La morte del Messia. L’interpretazione sacrificale 9788891196002

La metafora sacrificale è stata utilizzata in diversi testi del NT per interpretare la morte di Gesù in croce. In un mom

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La morte del Messia. L’interpretazione sacrificale
 9788891196002

Table of contents :
Indice......Page 99
Prefazione......Page 7
a. La dottrina anselmiana......Page 11
b. Tommaso d’Aquino......Page 13
c. Il Catechismo della Chiesa Cattolica......Page 14
a. Lo scopo dei sacrifici......Page 17
b. I riti dei cananei e degli arabi......Page 19
3. La prassi sacrificale israelitica......Page 21
a. Il culto di Israele......Page 22
b. Diversi tipi di sacrifici......Page 24
c. Il grande giorno dell’«espiazione» (Lv 16)......Page 27
d. Caratteristiche dei sacrifici di riparazione......Page 29
a. L’efficacia unitiva del sangue (Lv 17,10-11)......Page 31
b. Il rito dell’alleanza (Es 24,1-11)......Page 33
c. Il sacrificio di Isacco (Gn 22,1-19)......Page 37
a. I libri profetici......Page 41
b. I Salmi......Page 44
c. La letteratura sapienziale......Page 45
a. Situazione storica......Page 49
b. Il quarto carme (Is 52,13−53,12)......Page 50
c. Interpretazione del carme......Page 53
a. La concezione greca......Page 57
b. I giudei martiri......Page 61
a. Le formule di dono......Page 65
b. Espiazione......Page 70
c. Redenzione-riscatto......Page 72
d. Il sangue......Page 75
e. La lettera agli Ebrei......Page 78
9. La morte di Gesù oggi......Page 81
a. L’«espiazione vicaria»: una teoria inaccettabile......Page 82
b. La morte di Gesù come sacrificio......Page 88
c. Modelli alternativi......Page 90
Bibliografia......Page 95

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Alessandro Sacchi

Alessandro Sacchi, presbitero del Pontificio Istituto Missioni Estere, ha conseguito la laurea in Scienze Bibliche presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma e ha insegnato esegesi biblica nello studentato del suo Istituto. È stato anche docente nel Seminario Regionale di Hyderabad (India) e all’Università Cattolica del S. Cuore di Milano. Ha curato il volume Lettere paoline e altre lettere (Logos 6), 1995. Inoltre ha pubblicato i seguenti volumi: Una comunità si interroga (commento alla 1Corinzi), 1998; Cos’è la Bibbia, 1999; Marco. Un vangelo per i lontani, 1999; 2014; Lettera ai Romani, 2000; Israele racconta la sua storia, 2000; 2012; Per un mondo senza frontiere (Lettere autentiche di Paolo), 2012; Paolo e i non credenti, 2008; Alle origini della missione. (Atti degli Apostoli), 2014. Con Sandra Rocchi ha dato alla luce la trilogia: La Bibbia. Un percorso di liberazione, 2007-2009.

Alessandro Sacchi La morte del Messia - L’interpretazione sacrificale

Secondo diversi testi del NT Gesù ci ha liberato dal peccato perché sulla croce ha offerto se stesso in sacrificio a Dio. Ma in che senso la metafora sacrificale è stata applicata alla sua morte? Secondo Anselmo d’Aosta, morendo sulla croce Gesù avrebbe scontato la pena dovuta ai peccatori, soddisfacendo così una volta per tutte le esigenze della giustizia di Dio e riconciliando l’umanità con lui. Questa teoria, chiamata «espiazione vicaria», è diventata per secoli la spiegazione ufficiale della morte di Gesù. Essa però ha rivelato da tempo i suoi lati deboli. Da una parte non risponde all’idea di sacrificio dell’Antico e del Nuovo Testamento e, dall’altra, riduce la morte del Messia a un fatto mitologico, al pagamento cioè di un debito contratto da tutta l’umanità nella persona del suo lontano progenitore. In questo studio cerco di dimostrare come la spiegazione di Anselmo sia frutto di un malinteso e debba essere messa da parte se si vuole comprendere in che senso la morte di Gesù comporti ancora oggi un messaggio di salvezza valido non solo per i cristiani ma per tutta l’umanità.

La morte del Messia L’interpretazione sacrificale

LA  MORTE  DEL  MESSIA                                              

 

                                                       

 

               

Alessandro  Sacchi    

LA  MORTE  DEL  MESSIA     L’interpretazione  sacrificale  

                      Milano   2015    

Titolo | La morte del messia Autore | Alessandro Sacchi Immagine di copertina | Chagall, «Exodus» ISBN | 978-88-91196-00-2

© Tutti i diritti riservati all’Autore Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autore. Youcanprint Self-Publishing Via Roma, 73 - 73039 Tricase (LE) - Italy www.youcanprint.it [email protected] Facebook: facebook.com/youcanprint.it Twitter: twitter.com/youcanprintit

      A  mons.  Oscar  Romero,     umile  discepolo  di  Gesù   e  coraggioso  pastore  del  gregge,   che  ha  dato  la  vita   per  le  sue  pecorelle.  

