Nonno abbia lasciato circolare i canti delle Dionisiache nella misura in cui li faceva pronti, anche se sappiamo che questa modalità di pubblicazione, “per tappe”, era praticata dagli autori antichi impegnati nella composizione di opere di notevole lunghezza divise in più libri (o canti). A questa rivalutazione delle forme di pubblicazione delle Dionisiache mi induce una riconsiderazione del proemio del I canto delle Dionisiache. Ma su tutto ciò conto di pronunciarmi in un prossimo contributo. Sulla questione dei proemi di Omero (e di Esiodo) si veda F. Montanari, Studi di filologia omerica antica, I, Pisa 1979, 43 56.
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dove essa vuole”, sfuma solo fino a un certo punto i contorni del tema immediatamente prima tratteggiato. Anche i versi proemiali dell’Odissea sono frutto di un riuso¹²⁵. Insomma, due proemi “occasionali” sono diventati, più tardi, grazie alla loro posizione incipitaria, i proemi delle due grandi opere che abbiamo. Ma la loro originaria funzione era stata relativamente modesta, se non addirittura di significato in buona parte diverso rispetto a quello attuale. Ciò vale in particolare nel caso dell’Iliade. L’incongruenza tra l’ira tratteggiata nei versi iniziali e quella che percorre il poema non dovette sfuggire agli stessi antichi, i quali, venuto il momento di dare un nome a questo capolavoro, si guardarono bene dal chiamarlo Μῆνις ᾿Aχιλῆος¹²⁶.
3 Il nome dei poemi omerici Con inesauribile entusiasmo gli studiosi indagano ancora oggi senza posa la questione della fissazione scritta dell’Iliade e dell’Odissea in epoca arcaica e quindi le forme della loro trasmissione dall’antichità al mondo bizantino. Tuttavia, solo a partire dall’età ellenistico-romana le ricerche possono progressivamente fondarsi sulla tradizione diretta, ossia sull’esame dei testimoni manoscritti – quelli più antichi, peraltro, pochi e molto frammentari – della stessa poesia omerica. La mancanza assoluta di esemplari per il periodo precedente e di evidenze sufficienti per lo stesso III–II secolo a. C. lasciano peraltro oggi molte questioni aperte. Per esempio, è incerta l’epoca in cui ciascuno dei due capolavori venne ripartito in 24 rapsodie e queste furono distinte nei manoscritti secondo le lettere dell’alfabeto ionico¹²⁷. Ad ogni modo, nel V secolo a. C. era già pienamente affermata la denominazione dei due poemi, della quale in buona sostanza ci serviamo anche oggi.
Un riuso ovviamente molto intelligente e calcolato, anzi geniale: cf. quanto osservo alla n. 122. In linea largamente contraria, W. Schmid, Geschichte der griechischen Literatur, Bd. 1/1, München 1929, 93, n. 5, si chiede quale titolo l’autore dell’Iliade abbia assegnato al poema; e sostiene che Μῆνις ᾿Aχιλῆος «wäre der passende gewesen». Si tratta di una valutazione erronea dal punto di vista storico letterario. Si noti che Wilhelm Schmid utilizza normalmente il termine Name come equivalente proprio di titolo ovvero di nome del testo segnato sugli esemplari del testo stesso , senza tenere conto dei distinguo già stabiliti dal Lohan in proposito. Sulla erronea prospettiva dello Schmid cf. Schmalzriedt, Zur Frühgeschichte der Buchtitel, 24, n. 3. Come vedremo, per alcuni studiosi tale suddivisione si sarebbe imposta soltanto in età ellenistica; per altri tutto va retrodatato al V secolo a. C. o alla fine dell’epoca arcaica.
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Infatti, Erodoto ricorda senza difficoltà nelle sue Storie ciò che Omero dice ἐν Ἰλιάδι (II, 116, 2), mentre più avanti, a conforto di una sua personale opinione, egli cita un verso di Omero contenuto ἐν Ὀδυσσηίῃ (IV, 29). I moderni discutono invece in merito alla genuinità di un’altra citazione del poema, contenuta nel libro II, 116, 4: per alcuni si tratta in verità solo di un passo interpolato. Nella documentazione letteraria superstite è la prima volta in assoluto che l’uno e l’altro poema sono chiamati in questo modo. I due capolavori sono poi menzionati nella stessa maniera da alcuni autori nel IV secolo a. C.: Senofonte, Platone e Aristotele¹²⁸. E in tal modo in epoca romana erano intitolati gli esemplari dei canti. Se stiamo alla documentazione superstite, vediamo infatti che i manoscritti presentano normalmente, in chiusura di ciascuna rapsodia, oltre alla lettera relativa al singolo canto (Α, Β, Γ, Δ e così via fino a Ω), pure il genitivo del titolo del poema di appartenenza: ΙΛΙΑΔΟΣ oppure ΟΔΥΣΣΕΙΑΣ¹²⁹. La testimonianza di Erodoto si colloca in una fase molto antica della storia del testo dei poemi omerici e pone quantomeno due problemi. Il primo riguarda la ragion d’essere del nome dell’Iliade (ma diremo qualcosa anche a proposito di quello dell’Odissea). Il secondo, sopra accennato, concerne la maniera in cui dobbiamo concretamente figurarci la circolazione delle due opere nel corso del V secolo a. C. e l’eventuale corredo paratestuale dei singoli canti, ovvero se già a quel tempo i manoscritti di tale poesia fossero forniti risp. del titolo al gen. ΙΛΙΑΔΟΣ o ΟΔΥΣΣΕΙΑΣ, preceduto o seguito dalla lettera dell’alfabeto corrispondente alla rapsodia di volta in volta tramandata (ammesso poi, ma non concesso, che ogni rotolo ne avesse una sola), oppure essi si presentassero contrassegnati in altro modo. Si tratta di due ben distinte questioni. La prima l’affronteremo subito; dell’altra ci occuperemo più avanti. Il puro e semplice nome dei due poemi omerici è stato studiato da più punti di vista, ma è quello dell’Iliade ad avere suscitato maggiori discussioni. Infatti,
Riferimenti all’uno o all’altro poema si trovano in vari scritti platonici, ad esempio Ione 538e, 539d, e in altri autori del IV secolo a. C.: cf. Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 5 6. Ma per maggiori dettagli in merito e per la spiegazione di “apparenti” eccezioni è fonda mentale Schironi, ΤΟ ΜΕΓΑ ΒΙΒΛΙΟΝ (come n. 30), passim. Sull’argomento vanno tenuti pure presenti: W. A. Johnson, Bookrolls and Scribes in Oxyrhynchus, Toronto 2004, 316, per l’inter pretazione del P.Lond.Lit. 30; A. Ciampi, Aspetti del rotolo in età romana, 65 78, in I papiri omerici. Atti del Convegno internazionale di Studi (Firenze 9 10 giugno 2011), a cura di G. Bastianini e A. Casanova, Firenze 2012, 29 63. Sulla trasmissione del testo omerico dal III secolo a. C. a circa il VI d. C. si veda, nello stesso volume curato da G. Bastianini e A. Casanova, il contributo di G. Cavallo, L. Del Corso: 1960 2011: mezzo secolo dopo gli Aperçus de pa léographie homérique di William Lameere, 29 63.
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non pochi studiosi lo considerano inappropriato o quantomeno generico¹³⁰. E qualcuno si è chiesto che senso abbia mai avuto chiamare l’opera in quel modo, visto che in essa sono narrati solo pochi giorni di una guerra decennale e la scena è dominata in molti punti dalla figura di Achille¹³¹. Di base, ἰλιάς non è che un aggettivo femminile. In quanto tale, nel V secolo a. C. se ne serve Erodoto, Hist. V, 94, 2, per parlare della terra dei Troiani. L’aggettivo è in tal caso usato accanto a χώρη. Altrove lo stesso Erodoto lo usa in forma sostantivata, cioè preceduto dal solo articolo, per indicare, ancora una volta, la regione di Ilio: cf. Hist. V, 122. Invece nel passo sopra ricordato del libro II, 116, 2, la parola non è associata né a un sostantivo né a un articolo. In effetti qui essa ha già valore di “nome proprio” del capolavoro omerico. È chiaro comunque che questa specializzazione presuppone una fase precedente, in cui la parola, ancora col semplice valore di aggettivo, doveva accompagnare il termine ποίησις. Torniamo così alla questione iniziale: se è vero che l’opera tratta solo di una cinquantina di giorni di un conflitto decennale, perché essa fu chiamata in maniera così omnicomprensiva? Per Martin L. West la risposta a tale domanda non deve essere cercata nei contenuti del poema. L’appellativo va invece spiegato in funzione del luogo di composizione dei versi, ovvero della terra della loro iniziale diffusione¹³².
Cf. van Groningen, La composition littéraire (come n. 117), 65. J. Latacz, Homers Ilias. Studien zu Dichter, Werk und Rezeption (Kleine Schriften II), herausg. von T. Greub K. Greub Frącz A. Schmitt, Berlin Boston 2014 (Beiträge zur Altertumskunde, 327), 16: «daß dieser Titel den Kernpunkt verfehlt (Thema ist ja nicht Ilios, sondern die mēnis Achilēos, der Groll des Achilleus, Il. 1.1), ist evident». Si veda ancora quanto afferma lo studioso a p. 302. Cf. Latacz, Homers Ilias (come n. 130), x: «Die Ilias ist anders als der später gegebene Titel suggeriert keine Geschichte von Ilios (= Troia) und auch keine Geschichte des troianischen Krieges, sondern eine Achilleïs, eine Darstellung des Handelns und Leidens dieser einen großen Figur mit ihren verhängnisvollen (das primäre Publikum der Dichtung mahnenden) Aus wirkungen auf die Gemeinschaft»: p. 16: «Der Titel wird also zu einem nicht mehr bestimmbaren Zeitpunkt vor Hdt., vermutlich von Rhapsoden zu Unterscheidungszwecken, gegeben worden sein; er griff das vordergründige Faktum auf, daß die Teilhandlung ‘Groll des Achilleus’, die den Gegenstand der Dichtung bildet, in eine Rahmenhandlung eingebettet ist, die vor Ilios spielt und in der es um Ilios geht». Sull’argomento si vedano ancora cf. Schmalzriedt, Zur Frühgeschichte der Buchtitel, 24, n. 3; Latacz, Homers Ilias (come n. 130), 302, n. 72. Si noti d’altra parte che soprattutto Latacz non si pone affatto il problema della differenza che corre tra nomi e titoli di opere letterarie e in linea generale prende per titolo questa o quella denominazione reperibile nelle fonti sul conto di un dato testo. Che si tratti di un errore d’impostazione, lo abbiamo già sopra rilevato in vario modo. Per comodità del lettore riporto qui il passo che a noi interessa del discorso di West: «The locality from which the Iliad began to be disseminated was, I would suggest, the Troad. The
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La spiegazione potrebbe a prima vista apparire convincente. In effetti, non va escluso che alcune opere letterarie, specialmente quelle risalenti al periodo più antico, abbiano potuto ricevere un “nome proprio” semplicemente in funzione dell’ambiente d’iniziale diffusione. A una soluzione del genere avevano già pensato T. Bergk, Griechische Literaturgeschichte (come n. 15), 220 – 221, e il Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 8, per altri componimenti epici di età arcaica. Tuttavia, non mi sembra che una spiegazione del genere possa essere invocata nel caso dell’Iliade. Nelle fonti in nostro possesso l’introduzione dei versi di Omero in Grecia è fatta derivare genericamente dalla Ionia o dall’isola di Creta. Non vi si trova mai espresso un preciso riferimento al distretto di Ilio o quantomeno né West ha addotto documentazione a favore di questa sua ipotesi né io ho trovato alcunché in grado di confermarla veramente¹³³. D’altra parte, lo studioso – sia detto ciò con la massima riconoscenza – non sembra avere messo a fuoco il problema nella maniera migliore. West si interroga sulle origini della denominazione dell’Iliade dal punto di vista di un lettore moderno, il quale, giustamente, si aspetta che i nomi assegnati ai testi distinguano nella misura del possibile un’opera dall’altra (cf. quanto riporto alla n. 132). Ma questa prospettiva è erronea, se riferita alla produzione degli antichi: nel mondo greco composizioni letterarie di uguale o simile argomento furono tranquillamente chiamate allo stesso modo. Se vogliamo trovare una spiegazione plausibile del nome del poema, non resta dunque che considerare le cose dal punto di vista opposto a quello di Martin West. In effetti, in età arcaica circolò materia epica su tutte le fasi della guerra di Troia, cioè sulle cause e sull’inizio del conflitto, sul suo lungo e tormentato svolgimento e infine sulla definitiva caduta della città. Tutto ciò gli antichi lo avranno inizialmente chiamato in maniera ovviamente generica e omnicomprensiva come poesia iliadica, ἰλιὰς ποίησις, senza avvertire l’esigenza
poem was named after Ilios not, surely, because its action takes place during the Trojan War, for that was true of a great deal of epic poetry in the seventh century, and the title should serve to distinguish this poem from others. The Iliad is not, after all, the story of the sack of Troy. More likely it was named after Ilios because it was perceived as coming from that district, just as an epic ascribed to a Cypriot poet (Stasinus or Hegesias) was known as the Cypria, another ascribed to Thestorides of Phocaea was called the Phocais, and a third attributed to Carcinus of Nau pactus was entitled τὰ Ναυπάκτια ἔπη. It is clear from his detailed knowledge of the landscape around Troy that the poet of the Iliad was well acquainted with the area and probably composed at least part of the poem there». Così M.L. West, Studies in the Text and Transmission of the Iliad, München Leipzig 2001, 6 7. Sulla provenienza della poesia omerica dalla Ionia o anche da Creta cf. Ael., Varia hist. XIII, 14 e D. Chrys., or. 2, 45.
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di fare particolari distinzioni tra materia relativa all’inizio o allo svolgimento o alla fine del conflitto: era infatti pur sempre l’aedo, al momento di iniziare la singola performance, a istruire puntualmente il pubblico sull’episodio di volta in volta prescelto. Le cose cambiarono, com’è lecito credere, con la definitiva costituzione del poema che abbiamo¹³⁴ e ancor più quando fu possibile proporlo all’ascolto del pubblico greco, cosa che avvenne al più tardi verso la fine del VI secolo a. C. Fu probabilmente allora che quella poesia, considerati i suoi intrinseci pregi, divenne, rispetto alla restante materia ancora in circolazione sulla guerra di Ilio, la iliadica per eccellenza. Così dunque da quel momento essa poté essere chiamata tout court col nome di Ἰλιάς. Insomma, un termine applicabile a ogni composizione poetica sulla guerra di Ilio è stato riferito, a conclusione di una vertiginosa selezione di materiali, esclusivamente all’opera che abbiamo, da un lato a motivo della eccellenza di quella stessa opera e dall’altro a dispetto del fatto che la storia in essa narrata copre solo una cinquantina di giorni dell’immane conflitto. Considerazioni di simile tenore potrebbero farsi mutatis mutandis persino per l’Odissea. È possibile che la materia trattata in una serie di canti tra loro ancora più o meno autonomi, ma tutti gravitanti attorno alla figura di Odisseo, venisse già da tempo chiamata nel suo insieme come ὀδύσσεια. Ma solo dopo la selezione e l’inquadramento di determinati episodi in un’unica cornice narrativa l’espressione fu applicata in senso stretto al poema che possediamo. In effetti, noi moderni siamo abituati all’idea che il nome di un’opera letteraria nasca dopo o durante ma non prima del testo a cui si riferisce, ma nel caso dell’Iliade e dell’Odissea le cose forse andarono diversamente. Il nome dei due poemi può aver avuto una “preistoria” e quindi un significato inizialmente ben più comprensivo, cioè utile a indicare tutta la produzione poetica relativa allo stesso tema. Solo con la costituzione e il repentino successo delle due grandi opere, l’uso delle due denominazioni si restrinse a determinata materia scritta, cioè fu usato in riferimento ai due capolavori che ancora oggi ammiriamo, e fu a un certo momento anche registrato (quando esattamente? affronteremo la questione nelle pagine seguenti) sui rotoli contenenti quella poesia¹³⁵.
Cioè quando alcuni dei tanti componimenti sulla guerra decennale furono inseriti in una sola cornice narrativa, che cominciava con l’ira di Achille per la sottrazione di una schiava e terminava col racconto dei giochi funebri per la morte di Patroclo. Su questo processo di selezione offre molti utili motivi di riflessione H. van Thiel, Iliaden und Ilias, Basel Stuttgart 1982, 615 672. Non ho difficoltà comunque a dire che la mia è anch’essa una ipotesi di lavoro: stante la scarsità di informazioni in nostro possesso, non possiamo che muoverci per supposizioni su tale terreno. Circa la genesi del titolo dei due poemi omerici e l’iniziativa dei Pisistratidi ad Atene è
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Ciò detto, torniamo a considerare più in generale le fonti e occupiamoci ancora una volta di Erodoto. Lo storico, la cui opera giunse a compimento intorno al 425 a. C., chiama i due poemi risp. Iliade e Odissea, senza avvertire il bisogno di spiegare al pubblico le denominazioni usate. Evidentemente esse erano ormai universalmente note. Lo stesso sarà stato a quel tempo per altri componimenti del ciclo troiano: i Canti Ciprî sono ricordati da Erodoto (II, 117, 4) appunto come Κύπρια ἔπεα¹³⁶. Al libro IV, 32 Erodoto dice inoltre che anche Omero s’era pronunciato sugli Iperborei «ἐν Ἐπιγόνοισι, ammesso che sia stato davvero Omero a comporre questi versi»¹³⁷. Neppure qui lo storico sente il bisogno di offrire ulteriori precisazioni. L’appellativo usato era evidentemente familiare al suo pubblico. Queste osservazioni non devono però indurre a ritenere che tutta la produzione epica di epoca arcaica avesse ormai un “nome proprio” da tutti conosciuto. A una certa cautela richiama un’altra testimonianza erodotea, questa volta relativa ad Aristea di Proconneso, un personaggio vissuto nel VII o forse nel
opportuno peraltro qui richiamare l’attenzione su quanto scrive Wendel, Die griechisch römische Buchbeschreibung (come n. 23), 29. Secondo lo studioso, per i due poemi si adottarono in quel momento designazioni (Bezeichnungen) già allora familiari alle cerchie dei rapsodi e al pub blico. Questo il tenore di Herod. II, 117, 4: Κατὰ ταῦτα δὲ τὰ ἔπεα καὶ τόδε τὸ χωρίον οὐκ ἥκιστα ἀλλὰ μάλιστα δηλοῖ ὅτι οὐκ Ὁμήρου τὰ Κύπρια ἔπεά ἐστι ἀλλ’ ἄλλου τινός· ἐν μὲν γὰρ τοῖσι Κυπρίοισι εἴρηται ὡς τριταῖος ἐκ Σπάρτης ᾿Aλέξανδρος ἀπίκετο ἐς τὸ Ἴλιον ἄγων Ἑλένην, εὐαέϊ τε πνεύματι χρησάμενος καὶ θαλάσσῃ λείῃ· ἐν δὲ Ἰλιάδι λέγει ὡς ἐπλάζετο ἄγων αὐτήν. Ὅμηρος μέν νυν καὶ τὰ Κύπρια ἔπεα χαιρέτω. Secondo Burkert, Die Griechen und der Orient (come n. 109), 45 46, il titolo Κύπρια «kann nur Hinweis auf die Insel Cypern sein, wie skeptisch man auch immer die Überlieferung über Stasinos aus Cypern als Autor dieses Gedichts beurteilen mag». Secondo R. Janko, Homer, Hesiod and the Hymns. Diachronic Development in the Epic Diction, Cambridge 1982, 176 e n. 163, il nome dei versi sarebbe da collegare al luogo della performance e dunque alla regione, in cui questa tradizione epica giunse a maturità, Cipro. Tuttavia, la do cumentazione a nostra disposizione non offre riscontri sicuri a favore di questa o altre ipotesi. Anzi, bisogna dire che il titolo del poema costituisce ancora oggi une énigme: così van Gron ingen, La composition littéraire (come n. 117), 65. Già per gli antichi la questione era di difficile soluzione. Essi cercarono di spiegarsi il titolo del poema in vari modi, per esempio pensando alla patria dell’autore: cf. quanto si legge in Athen. VIII, 334b c, XV, 682d c. Proclo (cf. Phot., Bibl. 319a34) rigettava l’idea che il titolo avesse a che vedere con la patria dell’autore e faceva valere un argomento di natura prosodica (la parola non andava accentata sulla proparossitona). Purtroppo, la notizia foziana s’interrompe a questo punto e non sappiamo quale alternativa l’erudito filosofo fornisse. Il brano di Herod. IV, 32 suona così nel punto che a noi interessa: ᾿Aλλ’ Ἡσιόδῳ μέν ἐστι περὶ Ὑπερβορέων εἰρημένα, ἔστι δὲ καὶ Ὁμήρῳ ἐν Ἐπιγόνοισι, εἰ δὴ τῷ ἐόντι γε Ὅμηρος ταῦτα τὰ ἔπεα ἐποίησε.
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VI secolo a. C.¹³⁸. Erodoto dice che il poeta «ricomparso sei anni dopo nell’isola di Proconneso compose quei versi che ora i Greci chiamano arimaspei», τὰ ἔπεα ταῦτα τὰ νῦν ὑπ’ Ἑλλήνων ᾿Aριμάσπεα καλέεται (IV, 14, 3). La denominazione era evidentemente di uso molto recente e l’indagatore di Alicarnasso non la riteneva nota a tutti¹³⁹. In casi di maggiore incertezza o addirittura in assenza di un nome del testo, gli antichi avrebbero invece volentieri fatto ricorso all’incipit del componimento letterario, per permetterne l’identificazione. Lo vedremo nel prossimo capitolo.
4 L’Iliade, l’Odissea e le lettere dell’alfabeto: le enciclopedie del sapere Come visto, Erodoto chiama pacificamente i due capolavori omerici l’uno Iliade e l’altro Odissea. Nonostante l’assoluta mancanza di evidenze manoscritte dell’epoca, abbiamo fondata ragione di credere che nessuna delle due opere costituisse a quel tempo una unità materiale. A causa dell’alto numero di versi, entrambe dovettero essere ripartite in numerosi volumina, così come fu poi per lungo tempo, fintanto almeno che i due capolavori furono trasmessi su rotolo di papiro¹⁴⁰.
Cf. J.D.P. Bolton, Aristeas of Proconnesus, Oxford 1962, 5. Sulla testimonianza erodotea cf. Schmalzriedt, Zur Frühgeschichte der Buchtitel, 24 25. Le caratteristiche di questa tipologia libraria sono ben note. Era una lunga superficie scrittoria facilmente avvolgibile, in quanto costituita da un certo numero di fogli papiracei la misura standard nell’antichità fu di 20 fogli, ma furono realizzati anche rotoli molto più con sistenti da questo punto di vista incollati l’uno di seguito all’altro in successione orizzontale. La scrittura era normalmente ospitata sul lato interno (= quello con le fibre perpendicolari alla linea di congiunzione tra i fogli) ed era disposta in colonne parallele al lato corto. Il lato esterno veniva invece usualmente lasciato in bianco. I Greci cominciarono a servirsi del rotolo papiraceo forse già nel VII secolo a. C. o al più tardi nel corso del secolo successivo, ereditandolo dall’Egitto faraonico; in effetti l’Egitto ebbe nell’antichità il monopolio della produzione della pianta di papiro: cf. N. Lewis, Papyrus in Classical Antiquity, Oxford 1974 (di questo lavoro è apparso un supplemento a Bruxelles nel 1990). Prima di allora i Greci avevano utilizzato altri supporti per la scrittura, meno pratici (per esempio tavolette di legno; sul loro uso in età arcaica e classica cf. P. Degni, Gli usi delle tavolette lignee e cerate nel mondo greco e romano, Messina 1998, Ricerca papirologica, 4, 13 27). Da quel momento il rotolo papiraceo divenne l’indiscusso contenitore della loro letteratura per circa un millennio. Sulla struttura del rotolo papiraceo cf. E.G. Turner, The Terms Recto and Verso. The Anatomy of the Papyrus Roll, in J. Bingen G. Nachtergael (éd. par), Actes du XVe Congrès International de Papyrologie (Bruxelles Louvain, 29 August 3 September 1977), Première partie, Bruxelles 1978 (traduzione italiana a cura di G. Menci G. Messeri Savorelli, con note di M. Manfredi: E.G. Turner, ‘Recto’ e ‘verso’. Anatomia del
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D’altra parte, non sappiamo quanti avessero concretamente accesso al testo completo delle due opere, sebbene in più rotoli, tra l’epoca dei Pisistratidi e quella di Erodoto. Probabilmente si trattò di pochi privilegiati, aderenti a circoli di potere e di cultura, oppure di semplici addetti ai lavori, cioè di cantori di professione non legati ad alcun particolare entourage ¹⁴¹. Ma forse neppure questi ultimi ebbero sempre tutto sottomano. Piuttosto si può pensare che alcuni di loro disponessero solo di alcune porzioni di testo, cioè di rotoli contenenti certi episodi o sequenze di episodi, quelli più richiesti dal pubblico ovviamente¹⁴². Ad ogni modo, la frammentazione fisica del testo dei due poemi, ovvero la sua ripartizione in più unità librarie, pone il problema di capire come si presentassero i rotoli della poesia omerica nel V secolo a. C., cioè se esibissero già allora sulle rispettive “soglie” la suddivisione alfabetica dei canti e il genitivo del nome del poema di appartenenza, come fu poi in epoca romana, oppure se fossero intestati in altro modo o cos’altro ancora. La questione è parecchio spinosa e ha ricevuto almeno due risposte ben diverse. Una parte degli studiosi – ne riferirò in linea di massima e con alcuni adattamenti per ragioni di sintesi¹⁴³ – ritiene che nella trasmissione della poesia rotolo di papiro, Firenze 1994). Più generale sulla storia del libro greco (nella tipologia del rotolo prima e del codice poi) cf.: E.G. Turner, Greek Papyri. An Introduction, Oxford 11968, 21980; mi sono servito dell’edizione italiana a cura di Massimo Manfredi: E.C. Turner, Papiri Greci, Roma 2002 (Quality Paperbacks, 47); E.C. Turner, The Typology of Early Codex, Philadelphia 1977; J. Irigoin, Le livre grec des origines à la Renaissance, Paris 2001. Di Eutidemo, un ricco discepolo di Socrate, si dice nei Memorabilia senofontei (IV, 2, 10) che possedeva tutto quanto Omero o almeno questa era la voce: καὶ γὰρ è Socrate a parlare al discepolo τὰ Ὁμήρου σέ φασιν ἔπη πάντα κεκτῆσθαι. Per come è riferita la notizia, si capisce che ancora parecchio tempo dopo l’epoca dei Pisistratidi il possesso di tutto quanto il corpus omerico doveva essere tutt’altro che alla portata di tutti. Sul possesso di libri ad Atene in età classica: Wendel, Bibliothek (come n. 70), col. 238. La performance si risolveva di norma in singole rapsodie, come detto. La recitazione in tegrale dei due poemi era stata in effetti sino ad allora e sarebbe rimasta anche in seguito una eccezione, degna perlopiù di feste di particolare importanza come le Panatenee; inoltre non era cosa realizzabile senza un gruppo ben organizzato di rapsodi, che dovevano accordarsi in anticipo sulle porzioni di testo da recitare. Una recitazione completa, d’altra parte, non aveva del resto ragion d’essere senza un pubblico in grado di presenziare a un così lungo spettacolo. Tutto ciò poteva avvenire soltanto nel corso di una festa, che è per definizione una eccezione. Su singole performances come prassi normale di presentazione del testo omerico cf. le osservazioni di West, Studies (come n. 132), 9. Al problema i moderni hanno dato più di una risposta, ma spesso senza pronunciarsi su tutti gli aspetti che lo riguardano. Delle posizioni assunte dalla critica dell’ultimo secolo riferirò pertanto in sintesi, ricordando solo laddove possibile alcune supposizioni particolarmente originali o interessanti. Come detto, in molte delle ricostruzioni avanzate sono spiegati del resto
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omerica – mi riferisco qui proprio all’Iliade e all’Odissea – in epoca antica si siano succeduti due diversi sistemi di titolatura dei rotoli. In una prima fase, che per alcuni abbraccerebbe almeno i sec. V e IV a. C., ciascun volume sarebbe stato fornito di una iscrizione libraria di carattere eminentemente informativo. Il tenore di tali inscriptiones ci sarebbe testimoniato da alcuni autori dello stesso periodo. Qui alcuni esempi. Erodoto (II, 116) ricorda la Διομήδους ἀριστεία. Tucidide invece quel che si dice ἐν τοῦ σκήπτρου τῇ παραδόσει, «nella consegna dello scettro», oppure ἐν νεῶν καταλόγῳ, «nel catalogo delle navi»: cf. risp. I, 9, 4 e I, 10, 4. Platone allude alla replica di Achille ad Aiace nelle λιταί, nelle «suppliche»: così in Crat. 428c e in Hipp. mi. 364e, se questo dialogo è davvero suo. Ancora Platone menziona le seguenti porzioni di poesia omerica: ᾿Αλκίνου ἀπόλογος: Res. pub. 614b; ἡ ἱπποδρομία ἡ ἐπὶ Πατρόκλῳ: si veda Ion 537a; τειχομαχία, ovvero la «battaglia presso le mura» attualmente nella dodicesima rapsodia dell’Iliade: Ion 539b. Aristotele situa ἐν ᾿Αλκίνου ἀπολόγῳ il pianto di Odisseo alla corte dei Feaci: cf. Poet. 1454b 30 – 1455b 2 e Rhet. 1417a13. Nell’attuale divisione del testo dell’Odissea, questa parte è oggi separata (si trova nel “libro” VIII) da quella relativa all’apologo vero e proprio. Per ulteriori rimandi alle fonti cf. Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 7. Secondo gli stessi studiosi, il sistema di titolatura dei canti – eminentemente informativo – testimoniato da tali rimandi sarebbe stato successivamente sostituito da quello a noi familiare, secondo cui ciascuna opera è ripartita in 24 rapsodie; e ciascuna rapsodia è fornita, in principio e/o in fine, di una lettera dell’alfabeto ionico; e accanto alla lettera è indicato (normalmente in chiusura della rapsodia, se questa almeno è tramandata come pezzo a sé stante) il titolo del poema di appartenenza, espresso al genitivo, ΙΛΙΑΔΟΣ oppure ΟΔΥΣΣΕΙΑΣ. In questo ordinamento ogni lettera svolge dunque la funzione di “nome proprio” di un ben preciso canto¹⁴⁴. Tale divisione del testo e tale conseguente corredo paratestuale sarebbero sorti in epoca ellenistica, al più tardi nel II a. C., ovvero per iniziativa dei grammatici alessandrini¹⁴⁵.
solo alcuni aspetti del problema, mentre altri rimangono trascurati o non rilevati. Si pensi, e. g., al pur ottimo Wendel, Die griechisch römische Buchbeschreibung (come n. 23), 29, il quale si pronuncia sul titolo dei poemi omerici, ma non sulla questione della suddivisione dei canti e sull’ordinamento alfabetico. L’indicazione compare generalmente completa in chiusura dei rotoli, mentre in testa al singolo componimento figura talvolta soltanto la lettera. Per informazioni più puntuali in merito cf. Schironi, ΤΟ ΜΕΓΑ ΒΙΒΛΙΟΝ (come n. 30). Sull’attività filologica degli Alessandrini sul testo omerico cf. F. Montanari, Alexandrian Homeric Philology. The Form of the Ekdosis and the Variae Lectiones, in Epea pteroenta. Beiträge
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A conforto di questa conclusione è stato spesso richiamato alla memoria un passo della pseudo-plutarchea Vita di Omero, dove si legge: Εἰσὶ δὲ αὐτοῦ ποιήσεις δύο, Ἰλιὰς καὶ Ὀδύσσεια, διῃρημένη ἑκατέρα εἰς τὸν ἀριθμὸν τῶν στοιχείων, οὐχ ὑπὸ αὐτοῦ τοῦ ποιητοῦ ἀλλ’ ὑπὸ τῶν γραμματικῶν τῶν περὶ ᾿Aρίσταρχον, «Sono due i suoi poemi, l’Iliade e l’Odissea, ciascuno ripartito secondo il numero delle lettere [dell’alfabeto], non dal poeta in persona, ma dai grammatici della cerchia di Aristarco» (2, 4)¹⁴⁶. Quella sin qui enunciata, sia pure in termini molto generali, è, come detto, la prima di almeno due ipotesi moderne riguardanti il sistema di titolatura e la storia stessa dei poemi omerici nell’antichità. I sostenitori dell’altra proposta squalificano invece del tutto, o quasi, il valore delle citazioni del V e IV secolo a. C., ritenendo le espressioni sopra viste nient’altro che mere indicazioni di contenuto. Inoltre, essi pensano che la suddivisione in 24 parti e quindi – il che sembra implicito nel loro discorso – il sistema di titolatura col nome del poema e con lettera relativa al singolo canto rimontino già all’epoca dei Pisistratidi ad Atene¹⁴⁷, cioè verso la fine del VI secolo a. C., quando si decise di offrire la recitazione completa e continuata dei versi omerici alle Panatenee. In particolare, per il già ricordato Martin West, la suddivisione di tipo alfabetico sarebbe stata adottata per esigenze di carattere pratico¹⁴⁸. La recitazione
zur Homerforschung. Festschrift für Wolfgang Kullmann zum 75. Geburtstag, eds. M. Reichel, A. Rengakos, Stuttgart 2002, 119 140; F. Montanari, Zenodotus, Aristarchus and the ekdosis of Homer, in Editing Texts Texte edieren, ed. by G. W. Most, Göttingen 1998, 1 21; F. Montanari, La filologia omerica antica e la storia del testo omerico, in Antike Literatur in neuer Deutung, Fest schrift für Joachim Latacz, herausg. von A. Bierl, A. Schmitt, A. Willi, München Leipzig 2004, 127 143. Sulla divisione del testo in epoca alessandrina si vedano: P. Mazon, Introduction à l’Iliade, Paris 1942, 139 140; O. Taplin, Homeric Soundings. The Shaping of the Iliad, Oxford 1992, 285 293; Cavallo Del Corso, 1960 2011: mezzo secolo dopo gli Aperçus (come n. 129), 37 38. In questa prospettiva cf. M.L. West, Book Division, in The Homer Encyclopedia, ed. by M. Finkelberg, Malden, MA Oxford 2011, 140 142. Da ricordare qui anche la posizione di S. West, The Ptolemaic Papyri of Homer, Köln Opladen 1967 (Papyrologica Coloniensia 3), 18 25: la studiosa assegna, a quanto pare, la suddivisione in 24 rapsodie a prima dell’epoca alessandrina, mentre potrebbe essere di Aristarco (II sec. a. C.) «the designation of the several books by the letters of the Ionic alphabet», una innovazione, in ogni caso, di minor peso (19). Il ragionamento non sembra qui stringente: se infatti si ammette già per l’epoca prealessandrina una suddivi sione in 24 canti, non si vede per quale ragione si deve poi rimandare al tempo di Aristarco l’uso delle lettere dell’alfabeto ionico per designare le rapsodie. Di diversa idea è M. Haslam, Homeric Papyri and Transmission of the Text, in A New Companion to Homer, ed. by I. Morris, B. Powell, Leiden New York Köln 1997, 58, per il quale la suddivisione dei canti è artificiosa. Sulla posizione di Haslam diremo in dettaglio a breve.
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integrale di opere di tale lunghezza doveva in effetti richiedere varie pause – la sola esecuzione di 600 versi avrà comportato circa un’ora di tempo – e non era pensabile senza un gruppo di rapsodi anticipatamente d’accordo sulle porzioni di testo da recitare in ordinata successione. Poiché erano quattro i giorni di festa alle Panatenee, lo studioso suppone una recitazione di 12 rapsodie al giorno. Così tutti i canti dell’uno e dell’altro poema potevano essere – meglio: sarebbero stati – comodamente offerti nel corso delle celebrazioni. L’intestazione alfabetica, che osserviamo nei papiri di età romana, sarebbe dunque sorta già in epoca così antica per bisogni pratici¹⁴⁹. Infine, altri studiosi ancora, senza prendere decisa posizione per la prima o la seconda delle due ipotesi appena esposte, si interrogano ulteriormente sui motivi dell’adozione della suddivisione secondo le lettere dell’alfabeto ionico. Questa intestazione dei canti sarebbe stata adottata non solo per garantire loro un ordinamento efficace, ma anche e soprattutto allo scopo di presentarli, dal punto di vista librario, come parti di due enciclopedie contenenti il sapere necessario a ogni greco: dall’Α all’Ω. La designazione alfabetica dei canti avrebbe insomma avuto due valori, uno pratico, l’altro simbolico¹⁵⁰. Secondo Michael Haslam, l’appeal del valore simbolico sarebbe anzi stato così forte da fare tollerare l’artificiosità della suddivisione in certi punti¹⁵¹. Come si vede, le ipotesi sulla suddivisione e sul conseguente assetto paratestuale dei canti privilegiano ora alcune ora altre informazioni in nostro possesso e divergono su punti notevoli, mentre per il resto esse non affrontano altre questioni importanti, lasciandole di conseguenza senza risposta¹⁵². In assenza di Cf. West, Book Division (come n. 147), 140 142. Sarà bene qui ricordare che la documen tazione diretta di epoca ellenistica nient’altro che brandelli di rotoli papiracei è talmente sparuta e frammentaria che non permette di trarre conclusioni di carattere generale sicure e precise sulla precedente suddivisione dei canti e sul loro possibile corredo paratestuale. Presento già qui la nota osservazione di Haslam, Homeric Papyri (come n. 148), 58, sul valore simbolico della suddivisione secondo le lettere dell’alfabeto ionico. Rilevo tuttavia che lo studioso è incline a collocare l’apparizione di siffatta suddivisione a ben prima del II secolo a. C. e anzi a prima dell’età alessandrina (58, n. 6): «The symbolism seems distinctly unalexandrian»; quest’ultima affermazione è però sprovvista di argomentazioni di sostegno, quindi non è pos sibile discuterla. Cf. Haslam, Homeric Papyri (come n. 148), 55 58. Su Omero come sapere fondamentale dei Greci: M. Hillgruber, Die pseudoplutarchische Schrift De Homero, I: Einleitung und Kommentar zu den Kapiteln 1 73, Stuttgart Leipzig 1994 (Beiträge zur Altertumskunde, 57), 5 34. Per es., chi suppone due sistemi di titolatura e sostiene per epoca più antica che ogni rotolo fosse contrassegnato in funzione del suo contenuto, non si pronuncia affatto sulla possibile presenza del titolo ΙΛΙΑΔΟΣ o ΟΔΥΣΣΕΙΑΣ. D’altra parte, chi sostiene l’affermazione del sistema alfabetico già al tempo dei Pisistratidi non affronta a sufficienza la questione della ripartizione
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riscontri sicuri, non intendo qui pronunciarmi in favore di alcuna delle suddette ricostruzioni. Preferisco invece esprimere qualche riflessione di carattere generale e alcune riserve su quanto sino a oggi detto. Qualsiasi ipotesi sulla suddivisione (e sul possibile paratesto) dell’Iliade e dell’Odissea nel V e IV secolo a. C. deve in effetti anzitutto tenere conto del fatto che trattiamo di una fase antichissima della storia del testo delle due opere e che sulla ripartizione in più rotoli di opere particolarmente lunghe per il detto periodo non siamo praticamente per nulla informati dalle fonti in nostro possesso. Inoltre, che l’iniziativa dei Pisistratidi abbia portato a un qualche ordinamento dei rotoli della poesia omerica per ragioni di carattere pratico, non implica necessariamente l’adozione del criterio alfabetico¹⁵³ (per giunta secondo il tipo ionico) e quindi la precoce divisione di ciascuno dei due poemi in 24 parti. Un evento del genere potrebbe comunque essersi compiuto in un secondo momento, al più tardi, come detto, intorno al II secolo a. C. a opera degli Alessandrini, in sostituzione di una ripartizione precedente, più o meno semplice, di cui potrebbe anche non essere rimasta alcuna traccia (sicura almeno). D’altra parte, non si vede per quale ragione, di fronte a una informazione così povera e di incerta valutazione, non si dovrebbe poi tenere conto della possibilità di una situazione mista per un’epoca così antica: la possibilità cioè che ad Atene, per ragioni pratiche, procedurali, sia stato precocemente adottato un qualche ordinamento, alfabetico o altrimenti caratterizzato, ma comunque concreto (= quindi registrato sui manoscritti) della poesia omerica, mentre la stessa poesia abbia continuato a circolare in altri ambienti, o tra semplici addetti ai lavori, “libera” dagli interventi paratestuali della cerchia pisistratea (ammesso che questi ci siano davvero stati), ovvero sia stata occasionalmente contrassegnata in altra maniera. In ogni caso, chi si interroga sui manoscritti omerici in un’epoca così antica, si muove tra le ombre e rischia di rimanere abbagliato persino da piccole luci. Pertanto, va mantenuta massima cautela anche di fronte alle citazioni di Erodoto, Tucidide, Platone, Aristotele. Spingersi a considerare le espressioni sopra ricordate come rappresentative di un altro (nonché precedente) sistema di titoli della poesia omerica è rischioso così come escludere tale eventualità in senso assoluto. Una cosa è la possibilità, altra la certezza.
testuale dei due poemi, che in alcuni punti pare effettivamente artificiale e poco idonea allo svolgimento di recitazioni continuate. Sarà bene a questo riguardo precisare che qui parliamo proprio di un sistema alfabetico per l’ordinamento dei rotoli e non del sistema alfabetico decimale usato generalmente dai Greci a fini di numerazione.
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Che il pubblico greco fosse venuto formandosi precocemente modi convenzionali per richiamare alla memoria questo o quell’episodio del ciclo epico, è naturale, specialmente nel caso di quelli più graditi e richiesti¹⁵⁴. Di ciò abbiamo un riflesso nell’arte attica antecedente o più o meno coeva al 520 a. C., nella quale gli episodi relativi alla morte di Patroclo e al ritorno di Achille in guerra sono assai bene rappresentati. In particolare, merita in proposito attenzione un vaso greco della prima metà del VI secolo a. C. (Atene, Museo archeologico nazionale, inv. num. 15499) contenente una raffigurazione dei giochi in onore di Patroclo. La scena è accompagnata dall’iscrizione ΠΑΤΡΟΚΛΟΥΣ ΑΘΛΑ. Si tratta, com’è evidente, di una epigrafe a carattere didascalico, chiaramente legata a un ben preciso episodio della poesia omerica, a quel tempo certo ben noto al pubblico grazie alle performances dei cantori¹⁵⁵. Una osservazione come questa non basta ad ogni modo a giustificare la posizione di chi vede nei passi sopra ricordati la traccia dell’esistenza di intestazioni librarie sui rotoli della poesia omerica tra V e IV sec. a. C.¹⁵⁶. Anche noi, oggi, parlando di episodi narrati nei libri biblici, ricordiamo per es. le dieci piaghe d’Egitto, la resurrezione di Lazzaro, il cieco guarito, la Samaritana al pozzo e così via, senza però che tutto questo implichi necessariamente la presenza di titoli per quegli episodi nelle nostre edizioni a stampa. Eppure ai titoli noi siamo abituati. A maggior ragione dobbiamo essere cauti di fronte alle testimonianze di V e IV sec. a. C. Non disponiamo di tradizione diretta dell’epoca per un controllo e le testimonianze letterarie a nostra disposizione non offrono dati sicuri sul carattere dei manoscritti omerici di quel periodo: cf. Allen, Homer. The Origins and the Transmission, Oxford 1924, 269. In età così antica è difficile pensare perfino a un assetto stabile della ripartizione dei nuclei dei due poemi in unità librarie. Piuttosto «il modo in cui questi nuclei narrativi potevano organizzarsi all’interno
Già in piena età arcaica, del resto, doveva essere ormai abituale chiamare qualche episodio in termini precisi e perspicui. Si pensi a questo riguardo alla fine dell’VIII libro dell’Odissea, dove il figlio di Laerte, davanti a tutti, chiede a Demodoco di cantare un ben preciso episodio: «la costruzione del cavallo di legno». Ma sarebbe appunto assurdo pensare che qui abbiamo a che vedere con la citazione del titolo di un manoscritto. Sulla rappresentazione di scene dell’Iliade nella più antica arte greca e in particolare nei vasi attici di età arcaica e classica cf. K. Friis Johansen, The Iliad in Early Greek Art, Copenhagen 1967. A favore di questa possibilità non può nemmeno essere addotta la testimonianza di Claudio Eliano, della quale ci siamo sopra occupati. Esemplare invece la cautela di Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 6 7, che definisce espressioni come «aristia di Diomede» o «apologo di Alcinoo» e altre simili semplicemente rhapsodiarum nomina. In mancanza di argomenti davvero solidi, egli non si espone al rischio di considerarle inscriptiones.
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del rotolo di papiro» doveva dipendere «dalla volontà dell’artigiano che allestiva il volumen o al più del suo committente», come rileva Lucio Del Corso in Cavallo, Del Corso, 1960 – 2011: mezzo secolo dopo gli Aperçus (come n. 129), 37¹⁵⁷. *** Il nome taciuto. Quale cautela occorra osservare sulla questione del corredo paratestuale dei canti dell’Iliade e dell’Odissea, lo hanno mostrato pure recenti ricerche sui manoscritti di età ellenistico-romana dei due poemi. Nel corso del XX secolo molti illustri studiosi, pur non potendo posare gli occhi sui papiri, non sembrano avere mai seriamente dubitato del fatto che il nome di Omero fosse indicato sui rotoli contenenti le rapsodie, secondo appunto la consueta (almeno da un certo periodo in poi) prassi libraria degli antichi, che prevedeva appunto di fornire i prodotti letterari della segnalazione del nome del rispettivo autore. I papiri omerici di età romana riportati alla luce nel corso dell’ultimo secolo sono invece a questo riguardo a dir poco singolari: mai è segnalato il nome del poeta accanto al titolo dell’uno o dell’altro dei “suoi” capolavori. Si tratta di un’assenza lucidamente, e pionieristicamente, intravista circa settant’anni fa da Carl Wendel nel corso delle sue ricerche sulla storia dei libri greci¹⁵⁸, ma poi
I dati fin qui discussi sull’intestazione dei canti omerici in epoca romana permettono d’altra parte di fare chiarezza su di un punto più volte osservato in passato, ma senza adeguato vaglio della documentazione in nostro possesso. Infatti, gli stessi canti omerici sono corredati, nei grandi esemplari completi di epoca bizantina, di più d’una inscriptio libraria. Ogni canto, cioè, oltre a essere intestato con una lettera dell’alfabeto ionico preceduta (o seguita) dal ge nitivo del poema di appartenenza, presenta almeno un’altra inscriptio, per giunta in verso dattilico, la quale fornisce informazioni sul contenuto del canto relativo, ciò che la semplice lettera dell’alfabeto ovviamente non offriva. Così è già per l’Iliade nel codice Ven. A (Bibl. Marciana, gr. 822, olim 454) e per l’Odissea in certi testimoni. Questo secondo livello di inscriptio libraria, stando ai papiri sino a oggi vagliati, non è né può dirsi di epoca antica (ellenistica o romana). Si tratta di un corredo paratestuale aggiunto solo successivamente, ormai in epoca bizantina. Sulla intestazione dei rotoli omerici in età romana scrive F. Schironi, ΤΟ ΜΕΓΑ ΒΙ ΒΛΙΟΝ (come n. 30), 21: «As far as our unambiguous evidence goes, we encounter no way of indicating the books of Homer other than by the letter of the Ionic alphabet that corresponds to the book number that is ending, normally preceded or, rarely, followed, by the genitive ΙΛΙΑΔΟΣ or ΟΔΥΣΣΕΙΑΣ». Sulle epigrafi metriche dei canti dei due poemi nella tradizione manoscritta ancora insuperato A. Ludwich, Homeri Iliadis et Odysseae periochae metricae, Regimonti 1887. Wendel, Die griechisch römische Buchbeschreibung (come n. 23), 27, ha ben colto, a questo riguardo, l’importanza di una testimonianza del retore Dione di Prusa, or. 53, 9 10, concernente l’intestazione dei canti di Omero e di altre opere antiche, come abbiamo già ricordato.
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messa in piena luce, a livello di evidenze manoscritte, dallo studio dei papiri omerici condotto da Francesca Schironi¹⁵⁹. Tale assenza impone a mio avviso di ripensare alla radice un aspetto di fondo della questione omerica nell’antichità. Infatti, la mancata segnalazione del nome di Omero non è dovuta, come si è tra l’altro subito pensato, al dibattito sorto a un certo momento tra gli antichi intorno alla figura e all’effettivo operato del poeta. Al contrario, quella mancanza riflette un vuoto originario: il nome di Omero doveva essere assente già a principio della tradizione manoscritta dei due poemi. Vari i motivi (di carattere storico-culturale, letterario e librario) di questo fenomeno, primo fra tutti il fatto che quella poesia era solennemente legata alla figura della Musa ispiratrice. I versi proemiali dell’uno e dell’altro poema attribuiscono, come visto, alla Dea l’intero racconto¹⁶⁰. La convinzione, ben radicata negli studi moderni, secondo la quale la tradizione manoscritta delle due opere fosse fornita, già nell’antichità, della segnalazione del nome di Omero nelle sedi librarie usualmente deputate a questo scopo, è stata insomma clamorosamente smentita. Il motivo principale di quella singolare assenza l’ho appena indicato. Nulla, specialmente in homericis, può essere dato per scontato.
Cf. in particolare, quanto rileva Schironi, ΤΟ ΜΕΓΑ ΒΙΒΛΙΟΝ (come n. 30), 21 22. Su tutto questo Castelli, Omero e il paratesto (come n. 13), 1 11.
II La lirica 1 Osservazioni generali Anche la lirica fu vincolata in età arcaica a una comunicazione anzitutto di carattere orale¹⁶¹. Si ricorreva ovviamente anche qui alla scrittura, ma in primo luogo per fissare il testo da cantare o recitare e quindi allo scopo di conservarlo. Si disponeva in tal modo del supporto essenziale per la performance, che si svolgeva a seconda dei casi ora di fronte a un uditorio composto da pochi intimi, ora invece dinanzi a un più largo pubblico di ascoltatori. Almeno in prima istanza, la registrazione scritta non ebbe dunque per obiettivo il soddisfacimento del gusto di singoli e appartati lettori – ben pochi saranno stati gli individui all’epoca adeguatamente alfabetizzati¹⁶². Così non risulta neppure, se stiamo alla documentazione di sicura interpretazione in nostro possesso, che liriche di età arcaica ricevessero un titolo dai loro autori¹⁶³. Ciò sia detto quantomeno sul conto di poeti del VII o VI secolo a. C. come Archiloco, Saffo, Solone, Tirteo, Focilide, Alceo¹⁶⁴. Vediamo a questo proposito come Erodoto ricorda alcune delle loro composizioni. Cominciamo dall’ultimo poeta appena menzionato. Parlando del conflitto tra Atene e Mitilene per il possesso del Sigeo, l’indagatore di Alicarnasso dice che Alceo, sconfitto in battaglia, aveva abbandonato le armi e s’era dato alla fuga: cf. lib. V, 95, 2– 7. Tutto ciò, sottolinea lo storico, il poeta in
Con lirica intendo qui in generale la produzione poetica melica, giambica ed elegiaca: in proposito cf. B. Gentili, Lirica greca arcaica e tardo arcaica, in F. Della Corte (a cura di), Introduzione allo studio della cultura classica, I, Milano 1972, 57 105; W. Rösler, Die frühe griechische Lyrik und ihre Interpretation. Versuch einer Situationsbeschreibung, in Poetica 16 (1984), 179 205. Sul rapporto tra poeta e pubblico in età arcaica cf. L.E. Rossi, Lirica arcaica e scoli simposiali (Alc. 249, 6 9 V. e carm. conv. 891 P.), in R. Pretagostini (ed.), Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di Bruno Gentili, Roma 1993, 237 246. Sull’assenza di titoli per queste creazioni letterarie: Schmalzriedt, Zur Frühgeschichte der Buchtitel, 23 31; Rösler, Dichter und Gruppe (come n. 110), 53 54, n. 65; 81 84. Cf. a riguardo W. Rösler, Alte und neue Mündlichkeit. Über kulturellen Wandel im antiken Griechenland und heute, in DAU 28/4 (1985), 4 26, qui in part. 14 15. Su tutto ciò cf. Rösler, Dichter und Gruppe (come n. 110), 45 91. Di Tirteo e Stesicoro abbiamo già avuto occasione di parlare nelle pagine precedenti. Di Solone, Focilide e di un autore ormai attivo tra VI e V secolo a. C., Teognide, parleremo nel corso di questo capitolo. https://doi.org/10.1515/9783110703740 007
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persona lo aveva raccontato in un carme – ἐν μέλεϊ – inviato a Mitilene a un compagno di nome Melanippo¹⁶⁵. Come si vede, la menzione erodotea del carme è quanto mai generica: si parla tout court di μέλος, il che non implica l’esistenza di un titolo del componimento. Altrettanto generico è il rimando di Erodoto (V, 113, 2) a un componimento di Solone, il quale aveva celebrato ἐν ἔπεσι Aristocipro re di Soli al di sopra di tutti i potenti del tempo¹⁶⁶. In maniera egualmente sommaria lo storico (II, 135, 6) ricorda il biasimo espresso ἐν μέλεϊ da Saffo nei riguardi del fratello Carasso¹⁶⁷. Se ci confrontiamo con Erodoto, dobbiamo usare parecchia prudenza di fronte al passo del lib. I, 12, 2, dove si allude a una poesia in trimetro giambico di Archiloco: τοῦ [di Gige] καὶ ᾿Aρχίλοχος ὁ Πάριος, κατὰ τὸν αὐτὸν χρόνον γενόμενος, ἐν ἰάμβῳ τριμέτρῳ ἐπεμνήσθη. Per alcuni studiosi queste parole non sono dello storico di Alicarnasso: si tratterebbe in verità di una banale interpolazione. È possibile che sia così. Ma se un giorno si riuscisse a dimostrare il contrario, il passo in questione andrebbe ad aggiungersi a quelli appena visti: infatti, il tenore del riferimento è generico e non se ne ricava alcuna prova dell’esistenza di un titolo per la poesia archilochea. Del resto, da altra fonte (Arist., Rhet. III, 1418b: cf. infra, n. 180), sappiamo con certezza di altri componimenti archilochei sprovvisti, com’è da credere, anche nell’avanzato IV secolo a. C. di un titolo. Dunque, tre illustri poeti lirici di epoca arcaica non avevano intitolato le loro singole composizioni, o non ci risulta che lo avessero fatto. Nemmeno risulta che
Cito qui per esteso Herod. V, 95, 1 2: Πολεμεόντων δέ σφεων παντοῖα καὶ ἄλλα ἐγένετο ἐν τῇσι μάχῃσι, ἐν δὲ δὴ καὶ ᾿Aλκαῖος ὁ ποιητὴς συμβολῆς γενομένης καὶ νικώντων ᾿Aθηναίων αὐτὸς μὲν φεύγων ἐκφεύγει, τὰ δέ οἱ ὅπλα ἴσχουσι ᾿Aθηναῖοι καί σφεα ἀνεκρέμασαν πρὸς τὸ ᾿Aθήναιον τὸ ἐν Σιγείῳ. Ταῦτα δὲ ᾿Aλκαῖος ἐν μέλεϊ ποιήσας ἐπιτιθεῖ ἐς Μυτιλήνην ἐξαγγελλόμενος τὸ ἑωυτοῦ πάθος Μελανίππῳ ἀνδρὶ ἑταίρῳ. Non discuto qui i problemi di cronologia posti da quanto dice Erodoto, V, 94 95. Sulla fortuna di Alceo nel V sec. a. C. W. Rösler, Die Alkaios Überlieferung im 6. und 5. Jahrhundert, in Actes du VIIe Congrès de la Fédération internationale des Associations d’Études classiques, vol. I, Budapest 1983, 187 190. Così Herod. V, 113, 2: Τετραμμένου δὲ τοῦ στρατοπέδου ἄλλοι τε ἔπεσον πολλοὶ καὶ δὴ καὶ Ὀνήσιλός τε ὁ Χέρσιος, ὅς περ τὴν Κυπρίων ἀπόστασιν ἔπρηξε, καὶ ὁ Σολίων βασιλεὺς ᾿Aρι στόκυπρος ὁ Φιλοκύπρου, Φιλοκύπρου δὲ τούτου τὸν Σόλων ὁ ᾿Aθηναῖος ἀπικόμενος ἐς Κύπρον ἐν ἔπεσι αἴνεσε τυράννων μάλιστα. Così Herod. II, 135, 6: Χάραξος δὲ ὡς λυσάμενος Ῥοδῶπιν ἀπενόστησε ἐς Μυτιλήνην, ἐν μέλεϊ Σαπφὼ πολλὰ κατεκερτόμησέ μιν. Sulla documentazione fin qui citata cf. Schmalzriedt, Zur Frühgeschichte der Buchtitel, 25 26, 31.
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le loro poesie avessero un titolo al tempo di Erodoto¹⁶⁸. Per quali ragioni? Una prima l’abbiamo sopra ricordata: sino ad allora aveva contato, anche per tali creazioni poetiche, essenzialmente il canto (o la recitazione) ad alta voce, di fronte a un più o meno ampio uditorio. Ma vi sono altri motivi in grado di spiegare tale assenza. Infatti, specialmente poesie liriche di pochi versi rimasero senza titolo anche in seguito, quando cioè la prassi di intitolare prodotti letterari di vario genere si era ormai diffusa tra i Greci. Tale perdurante mancanza fu spesso semplice conseguenza di un fatto squisitamente librario. Composizioni poetiche di breve lunghezza non erano tramandate singolarmente, ciascuna su di un proprio supporto, ma all’interno di un rotolo contenente molti altri testi più o meno dello stesso genere. Pertanto, era piuttosto la raccolta nel suo insieme a essere designata a un certo momento sul proprio contenitore. D’altra parte, nulla impediva che componimenti lirici di particolare notorietà, ampiezza o importanza ricevessero, ciascuno, un titolo¹⁶⁹. Quelli che ne erano sprovvisti, venivano invece di norma citati mediante l’incipit.
Lo stesso potrebbe dirsi per componimenti di altri autori ricordati da Platone e Aristotele: cf. Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 11 15. Sulle citazioni di versi di Archiloco da parte di Aristotele diremo a breve. Considereremo tra poco qualche caso interessante. Naturalmente, e al di là di semplici questioni di lunghezza dei testi, l’intitolazione o meno di prodotti lirici (e non soltanto di epoca strettamente arcaica) è stata poi spesso legata al particolare trattamento editoriale delle singole collezioni poetiche in età ellenistica. A quanto risulta, neppure in forma per così dire cano nizzata i componimenti di Saffo e Archiloco circolarono in età ellenistica o ellenistico romana forniti, singolarmente, di un titolo: cf. A. Dale, The Green papyrus of Sappho (P.GC inv. 105) and the order of poems in the Alexandrian edition, in ZPE 2015 (196), 17 30; sempre sull’ordinamento dei carmi di Saffo alla luce della documentazione papiracea è importante C. Neri, Il Brothers Poem e l’edizione alessandrina (in margine a P. Sapph. Obbink), in Eikasmos XXVI (2015), 53 76; su Archiloco cf. il recente contributo di E.E. Prodi, L’edizione antica delle opere di Archiloco, in Prometheus 45 (2019), 3 44. È noto invece che avevano un titolo i ditirambi di Bacchilide: la documentazione papiracea a nostra disposizione in proposito è notevole. Lo avevano pure quelli di Pindaro. Qui si pone un problema: a quale epoca risalgono questi titoli? Generalmente i moderni li considerano di età ellenistica: sarebbero sorti quando ad Alessandria d’Egitto sia le opere di Bacchilide che quelle di Pindaro furono oggetto delle cure dei grammatici della Bi blioteca dei Tolomei. Naturalmente tutto ciò è più che possibile. Ma mi chiedo se almeno nel caso di Pindaro il fenomeno d’intitolazione dei ditirambi non abbia avuto una storia precedente, che ci sfugge. In questa direzione mi sembra consideri in fin dei conti le cose già B. J. Schröder, Titel und Text (come n. 12), 164 168, alla quale rimando anche per varia informazione sulla documentazione papiracea a nostra disposizione. Pindaro e Bacchilide del resto furono attivi in un’epoca che ormai vede affacciarsi l’uso di titoli per testi drammatici, come diremo nel pros simo capitolo. Più “tradizionale” in proposito la posizione di Schmalzriedt, Zur Frühgeschichte der Buchtitel, 26 27, n. 10. Qui sarà bene anche considerare il passo di Erodoto, lib. I, 23, in cui si legge: (…) ᾿Aρίονα τὸν Μηθυμναῖον ἐπὶ δελφῖνος ἐξενειχθέντα ἐπὶ Ταίναρον, ἐόντα κιθαρῳδὸν
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II La lirica
2 Citare l’incipit «Conosci questo carme o te lo devo recitare per intero?»: così chiede Protagora a Socrate, dopo avere recitato a memoria i primi versi di un componimento di Simonide di Ceo¹⁷⁰, un poeta vissuto tra VI e V secolo a. C. Socrate risponde con bonario savoir-faire: «Non ce n’è bisogno, lo conosco infatti; anzi, ho avuto modo di occuparmi a lungo del carme». Così leggiamo in Platone, Prot. 339 a– b¹⁷¹. Dunque, la citazione dell’incipit è servita a focalizzare l’attenzione dei due interlocutori su di un testo ben preciso. Se volessimo delineare una storia dell’uso dell’incipit nella letteratura greca, dovremmo dire in linea generale che tale pratica risulta applicata non solo a componimenti lirici di epoca arcaica o anche più tarda, ma a testi di ogni genere, non solo in verso ma anche in prosa. A mia conoscenza, la più antica attestazione del ricorso all’incipit concerne comunque un componimento poetico; e la troviamo dove forse meno ce l’aspetteremmo: in una delle scene rappresentate su un vaso greco dei primi decenni del V secolo a. C., un manufatto attribuito al ceramista Duride (attivo quest’ultimo tra il 510 e il 465 a. C.)¹⁷². τῶν τότε ἐόντων οὐδενὸς δεύτερον, καὶ διθύραμβον πρῶτον ἀνθρώπων τῶν ἡμεῖς ἴδμεν ποιή σαντά τε καὶ ὀνομάσαντα καὶ διδάξαντα ἐν Κορίνθῳ. Su questo brano e in particolare sull’esatto significato di ὀνομάσαντα si è scritto in ogni direzione. In particolare, per alcuni, ὀνομάσαντα sarebbe da intendere in questo senso: che Arione (personaggio fiorito nel VII o al più tardi nel VI sec. a. C.) avrebbe dato Einzeltitel alla sua produzione ditirambica. Per un quadro della ricerca fino al 1970 cf. Schmalzriedt, Zur Frühgeschichte der Buchtitel, 24 25, con utili riferimenti bibliografici. In realtà, mediante ὀνομάσαντα Erodoto vuol dire semplicemente che Arione diede al genere il nome di ditirambo. Sulla questione cf. ora G. D’Alessio, “The Name of the Dithy ramb”: Diachronic and Diatopic Variations, in B. Kowalzig P. Wilson (ed. by), Dithyramb in context, Oxford 2013, 113 132, qui in part. 114 116, con opportuni richiami a passi paralleli. Non mi è stato possibile consultare l’opera di C. Del Grande, Ditirambografi. Testimonianze e fram menti, Napoli 1947. Cf. D.L. Page, Poetae Melici Graeci, Oxford 1962, fr. 542. Riporto qui quanto ci interessa di Prot. 339 a b: [Prot.] … καὶ δὴ καὶ νῦν ἔσται τὸ ἐρώτημα περὶ τοῦ αὐτοῦ μὲν περὶ οὗπερ ἐγώ τε καὶ σὺ νῦν διαλεγόμεθα, περὶ ἀρετῆς, μετενηνεγμένον δ’ εἰς ποίησιν· τοσοῦτον μόνον διοίσει. λέγει γάρ που Σιμωνίδης πρὸς Σκόπαν τὸν Κρέοντος ὑὸν τοῦ Θετταλοῦ ὅτι ἄνδρ’ ἀγαθὸν μὲν ἀλαθέως γενέσθαι χαλεπόν, / χερσίν τε καὶ ποσὶ καὶ νόῳ τετράγωνον, ἄνευ ψόγου / τετυγμένον. τοῦτο ἐπίστασαι τὸ ᾆσμα, ἢ πᾶν σοι διεξέλθω; (Socr.) Καὶ ἐγὼ εἶπον ὅτι Οὐδὲν δεῖ· ἐπίσταμαί τε γάρ, καὶ πάνυ μοι τυγχάνει μεμεληκὸς τοῦ ᾄσματος. Sul carme simonideo e in generale sul passo del Protagora cf. B. Manuwald (Übersetzung und Kommentar von), Platon. Protagoras, Göttingen 1999 (Platon, Werke VI, 2), 301 309. Il vaso è conservato attualmente a Berlino: Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Antikensammlung F 2285. Una riproduzione fotografica delle scene raffigurate sul vaso è in H. Blanck, Das Buch in der Antike, München 1992 (Beck’s Archäologische Bibliothek),
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Nella scena che ci interessa esaminare, un maestro esibisce tra le mani un rotolo aperto. Un allievo, che gli è di fronte, sembra invitato a recitarne il contenuto. Sul lato interno del rotolo è iscritto in direzione trasversa – in modo pertanto leggibile agli osservatori – quanto segue: Μοῖσά μοι ἀ〈μ〉φὶ Σκάμανδρον ἐύρ〈ρ〉οον ἄρχομαι ἀείνδειν (sic). Questo verso ha dato parecchio filo da torcere agli studiosi e non appare ancora oggi di sicura decifrazione. Alcuni – tra cui Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 38, n. 1 – lo ritengono una maldestra composizione del lapicida o di Duride stesso, che avrebbe accorpato espressioni incipitarie incompatibili tra loro (Μοῖσα μοι, «Musa a me», e ἄρχομαι ἀεί{ν}δειν, «inizierò a cantare»), mentre nel mezzo è indicato il tema del canto: ἀ〈μ〉φὶ Σκάμανδρον ἐύρ〈ρ〉οον, «intorno al fluente Scamandro». Altri studiosi ne difendono invece la genuinità e la correttezza e ammettono l’esistenza di un poema epico di tale contenuto¹⁷³. Senza ridiscutere qui tutti gli aspetti del problema, ci interessa ad ogni modo notare un fatto: l’iscrizione appena discussa testimonia l’uso – già allora evidentemente diffuso – di ricorrere all’incipit, per indicare con precisione un componimento letterario. Se passiamo a considerare le testimonianze letterarie in nostro possesso, del ricorso all’incipit abbiamo molti esempi in Aristofane. In Eq., vv. 529 – 530, il poeta ricorda al modo seguente due odi di Cratino¹⁷⁴: ᾆσαι δ’ οὐκ ἦν ἐν συμποσίῳ πλὴν· “Δωροῖ συκοπέδιλε” καὶ “τέκτονες εὐπαλάμων ὕμνων”· οὕτως ἤνθησεν ἐκεῖνος. E nei simposi non si cantava altro che “Dorò dai calzari di… fico” e “artefici di ben orditi inni”, tanto grande era la sua [di Cratino] notorietà¹⁷⁵.
24. Su Duride si veda D. Buitron Oliver, Douris: A Master Painter of Athenian Red Figure Vases, Mainz 1995 (per la riproduzione del vaso cf. tav. 58, n. 88). Per l’edizione del verso citato cf. D. Campbell (ed.), Greek Lyric, vol. V: The New School of Poetry and Anonymous Songs and Hymns (Loeb 144), Cambridge (Mass.) 1993, 358 (e). Sui pro blemi testuali dell’esametro cf. J. Gaunt, The Poet and the Painter: A Hymn to Zeus on a Cup by the Brygos Painter, in R. Scodel (a cura di), Between Orality and Literacy: Communication and Adaptation in Antiquity (Mnemosyne Supplements, 367 Orality and Literacy in the Ancient Word, 10), Leiden 2014, 108. Da notare che le parole ἄρχομαι ἀείδειν compaiono nella stessa posizione metrica anche nel primo verso di alcuni inni omerici (a Demetra e ad Asclepio). Ovviamente, il ricorso all’incipit era particolarmente comodo per componimenti poetici di ma teria epica, in quanto era tradizione segnalare già al primo verso la materia del canto. Cf. PCG IV, fr. 69 e 70. Traduzione di G. Mastromarco, Aristofane. Commedie, vol. 1, Torino 1983, 255 257, cui rimando per il commento dei versi.
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II La lirica
In Nub., vv. 963 – 968, Aristofane richiama invece alla memoria un inno a Pallade e un altro componimento, che è forse del lirico Cidia¹⁷⁶: πρῶτον μὲν ἔδει παιδὸς φωνὴν γρύξαντος μηδέν’ ἀκοῦσαι· εἶτα βαδίζειν ἐν ταῖσιν ὁδοῖς εὐτάκτως εἰς κιθαριστοῦ τοὺς κωμήτας γυμνοὺς ἁθρόους, κεἰ κριμνώδη κατανείφοι. εἶτ’ αὖ προμαθεῖν ᾆσμ’ ἐδίδασκεν, τὼ μηρὼ μὴ ξυνέχοντας, ἢ “Παλλάδα περσέπολιν δεινάν” ἢ “τηλέπορόν τι βόαμα”, ἐντειναμένους τὴν ἁρμονίαν, ἣν οἱ πατέρες παρέδωκαν. In primo luogo, un ragazzo non lo si doveva sentire neppure bisbigliare; e poi i ragazzi del quartiere dovevano andare dal maestro di musica, camminando per le strade tutti insieme, in ordine, nudi: anche se nevicava a larghe falde. E lui insegnava loro a cantare senza accavallare le cosce o «Pallade, terribile distruttrice di città», oppure «grido lungisonante», intonando sulla cetra la melodia tramandata dai padri¹⁷⁷.
Ciascuno degli incipit forniti svolge, come si vede, le veci del nome proprio del rispettivo testo. Aristofane sapeva del resto maneggiare questa tecnica di citazione con particolare abilità. Lo si nota in particolare in Ach., v. 1093, dove egli rievoca, rovesciandone però il fine celebrativo, l’inizio di un antico scolio in onore del tirannicida Armodio¹⁷⁸. Passando ad altra fonte, è notevole quel passo dei Memorabili, in cui Senofonte¹⁷⁹ richiama mediante l’incipit un “pezzo” poetico famoso: il canto delle Sirene nell’Odissea. Il verso, anch’esso a suo modo “iniziale”, citato da Senofonte corrisponde a Od. 12.184.
Sull’attribuzione del secondo componimento a un poeta di questo nome cf. Mastromarco, Aristofane (come n. 175), 403 404, di cui accolgo la traduzione. Su queste citazioni richiama l’attenzione Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 37 38. Si veda pure il commento di Mastromarco, Aristofane (come n. 175), 404, n. 120. Ancora Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 38, si chiede se non si debba scorgere l’incipit di un componimento poetico anche in Ach., v. 862. La traduzione qui offerta, salvo una lieve modifica, è di Mastromarco, Aristofane (come n. 175), 403 e 405. In Ach., vv. 1089 1093, un messaggero espone a Diceopoli tutto quello che è ormai pronto per il banchetto: «focaccine, torte di formaggio, di sesamo, di miele». Ci sono anche ὀρχη στρίδες, τὰ φίλταθ’ Ἁρμοδίου, καλαί: «danzatrici la passione di Armodio belle»: (v. 1093). L’inciso τὰ φίλταθ’ Ἁρμοδίου coincide, salvo minime variazioni, con le parole iniziali di un antico scolio in onore del tirannicida: Aristofane rievoca quindi componimento rovesciandone tuttavia il fine celebrativo. Si sapeva infatti che Armodio era stato erómenos di Aristogitone. Sul verso si vedano, oltre a Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 37, almeno M.G. Bonanno, Note ai comici greci, in MusCrit 4 (1969), 21 22, e Mastromarco, Aristofane (come n. 175), 79. Cf. Mem. 2.6.11.
2 Citare l’incipit
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Anche Aristotele ricorre all’incipit per indicare alcuni componimenti, sprovvisti evidentemente di un titolo: così egli ricorda due giambi archilochei¹⁸⁰ e una elegia soloniana¹⁸¹. Gli antichi sfruttarono la citazione delle prime parole, per costituire interi elenchi relativi a componimenti poetici sprovvisti di un titolo. A questo riguardo è notevole il P.Vindob. G 40611, della fine del III secolo a. C., contenente un elenco di almeno 226 inizi di epigrammi¹⁸². Egualmente degno di nota è il P.Oxy. LIV 3724, da ascrivere alla fine del I secolo d. C., che conserva una lunga lista – ben sette colonne – di incipit di componimenti epigrammatici¹⁸³. Si tenga inoltre a mente il P.Mich. inv. 3498 (+ 3250b + 3250c + 3250a), databile, quanto al recto, alla seconda metà del II secolo a. C. Questo manoscritto presenta un elenco di almeno 75 incipit di componimenti di svariati autori, tra cui Alceo, Anacreonte e forse anche Saffo; nella lista figura pure il verso iniziale di un canto corale e di alcune parodoi del tragediografo Euripide¹⁸⁴. Si
Arist., Rhet. III, 1418b si legge (riporto qui il testo in traduzione a eccezione dei punti in cui sono citati gli incipit): «Quanto al carattere, poiché dire alcune cose di sé stessi comporta o invidia o un parlare a lungo o una disputa e, se a carico di un altro, diffamazione o rozzezza, è necessario far parlare un’altra persona, come fa Isocrate nel Filippo e nello Scambio e Archiloco quando deve biasimare qualcuno: infatti, fa prendere la parola al padre sul conto della figlia nel giambo χρημάτων δ’ ἄελπτον οὐθέν ἐστιν οὐδ’ ἀπώμοτον (fr. 122 West), oppure al falegname Carone nel giambo il cui inizio è οὔ μοι τὰ Γύγεω». Sul passo ha richiamato l’attenzione Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 38. La traduzione qui offerta è di M. Zanatta (a cura di), Aristotele. Retorica e Poetica, Torino 2004 (Classici della Filosofia), 373 374. Cf. Arist., Ath. Pol. 5, 2: … ποιήσαντι (scil.: Solone) τὴν ἐλεγείαν ἧς ἐστὶν ἀρχή· γιγνώσκω, καί μοι φρενὸς ἔνδοθεν ἄλγεα κεῖται, / πρεσβυτάτην ἐσορῶν γαῖαν Ἰαονίας / κλινομένην, «avendo composto l’elegia il cui inizio è: So bene, e nel mio cuore c’è dolore / vedendo la più antica terra della Ionia / assassinata». Mi servo della elegante traduzione di G. Lozza, Aristotele. La Costi tuzione degli Ateniesi, Milano 2000, 31. Sul P.Vindob. G 40611 cf. la recente edizione di P.J. Parsons H. Maehler F. Maltomini, The Vienna Epigrams Papyrus (G 40611), Berlin München Boston 2015 (Corpus Papyrorum Rai neri, XXXIII). Sul P.Oxy. LIV 3724 si è scritto parecchio dopo l’edizione di P.J. Parsons, The Oxyrhynchus Papyri LIV, London 1987, 65 84. Cf. M. Gigante, Filodemo tra poesia e prosa (a proposito di P.Oxy. 3724), in SIFC 7 (1989), 129 151; D. Sider, Looking for Philodemus in P. Oxy. 54.3724, in ZPE 76 (1989), 229 236; Id., The Epigrams of Philodemos, New York Oxford 1997, 203 225; A. Cameron, The Greek Anthology from Meleager to Planudes, Oxford 1993, 379 387; L. Argentieri, Epigramma e libro. Morfologia delle raccolte epigrammatiche premeleagree, in ZPE 121 (1998), 13; E. Magnelli, Noterelle sul P.Oxy. 3724 (Filodemo?), in ZPE 128 (1999), 63 64; E. Puglia, Consi derazioni bibliologiche e testuali sulla raccolta di epigrammi di POxy 3724, in PapLup 9 (2000), 357 380. Cf. R. Merkelbach, Verzeichnis von Gedichtanfängen, in ZPE 12 (1973), 86 e ora soprattutto il contributo di C. Borges in C. Borges M. C. Sampson, New Literary Papyri from the Michigan
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ricordi infine il P.Oxy. XXI 2294, del II secolo d. C., che presenta dieci incipit di altrettante poesie di Saffo¹⁸⁵. La citazione dell’incipit poteva essere sfruttata, come detto, anche per indicare testi in prosa¹⁸⁶.
3 Incipit e titoli: un excursus La documentazione sin qui presentata mostra con quale facilità intellettuali operanti tra fine V e IV secolo a. C. facessero ricorso alle primissime parole di un testo, per richiamarlo alla memoria del loro pubblico senza possibilità di equivoco; e come in epoca ellenistico-romana la prassi fosse sfruttata, per produrre addirittura lunghi elenchi di incipit di svariati componimenti in verso¹⁸⁷. Del resto, quand’anche fornito di un titolo, un componimento letterario poteva essere ricordato contemporaneamente mediante incipit e titolo per ragioni concrete, legate ovviamente alla sua precisa identificazione. Una splendida testimonianza in questo senso è data da Plutarco (Sol. 8, 1– 2). Studiamo il caso con attenzione¹⁸⁸. Il biografo si concentra su di una elegia Collection. Mythographic Lyric and a Catalogue of Poetic First Lines, Ann Arbor 2012; H. Bernsdorff, Notes on P.Mich. inv. 3498 + 3250b recto, 3250a and 3250c recto, in APF 60/1 (2014), 3 11; C. J. Geißler, Anmerkungen zu einer Liste mit lyrischen und tragischen Gedi chtanfängen (P.Mich. inv. 3498 + 3250 b recto, 3250 c recto und 3250 a recto), in APF 60/1 (2014), 12 24. Cf. E. Puglia, P. Oxy. 2294 e la tradizione delle odi di Saffo, in ZPE 166 (2008), 1 8. Per altre informazioni su liste di incipit rimando alle informazioni raccolte nel volume di Parsons Maehler Maltomini, The Vienna Epigrams (come n. 182). Per un approfondito censimento sul titolo di testi lirici nella tradizione papiracea cf. ora gli studi di E.E. Prodi, Titles and Markers of Poem end in the Papyri of Greek Choral Lyric, in T. Derda A. Łajtar J. Urbanik (ed. by), Proceedings of the XXVII International Congress of Papyrology, Warsaw 2016, 1137 1184; Id., P.Oxy. 2174 fr. 5: an Odyssey for Hipponax?, in APF 63/1 (2017), 2 10; Id., Poem titles in Simonides, Pindar, and Bacchylides, in B.G.F. Currie I.C. Rutherford (ed. by.), The Reception of Greek Lyric Poetry 600BC 400AD: Transmission, Canonization and Paratext. Studies in Archaic and Clas sical Greek Song, vol. 5 (Mnemosyne Supplements, 430), Leiden 2019, 461 515. Per un primo orientamento in merito cf. Wendel, Die griechisch römische Buchbeschreibung (come n. 23), 31 34 e 110. Per ulteriore informazione sul tema cf. Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 37 43; Wendel, Die griechisch römische Buchbeschreibung (come n. 23), 31 34, 109 111; L. Holtz, Titre et incipit, in Titres et articulations du texte (come n. 32), 469 89. Sull’elegia soloniana riportata da Plutarco cf. B. Gentili C. Catenacci, Polinnia. Poesia greca arcaica, Messina Firenze 32007, 33 34; C. Mülke, Solons politische Elegien und Iamben (fr. 1 13; 32 37 West). Einleitung, Text, Übersetzung, Kommentar, Leipzig 2002 (Beiträge zur Altertumskunde, 177), 40 41, 73 82.
3 Incipit e titoli: un excursus
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soloniana relativa alla riconquista di Salamina. La poesia, secondo quanto è lecito ritenere, era entrata in circolazione senza titolo. E infatti nel IV secolo a. C. Demostene l’aveva sì ricordata¹⁸⁹, ma in termini oltremodo generici¹⁹⁰. Nella notizia plutarchea si legge invece che Solone, volendo spronare i suoi concittadini alla riconquista dell’isola perduta, declamò τὴν ἐλεγείαν ἧς ἐστιν ἀρχή αὐτὸς κῆρυξ ἦλθον ἀφ’ ἱμερτῆς Σαλαμῖνος / κόσμον ἐπέων ᾠδὴν ἀντ’ ἀγορῆς θέμενος, «l’elegia il cui inizio è Io stesso araldo giunsi dall’amata Salamina / recando una ordinata composizione di versi invece che un semplice discorso». Plutarco aggiunge: τοῦτο τὸ ποίημα Σαλαμὶς ἐπιγέγραπται καὶ στίχων ἑκατόν ἐστι, χαριέντως πάνυ πεποιημένον, «questa poesia è stata intitolata Salamina ed è di cento versi, assai ben fatta»¹⁹¹. Come si vede, il biografo, prima di indicare un titolo, fornisce ai suoi lettori l’incipit del componimento. Inoltre, egli riferisce il numero complessivo di versi dello stesso. Per quale motivo quest’accumulo di informazioni? Probabilmente Plutarco non era certo che quel titolo figurasse in tutti gli esemplari allora in circolazione. Da qui la necessità di citare i primi versi del testo in discussione e di fornire anche una indicazione sticometrica. In effetti, dicendo che l’elegia «è stata intitolata Σαλαμίς», Plutarco sembra conscio che quel titolo non fosse d’autore; altri esemplari della stessa poesia potevano quindi presentarsi sotto altro titolo, oppure non averne alcuno. Se passiamo a considerare le informazioni fornite da un altro intellettuale di epoca romano-imperiale, Ateneo di Naucrati, vediamo che questo straordinario conoscitore della letteratura antica si mostra ben informato sulla circolazione di esemplari di uno stesso scritto sotto titoli diversi. In casi del genere egli non esita
Cf. Demostene, De falsa leg. 252. L’identificazione dell’elegia soloniana citata da Demostene con quella ricordata da Plu tarco è già in Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 12. Sulla citazione di altri versi soloniani nella stessa orazione demostenica cf. G.O. Rowe, A Problem of Quotation in Demosthenes’ Em bassy Speech, in TAPhA 103 (1972), 441 449. Riporto il passo di Plut., Sol. 8, 1 2, che a noi interessa: (…) ἐλεγεῖα δὲ κρύφα συνθεὶς καὶ μελετήσας ὥστε λέγειν ἀπὸ στόματος, ἐξεπήδησεν εἰς τὴν ἀγορὰν ἄφνω, πιλίδιον περιθέμενος. ὄχλου δὲ πολλοῦ συνδραμόντος, ἀναβὰς ἐπὶ τὸν τοῦ κήρυκος λίθον, ἐν ᾠδῇ διεξῆλθε τὴν ἐλε γείαν ἧς ἐστιν ἀρχή· αὐτὸς κῆρυξ ἦλθον ἀφ’ ἱμερτῆς Σαλαμῖνος, κόσμον ἐπέων ᾠδὴν ἀντ’ ἀγορῆς θέμενος. τοῦτο τὸ ποίημα Σαλαμὶς ἐπιγέγραπται καὶ στίχων ἑκατόν ἐστι, χαριέντως πάνυ πεποιημένον. Si noti che il participio πεποιημένον è corretto da vari editori in πεποιημένον in ων: per maggiori ragguagli cf. Mülke, Solons politische Elegien (come n. 188), 40, apparato. Sul passo cf. Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 39 40.
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a elencare tutti i titoli a lui noti. Per permettere ai lettori la sicura identificazione del prodotto letterario, egli aggiunge comunque la citazione dell’incipit ¹⁹². Consideriamo a questo proposito Athen. I, 7 [I 4e], 1– 11: ὅτι ᾿Αρχέστρατος ὁ Συρακούσιος ἢ Γελῷος ἐν τῇ ὡς Χρύσιππος ἐπιγράφει Γαστρονομίᾳ, ὡς δὲ Λυγκεὺς καὶ Καλλίμαχος ῾Ηδυπαθείᾳ, ὡς δὲ Κλέαρχος Δειπνολογίᾳ, ὡς δ’ ἄλλοι ᾿Οψοποιίᾳ ἐπικὸν δὲ τὸ ποίημα, οὗ ἡ ἀρχή· ἱστορίης ἐπίδειγμα ποιούμενος ῾Ελλάδι πάσῃ φησί· “πρὸς δὲ μιᾷ πάντας δειπνεῖν ἁβρόδαιτι τραπέζῃ. ἔστωσαν δ’ ἢ τρεῖς ἢ τέσσαρες οἱ ξυνάπαντες ἢ τῶν πέντε γε μὴ πλείους· ἤδη γὰρ ἂν εἴη μισθοφόρων ἁρπαξιβίων σκηνὴ στρατιωτῶν”. Archestrato di Siracusa o di Gela nella Gastronomia, come la intitola Crisippo, o Vita di delizie, come invece [la intitolano] Linceo e Callimaco, o Scienza dei banchetti, come invece [la intitola/la chiama] Clearco, o ancora Arte culinaria, come altri [la intitolano] poema epico il cui inizio è: Offrendo a tutta la Grecia un esempio di ricerca ¹⁹³ dice: “A una sola succulenta tavola pranzino tutti. Siano o tre o quattro complessivamente o comunque non più di cinque: già così sarebbe infatti una tenda di soldati mercenari dediti alla rapina”¹⁹⁴.
Quello che Ateneo ha così affrontato, è un problema con cui gli antichi furono costretti a fare ripetutamente i conti. Per svariate ragioni, esemplari di uno stesso testo potevano presentarsi sotto titoli diversi. Da qui la necessità di citare le prime parole dello scritto di volta in volta in discussione. Sull’argomento torneremo a riflettere nella terza parte del presente lavoro, dove parleremo dei discorsi di Demostene. Qui basti ricordare che il problema di esemplari di uno stesso testo intitolati in modi diversi si pose anche per i trattati di Plotino. Il suo discepolo Porfirio ne prese presto atto. Venuto il momento di curare l’edizione
Sulla tecnica di citazione del titolo in Ateneo si veda W.G. Arnott (a Commentary by), Alexis. The Fragments, Cambridge 1996 (Cambridge Classical Texts and Commentaries, 31), 228 229, n. 1; C. Jacob, Athenaeus the Librarian, in D. Braun J. Wilkins (ed. by), Athenaeus and His Word. Reading Greek Culture in the Roman Empire, Exeter 2000, 85 111 (qui in particolare 91 96). L’incipit dell’opera vuole tra l’altro essere una parodia degli initia di opere intellettual mente ben più impegnate. Sugli incipit di opere culinarie con fini parodici di opere epiche cf. Athen. IV, 13 (134d e). Un quinto titolo è citato dallo stesso Athen., VII, 278a b. Sull’opera di Archestrato e le notizie di Ateneo cf. R. Blum, Kallimachos und die Literaturverzeichnung bei den Griechen. Un tersuchungen zur Geschichte der Bibliographie, Frankfurt am Main 1977 (Archiv für Geschichte des Buchwesens, 18), 219, n. 189. Più in generale sulla prassi di citare titolo e incipit: Jacob, Athenaeus the Librarian (come n. 192), 92 e n. 52; 96 97 e relative note.
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“ufficiale” delle opere del maestro, egli procedette dunque in questo modo: stilò un elenco, in cui figuravano per ciascun trattato l’incipit e il «titolo migliore»¹⁹⁵. Plutarco e Ateneo ci hanno portato a riflettere sul caso di esemplari di uno stesso scritto intitolati tuttavia diversamente e sulla prassi coltivata dai letterati di riferire, in sede di citazione, incipit e titolo dell’opera di volta in volta considerata. Ma l’incipit servì agli antichi anche a “combattere” i problemi derivanti dall’omonimia dei prodotti letterari e dunque fu ritenuto una informazione importante per esigenze biblioteconomiche¹⁹⁶. Insomma, il ricorso alle prime parole di un testo era vantaggioso per parecchi motivi. Questo uso s’era a un certo punto così radicato in contesti eruditi che Luciano di Samosata non esita a farne la parodia in uno dei suoi racconti, laddove egli immagina di visitare nell’oltretomba nientemeno che Omero. Dalle mani del poeta egli riceve in dono un nuovo poema, avente per incipit un esametro consacrato agli eroi ormai trapassati nell’aldilà¹⁹⁷. Nella tarda antichità, sant’Agostino considerava normale indicare contemporaneamente titolo e incipit dei suoi scritti nelle Retractationes. Un paio di secoli prima, Ateneo, di cui s’è già detto, aveva ricordato componimenti di Alceo, Pindaro, Simonide di Amorgo e così via, menzionandone direttamente le prime parole¹⁹⁸.
Per ulteriori approfondimenti ed esemplificazioni cf. Nachmanson, Der griechische Buch titel (come n. 16), passim; Wendel, Die griechisch römische Buchbeschreibung (come n. 23), 30 33 e 109 110. Blum, Kallimachos und die Literaturverzeichnung (come n. 194), coll. 216 221; T. Dorandi, Nell’officina dei classici. Come lavoravano gli autori antichi, Roma 2007 (Frecce, 45), passim. Scrive opportunamente Jacob, Athenaeus the Librarian (come n. 192), 93: «Among the many heterogeneous texts that were collected in the Alexadrian library, one could imagine that some of them had lost their titles, that different copies of the same work had different titles, that there were homonymous books. It was the librarians’ and literary critics’ task to identify books and to organize in a systematic way the denominations of the texts written by the same author, that is his bibliography». Cf. Luc., Verae Hist. II, 23 24: Νεκρακαδημίαν τὸν τόπον προσαγορεύσας. συλλαβόντες οὖν τοὺς νενικημένους καὶ δήσαντες ἀπέπεμψαν ἔτι μᾶλλον κολασθησομένους. ἔγραψεν δὲ καὶ ταύτην τὴν μάχην Ὅμηρος καὶ ἀπιόντι μοι ἔδωκεν τὰ βιβλία κομίζειν τοῖς παρ’ ἡμῖν ἀνθρώποις· ἀλλ’ ὕστερον καὶ ταῦτα μετὰ τῶν ἄλλων ἀπωλέσαμεν. ἦν δὲ ἡ ἀρχὴ τοῦ ποιήματος αὕτη, Νῦν δέ μοι ἔννεπε, Μοῦσα, μάχην νεκύων ἡρώων. Il racconto di Luciano del suo incontro con Omero nell’isola dei Beati presenta, d’altra parte, molti altri aspetti interessanti, sui quali cf. H. G. Nesselrath, Homerphilologie auf der Insel der Seligen: Lukian, VH II 20, in M. Reichel A. Rengakos (herausg. von), Epea Pteroenta. Beiträge zur Homerforschung. Festschrift für Wolfgang Kullmann zum 75. Geburtstag, Stuttgart 2002, 151 162. Il dato è rilevato da Jacob, Athenaeus the Librarian (come n. 192), 97 e relative note.
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4 «Anche questo di Focilide»: l’individuo come autore del testo letterario Il tema del ricorso all’incipit come modo di indicare componimenti letterari di vario genere ci ha impegnato in due digressioni relativamente lunghe. È tempo ora di riprendere il discorso lasciato sopra interrotto sui lirici arcaici. Come si è visto, la documentazione di sicura interpretazione non permette di dire che tali poeti fornissero di un titolo le loro singole creazioni letterarie. Neppure gli aedi lo avevano fatto per le loro. Ma se abbandoniamo rigide classificazioni di genere e consideriamo la produzione poetica arcaica nel suo insieme, notiamo che tra gli autori del periodo viene lentamente maturando una ben precisa esigenza: rivendicare la paternità delle rispettive composizioni. Questo fatto merita attenzione. In effetti, questo speciale bisogno ne pose immediatamente un altro: quello di dare un nome alle stesse composizioni, ovvero di indicarle in qualche maniera. Un corretto inquadramento di una tematica così delicata e importante richiede di allargare ancora di più l’ambito della nostra esplorazione e di ripartire dagli albori stessi dell’epoca arcaica in Grecia e dalla lenta ma significativa propagazione della conoscenza della scrittura alfabetica, mediante la quale, tra l’altro, singoli individui avevano cominciato a iscrivere col proprio nome oggetti di vario tipo (peraltro d’uso quotidiano), al fine di affermarne la proprietà. Qual era la forma di queste “iscrizioni di proprietà”? A stare alla documentazione superstite, esse in qualche caso coincidono col nome, espresso al genitivo, del possessore dell’oggetto; più spesso però si presentano almeno nella forma di un binomio, che fornisce, accanto al nome del possessore sempre espresso al genitivo, anche un pronome dimostrativo o meglio una denominazione, in caso nominativo, dell’oggetto del quale si rivendica appunto l’appartenenza. In casi del genere l’iscrizione di proprietà ha dunque una struttura di questo tipo: “del tale questo”¹⁹⁹. Veniamo così alla letteratura. Come visto, materia epica fissata per iscritto aveva inizialmente circolato solo tra le mani di pochi “addetti ai lavori”. E non risulta che gli aedi avvertissero, almeno nel primissimo periodo, l’esigenza di rivendicare la paternità di quanto essi stessi andavano componendo. D’altra parte, è noto che in età arcaica composizioni letterarie di ogni tipo erano per-
Rimando una più approfondita trattazione del fenomeno delle iscrizioni di proprietà in età arcaica e i dovuti riferimenti bibliografici al capitolo su Erodoto, nella III parte del presente lavoro.
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cepite più come qualcosa da recitare, e quindi da fare ascoltare, che come oggetti da designare. Di conseguenza, non sorprende constatare che certi poeti, nella misura in cui cominciarono a sentire la necessità di presentarsi in quanto autori delle loro creazioni, non esitarono a farlo direttamente all’interno del testo e specialmente in sede proemiale. Così l’uditorio sarebbe stato puntualmente e adeguatamente informato sul nome dell’autore dei versi all’inizio della loro recitazione. I più antichi proemi in nostro possesso derivano dall’epica, ma l’aedo omerico riconosce alla divinità la rilevazione dei fatti²⁰⁰. Così, esordendo, egli dichiara: «Canta o dea l’ira del Pelide Achille» (Iliade A, 1). Per l’antico seguace delle Muse le dee sono presenti dappertutto e conoscono ogni cosa, «mentre noi umani ascoltiamo solo quel che si dice e nulla sappiamo» (Iliade Β, 485 – 486)²⁰¹. L’inizio dell’Odissea mostra invece già una prima emersione della personalità del poeta-cantore. Adesso l’aedo si presenta come punto d’incontro e di comunicazione tra la dea e l’uditorio: Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον (…), «Racconta a me, o Musa, l’uomo versatile…» (α, 1). Qui comunque non v’è ancora una dichiarazione di paternità da parte del poeta. È pur sempre la dea a rivelare i fatti e il cantore è “solo” un mediatore²⁰². Il VII secolo a. C. vede gli artisti del verso varcare finalmente la soglia dell’anonimato. A principio della Teogonia, Esiodo rovescia le parti in gioco. Non sono più le Muse a parlare al poeta, ma il poeta a cominciare il canto con la celebrazione delle Dee: Μουσάων Ἑλικωνιάδων ἀρχώμεθ’ ἀείδειν (v. 1). E poco dopo, ma sempre nella parte proemiale, egli dichiara il suo nome dicendo che le Muse (…) ποθ’ Ἡσίοδον καλὴν ἐδίδαξαν ἀοιδήν, «insegnarono una volta a Esiodo il bel canto» (v. 22). Il poeta si fa qui conoscere per nome e afferma di fatto la sua autonomia d’artista. D’altra parte, egli riconosce volentieri il suo discepolato.
Essenziale in merito Accame, L’invocazione alla Musa (come n. 112), 261 265. Sui proemi della poesia epica di età arcaica cf. anche A. Lenz, Das Proöm des frühen griechischen Epos. Ein Beitrag zum poetischen Selbstverständnis, Bonn 1980. Sul graduale emergere dell’ “io” dell’au tore nei più antichi testi greci e sugli sviluppi del fenomeno nella letteratura antica si vedano ancora gli studi di Speyer, Religiöse Pseudepigraphie und literarische Fälschung im Altertum (come n. 114), 88 155 e Speyer, Göttliche und menschliche Verfasserschaft im Altertum (come n. 114), 105 124. Sul passo cf. ancora Accame, L’invocazione alla Musa (come n. 112), 259. L’emersione della personalità del poeta, la presa di coscienza del suo ruolo attivo nella creazione letteraria e la presa di distanza dalla verità rivelata dalla Musa sono temi assai bene indagati negli studi passati: oltre al noto saggio di W. Kranz, “Sphragis”. Ichform und Namen siegel als Eingangs und Schlußmotiv antiker Dichtung, in RhM 104 (1961), 3 46 e 97 124, si vedano ancora gli studi sopra citati di Accame (come n. 112 e 117).
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II La lirica
In forme ancora più nette, la rivendicazione della creazione letteraria è espressa, sempre a principio del componimento poetico, da un poeta di epoca successiva, Focilide di Mileto. Di lui Dione Crisostomo (40 – 120 d. C.) ebbe a dire: καὶ γάρ ἐστιν οὐ τῶν μακράν τινα καὶ συνεχῆ ποίησιν εἰρόντων (…), ἀλλὰ κατὰ δύο καὶ τρία ἔπη αὐτῷ καὶ ἀρχὴν ἡ ποίησις καὶ πέρας λαμβάνει, ὥστε καὶ προστίθησι τὸ ὄνομα αὐτοῦ καθ’ ἕκαστον διανόημα, ἅτε σπουδαῖον καὶ πολλοῦ ἄξιον ἡγούμενος, οὐχ ὥσπερ Ὅμηρος οὐδαμοῦ τῆς ποιήσεως ὠνόμασεν αὑτόν (or. 36, 11 12). E infatti non è di quelli che fanno poesia lunga e continua (…), ma in due o tre versi la sua poesia trova principio e fine. E aggiunge perfino il suo nome a ciascun pensiero, convinto che si tratti di cosa importante e di gran valore: non come Omero, che in nessun punto della sua poesia disse il suo nome.
Così Dione sul conto dell’antico poeta. Ma com’erano fatte concretamente le poesie di Focilide? Dione stesso ne offre un esempio eloquente, il seguente: Καὶ τόδε Φωκυλίδου· πόλις ἐν σκοπέλῳ κατὰ κόσμον / οἰκεῦσα σμικρὴ κρέσσων Νίνου ἀφραινούσης. Anche questo di Focilide: una città, che vive ordinatamente su una rocca, / pur piccola (è) preferibile alla folle Ninive.
La documentazione in nostro possesso permette di addurre altri esempi del genere, per esempio il seguente (è l’elegia 1 Gentili–Prato; fonte: Strab. X, 5, 12): Καὶ τόδε Φωκυλίδου· Λέριοι κακοί· οὐχ ὃ μέν, ὃς δ’ οὔ· / πάντες, πλὴν Προκλέους· καὶ Προκλέης Λέριος. Anche questo di Focilide: mala gente i Lerii; non uno sì, l’altro no: / tutti, eccetto Procleo; e pure Procleo è di Lero.
Le parole di Dione e gli esempi riportati bastano a dare un’idea dell’essenziale: molti dei pur brevissimi componimenti focilidei contengono la formula, metricamente incorporata al primo verso, καὶ τόδε Φωκυλίδεω (ma è attestata pure la variante Φωκυλίδoυ, e così in effetti sono tramandati i due testi appena citati): «anche questo di Focilide». Focilide soleva dunque dichiarare il proprio nome all’interno delle sue poesie o almeno così è in quelle che abbiamo appena ricordato. La sua dichiarazione, vale la pena sottolinearlo, è ancora parte integrante della composizione. Essa è al primo verso ed è in posizione forte, ovvero in apertura del breve componimento poetico, ma è espressa essenzialmente mediante un binomio, costituito da un pronome al nominativo, τόδε, che segnala la creazione letteraria, e dal genitivus auctoris. Così Focilide afferma la paternità di
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quanto composto²⁰³. Il precedente καὶ avverte che il poeta era stato autore anche di altri versi. Focalizziamo a questo punto l’attenzione sui due elementi davvero fondamentali della dichiarazione di paternità: τόδε Φωκυλίδεω. Dal punto di vista delle sue parti costitutive, tale rivendicazione corrisponde a quella di tante iscrizioni di proprietà dell’epoca, mediante le quali si soleva rivendicare il possesso di oggetti della vita quotidiana. Lo schema è lo stesso: abbiamo un nominativo per l’oggetto rivendicato e un genitivo del nome del possesso. Ma se continuiamo a tenere fisso lo sguardo sulle componenti essenziali della dichiarazione, e se prescindiamo ora dal loro ordine di successione, la dichiarazione coincide, e di fatto anticipa, la struttura che avrebbero avuto le epigrafi librarie – ovviamente quelle più semplici – sui rotoli di papiro e poi sui codici, dove il genitivo del nome dell’autore affianca la denominazione, espressa appunto nei casi più semplici al nominativo, del prodotto letterario, come vedremo. Il fatto è estremamente notevole. Tuttavia, sarebbe eccessivo interpretare la formula focilidea già come una inscriptio d’autore. Il binomio rimane pur sempre nel perimetro del testo, ne è parte integrante. L’epigrafe libraria è invece, per definizione, separata dal testo stesso. La differenza è dunque, da tale punto di vista, assai netta. D’altra parte, a noi interessa avere qui rilevato la modalità con cui il poeta è giunto a esprimere la paternità delle sue pur brevissime poesie: una “formula” che nella sua struttura ormai prefigura, senza esserlo in tutto e per tutto, l’iscrizione libraria. *** Dunque, in Focilide il bisogno di indicare il singolo componimento si manifesta quale spontaneo riflesso di una esigenza maggiore: quella di esprimere la paternità dello stesso. Il caso appena esaminato è degno di nota anche per un’altra ragione. Il poeta ha sentito il bisogno di garantire il suo nome al singolo componimento, anche se quest’ultimo è di appena qualche verso. Il fatto è significativo²⁰⁴: poesie così brevi potevano in effetti circolare tranquillamente su rotolo all’in-
L’uso del dimostrativo per indicare la composizione letteraria non deve sorprendere: lo stesso avveniva nelle iscrizioni di possesso di età arcaica per indicare l’oggetto di cui si recla mava la proprietà. Sul problema è stata attirata l’attenzione da M.L. West, Phocylides, in JHS 98 (1978), 164 167. Lo studioso ha avanzato alcune possibilità di spiegazione, ma la documentazione a nostra disposizione è così scarna da imporre cautela.
