La mente multiculturale
 9788858101971

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Universale Laterza 868

Luigi Anolli

La mente multiculturale

Editori Laterza

© 2006, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006 Seconda edizione 2010 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2010 SEDIT Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8117-3

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Introduzione

C’erano una volta degli esseri umani che credevano che la propria cultura fosse l’unico modo di vedere e spiegare le cose. Ritenevano normale che tutti gli altri dovessero pensare, comunicare, sentire, giudicare e decidere come loro pensavano, comunicavano, sentivano, giudicavano e decidevano. Chi non rientrava nei loro standard era considerato un barbaro. Un diverso. Un blasfemo. Un essere inferiore. E doveva essere punito. O convertito, giacché essi ritenevano di essere i depositari di una missione superiore: diffondere i loro valori di libertà e democrazia in tutto il mondo. Persino con la guerra, poiché per esportare la pace è necessaria la guerra. Guerra santa, ovviamente. Intolleranza e arroganza dominavano la mente di questi esseri umani. L’arroganza della (presunta) verità e della (presunta) superiorità morale. Una volta c’erano anche altri esseri umani che pensavano esclusivamente a vivere chiusi nel proprio guscio, tutti presi dai propri affari particolari. Il loro principio ispiratore era: «vivere e lasciar vivere», totalmente indifferenti e distanti dagli altri. Il privato prevaleva su ogni altro aspetto. In pubblico, l’importante era scivolare l’uno accanto all’altro. Ignorandosi rigorosamente. Non credevano nella verità e pensavano che un valore equivalesse a un V

altro. Tanto arriva la morte, che è una livella. Nel caotico miscuglio delle culture umane, la cosa essenziale era riuscire a difendere il proprio tassello di vita. Magari erigendo muri o scavando fossati. In quel mondo viveva una minoranza di esseri umani (il mondo minoritario) che, avvalendosi del proprio progresso tecnologico, riteneva naturale dominare e controllare la maggioranza degli esseri umani (il mondo maggioritario). Allora era ritenuto equo che il 20% della popolazione mondiale consumasse oltre l’80% delle risorse. L’egemonia economica e tecnologica significava anche egemonia culturale. Una volta tutti questi esseri umani, qualunque percorso avessero scelto di fare, avevano una mente a una dimensione sola. Una mente monoculturale, poiché erano totalmente immersi nella loro cultura. Il mondo iniziava e finiva lì. L’aspetto strano, in tutto ciò, era che questi esseri umani si ritenevano fortunati, in quanto credevano che la loro mente monoculturale fosse l’apice e l’apogeo della civiltà. L’espressione massima della selezione naturale. Stiamo parlando degli inizi del XXI secolo. Allora era scontato che i conflitti e le guerre fossero una condizione sistematica della specie umana. Tra le molte religioni diffuse in quel tempo, vi era un’aspra contesa (a volte nascosta, a volte manifesta) sul primato nel controllo delle coscienze. La mente monoculturale rischiava di creare molti problemi, perché tendeva a far coincidere la propria cultura con la totalità di se stessi. La cultura in cui si era cresciuti diventava la propria identità assoluta. Ognuno era ciò che era la propria cultura. Il rischio era la cecità culturale, ovvero l’incapacità di considerare le altre culture se non come minacce. Ci si trovava nell’impossibilità di prendere una qualche forma di distanza dalla propria cultura e di interpretarla in modo critico. Dall’alto. Per vedere allo stesso tempo il bosco e gli alberi. VI

Alla fine del XX secolo il mondo fu scosso profondamente da un fenomeno inatteso e imponente. I flussi migratori da Sud a Nord e da Est a Ovest comportarono lo spostamento di masse enormi di popolazioni. Con i loro sogni e bisogni. Con le loro attese ed esigenze. Soprattutto con le loro culture. La specie umana è nomade per sua natura. Da quando, circa centomila anni fa, i nostri progenitori emigrarono dall’Africa per diffondersi sull’intero pianeta. Unica specie endemica, insieme ai topi. Fino a poco più di diecimila anni fa, eravamo cacciatori e raccoglitori. La foresta era il nostro supermercato. Poi siamo diventati agricoltori e abbiamo iniziato a produrre e conservare cibo. Allora lo stato delle cose è cambiato radicalmente. Con l’agricoltura nasce la cultura. All’inizio, e per migliaia di anni, la cultura si è ancorata a un territorio. Pur essendo in continua evoluzione, essa presentava confini sufficientemente netti. Le guerre che hanno attraversato questo arco di tempo sono state sempre scatenate da esigenze contrapposte di gestione delle risorse per conquistare una posizione egemonica rispetto ad altri. Dopo le ultime tragiche guerre mondiali, la specie umana ha riconosciuto la necessità d’istituire un organismo sovranazionale (l’Onu) con lo scopo di governare i contrasti e i conflitti fra le diverse comunità, per porre rimedio a forme d’ingiustizia e iniquità e per migliorare le condizioni di vita della nostra specie. Con l’Onu e con la strategia della Guerra Fredda si è mantenuto uno stato di equilibrio precario per l’umanità. Si sono evitate altre guerre catastrofiche, ma non siamo riusciti a risolvere altri gravi squilibri, a cominciare dalla fame e dalla sete. Le risorse continuano a essere distribuite in modo iniquo. Da questa situazione hanno preso avvio le recenti migrazioni, che stanno modificando profondamente l’assetto degli equilibri internazionali. Pur in presenza di tale fenomeno, molto spesso sottovalutato, la maggioranza degli esseri umani ha continuato ad avere una mente monoculVII

turale e a pensare – in modo del tutto errato – che l’egemonia economica e tecnologica significhi anche egemonia culturale. In realtà, la superiorità culturale non esiste. Se si realizzasse davvero un processo di globalizzazione, si andrebbe incontro a una catastrofe culturale senza precedenti. L’omogeneizzazione culturale, infatti, implica la fine delle molte forme creative di vita che ogni cultura rappresenta. Significa l’appiattimento dei differenti patrimoni di conoscenze, pratiche e valori, che costituiscono la vera ricchezza della nostra specie. Oggi la mente monoculturale non è più sufficiente. Essa rappresenta un dispositivo parziale e obsoleto. Per gli esseri umani del XXI secolo occorre pensare a soggetti che abbiano a loro disposizione una mente multiculturale. Ossia, una mente che sappia pensare, sentire, credere e comportarsi differentemente nelle diverse situazioni culturali. La mente multiculturale è versatile per sua natura, poiché è una mente al plurale. L’obiettivo di questo libro è quello di affrontare l’ambito sopra descritto procedendo, in primo luogo, alla decostruzione del concetto di «cultura» nei suoi diversi aspetti e processi. Dopo aver analizzato in che modo la cultura è comparsa nella specie umana e nel singolo individuo, esamineremo i modelli culturali che, in quanto realtà interne ed esterne a noi medesimi, danno forma alla nostra stessa mente. Vedremo poi quali sono i vantaggi e i limiti della mente monoculturale, ponendo in evidenza la sua radicale insufficienza al giorno d’oggi. Infine, esamineremo la mente multiculturale come dispositivo per capire e gestire i rapporti interculturali di oggi e domani. Questo libro non intende elaborare una nuova teoria sul multiculturalismo. Vi sono già diversi studi in proposito – di cui alcuni molto recenti (Galli, 2006). Intende, piuttosto, essere un primo tentativo di risposta alla sfida della ipercomplessità culturale generata dagli attuali flussi migratori, che in futuro saranno probabilmente ancora più VIII

imponenti. La sfida che il XXI secolo si trova dunque ad affrontare è di passare da una mente monoculturale a una multiculturale. La possibilità che le giovani generazioni giungano ad avere una mente multiculturale certamente non può essere realizzata solo dall’opera di uno studioso. È evidente che questa sfida non può essere vinta se non attraverso la nitida consapevolezza, il forte impegno e la partecipazione condivisa di genitori, insegnanti, politici, amministratori pubblici e operatori sociali. In altre parole, la responsabilità dovrà essere collettiva, corale. E dalla capacità di impegnarci coralmente e collettivamente dipenderà la possibilità per le giovani generazioni di sviluppare una mente multiculturale e per la società degli anni a venire di disegnare il proprio profilo in termini di equità, libertà, tolleranza, solidarietà.

La mente multiculturale

I

Che cosa è la cultura?

Oggi è consuetudine ricorrere al concetto di «cultura» per spiegare una serie assai estesa di fenomeni. Quando emergono difficoltà e incomprensioni fra persone di gruppi e comunità diverse, si è facilmente inclini ad attribuirne la causa alla cultura. In generale, le autorità – dai politici ai religiosi, dai manager ai giornalisti – fanno appello al concetto di cultura per difendere le proprie ragioni. Al pari del genere, dell’età e del reddito economico, la cultura è diventata una variabile oggettiva usata per spiegare una gamma estesa di eventi. Nel dire che due persone sono di culture diverse, sembra già quasi di capire e interpretare la loro condizione. In verità, la cultura è essa stessa una realtà da capire e spiegare. Che cosa è la cultura? Quando ha avuto origine? Quali sono le condizioni che l’hanno resa possibile? Come si è sviluppata nella specie umana e nella storia dei singoli individui? Come si evolve? Come mai una cultura muore e un’altra nasce? Non si tratta di domande ovvie. Né retoriche. Obiettivo di questo capitolo è di fornire alcuni elementi utili per giungere alla comprensione dei dispositivi che generano e governano la cultura.

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1. La cultura «dall’esterno» e «dall’interno» Ambiente invisibile in cui siamo totalmente immersi, la cultura dà forma e sostanza all’esistenza umana. Noi guardiamo il mondo e gli accadimenti attraverso di essa e li riteniamo oggettivi nella loro consistenza e configurazione in quanto còlti in modo apparentemente diretto e immediato. Così non ci rendiamo conto che, invece, noi guardiamo il mondo adottando una prospettiva specifica: la nostra cultura. La cultura non è l’eredità sociale dei nostri antenati. Non è il patrimonio di conoscenze, di pratiche e di valori tramandatoci dai genitori e dagli insegnanti. E non è una «cornice oggettiva» al cui interno collocare la nostra vita. Ma allora, che cosa è la cultura? Se guardiamo la storia recente, la cultura è stata concepita e studiata dalle scienze umane in due diversi modi: la cultura vista «dall’esterno» e la cultura vista «dall’interno». 1.1. La cultura vista «dall’esterno» Lo studio della cultura «dall’esterno» è stato chiamato etico (da «fonetico», termine utilizzato per indicare una differenza di suono fra due parole che non produce una differenza di significato)1. Una determinata cultura è esaminata come se fosse una realtà esterna, circoscritta e chiusa, al fine d’individuarne le proprietà distintive. L’idea di fondo è che vi sia una «natura umana» universale e invariata, intesa come dotazione geneticamente ereditaria, comune a tutti gli umani, regolata da leggi sistematiche e che, in superficie, tale natura umana assuma forme diverse a seconda delle varie culture. La comprensione della cultura vista «dall’esterno» avviene sostanzialmente in questo modo: si parte da una griglia di proprietà che si ritengono generali (come le credenze, le emozioni, le relazioni sociali, ecc.) e poi si procede con il fare un confronto sistematico fra alcune culture, per individuarne le somiglianze, alla ricerca di leggi 4

universali sottese alla condotta umana. In questo confronto l’individuazione di eventuali differenze serve a porre in evidenza le cosiddette variazioni di superficie, di natura locale, prodotte dalle varie culture. È in gioco il metodo nomotetico che, attraverso il confronto sistematico, individua l’esistenza di eventuali leggi universali del comportamento umano. L’obiettivo è quello di costruire una psicologia generale che abbia una validità «panumana», in grado di svelare l’unità psichica della nostra specie. L’approccio etico ha dato origine alla psicologia crossculturale (cross-cultural psychology, detta anche psicologia transculturale), che si prefigge di procedere al confronto sistematico fra le varie culture facendo ricorso a metodi quantitativi (questionari, test psicologici, ecc.) e a modelli astratti di spiegazione («dall’alto verso il basso»; Berry, Poortinga, Segall e Dasen, 2002). Tuttavia, studiare la cultura «dall’esterno» va inevitabilmente incontro a limiti e difficoltà. Per prima cosa non esistono né modelli teorici né indirizzi politici né strumenti di misurazione che siano immuni dalle influenze culturali, poiché essi sono prodotti sempre all’interno di una data cultura. Tutto ciò che facciamo, pensiamo e sentiamo, è sempre totalmente immerso in una determinata cultura. In secondo luogo, tale tipo di studio comporta il cosiddetto paradosso dell’equivalenza: ossia assumere che ciò che è valido in una certa cultura sia valido anche in un’altra cultura. Questa idea implica il rischio di produrre distorsioni sistematiche2. Ritenere che parole che pensiamo universali, come «libertà», «giustizia», «democrazia», «felicità», «amicizia», «verità», ecc. abbiano lo stesso significato presso gli italiani, gli inglesi, i russi, i polacchi, i cinesi, gli indiani o i giapponesi (solo per citare qualche cultura) è una vera ingenuità, come ha dimostrato Wierzbicka (1997). Per esempio, la parola «felicità» per gli americani corrisponde all’obbligo sociale di ottenere successo e di provare gioia e ottimismo, mentre per i giapponesi la feli5

cità consiste nell’equilibrio fra emozioni positive e negative (yin e yang; Kitayama e Markus, 2000). Parimenti, il concetto di libertà è assai diverso per gli italiani, gli inglesi, i polacchi e i russi3. In terzo luogo, la prospettiva etica rischia di condurre a una concezione museografica della cultura, secondo la quale l’esposizione delle peculiarità, delle «stranezze» strabilianti o delle «barbarie» degli altri popoli costituisce oggetto di curiosità, talvolta di voyeurismo, spesso di superficialità cognitiva. In sintesi, la psicologia cross-culturale assume una prospettiva universalistica e naturalistica, secondo cui la cultura appare come una sovrastruttura rispetto alla natura. La cultura sarebbe così una specie di rumore che interferisce nello studio della natura umana. Tale prospettiva implica una sorta di dualismo antitetico fra natura e cultura: la natura umana sarebbe unica e la cultura produrrebbe solo variazioni superficiali e contingenti. Si corre così il rischio di concepire la cultura come una «realtà oggettiva» in grado d’influenzare dall’esterno le funzioni psichiche dei soggetti. Questa reificazione della cultura è la premessa per concepire una determinata cultura come se fosse la tessera di un mosaico. In quanto tale, essa avrebbe una sua precisa identità, ossia le sue dimensioni, i suoi confini netti, la sua forma, i suoi colori e così via. L’insieme di tutte le tessere darebbe origine al mosaico delle culture esistenti oggi sulla Terra. Secondo questa teoria del mosaico ogni cultura sarebbe una categoria univoca e chiusa, discreta e fissa, separata dalle altre grazie alla presenza di confini precisi. A questo punto viene spontaneo chiedersi: come possono le culture comunicare fra loro? Com’è possibile tradurre i significati di una cultura nei significati di un’altra? Ma vi è di più. Se ogni cultura è la tessera di un mosaico, essa deve rimanere ferma al suo posto, «incollata» al suo territorio. Non vi è più spazio per spostamenti, migrazioni e cambiamenti, né – tanto meno – per contaminazioni e ibridazioni culturali. 6

1.2. La cultura vista «dall’interno» Considerata la difficoltà (o forse l’impossibilità) di capire la cultura «dall’esterno», altri studiosi si sono proposti di raggiungere il medesimo obiettivo studiando la cultura «dall’interno». È il cosiddetto approccio emico (da «fonemico», termine utilizzato per indicare una differenza di suono fra due parole che, generando fonemi diversi, produce una differenza di significato all’interno di una lingua ma non di un’altra)4. Studiare una certa cultura «dall’interno» vuol dire assumere il punto di vista dei nativi e concentrasi sulle forme specifiche, contingenti e irripetibili che quella cultura assume in quel momento storico. L’obiettivo è quello di cogliere l’unicità e l’esclusività di una data cultura. L’idea di fondo è che la cultura è dentro le persone. È «nel loro cervello», come sostengono Richerson e Boyd (2005, 128). Tale approccio emico fu seguito da Boas (1911), fondatore dell’antropologia negli Usa, secondo il quale ogni cultura costituisce una totalità originale che va compresa nella sua singolarità assoluta. Questo punto di vista è stato ripreso anche dalla psicologia culturale (cultural psychology), che ha molto insistito sul concetto di unicità, in quanto ogni cultura è un mondo a sé stante, diverso da ogni altro. Vi è la convinzione che ogni soggetto è immerso in una cultura, così come ogni cultura si manifesta attraverso le credenze e i comportamenti dei soggetti (Cole, 1996). Già lo psicologo russo Vygotskij (1934), che aveva contribuito a fondare la cosiddetta scuola storico-culturale russa, aveva sottolineato come lo sviluppo delle funzioni mentali superiori (linguaggio e pensiero) sia profondamente influenzato dalle condizioni sociali della comunità culturale di appartenenza. Il bambino, in qualità di «novizio», si trova di fronte a universi di discorso prodotti dai membri adulti (gli «esperti») di una data comunità. I significati delle frasi, dei gesti e delle azioni sono già defini7

ti dalla comunità e indicano al bambino le linee da percorrere per diventare, a sua volta, esperto. Anche le cosiddette psicologie indigene ribadiscono che ogni comunità sviluppa specifiche conoscenze e competenze per adattarsi al suo ambiente fisico e sociale. Oggetto del loro studio sono quindi le attività quotidiane delle persone, realizzate in contesti ecologicamente definiti (Enriquez, 1990). La cultura, infatti, varia al variare delle condizioni ambientali. Per esempio, nelle tribù migratorie che vivono di caccia e raccolta le pratiche di socializzazione favoriscono la determinazione, l’autonomia, la fiducia in se stessi e la gestione dell’incertezza. Per contro, nelle comunità stanziali fondate sull’agricoltura sono incrementate caratteristiche come la condiscendenza, l’obbedienza, la cooperazione e il senso di responsabilità. A loro volta, nel contesto industriale le pratiche di socializzazione sostengono l’intelligenza tecnologica, le competenze comunicative, la gestione della distanza relazionale, la difesa dei propri interessi, la competitività. L’approccio emico segue il metodo idiografico, che privilegia l’uso di procedimenti qualitativi d’indagine, come le interviste, il dialogo, la partecipazione alle pratiche dei nativi, ecc. Particolare rilievo è attribuito all’etnografia come dispositivo in grado di favorire la comprensione della situazione contingente attraverso il punto di vista del nativo. L’etnografia richiede una partecipazione diretta e prolungata alla vita sociale di una certa comunità con lo scopo di rendere esplicito ciò che è implicito e scontato. Per raggiungere questo fine si fa spesso ricorso all’osservazione partecipante, intesa come strumento non intrusivo in grado di cogliere le specificità di una data cultura5. Tuttavia, lo studio «dall’interno» della cultura non è esente da limiti e difficoltà. Innanzitutto, la sua impostazione favorisce il relativismo culturale, rendendo assoluto il valore dell’unicità. Il rischio è quello di concepire una determinata cultura come una monade leibniziana, senza porte né finestre, arroccata nella sua distintività opaca e in8