 

PREFAZIONE   Il   quadro   di   Chagall   riprodotto   in   copertina   rappresen-­‐ ta,   come   suggerisce   il   nome,   l’esodo   degli   ebrei   dall’Egitto.   In   basso   a   destra   è   rappresentato   Mosè   che   stringe   le   ta-­‐ vole   della   legge   ricevute   dalla   mano   di   Dio.   Dietro   di   lui,   emerge   un’immensa  folla  che  raffigura  il  popolo  d’Israele   martoriato   che   cammina   verso   la   terra   promessa.   Sullo   sfondo   domina   la   figura   gialla   del   Cristo   in   croce.   L’impressione   che   si   coglie   da   questa   rappresentazione   è   quella   di   una   luce   che   promana   dal   Crocifisso   e   illumina   non  solo  gli  israeliti  ma  tutta  l’umanità.   L’intuizione   di   Chagall   è   veramente   rivelatrice.   Il   mo-­‐ vimento   sorto   a   seguito   della   morte   di   Gesù   si   è   fatto   in-­‐ terprete  di  valori  che  hanno  influito  profondamente  sullo   sviluppo  etico  dell’umanità.  Gli  ideali  di  giustizia,  libertà  e   democrazia,   già   presenti   nella   legge   di   Mosè,   si   sono   af-­‐ fermati   nel   mondo   occidentale   in   gran   parte   grazie   all’opera   dei   cristiani,   spesso   in   contrasto   con   l’Istituzione   che  avrebbe  dovuto  rappresentarli.     Ma,   a   monte,   è   importante   chiedersi   che   cosa   ha   fatto   Gesù  per  salvare  l’umanità  dal  baratro  in  cui  a  volte  sem-­‐ bra  precipitare.  Se  egli  si  fosse  limitato  a  predicare  i  valori   della  giustizia  e  dell’amore  senza  dare  un  contributo  riso-­‐ lutivo   per   la   loro   realizzazione,   la   sua   opera   perderebbe   oggi  gran  parte  del  suo  significato.  Nella  società  moderna,   infatti,   tali   valori   sono   largamente   riconosciuti,   anche   a   prescindere  dalla  sua  persona.     Secondo   la   visione   cristiana,   però,   Gesù   non   si   è   limita-­‐ to   a   predicare   il   Vangelo,   ma   ha   contribuito   in   modo   de-­‐ terminante,  soprattutto  mediante  la  sua  morte  in  croce,  a   vincere   il   male   che   pervade   la   convivenza   umana.   Non   è   chiaro  però  a  prima   vista  come  questa  morte  abbia  potuto    

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LA MORTE DEL MESSIA

influire   sulla   condizione   dell’umanità   nel   corso   della   sto-­‐ ria.   Una   spiegazione   largamente   attestata   nel   Nuovo   Te-­‐ stamento,  anche  se  per  lo  più  mediante  semplici  allusioni,   è  quella  che  si  rifà  alle  categorie  sacrificali:  Gesù  avrebbe   liberato  l’umanità  offrendosi  a  Dio  come  vittima  per  espia-­‐ re  i  peccati  di  tutti.  A  questa  interpretazione  ha  dato  voce   in  modo  determinante  la  lettera  agli  Ebrei.   Questa   concezione   è   stata   ulteriormente   elaborata   da     Anselmo   d’Aosta,   il   quale   ne   ha   tratto   la   dottrina     denomi-­‐ nata   «espiazione   vicaria».   In   base   a   essa   Gesù   avrebbe   preso   su   di   sé   il   peccato   che,   da   Adamo,   si   era   trasmesso   a   tutta   l’umanità.   Morendo   sulla   croce   egli   avrebbe   scontato   la   pena   dovuta   ai   peccatori,   soddisfacendo   così   una   volta   per   tutte   le   esigenze   della   giustizia   divina.   In   tal   modo   avrebbe  riconciliato  l’umanità  con  Dio,  rendendo  possibile   a   tutti   la   felicità   eterna,   già   anticipata   in   questo   mondo   mediante  l’adesione  alla  Chiesa  e  la  vita  sacramentale.   Questa  interpretazione  della  morte  di  Gesù,  ancora  lar-­‐ gamente  diffusa  nella  teologia  e  nella  catechesi,    rispecchia   chiaramente,   come   il   racconto   del   primo   peccato,   la   con-­‐ cezione   mitologica   dell’antichità.  Oggi  essa   è  messa  in  di-­‐ scussione  in  quanto  suscita  tutta  una  serie  di  interrogativi.   Come   è   possibile,   infatti,   che   un   uomo   prenda   su   di   sé   i   peccati  di  tutta  l’umanità?  Come  può  una  morte,  accettata   per   soddisfare   le   esigenze   di   un   Dio   offeso,   attuare   una   salvezza  valida  per  tutti?  Ma  soprattutto  ci  si  può  chiedere   in  che  misura  il  concetto  di  espiazione  vicaria  risponda  al   bisogno   di   salvezza   presente   nella   società   di   oggi.   Per   ri-­‐ spondere   a   queste   domande   è   necessario   prima   di   tutto   verificare   se   questo   concetto   è   veramente   radicato   nella   Bibbia  e  poi  confrontarlo  con  le  categorie  mentali  moder-­‐ ne.   In   questo   lavoro   mi   propongo   di   affrontare   in   modo   critico  la  teoria  anselmiana.  A  tale  scopo  esaminerò  anzi-­‐  

Prefazione

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tutto  il  concetto  di  espiazione   vicaria   (capitolo   1),   poi   cer-­‐ cherò   di     delineare   il   significato   del   sacrificio   nelle   diverse   religioni  (capitolo  2);  in  seguito  affronterò  il  tema  del  sa-­‐ crificio   nel   Primo   Testamento,  mostrando   anzitutto   come   esso   si   configuri   all’interno   della   religione   dell’alleanza   (capitolo  3);  passerò  poi  a  indicare  il  significato  specifico   del  sacrificio  israelitico  alla  luce  di  alcuni  testi  riportati  nel   Pentateuco   (capitolo   4)   e   poi   all’interno   della   corrente   profetica   (capitolo   5);   in   questo   contesto   riserverò   una   trattazione   speciale   alla   figura   del   Servo   di   YHWH   (capitolo   6);   successivamente   illustrerò   il   significato   della   «morte   per»   gli   altri   nel   mondo   ellenistico   (capitolo   7);   infine   mo-­‐ strerò  in  che  senso  nel  Nuovo  Testamento  la  metafora  del   sacrificio  sia  stata  applicata  alla  morte  di  Cristo  in  quanto   Messia  (capitolo  8).  Da  questa  ricerca  apparirà  chiaramen-­‐ te   come   la   teoria     dell’espiazione   vicaria   non   abbia   nessun   fondamento  biblico.  Nella  conclusione  mostrerò  come  es-­‐ sa  sia  inconciliabile  con  la  mentalità  moderna  e  proporrò   qualche  soluzione  alternativa  per  presentare  oggi  in  modo   più  convincente  la  morte  di  Gesù    (capitolo  9).     Numerosi   studiosi   hanno   già   espresso   in   modi   diversi   le   idee   che   cercherò   di   trasmettere   in   questo   volumetto.   Non  ho  però  l’impressione  che  il  risultato  delle  loro  ricer-­‐ che   abbia   raggiunto   gli   operatori   pastorali   e   i   semplici   cri-­‐ stiani,   presso   i   quali   la   teoria   anselmiana   è   ancora   impe-­‐ rante.  Penso  quindi  che  non  sia  male  riprendere  in  modo   divulgativo  questo  argomento.       Nella  bibliografia  al  termine  di  questa  opera  ho  elenca-­‐ to   i   libri   da   me   consultati,   limitandomi   quasi   esclusiva-­‐ mente  a  quelli  in  lingua  italiana.  In  essi  i  lettori  troveran-­‐ no,  se  lo  desiderano,  gli  strumenti  per  ulteriori  approfon-­‐ dimenti.   A   motivo   dello   scopo   che   mi   sono   prefisso,   non    