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II La lirica
terno di una collezione di componimenti più o meno omogenei dello stesso autore. In casi del genere bastava dunque assicurare piuttosto alla raccolta nel suo insieme una dichiarazione di paternità. È in quest’ordine di idee che sembra avere considerato le cose Teognide di Megara (VI–V secolo a. C.)²⁰⁵. La critica moderna ammette che è difficile districarsi fino in fondo nella storia della tradizione della sua raccolta poetica²⁰⁶. I primi versi dell’attuale I libro meritano ad ogni modo attenzione. Dopo aver ricordato varie figure divine, Teognide rivendica la paternità della raccolta dei carmi in modo esplicito, sicché chiunque potrà dire: … Θεύγνιδός ἐστιν ἔπη / τοῦ Μεγαρέως· «di Teognide sono versi, del Megarese» (vv. 22– 23)²⁰⁷. Si sono versati fiumi d’inchiostro sul significato di queste parole e ancor più sul corretto modo di interpretare la precedente dichiarazione del poeta di volere apporre un “sigillo” ai propri versi (v. 19)²⁰⁸. Ad ogni modo, se lasciamo da parte la presenza del verbo ἐστιν in questo caso, possiamo dire che ai vv. 22– 23 la rivendicazione di paternità dell’intero lavoro è espressa, da parte di Teognide, secondo uno schema preciso: lo stesso che abbiamo già osservato in Focilide. In Teognide, tuttavia, compare dapprima il nome dell’autore al genitivo; poi è menzionata al nominativo la raccolta, mediante un termine assolutamente generico: si parla semplicemente di «versi», ἔπη.
Non entro qui nella discussione sulla patria del poeta, se cioè fosse Megara Nisea oppure Megara Iblea, come voleva K.J. Beloch, Theognis’ Vaterstadt, in Fleckeisens Jahrbücher für classische Philologie 34 (1888), 729 733. Sulla questione teognidea nella ricerca moderna si veda: H. Selle, Theognis und die The ognidea, Berlin New York 2008 (Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte, 95), 1 16. Più in generale si noti che nel libro di Selle sono sparse numerose e importanti infor mazioni sulla storia della trasmissione della raccolta e sul corredo paratestuale in particolare per quel che riguarda il titolo che l’ha caratterizzata. Non approfondisco qui la questione relativa alle parole successive del v. 23. Per alcuni studiosi esse fanno parte di questa dichiarazione, mentre per altri vanno tenute separate. Sulla questione del sigillo teognideo e sulle ragioni della rivendicazione di paternità dei versi mi limito qui ad alcune indicazioni: W. Rösler, Trasmissione culturale tra oralità e scrittura, in S. Settis (ed.), I Greci. Storia, cultura, arte, società, 2: Una storia greca, II: Definizione, Torino 1997, 707 723. Ancora sul “sigillo” teognideo cf. G. Cerri, Il significato di “sphregìs” in Teognide e la salvaguardia dell’autenticità testuale nel mondo antico, in QS 33 (1991), 21 40; P. Giannini, Il proemio, il sigillo e il libro di Teognide. Alcune osservazioni, in R. Pretagostini (a cura di), Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica, vol. I, Roma 1993, 377 391; L. Edmunds, The seal of Theognis (vv. 19 30), in L. Edmunds R. Wallace (ed. by), Poet, Public and Performance: Essays in Ancient Greek Literature and Literary History, Baltimore London 1997, 29 48; L. Pratt, The Seal of Theognis, Writing, and Oral Poetry, in AJPh 116 (1995), 171 184; e ora F. Condello, Osservazioni sul ’sigillo’ di Teognide, in ITFC 9 (2009 2010), 65 152, con ampia discussione delle posizioni della critica più e meno recente.
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Focilide e Teognide dichiarano il proprio nome l’uno all’inizio del singolo componimento, l’altro in apertura della raccolta. Entrambi sfruttano lo stesso schema, ma rimangono pur sempre nel perimetro del testo. Il primo indica, ovvero presenta il singolo componimento poetico semplicemente mediante un pronome dimostrativo. In Teognide è tutta la raccolta a ricevere al v. 22 un nome d’insieme, sebbene generico. Tutti e due i poeti avvertono ad ogni modo l’esigenza di chiamare o indicare in qualche modo il rispettivo lavoro all’atto di rivendicarne la paternità. La dichiarazione teognidea merita attenzione ancora per un motivo. Il poeta indica al v. 23 anche la sua provenienza: Megara. Siamo in effetti tra fine VI e inizio V secolo a. C. Teognide sa che la sua raccolta poetica potrà essere recitata, grazie al comodo supporto del rotolo papiraceo, anche in contesti lontani, dove egli non è neppure personalmente conosciuto. A maggior ragione occorre dunque segnalare che sono versi di Teognide τοῦ Μεγαρέως. Ricapitoliamo a questo punto il discorso. Non risulta che i poeti lirici di epoca arcaica fossero soliti assegnare un titolo alle loro singole creazioni poetiche. Ciò almeno è quanto possiamo affermare sul conto di autori come Archiloco, Alceo, Focilide, Saffo, Solone, Tirteo. Più in generale, nella poesia greca arcaica si assiste però a un progressivo emergere della personalità dell’autore, il quale prende gradualmente le distanze dalla Musa ispiratrice e giunge a un certo punto a presentarsi senza remore quale autore della composizione in versi, dichiarando così il proprio nome (nel caso di Teognide anche la città di provenienza) in apertura del suo stesso lavoro poetico. Questa esigenza è soddisfatta all’interno del testo in autori come Esiodo, Focilide, Teognide. Questi ultimi due usano una formula costituita da un nome del testo (o più semplicemente da un pronome) al nominativo e da un genitivus auctoris. La duplice indicazione, abbiamo detto, è fornita ancora nel testo. Ciò non avveniva nel V secolo a. C. con i testi teatrali. Al drammaturgo, per una convenzione del genere, era impedito di presentarsi all’interno della composizione e di dichiararsene così l’autore. La rivendicazione di paternità doveva quindi essere espressa, sul rotolo, separatamente dal testo stesso. È l’ora di nascita della epigrafe libraria.
III I drammi 1 Fase teatrale e fase libraria: presentazione e problemi di una pista d’indagine La prima decisa apparizione del titolo nella letteratura greca è generalmente messa in rapporto dagli studiosi moderni con la intensa produzione di tragedie e commedie nel corso del V secolo a. C. ad Atene. Il che è giusto. Ma non pochi collocano poi e di conseguenza esplorano il manifestarsi di questo fenomeno esclusivamente all’interno del processo di organizzazione e svolgimento degli agoni teatrali che si tenevano a quell’epoca a cadenza annuale nella Città (e certo anche in centri minori del mondo greco di allora). Nel fare ciò si è fatto spesso rimando, negli studi passati, a Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, che del problema aveva trattato in un suo famoso lavoro²⁰⁹. A una più attenta lettura delle pagine del grande studioso tedesco traspare tuttavia una visione del fenomeno più complessa di quella che gli viene perlopiù attribuita. Giacché il Wilamowitz-Moellendorff, parlando del titolo delle opere drammatiche nel V secolo a. C., distingue in realtà due fasi: una “teatrale” e un’altra “libraria”. Lo studioso non nega che già nella prima i pezzi drammatici ricevessero un nome (dall’autore): «dazu ist es freilich gekommen, weil die anmeldung bei dem archon, der den chor zu vergeben hatte, auch wol die ankündigung des chores beim proagon oder auch agon einen namen forderte». Nondimeno, egli riconosce che soltanto dopo le rappresentazioni e solo con l’apprezzamento e la fortuna dei drammi in quanto prodotti scritti, soltanto da quel momento in poi («erst jetzt») v’era stato per essi davvero un titolo («wirklich einen titel»)²¹⁰.
Cf. U. von Wilamowitz Moellendorff (erkl. von), Euripides’ Herakles, I, Einleitung in die griechische Tragödie, Berlin 1889, 122 125. Cf. Wilamowitz Moellendorff, Einleitung (come n. 209), 123. Si noti che qui Wilamowitz Moellendorff usa il termine «Titel» tanto a proposito della denominazione degli spettacoli tea trali a teatro quanto in riferimento al titolo vero e proprio esibito dai testi drammatici su rotolo. Sul piano terminologico lo studioso non opera dunque una chiara distinzione tra le due “realtà”; a livello concettuale egli ha tuttavia ben presente la differenza: in questo senso è di decisiva importanza la frase conclusiva del suo discorso (sempre a p. 123), dove egli dice “aber erst jetzt gibt es wirklich einen titel”. Naturalmente, il fatto di aver usato sempre e comunque il termine “Titel” non ha aiutato i lettori a cogliere esattamente il suo pensiero. Persino Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 6 7, non si è accorto che in realtà il Wilamowitz Moellendorff aveva voluto richiamare l’attenzione soprattutto sulla fase libraria delle opere drammatiche, cioè sulla loro sorte, in quanto prodotti scritti, all’indomani delle rappresentazioni. https://doi.org/10.1515/9783110703740 008
1 Fase teatrale e fase libraria
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Cosa voleva dire esattamente il grande filologo, distinguendo una fase teatrale e una libraria del nome dei testi? E per quali ragioni egli poneva l’accento più sulla seconda che non sulla prima, per inquadrare il fenomeno dei titoli? È ciò che intendo mostrare in questo capitolo, giacché sono persuaso che il Wilamowitz-Moellendorff, al netto della concinnitas delle sue affermazioni – e di qualche innegabile ambiguità nel modo di esprimersi²¹¹ –, avesse pionieristicamente colto il problema che affronteremo. Ci occuperemo pertanto ora di tragedie e di commedie, discutendone in primo luogo le modalità di presentazione e di registrazione ai concorsi drammatici dell’Atene²¹² del V secolo a. C. Affronteremo questo primo punto con l’obiettivo di mostrare che siamo poco informati sulle dinamiche concorsuali di allora e che, quand’anche lo fossimo meglio, ciò non basterebbe a delineare nella sua interezza e complessità l’emergere del fenomeno del titolo in questo ramo della letteratura greca. Per guardare al processo nella sua totalità è infatti indispensabile indagare le sorti dei testi teatrali all’indomani della loro messa in scena. Occorre cioè interrogarsi sulle forme della loro conservazione e circolazione su rotolo, una volta terminato l’agone, e su tutta una serie di aspetti inevitabilmente connessi: ciò che faremo nella seconda parte di questo capitolo. Il titolo, giova ricordarlo, è pur sempre, per sua natura, un elemento librario e in quanto tale esso deve essere trattato anche da chi ne studia l’apparizione in relazione a tragedie e commedie. In questo così ampio percorso d’indagine sarà poi di fondamentale importanza tenere a mente quanto accennato alla fine del precedente capitolo: normalmente non era concesso ai drammaturghi di esprimere il loro nome all’interno delle rispettive composizioni, intendo dire nel testo delle loro opere. Era una regola del genere. Ma se durante le fasi di concorso la lacuna poteva essere facilmente colmata in vari modi e momenti – come vedremo –, terminati gli agoni, la conservazione e circolazione dei drammi su rotolo imponevano di percorrere una strada ben precisa, per assicurare a ciascun testo il nome del rispettivo autore: procedere a una iscrizione sullo stesso rotolo, cioè a quella che noi chiamiamo epigrafe libraria²¹³.
Cf. supra, n. 210. Gli eventi di carattere teatrale rivestirono un significato di primaria importanza nella vita sociale e culturale dei Greci del V secolo a. C. ed è noto che spettacoli drammatici si tennero allora anche in centri molto lontani da Atene. Tuttavia, per quello che oggi ce ne rimane, il teatro greco di età classica è sostanzialmente attico. Il bisogno di esprimere la proprietà intellettuale fu sentitissimo qui, come in altri generi praticati a quell’epoca. Ciò spiega anche le accuse di plagio che i drammaturghi si rivolsero
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III I drammi
2 I concorsi ufficiali ad Atene Percorriamo ora tutto il processo più da vicino²¹⁴, cominciando, come promesso, dalle procedure di concorso²¹⁵. In occasione di due feste legate al culto di Dioniso, le Grandi Dionisie a primavera, dal 9 al 15 del mese di Elafebolione, e le Lenee ancora in inverno, tra gennaio e febbraio, si tenevano annualmente nell’Atene del V secolo a. C. agoni drammatici gestiti direttamente dallo Stato. Dell’organizzazione di agoni tragici lo Stato si era fatto carico per le Grandi Dionisie già dalla fine del VI secolo a. C. Dal 486 a. C. l’apparato statale si assunse per le stesse feste anche l’onere di quelli comici. Alle Lenee agoni comici cominciarono invece a essere organizzati dallo Stato solo intorno al 440 a. C.; agoni tragici lo furono invece, qui, una decina d’anni più tardi.
nella seconda metà del V secolo a. C. Cf. in proposito M. Sonnino, L’accusa di plagio nella commedia attica antica, in Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, a cura di R. Gigliucci, Roma 1998, 19 51. La documentazione utile a ricostruire lo svolgimento delle rappresentazioni teatrali attiche del V IV secolo a. C. è di vario genere. Alcuni dati ci derivano dai drammi pervenuti. Per il resto bisogna contare su materiale epigrafico, informazioni erudite tramandate da vari autori antichi, notizie conservate nei manoscritti a corredo di tragedie e commedie, dunque testi prefatori e scoli. Sul teatro greco in età classica è eccellente A. Pickard Cambridge, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford 1953 (rev. ed. by J. Gould e D.M. Lewis: 21968; una terza edizione, che purtroppo non ho potuto consultare, con supplemento è del 1988). Si veda inoltre H. D. Blume, Einführung in das antike Theaterwesen, Darmstadt 1978 (Die Altertumswissenschaft): lavoro conciso e ottimamente corredato di riferimenti alle fonti; H.J. Newiger, Drama und Theater, in G.A. Seeck (herausg. von), Das Griechische Drama, Darmstadt 1979, 434 503. Più avanti, invece, ci occuperemo della conservazione dei testi drammatici successiva mente alla loro prima rappresentazione e della questione del titolo (o dei titoli), con cui ci sono stati tramandati. Per ciò che concerne il titolo dei drammi attici, segnalo sin d’ora: Th. Bergk, Griechische Literaturgeschichte (come n. 15), 220 226; Wilamowitz Moellendorff, Einleitung (come n. 209); Hippenstiel, De Graecorum tragicorum principum fabularum nominibus (come n. 15); Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 1 2, 19 28; A.E. Haigh, The Tragic Drama (come n. 15), 395 402; Haas, De comoediae Atticae … nominibus (come n. 15); Bender, De Graecae co moediae titulis duplicibus (come n. 15); Breitenbach, De genere quodam titulorum (come n. 15); Terzaghi, Fabula. Prolegomeni (come n. 15), 1 142, 297 330; Capovilla, De Graecorum comicorum fabularum titulis duplicibus (come n. 15); Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 6 7; O. Taplin, The Title of Prometheus Desmotes, in JHS 95 (1975), 184 186; M.L. West, The Prometheus Trilogy, in JHS 99 (1979), 130 148, in part. 130 131; M. Kaimio, Tragic Titles in Comic Disguises, in J. Styka (ed. by), Studies in Ancient Literary Theory and Criticism, Cracow 2000 (Classica Cracoviensia, V), 53 69; A.H. Sommerstein, The Titles of Greek Dramas, in SR 5 (2002), 1 16, ripubblicato con aggiornamenti in: A.H. Sommerstein, The Tangled Ways of Zeus and Other Studies in and around Greek Tragedy, Oxford 2010, 11 29 (è alla versione aggiornata di questo lavoro che farò d’ora innanzi riferimento).
3 «Chiedere il coro»
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Alle Grandi Dionisie era coinvolta ben più che la comunità cittadina. Vi partecipavano Greci da ogni dove, pertanto esse erano d’interesse internazionale. Le Lenee si svolgevano quando il mare era ancora chiuso alla navigazione. Di conseguenza, il pubblico degli agoni tenuti in tale occasione era esclusivamente cittadino, o quasi. Anche il programma previsto era in buona parte diverso. Per l’agone tragico delle Dionisie concorrevano tre poeti, ciascuno con una tetralogia formata da tre tragedie e un dramma satiresco, quest’ultimo a scopo di distensione del pubblico. Per quello comico v’erano cinque poeti, ognuno in gara con una sola commedia. Quanto alle Lenee, partecipavano cinque commediografi con un’opera a testa; i tragediografi erano invece solo due e concorrevano mettendo in scena ciascuno due tragedie. Salvo riduzioni causate dalla guerra del Peloponneso, il programma delle Dionisie sommato a quello delle Lenee offriva così 26 drammi ogni anno.
3 «Chiedere il coro» L’allestimento dei due agoni richiedeva di impostare tutto con un certo anticipo. Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, cap. 56, 3 – 6, ci informa che ogni anno, all’inizio dell’estate, l’arconte eponimo, non appena eletto, procedeva, tra l’altro, a individuare i coreghi per l’agone teatrale di sua particolare competenza, quello delle Grandi Dionisie. Ciascuno dei coreghi, scelti tra i cittadini più abbienti di Atene, era tenuto a finanziare un poeta e il relativo coro fino al giorno delle rappresentazioni. Competente per i concorsi lenaici era invece l’arconte re (Arist., Ath. 57, 1). Certamente anche questi, non appena eletto, doveva procedere alla scelta dei coreghi per le stesse ragioni. Associate a quella di Aristotele, altre testimonianze a nostra disposizione, sebbene non dettagliate come vorremmo, non esenti da problemi e per giunta distanti tra loro cronologicamente anche molti decenni (si vedano almeno: Cratino, I Bovari, PCG F 17; Ar., Cavalieri 512– 513; Pl., Leggi, 817 a–d), hanno permesso agli studiosi di ricostruire altre responsabilità delle due magistrature ai fini della realizzazione degli spettacoli teatrali. L’arconte eponimo e quello re si preoccupavano di reclutare anche il numero prestabilito di poeti per il rispettivo agone; inoltre, essi assegnavano a ognuno degli ammessi non solo un corego, ma anche un coro. Il coro costituiva il nerbo della rappresentazione teatrale o così fu quantomeno nel periodo più antico dell’arte drammatica. Ma come si svolgeva il reclutamento dei poeti e su cosa si fondava esattamente il giudizio del magistrato competente? Non v’è alcuna difficoltà ad am-
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III I drammi
mettere che si registrasse in prima battuta il nome dei richiedenti il coro²¹⁶. A causa della scarsità d’informazioni disponibili, non possiamo tuttavia dire con sicurezza se nel V secolo a. C. i candidati fossero davvero tenuti, in tale fase di selezione, alla sottomissione o consegna di manoscritti più o meno definitivi dei testi scenici, e con ciò ad apporvi anche un titolo, o se le cose si svolgessero in ben altro modo. Alcuni studiosi moderni ammettono in verità tranquillamente proprio la deposizione del manoscritto più o meno finito (per le commedie invece solo le parti destinate al coro?) al magistrato competente²¹⁷. Altri studiosi obiettano
Il che pare implicito in quanto dice Ar., Eq. 512 513. In questo senso cf. G. Jachmann, De Aristotelis Didascaliis, Dissertatio inauguralis, Gottingae 1909, 21: «Archon enim eius nimirum nomen in tabulas sua recepit qui chorum petivit». In questo ordine di idee H. Erbse, Überlieferungsgeschichte der griechischen klassischen und hellenistischen Literatur, in H. Hunger et alii, Geschichte der Textüberlieferung der antiken Lite ratur und der Bibel, I, Zürich 1961, 218, giunge ad affermare che l’oratore e uomo di stato Licurgo avrebbe fatto ricopiare intorno al 330 a. C. il testo dei tre grandi tragici greci Eschilo, Sofocle ed Euripide a partire dagli esemplari custoditi in archivio, «welche die Dichter ehedem bei der Bewerbung um Zulassung zum Agon eingereicht hatten». In realtà, nessuna fonte a nostra conoscenza dice che l’operazione fu compiuta su esemplari “ufficiali”, d’archivio. Le afferma zioni di Erbse sono giustamente contestate da E. Pöhlmann, Zur Frühgeschichte der Überliefe rung griechischer Bühnendichtung und Bühnenmusik, in W. Hirschmann (herausg. von), Fest schrift Martin Ruhnke zum 65. Geburtstag, Erlangen 1986, 294 306, qui in part. 294 296 (= E. Pöhlmann, Beiträge zur antiken und neueren Musikgeschichte, Frankfurt am Main 1988, 23 40, in part. 23 25). Il lavoro del Pöhlmann è apparso in traduzione italiana sotto il titolo Sulla preistoria della tradizione di testi musicali e musica per il teatro, in B. Gentili R. Pretagostini (a cura di), La musica in Grecia, Bari 1988, 132 144. Sulla richiesta dei poeti (in particolare dei commediografi) di ricevere un coro si veda Mastromarco, Aristofane (come n. 175), 11 14. Sulle problematiche discusse nel presente capitolo si veda ancora la rassegna critica di A. Tessier, Una breve storia illustrata del testo tragico greco sino a Willem Canter, Trieste 2018, 9 28. Sulla possibilità che il drammaturgo presentasse il manoscritto all’atto di chiedere il coro al magi strato, si esprime con una certa cautela A. Wartelle, Histoire du texte d’Eschyle dans l’antiquité, Paris 1971 (Collection d’études anciennes), 43: «Une fois la tragédie composée dans son entier, paroles, musique et peut être indications de jeux de scène, Eschyle devait en écrire ou en faire écrire plusieurs copies. Il est probable qu’une de celles ci était présentée à l’archonte auquel le poète devait s’adresser pour ‘‘demander un chœur’’ (χορὸν αἰτεῖν), bien que nous ne conna issions pas les conditions dans lesquelles se faisait cette démarche. Quand l’archonte avait accédé à la demande du poète et lui avait ‘‘accordé le chœur’’ [sic] (χορὸν διδόναι), sans doute lui remettait il sa copie, mais celui ci n’avait pas de difficulté à en trouver l’usage, car il fallait que le maître du chœur en ait une en main». Dunque, Wartelle non esclude la presentazione del manoscritto, ma ritiene che il testo venisse poi restituito al poeta. Anche Blum, Kallimachos und die Literaturverzeichnung (come n. 194), 51, col. 1, ritiene che i poeti fossero tenuti alla Vorlegung del manoscritto, ma esclude (cf. col. 90) che gli arconti procedessero a una archiviazione dei testi presentati. Sulla questione cf. anche A. Körte, Komödie (griechische), in RE XXI,1 (1921),
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tuttavia che l’ufficio dell’arconte eponimo e altrettanto quello dell’arconte basileus non richiedevano una particolare qualifica in campo drammatico, essendo la procedura di selezione in vista degli agoni solo una delle molteplici responsabilità conferite alle due magistrature; scartata così l’ipotesi del vaglio di manoscritti, essi ritengono che i poeti che facevano domanda di ammissione al concorso si limitassero, quantomeno nel caso delle tragedie, ad annunciare semplicemente a voce il tema o il mito, che intendevano trattare, oppure offrissero indicazioni di carattere soltanto generale sul contenuto delle rispettive proposte, contando e confidando per il resto sugli appoggi politici a favore della loro candidatura e in generale sulla loro buona fama artistica²¹⁸. Ben pochi studiosi hanno invece tenuto conto del fatto che per almeno buona parte del V secolo a. C. i poeti furono anche attori dei propri drammi. Così quantomeno sappiamo di Eschilo e di Sofocle. Quest’ultimo peraltro decise ben presto, nonostante gli iniziali successi, di non apparire più nei propri spettacoli²¹⁹. Non si può quindi escludere che i drammaturghi stessi – almeno in un primo periodo – abbiano offerto, all’atto di fare domanda del coro, un saggio concreto, a viva voce, del proprio lavoro. Le possibilità appena esposte potrebbero d’altra parte essere state, in concreto, anche combinate tra loro, nel senso che vari requisiti potrebbero essere stati richiesti e avere contemporaneamente pesato sulla decisione dell’arconte, il quale sapeva del resto di poter scegliere in piena autonomia tra i richiedenti il
coll. 1229, 49 1230, 12. Non approfondisco qui il problema della esatta valutazione del passo delle Leggi (VII, 817 a d), dove Platone evoca tra l’altro il giudizio delle autorità statali su componimenti poetici di natura drammatica (tragedie, nella fattispecie). Mi limito in proposito solo a ricordare che la testimonianza è messa dagli studiosi generalmente in rapporto al pro cesso di selezione delle opere drammatiche davanti all’arconte competente (il brano è classi ficato sotto la intestazione Archon’s selection da E. Csapo W.J. Slater, The Context of Ancient Drama, Ann Arbor 1994, 108 109). Per quanto preziosa, la testimonianza è però della metà circa del IV secolo a. C. Essa, pertanto, non colma le nostre lacune sulle procedure concorsuali di un secolo prima e non ci permette di stabilire con la dovuta sicurezza su cosa esattamente si fondasse il giudizio degli arconti al tempo di Eschilo o di Sofocle. In effetti, è appena il caso di ricordare che le procedure di selezione agli agoni teatrali possono avere conosciuto cambiamenti di non secondaria importanza nel corso del tempo e alla mancanza di informazioni relative a un lungo periodo iniziale non si può ovviare con testi monianze concernenti un’epoca già inoltrata della storia del teatro ateniese. In questa prospettiva cf. Blume, Einführung in das antike Theaterwesen (come n. 214), 30 31. Cf. quanto si legge nel Γένος Σοφοκλέους, par. 4 (edizione del testo in Sophoclis Fabulae, I: Aiax, Electra, edidit commentario instruxit A. Colonna, Torino 1975, 1 7, qui in particolare 2). Sull’argomento in generale Blume, Einführung in das antike Theaterwesen (come n. 214), 77 78. Rilevanti osservazioni in E. Rohde, Scenica, in RhM 38 (1883), 251 292 (qui in part. 262, n. 1).
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coro²²⁰. D’altra parte, è pur vero che nessuna delle testimonianze a nostra disposizione è dei primi decenni del V secolo a. C., il che pone ulteriori limiti alla nostra conoscenza sulla storia e l’eventuale sviluppo di quelle procedure di preselezione e ammissione ai concorsi. Dunque, siamo parecchio all’oscuro sulle esatte dinamiche di ammissione dei poeti agli agoni drammatici nel V secolo a. C., e in particolare sulla questione della eventuale presentazione o deposizione dei manoscritti e sulle possibili modalità di registrazione delle opere, per la cui messa in scena si domandava il coro. E ignoriamo pure come si presentasse il brogliaccio²²¹, sul quale attori e coreuti dovevano poi essere effettivamente istruiti, sebbene non sia adesso difficile ammettere che almeno qualche indicazione d’ordine e di contenuto i poeti erano per così dire obbligati ad apporla sui loro materiali. Altrimenti, in specie per le tetralogie, difficilmente essi avrebbero potuto ritrovarsi rapidamente tra le loro carte. I poeti in gara erano ufficialmente chiamati διδάσκαλοι, «maestri»²²². E in quanto tali avevano la possibilità di farsi conoscere al grande pubblico in oc-
Pickard Cambridge, The Dramatic Festivals (come n. 214), 84, ammette la possibilità che ogni poeta leggesse all’arconte uno specimen del proprio lavoro. La consegna del manoscritto all’arconte rimane ad ogni modo un punto incerto. La raccomandazione del candidato da parte di influenti personaggi della vita politica e culturale ateniese pare invece cosa ovvia. Da ri cordare a questo riguardo le parole di Aristofane, Nub., vv. 528 533: ἐξ ὅτου γὰρ ἐνθάδ’ ὑπ’ ἀνδρῶν, οἷς ἡδὺ καὶ ψέγειν, / ὁ σώφρων τε χὠ καταπύγων ἄριστ’ ἠκουσάτην, / κἀγώ, παρθένος γὰρ ἔτ’ ἦν, κοὐκ ἐξῆν πώ μοι τεκεῖν, / ἐξέθηκα, παῖς δ’ ἑτέρα τις λαβοῦσ’ ἀνείλετο, / ὑμεῖς δ’ ἐξεθρέψατε γενναίως κἀπαιδεύσατε· / ἐκ τούτου μοι πιστὰ παρ’ ὑμῶν γνώμης ἔσθ’ ὅρκια. Su questi versi: S. Halliwell, Aristophanes’ Apprenticeship, in CQ 30 (1980), 42 43. Vari studiosi del secolo scorso hanno sostenuto che i drammaturghi ateniesi lavorassero perlopiù su semplici schede. Sull’argomento cf. la messa a punto di Mastromarco, Aristofane (come n. 175), 35, n. 44 (con rimandi agli studi di L. Havet, C.F. Russo, A. Wartelle). In particolare, Carlo F. Russo (considero qui la versione inglese del suo famoso libro Aristophanes: An Author for the Stage, London New York 22002, 243 245, 263) riteneva che l’uso di schede a monte della tradizione dei testi drammatici potesse spiegare la collocazione apparentemente impropria di una serie di versi nelle Vespe di Aristofane. Sull’argomento si noti la prudenza di N.G. Wilson, Aristophanea. Studies on the Text of Aristophanes, Oxford 2007, 2 e n. 4. Sull’uso di schede da parte di autori antichi, non solo poeti, e sulla cautela con cui occorre in realtà considerare questa eventualità, cf. Dorandi, Nell’officina dei classici (come n. 195), 13 28 (cf. in part. le valutazioni dello studioso a p. 16 e 24). Sulla notazione musicale, di cui dovevano essere forniti gli esemplari in uso per la rappresentazione, è essenziale Pöhlmann, Zur Frühgeschichte der Überlieferung griechischer Bühnendichtung (come n. 217). Erano detti così perché si facevano carico dell’istruzione διδασκαλία del coro, per il quale ognuno si era rivolto a tempo debito al magistrato competente. Per un lungo periodo fu implicito che il maestro del coro fosse anzitutto l’autore del testo, oltre che il regista dello spettacolo, se non anche attore dello stesso. E proprio in quanto didaskaloi i poeti concorrenti
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casione del proagone. Alla vigilia delle rappresentazioni si procedeva infatti a una cerimonia di presentazione dei poeti ammessi, ciascuno peraltro accompagnato dalla rispettiva compagnia teatrale²²³. In tale circostanza il pubblico doveva pur essere informato in qualche misura dello spettacolo previsto²²⁴. Ma anche qui varie questioni restano aperte²²⁵. È lecito per esempio chiedersi se l’annuncio del programma avvenisse, in specie per le tetralogie legate²²⁶, in maniera sommaria, attraverso la semplice menzione del mito o soggetto generale trattato da questo e quel poeta, oppure si indicassero più precisamente, a uno a uno, i singoli pezzi in gara, o tutt’e due le cose o altro ancora.
venivano presentati e giudicati al termine della competizione e così di loro si registrava pun tualmente memoria. Sull’argomento torneremo più avanti. Ciò doveva avvenire per gli agoni tragici alle Dionisie almeno a partire dal 444 a. C., data di realizzazione dell’Odeion, ma occorre a mio avviso ammetterlo anche per le Lenee. In questo senso già S. Srebrny, Studia Scaenica, Wrocław 1960 (Archiwum filologiczne, 5), 100 102. In questo ordine di idee anche Sommerstein, The Titles (come n. 215). Cf. Rohde, Scenica (come n. 219), 252 264; Srebrny, Studia scaenica (come n. 223), 100 102. Trattando di un caso particolare, Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 21, rileva che Aristofane aveva già annunciato, ovvero fatto conoscere al pubblico, il nomen di una sua commedia (i Cavalieri) in un passo degli Acarnesi (vv. 301 302), andati in scena l’anno prima. Sul proagone siamo informanti da Eschine, Cont. Ctesiph. 67, e dallo scolio relativo al passo; inoltre dallo scolio al termine ᾠδεῖον usato da Aristofane in Ves., v. 1109; da una notizia peraltro molto discussa di Pl., Symp. 194b, cui si suole connettere un passo di Ateneo V 217a; infine dalla Vita Euripidis 45, dove si ricorda per l’anno 406 l’ingresso di Sofocle (e del suo seguito) al proagone senza la corona, in segno di lutto per la morte di Euripide. Queste notizie sono riferite perlopiù alle Grandi Dionisie, ma non pochi studiosi moderni riconducono il passo di Platone alle Lenee: così ad esempio Pickard Cambridge, The Dramatic Festivals (come n. 214), 67 e n. 7, che richiama a questo proposito il passo di Ateneo V 217a. Altri studiosi sono invece di ben altra posizione: cf. Srebrny, Studia scaenica (come n. 223), 100 101. In ogni caso nelle fonti non si parla esplicitamente del proagone delle commedie, dal che però non si deve necessariamente concludere che non ci fosse una qualche cerimonia introduttiva, una presentazione o un an nuncio anche per queste. L’assenza di una prova non vuol dire, almeno qui, prova dell’assenza. Il silenzio delle fonti non è dunque in questo caso da enfatizzare troppo. Del resto, per lo stesso proagone delle tragedie non abbiamo che sparute informazioni. Rilevo ancora che le scarne notizie in nostro possesso, e in particolare lo scolio al passo del Contro Ctesifonte 67, pongono pure problemi ecdotici, sicché la loro esatta interpretazione si fa problematica su vari fronti. Per un commento dei dati disponibili cf. Rohde, Scenica (come n. 219), 252 268; Srebrny, Studia scaenica (come n. 223), 98 113; Pickard Cambridge, The Dramatic Festivals (come n. 214), 63 e 67. Gli studiosi moderni si servono generalmente del termine “tetralogia” per indicare nel loro insieme le tre tragedie e il dramma satiresco che un poeta era chiamato a mettere in scena alle Dionisie. Gli antichi sembrano servirsi del termine τετραλογία in senso più stretto, ossia solo quando i quattro pezzi drammatici erano “legati” o “connessi”, cioè impostati su uno stesso tema o mito. Nel presente lavoro mi servo normalmente del termine tetralogia secondo l’uso moderno.
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Pare poi che l’araldo chiamasse sulla scena il drammaturgo e il suo seguito al momento previsto per l’esibizione²²⁷: qui pure sarà stato necessario introdurre in qualche modo lo spettacolo. Una volta terminate le rappresentazioni, era in ogni caso indispensabile registrare il nome dei concorrenti e quello delle opere messe in scena²²⁸, per stilare l’esito dell’agone. Il tutto era poi conservato se non altro a scopo di rendicontazione. Ed è, in effetti, sulla base di tali registrazioni che, nell’avanzato IV secolo a. C., Aristotele poté comporre le sue Didascalie, nelle quali, come diremo, egli rendeva a sua volta conto del piazzamento degli autori e del nome delle opere presentate anno dopo anno. Senza una documentazione puntuale, già a suo tempo costituita, sarebbe stato impossibile allo Stagirita ricostruire anno per anno i risultati degli agoni teatrali ateniesi, il piazzamento dei poeti e le opere in gara. Insomma, la lunga e articolata procedura di concorso comportava certo nel V secolo a. C. l’obbligo di fissare per iscritto il nome dei poeti in gara. La stessa procedura doveva pur richiedere, o già all’inizio o almeno in itinere, la fissazione di qualche dato più o meno puntuale sulle opere messe in scena, cioè sul soggetto di volta in volta trattato²²⁹. A causa della scarsità d’informazione disponibile non si riesce tuttavia a stabilire con precisione che cosa avvenisse specialmente alle Grandi Dionisie
Il passo di Ar., Ach. 11, relativo all’annuncio dell’araldo, non è tuttavia interpretato dai moderni in maniera univoca. Se alcuni studiosi lo mettono in relazione all’imminente rappre sentazione teatrale, altri pensano invece che il riferimento aristofaneo riguardi lo svolgimento del proagone. Rohde, Scenica (come n. 219), 254 255, n. 1, oscilla tra le due possibilità, per concludere poi, mi sembra, a favore del proagone. Sulla base di un paio di punti di I.G. XIV 1097, Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 6, n. 1, ammette tuttavia la possibilità che in una fase relativamente antica non sempre venissero registrati die Namen der konkurrierenden Komödien e che ci si accontentasse quindi “solo” di fissare il piazzamento dei poeti. Su I.G. XIV 1097 segnalo i seguenti lavori: A. Körte, Inschriftliches zur Geschichte der Attischen Komödie, in RhM 60 (1905), 426 447 (per il punto che ci interessa: 434 435); A. Wilhelm, Urkunden dramatischer Aufführungen in Athen, Wien 1906 (Sonderschriften des Österr. Archäolog. Instituts in Wien, 6), 198; Sommerstein, The Titles (come n. 215), 1 2, n. 3; Id., The Tangled Ways (come n. 215), 12, n. 3. Più in generale, sui materiali epigrafici che ci informano sugli agoni drammatici ad Atene è fondamentale il lavoro di A. Wilhelm poc’anzi citato, al quale si deve ora affiancare il lavoro di B. Mills S. Douglas Olson, Inscriptional Records for the Dramatic Festivals in Athens: IG II2 2318 2325 and Related Texts, Brill Boston 2012 (Brill Studies in Greek and Roman Epigraphy). L’analisi dei materiali epigrafici in quest’ultimo studio lascia tuttavia in più punti a desiderare. Lo sottolinea S.D. Lambert nella recensione online su BMCR 2013.06.10. Cauto ad ogni modo Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), per l’epoca più antica. Cf. nota precedente.
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con le opere dei poeti tragici. Cosa si annunciava al pubblico e cosa esattamente si registrava nella documentazione destinata alla conservazione? Il problema è particolarmente grave nel caso delle tetralogie legate, incentrate su uno stesso mito o tema. Cosa avveniva in casi del genere? Si registrava nella documentazione ufficiale solo il nome d’insieme – collective name (così efficacemente si esprime in proposito Pickard-Cambridge) – della tetralogia legata? Oppure ognuno dei quattro “pezzi”, che componevano la produzione tragica legata, era già distinto dagli altri attraverso una designazione specifica (cioè da qualcosa di più che una semplice numerazione accanto al nome complessivo della produzione scenica) e così era dunque annunciato a teatro, votato e registrato nella rendicontazione? Il problema è rilevante: se infatti si dimostrasse giusta la prima delle due possibilità appena evocate, allora è chiaro che ogni singolo “pezzo” di una tetralogia legata si vedeva concretamente assegnato un “nome proprio”, che ne indicava lo specifico contenuto, soltanto dopo gli agoni, quando cioè cominciava la sua conservazione libraria, chiaramente su rotolo²³⁰. Ma forse sul problema possiamo gettare qualche luce considerando diacronicamente i dati disponibili.
4 Le procedure di concorso in prospettiva diacronica Woher wissen wir denn, daß sich in den Agonen nichts geändert hat…? U. von Wilamowitz Moellendorff, in GGA 168 (1906), 624.
L’attività poetica di Eschilo si colloca, com’è noto, in una fase molto antica della storia della tragedia greca. L’Odeion, destinato a ospitare il proagone, non era stato ancora costruito²³¹. Ed è altrettanto noto che i drammi presentati annualmente dal poeta alle Grandi Dionisie erano impostati solitamente – ma non sempre – sulle vicende di uno stesso mito fino al suo definitivo epilogo²³². La Ogni dramma sarà stato già all’epoca tramandato separatamente da altri, su di un proprio rotolo di papiro. Sull’argomento, più volte toccato dai moderni, cf. A. Pertusi, Selezione teatrale e scelta erudita nella tradizione del testo di Euripide, in Dioniso 19 (1956), 111 141 e soprattutto 195 216. Alcuni studiosi hanno tra l’altro dubitato che vi fosse un proagone prima della costruzione dell’Odeion (avvenuta tra il 450 e il 444 a. C.). Ma c’è chi non condivide questa presa di posizione: cf. in particolare Pickard Cambridge, The Dramatic Festivals (come n. 214), 64, n. 2, il quale scrive: «It is not known where the Proagon was held before Pericles built the Odeum (c. 444 B.C.)». Cf. M. Di Marco, La tragedia greca. Forma, gioco scenico, tecniche drammatiche, Roma 2000 (Studi superiori, 394), 36.
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trilogia – e se consideriamo il dramma satiresco che la seguiva: la tetralogia – era quindi in tali casi “legata”²³³. Cosa avveniva, in casi del genere, a livello procedurale? Si menzionavano a teatro a uno a uno i drammi costituenti la tetralogia? oppure si annunciava al pubblico soltanto il soggetto generale dell’intera produzione, Orestea, ad esempio, o Licurgìa, lasciando in secondo piano l’articolazione interna? Com’era votata la tetralogia legata? Che cosa esattamente indicava ciascun giudice sulla sua tavoletta e cosa finiva nella documentazione d’archivio? In altre parole, i “pezzi” drammatici di una produzione scenica legata erano presentati al pubblico e soprattutto indicati per iscritto nei rendiconti sotto una denominazione d’insieme, tutt’al più distinti dalla numerazione, come se fossero atti di un’unica grande mise en scène, oppure ciascuno di essi aveva un nome suo proprio ai fini dell’annuncio, della votazione e specialmente della registrazione nella documentazione destinata alla conservazione? Il problema, come sopra accennato, è cruciale per chi, indagando se non altro la genesi della denominazione dei prodotti di genere tragico, vuole stabilire l’incidenza della fase teatrale su quella propriamente libraria, quando ciascun testo richiedeva irrinunciabilmente di essere designato in qualche modo sul rispettivo rotolo. Sull’argomento le fonti disponibili sono poche e non sempre di agevole interpretazione. Nessuna meraviglia se gli studiosi ne hanno tratto conclusioni diverse. Partiamo da un famoso passo delle Rane, dove Aristofane inscena uno scambio di battute tra Euripide, il dio Dioniso ed Eschilo ormai da tempo trapassato a miglior vita (vv. 1119 – 1128): Eu.:
Di.: Eu.:
Ora volgerò la mia attenzione proprio ai tuoi prologhi, dal momento che, per primissima cosa, voglio esaminare la prima parte della tragedia di questo genio. In effetti, era oscuro nella esposizione dei fatti. E quale [prologo] di lui intendi esaminare? Molti davvero. [rivolto ad Eschilo] πρῶτον δέ μοι τὸν ἐξ Ὀρεστείας λέγε²³⁴.
Questa una delle definizioni moderne, mentre J. Latacz, Einführung in die griechische Tragödie, Göttingen 2003 (Uni Taschenbücher, 1745), 170, scrive in proposito: «Bei Aischylos war das Einzelstück stets Teil eines Viererzusammenhangs, der als viergeteiltes Ensemble aufgeführt wurde: der ‘Inhaltstetralogie’». «Per primo recitami quello dall’Orestea». Per l’edizione critica del testo cf. N.G. Wilson (recognovit, brevique adnotatione critica instruxit), Aristophanis Fabuale, II, Lysistrata, Thes mophoriazusae, Ranae, Ecclesiazusae, Plutus, Oxford 2007 (Oxford Classical Texts), 186. Per la
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Di.: Es.:
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Orsù, tacete tutti. Parla, Eschilo. “Ermes ctonio, che vegli sul potere paterno, ti supplico, sii mio salvatore e alleato. In questa terra torno: reduce sono”.
Il prologo preso qui in considerazione è quello delle Coefore, una tragedia facente parte di una produzione scenica legata, costituita in primo luogo dall’Agamennone, quindi dalle Coefore, poi dalle Eumenidi e infine dal dramma satiresco Proteo. La tetralogia risultò vittoriosa alle Dionisie del 458 a. C. Della vittoria siamo informati da tradizione didascalica confluita nella hypothesis dell’Agamennone. La stessa tradizione ci informa sul nome di ciascun dramma e lo stesso apprendiamo da uno scolio al v. 1124 delle Rane ²³⁵. Dai versi appena riportati e dallo scolio al v. 1124 delle Rane già Eduard Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 23, deduceva che la tetralogia avesse avuto complessivamente il nome di Ὀρέστεια. Nettamente diversa, in proposito, la posizione del Wilamowitz-Moellendorff, ma le sue conclusioni appaiono da abbandonare²³⁶.
traduzione, da me lievemente ritoccata, dei versi eschilei cf. G. Mastromarco P. Totaro (a cura di), Aristofane: Commedie, II, Torino 2006 (Classici Greci), 667 669, a cui però rimando anche per il commento di questa parte. Sullo scolio ha già richiamato l’attenzione Pickard Cambridge, The Dramatic Festivals (come n. 214), 80, n. 6. Cf. U. von Wilamowitz Moellendorff (ed.), Aeschyli tragoediae, Berolini 1914, 247, il quale ritiene che da Aristofane «adferuntur tres primi versi tamquam prologus τῆς Ὀρεστείας (tra goediae, non trilogiae)». Aristofane però non parla del prologo τῆς Ὀρεστείας, ma di quel noto prologo ἐξ Ὀρεστείας, senza articolo davanti alla denominazione in questione. Il Wilamowitz Moellendorff si è dunque allontanato dall’esatto tenore del testo aristofaneo. Inoltre, egli non si pronuncia sullo scolio al v. 1124 delle Rane, dove la tragedia è indicata con un nome suo proprio. Anche L. Radermacher (Aristophanes’ Frösche. Einleitung, Text und Kommentar, 3. Aufl., bearb. v. W. Kraus, Graz Wien Köln 1967, 305 306; prima edizione: 1921) sostiene la stessa inter pretazione del verso di Aristofane, ma non fornisce le ragioni. Piuttosto, egli rimanda al com mento ad locum di J. van Leeuwen (Aristophanis Ranae, cum prolegomenis et commentariis, edidit J. van Leeuwen, Lugduni Batavorum, MDCCCXCVI, 170 171). Il van Leeuwen, in realtà, era stato molto cauto sul punto. «Orestia vetus fuit Choephororum nomen?»: così s’era chiesto, lasciando la questione aperta. Il Radermacher ha poi speculato in vario modo sulle ragioni per cui il dramma sarebbe stato chiamato Ὀρέστεια. Quanto al titolo Χοηφόροι, Radermacher ne osserva la presenza nel catalogo dei drammi eschilei noto per via manoscritta, e sul quale diremo, e nello scolio a Eur., Alc. 768. Si tratterebbe di un titolo dato alla tragedia in epoca assai antica. In una tale ipotesi rimane tuttavia inspiegato come e quando tale denominazione avrebbe scalzato l’altra (in modo sommario Radermarcher afferma: «zur Erklärung des Wechsels gibt es allerlei Möglichkeiten»). Insomma, lo studioso non offre alcun argomento a sostegno della sua presa di posizione. Si noti che Radermacher tace di altre testimonianze, nelle quali
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Inteso il passo delle Rane secondo E. Lohan, si pone il problema di comprendere sino in fondo la tecnica di citazione sfruttata da Aristofane. Per quale motivo, infatti, il poeta riferisce non il nome del dramma, ma quello della trilogia (o tetralogia, se vi includiamo il dramma satiresco) di appartenenza di tali versi? La scelta non è stata imposta dal verso. Infatti Ὀρεστείας e Χοηφόρων sono metricamente equivalenti, com’è stato osservato da molti moderni. Né poi l’articolo τὸν è corruttela per τιν’, come alcuni suggeriscono. Mediante l’accusativo τὸν il poeta vuole piuttosto alludere a “quel ben noto” prologo della tetralogia eschilea. In questo senso già si esprimeva Kenneth Dover²³⁷. Il testo aristofaneo è dunque genuino. Si ripropone pertanto a fortiori la domanda: perché Aristofane, all’atto di citare il prologo delle Coefore, menziona la tetralogia di appartenenza (Orestea) invece che il nome specifico del dramma? Forse in tal modo egli pensava di essere inteso meglio e più rapidamente dal pubblico: «nihil aliud restat nisi ut statuamus poetam, si tetralogiae indicem nominavisset, melius vel celerius sese intellectum iri putavisse, quam si altero modo Choephororum prologum significasset»; questa la cauta e concisa presa di posizione di Eduard Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 23. Per approdare a tale conclusione, Lohan sembra avere guardato al problema da un punto di vista molto concreto, ovvero considerando la comunicazione tra Aristofane e il suo pubblico a teatro. Quanti, infatti, tra gli spettatori delle Rane, andate in scena nel 405 a. C. alle Lenee, potevano avere la dovuta familiarità con ogni singolo pezzo dell’antico e nutrito teatro eschileo? Probabilmente solo un ristretto gruppo d’intenditori (si noti che Lohan non si pronuncia sulla possibilità di repliche in teatri minori nel corso del V secolo a. C. per i singoli pezzi eschilei; la ricerca contemporanea considera invece con attenzione questa possibilità, come vedremo). Ad Aristofane conveniva pertanto citare i versi delle Coefore menzionando la trilogia, di cui avevano fatto parte. Il termine Orestea avrebbe infatti permesso anche al pubblico meno istruito di collocare quel prologo all’interno di un preciso contesto tematico. Quale orientamento avrebbe
sono sicuramente menzionate alcune trilogie (o tetralogie) nel loro insieme. E ne tace sapendo di tacere: infatti tali testimonianze le aveva segnalate proprio J. van Leeuwen nel suo commento al v. 1124 delle Rane, rimanendo di conseguenza incerto sulla posizione da prendere. Anche A. Lesky, Die tragische Dichtung der Hellenen, Göttingen 19642 (Studienhefte zur Alter tumswissenschaft, 2), 109, segue il Radermacher, ma senza discutere i problemi del passo aristofaneo. Per l’analisi del passo sono fondamentali K.J. Dover (ed. with introduction and commentary by), Aristophanes. Frogs, Oxford 1993, 332, e soprattutto Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 22 23 e n. 1.
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invece potuto offrire il “nome proprio” della tragedia? «Coefore» vuol dire semplicemente «portatrici di libagioni»²³⁸. La spiegazione del Lohan, che abbiamo cercato sin qui di esplicitare senza tuttavia dire più di quanto Lohan volesse davvero dire, non mette in discussione l’esistenza di un nome specifico del dramma al tempo di Eschilo, né dunque chiama in causa le procedure di registrazione e di votazione delle produzioni drammatiche legate ai concorsi teatrali nella prima metà del V secolo a. C. Invece alcuni anni fa Alan H. Sommerstein²³⁹, che non pare abbia avuto conoscenza delle pagine di Lohan, ha tratto proprio dal detto passo delle Rane conclusioni importanti proprio in termini di procedure concorsuali²⁴⁰. Lo studioso ritiene che al tempo di Eschilo le tragedie costituenti una tetralogia legata non avessero che un nome d’insieme, ovviamente derivato dal soggetto proposto (Orestea, per esempio, o Licurgìa e così via); e che così esse fossero indicate nella documentazione ufficiale, destinata alla conservazione²⁴¹. Invece i singoli drammi avrebbero ricevuto un “nome proprio” solo successivamente, a motivo della loro separata riproposizione in altro teatro e soprattutto in conseguenza
Questo titolo è menzionato comunque già da Arist., Poet., 1455a4. Cf. Sommerstein, The Titles (come n. 215). Il contributo di Sommerstein è dettagliato e importante: lo abbiamo già rilevato prece dentemente e lo rileveremo ancora nel corso di questo lavoro. D’altra parte, va pure detto che il tema affrontato da Sommerstein avrebbe meritato almeno in un punto essenziale una migliore messa a fuoco. Sommerstein parla di title tanto per il nome complessivo delle tetralogie legate cioè per il nome complessivo dello spettacolo scenico quanto per i titoli veri e propri sotto i quali i singoli drammi furono a un dato momento in circolazione su rotolo. Lo studioso acco muna così, sotto uno stesso termine, realtà non necessariamente coincidenti. Una cosa è infatti la denominazione d’insieme assegnata a uno spettacolo scenico, ovvero a una data trilogia/ tetralogia legata presentata a teatro, ben altra l’intestazione libraria di ogni singola tragedia. Come visto, i due piani vanno tenuti nonostante tutto ben distinti. La mancata distinzione ha offuscato in più di un punto la lucidità della ricostruzione dello studioso. Inoltre, mi sembra che egli, parlando della genesi del titolo dei prodotti drammatici e in particolare del titolo delle tragedie facenti originariamente parte di tetralogie legate, abbia dato eccessivo peso al book trade nel V secolo a. C., mentre poca o nessuna attenzione è stata rivolta alla conservazione dei testi drammatici all’interno delle famiglie teatrali dell’epoca, sul che invece diremo a breve. Le considerazioni di Sommerstein possono essere ulteriormente avvalorate, se si osserva che l’Ὀρέστεια è tanto strettamente unita «nelle sue tre composizioni» che queste «appaiono più che tre drammi distinti, tre momenti di un unico dramma»: così A. Colonna, La letteratura greca. Storia della letteratura greca antica dalle origini al V secolo d. C., Torino 1962, 196, il quale tuttavia accetta poi, contraddittoriamente, l’interpretazione del Wilamowitz Moellendorff del verso sopra citato delle Rane.
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della loro circolazione su rotolo. Ciò quantomeno dovrebbe dirsi per quelli che ne ebbero una²⁴². A tale rilevante conclusione Sommerstein è indotto, oltre che dal passo citato delle Rane, anche dalla menzione di Aristofane, in Thesm. vv. 134– 136, di un’altra tetralogia eschilea, la Licurgìa; e dal fatto che almeno due titoli di opere eschilee, cioè i Sette contro Tebe, dell’anno 467 a. C., e le già sopra ricordate Eumenidi, pur essendo ben attestati nelle fonti antiche e nella tradizione diretta, non corrispondono esattamente a quanto si legge nel rispettivo dramma. Infatti, la città di Tebe non è mai chiamata in questa maniera nella tragedia dei Sette ²⁴³. E le Erinni accolte ad Atene sono ricordate come Σεμναί: cf. Eum. 1041. Μai nel testo che abbiamo si parla di Εὐμενίδες²⁴⁴. Sommerstein ne deduce che i due drammi furono chiamati in questo modo solo dopo la loro prima rappresentazione, cioè quando cominciarono a godere di una qualche fortuna ciascuno come pezzo drammatico a sé stante, ossia circolarono su di un proprio rotolo²⁴⁵.
Sempre secondo Sommerstein, Aristotele, a partire dalla denominazione delle tetralogie legate, sarebbe riuscito più o meno facilmente a individuare i drammi che le avevano costituite e che ormai circolavano sotto un titolo proprio. Che non si tratti di titolo eschileo, lo pensava già A.W. Verrall, The Seven Against Thebes of Aeschylus, London 1887, XVI XVII, XXXIII. Tuttavia Sommerstein è stato, qui, sin troppo sbrigativo, poiché la questione del titolo di questa tragedia è più complessa. In un passo di Arpocrazione (II secolo d. C.) e nella hypothesis della tragedia tramandata dal codice M (= Laur. Plut. 32, 9) si dice che, proprio nelle Eumenidi di Eschilo, le Erinni riconciliate con Oreste grazie all’intervento di Atene furono chiamate (da Atena stessa) “Eumenidi”. Nel testo della tragedia a noi pervenuto non v’è traccia di ciò, sicché G. Hermann, Opuscula, v. II, Leipzig 1827, 132 134, seguito da U. von Wilamowitz Moellendorff, Aischylos. Interpretationen, Berlin 1914, 228 229, considerava lacunoso il dramma in nostro possesso. Per Hermann la lacuna andava supposta dopo il v. 1027. È vero che oggi la maggior parte degli studiosi non segue affatto Hermann in proposito. Tuttavia, la sua posizione andava quantomeno ricordata. Sull’intera questione e col dovuto rimando alle fonti cf. A.L. Brown, Eumenides in Greek Tragedy, in CQ 34/2 (1984), 260 281 (in part. 267 276), il quale tuttavia è all’oscuro delle ricerche del Lohan e fraintende i passi di Ranae, v. 1124, e Thesmoph. v. 135. Sempre sulla questione del titolo del dramma si era già espresso dettagliatamente A.H. Som merstein (ed. by), Aeschylus. Eumenides, Cambridge 1989, 6 12. Il titolo dell’una e dell’altra tragedia se ben intendo qui il sottinteso del Sommerstein non sarebbe poi neppure da imputare a Eschilo, visto che non ne rispecchia il modo di espri mersi. Sui Sette contro Tebe scrive ancora A.H. Sommerstein, Aeschylean Tragedy, Bari 1996 (Collana di Studi e Testi, 15), 97: «The title is unlikely to be original, since the city and people of Thebes are never mentioned under those names anywhere in the play, being referred to instead by names derived from Cadmus, the founder of the city. Probably when the play was originally produced, as part of a connected tetralogy, it did not have a separate title; in the later fifth century, however, it seems to have been restaged on its own (when it greatly impressed the rhetorician Gorgias), and it was known to Aristophanes in 405 by its present name».
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Lo studioso individua dunque una linea evolutiva nella presentazione delle tetralogie tragiche e nella loro registrazione a fini di resoconto e rendicontazione alle Grandi Dionisie del V secolo a. C. (è chiaro che il problema fin qui esposto non si poneva per le commedie, sempre singolarmente rappresentate). Ricapitoliamo quindi così il filo del discorso: almeno fino a circa la metà del secolo la produzione tragica “legata” sarebbe stata presentata con una denominazione d’insieme (collective name, secondo l’efficace definizione di Pickard-Cambridge) e così dunque – ciò almeno pare implicito nel discorso del Sommerstein – votata e indicata nelle registrazioni ufficiali; i singoli pezzi avrebbero ricevuto ciascuno un proprio nome successivamente alla première, in conseguenza della loro riproposizione separata e soprattutto a motivo della loro circolazione libraria: ciascun pezzo infatti doveva occupare un proprio rotolo. Questa ricostruzione è stata salutata con discreto favore negli studi più recenti. Ciononostante, mi sembra indispensabile qui accoglierla con una certa cautela. Troppo poco sappiamo del teatro ateniese del V secolo a. C., per trarre conclusioni sicure e univoche sulle procedure concorsuali e in particolare sulla questione della denominazione delle tragedie legate presentate alle Dionisie. E infatti un esperto come Eduard Lohan non metteva affatto in dubbio che anche i drammi costituenti tetralogie legate avessero avuto, ciascuno, un nome specifico già a teatro; eppure egli aveva ben presente il ricorso a denominazioni d’insieme per le tetralogie in epoca classica. In altre parole, già Lohan ammetteva che nella fase teatrale si usasse tanto un nome d’insieme per la tetralogia legata quanto una denominazione propria per ciascuno dei pezzi che la formavano. Anche questa è in effetti una possibilità concreta, da tenere ben presente²⁴⁶. D’altra parte, l’evoluzione stabilita dal Sommerstein rimane egualmente insufficiente a chiarire il passo delle Rane, da cui siamo partiti. Infatti, come visto, Aristofane non esita a menzionare anche il nome di singole tragedie eschilee, che pure dovettero costituire una tetralogia legata. Così fu almeno per i già ricordati Sette, che furono parte di una tetralogia impostata sul mito di Edipo. E infatti sappiamo che essa era composta dal Laio, dall’Edipo, poi dai Sette e infine dal dramma satiresco Sfinge. Il tutto poté forse essere chiamato Οἰδιπόδεια.
Si noti peraltro che Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 23, parla di index anche per il nome complessivo delle tetralogie legate. Lo scenario che lo studioso sembra ripeto: sembra suggerire in proposito è quello di tetralogie raccolte ciascuna all’interno di una capsa libraria, etichettata di conseguenza col nome complessivo della produzione scenica. È appena il caso di dire che di tale modalità di conservazione dei drammi non sappiamo assolutamente nulla per l’epoca.
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Quel che si ricava complessivamente dai dati fin qui analizzati è quindi che Aristofane tiene conto di due ben diverse possibilità, per chiamare i drammi eschilei: infatti, ora li ricorda a partire dal nome complessivo della tetralogia di appartenenza, ora in funzione del loro nome specifico, cioè della denominazione che ciascun dramma aveva o aveva assunto. È in questo quadro che la ricostruzione del Sommerstein è interessante, perché considera il primo uso come più antico e senz’altro venuto dalla prassi teatrale; il secondo sarebbe invece sorto in conseguenza della circolazione delle tragedie come pezzi a sé stanti (talvolta pure a seguito della loro riproposizione separata in altro teatro). In siffatto ordine di idee, le considerazioni del Lohan rimangono indispensabili a chiarire perché Aristofane abbia preferito sfruttare un modo piuttosto che un altro, per citare i versi delle Coefore. Anzi, a questo specifico proposito, sia lecito adesso sviluppare le conclusioni del Lohan. Infatti, i versi del prologo delle Coefore sono parole pronunciate (come apprendiamo dai versi successivi delle Rane e in part. dal v. 1137) proprio dalla figura di Oreste! Pertanto, citare dall’Orestea non solo serviva a collocare immediatamente quei versi all’interno di un preciso contesto tematico, come già Lohan aveva intuito, ma permetteva al pubblico di Aristofane di riconoscere subito l’identità del soggetto parlante in quel prologo eschileo. A conclusioni sostanzialmente eguali è giunta, come ho potuto constatare quando ormai avevo terminato questa parte del mio lavoro, anche Kaimio, Tragic Titles (come n. 215), 67. Come sopra detto, Aristofane cita altri versi eschilei sfruttando la denominazione complessiva della relativa produzione scenica. Così leggiamo in Thesm., vv. 134– 136 (a parlare è Mnesiloco): E tu, o ragazzo, chi sei, alla maniera di Eschilo ἐκ τῆς Λυκουργείας chiederti voglio. “Che genere di donna [sei]” (ποδαπὸς ὁ γύννις)? Quale la patria? Quale la veste?²⁴⁷.
La tetralogia qui menzionata era composta da Edoni, Bassarai (o Bassaridi), Giovinetti e dal dramma satiresco Licurgo, secondo la tradizione scoliastica re-
Il v. 134 è stato variamente edito dai moderni. Qui seguo l’edizione di N.G. Wilson, Ari stophanis Fabuale II (come n. 234), 77: καί σ’, ὦ νεανίσχ’, ἥτις εἶ, κατ’ Αἰσχύλον. Sulla Licurgia eschilea: K. Deichgräber, Die Lykurgie des Aischylos. Versuch einer Wiederherstellung der dio nysischen Tetralogie, Göttingen 1939 (NGG N. F. III 8); S. Oświecimski, Quo tempore Aeschyli Lycurgia primum acta sit, in Eos 1/54 (1964), 33 43.
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lativa al v. 135 delle Tesmoforiazuse. Dalla stessa tradizione si apprende pure l’esatta provenienza (Edoni) delle parole ποδαπὸς ὁ γύννις²⁴⁸. Anche in tal caso, dunque, un passo di una tragedia è citato a partire dall’insieme di cui essa era stata parte a teatro. La ragione è probabilmente la stessa del caso precedente. Infatti, negli Edoni è Licurgo a pronunciare la domanda ποδαπὸς ὁ γύννις. Lo ha opportunamente rilevato Maarit Kaimio, Tragic Titles (come n. 215), 67. Sulla menzione di altre tetralogie nelle fonti cf. Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 23 – 24, 26 – 27; Hippenstiel, De Graecorum tragicorum principum fabularum nominibus (come n. 15), 14– 17, 49; Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals (come n. 214), 80 – 81. Qui basti sottolineare che i nomi a noi noti delle tetralogie non derivano da tradizione ellenistico-alessandrina e grammaticale, come Hippenstiel pensava, ma risalgono, com’è evidente dai dati sin qui discussi, a epoca classica²⁴⁹. Sofocle, la cui attività si estese sino al termine del V secolo a. C., abbandonò a un certo punto l’uso di concorrere con una produzione scenica legata. Il dato è attestato nella Suda sul conto del personaggio in questi termini: καὶ αὐτὸς ἦρξεν τοῦ δρᾶμα πρὸς δρᾶμα ἀγωνίζεσθαι ἀλλὰ μὴ τετραλογίαν²⁵⁰. Tale cambiamento, se si accoglie il ragionamento di Sommerstein, avrà necessariamente implicato l’uso di una denominazione appropriata per ciascun pezzo già nelle fasi di svolgimento del concorso. Lo stesso bisogna evidentemente ammettere per i drammi non costituenti una tetralogia legata portati in scena già prima dell’avvento di Sofocle. Ad ogni modo, non è poi così vero in senso assoluto che l’uso di una tetralogia legata sia stato, con o dopo Sofocle, abbandonato in favore della presentazione di quattro pezzi tra loro tematicamente indipendenti. A questo riguardo si tenga presente una iscrizione scoperta circa novant’anni fa in uno dei demi dell’Attica, sfuggita all’attenzione di Sommerstein. Si tratta di IG II2 3091, una epigrafe celebrativa da collocare intorno al 380: Ἐ [ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ χορηγῶν ἐνίκα] κ̣ ω̣μ̣ωιδοῖς· Ἐχφαντίδης ἐδίδασκε ⟦ ̣ ⟧ Πείρας. Θρασύβολος χορηγῶν ἐνίκα κωμωιδοῖς· Κρατῖνος ἐδίδασκε Βουκόλoς. Θρασύβολος χορη[γ]ῶν ἐνίκα τραγωιδοῖς·
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Per queste e altre informazioni cf. Mastromarco Totaro (a cura di), Aristofane (come n. 234), 451, n. 22. Su questa tetralogia eschilea cf. A. Garzya in Id., Idee e forme nel teatro greco. Atti del convegno italo spagnolo, Napoli, 14 16 ottobre 1999, Napoli 2000, 161 172. Lo sottolineava già Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 23. Cf. Pickard Cambridge, The Dramatic Festivals (come n. 214), 81. Abbiamo già sopra ri cordato che, nelle fonti antiche, il termine τετραλογία indica una produzione scenica legata.
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Τιμόθεος ἐδίδασκε ᾿Aλκμέωνα, ᾿Aλφεσίβο̣[ιαν. Ἐπιχάρης χορηγῶν ἐνίκα τραγωιδο[ῖς]· Σοφοκλῆς ἐδίδασκε Τηλέφεια̣ν̣ .
Se è giusta l’interpretazione che ne hanno dato Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff e Wolfgang Luppe²⁵¹, in tale iscrizione sono ricordati vari personaggi, coreghi o poeti, vittoriosi tuttavia in agoni diversi (Dionisie e Lenee) nell’arco di almeno due generazioni. E l’ultimo rigo dovrebbe riguardare una trilogia o tetralogia legata non del grande Sofocle, ma del suo omonimo nipote. Ciò significa, e non mi sembra che alcuno lo abbia rilevato a dovere, che l’uso di trilogie o tetralogie legate non era stato del tutto abbandonato. Nell’iscrizione la vittoria del drammaturgo è indicata mediante il nome complessivo del lavoro messo in scena. Se ne deve allora dedurre che l’autore aveva gareggiato presentando il tutto solo con una denominazione d’insieme? E che dunque i singoli drammi, essendo per così dire solo parti (prima, seconda, terza, quarta) di un unico spettacolo teatrale, non avessero avuto in questa fase una specifica denominazione? In teoria ciò è possibile; la cautela sul caso mi sembra parimenti d’obbligo. Al rigo 6 si ricorda un Timoteo didaskalos di due drammi. Di ciascuno è indicata la denominazione. Se nulla è andato perduto di questa parte dell’epigrafe (la pietra in questo punto è stata trovata spezzata), la vittoria di Timoteo sarà avvenuta alle Lenee, dove i tragediografi concorrevano con due opere a testa. Dall’esame di IG II2 3091 risulta ancora una volta evidente quanto poco sappiamo del teatro ateniese nel V e IV secolo a. C. e quanto difficile, per svariati motivi, sia il tentativo di ricostruire puntualmente le procedure che dalla richiesta del coro portavano all’annuncio degli spettacoli e alla loro registrazione ai fini della votazione. Come visto, siamo incerti in particolare sulle forme di
Per l’edizione del documento epigrafico (in particolare alle ll. 1 2) e per il suo commento ho presente W. Luppe, Zu einer Choregeninschrift aus AIΞONAI (IG II/III2 3091), in APF XIX (1969), 147 151; W. Luppe, Nochmals zur Choregeninschrift IG II/III2 3091, in APF XX (1973), 211 212. Si veda ad ogni modo B. Snell (ed.), Tragicorum Graecorum Fragmenta, I, Didascaliae tragicae, catalogi tragicorum et tragoediarum, Testimonia et fragmenta tragicorum minorum, Göttingen 1971, 39, DID B 5. Non approfondisco in questa sede le proposte di lettura della pietra fornite da H.J. Mette, Urkunden dramatischer Aufführungen in Griechenland, Berlin New York 1977, 44 45. Una ben più alta datazione dell’epigrafe (pieno V secolo a. C.) era stata proposta da M. Guarducci, Di una nuova iscrizione coregica, in RIFC LVIII (1930), 202 209; Ead., Ancora sull’iscrizione coregica di Aixone, in RIFC LIX (1931), 243 245. Per l’analisi della iscrizione sono ancora importanti le pagine di U. von Wilamowitz Moellendorff, Kleine Schriften, IV, Berlin 1962, 511 513, e di Pickard Cambridge, The Dramatic Festivals (come n. 214), 54 56.
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registrazione delle cosiddette tetralogie legate e sul momento in cui ciascun pezzo riceveva effettivamente un nome proprio. In che modo ciascuno dei drammi di una tetralogia legata era distinto a teatro? Ci si accontentava di una numerazione per le quattro parti quando, per es., si metteva in scena il mito di Oreste o di Edipo? Oppure ogni tragedia acquisiva o aveva già allora un nome proprio? Problemi destinati in buona parte a rimanere aperti, se non emergeranno nuovi dati. Per quanto riguarda le commedie, ogni candidato gareggiava come detto con un solo pezzo tanto alle Dionisie quanto alle Lenee. Non si vede quindi alcuna difficoltà ad ammettere che ciascun poeta desse un nome al proprio, singolo spettacolo scenico e che il testo della commedia, qualora poi conservato o messo in circolazione, mantenesse, almeno inizialmente, il nome assunto per la rappresentazione. Ma sull’epoca in cui i commediografi cominciarono davvero a diffondere i propri scritti, rifletteremo più avanti, ricordando un giudizio di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff. Ciò detto, poniamoci adesso una domanda di tutt’altro genere. Secondo quale criterio i poeti in età classica davano normalmente un nome alle loro opere sceniche? I tragediografi tenevano semplicemente conto del mito, ovvero del personaggio mitologico trattato, se appunto il loro lavoro verteva su materia di questo tipo. I commediografi, che spesso attingevano alla realtà il tema o il soggetto delle loro opere, dovevano invece giocare d’ingegno anche in proposito. Per ciascuna commedia occorreva trovare una denominazione efficace, in grado di catturare la curiosità del pubblico. Per inquadrare a dovere questo punto, può essere utile riferire in primo luogo l’opinione di un diretto interessato del IV secolo a. C., il comico Antifane²⁵². Questi, infatti, nell’unico frammento (PCG 189) rimasto della sua Ποίησις, vv. 1– 20²⁵³, sottolinea che le opere dei “rivali” (dei tragediografi appunto) go-
Su questo poeta cf. H. G. Nesselrath, Die attische Mittlere Komödie. Ihre Stellung in der antiken Literaturkritik und Literaturgeschichte, Berlin 1990 (Untersuchungen zur antiken Lite ratur und Geschichte, 36), 59 60 e 193 194. Il brano è tramandato da Athen. VI, 222 A. Per la sua edizione cf. Kassel Austin, PCG II, 418, con copioso apparato critico. Il brano era stato diversamente pubblicato da Th. Kock (ed.), Comicorum Atticorum Fragmenta, II, s.v. Antiphanes, fr. 191. Sull’interpretazione del frammento e la sua contestualizzazione storico letteraria cf. Nesselrath, Die attische Mittlere Komödie (come n. 252), 240 241. L’appartenenza del frammento ad Antifane è stata del resto messa in di scussione da Augusto Rostagni, per il quale il vero autore sarebbe stato in realtà Aristofane. La proposta non ha trovato tuttavia accoglienza. Cf. A. Rostagni, Da Aristofane e Antifane ad Aristotele, in Studi in onore di G. Funaioli, Roma 1955, 406 417; O. Bianco, Il frammento della Ποίησις di Antifane ed un prologo anonimo, in RCCM 3 (1961), 91 98. Antifane avrà anche potuto esagerare nell’opporre così drasticamente la materia trattata dai tragici a quella, di volta in volta
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devano di un patrimonio culturale già noto agli spettatori, sicché a un poeta non rimaneva altro che rievocarlo al suo pubblico. Bastava, per esempio, dire «Edipo» e si sapeva già «tutto il resto: il padre Laio, la madre Giocasta» e così via. «Per noi non ci sono questi vantaggi, ma è necessario inventare tutto: nomi nuovi, gli antefatti, le azioni in corso» e quant’altro (vv. 1– 20). I commediografi riuscirono però a trasformare gradualmente questo handicap di partenza in un’arma da usare a loro vantaggio e seppero muoversi con intelligenza anche al momento di scegliere un nome per le loro creazioni. È stato da tempo notato che il nome di molte commedie di Aristofane deriva dal coro. Ma c’è di più: se Aristofane ha chiamato le proprie opere una Vespe, un’altra Rane e così via, ciò è avvenuto anche in considerazione degli effetti che denominazioni del genere potevano suscitare sul pubblico chiamato ad assistere alle rappresentazioni. Questa speciale funzione – attrattiva, potremmo dire – della denominazione degli spettacoli comici fu chiarissima in particolare ad Aristofane, come già Alan Sommerstein ha a suo tempo rilevato. Da questo stesso punto di vista, i commediografi di epoca successiva, tra cui lo stesso Antifane, non fecero altro che seguire l’esempio del loro predecessore, naturalmente adattando le cose ai loro tempi, cioè ai gusti della loro epoca. È così che ci furono commedie chiamate Parassita, Adulteri, Amanti infelici, Misantropo e così via. D’altra parte, bisogna anche sottolineare che il nome di varie commedie di Aristofane non lascia assolutamente presagire l’argomento trattato. Così è per esempio – lo ha osservato Sommerstein – per le Nuvole, che hanno per bersaglio Socrate. Insomma, la denominazione di una commedia non era affatto un aspetto secondario al tempo di Aristofane, ma rispondeva a esigenze di vario tipo²⁵⁴.
costituita ex novo, dei comici. Ed è pur vero che noi non sappiamo come continuava il discorso impostato dal poeta, ovvero quale piega il ragionamento prendesse, e quindi siamo obbligati a maneggiare con prudenza il quadro che il frammento ci presenta. Tuttavia, mi sembra inne gabile che per i comici si sia posto davvero il problema di come catturare preliminarmente la curiosità e l’interesse del pubblico e dunque la questione di quale denominazione usare per fare annunciare le loro opere al pubblico, in modo da interessarlo anticipatamente allo spettacolo. Per queste e altre considerazioni cf. Sommerstein, The Tangled Ways (come n. 215). Il titolo, sotto cui ci sono state tramandate le commedie aristofanee, non coincide però sempre col nome del coro. Si pensi al caso della Pace. Anche qui comunque il nome dell’opera ha una sua valenza attrattiva. Che al tempo di Aristofane il pubblico fosse informato del programma, ossia proprio del nome dei drammi ammessi a concorso dall’arconte, in occasione del proagone o addirittura prima del proagone, lo sostiene in particolare Sommerstein parlando del nome delle commedie dello stesso Aristofane.
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5 Esito degli agoni e registrazione dei risultati Come detto, già dal V secolo a. C. una fissazione completa dei dati fondamentali concernenti gli agoni tragici e comici allestiti dallo Stato ateniese doveva certamente avvenire al termine delle rappresentazioni. La si faceva puntualmente ogni anno, per ragioni di rendicontazione prima ancora che per interessi storicoletterari. E si registrava oltre al nome dell’arconte, sotto il quale l’agone s’era svolto, quello dei coreghi e dei didascali vincitori, le opere messe in scena, il piazzamento degli altri concorrenti (coreghi e didascali) e ovviamente anche in tal caso i relativi spettacoli scenici. Per motivi di rendicontazione sarà stato registrato anche il nome degli attori e una qualche notizia sui premi conferiti²⁵⁵. Della documentazione ufficiale del V secolo a. C. sugli agoni nulla ci è giunto per via diretta. Ignoriamo perfino il luogo in cui essa era deposta. E non sappiamo se i criteri, in base ai quali si stilava annualmente la rendicontazione, siano stati sempre gli stessi nel corso del V secolo a. C., o abbiano conosciuto cambiamenti di rilievo, com’è possibile che sia avvenuto. Ciononostante, ricaviamo l’esistenza di precise rendicontazioni sugli agoni scenici, prodotte come detto anno per anno al termine degli stessi, da vari dati ancora in nostro possesso, per quanto sparsi tra mille rivoli, ossia: da informazioni confluite in materiale epigrafico non anteriore però alla metà del IV secolo a. C.; da brani o frammenti di opere erudite composte a partire dalla seconda metà del IV secolo a. C. in poi (dunque da Aristotele, Dicearco, Callimaco, Eratostene e altri grammatici o eruditi dell’antichità, non ultimo Ateneo); Cf. Blum, Kallimachos und die Literaturverzeichnung (come n. 194), 54. Come sopra più volte ricordato, in particolare Sommerstein ritiene, tuttavia, che almeno in una prima fase della storia dei drammi rappresentati alle Dionisie, le tragedie, se legate in trilogie (o tetralogie, col dramma satiresco), andassero in scena e così al voto anche solo con un nome d’insieme; e che così venissero di conseguenza registrate nella documentazione ufficiale. In tal caso, solo nella fase propriamente libraria si sarebbe imposta la necessità pratica di dare a ciascuno pezzo, ovvero al rotolo che lo conteneva, un “nome proprio”, al fine di potere perfettamente distinguere i vari drammi tra loro. Nell’avanzato IV secolo a. C. Aristotele è quanto si deduce o implica il discorso di Sommerstein sarebbe quindi riuscito a ricostruire nella misura del possibile la consistenza originaria delle varie tetralogie, cioè a individuare i drammi che ne avevano effet tivamente fatto parte, comparando la documentazione ufficiale e il contenuto dei testi a sua disposizione. La tradizione che ci serba il nome complessivo di certe tetralogie e quello delle singole tragedie di appartenenza non farebbe dunque altro che fornirci dati sorti in due momenti diversi. Questa ricostruzione di Sommerstein è tutt’altro che semplice da accettare e quindi potrà apparire al lettore ora più o meno plausibile, ma rimane comunque decisamente ipotetica. Come detto, già Lohan ammetteva invece pacificamente che le tetralogie legate avessero avuto agli agoni tanto un nome d’insieme quanto un nome specifico per ciascuno dei pezzi che le com ponevano.
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e soprattutto dagli argumenta – vere e proprie prefazioni – anteposti ai singoli drammi nella tradizione manoscritta pervenuta. Tutti questi materiali ci informano sui piazzamenti degli autori, sulle rispettive opere, sull’anno della loro rappresentazione, ossia sul nome dell’arconte sotto cui s’era svolto l’agone; sul nome dei coreghi e talvolta su altro ancora²⁵⁶. In un tale processo di conservazione, trasmissione e inevitabile selezione di informazioni risalenti a quell’antica rendicontazione, un posto d’onore è da riconoscere senz’altro ad Aristotele. Fu soprattutto lui a fare da trait d’union tra quella preziosa documentazione ufficiale e la successiva erudizione ellenisticoromana. Le sue Didascalie, di cui abbiamo solo pochi frammenti, erano la raccolta ragionata, e magari laddove necessario implementata, dei dati ufficiali degli agoni. È impensabile che lo Stagirita abbia potuto ricostruire sistematicamente, nonché puntualmente anno per anno, i risultati dei concorsi teatrali sin da epoca più antica, senza disporre di una documentazione di base già a suo tempo opportunamente costituita²⁵⁷. Il riconoscimento dell’esistenza di accurate registrazioni ufficiali al termine degli agoni ateniesi, e del loro sistematico vaglio da parte di Aristotele, non pone però la parola fine alla questione della nascita del titolo dei drammi attici nel V secolo a. C. Per i motivi sopra esposti²⁵⁸, occorre andare al di là dell’evento teatrale ed esplorare, nella misura del possibile, quel che accadeva a conclusione degli spettacoli scenici, quando dell’opera rappresentata non rimaneva che il testo scritto e questo, per ragioni concrete di cui a breve diremo, necessitava di una epigrafe libraria. Ma procediamo con ordine e vediamo anzitutto cosa ne era dei copioni all’indomani degli agoni.
6 Famiglie teatrali e proprietà letteraria Nel V secolo a. C. ad Atene vi furono famiglie teatrali, che si trasmettevano la professione di generazione in generazione. Ciò avvenne, per esempio, tra Eschilo
Per informazione dettagliata in merito cf. Blum, Kallimachos und die Literaturverzeichnung (come n. 194), 50 62. Questo grande lavoro erudito di Aristotele è da inquadrare nel più ampio tentativo di raccolta e sistematico vaglio di materiali concernenti la cultura greca su vari aspetti: politici (i sistemi costituzionali greci), filosofici, naturalistici e appunto letterari: cf. Blume, Einführung in das antike Theaterwesen (come n. 214), 8 9. I frammenti rimasti delle Didascalie aristoteliche sono raccolti in O. Gigon (ed.), Aristotelis Opera, III: Librorum deperditorum fragmenta, Berlin New York 1987, n. 537, 548 558. Mi limito in proposito a rinviare alla precedente n. 255.
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e suo figlio Euforione, tra Sofocle e suo figlio Iofonte, tra Euripide e due dei suoi tre figli, Mnesiloco, che fu attore, ed Euripide il giovane, poeta tragico come il padre. Questa trasmissione d’arte e di saperi finì così facilmente per estendersi per più generazioni²⁵⁹. Ciò spiega perché Sofocle il giovane, figlio di Aristone, poté tranquillamente mettere in scena l’Edipo a Colono alla morte del nonno di cui egli portava il nome²⁶⁰. Sono ben note anche famiglie dedite all’arte della commedia²⁶¹. Entourages come questi furono i primi e agli inizi probabilmente anche gli unici ad avere a cuore la conservazione e condivisione dei testi messi a base delle rappresentazioni sceniche. Si trattava pur sempre dei fondamentali materiali del mestiere, da custodire e sfruttare all’occorrenza per trarne se non altro nuova ispirazione e nuovi lavori. D’altra parte, è pur vero che nessuno distrugge senza motivo le sue creazioni, specialmente se gli hanno fruttato una vittoria (e se possono essere riutilizzate in altra occasione). E non c’è da aspettarsi che lo facessero i drammaturghi più consapevoli della loro arte e di maggior successo del V secolo a. C., specie poi se v’era l’occasione di repliche in teatri diversi da quello della première. Il manoscritto usato dal maestro del coro per la rappresentazione a teatro doveva essere fornito, secondo quanto la critica degli ultimi decenni ha potuto concludere, anche di un sistema di note. Ma di esemplari così caratterizzati dovettero ricavarsene ben pochi²⁶². Invece ci si interessò perlopiù di conservare e ricopiare, ovvero di pubblicare – per quel che ciò può volere dire per l’Atene del V secolo a. C. – i nudi testi drammatici. Così li avrà consultati anche Socrate, se è vera la notizia che lo vuole interessato, tra l’altro, alla consultazione di questo tipo di prodotti scritti²⁶³. In questo modo, e soprattutto all’interno di cerchie come quelle appena ricordate, cominciò ad Atene la storia della tradizione dei testi drammatici. In effetti, non si spiegherebbe altrimenti la sopravvivenza del testo dei drammi di Eschilo, Sofocle ed Euripide prima dell’interessamento dello Stato ateniese, ciò Sull’argomento in generale cf. D. Sutton, The Theatrical Families of Athens, in AJPh 108 (1987), 9 26. Così apprendiamo dall’argumentum II dell’Edipo a Colono, ll. 1.4. Per l’edizione del testo: Sophoclis Fabulae, III: Philoctetes, Oedipus Coloneus, edidit commentario instruxit A. Colonna, Torino 1983, 76 77. Cf. Sutton, The Theatrical Families (come n. 259). Naturalmente ciò si sarà fatto solo per quei pochi, tra gli stessi “addetti ai lavori”, davvero capaci di accordare tra loro segni e testo. Sull’argomento cf. E. Pöhlmann, Die Notenschrift in der Überlieferung der griechischen Bühnenmusik, in WJA (N.F. 2) 1976, 53 72 (qui in part. 70 72); Id., Zur Frühgeschichte der Überlieferung griechischer Bühnendichtung (come n. 217), 294 306. Cf. Pl., Ap. 22 a b.
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che avvenne intorno al 335 a. C.²⁶⁴, e quindi dell’approdo al porto sicuro di Alessandria d’Egitto. Lo stesso deve ammettersi per la produzione di altri tragediografi e per le opere di tanti commediografi del teatro attico di allora. D’altra parte, proprio sulla prima fase di storia della trasmissione della commedia attica, bisogna ricordare quanto affermato da Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, all’atto di recensire il libro di A. Wilhelm, Urkunden dramatischer Aufführungen in Athen, in GGA 1906, 611– 634, qui: 622. Lo studioso fu infatti perentorio nel dire che la prima generazione di comici alla Dionisie era stata così unliterarisch, che poi, a parte il nome di alcuni di loro, non se n’era più saputo niente; e che solo a partire da Cratino e Cratete, cioè con poeti fioriti intorno o poco prima della metà del V secolo, v’era stato reale progresso in questo ambito letterario e anche i commediografi avevano cominciato a diffondere per iscritto le loro opere. È possibile che le cose siano andate davvero così, anche se qualche cautela sarebbe comunque consigliabile, prima di accogliere in pieno il giudizio dell’illustre studioso. In effetti, nessuno può escludere che già qualche testo composto dalla prima generazione di comici attici sia stato conservato e che quindi sia andato perduto solo in seguito per altre ragioni²⁶⁵.
Sull’attenzione rivolta dallo Stato ateniese (in particolare dall’oratore Licurgo, dopo il 338 a. C.) al testo dei grandi tragici cf. L. Battezzato, I viaggi dei testi, in Id. (a cura di), Tradizione testuale e ricezione letteraria antica della tragedia greca, Amsterdam 2003, 7 31. In generale, sulla storia della trasmissione dei testi tragici dell’Atene del V secolo a. C. è prezioso J. Irigoin, La tragédie grecque, de l’auteur à l’éditeur et au traducteur, in A. Garzya F. Tessitore (a cura di), I Venerdì delle Accademie Napoletane nell’Anno accademico 2003 2004, Napoli 2005, 47 64. In questa lucidissima sintesi Irigoin, dopo aver trattato di Eschilo, Sofocle, Euripide e delle loro famiglie teatrali, sostiene tuttavia che «les archives du sanctuaire de Dionysos conservaient sous quelque forme le souvenir des pièces jouées à l’occasion des Grandes Dionysies» (p. 51). Cosa intenda Irigoin esattamente per “souvenir”, non è chiaro. Abbiamo comunque già detto che della deposizione da parte dei poeti cioè proprio della consegna per l’archiviazione dei loro manoscritti all’atto di chiedere od ottenere il coro non vi è alcuna notizia certa per il V secolo a. C. In generale, è vero che dei comici di questo iniziale periodo non ci resta quasi nulla. Persino di un commediografo come Magnete, che secondo Aristotele era stato uno dei «più antichi poeti comici attici» (Poet. 1448a; l’altro poeta ricordato da Aristotele è Chionide) ed era stato molte volte vincitore alle Grandi Dionisie, non ci rimane che una discussa notizia di Aristofane, Eq., vv. 520 524, e poco altro, oltre a qualche verso, che, se davvero genuino, implica però che qualcosa del poeta doveva pur essersi salvato. Per la documentazione sul personaggio cf. R. Kassel C. Austin, PCG, V, Berlin New York 1983, 626 631; e ora soprattutto A. Bagordo, Leukon Xenophilos. Einleitung, Übersetzung, Kommentar, Heidelberg 2014 (Fragmenta Comica, 1.2), 76 113 (in partic. test. 3, 79 80). Ma veniamo ad Aristofane: in un excursus di straordinaria importanza sulla storia del genere comico in contesto ateniese, il poeta comincia col ricordare proprio Magnete, che era stato “moltissime volte” vincitore (Eq., v. 521: ὃς πλεῖστα χορῶν τῶν ἀντιπάλων νίκης ἔστησε τροπαῖα), «avendo dato fiato, per voi, a tutti gli
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Dunque, dell’opera scenica all’indomani della rappresentazione non rimaneva che il testo; e questo sopravvisse, quando ciò avvenne, al modo che s’è detto. Così i pezzi drammatici andarono accumulandosi con una certa rapidità. Ciò vale in particolare per le tragedie: alle Dionisie, come visto, ogni poeta ne presentava tre più un dramma satiresco. È quindi nel giusto chi rileva che tali circostanze posero la necessità di fornire i rotoli di una inscriptio libraria e dunque, più precisamente, di un titolo: così i poeti e i loro entourages potevano ritrovarsi comodamente tra i manoscritti posseduti²⁶⁶. D’altra parte, il passaggio alla inscriptio libraria, prima ancora di essere sollecitato dal bisogno di reperire comodamente un dato testo tra molti, era per così dire imposto da un altro importante fattore, che stranamente non viene mai o quasi mai ricordato negli studi a questo riguardo: la rivendicazione di paternità dei testi stessi. I drammaturghi, lo abbiamo detto in apertura del presente capitolo, non esprimevano il proprio nome all’interno delle rispettive creazioni. Era la regola del genere. D’altra parte, i loro testi, dopo gli agoni teatrali, non rimanevano affatto adespoti. Nel IV secolo a. C., Aristotele cita nella Retorica e nella Poetica svariate opere drammatiche del secolo precedente, senza dubitare della loro paternità, ovvero senza dare a vedere di conoscere incertezze della tradizione a questo riguardo. Ciò significa che generalmente i drammaturghi, di cui egli consultava e studiava i lavori, non avevano esitato a indicare il proprio nome separatamente dal testo stesso, ma pur sempre sul relativo rotolo, già all’indomani della rappresentazione, ovvero quando essi avevano cominciato a conservare le loro tragedie e commedie e a metterle in qualche modo a disposizione degli interessati. Altrimenti si sarebbero posti in breve tempo problemi di pa-
accenti possibili: suonando la lira, sbattendo le ali; / facendo il lidio; ronzando come moscerini; tingendosi del colore delle rane», πάσας δ’ ὑμῖν φωνὰς ἱεὶς καὶ ψάλλων καὶ πτερυγίζων / καὶ λυδίζων καὶ ψηνίζων καὶ βαπτόμενος βατραχείοις (vv. 522 523); per la traduzione, da me lie vemente ritoccata, e commento dei versi cf. Mastromarco, Aristofane (come n. 175), 254 255. Non pochi degli studiosi moderni, accogliendo la tradizione scoliastica sul passo, hanno a lungo ritenuto che, ai vv. 522 523, gli ultimi cinque dei sei participi usati, cioè ψάλλων, πτερυγίζων, λυδίζων, ψηνίζων, βαπτόμενος (qui però in connessione con βατραχείοις), richiamino, sul piano del significato, se non anche in quasi tutti i casi a livello di significanti, il nome di altrettante commedie del poeta: Βαρβιτισταί, Ὄρνιθες, Λυδοί, Ψῆνες, Βάτραχοι, ossia Suonatori di lira, Uccelli, Lidi, Moscerini, le Rane. Altri studiosi contestano in parte o in tutto tali conclusioni. Sulla questione cf. i dubbi di E.S. Spyropoulos, Μάγνης ο κωμικός και η θέση του στην ιστορία της αρχαίας αττικής κωμωδίας, in Ελληνικά 28/2 (1975), 248 274, e il sopra citato lavoro di A. Bagordo alle pp. 82 84. Cf. D. Delattre, Les titres des œuvres philosophiques de l’épicurien Philodème de Gadara et des ouvrages qu’il cite, in Titres et articulations du texte (come n. 32), 106, n. 3.
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ternità per quei testi, Aristotele avrebbe dovuto farvi i conti e certamente li avrebbe rilevati. Del resto, che i drammaturghi sentissero il bisogno di rivendicare la paternità dei testi da loro composti, non è cosa dubbia, dopo quanto abbiamo detto nei capitoli precedenti sull’emergere del fenomeno in altri generi letterari. Nel corso del XX secolo, anzi già in precedenza, molti studiosi hanno peraltro rilevato che, proprio sul versante drammatico, l’esigenza di pubblicare il testo e di fornire il rotolo di una inscriptio recante il nome dell’autore e il titolo del prodotto letterario dovesse essere particolarmente avvertita da vari commediografi e in particolare da Aristofane. Infatti, questi rinunciò svariate volte a chiedere il coro a suo nome, preferendo lasciare ad altri la fatica di concorrere con i testi da lui elaborati, cioè chiedere all’arconte il coro, impegnarsi nella istruzione di coreuti e attori e in generali dedicarsi all’intera rappresentazione. Così facendo – si è sostenuto in considerazione di alcuni versi dei Cavalieri ²⁶⁷ –, il poeta risparmiava certamente tempo ed energie per nuove composizioni, ma andava anche incontro a un grande sacrificio. Infatti, al termine dell’agone, a essere registrato nella documentazione ufficiale non era più il nome dell’autore del testo, ma quello di colui che si era fatto carico della rappresentazione, il didascalo appunto²⁶⁸. In un tale scenario, è chiaro che un poeta come Aristofane
Così si legge in Eq. 512 513: ἃ δὲ θαυμάζειν ὑμῶν φησιν πολλοὺς αὐτῷ προσιόντας / καὶ βασανίζειν, ὡς οὐχὶ πάλαι χορὸν αἰτοίη καθ’ ἑαυτόν, «afferma [il poeta] che molti di voi vanno a chiedergli, meravigliati, perché da tempo non abbia chiesto il coro per sé»; trad. di Mastromarco, Aristofane (come n. 175), 255. Sull’esegesi di questi versi v’è una nutrita letteratura. Per alcuni riferimenti bibliografici cf. infra, nota seguente. Sull’argomento, che vede gli studiosi ancora molto divisi, e su una serie di questioni interconnesse mi limito a indicare in ordine cronologico: F. Leo, Bemerkungen zur attischen Komödie, in RhM 33 (1878), 400 417; Wilamowitz Moellendorff, Einleitung (come n. 209), 121 128; Rohde, Scenica (come n. 219), 251 292; Id., Nachtrag zu den ‘Scenica’, in RhM 39 (1884), 161 162; A. Körte, Zu attischen Dionysos Festen, in RhM 52 (1897), 168 176; E. Reisch, s.v. Didaskaliai, Didaskalos, in RE V (1903), 394 401, 401 406; Körte, Inschriftliches (come n. 228), 424 447; Wilhelm, Urkunden dramatischer Aufführungen (come n. 228); U. von Wilamowitz Moellendorff, Besprechung von: A. Wilhelm, Urkunden dramatischer Aufführungen in Athen, in GGA 168 (1906), 611 634; Jachmann, De Aristotelis didascaliis (come n. 216); H. Öllacher, Zur Chronologie der altattischen Komödie, in WS 38 (1916), 81 157; A. Körte, s.v. Komödie (griechische), in RE XI,1 (1921), 1267 1275; E. Mensching, Zur Produktivität der alten Komödie, in MH 21 (1964), 15 49; Pickard Cambridge, The Dramatic Festivals (come n. 214), passim; Blum, Kallimachos und die Literaturverzeichnung (come n. 194), 72 86; G. Mastromarco, L’esordio “segreto” di Aristofane, in QS 10 (1979), 153 196; S. Halliwell, Aristophanes’ apprenticeship, in CQ 30 (1980), 33 45; D. M. MacDowell, Aristophanes and Athens, Oxford 1995, passim; J.P. Sickinger, Public Records and Archives in Classical Athens, Chapel Hill London 1999, 41 51; C. Brockmann, Aristophanes und die Freiheit der Komödie. Untersuchungen zu den frühen Stücken unter besonderer Be
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non aveva altro modo di riaffermare la paternità di quanto composto se non pubblicando all’indomani delle rappresentazioni il testo composto, fornito sul relativo rotolo di una epigrafe, dov’era indicato il suo nome in quanto autore; naturalmente, accanto al nome del poeta doveva essere indicata volta per volta anche la denominazione specifica del dramma, senz’altro quella già adottata per la corrispondente rappresentazione scenica. Non intendo comunque prendere posizione ora sulla questione, ancora oggi estremamente dibattuta e che ha incontrato vario dissenso (per la bibliografia cf. n. 268). Non v’è ad ogni modo alcun dubbio sul fatto che Aristofane o l’entourage a lui legato, terminati gli agoni, lasciassero “circolare” le commedie fornite, ciascuna sul proprio rotolo, di una iscrizione libraria al modo che s’è appena detto²⁶⁹. Dunque, spinte diverse contribuirono alla sistematica adozione della epigrafe libraria per i rotoli drammatici. Per quanto riguarda la designazione dei singoli testi, va ricordato che per le opere facenti parte di una tetralogia legata v’erano o potevano esservi i problemi di cui abbiamo sopra discusso. D’altra parte, anche per i testi dei drammi, che già a teatro ebbero sicuramente, ciascuno, un “nome proprio”, si posero a volte nel corso della tradizione alcuni problemi, sicché non sempre quei testi circolarono poi sotto il nome con cui il pubblico li aveva per la prima volta sentiti ad Atene.
rücksichtigung der Acharner, München Leipzig 2003 (Beiträge zur Altertumskunde, 180), in part. 1 26, 202 293; M. Sonnino, Aristofane e il concorso lenaico del 422: la parabasi delle Vespe e il contenuto delle Nuvole Prime, in SR 8 (2006), 205 232; A. Bagordo, FrC 1.1 Alkimenes Kantharos, Heidelberg 2014 (Fragmenta Comica, 1.1), s.v.: Kallistratos; L. Canfora, Cleofonte deve morire. Teatro e politica in Aristofane, Bari Roma 2017, passim. Le opere di Aristofane in nostro possesso, benché non tutte andate in scena sotto la sua regia, ci sono nondimeno pervenute sotto il suo nome: il che appunto significa che, conclusa la rappresentazione, il testo delle commedie, iscritto col suo nome, veniva messo a disposizione degli interessati. Che Aristofane abbia «lasciato circolare» i suoi testi già all’indomani delle rappresentazioni, lo deduceva con cautela P. Boudreaux, Le texte d’Aristophane et ses com mentateurs, Paris 1919, 5, a partire dal caso delle Nuvole: «Aristophane semble avoir publié ses comédies peu de temps après leur représentation: quand Aristophane a remanié une de ses comédies, les Nuées par exemple, deux recensions de la pièce se trouvaient dans le public et ont été conservées toutes deux au moins jusqu’à l’époque alexandrine. Un pareil fait ne s’explique que si la publication suivait immédiatement la représentation, si la pièce était publiée avant même que l’auteur eût songé à la remanier».
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7 Per la storia del titolo delle opere drammatiche: sondaggi nella tradizione manoscritta I dati sui titoli, che ora vaglieremo, sono tratti prevalentemente dalla tradizione manoscritta di testi drammatici composti in epoca classica o anche agli inizi di quella ellenistica. La nostra rassegna, per quanto analitica, non ambisce tuttavia all’esaustività. L’obiettivo è solo quello di evidenziare, dopo quanto sin qui detto, alcuni aspetti degni di nota della tradizione in nostro possesso.
7.1 Sul titolo dei drammi dei grandi autori tragici del V secolo a. C.: alcune osservazioni 7.1.1 Il catalogo dei drammi eschilei Cominciamo col considerare il famoso Laur. Plut. 32, 9, un codice composto intorno alla metà del secolo X o poco dopo. Il manoscritto contiene sette tragedie di Sofocle (ff. 1r–118r) e sette di Eschilo (ff. 119r–188r) corredate di hypotheseis o almeno di scoli; le Argonautiche di Apollonio Rodio (ff. 190r–263v), due vite relative allo stesso Apollonio e un catalogo degli argonauti (ff. 263v–264v). Il codice, usualmente indicato come M nelle edizioni di Eschilo, ma come L in quelle sofoclee²⁷⁰, presenta inoltre, al f. 189r, un κατάλογος τῶν Αἰσχύλου δραμάτων: un elenco, ordinato alfabeticamente in funzione della sola prima lettera, di ben 73 titoli di drammi del poeta. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Aeschyli Tragoediae (come n. 236), 7– 8, ne diede l’edizione. Ma non è stato il solo²⁷¹. Senza discutere i vari problemi posti da un così alto numero di drammi²⁷² o la questione della genesi della lista, già oggetto delle indagini di A. Wartelle²⁷³, ci
Sul manoscritto cf. A. Turyn, The Manuscript Tradition of the Tragedies of Aeschylus, Hil desheim 1967 (riproduzione facsimile dell’edizione americana del 1943), 17 20; su di esso si veda ora F. Montana, Dallo scaffale mediceo della poesia greca antica, in M. Bernabò (a cura di), Voci dell’Oriente. Miniature e testi classici da Bisanzio alla Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze 2011, 36, 43 45. Per la sua datazione cf. il recente contributo di N. Kavrus Hoffmann, From pre bouletée to bouletée: scribe Epiphanios and the codices Mosq. Synod. Gr. 103 and Vat. Gr. 90, in A. Bravo García, I. Pérez Martín (edd.), The Legacy of Bernard de Montfaucon: Three Hundred Years of Studies on Greek Handwriting, Turnhout 2010, I, 55 66, in part. 62 63. Sulla tradizione manoscritta della lista si veda Turyn, The Manuscript Tradition (come n. 270), 19 e 28 29. Cf. a riguardo A. Dieterich, Die Zahl der Dramen des Aischylos, in RhM 48 (1893), 141 146. Cf. A. Wartelle, Histoire du texte d’Eschyle dans l’antiquité, Paris 1971 (Collection d’études anciennes), 19 39.