comunicabile. Il pericolo, in sostanza, è quello di realizzare «etnografie opache», forse utili ai nativi ma incomprensibili per gli estranei. Il relativismo culturale porta con sé, infatti, il problema della traducibilità dei modelli culturali da una cultura a un’altra. In secondo luogo, oggi il relativismo culturale è stato declinato da parte di alcuni politici e studiosi sotto forma di fondamentalismo culturale, premessa teorica per la versione attuale del razzismo (Stolcke, 1995). Non è più la razza a dover essere protetta ma la cultura nazionale, omogenea al suo interno e storicamente fondata. È il razzismo senza razza. Il diritto alla diversità diventa il diritto primario di difesa della propria unicità, consentendo di evitare ogni forma di contaminazione con altre culture e di procedere all’esclusione ed espulsione di tutte le persone culturalmente diverse. Ritorna qui la teoria del mosaico, ma vista al rovescio. L’attenzione non è più sul disegno complessivo del mosaico, ma è focalizzata sulla singola tessera. Diventa allora prioritaria la comprensione e la difesa della singola unità nella sua assoluta esclusività. 2. La doppia natura della cultura Lo studio «dall’esterno» (etico) e quello «dall’interno» (emico) della cultura risultano entrambi parziali e insoddisfacenti. Né la loro combinazione è possibile, poiché partono da assunti teorici inconciliabili. Occorre quindi adottare un nuovo punto di vista per lo studio della cultura. Il punto di partenza può essere dato dalla constatazione che il luogo della cultura non è né esclusivamente esterno (fuori dalle menti) né esclusivamente interno (dentro le menti). La cultura è dentro e fuori dalle menti nello stesso tempo. Di conseguenza, la cultura è ovunque non solo in termini geografici ma soprattutto in termini psicologici. Da tale evidenza deriva la doppia natura della cultura. Essa è interna alle menti dei soggetti e si manifesta attra9

verso i loro modelli mentali, il loro sistema di credenze e valori, la loro sensibilità e focalità emotiva, ecc. Nello stesso tempo, la cultura è esterna alle menti dei soggetti, poiché trova espressione negli artefatti materiali (tecnologici come il telefonino, artistici come le cattedrali, ecc.) e nelle istituzioni sociali di una data comunità. Fra la dimensione interna e quella esterna vi è interdipendenza intrinseca più che semplice corrispondenza. Ogni dimensione, infatti, presenta una relativa autonomia che si manifesta nella resistenza temporale ai cambiamenti culturali. Talvolta sono gli individui a resistere ai fenomeni evolutivi della cultura di cui fanno parte; talaltra sono le istituzioni sociali (politiche, religiose, economiche, ecc.) a opporre tale resistenza. Talvolta sono gli individui a generare le modificazioni culturali (pensiamo all’azione delle minoranze attive e dei movimenti, come è avvenuto nel ’68); talaltra sono le istituzioni a farsi promotrici di riforme anticipatrici o di novità tecnologiche (pensiamo all’impatto dei new media nel corso degli ultimi anni sullo stile di vita delle persone). Tale interdipendenza comporta il superamento della concezione di una semplice interazione fra aspetti interni (mentali) ed esterni (materiali) della cultura. Una concezione interazionista implica una distinzione dicotomica fra gli interagenti e, nello stesso tempo, una sorta di sintonia e di armonia fra di essi. Siamo in presenza più di un auspicio che di una condizione realistica. Il legame che esiste fra aspetti interni e aspetti esterni di ogni cultura non è di natura interattiva, bensì costruttiva, poiché entrambi gli aspetti reciprocamente co-determinano e co-definiscono l’evoluzione dei percorsi culturali. Tale processo co-costruttivo dà luogo a emergenze culturali imprevedibili e indeducibili dalle condizioni esistenti. Di conseguenza, l’evoluzione della cultura va attribuita a diverse sorgenti (interne ed esterne) di trasformazione. L’attenzione si sposta da sistemi fondamentali distinti e autonomi che entrano in connessione fra loro a sistemi 10

multilivello accoppiati. Non vi sono motori primi per l’evoluzione della cultura ma vi è una rete di relazioni (interne ed esterne) e interconnessioni da cui essa emerge. L’evoluzione culturale è covarianza, connessa alle condizioni contingenti del contesto. L’interdipendenza fra aspetti interni e aspetti esterni della cultura rimanda ai concetti di «interpenetrazione» e «interazionismo non additivo» elaborati dal genetista Lewontin (2000). Essi comportano un imprevedibile percorso dei sentieri culturali e attribuiscono rilevanza sostanziale al concetto di nicchia ecologica di ogni cultura (cfr. cap. 2). Grazie alla sua doppia natura, ogni cultura costituisce una certa prospettiva sulla realtà, – poiché implica un modo di concepire, interpretare, spiegare gli avvenimenti –, una griglia di significati per attribuire senso al mondo, un insieme di regole per gestire e modificare l’ordine delle cose. In quanto prospettive, le culture sono fra loro incommensurabili, poiché sono qualitativamente diverse. Non è quindi legittimo né accettabile assumere che una cultura possa diventare metro di misura e di confronto per altre culture. Neppure ha alcun senso predicare la (presunta) superiorità di una cultura rispetto a un’altra. Inoltre, non può esistere una prospettiva né metaculturale né aculturale, poiché ogni concezione e interpretazione è inevitabilmente influenzata e distorta dalla cultura in cui è stata elaborata. Questa condizione implica – almeno sul piano teorico – la fine di ogni concezione di superiorità di una cultura su un’altra. Tuttavia, è bene dirlo subito, l’incommensurabilità delle culture non significa incomparabilità delle categorie a esse sottese, poiché si possono (e si devono) istituire griglie di confronto fra sistemi di categorie che si riferiscono a culture diverse. Tali sistemi possono essere confrontati in quanto associati a una rete di significati e i significati sono traducibili, anche se non perfettamente, da una lingua a un’altra (Eco, 2003) e da una cultura a un’altra (Anolli, 2004). I significati, infatti, possono essere analizzati, seg11

mentati e tradotti in quanto sono scomponibili in un numero limitato di tratti semantici (Violi, 1997)6. Il confronto interculturale diventa allora garanzia dell’attendibilità e validità delle conoscenze acquisite e consente di «spacchettare» una data cultura: da realtà monolitica e opaca a gamma più o meno coerente di fenomeni e processi. 3. La cultura come eredità e adattatività Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, la cultura va dunque intesa come una forma di eredità che si affianca e interagisce con altri percorsi di eredità che caratterizzano la specie umana (eredità genetica, epigenetica e comportamentale; Jablonka e Lamb, 2005). Nello specifico, la cultura può essere definita come l’eredità cumulativa di costellazioni simboliche. Ciò significa, innanzitutto, che la cultura è un’eredità, perché ogni essere umano, quando nasce, si trova a vivere in un ambiente profondamente trasformato (e sempre più spesso sfruttato e deteriorato) dalla cultura di coloro che lo hanno preceduto. Tale eredità è di natura cumulativa, poiché la cultura procede sempre avanti, in modo inesorabile, essendo collocata nel tempo (cfr. cap. 2). In secondo luogo, l’eredità della cultura concerne essenzialmente (sebbene non esclusivamente) le costellazioni simboliche con cui gli umani comprendono, spiegano e organizzano la vita. Già Deacon (1997) aveva sottolineato come la proprietà specie-specifica degli esseri umani fosse quella di essere simbolica. Essi sono in grado di generare simboli astratti, ossia rappresentazioni mentali che in modo convenzionale consentono di raffigurare situazioni percettive della realtà, anche in assenza dei corrispettivi stimoli sensoriali. I simboli non sono fotocopie della realtà, ma strutture mentali flessibili e dinamiche, dotate di livelli progressivi di astrazione, per cui è possibile procedere per zoom mentali, ordinarle in categorie, fare delle rota12

zioni e inversioni, condividerle con altri, ecc. Tale competenza è connessa con la capacità di elaborare rappresentazioni mentali di secondo ordine (rappresentazioni delle rappresentazioni proprie e altrui) e di giungere per via inferenziale a una lettura della mente altrui (la cosiddetta teoria della mente; cfr. capp. 2 e 3). Che cosa è dunque «cultura»? Sul piano psicologico, il concetto di cultura può essere ulteriormente sviluppato, prospettando la cultura come l’appropriazione (da parte di un novizio) di una rete globale e dinamica, più o meno coerente, di modelli mentali (cognitivi, emotivi, sociali), di significati e valori, di pratiche di vita attraverso l’apprendimento sociale e l’interazione con altri consimili (apprendimento imitativo, insegnamento attivo, ecc.) indispensabile per adattarsi al proprio ambiente (nicchia ecologica) e per dare senso all’esperienza propria e altrui (comprensione ermeneutica) entro una certa comunità di attori umani. Nelle pagine seguenti cercherò d’illustrare il senso di questa descrizione della cultura. Qui mi limiterò a commentare brevemente il concetto di «appropriazione». Anzi tutto esso sottolinea che la cultura è un processo prima di essere una struttura o un sistema di artefatti. In quanto processo, non si ha solo l’appropriazione di soluzioni e artefatti, ma soprattutto di dispositivi di adattamento attivo agli ambienti e ai loro continui cambiamenti. È il concetto di «adattatività», intesa come capacità di adattarsi attivamente all’evoluzione dell’ambiente al fine di garantirsi una continuità di funzionamento. In tale dinamica sono compresi anche i cambiamenti ambientali prodotti dagli stessi esseri umani in funzione delle loro esigenze (è la cosiddetta nicchia ecologica). In secondo luogo, il concetto di appropriazione implica che la cultura sia considerata come un dispositivo dominio-generale in grado di affrontare in modo flessibile tutti gli aspetti dell’esistenza umana, da quelli pratici e operativi a quelli più astratti e teorici. Per sua natura, la 13

cultura pone un novizio nella condizione di trovare una risposta ai vari problemi della vita. Miti, filosofie e religioni, presenti sia pure in modo differenziato in ogni cultura, si propongono di prospettare soluzioni anche per i lati più complessi dell’esistenza, morte compresa. Tuttavia, tale dispositivo dominio-generale non è un sistema coeso e chiuso bensì una rete flessibile che enfatizza certi nodi rispetto ad altri. In particolare, in funzione dei vincoli e delle opportunità dell’ambiente, ma anche delle competenze degli esperti, tale dispositivo generale si focalizza, di volta in volta, nella costruzione e nell’incremento di meccanismi dominio-specifici. Ogni cultura sceglie ed enfatizza certe soluzioni locali e contingenti, strettamente connesse con il proprio contesto di riferimento, differenziandosi in tal modo dalle altre culture. Per esempio, nel campo della nutrizione ogni cultura individua e sceglie certi tipi di cibi, specifiche procedure per la loro conservazione e preparazione, particolari modalità e orari di consumo in funzione delle condizioni ambientali. Tale processo di specificazione vale anche per tutti gli altri ambiti della vita. Su questa piattaforma s’innestano le premesse per la costruzione della propria identità culturale come costellazione di differenze (cfr. cap. 5). In terzo luogo, il concetto di appropriazione pone in evidenza il punto di vista del novizio che si distingue, in modo ovvio, da quello dell’esperto. Ciò che in definitiva conta è il novizio, che deve essere in grado di fare sua la cultura di riferimento attraverso l’azione dell’esperto e di ricostruirla in funzione della sua esistenza e dei cambiamenti dell’ambiente in cui vive. Di conseguenza, parlare di appropriazione significa superare la logica della cultura come semplice trasmissione. In questo caso la cultura sarebbe soltanto un passaggio automatico di conoscenze e di pratiche attraverso meccanismi di riproduzione. Tale impostazione, per certi aspetti, rimanda al concetto di meme proposto da Dawkins (1976; cfr. cap. 2). La cultura non è un semplice patrimonio o ba14

gaglio di conoscenze e di pratiche che viene consegnato da una generazione all’altra. Se la dinamica della cultura avesse luogo in questo modo, al novizio (inteso come contenitore vuoto) sarebbe attribuita una posizione sostanzialmente passiva e ricettiva entro un processo unidirezionale (dall’alto verso il basso). Egli sarebbe un mero ripetitore e clone culturale, abile soltanto nel copiare e replicare in modo pedissequo ciò che altri gli hanno consegnato. Parimenti, il concetto di appropriazione consente di superare anche certe versioni del modello della interiorizzazione e della introiezione della cultura (Grusec e Goodnow, 1994). L’acculturazione sarebbe l’esito di un percorso individuale e privato di apprendimento. Il novizio, guidato dal proprio temperamento, è concepito come un soggetto capace di scegliere in modo consapevole ciò che può essergli utile o meno dal bagaglio culturale di riferimento, percepito come inerte e indifferente, nonché di fare proprie le opportunità più interessanti in esso presenti, evitando ciò che potrebbe essere nocivo o inutile (è la cosiddetta teoria del novizio come scienziato). «Appropriazione» significa dunque che i soggetti trasformano la cultura nel momento stesso in cui si appropriano dei suoi sistemi di credenze, di valori e di pratiche attraverso l’esperto, proponendone alla generazione successiva una versione modificata e rinnovata, idonea all’adattamento a nuove esigenze ambientali (Rogoff, 1990, 2003). Secondo questa impostazione, nell’interazione fra esperto e novizio non si pone tanto il problema d’immagazzinare e accumulare progressivamente conoscenze e pratiche, quanto piuttosto quello di porre in evidenza la dimensione dinamica e il processo attivo di compartecipazione del novizio a livello personale. Più che agli esiti, l’attenzione è rivolta al processo e ai modi in cui egli diventa un soggetto culturalmente competente. In questo senso «appropriazione» non significa solo trasmissione o assimilazione («importazione») di qualcosa che è esterno, e neppure soltanto la possibilità di coinvol15

gimento personale e d’impegno nelle attività culturali, ma significa soprattutto il superamento del concetto stesso di confine fra esterno e interno. Una persona che partecipa a un’attività è parte di quella attività. Si potrebbe dire che il novizio, più che apprendere la cultura dall’esperto (come modello da copiare), se ne appropria attraverso l’esperto stesso entro una cornice di partecipazione. Da un lato, tale cornice viene a influenzare la configurazione e il decorso dell’evento; dall’altro, prepara l’individuo a saper affrontare in modo più adeguato altri eventi simili. L’appropriazione è un processo di trasformazione (non la sua precondizione) e fa riferimento al cambiamento che deriva al soggetto dalla sua partecipazione a una data attività (non all’internalizzazione di qualcosa di esterno): la partecipazione è un processo unitario, individuale e sociale allo stesso tempo. In tale processo si pone in evidenza la doppia natura della cultura: essa non è né una collezione oggettiva di artefatti e pratiche da trasmettere, né solo una costellazione di modelli mentali. La cultura è una realtà complessa in continua evoluzione, e il processo di appropriazione consente di spiegare contemporaneamente l’evidenza del cambiamento culturale (appropriarsi di qualcosa significa ricombinarla e ricostruirla in qualche modo), sia quella della continuità culturale (una volta che certi aspetti culturali sono stati appropriati, tendono a restare stabili). 4. La cultura fra mediazione e partecipazione 4.1. Cultura come mediazione Entro la cornice qui delineata la cultura si prefigura come luogo e processo di mediazione fra le persone e i loro ambienti. Per sua natura, la cultura è una realtà trasparente, poiché noi guardiamo il mondo e gli eventi attraverso di essa e li riteniamo oggettivi nella loro consistenza e configurazione in quanto colti in modo apparentemente diret16

to e immediato. Non ci rendiamo conto che, invece, noi guardiamo il mondo adottando un punto di vista specifico che è, per l’appunto, la nostra cultura. Il rapporto fra il soggetto e l’oggetto (l’ambiente) può essere in certe occasioni diretto e immediato (come avere i piedi per terra: S-O), ma, in generale, tale rapporto è mediato dall’impiego di uno o più artefatti (S-M-O)7. Gli artefatti sono elementi del mondo materiale assunti nell’azione umana come mezzi e modi per coordinarsi con l’ambiente fisico e sociale. Di per sé, l’attività umana si serve degli artefatti come mezzi per raggiungere i propri scopi; nello stesso tempo, essa dipende ed è vincolata dagli artefatti medesimi. Gli artefatti non esistono in modo isolato, ma sono connessi fra loro e con la vita sociale in modo più o meno organico. Wartofsky (1979) e Cole (1995) distinguono tre categorie di artefatti: a) artefatti primari sono quelli impiegati direttamente per l’attività umana: essi consistono in strumenti e dispositivi che i soggetti di una data comunità usano abitualmente per interagire fra di loro e con l’ambiente (dal martello ai nuovi mezzi di comunicazione) e costituiscono la «cultura materiale»; b) artefatti secondari sono le rappresentazioni mentali degli artefatti primari e dei modi di azione a essi associati: consistono in modelli mentali e simboli, intesi sia come schemi cognitivi impiegati per rappresentare gli oggetti sia come aspetti più astratti (norme, credenze, ecc.) presenti nell’interazione sociale e costituiscono la «cultura ideale»; c) artefatti terziari servono a costruire il mondo dell’immaginazione e della fantasia nell’ambito del gioco e nell’arena del non pratico; rientrano in questo ambito i diversi fenomeni e processi artistici nelle loro diverse espressioni creative; qui siamo in presenza della «cultura espressiva». Gli artefatti, prodotti dagli esseri umani, occupano una posizione di mediazione fra loro e l’ambiente, poiché la cultura organizza l’uso di questi mezzi in attività specifiche (da cacciare e cucinare a lavorare il legno, a pianifica17

re il futuro, ecc.). La mediazione è un processo attivo che contribuisce in modo rilevante a organizzare, gestire e controllare le attività e le interazioni fra le persone. Infatti, gli artefatti vanno intesi come convenzioni e costituiscono pratiche sociali che si trovano, nello stesso tempo, sia all’interno della mente sia all’esterno nel contesto pubblico. Essi giocano un ruolo essenziale nel dare forma all’azione (e le azioni parlano più fortemente delle parole), ma non la determinano in modo automatico: gli artefatti esercitano la loro efficacia solo quando le persone li usano in modo appropriato. Grazie agli artefatti il rapporto fra soggetto e ambiente è reso culturale. La presenza di un’azione mediata, tuttavia, non significa che il percorso di mediazione sostituisca quello naturale, così come la comparsa della cultura nell’evoluzione non vuol dire che la cultura sostituisca l’evoluzione stessa. Il soggetto mantiene una serie di azioni dirette, come stare con i piedi per terra e guardare l’albero mentre lo colpisce con l’ascia, ma l’incorporazione di artefatti nell’attività crea una nuova relazione fra organismo e ambiente, relazione in cui il culturale (ciò che è mediato) e il naturale (ciò che è immediato) operano in modo sinergico. Come esito di questa condizione si crea un’interdipendenza costante fra le possibilità di una data azione, l’impiego appropriato degli strumenti attualmente a disposizione, il loro continuo miglioramento e l’invenzione di nuovi strumenti che vengono ad aumentare le potenzialità dell’azione medesima8. Su tale interdipendenza si fonda il progresso della tecnologia, che costituisce un fattore non secondario di evoluzione delle singole culture, a qualunque livello si collochino. L’inserimento di nuovi strumenti culturali nell’attività di mediazione inevitabilmente la trasforma. Per esempio, nuovi sistemi e mezzi di comunicazione modificano notevolmente una cultura, poiché forniscono nuove categorie nella struttura del linguaggio parlato e scritto (per esem18