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LA MORTE DEL MESSIA

ho   pensato   che   fosse   necessario   fare   uso   di   note   a   piè   di   pagina  per  citare  le  fonti  delle  mie  affermazioni  o  discute-­‐ re  i  pareri  diversi  dal  mio.  Gli  specialisti  in  questo  campo   sono   in   grado   di   scoprire   senza   difficoltà   quali   sono   le   opere  alle  quali  mi  sono  ispirato.  Invece  i  lettori  ordinari,   ai   quali   questa   opera   è   rivolta,   non   hanno   bisogno   di   un’ulteriore   documentazione.   È   mia   speranza   che   quanto   andrò  affermando  si  giustifichi  da  sé,  senza  bisogno  di  fare   ricorso  ad  altre  autorità.    

 

I   L’ESPIAZIONE  VICARIA   La   morte   di   Gesù   in   croce   è   facilmente   spiegabile   nel   contesto   religioso   e   politico   della   sua   epoca.   Gli   interessi   che  egli  ha  toccato  erano  tali  da  giustificare  la  sua  elimina-­‐ zione  fisica.  È  difficile  però  spiegare  come  mai,  secondo  la   dottrina   cristiana,   tale   morte   abbia   provocato   la   salvezza   non  solo  dei  suoi  contemporanei  ma  di  tutta  l’umanità.  La   spiegazione   che   ha   retto   maggiormente   alla   prova   dei   tempi  è  quella  che  si  rifà  all’idea  di  un  sacrificio  offerto  a   Dio   mediante   il   quale   Gesù   avrebbe   espiato   i   peccati   di   tutta   l’umanità.   Questa   interpretazione   è   antica   e   getta   le   sue   radici   nel   Nuovo   Testamento.   Non   così   la   teoria   dell’espiazione   vicaria   che   ne   è   una   successiva   rielabora-­‐ zione.   Questa   è   entrata   ufficialmente   nella   teologia   cristia-­‐ na   grazie   ad   Anselmo   d’Aosta   ed   è   diventata   dottrina   co-­‐ mune  fino  a  oggi.     a. La dottrina anselmiana Nel  suo  opuscolo  Cur  Deus  homo  («Perché  Dio  si  è  fatto   uomo»),   Anselmo   d’Aosta   (1033-­‐1109   d.C.)   si   pone   lo   sco-­‐ po   di   spiegare   razionalmente   il   motivo   per   cui   Dio   si   è   fat-­‐ to   uomo.   Egli   presuppone   che   il   disegno   di   Dio   espresso   nella  creazione  abbia  lo  scopo  di  far  sì  che  l’umanità  rag-­‐ giunga   la   beatitudine.   Purtroppo   l’ordine   naturale  è   stato   stravolto  dal  peccato  di  Adamo,  che  da  lui  è  stato  trasmes-­‐ so   a   tutti   i   suoi   discendenti.   Questo   peccato,   in   quanto   rappresenta   un’offesa  fatta   a   Dio,   ha   deteriorato   in   modo   determinante  il  rapporto  dell’uomo  con  lui.  Con  esso  viene    

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LA MORTE DEL MESSIA

dunque   compromessa   la   possibilità   stessa   che   l’umanità   raggiunga   la   beatitudine   e   ottenga   la   salvezza.   D’altra   par-­‐ te,   se   l’uomo   si   perdesse,   Dio   non   potrebbe   realizzare   il   suo   progetto.   È   dunque   necessario   che   si   ristabilisca   il   rapporto  originario  tra  Dio  e  la  sua  creatura.   Perché   ciò   avvenga,   si   prospettano   due   vie   ugualmente   impercorribili:  o  l’uomo  restituisce  a  Dio  l’onore  che  gli  è   stato   tolto   o   Dio   stesso   perdona   gratuitamente   l’umanità   peccatrice.   Nel   primo   caso,   siccome   l’entità   della   colpa   si   misura   in   base   alla   dignità   dell’offeso   e   non   dell’offensore,   l’ampiezza   della   soddisfazione   richiesta   è   tale   da   preclu-­‐ dere  all’uomo  la  possibilità  di  realizzarla.  Infatti  esiste  uno   squilibrio   insuperabile   tra   Creatore   e   creatura,   tra   gran-­‐ dezza  dell’offeso  e  piccolezza  dell’offensore.     Nel   secondo   caso   sarebbe   Dio   stesso   a   perdonare   di   sua   iniziativa   l’umanità.   Ma   se   Dio   rimettesse   il   debito   dell’uomo  con  un  atto  di  pura  misericordia,  non  verrebbe   ristabilito   l’ordine   turbato   dal   peccato.   Ciò   può   avvenire   soltanto   mediante   la   spontanea   soluzione   del   debito   («soddisfazione»)   da   parte   dell’offensore.   Senza   di   essa   né   Dio   può   perdonare   il   peccato   dell’uomo   né   l’uomo   può   giungere   alla   beatitudine.   La   necessità   che   questa   si   rea-­‐ lizzi   si   scontra   quindi   con   l’impossibilità   da   parte   dell’uomo  di  offrire  un’adeguata  soddisfazione  e,  da  parte   di   Dio,   di   perdonare   senza   di   essa.   Si   crea   quindi   una   si-­‐ tuazione  a  prima  vista  senza  via  d’uscita.     Per   superare   questa   impasse,   Dio   stesso   ha   adottato   l’unica  soluzione  possibile.  Egli  ha  inviato  nel  mondo  il  suo   unico  Figlio  il  quale  si  è  fatto  uomo  e  ha  preso  su  di  sé  il   peccato   dell’umanità;   offrendosi   in   sacrificio   sulla   croce   egli  ha  scontato  la  pena  dovuta  ai  peccatori  e  così  ha  offer-­‐ to  a  Dio  la  soddisfazione  che  gli  era  dovuta.  Solo  lui,  infatti,   essendo  al  tempo  stesso  Dio  e  uomo,  poteva  soddisfare  le   esigenze  dell’onore  dovuto  a  Dio,  e  così  liberare  l’umanità    