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interessa piuttosto rilevare che in essa sono annoverati tre drammi sul mito di Prometeo: Προμηθεὺς δεσμώτης: n. 55; Προμηθεὺς πυρφόρος: n. 56; Προμηθεὺς λυόμενος: n. 57. Se davvero Eschilo ne fu l’autore – ma neppure su questo punto la critica moderna è d’accordo – e se si accoglie in tutto l’ipotesi di Sommerstein sopra esposta e che qui non ripeterò, allora si potrebbe anche fare intorno alle tre tragedie una ipotesi di questo tipo: inizialmente esse avranno anche potuto costituire una trilogia legata, annunciata a teatro e registrata nella documentazione ufficiale semplicemente col nome di Προμήθεια²⁷⁴; sempre se si accetta la ricostruzione generale di Sommerstein, solo in una seconda fase, successiva agli agoni, ciascun dramma sarà stato designato sul proprio rotolo, in modo tale da potere essere distinto agevolmente dagli altri; così, ciascuno dei tre scritti ricevette per titolo il nome di Prometeo accompagnato ogni volta da un diverso epiteto, il che assicurò appunto la distinzione dei drammi tra loro²⁷⁵. Drammi di altre trilogie (o tetralogie) legate poterono invece ricevere nella fase propriamente libraria anche un nome del tutto distinto da quello della relativa produzione scenica e che non rispecchiava neppure il lessico del rispettivo autore. Lo suppone Sommerstein almeno per i Sette a Tebe e le Eumenidi ²⁷⁶. Ancora nel catalogo di M, qualche dramma (num. 8, 23, 33, 60, 70) è indicato con due titoli, separati dalla particella disgiuntiva ἤ²⁷⁷. Questo per esempio il caso di Φρύγες ἢ Ἕκτορος λύτρα (n. 70). Non abbiamo motivo di credere che Eschilo abbia presentato così il dramma a concorso, cioè con una doppia denominazione. Questo uso pare estraneo alla sua epoca. Dobbiamo di conseguenza supporre che il dramma, presto o tardi, e per ragioni che ignoriamo in questo caso particolare, abbia preso a circolare in un ramo della tradizione sotto
Cf. Sommerstein, The Tangled Ways (come n. 215), 16, n. 15. Sommerstein ritiene del resto che il Προμηθεὺς πυρφόρος abbia fatto parte di un’altra trilogia. Ad ogni modo, la logica del discorso che qui espongo, non cambia. Sull’uso di epiteti accanto al nome del personaggio trattato cf. le considerazioni di M.L. West, The Prometheus Trilogy (come n. 215), qui in part. 131 (ma la questione dell’origine dell’uso è probabilmente molto più complessa). Come sopra visto, è questa tuttavia solo una possibilità che il vuoto sulle procedure con cernenti gli agoni ufficiali non permette di verificare fino in fondo. Per le Eumenidi, come visto, la questione è però particolarmente delicata. Del catalogo delle opere eschilee si occupa largamente A. Wartelle, Histoire du texte d’Eschyle dans l’antiquité, Paris 1971 (Collection d’études anciennes), 19 39. Boudreaux, Le texte d’Aristophane (come n. 269), 14 24, attribuisce agli ambienti alessandrini la costituzione della lista di opere 42 titoli di Aristofane tramandata nel ms. Ambr. L 39 sup. (XIV sec.).
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il primo titolo, in un altro sotto il secondo. Il catalogo li riporta semplicemente tutti e due²⁷⁸.
7.1.2 Le hypotheseis dei drammi di Sofocle Le tragedie che non costituivano una produzione legata e che poi ebbero la fortuna di avere una qualche conservazione e circolazione, poterono essere diffuse senza problemi col nome con cui già a teatro erano state annunciate al pubblico o registrate negli atti ufficiali. Per necessità di catalogazione, ovvero per bisogno di distinguere tra opere omonime di uno stesso autore, poteva tuttavia anche accadere che un testo drammatico cambiasse a un certo momento, in parte o anche in tutto, la sua denominazione. In proposito è istruttiva la hypothesis che accompagna l’Aiace flagellifero di Sofocle in parte della tradizione manoscritta²⁷⁹. Il testo prefatorio è ben noto²⁸⁰ e pertanto ne estrapolo l’essenziale: 1) la tragedia a teatro, ovvero negli atti ufficiali, ebbe semplicemente il nome di Aiace, senza articolo e senza epiteto riferito al personaggio. E così fu indicata, oltre che negli atti ufficiali, anche da Aristotele nelle Didascalie (ἐν δὲ ταῖς διδασκαλίαις ψιλῶς Αἴας ἀναγέγραπται); 2) L’epiteto μαστιγοφόρος, «flagellifero», comparve solo successivamente nella fase propriamente libraria; la tradizione erudita giustificava l’aggiunta in ragione dei fatti narrati nel dramma, oppure, più concretamente, allo scopo di distinguere questo dramma da quello composto dallo stesso Sofocle sull’altro Aiace, il locrese (ἢ πρὸς ἀντιδιαστολὴν τοῦ Λοκροῦ); 3) Dicearco volle invece intitolare la tragedia Morte di Aiace: Δικαίαρχος δὲ Αἴαντος θάνατον έπιγράφει. Di quest’ultima inscriptio non rimane traccia nella tradizione diretta, a mia conoscenza. Invece αἴας μαστιγοφόρος è il titolo che l’opera esibisce in principio e fine nel Laur. Plut. 32, 9, cioè al f. 1r e al f. 16v. In entrambi i casi il titolo è preceduto dal genitivo σοφοκλέους.
Sul doppio titolo dei testi tragici cf. Terzaghi, Fabula. Prolegomeni (come n. 15), I, 302 304. La hypothesis manca in L (Laur. Plut. 32, 9) ma figura in A (Paris. Gr. 2712). Dei due testimoni ho consultato la riproduzione digitale online. Cf. Sophoclis fabulae, II, Oedipus Tyrannus, Antigona, Trachiniae, edidit commentario in struxit A. Colonna, Torino 1978, 4 5.
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Passiamo ora alla cosiddetta seconda hypothesis dell’Edipo Re ²⁸¹, tramandata al f. 33r del già ricordato codice laurenziano 32, 9, e da A (= Paris. Gr. 2712, fine XIII, inizio XIV sec.) alla p. 139. Questa hypothesis è tramandata sotto un titolo eloquente: Διὰ τί τύραννος ἐπιγέγραπται. In effetti, in essa si cerca di spiegare l’epiteto τύραννος, che figura, accanto a Οἰδίπους, come titolo del dramma nella tradizione manoscritta dell’opera. Nella hypothesis si legge anzitutto: ὁ τύραννος Οἰδίπους ἐπὶ διακρίσει θατέρου ἐπιγέγραπται. L’epiteto serviva dunque a distinguere il dramma da quello omonimo di Sofocle (il riferimento è chiaramente all’Edipo a Colono). Ma poi leggiamo: χαριέντως δὲ τύραννον ἅπαντες αὐτὸν ἐπιγράφουσιν, ὡς ἐξέχοντα πάσης τῆς Σοφοκλέους ποιήσεως, καίπερ ἡττηθέντα ὑπὸ Φιλοκλέους, ὥς φησι Δικαίαρχος. La tragedia era dunque intitolata “tiranno” da tutti quanti per una giusta ragione: essa eccelleva nell’ambito della produzione sofoclea e ciò a dispetto del fatto che Sofocle non era riuscito a imporsi con tale lavoro su Filocle, «come dice Dicearco». I punti sin qui evidenziati costituirono certamente il nucleo originario della detta hypothesis. Infatti, il testo che ci è stato tramandato, prosegue a questo punto con affermazioni di diverso tenore, che quasi contraddicono le precedenti. Infatti, si dice che alcuni, invece di intitolare il dramma come (Οἰδίπους) τύραννος, preferivano designarlo come πρότερος, cioè «primo» di due, e per questa ragione: perché la tragedia precede l’altra (qui si torna all’Edipo a Colono) nelle registrazioni didascaliche e nei fatti narrati: διὰ τοὺς χρόνους τῶν διδασκαλιῶν καὶ διὰ τὰ πράγματα. La hypothesis termina con alcune considerazioni sull’uso e la storia del termine τύραννος nei poeti greci. Nel testo prefatorio convivono quindi informazioni non perfettamente congruenti tra loro. Se ne ricava ad ogni modo quanto segue: i due drammi sofoclei, andati in scena in anni diversi, furono indicati nella documentazione ufficiale soltanto col nome del personaggio trattato, che poi, come visto, era lo stesso. E almeno il primo dei due dovette anche essere conservato e circolare in qualche copia tout court col titolo di Οἰδίπους. E infatti Aristotele lo chiama in questo modo in vari luoghi della Poetica: per la citazione dei brani cf. Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 24.
Per l’edizione del testo cf. Sophoclis fabulae, I, Aiax, Electra, edidit commentario instruxit A. Colonna, Torino 1975, 11. Sulla trasmissione manoscritta delle opere sofoclee si vedano: A. Turyn, Studies in the Manuscript Tradition of the Tragedies of Sophocles, Urbana 1952 (Illinois Studies in Language and Literature XXXVI, n. 1 2); R.D. Dawe, Studies in the Text of Sophocles, I, Leiden 1973, II, 1978, con le recensioni di N.G. Wilson in JHS 96 (1976), 171 174, e di J. Irigoin in Gnomon 50 (1978), 721 725.
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Solo successivamente, con la produzione e circolazione dell’altro dramma, si pose la necessità di ovviare alla loro omonimia, tanto più che essi erano dello stesso autore. Si percorsero così due strade: quella dell’aggiunta di un epiteto al nome di Edipo; oppure si fece ricorso a una indicazione d’ordine. Ma almeno il primo dei due drammi continuò pure a essere ricordato o citato alla maniera già sfruttata da Aristotele²⁸².
7.1.3 Il Laur. Plut. 32, 2 e il titolo dei drammi di Euripide L’alterazione o la completa sostituzione del titolo di un’opera drammatica poteva comunque avvenire anche in una fase molto avanzata della trasmissione. Mi limiterò in proposito a fornire qualche esempio, considerando la produzione euripidea²⁸³. L’Ippolito coronato presenta, negli esemplari conservati, normalmente il titolo ἱππόλυτος oppure ἱππόλυτος στεφανηφόρος²⁸⁴. Così per esempio in testa e in chiusura dei seguenti testimoni²⁸⁵:
Un lucido inquadramento della vicenda è in P.J. Finglass (ed. with introduction, translation and commentary by), Sophocles, Oedipus the King, Cambridge 2018, 165 166. Per Wilamowitz Moellendorff, Einleitung (come n. 209), 197 198, l’autore della hypothesis sin qui discussa sa rebbe il Sallustio, a cui la tradizione manoscritta attribuisce altre due hypotheseis, l’una al l’Edipo a Colono e l’altra all’Antigone di Sofocle; egli sarebbe inoltre l’autore della hypothesis all’Aiace, della quale ci siamo sopra occupati. In effetti in questi testi prefatori il problema del titolo è argomento centrale. Sull’intera questione cf. anche W. Luppe, Dikaiarchos und der Οἰδίπους Τύραννος, in Hermes 4/119 (1991), 467 469. Vasta esplorazione della tradizione manoscritta dei drammi euripidei è in A. Turyn, The Byzantine Manuscript Tradition of the Tragedies of Euripides, Urbana 1957 (Illinois Studies in Language and Literature, 43): di quest’opera ho consultato la ristampa anastatica per i tipi dell’Erma di Bretschneider, Roma 1970 (Studia philologica, 16). Sulla storia della tradizione delle opere euripidee si vedano almeno: Pertusi, Selezione teatrale e scelta erudita (come n. 230), 111 141, 195 216 e ancora in Dioniso 20 (1957), 18 37; G. Zuntz, An Inquiry into the Transmission of the plays of Euripides, Cambridge 1965; V. Di Benedetto, La tradizione manoscritta euripidea, Padova 1965; A. Tuilier, Recherches critiques sur la tradition du texte d’Euripide, Paris 1968 (Études et commentaires, 68); P. Carrara, Il testo di Euripide nell’antichità. Ricerche sulla tradi zione testuale euripidea antica (sec. IV a.C sec. VIII d.C.), Firenze 2009; A. Tuilier, Remarques sur les fondements historiques et rationnels de l’édition critique des drames d’Euripide, in REG 123 (2010), 881 895. Alla luce delle considerazioni sopra esposte è possibile che il dramma agli agoni fosse stato chiamato solo ἱππόλυτος e che l’epiteto στεφανηφόρος sia comparso successivamente, con la circolazione del testo. L’epiteto richiama in ogni caso il v. 73 della tragedia, dove Ippolito si presenta coronato per il servizio al culto di Artemide. Ricordo qui che persino l’epiteto στε φανηφόρος non può dirsi in assoluto stabile nella tradizione del titolo della tragedia: una delle hypotheseis del dramma attesta almeno una variante notevole (στεφανίας) in proposito. Cf. W.S.
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A (= Paris. Gr. 2712, fine XIII – in. XIV sec.): p. 92: ἱππόλυτος στεφανηφόρος – p. 114: τέλος ἱππολύτου. B (= Paris. Gr. 2713, XI sec.): f. 82v: ἱππόλυτος – f. 108r: ἱππόλυτος στεφανηφόρος. D (Laur. Plut. 31, 15, sec. XIV): f. 1r: εὐριπίδου ἱππόλυτος – f. 19r: εὐριπίδου ἱππόλυτος στεφανηφόρος. P (così sono usualmente indicate le parti euripidee del Vat. Pal. Gr. 287 e del Laur. Conv. Sopp. 172, XIV sec.; oggi disgiunte, costituivano in origine un unico manoscritto²⁸⁶; il testo della tragedia è nella parte vaticana): f. 150r: εὐριπίδου ἱππόλυτος στεφανηφόρος – f. 162v: εὐριπίδου ἱππόλυτος στεφανηφόρος. V (= Vat. Gr. 909, seconda metà del XIII sec.²⁸⁷): f. 157v: εὐριπίδου ἱππόλυτος – f. 196v: τέλος ἱππολύτου. M (= Marc. Gr. 471, XII sec.) reca una inscriptio al f. 133v avente questo tenore: ἱππόλυτος²⁸⁸.
Le cose si presentano invece in modo alquanto diverso nell’illustre Laur. Plut. 32, 2 (= L), un codice degli inizi del XIV secolo²⁸⁹, alla cui confezione cooperarono più mani²⁹⁰.
Barrett (ed. with introduction and commentary by), Euripides. Hippolytos, Oxford 1964, 10, n. 1; 96, ll. 27 28. Tralascio, per tali testimoni, di indicare i segni che circoscrivono di volta in volta la ins criptio. Cf. A. Turyn, Codices Graeci Vaticani saeculis XIII et XIV scripti annorumque notis instructi…, Civitate Vaticana 1964, 127 128. Per la riproduzione in facsimile del manoscritto: Euripidis quae in codicibus Palatino Graeco inter Vaticanos 287 et Laurentiano Conv. Soppr. 172 (olim Abbatiae Florentinae 2664) inveniuntur, phototypice expressa cura et impensis J.A. Spranger, t. I: Codex Palatinus inter Vaticanos 287; t. II: Codex Laurentiano Conv. Soppr. 172 (olim Abbatiae Florentinae 2664), Romae et Florentiae 1939 1946. Sulla sua datazione si veda tuttavia quanto scrive N.G. Wilson, Scholars of Byzantium, rev. ed., London 21996, 342. Per l’esame del manoscritto mi sono servito di: Euripidis quae in codice Veneto Marciano 471 inveniuntur phototypice expressa, cura et impensis J. A. Spranger, vol. I II, Florentiae 1935. I dati librari sull’Ippolito ricavabili da questo o altri manoscritti sono registrati correttamente da W.S. Barrett (ed. by), Euripides. Hippolytus (come n. 284), 97; inaffidabile W. Stockert (edidit), Euripides. Hippolytus, Stutgardiae Lipsiae 1994. Secondo A. Turyn, Dated Greek Manuscripts of the Thirteenth and Fourteenth Centuries in the Libraries of Italy, vol. I, Urbana Chicago London 1972, 209, il manoscritto fu realizzato attorno al 1315. Il Laur. Plut. 32, 2 è il famoso esemplare che conserva sette tragedie di Sofocle (ff. 2r 61v), tutte le tragedie di Euripide a eccezione delle Troiane (ff. 68r 232r), tre tragedie di Eschilo
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III I drammi
La tragedia euripidea, che occupa qui i ff. 157r–166v, esibisce sul margine superiore del f. 157r una inscriptio, rubricata dalla prima mano, L1, di modulo molto maggiore rispetto a quello del testo vero e proprio, e di questo tenore: εὐριπίδου φαίδρα. L’inscriptio è preceduta e chiusa da un segno di croce. La discrepanza tra il titolo appena evidenziato e quello attestato dal resto della tradizione bizantina è notevole. E non sfuggì a Demetrio Triclinio, l’illustre dotto bizantino fiorito agli inizi del XIV secolo, il quale, rivedendo il manoscritto, operò egli stesso, sul margine superiore del foglio 157r, ma ben al di sopra della inscriptio rubricata, la seguente aggiunta in inchiostro nero: εὐριπί[δ(ου)] ἱππόλυτ(ος) στεφανηφόρ(ος). La inscriptio tricliniana è preceduta da un segno di croce ed è seguita da due punti verticalmente disposti e da un trattino sospeso²⁹¹.
(Prometeo, i Sette e buona parte dei Persiani: ff. 233r 252v) e altro ancora, tra cui il testo delle Opere e Giorni di Esiodo ff. 62r 67v. Alla confezione del codice hanno contribuito varie mani con apporti di diversa consistenza. Un copista per noi anonimo, d’ora innanzi indicato come L1, ha curato la trascrizione dei testi poetici che occupano i fogli 2r 117r e 157r 252v. I fogli 119r 154r sono invece di Nicola Triclinio. È stata inoltre riconosciuta la mano di Demetrio Triclinio, il quale è intervenuto in vari momenti sul testo trascritto dai primi due copisti con correzioni e aggiunte di vario genere (scholia, numerazione dei drammi, hypotheseis e altro ancora). Dell’originario codice dovevano far parte pure alcuni fogli, contenenti gli Idilli di Teocrito. Sono oggi conservati a Parigi sotto la segnatura: Paris. Gr. 2722: si tratta dei ff. 6r 15v; i fogli 6r 13r sono di L1. In L è stata pure riconosciuta la mano di Simone Atumano, vescovo di Gerace in Calabria dal 1348 e arcivescovo latino di Tebe dal 1366. Di questo straordinario erudito poliglotta sono state indi viduate note in molti fogli del manoscritto. A lui pare si deva al f. 1v la hypothesis all’Aiace di Sofocle. Per una descrizione completa del manoscritto, per le mani che hanno collaborato e si sono succedute e per una copiosa informazione bibliografia si veda l’eccellente lavoro di Turyn, The Byzantine Manuscript Tradition (come n. 283), 222 258. Su Simone Atumano è sempre fondamentale G. Mercati, Se la versione dall’ebraico del codice Veneto greco VII sia di Simone Atumano arcivescovo di Tebe. Ricerca storica con notizie e documenti sulla vita dell’Atumano, Roma 1916 (Studi e Testi, 30); da consultare sono pure: C. Collard, Three Scribes in Laurentianus 32.2?, in SIFC 35/1 (1963), 107 111; G. Mason, A Note on Laurentianus 32.2, in CQ 48 (1954), 56 60; J.A. Spranger, Some Notes on the Manuscript of Euripides Laurentianus 32,2 (L), in SIFC 10/4 (1933), 315 324; C. Gallavotti, La silloge tricliniana di Teocrito e un codice parigino lauren ziano, in BollClass 3/3 (1982), 3 22. Va ancora notato che l’esatta posizione stemmatica di questo testimone è ancora oggetto di discussione per vari motivi: si vedano in proposito gli studi di G. Basta Donzelli, Euripide, Elettra. Dai codici alle prime edizioni a stampa, in BollClass 3/10 (1989), 70 105; Ead., Un filologo ispirato al lavoro: Demetrio Triclinio, in ΣΥΝΔΕΣΜΟΣ. Studi in onore di Rosario Anastasi, II, Catania 1994, 7 27; M. Magnani, La tradizione manoscritta degli Eraclidi di Euripide, Bologna 2000 (“Eikasmos”, Studi, 3). Questa inscriptio non è segnalata neppure da Barrett (ed. by), Euripides. Hippolytus (come n. 284), 97. Turyn, The Byzantine Manuscript Tradition (come n. 283), 237, oltre ad averla se gnalata, ha pure identificato la mano a cui essa si deve. Oggigiorno essa risulta solo parzial
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In L il dramma in questione reca pertanto, al f. 157r, due titoli diversi, scritti da due mani diverse, rappresentanti di due tradizioni altrettanto diverse sullo stesso aspetto. Il titolo indicato dal Triclinio è antichissimo. Per tradizione diretta esso è testimoniato tra l’altro da un papiro di epoca ellenistica, cioè dal P.Sorb. inv. 2252, del quale più avanti (capitolo VIII della III Parte) diremo per altri motivi²⁹². Quanto al titolo alternativo Φαίδρα, è lecito interrogarsi sull’epoca della sua apparizione. A torto lo si è considerato come frutto di una svista del copista di questa parte di L. Infatti, esso era noto a Eustazio di Tessalonica, secondo quanto si ricava da due luoghi del suo commento all’Odissea (ζ 633, 21; η 690, 41)²⁹³. Anche Giovanni Tzetzes conosceva il titolo Φαίδρα per la stessa tragedia: ciò si ricava da due luoghi (957 e 1043) dei suoi scolii alle Rane di Aristofane²⁹⁴. Determinare l’esatta antichità del titolo alternativo appena evidenziato rimane in ogni caso difficile. In Adv. indoct. 28, Luciano di Samosata ricorda la Εὐριπίδου Φαίδρα, ma in questo modo egli intende richiamare l’attenzione essenzialmente sulla figura delineata dal poeta, non sull’opera letteraria nel suo insieme, o almeno così a me sembra²⁹⁵. Che poi la tragedia circolasse già a quel tempo in qualche esemplare sotto il titolo Φαίδρα, non lo si può ovviamente escludere a priori, ma non ne abbiamo prove certe. L’esistenza di questo titolo alternativo richiama alla memoria un parallelo notevole di ambito latino. Infatti, la tragedia di Seneca dedicata allo stesso mito presenta, in un ramo della tradizione, rappresentato dal cosiddetto codice Etruscus (Laur. Plut. 37, 13, tardo XI secolo) e dai suoi apografi, proprio il titolo mente leggibile in conseguenza della rifilatura del manoscritto (o almeno così sembra dalla riproduzione digitale da me consultata). Cf. infra, Parte III, cap. VIII, Rotoli e titoli. Per i passi di Eustazio si veda M. van der Valk (edidit ad fidem codicis Laurentiani), Eustathii archiepiscopi Thessalonicensis Commentarii ad Homeri Iliadem pertinentes, II, Lugduni Batavorum 1976, 274 e 496. Si noti che lo studioso segnala in apparato altre attestazioni perti nenti alla questione del titolo dell’opera. Lo stesso Turyn, The Byzantine Manuscript Tradition (come n. 283), segnala (p. 237, n. 218) uno dei due passi di Eustazio. Sulla questione dei due diversi titoli del dramma: Tuilier, Recherches critiques (come n. 283), 107, n. 1. Da consultare pure J. Diggle, The Textual Tradition of Euripides’ Orestes, Oxford 1991, 82 83. Sull’argomento si veda più in generale R.L. Hunter (ed. with a comm. by), Eubulus: the Fragments, Cambridge 1983 (Cambridge Classical Texts and Commentaries, 24), 146 148. I due passi di Tzetzes sono segnalati da Tuilier, Recherches critiques (come n. 283), 107, n. 1. Per l’edizione degli scolii di Tzetzes alle Rane cf. W.J.W. Koster (edidit edendave curavit), Scholia in Aristophanem, Pars IV: Jo. Tzetzae commentarii in Aristophanem, ediderunt L. Massa Positano D. Holwerda W.J.W. Koster, Fasc. III, Commentarium in Ranas et Aves, Argumentum Equitum, Amsterdam 1962, qui in part. 973 974; 1005 1006. Di diverso avviso Tuilier, Recherches critiques (come n. 283), 107, n. 1.
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Phaedra, mentre nell’altro ramo (usualmente indicato come A) il dramma è designato come Hippolytus. Si vedano in proposito i dati offerti da M. Coffey – R. Mayer (ed. by), Seneca, Phaedra, Cambridge 1990, 30. Di sicuro rimane dunque “solo” che Eustazio e Giovanni Tzetzes menzionano l’opera euripidea come Φαίδρα. Pertanto, l’inscriptio rubricata al f. 157r del codice laurenziano non è innovazione del copista a cui dobbiamo la trascrizione della tragedia in L. Al f. 166v, in chiusura della stessa tragedia, L esibisce la subscriptio (userò d’ora innanzi la parola in senso equivalente a: inscriptio finale): εὐριπίδου ἱππόλυτος στεφανηφόρ(ος), preceduta da un segno di croce e seguita da un due punti in inchiostro scuro. Questa volta non è stata la mano del Triclinio a vergarla. È stato L1, cioè la mano a cui dobbiamo il titolo alternativo poc’anzi studiato? Mi Sembra di sì. Ma non intendo prendere su questo punto una posizione definitiva: lo farò quando avrò potuto ispezionare direttamente il manoscritto; per l’analisi sin qui esposta mi sono invece servito della sua riproduzione digitale²⁹⁶. Il titolo rubricato da L1 al f. 157r non è stato dunque ripetuto in chiusura dell’opera, al f. 166v. In un gioco di mani e di inchiostri si alternano invece in L titoli diversi tra inizio e fine della stessa tragedia: Φαίδρα oppure Ἱππόλυτος στεφανηφόρος. A margine di quanto osservato, si può notare che sul foglio 166v la mano di 1 L e quella di Demetrio Triclinio si sovrappongono più di una volta nel lavoro di titolatura. Infatti, poco sotto la subscriptio ricordata, L1 in inchiostro scuro aveva presentato la nuova tragedia con la seguente indicazione: + εὐριπίδου μήδει(α) +²⁹⁷. Demetrio riprende quanto scritto dalla mano precedente, corregge e prosegue: + εὐριπίδου μηδείας ὑπόθεσις · ζήτει εἰς τ(ὸ) τέλ(ος) τοῦ δράματος. Segue anche qui un due punti e poco dopo un trattino sospeso. La ὑπόθεσις vergata dal Triclino figura in effetti al f. 176v, in chiusura del dramma. Ancora al f. 166v seguono i nomi dei personaggi della nuova tragedia, preceduti e seguiti da un segno di croce. La scrittura è quella di L1. Dopo uno spazio bianco, sostanzialmente sullo stesso rigo di scrittura, se rigo fu tracciato, e in corrispondenza della seconda colonna di testo della pagina, interviene nuovamente Demetrio, il quale, con inchiostro assai scuro e a lettere con asse
Stando alla riproduzione digitale da me consultata, l’inchiostro della subscriptio appare leggermente più chiaro di quello usato da L1 per la stesura dei versi euripidei sullo stesso foglio. La subscriptio potrebbe essere quantomeno un’aggiunta compiuta da L1. La sottoscrizione non mi risulta segnalata neppure dal Turyn. Anche a Turyn, The Byzantine Manuscript Tradition (come n. 283), 246, è sfuggita la pre senza del secondo segno di croce di L1, celato dalla riscrittura del Triclinio.
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leggermente inclinato a destra, com’era suo solito fare²⁹⁸, scrive: + εὐριπίδου μήδεια. Anche qui segue il due punti e un trattino sospeso. Subito sotto abbiamo il testo completo della Medea, trascritto dalla mano di L1. Il sistema di titolatura dei drammi euripidei in un testimone così importante come L è frutto di un lavoro tutt’altro che regolare. Diligente non è stato il copista, per noi anonimo, a cui dobbiamo, a partire dal foglio 157r, la trascrizione dell’Ippolito/Fedra e di altre tragedie. Infatti, egli solo in qualche caso ha voluto rubricare la inscriptio o la subscriptio dei vari drammi, mentre in altri ha tralasciato del tutto l’indicazione²⁹⁹. Ma diligente, a ben vedere, non è stato neppure Demetrio Triclinio, nonostante il suo essersi ripetutamente applicato al manoscritto, com’è noto, ora per correggerne il testo ora per integrarlo e arricchirlo con aggiunte di vario genere. Almeno per quel che riguarda i titoli, la sua revisione pare discontinua. Che l’indicazione del titolo dei drammi e la revisione operata in proposito dal Triclinio siano state complessivamente un lavoro tormentato, lo si ricava anche da ciò che L esibisce per l’Oreste. La inscriptio di questo dramma, rubricata al f. 209v, è diversa da quella esibita da altri esemplari, in quanto vi si legge εὐριπίδου ἠλέκτρα. La mano che l’ha stesa è la stessa che aveva realizzato l’altra in inchiostro rosso al foglio 157r: L1. Peraltro, anche al foglio 209v l’intestazione è preceduta e seguita da un segno di croce. Al f. 220v, ovvero in chiusura del dramma, doveva esservi una subscriptio, forse rubricata. Successivamente essa fu erasa. Oggi se ne scorgono sul foglio appena le tracce. È lecito qui chiedersi per quale motivo fu rimossa la subscriptio e quale fosse il suo tenore. Vi si leggeva forse εὐριπίδου ἠλέκτρα? Una ispezione del manoscritto – anche per questa parte mi sono servito della riproduzione digitale – potrà forse confermare questa possibilità. Quanto a Demetrio, non sappiamo quale ruolo egli abbia avuto, se ne ha poi avuto uno, in questo punto del manoscritto. Di sicuro la sua mano non era intervenuta al foglio 209v, a indicare il titolo usualmente esibito dal dramma in altri testimoni. Sul titolo alternativo dell’Oreste, L non è in posizione isolata rispetto al resto della tradizione³⁰⁰. Anche P – qui Conv. Sopp. 172 – esibisce al f. 51v la inscriptio εὐριπίδου ἠλέκτρα per la stessa tragedia. La subscriptio del dramma, al f. 67r,
Sulla scrittura di Demetrio Triclinio cf. ora D. Bianconi, Tessalonica nell’età dei Paleologi. Le pratiche intellettuali nel riflesso della cultura scritta, Paris 2005 (Dossiers byzantins, 5), passim. Lo rileva, pur con qualche imprecisione, Zuntz, An Inquiry (come n. 283), 133 134. In proposito cf. Turyn, The Byzantine Manuscript Tradition (come n. 283), 44, 172, 175.
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suona poi concordemente τέλος εὐριπίδου ἠλέκτρας³⁰¹. Ma ancora P è notevole per un’altra ragione. Al f. 51v, la tragedia è preceduta da un testo prefatorio, intestato come ὀρέστου ὑπόθεσις. Lo stesso foglio offre, dunque, di fatto, due diversi titoli per la stessa tragedia³⁰². Anche in Z (Cambridge University Library, Nn. 3.14, sec. XIV) la inscriptio suona εὐριπίδου ἠλέκτρα, mentre la subscriptio ha questo tenore: εὐριπίδου δράματος ἠλέκτρας τέλος³⁰³. Invece altri testimoni da me vagliati recano regolarmente il titolo Ὀρέστης, accompagnato o meno dal genitivo del nome dell’autore. Così per es.: – A, p. 19: εὐριπίδου ὀρέστης – p. 38: τέλος ὀρέστου εὐριπίδου³⁰⁴. – B, f. 28v: εὐριπίδου ὀρέστης – f. 56r: τέλος εὐριπίδου ὀρέστης. – V, f. 25r: εὐριπίδου ὀρέστης – 64v: τέλος τοῦ δράματος τοῦ ὀρέστου. Come per l’Ippolito, che presenta nella inscriptio il titolo Fedra, anche per l’Oreste abbiamo dunque, e questa volta in più testimoni, una variante notevole del titolo, Elettra. A quando questa risalga, è però difficile dire.
È quanto ricavo dalla ispezione del facsimile di P: Euripidis quae in codicibus Palatino Graeco (come n. 286). Per i dati appena discussi cf. V. Di Benedetto (a cura di), Euripidis Orestes. Introduzione, testo critico, commento e appendice metrica, Firenze 1965 (Biblioteca di studi superiori, 51), 5, con rimando agli scoli, e 303. Si noti ancora un fatto interessante: in P (parte laurenziana) figura anche la tragedia euripidea usualmente intitolata Elettra. L’inscriptio al f. 28v suona εὐριπίδου ἠλέκτρα, la subscriptio al f. 40r τέλος εὐριπίδου ἠλέκτρας. Di conseguenza, il manoscritto presenta, a pochi fogli di distanza, sotto lo stesso titolo due diverse opere dello stesso autore. Un fenomeno simile, ma di senso opposto, si ha sempre in P (qui ancora parte laurenziana) per l’Ecuba. Al f. 40r, seconda colonna, comincia la tragedia, la cui inscriptio è εὐριπίδου ἑκάβη, non diversamente dunque da quanto leggiamo in altri testimoni. Ma sul finire della prima colonna la inscriptio della relativa hypothesis suona ὑπόθεσις πολυδώρου. Insomma, anche in questo caso lo stesso foglio fornisce, di fatto, due titoli per lo stesso dramma. Ne trasse le conseguenze la mano moderna che ha steso l’indice latino del manoscritto: sul foglio di guardia, indicato come B nel facsimile, la tragedia è registrata Hecuba sive Polydoros. Il foglio di guardia A aveva anch’esso un pinax, e in greco. Dei titoli indicati rimangono però solo poche tracce visibili: è quanto almeno ricavo dalla riproduzione digitale. Forse l’ispezione dell’originale darà frutti migliori a questo particolare riguardo. Sul titolo del dramma in L, dove la situazione è ben più complessa di quello che solitamente se ne rileva, e in alcune fonti bizantine, mi limito qui a rimandare a K. Matthiessen (Edition und Kommentar von), Euripides, Hekabe, Berlin New York 2010 (Texte und Kommentare. Eine altertumswissenschaftliche Reihe, 34), 90, apparato, s.v.: inscriptio. Per il resto mi accontento di avere rilevato sin qui una serie di fenomeni spiegabili in modi anche diversi. Per questi dati dipendo da Diggle, The Textual Tradition (come n. 293), 82, 85. Per informazioni di carattere più generale F. Chapouthier (text établi et annoté par) L. Méridier (et traduit par), Euripide. Tome VI1: Oreste, Paris 1959 (CUF), 33, apparato critico.
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L’apparizione del titolo alternativo potrebbe del resto essere spiegata in più di una maniera. Si potrebbe certo supporre che per banale confusione, o lacuna del modello di copia, un amanuense abbia indicato come inscriptio del dramma il nome della persona loquens del prologo, Elettra appunto. Ma più in generale si potrebbe sulle prime anche sospettare che L sia testimone di una tendenza speciale, volta a preferire titoli femminili invece che maschili per i drammi euripidei. Ma su questo punto L è testimone anche del fenomeno opposto. Infatti, il codice è notevole anche sul titolo delle Baccanti. È noto che per il testo di questa tragedia dipendiamo fondamentalmente da due testimoni. L’uno è appunto L, che si arresta bruscamente al v. 755, l’altro è P (= qui Vat. Pal. Gr. 287). In quest’ultimo testimone l’opera è intestata εὐριπίδου βάκχαι al foglio 185v ed è chiusa dalla subscriptio τέλος εὐριπίδου βακχῶν al foglio 197v. Invece L presenta la tragedia al f. 76r sotto la inscriptio: εὐριπίδου πενθεύς. Non sappiamo se e quale tenore avesse la subscriptio ³⁰⁵. L’intitolazione appena constatata si è propagata negli apografi: per esempio nel Paris. Gr. 2817 (XV sec.), f. 277r e nel Laur. Plut. 31. 1 (XV sec.), f. 22v³⁰⁶. Dunque, ancora una volta L offre un titolo alternativo di una tragedia euripidea. La designazione Πενθεύς riflette una tradizione di età quantomeno tardoantica. Si legga Giovanni Stobeo (V secolo), il quale afferma di avere attinto a: – Εὐριπίδου Πενθεῖ i versi Σὺ δ’ εὔτροχον μὲν γλῶσσαν ὡς φρονῶν ἔχεις, / ἐν τοῖς λόγοισι δ’ οὐκ ἔνεισί σοι φρένες (= Bacch. 268 – 269): così Stob. IV, 36, 9; – Εὐριπίδου Πενθεῖ i versi Θρασύς τε δυνατὸς καὶ λέγειν οἷός τ’ ἀνὴρ / κακὸς πολίτης γίνεται νοῦν οὐκ ἔχων (Bacch. 270 – 271): Stob. IV, 4, 2; – Εὐριπίδου Πενθέως i versi di Bacch. 314– 317: Οὐχ ὁ Διόνυσος † μὴ σωφρονεῖν ἀναγκάσει / γυναῖκας εἰς τὴν Κύπριν· ἀλλ’ εἰς τὴν φύσιν / τοῦτο σκοπεῖν
Per la inscriptio in L ho controllato tramite riproduzione digitale il f. 76 ma la qualità della riproduzione non mi permette di assicurarmi in senso assoluto del suo tenore, sicché rimango comunque dipendente da H. Grégoire (text établi et traduit par) J. Meunier (avec le concours de), Euripide. Tome VI2 [Les Bacchantes], Paris 41961 (CUF), 242. Da questa edizione ricavo pure notizia sulla consistenza della tradizione manoscritta. Sul problema dei due titoli di questa tragedia: cf. E.R. Dodds (edited with introduction and commentary by), Euripides. Bacchae, Oxford 21960, xxix e 3, apparato. Chiaramente si tratta di apografi di L solo fino al v. 755. Sul rapporto di filiazione del Laur. Plut. 31, 1 da L cf. Turyn, The Byzantine Manuscript Tradition (come n. 283), 364 365; A. Tessier, Un metodo filologico in atto? L’Euripide del 1503, le Baccanti e la (apparente) riscoperta della responsione strofica, in Manuciana Tergestina et Veronensia, Trieste 2015 (Graeca Tergestina. Studi e testi di Filologia greca, 4), 197 218, qui in part. 200, n. 15.
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χρή· καὶ γὰρ ἐν βακχεύμασιν / οὖσ’ ἥ γε σώφρων οὐ διαφθαρήσεται: Stob. IV, 23, 8. Ovviamente non si può escludere che le citazioni di Stobeo siano di seconda mano e dunque riflettano tradizione più antica³⁰⁷. Abbiamo fin qui osservato alcuni dati notevoli che la tradizione manoscritta di epoca bizantina riserva sul titolo delle opere di Euripide. Ma in proposito la documentazione da vagliare è ben più abbondante e potremmo tranquillamente considerare anche evidenze ben più vetuste.
7.1.4 Altra documentazione sul titolo dei drammi di Euripide Anche di Euripide si fecero nel mondo antico liste di titoli. A diretto contatto con questa prassi siamo messi, tra l’altro, dal P.Oxy. XXVII 2456, un frustulo del tardo II secolo d. C., che presenta sul verso di un registro di tasse un elenco di titoli anche questa volta alfabeticamente ordinati in funzione della sola prima lettera. L’elenco, per quel che ne rimane, procede da σ al χ annoverando ben 18 pezzi euripidei, tutti altrimenti già noti, fra tragedie e drammi satireschi. Senza ripetere quanto di valido gli studiosi hanno già detto in proposito³⁰⁸, è interessante però almeno ricordare che nella lista compare due volte il titolo
Sulla ricezione di Euripide in Stobeo è fondamentale R.M. Piccione, Sulle citazioni euripidee in Stobeo e sulla struttura dell’Anthologion, in RFIC 122 (1994), 175 218 (sulle Baccanti citate sotto il titolo Penteo: p. 183). L’edizione fu data da E.G. Turner, List of Euripides’ Plays, in The Oxyrhynchus Papyri, XXVII, London 1962, 69 70; poi nuovamente edito con commento da Otranto, Antiche liste di libri (come n. 28), 51 52, tavola VII, n. 10; il titolo non presenta segni di numerazione. In proposito si vedano Turner, Papiri greci (come n. 140), 119 120; P. Carrara, Editori e commentatori di Euripide della prima età ellenistica, in La cultura letteraria ellenistica. Persistenza, innovazione, trasmis sione. Atti del convegno COFIN 2003, Università di Roma “Tor Vergata”, 19 21 settembre 2005, a cura di R. Pretagostini E. Dettori (“Seminari romani di cultura greca”. Quaderni, 10), Roma 2007, 247 255 (qui in particolare 251 253); Puglia, Il libro e lo scaffale (come n. 28), 49 50. Sull’ordinamento alfabetico della tradizione dei drammi euripidei e persino delle hypotheseis relative cf. M. van Rossum Steenbeek, Greek Readers’ Digests? Studies on a Selection of Subli terary Papyri, Leiden 1998, 1 24. Il P.Oxy. XXVII 2456 appare in rapporto col P.Oxy. XXVII 2455, che conserva varie hypotheseis di opere euripidee: cf. ancora Turner, Papiri greci (come n. 140), 120 121; Otranto, Antiche liste di libri (come n. 28), 53. I sommari sono ordinati alfabeticamente secondo la prima lettera del titolo del dramma: su questo uso cf. R. Pfeiffer, History of Classical Scholarship. From the Beginnings to the End of the Hellenistic Age, Oxford 1968, 129. Sulle hypotheseis tragiche sono ora essenziali i lavori di C. Meccariello, Title, ἀρχή, ὑπόθεσις: Notes on the Heading and Arrangement of the Tragic Hypotheses on Papyrus, in T. Derda A. Łajtar J. Urbanik (ed. by), Proceedings oft he 27th International Congress of Papyrology (Warsaw 29 July 3
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Φρίξος. Documentazione papiracea apparentata (P.Oxy. XXVII 2455, ll. 221 e 267) e in generale erudita (scolio al v. 1225 delle Rane di Aristofane; Giovanni Tzetzes a commento dello stesso scolio a Ran. 1225) ci portano in questo caso a concludere che la duplice segnalazione del titolo riflette non due esemplari dello stesso dramma egualmente disponibili nel fondo librario descritto dalla lista, ma proprio due opere perfettamente omonime di Euripide. Ciò detto, si può anche sottolineare che nella lista manca qualsiasi accorgimento volto a differenziare i due drammi, non v’è neppure un numerale. La lista rispecchiava evidentemente in modo fedele la inscriptio delle due opere conservate. Il fatto è notevole, ma non deve essere considerato un unicum. Un parallelo significativo è offerto, se ci rivolgiamo nuovamente all’ambito latino, ancora una volta dalle tragedie di Seneca. Infatti, l’Hercules furens e l’Hercules Oetaeus sono intitolati semplicemente Hercules nel ramo rappresentato dal codice Etruscus. In proposito si veda ancora quanto scritto da M. Coffey – R. Mayer (ed. by), Seneca, Phaedra, Cambridge 1990, 30. Il campo del titolo dei drammi euripidei si rivela ricco di dati da studiare anche sul piano epigrafico. A quest’ultimo proposito mi limiterò a ricordare un monumento del I secolo d. C., il cosiddetto Marmor Albanum (IG XIV 1152 = IGUR IV 1508), ritrovato agli inizi del XVIII secolo a Roma sull’Esquilino e oggi conservato al Louvre di Parigi (n.m. 343). Euripide è rappresentato assiso. Accanto a lui sono elencati parecchi suoi drammi alfabeticamente ordinati solo in considerazione della prima lettera; questo aspetto è dunque comune a parecchi cataloghi conservati³⁰⁹. I titoli sono ripartiti in due colonne, l’una alla destra del poeta, l’altra alla sinistra. La prima esibisce attualmente 25 titoli, ma si notano immediatamente sotto almeno le tracce di un ventiseiesimo. La seconda ne presenta 11³¹⁰.
August 2013), Warsaw 2016, 1185 1200, e soprattutto: Le hypotheseis narrative die drammi eu ripidei. Testo, contesto, fortuna, Roma 2014 (Pleiadi, 16). Ci sono pure pervenute liste di libri non organizzate secondo un criterio alfabetico. Sull’ordinamento alfabetico dei drammi euripidei si veda: Pertusi, Selezione teatrale e scelta erudita (come n. 230), 197 e 210, n. 9; Turner, Papiri greci (come n. 140), 121. Su IG XIV 1152 cf. N. Pechstein, Euripides Satyrographos. Ein Kommentar zu den Euripideischen Satyrspielfragmenten, Stuttgart Leipzig 1998 (Beiträge zur Altertumskunde, 115), 29 34. Sul marmo si veda G. Richter, The Portraits of the Greeks, vol. I, London 1965, 133 140, esp. 137 no. II a; fig. 760 761. Un altro documento epigrafico contenente una lista di titoli euripidei (ma vi figurano anche titoli di altri autori) è IG II/III2 2363, iscrizione, databile tra la fine del II e gli inizi del I secolo a. C., sulla quale dirò ancora a breve.
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7.2 Le commedie 7.2.1 Revisioni d’autore e titoli alternativi Non c’è alcuna difficoltà a credere che un commediografo, terminato l’agone, decidesse di “licenziare” il testo della commedia con la denominazione adottata per la rappresentazione a teatro. Ma se l’autore procedeva a una revisione di quanto scritto, e magari già lasciato circolare, e ne ricavava in questo modo una versione rifatta, ossia una “seconda edizione”, non si sentiva costretto a conservare il titolo di prima. Alcuni esempi. A quanto si ricava dalle fonti, e in particolare da due passi di Ateneo, la prima versione di una commedia di Difilo (IV–III a. C.) circolò sotto il titolo Αἱρησιτείχης («Espugnatore di mura»); la seconda, frutto di revisione del testo precedente, sotto il titolo Στρατιώτης («Soldato»); accadde poi che Callimaco, per ragioni che ci sfuggono, decise di dare al dramma altro titolo ancora: Εὐνοῦχος («Eunuco»). Secondo Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, questo ulteriore cambiamento di nome toccò alla versione rifatta, non alla prima³¹¹. Un famoso catalogo epigrafico (IG II/III2 2363, qui alle linee 33 – 35) attesta, ad ogni modo, per la fine del II secolo a. C. o per gli inizi del secolo successivo, la presenza di entrambe le versioni in una biblioteca ateniese³¹². Sul catalogo si veda, oltre al già citato studio del Wilamowitz-Moellendorff, quanto scritto da M. Burzachechi³¹³. Di cambiamenti del titolo in conseguenza di una revisione del testo siamo informati da Ateneo anche per altre commedie. Di particolare importanza sono quei passi, in cui l’erudito menziona un’opera del già ricordato Antifane (IV sec. a. C.). La commedia è indicata da Ateneo ora sotto il titolo Ἄγροικος ora come Βουταλίων, oppure in entrambe le maniere. In Deip. VIII, 358d, egli precisa tuttavia che Βουταλίων «è la revisione di uno degli ᾿Aγροίκων», ὅπερ δρᾶμα τῶν ᾿Aγροίκων ἐστὶν ἑνὸς διασκευή. Alcuni studiosi ne deducono non senza motivo che il testo della commedia fu dunque rivisto non una ma due volte. Il primo
In Ath. XI 496e si legge: Δίφιλος [ἐν] Αἱρησιτείχει τὸ δὲ δρᾶμα τοῦτο Καλλίμαχος ἐπι γράφει Εὐνοῦχον λέγει δὲ οὕτως; poco più avanti, in Ath. XI 497b, si legge invece: Δίφιλος δ’ ἐν Εὐνούχῳ ἢ Στρατιώτῃ ἐστὶ δὲ τὸ δρᾶμα διασκευὴ τοῦ Αἱρησιτείχους (…). Per l’interpre tazione dei due passi cf. U. von Wilamowitz Moellendorff, Analecta Euripidea, Berlin 1875, 140; Blum, Kallimachos und die Literaturverzeichnung (come n. 194), 237 238 e n. 252. Si è a lungo supposto che la biblioteca fosse quella dello Ptolemaion, ma il dato non è certo: cf. R. Nicolai, Le biblioteche dei ginnasi, in Nuovi annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari 1 (1987), 17 48 (qui: 33). Cf. M. Burzachechi, Ricerche epigrafiche sulle antiche biblioteche del mondo greco, in RAL, s. VIII, XVIII (1963), 75 96 (qui in part. 93 96); studio continuato in RAL 39 (1984), 307 339.
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rifacimento conservò il titolo originario, Ἄγροικος. Un nuovo titolo fu necessario per la seconda revisione³¹⁴. Sempre Ateneo segnala un cambiamento di nome anche per altre commedie³¹⁵. Come detto, la revisione del testo di una commedia non comportava per un autore l’obbligo di un nuovo titolo. Lo si ricava ancora una volta da Ateneo, per esempio laddove egli parla di due “edizioni” della Synorìs di Difilo (Deip. VI, 247 c), oppure di due versioni del Dioniso di Magnete (Deip. IX, 367 f e XIV, 646)³¹⁶, e da altra documentazione in nostro possesso. D’altra parte, non si deve neppure credere che l’esistenza di titoli alternativi per una stessa commedia sia sempre spia di una revisione del testo o “seconda edizione”. In questo ordine di idee è quanto mai giustificata la presa di posizione di Kenneth Dover, il quale ha affermato che è assai difficile precisare il numero di commedie scritte da un comico ateniese, giacché lo stesso poeta a volte scriveva due drammi dello stesso nome, ma il secondo era o completamente differente dal primo oppure una versione rivista; oppure lo stesso dramma era finito sotto titoli diversi; o ancora due poeti avevano scritto drammi omonimi, di cui poi sopravvisse solo uno, sicché la sua paternità potrebbe essere messa in discussione³¹⁷.
Per un dettagliato quadro delle fonti disponibili e per la loro interpretazione cf. Nesselrath, Die attische Mittlere Komödie (come n. 252), 288 289 e n. 12; I.M. Konstantakos, Antiphanes’ Agroikos Plays. An Examination of the Ancient Evidence and Fragments, in RCCM 46/1 (2004), 9 40, qui in part. 9 29. Per esempio, Ateneo (III 110b e) dice che Ἐπίχαρμος δ’ ἐν Ἥβης γάμῳ κἀν Μούσαις τοῦτο δὲ τὸ δρᾶμα διασκευή ἐστι τοῦ προκειμένου ἄρτων ἐκτίθεται γένη, «Epicarmo nelle Nozze di Ebe e anche nelle Muse questo dramma è un rifacimento del precedente espone i generi di pane». Anche questa notizia non è di agevole interpretazione. L’attività di Epicarmo di Siracusa si colloca, com’è noto, al sorgere del genere letterario della commedia, sicché gli studiosi si chiedono se il rifacimento sia da imputare allo stesso Epicarmo oppure ad altra e ben più tarda mano. In ogni caso, la testimonianza di Ateneo garantisce che le due versioni finirono presto o tardi per circolare sotto nomi diversi. Ovviamente, non siamo neppure in grado di stabilire fino a che punto le due versioni divergessero l’una dall’altra. Una testimonianza di Eliano, nat. an. XIII, 4, ricorda le Nozze di Ebe e le Muse all’interno di un’unico elenco di titoli di Epicarmo, senza metterle tuttavia in alcun modo in relazione tra loro. Per maggiori dettagli cf. R. Kerkhof, Dorische Posse, Epicharm und Attische Komödie, München 2001 (Beiträge zur Alter tumskunde, 147), 118 e n. 1. Anche in questo caso si pongono gli stessi problemi che abbiamo rilevato alla nota pre cedente a proposito di Epicarmo. Stante l’epoca in cui si colloca l’attività di Magnete, a chi davvero è da imputare il rifacimento del Dioniso? All’autore in persona o piuttosto ad altra mano, com’è più che lecito credere? Cf. Dover, Aristophanes. Frogs (come n. 237), 1, n. 1.
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7.2.2 La lista delle opere di Aristofane Il problema di accertare l’esatto numero di drammi composti si pone persino sul conto di Aristofane, benché le nostre conoscenze sulla sua attività poetica siano molto più nutrite che su quella di altri commediografi. Di lui furono tramandate al mondo bizantino 11 commedie complete³¹⁸, ma egli dovette comporne almeno una quarantina, se non di più. È quanto, tra l’altro, lascia credere un κατάλογος τῶν αὐτοῦ ποιημάτων, cioè un elenco di titoli dei suoi drammi, scoperto nella seconda metà del XIX secolo dal benemerito Francesco Novati nell’Ambros. L 39 sup., sec. XIV, al f. 89v. L’elenco fu pubblicato nel 1879 dallo stesso Novati con una preziosa nota di commento di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff ³¹⁹. Ricerche successive hanno portato alla individuazione di un secondo testimone della lista di titoli: il Vat. Gr. 918, sec. XIV, f. 1r-v. Edizione del catalogo fondata sui due esemplari fu data da R. Cantarella, Aristofane. Le commedie, vol. 1: Prolegomeni, Milano 1949, n. 231, 142– 144. Ma è nota pure l’esistenza di un terzo testimone. Si tratta del Vat. Reg. Grec. 147, sec. XIV, f. 1v. Qui tuttavia i titoli si leggono a fatica: di alcuni rimane appena traccia, di altri fu necessario ripassarne la scrittura con nuovo inchiostro. Per il vaglio critico di tale tradizione cf. PCG III, 2, Test. 2a. La lista³²⁰ è introdotta dalle seguenti parole: δράματα δὲ αὐτοῦ μδ′. Quindi, le commedie del poeta ateniese dovevano ammontare, per chi ne curò l’elenco, a 44, ma i titoli successivamente menzionati attestano al massimo l’esistenza di 42 drammi³²¹. L’ordine secondo il quale i drammi sono menzionati è chiaramente
Per la storia della trasmissione delle opere aristofanee cf. ora A.H. Sommerstein, The History of the Text of Aristophanes, in G.W. Dobrov (ed.), Brill’s Companion to the Study of Greek Comedy, Leiden 2010, 399 422. F. Novati, Index fabularum Aristophanis ex codice Ambrosiano L 39 Sup., in Hermes 14/3 (1879), 461 464 (la nota di commento del Wilamowitz Moellendorff è in chiusura dell’articolo: 464 465). Si vedano in merito: O. Regenbogen, Pinax, in RE XX,2 (1950), coll. 1408 1482 (qui in part.: 1426 1428; le informazioni qui fornite non sono sempre corrette); W. Daly, Contributions to a History of Alphabetization in Antiquity and the Middle Ages, Bruxelles 1967 (Collection Latomus, 90), 23 24; Pfeiffer, History of Classical Scholarship (come n. 308), 129 130; Blum, Kallimachos und die Literaturverzeichnung (come n. 194), 240 241, 263 289. Una lista di titoli di Aristofane ci è conservata nel P.Oxy. XXXIII 2659. Sul papiro cf. soprattutto R. Otranto, Elenchi di commedie aristofanee: P. Oxy. 2659 e altri cataloghi manoscritti, in I. Andorlini G. Bastianini M. Manfredi G. Menci (a cura di), Atti del XXII. Congresso internazionale di papirologia: Firenze, 23 29 agosto 1998, Firenze 2001, II, 1057 1065. A questo numero si arriva a condizione a) di fare valere ogni volta per due ogni titolo accompagnato da β′ e b) di considerare come semplici titoli alternativi di uno stesso dramma tutti quelli introdotti dalla disgiuntiva ἤ. Sulle fonti relative ai titoli dei drammi di Aristofane e sul numero effettivo dei drammi da lui composti è ancora istruttivo lo studio di C.O. Zuretti, Il
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alfabetico. In qualche punto, tuttavia, esso è palesemente perturbato o non rispettato. Il criterio alfabetico nell’ordinamento dei titoli è peraltro limitato alla sola prima lettera, come in altre liste fissate in antico. Gli studiosi si sono chiesti se, per i titoli raggruppati secondo la lettera iniziale, subentri poi un ordinamento cronologico. In proposito occorre tuttavia muoversi con molta prudenza³²². Nell’elenco il titolo di tre opere (Θεσμοφοριάζουσαι, Νεφέλαι, Πλοῦτος) è accompagnato dall’indicazione β′. Chi aveva stilato la lista era dunque al corrente che tali drammi erano in circolazione (o avevano dovuto esserlo) in due ben distinte versioni³²³. Precisazioni del genere non compaiono, se esaminiamo la tradizione diretta, nella inscriptio libraria dei drammi in questione. Ciò vale almeno se ispezioniamo un fondamentale testimone delle commedie di Aristofane: il codice Ravennate 429 (Biblioteca Comunale Classense; olim: 137, 4, A), databile alla metà circa del X secolo³²⁴. Il Pluto presenta, al f. 1r, una inscriptio in cui figura il genitivo d’autore (qui Aristofane è ricordato anche in quanto “ateniese”) e il titolo dell’opera, ma non è indicato se si tratti della prima o della seconda versione. Lo stesso si può osservare per la inscriptio delle Nuvole al f. 15v e per quella delle Tesmoforiazuse al f. 162v. Il Pluto presenta inoltre, al f. 15r, una
numero delle comedie (sic) di Aristofane, in Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino 28 (1893), 3 20. Cf. quanto rileva U. von Wilamowitz Moellendorff a commento della scoperta di Novati, Index fabularum (come n. 319), 464 465. Sui rifacimenti aristofanei si raccomanda ora P. Mureddu G. Nieddu, Se il poeta ci ripensa: rielaborazioni e riscritture nella tradizione aristofanea, in M. Taufer (ed.), Studi sulla commedia attica, Freiburg im Breisgau 2015, 58 62. Sulla discussa revisione delle Nuvole: K.J. Dover, Aristophanes: Clouds, Oxford 1968, LXXX XCVIII; H. Emonds, Zweite Auflage im Altertum. Kulturgeschichtliche Studien zur Überlieferung der antiken Literatur, Leipzig 1941, 277 290; E.C. Kopff, The date of Aristophanes Nubes II, in AJP 111 (1990), 318 329; H. Tarrant, Clouds I: Steps towards Reconstruction, in Arctos 25 (1991), 157 181; I.C. Storey, The Date of Aristophanes’ Clouds II and Eupolis’ Baptai: a reply to E.C. Kopff, in AJP 114 (1993), 71 84; J.J. Henderson, Problems in Greek Literary History: the Case of Aristophanes’ Clouds, in R.M. Rosen J. Farrell (ed.), No modeiktes: Greek Studies in Honor of Martin Ostwald, Ann Arbor 1993, 591 601; A. Casanova, La revisione delle Nuvole di Aristofane, in Prometheus 26 (1990), 19 34. Del codice ravennate ho ispezionato il facsimile: Aristophanis comoediae undecim cum scholiis: Codex Ravennas 137, 4, A., phototypice editus. Praefatus est J. van Leeuwen, Lugduni Batavorum 1904. Così pure per il Marc. Gr. 474: Αριστοφάνους κωμῳδίαι. Facsimile of the Codex Venetus Marcianus 474, with a preface by John Williams White and an introduction by Th.W. Allen, London Boston 1902. Per un’analisi codicologica e paleografica dell’esemplare raven nate si veda P. Orsini, L’Aristofane di Ravenna. Genesi e formazione tecnica e testuale di un codice, in Scriptorium 65 (2011), 321 337.
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subscriptio costituita dal genitivo del nome dell’autore e dal titolo dell’opera. Anche qui manca un preciso riferimento alla versione effettivamente conservata. Torniamo così all’index Novati. Qui tre drammi sono indicati con due titoli separati dalla solita disgiuntiva ἤ. Per esempio, leggiamo Λυσιστράτη ἢ Διαλλαγαί. Se diamo ancora una volta uno sguardo al codice Ravennate 429, la commedia è indicata, nella inscriptio al f. 111v, solo alla prima maniera³²⁵. L’opera non è poi fornita di una subscriptio al f. 127v. Queste poche osservazioni sui titoli dei drammi aristofanei mostrano a sufficienza quanto spinosa su tanti aspetti possa rivelarsi la documentazione in nostro possesso. Ma senza continuare su questo punto, procediamo nel nostro discorso, affrontando altri problemi. Abbiamo sopra visto che un poeta, se lo voleva, poteva adottare un nuovo titolo per il testo rivisto. Ma altri fattori, che non conosciamo o non possiamo sempre stabilire in casi particolari, potevano poi interferire nella tradizione del titolo, cambiandolo in parte o in tutto.
7.2.3 Ricerche sul titolo delle opere menandree Un’opera di Menandro, per trattare ora di un autore della commedia nuova, è indicata nella documentazione in nostro possesso in tre forme parzialmente diverse: ora al maschile singolare Σικυώνιος, ora al femminile singolare Σικυωνία, ora al maschile plurale Σικυώνιοι. La prima forma ricorre in una serie di citazioni perlopiù assai tarde. Così anche la seconda. L’ultima è attestata invece già da un famoso papiro della commedia (P.Sorb. inv. 72 + 2272 + 2273), che esibisce, alla fine del testo (Fr. XXI, P.Sorb. inv. 2272e), anche la sottoscrizione σικυώνιοι | μενάνδρου. La sottoscrizione presenta, al rigo sottostante, anche una indicazione sticometrica. Il papiro è della seconda metà o della fine del III secolo a. C. Si tratta quindi di un prodotto librario realizzato a pochi decenni di distanza dalla morte di Menandro³²⁶.
La commedia non è tramandata dal Marc. Gr. 474. Cf. A. Blanchard A. Bataille (éd. par), Fragments sur papyrus du SIKYONIOS de Ménandre (Recherches de Papyrologie, 3), Paris 1964, 103 176 (si veda in particolare la tav. XIII). Sul papiro si veda ora L. Del Corso, Text and Paratext in Early Greek Bookrolls: Some Reflections on Extant Papyrological and Literary Evidence, in L. Arcari G. Del Mastro F. Nicolardi (a cura di), Dal papiro al libro umanistico (come n. 33), S&T 15 (2017), 1 36, qui in part. 1 6, con una bella riproduzione di P.Sorb. inv. 2272e alla Tav. II. La forma plurale del titolo della commedia è attestata anche in una iscrizione del II secolo: cf. J. M. Jacques, Le Sicyonien de Ménandre, in Le Théâtre grec antique: La Comédie. Actes du 10e colloque de la Villa Kérylos à Beaulieu sur Mer les 1er et 2 octobre 1999, Paris 2000, 237 251, qui in part. 239 e nn. 5 7.
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Delle tre varianti la seconda non trova alcuna giustificazione nei contenuti dell’opera e va pertanto scartata come forma corrotta del titolo originale del dramma. Rimangono le altre due. Quale quella genuina? Una presa di posizione assolutamente sicura non sembra in tal caso possibile. Se stiamo alla pura e semplice cronologia delle attestazioni disponibili, la forma da accogliere dovrebbe essere quella al plurale, documentata appunto per tradizione diretta dal papiro della Sorbona³²⁷. Tuttavia, il contenuto della commedia, per quel che è possibile ricavare dal testo superstite, accredita la forma singolare: infatti un cittadino di Sicione di nome Stratofane s’innamora di Filumene e riesce alla fine a sposarla. Tutto ciò ci fa comprendere perché la critica moderna si sia pronunciata a favore ora dell’una ora dell’altra delle due possibilità sin qui ricordate. Aggiungo qui che oscillazioni di numero (singolare/plurale) sono documentate anche per il titolo di altri drammi menandrei o di scritti di altri poeti e sono attestate persino nella tradizione di ben note opere in prosa, ripartite in più volumi, come la Repubblica di Platone, le Storie di Erodoto, l’opera di Tucidide e altri testi ancora³²⁸. La scoperta forse più interessante sul titolo di un’opera menandrea è avvenuta nel 1959 con la pubblicazione del P.Bodmer IV. Questo manufatto originariamente era parte di un codice costituito da un solo fascicolo, databile tra il III e gli inizi del IV secolo. Del manoscritto si conservano tuttora 58 pagine. A quelle contenenti la Samia (= P.Bodmer XXV, attualmente pp. 1– 18) seguivano nell’ordine le pagine del Dyscolos (edito appunto come P.Bodmer IV, pp. 19 – 39) e infine quelle dell’Aspis (= P.Bodmer XXVI, pp. 40 – 58)³²⁹. Allo stesso codice Sulla questione del titolo della commedia rimangono fondamentali gli studi di A.M. Be lardinelli (a cura di), Menandro, Sicioni. Introduzione, testo e commento, Bari 1994, 56 59; W.G. Arnott, First Notes on Menander’s Sikyonioi, in ZPE 116 (1997), 1 3. Sono numerosissime le opere il cui titolo ci è attestato ora al singolare ora al plurale: di tale alternanza non sempre si può dare una spiegazione precisa. Per le commedie greche vasta documentazione fu già raccolta e vagliata da Terzaghi, Fabula. Prolegomeni (come n. 15), 5 142. Su Platone e le oscillazioni di numero del titolo della Repubblica cf. L.G. Westerink, The Title of Plato’s Republic, in ICS 6 (1981), 112 115; J. Boter, Parisinus A and the Title of Plato’s Republic, in RhM 135 (1992), 82 86. Per altri casi cf. infra i capitoli su Erodoto, Tucidide, Senofonte, Isocrate. Per la datazione al III secolo si pronuncia V. Martin, Le Papyrus du Dyscolos comme livre, in Scriptorium 14 (1960), 6. J. M. Jacques (texte établi et traduit par), Le Dyscolos, Paris 21976, XLIII LVIII, propone più precisamente la seconda metà del III secolo. Per una datazione comprensiva degli inizi del IV secolo cf. G. Cavallo H. Maehler, Greek Bookhands of the Early Byzantine Period. AD. 300 800, London 1987, 16, nr. 5b. Per l’analisi del manoscritto cf. V. Martin (ed.), Papyrus Bodmer IV, Ménandre: Le Dyscolos, Cologny Genève 1958, 7 14; J. Martin, Sur l’état primitif du Codex Bodmer de Ménandre, in Scriptorium 20 (1966), 6 10; R. Kasser (publié par) C. Austin (avec la collaboration de), Papyrus Bodmer XXV, Ménandre: La Samienne. Cologny
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appartenevano anche P.Barc. inv. 45, P.Köln I 3 (= P.Colon. inv. 904), P.Köln VIII 331 (= P.Colon. inv. 904 + P.Duk. inv. 775 [olim P.Robinson inv. 38]³³⁰. Stante l’originaria posizione interna, il testo del Dyscolos si è conservato integro, o quasi, e così anche il corredo paratestuale che lo introduce a p. 19 e lo chiude a p. 39. Almeno tre mani hanno collaborato alla trascrizione del dramma e del suo corredo paratestuale. Una di queste ha vergato in chiusura, alla p. 39, la subscriptio μενάνδρου δύσκολος³³¹. Solo secondariamente fu aggiunta, forse da una quarta mano, la inscriptio che oggi si legge solo parzialmente a p. 20: δύσκολο[ς³³². Alla pagina precedente, la 19, abbiamo invece materiale prefatorio. Dapprima vi si legge un argomento metrico ascritto al grammatico Aristofane di Bisanzio; poi, dopo un tratto divisorio e un certo spazio bianco, una notizia didascalica, nella quale si dice che Menandro «mise in scena [la commedia] alle Lenee sotto l’arcontato di Demogene» e così «vinse»³³³; il testo prosegue dicendo che «Aristofane di Scafe recitò»: sarà stato questo il primo attore. Si dice infine che l’opera ἀντεπιγράφετ(αι)³³⁴ μισάνθρωπος. Prima della pubblicazione del papiro, questo titolo della commedia era sconosciuto. Il dato merita rilievo e lo stesso deve dirsi per il verbo che lo
Genève 1969, 7 17; R. Kasser, Nouvelle description du Codex Bodmer de Ménandre, in Scriptorium 25 (1971), 46 49. Per questi dati seguo J. L. Fournet, Anatomie d’une bibliothèque de l’Antiquité tardive: l’inventaire, le faciès et la provenance de la ‘Bibliothèque Bodmer’, in Adamantius 21 (2015), 8 40, qui in part. 21. Su alcuni di tali papiri si vedano R. Merkelbach, Wartetext 2: Komö dienfragment, in ZPE 1 (1967), 103 104; Id., Nachträge zu Band I, in ZPE 2 (1968), 154; W.H. Willis, A New Fragment of the Bodmer Aspis, in Relire Ménandre, Genève 1990, 167 171; M. Gronewald, Zu Menander’s Aspis, in ZPE 90 (1992), 50 54 (tavole XIII a, b). Sulle mani che hanno operato per la trascrizione della commedia si è pronunciato dap prima Martin (publié par), Papyrus Bodmer IV (come n. 329), 8; poi C.A. Nelson J.L. Raymond, P. Bodmer IV: The Distinction of Hands and the Date, in BASP 4 (1967), 43 48; ma si veda ora soprattutto quanto scrive P. Orsini, Studies on Greek and Coptic Majuscule Scripts and Books, Berlin New York 2018 (Studies in Manuscript Cultures, 15), 45 48, il quale individua tre mani attive ai ff. 19 39. Per parte mia, non sono così convinto che alla p. 19 abbia operato una stessa mano tanto per l’argomento metrico di Aristofane di Bisanzio quanto per ciò che è scritto dopo. Cf. Martin (publié par), Papyrus Bodmer IV (come n. 329), 8; J. M. Jacques (texte établi et traduit par), Ménandre. Le Dyscolos, Paris 1983 (troisième édition revue et corrigée), 4, apparato. Per le mani che hanno collaborato alla trascrizione della commedia, cf. nota precedente. Il papiro qui è corrotto: per la restituzione del nome di Demogene, il cui arcontato dovrebbe collocarsi nel 317/316 a. C., si veda, tra l’altro, Jacques (texte établi et traduit par), Ménandre. Le Dyscolos (come n. 332), iv v, 4, apparato. Il papiro presenta in questo punto αντιεπιγραφετ’. Seguo qui la trascrizione diplomatica di V. Martin.
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introduce: il medio-passivo ἀντεπιγράφεται. Che cosa esattamente esso significa? Secondo Carlo Corbato, autore di una ricerca approfondita sui titoli doppi e controversi della produzione menandrea, ἀντεπιγράφεται indicherebbe qui il sottotitolo³³⁵. Di conseguenza, dovremmo intendere che la commedia “è sottotitolata” Misantropo. Questa interpretazione non mi sembra convincente. Un sottotitolo, se noto, non si relega – o meglio: non si relegava – in chiusura di un testo prefatorio, ma si indicava direttamente nella inscriptio o nella subscriptio della relativa opera, separato per mezzo della solita disgiuntiva ἤ dal titolo principale. È quanto in generale dobbiamo affermare in considerazione della documentazione disponibile sul doppio titolo delle opere antiche. Quel che leggiamo in chiusura della notizia didascalica va quindi inteso in altro modo. In effetti, il medio-passivo ἀντεπιγράφεται ha ben altro valore. Il preverbo ἀντ- esprime un “invece”, un “altrimenti“, un “altrove”³³⁶: ἀντεπιγράφεται μισάνθρωπος vuol dire che la commedia «è altrimenti intitolata Misanthropos». In questo modo si offre notizia di un titolo assolutamente alternativo, cioè di un titolo che figurava in un altro o in altri esemplari del dramma, chiaramente al posto di Δύσκολος. Riordinate così le cose, possiamo interrogarci sull’origine di questa notizia: chi la collocò in chiusura delle informazioni didascaliche? E soprattutto: quando la commedia menandrea fu intitolata Μισάνθρωπος? Per molti studiosi la notizia sul titolo alternativo risale a età ellenistica e deriva da Aristofane di Bisanzio³³⁷. Questi, ad Alessandria, avrebbe avuto sottomano esemplari diversi del dramma menandreo, cioè intitolati in modo diverso: ora Δύσκολος ora Μισάνθρωπος. Grazie a documentazione ufficiale, il grammatico avrebbe dato credito al primo dei due titoli, relegando l’altro in chiusura delle notizie da lui raccolte sulla rappresentazione ufficiale della
È quanto si ricava da C. Corbato, Studi menandrei, Trieste 1965, p. 69. Ιl verbo ἀντεπιγράφω ricorre, nelle fonti letterarie a me note, assai di rado. Demostene, Contro Andr. 22, 72, se ne serve per ricordare agli Ateniesi le iscrizioni che Androzione aveva fatto incidere, al posto delle precedenti, sui supporti delle corone in onore del popolo ateniese. Sul passo demostenico cf. P.M. Pinto, Demostene, “Contro Androzione” (XXII) 72: χοινικίς, in QS 50 (1999), 145 166. Nella sottoscrizione al P.Bodmer IV l’uso del verbo è pertanto doppiamente notevole: a) lo troviamo applicato a una realtà libraria e b) per indicare una inscriptio presente altrove, su un supporto librario diverso, su un testimone manoscritto diverso. Altra ricorrenza notevole è in Polibio XVIII, 17, 2. Sulla questione cf. W. Kraus (mit einem kritischen Kommentar herausgegeben von), Me nander Dyskolos, Wien 1960 (Oesterreichische Akademie der Wiss., Philosophisch historische Klasse, Sitzungsberichte, 234 B., 4. Abhandlung), 12 13. Non ho potuto consultare R. Cantarella, Il nuovo Menandro, in RIL 93 (1959), 77 144.
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commedia. La successiva tradizione ne sarebbe stata condizionata. Le citazioni che ci rimangono dell’opera si servono in effetti tutte del titolo Δύσκολος, se nulla mi è sfuggito. Dunque, la didascalia che leggiamo nel P.Bodmer IV risalirebbe a età alessandrina e allo stesso periodo risalirebbe quindi anche la notizia sul titolo alternativo Μισάνθρωπος. Questo titolo, sostengono ancora i moderni, sarebbe dunque sorto in conseguenza di una precoce rielaborazione del testo della commedia o di una sua nuova rappresentazione³³⁸. Anche Μισάνθρωπος risalirebbe pertanto alle primissime fasi di circolazione della commedia testo. Che le cose siano andate proprio in questo modo, rimane comunque da dimostrare. Dal punto di vista puramente teorico, vi sono in effetti anche altri modi di interpretare i dati a nostra disposizione. Ma non è questa la sede per decriptare le possibili stratificazioni che troviamo nella didascalia del Dyscolos tramandata nel papiro bodmeriano. Basti averne dato notizia e avere illustrato il significato di ἀντεπιγράφεται³³⁹. Sempre a proposito di Menandro, è utile considerare il P.Oxy. XXVII 2462, databile alla metà del II secolo d. C.³⁴⁰. Il papiro, frammentario, presenta l’elenco di 19 opere menandree. Di un paio di esse è indicato un primo e un secondo titolo mediante la solita disgiuntiva ἤ. Alla linea 10 sono indicati ᾿Aδελφοὶ α΄ β΄: due commedie omonime, a quanto già era noto, distinte qui numericamente. Alla l. 18 è menzionato il Δύσκολος. Non v’è poi alcuna indicazione sull’esistenza di un titolo alternativo. La lista di P.Oxy. XXVII 2462 presenta i titoli in ordine alfabetico, ma con riguardo per la sola prima lettera. Da questo punto di vista, l’elenco comprende titoli che vanno dall’α al δ. L’uso di stilare cataloghi o liste di titoli con un ordine alfabetico limitato alla sola prima lettera doveva essere dunque parecchio diffuso nell’antichità³⁴¹. Sul titolo delle opere menandree potremmo continuare a
Così Kraus, Menander Dyskolos (come n. 337), 13. Sul titolo delle opere menandree W.G. Arnott, Comic Openings, in N.W. Slater B. Zim mermann (herausg. von), Intertextualität in der griechisch römischen Komödie, Stuttgart 1993 (Drama: Beiträge zum antiken Drama und seiner Rezeption, 2), 14 32, qui in part. 29, sebbene, a rigor di termini, non sia corretto dire che «Menander likes to insert the title of his play some where in the opening lines». Piuttosto è chiaro che la denominazione dei drammi richiama appellativi precisi dati da Menandro ad alcuni personaggi delle sue commedie. Testo e commento in Otranto, Antiche liste di libri (come n. 28), 45 49. Abbiamo sopra visto altri casi del genere. Per altra documentazione papiracea contenente liste di titoli menandrei cf. H.J.M. Milne, Greek Shorthand Manuals. Syllabary and commentary, London 1934, 21 56; J. Stroux, Aus einem neuen ΚΟΜΕΝΤΑΡΙΟΝ griechischer Kurzschrift, in Philologus 90 (1935), 78 89; D. Del Corno, Selezioni menandree, in Dioniso 38 (1964), 130 181 (qui in particolare: 162 164); M. Gronewald, Melia: ein neuer Menandertitel, in ZPE 33 (1979),
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lungo a discutere, esplorando i ritrovamenti compiuti nel corso dell’ultimo secolo, ma ciò ci condurrebbe ben oltre gli obiettivi del presente capitolo. Basti dunque quanto s’è detto. Anche semplici accidenti, come la perdita della parte del manoscritto contenente il titolo, potevano essere all’origine di un cambiamento di nome del testo drammatico, così come di scritti di altro genere ovviamente. Ma è appena il caso di rilevarlo. Tutto ciò mostra quanto accidentate potevano essere le vicende relative al titolo di un’opera drammatica e quanto facilmente un grammatico o un bibliotecario potessero sentirsi liberi di cambiare in parte o in tutto il titolo di un testo teatrale. Alla luce di quanto fin qui visto, è giunto il momento di concludere.
7.3 Prime conclusioni Per le ragioni sopra esposte, possiamo affermare che già nel V secolo a. C. i rotoli di testi drammatici venissero, normalmente, forniti di una ἐπιγραφή. Qui accanto al nome dell’autore doveva comparire la denominazione scelta per il dramma, dunque il suo titolo. Questo uso deve essersi affacciato precocemente e già agli inizi del V secolo a. C. per le tragedie (e così anche per i drammi satireschi con cui esse erano presentate alle Grandi Dionisie). Ciò vale naturalmente anche per quelle tragedie che costituivano tetralogie “legate”. Al di là delle modalità effettivamente osservate per la presentazione e denominazione delle produzioni “legate” ai grandi agoni dionisiaci (come visto, Sommerstein considera la questione in prospettiva ben diversa da quella di Lohan), ben difficilmente si può credere che i drammi tra loro “legati” di un autore prolifico come Eschilo siano rimasti dopo le rappresentazioni più o meno a lungo privi, su rotolo, di un “nome proprio”. L’incongruenza, giustamente rilevata da Alan Sommerstein, tra il modo di esprimersi di Eschilo nel testo dei Sette o anche delle Eumenidi e il titolo attestato per queste tragedie non obbliga tuttavia a concludere che esse siano state designate in questo modo solo dopo la morte dell’autore o che siano rimaste per un lungo periodo iniziale prive di titolo. Del resto, e lo abbiamo rilevato, sulle Eumenidi la questione è ben più complessa di quanto Sommerstein credesse. Ancora una volta va sottolineato che delle forme di conservazione e condivisione di testi drammatici all’interno delle cerchie teatrali del V secolo
6 7. Per i titoli alternativi delle opere menandree cf. A.G. Katsouris, Menander Bibliography, Thessaloniki 1995, xii xiii.
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III I drammi
a. C. sappiamo o possiamo dire ben poco di preciso, quindi dedurre da singoli casi una prassi generale è rischioso. Anche per le commedie, l’esigenza di designare il rotolo che ne conteneva il testo non può avere tardato troppo a imporsi, nella misura in cui veniva ad affermarsi l’interesse a conservare anche tal genere di scritti. Sulla prassi di “pubblicare” le commedie da parte dei loro autori a partire grosso modo dalla metà del V secolo a. C., o già un po’ prima di allora, abbiamo peraltro richiamato alla memoria le valutazioni di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff. In questo ordine di idee possiamo adesso considerare brevemente le numerose menzioni di testi drammatici in Aristofane. Un caso notevole lo abbiamo già sopra più volte ricordato e discusso: nelle Rane, al v. 1021, sono menzionati i Sette a Tebe di Eschilo; poco dopo, al v. 1026, anche i Persiani. Ancora nelle Rane al v. 53 è menzionata l’Andromeda di Euripide, quindi il Telefo, il Peleo e l’Eolo ai vv. 855 e 863; al v. 864 è ricordato anche il Meleagro e di nuovo il Telefo. Nella Pace, al v. 1012, si parla di una Medea, che per Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 22, era opera euripidea, mentre altri studiosi hanno assunto da tempo ben altra posizione in proposito³⁴². Altri puntuali richiami da parte di Aristofane a opere altrui sono raccolti da Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 22– 30. Non pochi di questi rimandi si spiegano bene solo se si ammette che Aristofane avesse concretamente accesso ai testi drammatici e li trovasse su rotolo regolarmente intitolati, oltre che forniti dell’indicazione del nome del rispettivo autore. Per quanto riguarda la produzione tragica legata, almeno della prima metà del V secolo a. C., rimane tuttavia difficile stabilire con esattezza come i drammi venissero presentati, registrati e votati in fase di concorso e quindi il peso di tali procedure nella effettiva intitolazione dei rotoli di quella poesia. Il rapporto tra le due fasi, quella teatrale e quella propriamente libraria, per tornare ai termini indicati più di un secolo fa da Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, può non essere stato così lineare in casi del genere, come spesso poi si è creduto³⁴³. Ma non è più questa la conclusione della ricerca degli ultimi decenni: cf. A. Dihle, Randbemerkungen zu griechischen Szenikern, in RhM 119 (1976), 134 148, qui in part. 146 148. La notizia di Erodoto relativa al poeta Frinico, multato nel 493 a. C. o l’anno successivo sulla datazione dell’evento cf. L. Piccirilli, Carone di Lampsaco ed Erodoto, in ASNP 3/5 (1975), 1245 , per avere rappresentato la drammatica presa di Mileto da parte dei Persiani, non ci aiuta a fare chiarezza sulla questione. Il testo di Herod. VI, 21, 2, suona così: ᾿Aθηναῖοι μὲν γὰρ δῆλον ἐποίησαν ὑπεραχθεσθέντες τῇ Μιλήτου ἁλώσι τῇ τε ἄλλῃ πολλαχῇ καὶ δὴ καὶ ποιήσαντι Φρυ νίχῳ δρᾶμα Μιλήτου ἅλωσιν καὶ διδάξαντι ἐς δάκρυά τε ἔπεσε τὸ θέητρον καὶ ἐζημίωσάν μιν ὡς ἀναμνήσαντα οἰκήια κακὰ χιλίῃσι δραχμῇσι, καὶ ἐπέταξαν μηκέτι μηδένα χρᾶσθαι τούτῳ τῷ δράματι. Di fronte a questa notizia, possiamo chiederci se il dramma fosse stato rappresentato davvero con una propria denominazione (Μιλήτου ἅλωσις), ovvero se quella fornita da Erodoto
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Più in generale, di varie possibili discrepanze tra la denominazione degli spettacoli scenici e il titolo poi effettivamente esibito dai singoli testi (tragedie e anche commedie) nel corso della loro tradizione, abbiamo detto sopra in considerazione di vari aspetti e alla luce della tradizione manoscritta antica e bizantina. Dunque, così si era imposto il bisogno di titoli per testi drammatici. Tutto ciò è da considerarsi un punto fermo del nostro discorso sulla nascita del titolo nella letteratura greca. Ma cosa ne era a quel tempo della prosa? Com’era stata sino ad allora presentata al pubblico? Come e quando si decise di ricorrere, anche per essa, alla inscriptio libraria? A tali questioni è dedicata la terza parte del presente lavoro.
sia una semplice informazione sul contenuto della tragedia. Possiamo ovviamente anche chiederci cosa ne sia stato poi del dramma e se il testo fosse conservato al tempo di Erodoto sotto il titolo Μιλήτου ἅλωσις. Gli studiosi moderni dissentono su tali questioni e talvolta non mettono ben a fuoco la differenza che corre tra nomen e titulus.
Parte III. La prosa greca dagli albori all’avvento dei titoli
I La prosa prima di Erodoto In questo capitolo mi propongo d’inquadrare storicamente l’emergere, tra VI e V secolo a. C., della prosa letteraria greca e di mostrarne la sua destinazione primaria, ovvero il suo essere indirizzata anzitutto a un pubblico di ascoltatori. Nel prossimo capitolo vedremo quindi come tali testi erano presentati all’uditorio.
1 Primi usi Nella documentazione di epoca arcaica la prosa fa le sue prime apparizioni in semplici iscrizioni di vita quotidiana, dal contenuto più o meno modesto, oppure in epigrafi relativamente più impegnate e di carattere votivo o dedicatorio, queste ultime già a partire dal VII secolo a. C.³⁴⁴ Individui sufficientemente alfabetizzati fissarono peraltro già allora in forma prosastica eloquente memoria di sé e del proprio operato. A questo riguardo si può ricordare il resoconto dei movimenti militari fissato da alcuni mercenari greci nel 591 a. C. su una delle colossali statue della facciata della tomba di Ramses II ad Abu Simbel, in Nubia³⁴⁵. In prosa si composero in età arcaica anche leggi, accordi e decreti. Tali composizioni, iscritte su materiale durevole, generalmente venivano affisse o conservate in templi o luoghi di particolare importanza. Ma in che modo il pubblico di allora recepiva tali scritture? Dati i ristrettissimi livelli di alfabetizzazione, tali documenti epigrafici dovettero essere per molti in quel periodo più un qualcosa da vedere che da leggere³⁴⁶. Tuttavia, ciò non significa che il contenuto di quelle epigrafi fosse noto
Cf. B.B. Powell, Homer and the Origin of the Greek Alphabet, Cambridge 1991; Jeffery, The Local Scripts (come n. 109); Guarducci, Epigrafia greca, I (come n. 109); Ead., Epigrafia greca, II (come n. 109); M. Burzachechi, Oggetti parlanti nelle epigrafi greche, in Epigraphica 24 (1962), 3 54; M.L. Lazzarini, I nomi dei vasi greci nelle iscrizioni dei vasi stessi, in ArcheCl 25 26 (1973 1974), 341 375. Sulle iscrizioni greche di Abu Simbel e in particolare su quella relativa alla spedizione dei mercenari greci al seguito di Psammetico II, cf. A. Bernand O. Masson, Les inscriptions grecques d’Abou Simbel, in RÉG 70 (1957), 1 46; S. Struffolino, Iscrizione dei mercenari greci ad Abu Simbel, in Axon 2/1 (2018), 7 17. G. Camassa, Aux origines de la codification écrite des lois en Grèce, in Detienne, Les savoirs (come n. 109), 130 155, in particolare 151. Sull’esposizione di documenti ufficiali e sugli archivi nell’antichità (e con particolare riguardo al mondo greco): cf. A. Wilhelm, Beiträge zur griechi https://doi.org/10.1515/9783110703740 009
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solo ai pochi privilegiati in grado di decifrarle. Testi epigrafici di una certa importanza venivano infatti proclamati a viva voce per mezzo di un araldo. Ciò vale anche per l’iscrizione, sulla quale Ernst Nachmanson ha richiamato l’attenzione a principio del suo saggio sul titolo dei libri greci. Si tratta di una tavola bronzea, ritrovata nei pressi del santuario di Olimpia, contenente un trattato di alleanza tra la città di Elea e quella di Evea (non Erea, come a lungo si è creduto)³⁴⁷. L’iscrizione comincia con queste parole: ἀ ϝράτρα τοῖρ Ϝαλείοις : καὶ τοῖς Ἐὐ̣ ǀϝαοίοις. Per Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 5, si tratta senz’altro della Überschrift del trattato. Lo studioso data l’epigrafe agli inizi del VI secolo a. C. e la considera una esemplare testimonianza dell’uso arcaico di fornire di una soprascritta prodotti epigrafici ufficiali, ovvero di una certa importanza. Siffatte valutazioni sono poco condivisibili da chi osserva con attenzione l’iscrizione (cf. Minon, Les inscriptions éléennes, come n. 347, tav. 9). Sebbene le lettere del primo rigo siano di modulo leggermente superiore a quello delle sottostanti, il testo fissato sulla tavola si presenta visivamente piuttosto come un tutt’uno. Non c’è uno stacco netto tra l’enunciato iniziale e il resto del documento. La scrittura corre continua. Parlare di Überschrift in un caso del genere è insomma prematuro. Ben altro in effetti è degno di nota in questo caso. Il trattato è stato iscritto sulla lastra, in modo tale da consentire una declamazione ad alta voce, in accordo a determinate pause logiche. Le principali unità di significato sono infatti distinte da segni punteggiatura, sicché possiamo leggere ancora oggi l’intero documento nel suo ritmo originale³⁴⁸: ἀ ϝράτρα τοῖρ Ϝαλείοις : καὶ τοῖς Ἐὐ̣ ϝαοίοις : συνμαχία κ᾿ ἔα ἐκατὸν ϝέτεα : ἄρχοι δὲ κα τοΐ : αἰ δὲ τι δέοι : αἴτε ϝέπος αἴτε ϝ άργον : συνέαν κ᾿ ἀλάλοις : τά τ᾿ ἄλ〈α〉 καὶ πὰ ρ πολέμō : αἰ δὲ μὰ συνέαν: τάλαντόν κ᾿
schen Inschriftenkunde. Mit einem Anhange über die öffentliche Aufzeichnung von Urkunden, Wien 1909, 229 299; G. Alfieri, Iscrizioni esposte ed iscrizioni nascoste nel mondo greco, in Acme 3/60 (2007), 22 35; L. Boffo, Per una storia dell’archiviazione pubblica nel mondo greco, in Dike 6 (2003), 5 85. Si veda inoltre l’ottima sintesi di M.L. Lazzarini, La scrittura nella città, in I Greci. Storia Cultura Arte Società, II/2, a cura di S. Settis, Torino 1997, 725 750. Sull’epigrafe è di riferimento l’edizione di S. Minon, Les inscriptions éléennes dialectales (VIe IIe siècles avant J. C.), I: Textes, Genève 2007, num. 10, 73 83 e tav. 9. Sull’antico santuario di Olimpia e sulle sue iscrizioni cf. H. Kyrieleis, OLYMPIA. Archäologie eines Heiligtums, Darmstadt 2011 (= Zaberns Bildbände zur Archäologie), qui in particolare 105 110. Lo rilevava a ragione già Fränkel, Dichtung und Philosophie (come n. 116), 282. Per l’edi zione del testo epigrafico seguo Minon, Les inscriptions éléennes (come n. 347), num. 10, 73 83.
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ἀργύρō : ἀποτίνοιαν : τοῖ Δὶ Ὀλυνπίōι : τοὶ κα δαλέμενοι : λατρειόμενον : αἰ δέ τιρ τὰ γ ράφεα : ταῒ καδαλέοιτο : αἴτε ϝέτας αἴτε τ ελεστὰ : αἴτε δᾶμος : ἐν τἐπιάροι κ᾿ ἐνέχ οιτο : τōῖ ’νταῦτ’ ἐγραμένōι. Questo il patto tra gli Elei • e gli Evei • alleanza vi sia per cento anni • incominciando da questo • se v’è qualche necessità • sia essa di parola o d’opera • si prestino aiuto reci procamente • e specialmente per cose di guerra • se essi però non si prestano aiuto • un talento d’argento • paghino a Zeus di Olimpia • coloro che violano (il patto) • in favore del culto • se uno reca offesa • a questo testo • sia esso un privato o un magistrato • o il popolo • sia tenuto al pagamento della multa qui scritta.
Come si vede, neppure la punteggiatura separa come unità a sé stante la dichiarazione iniziale dal resto del documento. Invece proprio l’interpunzione divide già l’enunciato d’apertura in due parti. Chiaramente l’araldo era invitato a pronunciare le parole ἀ ϝράτρα τοῖρ Ϝαλείοις : καὶ τοῖς Ἐὐ̣ ǀϝαοίοις con una pausa al mezzo, così da lasciare intendere distintamente all’uditorio il nome dei contraenti. Peraltro, l’iscrizione è dei primi decenni del V secolo a. C., come ha mostrato recentemente Sophie Minon (dunque non di epoca precedente, come pensava Nachmanson). Altre iscrizioni dello stesso periodo o di poco più tarde (metà del V secolo a. C.), rinvenute anch’esse in Elide e di simile contenuto³⁴⁹, confermano che anche allora l’uso di una Überschrift era assai meno diffuso e definito di quanto Nachmanson ritenesse.
2 Albori della letteratura in prosa I primi tentativi di comporre letteratura in prosa cominciarono solo nell’avanzato VI secolo a. C. in area microasiatica e più precisamente in Ionia. Ionici sono infatti tre autori considerati dagli antichi appunto come i primi prosatori del mondo greco: Ferecide di Siro, Cadmo di Mileto e il suo concittadino Anassimandro, che sarebbe stato il primo a scrivere un λόγος περὶ φύσεως³⁵⁰. Altri
Cf. Minon, Les inscriptions éléennes, n. 12: 85 91; num. 20: 138 149; cf. qui anche le tavole XIb e XVII. Cf. le notizie su Ferecide e Cadmo nel lessico di Suda, s.v. Φερεκύδης Βάβυος Σύριος (φ 214 ed. Adler). Si veda inoltre Plinio, Nat. Hist. V, 112. Su Ferecide cf. Pfeiffer, History of Classical Scholarship (come n. 308), 10 e nn. 2 5; H. Schibli, Pherekydes of Syros, Oxford 1990, 2 13. Su Cadmo cf. F. Fontana, Cadmo di Mileto, primo storico dell’Occidente. I dati biografici, in Erga Logoi 2 (2014), 155 180. Su Anassimandro, ricordato dalle fonti come il primo ad aver composto
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prosatori più o meno coevi furono anch’essi ionici – si pensi a Eraclito di Efeso –, o proprio di Mileto, la grande capitale spirituale del mondo greco di allora. Si pensi a Ecateo. Queste coordinate geografico-temporali ci permettono di inquadrare anche culturalmente il sorgere della prosa letteraria. L’attività degli scrittori appena ricordati si colloca infatti in quella imponente corrente di pensiero che, sul finire dell’età arcaica, sottopose a severa critica tutte le tradizioni ricevute e fece così nascere la scienza greca. L’abbandono della forma poetica offriva in effetti notevoli vantaggi al libero pensiero³⁵¹. Non solo diveniva possibile dare espressione ai propri pensieri senza più condizionamento della tecnica versificatoria, ma non si doveva più essere né dipendere da un rapsodo, per esporre il proprio discorso al pubblico in date occasioni³⁵². Inoltre, non era necessario alcun tipo di accompagnamento musicale. I precedenti tentativi di sistematizzazione del mito e di comprensione dell’universo erano stati invece espressi sempre e solo in versi: tutti i dotti e i sapienti avevano dovuto sottostare al duro giogo. Così era avvenuto nel VII secolo a. C. con Esiodo, così del resto sarebbe ancora avvenuto tra VI e V secolo a. C. con Senofane e Parmenide e poi con Empedocle.
un logos περὶ φύσεως, cf. VS 12, Testimonia 7. In Clem. Al., Strom. I, 78, Anassagora di Clazomene è reputato come il primo autore di un’opera in prosa sulla natura, cf. Pfeiffer, History of Classical Scholarship (come n. 308), 28, n. 3. Non può in effetti essere un caso che i primi autori di opere in prosa dei quali abbiamo notizia siano anche i primi filosofi della natura (e delle origini dell’universo) o di ambiti d’in dagine (tra cui quello di carattere storico geografico) all’epoca strettamente connessi. È ovvio, d’altra parte, che in contesti privati o semi privati le comunicazioni di carattere intellettuale si sono sempre svolte libere dal verso. Per un primo orientamento sulla prosa letteraria tra VI e V secolo a. C. cf. G. Rudberg, Vor Gorgias. Bemerkungen zur ältesten griechi schen Prosa, in Eranos 40 (1942), 128 142; C. Schick, Studi sui primordi della prosa greca, in AGI 40 (1955), 89 135; J. Goody I. Watt, The Consequences of Literacy, in Comparative Studies in Society and History 5 (1962 1963), 304 345; H. Cherniss, Ancient Forms of Philosophical Dis course, in L. Tarán (ed.), Harold Cherniss: Selected Papers, Leiden 1977, 14 35; C. Jacob, Inscrire la terre habitée sur une tablette. Réflexions sur la fonction de la carte géographique en Grèce ancienne, in Detienne, Les savoirs (come n. 109), 273 304; G. Wöhrle, Zur Prosa der milesischen Philosophen, in WJA 18 (1992), 33 47; M.V. García Quintela, Le livre d’Anaximandre et la société de Milet, in Métis 11 (1996), 37 68; S. Goldhill, The invention of Prose, Oxford 2002 (Greece & Rome: New Surveys in the Classics, 32); Nieddu, La scrittura (come n. 109), in particolare 71 120; A. Laks, Écriture, prose et les débuts de la philosophie grecque, in Methodos 1 (2001), 131 151; C. Kahn, Writing philosophy: Prose and Poetry from Thales to Plato, in H. Yunis (ed. by), Written Texts and the Rise of Literate Culture in Ancient Greece, Cambridge 2003, 139 161.
3 Leggere per un uditorio
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La prosa ricevette insomma cittadinanza letteraria nel corso del VI secolo a. C. in contesti ionici e alla luce di esigenze di natura scientifica. Tutto ciò non deve però condurre alla conclusione che già i primi scritti in prosa fossero rivolti a isolati lettori o che fossero destinati a esserlo in breve tempo. Il pubblico rimase in realtà a lungo costituito essenzialmente da ascoltatori, come per la poesia. E l’interesse a tesaurizzare il sapere scritto, ai fini di uno studio approfondito e di carattere personale, non emerse per la prosa come per la poesia se non molto lentamente e ben più tardi, cioè dagli ultimi decenni del V secolo a. C. e col secolo successivo.
3 Leggere per un uditorio Declamare un testo letterario in prosa – mediante pubblica lettura o recitazione a memoria di quanto fissato per iscritto – era la forma più comoda ed economica di portarlo a conoscenza altrui. Per vari motivi³⁵³. Il primo ha ovviamente a che vedere col grado di alfabetizzazione del pubblico. Solo verso la fine del V secolo a. C., in alcuni ambienti cittadini del mondo greco e in particolare ad Atene, l’alfabetizzazione raggiunse livelli tali da consentire l’emergere di cerchie – non
Perfino lo storico Tucidide non escludeva letture pubbliche del suo lavoro. Lo rileva L. Canfora, Il “ciclo storico”, in Belfagor 26 (1971), 657 660. In generale, nel mondo antico non si rinunciò mai alla lettura ad alta voce di opere in prosa di fronte a un più o meno ampio pubblico: cf. E. Rohde, Der griechische Roman und seine Vorläufer, Leipzig 1914, 327 329, n. 1; A. Chaniotis, Historie und Historiker in den griechischen Inschriften. Epigraphische Beiträge zur griechischen Historiographie, Stuttgart 1988 (Heidelberger althistorische Beiträge und epigra phische Studien, 4), 365 382; Nieddu, La scrittura (come n. 109), passim. Pertanto, non sono da accogliere le osservazioni di Rösler, Alte und neue Mündlichkeit (come n. 162), 6, dove egli scrive: «Spätestens im 4. Jh. löste dann das individuelle Lesen die hörende Aufnahme als Regelfall der Rezeption ab». In realtà, la recezione auditiva dei testi letterari di fronte a un pubblico più o meno consistente continuò a essere praticata nel mondo antico per ovvie ragioni. E quello che avvenne sul piano letterario tra V e IV secolo a. C. in Grecia non deve essere rigidamente interpretato come passaggio da una ricezione auditiva del testo letterario a quella fondata sulla lettura individuale. Numerose fonti attestano la continuazione della pratica di letture pubbliche, ad esempio Luc., Quomodo historia conscribenda sit, 5, 14 19; 7, 1 4: ἃ δ’ ἐν ἱστορίᾳ διαμαρ τάνουσι, τὰ τοιαῦτα ἂν εὕροις ἐπιτηρῶν, οἷα κἀμοὶ πολλάκις ἀκροωμένῳ ἔδοξεν, καὶ μάλιστα ἢν ἅπασιν αὐτοῖς ἀναπετάσῃς τὰ ὦτα; o ancora l’inizio del capitolo 10. Importante testimonianza letteraria è inoltre l’inizio dell’Apocalisse di Giovanni I, 3: Μακάριος ὁ ἀναγινώσκων καὶ οἱ ἀκούοντες τοὺς λόγους τῆς προφητείας καὶ τηροῦντες τὰ ἐν αὐτῇ γεγραμμένα. Come si vede, qui l’autore esprime in forma chiarissima come si figurava la fruizione del suo lavoro. Il testo è scritto, ma sarebbe stato recepito da un uditorio grazie a una pubblica lettura. Gli ascoltatori avrebbero dentro di sé quanto recepito.
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I La prosa prima di Erodoto
sappiamo quanto ampie – di “lettori”, cioè di singoli in grado di approcciare in piena autonomia il testo scritto, senza cioè dovere attendere la mediazione di uno “specialista” incaricato di declamare per tutti ad alta voce³⁵⁴. Un secondo motivo ha a che vedere con aspetti concreti, di carattere materiale. L’invenzione della stampa ci ha oggi fin troppo abituati a sottovalutare quanto costosa in termini di tempo, fatica e denaro fosse la produzione libraria nell’antichità. Ma possiamo ben immaginare quanto dispendio di energie e di risorse dovesse costare, verso la fine del V secolo a. C., la trascrizione completa dell’opera di Erodoto. Una terza motivazione concerne l’atto stesso della lettura dai rotoli. Lectio operosa et difficilis: così sentenziava Friedrich August Wolf nei già ricordati Prolegomena ad Homerum, p. CLX. Egli lo diceva per la precedente epoca dei rapsodi e per la poesia, ma l’enunciato vale anche per il periodo di cui discutiamo e per la prosa. In effetti, anche per chi era altamente alfabetizzato e aveva risorse a disposizione, l’operazione di decifrazione del manoscritto non era semplice. Le lettere si succedevano come elementi di una lunga catena, così come vediamo nelle iscrizioni del tempo. Non v’era separazione di parole. La prassi epigrafica dell’epoca mostra solo a volte l’uso di punteggiatura. Leggere dal rotolo papiraceo (così come da altro tipo di supporto in uso allora) obbligava del resto a riconoscere, oltre alle lettere, le unità di senso che ne derivavano, cioè le parole, non individuabili a prima vista sul prodotto scritto, e così a ricomporre frasi intere. È senz’altro per questo motivo che uno dei termini più usati dagli antichi Greci per esprimere l’atto della lettura fu il verbo ἀναγιγνώσκειν: «riconoscere» appunto³⁵⁵. In una così delicata operazione, la lettura compiuta a viva voce era un ausilio prezioso. L’accento faceva da guida nella formazione (o meglio: ricostituzione) delle parole. Dunque, non senza ragione i grammatici ed eruditi latini lo definiranno poi anima vocis. L’accento ha una funzione generatrice della parola ed è per mezzo suo che vocali e consonanti di una catena fonica si accentrano costituendo parole³⁵⁶. «V’è infatti largo spazio ha osservato G. Cavallo (Introduzione a: Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, Bari 21977, XIV) tra chi ha imparato un po’ l’alfabeto, sa scrivere il suo nome o poco più e stendere qualche calcolo, e chi adopera il libro come strumento di lettura, di apprendimento o di lavoro». Sull’alfabetizzazione ad Atene e più in generale nel mondo greco tra VI e V secolo a. C. cf. Andersen, Mündlichkeit und Schriftlichkeit im frühen Griechentum (come n. 110), 29 44, e sempre Nieddu, La scrittura (come n. 109). Cf. P. Chantraine, Les verbes grecs signifiant ‘lire’, in Mélanges Henri Grégoire, II, Bruxelles 1950, 115 126. Sull’accento come anima vocis si veda Diomede I, 430, 31 Kiel; Marziano Capella III, 268. Sulle difficoltà insite nella lettura di una catena di lettere cf. F. Bresson, La lecture et ses difficultés, in R. Chartier (éd. par), Pratiques de la lecture, Paris 1985 (Petite bibliothèque Payot,
4 Pubbliche letture ed esigenze d’autore
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Si leggeva insomma per necessità a viva voce³⁵⁷: a voce alta se uno si rivolgeva a un più o meno ampio pubblico; magari “a mezza voce”³⁵⁸ se uno leggeva per sé stesso³⁵⁹. Ma l’uso di letture solitarie, a fini di interessi strettamente individuali, sarà stato rarissimo in questo primo periodo di storia della prosa greca.