pio, la grammatica degli Sms inviati con il cellulare). È in atto ciò che Tomasello (1999) ha definito come «effetto a dente di arresto» (ratchet effect): una volta raggiunto un certo artefatto, esso è soggetto solo a modifiche successive, dalle quali non è più possibile tornare indietro. La mediazione svolta dalla cultura è universale e trasversale in quanto investe tutti gli ambiti dell’esistenza umana, da quelli alimentari a quelli medici e biologici, a quelli religiosi e politici, sociali, ludici e artistici. Essa ci fornisce dispositivi ovvi, scontati e automatici per capire e gestire la realtà. Risulta naturale vivere nel modo in cui si è imparato a vivere, come se fosse l’unico modo per condurre l’esistenza umana, condiviso da tutti gli altri esseri umani. La cultura appare quindi come una lente incorporata in noi che distorce la percezione e la valutazione di qualsiasi evento. Si tratta di una lente di cui non ci rendiamo conto fino a quando non incontriamo culture di altre comunità che fanno riferimento ad artefatti diversi. Tali differenze fanno emergere (a volte in modo repentino) la coscienza della propria appartenenza culturale, il senso della propria identità culturale, nonché la distanza da altre culture. 4.2. Cultura come partecipazione La cultura a cui noi siamo abituati oggi non è esistita da sempre. Neppure si può far coincidere la cultura con la storia, ossia con la presenza di documenti scritti o trascritti. Non si può nemmeno immaginare che la cultura sia sorta all’improvviso grazie a una mutazione genetica e alla comparsa di un modulo cerebrale destinato a tale funzione, o che sia un dono di Dio (Boehm, 2006). Piuttosto, la cultura è una invenzione della specie umana attraverso una serie continua di progressi e scoperte, avvenuti dapprima in modo lento e poi sempre più rapidamente (cfr. cap. 2). In quanto produzione umana, la cultura è l’esito di un processo di costruzione sociale attraverso la parteci19

pazione dei soggetti, poiché essi creano la cultura cui partecipano. La cultura è un processo collettivo, dal momento che non può essere il risultato di un’azione individuale, anche se ogni soggetto contribuisce a fornire una data fisionomia alla cultura di cui è parte. Per definizione, la cultura è partecipazione, poiché essa implica la condivisione dei processi di significazione, di comunicazione, di pratiche e di valori, nonché l’accordo sulle regole da parte delle persone che la costituiscono. La situazione di partecipazione rimanda, anzi tutto, al concetto di diversità, intesa come lo scarto culturale che due o più persone (o gruppi) percepiscono e dichiarano esistere nel momento in cui entrano in una qualche forma di contatto. In questo senso la diversità non è una proprietà oggettiva, di per sé connaturata alla struttura di una certa cultura, bensì è una qualità percepita di natura relativa e interattiva. Non si è intrinsecamente diversi, ma si è diversi agli occhi di qualcun altro e rispetto a un qualche punto di vista. La diversità non è una entità ma una relazione. Occorre allora individuare mediante un confronto gli aspetti e i criteri rispetto ai quali s’istituisce la diversità stessa. Di conseguenza, si può prendere parte a uno scambio solo in quanto si è diversi (due elementi identici possono produrre unicamente tautologie). In ogni comunità umana «le differenze sono la norma» (piuttosto che l’eccezione) e la cultura va intesa come «organizzazione delle diversità» (Wallace, 1961). Ciò che caratterizza le persone che condividono la medesima cultura non è l’uniformità ma la capacità di una reciproca prevedibilità. Una comunità ha successo e può sopravvivere non quando i suoi membri hanno la medesima visione del mondo, ma quando le loro differenze sono riconosciute e gestite attraverso la coesistenza di diversi punti di vista. Secondo la prospettiva del dialogismo, proposta da Bachtin (1981), i processi culturali costituiscono un divenire non formalizzato di differenti voci secondo un anda20

mento ciclico e rigenerativo. Il dialogo è fondato sull’eteroglossia, ossia sulla partecipazione fra parlante e destinatario nell’elaborare congiuntamente i significati attraverso un processo di apertura di senso. In ogni scambio culturale il discorso del parlante è riempito da molte voci differenti. Infatti, la sua voce non solo rispecchia tempi (passato, presente e futuro), gruppi sociali e appartenenze differenti, ma risuona anche insieme con quella dell’interlocutore a cui si rivolge e a cui pare rispondere in anticipo in un gioco comunicativo senza fine. Le parole, i gesti e le azioni non hanno un significato fisso e definitivo, ma sono semplici indizi che acquisiscono un senso specifico e concreto solo all’interno di un dato contesto, unico e irripetibile (Anolli, 2006). Sotto questo profilo i significati non vanno intesi come termini entitari, dotati di un valore semantico discreto, universale e statico, bensì come un processo in cui essi possono essere declinati in modo flessibile, mutevole e contingente in funzione delle condizioni locali del contesto di uso (Anolli, 2002a). I significati sono aperture di senso nella loro incompletezza e costituiscono disponibilità all’interpretazione e completamento inferenziale da parte dell’interlocutore. La cultura implica una sorta di pensiero dinamico attraverso l’impiego di categorie mobili per cogliere il senso degli eventi e dell’interazione in corso (Shore, 1996). In questa prospettiva la cultura non è un territorio circondato da confini. Essa è piuttosto un confine, anzi è un insieme di confini, poiché «il regno della cultura è interamente distribuito lungo i confini» e «i confini sono dappertutto, attraversano ogni suo aspetto» (Bachtin, 1981, 67). Sono i confini – cioè le differenze – alla base della produzione di senso (Bruner, 1986, 1990). Il senso delle cose è dato dai confini fra le cose medesime e dal confronto fra le loro differenze. Talvolta, questi confini possono diventare barriere invalicabili, come avviene nelle diverse espressioni di radicalismo culturale che prevedono forme 21

di chiusura ideologica, valoriale e comportamentale. Al riguardo, è interessante osservare che in ogni macrocultura si creano minoranze che si attribuiscono la missione di difendere l’identità culturale e che assumono atteggiamenti d’intransigenza verso le altre culture (cfr. cap. 5). Di norma, si tratta di confini invisibili che diventano chiaramente visibili non appena valicati Per esempio, nel raccontare le sue ricerche antropologiche, Geertz (1995) evidenzia che, quando era a Giava e stava studiando la lingua locale, i suoi insegnanti lo correggevano meticolosamente su tutti gli errori linguistici riguardanti il rango sociale e trascuravano totalmente gli errori di genere. Quando, invece, si trovò in Marocco, i suoi istruttori non tolleravano alcun errore di genere, mentre erano indifferenti a quelli concernenti lo status. Ciò dimostra che la mente è culturalmente definita attraverso discorsi e mondi molteplici (van Dijk, 1998). La sua natura è dinamica (non statica), organismica (non meccanicistica), attiva (non passiva), dialogica e partecipativa (non individualistica). Il significato di un atto culturale può essere compreso in profondità solo quando incontra un significato diverso ed estraneo, poiché insieme generano una partecipazione che supera la chiusura e l’unilateralità dei singoli significati considerati a sé stanti (Geertz, 1975). La partecipazione è un processo attivo e crea nuovi percorsi di senso. Non è la convergenza meccanicistica né la semplice combinazione di due o più culture. Ogni cultura mantiene la propria unità e totalità aperta, senza negare se stessa. Nello stesso tempo, tuttavia, le culture si arricchiscono insieme in modo reciproco. In quanto partecipazione di senso, la cultura ordina e delimita nello stesso tempo lo spazio della realtà a cui conferisce senso, la rende comprensibile e intelligibile, attribuisce rilevanza a certi contenuti e ne trascura altri, privilegia certi punti di vista e ne ignora altri. Da queste tacite opzioni (assunte in modo scontato e acritico come se fossero qualcosa di naturale) derivano differenti mappe del 22

medesimo territorio in funzione del diverso processo di rappresentazione e valutazione cognitiva. Ne consegue che la consapevolezza culturale, ossia la capacità di comprendere a fondo i processi, i punti forti e i limiti della propria cultura, costituisce una premessa rilevante per comprendere le culture altrui e per prendervi parte in modo attivo. Qui non è in gioco un processo dialettico, bensì partecipativo e situato nel superamento di una concezione astorica e astratta della cultura. In sintesi, partecipare a una cultura significa essere parte di essa e influenzarla nel momento stesso in cui se ne è parte, come ha posto in evidenza la cosiddetta teoria dei sistemi dinamici (Fogel, 1993). Quando un soggetto partecipa a un’attività culturale, la influenza nel momento stesso in cui ne è influenzato attraverso un processo reciproco senza fine. Essere parte di uno scambio significa non solo far parte di quello scambio, ma anche essere influenzato da parte dell’interlocutore così come influenzarlo da parte nostra. Questa interdipendenza nei processi d’influenzamento comporta sia il superamento del concetto di causalità lineare nel flusso delle interazioni interculturali, sia la consapevolezza delle responsabilità delle singole parti in gioco nella definizione reciproca e nella costruzione di un sistema di scambi interculturali. In conclusione, se la cultura è una realtà interna ed esterna articolata in questo modo, allora ha senso occuparsi della mente umana e chiedersi se noi siamo in grado di pensare solo secondo categorie monoculturali o se siamo capaci di fare riferimento a modelli culturali diversi (e abbiamo allora una mente multiculturale). Non è un problema di poco conto, con i tempi che corrono. È in gioco la possibilità (concreta) del dialogo, della comprensione e della convivenza. È in gioco la probabilità di costruire una società pluralista oppure di chiudersi in un’identità cieca e ignorante. È in gioco la capacità d’impiegare le risorse a disposizione in modo propositivo anziché in modo difen23

sivo fino al loro esaurimento. Come sono morte numerose culture nel corso dei secoli, così possono nascere altre culture nei tempi futuri.

Note 1 Per esempio, la /N/ nasale velare di /banco/ o di /ancora/ ha un suono diverso dalla /n/ nasale dentale di /freno/ o di /mano/, ma per i parlanti italiani entrambi i suoni sono considerati come il medesimo fonema. 2 Van de Vijver (2001) ha molto insistito su questo punto. Tre sono le principali fonti di distorsione: a) distorsione di significato (il significato di un termine nella cultura A non corrisponde al significato dello stesso termine nelle culture B, C, D ecc.); b) distorsione di metodo (certi strumenti come i questionari e i test sono più usuali in certe culture – come quelle occidentali – rispetto ad altre culture – come quelle preletterate); c) distorsione degli item (vi sono difficoltà nella traduzione dei singoli item o domande di un questionario, di un test e così via). 3 Nella cultura latina libertas, che denota lo stato giuridico di liber (una persona che non è schiava), è definita da Cicerone come potestas vivendi ut velis (la possibilità e la capacità di vivere come uno desidera), ossia avere il controllo della propria vita. È il concetto di libertà positiva (cioè, desidero che le mie decisioni dipendano da me, non da altri né da forze esterne). Il termine inglese freedom, oltre a questo versante positivo, implica anche la concezione di libertà negativa che ha due sensi: a) non fare cose che non desidero fare; b) essere capace di fare le cose che desidero fare senza l’interferenza di altri. Nella lingua inglese quindi, oltre alle espressioni freedom of e freedom to, compare anche l’espressione freedom from (persecution, tyranny, evil ecc.). Nella cultura russa il termine svoboda, oltre a significare libertà sia in positivo che in negativo, implica anche il concetto di rilassamento, di benessere, di facilità, di essere a proprio agio. È la possibilità di muoversi in uno spazio infinito, di «straripare» ed «estendersi ovunque», senza restrizioni né vincoli di alcun tipo (è la cosiddetta «natura russa» o «russianità»). Nella cultura polacca il termine wolnos´c´, oltre a indicare la libertà personale, significa anche: indipendenza nazionale, libertà politica, sovranità. Ma, a differenza delle altre lingue, wolnos´c´ non è accompagnata da nessun complemento (né in positivo né in negativo) e indica un valore assoluto. È la Z¢ota Wolnos´c´ (la Libertà Dorata). Nella coscienza polacca il concetto di «libertà personale» (i diritti personali) si è quindi sedimentato su quello di «libertà nazionale». Di conseguenza, essa ha una

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forte connotazione morale e normativa, in quanto valore prezioso da difendere a ogni costo. 4 Per esempio, i suoni /l/ e /r/ sono percepiti come fonemi differenti in italiano e producono quindi significati differenti (come in /lane/ e /rane/), ma questa distinzione fonetica non compare, per esempio, nella lingua giapponese. 5 Per Shweder (1996, 16) lo scopo dell’osservazione partecipante è di «rendere comprensibili gli estranei». La conoscenza etnografica, quindi, «non sarà mai definitiva e generale, ma sempre circostanziale» (Toulmin, 1996, 210). 6 Altrove mi sono occupato della composizione e scomposizione dei significati (Anolli, 2006). In particolare, secondo la concezione avanzata (o estesa) del prototipo, ogni significato è composto da proprietà essenziali e da proprietà tipiche. Le prime sono le proprietà comuni a tutti i membri di una categoria semantica e definiscono l’appartenenza alla categoria in negativo (per esempio, per il significato di uccello sono due le proprietà essenziali: l’essere oviparo, e l’avere il becco; chi non ha il becco e non fa le uova, non può far parte della categoria semantica uccello). Le proprietà tipiche sono proprietà specifiche aggiunte, soggette a eccezioni e cancellabili (per esempio, per il significato di uccello proprietà tipiche sono avere le piume, essere capace di volare, avere le ali, ecc.). 7 In questo ambito risulta fondamentale la nozione duale di oggetto, in quanto realtà materiale da un lato e socialmente costruita dall’altro. L’oggetto in sé come dato e realtà «naturale» («oggetto naturale», in tedesco Objekt) va distinto dall’oggetto in quanto artefatto inserito nell’attività umana («oggetto mediato», in tedesco Gegenstand). In quest’ultima accezione l’oggetto si presenta come un’entità costruita in modo collettivo sotto forma materiale o ideale mediante la quale è soddisfatto uno specifico bisogno umano. 8 Come esempio è sufficiente pensare al bastone per il salto con l’asta: dalle aste di legno nelle Olimpiadi del 1896 (record di 3,30 m) a quelle di bambù (record di 4,80 m nel 1957, ottenuto dal grande Warmerdam) alle aste in acciaio e alluminio per giungere alle attuali aste in fibra di vetro (record attuale di 6,15 m ottenuto da Sergej Bubka). Il costante miglioramento dell’asta ha consentito, assieme all’individuazione di nuove tecniche, di passare da un record a un altro in modo continuo nel corso degli anni.

II

Come gli uomini sono diventati uomini

Per comprendere la complessità della cultura e le ragioni per cui oggi abbiamo bisogno di una mente multiculturale, occorre analizzare le modalità in cui è comparsa e si è evoluta la cultura nella specie umana. È necessario dunque capire in quale modo la nostra specie, diversamente dalle altre, è diventata una specie simbolica dotata di una cultura superiore. La cultura non è nata insieme al genere umano. Gli ominidi si sono staccati dalle altre scimmie antropomorfe 6-7 milioni di anni fa. Dal cespuglio degli ominidi, circa 150.000 anni fa, è comparsa in Africa la nostra specie, Homo sapiens. La cultura è nata molto dopo. Sono passate decine di migliaia di anni prima che si potesse parlare di cultura. D’altra parte, la nostra specie è emersa di recente, frutto di un percorso accidentale, costellato da eventi contingenti, salti evolutivi, interferenze casuali e coincidenze improbabili (McKee, 2000). L’evoluzione della nostra specie ha avuto e ha tuttora un andamento rapsodico (Pievani, 2002). Soffermiamo la nostra attenzione su questi aspetti per capire il percorso di nascita ed evoluzione della cultura. Il passato è sempre una chiave importante (anche se non sufficiente) per la comprensione del presente e del futuro. 26