I. L'espiazione vicaria

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dal   castigo   che   incombeva   su   di   essa.   Questa   interpreta-­‐ zione  è  stata  chiamata  «espiazione  vicaria»  in  quanto  Cri-­‐ sto,   come   vittima   sacrificale,   avrebbe   preso   su   di   sé   i   no-­‐ stri  peccati  e  li  avrebbe  espiati  al  nostro  posto.     Questa  spiegazione  della  morte  di  Cristo  suppone  una   certa  visione  del  sacrificio  in  quanto  soddisfazione  offerta   a   Dio   per   l’offesa   a   lui   arrecata   dal   peccato.   Inoltre   essa   dà   per  scontato  che  Dio  non  può  conferire  all’uomo  peccatore   la  salvezza  se  non  come  effetto  di  un  recupero  dell’onore  a   lui   dovuto.   Infine   la   salvezza   viene   vista   come   il   frutto   di   uno  scambio  che  avviene  esclusivamente  tra  Dio  Padre  e  il   suo  Figlio  incarnato.     b. Tommaso d’Aquino La   teoria   anselmiana   ha   avuto   un   largo   spazio   nella   teologia   cristiana.   Tommaso   d’Aquino   esprime   così   la   soddisfazione  compiuta  da  Cristo:       «Soddisfa   pienamente   per   l'offesa   colui   che   offre   all'offeso   ciò  che  questi  ama  in  una  misura  uguale  o  ancora  maggiore   di  quanto  abbia  detestato  l'offesa.  Ora  Cristo,  accettando  la   passione  per  carità  e  per  obbedienza,  offrì  a  Dio  un  bene  su-­‐ periore   a   quello   richiesto   per   compensare   tutte   le   offese   del   genere   umano.   Primo,   per   la   grandezza   della   carità   con   la   quale   volle   soffrire.   Secondo,   per   la   dignità   della   sua   vita,   che  era  la  vita  dell'uomo-­‐Dio,  e  che  egli  offriva  come  soddi-­‐ sfazione.   Terzo,   per   l'universalità   delle   sue   sofferenze   e   la   grandezza  dei  dolori  accettati.  Perciò  la  passione  di  Cristo  fu   una   soddisfazione   non   solo   sufficiente   per   i   peccati   del   ge-­‐ nere   umano,   ma   anche   sovrabbondante,   secondo   le   parole   di  S.  Giovanni:  “Egli  è  vittima  di  espiazione  per  i  nostri  pec-­‐ cati,  e  non  soltanto  per  i  nostri,  ma  anche  per  quelli  di  tutto   il  mondo”  (1Gv  2,2)»  (Somma  teologica  III,  48,2).    

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LA MORTE DEL MESSIA

c. Il Catechismo della Chiesa Cattolica

Alla   teoria   di   Anselmo   si   ispirano,   il   più   delle   volte   in   modo   allusivo,   diverse   formule   liturgiche.   Ma   soprattutto   essa  è  ancora  largamente  utilizzata  nella  catechesi  e  nella   predicazione.   Nel   Catechismo   della   Chiesa   Cattolica   del   1997  questa  dottrina  è  così  formulata:       «Per  il  suo  peccato,  Adamo,  in  quanto  primo  uomo,  ha  perso   la   santità   e   la   giustizia   originali   che   aveva   ricevuto   da   Dio   non   soltanto   per   sé,   ma   per   tutti   gli   esseri   umani.   Adamo   ed   Eva   hanno   trasmesso   alla   loro   discendenza   la   natura   umana   ferita  dal  loro  primo  peccato,  privata,  quindi,  della  santità  e   della  giustizia  originali.  Questa  privazione  è  chiamata  “pec-­‐ cato  originale”.  In  conseguenza  del  peccato  originale,  la  na-­‐ tura   umana   è   indebolita   nelle   sue   forze,   sottoposta   all’ignoranza,   alla   sofferenza,   al   potere   della   morte,   e   incli-­‐ nata   al   peccato   (inclinazione   che   è   chiamata   “concupiscen-­‐ za”)».    «Noi  dunque  riteniamo,  con  il  Concilio  di  Trento,  che   il   peccato   originale   viene   trasmesso   insieme   con   la   natura   umana,   "non   per   imitazione   ma   per   propagazione",   e   che   perciò  è  "proprio  a  ciascuno"»  (nn.  416-­‐419).   «Come  per  la  disobbedienza  di  uno  solo  tutti  sono  stati  co-­‐ stituiti   peccatori,   così   anche   per   l’obbedienza   di   uno   solo   tutti   saranno   costituiti   giusti»   (Rm   5,19).   Con   la   sua   obbe-­‐ dienza  fino  alla  morte,  Gesù  ha  compiuto  la  sostituzione  del   Servo   sofferente   che   offre   se   stesso   in   espiazione,   mentre   porta  il  peccato  di  molti,  e  li  giustifica  addossandosi  la  loro   iniquità.  Gesù  ha  riparato  per  i  nostri  errori  e  dato  soddisfa-­‐ zione  al  Padre  per  i  nostri  peccati  (n.  615).    