4 Pubbliche letture ed esigenze d’autore Anche i prosatori avevano di che avvantaggiarsi dalla recitazione dei loro lavori all’uditorio. Infatti, dopo la pubblica lettura, essi non si sentivano obbligati al rilascio del manoscritto. La lettura a viva voce o la recitazione più o meno a memoria del testo elaborato non erano pensate come operazioni di “lancio” letterario. Piuttosto un autore vi ricorreva per fare conoscere la sua ricerca (ἱστορίη) o il suo discorso (λόγος) e sperimentare le reazioni dell’uditorio. Così egli sarebbe poi tornato con tutta calma a meditare sul suo lavoro, a ripensarlo e a riplasmarne all’occorrenza forme e contenuti. Già alcuni frammenti dell’opera di Eraclito (per es. VS 22 B 1; ma si considerino pure VS 22 B 19, B 34, B 50, B 108) sono a questo riguardo quanto mai
167), 15 27. Sulla lettura in Grecia e in generale nel mondo antico: J. Svenbro, Phrasikleia. Anthropologie de la lecture en Grèce ancienne, Paris 1988 (Les textes à l’appui); Id., Grammata et stoikheia. Les scholies à La grammaire de Denys le Thrace, in Kernos 21 (2008), 197 210. Una discussione del tema con altri rimandi bibliografici è in Dorandi, Nell’officina dei classici (come n. 195), cap. 2. Per ciò che riguarda la definizione di accento come anima vocis cf. A. Traina G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, Bologna 19986 (Testi e manuali per l’inse gnamento universitario del latino, 9), 75 76. Le testimonianze latine sull’accento sono raccolte nel lavoro di F. Schoell, De accentu linguae Latinae veterum grammaticorum testimonia, in Acta soc. philol. Lips. VI, Lipsiae 1876. La funzione centralizzatrice dell’accento è concetto introdotto da A. Schmitt, Untersuchungen zur allgemeinen Akzentlehre. Mit einer Anwendung auf den Akzent des Griechischen und Lateinischen, Heidelberg 1924. Opera guida sul tema è G. Bernardi Perini, L’accento latino. Cenni teorici e norme pratiche, Bologna 19864 (Testi e manuali per l’insegna mento universitario del latino, 2). Ciò non vuol dire però che gli antichi fossero incapaci di “letture silenziose”: cf. Svenbro, Phrasikleia (come n. 356), 23. Così L. Canfora, Lire à Athènes et à Rome, in Annales : économies, sociétés, civilisations 44/4 (1989), 926 927. Sugli aspetti fin qui trattati cf. D. Carr, Mündlich schriftliche Bildung und die Ursprünge antiker Literaturen, in H. Utzschneider E. Blum (herausg. von), Lesarten der Bibel. Unter suchungen zu einer Theorie der Exegese des Alten Testaments, Stuttgart 2006, 183 198. Più in generale R. Finnegan, Literacy and Orality. Studies in the Technology of Communication, Oxford 1988, 123 138.
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significativi. Da tali frammenti si evince che il filosofo aveva già altre volte discusso col pubblico il suo pensiero. Lo aveva discusso a viva voce, con un uditorio, e con scarso successo. Gli uomini, lamenta il filosofo, non coglievano la profondità dei suoi ragionamenti. Frammenti come quelli appena indicati³⁶⁰ hanno permesso a Hermann Fränkel di schizzare le modalità di pubblicazione del testo dei Presocratici. Si praticava una lettura ad alta voce, perché variamente vantaggiosa: consentiva al pensatore di discutere i suoi pensieri con l’uditorio, di chiarirli ulteriormente e di tornare successivamente a rivedere il manoscritto³⁶¹. In ogni caso, è evidente che l’opera giungeva a conoscenza del pubblico prima di tutto oralmente e in una forma che non era ancora quella definitiva. L’autore ritardava il rilascio della sua composizione fino a quando non era soddisfatto dei risultati raggiunti. Eraclito depose alla fine la sua opera al tempio di Artemide o così almeno sapeva Diogene Laerzio IX, 6. La divulgazione di questo come di altri scritti in prosa rimase comunque a quel tempo tendenzialmente la stessa: li si declamava anzitutto a viva voce a beneficio dei più. Di copie se ne fecero a quel tempo ben poche. Stesse modalità di divulgazione dobbiamo ammettere anche per altri generi di prosa. Passando a quella di argomento storico, va rilevato che nel pieno V secolo a. C. anche Erodoto era solito esporre oralmente le sue ricerche, attraverso, cioè, la recitazione di singoli logoi. È quanto ricaviamo dalla notizia delle sue performances ad Atene o in altri centri del mondo greco³⁶². E infatti la sua opera conserva evidenti tracce di questa iniziale forma di divulgazione. Ne costituiscono tra l’altro una prova quei punti, in cui l’autore ricorda precedenti reazioni dei suoi ascoltatori (III, 80, 1 e VI, 43), oppure laddove egli fornisce indicazioni geografiche che non si comprendono senza pensare all’uditorio per le quali esse erano state inizialmente fornite (II, 7 e IV, 99)³⁶³. Le pubbliche letture furono la prima – naturalmente parziale e provvisoria – forma di pubblicazione dei logoi erodotei³⁶⁴.
Ma si potrebbe andare facilmente alla ricerca di altre testimonianze dello stesso tenore nei frammenti di altri Presocratici. Cf. Fränkel, Dichtung und Philosophie (come n. 116), 295 296, n. 1. Sulle pubbliche letture di Erodoto cf. F. Jacoby, s.v. Herodotos, in RE, Supplementband 2 (1913), coll. 242 243. Sull’argomento torneremo più avanti. Cf. Jacoby, s.v. Herodotos (come n. 362), col. 243. Sulla genesi dell’opera erodotea diremo in uno dei prossimi capitoli. Sul rapporto tra oralità e scrittura nella prima storiografia greca si veda, invece, l’ottima sintesi di L. Porciani, Oralità, scrittura, storiografia, in S. Alessandrì (ed.), Historíe. Studi offerti dagli allievi a Giuseppe Nenci in occasione del suo settantesimo compleanno, Galatina 1994, 377 397.
4 Pubbliche letture ed esigenze d’autore
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Alla comunicazione in prima istanza di carattere orale furono destinati anche alcuni testi di medicina composti nella seconda metà del V secolo a. C. o agli inizi del secolo successivo – difficile, com’è noto, datarli con precisione –, a noi giunti sotto il nome di Ippocrate. In proposito è notevole ciò che si legge a principio del trattato Sulla natura dell’uomo: l’autore dichiara che il suo logos non è adatto all’ascolto di coloro che sono abituati a sentire ben altro genere di esposizioni sulla natura umana: cf. Ippocrate, Sulla natura dell’uomo, cap. 1³⁶⁵. Sulla divulgazione orale di testi filosofici è istruttiva la lettura di alcuni luoghi platonici³⁶⁶. Notevole in particolare quel passo del Parmenide (127b– 130a), in cui si narra dell’arrivo di Zenone di Elea ad Atene. Zenone è invitato a leggere il suo testo davanti a un uditorio. Segue un dibattito. Socrate chiede di rileggere parte del lavoro: inizia così una discussione tra l’esigente interlocutore e l’autore. L’uditorio assiste. Nonostante la pubblica lettura, Zenone non si sente obbligato a concedere il suo manoscritto. Egli può trattenerlo con sé, se vuole, per modificarlo e tenere conto delle obiezioni ricevute. Altro brano notevole è quello del Fedone, 97c–99d: vi si narra di come Socrate avesse preso conoscenza di un libro di Anassagora: assistendo a una pubblica lettura, per quanto non tenuta dall’autore ma da una terza figura. Solo in seconda battuta Socrate si era procurato l’opera anassagorea per una lettura personale, privata appunto. E qui abbiamo pure una significativa testimonianza dell’interesse che già verso la fine del V secolo a. C. si cominciava a nutrire per il possesso e lo studio diretto del testo scritto da parte di singoli altamente alfabetizzati. Sarà proprio tale interesse uno dei fattori che stimoleranno, sia pur lentamente, la costituzione delle prime raccolte librarie e la nascita dei titoli delle opere in prosa, come vedremo³⁶⁷.
Cf. A. J. Festugière (introduction, traduction et commentaire par), Hippocrate. L’Ancienne médecine, Paris 1948 (Études et commentaires, 4), viii xiii. I dialoghi sono stati composti, com’è noto, a distanza anche di alcuni decenni dai fatti narrati sul conto di Socrate e di altri personaggi. Ciò naturalmente pone il problema di stabilire se determinate dinamiche letterarie presentate da Platone rimontino davvero all’epoca in cui sono collocati i dialoghi, cioè negli ultimi decenni del V secolo a. C., oppure siano sostanzial mente un portato del IV secolo a. C. Questo dilemma non si pone ad ogni modo per la questione della recitazione ad alta voce dei testi filosofici di fronte a un uditorio. La pratica, come visto, era già ben attestata in ambito greco. Il problema si pone invece laddove Platone ci informa di singoli altamente alfabetizzati Socrate stesso, Fedro e altri e ormai capaci di procedere a una lettura diretta e personale del testo di loro interesse. Ma almeno sul conto di Socrate le cose non saranno state troppo diverse da come le presenta Platone. Sull’interesse a possedere il testo di cui si è ascoltata la recitazione cf. il commento di Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 8, a un passo del Fedro di Platone.
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I La prosa prima di Erodoto
In tali condizioni di comunicazione letteraria, la questione del titolo della prosa elaborata per iscritto non si poneva affatto. Tra autore e pubblico v’era una relazione face-to-face, dove la viva voce metteva in diretto contatto l’uno con l’altro. Il manoscritto non svolgeva ancora una vera mediazione. Di conseguenza, il bisogno di orientare preliminarmente il pubblico, e cioè di enunciare il concetto di partenza o più in generale il tema del discorso, e di dichiarare l’identità della “voce narrante”, cioè il nome dell’autore, si soddisfaceva usualmente anche per la prosa, come già da tempo avveniva con la poesia, generalmente in sede proemiale, ma pur sempre nel testo. Lo vedremo nelle pagine seguenti.
II Aspettando il titolo Come si presentava un’opera in prosa a un pubblico di ascoltatori tra VI e V secolo a. C.? Cercheremo di rispondere a tale domanda attraverso l’esame dei proemi di alcuni autori dell’epoca.
1 «Così dice Ecateo di Mileto» Nella più antica prosa greca – ha scritto Detlev Fehling – ci sono tracce di una convenzione a noi estranea, secondo la quale un autore inizia a parlare in prima persona solo a seguito di una formula introduttiva, che lo presenta brevemente all’uditorio e gli cede, per così dire, la parola³⁶⁸. L’opera genealogica di Ecateo comincia con una formula in terza persona, seguita appunto dal discorso del Milesio: ῾Εκαταῖος Μιλήσιος ὧδε μυθεῖται· τάδε γράφω, ὥς μοι δοκεῖ ἀληθέα εἶναι· οἱ γὰρ ῾Ελλήνων λόγοι πολλοί τε καὶ γελοῖοι, ὡς ἐμοὶ φαίνονται, εἰσίν. Ecateo di Mileto così dice: scrivo queste cose, come a me sembrano vere; infatti i discorsi dei Greci, per come a me appaiono, sono molti e risibili (FrGrHist 1 F 1a)³⁶⁹.
Il proemio ha dunque struttura molto chiara, sostanzialmente bipartita. Una formula introduttiva, del tipo xy così dice, presenta lo scrittore, ne fornisce il nome e ne indica la città di provenienza. A questo punto la parola passa a Ecateo, il quale espone subito il suo discorso in prima persona. Lo storico comincia con una dichiarazione programmatica, che contiene il concetto cardine e fornisce la giustificazione del suo lavoro³⁷⁰.
Cf. D. Fehling, Zur Funktion und Formgeschichte des Proömiums in der älteren griechischen Prosa, in Δώρημα: Hans Diller zum 70. Geburtstag. Dauer und Überleben des antiken Geistes, herausg. von K. Vourveris A. Skiadas, Athen 1975, 61 75 (qui in part. 61). Sull’argomento cf. quanto scritto lucidamente da Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 39 41. Che si tratti dell’inizio dell’opera, è noto dallo Ps. Demetrio 2, 12. Su questo esordio è importante A. Corcella, Ecateo di Mileto così dice, in QS 43 (1996), 295 301. Sull’esordio di Ecateo si è scritto moltissimo. Qui non mi soffermo a commentare l’appa rente contrasto tra il «così dice» della formula introduttiva e le parole «scrivo queste cose» della dichiarazione programmatica. L’atto di scrittura serve a fissare i risultati dell’indagine. Sull’argomento, oltre agli studi citati nel precedente capitolo, cf. R. Thomas, Oral Tradition and Written Record in Classical Athens, Cambridge 1989 (Cambridge Studies in Oral and Literate Culture, 18), 179 184. https://doi.org/10.1515/9783110703740 010
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II Aspettando il titolo
Dell’esordio dell’opera di Eraclito di Efeso abbiamo invece l’inizio del discorso diretto (VS 22 B 1): τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται. Del logos che è sempre³⁷¹ privi di comprensione sono gli uomini e prima di averlo ascoltato e dopo averlo ascoltato la prima volta: divenendo infatti tutte le cose secondo questo logos essi appaiono simili a persone inesperte, quando si cimentano in parole e in azioni, quali quelle che io spiego secondo natura distinguendo ciascuna cosa e dicendo come essa è. Invece agli altri uomini rimane celato cosa fanno da svegli, così come non hanno coscienza di quanto fanno dormendo.
Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Einleitung (come n. 209), 124, n. 4, in considerazione di varia documentazione in nostro possesso (offriremo altri dati a breve), non dubitava che il tutto fosse preceduto da un enunciato del tipo «Queste cose dice Eraclito». Formule di questo genere sono state supposte per altri scritti, dei quali ci è stata tramandata la dichiarazione programmatica, ovvero l’inizio vero e proprio del discorso dell’autore, come nel caso di un’opera di un pensatore del V secolo a. C., Diogene di Apollonia (cf. VS 64 B 1). La formula introduttiva doveva essere ancora sfruttata nei primi decenni del IV secolo a. C., quando ormai anche nel campo della prosa si avvertiva sempre più il bisogno di ricorrere, piuttosto, all’epigrafe libraria, come vedremo. Secondo Clemente Alessandrino, Democrito di Abdera aveva osato dichiarare τάδε λέγει Δημόκριτος, «Queste cose dice Democrito» traducendo nei suoi scritti la stele di Ahiqar. Evidentemente, Democrito, se stiamo al resoconto di Clemente, presentava come suo il racconto appreso dalla stele³⁷².
In questa versione ho rinunciato coscientemente a tradurre τοῦδ’, in modo da dare rilievo al logos di cui parla Eraclito il filosofo in effetti ne sottolinea immediatamente l’importanza mediante il gioco di parole τοῦ δὲ … τοῦδ’ e anche al fine di fare risaltare meglio la posizione ἀπὸ κοινοῦ dell’avverbio ἀεί. Cf. Clem. Al., Strom. I, 15, 69. Sulla storicità della notizia e sul suo esatto significato la critica non è tuttavia unanime. Sulla questione e più in generale sulla storia di Ahiqar: E. Meyer, Der Papyrusfund von Elephantine. Dokumente einer jüdischen Gemeinde aus der Perserzeit und das älteste erhaltene Buch der Weltliteratur, Leipzig 1912, 123 125; M.J. Luzzatto, Grecia e Vicino Oriente: tracce della “Storia di Ahiqar” nella cultura greca tra VI e V secolo a. C., in QS 18 (1992), 5 84 (in particolare 11 su Democrito); G. Toloni, Ahiqar tra leggenda e rielaborazione letteraria. Una tradizione e i suoi riflessi, in Sefarad 73/1 (2013), 7 30 (qui in part. 17 18). Sul libro di Ahiqar
1 «Così dice Ecateo di Mileto»
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Nella documentazione in nostro possesso, la formula introduttiva incorpora, talvolta, una precisa indicazione sul tema affrontato dal singolo autore. Un primo esempio possibile concerne Alcmeone di Crotone (floruit intorno al 500 o nei decenni successivi)³⁷³. Dell’opera di questo antico prosatore Diogene Laerzio (VIII, 83) ci ha tramandato l’inizio, che qui ripresento senza punteggiatura al suo interno: ᾿Αλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνῳ καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλῳ περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι… (VS 24 B 1)
Gli studiosi moderni non sono d’accordo sul punto terminale della formula introduttiva. Conseguentemente, essi interpretano καὶ Βαθύλλῳ περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν in modi diversi. In particolare, Tiziano Dorandi, Diogenes Laertius (come n. 121), 649, ll. 10 – 11, ha recentemente edito questa parte ponendo l’interpunzione dopo περὶ τῶν ἀφανέων, accogliendo così la proposta formulata da H. Gomperz, Zu Alkmaion Frg. 1 Diels, in PhilW 48 (1928), 1597– 1598. In questo caso la formula introduttiva incorporerebbe un’indicazione sul tema affrontato nel discorso: «Alcmeone di Crotone, figlio di Peiritho, queste cose disse a Brotino e a Leone e a Bathillo su quanto v’è di non manifesto: delle cose concernenti i mortali sono gli dei ad avere chiara conoscenza, mentre agli esseri umani (è possibile) giudicare dai segni…»³⁷⁴. Altri editori hanno posto l’interpunzione subito dopo Βροτίνῳ καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλῳ. In questo modo l’indicazione περὶ τῶν ἀφανέων costituirebbe l’inizio della dichiarazione programmatica. Se si accoglie questa seconda possibilità, si pone ovviamente il problema di spiegare il doppio complemento περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν. Per alcuni studiosi, Alcmeone intendeva così dire cf. A.M. Denis, Introduction aux pseudépigraphes grecs d’Ancien Testament, Leiden 1970 (Studia in Veteris Testamenti pseudepigrapha, 1), 201 214. Testimonianze e frammenti dell’opera di Alcmeone sono offerti da M. Timpanaro Cardini (a cura di), Pitagorici. Testimonianze e frammenti, I II, Firenze 1958 1962 (Biblioteca di studi superiori, 45). Sull’autore: L. Perilli, Alcmeone di Crotone tra filosofia e scienza, in QUCC 69 (2001), 55 79; Nieddu, La scrittura (come n. 109), 84 87. Peraltro, ci si è chiesti in passato se la dichiarazione programmatica di Alcmeone sia stata riportata in modo completo da Diogene Laerzio, oppure sia manchevole di una o più parole. Si è supposto, tra l’altro, che dopo ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι il testo proseguisse con una espressione del tipo ἔξεστιν ἡμῖν. Per maggiore informazione in merito si veda S. Kouloumentas, Alcmaeon and his addressees. Revisiting the incipit, in P. Bouras Vallianatos S. Xenophontos (ed. by), Greek Medical Literature and its Readers: From Hippocrates to Islam and Byzantium, Abingdon New York 2018 (Centre for Hellenic Studies: King′s College London), 7 29, qui in part. 17.
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II Aspettando il titolo
che nell’ambito delle cose invisibili o non manifeste (περὶ τῶν ἀφανέων) concernenti la condizione dei mortali (περὶ τῶν θνητῶν) soltanto gli dei possono vantare chiara conoscenza, mentre agli esseri umani è possibile formulare congetture, ovvero arguire la realtà delle cose attraverso l’esame dei segni. Per altri studiosi, i due complementi dovrebbero essere interpretati in altra maniera³⁷⁵. Ad ogni modo, anche l’inizio dell’opera di Alcmeone ha struttura bipartita: dapprima compare la formula introduttiva, da cui apprendiamo almeno l’identità dell’autore, la di lui provenienza e l’appartenenza familiare. La formula è “arricchita” pure dalla menzione dei primi destinatari del logos. Per questo il verbo iniziale è all’aoristo³⁷⁶. Segue quindi il discorso vero e proprio di Alcmeone, che comincia anche in questo caso con un enunciato di carattere generale. Detlev Fehling, Zur Funktion und Formgeschichte des Proömiums (come n. 368), 65, sulla base di varia documentazione pervenuta, ritiene peraltro che anche Alcmeone proseguisse il suo discorso in prima persona. La formula introduttiva è arricchita di una indicazione sul tema trattato in altri esempi cronologicamente un po’ più avanzati. Un caso particolarmente degno di nota ha a che vedere con lo storico Antioco di Siracusa (attivo ancora verso la fine del V secolo a. C.), il quale aveva inaugurato un suo lavoro in questo modo: ᾿Aντίοχος Ξενοφάνεος τάδε συνέγραψε περὶ Ἰταλίης ἐκ τῶν ἀρχαίων λόγων τὰ πιστότατα καὶ σαφέστατα· τὴν γῆν ταύτην, ἥτις νῦν Ἰταλία καλεῖται, τὸ παλαιὸν εἶχον Οἰνωτροί. Antioco, figlio di Senofane, espose per iscritto queste cose sull’Italia, le più fededegne e chiare che si traggano dalle antiche tradizioni: questa terra, che ora è chiamata Italia, anticamente la occupavano gli Enotri³⁷⁷.
Anche questo brano d’esordio (FrGrHist 555 F 2) può dirsi a struttura bipartita. E infatti esso comincia con una frase avente le funzioni di presentare l’autore e di introdurne il discorso. Ma la frase introduttiva presenta vari aspetti originali.
Sulle varie proposte di soluzione avanzate dagli studiosi si veda S. Kouloumentas, Alcmaeon and his addressees (come n. 374), 7 29. Sui problemi sintattici e contenutistici di questo esordio cf. anche Timpanaro Cardini, Pitagorici I (come n. 373), 147 159. Per un’altra interpretazione dell’uso dell’aoristo cf. Nieddu, La scrittura (come n. 109), 86 87. Traduco Ἰταλία con Italia per semplici ragioni di comodo, ben sapendo che il termine non aveva all’epoca la valenza geografica odierna. Per approfondimenti su questo esordio e alcune considerazioni sull’opera e sul suo autore cf. L. Pareti, Storia della regione lucano bruzzia nell’antichità. Opera inedita, a cura di A. Russi, Roma 1997, 527 528 (qui in part. n. 77, con traduzione, che accolgo, dell’esordio); Schmalzriedt, Zur Frühgeschichte der Buchtitel, 36.
1 «Così dice Ecateo di Mileto»
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Il primo è dato dal fatto che non c’è più un μυθεῖται o un λέγει o un ἔλεξε, per annunciare che così “narra” o “parla” o “disse” l’autore, come nei casi sopra visti. Adesso, invece, abbiamo συνέγραψε, che veicola subito un messaggio più complesso, cioè l’idea di una composizione letteraria già compiuta. Il secondo aspetto notevole, che è poi quello che a noi interessa specialmente rilevare, è il seguente: l’argomento affrontato da Antioco non è presentato o indicato semplicemente mediante un pronome dimostrativo (τάδε). La frase introduttiva incorpora (questa volta: sicuramente) anche una puntuale informazione di contenuto: περὶ Ἰταλίης. L’informazione è offerta già qui, senza attendere l’inizio del discorso di Antioco. Nella stessa frase introduttiva si definiscono inoltre le qualità delle cose trattate dallo scrittore: le più fededegne e chiare che si ricavino dalle antiche tradizioni. L’esposizione vera e propria dello storico (Antioco non comincia parlando in prima persona; ma ciò non significa che egli non lo facesse mai dopo, in quel che non ci è stato tramandato della sua trattazione) comincia quindi con le parole: τὴν γῆν ταύτην, ἥτις νῦν Ἰταλία καλεῖται, τὸ παλαιὸν εἶχον Οἰνωτροί. Ovviamente Antioco, dopo tutto quel che è stato prima detto, rinuncia a questo punto a una dichiarazione programmatica ed entra, col suo discorso, direttamente in medias res. Rimane così ancora più evidente il suo sforzo di anticipare e concentrare nella frase introduttiva tutti i dati necessari e rilevanti ai fini della presentazione e ricezione della sua trattazione. Al di là di tali elementi di novità, la forma data dallo storico al suo proemio si riallaccia comunque anch’essa a una prassi ben più antica, per la quale il discorso vero e proprio di un prosatore comincia solo dopo una formula introduttiva, in terza persona, che lo presenta, se non altro, prima di cedergli la parola. Altri esempi potrebbero essere ancora discussi, ma de hoc satis ³⁷⁸.
Per ulteriore documentazione cf. Fehling, Zur Funktion und Formgeschichte des Proömiums (come n. 368). Sui proemi della più antica prosa greca è prezioso L. Porciani, La forma proe miale. Storiografia e pubblico nel mondo antico, Pisa 1997 (Pubblicazioni della Classe di lettere e filosofia. Scuola Normale Superiore di Pisa, 18). Si veda inoltre Schmalzriedt, Zur Frühgeschichte der Buchtitel, 32 50, 64 72. La documentazione da me discussa non ha pretesa di esaustività. Ho considerato solo alcuni casi notevoli, al fine di evidenziare solo alcuni aspetti significativi della prassi proemiale fin qui descritta. Altri esordi (specialmente di scritti di medicina collo cabili nella seconda parte o verso la fine del V secolo a. C.) sono censiti da Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 41, e dallo Schmalzriedt alle pagine poc’anzi citate. Si tratta di esordi ora più ora meno elaborati. Nella formula introduttiva di alcuni di essi si nota, tra l’altro, l’assenza della indicazione del nome dell’autore del discorso. Quest’assenza, specialmente nel caso degli esordi di testi medici, non mi risulta sino a oggi studiata a dovere. Ad ogni modo, essa potrebbe avere la sua spiegazione nella destinazione iniziale di quegli stessi testi, concepiti per un pubblico
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Quali sono – potremmo ora chiederci – le ragioni insite nell’arte proemiale fin qui illustrata? Per quali motivi i primi prosatori greci tendono a esordire con una formula introduttiva, avente le caratteristiche e le funzioni essenziali sopra viste? Per comprendere fino in fondo le ragioni del fenomeno e capire l’attaccamento dei primi prosatori greci a tale prassi, converrà inquadrarla storicamente.
2 Origini di un’arte proemiale La tecnica d’esordio sin qui studiata non è una invenzione greca, ma un uso ereditato da tradizione precedente, cioè dal mondo orientale. I contatti dei Greci con l’Oriente sul piano culturale e politico in epoca arcaica non hanno bisogno di essere ricordati³⁷⁹. E proprio in Oriente lo schema d’esordio bipartito vantava già al tempo di Ecateo una storia plurisecolare. In quel modo erano stati sino ad allora introdotti documenti ufficiali, come messaggi di sovrani o di alti dignitari ai propri sudditi. Del suo uso in ambito persiano Erodoto offre numerose testimonianze (cf. Hdt. I 69, 1– 3; III 40, 1– 2; III 122, 3 – 123, 1; V 24, 1– 2; VIII 140, 1). Notevole in proposito anche un passo di Tucidide, I, 129, 3. Nella plurilingue iscrizione di Behistun (databile tra il 521 e il 518 a. C.) compare, per circa 70 volte, la formula, lievemente diversa, ma pur sempre a carattere introduttivo e in terza persona: «Parla il Re Dario»; segue puntualmente il discorso del sovrano, che narra le sue gesta vittoriose nella forma di una Icherzählung ³⁸⁰.
ristretto e in immediato contatto con l’autore, ossia per una circolazione tra pochi intimi. Sarà bene a questo proposito ricordare che anche in età romano imperiale, quando ormai s’era ampiamente diffusa la prassi della inscriptio libraria, testi di contenuto dottrinale, prodotti all’interno di cerchie filosofiche, erudite e in particolare mediche, circolarono inizialmente all’interno delle stesse senza indicazione del nome dell’autore su rotolo. Questa mancanza si capisce facilmente, se si pensa che il testo passava dalle mani del maestro/scrittore a quelle degli allievi senza mediazione di alcun genere. Cf. E. Meyer, Blüte und Niedergang des Hellenismus in Asien, Berlin 1925 (Kunst und Altertum. Alte Kulturen im Lichte neuer Forschung, 5); inoltre A. Momigliano, Fattori orientali della storiografia ebraica post esilica e della storiografia greca, in Id., Terzo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, II, Roma 1966 (Storia e letteratura, raccolta di studi e testi, 109), 807 818; W. Burkert, Die orientalisierende Epoche in der griechischen Religion und Literatur, Heidelberg 1984. L’iscrizione sul monte di Behistun era collocata troppo in alto per essere davvero leggibile. Il monumento epigrafico doveva piuttosto servire a eternare la parola del sovrano. Perché questa
2 Origini di un’arte proemiale
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A differenza di quanto si è sostenuto in passato, una così alta frequenza d’uso della formula introduttiva non deve dare l’impressione che la sua adozione fosse a quel tempo una speciale prerogativa comunicativa del Gran Re, sicché chi tra i Greci ne “usurpava” l’uso volesse ipso facto mettere in rilievo, all’orecchio degli ascoltatori, la propria autonomia di giudizio e la propria libertà di pensiero. Questa interpretazione, sostenuta più di una volta negli studi, va in realtà abbandonata, poiché essa è viziata dall’omissione di un dato fondamentale: l’iscrizione di Behistun non inizia con le parole “Parla il re Dario”, ma con una autopresentazione del sovrano. In quanto potere supremo, e anzi come figura divina, egli si afferma da sé, si presenta cioè subito in prima persona, senza mediazione di alcun genere: «Io sono Dario (…)». Si tratta di una modalità di attacco ricorrente anch’essa (in casi simili, cioè per dichiarazioni di sovrani o attribuite alle divinità) in testi orientali, come mostrato brillantemente da Eduard Norden (Agnostos Theos. Untersuchungen zur Formengeschichte religiöser Rede, Leipzig – Berlin 1913, 207– 220). Solo dopo questa autopresentazione, questa sì davvero prerogativa del potere supremo, il testo dell’iscrizione di Behistun prosegue e viene articolato grazie alla formula «Parla il Re Dario». L’esordio bipartito è sfruttato ancora in molti altri documenti di tradizione achemenide o in generale orientale, dove i sovrani si rivolgono ai sudditi in forma, per così dire, di lettera aperta³⁸¹. A questo riguardo la documentazione tramandata in alcuni libri dell’Antico Testamento è molto significativa. Si tratta di decreti, lettere e anche editti, nel complesso testi destinati certamente alla recitazione, cioè alla declamazione a viva voce. Alla declamazione era preposto l’araldo, oppure l’ambasciatore incaricato di trasmettere i documenti ufficiali. Queste figure erano quindi chiamate a farsi, oltre che latori del testo scritto, anche portavoce del gran Re o di un dato dignitario. Il latore del documento poteva naturalmente essere talvolta anche soltanto incaricato di recapitare la lettera sigillata ai destinatari. In questo caso la lettura ad alta voce del messaggio era affidata a un addetto di cancelleria. sua parola poi venisse realmente conosciuta, si fece invece affidamento ad araldi o a messi imperiali, che la proclamarono nella lingua dei sudditi. Perciò Dario ne fece circolare varie traduzioni su tavolette più o meno durevoli o su pelle, forse anche su papiro. Sulla diffusione e le finalità della iscrizione cf. E. Meyer, Der Papyrusfund von Elephantine (come n. 372), 98 101. Una traduzione in lingua italiana della iscrizione e un commento sono offerti da D. Asheri, in D. Asheri S. Medaglia A. Fraschetti (a cura di), Erodoto. Le Storie. Libro III: La Persia, Milano 1990 (Scrittori greci e latini), 369 381. Cf. G.A. Gerhard, Untersuchungen zur Geschichte des griechischen Briefes, I, in Philologus 64 (1905), qui in particolare 29 35; G. Rudberg, Zu den Sendschreiben der Johannes Apokalypse, in Eranos 11 (1911), 170 179; Fehling, Zur Funktion und Formgeschichte des Proömiums (come n. 368), 60 75; Porciani, La forma proemiale (come n. 378), 3 44.
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A quest’ultimo proposito si consideri ciò che Erodoto racconta di un inviato del gran Re nella città di Sardi: «Dopo essere stato designato, Baggeo fa queste cose: avendo scritto molte lettere che trattavano di molti affari, vi appose il sigillo di Dario e con queste si recò a Sardi. Essendo lì giunto e venuto alla presenza di Orete, avendo aperto una ad una le lettere le dava da leggere al segretario reale». Qui Erodoto sottolinea: «tutti i governanti hanno a disposizione segretari reali» (III 128, 3). L’amministrazione persiana aveva dislocato vari «segretari reali» nei principali centri dell’impero. Per lettere ufficiali, ordini ed editti di sovrani o dignitari orientali, la documentazione a nostra disposizione attesta dunque in modo sovrabbondante il frequente ricorso a una precisa tecnica di esordio, caratterizzata da una breve formula, che fornisce il nome del mittente del discorso e ne introduce il discorso (generalmente diretto). Questa tecnica serve a riferire a viva voce a un uditorio un dato messaggio³⁸².
3 La funzione distintiva dell’esordio bipartito Per capire l’interesse dei Greci a sfruttare la stessa tecnica, dobbiamo infine figurarci lo svolgimento di una ἀκρόασις. Un autore poteva dare da sé lettura del suo testo. Questo compito poteva però essere assolto anche da un incaricato. In quest’ordine di idee è significativa una notizia di Diogene Laerzio, IX, 54, sulla divulgazione di un testo di Protagora: πρῶτον δὲ τῶν λόγων ἑαυτοῦ ἀνέγνω τὸν περὶ θεῶν, οὗ τὴν ἀρχὴν ἄνω παρεθέμεθα· ἀνέγνω δ’ ᾿Αθήνησιν ἐν τῇ Εὐριπίδου οἰκίᾳ ἤ, ὥς τινες, ἐν τῇ Μεγακλείδου· ἄλλοι ἐν Λυκείῳ, μαθητοῦ τὴν φωνὴν αὐτῷ χρήσαντος ᾿Αρχαγόρου τοῦ Θεοδότου. Dei suoi discorsi egli [Protagora] lesse per primo quello περὶ θεῶν, di cui abbiamo offerto sopra l’ἀρχή: lo lesse ad Atene in casa di Euripide o, come vogliono alcuni, in quella di Megaclide; altri invece sostengono nel Liceo, dove un discepolo, Arcagora figlio di Teodoto, gli prestò la voce.
La tecnica fu sfruttata in Oriente anche per semplici messaggi orali, cioè non fissati in alcun modo per iscritto. «Così/Queste cose dice il Signore»: formule introduttive come queste ricorrono svariate volte nei libri dell’Antico Testamento, seguite come di consueto dal discorso della divinità stessa. Naturalmente in tali circostanze il profeta svolge (o ritiene almeno di farlo) per la divinità la stessa funzione esercitata dall’araldo per il sovrano. L’uno e l’altro agiscono nella veste di portavoce, annunciano un messaggio altrui: cf. Rudberg, Zu den Sendschreiben (come n. 381), 170 179.
3 La funzione distintiva dell’esordio bipartito
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Il discepolo presta la voce al maestro. In casi del genere – e teniamo conto del fatto che, una volta lasciato circolare, il testo sarebbe stato letto a un uditorio sempre da un incaricato – era indispensabile: a) avvertire preliminarmente gli ascoltatori sull’identità dell’autore del discorso; b) mantenere in qualche modo distinta la figura dell’autore da quella del suo occasionale ἀναγνώστης; in altri termini, occorreva dare un segnale che chi leggeva era un semplice “portavoce”, da non confondere dunque col vero autore. Il ricorso alla tecnica di esordio sopra vista soddisfaceva le due esigenze: il passaggio da una formula introduttiva in terza persona al discorso vero e proprio dell’autore (specialmente poi se espresso subito col verbo alla prima persona) era appunto il segnale che l’acroasis si stava svolgendo per mezzo di un portavoce: con una tecnica del genere, infatti, era stato sino ad allora usuale nel mondo greco-orientale trasmettere ufficialmente a un dato pubblico parole o messaggi altrui (di un sovrano, di un dignitario, di una figura d’autorità). La formula introduttiva orientava, del resto, preliminarmente l’uditorio sull’esatta identità del “mittente”, ovvero su chi aveva composto il discorso. Il ricorso all’esordio bipartito aveva insomma ragioni ben precise, legate alla destinazione acroamatica del testo in prosa e in particolare alla sua recitazione per mezzo di un intermediario. Da quanto detto risulta chiaro che l’arte proemiale sin qui studiata non può essere banalmente considerata una forma sostitutiva del titolo («Titelersatz»)³⁸³. L’equiparazione è erronea anzitutto sul piano delle funzioni, visto che l’esordio bipartito ne possiede una speciale, pensata proprio per la recitazione della prosa all’uditorio per il tramite di un incaricato. Del resto, non tutti gli esordi sopra esaminati forniscono una precisa e concisa indicazione sul tema trattato dal singolo autore. Ecateo, come visto, si serve della dichiarazione programmatica, per esporre piuttosto l’idea di partenza delle sue ricerche. Eraclito introduce il suo logos in maniera ancora più articolata e complessa. Se prescindiamo dall’opera di Alcmeone, il cui inizio ha problemi suoi propri non ancora pienamente risolti, una puntuale informazione sull’argomento trattato si legge solo in esordi di epoca più avanzata, composti cioè nella seconda metà o verso la fine del V secolo a. C. Abbiamo sopra visto il caso di
Questa fuorviante interpretazione è già in H. Lieberich, Studien zu den Proömien in der griechischen und byzantinischen Geschichtsschreibung, München 1900. Lo studioso inizia il suo lavoro con un’analisi della frase d’inizio dell’opera genealogica di Ecateo di Mileto e si spinge in proposito a parlare di Titel e Titelblatt. L’opera di Lieberich, che pure ha indiscussi pregi, ha influito da questo punto di vista negativamente.
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Antioco. In effetti, nelle forme di presentazione della prosa si facevano ormai avanti nuove esigenze, come vedremo in dettaglio parlando di Erodoto.
4 Conseguenze per la tradizione dei primi testi in prosa Dall’esordio, dunque, gli ascoltatori apprendevano il necessario sull’autore e sul testo che avrebbero sentito declamare. Oltre tutto, di un titolo non si avvertiva l’esigenza perché gli scritti in prosa dell’epoca dovevano essere ancora pochissimi; e in generale, non v’erano ancora le condizioni, per costituire raccolte librarie di una certa entità. Ma in mancanza di un titolo, come si regolava il pubblico dell’epoca, per richiamare alla memoria lo scritto ascoltato in questa o quella occasione? Almeno al tempo di Erodoto fu sufficiente parlare del λόγος di questo o quel personaggio. È questa per esempio la maniera, in cui lo stesso Erodoto rievoca la prosa di Ecateo, come mostreremo a breve³⁸⁴. Più tardi, con la diffusione dell’uso dei titoli, si pose inevitabilmente il problema di assegnarne uno anche agli scritti in prosa di epoca precedente che non lo avevano ricevuto dai rispettivi autori e che ne erano ancora sprovvisti. Di tali scritti potevano del resto già essere in circolazione più copie. In tali condizioni fu inevitabile che ciascun possessore desse un titolo al proprio esemplare secondo i propri gusti, indipendentemente dall’eventuale operato degli altri. Possiamo immaginare le conseguenze di tutto ciò: l’apparizione di titoli diversi per uno stesso testo. Consideriamo qualche caso concreto.
Lo stesso, del resto, si faceva o s’era fatto anche in Oriente in casi del genere. Pensiamo alla letteratura giudaica prodotta tra il VII e il V secolo a. C. I libri di argomento profetico, destinati a un uditorio ora più ora meno selezionato, furono inizialmente tutti quanti privi di titoli. Ci si accontentò allora di parlarne semplicemente come di «parole» del Signore a questo o quel profeta o di fatti e parole del profeta stesso. Notevole in proposito ciò che si legge in Geremia (cap. 36): il profeta detta al discepolo Baruch determinate parole. Il discepolo viene quindi incaricato di leggere al popolo il testo fissato per iscritto. Nient’altro che recitazioni vengono dunque compiute per mezzo del rotolo sia davanti al popolo sia poi alla presenza di alcuni dignitari e infine al cospetto del re, che riduce in brandelli il libro dopo averne ascoltato l’inizio. Naturalmente né qui né altrove si parla mai di titoli, ma solo di «parole» del Signore o del profeta. Sull’argomento si veda C. Westermann, Grundformen prophetischer Rede, München 5 1978.
5 Sui titoli assegnati alla prosa di Ferecide, Eraclito ed Ecateo
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5 Sui titoli assegnati alla prosa di Ferecide, Eraclito ed Ecateo 5.1 Ferecide di Siro Il lessico bizantino chiamato Suda (in gr.: Σοῦδα³⁸⁵) attribuisce a Ferecide di Siro un’opera intitolata Ἑπτάμυχος ἤτοι Θεοκρασία ἢ Θεογονία, «Sette grotte oppure Teocrasia o Teogonia»³⁸⁶. Alcuni studiosi moderni hanno preso fin troppo sul serio tali indicazioni e hanno cercato di stabilire quale possa essere stato, tra quelli ricordati, il titolo scelto dall’autore³⁸⁷. In realtà, non v’è alcun motivo per pensare che Ferecide abbia dato un titolo al suo scritto. Mancavano ancora i presupposti perché ciò avvenisse. In Grecia non v’era ancora un pubblico di lettori né un commercio librario né biblioteche. Dobbiamo pertanto partire da un’assenza iniziale, per spiegare la triplice indicazione fornita dal lessico bizantino: si tratta evidentemente del mero elenco dei titoli ricevuti dallo scritto nel corso della sua tradizione³⁸⁸. La Suda li indica l’uno di seguito all’altro, servendosi della disgiuntiva ἤ, senza alcuna presa di posizione sulla loro genuinità. Quella dell’autore del lessico è comunque una maniera onesta di lavorare di fronte a tradizioni contrastanti: senza selezionare i dati disponibili, li si presenta al lettore, il quale giudicherà da sé. Ben diversamente aveva agito Diogene Laerzio in proposito. Dello scritto ferecideo egli non menziona alcun titolo, ma è difficile credere che un erudito come lui non ne conoscesse uno. Ad ogni modo, Diogene si esprime in questi termini: Σώζεται δὲ τοῦ Συρίου τό τε βιβλίον ὃ συνέγραψεν, οὗ ἡ ἀρχή· Ζὰς μὲν καὶ Χρόνος ἦσαν ἀεὶ καὶ Χθονίη· Χθονίῃ δὲ ὄνομα ἐγένετο Γῆ ἐπειδὴ αὐτῇ Ζὰς γῆν γέρας διδοῖ (I, 119, 43 46 = VS 7 B 1).
Sul titolo del lessico e la tradizione manoscritta si vedano almeno F. Dölger, Der Titel des sog. Suidaslexikons, in Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften. Philoso phisch historische Abteilung 6 (1936), München 1936, 3 37; S.G. Mercati, Intorno al titolo dei lessici di Suida Suda e di Papia, in Byzantion 25/27 (1955 1957), 173 193. Su Suda come possibile nome dell’autore dell’opera si veda B. Hemmerdinger, Suidas, et non la Souda, in BollClass 3 s. 19 (1998), 31 32. Così nella Suda, s.v. Φερεκύδης. Cf. W. Schmid O. Stählin, Geschichte der griechischen Literatur, I, München 1929, 689 690. Cf. F. Jacoby, The First Athenian Prose Writer, in Mnemosyne 13 (1947), 13 64, qui soprat tutto 14 15.
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Si conserva dello scrittore di Siro il libro che egli compose e che ha per inizio: “Zeus e Crono furono sempre e (con loro) Chtonia. Chtonia prese il nome di Terra da quando Zeus le diede la terra come dono”.
L’incipit è dunque il modo in cui Diogene identifica lo scritto. Questa prassi di segnalazione e individuazione del prodotto letterario è, tuttavia, per lui più l’eccezione che la regola. Di norma, infatti, egli non esita a menzionare “per nome” le opere considerate. E se uno stesso testo circola sotto titoli diversi, egli non manca di rilevarlo. Così almeno avviene laddove egli tratta dell’opera di Eraclito.
5.2 Eraclito di Efeso Circa 120 frammenti rimangono dell’opera di Eraclito, ma il loro ordinamento è molto discusso. Per alcuni studiosi il lavoro del filosofo efesino non fu altro che una raccolta di massime. Per altri si trattò di qualcosa di organico, dove i temi si succedevano secondo una determinata logica. Ma senza riaprire ora la questione, concentriamoci sull’argomento di nostro interesse. Che Eraclito non abbia sentito il bisogno di fornire il suo manoscritto di un titolo, è cosa che non dovrebbe meravigliare, dopo tutto quel che si è detto nelle pagine precedenti sul modo in cui la prosa veniva divulgata al suo tempo. La sua opera fu però molto letta e apprezzata nell’antichità e proprio per questo interesse essa fu oggetto, da un certo momento in avanti, di svariate intitolazioni. Aristotele non sembra ancora conoscerne una. Piuttosto, egli ricorda l’opera semplicemente come σύγγραμμα e ne cita sì l’incipit, ma per interessi particolari: cf. Rhetorica III, 1407b. Invece, in età imperiale, al tempo di Diogene Laerzio, lo scritto circolava ormai intitolato in vari modi. Diogene, IX, 12, lo rileva a dovere: ἐπιγράφουσι δ’ αὐτῷ οἱ μὲν Μούσας, οἱ δὲ Περὶ φύσεως, «alcuni intitolano l’opera Muse, altri invece Sulla natura». Altri avevano designato il loro esemplare in modi assai più sofisticati. Diodoro, per esempio, aveva adottato il titolo ᾿Aκριβὲς οἰάκισμα πρὸς στάθμην βίου³⁸⁹. Consideriamo le prime due indicazioni. Il titolo Περὶ φύσεως è probabilmente il più antico tra quelli ricevuti dallo scritto. È noto del resto che molte opere di filosofi presocratici furono designate anticamente allo stesso modo³⁹⁰.
La notizia di Diogene Laerzio sui titoli dello scritto eracliteo è giudicata corrotta nell’edi zione di T. Dorandi, Diogenes Laertius (come n. 121), 663 664. A questo tema è dedicato il libro di Schmalzriedt, Zur Frühgeschichte der Buchtitel.
5 Sui titoli assegnati alla prosa di Ferecide, Eraclito ed Ecateo
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Difficile invece determinare l’esatto significato dell’altra indicazione, relativa al titolo “Muse”, sebbene a prima vista questa informazione non sembri porre particolari difficoltà esegetiche. In effetti, sembrerebbe che il testo eracliteo avesse ricevuto, nel suo insieme, appunto il titolo di Μοῦσαι. Ma se diamo uno sguardo ad altra documentazione del genere, emerge subito un’altra possibilità di comprensione della notizia diogeniana³⁹¹. Per inquadrare il problema, consideriamo anzitutto il caso dell’opera di Erodoto. Luciano di Samosata riferisce che i libri erodotei erano stati così ammirati dagli antichi da essere chiamati Muse: ἄχρι τοῦ καὶ Μούσας κληθῆναι αὐτοῦ τὰ βιβλία; così egli dice in Come si deve scrivere la storia, cap. 42. E nella Suda si legge, sempre sul conto di Erodoto, che ἐπιγράφονται δὲ οἱ λόγοι αὐτοῦ Μοῦσαι. Le due notizie non implicano ovviamente che ciascun libro avesse per titolo il nome di una delle Dee. Eppure, è appunto questa la presentazione dell’opera nella tradizione manoscritta bizantina: ogni libro reca, come titolo, il nome di una dea; e il testo, considerato nel suo insieme, è designato piuttosto col genitivo ἱστοριῶν; di un titolo Μοῦσαι non c’è alcuna traccia. Ciò almeno è quanto possiamo concludere a seguito della ispezione dei maggiori esemplari conservati³⁹². Prima di tornare alla notizia di Diogene su Eraclito, consideriamo altri dati in nostro possesso, relativi sempre a opere antiche intitolate in onore delle Dee. Proprio Diogene Laerzio, parlando del retore Bione, dice che di lui φέρεται ἐννέα βιβλία Μουσῶν ἐπιγραφόμενα (IV, 58, 135 – 136). È ovviamente possibile, ma in questo caso non sicuramente dimostrabile, che ciascun libro esibisse nella inscriptio solo il nome di una delle Dee. A questo proposito, vale la pena di ricordare che a quel tempo l’unità di opere ripartite in più rotoli era solo ideale. Ciascun libro occupava, di norma, un rotolo suo proprio. Di conseguenza, nel caso di Bione non v’è alcuna difficoltà a immaginare che ogni libro/rotolo avesse anche un titolo suo proprio, corrispondente appunto al nome di una delle Dee. Anche le nove epistole di Eschine «furono chiamate Muse» per la loro corrispondenza di numero con le Dee: è quanto dice Fozio, Bibl. cap. 61. Ma cosa intendeva esattamente dire il Patriarca in proposito? Forse che la raccolta nel suo insieme si presentava intitolata Μοῦσαι, o che ciascuna epistola era sotto il nome di una delle Dee? o tutte e due le cose? Il problema resta anche in tal caso aperto.
Mi avvalgo qui delle giuste osservazioni di S.N. Mouraviev, Titres, sous titres et articulations du livre d’Héraclite d’Éphèse, in Titres et articulations du texte (come n. 32), 35 53. Su tutto ciò cf. infra il capitolo su Erodoto.
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II Aspettando il titolo
Aurelio Opilio (I sec. a. C.) aveva suddiviso e intestato una sua opera in modo tale che ciascun volume avesse, nella inscriptio, il nome di una delle nove Dee: ex numero divarum et appellatio, così dice Svetonio nel De grammaticis, 6³⁹³. Il che naturalmente non implica per forza che ciascun volume, accanto al titolo suo proprio, avesse, come intestazione complessiva del corpus, il termine Musae o Musarum ³⁹⁴. Arricchiti dalla conoscenza di questi dati, torniamo allo scritto di Eraclito. La sua opera fu intitolata Muse. L’informazione diogeniana pone alcune questioni. Come si presentava concretamente lo scritto? Era stato forse suddiviso in nove parti e queste figuravano ciascuna sotto il nome di una delle Dee? Oppure era proprio il testo nel suo insieme a essere intitolato Μοῦσαι? O entrambe le cose? «È diviso εἰς τρεῖς λόγους», dice lo stesso Diogene Laerzio IX, 5, 57. Ulteriori suddivisioni del testo ci sono ignote. L’indicazione diogeniana sul titolo, assai più problematica di quanto sulle prime possa apparire, rimane conseguentemente di non sicura decifrazione³⁹⁵.
5.3 Ecateo di Mileto Ecateo di Mileto è più volte definito logopoios da Erodoto³⁹⁶. Questo appellativo è reso dagli studiosi moderni come prosatore, ma a quel tempo i discorsi, anche se fissati per iscritto, erano usualmente recitati a viva voce. Ciò non esclude d’altra parte che le ricerche del Milesio potessero diventare oggetto anche di lettura privata da parte di qualche singolo altamente alfabetizzato. Uno di questi dovette essere proprio Erodoto, se è vera la notizia che lo vuole “saccheggiatore” degli scritti del predecessore³⁹⁷. Casi del genere saranno stati tuttavia assai rari a quel
Suet., De grammaticis 6: Aurelius Opilius… simul consenuit composuitque variae eruditionis aliquot volumina ex quibus novem unius corporis quae, quia scriptores ac poetas sub clientela Musarum iudicaret non absurde et fecisse et scripsisse se ait ex numero divarum et appellatione. Cf. Th. Köves Zulauf, Die „Ἐπόπτιδες“ des Valerius Soranus, in RhM 113 (1970), 323 358 (qui in part. 329 330 e n. 29); J. Christes, Sklaven und Freigelassene als Grammatiker und Philologen im antiken Rom, Wiesbaden 1979 (Sklaven und Freigelassene als Grammatiker und Philologen im antiken Rom, 10), 19, n. 94. Così giustamente già Mouraviev, Titres, sous titres et articulations du livre d’Héraclite (come n. 391), 39. Cf. Herod. II, 143, 1; V, 36, 2; V, 125. Cf. Eus., Praep. Ev. X, 3, 466 b (= FrGrHist 1 T 22): Ἡρόδοτος ἐν τῇ δευτέρᾳ πολλὰ Ἑκαταίου τοῦ Μιλησίου κατὰ λέξιν μετήνεγκεν ἐκ τῆς Περιηγήσεως βραχέα παραποιήσας. Su Ecateo cf. F. Jacoby, s.v. Hekataios (3), in RE VII,2 (1912), coll. 2667 2750.
5 Sui titoli assegnati alla prosa di Ferecide, Eraclito ed Ecateo
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tempo: si sarà trattato di intellettuali dediti alle stesse ricerche, ossia allo stesso mestiere, e perciò interessati, a differenza dei più, a un confronto diretto e intensivo con la prosa del Milesio. Due, com’è noto, le opere composte da Ecateo, una di argomento genealogico, un’altra di carattere geo-etnografico. La prima è menzionata nelle fonti in almeno tre modi. Offro alcuni riferimenti in merito, senza pretesa di esaustività: – come Γενεαλογίαι essa è citata più volte in Steph. Byz., per es. s.v. ᾿Aμφαναί· … Ἑκαταῖος ἐν αʹ Γενεαλογιῶν (= FrGrHist 1 F 3); s.v. Ψωφίς· … Ἑκαταῖος Γενεαλογιῶν βʹ (= FrGrHist 1 F 6); s.v. Τρεμίλη· … Ἑκαταῖος Τρεμίλας αὐτοὺς καλεῖ ἐν δʹ Γενεαλογιῶν (= FrGrHist 1 F 10) e altrove. Sotto lo stesso titolo è citata anche da Ateneo IV, 148 f: ᾿Aρκαδικὸν δὲ δεῖπνον διαγράφων ὁ Μιλήσιος Ἑκαταῖος ἐν τῇ τρίτῃ τῶν Γενεαλογιῶν «μάζας» φησὶν εἶναι καὶ «ὕεα κρέα» (= FrGrHist 1 F 9). – come Ἱστορίαι essa è menzionata in Schol. Apoll. Rhod. I 551: … μᾶλλον δὲ ἀπὸ Θεσσαλικῆς Ἰτωνίας, περὶ ἧς Ἑκαταῖος μὲν ἐν τῇ πρώτῃ τῶν Ἱστοριῶν λέγει (= FrGrHist 1 F 2); Steph. Byz., s.v. Οἴνη· πόλις Ἄργους. Ἑκαταῖος Ἱστοριῶν αʹ (= FrGrHist 1 F 4); e s.v. Φάλαννα: … Ἑκαταῖος Ἱστοριῶν αʹ Ἱππίαν αὐτὴν καλεῖ (= FrGrHist 1 F 5) e ancora altrove³⁹⁸. – se è giusto il modo in cui i moderni sanano un passo corrotto di Arpocrazione, l’opera fu pure chiamata Πρωολογία, in quanto Ecateo affrontava anche il tema della discendenza degli eroi³⁹⁹. L’esordio «Ecateo di Mileto così dice…» (FrGrHist 1 F 1), di cui ci siamo sopra occupati, apparteneva proprio a questo scritto. Lo attesta lo Ps. Demetrio 2, 2, che lo colloca espressamente ἐν τῇ ἀρχῇ τῆς ἱστορίας. Complessivamente, come si vede, l’opera non è menzionata nelle fonti in modo univoco. Dello scritto di argomento geo-etnografico, la cui ripartizione in almeno due rotoli sarebbe «voralexandrinisch» secondo Felix Jacoby⁴⁰⁰, disponiamo di numerose citazioni. Nella maggior parte dei casi esso è chiamato Περιήγησις. Si considerino in proposito: – Harp., s.v. ῥοδωνιά· … ῥοδωνιά ἐστιν ἡ τῶν ῥόδων φυτεία, ὥσπερ ἰωνιὰ ἡ τῶν ἴων, ὡς Ἑκαταῖος ἐν αʹ Περιηγήσεως δηλοῖ (= FrGrHist 1 F 37);
Per alcuni rimandi alle fonti cf. Jacoby, s.v. Hekataios, come (n. 397), col. 2672, ll. 1 8. Harp., s.v. ἀδελφίζειν· ἀντὶ τοῦ ἀδελφὸν καλεῖν παρ’ Ἰσοκράτει ἐν Αἰγινητικῷ καὶ Ἑκαταίῳ τῷ Μιλησίῳ ἐν βʹ ἡρωολογίας (= FrGrHist 1 F 8) Sul passo cf. Jacoby, s.v. Hekataios (come n. 397), col. 2672, 8 10. Cf. Jacoby, s.v. Hekataios (come n. 397), col. 2672, 68 70.
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– – –
II Aspettando il titolo
Steph. Byz. s.v. Φωτίναιον· προπαροξυτόνως. πόλις Θεσσαλίας, ὡς Ἑκαταῖος Περιηγήσει Εὐρώπης (= FrGrHist 1 F 134); Steph. Byz., s.v. Φοινικοῦσσαι· δύο νῆσοι ἐν τῷ Λιβυκῷ κόλπῳ πρὸς τῇ Καρχηδόνι, ὡς Ἑκαταῖος Περιηγήσει Λιβύης (= FrGrHist 1 F 342); Ath. IX 410e: Σαπφὼ (…) κόσμον λέγει κεφαλῆς τὰ χειρόμακτρα, ὡς καὶ Ἑκαταῖος δηλοῖ ἢ ὁ γεγραφὼς τὰς Περιηγήσεις ἐν τῇ ᾿Aσίᾳ ἐπιγραφομένῃ (= FrGrHist 1 F 358).
L’ultimo brano citato è particolarmente significativo, poiché ci assicura che la parte dell’opera relativa alla periegesi dell’Asia, probabilmente contenuta in un rotolo a sé, circolava anticamente anche sotto un titolo suo proprio. È più che possibile che anche le altre parti principali dello scritto avessero un titolo proprio, indicante l’area geografica di volta in volta trattata dall’autore. È quanto almeno è lecito dedurre da numerose citazioni di Stefano di Bisanzio⁴⁰¹. Lo stesso scritto è ricordato talvolta anche come Περίοδος τῆς γῆς o in forme lievemente divergenti. Si notino in proposito i seguenti casi: – Harp., s.v. Καλαύρεια· … νῆσός ἐστι πλησίον Τροιζῆνος, ὡς Ἑκαταῖος ἐν Περιόδῳ τῆς γῆς ἔφη (= FrGrHist 1 F 125); – Harp., s.v. Λοιδίας· … ὅτι δὲ τῆς Μακεδονίας ἐστὶ ποταμός, ἄλλοι τε ἱστοροῦσι καὶ Ἑκαταῖος ἐν Περιόδῳ Εὐρώπης (= FrGrHist 1 F 145); – Strab. XII, 3, 22: ὁ δὲ Σκήψιος (…) ἐπαινεῖ δὲ μάλιστα τὴν Ἑκαταίου τοῦ Μιλησίου καὶ Μενεκράτους τοῦ Ἐλαίτου, τῶν Ξενοκράτους γνωρίμων ἀνδρός, δόξαν καὶ τὴν Παλαιφάτου, ὧν ὁ μὲν ἐν Γῆς περιόδῳ φησίν· «ἐπί δὲ ᾿Aλαζίᾳ πόλι ποταμὸς … (= FrGrHist 1 F 217)⁴⁰². È possibile peraltro che l’opera così intitolata al suo interno esibisse ancora titoli particolari, per indicare le principali aree geografiche trattate. È quanto almeno si può supporre a partire dallo stesso FrGrHist 1 F 145.
Alcune di queste citazioni le ho riportate poco sopra. In generale, sul problema cf. Jacoby, s.v. Hekataios (come n. 397), col. 2672, 40 59; G.E. Sterling, Historiography and Self Definition: Josephos, Luke Acts and Apologetic Historiography, Leiden 1992, 25 30 (Supplements to Novum Testamentum, 64). Si noti tuttavia che almeno Jacoby tende a considerare come titolo ogni sorta d’indicazione di contenuto fornita dalle fonti sul conto di questa o quella parte dello scritto di Ecateo. Lo studioso non sembra quindi tenere ben conto, in questo caso, della differenza che corre (o può darsi) tra semplici indicazioni di contenuto e titoli veri e propri. Sulle incertezze degli antichi circa la paternità della “periegesi” dell’Asia, si veda ancora F. Jacoby nell’articolo citato (come n. 397), coll. 2672, 60 2673, 54. Per altri rimandi alle fonti si veda Jacoby, s.v. Hekataios (come n. 397), col. 2672, ll. 14 20.
5 Sui titoli assegnati alla prosa di Ferecide, Eraclito ed Ecateo
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«Natürlich sind die Titel nicht alt», sottolineava Felix Jacoby, richiamando a questo riguardo l’incipit dell’opera genealogica, per mostrare quale prassi di presentazione del testo Ecateo avesse sfruttato per i suoi lavori⁴⁰³. Nel pieno V secolo a. C., Erodoto (VI, 137) li ricorda, come detto, semplicemente come logoi di Ecateo. Il riferimento è vago, ma non può essere imputato a superficialità da parte dell’indagatore di Alicarnasso, visto che egli stesso in altre occasioni (cioè per l’Iliade, l’Odissea e altri poemi) non esita a chiamare gli scritti in discussione in maniera puntuale. È chiaro che la prosa di Ecateo circolava a quel tempo senza titolo⁴⁰⁴. A quale delle due opere del predecessore abbia davvero alluso Erodoto nel passo appena ricordato, rimane peraltro incerto. Per vari studiosi si tratta dello scritto geo-etnografico, ma questa conclusione non poggia su basi certe. In ogni caso, proprio dal modo tutt’altro che unitario con cui le fonti antiche ricordano i due lavori del Milesio, rimane confermato che neppure Ecateo s’era curato di dare un titolo alla sua prosa.
Cf. Jacoby, s.v. Hekataios (come n. 397), col. 2671, 65 68. Si veda in proposito E. Schmalzriedt, Zur Frühgeschichte der Buchtitel, 29.
III Scrivere in prosa tra fine V e IV secolo a. C. 1 Memoria di sé A partire dagli ultimi decenni del V secolo a. C., in alcuni centri del mondo greco, e in particolare ad Atene, il prodotto letterario fissato su rotolo di papiro viene sempre più considerato da nuove angolature e alla luce di più ambiziosi obiettivi; in particolare, si apprezza e si comprende sempre meglio l’importanza della sua dimensione materiale, la quale non solo soddisfa i bisogni della semplice performance, ma può oltrepassare in termini di durata la vita stessa di uno scrittore. Destinato ad accogliere la composizione letteraria, almeno una volta finita, il rotolo di papiro è un supporto capace di accogliere notevole quantità di scrittura. E sebbene il testo vergato su papiro non sia comparabile, quanto a resistenza nel tempo, a quello di una iscrizione su pietra, tuttavia esso potrà essere comunque facilmente tramandato alla successiva generazione. Un giorno, gli interessati potranno persino replicarlo, cioè ricavarne nuove copie. Gli stessi prosatori tra fine V e primi decenni del IV secolo a. C. comprendono bene di potere lasciare in questa maniera adeguata memoria di sé stessi e del loro pensiero, o percorso intellettuale, ai posteri. Lo riconosceva intorno al 390 a. C. persino un retore come Alcidamante di Elea. Questo personaggio osservava con raccapriccio l’agire di certi suoi contemporanei, dediti alla composizione di discorsi scritti. A suo dire, tale prassi era destinata a indebolire l’arte dell’improvvisare. Tuttavia, alla fine del suo discorso contro tali “sofisti”⁴⁰⁵, lo stesso Alcidamante fa un’ammissione d’indubbio rilievo, riconoscendo di esercitarsi anch’egli, di tanto in tanto, nel λόγους γράφειν, nello «scrivere discorsi». Per quali motivi egli si dedicava a questa prassi? Certo ancora per l’hic et nunc, cioè per dare buona impressione di sé a quanti occasionalmente venivano ad ascoltarlo: εἰθισμένοι γὰρ ἀκροᾶσθαι τῶν ἄλλων 〈τοὺς γραπ〉τοὺς λόγους, ἴσως ἂν ἡμῶν αὐτοσχεδιαζόντων ἀκούοντες ἐλάττονα τῆς ἀξίας δόξαν καθ’ ἡμῶν λάβοιεν, «abituati infatti [i Greci] ad ascoltare dagli altri i discorsi scritti, forse a udirci improvvisare si farebbero di noi una opinione inferiore al dovuto» (Contr. soph., par. 31). Ma v’erano altre ragioni. Una era data dal fatto, sottolineato dal retore, che nei discorsi scritti si possono osservare come in uno specchio i progressi intel Testo critico e traduzione del discorso in G. Avezzù (ed.), Alcidamante. Orazioni e fram menti, Roma 1982, 8 22. https://doi.org/10.1515/9783110703740 011
1 Memoria di sé
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lettuali compiuti da un uomo nel corso della sua vita. Un’altra ancora, che qui dobbiamo soprattutto rilevare, consisteva nell’ambizione di lasciare ai posteri adeguata memoria di sé: ἔτι δὲ καὶ μνημεῖα καταλιπεῖν ἡμῶν αὐτῶν σπουδάζοντες καὶ τῇ φιλοτιμίᾳ χαριζόμενοι λόγους γράφειν ἐπιχειροῦμεν (par. 32)⁴⁰⁶. Così si esprimeva Alcidamante agli inizi del IV secolo a. C.⁴⁰⁷. Egli non sarà stato certamente l’unico tra gli scrittori del suo tempo a pensarla in questa maniera. A questo riguardo è degno di nota quanto si legge nel Fedro di Platone. Fedro dichiara a un certo punto che i più potenti e coloro che godono di maggiore visibilità nelle città «si vergognano di scrivere discorsi e di lasciare le proprie composizioni scritte, temendo l’opinione del tempo che verrà, cioè di essere chiamati sofisti»: οἱ μέγιστον δυνάμενοί τε καὶ σεμνότατοι ἐν ταῖς πόλεσιν αἰσχύνονται λόγους τε γράφειν καὶ καταλείπειν συγγράμματα ἑαυτῶν, δόξαν φοβούμενοι τοῦ ἔπειτα χρόνου, μὴ σοφισταὶ καλῶνται (Phdr. 257d, 4– 8)⁴⁰⁸. Ma Socrate, che con bonaria ironia ha già più volte replicato al discepolo, lo riporta alla realtà dei fatti: «O Fedro, …, ti sfugge che i più ambiziosi tra quanti sono coinvolti nella vita della polis, amano massimamente scrivere discorsi e lasciare alla posterità composizioni scritte», οἱ μέγιστον φρονοῦντες τῶν πολιτικῶν μάλιστα ἐρῶσι λογογραφίας τε καὶ καταλείψεως συγγραμμάτων (257e)⁴⁰⁹. Tutto ciò è detto nel dialogo per l’epoca di Socrate. Si può anche dubitare che le cose stessero proprio così negli ultimi decenni del V secolo a. C. Ma saranno state in questo modo, quando ne scriveva Platone. Κατάλειψις συγγραμμάτων: questo pensiero deve avere assillato già Tucidide verso la fine del V secolo a. C. Lo si ricava tra l’altro da ciò che egli dice nel lungo proemio, laddove lo storico paventa la possibilità di non trovare col suo lavoro il gradimento degli ascoltatori. Ma la sua opera – egli sottolinea – non è concepita per compiacere l’orecchio dei più nel corso di pubbliche letture, ma per rac-
In questo passo Alcidamante non specifica il tipo di supporto da lui usato per la scrittura. E noi sappiamo che un discorso in prosa si preparava, all’epoca, anche su tavolette. Ma finita l’elaborazione, lo scritto, destinato a una conveniente e comoda conservazione, normalmente doveva essere su rotolo di papiro. I passi qui riportati sono tratti da Alcid., Cont. soph., par. 31 32. Ho seguito la traduzione di Avezzù, Alcidamante (come n. 405), 21. Dell’opera platonica ho consultato utilmente la traduzione e il commento (con testo critico di J. Burnet) di G. Reale, Platone. Fedro, Milano 42009. Phdr. 257c 258a non è esente da problemi ecdotici: cf. G.J. de Vries, A Commentary on the Phaedrus of Plato, Amsterdam 1969, 183 188. Sul termine σύγγραμμα “und Verwandtes” da Eraclito a Platone cf. Th.A. Szlezák, Platon und die Schriftlichkeit der Philosophie, Berlin New York 1985, 376 386. Szlezák (383 386) esamina anche i valori di συγγραφή in Erodoto e Tucidide.
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III Scrivere in prosa tra fine V e IV secolo a. C.
contare la verità sui fatti avvenuti e per trarne insegnamento in vista di quelli che verranno. In questo ordine di idee il suo lavoro avrebbe avuto validità perenne, sarebbe stato un «acquisto per sempre» (Thuc., I, 22, 4). In quanto tale, si trattava ovviamente anche di un bene degno di essere conservato e tramandato ai posteri. Κτῆμα ἐς αἰεί, appunto. Perfino il suo predecessore Erodoto, che pure aveva passato tanto tempo della sua vita a recitare i propri logoi dinanzi a questo o quel pubblico, ebbe in fin dei conti di mira, con la rielaborazione dei vari discorsi in un tutt’uno unitario, la posterità. Lo ha messo in rilievo Wolfgang Rösler⁴¹⁰.
2 Cerchie di intellettuali Scrivere discorsi per il presente e per quelli che verranno, rivolgersi in questo modo a un pubblico intellettualmente impegnato, di contemporanei o anche di posteri: su cosa fondano gli autori di questo periodo tali ambiziose speranze? Le fondano, oltre che sull’uso e sulla diffusione del rotolo di papiro, anche su di un avanzato livello di alfabetizzazione, raggiunto, come sopra detto, da alcune cerchie di intellettuali in alcuni centri cittadini del mondo greco, in primis ad Atene, e su un sempre più forte amore per il sapere, un amore che tali cerchie nutrono ora anche attraverso la visione diretta dei testi e, laddove necessario, perfino col loro possesso⁴¹¹. Non può essere casuale che le prime significative notizie sulla lettura a carattere privato e in qualche caso l’interesse al possesso di prodotti scritti emergano per quest’epoca e in questa atmosfera culturale. I meglio alfabetizzati si mostrano ormai capaci di un confronto più approfondito col testo scritto: i loro interessi di apprendimento e di studio li spingono a letture di carattere persino
Cf. W. Rösler, Die ‚Selbsthistorisierung’ des Autors. Zur Stellung Herodots zwischen Münd lichkeit und Schriftlichkeit, in Philologus 135 (1991), 215 220. Su Erodoto che guarda alla posterità diremo nel prossimo capitolo. Il periodo di passaggio dal V al IV secolo a. C. non deve essere pertanto interpretato come una fase di rigida transizione “dall’oralità alla scrittura”. Le due forme di fruizione del testo iniziano invece, da questo momento, a convivere. Accanto a quella sino ad allora tradizionale, compiuta mediante l’ascolto, si aggiunge, naturalmente per chi ne era capace, quella permessa dalla visione diretta del testo. I dialoghi platonici offrono parecchie testimonianze in proposito. Per esempio, è notevole quanto si legge nel Fedro, dove il discepolo di Socrate, da cui il dialogo prende il nome, dichiara inizialmente di avere ascoltato Lisia declamare “sull’amore”; non contento, egli si è poi fatto rilasciare il manoscritto del testo ascoltato, per leggerlo e studiarlo con attenzione. Del resto, lo stesso Fedro tornerà più volte con Socrate, nel dialogo, a esaminare l’incipit del discorso di Lisia.
3 Dimensioni dell’opera in prosa
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individuale. Pur rimanendo la recitazione la maniera più semplice di prendere conoscenza dei testi, l’ascoltatore ben istruito e motivato può passare, se lo vuole, a procurarsi il prodotto letterario per un confronto diretto. Quanto cospicuo, tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a. C., sarà stato il numero delle persone capaci di un tale confronto? Difficile dirlo con precisione. Le stime avanzate sino a oggi si basano su dati troppo parziali per essere pienamente attendibili. Nella stessa Atene tali intellettuali saranno stati una ristretta minoranza. Chi era capace di un confronto autonomo col testo scritto, poteva apprendere le idee e le parole di uno scrittore, e meditarvi sopra, di gran lunga meglio di coloro che le avevano sentite solo occasionalmente recitare. La lettura consente di ‘impadronirsi’ assai meglio dei contenuti della letteratura. A questo riguardo sono istruttivi vari luoghi platonici, per esempio ancora un passo del Fedro (227c–228c) concernente un discorso di Lisia sull’amore; e quello, sopra ricordato, del Fedone (97c–99d), dove si legge di Socrate impegnato a procurarsi gli scritti anassagorei per una lettura di carattere personale. Dunque, dalla seconda metà o dalla fine del V secolo a. C. lo scrivere discorsi non ha importanza solo per la performance, per la recitazione ad alta voce. La composizione scritta presenta in realtà almeno altri due indiscutibili vantaggi: gli autori sanno di potere consegnare in tal modo alla posterità memoria di sé stessi e del proprio pensiero o delle proprie ricerche; e gli intellettuali sanno di poter nutrire la loro fame di sapere indipendentemente da occasionali pubbliche letture. Tutto ciò ebbe, tra l’altro, un impatto decisivo sulle dimensioni delle opere in prosa, anzitutto di quelle di argomento storico, con le ulteriori conseguenze – relative alla forma da dare al proemio e all’esigenza di passare a una nuova modalità di presentazione del prodotto letterario, legata alla epigrafe libraria – che vedremo.
3 Dimensioni dell’opera in prosa Dionisio di Alicarnasso sapeva⁴¹² che i primi “storici” greci, personaggi perlopiù attivi prima di Erodoto⁴¹³, si erano mantenuti col proprio lavoro entro ristretti È quanto egli riferisce nel suo opuscolo Su Tucidide. Per il testo di questo come di altri opuscoli dionisiani ho tenuto presente l’edizione critica apparsa nella CUF. Sulle prime forme della storiografia greca: F. Jacoby, Über die Entwicklung der griechischen Historiographie und den Plan einer neuen Sammlung der griechischen Historikerfragmente, in Klio 9 (1909), 80 123; Id., Griechische Geschichtschreibung, in DA 2 (1926), 1 29; Id., Atthis. The Local
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III Scrivere in prosa tra fine V e IV secolo a. C.
confini. Le loro composizioni avevano riguardato questa o quella città o questo o quel popolo. Nessuno di loro si era preoccupato di connettere tra loro tali ricerche⁴¹⁴, del resto destinate a essere declamate singolarmente con la tecnica di esordio che conosciamo. Quale sarà stata la lunghezza di un singolo logos in tale iniziale periodo? La perdita pressoché totale della documentazione non permette di fare stime. Ma se riflettiamo sulle condizioni di comunicazione letteraria di allora, vincolate appunto alla lettura ad alta voce del testo all’uditorio, è chiaro che la pubblica lettura di un logos ben difficilmente sarà andata oltre l’ora o l’ora e mezzo di tempo⁴¹⁵, a meno ovviamente di non contemplare delle pause. Anche la resistenza degli ascoltatori aveva limiti da non oltrepassare. Ma l’idea, progressivamente maturata nel corso del V secolo a. C., di poter lasciare agli altri un oggetto scritto, che vale sì per la lettura ad alta voce, ma può valere anche come “memoria” dell’autore e testimonianza del suo operato e delle sue ricerche, rese alcuni prosatori più ambiziosi e audaci: li incitò a tentare composizioni letterarie dall’architettura più ampia e comprensiva. A questo riguardo è significativo, se ci arrestiamo al campo storiografico, l’agire di Erodoto. Questi aveva cominciato la sua carriera scrivendo discorsi Chronicles of Ancient Athens, Oxford 1949, passim; e K. von Fritz, Die griechische Ge schichtsschreibung, I, Von den Anfängen bis Thukydides, Berlin 1967. Più in generale cf. H. Strasburger, Die Wesensbestimmung der Geschichte durch die antike Geschichtsschreibung, Wiesbaden 31975. Sulla notizia di Dionisio e la nascente storiografia greca cf. L. Porciani, Prime forme della storiografia greca. Prospettiva locale e generale nella narrazione storica, Stuttgart 2001 (Historia. Einzelschriften, 152). Si tenga in ogni caso presente che un giudizio sul resoconto di Dionisio è possibile solo entro ristretti limiti e si corre un grave rischio quando, in mancanza di altra documentazione, ci si affida ai titoli a noi tramandati delle opere degli autori di questo periodo, per verificare la fondatezza delle affermazioni di Dionisio. Questi testi ricevettero una o più denominazioni non dai loro autori, ma in un secondo momento. Questo fatto in particolare sconsiglia di ricostruire la letteratura perduta di questo periodo sulla base dei titoli tramandati: molte volte gli antichi diedero un titolo a questi come ad altri scritti senza tenere conto dell’insieme dei suoi contenuti, ma solo in considerazione delle prime parole. Si tratta di una pratica che spesso ha fuorviato loro stessi. Cf. Dion. Halic., De Thuc. 5, 1 5. Il primo logos erodoteo, dedicato alla figura di Creso, può fornire un esempio di quella che doveva essere una buona “misura” di un logos da recitare a un uditorio verso la metà del V secolo a. C. Le cose non saranno andate troppo diversamente con altri generi di prosa. La recitazione ad alta voce dello scritto pseudosenofonteo sulla Costituzione degli Ateniesi non avrà varcato l’ora di tempo. Su quest’opera è sempre fondamentale E. Kalinka, Die pseudo xenophontische Athenaion politeia. Einleitung, Übersetzung, Erklärung, Leipzig 1913. Per il com mento si raccomanda W. Lapini, Commento all’Athenaion Politeia dello Pseudo Senofonte, Fi renze 1997. Sul titolo dello scritto pseudosenofonteo cf. ora G. Weber (herausg., eingeleitet und übersetzt von), Pseudo Xenophon, Die Verfassung der Athener, Darmstadt 1997, 9 12.
4 Prime proiezioni
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destinati a essere recitati come “pezzi” a sé stanti, per questa o quella occasione. Ma da un certo momento in avanti egli volle anche procedere, del tutto parallelamente all’attività di conferenziere, al loro accorpamento, certo con i dovuti tagli, in modo da ottenerne un’unica grande opera, destinata ormai alla posterità, a testimonianza della ricerca compiuta e a memoria di fatti illustri compiuti da Greci e da barbari, come egli dice nell’esordio⁴¹⁶. Il raggiungimento di un così alto obiettivo ebbe però alcune conseguenze che forse, sulle prime, Erodoto non aveva calcolato. Tra l’altro, ed è il punto che è importante qui rilevare, col testo definitivo andò perduto l’iniziale rapporto di equilibrio tra la lunghezza del discorso da recitare e lo spazio di tempo conveniente a una pubblica lettura. Erodoto lasciava uno scritto che proprio a causa della sua ampiezza non era più possibile declamare interamente nel corso di una sola “esibizione”, né leggere tutto d’un fiato. Le ragioni per continuare a usare l’esordio bipartito, strettamente funzionale alla singola pubblica lettura, entrarono a questo punto in crisi. E infatti Erodoto fu il primo, come vedremo, tra gli storici greci, ad abbandonare completamente la vecchia prassi di presentazione del testo. E si mosse in una direzione del tutto nuova.
4 Prime proiezioni Nei capitoli seguenti ripercorreremo le tracce del passaggio da un sistema “arcaico” di presentazione dei testi in prosa, dove tutto è ancora affidato al proemio, a un altro, già sfruttato sul versante drammatico, vincolato alla inscriptio libraria. Per illustrare questa dinamica, ci muoveremo in una direzione ben precisa: prenderemo in esame la prosa degli storici. Dopo avere già parlato di Ecateo di Mileto e di Antioco di Siracusa, tratteremo di Erodoto, di Tucidide e di Senofonte; vaglieremo poi i dati in nostro possesso sulle opere di Filisto di Siracusa e di Teopompo. Le ragioni di questa “scelta di campo” sono facili a dirsi. Lo studio di tali autori ci permette di ripercorrere tutte le fasi del passaggio appena indicato senza soluzione di continuità. Inoltre, proprio in campo storiografico potremo osservare assai meglio che per altri generi com’è cambiata l’arte di scrivere un proemio tra V e IV secolo a. C. con l’adozione della inscriptio libraria, ossia quali
Lo vedremo nel prossimo capitolo.
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III Scrivere in prosa tra fine V e IV secolo a. C.
conseguenze ha avuto l’adozione di tale convenzione letteraria per l’esordio della composizione in prosa. Per altri generi di prosa è più difficile tessere un discorso altrettanto organico e lineare. Questa limitazione è imputabile tuttavia solo fino a un certo punto alle caratteristiche di questo o quel genere (ciò vale anche nel caso dei dialoghi: testi scenici anch’essi, a loro modo, come vedremo). I problemi maggiori sono piuttosto legati all’entità di quanto ci è pervenuto. La documentazione in nostro possesso non ci offre materiale per una approfondita discussione né per gli scritti dei sofisti né per quelli degli oratori degli ultimi decenni del V secolo a. C., sebbene non sia affatto da escludere che già per questi testi in prosa si affacciasse già all’epoca l’uso dei titoli. Per altro genere di prosa gravano poi seri problemi di cronologia, che ci impediscono di tracciare una sicura linea di sviluppo. Ciò vale soprattutto per letteratura medica prodotta grosso modo tra la seconda metà o la fine del V e gli inizi del IV secolo a. C. Che qualche testo di medicina abbia già potuto circolare nella seconda metà o fine del V secolo a. C. sotto un dato titolo, nella misura in cui tale letteratura “specialistica” andava accumulandosi all’interno delle cerchie interessate, è ovviamente più che possibile⁴¹⁷. I dati disponibili in proposito non consentono ad ogni modo di individuare titoli d’autore. Del resto, anche le conclusioni degli studi passati sul titolo di alcune composizioni di medicina circolanti più o meno verso la fine del V secolo a. C. richiedono di essere riviste su aspetti salienti⁴¹⁸.
La documentazione è raccolta da Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 14 24, il quale si contraddice in più di un punto o si mostra incerto sulla posizione da prendere. Occorre ribadire che le fonti vagliate da Nachmanson sono di cronologia relativamente incerta e pertanto non permettono di fissare punti davvero sicuri. Aggiungo che in questa parte, più che in altre del suo saggio, Nachmanson confonde semplici riferimenti o indicazioni di contenuto con titoli veri e propri: così per es. alle pp. 14 15, laddove egli parla delle «cosiddette sentenze cnidie». Secondo J. Jouanna, Remarques sur les titres dans la Collection hippocratique, in Titres et articulations du texte (come n. 32), 55 73 (qui in part. 73), «le témoignage qui renvoie au titre le plus ancien que l’on puisse atteindre dans l’histoire de la médecine grecque grâce à la Collection hippocratique» si trova nell’esordio del trattato del Regime nelle malattie acute (ultimi decenni del V secolo a. C.), dove si legge: Οἱ ξυγγράψαντες τὰς Κνιδίας καλεομένας γνώμας. Jouanna traduce: «ceux qui ont composé l’ouvrage intitulé les Sentences cnidiennes». Jouanna osserva che delle sentenze cnidie si hanno con sicurezza due frammenti. Del primo siamo debitori a Rufo d’Efeso (I II d. C.). Rufo, Denominazioni delle parti del corpo umano 159, 13 (ed. Daremberg Ruelle) dice di avere letto il brano ἐν ταῖς Κνιδίαις γνώμαις. Del secondo frammento siamo debitori a Galeno, il quale dice di averlo attinto ταῖς Κνιδίαις γνώμαις: così nel Commento delle epidemie VI d’Ippocrate, ed. Wenkebach Pfaff, CMG V, 10, 2, 2, p. 54. In questi due casi il trattato cnidio è citato «par le même titre que celui qui est donné dans le traité hippocratique, à
4 Prime proiezioni
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Dunque, per varie ragioni il terreno privilegiato per analizzare l’emergere della pratica del titolo, e in special modo del titolo d’autore, nella prosa greca rimane la storiografia. D’altra parte, è vero che Senofonte coltivò anche altri generi, come il dialogo e l’encomio, e scrisse trattati di vario contenuto. Dopo aver assodato l’uso dei titoli nella produzione di questo versatile scrittore e di altri due storici, Filisto e Teopompo, che fu del resto anche oratore, procederemo quindi a indagare il ricorso allo stesso uso da parte di altri autori attivi nel IV secolo a. C., ma in altri campi della prosa greca. Abbiamo così gettato rapidamente lo sguardo in avanti, schizzando il contenuto dei prossimi capitoli. Ora non resta che ricapitolare i punti che abbiamo toccato in queste ultime pagine. Dagli ultimi decenni del V secolo a. C. in avanti, in ambienti altamente alfabetizzati, emergono sempre meglio tre aspetti: a) la possibilità di considerare lo scritto in prosa (come del resto anche quello in poesia) non solo come un qualcosa da ascoltare, ma anche come un prodotto da leggere e studiare per interessi privati;
cette différence près que le participe καλεομένας à disparu». Il discorso sviluppato da Jouanna è viziato da più di un fraintendimento sul valore di καλεομένας. In primo luogo, è ingiustificato tradurre con «intitulé», giacché καλεομένας significa solo «cosiddette»; in altre parole, la parola non ha implicazioni di carattere librario. Lo aveva già osservato E. Lohan per casi simili (cf. supra: Parte I, III.2). Lohan ha peraltro osservato che nelle conversazioni dotte la pura e sem plice denominazione di un testo poteva presto o tardi essere registrata, appunto come titolo, sugli esemplari del testo stesso, oppure essere abbandonata in favore di un’altra. Nel primo di questi casi si colloca evidentemente la denominazione delle Κνίδιαι γνῶμαι, come si ricava dalle citazioni di Rufo e Galeno. Jouanna nota che «καλεομένας a disparu» nelle citazioni più tarde. Infatti: ciò che dapprima era stato un semplice appellativo, funzionale a indicare l’opera nell’ambito delle conversazioni dotte, successivamente non siamo in condizione di stabilire quando era divenuto un elemento librario, cioè proprio il titolo dell’opera. Perciò non aveva più alcun senso aggiungere καλεόμεναι. È chiaro dunque che l’esordio del Regime nelle malattie acute va interpretato ben diversamente da quanto Jouanna suggeriva; ed esso non implica per forza l’esistenza di un titolo, se appunto per titolo intendiamo un dato librario. Si noti, d’altra parte, che Jouanna ha per il resto chiarissimo che il titolo è un elemento librario: ne parla infatti così longe lateque nel suo lavoro. Anche l’analisi del Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 14 15, non è soddisfacente sul caso delle Sentenze cnidie. Per quel che riguarda l’incipit del Regime, M. Vegetti (a cura di), Opere di Ippocrate, seconda edizione ampliata, Torino 1976, 265, propone la seguente traduzione: «coloro che scrissero le Sentenze Cnidie». Qui καλεομένας non è reso con “intitolate”, ma nemmeno tradotto. Sul titolo del trattato Περὶ ἀρχαίης ἰητρικῆς cf. la messa a punto di B. Maucolin, Untersuchungen zur hippokratischen Schrift „Über die alte Heilkunst“, Berlin New York 2009 (Beiträge zur Altertumskunde, 258), 1, n. 1.
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b) l’idea di lasciare il proprio lavoro intellettuale, accuratamente elaborato per iscritto, alla posterità; c) la consapevolezza di potere ormai tentare architetture più complesse e soprattutto più vaste dell’opera in prosa. Tutto ciò scosse alle fondamenta il vecchio rapporto tra autore e pubblico. Le ragioni per continuare a usare l’esordio bipartito, che aveva introdotto sino ad allora i discorsi in prosa, vennero in buona parte meno. Adesso, tale schema di esordio non è più sentito soddisfacente alla presentazione del testo, giacché esso non corrisponde più bene alle nuove come alle vecchie esigenze. Non conta ormai solo la recitazione. Si sono fatti avanti nuovi bisogni. E il lascito di un prosatore non è più un semplice logos per l’hic et nunc. Il primo a trarre lucidamente le conseguenze di tutto ciò fu il grande indagatore di Alicarnasso: Erodoto.
IV Erodoto l’innovatore 1 Tradizione dell’opera Molti dei testi letterari composti in Grecia in epoca classica sono andati irrimediabilmente perduti. Invece quei pochi che si sono conservati in copie molto più tarde, non ci sono pervenuti senza importanti modificazioni. Nel corso della loro trasmissione essi hanno cambiato più volte d’aspetto: inizialmente su rotolo, furono travasati molti secoli dopo in codici in scrittura maiuscola. A esemplari in maiuscola succedettero altri in minuscola. Ma questi testi avevano cominciato a sperimentare un allontanamento dalla forma originale, mentre ancora erano su rotolo. Consce o inconsce alterazioni comparvero presto qua e là con la semplice produzione di nuovi esemplari. Per opere di notevole lunghezza neppure la divisione in libri fu sempre la stessa. Inoltre, opere inizialmente sprovviste di un titolo ne ricevettero uno, o più d’uno, nel corso della loro trasmissione. Spesso il titolo adottato non rispecchiava il pensiero o il modo di esprimersi o le effettive intenzioni dell’autore. La storia del testo di Erodoto è da tutti questi punti di vista, e in particolare dall’ultimo, assolutamente esemplare. Dell’opera possediamo circa sessanta testimoni di epoca bizantina o rinascimentale. I moderni li ripartiscono in almeno due famiglie principali, ossia nella cosiddetta stirps Florentina (a) e in quella Romana (d)⁴¹⁹. L’esemplare più importante del primo ramo è il Laur. Plut. 70, 3 (A), un manoscritto degli inizi del X secolo. Qui l’opera erodotea, suddivisa com’è noto in nove corposi libri, esibisce in testa a ciascuno di essi il nome di una delle Muse (vi abbiamo già accennato in uno dei precedenti capitoli). Ogni titolo è accompagnato dal numero d’ordine del rispettivo libro. Così abbiamo: – il primo libro sotto il nome di κλειώ α′, f. 1r; – il secondo sotto quello di εὐτέρπη β′, f. 56r; – il terzo sotto θάλεια γ′, f. 102v;
Sulla tradizione manoscritta dell’opera erodotea si veda in generale N.G. Wilson, Herodo tea. Studies on the Text of Herodotus, Oxford 2015, XI XXV (sul Laur. Plut. 70, 3, pp. XIV XV); B. Hemmerdinger, Les manuscrits d’Hérodote et la critique verbale, Genova 1981: quest’ultimo la voro è stato tuttavia criticato su più di un aspetto da vari studiosi, tra cui M. Reeve nella recensione al volume apparsa in Phoenix 39 (1985), 287 289. Sempre sulla tradizione del testo di Erodoto vanno tenute presenti le ricerche di R. Cantore, Per la storia del testo di Erodoto. Studi sulla famiglia romana, Bologna 2013 (Eikasmos. Studi, 22). Sulla tradizione manoscritta sfruttata da Aldo Manuzio per l’editio princeps cf. B. Mondrain, Un nouveau manuscrit d’Hérodote: le modèle de l’impression aldine, in Scriptorium 49 (1995), 263 273. https://doi.org/10.1515/9783110703740 012
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IV Erodoto l’innovatore
il quarto sotto μελπομένη δ′, f. 147r; il quinto sotto τερψιχόρη ε′, f. 198r; il sesto sotto ἐρατώ ϛ′, f. 234r; il settimo sotto πολύμνια ζ′, f. 264v; l’ottavo sotto οὐρανία η′, f. 316r; il nono sotto καλλιόπη θ′, f. 348r⁴²⁰.
Come si vede, nessun libro reca, in testa, il genitivo del nome di Erodoto. L’indicazione compare invece sistematicamente in chiusura di ciascuno di essi, accompagnata ancora una volta dal numero d’ordine del rispettivo libro. Alla fine dell’ultimo libro si legge, accanto al nome dell’autore, anche il genitivo plurale ἱστοριῶν θʹ: f. 376v⁴²¹. Il sistema di titolatura vincolato al nome delle Dee, oltre a ricomparire in altri testimoni della stirps Florentina ⁴²², è ben attestato anche dall’altra famiglia dell’opera erodotea, quella Romana. Si consideri qui il suo maggiore rappresentante, il Vat. Gr. 2369 (D), un esemplare databile alla seconda metà del X secolo. Qui ciascun libro, a eccezione del primo, lacunoso dei primi otto capitoli di testo per la perdita di qualche foglio, presenta regolarmente nella inscriptio il nome di una Dea secondo l’ordine di successione già visto in A ed è parimenti corredato del proprio numero d’ordine: così è al f. 30r per il secondo libro, al f. 66r per il terzo, al f. 98v per il quarto, al f. 133v per il quinto, al f. 158v per il sesto,
La scrittura dei titoli nel manoscritto è in maiuscola, fornita di spirito e accento in quasi tutti i casi. I margini superiori del manoscritto, prima di essere rifilati, dovettero anch’essi almeno qualche volta offrire indicazione del titolo del libro corrente, se ben intendo le tracce ancora oggi visibili sul margine alto del f. 264v. Ricordo inoltre la presenza, in questo esemplare, di indicazioni sticometriche alla fine del libro IV, V, VIII e IX. Su tali indicazioni si veda J. Irigoin, La tradition des textes grecs. Pour une critique historique, Paris 2003 (L’Âne d’Or), 45. Lo stesso sistema di titolatura figura anche nell’Ang. Gr. 83 (B), un esemplare testualmente assai vicino ad A. Se prescindiamo dai fogli 1r 7v e 9r 13v, che sono frutto di restauro, il codice fu prodotto a quanto sembra verso la fine del X secolo. L’importanza di B per la storia della trasmissione del testo di Erodoto è stata rivalutata negli studi degli ultimi decenni per più di una ragione. Sulla datazione del manoscritto cf. B. Mondrain, Un nouveau manuscrit d’Hérodote (come n. 419), 270, n. 23; sulla storia del codice e sulle mani che vi si avvicendarono, cf. B. Mondrain, Philologie grecque. Conférences, in École Pratique des Hautes Études. Section des sciences historiques et philologiques, Livret 10 (1994 1995), 51; Ead., Janus Lascaris copiste et ses livres, in G. Prato (a cura di), I manoscritti greci tra riflessione e dibattito. Atti del V Colloquio internazionale di Paleografia Greca (Cremona, 4 10 ottobre 1998), Firenze 2000, 417 426, qui in particolare 419 e 422; Bianconi, Tessalonica nell’età dei Paleologi (come n. 296), 38 39, 130 131, 135, 181; Cantore, Per la storia del testo di Erodoto (come n. 419), passim, e in particolare 9 e 70.
1 Tradizione dell’opera
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al f. 185r per il settimo, al f. 229r per l’ottavo, al f. 255r per il nono. Nessuno dei libri, a eccezione dell’ultimo, presenta una indicazione libraria in chiusura. Solo il nono reca alla fine, al f. 279r, ἡροδότου ἱστοριῶν θ′⁴²³. Così dunque si presentano i principali esemplari delle due famiglie. Ma la suddivisione del testo in nove parti non risale a Erodoto. Per Jean Irigoin essa era tuttavia già fissata nel IV secolo a. C.⁴²⁴. Altri studiosi la giudicano, più cautamente, di età ellenistica⁴²⁵. Gli originari logoi erodotei dovevano comunque essere molto più brevi dei nove volumi attuali. Sulla base di una serie di rimandi interni, è stato possibile stimare la presenza di almeno 28 logoi originari nel testo che abbiamo⁴²⁶. Questo fatto deve mettere in guardia il lettore moderno: tutte le volte che lo storico di Alicarnasso rinvia a determinati suoi logoi, egli indica porzioni di testo molto più modeste di quelle corrispondenti ai libri attuali⁴²⁷. Da quanto detto risulta ad ogni modo chiaro che, se non è erodotea la divisione in nove, non è di conseguenza neanche sua l’intitolazione dei libri col nome delle Muse. Ma nemmeno il titolo ΙΣΤΟΡΙΩΝ, che si legge alla fine di A (e in D) può dirsi d’autore, visto che Erodoto non definisce mai in alcun luogo l’opera sua in tal modo. Alla semplice forma singolare della parola, quindi semplicemente come ἱστορία, l’opera erodotea ci risulta invece chiamata per la prima volta in un luogo
L’indicazione è nel margine inferiore della pagina. Ho ispezionato personalmente il ma noscritto. Per una descrizione dettagliata del codice e della inscriptio dei vari libri cf. Cantore, Per la storia del testo di Erodoto (come n. 419), 195 202 (qui in particolare 195 e 198 199). Un altro esemplare della stessa famiglia è il Vat. Urb. Gr. 88 (U, sec. XV). Questo esemplare esibisce in testa al primo libro, al f. 1r, una lunga inscriptio, nella quale si ricorda Erodoto come autore della ἱστορία suddivisa in nove parti secondo il nome delle Muse. Questo testimone si segnala anche per l’intestazione di alcuni libri, per es. quella del quarto, f. 77r: qui tra due segni di asterisco abbiamo ἡροδότου ἱστοριῶν δ′, poi, dopo uno spazio bianco, μελπομένη. In tal caso il libro esibisce nella inscriptio, oltre al nome dell’autore, due titoli: uno proprio (cioè il nome della Musa) e quello complessivo dell’opera. Su questo manoscritto cf. G. De Gregorio, L’Erodoto di Palla Strozzi (cod. Vat. Urb. Gr. 88), in BollClass 23 (2002), 32, 38, 44 53, 63, 64, 78, 83, 88 108. J. Irigoin, Titres, sous titres et sommaires dans les œuvres des historiens grecs du I er siècle avant J. C. au V e siècle après J. C., in Titres et articulations du texte (come n. 32), 126 134, qui in part. 128, la fa risalire alla librairie attique del IV secolo a. C. Si veda in proposito Ph. E. Legrand (éd. par), Hérodote. Introduction, notice préliminaire sur la vie et la personnalité d’Hérodote et sur la présente édition, Paris 1932, 226. Cf. S. Cagnazzi, Tavola dei 28 logoi di Erodoto, in Hermes 103 (1975), 385 423 (qui 390). Così ad esempio egli allude una volta a quanto narrato nel primo dei suoi discorsi, ἐν τῷ πρώτῳ τῶν λόγων: I, 92; oppure ricorda nel loro insieme i logoi libici: II, 161, 3. Jacoby, s.v. Herodotos (come n. 362), col. 282, ll. 59 68, non esclude che logos possa anche avere indicato «das ganze Werk, wie es uns vorliegt». Contro questa conclusione Cagnazzi, Tavola dei 28 logoi (come n. 428), 385 423 (qui 390).
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IV Erodoto l’innovatore
della Poetica aristotelica (9, 1451b, 1– 11), del quale ci occuperemo in dettaglio più avanti. Qui basterà richiamare l’essenziale: è il passo famoso, in cui il filosofo riflette sulla natura e le differenze che intercorrono tra l’ufficio del poeta e quello dello storico, sostenendo che la questione non possa ridursi alla forma espressiva adottata (verso o prosa), ma riguardi la sostanza della materia trattata. È proprio in questa occasione che Aristotele definisce Erodoto ὁ ἱστορικóς e la di lui opera una ἱστορία. Tuttavia, il senso attribuito in questo brano a ἱστορία – storia come narrazione di fatti realmente accaduti – è molto diverso da quello con cui Erodoto si era servito della parola circa un secolo prima. Per l’indagatore di Alicarnasso ἱστορίη voleva dire “ricerca”, “indagine”, “investigazione”, mentre quel suo grande lavoro di scrittura, terminato intorno al 425 a. C., era l’esito della ricerca stessa, cioè il resoconto concreto e la dimostrazione dei risultati raggiunti. Lo ricaviamo da quanto egli dice nell’esordio, laddove egli chiama ἀπόδεξις l’opera sua.
2 Abbandono del tradizionale schema d’esordio ῾Ηροδότου ‘Αλικαρνησσέος ἱστορίης ἀπόδεξις ἥδε, ὡς μήτε τὰ γενόμενα ἐξ ἀνθρώπων τῷ χρόνῳ ἐξίτηλα γένηται, μήτε ἔργα μεγάλα τε καὶ θωμαστά, τὰ μὲν ῞Ελλησι, τὰ δὲ βαρ βάροισι ἀποδεχθέντα, ἀκλεᾶ γένηται, τά τε ἄλλα καὶ δι’ ἣν αἰτίην ἐπολέμησαν ἀλλήλοισι⁴²⁸. Di Erodoto di Alicarnasso questa la dimostrazione (dei risultati)⁴²⁹ della ricerca, affinché i fatti umani non svaniscano col tempo, né opere grandi e meravigliose, le une compiute da Greci, le altre da Barbari, restino senza fama; e in particolare per quale causa essi si fecero guerra reciprocamente.