1. Cenni sull’evoluzione della specie umana Gli ominidi sono una famiglia di primati che, pur condividendo con gli scimpanzé oltre il 99% del genoma, intorno ai 6,5 milioni di anni fa si è differenziata in modo radicale rispetto alle altre grandi scimmie antropomorfe (scimpanzé, bonobo, gorilla e orangutan). Nel 2001, nel deserto del Chad un gruppo di ricercatori francesi ha trovato dei resti fossili che, per la conformazione della mandibola (come le dimensioni ridotte dei canini, l’assenza del diastèma – lo spazio che esiste fra canini e incisivi nelle scimmie – e il prognatismo ridotto), sono stati attribuiti al primo ominide, chiamato Sahelanthropus tchadensis (soprannominato Toumaï, che vuol dire «speranza di vita» nella lingua goran; Brunet et al., 2002). Da allora è iniziata l’avventura dell’evoluzione del genere umano che, passando attraverso numerosi anelli e salti evolutivi, è giunta fino alla comparsa di Homo sapiens circa 150.000 anni fa. Gli studi di genetica molecolare, condotti da numerosi ricercatori (Cavalli-Sforza, 1996; Howells, 1976; Wilson e Cann, 1992) hanno dimostrato che l’attuale specie umana ha avuto origine in Africa da una popolazione iniziale alquanto limitata, compresa fra i 10.000 e i 30.000 individui (teoria dell’Eva africana). Essendo una specie esploratrice e quindi nomade, dedita alla caccia e alla raccolta di cibo, Homo sapiens iniziò a emigrare dall’Africa circa 80.000 anni fa per colonizzare tutti i continenti in tempi successivi (teoria dell’Out of Africa II)1. In Europa Homo sapiens giunse circa 30.000 anni fa (il cosiddetto «uomo di Cro-Magnon», in base ai reperti fossili trovati nella valle del Vézère in Francia). Per milioni di anni gli ominidi – da Homo habilis (vissuto fra 2,5 e 1,7 milioni di anni fa) a Homo erectus (vissuto fra 1,7 e 0,3 milioni di anni fa) – hanno continuato a produrre in modo pressoché invariato manufatti litici monofacciali prima (i cosiddetti choppers) e bifacciali poi. L’industria litica, nelle sue diverse forme, prosegue fino al neo27

litico, circa 8.000 anni fa. In termini evolutivi, è come dire «è arrivata fino a un minuto fa». Poco più di 300 generazioni rispetto alle oltre 250.000 che si sono susseguite dal momento della separazione con gli scimpanzé. L’industria litica può essere considerata una forma primitiva di protocultura, ma non cultura a tutti gli effetti, in quanto non ne presenta le distintive caratteristiche. Quando è sorta la cultura allora? Quali ne sono state le premesse remote e recenti? Per rispondere a queste domande occorre prendere brevemente in considerazione la complessa rete di relazioni fra gli aspetti e i processi biologici (cosiddetti «naturali») e quelli extrabiologici (cosiddetti «culturali»). 2. Coevoluzione fra gene e ambiente In principio era la biologia, poiché i vincoli biologici e genetici condizionavano le varie forme di vita sulla terra. Tuttavia, nel corso dell’evoluzione, attraverso i processi della selezione naturale e delle mutazioni, in diverse specie animali, in particolare in quella umana, si assiste alla comparsa della cultura. Essa implica non solo una condizione di parziale indipendenza dalla biologia e dai suoi vincoli, ma anche forme rilevanti di controllo e manipolazione sui medesimi processi biologici. I complessi rapporti fra cultura e biologia rimandano a una problematica complicata che in questa sede non si può certo sviluppare come meriterebbe. Alcuni cenni sono tuttavia opportuni. Con l’Illuminismo diventa più esplicita e consapevole la distinzione fra «natura» e «cultura» (o «civiltà», come si preferiva dire allora). Da una parte c’era la «natura» (l’insieme delle informazioni genetiche, come diremmo oggi) e dall’altra la «cultura» (l’insieme delle informazioni extragenetiche). Il dibattito fra natura e cultura (nature-nurture nella definizione proposta da Galton, 1883) è proseguito in psi28

cologia con l’opposizione fra innatismo e ambientalismo. Il primo, sostenuto – fra gli altri – da studiosi come Galton, Gesell (1928) e più recentemente da Chomsky (1957) in campo linguistico e Plomin e McGuffin (2003), ritiene che la dotazione genetica attivi condotte specie-specifiche comuni a tutti gli umani e che quindi sia alla base dello sviluppo dei soggetti e dei gruppi, ovunque essi si trovino. La storia individuale sarebbe una sorta di «decorso naturale» delle informazioni genetiche del genoma. Il corredo genetico svolgerebbe dunque una funzione normativa e prescrittiva nello sviluppo del soggetto. Per contro, l’ambientalismo, sostenuto – fra gli altri – da Watson (1924) e più recentemente dal costruzionismo sociale (von Glaserfeld, 1995), pone in evidenza l’influenza determinante della cultura (e dell’ambiente in generale) nel definire lo sviluppo dell’individuo in modo indipendente dalle sue predisposizioni e inclinazioni naturali. Le differenze generate dalle culture di appartenenza sono ritenute profonde, spesso incolmabili, certamente irriducibili. In passato, si era cercato di superare questa contrapposizione facendo ricorso al concetto di «interazione fra natura e cultura» (Dewey, 1925). Di norma, si è intesa tale interazione in forma additiva «natura + cultura», lasciando isolati i due fattori. Anche la prospettiva del «consenso interazionista» risulta problematica, poiché i fattori in gioco costituiscono delle incognite e non si sa quale sia la parte (o addendo) della natura e quale sia la parte della cultura nel determinare il valore finale della somma. La concezione additiva «natura + cultura» appare un artificio meccanicistico e dualistico che non ha fondamento nei processi reali dell’esistenza. Qualunque posizione fosse assunta, si dava per scontata l’esistenza della dicotomia natura-cultura. Essa va considerata come uno degli errori più gravi del pensiero occidentale, poiché rimanda a una forma cartesiana di dualismo radicale, incapace di spiegare l’unitarietà dell’espe29

rienza umana. Natura e cultura sarebbero due realtà distinte, dotate di una propria autonomia e collegate fra loro da qualche tipo di rapporto. Oggi, alla luce dei risultati acquisiti dalla genetica e dallo studio della cultura, la distinzione natura-cultura sembra aver perso significato e importanza. Non esiste la natura umana nella sua assolutezza, poiché non esiste una natura umana in astratto, indipendente dalla cultura. Per definizione, la natura umana è culturalmente situata (Anolli, 2004). Di conseguenza, esistono tante e diverse «nature umane», come Ehrlich (2000) ha sottolineato con vigore. Anche la specie umana, pur essendo oggi unica e non differenziandosi in razze (cfr. cap. 4), presenta diversi profili biologici per la presenza (o assenza) di particolari polimorfismi. Ghiselin (1997) si spinge oltre, considerando il concetto di «natura umana» come «una superstizione» che appartiene ai tempi passati (Buller, 2005, 420). Tutte le informazioni genetiche («naturali»), infatti, non sono a sé stanti e isolate in un ambito separato ma sono sempre situate in un ambiente, a iniziare dal citoplasma della cellula e dall’utero per l’ovulo fecondato. La trasmissione delle informazioni genetiche è necessariamente mediata da un contesto e da un ambiente. Anche nel caso di gemelli siamesi la perfetta identità genetica non produce soggetti identici, poiché fra di loro compaiono rilevanti differenze connesse a diverse esperienze ambientali (Rose, 2005). Allo stesso tempo, non esiste una cultura che non sia vincolata da fattori biologici e dalle condizioni ambientali in cui si situa. Di conseguenza, natura e cultura sono due fattori che, pur avendo ciascuno a disposizione dei propri gradi di libertà, procedono in modo interdipendente, in quanto collegati da intrinseci rapporti d’influenza reciproca. Secondo questo modello della interdipendenza intrinseca, la cultura dipende dalla natura nel medesimo tempo in cui media la natura (da cui dipende) per adattarla alle condizioni dell’ambiente e per renderla ottimale in funzione dei 30

propri scopi (Anolli, 2004). Anche recentemente Levinson (2006) ha definito un modello analogo chiamandolo «teoria del percorso gemellare fra gene e cultura»2. Siamo di fronte a un processo non «interattivo» ma «co-costruttivo» fra gene e cultura, come sottolinea la cosiddetta teoria dei sistemi di sviluppo (Developmental Systems Theory) proposta da Oyama (2000) e confortata dalle ricerche di genetisti come Bateson (2004; Bateson e Martin, 1999) e Lewontin (2000). Il genoma va considerato come la sede della potenzialità (e non della necessità) e come sorgente di flessibilità e opportunità di apprendimento (e non come cieca trasmissione d’informazioni; Rose, 2005). Il gene quindi è un marcatore di differenze in un ambiente specifico ma non è in grado di programmare una risposta appropriata per ogni situazione (Ehrlich, 2000)3. In sintesi, non esiste una natura umana astratta e indipendente dalla cultura, poiché la cultura è il luogo indispensabile per colmare il divario fra le informazioni dei geni e ciò che dobbiamo sapere e fare per vivere. Su tale base è stata proposta la teoria della doppia ereditarietà (o coevoluzione fra gene e cultura), secondo cui, grazie alla coevoluzione intrinseca fra biologia e cultura, la storia di un soggetto e di un gruppo umano è guidata congiuntamente sia dalla selezione naturale sia dalla selezione culturale (Cavalli-Sforza e Feldman, 1981; Deacon, 1997). La coevoluzione fra gene e cultura conduce alla costruzione della propria nicchia ecologica, che consente di modificare le pressioni della selezione naturale e di regolare l’interazione fra organismo e ambiente allo scopo di raggiungere un buon grado di adattamento e definire un certo percorso nel proprio habitat. 3. Premesse remote della cultura La cultura affonda le sue radici nella notte dell’evoluzione della specie umana. Oggi l’ipotesi più accreditata considera la cultura come l’esito dell’azione concomitante di mol31

ti fattori (genetici ed extragenetici; Jablonka e Lamb, 2005). Anche senza accogliere la spiegazione gradualistica e progressiva cara a Darwin, e pur aderendo a impostazioni più recenti che considerano l’evoluzione come un percorso caratterizzato da lunghi periodi di stasi, salti e momenti di rottura (come il modello degli equilibri punteggiati di Eldredge e Gould, 1972), occorre tuttavia ammettere che la cultura si fonda su alcune premesse che, per comodità espositiva, ho distinto in remote e recenti. Fra le premesse remote farò cenno solo ad alcune che, a mio avviso, meritano particolare attenzione. a) Bipedismo e stazione eretta. La differenziazione e la specializzazione fra arti superiori e inferiori implicano una profonda modificazione dell’assetto morfologico dell’organismo umano (compreso il canale da parto nella donna). La mano si specializza nella presa e nelle azioni tecniche (grazie soprattutto all’opponibilità del pollice), mentre il piede si specializza nella marcia in stazione eretta. In tal modo il piede libera la mano, che a sua volta libera la bocca per la parola (Leroi-Gourhan, 1964). b) Quoziente di encefalizzazione. La stazione eretta ha modificato la configurazione generale del nostro organismo, rendendo verticale la posizione del foro occipitale (foramen magnum) con la testa eretta sulla colonna vertebrale, mentre nelle scimmie la testa sporge in avanti sorretta da potenti muscoli nucali. Tale modificazione ha favorito, assieme ad altre condizioni, l’aumento del quoziente di encefalizzazione (ossia il rapporto delle dimensioni del cervello umano rispetto a quello di un primate non umano di pari peso) che passa da 3,1 per i primi ominidi a 5,8 per gli uomini contemporanei. Nelle scimmie antropomorfe la capacità cranica è di circa 450-500 cm3, mentre negli umani è di circa 1.400 cm3. Ciò significa che nell’arco di due milioni di anni il volume del cervello umano è aumentato di oltre il 300%, con particolare sviluppo della superficie neocorticale che, grazie alle circonvoluzioni, occupa il 70-80% del cervello. Secondo Ruff, Trinkhaus e 32

Holliday (1997), lo sviluppo del cervello umano avrebbe avuto una crescita esponenziale a partire da circa 150.000 anni fa e lo sviluppo della neocorteccia è particolarmente importante – fra l’altro – per la gestione dei rapporti sociali (Dunbar, 2006)4. Lo sviluppo del sistema nervoso centrale con i suoi cento miliardi di neuroni (morfologicamente indipendenti ma funzionalmente interconnessi) rappresenta una condizione biologica essenziale per la comparsa della cultura, in quanto rappresenta un supporto materiale necessario per elaborare gli stimoli provenienti dall’ambiente. Se consideriamo che non esistono due neuroni eguali fra loro e che ogni neurone, di norma, è collegato a diecimila altri neuroni (ma talvolta a molti di più), ci rendiamo conto della potenza del nostro sistema nervoso per captare stimoli, elaborare informazioni e conservare ricordi. Fra l’altro, lo sviluppo del sistema nervoso centrale – in particolare, della regione neocorticale – ha consentito l’espansione della capacità di progettazione. Gli ominidi del genere Homo, da habilis in poi, hanno dimostrato di possedere e sviluppare la capacità di progettazione, ossia di compiere una sequenza coordinata di azioni intenzionali per raggiungere uno scopo, nonché di fare previsioni per anticipare a livello cognitivo il possibile svolgimento di accadimenti futuri. Per esempio, l’attività di caccia, sorta per esigenze ambientali di sopravvivenza, richiede la capacità di colpire il bersaglio in modo accurato. Tale condotta di progettazione e previsione è diventata progressivamente più complessa, implicando l’attivazione di connessioni nervose, molto simili a quelle poi operanti nel linguaggio (Calvin e Bickerton, 2000). c) Neotenia. Lo sviluppo encefalico si associa con una condizione di prematuranza biologica generale del neonato al momento del parto. Essa implica il prolungamento dello stadio infantile (neotenia) poiché, data la nuova configurazione del canale da parto nella donna a ragione della stazione eretta, il cervello del neonato pesa circa il 25% 33

di quello adulto (350-400 cm3). Di conseguenza, il suo sviluppo – soprattutto per quanto concerne la creazione delle sinapsi e dei circuiti nervosi – avviene per tre quarti in ambiente extra-uterino. Ciò comporta una grande esposizione del neonato all’ambiente culturale in cui cresce, nonché una dipendenza vitale e prolungata dalla madre, con la conseguente costituzione di forti legami di attaccamento. In questo modo il piccolo dell’uomo da organismo biologico diventa progressivamente un soggetto culturale (cfr. cap. 3). d) Apparato vocale. La comparsa della cultura è connessa altresì alla capacità di produrre una gamma estesa, fine e complessa di suoni vocalici. Senza un preciso apparato vocale non è possibile parlare. Si possono emettere grida e richiami di allarme, come nelle scimmie antropomorfe, ma non articolare suoni vocalici per fare un discorso. L’evoluzione di questo apparato ha comportato una definita conformazione del tratto vocale sopralaringeo, composto da due cavità: quella faringea5 e quella orale. Tale conformazione ha reso possibile l’emissione di vocali e consonanti (fonemi) che hanno consentito innanzitutto la produzione di parole isolate e poi del linguaggio. Con 40 fonemi è possibile creare una lingua e nelle prime lingue naturali documentate (come l’antico babilonese, il caldeo, il sanscrito) si trovano molti vocaboli semplici, quasi tutti bisillabi occlusivi. Oggi si arriva a 120 fonemi, sufficienti per tutte le lingue naturali esistenti (che sono oltre 7.000 nel mondo). È evidente che senza un apparato vocale appropriato, anche il linguaggio non avrebbe potuto fare la sua comparsa. L’apparato vocale umano è alquanto recente a livello evolutivo, poiché se ne ha evidenza solo con Homo neanderthalensis (anche se la sua cavità faringea era notevolmente più corta). In Homo sapiens l’acquisizione definitiva della postura eretta e l’aumento dell’encefalo hanno indotto processi di ristrutturazione delle ossa craniche che, a loro volta, hanno causato cambiamenti nell’apparato vo34

cale. Il mento, che serve a mantenere costante lo spazio del pavimento boccale, è assai più mobile che negli altri primati. Tali mutamenti hanno spostato la lingua all’indietro, con la conseguente discesa della laringe nel collo e l’estensione della cavità faringea. e) Ovulazione nascosta. Nella maggior parte delle scimmie antropomorfe il periodo dell’ovulazione (estro) è indicato da parte della femmina con segni esteriori evidenti (odori, suoni, colorazione della cute dei genitali, ecc.). Di per sé, l’estro è garanzia di prolificità e di continuità della discendenza. Per contro, nella specie umana le donne hanno un’ovulazione nascosta. Infatti, in concomitanza con l’acquisizione della posizione eretta, le femmine degli ominidi avrebbero perso l’estro a seguito delle pressioni della selezione naturale per rendere difficile l’identificazione della paternità e per impedire l’infanticidio6. L’ovulazione nascosta rappresenta a prima vista uno svantaggio evolutivo, in quanto non favorisce di per sé la prolificazione. Tuttavia, essa offre altri vantaggi importanti per l’evoluzione culturale della specie umana. Anzi tutto, favorisce il passaggio da un’attività sessuale periodica a una più distribuita nel tempo per avere la garanzia della fecondazione. Tale condizione, inoltre, è alla base del rafforzamento del desiderio e dell’attrazione reciproca, poiché si realizza una sconnessione fra l’attività sessuale destinata solo a fini riproduttivi e l’attività sessuale di per sé gratificante (Buss, 1994). Su questa base si pongono le premesse per la costruzione di legami stabili di coppia e per il coinvolgimento del maschio nell’allevamento condiviso del piccolo, al fine di favorirne la sopravvivenza (SillénTullberg e Møller, 1993). 4. Premesse recenti della cultura Stare in piedi, saper cacciare, cominciare a servirsi delle parole, curare la prole: pur essendo necessarie, da sole non 35

sono condizioni sufficienti per costruire una forma avanzata di cultura. Per arrivare a questo traguardo, occorre saper interagire in modo stabile e produttivo con altri consimili. Occorre possedere e gestire un potente sistema simbolico di pensiero e di comunicazione. Parliamo così delle premesse recenti sottese alla comparsa e all’evoluzione della cultura. 4.1. L’avvento dell’agricoltura Circa 10.000 anni fa la comparsa della cultura è stata fortemente influenzata dall’avvento dell’agricoltura (fine della glaciazione di Würm e inizio dell’Olocene). Molto probabilmente l’inizio dell’agricoltura ebbe luogo in Medio Oriente, nella regione della cosiddetta «mezzaluna fertile» – un territorio compreso fra il Libano, Israele, il nord della Siria, la Turchia meridionale e il nord-est dell’Iraq – (Braidwood, 1960). Sino ad allora Homo sapiens era stato un nomade raccoglitore e cacciatore che si spostava regolarmente alla ricerca di cibo. Circa 10.000 anni fa diventa stanziale, si lega a una data regione, inizia ad addomesticare e allevare animali, impara a coltivare la terra e a selezionare sementi7. Prende così avvio la cultura contadina, che durerà fino ai giorni nostri: si passa dalla raccolta del cibo alla sua produzione e conservazione. È in atto un passaggio cruciale per capire le origini della cultura nella specie umana. Per quali motivi l’uomo è diventato agricoltore? Diverse sono le ipotesi avanzate a questo riguardo. Anzi tutto, si è pensato che in quel periodo vi sia stato un aumento della densità di popolazione, accompagnato da una diminuzione dei mammiferi di grossa taglia da cacciare (Cohen, 1977). Ma tale ipotesi gode oggi di modesta credibilità a seguito dell’elaborazione di precisi modelli malthusiani (Hayden, 1995). È più probabile che l’agricoltura abbia preso avvio al termine della glaciazione di Würm, quando rilevanti variazioni climatiche (aumento 36

dell’anidride carbonica – da 180 ppm durante l’ultima glaciazione a 250 ppm all’inizio dell’Olocene –, aumento delle piogge, ecc.) favorirono lo sviluppo delle piante, ponendo a disposizione una grande varietà e quantità di sementi selvatiche da raccogliere e seminare (Cowling e Sykes, 1999). Durante il Pleistocene l’agricoltura era materialmente impossibile per le avverse condizioni climatiche (Boyd e Richerson, 2005). Qualunque sia la ragione che ha indotto gli esseri umani a diventare agricoltori, essi ne colsero immediatamente i vantaggi. La coltivazione della terra assicurava loro il cibo in modo permanente, poiché potevano farne scorta e conservarlo (accumulazione di risorse). Tale condizione favorisce un aumento della densità della popolazione umana (fino ad allora gli uomini erano circa un milione in tutto il mondo). Comporta altresì una nuova impostazione di vita. L’agricoltura libera dall’impegno di cercare cibo ogni giorno (come succedeva per raccoglitori e cacciatori) e favorisce in modo esponenziale lo sviluppo di nuove competenze simboliche (compreso il denaro per regolare gli scambi), tecnologiche e artistiche. Nascono le realtà e i relativi concetti di territorio e di Stato, di espansione e di conquista (avere più terre e risorse), di suddivisione dei compiti e delle attività lavorative (specializzazione del lavoro), di organizzazione e stratificazione sociale (gerarchia sociale), di difesa e di attacco (forze militari), nonché di controllo e gestione delle risorse (economia, politica, religione). L’avvento dell’agricoltura coincide con ciò che è stata chiamata la rivoluzione del Neolitico, con lo sviluppo di nuove tecniche di lavorazione della pietra, con la lavorazione della ceramica e così via. 4.2. La nascita del linguaggio In principio era l’azione, per riprendere il detto faustiano di Goethe. Dopo, molto dopo è venuta la parola. Per milioni di anni gli ominidi prima e gli uomini poi hanno co37