  La   teoria   di   Anselmo   ha   influito   profondamente   sul   modo   in   cui   è   stata   intesa   la   redenzione   in   Occidente   nel   secondo   millennio.   A   livello   popolare,   in   forza   della   cate-­‐ chesi   dei   bambini,   essa   continua   a   essere   intesa   come   l’unica  spiegazione  della  morte  di  Gesù.  Essa  perciò  viene    

I. L'espiazione vicaria

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considerata  dai  più  come  un  dogma  indiscutibile  della  fe-­‐ de  cristiana;  come  reazione  coloro  che  non  l’accettano  so-­‐ no  spinti  all’abbandono  della  chiesa.     Dall’accettazione  o  dal  rifiuto  della  dottrina  di  Anselmo   dipende  in  gran  parte  la  visione  di  Dio  e  dei  suoi  rapporti   con   il   mondo.   Ma   soprattutto   è   da   essa   che   deriva   l’idea   di   salvezza   che   la   Chiesa   propone   ai   credenti   e   all’umanità   in   generale.   Se   infatti   la   liberazione   dal   peccato   dipende   da   uno   scambio   privato   tra   Dio   e   il   suo   Figlio,   allora   resta   po-­‐ co   da   fare   per   cambiare   le   realtà   terrene   alla   luce   del   Van-­‐ gelo.   Il   peccato   è   stato   eliminato   una   volta   per   tutte.   Ma   purtroppo   si   ha   l’impressione   che   la   morte   di   Gesù   non   abbia  cambiato  nulla  nella  condizione  oggettiva  dell’uma-­‐ nità,  in  cui  domina  il  sopruso  e  la  violenza.   Se  si  desidera  veramente  che  il  messaggio  cristiano  in-­‐ cida  sulla  vita  delle  persone  e  sulle  strutture  sociali,  biso-­‐ gna  rivedere  alla  radice  la  dottrina  dell’espiazione  vicaria,   mettendo  in  discussione  i  suoi  presupposti  e  correggendo,   nella   catechesi,   nella   liturgia   e   nella   predicazione,   il   lin-­‐ guaggio  religioso  che  si  rifà  a  essa.     Prima   di   dare   voce   alle   critiche   che   sono   state   fatte   a   questa   teoria,   è   necessario   però   chiedersi   se   essa   corri-­‐ sponda   ai   dati   biblici   sui   quali   si   fonda.   È   quanto   faremo   ora   a   partire   dall’AT   e   dal   NT.   Ma   prima   è   necessario   ac-­‐ cennare  al  concetto  di  sacrificio  prevalente  nelle  religioni   in  genere  e  specialmente  in  quelle  dell’antico  Medio  Orien-­‐ te:  da  esso  deriva  infatti  tutta  una  serie  di  idee  che  hanno   condizionato  erroneamente  l’interpretazione  del  sacrificio   così  come  è  presentato  in  campo  biblico  e  cristiano.      

 

 

 

II   I  SACRIFICI  NELL’ANTICO  MEDIO  ORIENTE   Il  culto  sacrificale  è  presente  in  tutte  le  religioni,  nelle   quali   viene   incontro   al   bisogno   di   stabilire   un   rapporto   con  la  divinità.  Nel  mondo  in  cui  è  nata  la  Bibbia,  sono  at-­‐ testati   diversi   tipi   di   sacrifici,   dei   quali   è   difficile   ricostrui-­‐ re   con   qualche   esattezza   i   rituali   con   cui   venivano   fatti.   Infatti   i   sacrifici   assumevano   forme   diverse   in   funzione   della  condizione  di  vita  delle  popolazioni  che  li  praticava-­‐ no.   Sono   invece   chiari   gli   scopi   che   con   essi   si   volevano   raggiungere.  In  modo  molto  generale  si  può  dire  che  il  sa-­‐ crificio   consisteva   nell’offrire   un   dono   alla   divinità   per   renderla  propizia  e  ottenere  da  essa  un  aiuto  per  risolvere   i  problemi  più  assillanti  della  vita.   a. Lo scopo dei sacrifici Siccome   ogni   dono   deve   essere   accettato   da   colui   che   lo   riceve,   bisognava   far   sì   che   anche   i   doni   offerti   alla   divi-­‐ nità  entrassero  in  suo  possesso.  Era  quindi  necessario  tro-­‐ vare  il  modo  di  far  passare  le  offerte  sacrificali  dal  mondo   materiale  in  cui  vive  l’uomo  a  quello  immateriale  proprio   degli   esseri   superiori.   Questo   ostacolo   era   superato   me-­‐ diante  l’uso  di  oggetti  religiosi  che  rappresentavano  la  di-­‐ vinità   e   la   rendevano   presente.   Nell’antico   Medio   Oriente   questi   oggetti   erano   soprattutto   la   statua   della   divinità,   l’altare,  la  stele  o  il  palo  sacro.  Anche  i  sacerdoti  avevano   un  ruolo  rappresentativo  nei  confronti  della  divinità.   Per  far  giungere  un  dono  alla  divinità  era  dunque  suffi-­‐ ciente  metterlo  a  contatto  con  i  simboli  che  la  rappresen-­‐  