Per l’edizione critica del testo erodoteo cf. ora N.G. Wilson (recognovit, brevique adnota tione critica instruxit), Herodoti historiae, tomus prior, libros I IV continentes, Oxford 2015 (Oxford Classical Texts). L’integrazione nel brano d’esordio è di P. Maas: cf. Wilson, Herodotea (come n. 419), pp. xxvi e 2. Per lo studio dell’opera e della sua titolatura ho tenuto presente anche l’edizione di C. Hude (recognovit brevique adnotatione critica instruxit), Hero doti Historiae, Oxonii 1908, 31927; e di Ph. E. Legrand (texte établi et traduit par), Hérodote. Histoires, vol. I X, XI (Index analytique), Paris 1932 1954. Per il primo libro, ho consultato con profitto D. Asheri (a cura di), Erodoto. Le storie, libro I: La Lidia e la Persia, Milano 1988, 72012. Come poc’anzi detto, il termine ἀπόδεξις veicola proprio l’idea di resoconto tangibile e quindi di prova della ricerca compiuta da Erodoto. A ragione osserva dunque in proposito Asheri (a cura di), Erodoto. Le storie I (come n. 428), XVIII, n. 1: «ἀπόδεξις non implica oralità: qui si allude all’opera scritta che il lettore tiene in mano». Sulla traduzione dell’incipit del testo di Erodoto cf. quanto segnalo più avanti, alla n. 455.
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È il celeberrimo e denso esordio erodoteo, così come esso è tramandato nei manoscritti di età bizantina, mentre Aristotele ne fornisce una versione parzialmente diversa sia per quel riguarda l’ordine di successione delle prime parole – ἀπόδεξις è anteposto a ἱστορίης –, sia per la città di appartenenza dello storico, ricordato come Θουρίου, «di Turii», invece che «di Alicarnasso»⁴³⁰. Da tempo gli studiosi si chiedono quale delle due “varianti” possa essere davvero considerata genuina. I difensori della tradizione diretta del testo non sono mai mancati, ma il dato attestato da Aristotele ha a suo favore elementi di non secondaria importanza: in effetti, Erodoto prese parte attivamente alla fondazione della colonia panellenica di Turii, sorta sotto gli auspicii di Pericle⁴³¹. Sull’esordio erodoteo, qualsiasi “versione” di esso si accolga, pesano comunque altre questioni, la più importante delle quali riguarda il valore storico-letterario da riconoscere all’esordio stesso. Giacché numerose volte lo si è messo sullo stesso piano di quello di Ecateo, ma largamente a torto. Infatti, i due “attacchi”, pur avendo alcuni aspetti in comune, presentano allo stesso tempo innegabili differenze. L’inizio di Erodoto, più che in continuità con la prassi di esordio dei primi prosatori greci⁴³², sembra porsi in aperta rottura (ben più del caso sopra rilevato di Antioco) e costituisce il primo tentativo a noi noto di un suo deciso superamento. Infatti, lo storico di Alicarnasso dichiara sì il suo nome e la sua provenienza al principio del testo, ma rinuncia a servirsi dello schema di esordio sfruttato dai suoi predecessori e tanto diffuso nel mondo orientale. Di conseguenza, egli presenta sé stesso e il suo lavoro in una nuova maniera, la quale Cf. Arist., Rhet. III, 1409a. Sulla variante «di Turii», invece che «di Alicarnasso», cf. Jacoby, s.v. Herodotos (come n. 362), coll. 205 208; A. Colonna, Tradizione manoscritta e critica congetturale in Erodoto, in Athenaeum 18 (1940), 11 14. Una nuova analisi del problema è ora in N.G. Wilson, Herodotea (come n. 419), 1 2. Più in generale, sui capitoli proemiali dell’opera erodotea: Rösler, Die ‚Selbsthistorisierung‘ des Autors (come n. 410), 215 220; H. Erbse, Der erste Satz im Werke Herodots, in Id. (herausg. von), Festschrift Bruno Snell, München 1956, 209 222. Altri studi consultati in merito: W. Schmid, Zu Herodotos 1,1, in PhilW 52 (1932), 1001 1006; T. Krischer, Herodots Prooimion, in Hermes 93/2 (1965), 159 167; H. Drexler, Herodot Studien, Hildesheim 1972, 1 18; J. Dillery, Herodotus’ Proem and Aristotle, Rhetorica 1409a, in CQ 42/2 (1992), 525 528; L. Koenen, Der erste Satz bei Heraklit und Herodot, in ZPE 97 (1993), 95 96; O. Lendle, ΚΤΗΜΑ ΕΣ ΑΙΕΙ. Thukydides und Herodot, in RhM 1933 (1990), 231 242. Anche F. Focke, Herodot als Historiker, Stuttgart 1927, riesamina attentamente il proemio erodoteo. Purtroppo, questo lavoro mi è stato inaccessibile. Ne ricavo un quadro generale dalla recensione di G. De Sanctis in RFIC n.s. V (1927), 514 520 (= Scritti Minori, VI, 1: Recensioni Cronache e Commenti, Roma 1972, 361 368). Nella recensione si offrono osservazioni preziose (516 517) sul significato del termine λόγος in Herod. I, 184 e 206. Di questo avviso è L. Canfora, Totalità e selezione nella storiografia classica, Bari 1972, 7.
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anticipa negli elementi salienti la inscriptio libraria, senza già essere tale in tutto e per tutto. La rinuncia al vecchio schema, considerata la vetusta e radicata tradizione che Erodoto sapeva bene di avere alle spalle, non è un passo a cui lo storico può essersi deciso senza motivo. E infatti egli ne aveva almeno due: l’uno relativo alle dimensioni ormai raggiunte dal suo lavoro, l’altro concernente la destinazione effettiva del testo. La formula così parla xy, lo abbiamo visto, serviva a orientare questo o quel gruppo di interessati all’ascolto di logoi di relativamente modesta ampiezza, aventi ognuno lunghezza senz’altro compatibile col ragionevole spazio di tempo di una conferenza. Era inoltre una formula che poneva autore e uditorio in un rapporto di contemporaneità. Non è affatto da escludere che Erodoto, nel corso della sua carriera di narratore, abbia fatto ricorso a questo tipo di “attacco” del discorso⁴³³. Era del tutto naturale che egli facesse i conti con questa possibilità. Anch’egli componeva λόγοι, che avrebbe esposto a uno a uno a questo o quel gruppo di ascoltatori in date occasioni⁴³⁴.
Sulla genesi dell’opera erodotea sono fondamentali: Jacoby, s.v. Herodotos (come n. 362), coll. 334 378; G. De Sanctis, La composizione della Storia di Erodoto, in RFIC (1926), 289 309; Id., Il logos di Creso e il proemio della storia erodotea, in RFIC 64 (1936), 1 14; sulla conoscenza dell’opera erodotea verso la fine del V secolo a. C. è ora fondamentale H. G. Nesselrath, Ancient Comedy and Historiography: Aristophanes meets Herodotus, in S.D. Olson (ed. by), Ancient Co medy and Reception. Essays in Honor of Jeffrey Henderson, Berlin Boston 2014, 51 61. Su tali argomenti si vedano inoltre: J. Cobet, Herodots Exkurse und die Frage der Einheit seines Werkes, Wiesbaden 1971; Id., Wann wurde Herodots Darstellung der Perserkriege publiziert? in Hermes 105/1 (1977), 2 27; Id., Herodot und mündliche Überlieferung, in J. von Ungern Sternberg H. Reinau, Vergangenheit in mündlicher Überlieferung, Stuttgart 1988, 226 233; D. Sansone, The Date of Herodotus’ Publication, in ICS 10 (1985), 1 9; J.A.S. Evans, Herodotus 9.73.3 and the Publication Date of the Histories, in CPh 1987, 226 228; S. Flory, Who Read Herodotus‘ Histories?, in AJPh 101 (1980), 12 28. Sul Nachleben di Erodoto nell’antichità si veda quanto scrive Jacoby nel sopra citato lavoro alle coll. 504 515 e K. A. Riemann, Das herodoteische Geschichtswerk in der Antike, München 1967. La stessa opera erodotea conserva tracce evidenti di questa prima, parziale e provvisoria forma di pubblicazione. Sull’argomento, oltre ai lavori già citati di Jacoby e De Sanctis, si vedano: F. Châtelet, La naissance de l’histoire: la formation de la pensée historienne en Grèce, Paris 1962; W.A. Johnson, Oral Performance and the Composition of Herodotus’ Histories, in GRBS 35/3 (1994), 229 255; R. Thomas, Performance and Written Publication in Herodotus and the Sophistic Generation, in W. Kullmann J. Althoff (herausg. von), Vermittlung und Tradierung von Wissen in der griechischen Kultur, Tübingen 1993, 225 244; R. Thomas, Prose Performance Texts. Epideixis and Written Publication in the Late Fifth and Early Fourth Centuries, in H. Yunis (ed.), Written Texts and the Rise of Literate Culture in Ancient Greece, Cambridge 2003, 162 188; P.A. Stadter, Parlare ai sordi: Erodoto, il suo pubblico e gli Spartani all’inizio della guerra pelo
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Le ragioni per servirsi di quella “tecnica d’attacco” entrarono tuttavia in crisi con la decisione maturata dallo stesso Erodoto di non lasciare quelle scritture slegate tra loro, ovvero col proposito di procedere, più o meno parallelamente all’attività di conferenziere, al progressivo accorpamento e inserimento di quei logoi in un’unica cornice narrativa⁴³⁵. Questo impegno, senz’altro pluriennale, ebbe come risultato concreto e tangibile un grandioso lavoro in prosa, la cui ampiezza superava di gran lunga quella di semplici discorsi. Il monumento letterario così costituito, proprio per la sua vastità, non poteva più essere recitato tutto d’un fiato, com’era avvenuto generalmente sino ad allora per testi di assai minore ampiezza. Inoltre, in esso l’autore non si poneva più in un rapporto di immediata contemporaneità col suo pubblico, come invece richiedeva la formula, col verbo al presente, così parla xy. L’opera portata a conclusione dall’indagatore di Alicarnasso è soprattutto un lascito scritto alla posterità, una dimostrazione concreta e tangibile (ἀπόδεξις), per i posteri, di una ricerca portata avanti dall’autore tutta la vita. Erodoto è in effetti il primo prosatore greco, a nostra conoscenza, a relazionarsi con i futuri destinatari del suo lavoro e a considerare i fatti dal punto di vista della generazione che verrà⁴³⁶. In alcuni passi cruciali lo storico parla infatti di sé al passato e così facendo si autostoricizza. Il pubblico, a cui egli si rivolge, è ormai la successiva generazione e più in generale la posterità. Si consideri a questo riguardo ciò che egli afferma poco prima di dare avvio al primo logos, quello su Creso: Ταῦτα μέν νυν Πέρσαι τε καὶ Φοίνικες λέγουσι. ᾿Εγὼ δὲ περὶ μὲν τούτων οὐκ ἔρχομαι ἐρέων ὡς οὕτως ἢ ἄλλως κως ταῦτα ἐγένετο, τὸν δὲ οἶδα αὐτὸς πρῶτον ὑπάρξαντα ἀδίκων ἔργων ἐς τοὺς ῞Ελληνας, τοῦτον σημήνας προβήσομαι ἐς τὸ πρόσω τοῦ λόγου, ὁμοίως σμικρὰ καὶ μεγάλα ἄστεα ἀνθρώπων ἐπεξιών. Τὰ γὰρ τὸ πάλαι μεγάλα ἦν, τὰ πολλὰ αὐτῶν σμικρὰ
ponnesiaca, in A. Casanova P. Desideri (a cura di), Evento, racconto, scrittura nell’antichità classica. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Firenze, 25 26 novembre 2002), Firenze 2003, 21 34; R.L. Fowler, Herodotus and his Prose Predecessors, in C. Dewald J. Marincola (ed. by), The Cambridge Companion to Herodotus, Cambridge 2006, 29 45 (qui in part. 36 37). Questo fu almeno il proposito di Erodoto. La cornice narrativa era data inizialmente dalla storia dell’impero persiano, che aveva assorbito i popoli con cui era entrato in contatto. Questo programma di lavoro entrò ovviamente in crisi quando Erodoto giunse a parlare dello scontro con i Greci, gli unici a non soccombere, anzi a imporsi sull’invasore. Del proposito originario di Erodoto l’opera ha comunque conservato indelebile il segno. Non meraviglia che uno storico tardobizantino quale Niceforo Gregora (Storia romana II, 4 γ) definisca ancora Erodoto come ὁ τὰ Περσικὰ συγγραψάμενος: cf. Asheri, Erodoto. Le storie I (come n. 428), LXVI, n. 1. Fondamentale in proposito Rösler, Die ‚Selbsthistorisierung‘ des Autors (come n. 410), 215 220.
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γέγονε, τὰ δὲ ἐπ’ ἐμεῦ ἦν μεγάλα, πρότερον ἦν σμικρά. Τὴν ἀνθρωπηίην ὦν ἐπιστάμενος εὐδαιμονίην οὐδαμὰ ἐν τὠυτῷ μένουσαν ἐπιμνήσομαι ἀμφοτέρων ὁμοίως (I, 5, 3 4). Queste cose dunque raccontano Persiani e Fenici [sui rapimenti di donne]. Quanto a me, non intendo dire che le cose andarono così o in altro modo, ma dopo avere indicato colui che per primo, a quanto io so, intraprese azioni ingiuste a danno dei Greci, mi inoltrerò nel racconto considerando egualmente città piccole e grandi degli uomini. Infatti, quelle che anticamente erano grandi, sono poi divenute perlopiù piccole, mentre quelle che al mio tempo erano grandi, erano piccole precedentemente. Sapendo che la felicità umana non permane mai nello stesso luogo, ricorderò le une e le altre egualmente.
«Al mio tempo erano grandi», mentre prima ancora «erano piccole» e viceversa. Il vecchio Erodoto ha abbandonato qui l’idea di un rapporto di contemporaneità col proprio pubblico e guarda ormai a sé stesso al passato. Wolfgang Rösler ha pienamente ragione, quando sostiene che lo storico di Alicarnasso ha gettato in questo modo uno sguardo retrospettivo su di sé e sulla ricerca compiuta e ha così anticipato la prospettiva dei futuri destinatari del suo lavoro⁴³⁷. Lo storico considera dunque ormai le cose dal punto di vista della successiva generazione, alla quale egli trasmette un lascito concreto e visibile: una monumentale opera in prosa. Delle molteplici potenzialità della scrittura fissata su rotolo di papiro Erodoto appare perfettamente consapevole. Il suo lavoro supera ormai di gran lunga le finalità della semplice performance. Ciò spiega l’abbandono della formula xy così parla: congeniale alla comunicazione orale di un singolo, semplice logos destinato a un pubblico con cui l’autore si pone in rapporto di contemporaneità, la formula mal si adattava ormai a un’opera come quella realizzata dallo storico.
3 L’incipit epigrammatico Tutto ciò spiega la decisione erodotea di adottare una nuova strategia, per presentare sé stesso e il suo opus magnum. Senza ancora abbandonare il testo ⁴³⁸,
Cf. Rösler, Die ‚Selbsthistorisierung‘ des Autors (come n. 410), qui in particolare 219 220. Infatti, come rileveremo a breve, le parole finali della lunga frase d’esordio «e in particolare per quale causa essi si fecero guerra reciprocamente» servono a Erodoto a introdurre la nar razione delle origini mitiche del conflitto tra Greci e Barbari, tematica da lui affrontata proprio nei primi capitoli. Di conseguenza, la lunga frase d’esordio non può considerarsi come un elemento del tutto autonomo e slegato rispetto a quanto poi segue. Su tutto ciò si veda De Sanctis, La composizione della Storia di Erodoto (come n. 433), 289 309 e ancora Id., Il logos di Creso e il proemio (come n. 433), 1 14.
3 L’incipit epigrammatico
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egli segnala, nell’esordio, in primo luogo, il suo nome e la sua provenienza, ma esprime tutto ciò al genitivo: ῾Ηροδότου ‘Αλικαρνησσέος⁴³⁹. Alla esposizione scritta della sua ricerca egli lascia invece il posto di soggetto. Il lavoro è presentato mediante il nominativo ἀπόδεξις ἥδε (ἱστορίης). Il prodotto scritto assume così centralità: è trattato come un vero e proprio oggetto da designare. Si noti inoltre l’assenza del verbo nella proposizione iniziale. Siamo quindi di fronte a un enunciato puramente nominale, impostato su uno schema preciso: genitivo del nome dell’autore + una denominazione dell’opera, al nominativo. Dopo tale enunciato, lo storico passa a esporre ragioni e finalità del prodotto scritto. Egli ne indica anzitutto una assai ampia e assolutamente generica («affinché i fatti umani non svaniscano col tempo»), poi ne ricorda un’altra anch’essa molto ampia nella prospettiva, ma meno generica sul tema («né opere grandi e meravigliose, le une compiute da Greci, le altre da Barbari, restino senza fama»); infine, promette di esporre «in particolare, per quale causa essi si fecero guerra reciprocamente» (τά τε ἄλλα καὶ δι’ ἣν αἰτίην ἐπολέμησαν ἀλλήλοισι). Con quest’ultima promessa lo storico “si apre la via”⁴⁴⁰ alla narrazione delle origini mitiche dell’ostilità tra Greci e Barbari, cioè introduce l’argomento dei primi capitoli dell’opera. Dunque, la lunga frase d’esordio può essere scomposta in due parti: un enunciato nominale, che offre le “coordinate” del prodotto scritto, e una nutrita serie di motivazioni del lavoro. Concentriamoci sulla prima parte. ῾Ηροδότου ‘Αλικαρνησσέος ἱστορίης ἀπόδεξις ἥδε⁴⁴¹ può essere definito un incipit dal carattere epigrammatico. Lo si può chiamare così, perché sia per la sua struttura (genitivo di nome di persona + nominativo dell’oggetto rivendicato) sia per le sue funzioni esso richiama alla memoria numerose iscrizioni greche (appunto ἐπιγραφαί o ἐπιγράμματα) di età già arcaica, mediante le quali singoli individui affermavano il loro possesso (ma vedremo anche un caso di proprietà intellettuale) su svariati oggetti o creazioni. Considereremo qui solo pochi esempi. Una iscrizione su un pithos, cioè una giara, databile forse già all’VIII secolo a. C., di provenienza cretese, suona così:
Il dato è giustamente messo in rilievo da N. Loraux, Thucydide a écrit la Guerre du Pélo ponnèse, in Mètis 1/1 (1986), 139 161, qui in part. 143 144. Riprendo l’espressione da De Sanctis, La composizione della Storia di Erodoto (come n. 433), 307. Se nell’incipit Erodoto si dicesse di Turii o di Alicarnasso, è problema che non incide nel discorso che ora faremo.
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Ερπετιδαμο Παιδοπιλας οδε, «Di Erpetidamo figlio di Pedopila questo»⁴⁴². Qui abbiamo il genitivo del nome del possessore e quindi il nominativo dell’oggetto rivendicato (la giara), rappresentato in questo caso da un pronome in funzione essenzialmente deittica. Lo stesso schema si riconosce in altre iscrizioni di possesso di età arcaica, ora semplici come quella appena vista, ora anche più elaborate su vari aspetti. Al primo rigo della iscrizione della famosa coppa di Nestore, databile verso la fine dell’VIII secolo a. C., si legge Νεστορος : ε̣ [μι] : ευποτ[ον] : ποτεριον⁴⁴³. Se prescindiamo dalla presenza del verbo – l’epigrafe è evidentemente un titulus loquens ⁴⁴⁴ – l’espressione di proprietà è formulata mediante un genitivo, che è quello del nome di Nestore, e un nominativo per indicare e qualificare l’oggetto in questione. Le due successive linee di scrittura contengono invece un elogio della bella coppa. In una epigrafe di poco più tarda (prima metà del VII secolo a. C.), rinvenuta in area cumana, si legge anzitutto: Ταταίης εἰμὶ λήκυθος, «Di Tataie sono l’ampolla»⁴⁴⁵. Lasciando anche qui da parte la presenza del verbo, l’espressione di proprietà è formulata secondo lo stesso schema delle due epigrafi già viste. L’iscrizione prosegue con una maledizione in caso di furto: ὃς δ᾽ ἄν με κλέψῃ, τυφλὸς ἔσται, «chi mi ruba, diventi cieco». Non è necessario discutere adesso ulteriormente questa o altre epigrafi del genere. Il fenomeno dei tituli loquentes esula ora dai nostri interessi e in ogni caso tende a scomparire nel corso della stessa età arcaica, mentre permane senz’altro per le iscrizioni di proprietà lo schema fondamentale del genitivo del nome del possessore e del nominativo per il nome dell’oggetto rivendicato. Nella produzione epigrafica, la dichiarazione di proprietà tende quindi progressivamente a presentarsi come enunciato puramente nominale. Le iscrizioni sin qui considerate servirono a rivendicare la nuda proprietà materiale. Ma al più tardi verso la fine della stessa età arcaica se ne fecero altre miranti anche a rilevare ciò che potremmo considerare proprietà intellettuale. Si
Su questa iscrizione si veda Powell, Homer and the Origin of the Greek Alphabet (come n. 344), 138, num. 30. Seguo il testo, privo di spiriti e accenti, stabilito da C.O. Pavese, La iscrizione sulla kotyle di Nestor da Pithekoussai, in ZPE 114 (1996), 1 23; cf. anche Pfohl, Die ältesten Inschriften (come n. 109), 19 20; Jeffery, The Local Scripts 21990 (come n. 109), 235 236; A. Heubeck, Schrift, in Archaeologia Homerica X, 3, Göttingen 1979, 109 116. Sui cosiddetti tituli loquentes molto si è scritto dopo il saggio di M. Burzachechi, Oggetti parlanti (come n. 344), 3 54. Si tratta di IG XIV 865, sulla quale cf. Jeffery, The Local Scripts 21990 (come n. 109), 45 e 238, 3; Pfohl, Die ältesten Inschriften (come n. 109), 20.
3 L’incipit epigrammatico
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pensi ad alcune epigrafi della fine del VI secolo a. C., note grazie a un dialogo pseudoplatonico databile in ogni caso al IV secolo a. C., l’Ipparco. Nello scritto si legge (228d–229b) che il figlio cadetto di Pisistrato aveva fatto dislocare varie erme lungo le strade che collegavano Atene con i vari distretti dell’Attica. Ipparco aveva peraltro lasciato incidere, sul lato destro delle stesse erme, massime sapienziali, scelte o elaborate da lui stesso, mentre su quello sinistro i monumenti presentavano una iscrizione relativa al luogo della loro deposizione. Sul lato destro si leggevano, dunque, epigrafi del tipo: μνῆμα τόδ’ Ἱππάρχου· στεῖχε δίκαια φρονῶν, «Memoria questa di Ipparco. Cammina secondo giustizia»; oppure: μνῆμα τόδ’ Ἱππάρχου· μὴ φίλον ἐξαπάτα, «Memoria questa di Ipparco. Non ingannare l’amico». La rivendicazione di appartenenza, espressa in tali casi a parti inverse rispetto agli esempi sopra esaminati⁴⁴⁶, anticipa la massima sapienziale e a conti fatti investe la memoria epigrafica nella sua interezza. Si va così oltre la pura e semplice materialità del monumento⁴⁴⁷. La proprietà o paternità segnalata tocca ormai la sfera creativa, intellettuale. I monumenti iscritti sono complessivamente idea di Ipparco: nei casi appena riportati abbiamo quindi genitivi d’autore in senso lato. Questi pochi esempi dimostrano che l’incipit erodoteo ricalca una prassi epigrafica già ben radicata in epoca precedente, per affermare l’appartenenza o anche la paternità di prodotti o creazioni di vario tipo. Operando in questo modo, lo storico di Alicarnasso tratta quindi il suo testo come un oggetto scritto da designare. Il suo enunciato iniziale fornisce i due elementi essenziali di una possibile inscriptio libraria: un genitivo d’autore e una designazione del testo al nominativo⁴⁴⁸. Nondimeno, essi sono ancora parte integrante dell’esordio, cioè non sono offerti come un qualcosa di separato dal testo. Nella storia della prosa greca, o quantomeno in quella narrativa e non in forma di dialogo, Erodoto è comunque il primo, a quanto ne sappiamo, a rendersi conto della necessità di un cambiamento nelle forme di presentazione del testo e così a procedere per una nuova via. Postilla. «Di Erodoto di Alicarnasso questa la dimostrazione (dei risultati) della ricerca»: l’ellissi del verbo «essere» in questo enunciato è stata rilevata da alcuni studiosi con un certo scon
Si noti che anche nelle epigrafi librarie il genitivo del nome dell’autore segue talvolta e non precede il titolo vero e proprio dello scritto. Per un commento al passo si veda ora C. Schubert (Übersetzung und Kommentar von), Platon, Hipparchos, Göttingen 2018 (Platon Werke, Übersetzung und Kommentar, IV, 3), in part. 128. Una delle erme volute da Ipparco si è parzialmente conservata. Si tratta di IG I3 1023. Forme con il περί o ben più elaborate non sono che discese da questo schema essenziale.
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certo⁴⁴⁹. In particolare, Harmut Erbse (Der erste Satz im Werke Herodots, come n. 431, 209 222) ha preferito riformulare in greco la frase erodotea, al fine di darsene una spiegazione. In verità, è appena il caso di dire che questo modo di lavorare è totalmente arbitrario⁴⁵⁰, perché non rispetta i dati concreti a nostra disposizione⁴⁵¹.
4 Da ἀπόδεξις a ἱστορία. Genesi di un titolo Così intorno al 425 a. C. lo storico lasciava alla posterità la prova scritta della lunga ricerca compiuta, la ἱστορίης ἀπόδεξις: una vasta esposizione in prosa ancora priva di una epigrafe libraria, ma con un incipit che già ne anticipava, nella struttura, gli elementi salienti. Da questo punto di vista, Erodoto occupa una fase di passaggio tra due diverse modalità di presentazione della prosa greca. Il termine ἀπόδεξις come denominazione dell’opera erodotea ha avuto poi poca fortuna⁴⁵², anzi non ne ha avuta alcuna di particolare rilievo⁴⁵³. Lo scritto è chiamato invece ἱστορία da Aristotele, come già sopra ricordato. Ma è certo che
Lo osserva P. Barié, Fünf Kapitel Herodot. Beobachtungen zur Struktur des historischen Diskurses, in DAU 14/1 (1971), 5 36. Generalmente si è fatto poco caso all’assenza del verbo, che viene reintrodotto nelle traduzioni moderne senza giustificazione. Questo punto della frase erodotea è ben interpretato da Loraux, Thucydide a écrit (come n. 439), 143. Del resto, lo stesso Erbse, Der erste Satz im Werke Herodots (come n. 431), 209, ha onestamente riconosciuto i limiti del proprio lavoro. Nondimeno egli ha avuto alcuni seguaci: cf. A. Lenz, Das Proöm des frühen griechischen Epos. Ein Beitrag zum poetischen Selbstverständnis, Bonn 1980, 269 270. Le caratteristiche salienti dell’esordio erodoteo sono sfuggite anche a Fehling, Zur Funktion und Formgeschichte des Proömiums (come n. 374). Lo studioso, tra l’altro, fraintende il valore del dimostrativo nell’esordio. Tucidide, che conosceva bene l’opera dell’indagatore di Alicarnasso, adopera il termine ἀπόδεξις in due soli punti del suo lavoro e nel senso di demonstratio. Cf. Lexicon Thucydideum, conf. E. A. Bétant, Genevae 1843, I, 123. Nel primo di essi (I, 97; l’altro è in II, 13) l’Ateniese spiega le ragioni della sua digressione sulla pentecontaetia, gettando contemporaneamente uno sguardo sul lavoro compiuto dagli storici del suo tempo. Così Tucidide rileva che il periodo che va dalla presa di Sesto (479 a. C.) allo scoppio della guerra del Peloponneso (431 a. C.) non lo aveva trattato nessuno: era un luogo “tralasciato”. Da qui il suo desiderio di colmare il vuoto storiografico, prima di cominciare il racconto della guerra del Peloponneso. La stessa digres sione, nota ancora Tucidide, serviva inoltre a dare una ἀπόδεξις di come era sorto l’impero ateniese. Secondo alcuni studiosi moderni, questo punto particolare è servito a Tucidide a richiamare espressamente alla memoria l’opera erodotea. In realtà, qui il termine ἀπόδεξις è usato per dire qualcosa d’altro. Tuttavia, secondo Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 41, Polibio avrebbe tenuto conto di quanto dice Erodoto al momento di definire la sua propria opera una ἱστορία ἀποδεικτική.
4 Da ἀπόδεξις a ἱστορία. Genesi di un titolo
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la parola aveva decisamente ampliato il ventaglio dei suoi significati al tempo dello Stagirita. Per l’indagatore di Alicarnasso essa non aveva significato altro che «ricerca»⁴⁵⁴; e ciò che Erodoto aveva lasciato su papiro era l’esposizione scritta dei risultati raggiunti⁴⁵⁵. In polemica col predecessore, Tucidide non s’era invece servito della parola. Aveva piuttosto preferito parlare di ζήτησις τῆς ἀληθείας: cf. I, 20, 3. Non ebbe invece remore a usarla Platone, ma nel senso tradizionale di «indagine»⁴⁵⁶. Anche Aristotele se ne servì all’occorrenza con tale significato e il fatto merita rilievo⁴⁵⁷. Nel passo sopra ricordato della Poetica, la cui composizione va collocata intorno al 335 – 330 a. C., egli tuttavia si esprime così: Φανερὸν δὲ ἐκ τῶν εἰρημένων καὶ ὅτι οὐ τὸ τὰ γενόμενα λέγειν, τοῦτο ποιητοῦ ἔργον ἐστίν, ἀλλ’ οἷα ἂν γένοιτο καὶ τὰ δυνατὰ κατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸ ἀναγκαῖον. ὁ γὰρ ἱστορικὸς καὶ ὁ ποιητὴς οὐ τῷ ἢ ἔμμετρα λέγειν ἢ ἄμετρα διαφέρουσιν (εἴη γὰρ ἂν τὰ Ἡροδότου εἰς μέτρα τεθῆναι καὶ οὐδὲν ἧττον ἂν εἴη ἱστορία τις μετὰ μέτρου ἢ ἄνευ μέτρων)· ἀλλὰ τούτῳ διαφέρει, τῷ τὸν μὲν τὰ γενόμενα λέγειν, τὸν δὲ οἷα ἂν γένοιτο. διὸ καὶ φιλοσοφώτερον καὶ σπουδαιότερον ποίησις ἱστορίας ἐστίν· ἡ μὲν γὰρ ποίησις μᾶλλον τὰ καθόλου, ἡ δ’ ἱστορία τὰ καθ’ ἕκαστον λέγει. μᾶλλον τὰ καθόλου, ἡ δ’ ἱστορία τὰ καθ’ ἕκαστον λέγει. (…)· τὸ δὲ καθ’ ἕκαστον, τί ᾿Aλκιβιάδης ἔπραξεν ἢ τί ἔπαθεν. Da quanto detto è evidente anche che compito del poeta non è dire le cose accadute, ma quali potrebbero accadere e quelle possibili secondo verisimiglianza o necessità. Infatti, lo storico e il poeta non si differenziano per il fatto di raccontare in versi o non in versi fossero infatti trasposte in versi le cose dette da Erodoto, nondimeno (la sua) sarebbe una
Sulla storia del termine ἱστορίη cf. B. Snell, Die Ausdrücke für den Begriff des Wissens in der vorplatonischen Philosophie, Berlin 1924, 59 71; F. Muller, De “historiae” vocabulo atque notione, in Mnemosyne 54 (1926), 234 257; G.A. Press, The Development of the Idea of History in Antiquity, Montreal 1982, 23 60; C. Ferone, Il concetto di “storia” nella cultura greca del VI e V secolo a. C., in Id., Opuscula, I.1: Studi di storia antica e di critica storica, San Severo 2013, 63 76. «These are the results of Herodotus’ factual inquirings»: così Press, The Development of the Idea of History (come n. 455), 31, rende efficacemente ciò che Erodoto voleva dire con ἱστορίης ἀπόδεξις ἥδε. Platone lascia dire al suo maestro Socrate: «Io, o Cebete, quando ero ancora giovane, fui preso da un vivissimo desiderio di quella scienza che chiamano “indagine sulla natura” (περὶ φύσεως ἱστορία). Infatti, mi sembrava una cosa straordinaria sapere le cause di ciascuna cosa, perché ciascuna viene all’essere, perché si distrugge e perché sussiste» (Fed., 96a). Si veda per esempio De caelo 298b, 2: περὶ φύσεως ἱστορίαν; e l’inizio dello scritto De anima, dove il discorso è circoscritto appunto all’indagine sull’anima, περὶ τῆς ψυχῆς ἱστορία. D’altra parte, Aristotele si serve della parola, nell’accezione di «indagine» o «ricerca», anche in relazione ad avvenimenti storici. In Rhet. I, 1360a, 35 egli dichiara che «le ricerche di coloro che scrivono sui fatti storici», αἱ τῶν περὶ τὰς πράξεις γραφόντων ἱστορίαι, sono utili in ambito politico.
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IV Erodoto l’innovatore
storia, in verso o senza versi , ma si differenziano per il fatto che l’uno dice le cose accadute, l’altro quali potrebbero accadere. Proprio per questo più filosofica e degna d’importanza è la poesia della storia. La poesia infatti dice piuttosto le cose universali, la storia quelle particolari. (…); il particolare è che cosa Alcibiade fece o che cosa subì⁴⁵⁸.
Aristotele usa qui ἱστορία anzitutto per chiamare l’opera di Erodoto. Ma poco dopo la parola è da lui usata in un senso persino più generale, cioè per indicare un’attività intellettuale ben distinta dalla ποίησις e che in buona sostanza è ciò che noi chiamiamo storiografia. Generalmente gli studiosi partono dall’incipit dell’opera erodotea, per spiegare come il termine in questione abbia potuto assumere nuovi significati, di carattere appunto storiografico, e io stesso in passato ho condiviso implicitamente questa posizione⁴⁵⁹. Adesso invece mi chiedo se il processo che ha condotto a siffatti esiti semantici non sia da rileggere in altro modo, cioè alla luce di ben altro punto di partenza. Nel passo poc’anzi citato della Poetica, colui che narra o tratta di fatti realmente accaduti è chiamato, pure per la prima volta a nostra conoscenza, ὁ ἱστορικóς. Non è detto che questo uso dell’aggettivo sostantivato sia derivato dai nuovi valori assunti da ἱστορία nel corso del IV secolo a. C. È possibile invece che le cose siano andate al contrario, ovvero che sia stata la qualifica di storico riconosciuta a Erodoto a provocare gli esiti semantici sopra indicati per il termine ἱστορία. Infatti, non si può escludere che ad Atene, e anche in altri centri del mondo greco, dove Erodoto si era lasciato conoscere e apprezzare e si serbava fresco il ricordo delle sue conferenze, si parlasse di lui o lo si rievocasse come ὁ ἱστορικóς per eccellenza. È possibile che quest’uso si consolidasse ad Atene (e altrove) dopo la morte del personaggio, per onorarne oltre tutto la memoria. D’altra parte, il campo in cui Erodoto si era dimostrato il ricercatore per antonomasia aveva riguardato proprio gli avvenimenti storici e in effetti alla loro narrazione egli aveva consacrato ogni sforzo di scrittura. In questo ordine di idee, non è difficile credere che ad assumere una nuova accezione, relativa appunto all’attività storiografica, sia stato dapprima l’appellativo ὁ ἱστορικóς e che solo in conseguenza di ciò ἱστορία abbia acquisito i significati appena detti. Ad ogni modo, nell’avanzato IV secolo a. C., Aristotele parla del lavoro erodoteo come di una ἱστορία, senza avvertire il bisogno di offrire alcun chiarimento: segno che questo modo di chiamare l’opera era ben noto al suo pubblico e si era affermato da tempo. Su questo punto, molto importante, torneremo a riflettere ancora nel prossimo capitolo, laddove analizzeremo un brano avente Poet. 9, 1451a 36 b 11. Cf. E. Castelli, Omero e il paratesto (come n. 13), 9.
5 Usi antichi ed equivoci moderni sul titolo ἱστορία (e su historia)
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a che fare con lo storico Cratippo e la valutazione dell’opera di Tucidide. Qui concludo con una considerazione. Quando Aristotele scriveva il passo appena esaminato, la prassi della epigrafe libraria era ormai ampiamente sfruttata e applicata dai Greci anche a scritti in prosa di vario genere. Così non è difficile pensare che quello usato dallo Stagirita per il testo erodoteo non fosse “solo” un appellativo di comodo, ma proprio il titolo che l’opera già allora esibiva su papiro.
5 Usi antichi ed equivoci moderni sul titolo ἱστορία (e su historia) Nel passo sopra visto della Poetica, Aristotele usa la parola ἱστορία come denominazione di una scrittura storica e in riferimento all’attività storiografica in generale. Ma altrove egli non esita a servirsi dello stesso termine nel più antico significato di ricerca, indagine, investigazione, oppure col valore di dottrina e di erudizione, prescindendo completamente dall’ambito trattato. Lo stesso termine poteva quindi essere adoperato, verso la fine del IV secolo a. C., con valori decisamente differenti tra loro. Così sarebbe stato poi anche in seguito. Tale costatazione deve mettere in guardia noi moderni quando ci confrontiamo con scritti anticamente intitolati ἱστορία (o in ambito latino: historia). In non pochi di questi casi, la materia esposta ha in realtà poco o nulla a che vedere col campo propriamente storiografico ed è stata intitolata in quel modo per ben altro motivo, ovvero perché essa era frutto di ricerche e di erudizione di vario genere. Si pensi a questo proposito a Plinio il Vecchio, la cui Historia naturalis è un’opera enciclopedica, che oltrepassa peraltro i confini della indagine sulla natura come oggigiorno noi la intendiamo. Del resto, già Aristotele era stato a lungo impegnato nella φυσικὴ ἱστορία⁴⁶⁰. Osservazioni simili potrebbero farsi per tanti altri scritti chiamati allo stesso modo. Insomma, anche per il titolo i Greci si servirono di ἱστορία (e i Romani di historia) in sensi diversi, mentre è evidente che nella lingua italiana il termine “storia” ha perduto e forse non ha mai avuto il significato di ricerca o indagine, mentre ha ereditato e mantiene quello relativo all’attività storiografica e può essere semplicemente usato come sinonimo di racconto o narrazione. Anche i termini inglesi history e story non ricalcano in pieno i valori semantici della
Si vedano gli studi poco sopra citati di Press e di Ferone.
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IV Erodoto l’innovatore
parola greca e lo stesso, mutatis mutandis, dovrebbe dirsi del francese histoire e così via. Di questa disparità occorre tenere conto al momento di tradurre il titolo di opere chiamate ἱστορία o historia, perché sarebbe una distorsione parlare dell’opera di Plinio come di una “storia naturale”. L’assuefazione al lessico degli antichi può in effetti ingenerare confusioni e fraintendimenti di vario tipo. Tutto ciò lo rilevava circa due secoli fa un eminente conoscitore della letteratura greca e latina, Giacomo Leopardi, in due pagine interessantissime (datate al 13 ottobre 1826) del suo Zibaldone. Ma le sue raccomandazioni hanno avuto, sino a oggi, scarsa eco.
6 Il nome delle Muse. Ancora sul titolo dei libri di Erodoto Nella tradizione manoscritta bizantina, come visto, ciascun libro erodoteo è intestato col nome di una Musa. Abbiamo pure osservato che tale intestazione non può che essere successiva alla ripartizione dell’intera opera in nove volumi. A quando esattamente risalga tale intitolazione, rimane incerto⁴⁶¹. È possibile comunque che siano stati i grammatici alessandrini a imporla. D’altra parte, l’uso di suddividere in nove libri opere letterarie di vario genere, e di intestare ciascun volume col nome di una Musa, è già attestato per il I secolo a. C. in ambienti letterari di lingua latina. Un brano di Svetonio offre in tal senso una testimonianza molto preziosa⁴⁶². Da una notizia del patriarca Fozio (IX sec.), ricaviamo un’altra importante informazione per l’età romano-imperiale. Un personaggio di nome Cefalione, uno storico della prima metà del II secolo d. C., si atteggiava a novello Erodoto. Aveva quindi suddiviso la sua opera in nove volumi e a ciascuno aveva dato per titolo il nome di una delle Muse: ᾿Aνεγνώσθη Κεφαλίωνος σύντομον ἱστορικόν. Ἄρχεται ἀπὸ τῆς βασιλείας Νίνου καὶ Σεμιράμεως, καὶ κάτεισι μέχρι τῶν τοῦ βασιλέως ᾿Aλεξάνδρου χρόνων. Συμπεραίνεται δὲ αὐτοῦ ἡ ἱστορία ἐν λόγοις θʹ κατ’ ἐπωνυμίαν τῶν θʹ Μουσῶν, Κλειοῦς, Θαλείας, Πολυμνίας, Μελπομένης, Τερψιχόρης, Εὐτέρπης, Καλλιοπῆς, Ἐρατοῦς, Οὐρανίης· ἐν ᾗ καὶ τὰ κατὰ ᾿Aλέξανδρον τὸν Μακεδόνα διέξεισιν (Bibliotheca, cap. 68, 34a). Della testimonianza di Luciano di Samosata sul titolo dell’opera erodotea (Quomodo historia conscribenda sit, cap. 42: ἐπιγράφονται δὲ οἱ λόγοι αὐτοῦ
Si vedano in proposito le indicazioni fornite a principio di questo capitolo. Cf. la notizia sopra ricordata da Suet., De grammaticis 6, sul conto di un erudito di nome Aurelius Opilius.
6 Il nome delle Muse. Ancora sul titolo dei libri di Erodoto
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Μοῦσαι) abbiamo sopra discusso aspetti notevoli e problemi. Qui mi preme rilevare che lo stesso Luciano ricorda il modo in cui gli antichi chiamavano i libri erodotei anche nel dialogo Erodoto o Aezione (cap. 1) e in questi termini: οὐ θεατήν, ἀλλ’ἀγωνιστὴν Ὀλυμπίων παρεῖχεν ἑαυτὸν ᾄδων τὰς ἱστορίας καὶ κηλῶν τοὺς παρόντας, ἄχρι τοῦ καὶ Μούσας κληθῆναι τὰς βίβλους αὐτοῦ, ἐννέα καὶ αὐτὰς οὔσας. Come si vede, anche qui si parla di «libri chiamati Muse», il che indurrebbe a pensare a una denominazione complessiva del testo, mentre la tradizione diretta ci presenta una titolatura diversa. Più chiaro in proposito il resoconto del già ricordato Fozio sull’opera erodotea: ᾿Ανεγνώσθη ῾Ηροδότου ἱστοριῶν λόγοι θ′, κατὰ ἀριθμὸν καὶ ἐπωνυμίαν τῶν ἐννέα Μουσῶν. Così in Bibliotheca, cap. 60. Da queste parole si ricava che la tradizione manoscritta posseduta dal patriarca presentava ogni libro sotto il nome di una Musa. Come dicevo, l’intestazione col nome delle Muse può anche essere sorta, nel caso di Erodoto, a opera dei grammatici alessandrini. L’ordine secondo cui i vari libri sono sotto il nome delle Dee non è del resto casuale, ma corrisponde a quanto si legge nella Theogonia esiodea, vv. 77– 79: Κλειώ τ’ Εὐτέρπη τε Θάλειά τε Μελπομένη τε / Τερψιχόρη τ’ ᾿Ερατώ τε Πολύμνιά τ’ Οὐρανίη τε / Καλλιόπη θ’· ἡ δὲ προφερεστάτη ἐστὶν ἁπασέων. Nell’edizione aldina (1502) di Erodoto il frontespizio reca una concisa indicazione in greco: Ἡροδότου λόγοι ἐννέα, οἵπερ ἐπικαλοῦνται Μοῦσαι. Il che è detto subito dopo in latino in questa maniera: Herodoti libri novem, quibus Musarum indita sunt nomina.
V Tucidide l’architetto della prosa 1 Le lacrime di Tucidide Tucidide, figlio di Oloro del demo di Alimunte, era ancora poco più che un fanciullo quando un ormai già sperimentato Erodoto esibiva in pubbliche letture i frutti, parziali e non ancora fusi in un lavoro unitario, delle sue ricerche. Un aneddoto ce lo ricorda ancora ragazzo in compagnia del padre a una di tali recitazioni. Il giovinetto ne rimase talmente colpito, da non trattenere le lacrime. Erodoto lo notò. Accostatosi poi a Oloro, gli disse che la natura del figlio ardeva di passione per il sapere⁴⁶³. L’episodio, se reale, mostra Tucidide fare diretta esperienza dell’attività dell’indagatore di Alicarnasso. In effetti la figura di quest’ultimo gli rimase sempre profondamente presente e sia come storico sia come prosatore Tucidide si sentì ripetutamente chiamato a tenere conto del lavoro del predecessore, per mettere meglio a fuoco i propri obiettivi e indirizzare in modo pienamente originale le proprie energie. L’Ateniese sapeva bene che Erodoto aveva “occupato” con le sue ricerche un vastissimo nonché affascinante campo d’indagine: «avendo cominciato dalla potenza dei Lidi» – avrebbe poi detto di lui Dionisio di Alicarnasso – Erodoto aveva condotto «la sua esposizione storica sino alla guerra persiana, abbracciando così in una sola trattazione tutti gli avvenimenti illustri compiuti da Greci e barbari nello spazio di duecentoquarant’anni»⁴⁶⁴. Tucidide ne dovette restare sgomento e così prendere la decisione di cercare la propria originalità per altra via, lontano comunque dalla vasta terra lasciata bruciata dal predecessore. Forse, inizialmente, si interessò alle origini antichissime della Grecia, materia degna di una intelligenza perspicace come la sua – nel pieno della sua maturità di storico egli ne avrebbe dato una trattazione eccellente –, ma di gran lunga meno promettente, quanto a gioia intellettuale e soddisfazioni di fronte al pubblico, rispetto a quella a cui si era dedicato il “rivale” Erodoto. Col profilarsi del conflitto tra Peloponnesiaci e Ateniesi, Tuci Sulle pubbliche letture di Erodoto abbiamo già detto nelle pagine precedenti. Sull’argo mento si veda Jacoby, s.v. Herodotos (come n. 362), coll. 242 243. Per l’aneddoto, narrato da Marcel., Vita Thuc. 54, relativo al pianto di Tucidide si vedano almeno le pagine di E. Kalinka, Zu Thukydides, in Festschrift Theodor Gomperz, dargebracht zum siebzigsten Geburtstage am 29. März 1902 von Schülern, Freunden, Kollegen, Wien 1902, 100 117; L. Piccirilli, Storie dello storico Tucidide. Edizione critica, traduzione e commento delle Vite tucididee, Genova 1985, 158 161. Dion. Hal., Thuc. 5, 8 12. https://doi.org/10.1515/9783110703740 013
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dide intuì però che il suo momento era finalmente venuto. E colse l’occasione di narrare il più grande sconvolgimento dell’età sua sin dalle primissime avvisaglie.
2 L’esordio dell’opera Θουκυδίδης ᾿Αθηναῖος ξυνέγραψε τὸν πόλεμον τῶν Πελοποννησίων καὶ ᾿Αθηναίων, ὡς ἐπολέμησαν πρὸς ἀλλήλους, ἀρξάμενος εὐθὺς καθισταμένου καὶ ἐλπίσας μέγαν τε ἔσεσθαι καὶ ἀξιολογώτατον τῶν προγεγενημένων, τεκμαιρόμενος ὅτι ἀκμάζοντές τε ᾖσαν ἐς αὐτὸν ἀμφότεροι παρασκευῇ τῇ πάσῃ καὶ τὸ ἄλλο Ἑλληνικὸν ὁρῶν ξυνιστάμενον πρὸς ἑκατέρους τὸ μὲν εὐθύς, τὸ δὲ καὶ διανοούμενον. Tucidide Ateniese narrò per iscritto la guerra tra i Peloponnesiaci e gli Ateniesi, come combatterono tra loro, avendo cominciato subito, ai primi sintomi, e con la previsione che essa sarebbe stata grande e assolutamente più degna di considerazione delle anteriori: formulava tale prognosi⁴⁶⁵ sia in considerazione del fatto che gli uni e gli altri, all’apogeo della loro potenza, si avviavano ad affrontare il conflitto con ogni sorta di preparativi, sia perché vedeva il resto dei Greci schierarsi da una parte o dall’altra, chi subito, chi almeno nelle intenzioni.
L’esordio del racconto lascia poco spazio all’idea che Tucidide prevedesse di fornire la sua opera di una epigrafe libraria e dunque di un titolo. L’Ateniese è piuttosto l’ultimo rappresentante di tre generazioni di prosatori, i quali non si distaccano mai dal testo, per presentare sé stessi e il proprio lavoro. Sul piano delle forme, l’esordio appena riportato è comunque premonitore di un atteggiamento tutt’altro che passivo da parte dello storico di fronte alle regole di composizione in prosa allora vigenti. E dunque a torto, negli studi passati, lo si è messo sullo stesso piano dei primi prosatori, fra i quali Ecateo. Infatti, anche in Tucidide, come già in Erodoto, è manifesta la rinuncia allo schema bipartito tanto caro alla generazione del Milesio. D’altra parte, è vistoso anche il distacco dallo stesso Erodoto. Allontanatisi entrambi dalla precedente tradizione, i due scrittori presero poi strade diverse l’uno dall’altro. Erodoto esordisce con un incipit asciutto e dal carattere epigrammatico. Invece Tucidide presenta sé stesso e il proprio lavoro in maniera decisamente differente. Ora l’autore torna grammaticalmente alla posizione di soggetto. Il suo nome perso-
Si noti che τεκμαίρω ricorre nella prosa medica più o meno dell’epoca di Tucidide, per esprimere proprio l’atto della prognosi. Sul denso esordio tucidideo mi limito qui a segnalare: Loraux, Thucydide a écrit (come n. 439), 139 161; C. Petrocelli, Racconti di guerra. Figure della narrazione nelle Storie di Tucidide, in V. Maraglino (a cura di), Scienza antica in età moderna. Teoria e immagini, Bari 2012, 15 33. Segnalo che l’edizione critica del testo tucidideo da me adottata è quella di G.B. Alberti (rec.), Thucydidis Historiae, I III, Romae 1972 1996.
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nale è al nominativo, mentre la materia trattata, la guerra peloponnesiaca, è indicata concisamente mediante τὸν πόλεμον τῶν Πελοποννησίων καὶ ᾿Αθηναίων. Inoltre, la proposizione di apertura non è più nominale, ma vi compare l’aoristo ξυνέγραψε⁴⁶⁶. Del tutto assente un dimostrativo per indicare quanto scritto, ciò che invece si legge in Erodoto. D’altra parte, anche Tucidide adduce poi varie considerazioni sulla genesi e le ragioni che lo hanno spinto a tessere la narrazione. Le differenze tra questo attacco del racconto e quello di Erodoto rimangono in ogni caso nette. La decisione dello storico ateniese di continuare a presentare sé stesso e il tema del proprio lavoro a principio dell’opera non deve quindi oscurare siffatte diversità. Ma che Tucidide non intendesse varcare il perimetro del testo, per indicare il suo nome e la materia trattata e dunque non prevedesse di ricorrere a una epigrafe libraria, lo mostra ancora meglio la maniera in cui egli ha voluto evidenziare gli snodi principali della lunga narrazione. Lo storico occupa a questo riguardo una posizione decisamente innovativa. In primo luogo, egli adotta un’architettura tale da impedire che l’ascoltatore o il lettore si perdano tra i numerosissimi fatti narrati. Il racconto è suddiviso in parti cronologicamente uguali. Ciascuna di esse, salvo il lungo proemio, corrisponde a un singolo anno di guerra del lungo conflitto. Peraltro, di ogni parte – ciò vale almeno per quelle mature, visto che lo scritto è rimasto un opus imperfectum – è marcato bene l’inizio; ancora meglio ne è poi evidenziata la fine. Infatti, al termine di ogni sezione annalistica compare una formula stereotipa, mediante la quale Tucidide segnala l’anno di volta in volta narrato – per esempio il secondo, il terzo, il quarto, il quinto e così via – e si dichiara puntualmente autore del racconto. È proprio in queste formule finali che troviamo conferma del fatto che lo storico non intendeva ricorrere a una inscriptio libraria per il suo lungo e articolato lavoro, benché questa possibilità fosse allora già sfruttata sul versante drammatico. Per quale motivo Tucidide volle procedere in questo modo? La risposta a tale domanda è più complessa di quanto si creda. A conti fatti, è ben possibile che le formule finali dovessero soddisfare esigenze diverse, non solo di
K.W. Krüger (mit erklärenden Anmerkungen herausgegeben von), ΘΟΥΚΥΔΙΔΟΥ ΞΥΓ ΓΡΑΦΗ, I, Berlin 18603, 1, spiega il significato del verbo ξυγγράφειν, da riferire non alla semplice registrazione scritta dei molti eventi della guerra, ma alla loro intelligente rielaborazione in una narrazione unitaria, in un tutt’uno: «bezieht sich auf die Verarbeitung des mannigfaches Stoffes zu einem Ganzen».
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tipo librario, come sino a oggi si è sostenuto, ma anche o addirittura in prima istanza di carattere acroamatico. Approfondiamo l’argomento⁴⁶⁷.
3 Le formule finali Sul principio regolatore della esposizione del lungo conflitto, esploso nel 431 a. C. e terminato dopo alterne vicende nel 404 a. C. con la catastrofe di Atene, siamo informati dall’inizio dell’attuale secondo libro, dove il racconto degli eventi bellici ha il suo effettivo punto di partenza: ῎Αρχεται δὲ ὁ πόλεμος ἐνθένδε ἤδη ᾿Αθηναίων καὶ Πελοποννησίων καὶ τῶν ἑκατέροις ξυμμάχων (…)· γέγραπται δὲ ἑξῆς ὡς ἕκαστα ἐγίγνετο κατὰ θέρος καὶ χειμῶνα, «comincia ormai da qui la
Sulla genesi e la storia del testo di Tucidide segnalo qui: W. Roscher, Leben, Werk und Zeitalter des Thukydides. Mit einer Einleitung zur Aesthetik der historischen Kunst überhaupt, Göttingen 1842 (sulle sorti del testo tucidideo: 556 564); F.W. Ullrich, Beiträge zur Erklärung des Thukydides, I II, Hamburg 1845 1846; Kalinka, Zu Thukydides (come n. 463); N. Festa, Sulla pubblicazione della Storia di Tucidide, in RILLC 1 (1918), 3 10; R.J. Bonner, The Book Divisions of Thucydides, in CPh 15/1 (1920), 73 82 (discussione della ipotesi di Festa sulle possibili cesure librarie escogitate da Tucidide per l’opera sua); E. Schwartz, Das Geschichtswerk des Thukydides, Bonn 21929; W.K. Prentice, How Thucydides Wrote his History, in CPh 25/2 (1930), 117 127; G. De Sanctis, s.v. Tucidide, in EI XXXIV (1937), 461 465; Id., Storia dei Greci dalle origini alla fine del V secolo, vol. II, Firenze 1939, 409 436 (al contributo dell’Enciclopedia, in parte rielaborato, si aggiungono qui parti del tutto nuove); H.G. Strebel, Wertung und Wirkung des thukydideischen Geschichtswerkes in der griechisch römischen Literatur, München 1935; B. Hemmerdinger, La division en livres de l’œuvre de Thucydide, in RÉG 61 (1948), 104 117 (dipendente in non pochi punti dallo studio di N. Festa sul significato librario della formula collocata alla fine dei singoli anni di guerra); Id., Essai sur l’histoire du texte de Thucydide, Paris 1955; O. Luschnat, s.v. Thukydides der Historiker, in RE, Supplementband XII (1970), coll. 1085 1354; Id., Nachträge, in RE, Supplementband XIV (1974), coll. 760 786 (i due lavori sono raccolti in Luschnat, Thukydides der Historiker, München 21978; citerò dalla RE); L. Canfora, Tucidide continuato, Padova 1970 (Proagones. Studi, 10); Id., Storia antica del testo di Tucidide, in QS 6 (1977), 3 40; Id., L’esordio delle Elleniche, in Mélanges Édouard Delebecque, Aix en Provence 1983, 63 73; Id., Sull’edizione completa di Tucidide, in RhM 128 (1985), 360 363; Id., Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio, Roma Bari 2016. Quando questo mio lavoro era ormai giunto alle bozze, grazie alla cortesia di M. Y. Perrin ho appreso della pubblicazione del volume di G. Liberman, Les préliminaires de la guerre. Prolégomènes à la lecture du premier livre de Thucydide, Bordeaux 2017 (Scripta Antiqua, 99). Dei contenuti del volume, a causa della chiusura delle biblioteche pro vocata dall’attuale pandemia, ho appreso più nel dettaglio solo dalla recensione di V. Pothou, G. Liberman: Les préliminaires de la guerre. Prolégomènes à la lecture du premier livre de Thucydide, in Gnomon 91/3 (2019), 202 205. Il quadro che ne ricavo è quello di una monografia di grande interesse per chi si occupa di Tucidide e della storia della ricezione della sua opera. Spero di poter leggere il prima possibile il nuovo volume di G. Liberman.
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V Tucidide l’architetto della prosa
guerra tra Ateniesi e Peloponnesiaci e i rispettivi alleati (…); si è scritto nell’ordine di successione degli avvenimenti, come ciascuno di essi avvenne, per estate e per inverno»⁴⁶⁸. L’anno di guerra ripartito «per estate e per inverno» costituisce in effetti una unità narrativa autonoma e l’autore tiene ad evidenziare ciò nel corso della narrazione in maniera sistematica, attraverso vari accorgimenti. L’esposizione di ogni nuova estate, che altro non è se non l’inizio di un nuovo anno di guerra, comincia, nella maggioranza dei casi, mediante le parole τοῦ δ’ ἐπιγιγνομένου θέρους. Tucidide tiene poi a sottolineare il passaggio dall’estate all’inverno mediante “formule intermedie”, consistenti nell’evidenziare che l’estate terminava: καὶ τὸ θέρος ἐτελεύτα; e che l’inverno cominciava: τοῦ δ’ ἐπιγιγνομένου χειμῶνος. Per la fine di ogni anno di guerra – ciò almeno è quanto si riscontra nelle parti più mature dell’opera o in quelle non lasciate dallo storico allo stato di abbozzo, come a breve vedremo – lo storico adotta invece una formula più complessa. Oltre a dichiarare conclusa l’esposizione dell’inverno e di conseguenza la fine del racconto del singolo anno di guerra, torna a presentarsi come autore della composizione. Così abbiamo: – ταῦτα μὲν ἐν τῷ χειμῶνι ἐγένετο, καὶ τὸ δεύτερον ἔτος ἐτελεύτα τῷ πολέμῳ τῷδε ὃν Θουκυδίδης ξυνέγραψεν, «queste cose avvennero nell’inverno e così terminava il secondo anno di questa guerra, che Tucidide narrò per iscritto» (II, 70, 4); – καὶ ὁ χειμὼν ἐτελεύτα οὗτος, καὶ τρίτον ἔτος τῷ πολέμῳ ἐτελεύτα τῷδε ὃν Θουκυδίδης ξυνέγραψεν, «terminava quindi questo inverno e così terminava il terzo anno di questa guerra, che Tucidide narrò per iscritto» (II, 103, 2); – ὅ τε χειμὼν ἐτελεύτα οὗτος καὶ τέταρτον ἔτος τῷ πολέμῳ ἐτελεύτα τῷδε ὃν Θουκυδίδης ξυνέγραψεν, «terminava quindi questo inverno e così terminava il quarto anno di questa guerra, che Tucidide narrò per iscritto» (III, 25, 2); – καὶ ὁ χειμὼν ἐτελεύτα, καὶ πέμπτον ἔτος τῷ πολέμῳ ἐτελεύτα τῷδε ὃν Θουκυδίδης ξυνέγραψεν, «terminava quindi l’inverno e così terminava il quinto anno di questa guerra, che Tucidide narrò per iscritto» (III, 88, 4). – ταῦτα μὲν κατὰ τὸν χειμῶνα τοῦτον ἐγένετο, καὶ ἕκτον ἔτος τῷ πολέμῳ ἐτελεύτα τῷδε ὃν Θουκυδίδης ξυνέγραψεν, «queste cose avvennero durante questo inverno e così terminava il sesto anno di questa guerra, che Tucidide narrò per iscritto» (III, 116, 3).
L’importanza di questa disposizione della materia è ribadita dall’autore anche sul finire del racconto dei primi dieci anni di guerra.
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καὶ ὁ χειμὼν ἐτελεύτα, καὶ ἕβδομον ἔτος τῷ πολέμῳ ἐτελεύτα τῷδε ὃν Θουκυδίδης ξυνέγραψεν, «terminava quindi l’inverno e così terminava il settimo anno di questa guerra, che Tucidide narrò per iscritto» (IV, 51, 1).
Formule di questo genere ricorrono ancora alla fine di altri anni: in IV, 135, 2 per il nono; in VI, 7, 4 per il sedicesimo; in VI, 93, 4 per il diciassettesimo; in VII, 18, 4 per il diciottesimo; in VIII, 6, 5 per il diciannovesimo; in VIII, 60, 3 per il ventesimo. In tutto risultano 12 “formule finali”, se così mi è lecito chiamarle⁴⁶⁹, col nome di Tucidide. Assente invece il nome dello storico nella formula finale del primo e dell’ottavo anno: sul che i critici discutono da tempo, tenendo in vario modo conto della tormentata genesi dell’opera e della sua incompiutezza. Il carattere d’incompiutezza o di provvisorietà del lavoro è evidente d’altra parte nel caso delle formule degli anni XI–XV, dove il nome di Tucidide manca sistematicamente⁴⁷⁰. Per il discorso che ora svilupperemo, consideriamo essenzialmente la presenza delle formule finali nelle parti più mature dell’opera. A che scopo l’autore le ha introdotte? E perché ogni volta egli ripete il proprio nome ricordando di essere l’autore del racconto di guerra? Per Bertrand Hemmerdinger, che ha sviluppato alcune conclusioni di Nicola Festa⁴⁷¹, tali formule, oltre a rappresentare una netta cesura della narrazione, dovevano avere per Tucidide anche un valore librario. Esse segnalavano non solo la fine dell’anno, ma anche quella del rotolo. A lavoro concluso, avrebbero dovuto così esserci tanti rotoli quanti anni di guerra, più uno contenente il lungo proemio. Ciascun rotolo avrebbe in ogni caso serbato il nome dell’autore: il primo grazie al proemio dell’opera, tutti gli altri alla fine del singolo anno narrato. Questa la
Hemmerdinger, La division (come n. 467), 104 117, chiama «signatures» le formule finali. Ma si tratta di definizione impropria. Tra l’altro essa insiste o fissa l’attenzione su un aspetto strettamente librario e oscura (o meglio: ha oscurato negli studi passati) la valenza delle formule per la ricezione del testo a viva voce, come vedremo. Com’è noto, non solo la narrazione tucididea s’interrompe al 411 a. C., ma anche le parti che la compongono appaiono fortemente diseguali in ampiezza e in qualità di elaborazione. Alcune si presentano a uno stato molto avanzato e quasi perfetto di composizione, altre at tendevano certamente ancora una revisione e integrazioni, mentre v’erano pure intere sezioni da scrivere. Per ciò che concerne le parti più brevi e/o manchevoli, per non parlare di quelle allo stato di semplici note, è evidente che l’autore non dovette avvertire l’urgenza di segnalare il proprio nome all’atto di indicare la fine di un dato anno. Forse il carattere non definitivo del racconto può spiegare persino la mancanza del nome di Tucidide in chiusura del primo e dell’ottavo anno di guerra (risp. II, 47, 1 e IV, 116, 3): cf. Canfora, Tucidide continuato (come n. 467), 18 33. Cf. bibliografia citata alla n. 467.
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divisione in libri che Tucidide avrebbe previsto per l’opera sua⁴⁷². Dalle unità narrativo-librarie così individuate per il racconto tucidideo e da altri dati disponibili, Hemmerdinger ha poi tratto alcune conclusioni sulla “fortuna” del testo tucidideo e più in generale sulla lunghezza media dei rotoli librari in epoca prealessandrina. La ricostruzione di Hemmerdinger è seducente. D’altra parte, per poter essere davvero accettabile, essa richiede di essere riformulata in qualche punto con maggiore flessibilità e prudenza⁴⁷³ e soprattutto alla luce di un’altra possi-
Ricordo qui che l’opera di Tucidide circolò nell’antichità secondo varie suddivisioni del testo. Sulla divisione in otto e in nove libri ci informa Diodoro Siculo, Bibliotheca historica XII, 37, 2: (…) τὸν γενόμενον πόλεμον ᾿Αθηναίοις πρὸς Λακεδαιμονίους τὸν ὀνομασθέντα Πελοπον νησιακόν. οὗτος μὲν οὖν ὁ πόλεμος διέμεινεν ἐπὶ ἔτη εἴκοσι ἑπτά, ὁ δὲ Θουκυδίδης ἔτη δύο πρὸς τοῖς εἴκοσι γέγραφεν ἐν βίβλοις ὀκτώ, ὡς δέ τινες διαιροῦσιν, ἐννέα, «… la guerra avvenuta tra Ateniesi e Spartani, detta Peloponnesiaca. Questa guerra si protrasse per ben ventisette anni, ma Tucidide ne ha messo per iscritto ventidue in otto libri, mentre alcuni li ripartiscono in nove»; Bibl. hist. XIII, 42, 5: τῶν δὲ συγγραφέων Θουκυδίδης μὲν τὴν ἱστορίαν κατέστροφε, περιλαβὼν χρόνον ἐτῶν εἴκοσι καὶ δυοῖν ἐν βύβλοις ὀκτώ· τινὲς δὲ διαιροῦσιν εἰς ἐννέα· Ξενοφῶν δὲ καὶ Θεόπομπος ἀφ’ ὧν ἀπέλιπε Θουκυδίδης τὴν ἀρχὴν πεποίηνται, καὶ Ξενοφῶν μὲν περιέλαβε χρόνον ἐτῶν τεσσαράκοντα καὶ ὀκτώ, Θεόπομπος δὲ τὰς Ἑλληνικὰς πράξεις διελθὼν ἐπ’ ἔτη ἑπτακαίδεκα καταλήγει τὴν ἱστορίαν εἰς τὴν περὶ Κνίδον ναυμαχίαν ἐν βύβλοις δώδεκα. Si noti tuttavia che Diodoro parla in entrambi i luoghi di ventidue anni narrati da Tucidide, invece che ventuno, il che ha dato ai moderni pure motivo di discutere sull’effettiva consistenza del testo e le precise modalità della sua ripartizione in età antica. Sulla divisione in 13 libri: Marcel., Vita Thucydidis 58: ᾿Ιστέον δὲ ὅτι τὴν πραγματείαν αὐτοῦ οἱ μὲν κατέτεμον εἰς δέκα τρεῖς ἱστορίας, ἄλλοι δὲ ἄλλως. ὅμως δὲ ἡ πλείστη καὶ ἡ κοινὴ κεκράτηκε, τὸ μέχρι τῶν ὀκτὼ διῃρῆσθαι τὴν πραγματείαν, ὡς καὶ ἐπέκρινεν ὁ ᾿Ασκληπιάδης, «Bisogna sapere che la sua trattazione alcuni la suddivisero in tredici storie, altri diversamente. Quella però che ha avuto in assoluto più suc cesso ed è comune è la divisione in otto, come anche giudicava in proposito Asclepiade». Dunque, una divisione in 8, una in 9 e un’altra in 13 libri. Ma v’era pure nell’antichità (o in epoca bizantina) chi non ne considerava autentica nessuna: Scholia in Thucydidem IV, 135, ll. 8 12: ἡ δὲ ἀληθεστέρα λύσις τοιαύτη, ὅτι ὁ Θουκυδίδης οὐ διεῖλεν εἰς ἱστορίας, ἀλλὰ μίαν συνεγράψατο. καὶ δῆλον ἐκ τῆς διαφωνίας τῶν κριτικῶν· οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν διεῖλον εἰς ὀκτώ, οἱ δὲ εἰς ιγʹ, τὴν πρώτην εἰς βʹ καὶ τὰς ἄλλας ἑπτὰ εἰς ιαʹ, «la soluzione più vera è questa: Tucidide non suddivise l’opera in storie, ma ne compose una soltanto; e ciò è evidente dal disaccordo dei critici: gli uni infatti ripartirono il testo in otto libri, gli altri in 13, il primo in 2 e gli altri sette in 11». Sull’argomento cf. Hemmerdinger, Essai sur l’histoire du texte (come n. 467), 15 22; Canfora, Tucidide continuato (come n. 467), 51 e sgg. Secondo lo studioso, una suddivisione della narrazione tucididea in unità librarie corri spondenti agli anni di guerra trattati si sarebbe perpetuata fino all’età alessandrina, quando la scrittura di due o tre “anni tucididei” sarebbe stata accorpata in un solo volumen, avente capacità tre volte maggiore a quella dei precedenti. Questa ricostruzione riposa in realtà su una ipotesi dello stesso Hemmerdinger, per il quale i rotoli di età prealessandrina sarebbero stati decisamente molto brevi: il che proprio Hemmerdinger, con palese contraddizione notata da
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bilità interpretativa delle stesse formule finali, la quale non mi risulta sino a oggi considerata. Infatti, se è vero che neppure lo storico ateniese escludeva la possibilità di pubbliche letture dell’opera sua – cf. a questo riguardo ciò che si legge in I, 22⁴⁷⁴ –, si può credere che le formule finali avessero valore (o dovessero averlo) anzitutto per la pubblica recitazione del testo. È evidente che l’opera tucididea, come già quella erodotea, proprio a causa dell’ampiezza ben presto acquisita, non poteva essere più letta tutta d’un fiato, ma andava piuttosto ripartita in un “ciclo” di conferenze. In questo ordine di idee le formule finali dovevano servire a scandire, senza possibilità di equivoco, l’esatta unità narrativa da recitare di volta in volta; e a ricordare puntualmente all’uditorio il nome dell’autore del racconto. Non pochi anni di guerra, se singolarmente presi, possono essere facilmente recitati nello spazio di tre quarti d’ora o un’ora circa. Così è per il II, il IV, il VI, il IX o ancora per il XVIII. Per racconti di questa ampiezza la formula finale soddisfaceva pienamente le due esigenze appena enunciate.
Kenneth Dover nella recensione apparsa in CR 7 (1957), 24 , nega per Tucidide già a proposito della lunghissima premessa dello storico al racconto di guerra, introduzione la cui ampiezza supera di varie volte quella del racconto di anni come il II o il IV o altri ancora. Ma che i rotoli prealessandrini avessero una misura standard, peraltro molto breve, è contestabile in consi derazione degli stessi anni di guerra tucididei, ammesso ora, ma non concesso, che ciascuno di essi dovesse occupare per Tucidide un rotolo a sé. Infatti, alcuni anni per es. il II, il IV, il VI, il IX e ancora il XVIII sono due o tre volte più piccoli di altri, per es. il XVII o il XIX. Pertanto, è erroneo parlare di misure standard dei rotoli alla luce di tale documentazione. Piuttosto vanno rilevate forti oscillazioni di ampiezza tra le parti del racconto tucidideo. Su questo punto il lavoro di Hemmerdinger è assai meno apprezzabile di quello di Festa, Sulla pubblicazione (come n. 467), il quale aveva almeno rilevato la differente ampiezza delle varie sezioni annalistiche. Ometto peraltro qui di evidenziare le dipendenze, palesi, del discorso di Hemmerdinger dal lavoro di Festa. È doveroso inoltre qui ricordare che per Luschnat, s.v. Thukydides (come n. 467), coll. 1109 1110, Tucidide avrebbe a un certo punto pensato a una ripartizione libraria, per la quale due libri di guerra dovevano essere raccolti in un solo rotolo. A questa decisione Tucidide sarebbe stato indotto dal prolungarsi del conflitto e quindi dal conseguente aumento di anni da trattare. Naturalmente anche qui siamo e rimaniamo nel campo delle ipotesi, per quanto plausibili. In effetti, lo stato imperfetto del testo tucidideo impone di considerare le cose con massima prudenza. Questa la traduzione del passo offerta da De Sanctis, Storia dei Greci, II (come n. 467), 384: «Forse, ad ascoltarla, il mancarvi del favoloso farà apparire la mia opera meno dilettevole; ma se quanti vorranno conseguire chiara conoscenza sia degli avvenimenti passati, sia di quelli che conforme alla natura delle cose umane tali o simili si compiranno in futuro, troveranno il mio racconto giovevole, questo sarà sufficiente». Il corsivo è mio. L’importanza del passo è stata rilevata da Canfora, Il “ciclo storico” (come n. 358), 653 670.
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Ma il valore “acroamatico” delle formule di chiusa può essere ammesso anche per anni di guerra, la cui narrazione occupa molte più pagine. Si pensi al primo anno, che pure non esibisce in conclusione il nome dello storico ateniese, o al V o ancora al XX, la cui lettura completa dinanzi a un uditorio doveva richiedere un paio d’ore circa o anche più. Naturalmente in casi come questi era necessaria almeno una pausa, per non affaticare l’uditorio. Non credo comunque sia difficile ammettere che al tempo di Tucidide, per la lettura di un discorso particolarmente lungo, si potessero prevedere delle pause. A questa eventualità i Greci erano a quel tempo abituati dal teatro. Annualmente, ad Atene, i tragediografi presentavano ciascuno quattro pezzi al pubblico delle Grandi Dionisie. Una pur piccola pausa tra un pezzo e l’altro era ovviamente necessaria⁴⁷⁵. Insomma, le formule finali saranno servite anzitutto a indicare la fine della “puntata” del ciclo. Attraverso questo genere di chiuse era d’altra parte pur sempre garantita a ogni pubblica lettura anche la menzione del nome di Tucidide. Del resto, persino il numerale di ciascun anno di guerra, indicato puntualmente anch’esso nella formula, era perfettamente funzionale all’ordinato svolgimento di un ciclo di letture.
La recitazione di un intero anno di guerra in una determinata occasione per esempio in una sola mattinata o in un pomeriggio o nell’arco di una giornata può essere teoricamente ammessa, tenuto però conto della possibilità di alcune pause, anche per gli anni relativi alla spedizione ateniese in Sicilia. Questa parte del racconto tucidideo originariamente costituiva un’opera a sé stante, alla quale lo storico mise mano dopo avere chiuso o quasi la narrazione dei primi dieci anni di guerra peloponnesiaca, terminati con la pace di Nicia nel 421 a. C. A quel tempo Tucidide non poteva certo immaginare che le attività belliche in Grecia sarebbero riprese fino all’abbattimento dell’impero ateniese. Pertanto, egli aveva trattato i due conflitti separa tamente. Di questa originaria separazione rimangono segni evidentissimi e uno di essi consiste proprio nel trattamento dei singoli anni: il racconto del primo e del terzo anno del conflitto in Sicilia è molto più lungo e approfondito di quelli avvenuti prima in Grecia. E ciò si capisce perfettamente se si pensa che il conflitto nell’isola aveva avuto durata molto più breve dell’altro. A Tucidide era parso evidentemente accettabile diffondersi molto più a lungo, e con maggiori cure, a livello di esposizione scritta, su di un conflitto di durata molto minore, il cui svolgimento egli deve avere peraltro potuto seguire anche più agevolmente del precedente. Solo in un secondo momento, con la ripresa delle attività militari in Grecia, egli si decise a inserire, ovvero a mettere questa “seconda opera” in continuità con la prima e all’interno di una stessa cornice. Il che lo ha pure obbligato a raccogliere, tardivamente, informazioni sugli anni di relativa pace che egli non aveva prima trattato e che troviamo nel V libro in stato soltanto di abbozzo. Ma il racconto del conflitto in Sicilia doveva avere un suo inizio appropriato. Estremamente concisa, e probabilmente ritoccata e ridotta, la chiusa attuale finale (cf. VII, 87, 6). La recitazione distinta e separata dei vari anni di guerra può essere in ogni caso supposta, come dicevo, anche per quelli particolarmente lunghi del conflitto in Sicilia (cioè per il primo e per il terzo, mentre il secondo è brevissimo), a patto però di ammettere almeno un paio di pause.
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È chiaro poi che le stesse formule avranno anche potuto avere un valore librario. Per mezzo di queste lo storico si sarà cioè premunito contro gli arbitrî di committenti (ben pochi, certamente, nelle aspettative di Tucidide, che non poteva prevedere quale successo avrebbe avuto l’opera sua) e copisti. La presenza della formula finale indicava, di fatto, il punto in cui era possibile effettuare una conveniente divisione materiale del testo, ovvero passare a un nuovo rotolo per proseguire il lavoro di trascrizione, senza per questo ledere l’unità narrativa. Se la cesura fosse sempre stata rispettata, si sarebbero così ottenuti tanti rotoli quanti anni di guerra narrati⁴⁷⁶. E il numerale, posto ogni volta in chiusura, sarebbe stato utile anche a stabilire la corretta sequenza del testo suddiviso in così tante unità librarie. Ma gli anni di guerra narrati oscillano tra loro stessi anche di parecchio in termini di ampiezza, sicché doveva essere già chiaro a Tucidide che un copista, a fronte dell’alto numero di anni effettivamente trattati, avrebbe anche potuto accorpare – per esempio – due di essi in un unico rotolo. La formula finale avrebbe comunque mantenuto vari aspetti vantaggiosi⁴⁷⁷.
4 Tucidide come prosatore Attraverso un sistema di formule così ben escogitate, lo storico della guerra del Peloponneso dava dunque alla sua lunga narrazione una equilibrata e precisa articolazione, funzionale tanto allo svolgimento di pubbliche recitazioni, ovvero
Inoltre, ogni rotolo avrebbe serbato in chiusura l’indicazione del nome dell’autore del racconto. Tale indicazione è alla fine di ogni sezione annalistica, invece che all’inizio, in modo tale da lasciare ogni parte in continuità con le precedenti. Solo il proemio del libro I presenta ovviamente il nome dell’autore a principio: si tratta dell’inizio assoluto dell’opera. In questo modo, un copista avrebbe rispettato, se non altro, il valore librario dell’ultima formula finale, traendone non pochi vantaggi. Infatti: a) il rotolo avrebbe comunque serbato il nome dell’autore del racconto; b) il racconto dei singoli anni di guerra non sarebbe stato impropriamente ripartito tra rotoli diversi; c) ciascun anno avrebbe ugualmente serbato, in vista della pubblica recitazione, la “dichiarazione di proprietà” voluta dall’autore; d) il numero di unità librarie sarebbe stato considerevolmente minore. Quest’ultimo vantaggio avrebbe d’altra parte compromesso la corrispondenza con l’indicazione numerale che leggiamo in chiusura di ogni anno. L’indicazione avrebbe quindi mantenuto valore solo a fini narrativi, non anche per la suddivisione libraria del testo. Ma ciò è proprio quel che è avvenuto in epoca ellenistica, se non già prima, al testo tucidideo, quando due o tre anni di guerra finirono accorpati in un solo rotolo librario. Mi sembra ovvio che lo stesso Tucidide, a fronte dell’alto numero di anni di guerra da lui trattati, abbia riflettuto e tenuto conto dello scenario fin qui delineato.
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declamazioni del testo, quanto alla conveniente suddivisione dello scritto a livello materiale. Come giunse Tucidide a tale lucidità e maturità compositiva? Probabilmente vi pervenne dopo avere valutato grandezza e limiti dell’opera compiuta da Erodoto. In effetti Tucidide, oltre a continuare, di fatto, l’indagatore di Alicarnasso sul piano della narrazione storica⁴⁷⁸, puntava decisamente a superarlo, e non solo sul terreno del metodo, come oggi giustamente si osserva, ma anche nell’arte di dare forma a una altrettanto vasta (o ancor più vasta) creazione in prosa. Sino al tempo di Erodoto, i λόγοι di argomento storico erano stati perlopiù scritture slegate tra loro, nonché rivolte a un ben preciso tema: si trattava di una città o di un popolo, senza riguardo ad altri lavori del genere: cf. Dion. Halic., De Thuc. 5, 2⁴⁷⁹. Erodoto, che pure dovette passare tanta parte della sua carriera a divulgare singoli discorsi, fece compiere però un salto in avanti all’arte della composizione in prosa procedendo al loro accorpamento – senza dubbio compiuto con i dovuti adattamenti o sacrifici testuali – in un’unica narrazione, che alla fine risultò di ampiezza assolutamente straordinaria per l’epoca. Nella realizzazione di un racconto così ampio e comprensivo sta certamente la sua grandezza di scrittore. D’altra parte, proprio per la lunghezza raggiunta – l’opera era infatti frutto dell’accorpamento di decine di λόγοι –, era impensabile recitare l’ἀπόδεξις in una sola occasione. Occorreva piuttosto continuare a recepirla “per singoli pezzi”, cioè per parti separate, magari nel corso di un ciclo di declamazioni, non molto diversamente dunque da quanto avveniva già da tempo con la poesia omerica. Sempre a motivo della sua lunghezza, si poneva pure il problema di come dividere il testo in rotoli. Erodoto dovette in qualche modo avvertire questi problemi al momento di “cucire insieme” i vari discorsi. Ma gli accorgimenti da lui adottati direttamente nel testo, al fine appunto di scandire la successione dei λόγοι e di favorirne l’esatta individuazione e delimitazione e quindi la corretta divulgazione orale, non sempre rendevano di immediata evidenza la fine precisa di una digressione e dunque l’inizio dell’altra⁴⁸⁰. Inoltre, l’assenza di un’archi-
L’opera tucididea non è nata come continuazione di Erodoto, ma lo è di fatto diventata allorché lo storico “colmò” il vuoto che separava il suo racconto da quello del predecessore con la digressione sugli avvenimenti dal 479 al 432 a. C., posta al libro I, 89 118, 2. Su questo passo cf. Porciani, Prime forme della storiografia greca (come n. 413), 34 47. Ciò però non significa che Erodoto non si sia affatto posto il problema. E infatti vi sono punti, in cui egli tiene a evidenziare l’inizio di una nuova digressione in modo inequivocabile, staccandola da quanto precede: cf. per es. Herod. I, 95, 1: ᾿Επιδίζηται δὲ δὴ τὸ ἐνθεῦτεν ἡμῖν ὁ λόγος τόν τε Κῦρον ὅστις ἐὼν τὴν Κροίσου ἀρχὴν κατεῖλε; II, 99, 1: Μέχρι μὲν τούτου ὄψις τε ἐμὴ
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tettura costantemente ben marcata rendeva talvolta poco agevole cogliere i suoi rimandi ad altri punti o parti dell’opera. A ciò va aggiunto che Erodoto, se da un lato aveva rinunciato alla “tradizionale” tecnica di esordio in favore di un incipit epigrammatico, dall’altro aveva comunque dichiarato il suo nome all’inizio di tutto il racconto, senza ripeterlo altrove nel testo. Se teniamo conto del fatto che l’opera, per essere recepita, finiva tanto a voce quanto a livello librario per essere ripartita in molte parti, è chiaro quindi che la parte iniziale, grazie appunto alla frase d’apertura, forniva il nome dell’autore e un inquadramento, sia pure del tipo che si è visto, per l’intero lavoro. Cosa avveniva con le altre parti al momento della recitazione? Si tornava ogni volta a dichiarare solennemente il nome dell’autore e i suoi obiettivi generali? Oppure tutto era lasciato alla libertà d’iniziativa di chi avrebbe declamato il testo? E a livello librario, quali accorgimenti adottò Erodoto, se ne adottò, per favorire la corretta sequenza dei rotoli e assicurare a ciascun volume la presenza del suo nome, essendo egli l’autore del racconto ivi contenuto? Senza sviluppare adesso ipotesi gratuite, è importante qui dire che tali problemi devono essersi presentati in tutta la loro evidenza agli occhi di Tucidide. E infatti il sistema di formule iniziali, intermedie e soprattutto finali da lui elaborato appare concepito, per risolverli tutti quanti alla radice. Adesso l’Ateniese si muove in anticipo contro tutti i possibili “incidenti di percorso” del suo racconto: egli punta a impedire che ascoltatori e/o lettori si perdano tra le continue digressioni o che il suo nome e il Leitmotiv del lavoro – il racconto della lunga guerra – appaiano, nel testo, soltanto una volta. Soprattutto le formule finali sembrano escogitate per ordinare in precisa sequenza le numerose sezioni annalistiche e per garantire a ciascuna di esse l’indicazione del nome dell’autore e un richiamo al tema generale trattato. Nella chiaroveggenza dei problemi a cui la composizione in prosa, se non altro di argomento storico, era ormai approdata con Erodoto e nell’audace e originale tentativo di risolverli con le formule sin qui studiate, sta tra l’altro la grandezza di Tucidide come prosatore della sua epoca. Da quanto visto rimane però ancora meglio assodato che lo storico ateniese non pensò di ricorrere a una inscriptio libraria, per indicare il suo nome e dare quindi un titolo all’opera.
καὶ γνώμη καὶ ἱστορίη ταῦτα λέγουσά ἐστι, τὸ δὲ ἀπὸ τοῦδε Αἰγυπτίους ἔρχομαι λόγους ἐρέων κατὰ τὰ ἤκουον· προσέσται δέ αὐτοῖσι τι καὶ τῆς ἐμῆς ὄψιος. Tucidide deve avere senz’altro colto l’importanza di indicazioni del genere e averne tratto ispirazione. Esse aiutavano i destinatari a non smarrirsi nel succedersi dei fatti narrati.
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5 I titoli della tradizione bizantina Gli esemplari bizantini del testo tucidideo sono ripartiti dai moderni in due rami principali, α e β, distinguibili non solo per una serie di varianti interne, ma anche sotto il profilo della titolatura. L’unico sicuro rappresentante del primo ramo, il codice Laur. Plut. 69, 2 (C), degli inizi del sec. X, presenta a ogni libro – fatta eccezione per il primo – una subscriptio del tipo: Θουκυδίδου ἱστοριῶν β΄, ovvero γ΄ o δ΄ e così via. Così abbiamo: «delle Storie di Tucidide libro secondo», «terzo», «quarto» etc. In testa a ogni libro dell’opera – fatta eccezione ancora per il primo, i cui fogli iniziali sono frutto di restauro – figura invece soltanto una indicazione numerica⁴⁸¹. Invece il codice Heid. Palat. Gr. 252 (= E), anch’esso degli inizi del X secolo o forse di epoca poco più tarda, ma illustre testimone del ramo β, esibisce a ogni libro una inscriptio del tipo Θουκυδίδου συγγραφῆς α΄, ovvero β΄, o γ΄ o δ΄ e così via. Dello stesso tenore è la subscriptio di tutti i libri, a eccezione dell’ultimo. Con E si accordano su questo punto i restanti esemplari della famiglia, mentre altri testimoni, poco o parecchio più tardi, esibiscono una titolatura che alterna o contamina le due già viste⁴⁸². Secondo la critica più recente, i due tipi di titolatura dovevano trovarsi in concorrenza tra loro già molti secoli prima⁴⁸³. Quello di C (ramo α) doveva
È ovviamente possibile ipotizzare che in C l’inscriptio del primo libro suonasse Θουκυδίδου ἱστοριῶν α΄. Sull’assetto dei titoli (e di altri paratesti) in questo manoscritto e su ciò che se ne può dedurre per la storia del testo tucidideo, cf. G. Cavallo, Conservazione e perdita (come n. 86), 83 172, note a 246 271 (ora in Id., Dalla parte del libro, Urbino 2002, 49 175); M.J. Luzzatto, Itinerari di codici antichi: un’edizione di Tucidide tra il II ed il X secolo, in Mat 30 (1993), 167 203; C. Pernigotti, Osservazioni sul Tucidide laurenziano 69, 2, in SCO 47/1 (2001), 227 244. Tralascio qui di discutere l’assenza del titolo, in C, alla fine del I libro: un tentativo di spiegazione è offerto da M.J. Luzzatto nel contributo appena ricordato, ma si potrebbero formulare anche altre ipotesi. Ciò vale, in parte, già per il Lond. Add. 11727 (della fine del X secolo o degli inizi dell’XI; M). L’esemplare si accorda con la tradizione di β per il titolo iniziale dei libri IV, V, VI, mentre segue α per il titolo finale degli stessi: cf. ff. 92v e 129v, 156r, 188v. Il ricorso a due diversi sistemi di titolatura per tali libri è palese. Il fatto è rilevato in generale dalla Luzzatto, Itinerari (come n. 481), 174 175. Diversamente, il Paris. Coisl. 317 mi limito a un solo dato esibisce per il II libro (f. 29v) delle Storie di Tucidide la seguente inscriptio: θουκυδίδου ξυγγραφῆς. ἱστορία δευτέρα. Ho esaminato i due manoscritti online. Cf. Luzzatto, Itinerari (come n. 481), 167 203. Ma per un inquadramento di vari dati della tradizione manoscritta cf. Cavallo, Conservazione e perdita (come n. 86), 132 137; Id., La storia dei testi antichi a Bisanzio. Qualche riflessione, in J. Hamesse (ed.), Les Problèmes posés par l’édition critique des textes anciens et médiévaux, Louvain la Neuve 1992, 95 98. G. Cavallo e M.J. Luzzatto sono in effetti giunti alla dimostrazione che la tradizione manoscritta bizantina di
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figurare, insieme ad altro importante corredo paratestuale, nell’esemplare (di V o VI secolo) da cui lo stesso codice fu copiato⁴⁸⁴. Nella tradizione diretta dell’opera tucididea il titolo ἱστορίαι è ad ogni modo attestato già da P.Oxy. LVII 3890. In questo piccolo frammento di papiro si leggono dapprima alcune lettere senz’altro relative al nome di Tucidide, quindi alle due linee sottostanti abbiamo: βʹ | ἱ̣ στοριῶν̣ . Il numero del libro è accompagnato da segni decorativi. Il frammento è stato datato in sede di edizione da Michael W. Haslam al III secolo d. C. Per ciò che concerne l’altro titolo, non v’è alcuna evidenza nella tradizione diretta di epoca antica, almeno a mia conoscenza. Considerando le testimonianze letterarie, M.J. Luzzatto, Itinerari di codici antichi, come n. 481, 176, ritiene però che il titolo συγγραφή caratterizzasse l’esemplare tucidideo posseduto dal retore Libanio (IV secolo). Libanio si esprime in questi termini: ἦν μοι ἡ Θουκυδίδου συγγραφή (Or. 1, 148). La testimonianza è notevole, anche se forse non le si può riconoscere assoluto valore di prova: infatti è risaputo che il termine συγγραφή fosse in uso a quel tempo – anzi già da molto prima – come denominazione applicabile a qualsivoglia scrittura storica, a prescindere dalla intestazione libraria effettivamente esibita⁴⁸⁵. Tucidide non deriva da un archetipo del IX secolo, come a lungo si era creduto, ma da esemplari parecchio più antichi e già forniti di un assetto paratestuale ben preciso. Sulla tradizione di Tucidide prima e dopo gli studi di Cavallo e della Luzzatto cf. V. Bartoletti, Per la storia del testo di Tucidide, Firenze 1937, 47 69; O. Luschnat (ed.), Thucydidis Historiae, I, Lipsiae 1960, 11 ss.; G.B. Alberti (rec.), Thucydidis Historiae, I, Romae 1972, XL; A. Kleinlogel, Geschichte des Thukydidestextes im Mittelalter, Berlin 1965, qui in part. 143. Kleinlogel, Beobachtungen zu den Thukydidesscholien II, in Philologus 142 (1998), 11 40, riconosce il valore delle osservazioni della Luzzatto, ma rimane convinto dell’esistenza dell’archetipo mediobizantino. G.B. Alberti, Ri flessioni filologiche di un vecchio tucidideo, in Prometheus 33 (2007), 277 279, si mostra invece propenso a rivedere le sue precedenti conclusioni. Per un bilancio e per nuove considerazioni cf. Pernigotti, Osservazioni sul Tucidide Laurenziano 69, 2 (come n. 481), 227 244. Cf. Luzzatto, Itinerari di codici antichi (come n. 481), 176. Sul codice C e sulla subscriptio latina al f. 513v cf. Cavallo, La storia dei testi antichi a Bisanzio (come n. 483), 95 98. È in quest’ordine di idee che si spiega bene, tra l’altro, anche un passo del I libro delle Questioni omeriche, cap. 8, in cui Porfirio applica la parola anzitutto all’opera di Erodoto: πολλὰ δὲ φέρεσθαι μέχρι νῦν ἁμαρτήματα κατὰ τὴν Ἡροδότου συγγραφὴν καὶ ἔτι τὴν Θουκυδίδου καὶ Φιλίστου καὶ τῶν ἄλλων ἀξιολόγων συγγραφέων. Per l’edizione del passo cf. A.R. Sodano (testo critico a cura di), Porphyrii quaestionum homericarum, liber I, Napoli 1970, 36, ll. 15 17. Si noti che poco prima nello stesso capitolo (35, 15 16) Porfirio aveva introdotto le osservazioni di un grammatico di nome Filemone sul testo di Erodoto in questi termini: φησὶ γὰρ ὅτι ἐν τῇ πρώτῃ Ἡρόδοτος τῶν ἱστοριῶν. Più in generale, è lecito interrogarsi sui processi che hanno condotto nell’antichità a usare συγγραφή concorrenzialmente a ἱστορία come denominazione di testi di contenuto storiografico; ma sull’uso della parola συγγραφή dirò ancora tra poco commentando un passo di Tucidide.
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Un’altra testimonianza meritevole d’attenzione è contenuta nei Progymnasmata del cosiddetto Pseudo-Ermogene⁴⁸⁶. Nell’operetta si cerca tra l’altro di spiegare la differenza che corre tra διήγημα e διήγησις, cioè tra narrativa e narrazione. L’autore istituisce alcuni confronti. Così egli dapprima (cap. 2, ll. 4– 8) considera i due maggiori poemi di Omero, citandone il titolo. Subito dopo egli aggiunge: καὶ πάλιν διήγησις μὲν ἡ ἱστορία Ἡροδότου, ἡ συγγραφὴ Θουκυδίδου, διήγημα δὲ τὸ κατὰ ᾿Aρίονα, τὸ κατὰ ᾿Aλκμαίωνα (cap. 2, ll. 8 – 10). Qui lo Pseudo-Ermogene può avere indicato l’opera di Erodoto e quella di Tucidide con un nome diverso per mere esigenze di natura retorica (variatio e altro). Nondimeno, è lecito interrogarsi ulteriormente sull’esatto valore di ἱστορία e συγγραφή nel passo. Siamo in presenza di due denominazioni applicabili a qualsivoglia opera storica, oppure l’autore del trattato, esprimendosi in quel modo, aveva in mente – e voleva indicare – proprio la inscriptio dei due classici al suo tempo? Michel Patillon, che ha recentemente offerto l’edizione critica dell’operetta, ma che non commenta questo punto, sposa la prima delle due possibilità in sede di traduzione⁴⁸⁷. Io non trascurerei così sbrigativamente l’interpretazione più sostanziale: lo Pseudo-Ermogene può avere già lui conosciuto il testo di Tucidide sotto il titolo, che ritroviamo in β, e averne tenuto conto nel passo qui in discussione. Il trattatello retorico è datato da Patillon al III secolo d. C.⁴⁸⁸. Fissati questi punti – il titolo del ramo α è attestato da un papiro del III secolo d. C.; quello dell’altro ramo viene fatto risalire dalla critica almeno a epoca tardoantica; sussiste tuttavia un piccolo margine d’incertezza, se non altro per ragioni di prudenza, sul passo di Libanio – rimane, come si vede, egualmente aperta la questione dell’epoca esatta di apparizione dei titoli che leggiamo negli esemplari bizantini. Del resto, il tentativo di esplorare la tradizione precedente (e solo indiretta) a questo riguardo è tanto affascinante quanto insidioso. Le testimonianze letterarie più antiche sull’opera di Tucidide non sono anteriori al I secolo a. C.
Per l’edizione critica cf. M. Patillon (texte établi et traduit par), Corpus rhetoricum. Ano nyme, Préambule à la rhétorique. Aphthonios, Progymnasmata. Pseudo Hermogène, Progymna smata, Paris 2008 (CUF). Non discuterò qui la presunta paternità ermogeniana dello scritto, ma rimando all’introduzione curata da Patillon (alle pp. 165 170) per l’edizione del testo. Infatti Patillon (texte établi et traduit par), Corpus rhetoricum (come n. 486), 183, traduce: «De même l’histoire d’Hérodote et l’ouvrage de Thucydide sont des œuvres narratives, tandis que l’anecdote d’Arion, celle d’Alcméon sont des récits». Si noti, tra l’altro, che Patillon non mette in corsivo «histoire» in questo punto. Invece qualche rigo prima egli si era servito del corsivo, per segnalare il titolo dell’Iliade e dell’Odissea. Cf. Patillon (texte établi et traduit par), Corpus rhetoricum (come n. 486), 168.
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Diodoro Siculo, se non si limita a definire il racconto tucidideo una trattazione (πραγματεία: XIV, 84, 6), lo chiama ἱστορία in almeno due occasioni: XII, 37, 2; XIII, 42, 5. Dionisio di Alicarnasso, nel suo opuscolo dedicato a Tucidide, parla in più occasioni dell’opera dell’Ateniese come di una ἱστορία; ma a un certo punto egli dice anche che non occorre provare l’imparzialità di Tucidide a quanti ne hanno letto «le storie»: παραδείγματα δὲ περὶ αὐτῶν φέρειν οὐ δέομαι τοῖς διεληλυθόσιν αὐτοῦ τὰς ἱστορίας (Su Tucidide 8, 3). In questo preciso caso, la menzione dell’opera mediante il plurale ἱστορίαι, invece che col semplice singolare – anch’esso sfruttato dal critico di Alicarnasso in tanti altri passi del citato opuscolo –, è tutt’altro che banale; ed essa può forse già riflettere il titolo effettivamente esibito dai libri tucididei in esemplari dell’epoca, cioè quello che poi leggiamo nel P.Oxy. LVII 3890⁴⁸⁹ e quindi nel ramo α. Ma a Dionisio di Alicarnasso siamo debitori di notizie ben più importanti e attraenti. Infatti, nella stessa operetta l’erudito si sofferma a un certo punto sul valore delle demegorie e dei dialoghi presenti nel racconto tucidideo e, appoggiandosi tra l’altro all’autorità dello storico Cratippo, egli sostiene che Tucidide aveva riconosciuto da sé i limiti di queste parti del suo lavoro. Ma ecco esattamente cosa dice a un certo punto Dionisio: ὧν προνοούμενος ἔοικεν ἀτελῆ τὴν ἱστορίαν καταλιπεῖν, ὡς καὶ Κράτιππος ὁ συνακμάσας αὐτῷ καὶ τὰ παραλειφθέντα ὑπ’ αὐτοῦ συναγαγὼν γέγραφεν, οὐ μόνον ταῖς πράξεσιν αὐτὰς ἐμποδὼν γεγενῆσθαι λέγων, ἀλλὰ καὶ τοῖς ἀκούουσιν ὀχληρὰς εἶναι⁴⁹⁰. τοῦτό γέ τοι συ νέντα αὐτὸν ἐν τοῖς τελευταίοις τῆς ἱστορίας φησὶ μηδεμίαν τάξαι ῤητορείαν, πολλῶν μὲν κατὰ τὴν Ἰωνίαν γενομένων, πολλῶν δ’ ἐν ταῖς ᾿Aθήναις, ὅσα διὰ διαλόγων καὶ δημηγοριῶν ἐπράχθη (De Thuc. 16, 2). La considerazione di questi problemi sembra avere indotto Tucidide a lasciare incompiuta la sua storia, come anche Cratippo, che fu suo contemporaneo e raccolse ciò che quello aveva lasciato da parte, ha scritto, dicendo non solo che i discorsi diretti erano d’ostacolo all’esposizione dei fatti, ma anche che erano molesti per gli ascoltatori; dice inoltre che
In questo papiro il titolo è declinato al genitivo per ovvi motivi: infatti esso accompagna il numero del libro effettivamente contenuto dal rotolo. Quanto all’uso del plurale, basti dire: naturalmente Tucidide non compose più storie, ma una soltanto e di un solo tema. La discre panza tra contenuto del testo e il titolo al plurale poneva problemi già agli antichi. Come sopra visto, l’autore dello scolio a Tucidide, IV, 135, ll. 8 12, protestava in merito: ὁ Θουκυδίδης οὐ διεῖλεν εἰς ἱστορίας, ἀλλὰ μίαν συνεγράψατο. καὶ δῆλον ἐκ τῆς διαφωνίας τῶν κριτικῶν· οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν διεῖλον εἰς ὀκτώ, οἱ δὲ εἰς ιγʹ, τὴν πρώτην εἰς βʹ καὶ τὰς ἄλλας ἑπτὰ εἰς ιαʹ. In merito cf. supra n. 472. Su Cratippo e la ricezione aurale dell’opera tucididea molto si è scritto a partire dal famoso saggio di F. Benedetto, Lo storico Cratippo, in Atti della Reale Accademia delle scienze di Torino 44 (1908/1909), 379 395.
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Tucidide, proprio perché lo aveva capito, non inserì discorsi diretti nelle parti finali della storia, sebbene molti avvenimenti in Ionia e ad Atene si svolsero a seguito di colloqui e di discorsi deliberativi⁴⁹¹.