municato fra loro in modo non verbale, attraverso i movimenti del corpo, come i gesti, la mimica del volto, lo sguardo, le grida e i richiami. In molti casi tali comportamenti erano diventati sequenziali, collettivi e ritualizzati, come nelle attività di caccia e di predazione. La parola ha senso solo se s’innesta all’interno di sistemi di comunicazione precedenti e a lungo collaudati. Altrimenti, rischia di essere solo flatus vocis. Com’è noto, la comunicazione non verbale non è univoca ma si articola in una gamma di differenti modalità comunicative. Nello specifico, si compone di diversi e distinti sistemi di segnalazione e significazione, morfologicamente indipendenti e funzionalmente interconnessi8 (Anolli, 2006) Il limite drammatico della comunicazione non verbale è che essa, pur essendo efficace per la coordinazione delle attività, per manifestare gli stati emotivi e mentali, per regolare le relazioni sociali (attrazione, ostilità, dominio, sudditanza, indifferenza, ecc.), ha un grado di astrazione e simbolizzazione molto basso (eccetto che per la lingua dei segni, che è una lingua a tutti gli effetti). La comunicazione non verbale trova enormi difficoltà a esprimere concetti e significati sia di realtà astratte (pensiamo come potremmo esprimere a livello non verbale l’idea di «libertà», di «giustizia» o di «democrazia») sia di oggetti naturali e di artefatti (sul piano non verbale risulta impossibile comunicare la differenza fra «quercia» e «olmo»). La comunicazione non verbale, da sola, non è in grado di dare origine alla cultura. È la parola che consente alla cultura di nascere. La parola, infatti, è capace di manifestare idee, concetti e significati di qualsiasi genere. Permette di esprimere ad altri i simboli che ciascun individuo elabora nella propria mente. Di conseguenza, si può dire che la nascita della cultura coincide con la nascita della capacità simbolica degli esseri umani grazie al linguaggio. Non è sufficiente pensare alla cultura come semplice capacità di trasformare l’ambiente (molte altre specie animali lo fanno). Negli esseri umani la cultura nasce nel mo38

mento in cui essi, tramite il linguaggio, diventano in grado d’inventare, condividere e tramandare simboli (ossia le rappresentazioni mentali che in modo convenzionale consentono di raffigurare situazioni percettive della realtà, anche in assenza dei corrispettivi stimoli sensoriali). I simboli non sono fotocopie della realtà, bensì strutture mentali flessibili e dinamiche, attraverso cui è possibile produrre varie forme di zoom mentale, fare rotazioni e inversioni d’idee e immagini, comunicarle e condividere con altri. Il linguaggio diventa il luogo e lo strumento principale per dare espressione alla capacità simbolica degli umani9. In quanto tale, la nostra è una specie simbolica, in grado di produrre, condividere, diffondere e tramandare simboli e quindi cultura (Deacon, 1997). Com’è sorto il linguaggio? Sono numerose e differenti le ipotesi avanzate per spiegare le origini del linguaggio nella specie umana. Vale la pena di menzionare le principali. a) Teoria della discontinuità. Per Chomsky (1988) l’abilità del bambino di apprendere la propria lingua materna in modo rapido ed efficiente in poco tempo è data da una specializzazione cognitiva della specie umana (simile al sonar dei pipistrelli) che egli chiama Grammatica Universale (GU). Questo «organo del linguaggio» è una dotazione biologica innata (grammar box), capace di elaborare all’infinito simboli astratti, codificata nei geni che determinano la struttura nervosa del cervello. In quanto tale, la GU è un modulo distinto e separato dalle altre abilità cognitive e costituisce un’unità completa e chiusa, non decomponibile. Per questa ragione Chomsky si oppone a una spiegazione evoluzionista del linguaggio, poiché esso è così differente da qualsiasi caratteristica degli altri primati non umani che non può essersi evoluto da sistemi comunicativi precedenti. La spiegazione del linguaggio va cercata nei processi fisici e chimici dell’organismo più che nell’evoluzione. Al più, si può ammettere che un insieme sconnesso 39

di elementi, spinti dalla selezione naturale, si siano aggregati per un fortunato accidente a formare la GU (PiattelliPalmarini, 1989). In tal modo l’origine del linguaggio sarebbe un prodotto secondario e imprevisto della selezione, come il pennacchio sull’arco di una chiesa. Siamo in presenza dell’ipotesi del salto linguistico, secondo cui la comparsa del linguaggio sarebbe avvenuta all’improvviso, in una volta sola, attraverso una mutazione genica unica (ipotesi dell’evoluzione unica)10. b) Ipotesi del protolinguaggio. Nel tentativo di conciliare Chomsky e Darwin, Bickerton (1990, 1995) ha proposto la teoria del protolinguaggio. Partendo dall’ipotesi che esiste un «bioprogramma» linguistico in base a cui gli esseri umani apprendono il linguaggio, occorre vedere in che modo si è evoluta tale competenza. Il protolinguaggio, parlato già da Homo erectus, sarebbe stato un linguaggio telegrafico, composto solo da parole, privo di una grammatica, la cui comprensione si fondava sugli aspetti pragmatici del contesto. Per milioni di anni gli ominidi avrebbero parlato solo il protolinguaggio (non ancora scomparso dal genoma della specie umana)11. Secondo Bickerton (1990), il passaggio dal protolinguaggio al linguaggio sarebbe avvenuto all’improvviso, in una volta sola, con un salto repentino in concomitanza della comparsa di Homo sapiens (ipotesi catastrofica). Una singola mutazione, avvenuta ai tempi dell’Eva Africana, avrebbe riorganizzato il cervello, fornito una nuova configurazione al tratto vocale e dato luogo alla sintassi. Bickerton aderisce quindi alla teoria del grande salto in avanti, secondo cui l’evoluzione della specie umana sarebbe stata caratterizzata da un improvviso e forte progresso, con una rapida riorganizzazione del cervello umano, l’affermazione di nuove tecnologie per la lavorazione dei manufatti litici e la comparsa del linguaggio (Diamond, 1989; Tattersall, 2002). Nell’ambito del linguaggio questa transizione rapida sarebbe avvenuta grazie al processo di creolizzazione, in 40

modo analogo a quanto succede oggi nel passaggio dal pidgin alle lingue creole. Il pidgin, infatti, è appreso da bambini di generazioni successive e può divenire la lingua madre di una comunità di parlanti poiché questi introducono un sistema grammaticale di regole. In tal modo il pidgin si trasforma in un idioma creolo (che è una lingua a tutti gli effetti). Un processo analogo avrebbe avuto luogo nel passaggio repentino dal protolinguaggio al linguaggio vero e proprio12. c) L’istinto del linguaggio. Al pari di Bickerton, anche Pinker (1994) si propone di conciliare la concezione di Chomsky con quella di Darwin, ma segue un percorso teorico diverso. Prende spunto dalla definizione di Darwin secondo cui il linguaggio è composto da due metà: una metà arte e una metà istinto. Secondo Pinker il linguaggio non è un’invenzione culturale per usare dei simboli, ma un istinto specie-specifico a motivo della sua universalità. In quanto tale, esso dovrebbe avere una sede identificabile nel cervello e probabilmente nel genoma. Diversamente da Chomsky, tuttavia, Pinker ritiene che il linguaggio si sia evoluto sotto le pressioni della selezione naturale. Contrariamente a Bickerton, inoltre, egli sostiene che il linguaggio non sia comparso all’improvviso, ma che sia stato una forma di adattamento evolutivo (come l’occhio) attraverso progressivi cambiamenti influenzati dalla selezione naturale. Al pari dell’occhio, nel corso del tempo si sarebbe verificata una graduale accumulazione di mutazioni genetiche che avrebbero favorito la comparsa e il consolidamento del linguaggio. Pinker introduce così una concezione gradualistica nell’evoluzione dell’istinto del linguaggio attraverso una serie sfumata e continua di passaggi successivi13. d) Teoria della continuità. La prospettiva gradualistica nell’evoluzione del linguaggio è stata ripresa e approfondita, fra altri studiosi, anche da Jackendoff (2002), che parla di continuità evolutiva nella comparsa del linguaggio. Secondo questa ipotesi il linguaggio è articolato in sot41

tosistemi parzialmente indipendenti, ciascuno dei quali ha seguito una propria linea evolutiva in modo progressivo e parallelo verso forme di maggiore successo. In base a questo modello, l’uso di singoli simboli avrebbe condotto in primo luogo alla condivisione di significati da parte dei membri di un clan. Tale uso si sarebbe poi combinato con la convenzionalizzazione delle vocalizzazioni, in modo da produrre un sistema fonologico categoriale-digitale all’interno del proprio gruppo. A sua volta, il sistema fonologico avrebbe dato origine a un sistema combinatorio di suoni in grado di generare un numero illimitato di parole. Successivamente la concatenazione di simboli avrebbe reso possibile la costruzione di frasi più estese, regolate dall’ordine delle parole (prima il soggetto-agente e poi l’oggetto-tema). Sarebbero poi comparse parole per rappresentare i concetti relazionali (di tempo, di spazio, di causa, ecc.). Secondo Jackendoff, l’evoluzione dell’architettura del linguaggio prevede che il linguaggio sia un insieme di sistemi più semplici e che, in quanto tale, vi siano dei progressi in grado di affinare le singole componenti (ipotesi incrementalista). e) L’origine sociale del linguaggio. Dunbar (1996, 2004) ha posto l’attenzione sulle origini sociali del linguaggio, prendendo avvio dall’osservazione che presso i primati non umani è molto diffusa la pratica del grooming (azione prolungata e minuziosa di pulizia del pelo di un consimile). Tale pratica occupa circa il 20% delle loro attività quotidiane. Oltre a svolgere un’effettiva operazione d’igiene, il grooming serve altresì a stabilire un rapporto di vicinanza, a stringere legami sociali, creare alleanze, definire rapporti di amicizia e favorire le condizioni di cooperazione. Per questo motivo, più è largo il gruppo, più tempo si dedica al grooming. Inoltre, Dunbar pone in evidenza che il cervello umano si è sviluppato soprattutto per elaborare le informazioni sociali più che quelle fisiche (cfr. par. 4.3). Nei primati non umani, come nei babbuini e negli scimpanzé, la cor42

teccia cerebrale può far fronte alle informazioni provenienti da gruppi che ammontano a circa 40-50 individui. In questo contesto l’attività del grooming risulta appropriata, ma sarebbe del tutto inefficiente con gruppi di dimensioni maggiori come quelli umani (in media 150 individui), poiché richiederebbe troppo tempo (oltre il 40% del totale). Come conseguenza le pressioni della selezione naturale nella specie umana hanno portato a sostituire il grooming con il linguaggio. Dunbar ha osservato, infatti, che sia il grooming che il linguaggio (soprattutto se provoca risate) stimolano la produzione di endorfine. Tuttavia, il linguaggio è molto più efficiente ed efficace del grooming per due motivi: gli umani possono parlare e fare altro nello stesso tempo e, in secondo luogo, si può conversare con diversi interlocutori contemporaneamente mentre si può fare il grooming a un solo partner. Dunbar conclude sottolineando che la maggior parte della comunicazione (circa due terzi, secondo le sue ricerche) è destinata al pettegolezzo. La prevalenza di questa forma di comunicazione è spiegata dall’esigenza di conoscere chi è l’altro, che cosa fa, pensa e prova, con chi vive, ecc. Infatti, i gruppi vivono di comunicazione, poiché senza comunicazione non avrebbero elementi per portare avanti la loro storia (Anolli, 2006). Il pettegolezzo è un dispositivo potente per creare, mantenere e rinnovare i legami sociali, poiché in modo efficace partecipa a definire le appartenenze, a rinsaldare le alleanze, a ravvivare i sentimenti di fiducia, a ribadire una certa gamma di valori e di norme, ecc. (Benvenuto, 2000). f) Teoria motoria. Secondo la teoria motoria, già avanzata da Condillac (1746), il linguaggio va inteso come evoluzione dei sistemi di comunicazione gestuali e mimici impiegati dagli ominidi per interagire fra loro (Corballis, 2002; Givón, 1995). Tali sistemi andrebbero considerati come forme di protolinguaggio attraverso l’impiego di segni comunicativi convenzionali di natura iconica e spaziale. Esistono, infatti, evidenze paleoantropologiche a con43

ferma del fatto che la specializzazione originaria dell’emisfero sinistro fosse motoria, connessa alla manualità per la produzione di manufatti litici. In tale emisfero hanno sede strutture e circuiti nervosi deputati al controllo dei movimenti delle dita, della mano e delle braccia, nonché di quelli della laringe, della bocca e delle labbra (apparato vocale). Vi sarebbe quindi una stretta associazione fra i centri motori e quelli linguistici (Kimura, 1976). In questa prospettiva il linguaggio s’innesterebbe in modo incrementale su moduli cognitivi extralinguistici preesistenti e su centri nervosi già sviluppati, rispetto ai quali costituirebbe un’integrazione e un avanzamento. Fra gli altri, merita particolare menzione la scoperta del sistema dei neuroni specchio, attivati dalla visione di movimenti da parte di consimili. Tale sistema consente di riconoscere e comprendere gli stati psichici dell’interlocutore e d’inferire la sua intenzione comunicativa (Rizzolatti, 2005; Rizzolatti e Arbib, 1998). Esso è anche alla base dei processi d’imitazione (Rizzolatti, Fogassi e Gallese, 2001). In conclusione – se è possibile concludere questo discorso – al momento attuale nessuna delle ipotesi sopra citate risulta soddisfacente. L’enorme ricchezza e potenza del linguaggio costituisce una sfida per la teoria evoluzionista. È una funzione troppo complessa per essere comparsa in una volta sola come risultato di una mutazione sconvolgente, ma anche per essersi evoluta gradualmente in modo continuo. Né la prospettiva della discontinuità né quella della continuità hanno trovato evidenze empiriche. Forse, per il linguaggio, più che per altre competenze, può valere il modello degli equilibri punteggiati (Eldredge e Gould, 1972). Tuttavia, una volta comparso, il linguaggio è diventato un dispositivo molto potente e si è moltiplicato fra le varie popolazioni fino a giungere alle oltre 7.000 lingue naturali attuali. Una cosa è certa: con la comparsa del linguaggio la specie umana aveva a disposizione uno strumento estre44

mamente efficace per produrre cultura. Con il linguaggio la specie umana è diventata compiutamente una specie simbolica, poiché il linguaggio consente una comunicazione non solo referenziale ma anche simbolica. In quanto tale, esso è caratterizzato dalla composizionalità (ossia il fatto di essere costituito in modo ricorsivo da unità componibili), dalla computazionalità (ossia la disposizione generale della mente a procedere nei confronti della realtà con calcoli, a confrontare elementi, a cogliere le differenze esistenti, a fare paragoni, a categorizzare gli oggetti e gli eventi, ecc.), nonché dalla proposizionalità (ossia la capacità a elaborare, organizzare e trasmettere conoscenze sotto forma di proposizioni) (Anolli, 2006). 4.3. Cooperazione e inibizione L’avvento dell’agricoltura e la comparsa del linguaggio, pur essendo condizioni necessarie per illustrare le origini della cultura, da sole non sono sufficienti. Non vi può essere cultura se non vi è società. Anzi tutto, la cultura avanzata, tipica della nostra specie, implica una condizione di ultrasocialità (Tomasello, 1999). Anche se la vita sociale costituisce una situazione piuttosto rara nel regno animale (di circa un milione di specie d’insetti solo il 2% è sociale; Jaisson, 2006), l’antenato comune agli ominidi e agli scimpanzé già viveva in gruppo (Boyd e Richerson, 1985). Tuttavia, la socialità si è evoluta in modo differente fra i primati non umani e gli umani. Innanzitutto, sembra che esista una precisa e importante interdipendenza fra sviluppo della neocorteccia e socialità: quanto più la neocorteccia è estesa, tanto più la capacità di elaborare le informazioni sociali è elevata e tanto più il gruppo dei soggetti con cui gestire i rapporti diventa ampio, e viceversa (Dunbar, 1996). Mentre i gruppi di primati non umani variano fra i 40 e i 60 individui, nella specie umana siamo in grado di mantenere rapporti stabili nel tempo con circa 150 individui e tale valore corri45

sponde alla numerosità sia dei clan di cacciatori e raccoglitori (e tuttora presso i !kung san dell’Africa) sia dei gruppi dell’era moderna (dalla coorte dell’esercito romano alla catena di montaggio). In secondo luogo, mentre la cooperazione nei primati non umani concerne sostanzialmente il gruppo dei consanguinei (Boehm, 1999, 2006), l’ultrasocialità della specie umana comporta forme di cooperazione anche con consimili sconosciuti. La sociobiologia e la psicologia evoluzionista hanno cercato di spiegare l’altruismo in termini di selezione naturale attraverso il concetto di «idoneità globale» (o «indiretta», inclusive fitness): l’atto altruistico aumenta la capacità riproduttiva del ricevente a spese del donatore ottenendo però un vantaggio globale per il gruppo superiore a quello raggiungibile senza l’atto altruistico14. Nella specie umana la socialità si è estesa a forme di collaborazione anche con sconosciuti, andando oltre i possibili benefici genetici. Sono state avanzate diverse ipotesi per cercare di capire questa condizione. Frank (1988) ha fatto riferimento a disposizioni innate in base alle quali risulta meno costoso collaborare con altri che fare ricorso a inganni, soprusi o comportamenti fraudolenti. Tooby e Cosmides (1989) hanno ipotizzato una sorta di apprendimento specie-specifico, poiché Homo sapiens è sempre vissuto in gruppo e ha imparato a riconoscere i consimili, anche quando non erano consanguinei. Altri studiosi hanno ritenuto che la reciprocità morale fosse alla base della collaborazione (Binmore, 1994; Trivers, 1971). Il principio di cooperazione prevede che le condotte favorevoli dei cooperatori siano premiate e ricompensate, e che il comportamento dei non cooperatori sia sanzionato e punito. Altri ancora hanno sottolineato che la selezione fra gruppi genera risultati favorevoli ai gruppi stessi (Boyd e Richerson, 2005). Per gestire al meglio le risorse e per adattarsi all’ambiente ogni gruppo umano, anche esteso, era vincolato a sviluppare norme cooperative. Questa condi46