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tavano.  I  doni  alimentari  venivano  posti  ai  piedi  della  sta-­‐ tua,   con   la   convinzione   che   la   divinità   presente   in   essa   po-­‐ tesse  consumarli  in  segreto  (cfr.  Dn  14,3).    Quando  invece   si   trattava   del   sacrificio     di   animali,   il   primo   passo   era   l’uccisione   della   vittima.   Ad   esso   facevano   seguito   i   riti   sa-­‐ crificali  veri  e  propri.  Quello  più  ordinario  era  di  bruciare   la  carne  della  vittima  sull’altare:  questo  rito  aveva  un  forte   significato  simbolico  perché  la  carne  della  vittima,  andan-­‐ do  in  fumo,  raggiungeva  il  cielo,  cioè  la  sfera  in  cui  si  rite-­‐ neva  che  abitasse  la  divinità.     Un   altro   modo   per   trasferire   la   vittima   nel   mondo   divi-­‐ no  era  quello  basato  sull’uso  del  sangue.  Secondo  una  con-­‐ vinzione  diffusa  in  tutta  l’antichità,  il  sangue  era  conside-­‐ rato  come  la  parte  più  nobile  di  un  essere  vivente,  in  quan-­‐ to   si   pensava   che   esso   fosse   la   sede   della   vita.   Perciò   era   soprattutto   il   sangue   delle   vittime   che   doveva   entrare   nel-­‐ la   sfera   divina.   Ciò   veniva   ottenuto   facendolo   scorrere   ai   piedi  dell’altare  o  aspergendo  con  esso  gli  oggetti  che  indi-­‐ cavano   la   presenza   della   divinità,   soprattutto   la   stele   o   il   palo  sacro.     Lo   scopo   di   far   giungere   il   proprio   dono   alla   divinità   era  raggiunto  anche  mediante  la  consumazione  della  car-­‐ ne   della   vittima   da   parte   dei   sacerdoti   o   degli   offerenti.   Perciò   diversi   riti   sacrificali   erano   conclusi   con   un   ban-­‐ chetto   nella   zona   del   tempio.   Sullo   sfondo   di   questo   rito   vi   era  la  convinzione  secondo  cui  la  divinità,  dopo  aver  accol-­‐ to  il  dono  che  le  veniva  fatto,  donava  la  carne  della  vittima   ai  suoi  fedeli,  i  quali  la  mangiavano  festosamente  alla  sua   presenza.   Naturalmente   questo   rito   significava   che   la   divi-­‐ nità  aveva  accettato  il  dono  che  le  era  stato  fatto  e  assicu-­‐ rava  la  sua  costante  protezione  nei  confronti  degli  offeren-­‐ ti.  Inoltre  il  banchetto  sacro  era  espressione  di  un  vincolo   strettissimo   che   univa   i   devoti   alla   divinità,   la   quale   non   poteva  esimersi  dall’assicurare  loro  i  suoi  favori.    

II. I sacrifici nell'antico Medio Oriente

b. I riti dei cananei e degli arabi

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Sia  i  cananei  che  le  popolazioni  arabe  offrivano  alle  lo-­‐ ro  divinità  doni  sia  vegetali  che  animali;  questi  ultimi  era-­‐ no  i  più  preziosi  e  quindi  veniva  attribuita  loro  un’efficacia   particolare.  Presso  i  cananei  esisteva  l’uso,  attestato  anche   dalla  Bibbia,  di  offrire  in  sacrificio  esseri  umani,  soprattut-­‐ to   i   primogeniti   (cfr.   Dt   12,31;   2Re   3,27;   17,31).     Questi   sacrifici   avevano   il   massimo   valore   in   quanto   l’offerente   donava  alla  divinità  quanto  di  più  caro  possedeva.     I   riti   sacrificali   erano   diversi   a   seconda   delle   popola-­‐ zioni  che  li  praticavano.  Le  popolazioni  arabe  seminomadi,   dedite  alla  pastorizia,  davano  la  preponderanza  ai  riti  del   sangue   mentre   i   cananei   assegnavano   più   importanza   al   rito   di   bruciare   la   carne   della   vittima   sull’altare.   Sia   gli   uni   sia   gli   altri   inoltre   consumavano,   in   certi   casi,   parte   delle   vittime  nel  corso  di  un  banchetto  sacro.     Il  sacrificio,  dunque,  in  quanto  dono  fatto  alla  divinità,   aveva   lo   scopo   di   renderla   «propizia»   nei   confronti   dell’offerente,   cioè   di   ottenere   il   suo   favore.   Esso   veniva   dunque   incontro   ai   differenti   bisogni   di   una   persona   o   di   un   gruppo,   che   vanno   dalla   elargizione   della   pioggia   e   del-­‐ la   fecondità   dei   campi   e   degli   animali   alla   guarigione   delle   più  disparate  malattie.  I  sacrifici  erano  anche  strettamente   connessi  con  i  voti,  mediante  i  quali  si  prometteva  alla  di-­‐ vinità  l’offerta  di  una  vittima  nel  caso  che  la  preghiera  fos-­‐ se  esaudita.  Quando  ciò  si  verificava,  il  sacrificio  aveva  un   carattere  di  lode  e  di  ringraziamento.       I   riti   sacrificali   erano   tanto   più   estesi   e   importanti   quanto  più  la  popolazione  si  sentiva  insicura  e  bisognosa   di   aiuto   per   affrontare   le   grandi   sciagure   personali   o   na-­‐ zionali.   Naturalmente   gli   atteggiamenti   interiori   con   cui   i    

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riti   venivano   eseguiti   potevano   essere   i   più   disparati.   In   questo   contesto   è   sufficiente   mettere   in   luce   la   mentalità   che   stava   normalmente   all’origine   dei   riti   sacrificali   delle   popolazioni   in   mezzo   alle   quali   si   è   sviluppato   Israele.   In   genere   si   trattava   di   un   rapporto   tendenzialmente   egoisti-­‐ co  con  la  divinità,  dalla  quale  si  pensava  di  poter  ottenere   certi  vantaggi  per  se  stessi  o  per  il  proprio  clan,  spesso  a   prescindere   da   una   visione   più   vasta   di   bene   comune.   A   ben   riflettere   quella   mentalità   non   era   lontana   da   tante   manifestazioni   religiose   non   solo   del   mondo   biblico   ma   anche   di   quello   moderno,   nonostante   l’enorme   distanza   che  ci  separa  dall’antichità.      