Il brano è stato e continua a essere vivacemente discusso per vari motivi. Per ciò che concerne il nostro argomento, va rilevato quanto segue: alcuni studiosi concedono pieno credito alla notizia, secondo la quale Cratippo fosse contemporaneo di Tucidide (ὡς καὶ Κράτιππος, ὁ συνακμάσας αὐτῷ… γέγραφεν) e attribuiscono per giunta a Cratippo le parole ἐν τοῖς τελευταίοις τῆς ἱστορίας. Questa almeno fu la presa di posizione di Wilhelm Roscher, autore di un libro ancora oggi fondamentale sulla questione tucididea, e poi di altri di studiosi, come Wilhelm Schmid e Karl Julius Beloch⁴⁹². Dunque, ἐν τοῖς τελευταίοις τῆς ἱστορίας potrebbero essere parole di un personaggio ancora attivo nei primi decenni del IV secolo a. C. Inteso così questo punto, i tre studiosi ritengono che al tempo di Cratippo il testo tucidideo non fosse ancora diviso in libri. Altrimenti Cratippo non avrebbe indicato così sommariamente l’attuale ottavo libro, dove effettivamente i discorsi diretti mancano del tutto o quasi. Ammesso ora, ma non concesso, che tale interpretazione sia giusta, è sorprendente che nessuno dei tre studiosi abbia dato rilievo a un aspetto implicito nel loro discorso. Se infatti ἐν τοῖς τελευταίοις τῆς ἱστορίας sono davvero parole di Cratippo e se Cratippo fu davvero attivo nei primi decenni del IV secolo a. C., allora è evidente che l’opera tucididea era dunque già chiamata – qui ci soffermiamo sulla semplice denominazione, senza supporre implicazioni librarie⁴⁹³ – ἱστορία in quel periodo. L’implicazione, se appunto sono valide le condizioni indicate, è di fondamentale importanza per la storia dei significati di ἱστορία prima ancora che per la denominazione del lavoro tucidideo. Se le cose andarono davvero così, è chiaro che la stessa opera di Erodoto era già a quel tempo chiamata ἱστορία. Le conclusioni fin qui tratte dal passo di Dionisio presuppongono, come detto, la piena validità del giudizio di Roscher, ovvero che Dionisio abbia citato proprio alla lettera Cratippo nel punto indicato e che Cratippo sia davvero vis Ho tradotto ὧν προνοούμενος ἔοικεν ἀτελῆ τὴν ἱστορίαν καταλιπεῖν con qualche adatta mento, per ricavare meglio il senso delle parole di Dionisio. Cf. Roscher, Leben, Werk und Zeitalter des Thukydides (come n. 467), 561; W. Schmid, Noch ein Mal Kratippos, in Philologus LII (1894), 118; K.J. Beloch, Griechische Geschichte, 2. neuge staltete Auflage, III: Bis auf Aristoteles und die Eroberung Asiens, zweite Abteilung, Berlin Leipzig 1923, 8. Sulla differenza tra meri appellativi, o semplici denominazioni, e titoli veri e propri dei prodotti letterari abbiamo già riflettuto nella Parte I di questo lavoro.
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suto tra V e IV secolo a. C. Ma i due presupposti sono meno solidi di quanto Roscher credesse. Almeno è da riconoscere che vari filologi contemporanei non intendono il brano in questa maniera, cioè non ritengono che ἐν τοῖς τελευταίοις τῆς ἱστορίας siano proprio parole di Cratippo⁴⁹⁴. Inoltre, la stessa figura di Cratippo ha contorni incerti: se alcuni lo vogliono più o meno contemporaneo di Tucidide⁴⁹⁵, altri, per differenti ragioni, ovvero per altre notizie a nostra disposizione, lo ritengono vissuto in età ellenistica⁴⁹⁶. Dunque, dal passo sin qui esaminato non è possibile, allo stato attuale, provare con assoluta sicurezza che l’opera tucididea fosse chiamata ἱστορία già nei primi decenni del IV secolo a. C. Ad ogni modo, non è neppure improbabile che le cose siano andate in questo modo. D’altra parte, è pur vero che troppo poco sappiamo delle primissime fasi di circolazione e trasmissione dell’opera di Tucidide – torneremo a toccare l’argomento in chiusura di questo volume, in una appendice dedicata alle Elleniche di Senofonte – e quindi la questione della sua iniziale denominazione resta incerta per vari motivi. Ben altro discorso occorre fare per il titolo esibito dal ramo β. Che non si tratti di titolo scelto da Tucidide, è ovvio dopo tutto quel che s’è detto. Ciononostante, συγγραφή si adatta molto bene alla maniera di esprimersi dello storico ateniese, la quale sarà stata poi quella dei suoi concittadini. Giacché proprio
Basti vedere in proposito la traduzione del passo curata da G. Aujac per la sua edizione critica del De Thucydide, apparsa nella CUF, Paris 22002, 64. Degna di nota in particolare la posizione di E. von Leutsch, Kratippos und Xenophon, in Philologus 32 (1873), 97, secondo il quale Cratippo non sarebbe altro che uno pseudonimo usato da Senofonte; lo stesso Senofonte cf. l’inizio del terzo libro delle Elleniche aveva del resto pubblicato l’Anabasi sotto il nome di Temistogene di Siracusa. Per un quadro delle ipotesi e delle datazioni avanzate tra il XIX e gli inizi del XX secolo: W.K. Prentice, Thucydides and Cratippus, in CPh 22/4 (1927), 399 408; per una nuova analisi della documentazione cf. S. Accame, Cratippo, in MGR 6 (1978), 185 212; G.S. Shrimpton, Theopompus the Historian, Montreal 1991, 183 195. Del resto, anche l’interpretazione di ἐν τοῖς τελευταίοις τῆς ἱστορίας meriterebbe in sé e per sé di essere riformulata, per essere accettabile. Una divisione del testo tucidideo in più rotoli deve esserci stata senz’altro anche agli inizi, data appunto la lunghezza del testo. Tutt’al più, ci possiamo interrogare sull’utilità o sull’opportunità di un rimando puntuale alle parti finali dell’opera nei primi decenni del IV secolo a. C., sempre se diamo qui per buona l’idea di Roscher e di quanti vogliono Cratippo vissuto a quell’epoca. Tucidide non era ancora un classico e non aveva senso fare rimandi precisi a questo o quel rotolo/libro, tanto più che di copie dell’opera dovevano esservene pochissime e non v’era una divisione materiale del testo nota a tutti (ovvero per così dire “canonica”), alla quale fare senz’altro riferimento. In questo ordine di idee, si comprende facilmente che un personaggio vissuto nei primi decenni del IV secolo a. C. potesse fare rimando all’attuale ottavo libro di Tucidide semplicemente mediante le parole ἐν τοῖς τελευταίοις τῆς ἱστορίας.
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Tucidide non aveva esitato a definire lo scritto di un suo rivale una ξυγγραφή (secondo l’uso del suo tempo con la lettera iniziale ξ invece che σ). È il passo famoso del libro I, 97, 2, in cui Tucidide giustifica la lunga digressione sui fatti avvenuti in Grecia dal 479 al 432 a. C., la cosiddetta pentecontaetia, e parla del contemporaneo Ellanico in questi termini: ἔγραψα δὲ αὐτὰ καὶ τὴν ἐκβολὴν τοῦ λόγου ἐποιησάμην διὰ τόδε, ὅτι τοῖς πρὸ ἐμοῦ ἅπασιν ἐκλιπὲς τοῦτο ἦν τὸ χωρίον καὶ ἢ τὰ πρὸ τῶν Μηδικῶν Ἑλληνικὰ ξυνετίθεσαν ἢ αὐτὰ τὰ Μηδικά· τούτων δὲ ὅσπερ καὶ ἥψατο ἐν τῇ ᾿Aττικῇ ξυγγραφῇ Ἑλλάνικος, βραχέως τε καὶ τοῖς χρόνοις οὐκ ἀκριβῶς ἐπεμνήσθη. Scrissi queste cose e feci una digressione rispetto al discorso principale per questo motivo: perché questo arco di tempo è stato tralasciato da tutti i miei predecessori; in effetti, essi trattarono o della storia greca anteriore alle guerre persiane o proprio delle guerre persiane (l’unico a essersene occupato, Ellanico ἐν τῇ ᾿Aττικῇ ξυγγραφῇ, ne fece ricordo brevemente e senza precisione cronologica).
Quella di Ellanico poteva quindi essere chiamata o considerata una ᾿Aττικὴ ξυγγραφή. Puntuale e precisa per un lato, l’indicazione tucididea è generica dall’altro e il suo esatto valore è quindi incerto. I moderni tendono a non vedervi quel che noi riteniamo sia un titolo. Si tratterebbe in realtà di una mera denominazione applicata allo scritto di Ellanico. In ogni caso non v’è tra gli studiosi pieno consenso sulla questione. Ecco una rassegna dei lavori (traduzioni, commenti o altro) da me consultati: – Lorenzo Valla traduceva latinamente “in Attica historia”: cf. M. Chambers, Valla’s translation of Thucydides in Vat. Lat. 1801. With the reproduction of the codex, Città del Vaticano 2008, 39. – K.W. Krüger (herausg. von), ΘΟΥΚΥΔΙΔΟΥ ΞΥΓΓΡΑΦΗ (come n. 466), 111, collega la notizia tucididea a una di Arriano, An. 6, 16, 5, in cui si legge tra l’altro ἐν τῇ Ἰνδικῇ ξυγγραφῇ, ma non si pronuncia sull’esatto valore del passo. Krüger nota peraltro che lo scritto di Ellanico è indicato nelle fonti piuttosto «unter dem Namen ᾿Aτθίς». – R. Shilleto, Thucydidis I. With Collation of the Two Cambridge Mss. and the Aldine and Juntine Editions, Cambridge 1872, traduce ᾿Aττικὴ ξυγγραφή con le parole «Attic compilation». – A. Firmin Didot (traduction française par), Histoire de la guerre du Péloponnèse, par Thucydide, Paris 1833, 149, rende invece: «dans son histoire de l’Attique». – Lievemente, e ciò nonostante significativamente diversa, la versione di J. de Romilly, Thucydide. La guerre du Péloponnèse, I, Paris 1953, 65: «dans son Histoire de l’Attique», ovvero con «Histoire» con la prima lettera maiuscola e tuttavia senza corsivo, usuale tra i moderni per segnalare un titolo.
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G. Donini (a cura di), Le storie di Tucidide, I, Torino 1982, 213, interpreta in questo modo (cito più estesamente): «e colui che si è effettivamente occupato di questi avvenimenti, Ellanico nella sua storia dell’Attica». Dunque, lo studioso non ravvisa un titolo. L. Canfora (a cura di), Tucidide. La guerra del Peloponneso (libri I–III), I, Roma 1986, traduce con Atthis, cioè col titolo che gli scritti sulla storia attica assunsero, in verità, solo successivamente (su questo titolo cf. per es. Luc., Quomodo historia conscribenda sit, cap. 32). S. Hornblower, A Commentary on Thucydides, vol. I, Oxford 1991, 148, non si sofferma sul problema. Per F. Jacoby, ξυγγραφή possiede nel passo del lib. I, 97 grosso modo il valore che λόγος riveste per Erodoto, laddove questi ricorda gli scritti di Ecateo. Dunque, ᾿Aττικὴ ξυγγραφή non corrisponderebbe a ciò che noi intendiamo per titolo; sarebbe un semplice appellativo, privo almeno di sicure implicazioni a livello librario⁴⁹⁷.
La presa di posizione di Jacoby sembra la più giustificata e prudente. In effetti non abbiamo elementi in grado di contestualizzare e quindi chiarire l’esatto valore della indicazione tucididea. Non sappiamo, cioè, come Ellanico avesse organizzato l’esordio del suo testo, né come lo scritto si presentasse nei certamente pochissimi esemplari allora disponibili. Rimane comunque assodato che per Tucidide una composizione in prosa di argomento storico potesse essere chiamata ξυγγραφή. Dalla indicazione tucididea si ricava pure il contenuto dell’opera di Ellanico, cioè la storia dell’Attica⁴⁹⁸. Cf. Jacoby, Atthis (come n. 413), 81. Si noti tuttavia che Jacoby non è sempre accurato nell’uso del termine title e a 81 pare quasi contraddirsi sull’esatto valore da riconoscere a ᾿Aττικὴ ξυγγραφή. Per altre considerazioni cf. Luschnat, s.v. Thukydides (come n. 467), coll. 1108 1109. Sull’uso del termine ξυγγραφή tra V e IV secolo a. C. cf. Szlezák, Platon und die Schriftlichkeit (come n. 409), 383 386; L. Edmunds, Thucydides in the Act of Writing, in R. Pretagostini (ed.), Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di B. Gentili, II, Roma 1993, 831 852. Il riferimento all’opera di Ellanico da parte di Tucidide appare, oltre tutto, una concisa annotazione aggiunta solo in un secondo momento al passo, il che complica ulteriormente l’interpretazione del rimando: cf. Jacoby, Atthis (come n. 413), 81 82 e 300, n. 28; D. Ambaglio, L’opera storiografica di Ellanico di Lesbo, Pisa 1980, 43, n. 157; F. Sánchez Jiménez, Sobre el título de las Átides, in Baetica 21 (1999), 273 280 (qui in particolare 276 278, n. 24 compresa); G. Ottone, L’᾿Aττικὴ ξυγγραφή di Ellanico di Lesbo. Una Lokalgeschichte in prospettiva eccentrica, in C. Bearzot F. Landucci, Storie di Atene, storia dei Greci. Studi e ricerche di attidografia, Milano 2010, 53 111 (e in part. 56 59; si veda tra l’altro la n. 8, in cui è discussa altra bibliografia). Più in generale O. Lendle, Die Auseinandersetzung des Thukydides mit Hellanikos, in Hermes 92 (1964), 129 143.
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Sic stantibus rebus, nulla vieta di pensare che anche l’opera tucididea sia stata precocemente chiamata dagli interessati ξυγγραφή. Ed è altrettanto possibile che già nel IV secolo a. C. – quando cioè la pratica della inscriptio libraria prese decisamente a estendersi alla prosa – lo stesso testo tucidideo sia stato designato come ξυγγραφή in qualche esemplare in circolazione⁴⁹⁹. Questa ipotesi, per quanto teoricamente ammissibile, si scontra però con la mancanza di riscontri certi per l’epoca. E rimane pertanto una supposizione. Del resto, converrà qui rilevare che Senofonte, pur continuando e completando, alla maniera che vedremo, il racconto tucidideo sulla guerra del Peloponneso, si è sempre ben guardato dal servirsi del termine ξυγγραφή nella sua propria prosa⁵⁰⁰. La parola in effetti non ricorre, se nulla mi è sfuggito, neppure una volta nei suoi scritti. L’assenza è notevole, se si pensa che Tucidide si era anche servito del verbo ξυγγράφω, per specificare la natura del suo lavoro compositivo. Passando a Dionisio di Alicarnasso, notiamo poi che egli non esita a chiamare συγγραφή la prosa storica in generale – si veda Epistola a Pompeo Gemino 6, 3 –, tuttavia non v’è traccia del fatto che egli conoscesse l’opera tucididea sotto un titolo del genere. Ricapitolando, possiamo dire che il ramo β presenta un titolo alternativo per l’opera tucididea. È molto probabile, ma non assolutamente sicuro, che già Libanio leggesse Tucidide sotto questo titolo; e prima ancora lo Pseudo-Ermogene, se è giusta la datazione dei suoi Progymnasmata al III secolo d. C. Restano ad ogni modo incerti l’epoca e l’ambiente responsabile di siffatta intitolazione. Concludo con una nota: anche il titolo del ramo β ha conosciuto nel corso della tradizione l’alternanza singolare/plurale. È quanto si ricava da uno scolio segnalato da Kleinlogel, Geschichte des Thukydidestextes (come n. 483), 126, dove si legge ἐν τῇ τετάρτῳ τῶν συγγραφῶν, e da altra documentazione segnalata da Karl Hude nell’apparato critico della sua editio maxima di Tucidide e ancora di recente da Stefano Martinelli Tempesta⁵⁰¹.
L’abitudine degli antichi a chiamare un’opera in una data maniera non aveva tuttavia in forza ripercussioni librarie. Lo abbiamo rilevato sopra in più di un caso. Sulla ricezione di Tucidide nell’antichità si vedano, oltre alle pagine dedicate alla que stione da W. Roscher, O. Luschnat e H.G. Strebel: S. Hornblower, The Fourth Century and Hel lenistic Reception of Thucydides, in JHS 115 (1995), 47 68; R. Nicolai, Ktêma es aei. Aspetti della fortuna di Tucidide nel mondo antico, in RFIC 123 (1995), 5 26 (in traduzione inglese: Ktêma es aei. Aspects of the Reception of Thucydides in the Ancient World, in Oxford Readings in Classical Studies. Thucydides, ed. by J. Rusten, Oxford 2009, 381 404). S. Martinelli Tempesta, Nuovi manoscritti copiati da Giorgio Trivizia, in SMU VIII IX (2010 2011), 410.
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6 Tucidide senza seguaci Pur rinunciando all’esordio bipartito tanto caro alla tradizione precedente, anche Tucidide mantenne dunque il legame col testo, per indicare il proprio nome e l’argomento trattato. Su altri aspetti compositivi lo storico ateniese si lasciò però alle spalle lo stesso Erodoto. Il sistema di formule elaborato per aprire, fare avanzare e chiudere ogni sezione annalistica, costituisce una forte novità nell’arte della prosa dell’epoca. In questo modo Tucidide cercò di imporre al suo vasto racconto una struttura chiara e definita. Da questo punto di vista egli è stato un geniale “architetto” della composizione letteraria. Se è lecito qui un paragone, si potrebbe dire che lo storico cercò di compiere nel campo della prosa storica ciò che Fidia aveva realizzato con i frontoni e le metope del Partenone: comporre le numerose sezioni del tema prescelto, in modo da renderle intercomunicanti tra loro e farne egualmente parti di un grande tutt’uno, dove regna l’armonia. Nonostante tali eccezionali meriti, la soluzione adottata dallo storico ateniese, al fine poi di assicurare alle singole unità narrative il suo nome e la indicazione del tema generale trattato, non ebbe fortuna, a quanto ne sappiamo, con la successiva generazione di storici. Certo, dopo Tucidide si iniziò a prestare seria attenzione alla divisione in libri di opere letterarie particolarmente estese e pare che lo storico Eforo di Cuma fornisse addirittura ogni libro di un proemio⁵⁰². Tuttavia, l’ateniese Senofonte e con lui certamente altri storici del IV secolo a. C. non pensarono affatto di ricorrere a un sistema di formule aventi le funzioni di quelle tucididee. Su questo punto così importante Tucidide non fu “continuato”. La via intrapresa dalla successiva generazione fu un’altra: quella già coltivata dagli autori dei testi drammatici, quella stessa che usiamo ancora oggi. Si passò all’epigrafe libraria.
Si veda in proposito A. Corcella, L’opera storica di Teopompo e le realtà librarie del IV secolo a.C., in Teopompo, Elleniche, libro II. PSI 1304, a cura di L. Canfora R. Otranto, Bari 2013, 25 74, qui in part. 44.
VI Senofonte e la inscriptio libraria 1 Deduzioni a partire dai proemi Da Ecateo a Tucidide tre generazioni di storici rimangono legati al brano d’esordio, per presentare sé stessi e il rispettivo lavoro. È a principio del testo, ma pur sempre nel testo, che essi sentono il dovere di soddisfare tale esigenza. D’altra parte, è anche vero che già con Erodoto è ormai in atto un processo di modernizzazione delle forme di presentazione della prosa letteraria. La vecchia formula introduttiva «Così dice il tale», tanto utile sino ad allora alla declamazione della prosa a viva voce di fronte a un uditorio, è ormai abbandonata. Le subentra un incipit epigrammatico: ῾Ηροδότου ‘Αλικαρνησσέος ἱστορίης ἀπόδεξις ἥδε. In effetti, quello di Erodoto non è più un semplice discorso elaborato per l’hic et nunc, ma un eccezionale lascito scritto alla posterità, una composizione che in ampiezza e in importanza oltrepassa le finalità di una semplice performance davanti a un gruppo di ascoltatori. Tuttavia, l’indagatore di Alicarnasso, sviluppando l’enunciato iniziale con una serie di spiegazioni sulle finalità dell’opera sua e introducendo così il primo capitolo, si mantiene anch’egli, nonostante tutto, decisamente ancoràto al testo, per presentare sé stesso e il suo lavoro. Il passaggio all’epigrafe libraria deve dunque ancora attendere, almeno per la prosa di argomento storico⁵⁰³. Anche Tucidide, nonostante la spinta innovatrice del ricercatore di Alicarnasso, rimase fermamente attaccato alle maglie del racconto, per presentare sé stesso e il suo racconto. A ben vedere, il suo è in proposito quasi un passo indietro. Infatti, le coordinate necessarie a inquadrare e recepire la narrazione sono offerte dallo storico non solo all’inizio assoluto del testo, com’era avvenuto salvo eccezione sino ad allora, ma anche in chiusura di ogni sezione annalistica, come abbiamo visto. A riprendere dunque l’ordito della prosa, laddove l’aveva lasciato Erodoto, e a recidere l’ultimo filo, che legava il nome dell’autore e la denominazione della composizione (o una concisa indicazione di contenuto) alla sede esordiale, fu così un altro grande scrittore ateniese, una generazione circa più giovane di Tucidide: Senofonte, figlio di Grillo, del demo attico di Erchia. Già l’inizio di tutti gli scritti senofontei presenta in proposito un primo segno di una rivoluzione appena consumata. Il segno è negativo, ma non per questo meno evidente. Si tratta di un’assenza: Senofonte non dichiara mai in apertura il suo nome. Questa Si veda in proposito anche K. von Fritz, Die griechische Geschichtsschreibung. Von den Anfängen bis Thukydides, I, Berlin 1967, 105. https://doi.org/10.1515/9783110703740 014
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mancanza è tanto più notevole, se si considera che Senofonte non rinuncia affatto a cominciare il discorso in prima persona. Si legga l’inizio del suo Agesilao (1, 1): Οἶδα μὲν ὅτι τῆς ᾿Aγησιλάου ἀρετῆς τε καὶ δόξης οὐ ῥᾴδιον ἄξιον ἔπαινον γράψαι, ὅμως δ’ ἐγχειρητέον. οὐ γὰρ ἂν καλῶς ἔχοι εἰ ὅτι τελέως ἀνὴρ ἀγαθὸς ἐγένετο, διὰ τοῦτο οὐδὲ μειόνων ἂν τυγχάνοι ἐπαίνων. So che non è facile scrivere un elogio degno delle virtù e della fama di Agesilao. Ma bisogna tentare: non sarebbe accettabile se, proprio per il fatto di essere stato un uomo di così perfetto valore, non ricevesse neppure lodi inferiori al dovuto⁵⁰⁴.
Si legga pure l’inizio della Ciropedia (I, 1– 2): Ἔννοιά ποθ’ ἡμῖν ἐγένετο ὅσαι δημοκρατίαι κατελύθησαν ὑπὸ τῶν ἄλλως πως βουλομένων πολιτεύεσθαι μᾶλλον ἢ ἐν δημοκρατίᾳ, ὅσαι τ’ αὖ μοναρχίαι, ὅσαι τε ὀλιγαρχίαι ἀνῄρηνται ἤδη ὑπὸ δήμων, καὶ ὅσοι τυραννεῖν ἐπιχειρήσαντες οἱ μὲν αὐτῶν καὶ ταχὺ πάμπαν κατε λύθησαν, οἱ δὲ κἂν ὁποσονοῦν χρόνον ἄρχοντες διαγένωνται, θαυμάζονται ὡς σοφοί τε καὶ εὐτυχεῖς ἄνδρες γεγενημένοι. πολλοὺς δ’ ἐδοκοῦμεν καταμεμαθηκέναι καὶ ἐν ἰδίοις οἴκοις τοὺς μὲν ἔχοντας καὶ πλείονας οἰκέτας, τοὺς δὲ καὶ πάνυ ὀλίγους, καὶ ὅμως οὐδὲ τοῖς ὀλίγοις τούτοις πάνυ τι δυναμένους χρῆσθαι πειθομένοις τοὺς δεσπότας. ἔτι δὲ πρὸς τού τοις ἐνενοοῦμεν ὅτι… Ci avvenne un giorno di riflettere su quanti governi democratici furono rovesciati da uomini che preferivano regimi diversi e quante monarchie e quante oligarchie furono abbattute dalle forze del popolo e quanti individui, dopo aver tentato di instaurare un regime ti rannico, alcuni furono spazzati via immediatamente, altri, per quanto breve sia stata la durata del loro potere, vengono tuttora ricordati con ammirazione per il loro talento e la loro fortuna. Ci accadeva di notare che spesso anche nelle case private i padroni, che siano molti o pochissimi i servi di cui dispongono, non riescono comunque a farsi obbedire. In più riflettevamo che…⁵⁰⁵.
L’assenza del nome dell’autore nell’esordio risalta ancora di più agli occhi, se consideriamo il brano d’apertura dello scritto Sull’arte equestre (cap. 1, 1), dove Senofonte non esita a menzionare un suo “rivale” in materia, Simone di Atene: Ἐπειδὴ διὰ τὸ συμβῆναι ἡμῖν πολὺν χρόνον ἱππεύειν οἰόμεθα ἔμπειροι ἱππικῆς γεγενῆσθαι, βουλόμεθα καὶ τοῖς νεωτέροις τῶν φίλων δηλῶσαι ᾗ ἂν νομίζομεν αὐτοὺς ὀρθότατα ἵπποις προσφέρεσθαι. συνέγραψε μὲν οὖν καὶ Σίμων περὶ ἱππικῆς, ὃς καὶ τὸν κατὰ τὸ Ἐλευσίνιον ᾿Aθήνησιν ἵππον χαλκοῦν ἀνέθηκε καὶ ἐν τῷ βάθρῳ τὰ ἑαυτοῦ ἔργα ἐξετύπωσεν· ἡμεῖς γε
La traduzione, da me rimaneggiata in qualche punto, è di G. D’Alessandro (a cura di), Senofonte: Costituzione degli Spartani Agesilao, Milano 2011, 46. La traduzione è di F. Ferrari (a cura di), Senofonte. Ciropedia, Milano 20135 (Classici greci e latini), 76.
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μέντοι ὅσοις συνετύχομεν ταὐτὰ γνόντες ἐκείνῳ, οὐκ ἐξαλείφομεν ἐκ τῶν ἡμετέρων, ἀλλὰ πολὺ ἥδιον παραδώσομεν αὐτὰ τοῖς φίλοις νομίζοντες ἀξιοπιστότερα εἶναι ὅτι κἀκεῖνος κατὰ ταὐτὰ ἡμῖν ἔγνω ἱππικὸς ὤν· καὶ ὅσα δὴ παρέλιπεν ἡμεῖς πειρασόμεθα δηλῶσαι. Πρῶτον δὲ γράψομεν ὡς ἄν τις ἥκιστα ἐξαπατῷτο ἐν ἱππωνίᾳ. τοῦ μὲν τοίνυν ἔτι ἀδα μάστου πώλου δῆλον ὅτι τὸ σῶμα δεῖ δοκιμάζειν· τῆς γὰρ ψυχῆς οὐ πάνυ σαφῆ τεκμήρια παρέχεται ὁ μήπω ἀναβαινόμενος. Per via di un lungo tirocinio nell’equitazione ci consideriamo ormai esperti dell’ippica e perciò desideriamo insegnare agli amici più giovani quale sia, a nostro giudizio, il modo più corretto di comportarsi con i cavalli. Compose un trattato sull’ippica anche Simone, colui che offrì anche il cavallo di bronzo presso l’Eleusinion ad Atene e sul piedistallo fece rappresentare in bassorilievo le sue opere. Ad ogni modo, noi non elimineremo certo dal nostro lavoro le conclusioni su cui ci siamo trovati d’accordo con lui, ma con molto più piacere le trasmetteremo agli amici ritenendole molto più credibili per il fatto che anch’egli, trattandosi di uno specialista in materia, ebbe le nostre stesse opinioni; e quanto invece egli tralasciò, noi tenteremo di esporlo. In primo luogo, scriveremo sul modo di evitare per quanto possibile di essere ingannati nell’acquisto di un cavallo. Di un puledro ancora non domato è evidente che bisogna giudicarne il fisico. Infatti, se non ancora montato, l’ani male non offre indicazioni sufficientemente chiare sulla sua indole⁵⁰⁶.
E così è per tutti gli altri suoi scritti, a prescindere dal loro genere: Senofonte rinuncia a servirsi del brano di apertura per presentarsi come autore, cioè a dichiarare il proprio nome. Egli non sfrutta a questo scopo neppure altri luoghi del testo, meno che mai la fine della narrazione, nonostante egli avesse ben presente l’esempio tucidideo. Naturalmente mancanze di questo tipo non devono essere interpretate come altrettante rinunce a una rivendicazione di proprietà letteraria. Piuttosto bisogna rilevare che a quel tempo l’indicazione di paternità era stabilmente attesa per opere di una certa ampiezza. Solo che v’erano due strade, o modalità, per
Per l’edizione critica del greco cf. É. Delebecque (texte établi et traduit par), Xenophon. De l’art équestre, Paris 1978 (CUF). Per la traduzione italiana e il commento del brano d’esordio ho tenuto conto sia di S. Salomone (traduzione, commento, note e lessico tecnico a cura di), Senofonte. Trattato d’Ippica, Milano 1980 (Testi e documenti per lo studio delle antichità, 66), 65 (traduzione non sempre impeccabile), sia di G. Cascarino (traduzione, commento e illustrazioni a cura di), Senofonte. L’arte della cavalleria. Il manuale del comandante della cavalleria, Rimini 2007 (Gli archi), 43. L’esordio dell’opera è interessante anche per la menzione di Simone, autore di un trattato περὶ ἱππικῆς. Senofonte nota tra l’altro che Simone τὰ ἑαυτοῦ ἔργα ἐξετύπωσεν sul piedistallo [della statua di bronzo consacrata all’Eleusinion]: a cosa esattamente alluda qui Senofonte, non è chiaro. É. Delebecque interpreta τὰ ἑαυτοῦ ἔργα come «ses exploits» (p. 58) o «ses exercises» (p. 156); S. Salomone traduce «le proprie benemerenze»; G. Cascarino (p. 43) «le sue opere». E.C. Marchant (With an English Translation by), Xenophon. Scripta minora, London Cambridge Massachusetts 21946, interpreta τὰ ἑαυτοῦ ἔργα ἐξετύπωσεν in questo modo: «(he) recorded his own feats in relief on the pedestal» (p. 297).
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esprimerla: una “arcaica”, nel testo; un’altra “moderna”, già praticata dai drammaturghi, separata dal testo, ma in ogni caso sul rotolo che lo conteneva. Senofonte avrà dunque adottato quest’ultima. Non ci sono motivi per dubitarne. Se le cose fossero andate diversamente, la produzione letteraria dell’Ateniese avrebbe poi sofferto di gravi problemi di attribuzione e sarebbe stata da questo punto di vista perturbata. Oltre tutto, senza una inscriptio, mediante la quale Senofonte si assicurava la “proprietà” dei suoi lavori, non si comprenderebbero quei punti, in cui egli parla di sé in prima persona: ciò che avviene non solo nel proemio, ma talvolta anche in chiusura di alcuni suoi scritti, per esempio nel finale della Ciropedia ⁵⁰⁷ o in quello delle Elleniche, dove egli traccia una netta linea di confine tra il suo operato di storico e quello di possibili continuatori⁵⁰⁸. Alla stessa conclusione conduce la valutazione di un altro aspetto notevole, che caratterizza però solo alcune delle opere dell’Ateniese. Si tratta di un’ulteriore assenza, che si nota per esempio all’inizio dell’Anabasi, la prima grande composizione in prosa di Senofonte. Infatti, nell’esordio, non solo è assente la menzione del nome dell’autore⁵⁰⁹, ma manca questa volta anche una qualsivo-
Xen., Cyr. VIII, 8, 27: Ἐγὼ μὲν δὴ οἶμαι ἅπερ ὑπεθέμην ἀπειργάσθαι μοι. φημὶ γὰρ Πέρσας καὶ τοὺς σὺν αὐτοῖς καὶ ἀσεβεστέρους περὶ θεοὺς καὶ ἀνοσιωτέρους περὶ συγγενεῖς καὶ ἀδικωτέρους περὶ τοὺς ἄλλους καὶ ἀνανδροτέρους τὰ εἰς τὸν πόλεμον νῦν ἢ πρόσθεν ἀποδεδεῖχθαι. εἰ δέ τις τἀναντία ἐμοὶ γιγνώσκοι, τὰ ἔργα αὐτῶν ἐπισκοπῶν εὑρήσει αὐτὰ μαρτυροῦντα τοῖς ἐμοῖς λόγοις. «Io credo ormai di aver conseguito lo scopo che mi ero prefisso. In effetti sono convinto di aver dimostrato che i Persiani e le genti che fanno parte del loro impero sono oggi diventati, rispetto al passato, empi verso gli dèi, privi di scrupoli verso i familiari, iniqui verso il prossimo, codardi in guerra. Se qualcuno la pensa diversamente, osservi come si comportano e scoprirà che la loro condotta testimonia a favore delle mie affermazioni». Per la traduzione appena citata, e da me rimaneggiata appena in qualche punto, cf. Ferrari, Senofonte. Ciropedia (come n. 505), 797. Ἐγώ, μοι, τοῖς ἐμοῖς λόγοις: l’insistenza dell’autore sul suo “io” nel brano di chiusa è palese. Xen., Hell. VII, 5, 27: ἐμοὶ μὲν δὴ μέχρι τούτου γραφέσθω· τὰ δὲ μετὰ ταῦτα ἴσως ἄλλῳ μελήσει, «termini qui la mia scrittura: altri forse avrà cura dei fatti successivi». È pur vero che il caso dell’Anabasi è da questo punto di vista sui generis, giacché i manoscritti ci presentano l’opera sotto il nome di Senofonte, che ne fu effettivamente l’autore, ma Senofonte la pubblicò sotto lo pseudonimo di Temistogene di Siracusa. Questo almeno sembra potersi ricavare da Elleniche III, 1 2. L’adozione dello pseudonimo è stata spiegata in vari modi. Senofonte, ateniese d’origine, potrebbe avervi fatto ricorso per riguardo a Sparta, cui si era nel frattempo legato, oppure per favorire la circolazione del suo lavoro di esiliato proprio ad Atene ed evidentemente per evitare di apparire come Lobredner di sé stesso. Cf. L. Breiten bach (erklärt von), Xenophons Hellenica. Zweiter Band, Buch III und IV, Berlin 1874, commento ad locum; K.J. Beloch, Griechische Geschichte, 2. neugestaltete Auflage, II: Bis auf die sophistische Bewegung und den Peloponnesischen Krieg, zweite Abteilung, Straßburg 1916, 22. Del resto, la scrittura dell’Anabasi servì probabilmente a Senofonte a rettificare il giudizio negativo espresso
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VI Senofonte e la inscriptio libraria
glia informazione preliminare sul contenuto dell’opera, o almeno sul tema affrontato nella sua parte iniziale. Non v’è alcun orientamento per il pubblico. Senofonte entra subito in medias res ⁵¹⁰. Ma la tradizione letteraria era stata sino ad allora assai esigente sulla necessità di orientare preliminarmente, cioè nel proemio, i destinatari del racconto. Senofonte non poteva non saperlo. D’altra parte, non v’è ragione di credere che egli infrangesse questa prassi d’esordio così vetusta e radicata senza un valido motivo. Se dunque l’autore comincia in quel modo, lo fa in considerazione di un fatto ben preciso: evidentemente egli era certo che il pubblico, prima ancora di accedere al testo, potesse apprendere in anticipo, per forza di cose, il tema affrontato nello scritto o quantomeno nella parte iniziale. Il che non poteva avvenire se non grazie a una indicazione sullo stesso libro, ossia: mediante un titolo⁵¹¹.
su di lui da un personaggio di nome Sofeneto in un racconto analogo (o persino di eguale titolo): cf. A. Momigliano, s.v. Senofonte, in EI XXXI (1936), 387 389. Come dicevo, l’opera ci è stata però tramandata sotto il nome di Senofonte, il che ha condotto Emonds, Zweite Auflage im Altertum (come n. 323), 22, a postulare due edizioni curate dallo stesso autore: l’una sotto lo pseudonimo di Temistogene, l’altra col suo vero nome. Xen., Anab. I, 1, 1 2: Δαρείου καὶ Παρυσάτιδος γίγνονται παῖδες δύο, πρεσβύτερος μὲν ᾿Aρταξέρξης, νεώτερος δὲ Κῦρος· ἐπεὶ δὲ ἠσθένει Δαρεῖος καὶ ὑπώπτευε τελευτὴν τοῦ βίου, ἐβούλετο τὼ παῖδε ἀμφοτέρω παρεῖναι. ὁ μὲν οὖν πρεσβύτερος παρὼν ἐτύγχανε· Κῦρον δὲ μεταπέμπεται ἀπὸ τῆς ἀρχῆς ἧς αὐτὸν σατράπην ἐποίησε, καὶ στρατηγὸν δὲ αὐτὸν ἀπέδειξε πάντων ὅσοι ἐς Καστωλοῦ πεδίον ἁθροίζονται. ᾿Aναβαίνει οὖν ὁ Κῦρος λαβὼν Τισσαφέρνην ὡς φίλον… . «Due sono i figli nati da Dario e Parisatide: Artaserse il maggiore, Ciro il minore. Ammalato e sentendo ormai prossima la fine, Dario desiderava entrambi i figli accanto a sé. Il maggiore era in verità già accanto a lui. Ciro invece è fatto venire dal dominio di cui [Dario] l’aveva fatto satrapo; lo fece anche comandante di tutti quelli che si radunano nella piana di Castolo. Dunque, Ciro risale verso l’interno avendo con sé Tissaferne come amico…». In questo ordine di idee, è chiaro che il titolo sarà stato collocato almeno all’inizio del primo rotolo dell’Anabasi, in modo appunto da anticipare la lettura del testo. Data la lunghezza dell’opera, fu senz’altro necessaria una ripartizione del testo in più unità librarie. Sulle modalità adottate al fine di garantire la ordinata successione dei rotoli e quindi delle parti del testo, possiamo pronunciarci solo per via di ipotesi, pensando alla ripetizione della inscriptio del primo libro ai rotoli successivi il che spiegherebbe perfettamente perché il titolo si adatti solo alla parte iniziale dell’opera con l’aggiunta di una numerazione; oppure a reclamantes in chiusura dei rotoli; o a tutt’e due le cose. In merito ai “luoghi” del titolo sul rotolo papiraceo di età ellenistica e romana diremo più avanti. Per l’epoca di Senofonte non disponiamo di evidenze manoscritte utili e pertanto non possiamo che esprimerci per supposizioni. Abbiamo già detto che il titolo dell’Anabasi doveva trovarsi prima del testo. La segnalazione poteva quindi apparire sulla parte iniziale del rotolo tanto sul verso quanto sul recto, o addirittura ma è lecito essere prudenti in merito, visto che non abbiamo evidenze per l’epoca su di una etichetta sporgente dal rotolo stesso. In ciascuno di questi tre casi il pubblico avrebbe preso conoscenza del con
1 Deduzioni a partire dai proemi
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Detto in altri termini, un inizio come quello dell’Anabasi implica senz’altro l’esistenza di un titolo a monte della tradizione dell’opera. Altrimenti, «la forme de l’exposition donnée au premier chapitre n’est guère compréhensible pour qui ne sache d’avance qu’il s’agit d’un récit de cette fameuse Anabase dont tout le monde parlait en Grèce»⁵¹². Carsten Höeg, a cui si deve questa affermazione logicamente rigorosa⁵¹³, non esita di conseguenza ad affermare che Κύρου ἀνάβασις, cioè il nome dell’opera a noi noto per tradizione diretta, sia un titolo d’autore. Una designazione del genere consentiva in effetti di inquadrare perfettamente la prima parte della lunga narrazione⁵¹⁴. Ragionando sulla tecnica di composizione dei proemi e più in generale sulle pratiche letterarie allora vigenti, abbiamo dunque messo a fuoco due aspetti estremamente notevoli, ma “negativi”, degli esordi senofontei, ossia due man-
tenuto del libro prima di accedere al testo vero e proprio. Sulle funzionalità del titolo collocato, invece, in chiusura di rotolo cf. infra, capitolo VIII. C. Höeg, Χενοφῶντος Κύρου ἀνάβασις : Œuvre anonyme ou pseudonyme ou orthonyme?, in Classica et Mediaevalia 11 (1950), 151 179, qui spec. 165. Cf. inoltre C. Höeg, Notules sur l’histoire du livre grec, in Miscellanea Giovanni Mercati, IV, Città del Vaticano 1946, 1 12, qui in part. 4. A favore di questa conclusione C. Höeg fa valere alcuni argomenti. Di uno importante e davvero significativo, relativo alla stabilità del titolo dell’opera nella tradizione pervenuta, di remo nelle pagine seguenti. Un altro argomento, a mio avviso meno stringente, avanzato dallo stesso studioso concerne l’incongruenza tra titolo e contenuti dell’Anabasi. In effetti, dopo il racconto della marcia dei mercenari greci sino al cuore del mondo persiano e dopo la narrazione della morte di Ciro e del loro sbandamento nell’opera è esposta per parecchi libri una lunga catabasi, cioè la difficilissima marcia di ritorno degli stessi mercenari in patria. Tale incon gruenza tra titolo e buona parte dell’opera si spiega, secondo Höeg, solo se la si ritiene voluta da Senofonte, che aveva tutto l’interesse ad accentuare il tema iniziale della narrazione, essendo esso di grande attualità al suo tempo. Meno facilmente si spiegherebbe l’adozione di un titolo del genere in un’epoca successiva, quando ormai si sapeva del contenuto complessivo del racconto senofonteo. A mio avviso, questa ricostruzione è assai meno solida e probativa di quanto Höeg credesse. Incongruenze tra titoli e testi si riscontrano di frequente nella storia dei testi antichi, ma non per questo sono imputabili agli autori degli stessi testi. Al contrario, in molti casi siamo certi che esse derivano dall’operato di copisti, bibliotecari, grammatici o semplici lettori, i quali davano un titolo al loro esemplare semplicemente in considerazione di quanto leggevano a principio del testo. Chi era gravato da esigenze di ordinamento e di semplice catalogazione del proprio possesso librario, spesso teneva conto solo di quanto letto nell’esordio o comunque nella parte iniziale dello scritto. Ad ogni modo, Höeg ha poi ragione nel dire che Κύρου ἀνάβασις era una espressione efficace per indicare in maniera economica tutti quegli episodi legati all’infelice campagna militare di Ciro il Giovane. Su titoli parzialmente corri spondenti al contenuto del rispettivo testo cf. Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 50 52.
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VI Senofonte e la inscriptio libraria
canze⁵¹⁵. E siamo giunti alla conclusione che entrambe siano conseguenza dell’abbandono, da parte dell’autore, di una modalità “arcaica” di presentazione del testo in favore di un’altra, vincolata alla inscriptio libraria. Pervenire a una così importante conclusione grazie all’analisi di alcune mancanze, per quanto significative e ben interpretabili alla luce di tutta una serie di dati di corredo, può forse non essere il modo ideale di provare l’avvenimento di un fatto, specie poi se questo fatto costituisce il cuore e l’obiettivo di una ricerca, com’è nel caso presente. Ma v’è pure un dato positivo, che ci permette di consolidare la ricostruzione appena esposta e di considerarla pienamente provata. Questo dato ha a che vedere con le logiche conseguenze di un titolo a monte della tradizione degli scritti senofontei. Le opere in prosa, di cui ci siamo occupati nei capitoli precedenti, finirono presto o tardi per presentarsi ora sotto un titolo ora sotto un altro, proprio perché il rispettivo autore non aveva provveduto a stabilirne uno. La tradizione delle opere senofontee si dimostra invece, sul titolo, sostanzialmente unitaria e stabile. Il caso più semplice da considerare è ancora una volta quello dell’Anabasi.
2 Sul titolo dell’Anabasi 2.1 Testimonianze antiche Dionisio di Alicarnasso riassume il tema trattato da Senofonte nello scritto in questi termini: (…) τὴν ἀνάβασιν τοῦ νεωτέρου Κύρου, ᾧ καὶ αὐτὸς συνανέβη, μέγιστον ἐγκώμιον ἔχουσαν τῶν συστρατευσαμένων Ἑλλήνων⁵¹⁶. Come si vede, la notizia non riguarda a rigore il titolo dell’opera. Nondimeno, si può dire che ben difficilmente un erudito della sua levatura avrebbe sintetizzato in questo modo (così sommario) il tema effettivo della narrazione, senza disporre di un esemplare del testo già intitolato Κύρου ἀνάβασις. Infatti, la descrizione della spedizione di Ciro occupa solo la prima parte, certamente non maggioritaria, del racconto, cioè i primi otto capitoli dell’attuale primo libro. Se consideriamo la descrizione della battaglia di Cunassa, non superiamo il primo. Il grosso della narrazione, cioè i restanti sei libri, sono in realtà la storia avvincente e im-
Si tratta infatti di due assenze: l’una assoluta, quella del nome dell’autore, l’altra occa sionale, cioè la mancanza in alcuni esordi di una preliminare indicazione sul tema d’inizio o sull’argomento prescelto. Dion. Hal., Ep. ad Pomp. Gem. 4, 1.
2 Sul titolo dell’Anabasi
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pressionante del difficilissimo ritorno dei mercenari greci in patria: propriamente una κατάβασις. Una sicura citazione del titolo dell’opera è invece nel Vocum Hippocratis Glossarium di Galeno, s.v. ὀτίδος: ὀτίδος· τοῦ ὀρνέου, ὃ ᾿Aριστοτέλης ὠτίδα διὰ τοῦ ω καλεῖ· Ξενοφῶν δὲ ἐν τῷ πρώτῳ Κύρου ἀναβάσεως ὀτίδα διὰ τοῦ ο, «otidos: l’uccello che Aristotele chiama ōtida con l’omega; Senofonte invece nel primo libro dell’Anabasi di Ciro (dice) ŏtida con l’omicron»⁵¹⁷. Allo stesso modo l’opera è citata in altre fonti più o meno coeve o anche di epoca più tarda. Per esempio, lo storico Socrate scrive: ὁ ἐν λόγοις δὲ θαυμαστὸς Ξενοφῶν ἔν τε τῇ ἕκτῃ τῆς Κύρου ἀναβάσεως καὶ ἐν τῇ πρώτῃ τῶν Ἑλληνικῶν φησι (…): Historia ecclesiastica VII, 25, 49. Qui come si vede, oltre all’Anabasi, sono menzionate le Elleniche. Nell’Anthologium di Stobeo si fa più volte rimando (cf. per es.: libro III, 2, 46) a quanto si leggeva ἐν τῇ Κύρου ἀναβάσει di Senofonte. Il titolo dell’opera, se nulla mi è sfuggito, è invece citato da Ateneo sempre e solo in forma abbreviata. L’erudito omette il genitivo Κύρου, che pure doveva essere parte della inscriptio originaria. D’altra parte, Ateneo non manca mai di menzionare contestualmente Senofonte in quanto autore. L’omissione del genitivo Κύρου è anche in Diogene Laerzio, nel punto in cui questi dà la lista delle opere senofontee: τήν τ’ ᾿Aνάβασιν (II, 57). Allo stesso modo si comportano altre fonti dopo di lui. Questa frequente omissione non obbliga tuttavia a ritenere per forza che l’opera figurasse, in età tardoantica, in alcuni esemplari sotto il titolo completo e in altri in forma abbreviata (cosa che invece accade, ma in esemplari bizantini e per i motivi che vedremo, per la Κύρου παιδεία e per i Σωκράτους ἀπομνημονεύματα: cf. infra). Tale possibilità dovrebbe essere provata positivamente, ma non abbiamo evidenze manoscritte antiche utili in proposito. La discrepanza appena rilevata nelle citazioni antiche è ad ogni modo molto significativa per il nostro discorso. È evidente infatti che l’opera senofontea era così stabilmente nota sotto il titolo di Κύρου ἀνάβασις, che ormai gli eruditi avevano preso a un certo momento a menzionarla anche tout court come Anabasi di Senofonte. Così del resto, per mera economia, facciamo anche noi moderni in proposito. Che il genitivo Κύρου abbia fatto parte della inscriptio originaria, è certo. Altrimenti il termine ἀνάβασις sarebbe rimasto privo della necessaria specificazione.
Per l’edizione critica, la traduzione e il commento del brano cf. L. Perilli (a cura di), Galeni vocum Hippocratis Glossarium / Galeno: interpretazione delle parole difficili di Ippocrate, Berlin 2017 (Corpus medicorum Graecorum V 13, 1), 244, 355 356.
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VI Senofonte e la inscriptio libraria
L’unitarietà della tradizione antica sul titolo dell’opera, ovvero l’inesistenza di varianti indipendenti l’una dall’altra, risulta da tutto ciò confermata.
2.2 Tradizione manoscritta Tre sono i principali esemplari bizantini dell’opera, il più antico dei quali, databile alla seconda metà del secolo X nella sua parte più antica (ff. 69 – 237) è il Vat. Gr. 1335. Sul codice, testimone anche di altre opere senofontee, cf. ora M. Bandini, La Ciropedia dell’Escorial (come n. 86). Qui mi limito a osservare che il manoscritto, designato come F nell’edizione critica di Paul Masqueray⁵¹⁸, presenta i vari libri dell’Anabasi (ff. 116v–205v) intestati in modo assolutamente uniforme secondo lo schema: genitivo del nome dell’autore, titolo dell’opera al genitivo, numero del libro. Il quadro concreto delle intestazioni librarie dell’opera in questo codice è dunque il seguente: – I libro, f. 116v: ξενοφῶντος · κύρου ἀναβάσεως · αʹ; – II libro, f. 131v: ξενοφῶντος · κύρου ἀναβάσεως · βʹ; – III libro, f. 142r: ξενοφῶντος · κύρου ἀναβάσεως · γʹ; – IV libro, f. 153v: ξενοφῶντος · κύρου ἀναβάσεως δʹ; – V libro, f. 166v: ξενοφῶντος · κύρου ἀναβάσεως εʹ; – VI libro, f. 178v: ξενοφῶντος · κύρου ἀναβάσεως ϛʹ; – VII libro, f. 188v: ξενοφῶντος · κύρου ἀναβάσεως ζʹ. – in chiusura dell’opera, al f. 205v: ξενοφῶντος · κύρου ἀναβάσεως ζʹ. Il manoscritto vaticano è illustre testimone di una delle due famiglie di codici dell’opera. Primario rappresentante dell’altra famiglia è il Par. gr. 1640, indicato come C nell’edizione del Masqueray, dell’anno 1320. La titolatura dei libri, che occupano complessivamente i ff. 124r – 205r, contiene le stesse informazioni, nello stesso ordine di successione. Il singolo libro è però indicato come λόγος, seguito dal relativo numerale. Per esempio, la inscriptio del primo libro – trascrivo qui dal f. 124r, lasciando da parte la punteggiatura – suona: ξενοφῶντος κύρου ἀναβάσεως λόγος πρώτος. Parimenti si legge nella inscriptio dei libri successivi, ai ff. 138v, 147r, 156v, 168r, 179v, 189v, fatto salvo l’aggiornamento del numerale.
Cf. P. Masqueray (texte établi et traduit par), Xénophon: Anabase, tome I (livres I III), Paris 1930; tome II (livres IV VII), Paris 1931; entrambi i volumi sono apparsi nella CUF. L’editore ha avuto cura di registrare la inscriptio esibita dai principali testimoni manoscritti dell’opera, libro per libro.
2 Sul titolo dell’Anabasi
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La inscriptio dei libri (ff. 202r–242v) nel Marc. Gr. 511, del sec. XIV, indicato come M nelle edizioni moderne e appartenente alla stessa famiglia di C, segue anch’essa lo stesso ordine di successione dei dati degli altri due testimoni. Ma essa è arricchita da due elementi particolari. Infatti, Senofonte è qualificato come «retore» – su questa qualifica si veda M. Bandini, Il Tyrannus di Leonardo Bruni: note su tradizione e fortuna, in M. Cortesi (a cura di), Tradurre dal greco in età umanistica, Firenze 2007, 35 – 44, in part. 37– 38 –, mentre le parti dell’opera sono indicate come «storie». La inscriptio del primo libro ha quindi questo tenore: ξενοφῶντος ῥήτορος κύρου ἀναβάσεως ἱστοριῶν πρώτη. Tali codici forniscono dunque un dato unitario sul titolo dell’opera. Nel complesso questo fatto, come sopra accennato, è assolutamente notevole. Nulla di analogo avevamo in effetti osservato sul conto dell’opera di Erodoto, dove a un titolo d’insieme per i vari libri si è a un certo momento affiancato (fino quasi a scalzarlo) un nome specifico per ogni libro, né a proposito dell’opera di Tucidide, per la quale abbiamo due diversi sistemi di titolatura, ciascuno rappresentativo di un ramo preciso della trasmissione bizantina, né sul conto di altri autori (in particolare Ecateo ed Eraclito). Abbiamo così messo a fuoco una differenza importante tra un’opera come l’Anabasi, fornita, secondo quanto già avevamo concluso, di un titolo già dal suo autore, e altre di epoca precedente, diffuse senza averne uno. Stabilità e unitarietà si constatano anche in sede di esame della tradizione del titolo di altre opere senofontee, nonostante alcuni fenomeni particolari. Di ciò tratteremo tuttavia più avanti. Qui conviene invece fare subito un primo bilancio delle analisi compiute⁵¹⁹.
Merita ancora di essere ricordato che nelle fonti l’Anabasi è chiamata talvolta come ᾿Aνα βάσεις: la forma plurale non può ovviamente essere spiegata in funzione dei contenuti del testo e non può risalire a Senofonte. Molto probabilmente (e nondimeno sorprendentemente) questa denominazione al plurale è mera conseguenza della divisione materiale del testo in più rotoli/ libri. In proposito si veda A.W. Persson, Zur Textgeschichte Xenophons, Lund 1915, 160 e n. 3. Non sono poche le opere antiche, il cui titolo è attestato ora al singolare ora al plurale. Nei capitoli precedenti del presente lavoro abbiamo già notato alcuni casi. Per quanto riguarda la produ zione di Senofonte, il passaggio del titolo dalla forma singolare a quella plurale è documentato anche per la Ciropedia. Quest’ultima, come vedremo in dettaglio più avanti, fu pubblicata dall’autore col titolo Κύρου παιδεία. Nella tarda antichità si diffuse tuttavia l’uso di chiamare l’opera anche in forma abbreviata, cioè tout court come Παιδεία, e la tradizione diretta, già di epoca mediobizantina, presenta in qualche caso un titulus brevis di tale tenore. È notevole che tanto la forma completa del titolo quanto quella abbreviata siano state usate anche al plurale. In due manoscritti della prima metà del sec. XIV, cioè il Vat. Gr. 143 e il Vat. Gr. 990, il titolo della Ciropedia (al singolare) è infatti preceduto da tre esametri, il primo dei quali suona αἵδε μὲν αἱ Κύρου εἰσιν ἀγακλειτοῦ παιδεῖαι. Invece, nel Vat. Urb. Gr. 93, copiato da Andrea Leantino ai
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VI Senofonte e la inscriptio libraria
3 Ragioni di una scelta Considerando le forme dell’esordio e osservando aspetti salienti della tradizione diretta e indiretta, siamo giunti alla conclusione che Senofonte fornì l’Anabasi (e lo stesso diremo per altre sue opere) di una inscriptio libraria. Per quali motivi egli optò per questa modalità di presentazione del testo in prosa? Alla domanda si può dare più d’una risposta. Sicuramente Senofonte è tra quegli intellettuali del suo tempo che oramai apprezzano le composizioni letterarie anche nella loro componente materiale, cioè in quanto oggetti scritti, destinati alla conservazione e alla lettura individuale, oltre che alla recitazione di fronte a un uditorio⁵²⁰. Proprio in vista della conservazione tali prodotti avevano bisogno di essere designati. Accanto a questa motivazione di ordine generale è opportuno considerarne altre, ora più ora meno apparentate alla precedente, ma non meno concrete. In effetti Senofonte ha visto, per così dire, svilupparsi sotto i suoi occhi vari generi letterari in prosa ed egli stesso ne ha appassionatamente coltivato più d’uno. Così egli deve avere preso prontamente atto, come certo altri prosatori suoi contemporanei, degli aspetti assai pratici, ovvero economici, offerti da una inscriptio libraria contenente, allo stesso tempo, nome dell’autore e titolo dell’opera. Un brevissimo confronto con Erodoto e Tucidide è in proposito assai utile. I due grandi storici del V secolo a. C. si erano distaccati l’uno a fatica e l’altro mai dalla propria vastissima composizione. Era difficile separarsi da qualcosa che si era plasmato per una vita intera e che si voleva continuare a plasmare, per ricavarne la più bella e originale opera d’arte del genere. Ciò spiega tra l’altro il loro impegno nella formulazione di un brano d’esordio, che rispecchiasse davvero il significato del loro lavoro e delle loro prospettive. Essi
primi del XV secolo, si legge una nota dello stesso copista, che chiama l’opera piuttosto come Παιδεῖαι: διὰ τὸ μὴ εὑρεῖν ἡμᾶς ἀντιβόλαιον γράψαι τοὺς τῆς ἀναβάσεως λόγους, ἐγράφησαν οὗτοι μετὰ τὰς παιδείας: νῦν δ᾽ ὁψίμως μετὰ τὸ γραφῆναι τούτους ηὐρέθησαν καὶ οὗτοι· καὶ χαρτία οὐκ εἰσίν. La nota di Andrea Leantino è al f. 1r, a metà dell’indice, dopo l’indicazione della Ciropedia. Da tale nota apprendiamo dunque che il copista avrebbe voluto trascrivere i libri dell’Anabasi dopo le Παιδεῖαι (μετὰ τὰς παιδείας: così nel manoscritto; la trascrizione μετὰ τῆς παιδείας di C. Stornajolo, Codices Urbinates graeci Bibliothecae Vaticanae descripti, Romae 1895, 137 138, è sbagliata); ma non aveva a disposizione un antigrafo; trascrisse quindi altri testi senofontei; finalmente trovò anche un esemplare dell’Anabasi, ma a quel punto non aveva più pergamena a disposizione. Devo queste preziose indicazioni alla cortesia e alla dottrina di Michele Bandini. Credo che a ciò volesse alludere anche Höeg, Notules (come n. 513), 4, dicendo: «Xenophon, sur ce point aussi, a tiré les conséquences du fait que le livre dans son temps gagnait, de jour en jour, une position de plus en plus autonome, indépendante de la tradition orale».
3 Ragioni di una scelta
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non avevano quindi pensato a un titolo per la loro unica opera. La precedente tradizione in prosa non conosceva questo uso. E al pubblico sarebbe bastato menzionare il nome stesso di Erodoto o di Tucidide, dunque il nome personale dell’uno o dell’altro scrittore, per ricordare puntualmente già nel corso di semplici discussioni l’opera rispettivamente realizzata. Certo, anche Senofonte dedicò per molti anni le sue energie intellettuali alla composizione di questo o quel testo, ma non si limitò a curare un solo progetto letterario. In fin dei conti, egli non volle essere l’autore di un unico opus magnum. Piuttosto preferì dedicarsi alla stesura di più composizioni, alcune relativamente brevi, altre estese. In ogni caso, si trattava pur sempre di scritture diverse l’una dall’altra, le quali pertanto necessitavano di essere efficacemente distinte tra loro, tanto più che l’autore era il medesimo. Al soddisfacimento di questa esigenza la inscriptio libraria offriva una soluzione economica e vantaggiosa: ciascun testo avrebbe esibito, su rotolo, accanto al genitivo del nome dell’autore⁵²¹, pure una denominazione specifica, cioè propria; così la distinzione tra le varie scritture del personaggio sarebbe stata assicurata. Del resto, Senofonte e altri prosatori suoi contemporanei sapevano fin troppo bene di siffatta vantaggiosità della inscriptio libraria. La prassi aveva avuto già successo con gli autori di teatro, i quali producevano notoriamente nel corso della loro carriera numerosi pezzi. Senofonte sembra avere riconosciuto anche un altro aspetto positivo insito nella inscriptio libraria. La prassi “epigrafica” di presentazione del testo concedeva al prosatore parecchia libertà di movimento all’atto di cominciare una nuova scrittura e di stenderne così il brano d’esordio. In effetti, Senofonte si sente libero di scegliere sul modo di dare avvio alla trattazione tra almeno tre possibilità. Così egli – espone preliminarmente e senza fretta tutta una serie di riflessioni personali, prima di iniziare la narrazione vera e propria, come avviene nel caso della Ciropedia; – oppure esordisce più tradizionalmente, vantando la propria competenza in una data materia e gettando uno sguardo sul lavoro di qualche precedente illustre: è il caso per esempio del trattato Sull’arte equestre; – oppure comincia il racconto dall’antefatto o entra subito in medias res, senza curarsi di indicare preliminarmente il tema effettivo della narrazione o della sua prima parte: è il caso, come visto, dell’Anabasi.
A torto C. Höeg pensa a un nominativo nella inscriptio: questa non era affatto la prassi quando si designava un oggetto al fine di rivendicarne l’appartenenza, come sopra visto. E infatti già Erodoto aveva espresso al genitivo il suo nome a principio del suo lavoro.
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VI Senofonte e la inscriptio libraria
Questa straordinaria libertà di movimento gli è ora concessa, e per così dire assicurata, proprio dalla inscriptio, dove, accanto al suo nome d’autore, figura il titolo dell’opera. E i titoli scelti da Senofonte sono tutti, o quasi, eminentemente informativi, cioè annunciano assai bene il tema trattato; quelli della Ciropedia e dell’Anabasi lo sono specialmente del tema affrontato nella parte iniziale dell’opera. In altre parole, Senofonte sfrutta o sperimenta tutte le opzioni possibili per impostare un brano d’apertura, sapendo che le coordinate necessarie all’inquadramento del prodotto letterario il pubblico le ricaverà ormai separatamente dal testo e inoltre preliminarmente grazie alla inscriptio del rotolo.
4 Per la storia del titolo della Ciropedia Tre aspetti tra loro apparentemente slegati, due per così dire “negativi”, cioè l’assenza nell’ambito dell’esordio del nome dell’autore e di un preliminare orientamento sul tema dell’opera, l’altro invece positivo, cioè la sostanziale stabilità del titolo nella tradizione antica e bizantina, hanno permesso di concludere che Senofonte adottò una inscriptio libraria per la pubblicazione della sua prima grande opera storica e che Κύρου ἀνάβασις sia proprio un titolo d’autore. A conclusioni sostanzialmente eguali si può pervenire in sede di esame di altri scritti senofontei, come la Ciropedia e i Memorabili di Socrate, sebbene non manchino per tali casi aspetti degni di nota, come l’alternanza tra titolo completo e forma abbreviata, che si riscontra, oltre che nelle citazioni, anche nella tradizione diretta. Della Ciropedia abbiamo già sopra analizzato il brano d’esordio e quello di chiusura. Il suo titolo è attestato per via diretta anzitutto da un papiro degli inizi del III secolo d. C.: P.Oxy. IV 698. Qui, dopo la citazione di Cyr. 2, 1, 1 (τοιαῦτα μέν… Περσίδος) in funzione di reclamans, la fine del I libro è segnalata per mezzo di una coronide, di una lunga paragraphos e della sottoscrizione ξενοφῶν[τος] κύρου̣ πα̣ιδεία̣ς αʹ⁵²². Il titolo fornito dalla subscriptio è quello sotto cui qualche secolo prima Cicerone leggeva l’opera.
Sul papiro e la sua sottoscrizione: A.H.R.E Paap, The Xenophon Papyri. Anabasis, Cyro paedia, Cynegeticus, De vectigalibus, Leiden 1970 (Papyrologica Lugduno Batava 18), 47 (num. 11); S. West, Reclamantes in Greek Papyri, in Scriptorium 17 (1963), 314 315; Corcella, L’opera storica (come n. 502), 50 51; Schironi, ΤΟ ΜΕΓΑ ΒΙΒΛΙΟΝ (come n. 30), 237.
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4.1 Testimonianze antiche Scrivendo intorno al 60 a. C. ad Attico, Cicerone fa a un certo punto (ad Att. II, 3) una battuta assai curiosa: Fenestrarum angustias quod reprehendis, scito te Κύρου παιδείαν reprehendere, «nel tuo avere da ridire sulle dimensioni ridotte delle finestre, sappi che tu biasimi la Κύρου παιδεία». Il senso di questa affermazione si capisce dal prosieguo della lettera, dove Cicerone ricorda per nome l’architetto della sua villa: (Vettio) Ciro⁵²³. Ovviamente a noi non interessa giudicare la capacità dell’oratore romano di fare dello spirito. Ci importa invece osservare un fatto: una battuta erudita come quella poteva avere un senso solo a condizione che lo scritto senofonteo – di altro ovviamente non può trattarsi – circolasse negli ambienti romani del tempo stabilmente intitolato Κύρου παιδεία⁵²⁴. Del resto, lo stesso Cicerone, scrivendo una decina di anni più tardi a Lucio Papirio Peto, avrebbe anche detto: Plane nesciebam te tam peritum esse rei militaris; Pyrrhi te libros et Cineae uideo lectitasse (…). Sed quid ludimus? Nescis quo cum imperatore tibi negotium sit: Παιδείαν Κύρου, quam contrieram legendo, totam in hoc imperio explicaui. Sed iocabimur alias coram, ut spero, breui tempore (ad Familiares IX, 25, 1 2). Non sapevo affatto di tanta tua perizia nelle cose militari: vedo che hai letto e riletto i libri di Pirro e Cinea (…). Ma perché scherzare? Non sai con quale imperator tu abbia a che fare: in questo mio comando ho svolto tutta la Παιδεία Κύρου, che avevo consumato a furia di leggere. Ma scherzeremo un’altra volta insieme, come spero, tra breve tempo⁵²⁵.
Questa testimonianza si pone sulla stessa linea della precedente, sebbene Cicerone citi il titolo dell’opera senofontea invertendo l’ordine dei termini. Da
Per il testo della lettera e alcune note di commento cf. C. Di Spigno (a cura di), Epistole ad Attico di M. Tullio Cicerone, I, libri I VIII, Torino 1998, 180 183. Sotto questo titolo l’opera era certamente nota nel I secolo a. C. anche a Dionisio di Alicarnasso, il quale in Ep. ad Pomp. Gem. 4, 1, ne rievoca il contenuto parlando tout court di Κύρου παιδεία. Nel fornire una indicazione così sommaria (è noto infatti che all’educazione di Ciro sono consacrati solo i primi capitoli degli otto libri dell’opera), mi sembra chiaro che Dionisio abbia tenuto conto proprio della inscriptio di cui gli esemplari erano forniti al suo tempo. Della notizia dionisiana sugli scritti senofontei ci occuperemo in dettaglio più avanti. Per il testo critico di questo brano ho avuto presente I.P. Vallot (recognovit), M. Tulli Ciceronis epistularum ad familiares, liber IX, Florentiae 1967, 61 62. Nell’apparato non è se gnalata alcuna variante sul titolo della Ciropedia. Ne desumo che la tradizione manoscritta della lettera reca i due termini del titolo proprio in ordine inverso a quello consueto. Per la traduzione (da me ritoccata in vari punti) e il commento della lettera cf. G. Garbarino R. Tabacco (a cura di), Epistole di M. Tullio Cicerone, IV, Ad familiares, Torino 2008, 275 e 277.
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notare, nel brano, anche l’uso del verbo explico, che certo Cicerone usa in relazione allo svolgimento dei suoi doveri. Ma il verbo aveva senso, e Cicerone ne approfitta in questo caso, anche per l’operazione di svolgimento del rotolo librario. Tra Cicerone e P.Oxy. IV 698 si frappone cronologicamente la testimonianza di Aulo Gellio. Quest’ultimo, rievocando la presunta rivalità intellettuale tra Senofonte e Platone, dice che alcuni ravvisavano un contrasto tra i due personaggi anche per la seguente ragione: Id etiam esse non sincerae neque amicae uoluntatis indicium crediderunt, quod Xenophon inclito illi operi Platonis, quod de optimo statu reipublicae ciuitatisque administrandae scriptum est, lectis ex eo duobus fere libris, qui primi in uolgus exierant, opposuit contra conscripsitque diuersum regiae administrationis genus, quod παιδείας Κύρου inscriptum est (Noct. Att. XIV, 3, 3). Ritennero perfino ciò spia di una disposizione non serena né amichevole [tra i due]: il fatto che Senofonte a quella celebre opera composta da Platone sulla forma migliore di Stato e di governo della città, letti appena i primi due libri pubblicati, contrappose per iscritto un diverso tipo di governo “monarchico”, un lavoro che fu intitolato Παιδείας Κύρου.
Gellio continua a questo punto dicendo che Platone rimase così contrariato dall’accaduto, da replicare a sua volta quodam in libro, «in un certo libro»: il rinvio è qui alle Leggi III, 694 C. Qui Platone dice effettivamente che Ciro era stato sì operoso e coraggioso, ma niente affatto educato al modo dovuto: παιδείας δὲ οὐκ ὀρθῶς ἧφθαι τὸ παράπαν. A prescindere dalla veridicità di quest’ultima notizia, è notevole il silenzio di Gellio sul titolo della seconda opera platonica. Egli non aveva infatti esitato a riferire («inscriptum est») il titolo dello scritto di Senofonte. Questa disparità di trattamento ha un obiettivo molto chiaro: fare risaltare il contrasto tra Senofonte stesso e Platone sul valore della «educazione di Ciro». Per Senofonte essa era stata così esemplare, che egli l’aveva evidenziata in testa al suo trattato, cioè nella inscriptio. Platone l’aveva invece liquidata negativamente in un punto qualsiasi della sua prosa⁵²⁶. Diogene Laerzio, come sopra ricordato, fornisce in una famosa notizia la lista degli scritti di Senofonte (II, 56 – 57), premettendo che essi ammontavano a circa quaranta libri, dato che alcuni ne suddividevano il testo ora in un modo ora in un altro. Il secondo degli scritti menzionati è appunto la Κύρου παιδεία.
Sulla storicità delle notizie riferite da Aulo Gellio e sulle modalità di pubblicazione degli scritti di Platone si è espresso, com’è noto, con molte riserve U. von Wilamowitz Moellendorff, Platon, II: Beilagen und Textkritik, Berlin 21920, 181 182.
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Una tradizione ben più antica del P.Oxy. IV 698 attesta dunque in modo unitario Κύρου παιδεία come titolo dell’opera senofontea. Che questa stabilità sia dovuta alla scelta dell’autore di fornire l’opera sua di un titolo del genere, lo si è sopra già rilevato. Ma è interessante anche osservare che altre fonti antiche citano l’opera anche in forma abbreviata, cioè come Παιδεία, con palese omissione del genitivo Κύρου, che era certamente parte integrante del titolo originario dell’opera. Per esempio, Ateneo cita in forma completa il titolo dell’opera solo in Deip. XI 483b, dove egli spiega il termine κώθων· Λακωνικὸν ποτήριον, οὗ μνημονεύει Ξενοφῶν ἐν αʹ Κύρου παιδείας. Molte altre volte, invece, egli chiama l’opera tout court Παιδεία. Così almeno nei seguenti passi: – IX 368a: παρὰ τῷ Ξενοφῶντι ἐν πρώτῳ Παιδείας; – IX 373d: Ξενοφῶν δ’ ἐν δευτέρῳ Παιδείας; – IX 410c: Ξενοφῶν δ’ ἐν α΄ Παιδείας; – X 424b: Ξενοφῶν ἐν πρώτῳ Παιδείας; – Χ 433 f: Ξενοφῶν ἐν τρίτῳ Παιδείας; – ΧΙ 465e: Ξενοφῶν δ’ ἐν ὀγδόῳ Παιδείας; – ΧΙ 496c: Ξενοφῶν δ’ἐν ὀγδόῳ Παιδείας; – ΧΙΙ 515a: Ξενοφῶν δὲ ἐν ὀγδόῳ Παιδείας; È quindi in un rapporto di 8 a 1 che predomina in Ateneo la forma breve⁵²⁷. Questo uso si nota anche in due opuscoletti retorici composti – secondo quanto ritiene la critica odierna – forse già a principio del II secolo d. C. Si tratta del cosiddetto ottavo e nono discorso pseudo-dionisiano sull’arte retorica⁵²⁸. Nell’uno si ricorda ciò che Senofonte aveva scritto ἐν τῇ Παιδείᾳ (8, 11). Nell’altro leggiamo (9, 12): Καὶ παρὰ τῷ Ξενοφῶντι πάλιν ἔν τε τῇ Παιδείᾳ καὶ τῇ ᾿Aναβάσει εὑρήσετε ἐσχηματισμένους λόγους, «e in Senofonte ancora, sia nella Paideia sia nell’Anabasi, troverete discorsi figurati». Come si vede, in quest’ultimo passo non è solo il titolo della Ciropedia a essere menzionata in forma breve, ma anche quello dell’Anabasi. L’autore del trattato, al momento d’indicare le due opere, fa
In generale sulle citazioni di Senofonte in Ateneo cf. Ch. Maisonneuve, Les “fragments” de Xénophon dans les Deipnosophistes, in D. Lenfant (éd. par), Athénée et les fragments d’historiens, Paris 2007, 73 106. I due testi sono editi da L. Radermacher H. Usener, Dionysii Halicarnasei quae exstant, VI, Leipzig 1929 (repr. 1965), 293 358. Sulla datazione dei due trattati all’inizio del secondo secolo cf. M. Heath, Pseudo Dionysius Art of Rhetoric 8 11: Figured Speech, Declamation, and Criticism, in AJPh 124/1 (2003), 81 105. Sui due discorsi si veda ora S. Dentice di Accadia (introduzione, traduzione e commento a cura di), Pseudo Dionisio di Alicarnasso. I discorsi figurati I e II (Ars rhet. VIII e IX Us. Rad.), Pisa Roma 2010.
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insomma economia del genitivo Κύρου, che però nel primo caso indicava Ciro il Grande, nel secondo Ciro il Giovane. Almeno in teoria, tali constatazioni non obbligano necessariamente a concludere che la Ciropedia circolasse a quel tempo, in uno o più d’un esemplare, sotto un titolo di forma per così dire breve o abbreviata rispetto a quella originale. Tuttavia, il caso questa volta è più delicato. E sarà bene tenere conto di quel che leggiamo nella tradizione diretta di età mediobizantina, prima di fare più precise valutazioni.
4.2 Tradizione manoscritta Gli esemplari fondamentali della Ciropedia, secondo quanto concluso dalle ricerche più recenti, sono tre: si tratta del codice di Erlangen, Universitätsbibliothek, Ms. gr. A 1, della prima metà del X secolo; del Vat. Gr. 129 (sec. XI), della stessa famiglia; e dello Scorialensis T. III. 14 (gr. 174), degli ultimi anni del IX secolo o dell’inizio del sec. X⁵²⁹. Va inoltre ricordato che nel codice di Erlangen il testo della Ciropedia, che si presenta ripartito su due colonne per pagina, è a un certo punto in disordine a causa di una inversione di fascicoli; inoltre, dopo il f. 24v è caduto l’originario quarto fascicolo, con perdita della porzione di testo che va da Cyr. 4, 2, 20 πολεμίων sino a 5, 2, 27 ὁ Γωβρύας incluso⁵³⁰. Ciò detto, concentriamoci proprio sul codice di Erlangen e osserviamo la titolatura dei vari libri: – inscriptio del I libro: sul foglio 1r la scrittura è ripartita in due colonne, la prima delle quali sormontata dal genitivo del nome di Senofonte, la seconda dal titolo dell’opera (espresso al genitivo, come di norma, per opere divise in
Sul codice di Erlangen cf. H. Thurn, Die Erlanger Handschrift von Xenophons Kyrupädie, ihre Fehldatierung und deren Folgen, in WJfA, n.F., 2 (1976) 75 83; H. Thurn (beschrieben von) O. Stählin (auf der Grundlage des Manuskriptes von), Die griechischen Handschriften der Univer sitätsbibliothek Erlangen, Wiesbaden 1980 (Katalog der Handschriften der Universitätsbibliothek Erlangen, Bd. 3, T. 2), 17 18; e ora soprattutto M. Bandini, Un nuovo libro della biblioteca di Guarino Veronese, in RFIC 136 (2008), 257 266, e tav. 3: in questo lavoro è ricostruita in maniera convincente l’originaria consistenza del codice. Il manoscritto presenta reclamantes tra II e III libro e VII e VIII: cf. Corcella, L’opera storica (come n. 502), 51, su comunicazione di Michele Bandini. Gli altri testimoni fondamentali sono, come detto, il Vat. Gr. 129 e lo Scorialensis T. III. 14 (gr. 174). Sulla datazione di questi testimoni cf. I. Pérez Martín, The Reception of Xenophon in Byzantium: The Macedonian Period, in GRBS 53 (2013), 812 855, e ancora Bandini, La Ciropedia dell’Escorial e il suo contesto a Costantinopoli (come n. 86), 31 46. Cf. Bandini, Un nuovo libro (come n. 530), 259.
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più libri) e il numerale del primo libro. Così abbiamo: ξενοφῶντος κύρου παιδείας α΄ inscriptio del II libro, f. 10r, seconda colonna: παιδείας β΄ inscriptio del III libro, f. 16r, seconda colonna: παιδείας γ΄ inscriptio del IV libro, f. 23r, prima colonna: παιδείας δ΄ inscriptio del VI libro, f. 31v, prima colonna: ξενοφῶντος κύρου παιδείας ἔκτον inscriptio dell’VIII libro, f. 37v, prima colonna: κύρου παιδείας η΄ (come sopra accennato, l’ordine dei fascicoli è perturbato in questa parte del manoscritto; perciò l’attuale f. 37v presenta l’inizio del libro VIII) inscriptio del VII libro, f. 45v, seconda colonna: ξενοφῶντος κύρου παιδείας ζ΄ subscriptio in chiusura dell’ultimo libro, al f. 56v: ξενοφῶντος κύρου παιδείας η΄.
I libri II, III e IV recano dunque semplicemente il titolo παιδεία. Anche il libro V, di cui non abbiamo più l’inizio per la perdita del relativo fascicolo, doveva recare la forma breve del titolo, già esibita dai precedenti. Infatti, il Laur. Plut. 55, 21, che è apografo del codice di Erlangen⁵³¹, presenta al punto corrispondente proprio παιδείας ε΄: così al f. 121v. Tre libri della Ciropedia hanno, dunque, nel codice di Erlangen, un titulus brevis (παιδεία); un altro libro, il V, doveva egualmente esibirne uno. Gli altri libri presentano invece la forma completa del titolo. Per ciò che concerne il genitivo del nome dell’autore dell’opera, è notevole che questa indicazione, dopo il I libro, ricompaia al VI, quando ricomincia la titolatura completa (κύρου παιδεία). Il genitivo del nome dell’autore si legge inoltre nella intestazione del VII libro e in chiusura dell’VIII. I libri II, III, IV del codice di Erlangen, e il V, se appunto diamo qui per rappresentativo il suo apografo, costituiscono insomma un blocco di libri coerenti e continui sotto lo stretto profilo della inscriptio libraria. È possibile che tali libri discendano da una edizione della Ciropedia caratterizzata in tal modo già tra II e III secolo d. C. Le citazioni sopra viste di Ateneo potrebbero quindi anche dipendere da una edizione già fornita di un titolo abbreviato. Tutto ciò non mette peraltro in discussione il dato, sopra assodato, di un titolo d’autore per l’opera.
Per questo dato si veda Bandini, La Ciropedia dell’Escorial e il suo contesto a Costantinopoli (come n. 86), 34, n. 18.
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VI Senofonte e la inscriptio libraria
Passiamo agli altri due importanti esemplari bizantini. Il codice dell’Escorial presenta un titolo di forma lunga per tutti i libri e in questo senso si allinea perfettamente alle testimonianze ciceroniane. Il corredo paratestuale dei vari libri è ad ogni modo notevole. Ciascun libro è fornito, sia in principio sia in fine, di una inscriptio completa, che segnala ogni volta puntualmente nome dell’autore, titolo e numero del libro. Inoltre, ogni inscriptio è disposta su più linee di scrittura: si va da due, nel caso della intestazione iniziale del I libro, a quattro, come per esempio avviene con la inscriptio iniziale e finale del IV libro, dove a ogni elemento è riservato un posto a sé stante. Altre volte invece la inscriptio è disposta su tre righi: in tali casi ogni elemento occupa un rigo a sé, salvo il numero che è affiancato a παιδείας. Ecco il quadro completo dei dati ricavabili dal codice dell’Escorial, da me ispezionato su microfilm dell’Institut de recherche et d’histoire des textes (Section grecque) di Parigi: – I libro: f. 1r, inscr.: ξενοφῶντος κύρου | παιδείας βιβλίον α΄ ; f. 33v: subscr. ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας | α΄ – II libro: f. 34r, inscr.: ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας | β΄; f. 58r: subscr.: ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας | β΄; – III libro: f. 58r, inscr.: ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας | γ΄; subscr.: f. 83r: ξενοφῶντος | κύρου παιδεί|ας γ΄; – IV libro, f. 83v, inscr.: ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας | δ΄; subscr.: f. 111v: ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας | δ΄ – V libro, f. 112r, inscr.: ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας | ε΄; subscr. f. 146r: ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας | ε΄ – VI libro, f. 146v: inscr.: ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας ϛ΄; subscr. f. 168v: ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας ϛ΄ – VII libro, f. 169r, inscr: ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας ζ΄; subscr. f. 201r (numerato 101): ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας ζ΄ – VIII libro, f. 201v: inscr. ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας η΄; subscr., f. 249r: ξενοφῶντος | κύρου | παιδείας η΄. La presenza di una inscriptio completa in principio e in fine di ogni libro riflette senza dubbio una tradizione di epoca antica, addirittura ancora su rotolo, delle parti dell’opera. Anche la disposizione su più linee di scrittura (2, 3 o anche 4) dei vari elementi della inscriptio rispecchia una prassi di epoca ben più antica, attestata in molti papiri. Tali conclusioni si accordano pienamente con tutta una serie di osservazioni della ricerca precedente (in ordine di tempo: G. Cavallo, L.
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Perria, M. Bandini) su vari aspetti notevoli dello stesso manoscritto, derivanti da un modello antico o tardoantico dell’opera⁵³². Il terzo dei testimoni ricordati, il Vat. Gr. 129, è apparentato, secondo gli studi recenti, al codice di Erlangen. Il manoscritto vaticano è datato ai primi decenni dell’XI secolo da Immaculada Pérez Martín⁵³³. La studiosa lo considera frutto della collaborazione di vari copisti, uno dei quali legato ad attività di amministrazione, come suggerirebbe il suo modo di scrivere. Anche Pio Franchi de’ Cavalieri riteneva il codice dell’XI secolo (senza tuttavia pronunciarsi per la prima o seconda metà), ma lo considerava opera di un solo copista, che avrebbe lavorato manu tamen varia ⁵³⁴. La cronologica del manoscritto non è dunque in discussione, ma sarà necessario in una prossima occasione riflettere più approfonditamente sulle esatte ragioni dell’alternanza di tipi di scrittura. Per ciò che concerne la inscriptio dei vari libri, va rilevato che questo testimone offre senza dubbio un dato notevole al f. 1r, essendo qui il I libro intestato come προοίμια ξενοφῶντος κύρου παιδείας. I libri successivi alternano invece il titolo dell’opera nella forma breve (II e V) al titolo completo (III, VI, VII, VIII). Il IV libro reca solo κύρου τέταρτον: qui il copista ha operato con scarsa cura. Il genitivo del nome di Senofonte è riferito accanto al titolo dell’opera solo in qualche caso. Solo tre libri esibiscono inscriptio iniziale e finale. Il quadro complessivo dei dati è il seguente (ometto di indicare eventuali elementi decorativi che precedono o seguono la inscriptio dei singoli libri): – libro I, f. 1r: προοίμια ξενοφῶντος κύρου παιδείας. – libro II, f. 32r: παιδείας δεύτερον; il libro termina al f. 48r, fornito di un reclamans per il libro successivo (III, 1: ὁ μὲν δὴ… ἐξεπλάγη). – libro III, f. 48r: κύρου παιδείας τρίτον. – libro IV, f. 69r: κύρου τέταρτον.
G. Cavallo, Conservazione e perdita (come n. 86), 140, e L. Perria, Arethaea. Il codice Vallicelliano di Areta e la Ciropedia dell’Escorial, in RSBN 25 (1988), 41 56, hanno richiamato l’attenzione sui fregi ornamentali in chiusura dei libri: tali motivi decorativi sembrano ripresi da un modello tardoantico; M. Bandini, La Ciropedia dell’Escorial e il suo contesto a Costantinopoli (come n. 86), qui in part. 34 35, ha individuato numerosi errori testuali sicuramente derivanti da fraintendimento di un modello in maiuscola, talora accompagnati da errata divisione di parole. La disposizione su più righi dei vari elementi della inscriptio e della subscriptio nel codice dell’Escorial richiama, come detto, un uso librario di epoca antica: per un confronto in merito rimando alla documentazione raccolta da F. Schironi, ΤΟ ΜΕΓΑ ΒΙΒΛΙΟΝ (come n. 30) e da Del Mastro, Titoli e annotazioni bibliologiche (come n. 31). Cf. I. Pérez Martín, The Reception of Xenophon in Byzantium (come n. 529), 843 844, n. 96. Cf. P. Franchi de’ Cavalieri, in Codices Vaticani Graeci 1 329, rec. I. Mercati P. Franchi de’ Cavalieri, I, Romae MCMXXIII, 157.
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libro V, f. 94r: παιδείας πέμτον. Si noti che il libro comincia da Cyrop. V, 1, 2. libro VI, f. 123r, inscriptio iniziale: ξενοφῶντος κύρου παιδείας ϛʹ; f. 142r, inscriptio finale: ξενοφῶντος κύρου παιδείας ϛʹ. libro VII, f. 142r, inscriptio iniziale: ξενοφῶντος κύρου παιδείας ζʹ; f. 165r, inscriptio finale: κύρου παιδείας ζʹ, preceduta da un reclamans (prime parole del libro successivo fino a VIII, 1: … εἶπεν ὧδε). libro VIII, f. 165r, inscriptio κύρου παιδείας ηʹ (dopo due punti e trattino è indicato accanto: δημηγορία χρυσάντος). la trascrizione dell’VIII libro termina al f. 196r, dove figura la subscriptio τέλος κύρου παιδείας ηʹ.
Non intendo fare ora deduzioni a partire dalle inscriptiones, non uniformi tra loro, del codice vaticano. Esse meritano piuttosto di essere studiate in altra sede e in considerazione di altri aspetti, non ultimo quello relativo alla divisione del testo tra libro IV e V. I dati appena esposti bastano comunque a dire quanto segue: in età romanoimperiale si era diffusa la prassi di citare il titolo della Ciropedia e quello dell’Anabasi in forma abbreviata. Non sarà un caso se questo uso si affaccia in un’epoca già avanzata della storia delle due opere, cioè quando Senofonte è ormai un classico. Una volta ricordato il nome dell’autore, era evidentemente divenuto sufficiente parlare tout court della Παιδεία o della ᾿Aνάβασις, senza ulteriori aggiunte. Il pubblico interessato avrebbe colto perfettamente il riferimento. Questo uso, se stiamo alla documentazione in nostro possesso, non pare tuttavia avere avuto conseguenze nella trasmissione del testo dell’Anabasi, almeno sino all’epoca mediobizantina. Nel caso della Ciropedia, le cose sembrano essere andate diversamente. Un testimone illustre come il codice di Erlangen presenta in vari punti una titolatura breve. A questo proposito è più che possibile che il codice rifletta una tradizione diretta assai più antica. Da un esame complessivo della documentazione disponibile, resta in ogni caso confermato che l’opera non ha conosciuto altre intitolazioni nel corso della sua tradizione⁵³⁵.
Il titolo della Ciropedia merita di essere studiato anche da altro punto di vista, cioè nel suo rapporto col testo. Per molti studiosi Κύρου παιδεία si adatta solo al contenuto dei primi capitoli dell’opera o al massimo del primo libro, dove è esposta la vita di Ciro dalla nascita alla prima assunzione di comando militare. In questo ordine di idee scrive H.R. Breitenbach, s.v. Xenophon, in RE IX A/2 (1967), coll. 1707 1708: «Das umfangreichste Werk X.s, die Κύρου παιδεία, hat ihren Titel nur nach Buch I der insgesamt 8 Bücher (vgl. die analoge Titelfassung der Anabasis). Von Buch II an greift X. weit über den Rahmen der Erziehung des jungen Kyros hinaus, und wir haben eine Darstellung des idealen Herrschers (worunter X. auch den Idealfeldherrn versteht)
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5 Sul titolo dei Memorabili 5.1 Testimonianze antiche Le citazioni dell’opera tra epoca antica e primo periodo bizantino sono particolarmente numerose. Per quel che riguarda il titolo, esse si possono ripartire tra due grandi insiemi. Al primo appartengono tutte quelle testimonianze, in cui l’opera è chiamata tout court ἀπομνημονεύματα. Senza pretesa di esaustività, segnalo qui solo: Diogene Laerzio II, 57; III, 34; VII, 3; Stobeo: III, 1, 205a; III, 1, 207; III, 9, 56; III, 21, 21; III, 29, 94; IV, 20b, 62; anche l’autore del trattato retorico pseudo-dionisiano aveva rievocato quanto detto da Senofonte ἐν τοῖς ἀπομνημονεύμασιν, senza cioè alcuna menzione di Socrate: cf. Ps.-Dion., Ars Rhet. 9, 12. Al secondo insieme appartengono quelle testimonianze, senza dubbio meno numerose, in cui l’opera è chiamata Σωκράτους ἀπομνημονεύματα, oppure Σωκρατικὰ ἀπομνημονεύματα. Vediamo più in dettaglio le fonti in questione: – come Σωκράτους ἀπομνημονεύματα l’opera è menzionata, a mia conoscenza, solo due volte. E cioè: in una epistola fittiva, forse del III secolo d. C.⁵³⁶, dove si legge πεποίημαι δέ (è Senofonte a parlare) τινα ἀπομνημο-
vor uns, vgl. Ciceros Urteil, Q. fr. I 1, 23: Cyrus ille a Xenophonte non ad historiae fidem scriptus, sed ad effigiem iusti imperi (ähnlich Dion. Hal. Epist. ad Pomp. 4)». Invece B. Due, The Cyro paedia. Xenophon’s aims and methods, Aarhus 1989, 15, nega l’esistenza di una incongruenza tra titolo e contenuto complessivo dello scritto e propone di intendere παιδεία in senso larghissimo: «education as something which goes on all through life, something which only death brings to an end». A sostegno di questa interpretazione lo studioso richiama due passi dell’opera (Cyr. I, 2, 2 e I, 3, 1), i quali, in realtà, provano il contrario di quello che egli sostiene. Nell’uno si dice che Ciro nella sua giovinezza era stato educato secondo la legge dei Persiani; nell’altro si sottolinea ancora una volta l’educazione ricevuta dal sovrano in giovinezza. Dunque, parlando di παιδεία Senofonte non allude affatto a un processo formativo durato la vita intera. Pertanto, l’incongruenza tra titolo e contenuto complessivo dell’opera rimane. È lecito d’altra parte chiedersi se sia giusto poi parlare di incongruenza. Anche il titolo dell’Anabasi rispecchia solo il tema della parte iniziale dell’opera. Segno che per Senofonte un titolo non doveva per forza corrispondere al contenuto complessivo di un racconto, soprattutto se questo era di particolare lunghezza. Piuttosto era necessario che il titolo scelto attirasse l’attenzione e orientasse il pubblico su un argomento chiave: quello posto all’inizio di tutta la trattazione. Per l’edizione dell’epistola cf. G. Giannantoni (collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit), Socratis et Socraticorum reliquiae, II, Napoli 1990, 12. Sulla composizione di questa e di altre lettere fittive sulla cerchia socratica cf. anche J. Sykutris, Sokratikerbriefe, in RE Suppl. V (1931), 981 987. Non mi è stato invece possibile consultare il lavoro di L. Köhler, Die Briefe des Sokrates, Diss. Zürich 1928. Per un precedente tentativo di datazione del corpus di epistole cf. W.
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νεύματα Σωκράτους. ὅταν οὖν μοι δόξῃ εὖ ἔχειν παντελῶς, διαπέμψομαι αὐτὰ καὶ ὑμῖν; e in chiusura di un trattato di argomento politico, composto nel VI secolo, dove leggiamo: Ξενοφῶν δὲ ἐν τοῖς Σωκράτους ἀπομνημονεύμασιν μαρτυρεῖ λέγων· “ὦ Γλαύκων, ἔφη, προστατεύειν ἡμῖν διανενόησαι τῆς πόλεως; ἔγωγε, ἔφη, ὦ Σώκρατες. νὴ Δία, ἔφη, καλὸν γὰρ εἴπερ τι καὶ ἄλλο τῶν ἐν ἀνθρώποις” (…)⁵³⁷. Precedentemente Galeno, In Hippocratis librum de articulis, praef., ll. 10 – 11, aveva ricordato l’opera senofontea – meglio: uno dei libri che la compongono – con queste parole τὸ βιβλίον τοῦτο τῶν Σωκρατικῶν ἀπομνημονευμάτων ἐστὶ τὸ ἔσχατον. Stobeo, che pure parla volentieri di ἀπομνημονεύματα senofontei, cita tuttavia dall’opera in almeno tre passi al modo seguente: – II, 1, 30: Ξενοφῶντος ἐν αʹ Σωκρατικῶν ἀπομνημονευμάτων; – II, 31, 127: Ξενοφῶντος ἐν δʹ Σωκρατικῶν ἀπομνημονευμάτων; – IV, 1, 37: Ξενοφῶντος ἐν δʹ Σωκρατικῶν ἀπομνημονευμάτων.
Le citazioni offrono quindi un dato unitario su ἀπομνημονεύματα come titolo dell’opera, ma si dividono al momento di fare, o meno, menzione di Socrate, il quale, nonostante tutto, è il soggetto di quei memorabili. Vediamo ora cosa serba in proposito la tradizione diretta, essenzialmente di epoca bizantina⁵³⁸.
Obens, Qua aetate Socratis et Socraticorum epistulae, quae dicuntur, scriptae sint, Diss. Münster 1912. Cf. Menae patricii cum Thoma referendario De scientia politica dialogus, par. 211. L’edizione consultata è quella di C.M. Mazzucchi (iteratis curis quae exstant in codice Vaticano palimpsesto edidit), Menae patricii cum Thoma referendario De scientia politica dialogus, Milano 2002 (Bi bliotheca erudita: studi e documenti di storia e filologia, 17), 53. Sulla storia della tradizione dei Memorabili dall’antichità all’età umanistica e sui rapporti stemmatici tra gli esemplari esistenti cf. M. Bandini (texte établi par) L. A. Dorion (introduction générale; texte traduit par), Xénophon. Mémorables, tome I: Introduction générale et livre I, Paris 2000 (CUF), CCLIII CCCII; M. Bandini (texte établi par) L. A. Dorion (traduit et annoté par), Xénophon. Mémorables, tome II: Livres II III, Paris 2011 (CUF), IX XIV. Sulla circolazione dei Memorabili e di altre opere senofontee in epoca bizantina e umanistica e sulle relazioni tra gli esemplari esistenti cf. ancora M. Bandini, Osservazioni sulla storia del testo dei Memorabili di Senofonte in età umanistica, in SCO 38 (1988), 271 292; Id., I Memorabili di Senofonte fra il Bessarione, Isidoro di Kiev e Pier Vettori, in BollClass, s. III 12 (1991), 83 92; Id., Testimonianze antiche al testo dei Memorabili di Senofonte, in La colombaria. Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere 57 (1992), 11 40; Id., La costituzione del testo dei Commentarii socratici di Senofonte dal Quattrocento ad oggi, in RHT 24 (1994), 61 91; Id., Contributo all’identificazione di codici greci appartenuti a Guarino Veronese, in SCO 44 (1994), 395 398; Id., Lo Ierone di Senofonte nel Quattrocento: Leonardo Bruni e Antonio da Pescia, in RPL 28 (2005), 108 123; Id., Niceforo Gregora lettore di Senofonte, in E. Jeffreys (ed.), Proceedings of the 21st
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5.2 Tradizione manoscritta I dati, su cui ora rifletteremo, sono attinti alla recente edizione dei Memorabili curata da Michele Bandini⁵³⁹. Gli esemplari manoscritti, su cui lo studioso ha fondato il lavoro, sono i seguenti: A = Paris. Gr. 1302; testimone dei primi due libri soltanto (sec. XIII) B = Paris. Gr. 1740 (sec. XIII) L = Laur. Plut. 80, 13 (sec. XIV) M = Marc. Gr. 511 (prima metà del XIV sec.) S = Ambr. E 11 inf. (gr. 1012); (prodotto verso il 1320) W = Vindob. Österreichische Nationalbibliothek, hist. Gr. 95 (metà del XV secolo) Z = Vat. Gr. 1950 (prima metà del XIV sec.) In B la inscriptio iniziale dei libri è sempre composta dal genitivo del nome di Senofonte, dal titolo dell’opera comprensivo del nome di Socrate (= σωκράτους ἀπομνημονευμάτων), dal numerale proprio di ciascun βιβλίον. La intestazione del primo libro suona quindi così: ξενοφῶντος σωκράτους ἀπομνημονευμάτων βιβλίον πρῶτον. Egualmente abbiamo per gli altri libri, se prescindiamo dal numerale. Il quarto libro è fornito anche di una inscriptio finale, ossia di una subscriptio, avente questo tenore: τέλος τῶν τετάρτων ξενοφῶντος ἀπομνημονευμάτων. In M il primo libro è fornito della inscriptio iniziale ξενοφῶντος ῥήτορος σωκράτους ἀπομνημονευμάτων λόγος πρῶτος. Ιn S il II, III e IV libro presentano, sempre all’inizio, il titolo σωκράτους ἀπομνημονευμάτων seguito dal numerale. Altri esemplari (Z, L, W) esibiscono, nella loro intestazione, un titolo breve, ἀπομνημονευμάτων, seguito dall’indicazione relativa al libro sottostante. L’ultimo libro in W è privo di titolo (quantomeno la prima mano non ha indicato nulla). La paternità dell’opera è indicata mediante il genitivo ξενοφῶντος in Z e L e con τοῦ αὐτοῦ in W.
International Congress of Byzantine Studies (London, 21 26 August 2006), vol. II, Aldershot 2006, 180 181; Id., Senofonte nella prima età paleologa: il testo di Memor. IV 3, 7 8 nel codice Urbinate gr. 95, in Νέα Ῥώμη 3 (2006), 305 316; Id., Senofonte alla scuola di Guarino, in Filologia, papirologia, storia dei testi. Giornate di studio in onore di Antonio Carlini. Udine, 9 10 dicembre 2005, Pisa Roma 2008, 83 105, tavv. I IV, 106 109. Cf. Bandini Dorion, Xénophon. Mémorables I (come n. 538), 2; Bandini Dorion, Xéno phon. Mémorables II (come n. 538), 1 e 58; cf. ancora M. Bandini L. A. Dorion, Xénophon. Mémorables, tome II: 2e partie, livre IV, Paris 2011 (CUF), 1 e 55.
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VI Senofonte e la inscriptio libraria
Del tutto singolare la designazione dei Memorabili in A. Qui non solo manca il nome di Socrate nella inscriptio, ma anche il titolo è significativamente diverso: ὑπομνημονευμάτων. Il primo libro reca nella intestazione anche il genitivo del nome di Senofonte. Così si presenta la inscriptio dell’opera nei maggiori esemplari bizantini⁵⁴⁰. Diamo a questo punto una interpretazione dei dati raccolti. Che Senofonte abbia intitolato i Memorabili come Σωκράτους ἀπομνημονεύματα, indicando cioè nella inscriptio anche il nome di Socrate, appare fuor di dubbio, considerati in primo luogo i contenuti dell’opera. Questa modalità d’intitolazione si allinea perfettamente a quella degli altri due casi sopra studiati, cioè al titolo dell’Anabasi e a quello della Ciropedia, in origine egualmente comprensivi del genitivo del nome del personaggio trattato. A quest’ultimo proposito dobbiamo anzi rilevare un dato estremamente interessante che emerge dalla comparazione delle informazioni sinora raccolte. Nella inscriptio di tre grandi sue opere Senofonte lascia figurare due genitivi di nome di persona: uno che lo riguarda direttamente in quanto autore; un altro relativo al personaggio di volta in volta trattato. Tale uso si rintraccia, alle condizioni che vedremo, persino
Un caso a sé stante, messo in luce dalle ricerche di M. Bandini, Senofonte alla scuola di Guarino (come n. 538), 96 97, è quello dell’attuale Guel. (= Herzog Aug. Bibl. Wolfenbüttel) 56, 22 Aug. 8°, vergato da Girardo da Patrasso per conto del Guarino probabilmente intorno al 1420. Questo esemplare conserva solo il primo libro dei Memorabili (ff. 33v 65v) sotto il titolo di ἀπολογία περὶ σωκράτους. Si tratta di un caso degno di nota, giacché nessun altro testimone, allo stato attuale delle conoscenze, presenta l’opera sotto questo nome; d’altra parte, è noto che sotto un titolo del genere circolava ben altro scritto senofonteo. Come rilevato dal Bandini, la singolare intitolazione nel codice di Wolfenbüttel può essere spiegata in più di un modo. Forse si tratta di mera confusione, dipesa dalla lettura della prima parte del libro, effettivamente con sacrata alla difesa di Socrate; o forse si tratta di un falso titolo, usato per ingannare il Guarino, che stava raccogliendo in quegli anni tutti gli scritti di Senofonte e non aveva ancora una copia dell’Apologia. Sull’uso dei copisti di ingannare gli acquirenti per mezzo di un falso titolo cf. E. Elia, Libri greci nella Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino. I manoscritti di Andreas Dar marios, Alessandria 2014, 119 136 (su Andrea Darmarios, XVI secolo); sul caso dell’Etymolo gicum Gudianum intitolato Σουΐδα in alcuni testimoni recentiores, prodotti dalla cerchia cretese di Michele Apostolio (XV secolo) cf. E. Sciarra, Note sul codice Vat. Barb. Gr. 70 e sulla tradizione manoscritta dell’Etymologicum Gudianum, in R.M. Piccione M. Perkams (herausg. von), Se lecta colligere, II: Beiträge zur Technik des Sammelns und Kompilierens griechischer Texte von der Antike bis zum Humanismus, Alessandria 2005, 355 402 (qui in particolare 380 387 e 400; ma si veda a questo stesso proposito D. Bianconi, Restauri, integrazioni, implementazioni. Tra storia dei libri e storia dei testi greci, in L. Del Corso F. De Vivo A. Stramaglia (a cura di), Nel segno del testo. Edizioni, materiali e studi per Oronzo Pecere, Firenze 2015 (Papyrologica Florentina), 263.