zione, nel tempo, ha favorito la costruzione di un’identità sociale nel confronto con altri gruppi. A sua volta, Hauser (2000, 2006) ha sottolineato l’interdipendenza fra la capacità di cooperazione degli umani e il controllo inibitorio nei confronti delle emozioni e dei desideri, anche quando queste sensazioni attivano reazioni intense. Al contrario di scimpanzé e altre scimmie, infatti, gli umani dispongono di meccanismi inibitori efficaci per regolare le proprie azioni e per favorire i rapporti con gli altri individui. 4.4. La teoria della mente L’emergere del linguaggio, l’incremento delle competenze simboliche e lo sviluppo della cooperazione e del senso morale hanno favorito congiuntamente la comparsa di una teoria della mente (theory of mind o ToM) negli esseri umani. In generale essa può essere definita come la capacità di «leggere» la mente degli altri (mindreading), attribuendo loro stati mentali che possono essere diversi dai propri. Nello specifico, la ToM, che compare nel corso dell’infanzia (cfr. cap. 3), è la capacità di interpretare, spiegare e prevedere le azioni dei consimili, attribuendo loro stati e processi mentali quali desideri, modelli interpretativi, credenze e intenzioni. Questa teoria implica quindi la capacità di rappresentare a se stessi rappresentazioni mentali altrui (metarappresentazione o rappresentazione di secondo livello). I presupposti della ToM sono quindi: a) considerare gli altri come dotati di stati mentali; b) ritenere che esiste una relazione causale fra questi stati mentali e gli eventi del mondo fisico e sociale (in quanto ne possono essere sia la causa che l’effetto). Si tratta di processi fondamentali e costitutivi dell’interazione culturale fra due o più interlocutori. L’acquisizione della ToM, indipendentemente dall’ipotesi teorica che si vuole seguire, rappresenta un potente di47

spositivo per lo sviluppo delle competenze culturali negli esseri umani. Essa, infatti, costituisce un processo di mentalizzazione che rende i soggetti interlocutori più validi e competenti sul piano dell’interazione sociale e della comunicazione. La ToM favorisce in modo esponenziale i processi di condivisione dei significati, poiché pone le premesse per verificare e confrontare le reciproche rappresentazioni mentali degli oggetti e degli eventi. In questo processo si ha la possibilità di porre a confronto le rispettive percezioni, di esaminare le proprietà (concrete e progressivamente sempre più generalizzate e astratte) di un dato oggetto o fenomeno, di arricchire la gamma predicativa a propria disposizione. L’esito basilare di questo processo di mentalizzazione consiste nella capacità di apprendere nuovi simboli attraverso altri simboli, e non soltanto dagli accadimenti e dalle esperienze contingenti. L’apprendimento simbolico rappresenta un’enorme espansione delle possibilità di apprendimento culturale da parte dei soggetti, in quanto li rende attori sempre più attivi e partecipi ai processi e agli scambi interpersonali e collettivi. 5. Evoluzione della cultura Le culture nascono, si sviluppano, arrivano al loro apogeo, declinano più o meno lentamente e poi muoiono. La comparsa e la scomparsa delle culture è un fenomeno tipico (anche se non esclusivo) dell’umanità, di cui si hanno notizie storiche (documentate) a partire da circa 4.000 anni prima di Cristo. Attorno al 3.000 a.C. ci sono la cultura egizia (dal primo faraone Menes a Cleopatra), la cultura dei canaaniti e dei fenici (che termina con l’avvento dell’impero persiano, 500 a.C. circa) e la cultura di sumeri e babilonesi (anch’essa si conclude con l’inizio dell’impero persiano). Al 3.100 circa a.C. risalgono i primi documenti scritti cuneiformi (siti di Uruk e Susa). Fra le culture oggi esi48

stenti le più antiche (in termini di continuità) sono quella cinese (dinastia Shang) e quella etiope (regno di Kush), che risalgono entrambe a circa 4.000 anni fa. Seguono la cultura giapponese (periodo Jomon e Yayoi) e quella vietnamita (regno di Funam e di Champa), che iniziano intorno al 600-500 a. C. La cultura è un processo che va sempre avanti e non si ripete mai. Di volta in volta assume forme diverse, non necessariamente migliorative, a cui tutti i soggetti prendono parte. I «ricorsi» a cui pensava Vico sono, al massimo, delle somiglianze parziali. Per questa ragione si parla di evoluzione culturale, intesa come la costellazione dei cambiamenti riguardanti i modelli di condotta e gli stili di vita da una generazione all’altra. In quanto tale, l’evoluzione culturale presenta differenze radicali rispetto a quella biologica (genetica). Mentre quest’ultima è governata dal flusso delle generazioni, l’evoluzione culturale ha un ritmo assai più rapido e veloce. È sufficiente pensare che dall’inizio dell’agricoltura a oggi sono passate circa 400 generazioni, che dall’inizio della rivoluzione industriale sono trascorse poco più di otto generazioni e che l’avvento dell’era dei computer è iniziata appena due generazioni fa. Inoltre, mentre l’evoluzione genetica avviene solo per linea verticale (di padre in figlio), quella culturale può avere luogo in senso sia verticale che obliquo (da zio a nipote) e orizzontale (fra pari) all’interno della stessa generazione. Allo stesso modo, diversamente dall’evoluzione genetica, per quella culturale vale il principio lamarckiano di eredità dei tratti acquisiti: un figlio può appropriarsi di gusti, tendenze e stili di vita dei genitori. Infine, mentre l’evoluzione biologica è determinata dal caso e dalla selezione naturale – che non ha finalità precise –, quella culturale è soggetta all’attività consapevole e pianificata da parte degli attori. La loro condotta intenzionale e finalizzata al raggiungimento di scopi definiti influenza profondamente (a molti livelli e in diversi modi) la dire49

zione e il ritmo evolutivo di qualsiasi cultura15. È in gioco un processo programmato di costruzione collettiva che comporta l’acquisizione cumulativa dei cambiamenti di volta in volta realizzati. Tuttavia, anche all’evoluzione culturale si potrebbe applicare il modello degli equilibri punteggiati di Eldredge e Gould (1972). All’interno di questo quadro occorre tenere presente che dal momento della sua comparsa (circa 10-12.000 anni fa) la cultura ha rappresentato, al massimo, il 5-6% della storia evolutiva della specie umana (iniziata circa 150180.000 anni fa). Tale consapevolezza aiuta a evitare ogni forma di provincialismo temporale, che consiste nell’assolutizzare un certo periodo storico, ritenendo che gli umani siano sempre stati eguali a quelli osservabili in un dato periodo storico e che tali resteranno16. Non si può assolutizzare e rendere eterno l’istante evolutivo che viviamo. A una teoria del prodotto, fondata sulla comprensione del perché esistano forme di vita ritenute fisse e universali, occorre sostituire una teoria del processo, finalizzata a capire i cambiamenti continui che hanno luogo nel corso delle generazioni. 5.1. L’evoluzione culturale fra meme e istruzione L’evoluzione culturale è stata ed è tuttora oggetto di diverse interpretazioni. Con la concezione del gene egoista, Dawkins (1976, 1986) sostiene che i geni sono replicatori di se stessi, che gli organismi vanno considerati come forme transeunti di questo processo di duplicazione genetica, e che il successo evolutivo dei geni consiste nel fatto di copiarsi servendosi di un organismo in cui si trovano temporaneamente. In tale prospettiva gli organismi si riducono a essere mezzi per la riproduzione dei geni (che rimangono immortali). Pertanto i geni, considerati come replicatori, sono le reali unità della selezione naturale e «gli organismi diventano semplici veicoli per i replicatori» (Dawkins, 1982, 114). 50

Dawkins aggiunge che la cultura umana ha introdotto un nuovo genere di replicatore: il meme (contrazione del greco «mimeme», che significa «imitazione»), inteso come un elemento di una data cultura che è trasmesso da un individuo a un altro per via extra-genetica attraverso la sua copia. I memi, in quanto «virus della mente», sono informazioni mentalmente codificate e ripetute da una generazione a un’altra. In tal modo, gli esseri umani «sono costruiti come macchine per i geni e acculturati come macchine per i memi» (p. 231). In modo ancora più esplicito Blackmore (2000) sostiene che «non siamo né gli schiavi dei nostri geni né agenti razionali liberi capaci di costruire cultura […]. Siamo parti di una vasta evoluzione in cui i memi sono i replicanti evolutivi e noi siamo le macchine per i memi» (p. 54). A parte la difficoltà di definire che cosa sia esattamente un «meme», il concetto di evoluzione come semplice riproduzione è stato criticato da Sperber (2000), poiché la memetica (ossia la scienza dei memi) non è in grado di spiegare i cambiamenti culturali. Per nostra fortuna, non siamo dei perfetti ripetitori né degli schiavi destinati solo a copiare fedelmente i modelli dei predecessori. Il fatto che attribuiamo certe intenzioni agli altri genera dei gradi di libertà che modificano tutto il dispositivo culturale. Questo non consiste nella mera ripetizione (o clonazione) bensì nella ricostruzione attraverso cui il novizio trasforma l’informazione dell’esperto. A tali osservazioni occorre aggiungere che la riproduzione dei memi non può avvenire in modo né isolato né meccanicistico. Nella ragnatela della cultura non vi sono elementi fissi, discreti e separati. Tutte le cosiddette «unità culturali» presentano confini sfumati e continui, e sono fra loro reciprocamente interconnesse in un processo dinamico senza fine. Per loro natura, le culture non sono sistemi in sé definiti e chiusi, delimitati da confini netti. Già Hannerz (1996) aveva posto in evidenza l’insostenibilità 51

di una teoria del mosaico riferita alla grande famiglia delle culture. A fronte di una concezione replicazionista della cultura, quella istruzionista offre una spiegazione alternativa ed euristicamente più feconda. L’attività nervosa, generata dalla condotta del soggetto nell’interazione con l’ambiente, induce la formazione di nuove connessioni sinaptiche in aggiunta a quelle preesistenti. L’esperienza fornisce una serie di «istruzioni» estrinseche in grado di generare nuove modulazioni dei circuiti neurali (Elman et al., 1996). Anche se i geni organizzano la struttura complessiva, i circuiti nervosi non sono programmati geneticamente, ma acquisiscono la loro configurazione e funzione mediante l’attività neurale in risposta alle stimolazioni ambientali (Quartz e Sejnowski, 1997). La prospettiva istruzionista si ricollega esplicitamente alla concezione di Hebb (1949), che aveva sottolineato con forza l’idea della plasticità neurale in connessione all’attività nervosa indotta dall’esperienza17. In generale, gli assoni attivi si ramificano e propagano nuove connessioni per la formazione di nuove sinapsi (Martin e Kandel, 1996). La maggior parte delle strutture cerebrali è in grado di apprendere dall’esperienza, poiché questa può modificare le proprietà delle loro sinapsi (LeDoux, 2002). La scoperta del potenziamento a lungo termine (PLT) fatta da Bliss e Lømo (1973) è stato un importante passo in avanti per capire la plasticità neurale e spiegare la memoria. Il PLT consiste nell’applicazione di uno stimolo potenziante (per esempio, una breve scarica d’impulsi ad alta frequenza) a una via nervosa; a seguito di questo stimolo potenziante la risposta sinaptica aumenta notevolmente rispetto alla risposta standard e si mantiene per ore. Si è visto che il PLT crea nuove connessioni sinaptiche grazie alla liberazione di neurotrofine (molecole stimolanti per la sopravvivenza e per la crescita dei neuroni) da parte della cellula postsinaptica (Engert e Bonhoeffer, 1999). Parimenti, il PLT svolge una funzione centrale nell’elabo52

razione dei ricordi attraverso la sintesi di proteine che possono sopravvivere tutta la vita (anche se i collegamenti sinaptici durano pochissimo, al massimo qualche secondo). In particolare, si sono distinti PLT precoci da PLT tardivi, ritenuti omologhi della memoria a breve e a lungo termine (Morgan e Teyler, 1999). Il riconoscimento della plasticità neurale, oltre a gettare luce sui processi sottesi alla costruzione delle memorie (esplicita e implicita, episodica e semantica, dichiarativa e non dichiarativa), consente di attribuire anche un diverso significato alla cultura come luogo elettivo dell’esperienza e processo in divenire. In altre parole, la plasticità neurale consente di capire meglio in che modo è possibile costruire la mente culturale. Oggi è accettato il fatto che la capacità di essere modificati dall’esperienza sia una caratteristica di molti sistemi cerebrali, indipendentemente dalla loro funzione specifica (LeDoux, 2002, 423). L’interdipendenza ricorsiva fra dispositivi biologici e processi culturali appare quindi come la prospettiva più interessante per comprendere i fenomeni dell’evoluzione della cultura. Infatti, l’apprendimento (individuale e sociale) e i programmi genetici (innati) lavorano congiuntamente e conducono a un incremento delle dimensioni cerebrali (Boyd e Richerson, 2005) che, a loro volta, sono sottese alla gestione dei rapporti sociali e alla produzione di nuovi percorsi culturali (Dunbar, 2004; Rose, 2005). 5.2. Accumulazione e innovazione La presenza di aspetti culturali è abbastanza comune anche presso i primati non umani. Per esempio, Whiten e altri (2001) hanno fornito una mappa delle variazioni culturali osservate in diversi gruppi di scimpanzé. Parimenti, è ben noto il caso della pulizia delle patate da parte dei macachi giapponesi (Hirata et al., 2001). Ma la cultura umana appartiene a un diverso ordine qualitativo. Uno degli aspetti centrali di questa diversità consiste nel fatto che, 53

mentre gli elementi culturali presso i primati non umani sono molto lenti nella loro diffusione, la cultura umana è caratterizzata da un forte, rapido ed efficace processo di accumulazione. Tomasello (1999) ha ipotizzato che alla base dell’evoluzione cumulativa della cultura vi sia il dispositivo che egli ha definito effetto a dente di arresto: una volta raggiunto un certo artefatto, questo è soggetto soltanto a modifiche successive, dalle quali non si può più tornare indietro. Tale processo è spiegabile attraverso i meccanismi di appropriazione e di apprendimento imitativo sopra esposti. Questi meccanismi sono così potenti da consentire alla specie umana di diventare ubiquitaria e di adattarsi alle condizioni ambientali più distanti: dal deserto del Kalahari dove vivono i !kung san al circolo polare dove abitano gli inuit, alla foresta amazzonica dove si trovano gli aché. In modo apparentemente controintuitivo, imitazione e appropriazione contribuiscono con efficacia ai processi di differenziazione culturale. Le diversità culturali sono insite negli stessi ingranaggi che producono cultura. Da qui deriva una prima osservazione sul cosiddetto «paradosso della cultura»: da un lato, la cultura è un dispositivo molto potente per gestire e regolare le differenze (tendenza centripeta); dall’altro, essa stessa genera e moltiplica le differenze (tendenza centrifuga). In secondo luogo, appropriazione e imitazione contribuiscono a spiegare anche il processo di innovazione culturale. Alla base di imitazione e appropriazione non vi sono solo processi riproduttivi ma anche produttivi, in grado di ristrutturare alcuni aspetti culturali e di modificarli nel tempo (Bourdieu, 1980). La produzione introduce uno scarto fra il modello e la sua copia. Spesso lo scarto è piccolo; talvolta però può essere enorme e in questi casi vi saranno le condizioni per generare nuovi modelli. Questi, a loro volta, potranno diventare i punti di partenza per nuovi percorsi divergenti di sviluppo. L’evoluzione della cultura appare così come un intreccio ramificato di linee e 54

traiettorie che, per certi aspetti, sono fra loro in sintonia e in sinergia e che, per altri aspetti, si distinguono per la loro tipicità e unicità. L’innovazione è il frutto dell’attività dei singoli soggetti inventivi (o learners; Boyd e Richerson, 2005). Sono loro che hanno il coraggio del rischio, la temerarietà dell’errore ma anche la consapevolezza della novità e l’ardore della scoperta. Già Lakatos (1977) aveva posto in evidenza che la scienza (e, di conseguenza, la cultura) va avanti grazie all’elaborazione di «ipotesi rischiose» e «progressive». Un esempio per tutti è l’azzardo dell’ipotesi di Einstein sulla relatività basata solo su calcoli matematici. È utile rammentare che, sebbene il lavoro di creazione possa essere svolto in gruppo (come nel brainstorming), alla fine la sintesi creativa appartiene sempre alla mente dei singoli soggetti. In generale, ogni cultura va considerata come la manifestazione suprema della creatività umana. Essa consente l’invenzione e la costruzione di soluzioni geniali, innovative e imprevedibili ai vincoli posti dall’ambiente (ma questo è un aspetto che merita di essere approfondito in seguito; cfr. cap. 5). Grazie alla dimensione simbolica e alla costruzione di modelli mentali finalizzati ad affrontare i problemi posti dagli ambienti più differenti, gli esseri umani hanno saputo inventare forme di vita radicalmente diverse da comunità a comunità. Fra loro, tutt’al più, vi può essere una certa «rassomiglianza di famiglia» (per dirla con Wittgenstein), che rimanda alla stessa specie ma che implica altresì fisionomie e profili culturali profondamente differenti.