 

III   LA  PRASSI  SACRIFICALE  ISRAELITICA   Il   tema   del   rapporto   con   Dio   era   molto   sentito   nell’ambito  della  vita  non  solo  religiosa,  ma  anche    politica   ed   economica   di   Israele.   Infatti   dalla   benevolenza   di   Dio   erano   assicurate   la   stabilità   delle   istituzioni   e   la   buona   riuscita  dell’agricoltura,  da  cui  dipendeva  in  gran  parte  la   prosperità  del  popolo.  Perciò  era  necessario  eliminare  tut-­‐ to   ciò   che   poteva   nuocere   al   rapporto   tra   il   popolo   e   il   suo   Dio.  In  questo  campo  l’ostacolo  più  grande  era  il  peccato,   che  consisteva  nella  trasgressione  non  solo  dei  grandi  co-­‐ mandamenti  morali  della  legge,  ma  anche  di  quelle  regole   di  vita  che  assicuravano  la  purezza  del  popolo  di  fronte  al   suo  Dio.   I  riti  praticati  da  Israele  erano  molto  simili  a  quelli  del-­‐ le  altre  popolazioni  che  risiedevano  nella  stessa  area  geo-­‐ grafica.  La  somiglianza  tra  rituali  diversi  non  è  però  suffi-­‐ ciente  per  affermare  che  alla  loro  origine  vi  siano  le  stesse   concezioni   religiose.   Ogni   rito   deve   essere   valutato   all’in-­‐ terno   del   suo   contesto   religioso   e   culturale.   I   significati   annessi   ai   sacrifici   da   parte   delle   popolazioni   cananee   non   erano   necessariamente   gli   stessi   che   vi   percepivano   gli   israeliti,  anche  quando  si  trattava  di  riti  simili.     È  dunque  necessario,  prima  di  prendere  visione  dei  riti   propri   di   Israele,   chiedersi   se   e   in   quale   misura   l’espe-­‐ rienza  religiosa  di  questo  popolo  si  è  differenziata  da  quel-­‐ la  del  mondo  religioso  in  cui  ha  avuto  origine  e  si  è  svilup-­‐ pata.  Per  fare  questo  è  importante  mettere  in  luce  qual  è  il   posto  che  è  stato  assegnato  al  rituale  israelitico  nel  conte-­‐ sto  delle  tradizioni  raccolte  nella  Bibbia.    

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a. Il culto di Israele

Nel   periodo   monarchico   gli   israeliti   si   distinguevano   dalle  altre  etnie  presenti  sul  territorio  palestinese  in  quan-­‐ to   prestavano   culto   a   una   specifica   divinità   il   cui   nome   è   racchiuso   in   quattro   consonanti   YHWH   che,   secondo   una   moderna   congettura,   venivano   lette   Jahu   o,   in   seguito,   Jahweh  (cfr.  Es  3,14-­‐15).  Essi  però  condividevano  non  solo   i   riti   praticati   nel   loro   ambiente   culturale,   ma   anche   il   si-­‐ gnificato  che  a  essi  veniva  attribuito.  Ne  fanno  fede  le  cri-­‐ tiche   dei   profeti   i   quali,   da   tempi   remoti,   sostenevano   l’esigenza  di    un  culto  ispirato  a  precise  norme  etiche.   Secondo  il  racconto  biblico,  nel  620  a.C.  il  re  Giosia,  sot-­‐ to  l’influsso  della  corrente  profetica,  ha  concentrato  il  cul-­‐ to   sacrificale   nel   tempio   di   Gerusalemme   (cfr.   2Re   23,4-­‐ 14),   certamente   allo   scopo   di   purificare   la   religione   jahwi-­‐ sta    dagli  influssi  cananei.  È  difficile  dimostrare  il  carattere   storico   di   questo   evento.   Comunque   si   può   ragionevol-­‐ mente   dubitare   che   questo   re   abbia   effettivamente   cam-­‐ biato   alla   radice   la   mentalità   del   popolo.   Alle   deviazioni   di   carattere   religioso   viene   infatti   attribuita   la   massima   re-­‐ sponsabilità  della  caduta  di  Samaria  e  poi  di  Gerusalemme   (cfr.  2Re  17,7-­‐23).   Dopo  l’esilio,  mentre  coloro  che  erano  rimasti  in  Pale-­‐ stina   hanno   mantenuto   l’antica   pratica   religiosa,   i   giudei   rimpatriati   hanno   elaborato   un   nuovo   sistema   rituale:   in   esso  è  ancora  visibile  l’apporto  degli  antichi  riti  di  origine   palestinese,   i   quali   però   sono   rivisti   alla   luce   delle   nuove   esperienze   maturate   durante   la   permanenza   in   Mesopo-­‐ tamia.   Ma   soprattutto   in   queste   disposizioni   si   rispecchia   la   nuova   concezione   religiosa   elaborata   durante   l’esilio.   Per   questo   i   rimpatriati   si   sono   tenuti   separati   dalla   popo-­‐ lazione  locale,  anch’essa  di  origine  israelitica,  condannan-­‐ do   come   idolatriche   le   loro   pratiche   religiose,   che   erano    