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nella tradizione delle Elleniche, la cui parte iniziale si riallaccia al racconto di Tucidide sulla guerra del Peloponneso. La presenza di due genitivi di nome di persona nella inscriptio libraria meriterà in altra sede di essere studiata dal punto di vista storico-culturale, riflettendo sulle strategie effettivamente perseguite da Senofonte e sugli effetti che egli sperava di ottenere in questo modo sul pubblico. Ad ogni modo, questa maniera di intestare Anabasi, Ciropedia e Memorabili ha finito concretamente per mettere a disagio gli eruditi, al più tardi di epoca romano-imperiale, all’atto di menzionare quei testi. Spesso e volentieri si è quindi preferito citare il titolo di tali opere in forma economica, lasciando da parte il genitivo del personaggio di volta in volta trattato (e puntualmente indicato nella inscriptio) dal loro amato Senofonte. Quest’uso abbreviato di chiamare le tre opere ha avuto conseguenze sulla tradizione diretta. La tendenza a non ammettere nella inscriptio libraria altro genitivo di nome di persona, oltre a quello dell’autore del testo, è ormai avanzata nella tradizione bizantina dei Memorabili – sulla cui discendenza da esemplari antichi rimando a quanto scritto dal Bandini⁵⁴¹ –, mentre si manifesta al modo che sappiamo in uno dei principali testimoni della Ciropedia (il codice di Erlangen) e non si manifesta affatto, a quanto pare, nei principali esemplari dell’Anabasi ⁵⁴². Ciò sia detto sulla storia del titolo delle tre opere.
6 Sul titolo di altri scritti: appunti Sul titolo di altri scritti senofontei mi limiterò a offrire solo alcune indicazioni. Sulla inscriptio del Simposio si vedano i dati raccolti da John Cirignano⁵⁴³. Del titolo dell’Economico si è invece occupato Axel Waldemar Persson⁵⁴⁴. Lo studioso s’interroga sulle ragioni dell’alternanza di numero, oltre che di genere, del titolo dell’opera nelle citazioni antiche e ritiene che la forma singolare Οἰκονομικός fosse propria di una edizione in un unico rotolo, mentre quella plurale (Οἰκονομικά, sic) fosse propria di un’edizione della stessa opera suddivisa in varie
Per la bibliografia cf. nota 538. Essa pare tuttavia affiorare in testimoni più tardi, secondo quanto si ricava dal recente studio di R.S. Stefec, Quelques aperçus sur la tradition manuscrite de l’Anabase à propos du manuscrit de Xénophon conservé dans la bibliothèque du monastère Vlatadon à Salonique, in WS 126 (2013), 41 66. Cf. J. Cirignano, The Manuscripts of Xenophon’s Symposium, in GRBS 34 (1993), 187 210. A.W. Persson, Zur Textgeschichte (come n. 519), 59 60, 160. Lo studioso beneficia del precedente lavoro di Cf. W. Lundström, Ciceros öfversättning af Xenophons Oikonomikos, in Eranos 12 (1912), 1 31.
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VI Senofonte e la inscriptio libraria
unità librarie, edizione stabilita prima del tempo di Cicerone e di Filodemo⁵⁴⁵. Queste valutazioni dovrebbero essere riviste su vari aspetti. Tra l’altro, Persson ignora che talvolta anche il titolo di opere relativamente brevi ci è attestato ora al singolare ora al plurale. Questo fenomeno lo abbiamo sopra osservato, parlando delle opere di Menandro. Di conseguenza, è chiaro che la questione della suddivisione dell’Economico in più rotoli va trattata in maniera più empirica. Persson s’interroga anche sulle ragioni del doppio titolo dello Ierone e afferma che «die Doppelbezeichnung» Ἱέρων ἢ τυραννικός rifletta anch’essa «verschiedene Ausgaben» dell’opera nell’antichità. In realtà, i due titoli non ci obbligano ad accettare questa ricostruzione, ovvero a concludere che lo scritto fosse intitolato Ἱέρων in un ramo della tradizione e Τυραννικός in un altro. Per inquadrare correttamente il problema, converrà invece ricordare che nei manoscritti in nostro possesso l’opera esibisce in realtà sempre entrambi i titoli, separati dalla disgiuntiva ἤ. Ecco i dati che mi ha generosamente fornito Michele Bandini, che ha ormai ultimato la nuova edizione critica dell’opera. I testimoni fondamentali sono: A = Vat. gr. 1335; U = Vat. Urb. Gr. 95; L = Laur. Plut. 80, 13; D = Rep. I. 4°. 46; X = Vat. Gr. 1619; La = Laur. Plut. 55, 21. Dunque abbiamo: ξενοφῶντος ῥήτορος ἱέρων ἢ τυραννικός in AUXLa; ξενοφῶντος ἱέρων ἢ τυραννικός in L ἱέρων ἢ τυραννικός in D. Ancora alla generosità di Michele Bandini devo i rimandi essenziali alle testimonianze antiche, dove l’opera è citata al modo seguente: come ἱέρων ἢ τυραννικός in Ateneo, III 121 d, IV 171, e così anche nella lista dei libri senofontei offerta da Diogene Laerzio, II 57. D’altra parte, lo stesso Ateneo omette di indicare ἢ τυραννικός in IV 144 c; e così anche Stobeo IV 5, 109, IV 8, 30; e Prisciano, Inst. gramm. XVIII 201. Questo insieme di dati e le considerazioni esposte nelle pagine precedenti non autorizzano affatto ad accogliere le conclusioni di Persson, in quanto non v’è alcun motivo di considerare i due titoli come indipendenti, cioè assolutamente alternativi l’uno all’altro, nella tradizione antica del dialogo. Piuttosto bisogna ritenere che almeno il primo dei due, cioè ἱέρων, sia d’autore. Bisogna poi osservare che questa designazione non istruisce in alcun modo i lettori sull’esatto contenuto del lavoro. Nessuna meraviglia quindi se al titolo principale sia stato affiancato un secondo titolo, a carattere informativo, per esplicitare la materia del discorso.
Cf. A.W. Persson, Zur Textgeschichte (come n. 519), 59 60 e n. 3, 160.
6 Sul titolo di altri scritti: appunti
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Fissati questi punti, siamo obbligati a interrogarci ulteriormente su ἢ τυραννικός: si tratta “solo” di un’aggiunta secondaria, ovvero non d’autore, al titolo originale, oppure è stato proprio Senofonte a designare il dialogo col doppio titolo ἱέρων ἢ τυραννικός? Il problema è estremamente delicato. In effetti, che Senofonte abbia fornito il dialogo di un doppio titolo, non può essere escluso in modo assoluto. Tuttavia, è anche vero che sull’uso di doppi titoli da parte dei prosatori della prima metà del IV secolo a. C. sappiamo poco o nulla di sicuro, o almeno la documentazione in nostro possesso costituisce, a riguardo, un terreno assai incerto da vagliare. Lo vedremo nel prossimo capitolo parlando di Platone. Per ragioni di cautela, è preferibile quindi lasciare aperto il problema che ho poc’anzi posto. Rimane comunque assodato che i dati a nostra disposizione non giustificano il quadro presentato da Persson. Se Stobeo e Prisciano citano l’opera col primo titolo, essi lo fanno evidentemente per semplici ragioni di comodo: parlare dello Ierone di Senofonte era più che sufficiente per identificare il dialogo. E infatti anche Ateneo, che conosce il doppio titolo, in almeno un caso si limita a parlare tout court dello Ierone. Un fatto che merita rilievo è comunque la struttura del doppio titolo del dialogo senofonteo. Essa non ricalca in tutto e per tutto quella del doppio titolo dei dialoghi platonici. In tali casi – salvo poche eccezioni cf. Alline, Histoire du texte de Platon, come n. 67, 124– 135 –, abbiamo il nome di un ben preciso personaggio (discepolo e/o interlocutore di Socrate) + particella disgiuntiva ἤ + περί e gen., così da offrire anche orientamento sull’esatto contenuto di ciascun dialogo. Nel caso dello Ierone, il titolo informativo è espresso invece mediante un aggettivo col suffisso -ικός. Allo stesso modo sono intitolati, giova ricordarlo, altri scritti di Senofonte: Ἱππαρχικός, Κυνηγετικός, Οἰκονομικός. Naturalmente nel caso dello Ierone, ci si può chiedere se il titolo informativo si presenti così perché scelto davvero da Senofonte, oppure perché formulato solo secondariamente in considerazione di quelli, ritenuti autentici, dello stesso autore. Non rimane che concludere. In questo capitolo è stato esaminato anzitutto il modo di esordire di Senofonte. Sono stati così rilevati alcuni aspetti notevoli. Contro una radicata tradizione, l’autore omette di indicare il proprio nome nel proemio delle sue opere. Talvolta, egli omette persino di fornire una qualche indicazione sull’argomento trattato. Le due mancanze implicano, come visto, l’abbandono di una forma di presentazione dei testi letterari decisamente arcaica, e tutta vincolata al proemio, in favore di una nuova, fondata sul ricorso alla inscriptio libraria. La nostra analisi si è quindi concentrata sul titolo dell’Anabasi: si è osservata l’unitarietà della tradizione in merito, ossia l’inesistenza di forme diverse e indipendenti di designare l’opera nel corso della sua trasmissione. Alle stesse osservazioni siamo giunti trattando della Ciropedia e
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VI Senofonte e la inscriptio libraria
dei Memorabili, nonostante sia evidente in questi due casi il processo ora più ora meno avanzato di ridurre l’originaria intitolazione al modo che sappiamo. Si è detto quindi, anche in un’ottica comparativa, che tale unitarietà può e deve essere interpretata come conseguenza positiva della scelta di Senofonte di fornire tutte e tre le opere di una inscriptio e quindi di un titolo. Fino a questo punto si è invece rinunciato a trattare delle Elleniche, la cui parte iniziale, com’è noto, prosegue e conclude il racconto della guerra peloponnesiaca lasciato “interrotto” da Tucidide con la fine dell’attuale VIII libro. La questione riguardante il titolo – anzi i titoli – delle Elleniche è complessa e, data la sua eccezionale rilevanza, merita una discussione tutta particolare: si veda in proposito l’appendice in chiusura del presente volume.
VII Titoli e prosa nel IV secolo a. C.: alcuni approfondimenti La documentazione in nostro possesso permette, come visto, di constatare il passaggio di Senofonte a una nuova modalità di presentazione del testo in prosa, modalità legata all’uso dei titoli. Ma l’Ateniese non fu affatto l’unico prosatore del IV secolo a. C. a percorrere questa nuova strada: è ciò che intendo mostrare nel presente capitolo, cominciando ancora una volta dalla storiografia, per poi passare allo studio della prosa degli oratori e della produzione dei filosofi. Alla fine del discorso risulterà chiaro quanto si fosse diffuso, ben prima dell’età ellenistica, l’uso dei titoli per la prosa.
1 Le notizie di Dionisio di Alicarnasso su Filisto di Siracusa Analizzando, nella Epistola a Pompeo Gemino, la prosa greca di argomento storico, Dionisio di Alicarnasso pone anzitutto due autori a stretto confronto: Erodoto e Tucidide. La comparazione investe svariati aspetti: i fatti narrati dall’uno e dall’altro, il punto di inizio e di fine del racconto, l’arte del proemio, i principî che regolano l’economia dell’esposizione, naturalmente lo stile e le proprietà linguistiche di ciascuno dei due e così via. Nonostante la puntualità dell’analisi, Dionisio non si pronuncia sul titolo delle due opere prese in esame, né offre elementi di giudizio in merito⁵⁴⁶. Una tale constatazione non deve tuttavia indurre alla conclusione che Dionisio fosse insensibile al problema del titolo delle opere storiche. Al contrario, nella stessa Epistola a Pompeo Gemino, l’erudito fornisce informazioni importanti sulla questione, sebbene “solo” al momento di trattare di storici attivi nel IV secolo a. C. Della sua famosa e discussa notizia sulle opere senofontee qui noi non ci occuperemo, se non per rilevare, contro una lunga tradizione di studi, che essa in verità non verte propriamente sui titoli, ma sui temi trattati dallo storico
Per un commento dell’Epistola a Pompeo Gemino cf. S. Fornaro (introduzione e commento), Dionisio di Alicarnasso: Epistola a Pompeo Gemino, Stuttgart Leipzig 1997 (Beiträge zur Al tertumskunde, 95) e ora I. Matijašić, Shaping the Canons of Ancient Greek Historiography, Berlin Boston 2018 (Beiträge zur Altertumskunde, 359), 72 88. Per un’analisi del passo tanto discusso della lettera (Ep. ad Pomp. Gem. 4,1) consacrato alla storiografia di Senofonte cf. quanto osservo alla n. 547. https://doi.org/10.1515/9783110703740 015
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VII Titoli e prosa nel IV secolo a. C.: alcuni approfondimenti
ateniese in alcune sue opere⁵⁴⁷. Ci soffermeremo invece subito su quanto Dionisio dice sul conto di Filisto di Siracusa⁵⁴⁸.
Concluso il confronto tra Erodoto e Tucidide, Dionisio passa a parlare di Senofonte (cf. Ep. ad Pomp. Gem. 4,1) e ne loda la saggezza: Senofonte aveva scelto per le sue opere storiche ὑποθέσεις (…) ἀνδρὶ φιλοσόφῳ προσηκούσας· τήν τε Κύρου παιδείαν, εἰκόνα βασιλέως ἀγαθοῦ καὶ εὐδαίμονος· καὶ τὴν ἀνάβασιν τοῦ νεωτέρου Κύρου, ᾧ καὶ αὐτὸς συνανέβη, μέγιστον ἐγ κώμιον ἔχουσαν τῶν συστρατευσαμένων Ἑλλήνων· καὶ τρίτην ἔτι τὴν Ἑλληνικὴν καὶ ἣν κατέλιπεν ἀτελῆ Θουκυδίδης, ἐν ᾗ καταλύονταί τε οἱ τριάκοντα καὶ τὰ τείχη τῶν ᾿Aθηναίων, ἃ Λακεδαιμόνιοι καθεῖλον, αὖθις ἀνίσταται. Questo passo ha posto parecchie difficoltà esegetiche ai moderni: cf. il quadro fornito in merito da E. Grisanzio (a cura di), Senofonte. L’ultima pagina della guerra del Peloponneso, con una nota di L. Canfora, Palermo 2015, 29 34. Tra l’altro, gli studiosi si sono chiesti come sia possibile che Dionisio dica a un certo punto τρίτην, volendo fare menzione ancora di due altri scritti senofontei. Per superare questa aporia si sono tentate vie diverse, ma soprattutto si è cercato di “emendare” in vari modi il punto in cui si legge ἔτι τὴν Ἑλληνικὴν καὶ ἣν κατέλιπεν ἀτελῆ Θουκυδίδης, ἐν ᾗ καταλύονταί (…), supponendolo eviden temente corrotto, in modo tale da ridurre ad unum le due indicazioni e fare così quadrare i conti. Ma non si è giunti a risultati soddisfacenti. Per parte mia, tengo a rilevare che tale questione dipende in buona parte da un fraintendimento dell’esatto valore dell’acc. τρίτην. I moderni hanno preso tale indicazione come preannuncio del titolo di una terza opera storica di Seno fonte e per questo sono arrivati a mettere in corsivo tanto τὴν Ἑλληνικήν così come le indica zioni precedenti Κύρου παιδείαν e ἀνάβασιν τοῦ νεωτέρου Κύρου. Ma se leggiamo la notizia sin dal suo inizio, è assolutamente evidente che Dionisio intendeva annoverare non i titoli, ma le ὑποθέσεις (!) scelte da Senofonte per le sue opere storiche di maggiore importanza. Così Dionisio ricorda tre temi opportunamente scelti da Senofonte: dapprima uno di storia (e politica) orientale, che parte dall’educazione di Ciro il grande, immagine del re saggio e felice; poi un altro tema, di storia orientale per un verso e di storia greca per l’altro, cioè la spedizione di Ciro il Giovane sino al cuore del mondo persiano, una impresa a cui lo stesso Senofonte aveva preso parte e il cui racconto offriva la possibilità di tessere il più bell’elogio delle truppe greche; in terzo luogo, ovvero come terzo tema opportunamente scelto da Senofonte, è annoverata la storia greca, compresa tiene a specificare Dionisio anche quella che Tucidide aveva lasciato ἀτελῆ, ἐν ᾗ καταλύονταί τε οἱ τριάκοντα καὶ τὰ τείχη τῶν ᾿Aθηναίων, ἃ Λακεδαιμόνιοι καθεῖλον, αὖθις ἀνίσταται. Per quale motivo Dionisio tiene a fare questa precisazione, cioè si affretta a dire che Senofonte, portando a compimento il racconto lasciato incompiuto da Tucidide, aveva fatto bene a trattare della dissoluzione del governo dei Trenta e della ricostruzione delle Mura di Atene, distrutte dagli Spartani al termine della grande guerra peloponnesiaca? L’apprezzamento per questa “chiusa positiva” data da Senofonte alla guerra del Peloponneso si capisce fino in fondo, se si tengono a mente i rimproveri mossi poco prima nella Epistola (3, 2) a Tucidide. Secondo il critico di Alicarnasso, Tucidide aveva fatto male a narrare un conflitto tutto interno al mondo greco; inoltre, egli aveva lasciato incompleta la narrazione, nonostante le promesse fatte ai lettori di esporre per intero l’immane conflitto. Una terza mancanza dello storico ateniese riguardava la decisione di terminare la narrazione col racconto della catastrofe di Atene. Lo storico ateniese dice Dionisio avrebbe dovuto piuttosto pensare a proseguire la narrazione sino al ritorno degli esuli da File, il che comportò, come sappiamo, la caduta dei Trenta e, come si affretta ad aggiungere Dionisio, anche il ritorno di Atene alla libertà: cf. Ep. ad Pomp. Gem. 3,
1 Le notizie di Dionisio di Alicarnasso su Filisto di Siracusa
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Il resoconto, interpretabile come vedremo in due modi parzialmente diversi, comincia in questo modo: Φίλιστος δὲ Θουκυδίδῃ μᾶλλον 〈ἂν〉 δόξειεν ἐοικέναι καὶ κατ’ ἐκεῖνον κοσμεῖσθαι τὸν χαρακτῆρα. Οὔτε γὰρ ὑπόθεσιν εἴληφε πολυωφελῆ καὶ κοινήν, [ὥσπερ Θουκυδίδης], ἀλλὰ μίαν καὶ ταύτην τοπικήν. Διῄρηκε δ’ αὐτὴν εἰς γραφὰς δύο, Περὶ Σικελίας μὲν τὴν προτέραν ἐπιγράφων, Περὶ Διονυσίου δὲ τὴν ὑστέραν· ἔστι δὲ μία· καὶ τοῦτο γνοίης ἂν ἀπὸ τοῦ τέλους τῆς Σικελικῆς (Dion. Hal., Ep. ad Pomp. Gem. 5, 1).
Analizziamo il brano, per darne una prima interpretazione. Secondo Dionisio, Filisto s’era mosso alla maniera di Tucidide. S’era dedicato a un solo argomento:
10. Tutto ciò era stato trattato da Senofonte, il quale aveva così dato una chiusa acconcia (positiva) e opportuna alla narrazione della guerra peloponnesiaca. La lode dionisiana nei riguardi di Senofonte si spiega insomma fino in fondo tenendo conto delle obiezioni sollevate dallo stesso Dionisio all’operato di Tucidide. Ad ogni modo, è chiaro che la notizia del critico di Alicarnasso verte propriamente sulle ὑποθέσεις delle opere senofontee, non sui loro titoli. È erroneo pertanto mettere i punti sopra indicati in corsivo. Sulla produzione dello storico siracusano sono essenziali: R. Zoepffel, Untersuchungen zum Geschichtswerk des Philistos von Syrakus. Inaugural Dissertation, Freiburg im Breisgau 1965; C. Bearzot, Filisto di Siracusa, in R. Vattuone (a cura di), Storici greci d’Occidente, Bologna 2002 (Percorsi), 91 136; V. Fromentin, Denys d’Halicarnasse et les imitateurs de Thucydide: le cas de Philistos de Syracuse, in V. Fromentin S. Gotteland P. Payen (textes réunis par), Ombres de Thucydide. La réception de l’historien de l’Antiquité jusqu’au début du XXe siècle, Bordeaux 2010 (Études, 27), 105 118. Sempre importante (per le proposte di attribuzione a Filisto) G. De Sanctis, Una nuova pagina di storia siciliana, in RFIC 33 (1905), 66 73 (= Scritti minori, I, Roma 1966, 113 120). Dello storico Filisto è fatta menzione in uno dei frammenti (il secondo) di una famosa iscrizione di Tauromenio databile agli inizi, piuttosto che alla fine, del II a. C. Il fram mento epigrafico ricorda Filisto come siracusano, accenna alla tradizione che lo vuole discepolo di Euno «che scrisse le elegie», e fornisce qualche altra notizia prima di interrompersi. Assente, purtroppo, nel nostro frammento, la menzione del titolo delle opere di Filisto. Un altro fram mento della stessa iscrizione (il primo: seguo qui l’ordine di presentazione dei materiali seguito da F. Battistoni) offre informazioni su Callistene di Olinto, definito «epistolografo» di Alessandro il Macedone nonché autore di πράξεις; pare che a questo punto l’epigrafe fornisse precisazioni sul contenuto di questi “atti”. Un terzo frammento descrive Quinto Fabio Pittore e la sua pro duzione storiografica. Altri due frammenti presentano il lemma rubricato di «Anassimandro di Mileto». Il che dimostra che nell’iscrizione non figuravano soltanto autori di storia. Sull’epigrafe si vedano: G. Manganaro, Una biblioteca storica nel ginnasio di Tauromenion e il P. Oxy. 1241, in PP 29 (1974), 389 409 (per l’iscrizione: 389 401); H. Blanck, Un nuovo frammento del catalogo della biblioteca di Tauromenion, in PP 52 (1997), 241 255; F. Battistoni, The Ancient Pinakes from Tauromenion. Some New Readings, in ZPE 157 (2006), 169 180. Sulla effettiva consistenza della biblioteca, a cui apparteneva l’epigrafe, e sulla collocazione stessa della biblioteca si racco manda Nicolai, Le biblioteche dei ginnasi (come n. 312), 41 42, il quale corregge la presa di posizione di Manganaro.
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storia locale. E questa egli l’aveva trattata in due lavori, il primo dei quali era stato da lui intitolato Sulla Sicilia, l’altro invece Su Dionisio. Il tutto costituiva ad ogni modo una sola scrittura (ἔστι δὲ μία). Lo si poteva facilmente ricavare dalla parte conclusiva dello scritto Sulla Sicilia: καὶ τοῦτο γνοίης ἂν ἀπὸ τοῦ τέλους τῆς Σικελικῆς. Nell’interpretare in questo modo la notizia dionisiana mi sono attenuto, come si vede, alla esegesi attualmente vigente del brano, la quale: 1) sottintende alle parole ἔστι δὲ μία il termine γραφή; 2) e considera ἔστι δὲ μία come immediato correttivo dell’affermazione precedente di due opere storiografiche di Filisto. In tal modo viene escluso dagli studiosi contemporanei (si veda in proposito C. Bearzot, Filisto di Siracusa, come n. 548, 91– 136) che ἔστι δὲ μία sia in rapporto col punto immediatamente superiore del brano, dove si dice che Filisto si era occupato di un solo tipo di materia storica, per giunta di carattere localistico: ὑπόθεσιν εἴληφε… μίαν, καὶ ταύτην τοπικήν. Considerando altre parti della Epistola a Pompeo Gemino, nelle quali il critico di Alicarnasso insiste proprio sul problema della materia scelta dagli storici per i loro lavori, mi chiedo tuttavia ora se in realtà l’esegesi corretta del passo non sia un’altra. Dionisio, in altre parole, non avrebbe inteso sollevare il problema del numero di opere pubblicate da Filisto – sicuramente due –, ma la questione della presunta diversità di temi affrontati dallo storico di Siracusa. In quest’ultimo ordine di idee, Dionisio può avere voluto semplicemente dire quanto segue: la materia trattata da Filisto è stata una e una soltanto: storia locale; e ciò vale anche se le sue opere sono due e hanno un titolo ben diverso. A conforto di tale considerazione, Dionisio ricorda quindi al suo pubblico, evidentemente informato, la conclusione data da Filisto al suo primo lavoro. Qui lo storico siracusano terminava evidentemente con l’esposizione di una serie di fatti, da cui egli era ripartito per la sua seconda pubblicazione⁵⁴⁹. I titoli scelti
Un punto di contatto tra l’ultimo libro del Περὶ Σικελίας e l’inizio del Περὶ Διονυσίου lo riconosce anche Diodoro Siculo, XIII, 103, 3: Τῶν δὲ συγγραϕέων Φίλιστος τὴν πρώτην σύνταξιν τῶν Σικελικῶν εἰς τοῦτον τὸν ἐνιαυτὸν κατέστροϕεν, εἰς τὴν ’Ακράγαντος ἅλωσιν, ἐν βύβλοις ἑπτὰ διελθὼν χρόνον ἐτῶν πλείω τῶν ὀκτακοσίων, τῆς δὲ δευτέρας συντάξεως τὴν μὲν ἀρχὴν ἀπὸ τῆς τῆς προτέρας τελευτῆς πεποίηται, γέγραϕε δὲ βύβλους τέσσαρας. Sulle citazioni di storici greci e di altri autori in Diodoro Siculo si vedano: Rathmann, Diodor und seine “Biblio theke” (come n. 40), 363 385; A. Cohen Skalli, Diodore et ses notes de lectures, in Ead. (ed.). Historiens et érudits à leur écritoire: les oeuvres monumentales à Rome entre République et Principat, Bordeaux 2019 (Scripta antiqua, 125), 139 160. Ringrazio l’autrice, per avermi inviato
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dall’autore, sembra volere dire Dionisio, non devono ingannare sull’effettivo contenuto delle due opere. La materia era infatti la stessa: storia locale. Come visto, Dionisio non esita a parlare di titoli d’autore. Infatti, egli afferma che proprio Filisto aveva intitolato i suoi scritti l’uno Περὶ Σικελίας e l’altro Περὶ Διονυσίου. Questa duplice informazione è particolarmente rilevante, se si pensa che lo stesso Dionigi non aveva neppure sfiorato la questione parlando dell’opera di Erodoto e di quella di Tucidide. D’altra parte, è anche vero che Dionisio non espone le ragioni del suo convincimento, cioè non dice per quale motivo era certo che quei due titoli fossero d’autore. Difficilmente però l’erudito di Alicarnasso si sarà pronunciato senza fondamento in proposito. Se leggiamo per intero l’Epistola a Pompeo Gemino e così anche altri suoi lavori di critica letteraria, notiamo che Dionisio appare sempre estremamente cauto sulla questione del titolo degli scritti da lui presi in esame: in generale, egli tende a trattare diversamente titoli che erano (o si potevano reputare) d’autore da altri che non lo erano affatto o sui quali la tradizione a sua disposizione non era unitaria. Lo vedremo nelle pagine seguenti parlando di Isocrate e Demostene. Ad ogni modo, non è difficile credere che anche Filisto desse un titolo ai suoi lavori. Siamo ormai in un’epoca che vede, anche per gli autori di opere in prosa, il deciso passaggio all’epigrafe libraria. Lo abbiamo visto per Senofonte. Lo rileveremo tra non molto per due altri suoi illustri contemporanei: Isocrate e Platone. Vediamo invece ora come Dionisio presenta l’operato di un altro prosatore attivo, ormai, nell’avanzato IV secolo a. C.
2 Teopompo di Chio 2.1 Profilo di un prosatore Il quinto storico preso in considerazione nella Epistola a Pompeo Gemino è Teopompo di Chio. Del vissuto di questo autore molto è ancora incerto. Più giovane di una o forse due generazioni rispetto a Senofonte, fu in ogni caso prosatore estremamente prolifico. Fu storico e oratore al tempo stesso. Conobbe e sfruttò le opere di Senofonte e anche quelle di Isocrate, se dobbiamo dare cre-
il suo lavoro ancora in bozze. Sul titolo dell’opera diodorea si veda ancora il volume appena citato di Rathmann alle pp. 128 154, e ancora A. Cohen Skalli, Apud graecos desiit nugari Diodorus: Le sens du titre Bibliothèque historique, in Mediterraneo antico 18 (2015), 179 192.
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dito, e non abbiamo motivo per non farlo, alla notizia che lo accusa di “furti” dalle Elleniche dell’uno e dall’Areopagitico dell’altro⁵⁵⁰. Di Isocrate fu anche scolaro secondo varie testimonianze antiche. Anzi, il titolo di più d’uno dei suoi scritti richiama palesemente quello di alcuni discorsi isocratei, come vedremo. È dunque lungo un solco ben preciso di prosa storica (oltre che di arte oratoria) che già si individuano le prime importanti tracce del fatto che Teopompo conosceva certamente, per averlo ereditato dalla precedente generazione di prosatori (da Senofonte; e, per l’oratoria, da Isocrate, come appunto si vedrà), l’uso dei titoli; e che egli stesso ebbe la necessità di ricorrervi, per distinguere i suoi numerosi lavori⁵⁵¹. La documentazione a nostra disposizione ci permette di fare vari approfondimenti in merito. Presentando l’operato di Teopompo in Ep. ad Pom. Gem. 6, 1– 3, Dionisio di Alicarnasso lo ricorda come illustrissimo tra tutti gli allievi di Isocrate: aveva infatti composto numerosi panegirici, discorsi simbuleutici e altri scritti, tra cui le lettere Chie. Nonostante il riconoscimento della variegata produzione del personaggio, nulla di preciso Dionisio riferisce però sul titolo dei lavori teopompei, eccezione fatta proprio per l’ultimo genere di testi. Solo per le lettere, infatti, egli parla senza mezzi termini di un titolo: ἐπιστολάς (…) τὰς Χιακὰς ἐπιγραφομένας⁵⁵². D’altra parte, è evidente che Dionisio non presenta questo dato librario come d’autore. La differenza rispetto a quanto poco prima da lui detto sul conto di Filisto è notevole.
La fonte è Porfirio, citato da Eusebio nella Praeparatio evangelica X, 3.1 13 (= FrGrHist 115, T 27). Sull’opera e la personalità di Teopompo ci informa largamente anche Phot., Bibl., cap. 176. Si vedano in merito G. Carlucci, Vita di Teopompo di Chio. Una ipotesi di ricostruzione, in L. Canfora R. Otranto, Teopompo. Elleniche, libro II (PSI 1304), Bari 2013 (Paradosis, 20), 7 24; e ora l’edizione critica con vasto commento di G. Ottone (a cura di), Teopompo di Chio. Filippiche (Fozio, Biblioteca, cod. 176), Tivoli 2018 (Themata, 21). Sulle diverse denominazioni adottate da Ateneo il che peraltro non implica affatto che abbiamo in ciascun caso a che fare con titoli! per indicare uno stesso scritto teopompeo cf. A.L. Chávez Reino G. Ottone, Les fragments de Théopompe chez Athénée: un aperçu général, in D. Lenfant (éd.), Athénée et les fragments d’historiens, Actes du Colloque International (Strasbourg, 16 18 juin 2005), Paris 2007 (Études d’archéologie et d’histoire ancienne), 144 146. Dopo tutto quel che s’è detto a livello di metodo sulla differenza tra vere e proprie designazioni librarie e mere denominazioni/appellativi (o indicazioni di contenuto), è ormai chiaro che non sempre le fonti antiche citando uno scritto ne forniscono esattamente il titolo: spesso, come sopra visto, si limitano a parafrasarlo o forniscono una indicazione piuttosto sommaria del contenuto dell’opera, senza che ciò implichi una cor rispondenza con la inscriptio libraria. Proprio questo punto non è esente da problemi di critica testuale: cf. Fornaro, Dionisio di Alicarnasso: Epistola (come n. 546), 251.
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Nella stessa notizia, l’erudito di Alicarnasso presenta poi subito la storiografia teopompea in questi termini: (…) ἱστορίαν πεπραγματευμένος, ἄξιος ἐπαινεῖσθαι πρῶτον μὲν τῆς ὑποθέσεως τῶν ἱστο ριῶν (καλαὶ γὰρ ἀμφότεραι, ἣ μὲν τὰ λοιπὰ τοῦ Πελοποννησιακοῦ πολέμου περιέχουσα, ἣ δὲ τὰ Φιλίππῳ πεπραγμένα), ἔπειτα τῆς οἰκονομίας (ἀμφότεραι γάρ εἰσιν εὐπαρακολού θητοι καὶ σαφεῖς), μάλιστα δὲ τῆς ἐπιμελείας τε καὶ φιλοπονίας τῆς κατὰ τὴν συγγραφήν (…). (…) essendosi occupato di storia, [Teopompo] è degno di lode anzitutto per la materia delle sue storie (belle sono infatti entrambe: l’una contenente il resto del conflitto peloponne siaco, l’altra le gesta compiute da Filippo), poi per l’economia del racconto (entrambe infatti sono facili a seguirsi e chiare), e più di ogni altra cosa per la cura e la dedizione esplicata lungo tutta la composizione (…).
Dunque, Dionisio ricorda due opere del personaggio in campo storiografico: l’una narrava la fine della guerra del Peloponneso⁵⁵³; l’altra ripercorreva l’operato di Filippo il Macedone. Su questa seconda opera e sulla questione, interessantissima, del suo titolo soffermiamo adesso la nostra attenzione.
2.2 Sul titolo dei Φιλιππικά Che l’opera fosse eccezionalmente vasta, lo apprendiamo da Diodoro Siculo XVI, 3, 8 (= FrGrHist 115, T 17), che ci parla di ben 58 volumi. Le citazioni lasciateci dagli antichi sono peraltro numerose. Notevoli quelle offerte nei Progymnasmata di Elio Teone, un grammatico del I o forse della prima metà del II secolo d. C. Per segnalare la presenza di una data informazione nel vasto lavoro teopompeo, Teone adotta una tecnica ben precisa. Oltre a menzionare immancabilmente il nome dello storico di Chio, egli segnala puntualmente il libro di volta in volta considerato e quindi il titolo dell’opera, sempre accompagnato dall’articolo, in caso genitivo. Così Teone fa rimandi di questo tipo: – ἐν τῇ εἰκοστῇ Θεοπόμπου τῶν Φιλιππικῶν (Prog. 66, 8 – 15); – παρὰ Θεοπόμπῳ ἐν τῇ ὀγδόῃ τῶν Φιλιππικῶν (Prog. 66, 16 – 31); – παρὰ δὲ Θεοπόμπου ἐκ τῆς πέμπτης καὶ εἰκοστῆς τῶν Φιλιππικῶν (Prog. 67, 13 – 30);
Su Teopompo come continuatore di Tucidide cf. anche Polibio, VIII 10, 7 13, 8; Diod. XIII, 42, 5 e XIV, 84, 7; Marcel., Vita Thuc. 45; Anon. Vita Thuc. (= FrGrHist T 19, T 13, T 14, T 15, T 5).
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ἐν τῇ ἐνάτῃ τῶν Φιλιππικῶν Θεοπόμπου (Prog. 68, 7, 22)⁵⁵⁴.
Sul titolo dell’opera siamo informati, per l’epoca romana, anche da tradizione diretta del pieno II secolo o di poco più tarda. Mi riferisco qui al P.Ryl. I 19, un protocollo, a quanto pare, di un rotolo papiraceo, databile, su basi paleografiche, per il recto, appunto al II secolo d. C.⁵⁵⁵. Il reperto contiene poche righe del sommario del XLVII libro τῶν Θε[ο]πόμ[που Φιλιπ]πικῶν. Per il testo si veda comodamente FrGrHist 115, F 217. Sul verso dello stesso papiro, ed evidentemente all’inizio del rotolo, una seconda mano, da assegnare allo stesso II secolo o forse al secolo successivo⁵⁵⁶, appose, in senso parallelo alle fibre, ancora una inscriptio, in modo appunto da segnalare anche esternamente il contenuto del volume. A causa delle attuali condizioni del papiro, oggi leggiamo soltanto Θεοπόμπο[⁵⁵⁷. È facile supporre che il nome dell’autore fosse qui declinato al genitivo e che seguisse il titolo dell’opera, parimenti al genitivo, e infine il numero del libro⁵⁵⁸. Anche in P.Oxy. VII 1012, fr. 9 (della metà del III secolo⁵⁵⁹) si rimanda a quanto detto da Teopompo in un volume τῶν Φιλιππικῶν. Per tornare così alle citazioni degli antichi, si noti che Ateneo, in più luoghi della sua opera (IX, 32, 384a; XV, 18, 67cd; IV, 25, 145a = FrGrHist 115, T 106a – 106b; FrGrHist 115, T 113) sfrutta lo stesso schema per indicare il XIII e il XIV libro dell’opera teopompea: l’indicazione del singolo libro è quindi accompagnata dal titolo τῶν Φιλιππικῶν, mentre in XII, 41 (= FrGrHist 115, T 114) egli rimanda al XV libro delle Φιλιππικῶν ἱστοριῶν. Su questi brani hanno richiamato l’attenzione A. Capone C. Franco, Teopompo di Chio nei Progymnasmata di Elio Teone: note esegetiche, in QS 59 (2004), 167 182. Alla metà del II secolo d. C. lo assegna A.S. Hunt (ed. by), Epitome of Theopompus, Philippica XLVII, in Rylands Papyri 1 (1911), 32 34, n. 19 (per la datazione: 33). Sul papiro si veda ora C. Biagetti, Teopompo e i papiri, Teopompo nei papiri. Acquisizioni, rimaneggiamenti, attri buzioni, in G. Ottone (a cura di), “Historiai para doxan”. Documenti greci in frammenti: nuove prospettive esegetiche. Atti dell’incontro internazionale di studi: Genova, 10 11 Marzo 2016, Tivoli 2017 (Themata, 19), 137 177, qui soprattutto 137 142. Lo studioso assegna con maggiore cautela il prodotto allo stesso secondo secolo. Cf. Biagetti, Teopompo e i papiri (come n. 555), 140. La lettura Θεοπόμπο[ è di Biagetti, Teopompo e i papiri (come n. 555), 140, mentre Hunt (ed. by), Epitome of Theopompus (come n. 555), n. 19, leggeva Θεοπόμπου. Il rotolo, com’è lecito credere, doveva contenere, oltre al sommario, anche l’intero libro XLVII. In questo senso cf. Hunt (ed. by), Epitome of Theopompus (come n. 555), 32. Per la datazione del papiro cf. M. Lama, Aspetti di tecnica libraria ad Ossirinco: copie letterarie su rotoli documentari, in Aegyptus 71 (1991), 55 120, qui in part. 89 90; L. Del Corso, Lo ‘stile severo’ nei P.Oxy.: una lista, in Aegyptus 86 (2006), 81 106, qui: 97; Biagetti, Teopompo e i papiri (come n. 555), 144 (qui con ulteriori approfondimenti alla nota 21).
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Tenuto conto del P.Ryl. I 19 e delle menzioni dell’opera in Teone, mi sembra assodato che l’opera abbia circolato e fosse nota in età romana normalmente sotto il titolo τὰ Φιλιππικά o più semplicemente sotto Φιλιππικά. Che l’opera abbia potuto in qualche caso anche essere intitolata in maniera parzialmente differente (per esempio Φιλιππικαὶ ἱστορίαι), non lo si può neppure escludere in senso assoluto. Ma neppure si può escludere, nella menzione sopra evidenziata del XV libro, una lieve imprecisione di Ateneo.
2.3 Dare un nome ai fatti storici. Genesi e importanza di un titolo Che Teopompo abbia dato un titolo ai suoi lavori, lo abbiamo in generale già affermato in considerazione delle dinamiche letterarie del suo tempo e di quelle della generazione a lui precedente, e in particolare tenendo già conto di chi (Senofonte) si era messo all’opera ben prima di lui e aveva sfruttato la prassi della inscriptio libraria. Ma che Φιλιππικά sia un titolo d’autore, induce a sostenerlo adesso la straordinaria stabilità di questa designazione nella tradizione diretta e indiretta a noi pervenuta. In mancanza di un titolo, la trasmissione dell’imponente racconto, che si era alla fine sviluppato, come ricordato, per parecchie decine di volumi, sarebbe venuta presto a soffrire di un disordine vertiginoso: i rotoli avrebbero finito per essere intitolati ora in un modo ora in un altro e noi ne avremmo senz’altro potuto constatare le conseguenze negative nelle citazioni di epoca romana. Invece, i dati a nostra disposizione attestano per vari libri – per esempio per il nono, l’undicesimo, il dodicesimo, il tredicesimo, il venticinquesimo, il quarantasettesimo – sempre lo stesso titolo. Tale stabilità implica che proprio l’autore abbia scelto la suddetta designazione, dando inizio alla pubblicazione del suo lavoro⁵⁶⁰. Assodato un fatto così prezioso, possiamo ora collocarlo nel contesto letterario e più in generale storico-culturale del pieno IV secolo a. C. e darne una interpretazione. Il titolo Φιλιππικά è in effetti notevole. Che esso sia derivato dal nome di un personaggio centrale dell’epoca, Filippo il Macedone, è evidente. La
Quando Teopompo abbia cominciato la pubblicazione del suo immane lavoro, è discusso. D’altra parte, è plausibile che Teopompo abbia cominciato ad applicarsi alla stesura di quest’opera tra il 346 e il 342 a. C. o non molto dopo. Per maggiori ragguagli in merito cf. M.A. Flower, Theopompus of Chios. History and Rhetoric in the Fourth Century BC, Oxford 1994, 31 32.
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derivazione è stata ottenuta mediante il suffisso -ικός⁵⁶¹. Fatti o eventi dell’epoca sono quindi presentati, e per così dire designati, in funzione di un individuo. Tale constatazione è tanto più significativa, se si pensa che, in campo storiografico, i fatti storici erano stati sino ad allora considerati e quindi anche chiamati, nel loro complesso, piuttosto in considerazione dei popoli trattati: – Erodoto, pur non avendo dato un titolo alla sua opera, aveva nondimeno dichiarato nell’esordio di volere dare dimostrazione concreta della sua ricerca, affinché imprese memorabili compiute dai Greci e dai Barbari non cadessero nella dimenticanza; – neppure Tucidide aveva fornito di una inscriptio il suo racconto. Tuttavia, esordendo, egli aveva subito annunciato di narrare la guerra tra Peloponnesiaci e Ateniesi; – inoltre, Tucidide, ricordando a un certo punto il lavoro di altri “storici” suoi predecessori, aveva chiamato τὰ Μηδικά e τὰ Ἑλληνικά le vicende da quelli narrate (cf. I, 97). – Senofonte aveva intitolato il suo grande racconto di storia greca proprio Ἑλληνικά – ciò almeno dal terzo libro in poi delle attuali Elleniche: sulla questione cf. infra, appendice. Teopompo sapeva benissimo dell’operato dei precedenti storici, tanto è vero che anch’egli si era dedicato alla storia greca e aveva scritto delle Elleniche, sul cui titolo si vedano le considerazioni di M.A. Flower, Theopompus of Chios (come n. 560), 29, n. 18. Perché dunque cominciare una nuova narrazione, designandola in funzione di un individuo invece che di un popolo? Questa scelta innovativa può essere analizzata da varie prospettive. La letteratura encomiastica si era certo ben affermata nella prima metà del IV secolo a. C., toccando inevitabilmente i confini del racconto storico. Isocrate, col suo Evagora (scritto intorno a 370 – 365 a. C. circa), riteneva di essere stato il primo a comporre un grande encomio in prosa di un personaggio illustre: cf. Evag. 8. D’altra parte, il suo contemporaneo Senofonte aveva scritto l’Agesilao. Sia pur
Sulle formazioni con tale suffisso specialmente tra V e IV secolo a. C. si veda T. Zonno, Contributi allo studio delle formazioni in ικός, in CorLond 6 (1990), 109 125; il contributo di T. Zonno è stimolante, tuttavia non tratta del titolo di opere storiche (e presenta fin troppe ine sattezze bibliografiche). Sul suffisso ικός più in generale si vedano: P. Chantraine, La formation des noms en Grec ancien, Paris 1933 (Collection linguistique, 38), 391 396; A.N. Amman, ΙΚΟΣ bei Platon, Freiburg 1953: non mi è stato possibile consultare questo lavoro; J. Budenz, Das Suffix κός ( ικός, ακός, υκός) im Griechischen, Göttingen 1858; Ch.W. Peppler, The Termination κός, as Used by Aristophanes for Comic Effect, in AJPh 31 (1910), 428 444.
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con tendenze e sensibilità diverse, il singolo è fatto oggetto di una composizione letteraria e questa prende nome appunto dal personaggio celebrato. Ciò però non basta a spiegare l’innovazione teopompea. Le Filippiche non sono né possono essere inquadrate nel genere di un encomio. E il titolo usato in questo caso da Teopompo è formalmente ben diverso da quelli adottati per testi encomiastici dell’epoca: non si tratta di mera riproposizione del nome del personaggio celebrato. D’altra parte, Teopompo si è ben guardato anche dal ricorrere a una costruzione con περί e genitivo, come invece aveva fatto Filisto per designare la sua opera su Dionisio I di Sicilia. Φιλιππικά è in effetti una variazione calcolata di espressioni come Μηδικά ed Ἑλληνικά: in questo modo le soglie librarie presentano il racconto come narrazione di accadimenti storici ormai dominati o almeno condizionati dalla figura di un singolo di speciale importanza, Filippo il Macedone. All’individuo è così riconosciuta centralità nello svolgersi degli eventi, che vanno – questo è l’arco temporale essenzialmente considerato da Teopompo – dal 359 a. C., data appunto dell’ascesa al potere di Filippo, al 336 a. C., anno della morte del personaggio. Grazie allo storico Polibio sappiamo che Teopompo aveva esplicitato le ragioni della sua composizione direttamente ἐν ἀρχῇ τῆς Φιλίππου συντάξεως, cioè nel proemio, dicendo di essere stato indotto a realizzarla dalla considerazione che l’Europa⁵⁶² non aveva mai visto sino ad allora un uomo della grandezza del figlio di Aminta: (…) Θεοπόμπῳ, ὅς γ’ ἐν ἀρχῇ τῆς Φιλίππου συντάξεως δι’ αὐτὸ μάλιστα παρορμηθῆναι φήσας πρὸς τὴν ἐπιβολὴν τῆς πραγματείας διὰ τὸ μηδέποτε τὴν Εὐρώπην ἐνηνοχέναι τοιοῦτον ἄνδρα παράπαν οἷον τὸν ᾿Aμύντου Φίλιππον (cf. Polibio VIII, 11, 1 = FrGrHist 115 T 19; F 27). A un personaggio di tale eccezionale levatura lo storico di Chio, superando il genere degli Ἑλληνικά, decide dunque di consacrare le sue energie di storico e di prosatore. Il titolo adottato è il primo strumento di propaganda della sua nuova concezione storica. E ciò che Teopompo afferma nel proemio, serve allo stesso tempo a chiarire e a giustificare la designazione originale dell’opera⁵⁶³.
Sulle delimitazioni geografiche dell’idea di Europa nelle fonti antiche cf. C. Ferone, Il concetto di Europa nel mondo antico, in Id., Opuscula, I, 1: Studi di storia antica e di critica storica, a cura di A. Russi, San Severo 2013. Sulla questione del titolo dell’opera mi è stato molto utile lo stupendo lavoro di M.A. Flower, Theopompus of Chios (come n. 560), 115 116, 148 153. Si veda inoltre J.M. Alonso Nunez, The Emergence of Universal Historiography from the 4th to the 2nd Centuries B.C., in H. Verdin G. Schepens E. De Keyser (ed. by), Purposes of History. Studies in Greek Historiography
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Φιλιππικά è insomma un titolo al crocevia di diverse esigenze e dinamiche, letterarie e in generale storiche dell’avanzato IV secolo a. C. Già da un caso del genere si capisce poi che il IV secolo a. C. non solo vede l’affermarsi dell’uso dei titoli nella letteratura in prosa – abbiamo sin qui considerato il genere storico – ma è anche l’epoca d’oro dei titoli, se teniamo conto della creatività e della libertà con cui i Greci del tempo li coniano secondo le più diverse esigenze. Il caso dei Φιλιππικά è emblematico.
2.4 Teopompo e l’arte oratoria Dopo questa digressione, che ci ha aiutato a mettere a fuoco l’importanza strategica assunta dai titoli nelle dinamiche letterarie dell’inoltrato IV secolo a. C., torniamo alla notizia dionisiana sullo storico di Chio. Infatti il critico di Alicarnasso presenta Teopompo anche come illustrissimo discepolo di Isocrate e come autore di molti panegirici e discorsi simbuleutici: ἐπιφανέστατος πάντων 〈τῶν〉 Ἰσοκράτους μαθητῶν γενόμενος καὶ πολλοὺς μὲν πανηγυρικούς, πολλοὺς δὲ συμβουλευτικοὺς συνταξάμενος λόγους. A un Teopompo impegnato nello sfaccettato campo dell’arte oratoria, e non solo, ci conduce anche l’esame di altra documentazione. Si pensi in particolare a una celebre iscrizione ellenistica scoperta e pubblicata circa un secolo fa da Amedeo Maiuri in una silloge di epigrafi rinvenute a Rodi e a Cos, ma poi riedita da Mario Segre non senza beneficiare dei contributi di Gaetano De Sanctis⁵⁶⁴. from the 4th to the 2nd Centuries B.C. Proceedings of the International Colloquium Leuven, 24 26 May 1988, Leuven 1990 (Studia Hellenistica, 30), 173 192, qui in part. 178. Sull’epigrafe si vedano A. Maiuri, Nuova silloge epigrafica di Rodi e Cos, Firenze 1925, 14 15; G. De Sanctis, Epigraphica VII: la biblioteca di Rodi, in RIFC 4 (1926), 63 73 (= Scritti Minori, vol. IV, Roma 1976, 199 208: d’ora innanzi indicato a partire da questo lavoro); M. Segre, Catalogo di libri da Rodi, in RIFC 13 (1935), 214 222; Id., Ancora sulla biblioteca del ginnasio di Rodi, in RFIC 14 (1936), 40. L’edizione di Segre migliora decisamente quella di Maiuri. Già De Sanctis, che la commenta longe lateque, era intervenuto correggendo su più punti l’edizione del Maiuri. Sul catalogo si vedano pure C. Wendel, Spuren einer alten Bibliothek auf Rhodos, in Zentralblatt für Bibliothekswesen 46 (1929), 1 6; Id., Neues aus alten Bibliotheken, in Zentralblatt für Bibliothekswesen 54 (1937), 585; e ancora J. Platthy, Sources on the Earliest Greek Libraries. With the Testimonia, Amsterdam 1968, 148 150; Nicolai, Le biblioteche dei ginnasi (come n. 312), 34 35: qui lo studioso circoscrive alcune considerazioni di Segre sulla consistenza della bi blioteca cui è connessa l’epigrafe; G.Ch. Papachristodoulou, Das hellenistische Gymnasion von Rhodos. Neues zu seiner Bibliothek, in Akten des XIII. Internationalen Kongresses für klassische Archäologie Berlin, 1988, Mainz 1990, 500 501, pl. 75.3 4 (nuovo dato epigrafico); H. Blanck, Das Buch in der Antike (come n. 172), 150 e n. 26. Sulla recensione, molto importante, del volume di Maiuri curata da F. Hiller von Gaertringen cf. nota seguente.
2 Teopompo di Chio
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Il monumento epigrafico, databile tra la fine del II e l’inizio del I a. C., appartenne forse al ginnasio della città di Rodi. Si tratta di una stele di marmo: essa esibisce, su due distinte colonne di scrittura, i nomi di alcuni prosatori e per ciascuno di essi offre il titolo delle opere che la biblioteca evidentemente possedeva. I nomi degli autori sono, come c’era da attendersi, al genitivo, scolpiti in ἔκθεσις rispetto all’elenco dei titoli; e sono ordinati alfabeticamente con riguardo alla sola prima lettera (così si ricava almeno dalla seconda colonna di scrittura). Da questo punto di vista gli autori menzionati hanno tutti nomi che cominciano con una lettera compresa tra δ e θ. Ed è proprio tra quelli il cui nome inizia con θ che il catalogo si dimostra straordinariamente interessante. Infatti, vi figurano due omonimi, il primo dei quali, nonostante il carattere mutilo della iscrizione in questo punto (linea 13), è certamente il Teopompo di cui parla Dionisio di Alicarnasso nella notizia già vista, mentre il secondo è un «altro Teopompo», come recita la pietra alla linea 27, senza ulteriore specificazione. Del primo Teopompo, l’unico che qui considereremo, è offerto un prezioso elenco di titoli, alcuni dei quali erano fino alla scoperta della pietra del tutto ignoti, come rilevò Gaetano De Sanctis, che per primo diede di questo catalogo di biblioteca un commento accurato e ancora oggi fondamentale⁵⁶⁵. Sono 13 i testi così messi sul conto del nostro Teopompo, perlopiù scritti a carattere retorico-politico. E questo dato, integrato con quanto lo stesso catalogo segnala a proposito di altri autori, permette buone congetture sulla qualità della raccolta di libri posseduta dalla biblioteca rodia. Ecco dunque ciò che l’iscrizione presenta, per Teopompo, alle linee 13 – 27 (seguo, con le dovute integra-
Cf. De Sanctis, Epigraphica VII: la biblioteca di Rodi (come n. 564), 199 208. Ma si vedano pure le pagine di F. Hiller von Gaertringen, in Gnomon 2 (1926), 193 198, qui in particolare 195 196. Le due recensioni presentano vari punti in comune. In particolare, tanto quella del De Sanctis quanto quella di Hiller von Gaertringen suppongono il nome di Teopompo di Chio alla linea 13. Le due recensioni furono stese indipendentemente l’una dall’altra. A seguito dell’ap parizione di quella del De Sanctis, Hiller von Gaertringer ha pubblicato un Nachtrag zu “Maiuri. Nuova Silloge epigrafica di Rodi e Cos”, in Gnomon 2 (1926), 365. Lo studioso nota i molti punti di contatto tra la sua interpretazione dell’epigrafe e quella del De Sanctis; d’altra parte egli evi denzia altri aspetti positivi della interpretazione desanctiana; seguono altre osservazioni: una a difesa dell’ordine alfabetico della seconda colonna, altre congetturali. Le considerazioni offerte da Jacoby in FrGrHist, II/2: Kommentar, 115 T 1, ll. 25 34, a partire da alcune indicazioni del catalogo si contraddicono per un verso, per l’altro sono tacitamente dipendenti dallo studio di G. De Sanctis; altre dipendenze si notano poco più avanti al commento di 115 T 34 46, ll. 32 35. Le osservazioni di Jacoby nei FrGrHist sul titolo di altri scritti teopompei sono viziate peraltro da alcune inesattezze o non appaiono sufficientemente fondate.
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zioni, la trascrizione del Segre, fatta eccezione per la l. 18, dove scrivo ἐγκώμιον, come indicato in precedenti lavori, invece che ἐνκώμιον): Θεοπ̣[όμ]που Λακωνικός ἕν Π̣[αν]ιω̣νικός ἕν [Μαύσ]σ̣ ω̣λος ἕν [Ὀλυμ]πικός ἕν [Φίλι]π̣πος ἕν [᾿Aλεξά]ν̣ δ̣ ρου ἐγκώμιον ἕν Ὑπὲρ τῶν Ο̣Λ̣IΙ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ἕν [Ὑ]πὲρ τοῦ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ίου ἕν Πρὸς Εὐαγόραν [Κυ]π̣ρ̣ι̣ α̣[κῶ]ν̣ δ̣ [ύο] Ἐπιστολὴ πρὸς [᾿Aντίπα]τρο[ν ἕν] Συμβουλε[υτικὸς πρὸς]⁵⁶⁶ ᾿Aλέξαν[δρον] Παναθηναϊκό[ς – - – Καταδρομὴ τῆ[ς Πλάτωνος] διατριβῆ[ς – - – -. Oltre a rendere conto di una intensa attività oratoria di Teopompo, l’elenco fornisce, come rilevava De Sanctis, cinque nuovi titoli, cioè menziona cinque opere di cui non si aveva sino ad allora alcuna notizia in relazione al personaggio: Λακωνικός, Κορινθιακός – così alla linea 14 leggeva il De Sanctis, che aveva potuto beneficiare solo della trascrizione di Amedeo Maiuri, mentre Mario Segre, dopo il riesame della pietra, vi legge Π̣[αν]ιω̣νικός, anch’esso nuovo, a quanto mi consta –, Ὀλυμπικός, Πρὸς Εὐαγόραν, Παναθηναικός. Lo stesso De Sanctis ha quindi osservato: «Interessante è ad ogni modo notare che, scrivendo anch’egli un Panatenaico, Teopompo si è messo in gara col vecchio maestro, com’è da credere dopo la morte di lui»⁵⁶⁷. A questo proposito⁵⁶⁸ occorre però aggiungere che una competizione del genere, per essere immedia Qui la pietra riporta il titolo leggermente in ἔκθεσις: per un tentativo di spiegazione si veda Segre, Catalogo di libri da Rodi (come n. 564), 221 222. De Sanctis, Epigraphica VII: la biblioteca di Rodi (come n. 564), 69 (= Scritti Minori, 205). De Sanctis osserva subito dopo (69): «Il Πρὸς Εὐαγόραν poi testimonia anch’esso delle buone relazioni della scuola isocratea coi dinasti di Cipro, illustrate dai noti discorsi del caposcuola. Si tratta naturalmente di Evagora II, successore e probabilmente fratello minore di Nicocle e figlio di Evagora I, che regnò in Salamina dal 360 al 351 circa (Beloch, Griech. Gesch. III 22 100 seg.)». Si noti che De Sanctis non mette in discussione il discepolato isocrateo di Teopompo, concorde in questo con le fonti antiche. Ma altri studiosi ne hanno poi dubitato, mentre oggi la tendenza pare di nuovo incline ad accogliere quanto già Dionisio di Alicarnasso affermava sul conto del personaggio.
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tamente colta, richiedeva che sia lo scritto dell’oratore di Chio sia quello del maestro ateniese esibissero in quel periodo lo stesso titolo. Si pone con ciò la questione: come si presentavano a quel tempo i discorsi di Isocrate? Avevano cioè ricevuto un titolo dal loro autore? Affrontiamo tale problematica, abbandonando ormai la prosa di argomento storico, di cui tanto ci siamo occupati.
3 Oratori e titoli 3.1 Sul titolo dei discorsi di Isocrate: alcune osservazioni Per dimostrare che Isocrate assegnò un titolo se non altro ai suoi maggiori lavori, possiamo percorrere almeno due vie. La prima consiste nel sondare le testimonianze dello stesso autore in alcuni suoi scritti, primo fra tutti – per la sua importanza a riguardo – quello Sullo scambio. Un’altra pista d’indagine consiste nell’esplorare la tradizione diretta dei suoi discorsi e il modo in cui alcuni di essi sono ricordati o menzionati da altri scrittori. La prima via è più affascinante, ma anche più delicata, per vari motivi. La seconda possibilità d’indagine è più definita e consente di fissare alcuni punti fermi particolarmente significativi. Partiamo ad ogni modo dalla prima. Il lungo discorso Περὶ τῆς ἀντιδόσεως, composto da Isocrate ormai ottantaduenne fra il 354 e il 353 a. C.⁵⁶⁹, trasse origine, secondo quanto leggiamo nel proemio, da una esperienza realmente vissuta dall’autore, cioè dal processo «per scambio di beni» affrontato e perduto un paio d’anni prima: sconfitta che aveva costretto lo stesso Isocrate a farsi carico delle spese per l’allestimento di una trireme. Il dibattimento a processo aveva ad ogni modo aperto gli occhi allo scrittore. Egli si era reso conto che erano in molti a non avere retta conoscenza della sua condotta di vita e della παιδεία, alla quale egli aveva consacrato le energie di una intera esistenza. Per spazzare via false opinioni e dissipare al tempo stesso le calunnie dei malevoli, l’indomito maestro, terminato il processo,
Sull’opera e il suo autore cf. P.M. Pinto, Per la storia del testo di Isocrate. La testimonianza d’autore, Bari 2003 (Paradosis, 6); Id., Monumenti d’autore e storie di testi (Isocrate, Ennio, Orazio), in Philologus 154 (2010), 25 39; R. Nicolai, Studi su Isocrate. La comunicazione letteraria nel IV secolo a. C. e i nuovi generi della prosa, Roma 2004 (Quaderni dei seminari romani di cultura greca, 7); Id., Isocrate e le nuove strategie della comunicazione letteraria: l’Antidosi come “antologia d’autore”, in R. Pretagostini E. Dettori (a cura di), La cultura ellenistica. L’opera letteraria e l’esegesi antica, Roma 2004 (Quaderni dei seminari di cultura greca, 8), 187 197.
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decise quindi di comporre un discorso che fosse una sorta di icona del suo pensiero e di molte altre cose che egli aveva compiuto e sperimentato in vita sua. Ma quale forma dare in questo caso al nuovo λόγος? Scartata quella dell’autoelogio, egli ritenne opportuno elaborare – e qui sta la scelta imprevedibile dell’anziano ma lucidissimo e lungimirante maestro di retorica – uno scritto di autodifesa, fingendo l’implicazione in un nuovo processo. Un tale Lisimaco lo accusa ora apertamente di avere ricavato immense ricchezze grazie al disonesto insegnamento dell’arte oratoria e di avere corrotto i giovani. È in questa originalissima cornice – un processo fittizio, in cui egli, novello Socrate, è tenuto a rispondere della sua vita di educatore – che il vecchio oratore “chiama” a deporre in sua difesa alcune parti di quattro suoi scritti, considerandole particolarmente rappresentative del suo pensiero e del suo operato. I brani sfruttati come pezzi d’autodifesa sono estratti dai seguenti discorsi: Panegirico, Sulla pace, A Nicocle, Contro i sofisti ⁵⁷⁰. In tutti gli esemplari bizantini del Sullo scambio ⁵⁷¹, ciascuno degli estratti è preceduto da una intestazione che ne segnala la provenienza. Se ci limitiamo a considerare tre fondamentali testimoni del discorso – l’Urb. Gr. 111 (Γ, IX sec.), il Laur. Plut. 87, 14 (Θ, XIII sec.), il Vat. Gr. 65 (Λ, a. 1063) –, troviamo, secondo l’ordine di successione degli estratti, le seguenti intestazioni⁵⁷²: – ἐκ τοῦ πανηγυρικοῦ: in tutti e tre i testimoni; – ἐκ τοῦ περὶ εἰρήνης: così nell’Urbinate; il Laurenziano e il Vaticano hanno ἐκ τοῦ εἰρηνικοῦ; – ἐκ τοῦ πρὸς νικοκλέα nell’Urbinate; il Laurenziano esibisce di prima mano ἐκ τῶν πρὸς νικοκλέα ὑποθηκῶν; il Vaticano fornisce solo l’estratto del
Gli excerpta sono stati purtroppo omessi dagli editori degli ultimi due secoli dell’orazione Sullo scambio, un fatto sui cui gravi inconvenienti si è opportunamente pronunciata S. De Leo, La citazione della “De pace” nell’“Antidosis”, in AA. VV., Studi sulla tradizione del testo di Isocrate, Firenze 2003 (Studi e testi per il Corpus dei papiri filosofici greci e latini, 12), 201 248. Nella tradizione manoscritta medievale gli excerpta figurano in extenso in due testimoni primari della seconda famiglia, il Laur. Plut. 87, 14 (Θ) e il Vat. Gr. 65 (Λ). Il Vat. Urb. Gr. 111 (Γ) li riporta invece in forma ridotta o decurtata. Che gli excerpta figurassero davvero in extenso nell’esem plare isocrateo da cui si è propagata la tradizione, lo riconosce con nuovi argomenti S. De Leo, Questioni testuali nell’orazione Sulla pace, in Isocrate. Per una nuova edizione critica, a cura di M. Vallozza, Firenze 2017 (Accademia Toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria». Studi, 251), 21 39. Sulle opere di Isocrate incluse per estratti nell’Antidosis è di riferimento Pinto, Per la storia (come n. 569), 107 142. Cf. Pinto, Per la storia (come n. 569), 102 106. Per questi dati cf. Pinto, Per la storia (come n. 569), 102 106.
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Panegirico e quelli del Sulla pace, nulla invece per l’A Nicocle e per il Contro i Sofisti; ἐκ τοῦ κατὰ τῶν σοφιστῶν: così nel Laurenziano, mentre l’Urbinate reca ἐκ τοῦ κατὰ σοφιστῶν⁵⁷³.
Nonostante alcune difformità, tali intestazioni forniscono ipso facto il titolo di altrettanti discorsi isocratei. Si pone così la questione: come si presentava l’esemplare, da cui si è propagata la tradizione del Sullo scambio? Erano cioè già presenti nel manoscritto d’autore intestazioni del genere? È chiaro infatti che se esse derivano da Isocrate, allora Isocrate dava un titolo ai suoi discorsi o almeno è lecito crederlo. La critica moderna non sembra avere una posizione unanime sul problema. Gli studiosi hanno considerato quelle intestazioni ora con piena fiducia nella loro genuinità, e di conseguenza come prova dell’uso di Isocrate di intitolare i suoi scritti – almeno i maggiori: cf. L. Canfora (a cura di), Discorsi e lettere di Demostene, vol. I: Discorsi all’assemblea, Torino 1974 (Classici Greci), 33 –, ora con maggiore prudenza e circospezione, se non addirittura con diffidenza: a quest’ultimo proposito è notevole il silenzio di Eduard Lohan, che pure si era occupato attentamente della questione del titolo degli scritti isocratei: cf. De librorum titulis (come n. 14), 44. Le intestazioni che troviamo nel Sullo scambio egli le riteneva evidentemente non genuine o almeno di dubbia affidabilità. Del resto, anche le modalità di trasmissione degli excerpta hanno contribuito a suscitare incertezza. Infatti, nel codice laurenziano e in quello vaticano i brani sono riportati in extenso; invece nel testimone urbinate il testo è drasticamente decurtato⁵⁷⁴. Nonostante tutto ciò, appare possibile dare una valutazione positiva della genuinità delle intestazioni, se si considera la tecnica di autocitazione sfruttata di volta in volta da Isocrate. Di norma, egli presenta sempre, nel corso del discorso, lo scritto che egli sta per citare. Tuttavia, solo in due casi su quattro il brano è introdotto in modo tale, da rendere superflua una ulteriore informazione sulla sua provenienza. Di un discorso περὶ τῆς εἰρήνης tra cittadini di Chio, di Rodi e di Bisanzio, egli parla in effetti in Antidosis 63 – 65, introducendo appunto il primo lungo estratto del Sulla pace. Il brano tratto dall’A Nicocle è presentato anch’esso
Per ulteriori ragguagli sui titoli degli excerpta nei principali testimoni dell’Antidosis e sul titolo esibito per via diretta dai relativi discorsi, si veda ancora Pinto, Per la storia (come n. 569), 102 106. Cf. supra, n. 570.
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puntualmente: sono indicati il nome del destinatario e la materia trattata: cf. Ant. 67– 72. Già diversamente stanno le cose col Panegirico, visto che Isocrate ne rievoca sì i contenuti diffusamente, ma evita di chiamarlo πανηγυρικός, prima di riportarne parte del testo a fini di autodifesa. La mancanza è notevole, se si pensa che lo stesso oratore non esita altrove a menzionare il suo discorso proprio in tal modo⁵⁷⁵. L’introduzione riservata al brano del Contro i Sofisti in Ant. 193 è poi la meno soddisfacente di tutte. Una indicazione puntuale sulla provenienza dell’estratto era dunque in tal caso necessaria. Se teniamo conto di un quadro del genere, e in particolare della presentazione in parte approssimativa del Panegirico e sommaria del Contro i Sofisti, dovremmo concludere che Isocrate adottò davvero delle intestazioni, per indicare, senza possibilità di equivoco, la provenienza degli estratti. Ma questo implica allora che quei discorsi avessero a quel tempo un titolo, stabilito, com’è lecito ritenere, dall’autore in persona. Giunti a tale conclusione, reimpostiamo adesso ex novo la nostra indagine, considerando quel che Isocrate dice della sua produzione letteraria in altri suoi scritti. L’analisi dei dati disponibili permetterà di consolidare i risultati a cui siamo giunti. Nel Filippo, 9, il Panegirico è ricordato in questi termini: ἅπερ ἐν τῷ πανηγυρικῷ λόγῳ τυγχάνω συμβεβουλευκώς. Ancora nel Filippo, 84, si legge: καὶ γὰρ πρὸς τοῖς ἄλλοις ὁ λόγος ὁ πανηγυρικός, (…) ἐμοὶ πολλὴν ἀπορίαν παρέσχηκεν. Rimandi al Panegirico si hanno pure nel Panatenaico 172: ἐν τῷ πανηγυρικῷ λόγῳ; e nella Epistola a Filippo 6: (…) ἐν τε τῷ πανηγυρικῷ λόγῳ. A queste testimonianze d’autore merita di essere affiancata quella di un lettore illustre del IV secolo a. C., Aristotele, il quale rimanda allo scritto isocrateo allo stesso modo: ἐν τῷ πανηγυρικῷ (cf. Rhet. III, 1408b e 1418a). Il discorso ha poi sempre conservato il nome di πανηγυρικός. Così esso è menzionato a più riprese nelle fonti antiche e così si presenta intitolato negli esemplari bizantini superstiti: nel Vat. Urb. Gr. 111 e nel Vat. Gr. 65 e nei discendenti di quest’ultimo⁵⁷⁶.
Mi limito per il momento a segnalare Panath. 172: ἐν τῷ πανηγυρικῷ λόγῳ. Per puntuale informazione in merito cf. S. Martinelli Tempesta, Dai rotoli al codice. Tracce della formazione del corpus isocrateo nell’Urbinate greco 111, in Accademia Raffaello. Atti e Studi n.s. 2 (2011), 73 88, qui in particolare 79; dello stesso studioso si vedano inoltre: Verso una nuova edizione del “Panegirico” di Isocrate, in Studi sulla tradizione del testo di Isocrate, Firenze 2003 (Studi e testi per il Corpus dei papiri filosofici greci e latini, 12), 91 150; La tradizione manoscritta del Panegirico di Isocrate. Gli apografi del Vat. Gr. 65 (Λ), in S&T 5 (2007), 173 225:
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Se teniamo conto dello sviluppo delle realtà librarie nel corso del IV secolo a. C., della circolazione dei prodotti letterari verso la metà di quel secolo in special modo ad Atene, dell’impegno profuso da Isocrate in persona nel fare scuola agli altri attraverso le sue scritture, e della unitarietà della tradizione antica oltre che bizantina sulla designazione del discorso, mi sembra dunque fuor di dubbio che πανηγυρικός sia da reputare un titolo d’autore. Lo stesso deve dirsi riguardo alla designazione del Filippo, attestata in modo assolutamente stabile al nominativo, nonostante l’opera sia strutturata in forma di lettera aperta. Nell’Urb. Gr. 111, f. 163r e f. 193, risp. inscriptio e subscriptio, lo scritto è infatti intitolato φίλιππος. Stesso dato si ricava dalla inscriptio del Vat. Gr. 65, f. 121v, e dalla subscriptio al f. 147r, dove abbiamo τέλος τοῦ φιλίππου. Allo stesso modo il discorso è designato nel Laurenziano 87, 14, f. 71r e f. 81v e in altri testimoni⁵⁷⁷. Sotto questo titolo lo scritto era noto già ad Aristotele, come si ricava dalla lettura di Rhet. III, 1418b⁵⁷⁸: (…) ἕτερον χρὴ λέγοντα ποιεῖν, ὅπερ Ἰσοκράτης ποιεῖ ἐν τῷ Φιλίππῳ καὶ ἐν τῇ ᾿Aντιδόσει, καὶ ὡς ᾿Aρχίλοχος ψέγει· ποιεῖ γὰρ τὸν πατέρα λέγοντα περὶ τῆς θυγατρὸς ἐν τῷ ἰάμβῳ “χρημάτων δ’ ἄελπτον οὐθέν ἐστιν οὐδ’ ἀπώμοτον”, καὶ τὸν Χάρωνα τὸν τέκτονα ἐν τῷ ἰάμβῳ οὗ ἀρχὴ “οὔ μοι τὰ Γύγεω” (…). Nel passo appena citato, oltre a due poesie archilochee, evidentemente prive di titolo e perciò indicate mediante l’incipit, Aristotele fa rimando non solo al Filippo, ma anche a quel che si leggeva ἐν τῇ ᾿Aντιδόσει dello stesso Isocrate. È da escludere tuttavia che il vecchio maestro di retorica abbia intitolato il Sullo scambio semplicemente come ᾿Aντίδοσις. E infatti le testimonianze antiche e la tradizione diretta di epoca bizantina ci offrono un quadro lievemente e nondimeno significativamente diverso⁵⁷⁹. Salvo eccezione, l’opera è chiamata περὶ τῆς ἀντιδόσεως o περὶ ἀντιδόσεως. La forma comprensiva dell’articolo dovrebbe corrispondere al titolo originale del discorso, secondo gli studi più recenti⁵⁸⁰. Quanto ad Aristotele, egli avrà piuttosto citato il titolo in forma compendiaria per semplici ragioni di comodo, come usiamo del resto fare anche noi oggi, parlando
contributo fondamentale sulla seconda famiglia, con puntuale informazione sulla inscriptio dei testimoni del discorso. Per questi dati, che ho peraltro riscontrato sull’originale, cf. Martinelli Tempesta, Dai rotoli al codice (come n. 576), 78, al quale faccio in ogni caso rimando per ulteriore informazione. Di questa testimonianza ci siamo sopra occupati brevemente, alla n. 180. Sui dati disponibili e sulla loro interpretazione seguo qui P.M. Pinto, The title of Isocrates’ Antidosis, in Hermes 140 (2012), 362 368; si veda inoltre S. Martinelli Tempesta, Varia isocratea, in Ktèma 41 (2016), 100 e n. 66. Per questa conclusione cf. Pinto, Per la storia (come n. 569), 64, n. 18.
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appunto tout court dell’Antidosis. Che περὶ τῆς ἀντιδόσεως sia titolo d’autore, è peraltro appena il caso di dire, dopo quanto si è visto⁵⁸¹. Abbiamo appena rilevato che nella documentazione disponibile il titolo del Sullo scambio esibisce in alcuni casi l’articolo tra preposizione e sostantivo, mentre altre volte l’articolo è assente. Questo fenomeno è stato notato anche sul conto di altri titoli isocratei. Un caso messo in luce assai di recente concerne il Contro i sofisti, ossia il κατὰ τῶν σοφιστῶν. In generale anche qui la tradizione in nostro possesso è stabile nel presentare l’opera sotto uno stesso titolo, fatta eccezione appunto per la presenza dell’articolo, attestato nella larga maggioranza dei testimoni, ma non proprio in tutti⁵⁸². Per il titolo del discorso Sulla pace possono farsi in proposito osservazioni anche più interessanti. Infatti, può accadere che uno stesso testimone presenti il titolo senza articolo in testa al discorso; e con l’articolo in chiusura. Così è almeno nel caso dell’Urb. Gr. 111, f. 133v, περὶ εἰρήνης; f. 163r: περὶ τῆς εἰρήνης⁵⁸³.
A questa conclusione conducono anzitutto le considerazioni esposte nelle pagine prece denti. Merita d’altra parte di essere rilevato che anche il titolo del Sullo scambio non riflette, a livello di contenuti, che la prima parte del discorso, dove Isocrate rievoca appunto una espe rienza realmente vissuta e quindi i motivi che lo avevano indotto a scrivere la nuova opera. Insomma, anche per il vecchio maestro di retorica, come sul versante storico per Senofonte, il titolo non deve necessariamente dire tutto di uno scritto. Basta che introduca il testo e ne suggerisca il tema di partenza. Del resto, i contemporanei ateniesi, evidentemente al corrente del processo subito e perduto dal vecchio maestro, non potevano non essere attratti da uno scritto intitolato περὶ τῆς ἀντιδόσεως. Per un dettagliato quadro della documentazione in merito cf. S. Martinelli Tempesta, Varia isocratea (come n. 579), 99 100. Per ulteriore informazione in merito cf. ancora Martinelli Tempesta, Varia isocratea (come n. 579), 100, n. 67, sulla base dei dati raccolti da Stefania De Leo. Aggiungo qui una precisazione. Ho personalmente ispezionato uno dei testimoni del discorso, il Vat. Gr. 65 (Λ), che al f. 147r offre solo il titolo περὶ τῆς εἰρήνης (senza l’aggiunta ἢ συμμαχικός). Così anche abbiamo nella subscriptio al f. 171r nello stesso esemplare. Allo scritto, come sopra visto, aveva del resto fatto rimando già Isocrate nel Sullo scambio, parlando appunto di un discorso περὶ τῆς εἰρήνης. In Rhet. 1418a, Aristotele osserva che Isocrate, anche quando consiglia, lancia accuse contro qualcuno: καὶ γὰρ συμβουλεύων κατηγορεῖ, οἷον Λακεδαιμονίων μὲν ἐν τῷ πανηγυρικῷ, Χάρητος δ’ ἐν τῷ συμμαχικῷ. Il primo rimando è chiaramente al Panegirico; il secondo ha a che vedere, secondo quanto rilevato dai moderni, con l’attuale cap. 27 del Sulla pace, dove appunto si accusa Carete. Questo modo (= συμμαχικός) di chiamare il discorso non mi risulta avere eguali nelle testimonianze antiche e nella tradizione diretta. Nondimeno, lo si può spiegare in vari modi: forse si tratta di un semplice “appellativo di comodo” di cui si è servito Aristotele, un appellativo alternativo al titolo effettivamente esibito a quel tempo dallo scritto. Ovviamente non è da escludere neppure un errore di memoria di Aristotele. Del resto, lo Stagirita non sempre si sente obbligato a indicare puntualmente un dato scritto in funzione del titolo: cf. Andrieu,
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Abbiamo sin qui vagliato i dati relativi al titolo del Panegirico, del Filippo, del Sullo scambio, inoltre del Contro i sofisti e del Sulla pace. Non serve per il momento passare in rassegna tutte le informazioni disponibili sulla designazione, normalmente stabile, dei restanti discorsi isocratei, poiché il mio lettore potrà trovare informazione completa e precisa a riguardo nella ormai prossima nuova edizione critica dell’intero corpus per gli Oxford Classical Texts ⁵⁸⁴. Mi accontento di avere rilevato l’essenziale – la stabilità del titolo per ciascuno dei discorsi appena menzionati – e di averne dato una interpretazione a livello storico-letterario. Che Isocrate facesse ricorso alla epigrafe libraria quantomeno per le sue maggiori composizioni in prosa, conduce ad ammetterlo anche un’altra considerazione. Le maggiori sue opere sono veri e propri monumenti scritti, destinati a rappresentarlo nel tempo più e meglio di statue di bronzo, come egli dice all’inizio del Sullo scambio, e a valere da modello per la formazione e il lavoro di futuri oratori. Questa concezione implica come già largamente effettivo tra alcune cerchie di intellettuali ad Atene (e altrove in Grecia), almeno verso la metà del IV secolo a. C., l’interesse alla conservazione dei prodotti letterari e quindi ormai l’avvenuta costituzione di sia pur modeste raccolte librarie. Ma la conservazione di prodotti letterari di una certa ampiezza doveva senz’altro richiedere che essi venissero designati in qualche modo, cioè intitolati, in modo da poterli distinguere immediatamente tra loro, specialmente poi se si trattava di più testi composti da uno stesso autore. Per il resto, che Isocrate facesse ricorso alla epigrafe libraria, lo si ricava dal fatto che i suoi discorsi non presentano generalmente, nel proemio, il nome dell’autore. È chiaro che l’oratore soleva indicarlo sul rotolo separatamente dal testo vero e proprio⁵⁸⁵.
Procédés de citation (come n. 67), 268 293, qui in part. 278 279. Tornando a Isocrate, alcuni studiosi si sono chiesti se le parole πρὸς τὴν παρακαταθήκην, che si leggono in Pan. 188, ri mandino al titolo di un altro suo discorso: cf. R.J. Bonner, Note on Isocrates’ Panegyricus 188, in CPh 15 (1920), 385 387. La critica più recente rimane comunque molto cauta in proposito: Nicolai, Studi su Isocrate (come n. 569), 145 146; Pinto, The title (come n. 579), 363, n. 6. Cf. le informazioni fornite da Martinelli Tempesta, Varia Isocratea (come n. 579), 87, n. 1. Senza alcuna pretesa di esaustività, segnalo altri studi importanti sulla trasmissione degli scritti isocratei e del loro titolo: S. Martinelli Tempesta, Dai rotoli al codice (come n. 576), 73 88 (analisi dettagliata dell’assetto paratestuale dei discorsi confluiti nell’Urbinate); P.M. Pinto, Un manoscritto di Isocrate nella «Bibliotheca» di Fozio (cap. 159), in Studi sulla tradizione del testo di Isocrate, Firenze 2003 (Studi e testi per il Corpus dei papiri filosofici greci e latini, 12), 73 88; Id., La biblioteca di Isocrate. Note sulla circolazione dei libri e sul lavoro intellettuale nel IV sec. a. C., in S&T 4 (2006), 51 70 (non direttamente dedicato ai titoli, ma importante per la messa a fuoco del contesto culturale in cui il retore si trovò a operare). Sul titolo dell’Ad Demonicum, se di
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3.2 Sul titolo dei discorsi demostenici Salvo una iniziale attività in qualità di logografo, Isocrate tenne scuola per lungo tempo nel campo dell’arte oratoria. Con gli allievi egli discusse i suoi discorsi più rappresentativi, anzi egli stesso ne curò la pubblicazione e ne stabilì il titolo. Per quanto esemplare possa apparire, la prassi isocratea non deve però essere considerata come rappresentativa di un uso ormai generalizzato tra gli oratori del IV secolo a. C., né è da credere che tutti i logoi di genere oratorio composti a quel tempo – e per ragioni diverse, ora politiche, ora di altro tipo, per esempio a beneficio di privati – entrassero sempre in circolazione forniti di un titolo. Neppure di Demostene è possibile dire che egli fosse solito assegnare un titolo alle sue orazioni. Ciò si comprende bene, se tra l’altro si tiene conto del fatto che l’Ateniese non curava solitamente, o almeno così pare, la divulgazione scritta dei suoi discorsi. Piuttosto, ciò almeno è lecito pensare, sembra che la preservazione e la raccolta dei suoi “pezzi” avvenisse su iniziativa dell’entourage che lo sosteneva, cioè a cura di una cerchia a lui solidale, interessata per motivi politici, oltre che d’arte oratoria, alla conservazione e alla condivisione e quindi inevitabilmente anche alla circolazione di tali materiali⁵⁸⁶.
discorso isocrateo si tratta, la documentazione è vagliata da S.A. Stephens, The Ancient Title of the Ad Demonicum, in YCS 28 (1985), 5 8, e ora più approfonditamente da M. Menchelli, Alla scuola di Isocrate, nella scuola di Platone. Corpus Isocrateo e Corpus Platonico tra scritti autentici e pseudoepigrafi, Parma 2015 (Deputazione di storia patria per le Province parmensi, Varia I), 34, 42 44: il titolo Πρὸς Δημόνικον talvolta compare isolato nella documentazione in nostro pos sesso, altre volte seguito da παραίνεσις o παραινέσεις dunque anche qui si registra un’oscil lazione tra singolare plurale , oppure preceduto soltanto da ἐπιστολή. Su tali titolature è di riferimento lo studio della Menchelli poc’anzi ricordato e della stessa studiosa, Bibliologia dell’Ad Demonicum: osservazioni sulla tradizione manoscritta e sulla scansione in sentenze, in P. Odorico (éd. par), «L’éducation au gouvernement et à la vie». La tradition des «règles de vie» de l’antiquité au Moyen Âge. Actes du colloque international (Pise 18 et 19 mars 2005), Paris 2009 (Autour de Byzance, 1), 45 73, qui in part. 49 50. Sulla questione del titolo (o del doppio titolo) di altri testi isocratei cf. Ph. Hoffmann, Bibliothèques et formes du livre à la fin de l’antiquité. Le témoignage de la littérature néoplatonicienne des Ve et VIe siècles, in G. Prato (a cura di), Manoscritti greci tra riflessione e dibattito. Atti del V Colloquio Internazionale di Paleografia Greca (Cremona, 4 10 ottobre 1998), Firenze 2000, 601 632 (qui in part. 611 612); M. Menchelli, Gli scritti d’apertura del “corpus” isocrateo tra tarda antichità e medioevo, in Studi sulla tradizione del testo di Isocrate, Firenze 2003 (Studi e testi per il Corpus dei papiri filosofici greci e latini, 12), 249 317. Cf. L. Canfora, Textgeschichte des Demosthenes im Wandel der Jahrhunderte, in J. Grusková H. Bannert (herausg. von), Demosthenica libris manu scriptis tradita. Studien zur Textüber
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Saranno stati insomma i suoi sostenitori, una volta entrati in possesso dei materiali d’autore – ammesso ora che Demostene preparasse sempre in anticipo per iscritto i discorsi – a porsi per primi il problema del riordino e quindi inevitabilmente anche della intitolazione dei materiali nelle loro mani. Il processo d’intitolazione dei logoi demostenici, e di ciò che senza essere davvero di Demostene ci è stato tramandato come suo, dovrebbe essere valutato in tale prospettiva. Gli antichi nutrivano ad ogni modo seri dubbi sulla genuinità dei titoli dei discorsi demostenici. Dionisio di Alicarnasso, a proposito dell’orazione Su Alonneso, dice: ὁ δὲ πρὸς τὴν ἐπιστολὴν καὶ τοὺς πρέσβεις τοὺς παρὰ Φιλίππου ῥηθεὶς λόγος, ὃν ἐπιγράφει Καλλίμαχος Ὑπὲρ⁵⁸⁷ Ἁλοννήσου, ὁ τὴν ἀρχὴν τήνδε ἔχων· ῏Ω ἄνδρες ᾿Αθηναῖοι, οὐκ ἔστιν, ὅπως αἱ αἰτίαι, ἃς Φίλιππος αἰτιᾶται, ὅλος ἐστὶν ἀκριβὴς καὶ λεπτός… (Su Demostene 13, 6). Da tali parole è chiaro che Dionisio non era certo che il titolo Ὑπὲρ Ἁλοννήσου fosse d’autore o almeno che così si presentassero intitolati tutti gli esemplari del discorso a quel tempo in circolazione. Perciò egli si affretta a dire che il discorso così «lo intitola Callimaco». Questa precisazione non implica, d’altra parte, che il discorso fosse pervenuto a Callimaco senza titolo e che quindi il grammatico fosse stato il primo a designarlo in tal modo. La precisazione serve invece a segnalare “solo” il titolo adottato dall’erudito di Cirene. Ad ogni modo, Dionisio, per superare ogni incertezza sulla identificazione del discorso, ne cita l’incipit. In questo caso il ricorso all’incipit è tanto più degno di nota, se si pensa che lo stesso Dionisio non vi ricorre mai, a mia conoscenza, per i discorsi isocratei. Evidentemente la stabilità e la genuinità del titolo di questi ultimi gli appariva fuori discussione. Demostene non fa che pochi e sparuti rimandi ai suoi discorsi. Nell’orazione XV (Sulla libertà dei Rodii, 6) l’Ateniese dice: οἶμαι δ’ ὑμῶν μνημονεύειν ἐνίους, ὅτι ἡνίκ’ ἐβουλεύεσθ’ ὑπὲρ⁵⁸⁸ τῶν βασιλικῶν, παρελθὼν πρῶτος ἐγὼ παρῄνεσα… .
lieferung des Corpus Demosthenicum. Internationales Symposium in Wien, 22. 24. September 2011, Wien 2014 (Wiener Studien Beihefte, 36), 21 52, con riferimenti a precedenti lavori. Non poche edizioni moderne offrono in questo punto la preposizione ὑπέρ, ma lo scritto era noto nell’antichità pure come Περὶ Ἁλοννήσου. Così abbiamo in questo punto nell’edizione di S.H. Butcher, Demosthenis orationes, I, Oxford 1903 (Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis). Tuttavia, siamo forse qui in presenza di una corruttela. In origine può esservi stato περί. Si noti che sostituzioni o scambi della preposizione περί con ὑπέρ e viceversa sono frequenti anche per i titoli delle orazioni.
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credo che alcuni di voi ricordino che, quando deliberavate sui rapporti col Gran Re, io per primo mi feci avanti esortandovi… .
Il riferimento è alla orazione usualmente ricordata dagli antichi col titolo Περὶ τῶν συμμοριῶν. Neppure questo titolo era affidabile, per Dionisio di Alicarnasso. Infatti, nella prima Epistola ad Ammeo 4, 3, egli scrive: ἐπὶ δὲ Διοτίμου τοῦ μετὰ Καλλίστρατον ἐν ᾿Αθηναίοις πρώτην εἶπε δημηγορίαν, ἣν ἐπι γράφουσιν οἱ τοὺς ῥητορικοὺς πίνακας συντάξαντες Περὶ τῶν συμμοριῶν. Sotto l’arcontato di Diotimo, dopo Callistrato, ad Atene, [Demostene] pronunciò la prima demegoria, che gli autori dei cataloghi retorici intitolano Sulle simmorie.
Sulla stessa questione è notevole quel che si legge nel secondo dei due trattati pseudo-dionisiani sui discorsi figurati (Ars Rhet. IX, 10, 1– 5): Τὸ δὲ ἕτερα λέγειν καὶ ἕτερα διοικεῖσθαι δείκνυσί σοι πάλιν ὁ αὐτὸς Δημοσθένης ἐν τοῖς συμβουλευτικοῖς, ἐν τῷ Περὶ συμμοριῶν ἐπιγραφομένῳ λόγῳ (ὅσπερ λόγος εἰκότως ἂν καὶ δικαίως ἐπιγράφοιτο περὶ τῶν βασιλικῶν). Il dire alcune cose e disporne altre te lo mostra nuovamente lo stesso Demostene nei deliberativi, nel discorso intitolato Sulle simmorie, il quale discorso naturalmente e gius tamente si potrebbe intitolare “sui rapporti col Gran Re”.
Qui l’anonimo propone una intitolazione alternativa. Così dicendo, egli mostra di avere colto perfettamente l’argomento trattato da Demostene quantomeno nella prima parte del discorso. O forse egli ha in mente proprio il passo sopra visto dell’orazione Sulla libertà dei Rodii (XV, 6), in cui Demostene s’era espresso al modo che abbiamo visto. L’anonimo autore del secondo argumentum del Sulla pace avverte che l’orazione non riguarda propriamente la pace, né di ciò Demostene s’era voluto davvero occupare. È chiaro che l’anonimo diffida di una indicazione libraria che gli appare fuorviante⁵⁸⁹. Ciò detto, abbandoniamo casi particolari e occupiamoci dei titoli seriali, che connotavano già in antico la tradizione dei discorsi demostenici. Libanio⁵⁹⁰ osserva che dei tanti discorsi simbuleutici di Demostene solo alcuni presentavano una inscriptio effettivamente di questo tipo: τῶν δὲ συμ-
Per il testo della seconda hypothesis dell’orazione cf. C. Müller (ed.), Oratores Attici, II, Parisiis 1858, 558 559 (per il passo in questione: 559). Cf. Lib., Argumenta orationum Demosthenicarum, par. 21, in R. Foerster (rec.), Libanii Opera, vol. VIII, Lipsiae 1915, 600 607 (qui 607).
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βουλευτικῶν αὐτοῦ λόγων οἱ μὲν αὐτὸ τοῦτο ἔχουσιν ἐπίγραμμα Συμβουλευτικοί. Invece, altri (οἱ δέ), pur essendo dello stesso genere (οὐδὲν μὲν ἧττόν εἰσι συμβουλευτικοί), erano intitolati in considerazione del loro contenuto: Φιλιππικοὶ δὲ ἐπιγράφονται ἐκ τοῦ περὶ τῶν 〈Φιλίππου〉 πραγμάτων εἰρῆσθαι τὴν κλῆσιν λαβόντες. Libanio a questo punto aggiunge: καὶ τῶν Φιλιππικῶν ἕκαστος ἰδίαν τινὰ ἐπιγραφὴν ἔχει κατὰ τὴν τῶν πραγμάτων ἑκάστων ἰδιότητα. Dunque, a quel tempo, i discorsi simbuleutici circolavano: – alcuni intitolati in quanto tali, cioè come Συμβουλευτικοί; – altri, ovvero le Filippiche, con un titolo seriale chiaramente derivato dal nome del personaggio “trattato”; – ciascuna delle Filippiche – o almeno così doveva essere per buona parte di queste – aveva poi anche un titolo specifico, che esplicitava il fatto o il tema affrontato di volta in volta da Demostene. Si tenga presente che all’epoca di Libanio (ma anche prima) più discorsi demostenici potevano condividere uno stesso supporto librario. Ovviamente, ciascun discorso avrà avuto (o potuto avere) una sua propria numerazione all’interno della serie⁵⁹¹. Torniamo per qualche istante a Dionisio, il quale, nella prima Epistola ad Ammeo 4, 6, afferma: ἐπὶ δὲ Καλλιμάχου… ἄρξαντος τρεῖς διέθετο δημηγορίας παρακαλῶν ᾿Αθηναίους βοήθειαν ᾿Ολυνθίοις ἀποστεῖλαι τοῖς πολεμουμένοις ὑπὸ Φιλίππου, πρώτην μὲν ἧς ἐστιν ἀρχὴ ᾿Επὶ πολλῶν μὲν ἰδεῖν ἄν τις ὦ ἄνδρες ᾿Αθηναῖοί μοι δοκεῖ· δευτέραν δὲ Οὐχὶ ταὐτὰ παρίσταταί μοι γιγνώσκειν ὦ ἄνδρες ᾿Αθηναῖοι· τρίτην δὲ ᾿Αντὶ πολλῶν ἂν ὦ ἄνδρες ᾿Αθηναῖοι χρημάτων. sotto l’arcontato di Callimaco… [Demostene] compose tre demegorie, esortando gli Ateniesi ad andare in soccorso degli abitanti di Olinto, combattuti da Filippo, una prima il cui inizio è In molte occasioni, cittadini Ateniesi, credo sia stato possibile vedere, una seconda (il cui inizio è) Cose ben diverse mi accade di pensare, cittadini Ateniesi, una terza In cambio di molte ricchezze, cittadini Ateniesi.
Sul titolo dei discorsi demostenici nella tradizione diretta e indiretta e su tutta una serie di problemi interconnessi rimando ai seguenti lavori: W. Jaeger, Demosthenes. Der Staatsmann und sein Werden, Berlin 1939, 116 119, 231, 245; Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 43 45; Wendel, Die griechisch römische Buchbeschreibung (come n. 23), nn. 178 180; L. Canfora (a cura di), Discorsi e lettere di Demostene, vol. I: Discorsi all’assemblea, Torino 1974 (Classici Greci), 31 33 e 85 92. Sui papiri delle Filippiche, e sui titoli che tali papiri occasionalmente esibiscono, disponiamo ora dello studio d’insieme di F. De Robertis, Per la storia del testo di Demostene. I papiri delle Filippiche, pref. di L. Canfora, Bari 2015 (Paradosis, 22).
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L’ordine di presentazione delle tre orazioni non è quello che oggi si reputa corretto o almeno non è quello che oggi è accolto nelle nostre edizioni delle tre Olintiache. La prima orazione indicata da Dionisio è per noi la seconda; la sua seconda è per noi la terza; la sua terza è la prima delle attuali edizioni. Probabilmente lo stesso Dionisio dubitava della correttezza della successione dei tre discorsi, ovvero dell’affidabilità della numerazione indicata nella tradizione in suo possesso. Pertanto, egli offre l’incipit di ciascun discorso. Sull’uso di identificare/indicare orazioni demosteniche, e di altri oratori, mediante l’incipit disponiamo di abbondante documentazione⁵⁹². Insomma, in caso d’incertezza sul titolo o sulla numerazione del discorso, Dionisio non esita a ricorrere alla citazione delle prime parole⁵⁹³. Quanto appena visto è istruttivo anche per chi indaga la storia della tradizione del titolo dei discorsi di altri oratori: bisogna sempre porsi la questione di chi, come e quando ha curato la pubblicazione dei discorsi, se fu l’autore in persona, oppure altri in sua vece. In un’epoca, quella dell’avanzato IV secolo a. C., che ha ormai visto diffondersi con successo la pratica della inscriptio libraria, poteva comunque accadere che discorsi di diverso genere – qui abbiamo considerato quelli simbuleutici, ma il problema si pone ancora di più per quelli giudiziari – entrassero in circolazione senza che l’autore avesse effettivamente provveduto a stabilire un titolo. Così, del resto, ha continuato spesso ad accadere anche in seguito per vario genere di scritti⁵⁹⁴.
Cf. Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 43 45. Il contemporaneo ricorso al titolo e all’incipit è estremamente frequente anche nello scritto dionisiano Su Dinarco. Si veda in proposito almeno Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 45. Per un caso particolarmente interessante cf. E. Castelli, Aspettando il titolo. Girolamo e i primi esemplari del De viris inlustribus, in S&T 15 (2017), 101 120.
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4 Platone e dintorni 4.1 ΑΛΗΘΕΙΑ. Sulla ricezione di uno scritto di Protagora nella cerchia platonica In più d’uno dei precedenti capitoli abbiamo avuto occasione di osservare che i primi filosofi greci non si erano preoccupati di dare un titolo ai propri scritti⁵⁹⁵. Alla luce di tali premesse e prima di parlare di Platone, occupiamoci adesso brevemente di un personaggio attivo nella seconda metà del V secolo a. C., cioè del principe dei sofisti, Protagora, e di una sua famosa opera, la quale cominciava con le parole Πάντων χρημάτων μέτρον ἐστὶν ἄνθρωπος, τῶν μὲν ὄντων ὡς ἔστι, τῶν δὲ μὴ ὄντων ὡς οὐκ ἔστιν, «L’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono come [altra possibile traduzione, qui e poco dopo, di ὡς: in quanto] sono, di quelle che non sono come [oppure: in quanto] non sono». Platone conosceva bene lo scritto. E infatti lo ricorda molte volte nel Teeteto. Tuttavia, in una prima occasione (Theaet. 152a) egli cita – o meglio: ne fa citare a Socrate – l’esordio, senza neppure avvertire che si tratta dell’incipit dell’opera⁵⁹⁶. Nello stesso dialogo, l’incipit è riconsiderato un po’ più avanti (cf. Theaet. 161c) in questo modo: Τὴν δ’ ἀρχὴν τοῦ λόγου τεθαύμακα, ὅτι οὐκ εἶπεν ἀρχόμενος τῆς ἀληθείας ὅτι “Πάντων χρημάτων μέτρον” ἐστὶν ὗς ἢ κυνοκέφαλος ἤ τι ἄλλο ἀτοπώτερον τῶν ἐχόντων αἴσθησιν (…). Mi ha meravigliato l’inizio del discorso, visto che [Protagora] non disse ἀρχόμενος τῆς ἀληθείας che “misura di tutte le cose” è il porco oppure il cinocefalo o altro essere insolito tra quelli senzienti (…).
Da questo brano apprendiamo che la frase già citata in Theaet. 152a costituiva proprio l’esordio dello scritto protagoreo e che questo scritto si chiamava ἀλήθεια.
Sull’argomento in generale offre importanti considerazioni W. Jaeger, Studien zur Ent stehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, Berlin 1912, 138 146. In particolare sul caso della prosa di Eraclito, cf. supra, cap. II di questa parte. Così si legge in Theaet. 152a: (ΣΩ.) Κινδυνεύεις μέντοι λόγον οὐ φαῦλον εἰρηκέναι περὶ ἐπιστήμης, ἀλλ’ ὃν ἔλεγε καὶ Πρωταγόρας. τρόπον δέ τινα ἄλλον εἴρηκε τὰ αὐτὰ ταῦτα. φησὶ γάρ που “πάντων χρημάτων μέτρον” ἄνθρωπον εἶναι, “τῶν μὲν ὄντων ὡς ἔστι, τῶν δὲ μὴ ὄντων ὡς οὐκ ἔστιν”. ἀνέγνωκας γάρ που; (ΘΕΑΙ.) ᾿Ανέγνωκα καὶ πολλάκις.
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Poco più avanti, in Theaet. 161e–162a, Socrate rileva che la sua arte maieutica e il suo sforzo di assodare il giusto e il vero sarebbero pura stoltezza, εἰ ἀληθὴς ἡ ἀλήθεια Πρωταγόρου⁵⁹⁷. Lo stesso gioco di parole, sia pur a parti inverse – ἡ Πρωταγόρου ἀλήθεια ἀληθής – ricompare in Theaet. 171c⁵⁹⁸. Del resto, anche nel Cratilo 391c si ricorda Protagora e la sua ἀλήθεια, ma in maniera più sfumata⁵⁹⁹. Per Ernst Nachmanson almeno il brano di Theaet. 161c fornisce senz’altro il titolo dell’opera protagorea⁶⁰⁰. Questa conclusione può essere confermata per mezzo di alcuni confronti con altre citazioni a noi già familiari. Come visto nelle pagine precedenti (cf. in part. I parte, cap. 3), lo stesso Platone ricorda altrove un componimento del poeta Stesicoro come la καλουμένην παλινῳδίαν (cf. Phdr. 243a). Allo stesso modo si era espresso Isocrate in proposito: τὴν καλουμένην παλινῳδίαν (cf. Hel. 64). Inoltre, l’autore del Regime nelle malattie acute (cf. supra III, 3, 4) ricorda uno scritto in circolazione verso la fine del V secolo a. C. come τὰς Κνιδίας καλεομένας γνώμας. In ciascuno di questi rimandi compare l’avvertimento «cosiddetta»/«cosiddette»: sulle implicazioni di questo uso abbiamo già riflettuto, osservando le differenze che corrono tra nomina e tituli. In particolare, abbiamo visto che la precisazione «cosiddetta»/«cosiddette» non implica, a rigore, l’esistenza di un titolo. Ora, proprio Platone non adotta mai siffatto avvertimento all’atto di chiamare l’opera protagorea ἀλήθεια: evidentemente l’esemplare del testo da lui utilizzato si presentava proprio sotto un titolo di questo tenore. Fissato questo punto importante, è lecito chiedersi se tale titolo sia d’autore o no. Che alcuni sofisti abbiano potuto intitolare almeno i loro scritti più rappresentativi, o che lo abbia fatto Protagora per l’opera qui in discussione, non è assolutamente da escludere. Se tale possibilità dovesse dimostrarsi vera, dovremmo peraltro concludere che Protagora s’era servito di un titolo dotato di forte appeal e particolarmente significativo, per fare propaganda alle sue idee. D’altra parte, bisogna riconoscere che non abbiamo a tutt’oggi dati concreti, per sostenere che l’intitolazione risalga con assoluta sicurezza al sofista. Anzi, a
Ecco, per intero, il passo del Theaet. 161e 162a che a noi interessa: Τὸ γὰρ ἐπισκοπεῖν καὶ ἐπιχειρεῖν ἐλέγχειν τὰς ἀλλήλων φαντασίας τε καὶ δόξας, ὀρθὰς ἑκάστου οὔσας, οὐ μακρὰ μὲν καὶ διωλύγιος φλυαρία, εἰ ἀληθὴς ἡ ἀλήθεια Πρωταγόρου (…). Così in Theaet. 171 c: Οὐκοῦν ἐπειδὴ ἀμφισβητεῖται ὑπὸ πάντων, οὐδενὶ ἂν εἴη ἡ Πρωτα γόρου ἀλήθεια ἀληθής, οὔτε τινὶ ἄλλῳ οὔτ’ αὐτῷ ἐκείνῳ. Crat. 391c: Ἄτοπος μεντἂν εἴη μου, ὦ Σώκρατες, ἡ δέησις, εἰ τὴν μὲν ἀλήθειαν τὴν Πρω ταγόρου ὅλως οὐκ ἀποδέχομαι, τὰ δὲ τῇ τοιαύτῃ ἀληθείᾳ ῥηθέντα ἀγαπῴην ὥς του ἄξια. Cf. Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 9.