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Note 1 Si parla di Out of Africa II in quanto la specie di Homo erectus era emigrata dall’Africa in un periodo compreso fra un milione e 300.000 anni fa arrivando, da una parte, fino a Pechino e a Giava e, dall’altra, fino in Europa (scavi di Torralba in Spagna e di Isernia in Italia). Questa prima migrazione mondiale fu chiamata Out of Africa I. 2 Sviluppando queste considerazioni, l’epigenetica ha posto in evidenza che l’espressione delle informazioni genetiche segue diversi percorsi di sviluppo nella produzione di cellule e tessuti in relazione a e in dipendenza dalle condizioni ambientali (van Speybroeck, van de Vijver e de Waele, 2001). Lo stesso corredo genetico assume configurazioni ed esiti diversi a seconda degli scenari ambientali che percorre (Waddington, 1957; cfr. cap. 3). 3 Un esempio è la tolleranza al lattosio, come evidenzia Durham (1991). Da circa 7000 anni, gli esseri umani, a differenza di altre specie animali, continuano a consumare latte anche dopo lo svezzamento. Ma tale dieta non è universale. Si è visto che le popolazioni del Nord America e del Nord Europa e quelle dedite alla pastorizia nel Medio Oriente e nell’Africa sono capaci di digerire il lattosio anche da adulti in quanto l’allele del gene LTC per la lattasi è per loro dominante («assimilatori»; fino al 99% in Danimarca e Svezia). Nella maggioranza delle altre popolazioni, invece, da adulti insorge un’intolleranza al lattosio («non assimilatori»; le popolazioni dell’Asia orientale, gli aborigeni australiani, gli amerindi, circa metà delle popolazioni dell’Europa mediterranea). È assai probabile che tale variazione genetica sia stata sistematicamente influenzata dalla dieta alimentare delle popolazioni nordiche che con il latte dovevano (e devono) supplire alla carenza di vitamina D per la mancanza di sole. A loro volta, anche le popolazioni nomadi conservano il consumo di latte per ragioni di comodità e facilità d’uso. L’influenza delle condizioni culturali sul genotipo è stata riscontrata in molti altri casi, come il diabete di secondo tipo, l’ipertensione, l’anemia falciforme (gene HbS), il metabolismo dell’alcol (influenza dell’allele recessivo ALDH2*2), la sifilide e il gruppo sanguigno 0, la malattia di Tay-Sachs presso gli ebrei ashkenazi, e così via. 4 Tutto ciò è strabiliante se pensiamo che in oltre due milioni di anni l’altezza del corpo umano è cresciuta solo del 25% e il peso di circa il 70%. 5 La funzione originaria della laringe è quella di sfintere che blocca la fuoriuscita di aria durante il vomito e che separa il deposito di aria polmonare dall’ambiente esterno. Nel corso dell’evoluzione le membrane laringee hanno assunto anche la funzione di corde vocali. In quanto tali, esse si aprono a seguito dell’aumento di pressione nella colonna di aria emessa dai polmoni e poi si richiudono per reazione elastica, pro-

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ducendo in tal modo una vibrazione dell’aria percepita come un dato suono. 6 Presso alcune specie di scimmie (come i langur) e di primati non umani (come i gorilla), quando un maschio diventa dominante, è abbastanza diffusa la pratica di sopprimere tutti i piccoli appena nati nei mesi successivi alla sua leadership, in modo da avere la sicurezza della propria discendenza. Presso la specie umana l’ovulazione nascosta impediva la certezza di paternità e diminuiva di molto il rischio dell’infanticidio (teoria dei molti padri; Diamond, 1997). 7 La comparsa di un clima mite ha favorito la coltivazione del grano e del farro nella «mezzaluna fertile», del riso nel sud della Cina, del mais e del miglio in Messico e nell’America centrale. Parimenti, ha posto le condizioni per la domesticazione di animali, come il cane in Europa, le pecore e le capre in Medio Oriente, il cavallo nell’Asia centrale, il maiale e il pollo in Cina, il bue in Anatolia, i lama nelle Ande del Sud America. 8 Possiamo ricordare il sistema vocale (paralinguistico), lo sguardo, il sistema cinesico (che comprende la mimica facciale, i gesti, la postura del corpo), il sistema prossemico (che riguarda l’occupazione dello spazio) e aptico (che concerne le varie forme del toccarsi), nonché il sistema cronemico (che si occupa del ritmo con cui svolgiamo le nostre attività). Ho approfondito altrove tali sistemi di comunicazione (Anolli, 2006). 9 Quando è nato il linguaggio? Sappiamo per certo che gli esseri umani posseggono il linguaggio da oltre 40.000 anni, poiché è stato trovato presso aborigeni australiani emigrati dalla Polinesia 40-60.000 anni fa e vissuti isolati fino ai giorni nostri (terminus ante quem). Non sappiamo invece da quando gli uomini abbiano iniziato a usare il linguaggio (terminus post quem). Oggi si stima che il linguaggio sia comparso 80-100.000 anni fa, o forse prima; ma si tratta solo di supposizioni. 10 In tempi più recenti, Hauser, Chomsky e Fitch (2002) hanno proposto un modello che attenua la precedente posizione di Chomsky. Secondo questi studiosi esisterebbe una «facoltà del linguaggio in senso lato» (faculty of language in the broad sense o FLB) che comprende il sistema senso-motorio (per produrre e ricevere i segnali acustici del linguaggio), il sistema concettuale (per generare e comprendere i significati) e il sistema computazionale (per spiegare e gestire la ricorsività, ossia la capacità di produrre un numero infinito di espressioni a partire da un numero limitato di elementi). La «facoltà del linguaggio in senso stretto» (faculty of language in the narrow sense o FLN) corrisponde a questo terzo sistema. Mentre i primi due sistemi sono condivisibili anche con altre specie animali, il terzo (FLN) è unico ed esclusivo della specie umana e presenta le stesse caratteristiche della GU. Tale modello ha suscitato una vivace risposta da parte di Pinker e Jackendoff (2005) e la discussione fra questi studiosi è tuttora in corso.

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11 Al riguardo, Bickerton ha individuato la presenza dei cosiddetti fossili del linguaggio in diversi ambiti del linguaggio contemporaneo: a) il pidgin (un linguaggio elementare, composto da brevi stringhe di parole, privo di grammatica sistematica, usato da persone nessuna delle quali conosce la lingua degli interlocutori, come il pidgin hawaiano in ambito coloniale e il russonorsk fra i marittimi russi e quelli norvegesi); b) i cosiddetti bambini selvatici (come il caso di Genie, una ragazza che per i primi 13 anni di vita era stata imprigionata e isolata nel bagno, e che successivamente imparò a usare singole parole senza mai apprendere la grammatica); c) gli afasici agrammaticali (che sanno usare solo stringhe di parole per esprimere le loro intenzioni); d) il linguaggio dei bambini piccoli (che fino a due anni circa fanno ricorso a olofrasi o a frasi composte da due parole); e) l’insegnamento del linguaggio alle scimmie (che imparano una successione di simboli geometrici o di gesti). 12 L’ipotesi del protolinguaggio di Bickerton è stata oggetto di numerose osservazioni. In particolare, risulta poco credibile l’avvento repentino di una mutazione genica in grado di ristrutturare tutto l’impianto encefalico e di generare la competenza linguistica nel volgere di poco tempo. Né si spiega come mai il protolinguaggio sia rimasto statico per centinaia di migliaia di anni, senza mostrare segni di progresso, per poi cambiare all’improvviso. 13 Il concetto di «istinto» a proposito del linguaggio appare fuorviante. Il linguaggio, pur essendo fondato a livello fisiologico e neurologico, non ha una sede cerebrale unitaria, ma differenti componenti del linguaggio attivano diverse aree cerebrali. Parlare di istinto significa inoltre prendere in considerazione solo l’individuo e ignorare gli aspetti sociali (di gruppo) del linguaggio. 14 Hamilton (1964) ha proceduto a calcolare il valore dell’altruismo attraverso la disequazione rB > C (dove B è il beneficio per il destinatario, C è il costo per il benefattore e r è il coefficiente di parentela). Secondo questa regola di Hamilton, nell’altruismo la selezione agisce in modo indiretto attraverso il successo riproduttivo di un consanguineo. Gli atti di altruismo sono tanto più frequenti quanto più sono stretti i legami di parentela. Secondo Hamilton esiste una selezione per parentela (kin selection) che favorisce i processi di riconoscimento e di cooperazione fra i consanguinei. In tal modo l’altruismo è stato spiegato in termini di egoismo genetico (Dawkins, 1976). Si è visto che tali forme di altruismo e di cooperazione sono frequenti e ripetute anche presso i primati non umani (Hauser, 2000; Tomasello e Call, 1997). Inoltre scimpanzé e altre scimmie sono abili nel tenere conto dei favori fatti (crediti) e dei piaceri ricevuti (debiti) all’interno di un’economia sociale di reciprocità (de Waal, 1982). 15 Il concetto di «evoluzione culturale» qui delineato ingloba la distinzione avanzata da altri studiosi fra evoluzione e sviluppo culturale (Delle Fave e Massimini, 2002). La prima sarebbe un puro processo di

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cambiamento che implica unicamente un aumento della fitness globale, in modo indipendente da fattori etici e valoriali. Per contro, lo sviluppo culturale comporterebbe l’introduzione di nuova informazione in un sistema, al fine d’incrementarne la complessità, intesa sia come coordinazione e integrazione interna (Tononi e Edelman, 1998), sia come interazione efficace con l’ambiente. In realtà, il concetto di «evoluzione culturale» così come è inteso in questo volume implica anche l’attenzione ai contributi generati dai vari protagonisti (privati e pubblici) di una data comunità. 16 Un esempio di tale provincialismo temporale è dato dalla teologia naturale di Paley (1802), secondo cui l’esistenza di una struttura ordinata e complessa della natura implica la presenza di un creatore intelligente – Dio – così come l’esistenza di un orologio implica a sua volta quella di un artefice (il cosiddetto «argomento del disegno intelligente», argument from design). Secondo Buller (2005), anche la psicologia evoluzionista soffre di questa difficoltà, avendo ancorato la mente umana al retaggio evolutivo acquisito dagli ominidi nel Pleistocene ed enfatizzando il concetto di «natura umana» come l’insieme dei dispositivi di adattamento allora acquisiti. 17 Se l’assone di un neurone A è abbastanza vicino per eccitare un altro neurone B in modo ripetuto e consistente, in uno o in entrambi i neuroni si producono cambiamenti metabolici e un qualche processo di crescita, per cui l’efficienza di A risulta potenziata. Inoltre, le cellule che scaricano simultaneamente si connettono fra loro. Parimenti, quando input deboli provenienti da un neurone W e input forti provenienti da un neurone S sono attivi nello stesso tempo nei confronti del neurone bersaglio A, la via debole risulta potenziata grazie all’associazione con la via forte. A questo riguardo si parla di apprendimento hebbiano per descrivere i cambiamenti nella forza di connessione fra due neuroni.

III

Il bambino: da organismo biologico a soggetto culturale

Nel corso del tempo la specie umana da aculturale è diventata culturale grazie a una serie complessa, rapsodica e fortunata di cambiamenti evolutivi. In modo simile il piccolo dell’uomo, quando nasce, appare essenzialmente un organismo biologico che necessita di continue cure parentali per la sopravvivenza. Tuttavia, assai rapidamente il bambino esce fuori da questa condizione originaria e in modo progressivo e continuo diventa un soggetto culturale, competente nella comunità di appartenenza. Questo capitolo si occuperà di analizzare proprio il percorso attraverso il quale il bambino da organismo biologico diventa un protagonista della cultura di riferimento. 1. L’immaturità psicobiologica del neonato: uno svantaggio o una fortuna? Per prima cosa, occorre partire dalla condizione d’immaturità psicobiologica del neonato al momento della nascita. Com’è noto, la prole della specie umana è inetta e alla nascita presenta una condizione d’incompetenza sostanziale, in quanto è incapace di sopravvivere da sola. Inoltre, rispetto agli altri primati, i neonati umani impiegano molto più tempo a raggiungere la maturità. È come se fossero 60

venuti al mondo troppo presto, in anticipo rispetto a quanto ci si potrebbe attendere (condizione di prematuranza). Tale condizione è il risultato di un compromesso biologico fra le dimensioni e la conformazione del canale da parto nella donna da un lato e le notevoli dimensioni del cervello e della scatola cranica del feto dall’altro. Se il cervello fosse stato più grande, il parto sarebbe potuto diventare un evento troppo rischioso. L’esito di tale compromesso è uno stato di rilevante immaturità biologica al momento della nascita, che implica un prolungamento dello stadio fetale in ambiente extrauterino (neotenia). In particolare, al momento della nascita il cervello umano è solo il 23% delle sue dimensioni finali (rispetto al 65% nei macachi e al 41% negli scimpanzé). Solo a tre anni il cervello umano è all’80% circa del suo sviluppo totale. Questa condizione biologica è la radicale differenza tra i neonati della nostra specie e quelli delle scimmie antropomorfe. Di per sé, questa situazione può apparire come un serio svantaggio evolutivo, poiché conduce alla morte certa del neonato se abbandonato a se stesso. In realtà, essa genera due grandi vantaggi. Anzi tutto, il cervello si sviluppa per lo più dopo il parto (la sua crescita avviene per tre quarti dopo la nascita) e ciò favorisce in modo rilevante la flessibilità e l’apprendimento in funzione dell’esperienza. Lo sviluppo cerebrale (e soprattutto corticale) fin da subito è influenzato in modo radicale dalle condizioni culturali dell’ambiente. Teniamo presente che il cervello del neonato continua a crescere a ritmi fetali assai rapidi dopo la nascita. In particolare, si stima che la sua corteccia cerebrale cresca al ritmo di due milioni di sinapsi al minuto (Rose, 2005). Si tratta di collegamenti nervosi che, in buona parte, hanno luogo a seguito dell’esposizione a stimoli ambientali, dalla percezione del volto materno all’allattamento, ai rumori esterni e così via. In secondo luogo, la neotenia produce una condizione di dipendenza essenziale e prolungata dagli adulti (in par61

ticolare, dalla madre). Le cure parentali costituiscono un sistema di supporto indispensabile per la crescita del figlio e, nello stesso tempo, sono un veicolo per consentirgli di appropriarsi del mondo culturale in cui vive1. Tali cure sono intrinsecamente indirizzate dalla cultura di riferimento. Per esempio, le donne nordamericane, nella definizione di sé come madri, hanno specificato che la responsabilità materna è a tempo determinato (fino all’adolescenza dei figli), che implica una cura fisica e un’attenzione affettiva ed è attuata insieme al marito, seppur in modo autonomo, all’interno del proprio gruppo familiare (Shand, 1985). Per contro, le donne giapponesi hanno sostenuto con forza che la responsabilità materna dura tutta la vita ed è innestata nella struttura familiare paterna con l’obbligo di educare un bambino rispettoso, cooperativo e fortemente orientato al dovere. È evidente che le cure parentali rimandano a precisi stili educativi che definiscono gli ambienti di apprendimento e l’habitat dei significati per il figlio, che si tratti di uno stile assertivo o di uno stile permissivo. Inoltre, esse sono espressione delle cosiddette etnoteorie parentali, ossia di un sistema sufficientemente esplicito di credenze su come allevare un figlio. Ci sono popoli che prevedono un allevamento a vicinanza con un contatto fisico continuo (giorno e notte) fra bambino piccolo e madre (o un suo sostituto) come presso i fore della Nuova Guinea, i sebei dell’Uganda o gli aché dell’Uruguay orientale. In questa condizione, per esempio, il bambino smette molto rapidamente di piangere, poiché ogni più piccolo movimento è subito avvertito e qualsiasi forma di disagio è immediatamente risolta. Al contrario, altri popoli prediligono un allevamento a distanza, e i bambini sono tenuti separati dalla madre, come avviene nelle culture occidentali. In questa situazione il pianto diventa ben presto un sistema di comunicazione, con la conseguente modulazione prosodica di differenti tipologie (pianto da fame, da dolore, da noia, ecc.), già a poche settimane di vita2. 62

In sintesi, la prematuranza, da svantaggio biologico, si trasforma in una grande opportunità evolutiva, poiché grazie a essa il piccolo dell’uomo da organismo biologico diventa un soggetto culturale. 2. La dotazione di partenza La costruzione di una mente culturale appare un’operazione particolarmente complessa e delicata; eppure, nella maggior parte dei casi, avviene in modo quasi automatico, come se fosse un processo scontato. Analizziamo alcuni passaggi fondamentali di tale processo. 2.1. L’interdipendenza gene-ambiente Innanzitutto, lo sviluppo del bambino avviene in funzione dell’interdipendenza intrinseca fra informazioni genetiche e condizioni ambientali (vincoli e opportunità). Waddington (1957) ha ripreso da Aristotele il termine «epigenetica» per indicare che l’espressione dei programmi genetici assume differenti percorsi di sviluppo nella produzione di cellule e tessuti in relazione alle condizioni ambientali. A partire da uno stato iniziale di cosiddetta totipotenzialità, lo sviluppo consiste nel progressivo restringimento dei percorsi e degli esiti evolutivi possibili in funzione congiunta sia delle informazioni genetiche disponibili sia delle condizioni ambientali contingenti e casuali (epigenesi probabilistica). All’interno dei cosiddetti paesaggi epigenetici si ottiene così una specifica canalizzazione dello sviluppo, intesa come espressione dei vincoli e delle opportunità offerti congiuntamente dai fattori genetici e da quelli ambientali. Di conseguenza, lo sviluppo dell’individuo rimanda contemporaneamente a diverse fonti (interne ed esterne) di trasformazione ed è l’esito imprevedibile di un processo costruttivo (non interattivo) definito in modo congiunto dalle informazioni genetiche e da quelle ambientali. Non vi è trasmissione meccanicistica di programmi gene63

tici, bensì una loro continua elaborazione e trasformazione. Le informazioni dei geni hanno bisogno di un contesto per potersi esprimere. Secondo Brandon (1988) i geni non producono in modo autonomo effetti costanti, stabili e affidabili sul fenotipo e non vi è una corrispondenza biunivoca lineare fra geni e tratti. I geni codificano per differenze di tratti, e le differenze sono sensibili alle contingenze del contesto e dell’ambiente. Tale interdipendenza intrinseca prende avvio già nella vita uterina del feto umano. La sua vita psichica è assai più ricca di quanto si conoscesse in passato. Dalla ventisettesima settimana circa di gestazione il feto è in grado di sentire la voce materna e per questa ragione, fin dalle prime ore di vita, i neonati discriminano e preferiscono il suono della voce materna rispetto a quella del padre o di altre donne, come pure prediligono l’impostazione prosodica della lingua materna rispetto ad altre lingue (Fifer, 2002; Lecanuet et al., 1995). Parimenti, gli stati emotivi della gestante influenzano il feto attraverso la variazione dei tassi di mediatori chimici e ormonali come il cortisolo, le endorfine, l’Acth. Il feto dimostra di possedere già meccanismi elementari di apprendimento, come l’assuefazione (per esempio, la riduzione del battito cardiaco a un’esposizione ripetuta al medesimo stimolo), il condizionamento classico e la capacità di discriminazione nell’inversione di due sillabe (per esempio, /biba/-/babi/). Queste forme di apprendimento, note come familiarizzazione prenatale, consentono al neonato di entrare in interazione con la madre in modo facilitato al momento della nascita. 2.2. La competenza sociale Nell’ambito della psicologia dello sviluppo oggi è opinione condivisa fra gli studiosi che la dotazione psicologica del neonato sia notevolmente più consistente di quanto si ammettesse alcuni decenni fa (Butterworth, 1983; Montagner, 2002; Nelson, 1986, 1987; Schaffer, 1984; Tre64