III. La prassi sacrificale israelitica

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poi  le  stesse  praticate  dai  loro  progenitori  prima  dell’esilio   (cfr.  2Re  17,24-­‐41;  Esd  4,1-­‐5).       Il  nuovo  significato  attribuito  al  culto  israelitico  appare   dal  fatto  che  la  descrizione  dettagliata  dei  riti  che  ne  fanno   parte   è   riportata   nel   contesto   della   tradizione   sinaitica.   Questa   si   estende   da   Es   19   fino   a   Nm   10   e   copre   tutto   il   periodo  trascorso  dagli  israeliti  ai  piedi  del  monte  Sinai.  In   essa  si  raccontano  anzitutto  l’incontro  con   YHWH  e  la  con-­‐ clusione   dell’alleanza   sinaitica   (Es   19-­‐24).   Vengono   poi   riportate   le   direttive   date   da   Dio   per   la   costruzione   del   santuario  (Es  25-­‐31).  In  una  seconda  sezione  narrativa  si   racconta   l’adorazione   del   vitello   d’oro,   usuale   nel   mondo   cananeo,   presentata   come   il   «peccato   originale»   di   Israele.   Esso   è   punito   con   una   serie   di   terribili   castighi,   a   cui   fa   se-­‐ guito   il   rinnovamento   dell’alleanza   (Es   32-­‐34).   Segue   un’altra   sezione   cultuale   in   cui   si   descrive   la   costruzione   del  santuario  (Es  35-­‐40).     Nei   due   libri   successivi   si   presuppone   l’esistenza   del   santuario  e  si  danno  le  disposizioni  riguardanti  la  liturgia   che  in  esso  doveva  svolgersi.  Anzitutto  sono  descritti  i  sa-­‐ crifici   che   dovevano   essere   offerti   nel   santuario   (Lv   1-­‐7);   nella   sezione   successiva   si   descrive   l’investitura   dei   sacer-­‐ doti  (Lv  8-­‐10);  vengono  poi  elencate  le  norme  riguardanti   la   purezza   rituale,   che   si   concludono   con   la   descrizione   della  festa  dell’Espiazione  (Kippur)  (Lv  11-­‐16);  la  sezione   successiva   contiene   un   codice   che,   in   base   alla   finalità   del-­‐ le   norme   in   esso   contenute,   viene   chiamato   «Legge   di   san-­‐ tità»  (Lv  17-­‐26).  Il  libro  termina  con  un’appendice  relativa   ai  voti  (Lv  27).     Nel   libro   dei   Numeri   è   riportato   anzitutto   il   risultato   del   censimento   degli   israeliti   (Nm   1-­‐4);   segue   una   sezione   in  cui  sono  raccolte  leggi  e  disposizioni  rituali  riguardanti   situazioni   diverse   (Nm   5-­‐8);   infine,   si   raccontano   la   cele-­‐  

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brazione   della   prima   Pasqua   dopo   l’uscita   dall’Egitto   e   la   partenza  dal  Sinai  (Nm  9-­‐10).     Da   questa   rapida   carrellata   appare   chiaramente   come   il   culto   di   Israele   fosse   strettamente   collegato   con   l’alleanza,  dalla  quale  riceveva  il  suo  significato.  Le  norme   di  carattere  rituale  riguardanti  i  sacrifici  sono  collocate  al   centro   della   tradizione   sinaitica,   subito   dopo   il   racconto   della  costruzione  del  santuario,  dove  essi  saranno  offerti,  e   prima   delle   norme   riguardanti   i   sacerdoti,   a   cui   ne   è   de-­‐ mandata   l’esecuzione.   Questa   collocazione   mette   chiara-­‐ mente  in  luce  l’importanza  e  il  significato  dei  sacrifici  nel   culto  di  Israele.   b. Diversi tipi di sacrifici I   diversi   tipi   di   sacrificio   sono   elencati   e   descritti   in   modo   scarno   e   distaccato.  È   poi   indicato   lo   scopo   per   cui   essi  vengono  fatti,  ma  non  si  dice  perché  bisogna  fare  certi   gesti  piuttosto  che  altri  e  neppure  si  accenna  al  motivo  per   cui  tali  riti  producono  l’effetto  desiderato.  I  sacrifici  di  cui   si  parla  in  questo  contesto  sono  l’olocausto,  le  offerte  ve-­‐ getali,  il  sacrificio  di  comunione,  il  sacrificio  per  il  peccato   e  il  sacrificio  di  riparazione.  Essi  hanno  elementi  comuni,   ma  si  distinguono  soprattutto  per  lo  scopo  loro  assegnato.   1)  Olocausto  (Lv  1,1-­‐9)   Questo  sacrificio  era  così  chiamato  in  greco  perché  tut-­‐ ta   la   vittima,   appartenente   al   bestiame   grosso   o   minuto,   era  bruciata  sull’altare.  In  ebraico  esso  era   chiamato   >olah,   che  significa  «salita»,  perché  tutta  la  vittima  era  fatta  sali-­‐ re   in   fumo   verso   Dio,   o   anche   qorban,   dal   verbo   qarab,   «accostare»,   perché   in   tal   modo   la   vittima   era   fatta   giun-­‐  

III. La prassi sacrificale israelitica

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gere   fino   a   Dio.   Non   c’era   un   motivo   specifico   per   cui   l’olocausto  veniva  offerto,  se  non  la  volontà  dell’offerente.   L’animale   offerto   doveva   essere   senza   difetto.   L’offerente   imponeva  le  mani  sulla  testa  della  vittima,  indicando  così   che  essa  era  di  sua  proprietà  e  la  dedicava  a   YHWH;  in  se-­‐ guito   la   vittima   veniva   uccisa   e   bruciata   interamente.   Il   sangue  veniva  sparso  dal  sacerdote  intorno  all’altare:  era   questo   il   compito   sacerdotale   per   eccellenza.   Nel   seguito   del   capitolo   vengono   date   ulteriori   specificazioni   circa   le   situazioni  concrete  in  cui  questo  veniva  offerto.     2)  Offerte  vegetali  (Lv  2,1-­‐3)   Questo   tipo   di   offerta   veniva   chiamato   minúah,   che   ori-­‐ ginariamente   significa   «dono».   Parte   di   esse   veniva   bru-­‐ ciata  sull’altare  e  parte  consumata  dai  sacerdoti.  La  parte   bruciata   era   chiamata   «memoriale»   (