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ben vedere, la documentazione in nostro possesso ci spinge a essere prudenti in proposito. Estremamente (forse eccessivamente) cauto era Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, per il quale al tempo di Protagora «die Prosabücher noch keine Titel führten»: dunque bisognava escludere che Protagora ne avesse stabilito uno per il suo lavoro⁶⁰¹. Se accogliessimo questa conclusione, forse troppo perentoria, dovremmo tuttavia pur sempre riconoscere che l’opera protagorea aveva ricevuto un titolo piuttosto rapidamente, visto che già Platone ne conosceva uno. Nessuna delle due possibilità, come detto, può però essere provata con sicurezza. Del resto, la questione si complica, se consideriamo la testimonianza, assai più tarda, di Sesto Empirico (II secolo d. C.), per il quale Protagora ἐναρχόμενος γοῦν τῶν Καταβαλλόντων ἀνεφώνησε· “πάντων χρημάτων μέτρον ἐστὶν ἄνθρωπος, τῶν μὲν ὄντων ὡς ἔστιν, τῶν δὲ οὐκ ὄντων ὡς οὐκ ἔστιν”⁶⁰². cominciando dunque i Demolitori disse: l’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono come sono, di quelle che non sono come non sono.
I punti di contatto di questo brano con la citazione sopra esaminata di Theaet. 161c sono evidenti. Tuttavia, Sesto Empirico indica lo scritto protagoreo con un titolo diverso⁶⁰³: Καταβάλλοντες, (scil.: discorsi) Demolitori. I moderni hanno cercato di mettere d’accordo questa informazione con la testimonianza platonica in vari modi, senza tuttavia pervenire a conclusioni davvero sicure⁶⁰⁴. Tra l’altro, si è supposto che Protagora avesse dato un doppio titolo al suo lavoro: ᾿Aλήθεια ἢ Καταβάλλοντες. Questa ipotesi⁶⁰⁵, completamente arbitraria, non tiene conto del fatto che noi non siamo neppure certi, come detto, che il sofista avesse dato un titolo al suo lavoro.
Così U. von Wilamowitz Moellendorff, Platon, I, Leben und Werke, Berlin 1919, 79. Peraltro, occorre rilevare che sotto il titolo ᾿Aλήθεια circolarono nell’antichità anche uno scritto del so cratico Antistene (cf. Diog. Laer. VI, 16) e uno del sofista Antifonte (= VS 87 B 1, B 2, B 14, B 22). Sextus Emp., Adversus mathematicos VII, 60 (= VS 80 B 1). Se è vero che la citazione platonica, per come è strutturata, offre il titolo dello scritto protagoreo, è chiaro che ciò va ammesso a fortiori per quella di Sesto Empirico. Il ragionamento di senso contrario addotto dal Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 9 10, è invece erroneo. È ovvio infatti che quel che può dirsi vero per l’epoca di Sesto Empirico, quando la pratica dei titoli era corrente, non lo è necessariamente per il tempo in cui Platone scrisse il Teeteto. Per un bilancio cf. E. Heitsch, Ein Buchtitel des Protagoras, in Hermes 97 (1969), 292 296, ripubblicato con una postilla in C.J. Classen (herausg. von), Sophistik, Darmstadt 1976 (Wege der Forschung, 187), 298 305. Cf. K. von Fritz, s.v. Protagoras, in RE XXIII,1 (1957), 908 921.
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Piuttosto, bisognerebbe tenere a mente che per diverse ragioni specialmente uno scritto filosofico poteva essere intitolato, presto o tardi, in questo o quell’esemplare, in modi alternativi. Si pensi al caso sopra visto dell’opera di Eraclito di Efeso. Sic stantibus rebus, è meglio limitarsi a riconoscere che le informazioni in nostro possesso non ci consentono di dare una soluzione sicura alla questione della paternità del titolo ᾿Aλήθεια.
4.2 Sul titolo dei dialoghi platonici Fu Platone a intitolare i suoi scritti? Un dato positivo in proposito si ricava da un passo del Politico (284b), dove l’autore fa un chiaro rimando a un suo precedente dialogo: «dunque, come ἐν τῷ Σοφιστῇ fummo costretti ad ammettere…». Al Sofista Platone sembra rimandare anche poco più avanti, ricordando il lungo discorso τοῦ σοφιστοῦ περὶ τῆς τοῦ μὴ ὄντος οὐσίας (Politico 286b). Tuttavia, questa indicazione appare meno probante dell’altra sulla questione di nostro stretto interesse. I due passi offrono, secondo Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 10 – 11, «ein reines Zitat eines Buchtitels». Ma da questo caso positivo – si affretta a precisare lo studioso – non bisogna concludere che Platone abbia sempre fornito le sue opere di un titolo. A questo proposito Nachmanson adduce quattro antiche testimonianze, che sembrerebbero provare il contrario. Due sono tratte da Aristotele. E sono: il passo di Rhet. 1415b, 30, dove il Menesseno è chiamato ἐπιτάφιος⁶⁰⁶; e Pol. 1262b, 11, dove è fatto rimando a un punto del Simposio mediante le parole ἐν τοῖς ἐρωτικοῖς λόγοις⁶⁰⁷. La terza testimonianza contro l’assunto di titoli stabiliti da Platone Nachmanson la individua in un passo della cosiddetta XIII lettera platonica⁶⁰⁸, dove si parla di Cebete, interlocutore di Socrate ἐν τῷ περὶ ψυχῆς λόγῳ (Ep. XIII, 363a). Il dialogo in questione è ovviamente il Fedone.
S. Tsitsiridis, Platons Menexenos. Einleitung, Text und Kommentar, Stuttgart und Leipzig 1998 (Beiträge zur Altertumskunde, 107), 127 129, segnala numerose citazioni antiche del dia logo. Lo studioso non offre invece né in apparato critico né nel commento un quadro chiaro ed esaustivo sul titolo del dialogo nella tradizione diretta. Ecco il testo di Aristotele, Pol. 1262b, 11: φιλίαν τε γὰρ οἰόμεθα μέγιστον εἶναι τῶν ἀγαθῶν ταῖς πόλεσιν (οὕτως γὰρ ἂν ἥκιστα στασιάζοιεν), καὶ τὸ μίαν εἶναι τὴν πόλιν ἐπαινεῖ μάλισθ’ ὁ Σωκράτης, ὃ καὶ δοκεῖ κἀκεῖνος εἶναί φησι τῆς φιλίας ἔργον, καθάπερ ἐν τοῖς ἐρωτικοῖς λόγοις ἴσμεν λέγοντα τὸν ᾿Aριστοφάνην ὡς τῶν ἐρώντων διὰ τὸ σφόδρα φιλεῖν ἐπιθυμούντων συμφῦναι καὶ γενέσθαι ἐκ δύο ὄντων ἀμφοτέρους ἕνα. Il rimando è al Simposio di Platone (191a c). Com’è noto, l’attribuzione di questa epistola a Platone è da tempo contestata.
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L’ultima testimonianza è quella dell’epigramma 23 di Callimaco, dove si rinvia al Fedone in questi termini: Εἴπας « Ἥλιε χαῖρε » Κλεόμβροτος Ὡμβρακιώτης / ἥλατ’ ἀφ’ ὑψηλοῦ τείχεος εἰς ᾿Aΐδην, / ἄξιον οὐδὲν ἰδὼν θανάτου κακόν, ἀλλὰ Πλάτωνος / ἓν τὸ περὶ ψυχῆς γράμμ’ ἀναλεξάμενος. Dopo aver detto «Sole, addio», Cleombroto di Ambracia / si gettò da un alto muro giù nell’Ade, / senza avere conosciuto alcun male degno di morte; aveva però letto di Platone / uno scritto, uno solo, quello sull’anima.
Questi passi metterebbero secondo Nachmanson in discussione l’idea che Platone desse abitualmente un titolo ai suoi scritti. Le perplessità sollevate dallo studioso non appaiono convincenti e anzi l’intera questione da lui sollevata è largamente mal posta. Per vari motivi. In primo luogo, occorre dire che noi non siamo obbligati a riconoscere la presenza di un titolo almeno nella seconda, nella terza e nella quarta delle testimonianze appena ricordate. È evidente, infatti, che Aristotele da un lato e l’autore della XIII lettera e Callimaco dall’altro possono avere fatto ricorso a modi alternativi – ovvero a semplici indicazioni di contenuto –, per fare rimando al Simposio e al Fedone. Questa maniera di indicare i dialoghi platonici può essere stata dettata da un bisogno tanto semplice quanto concreto: esplicitare il tema trattato in ciascun dialogo. Tuttavia, supponiamo per un momento il contrario: ipotizziamo, cioè, che davvero tutti e quattro i brani ricordati da Nachmanson attestino proprio il titolo di determinati dialoghi platonici, come appunto Nachmanson riteneva. Anche così le quattro testimonianze non ci impedirebbero di affermare che Platone abbia dato un titolo ai dialoghi in questione. Piuttosto, quelle testimonianze proverebbero l’esistenza, già all’epoca, di un secondo titolo per quei testi. Che Platone fosse solito dare un titolo ai suoi lavori, non dovrebbe, in realtà, essere messo in dubbio. Molte considerazioni inducono a ritenerlo. Benché in prosa, i suoi dialoghi sono accostabili su vari aspetti alle opere drammatiche del tempo. Quella dell’Ateniese è una “prosa scenica”, come già da tempo rilevato⁶⁰⁹, ed è persino possibile che almeno qualche suo dialogo venisse occasionalmente recitato ad alta voce di fronte a un pubblico selezionato, come si apprende, tra l’altro, da un passo di Diogene Laerzio (cf. III, 37). Del resto, neppure Platone rivendicava nel testo vero e proprio la paternità di quanto composto. Di conseguenza, è chiaro che ciascuno dei dialoghi doveva
Da ciò a ragione concludeva Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 35, sul conto di Platone: «Quem ipsum scriptis suis titulos praefixisse iam inde facile concluditur, quod phi losophus poetas dramaticos imitans dialogos scripsit».
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esibire sul proprio rotolo una iscrizione, indicante appunto il nome dell’autore. È impensabile che i dialoghi rimanessero anepigrafi: la tradizione successiva avrebbe pagato negativamente tale mancanza. Naturalmente i dialoghi andavano distinti, nella inscriptio, gli uni dagli altri, così come già erano soliti fare i drammaturghi da tempo con le proprie composizioni. Ciascun dialogo richiedeva, dunque, un suo titolo, cioè un nome proprio indicato sulle soglie fisiche del testo. Per tutti questi motivi mi sembra assolutamente chiaro che Platone abbia agito ben diversamente da quanto Nachmanson ritiene. Per inquadrare correttamente le quattro testimonianze addotte dallo studioso, dobbiamo ora fare tutt’altro genere di discorso. Come visto, le tragedie di epoca classica erano dedicate spesso e volentieri alla trattazione di un mito particolare. Di conseguenza, esse finivano per essere intitolate ciascuna sul proprio rotolo col nome del personaggio mitologico a cui erano state consacrate (abbiamo peraltro visto che, per distinguere tra loro tragedie omonime di uno stesso autore, si prendevano ulteriori accorgimenti). Poiché il mito era generalmente noto, era così anche subito noto, almeno nelle linee generali, il contenuto del rotolo drammatico. Veniamo a Platone: almeno 27 dei suoi dialoghi recano, per titolo, il nome di dati personaggi, spesso e volentieri discepoli di Socrate e suoi interlocutori negli stessi dialoghi⁶¹⁰. D’altra parte, titoli come Timeo o Ippia o Fedone o Eutifrone o Menesseno non hanno alcuna utilità a livello informativo. Pertanto, un lettore non preliminarmente avvertito non poteva che rimanere disorientato di fronte a titoli del genere, non sapendo ovviamente cosa aspettarsi. È in questo quadro che è lecito inserire le quattro testimonianze evidenziate dal Nachmanson. Esse, in realtà, sono sintomatiche di ben altro problema, cioè della esigenza – già affiorata tra IV e III secolo a. C. – di chiamare i dialoghi anche in altro modo, al fine di indicarne in modo conveniente e chiaro il contenuto. In linea puramente teorica è possibile che questo uso abbia avuto assai precocemente ripercussioni librarie. Non si può cioè escludere che già nell’arco di tempo appena indicato qualche dialogo abbia sperimentato una “espansione” della sua inscriptio libraria e dunque abbia presentato un doppio titolo. Al titolo stabilito da Platone, per esempio Menesseno o Fedone etc., può essere stato affiancato assai presto (già all’interno della cerchia platonica?) un secondo titolo Y. Lanfrance, Pour interpréter Platon, II, La Ligne en Rèpublique VI, 509d 511e. Le text et son histoire, Montréal Paris 1994 (Collection Noêsis), 51, osserva a ragione: «Dans le cas des dialogues dont le titre est le nom du personnage principal, et ils sont 27 sur les 36 présents dans les tétralogies, Platon suivait sans doute la pratique adoptée par les tragiques et les comiques».
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tramite la disgiuntiva ἤ, in modo da esplicitare il contenuto del singolo dialogo. D’altra parte, è anche vero che Platone stesso può essere stato indotto, a un certo punto, a considerare gli obiettivi benefici di una tale strategia d’intitolazione. Questa possibilità non può essere quantomeno esclusa. Comunque, tutto questo è un processo di cui le fonti offrono sicura e puntuale notizia solo per epoca più tarda. E di tale processo (e quindi dell’uso di doppi titoli per la maggior parte dei dialoghi) noi vediamo bene gli esiti nella tradizione diretta⁶¹¹. La questione sollevata dal Nachmanson è dunque decisamente da rivedere e le fonti da lui discusse vanno valutate in ben altra prospettiva. Va aggiunto che se Aristotele ricorda il Simposio e il Menesseno al modo che s’è detto, egli cita pure molte altre opere di Platone e non sarà inutile adesso vedere come. Tenendo presente l’Index Aristotelicus curato da Hermann Bonitz per gli Aristotelis opera, V, Berolini 1970, s.v. Platon, 598 – 599, e in accordo con quanto già osservato da alcuni studiosi e in particolare da Eduard Lohan e Yvon Lanfrance⁶¹², mi limito a segnalare: – Πολιτεία: cf. Pol. II, 2, 1261a 12; – Τίμαιος: cf. De Caelo III, 1, 300b 17; – Νόμοι: cf. Pol. II, 6, 1271b 1; – Φαίδων: cf. Met. I, 9, 991b; – Φαῖδρος: cf. Rhet. III, 7, 1408b 20; – Μένων: cf. Anal. Post. I, 1, 71a 29; – Γοργίας: cf. Soph. El. 12, 173a 8; – Ἱππίας: cf. Met. V, 29, 1025a 6⁶¹³. Inoltre, la Πολιτεία, i Νόμοι, il Φαίδων e specialmente il Τίμαιος sono citati dallo stesso Aristotele più di una volta nei suoi lavori e ogni volta sempre allo stesso modo: è evidente che egli qui si serve proprio del titolo esibito dagli esemplari a disposizione sua (e altrui), come già E. Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 36, aveva compreso. Lo stesso Lohan osserva che non sembra possa dirsi molto di più sull’uso di Platone di dare un titolo ai suoi scritti.
Su tali aspetti cf. Alline, Histoire du texte (come n. 67), 54 55 e 124 131, 177; R.G. Hoerber, Thrasyllus’ Platonic canon and the double titles, in Phronesis 2 (1957), 10 20. Cf. Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 35 36; Lanfrance, Pour interpréter Platon (come n. 610), 51. Si tratta qui dell’Ippia Minore: cf. Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 36, per altre considerazioni.
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4.3 Aristotele «il lettore» Nella cosiddetta Vita Marciana, una biografia di epoca alquanto tarda e tuttavia “costruita” su buone fonti⁶¹⁴, Aristotele si vede attribuito, mentre ancora è all’interno dell’Accademia, un appellativo che gli calza perfettamente: ὁ ἀναγνώστης, «il lettore»⁶¹⁵. Per l’argomento trattato in queste pagine, questa caratterizzazione del personaggio è quanto mai importante. Proprio in quanto lettore, Aristotele è stato già in giovinezza testimone della pratica ormai diffusa di dare un titolo a testi in prosa come in poesia. La generazione di prosatori a lui precedente si era lasciata per così dire già largamente “conquistare” da tale uso. Il suo maestro Platone vi aveva fatto ricorso per i dialoghi. Isocrate se n’era servito per i propri lavori di oratoria. Senofonte vi aveva fatto ricorso per i suoi scritti di storia, di filosofia o di altro genere. Ancor prima, cioè nel corso del V secolo a. C., l’uso dei titoli aveva conquistato le soglie librarie della produzione di carattere drammatico. Aristotele sapeva ovviamente benissimo tutto questo, anzi egli lo constatò meglio di chiunque. Le sue indagini a carattere sistematico sulla letteratura sino ad allora prodotta lo avranno messo frequentemente a contatto con tale modalità di presentazione dei testi. D’altra parte, ciò non significa che qualsiasi scritto pervenuto nelle mani di Aristotele avesse già allora un titolo. Abbiamo sopra considerato il caso dell’opera eraclitea, che non ci risulta ne avesse uno quando Aristotele se ne occupò. Quantomeno, va riconosciuto che Aristotele è silente in merito e parla dello scritto in modo generico, chiamandolo σύγγραμμα (cf. Rhet. III, 1407 b; qui l’incipit è citato per ragioni di studio). Che Aristotele e i suoi collaboratori abbiano anche potuto provvedere a stabilire un titolo per scritti che ne erano privi, e per ovvie ragioni di ordinamento dei materiali posseduti, non è difficile supporlo. Il bisogno di registrare e ordinare i testi posseduti e di farne oggetto di studi sistematici, mise Aristotele, meglio di chiunque altro, di fronte alla importanza dei titoli a fini biblioteconomici. Un suo discepolo e collaboratore, Demetrio del Falero, “esportò” più tardi in terra d’Egitto l’esperienza fatta all’ombra del “Maestro di color che sanno”. In questo senso si comprende assai bene la celebre
Cf. O. Gigon (herausg. und komment. von), Vita Aristotelis Marciana, Berlin 1962 (Lietzmanns kleine Texte, 181), 11 21. Cf. Gigon (herausg. und komment. von), Vita Aristotelis Marciana (come n. 614), cap. 6, l. 41.
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notizia di Strabone, secondo cui ᾿Aριστοτέλης (…) πρῶτος ὧν ἴσμεν συναγαγὼν βιβλία καὶ διδάξας τοὺς ἐν Αἰγύπτῳ βασιλέας βιβλιοθήκης σύνταξιν⁶¹⁶. Nella veste di lettore e studioso analitico, Aristotele, abbiamo detto, è già spettatore dell’uso della “nuova” prassi di presentazione dei testi e di ciò egli offre larghissima testimonianza in molti suoi scritti, e in particolare nella Poetica e nella Retorica. Qui infatti abbondano le citazioni di titoli di opere drammatiche e di testi di altro genere. Già per questo egli occupa un posto particolarmente rappresentativo per il nostro discorso sulla nascita (e il diffondersi) dell’uso dei titoli nella letteratura greca. Naturalmente, la produzione aristotelica può essere esplorata anche da un altro e ora più preciso punto di vista. È lecito infatti interrogarsi sulla storia del titolo degli scritti dello Stagirita. Dopo tutto quello che si è detto sull’emergere e l’affermarsi del fenomeno, in linea di principio non dovrebbe esservi alcun dubbio sul fatto che Aristotele, oltre a servirsi del titolo per citare scritti altrui (qualora ovviamente provvisti), fosse anche solito stabilirne uno per i suoi lavori. Nondimeno, la questione del titolo si pone anche per la sua produzione letteraria e anzi proprio su tale terreno essa tocca livelli che non è eccessivo definire vertiginosi. Giacché, parlando di Aristotele in quanto scrittore, dobbiamo distinguere – e già Lohan opportunamente distingueva⁶¹⁷ – tra opere concepite per un più largo pubblico e discorsi o trattati destinati soltanto (inizialmente) all’ambito della scuola. Se le prime, proprio perché da subito rivolte a un più ampio pubblico, dovettero essere fornite di una inscriptio, in cui erano indicati nome dell’autore e titolo, i lavori elaborati all’interno della scuola e per la scuola poterono inizialmente anche esserne sprovvisti, sia perché il maestro non li aveva rivisti e riordinati e quindi intitolati, sia perché tra gli allievi interessati questi materiali dovettero circolare almeno sulle prime in maniera relativamente libera, sicché ciascuno poteva farsi copia soltanto di quello che gli interessava e intitolarlo eventualmente a suo personale piacimento. A tal proposito Ernst Nachmanson ha suggestivamente invitato gli studiosi a riflettere sulle condizioni tutt’altro che ideali, in cui dovevano trovarsi i manoscritti contenenti le dottrine di scuola del Maestro, quando, dopo la sua morte, successori ed epigoni quali Teofrasto, Eudemo, Nicomaco e altri ancora si accinsero a revisionarli e a renderli accessibili. È a questo punto che molti testi dello Stagirita ancora sprovvisti di un titolo ne avranno ricevuto uno. La siste Strab. XIII, 1, 54. Non approfondisco qui la questione del reale posseduto della biblioteca di Alessandria nel III secolo a. C., ma rimando a R. Bagnall, Alexandria: Library of Dreams, in Proceedings of the American Philosophical Society 4/146 (2002), 348 362. Cf. Lohan, De librorum titulis (come n. 14), 37.
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mazione del Nachlass di Aristotele impegnò ben più di una generazione di studiosi, se dobbiamo credere alle fonti antiche in merito. Ed è appena il caso di ricordare quanto ci è stato tramandato sul conto di Andronico, l’erudito che nel I secolo a. C. raccolse e riordinò i discorsi aristotelici περὶ τῆς πρώτης φιλοσοφίας e per una ragione assolutamente estrinseca al contenuto – se è vero quel che la critica perlopiù oggi ritiene; ma l’argomento meriterà nuove verifiche in altra sede –, ossia per la loro semplice collocazione (μετὰ τὰ φυσικά), pose in essere quel titolo che tutti conosciamo e ancora oggi usiamo a riguardo⁶¹⁸. Quando si parla di Aristotele e del titolo dei libri, dobbiamo quindi distinguere più aspetti relativi allo stesso personaggio: anzitutto quello del lettore di testi altrui, ossia dell’intellettuale impegnato nell’ordinamento e nello studio dei materiali e dei dati letterari venuti in suo possesso; e quello dello scrittore che, avendo ereditato la prassi del titolo, la applica quantomeno ai suoi scritti destinati a circolare subito tra un più ampio pubblico. Per l’argomento a cui è dedicato il presente lavoro, il primo dei due aspetti è di fondamentale importanza, perché ci permette di cogliere fattori notevoli (critica letteraria ed esigenze biblioteconomiche), che hanno radicato a dovere l’uso dei titoli tra i Greci. Il secondo aspetto è ovviamente anch’esso importante, ma rimane legato questa volta alla produzione specifica dell’autore e alle sorti a cui essa andò incontro: tema con cui ormai si oltrepasserebbero i limiti imposti alla presente ricerca; del resto questo argomento richiede – o meglio: ha già meritato – approfondite indagini, che qui non possiamo neppure riassumere. Alla questione del numero degli scritti aristotelici e alle lunghissime liste di titoli che si fecero a questo riguardo nell’antichità e ai problemi posti dalla composizione di tali liste sono tra l’altro dedicati gli studi di Paul Moraux. Questi elenchi non si corrispondono in effetti tra loro non solo a causa della vertiginosa produzione di Aristotele, ma anche perché molti trattati furono intitolati, come detto, solo secondariamente, quando magari di uno stesso testo circolavano già altre copie, complete o anche parziali, designate presto o tardi in vari modi⁶¹⁹.
Le fonti peraltro ci danno anche notizia su come tanti materiali aristotelici sarebbero fortunosamente pervenuti nelle mani di Andronico, ma non è detto che si siano salvati davvero in quel modo o solo in quel modo. La questione del titolo degli scritti aristotelici sollevò peraltro discussioni tra le cerchie erudite antiche e tardoantiche. Si veda a riguardo Ph. Hoffmann, La problématique du titre des traités d’Aristote selon les commentateurs grecs. Quelques exemples, in Titres et articulations du texte (come n. 32), 75 103. Ricordo in particolare il lavoro di P. Moraux, Les listes anciennes des ouvrages d’Aristote, Louvain 1951 (Aristote, traductions et études. Collection publiée par l’Institut supérieur de Philosophie de l’Université de Louvain).
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Lo scenario che dobbiamo figurarci sulla primissima circolazione dei trattati aristotelici all’interno del Peripato non dovrebbe essere molto diverso da quello che possiamo delineare per i testi di altri maestri e filosofi greci vissuti alcuni secoli dopo, come Epitteto, Galeno e Plotino. Fissati per semplici esigenze di insegnamento, distribuiti a pochi intimi solo in via provvisoria e in attesa di una revisione, dettati o addirittura messi per iscritto solo per libera iniziativa di qualche allievo, parecchi dei discorsi o trattati di tali pensatori circolarono inizialmente, tra allievi e amici, senza intestazione libraria: le copie così prodotte finirono presto per essere intitolate ora in un modo ora in un altro. Galeno fu costretto a un certo momento a intervenire, per porre fine al disordine che si era generato, componendo un lavoro ad hoc ⁶²⁰. Plotino affidò l’incarico di pubblicare i suoi trattati a Porfirio, che lo fece egregiamente, ma molto tardivamente, quando gli scritti del suo maestro avevano già goduto di una certa diffusione ed erano stati intitolati in vario modo: su tutto ciò cf. Porph., Vita Plotini, cap. 4, ll. 16 – 21⁶²¹. Epitteto non aveva neppure prodotto discorsi scritti: fu il suo discepolo Arriano a ricavare memorie delle lezioni, a rivederle e a pubblicarle peraltro tardivamente, quando cioè già altri avevano ricavato copie a partire dalle sue note. Possiamo anche in tal caso figurarci la circolazione di tali memorie sotto titoli diversi⁶²². Insomma, all’interno di scuole filosofiche di età romano-imperiale “semplici” testi di scuola o anche trattati potevano passare dall’autore ai suoi discepoli senza esibire una intestazione, benché l’uso di dare un titolo a prodotti letterari di vario genere fosse ben praticato da molto tempo. Ben prima del tempo di Epitteto, Galeno e Plotino, tutto questo dovette avvenire all’interno della scuola di Aristotele. Ma per il nostro discorso lo Stagirita conta, come detto, ancora di più come critico della letteratura sino ad allora prodotta – e per questo più volte nel presente lavoro abbiamo fatto rimando alla Poetica e alla Retorica – e come organizzatore di raccolte librarie.
Per l’edizione del De libris propriis cf. V. Boudon Millot (texte etabli, traduit et annote par), Galien. Tome I: Introduction generale. Sur l’ordre de Ses propres livres. Sur ses propres livres. Que l’excellent médecin est aussi philosophe, Paris 2007 (CUF), 131 173, con traduzione a fronte. Sulla circolazione dei testi nelle scuole filosofiche di epoca imperiale, sullo studio e l’esegesi di opere letterarie e trattati (anche di medicina) di vario genere e sui problemi che poneva il titolo o l’intitolazione di questi scritti è molto istruttivo Mansfeld, Prolegomena. Questions to Be Settled (come n. 68). Ho presente l’edizione critica di P. Henry e H.R. Schwyzer, Tomus I, Oxonii 1964 (Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis). Gli insegnamenti di Epitteto fissati per iscritto da Arriano sono designati nella documen tazione a nostra disposizione in forme svariate. Non mi risulta che si sia tentato di fare un quadro puntuale dei dati in merito. Spero di potermene occupare in una prossima occasione.
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Così dunque nell’avanzato IV secolo a. C. l’uso del titolo letterario si radicava nelle dinamiche letterarie dei Greci.
5 Titoli in scena: un passo del Lino del commediografo Alessi A volte può accadere che in un frammento di poche righe di un’opera per il resto perduta si condensino aspetti o problemi rappresentativi di un’epoca o di una lunga e complessa dinamica storico-letteraria. In quest’ultimo genere di casi rientra l’unico brano rimasto di una commedia di Alessi, un poeta nato a Turii intorno al 370 a. C., ma poi vissuto perlopiù ad Atene, dove svolse una intensissima attività di drammaturgo. Si spense, a quanto ci risulta, all’età di circa cento anni⁶²³. Il frammento in questione era parte del Lino, una commedia incentrata sul mitico inventore del ritmo e della melodia e, a quanto si deduce dal brano, sulla difficile educazione di Eracle⁶²⁴. Ignota la data della rappresentazione della commedia. Ecco ad ogni modo il testo del frammento, sopravvissuto grazie a una citazione di Ateneo (164 b–d): (ΛΙΝ.) βιβλίον ἐντεῦθεν ὅ τι βούλει προσελθὼν γὰρ λαβέ, ἔπειτ’ ἀναγνώσει. (ΗΡ.) πάνυ γε. (ΛΙΝ.) διασκοπῶν ἀπὸ τῶν ἐπιγραμμάτων, ἀτρέμα τε καὶ σχολῇ. Ὀρφεὺς ἔνεστιν, Ἡσίοδος, τραγῳδίαι, Ἐπίχαρμος, Ὅμηρος, Χοιρίλος, συγγράμματα παντοδαπά. δηλώσεις γὰρ οὕτω τὴν φύσιν, ἐπὶ τί μάλισθ’ ὥρμηκε. (ΗΡ.) τουτὶ λαμβάνω. (ΛΙΝ.) δεῖξον τί ἐστι πρῶτον. (ΗΡ.) ὀψαρτυσία, ὥς φησι τοὐπίγραμμα. (ΛΙΝ.) φιλόσοφός τις εἶ, εὔδηλον, ὃς παρεὶς τοσαῦτα γράμματα Σίμου τέχνην ἔλαβες. (ΗΡ.) ὁ Σῖμος δ’ ἐστὶ τίς; (ΛΙΝ.) μάλ’ εὐφυὴς ἄνθρωπος. ἐπὶ τραγῳδίαν ὥρμηκε νῦν καὶ τῶν μὲν ὑποκριτῶν πολὺ κράτιστός ἐστιν ὀψοποιός, ὡς δοκεῖ τοῖς χρωμένοις, τῶν δ’ ὀψοποιῶν ὑποκριτής ***
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Sul poeta e sull’opera di cui discuteremo cf. Nesselrath, Die attische Mittlere Komödie (come n. 252), 58 59 e 198 199; sulla conservazione e perdita delle opere del commediografo si veda inoltre ora la succosa sintesi di E. Esposito, s.v.: Alexis, in G. Bastianini M. Haslam H. Maehler F. Montanari C. Römer (ediderunt), M. Stroppa (adiuvante), Commentaria et lexica Graeca in papyris reperta (CLGP), Berlin Boston 2016, 3 17 (qui in part. 3 7). Sul brano cf. Nesselrath, Die attische Mittlere Komödie (come n. 252), 227 229.
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(ΛΙΝ.) βούλιμός ἐσθ’ ἅνθρωπος. (ΗΡ.) ὅ τι βούλει λέγε· πεινῶ γάρ, εὖ τοῦτ’ ἴσθι.
Il testo qui presentato rispecchia, in particolar modo alla linea 3, l’edizione data da Stuart Douglas Olson⁶²⁵. Le edizioni precedenti avevano assegnato le parole della stessa linea esclusivamente alla voce di Lino. In questa maniera, tuttavia, il senso della parte iniziale del brano (linee: 1– 4) rimaneva di difficile decifrazione⁶²⁶. Restituendo, com’è necessario, le parole πάνυ γε alla voce di Eracle, il senso del frammento diventa chiaro. Lino invita il discepolo, che non vuole saperne di scuola, a prendere un libro e a leggerlo, quello che egli preferisce (ll. 1– 3). In questo modo – dice poi Lino – Eracle avrebbe mostrato le sue inclinazioni naturali. Il discepolo risponde prontamente: πάνυ γε, «certo!» (l. 3). Lino riprende il discorso interrotto e raccomanda a Eracle di compiere la scelta «con calma e senza fretta» e a partire «dalle epigrafi (librarie)»: διασκοπῶν ἀπὸ τῶν
Per l’edizione del brano cf. S.D. Olson, Broken Laughter. Select Fragments of Greek Comedy, Oxford New York 2007, 256 257 (con commento del frammento a: 449 450). Per parte mia, ho aggiunto al v. 4 solo la punteggiatura. Mi sia concesso qui dire che ero arrivato alle stesse conclusioni di Olson sull’edizione del v. 3, quando ancora non conoscevo il lavoro di Olson e avevo soltanto riflettuto sull’edizione critica del frammento in PCG II, n. 140. Gli argomenti che mi hanno spinto a considerare πάνυ γε come immediata risposta di Eracle a Lino sono esposti in Castelli, Una nuova interpretazione (come n. 13), 1 18. L’edizione di Olson differisce da quella data da Kassel e Austin nei PCG II, s.v. Alexis, n. 140, anche alla linea 6 e dopo la linea 16. Ricordo che sulla data di rappresentazione del Lino non sappiamo nulla di certo. La recente proposta di collocare la prima rappresentazione alla metà del IV secolo a. C., è da prendere con estrema cautela, come invita, del resto, a fare il suo stesso autore: A. Hartwig, The Evolution of Comedy in the Fourth Century, in E. Csapo H.R. Goette J.R. Green P. Wilson (ed. by), Greek Theatre in the Fourth Century B.C., Berlin Boston 2014, 215 227, qui in part. 223. Per un’analisi approfondita del frammento si veda W.G. Arnott (a Commentary by), Alexis (come n. 192), 404 415. La “riforma” dell’edizione del verso 3 del frammento è ora accolta da F. Strama (testo, traduzione e commento a cura di), Alessi. Testimonianze e frammenti. Appendice: Thurii: dalla fondazione alla metà del IV secolo a. C., a cura di L. Di Vasto, Castrovillari 2016 (Edizioni della Delegazione di Castrovillari dell’Associazione Italiana di Cultura Classica), 46 e 274; M. Caroli, La ‘didattica’ del cuoco (Alexis, fr. 140 Kassel Austin), in G. Cipriani A. Cagnolati (a cura di), Scienze umane tra ricerca e didattica. Atti del convegno internazionale di studi (Foggia, 24 26 settembre 2018), vol. II, Le frontiere della didattica tra discipline, competenze e strategie di apprendimento, Foggia 2019, 485 489 (qui in part. 487 488). Sui problemi posti dalle edizioni precedenti cf. Castelli, Sul titolo dei libri nell’antichità (come n. 13), 3 7.
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ἐπιγραμμάτων, ἀτρέμα τε καὶ σχολῇ (l. 4). Qui Lino invita il discepolo a procedere in tutta tranquillità nella scelta del libro⁶²⁷. Eracle prende «questo qui»: τουτὶ λαμβάνω (l. 8). «Fa’ vedere anzitutto di che si tratta», δεῖξον τί ἐστι πρῶτον (l. 9), gli replica il maestro; e quello di rimando: «arte culinaria (ὀψαρτυσία), come dice l’iscrizione [qui più specificamente: «il titolo» del libro]». Dunque, il discepolo si era lasciato catturare da un ricettario, ossia da un libro di cucina, pur essendo lì disponibili⁶²⁸ rotoli contenenti Orfeo, Esiodo, tragedie, Epicarmo, Omero e autori di altri generi. È la prima volta a nostra conoscenza che il termine ἐπίγραμμα è adottato nelle fonti in riferimento alla intestazione libraria e in particolare al fine di indicare il titolo esibito da un dato scritto⁶²⁹. Inoltre, per come è concepita la scena, si ricava abbastanza chiaramente che l’ἐπίγραμμα che Eracle è invitato a mostrare – al maestro come al pubblico – doveva trovarsi sul lato esterno del rotolo, piuttosto che all’interno, ed essere quindi visibile anche a rotolo chiuso⁶³⁰. Infatti, Eracle non ha alcun interesse per lo studio né per la lettura, cioè per lo svolgimento dei rotoli: egli ha fame (ll. 18 – 19). La sua scelta è stata quindi immediata in tutti i sensi: egli ha preso il primo libro che gli “parlava” subito – proprio grazie al titolo esterno – di cucina. Il brano in questione è dunque di speciale importanza per il nostro tema. Nella seconda metà del IV secolo a. C. o al più tardi nei primi decenni del III non
Per un approfondimento di questo punto cf. Castelli, Sul titolo dei libri nell’antichità (come n. 13), 7 11. Dal frammento non si ricava alcuna indicazione sul luogo di ambientazione della scena. Rimane comunque suggestiva l’idea che la raccolta di libri mostrata da Lino a Eracle si pre sentasse come una professional library: cf. P.M. Pinto, Men and Books in Fourth century BC Athens, in J. Koenig K. Oikonomopoulou G. Woolf (ed. by), Ancient Libraries, Cambridge 2013, 85 95 (qui 88). Un’altra occorrenza del genere è forse da riconoscere in una citazione plutarchea dello stoico Crisippo, sulla quale si veda M. Puelma, Ἐπίγραμμα, epigramma: Aspekte einer Wortge schichte, in MH 53/2 (1996), 123 39, qui 123, n. 2; M. Lausberg, Das Einzeldistichon. Studien zum antiken Epigramm, München 1982 (Studia et testimonia antiqua, 19), 34 e nota relativa, e so prattutto K. H. Rolke, Die bildhaften Vergleiche in den Fragmenten der Stoiker, Hildesheim 1975 (Spudasmata, 32), 69 e 293. Tornando al frammento del Lino, S.D. Olson (ed. by), Broken Lau ghter. Select Fragments of Greek Comedy, Oxford New York 2007, 267 e 449 450, interpreta il termine ἐπίγραμμα, che ricorre due volte nel frammento in questione (al plurale alla linea 4 e al singolare alla linea 10), nel senso di label. In realtà, il brano del Lino non ci autorizza a concludere che sulla scena fossero state esibite etichette librarie (tantomeno poi che all’epoca si usassero già etichette per i rotoli). Di ciò non abbiamo alcuna evidenza per l’epoca. Pertanto, ἐπίγραμμα va inteso, più cautamente, nel senso di «intestazione libraria» o anche «titolo». Sulla resa del termine ἐπίγραμμα e sulla questione delle etichette librarie cf. quanto osservo alla nota precedente.
6 Il titolo come fenomeno librario preellenistico
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v’era alcuna difficoltà a portare libri in scena⁶³¹ e a sfruttarne i titoli per esigenze di spettacolo. Nel frammento del Lino il termine ἐπίγραμμα compare due volte nel senso che si è detto. Il termine fu poi sfruttato altre volte nella stessa accezione, per esempio nel primo dei due trattati pseudo-dionisiani sui discorsi figurati (= Ars Rhet. VIII), dove a un certo punto si legge (inizio del cap. 8): Ἐπεὶ μέντοι συμβουλευτικῶν καὶ δικανικῶν ἐμνήσθημεν, λάβε καὶ παρὰ Πλάτωνος παρα δείγματα ἀγώνων πλειόνων συμπεπλεγμένων (…). ἡ Σωκράτους ᾿Aπολογία τὴν μὲν πρότασιν ἔχει, ὡς τὸ ἐπίγραμμα δηλοῖ, ἀπολογίαν, ἔστι δὲ καὶ ᾿Aθηναίων κατηγορία, εἰ τοιοῦτον ἄνδρα εἰς δίκην ὑπήγαγον. Poiché dunque abbiamo ricordato discorsi deliberativi e giudiziari, considera anche alcuni esempi tratti da Platone di più controversie intrecciate tra loro (…). L’Apologia di Socrate ha per oggetto, come indica il titolo [= come si apprende dall’epigrafe libraria], una difesa, tuttavia essa è anche un’accusa contro gli Ateniesi, avendo essi trascinato in giudizio un uomo di tale valore.
Il trattatello, come sopra ricordato, è del II secolo d. C., se è giusta la datazione che ne danno i moderni. All’epoca, ad ogni modo, per indicare la inscriptio libraria e in particolare il titolo, si preferiva usare la forma, evidentemente apparentata, ἐπιγραφή, su cui diremo ormai in conclusione del presente lavoro.
6 Il titolo come fenomeno librario preellenistico Nell’ambito della prosa, Senofonte non fu dunque l’unico della sua generazione a sfruttare l’epigrafe libraria. Questo uso risulta condiviso da altri grandi suoi contemporanei, i quali fecero scuola in vari campi (Platone e Isocrate in particolare) e diedero evidentemente l’esempio agli altri anche in proposito. Prosatori attivi nella prima metà del IV secolo a. C. riconobbero dunque la praticità e i vantaggi della inscriptio e passarono decisamente alla nuova modalità di presentazione del prodotto letterario⁶³². Altri autori nati o attivi ormai nel pieno IV
Cf. in proposito Del Corso, Materiali per una protostoria del libro greco, in S&T 1 (2003), 5 78 (qui 19). Senofonte, Isocrate e Platone sono cresciuti e si sono formati nell’Atene afflitta dalla guerra del Peloponneso ma intellettualmente viva grazie anche alla presenza dei nuovi maestri del λόγος, i sofisti. Tra questi occupa un posto speciale Protagora. La sua ᾿Aλήθεια, come visto, circolava senz’altro intitolata in questa maniera nella cerchia platonica nei primi decenni del IV secolo a. C. Non possiamo tuttavia stabilire con certezza se tale intitolazione risalga già all’autore. Naturalmente lo abbiamo rilevato più di una volta nessuno può escludere che
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VII Titoli e prosa nel IV secolo a. C.: alcuni approfondimenti
secolo a. C. non fecero poi altro che ereditare e sfruttare con particolare abilità e intelligenza questo uso per le loro necessità: abbiamo sopra riflettuto su quanto compiuto da Teopompo. Risulta così chiaro che il fenomeno dei titoli, benché apparso in ritardo nel campo della prosa, almeno di tipo storiografico, rispetto a quello della poesia drammatica, è emerso tra i Greci in età decisamente preellenistica. D’altra parte, si è rilevato che l’avvento dei titoli tra V e IV secolo a. C. non deve essere interpretato come affermazione assoluta di tale uso nelle dinamiche letterarie dei Greci. Scritti di vario genere entrarono in circolazione a quel tempo e anche più tardi senza un titolo e con le conseguenze che non è difficile immaginare.
qualche scritto in prosa abbia cominciato a circolare con un dato titolo già verso la fine del V secolo a. C. (è possibile anzi che un titolo già lo esibissero alcuni scritti di medicina), ma la documentazione è scarna e malcerta e sarà bene pertanto sospendere il giudizio in merito.
VIII Rotoli e titoli 1 I “luoghi” del titolo nel rotolo di età ellenistico-romana. Una panoramica I papiri a nostra disposizione consentono di poter offrire una panoramica dei “luoghi del titolo” propri del rotolo letterario di età ellenistico-romana. La segnalazione poteva in effetti avere diverse possibili sedi su tale tipologia libraria⁶³³.
L’argomento è stato indagato a fondo negli studi dell’ultimo secolo. Senza pretesa di esaustività segnalo: Schubart, Das Buch (come n. 22); Wendel, Die griechisch römische Buch beschreibung (come n. 23), 24 34, 106 111; Oliver, The First Medicean MS (come n. 12), 232 261; Luppe, Rückseitentitel auf Papyrusrollen (come n. 26), 89 99; E.G. Turner, Greek Manuscripts of the Ancient World. Second Edition Revised and Enlarged. Edited by P.J. Parsons, London 1987, 13 14; G. Bastianini, Tipologie dei rotoli e problemi di ricostruzione, in PapLup 4 (1995), 21 42 (qui spec. 25 e seguenti); E. Puglia, Dati bibliologici del PHerc. 1414, in CErc 20 (1990), 61 64; Id., La duplice soscrizione del PHerc. 1497, in CErc 22 (1992), 175 178; Id., La soscrizione del libro XXVIII Sulla natura di Epicuro (PHerc 1479/1417), in PapLup 6 (1997), 101 106; Id., Note bibliologiche e sticometriche, in ZPE 119 (1997), 123 127; M. Capasso, I titoli nei papiri ercolanesi. I: un nuovo esempio di doppia soscrizione nel PHerc. 1675, in PapLup 3 (1994), 235 252; Id., I titoli nei papiri ercolanesi. II: il primo esempio di titolo iniziale in un papiro ercolanese (PHerc. 1457), in Rudiae 7 (1995), 103 111; Id., I titoli nei papiri ercolanesi. III: i titoli esterni (PHerc. 339, 1491 e “scorza” non identificata), in C. Basile A. Di Natale (a cura di), Atti del II Convegno Nazionale di Egittologia e Papirologia (Siracusa 1 3 dicembre 1995), Siracusa 1996 (Quaderni dell’Istituto Internazionale del Papiro, 7), 137 151; Id., I titoli nei papiri ercolanesi. IV: altri tre esempi di titoli iniziali, in PapLup 7 (1998), 41 73; G. Arrighetti, Filodemo biografo dei filosofi e le forme dell’erudizione, in CErc 33 (2003), 13 30; G. Del Mastro, La subscriptio del PHerc. 1005 e altri titoli in caratteri distintivi nei Papiri Ercolanesi, in CErc 32 (2002), 245 256; Id., Osservazioni sulle subscriptiones dei PHerc. 163 e 209, in CErc 33 (2003), 323 329; Id., Osservazioni bibliologiche e paleografiche su alcuni papiri ercolanesi, in CErc 39 (2009), 283 299; Id., La subscriptio del PHerc. 168, Filodemo. Opus incertum, Hypomnematikon, in A. Antoni G. Arrighetti M.I. Bertagna D. Delattre (a cura di), Miscellanea Papyrologica Herculanensia, I, Pisa Roma, 2010, 137 145; Fioretti, Sul paratesto (come n. 40), 184 194; T. Dorandi, Due titoli di papiri ercolanesi, in ZPE 199 (2016), 29 32; G. Ranocchia, rec. a G. Del Mastro, Titoli e annotazioni bibliologiche nei papiri greci di Ercolano, in Gnomon 89 (2017), 577 584; Id., Un nuovo titolo iniziale nella col lezione ercolanese e un nuovo libro (del trattato) sul Sole di Demetrio Lacone (PHerc. 177), in Aegyptus 98 (2018), 3 36; Id., A New End Title in the Herculaneum Papyri and the First Case of a Preserved subscriptio in One of the Books Assigned to Philodemus’ Systematic Arrangement of the Philosophers (PHerc. 327), in Mnemosyne 72 (2019), 437 458; Id., PHerc. 1015/832: Book 15, 16, or 19 of Philodemus’ On Rhetoric?, in BASP 56 (2019), 167 172. Alla tematica sono dedicati i volumi di Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29); Schironi, ΤΟ ΜΕΓΑ ΒΙΒΛΙΟΝ (come n. 30); Del Mastro, Titoli e annotazioni bibliologiche (come n. 31). Sul paratesto dei rotoli della prima età tolemaica si https://doi.org/10.1515/9783110703740 016
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VIII Rotoli e titoli
Sul recto, ossia sul lato interno, il titolo poteva figurare all’inizio come in chiusura del rotolo, e in particolare: in uno spazio bianco antecedente alla prima colonna di testo o anche sul margine superiore della stessa prima colonna⁶³⁴; oppure (anzi più spesso, come vedremo) in chiusura del rotolo, sotto l’ultima colonna di scrittura o nella colonna immediatamente a destra, riservata usualmente a ospitare solo indicazioni di carattere librario. Il titolo era normalmente preceduto dal genitivo del nome dell’autore del testo tramandato⁶³⁵. Per rotoli contenenti, ciascuno, più testi, sono pure attestati titoli interni, cioè tra un testo e l’altro⁶³⁶. Il titolo poteva essere indicato anche sul lato esterno del rotolo, cioè sul verso, più o meno in corrispondenza della prima colonna di scrittura del recto. L’indicazione poteva essere disposta verticalmente, secondo le fibre del verso, oppure perpendicolarmente alle stesse. Talvolta, per designare in questa sede il contenuto del rotolo, fu sufficiente indicare, in caso nominativo, il nome dell’autore del testo o dell’insieme di testi tramandati. Esternamente, il contenuto del rotolo poteva essere segnalato anche mediante una etichetta. A partire almeno dal I secolo a. C. – la documentazione superstite non permette sicure prese di posizione per epoca precedente – sia rotoli di pregio che di più modesta fattura poterono essere forniti di un cartellino a scopo anzitutto segnaletico. Di papiro o di pelle, colorato di rosso o di verde, di forma quadrata o rettangolare, il cartellino veniva attaccato al margine superiore del rotolo, oppure pendeva da una delle estremità dell’umbilicus, cioè del bastoncino a cui era fissato uno dei due lati corti del volumen. La sua esatta denominazione in greco è discussa: sillybos, sittybos, oppure sillybon o ancora sittybon ⁶³⁷; in latino, si ricorse invece ai termini index e titulus ⁶³⁸.
veda ora L. Del Corso, Text and Paratext in Early Greek Bookrolls (come n. 326), 1 36. Sulle etichette librarie poste a corredo dei rotoli si vedano gli studi indicati alle n. 638 e 639. Cf. Bastianini, Tipologie (come n. 633), 26 27; Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29), passim. Talvolta però l’ordine è inverso: il titolo precede l’indicazione del nome dell’autore. Documentazione in proposito è offerta e discussa in particolare nei lavori sopra citati di Caroli, Schironi e Del Mastro. Sulle etichette dei rotoli antichi si veda in generale Wendel, Die griechisch römische Buchbeschreibung (come n. 23), 107, n. 140 (più che di una semplice nota, si tratta di una vera messa a punto sul tema, con numerosi riferimenti agli studi precedenti). Per ulteriori indicazioni cf. le due note seguenti del presente lavoro. Anche sulla denominazione latina delle etichette librarie la documentazione pone qualche problema. Cicerone chiama questi cartellini col termine index e così ancora Marziale: cf. O. Pecere, Roma antica e il testo. Scritture d’autore e composizione letteraria, Roma Bari 2010 (Biblioteca Universale Laterza, 644), 268, n. 5. Sull’uso di titulus come nome dell’etichetta
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A causa della sua posizione particolarmente esposta, il cartellino dei rotoli facilmente andava perduto. Nessuna meraviglia dunque se oggi ce ne restano appena una decina. Nessun cartellino è stato peraltro rinvenuto a Ercolano, sebbene le pitture di area campana scampate all’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. ne attestino con sicurezza l’uso anche in quegli ambienti⁶³⁹. Il ricorso a uno dei “luoghi” appena ricordati non escludeva la possibilità di sfruttarne contemporaneamente altri per lo stesso motivo. Tutto in effetti doveva rispondere a esigenze di funzionalità. La parte interna finale del rotolo, se questo era avvolto e non si presentava in posizione terminale di lettura, era quella più a riparo da guasti o danni
libraria si vedano i seguenti lavori: C. Dziatzko, s.v. Buch, in RE III,1 (1897), col. 956 957; Th. Birt, Das antike Buchwesen in seinem Verhältniss zur Litteratur. Mit Beiträgen zur Textgeschichte des Theokrit, Catull, Properz und anderer Autoren, Berlin 1882, 66; Id., Die Buchrolle in der Kunst. Archäologisch antiquarische Untersuchungen zum antiken Buchwesen, Leipzig 1907, 237 239; Id., Kritik und Hermeneutik nebst Abriss des antiken Buchwesens, München 1913, 382: «titulus be deutet den aus der Rolle heraushängenden Zettel». Per una prima informazione sui possibili significati librari di titulus rimando ai già citati lavori di Schröder, Titel und Text (come n. 12), 319 328; Moussy, Les appellations latines (come n. 55), 6 7; e soprattutto Skeb, Exegese und Lebensform (come n. 55), 307 319. Qualche altro riferimento alla letteratura secondaria è offerto da Rothe, Der literarische Titel (come n. 40), 11 13. Il mancato ritrovamento di etichette librarie tra i papiri di Ercolano non deve sorprendere e non bisogna per forza concludere che di esse non si facesse uso in quegli ambienti. Piuttosto è plausibile ritenere che tali etichette siano andate perdute in conseguenza della carbonizzazione dei materiali librari: cf. in proposito E. Esposito, rec. a G. Del Mastro, Titoli e annotazioni bibliologiche nei papiri greci di Ercolano (Napoli 2014), in Prometheus 44 (2018), 297 300 (qui in part.: 296). Sulle etichette librarie si vedano ancora: T. Dorandi, Lucilio, fr. 798 Krenkel, in SIFC 54 (1982), 216 218; Id., Sillyboi, in S&C 8 (1984), 185 199; Id., Marginalia Papyrologica 4 5, in M. Capasso (a cura di), Il rotolo librario: fabbricazione, restauro, organizzazione interna, Lecce 1994 (PapLup, 3), 227 233; M. Caroli, Silluboi o silluba? (Cicerone, Ad Attico 4, 4 A; 4, 8, 2; 4, 5, 4), in S&T 3 (2005), 39 49; Id., Il titolo iniziale (come n. 29), 28 52; R. Chatzilamprou, A Book Label of Demosthenes, XXII, in APF 48 (2002), 210 212; R. Pintaudi, Un’etichetta di rotolo documentario, in CErc 81 (2006), 205 206 (unica etichetta sopravvissuta di un rotolo documentario); M. Ca passo, Sittyba in una statua del Museo Greco romano di Alessandria, in Scripta 1 (2008), 10; Fioretti, Sul paratesto (come n. 40), qui in part. 185 187. Sul cosiddetto rilievo di Neumagen e la rappresentazione di rotoli forniti di etichetta si veda ora M. H. Marganne, Le relief de Neumagen et les bibliothèques antiques, in M. Capasso M. De Nonno (a cura di), Studi paleografici e papirologici in memoria di Paolo Radiciotti, Lecce 2015, (Papyrologica Lupiensia. Supplemento al nr. 24/2015), 333 350. Sui glutinatores, veri e propri specialisti della cura e del restauro dei libri nel mondo romano, cui era tra l’altro affidato il compito di incollare le etichette dei rotoli cf. G. Cavallo, I rotoli di Ercolano come prodotti scritti. Quattro riflessioni, in S&C 8 (1984), 12 17 (spec. 13 14); E.G. Turner, Sniffing Glue, in CErc 13 (1983), 7 14; T. Dorandi, Glutinatores, in ZPE 50 (1983), 25 28; E. Puglia, Tra glutinatores e scribi, in M. Capasso (a cura di), Atti del V Seminario internazionale di Papirologia (Lecce 27 29 giugno 1994), Lecce 1995 (= PapLup, 4), 43 52.
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VIII Rotoli e titoli
meccanici. Si capisce pertanto che gli antichi preferissero soprattutto la fine del volumen, per indicare non solo il titolo e il nome dell’autore del testo tramandato, ma anche altre informazioni librarie, per esempio il numero di stichoi dell’opera trascritta e altro ancora. Tuttavia, la parte terminale del recto non era altrettanto utile a fini strettamente segnaletici, in quanto un lettore era obbligato ad andare a cercare sotto l’ultima colonna di scrittura, o in quella immediatamente a destra, il titolo del testo tramandato. In altre parole, egli era costretto a svolgere interamente il rotolo, per reperire finalmente l’informazione desiderata. Questo problema non si poneva se il titolo era indicato (anche) all’inizio del recto o, meglio ancora, sul verso. L’inizio del verso consentiva anzi di conoscere il contenuto del libro/ rotolo, senza neppure doverlo aprire. Comunque, è pur vero che anche la parte iniziale del verso era leggibile soltanto a determinate condizioni. Infatti, se più rotoli si trovavano sovrapposti su di uno stesso scaffale, o erano contenuti all’interno di una stessa capsa libraria, neppure il titolo indicato all’inizio del dorso risultava di immediata evidenza agli occhi dell’osservatore. Da qui la necessità di ricorrere a una etichetta sporgente dal rotolo nei modi sopra descritti⁶⁴⁰. I dati a nostra disposizione consentono di stabilire solo entro certi limiti una cronologia tra tali usi. Per l’epoca romana le varie possibilità fin qui descritte sono tutte documentate, con decisa preferenza per quella in chiusura del rotolo. Il ricorso a questa sede non escludeva, come sopra detto, la possibilità di segnalare anche all’inizio del rotolo il titolo e il nome dell’autore per ragioni di praticità. Non siamo tuttavia in condizione di stabilire quale tra le possibili sedi iniziali venisse perlopiù sfruttata, anche se è lecito formulare alcune ipotesi sulla base di quel poco che abbiamo. Il discorso si complica, se risaliamo a epoca precedente. In età ellenistica l’inizio del verso era sfruttato per l’epigrafe libraria: ce lo assicurano materiali papiracei già a partire dal III secolo a. C.⁶⁴¹. La segnalazione del titolo al termine del recto era anch’essa praticata in età ellenistica. I materiali librari ritrovati a Ercolano, che vanno però da prodotti
Adottata inizialmente per bisogni concreti, l’etichetta si fece peraltro a un certo punto apprezzare anche come raffinato elemento di corredo dei volumi. Lo deduciamo dalle pitture di area campana e dalle testimonianze letterarie in nostro possesso. Si vedano in proposito gli studi citati alla nota precedente. Per il titolo segnalato sul verso del rotolo greco egizio cf. Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29), 23 28; 13 173 (qui anche per i rimandi agli studi precedenti). Per quanto riguarda invece i prodotti librari ritrovati a Ercolano lo stato delle cose è più complesso: cf. Del Mastro, Titoli e annotazioni bibliologiche (come n. 31), 9 10, dove è indicata ulteriore bibliografia.
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librari d’importazione risalenti al III secolo a. C. ad altri ormai di epoca romana, offrono anzi a questo riguardo un dato estremamente significativo. L’uso di indicare titolo e/o nome dell’autore al termine del recto è attestato nel 90 % dei papiri che conservano la fine del rotolo: cf. Del Mastro, Titoli e annotazioni bibliologiche (come n. 31), 7. Per quanto riguarda la segnalazione del titolo all’inizio del recto, e più precisamente nello spazio antecedente alla prima colonna di testo, nessuna delle evidenze papiracee di provenienza egiziana è anteriore al I secolo d. C.⁶⁴². Tra i papiri rinvenuti a Ercolano, un titolo iniziale antecedente alla prima colonna di testo è stato riconosciuto nel P.Herc. 1583 (I sec. a. C.), dove si legge la inscriptio del quarto libro del trattato di Filodemo Sulla musica: cf. Del Mastro, Titoli e annotazioni bibliologiche (come n. 31), 329. Un caso più delicato è invece quello del titolo iniziale del P.Herc. 1786, che avrebbe contenuto un’opera di Demetrio Lacone (II–I sec. a. C.), se è giusta la ricostruzione proposta del primo rigo della inscriptio. Il papiro è tuttavia di difficile datazione. Ma se esso dovesse davvero risalere al tempo di Demetrio Lacone – G. Del Mastro non lo esclude –, ci troveremmo allora di fronte a una testimonianza estremamente importante per la cronologia della prassi qui discussa.⁶⁴³. Ancora più spinosa la questione dell’uso del titolo sempre all’inizio del recto, ma sul margine superiore della prima colonna di testo, invece che a sinistra della stessa. Negli studi passati, queste due segnalazioni sono state spesso equiparate a livello di funzionalità. Ma si è anche supposto⁶⁴⁴ che l’una, quella a sinistra della prima colonna di scrittura, avesse valenza generale, cioè servisse a indicare l’unico testo trascritto sul rotolo, ovvero il contenuto complessivo del rotolo stesso, mentre l’altra, proprio perché presente sul primo rigo di scrittura della prima colonna di testo, indicasse soltanto la prima di più creazioni letterarie contenute in tal caso dal papiro. Questa divaricazione di funzionalità (complessiva/specifica) delle due sedi iniziali sfruttate per l’indicazione è possibile teoricamente. Nondimeno, i dati a nostra disposizione impongono cautela e non permettono di definire una precisa tendenza o una cronologia sicura di tale uso. A questo riguardo mi limiterò a fare qualche osservazione su quella che è oggi considerata la prima evidenza su-
Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29), 52 57, 233 303. Cf. Del Mastro, Titoli e annotazioni bibliologiche (come n. 31), 10 11, 380; sul papiro si veda inoltre quanto scrive Capasso, I titoli nei papiri ercolanesi. IV: altri tre esempi (come n. 633), passim, e T. Dorandi nella importante recensione al volume di Del Mastro in BMCR 2015.04.55. Sul IV libro del De musica di Filodemo, ricordato poco sopra, cf. D. Delattre, Philodème de Gadara, Sur la musique. Livre IV, Paris 2007. Cf. Fioretti, Sul paratesto (come n. 40), 189 e 191.
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VIII Rotoli e titoli
perstite della segnalazione del titolo sul margine superiore della prima colonna di testo: P.Sorb. inv. 2252, un reperto datato in base a osservazioni di ordine paleografico e archeologico (queste ultime da ridiscutere) intorno alla metà o alla fine del III secolo a. C.⁶⁴⁵. Il manoscritto, non integralmente conservato, conteneva almeno alcune parti dell’Ippolito coronato di Euripide. Al di sopra della prima colonna di testo⁶⁴⁶ si vedono tracce di scrittura. I primi editori le hanno interpretate e rese in questo modo: ἱππόλυτος στεφ]α̣νη[φό]ρ̣ο̣ ς⁶⁴⁷. Avremmo dunque almeno traccia del titolo del dramma. Incerta, invece, la collocazione del genitivo del nome dell’autore, che poteva trovarsi accanto al titolo, oppure al di sopra dello stesso nella parte oggi perduta; non si può però neppure escludere che l’indicazione del nome dell’autore fosse assente in questo punto⁶⁴⁸. Ad ogni modo, la mano che ha vergato la inscriptio sul margine superiore non sembra, a un papirologo come Guido Bastianini, da identificare con quella che ha trascritto il testo sottostante⁶⁴⁹. Il che, almeno in teoria, apre un margine d’incertezza sul momento esatto in cui fu apposta la detta inscriptio ⁶⁵⁰. Ma torniamo alla questione delle funzionalità: per quale motivo il titolo fu registrato al di sopra della prima colonna di scrittura? Il problema merita rilievo, visto che le opere drammatiche circolavano in età ellenistica e nella prima età
Status quaestionis in Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29), 215 216. Non discuterò qui della provenienza del reperto papiraceo (resti del cartonnage di una mummia). Si vedano le tavole XXIV a b in Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29). L’edizione del frammento è offerta da H. Cadell, Un fragment sur papyrus de l’Hippolyte d’Euripide (vv. 1 103), in RP 2 (1962), 25 36. Ma si veda pure Barrett (ed. by), Euripides. Hip polytus (come n. 284), 438. Cf. Cadell, Un fragment (come n. 647), 31. Per Barrett (ed. by), Euripides. Hippolytus (come n. 284), 438, il frammento non permette di prendere posizione sicura sulla questione della pre senza del nome dell’autore. Per ulteriori ragguagli Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29), con tav. XXIV, b. Cf. Bastianini, Tipologie (come n. 633), 27. Neppure si può escludere che il papiro esibisse già altrove, cioè in una parte andata perduta, il titolo del dramma; e che quello che leggiamo sia stato apposto a distanza di un certo lasso di tempo dalla stesura del testo. Per casi simili cf. Turner, Greek Manuscripts (come n. 633), 14. Non entro qui nel merito della provenienza e della storia del reperto papiraceo, al fine di sondare 1) l’attendibilità della notizia che lo vuole ricavato dal cartonnage di una mummia e soprattutto 2) le conclusioni dello scopritore, Pierre Jouguet: secondo lo studioso, infatti, l’uso di confezionare maschere, pettorali e fasce canopiche per le mummie sarebbe cessato, almeno nel Fayyum, verso la fine del II secolo a. C. Questi aspetti andranno ridiscussi altrove. Rimando per ora a P. Jouguet, Papyrus de Ghôran. Fragments de comédies, in BCH 30 (1906), 130 149; Id., Rapport sur les fouilles de Médinet Mâdi et Médinet Ghôran, in BCH 25 (1901), 380 411. Sul papiro cf. Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29), 215 218.
2 Valore e limiti delle rappresentazioni iconografiche del V secolo a. C.
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romana, per quanto se ne sa, ciascuna su di un proprio rotolo. In tal caso l’epigrafe del papiro doveva dunque indicare non il primo testo contenuto dal rotolo, ma proprio il contenuto complessivo del rotolo stesso. L’ipotesi di una diversa funzionalità per una intestazione libraria al di sopra della prima colonna di testo ne rimarrebbe quindi contraddetta. Ma nel caso qui in discussione la prudenza è d’obbligo in ogni senso: infatti il papiro, per quel che ne rimane, serba sì il testo dell’Ippolito coronato, ma al netto delle parti corali. Si tratta quindi di un prodotto sui generis, come già rilevava Turner, Greek Manuscripts (come n. 633), 14. Pertanto non si può escludere che esso contenesse anche altri testi, forniti, in altre parti del rotolo, di un titolo proprio. Eccezion fatta per questo reperto, le altre evidenze papirologiche che recano il titolo sul margine alto della prima colonna di testo sono, a mia conoscenza, pochissime e per di più alquanto tarde, ossia tutte comprese tra il II e il IV secolo d. C.⁶⁵¹. La questione della loro effettiva funzionalità va indagata comunque caso per caso. Nessuna traccia, come accennato, abbiamo invece dell’uso di etichette librarie per epoca anteriore al I secolo a. C. Sull’uso di titoli intermedi è data ampia notizia nei volumi citati di Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29) e di F. Schironi, ΤΟ ΜΕΓΑ ΒΙΒΛΙΟΝ (come n. 30). Su indicazioni di contenuto segnalate nel margine superiore del papiro per determinate porzioni di testo, si vedano le pagine di Arrighetti, Filodemo biografo (com n. 633), 21– 24, e Del Mastro, Titoli e annotazioni bibliologiche (come n. 31), 11, 22 n. 3, 143 – 144. I due studiosi si occupano in merito del P.Herc. 558 (I sec. a. C.).
2 Valore e limiti delle rappresentazioni iconografiche del V secolo a. C. Se i papiri in nostro possesso consentono di fissare almeno alcuni punti sui “luoghi del titolo” per il rotolo di età ellenistica (dalla metà circa del III secolo a. C. in poi), la mancanza pressoché assoluta di papiri letterari di epoca precedente impone di formulare solo per via indiretta, e con massima cautela, ogni discorso sulle possibili sedi del titolo – ammesso che ve ne fosse più d’una – sul rotolo tra V e IV secolo a. C.
Cf. Bastianini, Tipologie (come n. 633), 26 27; Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29), 53 54, 215 259.
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VIII Rotoli e titoli
Come concluso nelle parti precedenti del presente lavoro, già nel corso del V secolo a. C. quantomeno testi teatrali dovettero esibire una iscrizione di corredo, per mezzo della quale si indicava il nome dell’autore e il titolo dell’opera. È tutt’altro che escluso che anche raccolte liriche venissero, all’epoca, fornite di una inscriptio, ovvero che questo o quel possessore indicasse sul proprio esemplare il nome dell’autore dei versi e desse così anche una qualche designazione alla raccolta. Per quanto riguarda la prosa di argomento storiografico, l’uso del titolo fu adottato dagli autori del genere nella prima metà del IV secolo a. C. Anche Platone fece ricorso alla stessa prassi per i suoi scritti. Così avranno fatto altri autori. Per l’oratoria abbiamo ricordato il caso di Isocrate. Ma in questo periodo dove si indicava sul rotolo il nome dell’autore e il titolo del prodotto letterario tramandato? Wilhelm Schubart era incline ad ammettere già per epoca così antica l’uso del cartellino: «Dieser ist vielleicht die älteste Art, den Inhalt der Buchrolle kenntlich zu machen»⁶⁵². Nulla avalla oggi tale supposizione, nemmeno le raffigurazioni dei rotoli che vediamo nella ceramica greca del V e IV secolo a. C., dove tale modalità di segnalazione non è mai rappresentata almeno a mia conoscenza. D’altra parte, è pur vero che le raffigurazioni dei rotoli sui vasi dell’epoca vanno considerate con molta cautela. Consideriamo a tal proposito una hydria a figure rosse (Atene, Museo Archeologico Nazionale, inv. num. 1260) datata dagli studiosi grosso modo intorno al 440 – 430 a. C. e attribuita agli artisti del cosiddetto Gruppo di Polignoto. Sul vaso è raffigurata la poetessa Saffo, seduta su un klismos, intenta a leggere da un rotolo. Le sono accanto altre tre figure femminili, in piedi: una di queste sembra volere coronare la poetessa; un’altra sembra porgere a Saffo uno strumento musicale⁶⁵³. Gli studiosi moderni si interrogano sull’esatto significato della
Così Schubart, Das Buch (come n. 22), 104, dopo aver citato il frammento del Lino di Alessi da noi sopra studiato. Sono numerosi gli studi sul vaso e in particolare sull’interpretazione delle tracce di scrit tura attualmente visibili su di esso (e su quelle che si potevano ancora vedere al momento della sua scoperta). Sul problema è fondamentale l’ampio contributo di K. Tsantsanoglou, Studies in Sappho and Alcaeus, Berlin Boston 2019 (Trends in Classics Supplementary Volumes, 79), 1 27, con tre tavole: cf. p. 1, 2 e 9; si veda inoltre Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29), 87 89 e tavv. IV (b, d). Il nome della poetessa Saffo ΣΑΠΠΩΣ (sic) era indicato accanto alla immagine della stessa; da due altre iscrizioni di corredo si apprendeva anche il nome di altre due figure femminili della scena, ΝΙΚΟΠΟΛΙΣ e ΚΑΛΛΙΣ. Oggi queste iscrizioni non sono più visibili; lo erano invece al momento del rinventimento del vaso. Su tutto ciò cf. il sopra citato volume di K. Tsantsanoglou, Studies 2019, 2.
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rappresentazione. Alcuni la considerano un semplice riflesso di un momento di scuola; altri vi vedono la celebrazione della poetessa Saffo o altro ancora⁶⁵⁴. Saffo, come detto, è intenta a leggere da un rotolo, che essa tiene tra le mani. Il rotolo presenta, sul recto raffigurato, segni di scrittura di segno compiuto: vi si scorge così una colonna di almeno 12 linee. Il numero di lettere ospitato dalle linee varia da 2 a 4. Orbene, dalle prime 8 linee, complessivamente meglio leggibili delle restanti, si ricava: Θεοί· ἠερίων ἐπέων ἄρχομαι (= Page, PMG, fr. adesp. 938d). Sempre sull’ottavo rigo si legge ancora la vocale α, mentre gli studiosi non sono d’accordo sul modo di interpretare le sottostanti tracce di scrittura. Una serie di lettere si scorge anche sulle due parti avvolte del libro, che la poetessa ha tra le mani, dunque sul verso del rotolo rappresentato. Qui la scrittura è disposta verticalmente tanto a destra quanto a sinistra⁶⁵⁵. E vi si legge complessivamente: ἔπεα πτερόε〈ν〉τα, «versi alati», che è una formula di derivazione omerica. Non sappiamo invece se si trattasse del titolo effettivo di una raccolta di versi saffici allora realmente in circolazione o meno. In proposito occorre ovviamente molta cautela. In ogni caso, è notevole la funzione réclame della iscrizione sul verso, la quale è stata chiamata in causa da più di uno studioso moderno come eloquente testimonianza, in mancanza di evidenze dirette, della pratica greca della inscriptio proprio sul dorso dei rotoli letterari – per giunta perpendicolarmente alla scrittura del recto – già nella seconda metà del V secolo a. C. Per parte mia, mi chiedo se sia metodologicamente corretto sfruttare in questo modo una semplice raffigurazione di un rotolo su ceramica, considerati i limiti che questo tipo d’arte figurativa impone nella rappresentazione di oggetti come quello qui in discussione. È chiaro infatti che l’artista non aveva altro modo, sul rotolo da lui rappresentato, di indicare «versi alati», se non scrivendo ἔπεα πτερόε〈ν〉τα nel poco spazio libero rimasto: le due estremità del verso non coperte dalle mani di Saffo; e soltanto in verticale. Dunque, è fin troppo audace il
Cf. J.M. Snyder, Sappho in Attic Vase Painting, in A.O. Koloski Ostrow C.L. Lyons (ed. by), Naked Truths. Women, Sexuality, and Gender in Classical Art and Archaeology, London New York 1997, 108 119; D. Yatromanolakis, Sappho in the Making. The Early Reception, Washington D.C. 2007 (Hellenic Studies Series, 28), 146 164; F. Ferrari, Una mitra per Kleis. Saffo e il suo pubblico, Pisa 2007, 104 106; Tsantsanoglou, Studies (come n. 653), 2 15. Per la disposizione delle lettere sul rotolo si veda la chiara e comoda rappresentazione di J.M. Edmonds, Sappho’s Book as Depicted on an Attic Vase, in CQ 16/1 (1922), 1 14, qui 1; ma le tracce di scrittura, come detto, pongono vari problemi di interpretazione, sicché gli studiosi ne hanno dato letture diverse e bisogna tenere conto di quanto riferisce Tsantsanoglou, Studies (come n. 654), 2 4.
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VIII Rotoli e titoli
tentativo di servirsi di tale rappresentazione per dedurre la pratica greca della inscriptio sui rotoli letterari dell’epoca. A fortiori occorre prudenza nella valutazione di un altro vaso a figure rosse, questa volta ben più antico (gli studiosi lo datano al 500 – 490 a. C.), ritrovato in una zona appartenente all’antica Vulci, ma certamente d’importazione greca. Si tratta di un kyathos di assai modeste dimensioni (7 x 10,5 cm), oggi conservato a Berlino (Staatliche Museen, Antikensammlung, inv. F 2322). L’artista si è firmato col nome di Παναίτιος, ma la sua identità è discussa⁶⁵⁶. Anche su questo vaso è rappresentata una scena di lettura; ma questa volta sono raffigurati due rotoli: uno è in fase di lettura, un altro, ancora avvolto, è posto su di una sorta di cassetta, se cassetta questa può dirsi. Lungo il lato corto del rotolo ancora avvolto è iscritto, su quel poco del verso che si poteva rappresentare, ΧΙΡΩΝΕΙΑ⁶⁵⁷. In passato si è così sostenuto che la scena testimonierebbe l’uso coevo di titoli esterni per i rotoli letterari. Ma anche qui va sottolineato un dato materiale molto concreto: la ceramica di cui discutiamo è di modestissime dimensioni. Raffigurando su di essa, nello spazio di pochissimi centimetri, un rotolo avvolto, dove mai avrebbe dovuto l’artista segnalarne il contenuto, se non su quel poco di verso visibile?
3 ΕΠΙΓΡΑΦΗ. Studi lessicali Le considerazioni poc’anzi esposte dovrebbero bastare a mettere in chiaro pregi e limiti della documentazione figurativa risalente al V secolo a. C.⁶⁵⁸, la quale, in realtà, non ci permette di trarre conclusioni sicure sulla effettiva collocazione del titolo sul rotolo di papiro dell’epoca. Che però il titolo figurasse davvero in età preellenistica sul lato esterno del rotolo, se non anche altrove sullo stesso supporto, induce a supporlo la parola sfruttata dal sopra menzionato Alessi, per indicare appunto l’epigrafe libraria (o Bilancio della questione in Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29), 85 86, con tavv. IV a e IV c. Questa indicazione è stata messa in rapporto a un’operetta attribuita a Esiodo, in cui si narrava dell’educazione di Achille da parte del centauro Chirone. A tale operetta pare fare allusione Pindaro nelle Pitiche 6, 22. Tornando ora alla scena del vaso, si noti che la cassetta, su cui è poggiato il rotolo avvolto, esibisce l’iscrizione καλή. Gli studiosi hanno tentato in vario modo di accordare questo nominativo singolare femminile a quanto indicato sul rotolo: cf. Caroli, Il titolo iniziale (come n. 29), 85 86. Non analizzo qui il deinos (Atene, Museo Arch. Naz., inv. num. 15499), dove sono rap presentati i giochi in onore di Patroclo. La iscrizione di corredo della scena è ovviamente didascalica lo abbiamo rilevato parlando dell’Iliade e dell’Odissea e non prova nulla sul titolo letterario.
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più specificamente il titolo): cioè ἐπίγραμμα; e così anche la forma apparentata ἐπιγραφή, che troviamo già in un passo dello storico Polibio, di cui ci occuperemo a breve, e poi in molti altri autori, per indicare appunto l’intestazione libraria nel suo complesso o quello che in essa vi si leggeva. È sulle implicazioni di questa terminologia, ereditata dai Greci di epoca precedente già con precisi valori di carattere librario, che occorrerà riflettere. Prima di fare ciò, è necessario tuttavia definire ancora meglio tali valori.
3.1 Accezioni librarie di ἐπιγραφή. Alcune osservazioni Sul termine ἐπίγραμμα abbiamo già riflettuto. Parlando del frammento del Lino di Alessi, abbiamo visto che la parola ricorre almeno due volte nel brano, in riferimento al titolo e comunque alla iscrizione visibile sui rotoli ancora avvolti, dunque in relazione a una indicazione posta sul lato esterno di ciascun supporto librario. Dell’uso di una etichetta libraria a quell’epoca – etichetta che per la scena teatrale avrebbe dovuto essere enorme per essere realmente leggibile dagli osservatori – non sappiamo però nulla di certo. Abbiamo pure detto che non conosciamo la data esatta di rappresentazione del Lino, che può essere stato messo in scena tra la metà del IV secolo a. C. e i primi decenni del secolo successivo. Ciò detto, occupiamoci di ἐπιγραφή. Al sost. ἐπιγραφή i lessici correnti riconoscono perlopiù un’unica accezione libraria, quella di «title of a work»: così anzitutto il LSJ, s.v. In realtà, il termine poteva servire a indicare anche il nome dell’autore presente nella inscriptio o la inscriptio libraria nel suo complesso⁶⁵⁹. È in quest’ultimo senso, assai più comprensivo, che abbiamo spesso parlato di «epigrafe» o «epigrafe libraria» nel presente lavoro. Gli unici due passi segnalati dal già ricordato LSJ (Polibio III, 9, 1– 3; Luciano di Samosata, Hist. conscr., cap. 30) testimoniano in effetti un uso molto più sfaccettato della parola, sempre in relazione ad aspetti librari, di quanto lo stesso lessico voglia fare credere. Esaminiamo i due brani con attenzione.
Lo stesso dovrebbe dirsi anche a proposito del termine ἐπίγραμμα, le cui accezioni librarie non sono addirittura quasi mai segnalate nei lessici moderni. Sulla parola cf. Puelma, Ἐπίγραμμα epigramma: Aspekte (come n. 629), 123 139; dello stesso studioso: Epigramma: osservazioni sulla storia di un termine greco latino, in Maia 49 (1997), 189 213 (si tratta di un ampliamento del precedente lavoro).
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VIII Rotoli e titoli
Polibio ha appena offerto il resoconto di Fabio Pittore sulla condotta di Annibale e dei Cartaginesi. Quindi egli commenta (III, 9, 1– 3): Τίνος δὴ χάριν ἐμνήσθην Φαβίου καὶ τῶν ὑπ’ ἐκείνου γεγραμμένων; Οὐχ ἕνεκα τῆς πιθα νότητος τῶν εἰρημένων, ἀγωνιῶν μὴ πιστευθῇ παρά τισιν ἡ μὲν γὰρ [παρὰ] τούτων ἀλογία καὶ χωρὶς τῆς ἐμῆς ἐξηγήσεως αὐτὴ δι’ αὑτῆς δύναται θεωρεῖσθαι παρὰ τοῖς ἐντυγχάνουσιν ἀλλὰ τῆς τῶν ἀναλαμβανόντων τὰς ἐκείνου βύβλους ὑπομνήσεως, ἵνα μὴ πρὸς τὴν ἐπιγραφὴν ἀλλὰ πρὸς τὰ πράγματα βλέπωσιν. ἔνιοι γὰρ οὐκ ἐπὶ τὰ λεγόμενα συνεπιστήσαντες ἀλλ’ ἐπ’ αὐτὸν τὸν λέγοντα καὶ λαβόντες ἐν νῷ διότι κατὰ τοὺς καιροὺς ὁ γράφων γέγονε καὶ τοῦ συνεδρίου μετεῖχε τῶν Ῥωμαίων, πᾶν εὐθέως ἡγοῦνται τὸ λεγόμενον ὑπὸ τούτου πιστόν. ἐγὼ δὲ φημὶ μὲν δεῖν οὐκ ἐν μικρῷ προσλαμβάνεσθαι τὴν τοῦ συγγραφέως πίστιν, οὐκ αὐτοτελῆ δὲ κρίνειν, τὸ δὲ πλεῖον ἐξ αὐτῶν τῶν πραγμάτων ποιεῖσθαι τοὺς ἀναγινώσκοντας τὰς δοκιμασίας. Orbene, per quale ragione feci menzione di Fabio e di quanto egli ha scritto? Non certo per timore che le cose [da lui] narrate trovino credito presso qualcuno per la loro persuasività la loro illogicità, anche senza la mia spiegazione, può essere rilevata di per sé stessa dai lettori , ma allo scopo di ammonire quanti prenderanno in mano i suoi libri, affinché guardino non all’iscrizione [= epigrafe libraria], ma ai fatti. Alcuni, in effetti, avendo prestato attenzione non alle cose dette, ma a colui che le dice, e avendo tenuto a mente che l’autore è vissuto in quei tempi e inoltre era membro del senato romano, prendono subito per degna di fede ogni cosa da lui riferita. Io, invece, dico che occorre che i lettori non tengano in scarsa considerazione la credibilità dello storico, non la considerino però as soluta, ma fondino i loro giudizi in misura maggiore sui fatti stessi.
Da quanto appena riportato è chiaro che Polibio fissa sì l’attenzione sull’epigrafe libraria, ma per discutere del nome dell’autore che in essa si leggeva e del peso che tale nome esercitava nel giudizio dei lettori. La questione del titolo dell’opera non è affatto sollevata e da questo punto di vista il riferimento del LSJ è fuorviante. Al cap. 30 del Quomodo historia conscribenda sit, Luciano si esprime invece così: Εἷς δέ τις βέλτιστος ἅπαντα ἐξ ἀρχῆς ἐς τέλος τὰ πεπραγμένα ὅσα ἐν ᾿Αρμενίᾳ, ὅσα ἐν Συρίᾳ, ὅσα ἐν Μεσοποταμίᾳ, τὰ ἐπὶ τῷ Τίγρητι, τὰ ἐν Μηδίᾳ, πεντακοσίοις οὐδ’ ὅλοις ἔπεσι περιλαβὼν συνέτριψε καὶ τοῦτο ποιήσας ἱστορίαν συγγεγραφέναι φησί. τὴν μέντοι ἐπι γραφὴν ὀλίγου δεῖν μακροτέραν τοῦ βιβλίου ἐπέγραψεν, “᾿Αντιοχιανοῦ τοῦ ᾿Απόλλωνος ἱερονίκου” δόλιχον γάρ που οἶμαι ἐν παισὶ νενίκηκεν “τῶν ἐν ᾿Αρμενίᾳ καὶ Μεσοποταμίᾳ καὶ ἐν Μηδίᾳ νῦν ῾Ρωμαίοις πραχθέντων ἀφήγησις”. Un tale poi, il migliore in assoluto, raccolse e compresse in neppure cinquecento righi tutti quanti i fatti accaduti dall’inizio alla fine in Armenia, in Siria, in Mesopotamia, sul Tigri, in Media. E avendo fatto ciò, dice di avere composto un’opera storica. Quanto poi all’iscrizione [= epigrafe libraria], per poco egli non la fece più lunga del libro: “Di Antiochiano vincitore dei giochi sacri in onore di Apollo credo abbia vinto una volta una corsa da ragazzo
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Narrazione delle gesta recentemente compiute dai Romani in Armenia e in Mesopotamia e in Media”.
Come si vede, Luciano intende qui piuttosto parlare dell’epigrafe libraria nel suo complesso. La differenza rispetto al problema sollevato da Polibio è evidente. Insomma, il termine ἐπιγραφή poteva tranquillamente indicare l’iscrizione libraria nel suo complesso, oppure servire a richiamare l’attenzione su un elemento ben preciso della stessa iscrizione. Nel brano di Polibio la questione affrontata riguarda però non il titolo dell’opera, ma il nome dell’autore. Dopo avere evidenziato questi due possibili usi, generalmente trascurati dai lessici, non sarà inutile vedere, a mo’ di breve excursus, come lo stesso Luciano usa in altre occasioni il termine ἐπιγραφή e il verbo ἐπιγράφω. In Quomodo historia conscribenda sit, cap. 4, egli dice: Τί οὖν ἔγνωσταί μοι καὶ πῶς ἀσφαλῶς μεθέξω τοῦ πολέμου, αὐτὸς ἔξω βέλους ἑστώς, ἐγώ σοι φράσω. “τούτου μὲν καπνοῦ καὶ κύματος” καὶ φροντίδων, ὅσαι τῷ συγγραφεῖ ἔνεισιν, ἀνέξω ἐμαυτὸν εὖ ποιῶν. παραίνεσιν δέ τινα μικρὰν καὶ ὑποθήκας ταύτας ὀλίγας ὑποθή σομαι τοῖς συγγράφουσιν, ὡς κοινωνήσαιμι αὐτοῖς τῆς οἰκοδομίας, εἰ καὶ μὴ τῆς ἐπιγραφῆς, ἄκρῳ γε τῷ δακτύλῳ τοῦ πηλοῦ προσαψάμενος. Io ti dirò che cosa dunque mi sono prefissato e come prenderò parte alla guerra senza correre pericolo, standomene lontano dal tiro delle frecce. Da questo fumo e da quest’on da ⁶⁶⁰ e da tutte le preoccupazioni dello storico⁶⁶¹ mi terrò ben lontano. Rivolgerò invece agli storici una piccola esortazione e questi pochi consigli, per potermi associare a loro nella costruzione, anche se non nell’iscrizione (dell’opera), avendo io appena sfiorato l’argilla con la punta delle dita.
Qui Luciano gioca su due importanti significati di ἐπιγραφή: quello di iscrizione monumentale, per mezzo della quale si indicava tra l’altro il nome dell’architetto o artefice dell’opera⁶⁶², e quello della inscriptio libraria, dove si segnalava il nome dell’autore del prodotto letterario. Così egli afferma di volere contribuire volentieri, con i suoi consigli, alla costruzione dell’edificio, cioè alla composizione delle future opere storiche, anche se non figurerà il suo nome nella inscriptio. H. Homeyer traduce qui ἐπιγραφή con Bauinschrift, perdendo di vista il gioco semantico posto in essere da Luciano. Ma nel commento la studiosa
“Da questo fumo e da quest’onda”: citazione da Omero, Od. XII, 198 199. Traduco συγγραφεύς con “storico”: sull’uso e il significato della parola cf. H. Homeyer (herausg., übersetzt und erläutert von), Lukian: Wie man Geschichte schreiben soll, München 1965, 174. Nel cap. 62 dello stesso scritto Luciano offre una importante notizia sull’iscrizione del Faro di Rodi e il nome dell’architetto che aveva realizzato l’opera.
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rileva opportunamente il doppio significato del termine: Inschrift an einem Bau e Buchüberschrift ⁶⁶³. Al cap. 16, Luciano ricorda invece un tale che aveva messo per iscritto una semplice memoria (ὑπόμνημα)⁶⁶⁴ di avvenimenti, al fine di offrire materia utile agli storici; quindi egli conclude dicendo: τοῦτο μόνον ᾐτιασάμην αὐτοῦ, ὅτι οὕτως ἐπέγραψε τὰ βιβλία τραγικώτερον ἢ κατὰ 〈τὴν〉 τῶν συγγραμμάτων τύχην “Καλλιμόρφου ἰατροῦ τῆς τῶν κοντοφόρων ἕκτης ἱστοριῶν Παρθικῶν”, καὶ ὑπεγέγραπτο ἑκάστῃ ὁ ἀριθμός. Di questo soltanto lo biasimai, di avere dato ai libri una epigrafe troppo pomposa per la qualità dei suoi scritti: “Di Callimorfo medico, della sesta legione dei fantieri, Storie par tiche”, e a ciascuna era sottoscritto il numero.
Il verbo ἐπιγράφω è usato, come si vede, nuovamente in riferimento alla intestazione libraria nel suo complesso. Al cap. 32 Luciano scrive: Τοιαῦτα πολλὰ ὑπὸ ἀπαιδευσίας ληροῦσι, τὰ μὲν ἀξιόρατα οὔτε ὁρῶντες οὔτ’ εἰ βλέποιεν κατ’ ἀξίαν εἰπεῖν δυνάμενοι, ἐπινοοῦντες δὲ καὶ ἀναπλάττοντες ὅ τι κεν ἐπ’ ἀκαιρίμαν γλῶσσαν, φασίν, ἔλθῃ, καὶ ἐπὶ τῶν ἀριθμῷ τῶν βιβλίων ἔτι σεμνυνόμενοι καὶ μάλιστα ἐπὶ ταῖς ἐπιγραφαῖς, καὶ γὰρ αὖ καὶ αὗται παγγέλοιοι· “τοῦ δεῖνος Παρθικῶν νικῶν τοσάδε”· καὶ αὖ· “Παρθίδος πρῶτον, δεύτερον”, ὡς ᾿Ατθίδος δῆλον ὅτι. ἄλλος ἀστειότερον παρὰ πολύ ἀνέγνων γάρ “Δημητρίου Σαγαλασσέως Παρθονικικά”. Tali e tante chiacchiere le dicono per ignoranza, perché non vedono quel che conta, né, se lo vedessero, saprebbero parlarne degnamente, ma prestano attenzione e danno forma a ciò che viene sull’inetta lingua ⁶⁶⁵, come si suole dire, e si sentono orgogliosi del numero dei libri e massimamente delle iscrizioni [= epigrafi librarie]. E infatti anche queste sono del tutto ridicole: “del tale tot libri di Vittorie partiche”; e poi “della Partide libro primo, secondo”, alla maniera di un’Attide evidentemente⁶⁶⁶. Un altro assai più elegantemente lo lessi davvero “di Demetrio Sagalasseo Parthonikikà”.
Cf. Homeyer, Lukian (come n. 661), 98, 176. Sul significato di ὑπόμνημα nello scritto lucianeo cf. G. Avenarius, Lukians Schrift zur Geschichtsschreibung, Meisenheim am Glan 1956, 85 104. Per questo e altri passi lucianei qui considerati ho consultato con profitto, oltre a Homeyer, Lukian (come n. 661), anche le versioni di L. Canfora, Teorie e tecnica della storiografia classica. Luciano, Plutarco, Dionigi, Anonimo su Tucidide, Roma Bari 1974, 39 80 e di F. Montanari (introduzione e traduzione di), A. Barabino (note di), Luciano: come si deve scrivere la storia, Milano 2002. Ho preferito tuttavia optare per una mia traduzione, al fine di uniformare nei punti necessari il lessico utilizzato. Sul titolo delle opere degli Attidografi si veda Jacoby, Atthis (come n. 413), 80 86.
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In quest’ultimo brano Luciano segnala i titoli, ridicoli, dati da alcuni personaggi ai loro libri di storia (Vittorie partiche oppure Partide) e anche l’epigrafe libraria, nel suo complesso non meno ridicola, dell’opera di un certo Demetrio (“di Demetrio Sagalasseo Parthonikikà”). Sia concesso qui citare ancora un passo lucianeo, tratto dal cap. 18 del suo Adversus indoctum et libros multos ementem: Πῶς δὲ οὐ κἀκεῖνο αἰσχρόν, εἴ τις ἐν τῇ χειρὶ ἔχοντά σε βιβλίον ἰδών ἀεὶ δέ τι πάντως ἔχεις ἔροιτο οὗτινος ἢ ῥήτορος ἢ συγγραφέως ἢ ποιητοῦ ἐστι, σὺ δὲ ἐκ τῆς ἐπιγραφῆς εἰδὼς πρᾴως εἴποις τοῦτό γε· εἶτα (…) ὁ μὲν ἐπαινοῖ τι ἢ αἰτιῷτο τῶν ἐγγεγραμμένων, σὺ δὲ ἀποροίης καὶ μηδὲν ἔχοις εἰπεῖν; οὐκ εὔξῃ τότε χανεῖν σοι τὴν γῆν, κατὰ σεαυτοῦ ὁ Βελ λεροφόντης περιφέρων τὸ βιβλίον; Non sarebbe vergognoso anche questo, se uno avendoti visto con un libro in mano ne hai sempre immancabilmente uno ti domandasse di chi è, se di un retore o di uno storico o di un poeta, e tu, sapendolo dall’iscrizione [= epigrafe libraria] fossi in grado di dirgli almeno questo; poi però (…) egli lodasse o criticasse qualche punto dei contenuti e tu ti trovassi in difficoltà e non avessi nulla da dire? Non pregheresti allora che la terra ti si spalancasse sotto i piedi, Bellerofonte che te ne vai in giro col libro a tuo stesso danno?
Questa volta si insiste sulla presenza del nome dell’autore nella epigrafe libraria. Peraltro, la scena immaginata da Luciano si comprende sino in fondo, se si pensa a un’epigrafe sul lato esterno del rotolo, cioè sul verso o, data l’epoca, su un cartellino. Un bibliomane ignorante – vuol dire Luciano – sapeva dell’autore del suo libro semplicemente perché ne leggeva il nome sul lato esterno del rotolo; ma del libro egli ignorava completamente i contenuti, perché non apriva il volume, per leggerlo. Si noti a questo proposito che Luciano oppone, nel passo, ἐπιγραφή a τὰ ἐγγεγραμμένα: la prima è una iscrizione, visibile, appunto perché tale, all’esterno del rotolo; i contenuti sono invece ἐγγεγραμμένα, cioè scritti all’interno del volume. I brani sin qui vagliati ci hanno permesso, tra l’altro, di mettere a fuoco due usi del sostantivo ἐπιγραφή generalmente trascurati dai lessici correnti: uno funzionale a indicare proprio il nome dell’autore presente nella iscrizione libraria, un altro concernente l’iscrizione libraria nel suo complesso. Nel senso stretto di «titolo» del prodotto letterario, il sost. ἐπιγραφή è adottato comunque da autori di vario periodo: da Dionisio di Alicarnasso nel I secolo a. C. (cf. Ep. ad Pomp. Gem.: Φαῖδρον, ἀφ’οὗ τὴν ἐπιγραφὴν εἴληφε τὸ βυβλίον) e da altri scrittori di piena età imperiale (Galeno, Ateneo e così via); lo stesso vale per ἐπίγραμμα. Senza vagliare le numerose attestazioni disponibili, basterà qui soffermarsi, per la sua rappresentatività, su un passo della Vita Plotini, dove Porfirio rievoca nei particolari la iniziale diffusione degli scritti del suo maestro. Inizialmente
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VIII Rotoli e titoli
Plotino li aveva lasciati circolare solo tra pochi intimi, amici e allievi, senz’altro al fine di riceverne un giudizio. Per questa ragione egli non aveva ritenuto necessario stabilire un titolo per i suoi lavori. I primi possessori non avevano tuttavia tardato a intitolare i loro rispettivi esemplari ora in un modo, ora in un altro. Ecco in merito le parole di Porfirio: ἦν δὲ καὶ τὰ γεγραμμένα ταῦτα, ἃ διὰ τὸ μὴ αὐτὸν ἐπιγράφειν ἄλλος ἄλλο ἑκάστῳ τοὐπίγραμμα ἐτίθει (Vita Plotini 4, 16 – 18). Di fronte a questo stato di disordine, Porfirio scelse di accogliere nella edizione da lui curata delle opere del maestro i titoli migliori o di maggiore efficacia. Al fine di consentire l’esatta identificazione delle opere in questione, Porfirio segnala però nella Vita Plotini, accanto al titolo di volta in volta adottato, pure l’incipit di ciascun testo. Così egli dice: Αἱ δ’οὖν κρατήσασαι ἐπιγραφαί εἰσιν αἵδε· θήσω δὲ καὶ τὰς ἀρχὰς τῶν βιβλίων, εἰς τὸ εὐεπίγνωστον εἶναι ἀπὸ τῶν ἀρχῶν ἕκαστον τῶν δηλουμένων βιβλίων· αʹ Περὶ τοῦ καλοῦ, οὗ ἡ ἀρχή· τὸ καλὸν ἔστι μὲν ἐν ὄψει πλεῖστον· βʹ Περὶ ψυχῆς ἀθανασίας, οὗ ἡ ἀρχή· εἰ δέ ἐστιν ἀθάνατος ἕκαστος (Vita Plotini 4, 18 – 25), e così via. Ai fini del nostro discorso, il testo di Vita Plotini (4, 16 – 25) è notevole perché ἐπίγραμμα ed ἐπιγραφαί sono utilizzati a poca distanza l’uno dall’altro, per richiamare in particolare l’attenzione su uno stesso aspetto librario: il titolo degli scritti plotiniani⁶⁶⁷. Per quanto invece riguarda il verbo ἐπιγράφω, usato nel senso di «intitolare», ben prima del passo porfiriano troviamo una occorrenza estremamente interessante in un papiro rinvenuto a Ercolano, P.Herc. 336/1150 (I sec. a. C. – I sec. d. C.), dove è data notizia di un titolo alternativo di un’opera del filosofo Polistrato. Per ragguagli in
Per il commento di questi brani della Vita Plotini ho consultato Plotins Schriften, 5/3, Anhang, Porphyrios: Über Plotins Leben und über die Ordnung seiner Schriften, übersetzt von R. Harder, Neubearbeitung mit griechischem Lesetext und Anmerkungen fortgeführt von R. Beutler und W. Theiler, Hamburg 1958 (Philosophische Bibliothek 215). Si veda inoltre Nachmanson, Der griechische Buchtitel (come n. 16), 26 28. La questione della circolazione di testi χωρὶς ἐπιγραφῆς è sollevata anche da parte di Galeno per non pochi dei suoi stessi lavori. Vi abbiamo già accennato: cf. sopra, cap. VII, 4. 3. Tengo tuttavia qui a rilevare che lo stesso Galeno utilizza nel De libris propriis il termine ἐπιγραφή con sfumature diverse rispetto a quanto appena visto nella Vita Plotini. Spesso, infatti, la parola ἐπιγραφή serve a Galeno a indicare proprio il titolo di certi suoi scritti; talvolta, però essa ricorre in senso più generale, a significare la iscrizione libraria nel suo complesso, ovvero il fatto che certi scritti erano privi dell’indicazione del nome dell’autore o forniti di un nome che non era quello corretto. Questa varietà di significati con cui è usata la parola da Galeno è raramente rilevata nelle traduzioni e commenti moderni, che si accontentano spesso di tradurre indifferentemente con «titolo», ingenerando confusioni di vario tipo. Ricordo a questo proposito che anche per i latini il termine titulus poteva essere usato, in relazione ad aspetti librari, con valori almeno in parte diversi e poteva, se non altro, indicare l’intestazione libraria nel suo complesso, oppure più strettamente ciò che noi intendiamo per titolo: cf. Skeb, Exegese und Lebensform (come n. 55), 307 319.
3 ΕΠΙΓΡΑΦΗ. Studi lessicali
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merito rimando a Del Mastro, Titoli e annotazioni bibliologiche (come n. 31), 123 – 125. Ciò detto, possiamo concludere questo excursus, dicendo semplicemente quanto segue: se cerchiamo le più antiche attestazioni, in accezione libraria, dei sostantivi ἐπίγραμμα ed ἐπιγραφή, l’indagine su ἐπίγραμμα ci riporta come visto a un brano del poeta Alessi, dove la parola è già adottata (con sicurezza al v. 10) proprio nel senso di titolo. La più antica attestazione del termine ἐπιγραφή in accezione libraria è invece, a mia conoscenza, nel passo sopra discusso di Polibio, mentre nel I secolo a. C. Dionisio di Alicarnasso si serve della stessa parola, per indicare in senso stretto il titolo di un dialogo platonico. Questi valori si ritrovano longe lateque in altre occorrenze di epoca più tarda.
3.2 Implicazioni del lessico Al tempo di Alessi doveva essere usuale chiamare ἐπίγραμμα l’iscrizione libraria o più strettamente il titolo dei prodotti letterari. Lo si deduce dalla disinvoltura con cui il comico s’era servito della parola in una scena del suo Lino. Più tardi, Polibio avrebbe fatto ricorso alla forma ἐπιγραφή, per considerare più precisamente il nome dell’autore indicato nella iscrizione di corredo del rotolo letterario. A prescindere dalla priorità dell’una o dell’altra forma adottata, dobbiamo adesso chiederci per quale motivo i Greci di età ellenistica – ma la testimonianza del Lino