varthen, 1993). Più che in passato, infatti, oggi si ritiene che il bambino piccolo, pur essendo una prole inetta e in una condizione di prematuranza, sia un soggetto attivo, dotato di capacità cognitive specifiche e di meccanismi di autoregolazione, in grado di ricevere ed elaborare le informazioni provenienti dall’ambiente. In particolare, assieme alle capacità percettive3, nel neonato risulta particolarmente consistente la competenza sociale. a) Riconoscimento del volto materno e sorriso sociale. Il neonato manifesta una spiccata disposizione sociale, in quanto capace di porsi rapidamente in relazione con gli adulti di riferimento. Già nell’allattamento appare in grado di stabilire con la madre, fin dai primi giorni di vita, un’attività coordinata e armoniosa, di natura bidirezionale, in base a una sincronizzazione reciproca di attività (suzione) e pause. Parimenti, nell’arco di tre o quattro giorni di vita, il neonato è capace di riconoscere e discriminare il volto della madre grazie all’attivazione di un sistema sottocorticale situato nel collicolo superiore. Infatti, dopo 912 ore di esposizione visiva al volto materno durante l’allattamento, il neonato preferisce e dedica più tempo al volto della madre rispetto a quello di un’altra donna che abbia lo stesso colore dei capelli e della pelle4. Nel corso del terzo mese di vita compare il sorriso sociale come risposta elettiva alla presenza di altri umani5. È soprattutto il contatto oculare ad attivare questa forma di sorriso. b) La condivisione dell’attenzione. Verso i sei mesi di vita si pongono altre importanti premesse per la costruzione della mente culturale. Nel corso dei primi mesi il neonato si limita a interagire in modo esclusivo o con un oggetto (ignorando l’adulto) o con l’adulto (ignorando l’oggetto). Si tratta di relazioni diadiche reciprocamente esclusive. A partire dai sei mesi circa compare un nuovo processo: l’infante riesce a estendere e a distribuire le sue risorse di attenzione guardando in alternanza l’adulto e l’oggetto (o evento esterno). Da un’interazione soltanto diadica, egli passa così a una interazione triadica e diventa ca65

pace d’incorporare il terzo oggetto entro la cornice della relazione con l’adulto (Anolli, 2002 b). Questo progresso psicologico è fondamentale poiché conduce alla condivisione congiunta dell’attenzione, grazie alla quale bambino e adulto orientano il loro interesse sul medesimo oggetto-evento. Essi guardano congiuntamente il medesimo oggetto e poi si guardano reciprocamente negli occhi, provando soddisfazione da tale condivisione (Stern, 1985)6. Tale processo comune di messa a fuoco attentiva su qualcosa di esterno alla coppia adultobambino consente loro di porre le premesse di ciò che costituirà in seguito la referenza di un discorso o di una conversazione. Ovvero di qualcosa d’altro esistente nel mondo o nella loro relazione in quanto fuoco del loro interesse e attenzione. L’attenzione condivisa comporta un incipiente incontro di menti fra adulto e bambino. Tale incontro dipende non solo dal fatto di condividere lo stesso fuoco dell’attenzione, ma anche di prendere parte al medesimo contesto e di sviluppare i medesimi assunti (Anolli, 2002 b). In funzione di questo processo, madre e lattante, nel momento in cui condividono un centro di interesse, lo costruiscono in modo convenzionale secondo gli standard della cultura di appartenenza. c) Il sistema adulto-bambino. La costruzione della mente culturale del bambino piccolo avviene quindi all’interno del sistema interattivo aperto fra lui e gli adulti di riferimento. Ben presto egli interagisce con l’adulto trattandolo come un soggetto animato, ossia capace di agire in modo autonomo, di produrre effetti sull’andamento degli eventi in funzione delle sue azioni, nonché di prendere iniziative (è il concetto di «agentività»). Per sua natura, il sistema adulto-bambino è in grado di autoregolarsi e di autocorreggersi in funzione degli scopi da raggiungere, capace di costruire e di condividere significati, norme e modelli di comportamento. Adulto e bambino, sia pure con funzioni e in posizioni diverse, contri66

buiscono entrambi a costruire modelli d’interazione organizzati secondo flussi e sequenze prevedibili e regolari, a produrre situazioni di dialogo e di scambio in quanto gratificanti per se stesse, a elaborare i significati degli eventi cui partecipano (Tronick, 2005). In questo processo si generano qualità emergenti dell’interazione che non sono né prevedibili né deducibili dalle condizioni di partenza. In tal modo si costruiscono delle cornici consensuali d’interazione, che stabiliscono un accordo reciproco fra i partecipanti (Fogel, 1993). Esse indicano come i partecipanti comunicano l’un l’altro in che modo vadano intese le loro azioni (quando sono serie, quando sono un gioco, ecc.). In funzione di questi processi, il bambino, in qualità di novizio, si confronta e, nello stesso tempo, partecipa attivamente alle strutture di significato, ai sistemi di valori e di credenze, ai modelli di comunicazione e di azione messi in atto dall’adulto in qualità di esperto di una data cultura. Attraverso questi processi bambino e adulto «producono cultura» nel corso delle loro interazioni. All’interno del sistema adulto-bambino, l’adulto – in qualità di «esperto» – assume la funzione di struttura di supporto (Bruner, 1983, 1986), in quanto ha il compito di fornire semplici ed efficaci opportunità al bambino per cogliere il significato culturale di azioni e segni. L’adulto usa gesti, espressioni facciali, suoni e frasi per illustrare il senso di ciò che sta avvenendo fra lui e il bambino in funzione dei parametri culturali di riferimento. Si tratta di una funzione esclusivamente umana, poiché nei primati non umani le madri, pur fornendo un sostegno all’apprendimento dei piccoli, li lasciano a se stessi affinché acquisiscano le informazioni necessarie alla sopravvivenza. Per contro, nella specie umana l’adulto svolge con continuità e impegno la funzione di scaffolding, ossia di «impalcatura», per favorire lo sviluppo complessivo del bambino e per renderlo un soggetto culturalmente attivo. Il piccolo dell’uomo non sviluppa dunque le proprie competenze né per tentativi ed errori attraverso una con67

dotta casuale, né affidandosi unicamente al proprio repertorio innato e ai processi maturativi, bensì all’interno di sequenze interattive routinizzate (o format) che si ripetono con ritmi regolari, scandiscono i vari momenti della giornata, consentono di condividere un’intenzione e uno scopo, nonché un insieme di procedure culturalmente definite. Tali format sono assai utili per la costruzione della mente culturale del bambino, poiché gli consentono di discriminare nel continuo flusso delle stimolazioni quei movimenti e quei suoni che costituiscono unità cognitive e affettive rilevanti all’interno della propria cultura. Essi inoltre riducono i gradi di variazione e d’indeterminatezza delle situazioni e contribuiscono a rendere regolari e prevedibili i contesti, effetto che, a sua volta, è alla base della regolarità e della stabilità dei significati (Anolli, 2006). Parimenti, questa condizione consente anche all’adulto di verificare e valutare i progressi fatti dal bambino rispetto a specifiche abilità. Come esito di questa condizione, la costruzione della mente culturale del bambino avviene in modo in parte prevedibile e in parte casuale. Infatti, la relazione con l’adulto costituisce un processo interattivo continuo, solo parzialmente determinato dai vincoli del contesto e delle cornici consensuali. In parte resta un processo indeterminato, poiché è un sistema aperto e dinamico, in grado di assumere diversi percorsi di senso in funzione degli eventi contingenti e imprevisti. La costruzione della mente culturale del bambino appare quindi il risultato progressivo di un equilibrio fra determinazione e indeterminazione. Su questa condizione si fonda l’incompiutezza dell’essere umano. Ne consegue che l’appartenenza a una certa cultura non costituisce un fatto compiuto una volta per tutte. Piuttosto, tale appartenenza è un processo in continuo divenire e un’apertura verso nuove forme di cultura, proprie e altrui. Fra l’altro, questa condizione comporta anche una diversa concezione della cosiddetta «identità culturale» (cfr. cap. 5). 68

3. La svolta dei nove mesi e la comparsa dell’intenzionalità Intorno agli otto o nove mesi il bambino compie un ulteriore e importante passo in avanti verso l’appropriazione della cultura di riferimento. Inizia a considerare l’adulto non più solo come un agente animato e autonomo ma anche come un soggetto intenzionale, in grado di gestire e controllare in modo spontaneo la propria condotta, di avere degli scopi e di operare consapevolmente delle scelte fra le diverse opportunità per conseguire tali obiettivi (Tomasello, 2001). La comparsa dell’intenzionalità rappresenta una tappa fondamentale per la costruzione della mente culturale del bambino7. Pensare gli altri come agenti intenzionali significa affacciarsi al mondo simbolico dei significati. Vuol dire che gli altri hanno una mente autonoma. In quanto tale, la comparsa dell’intenzionalità consiste nella capacità sia di manifestare ad altri le proprie intenzioni sia di capire che gli altri sono agenti intenzionali8. Si tratta di due aspetti strettamente collegati fra loro e interdipendenti. Grazie a tale capacità le persone riescono ad avere un buon grado di prevedibilità del corso delle interazioni con gli altri, anticipandone le mosse. In questo periodo il bambino diventa in grado di manifestare in modo esplicito le proprie intenzioni. In che modo? In particolare attraverso i gesti deittici come estendere il braccio e l’indice per indicare qualcosa nell’ambiente, mostrare un oggetto, ecc. Si tratta di gesti che comportano un’interazione triadica (bambino, adulto e oggetto). In quanto tali, essi sono assai differenti dai gesti di natura diadica (come alzare le braccia sopra la testa per farsi prendere in braccio), che sono essenzialmente imperativi (esprimono un desiderio del bambino) e ritualizzati. Durante le prime volte in cui il bambino usa il gesto d’indicare, egli guarda l’adulto dopo aver indicato qualcosa e alterna lo sguardo all’adulto con quello diretto all’oggetto verso cui è puntato il dito. Successivamente, prima guar69

da l’adulto e poi compie il gesto d’indicare quello che gli interessa in quel momento. Sul piano della comunicazione, tali gesti hanno un valore sia proto-richiestivo (servono per chiedere oggetti all’adulto ed esprimono un desiderio) sia proto-dichiarativo (servono per richiamare l’attenzione dell’adulto su un certo oggetto o evento e consentono di condividere la medesima referenza nel mondo esterno). Di norma, i gesti d’indicare con valore richiestivo precedono quelli con valore dichiarativo sia nelle culture occidentali sia in quella giapponese (Blake et al., 2003). Con il passare dei mesi i gesti di commento (dichiarativi) assumono maggiore rilevanza negli scambi comunicativi con l’adulto. Nello stesso periodo l’infante rafforza la sua capacità di comprendere gli atti comunicativi degli interlocutori come dotati d’intenzionalità. In generale, il gesto d’indicare rappresenta un valido ed efficace predittore del successivo sviluppo linguistico. Infatti, i bambini più precoci e quelli che usano più spesso tale gesto, sono anche quelli più avanzati nella successiva competenza linguistica. In quanto tappa decisiva nella costruzione della mente culturale del bambino, la comparsa dell’intenzionalità mette in moto lo sviluppo di diversi altri processi psicologici importanti. Anzi tutto, rafforza l’apprendimento attraverso l’imitazione. In secondo luogo, favorisce la dissociazione fra mezzi e fine. Nei primi mesi il bambino comprende che le sue azioni hanno degli effetti sull’ambiente ma non sembra capire in che modo egli ottiene questi risultati. Sembra agire ciò che Piaget chiama «pensiero magico». Ma verso gli otto mesi il bambino sviluppa una diversa comprensione del rapporto fra azione e risultato, in quanto diventa in grado di: a) usare differenti mezzi per raggiungere lo stesso scopo; b) riconoscere il valore di azioni intermedie per il raggiungimento dello scopo (rimuovendo un ostacolo, superando una barriera, ecc.). In tal modo il bambino dimostra maggiore flessibilità nell’impiegare mezzi diversi per il medesimo scopo, nel 70

differenziare gli scopi che si possono raggiungere con i medesimi mezzi, nel considerare le azioni come scopi in alcune circostanze e come mezzi in altre e così via. Questa dissociazione fra mezzi e scopi, posta già in evidenza da Piaget, costituisce un indicatore importante dell’intenzionalità dell’infante a quest’età, poiché implica che egli abbia uno scopo in mente prima di tradurlo in azione e che riesca a distinguere tale scopo dai mezzi per raggiungerlo. La dissociazione mezzi-fine, la competenza imitativa e l’apprendimento per simulazione favoriscono nel bambino la comparsa della segmentazione del comportamento in unità di azione. Egli impara a suddividere il flusso continuo degli eventi in segmenti convenzionalmente codificati9. Tale segmentazione non avviene né in modo casuale né arbitrario ma è regolata dal riconoscimento e dall’attribuzione di una data intenzione (scopo) a ciascuna di queste sequenze di azioni (per esempio, vestirsi, fare il bagnetto, ecc.). In tal modo il bambino diventa in grado di riconoscere le novità o le deviazioni rispetto agli standard. Questo processo di segmentazione costituisce una premessa fondamentale per procedere all’attività mentale di categorizzazione10 degli oggetti e degli eventi in funzione dei parametri e dei criteri culturali di riferimento. Esso attiva altresì i dispositivi per l’elaborazione pertinente dei significati insieme all’adulto a partire da un flusso caotico di avvenimenti. Parimenti, il bambino inizia a capire che una data azione è orientata verso un oggetto-evento per il raggiungimento di uno scopo (prendere l’asciugamano per asciugarsi dopo il bagnetto). Questa direzionalità dell’azione verso l’oggetto è una premessa fondamentale per l’elaborazione di modelli dell’azione culturalmente definiti e circoscritti e che gli consentano una prima rappresentazione mentale delle proprie esperienze. In questo modo sono poste le condizioni che permettono l’apprendimento culturale. Non si tratta di imparare da altri adulti (esperti) ma con e attraverso essi, poiché la condivisione dell’attenzione, l’imitazione e la comprensio71

ne degli altri come soggetti intenzionali conducono a quella condizione simbolica che è la caratteristica distintiva della specie umana. 4. L’acquisizione del linguaggio e della teoria della mente (altrui) La comparsa dell’intenzionalità, la maturazione dell’apparato fonatorio e la maggiore articolazione della comunicazione non verbale sono la base da cui prende avvio lo sviluppo del linguaggio. Personalmente, in accordo con molti altri studiosi, ritengo che, più che dall’intervento di moduli (Fodor), di un organo apposito (Chomsky) o di un istinto (Pinker), l’acquisizione del linguaggio è resa possibile dall’interazione sociale con i propri consimili. Imparare a parlare è un processo contingente che si fonda su una serie di apprendimenti comunicativi (non verbali e pragmatici) precedenti e che avviene in funzione dell’azione di supporto (scaffolding) svolta dagli adulti. L’apprendimento delle parole, compresi i termini privi di senso, avviene nel flusso dell’interazione quotidiana attraverso l’imitazione per inversione dei ruoli. All’interno di contesti regolari e di format comunicativi stabili, il bambino ha modo di cogliere e apprendere la prospettiva (intenzione comunicativa) con cui l’adulto impiega certi suoni (parole) in specifiche situazioni. Come esito dell’esposizione sistematica a questo genere di esperienza, egli ha la possibilità di crearsi e condividere certe rappresentazioni prima lessicali e poi simboliche degli eventi. Su questa base il bambino procede all’elaborazione delle diverse costruzioni linguistiche, iniziando dalle espressioni olofrastiche11 per passare alle costruzioni a isola verbale e a quelle astratte e infine giungere alla narrazione (Tomasello, 2001). Le costruzioni a isola verbale costituiscono un passaggio particolarmente importante, poiché il bambino ha modo di verificare come un verbo, nell’indicare un’a72

zione o uno stato, abbia bisogno di completarsi con le varie posizioni di altri termini (come agente-soggetto, oggetto, strumento, ecc.)12. Segue la comparsa di costruzioni astratte, in cui il bambino diventa capace di capire le relazioni paradigmatiche che si stabiliscono fra i vari elementi di un enunciato13. Nel contempo, l’acquisizione della lingua materna fornisce al bambino una specifica cognizione linguistica, poiché definisce le categorie cognitive con cui descrivere e spiegare i fenomeni, a iniziare da quelli spaziali e temporali per giungere a quelli più complessi e astratti, come le metafore e le altre figure retoriche. In generale, nell’apprendere una lingua un bambino impara anche modi particolari di pensare per parlare (Anolli, 2006). L’acquisizione del linguaggio articola ed espande la mente culturale del bambino, che diventa in grado di affrontare situazioni cognitive, emotive e sociali sempre più complesse. Nello specifico, verso i quattro anni egli si dimostra capace (prima in termini concreti e poi più astratti) di farsi delle rappresentazioni mentali non solo degli oggetti e degli eventi (rappresentazioni di primo livello) ma anche delle rappresentazioni mentali degli interlocutori (rappresentazioni di secondo livello o metarappresentazioni). È la comparsa della cosiddetta teoria della mente (altrui), ossia la capacità di attribuire stati mentali alle altre persone (cfr. cap. 2). Se nei primi mesi di vita il bambino si mette in relazione all’adulto come a un soggetto animato e se all’età di un anno lo considera come un soggetto intenzionale, soltanto verso i tre o quattro anni egli è in grado di trattarlo come soggetto mentale. Considerare l’altro come un soggetto mentale significa attribuirgli credenze, modelli interpretativi e punti di vista che possono essere diversi dai propri. Come si è già detto (cfr. cap. 2), la teoria della mente (ToM) va intesa come la capacità di «leggere» la mente degli altri (mindreading), nonché d’interpretare, spiegare e prevedere le loro azioni, attribuendo a essi stati e processi 73

mentali quali desideri, modelli interpretativi, credenze e intenzioni. La ToM è stata illustrata secondo diversi modelli. Fra gli altri, l’approccio modularista considera la mente come un insieme di moduli specializzati e indipendenti, di natura obbligatoria e impenetrabili alla coscienza, ritenendo il «sistema per leggere la mente» come innato e composto da diversi sottosistemi (Baron-Cohen, 1995). Al contrario, il modello della teoria della teoria prevede che lo sviluppo della ToM avvenga secondo i principi generali sottesi alla costruzione di una qualsiasi teoria scientifica, attraverso l’elaborazione di previsioni, supposizioni, modelli interpretativi, ecc. (Gopnick e Meltzoff, 1997). A sua volta, secondo il modello della simulazione la ToM si sviluppa grazie alla capacità di assumere il punto di vista degli altri: la propria esperienza, a guisa di un simulatore, diventa il modello per inferire informazioni sugli stati interni altrui. Quest’ultimo modello, oggi prevalente, merita di essere approfondito. La comprensione degli stati mentali altrui si sviluppa nel bambino insieme alla capacità di assumere il loro punto di vista a livello cognitivo. La conoscenza psicologica e sociale è molto diversa dalla conoscenza fisica; vanno, quindi, previsti meccanismi esplicativi differenti. Quando il bambino vede un adulto o un compagno compiere certe azioni, è portato ad attribuirvi il medesimo significato come se fosse lui a compierle personalmente. Poiché è in grado d’identificarsi con l’altro, è anche in grado di comprendere il comportamento di quest’ultimo negli stessi termini (Harris, 1996; Tomasello, 1999). Di conseguenza, la ToM è una base essenziale per consentire al bambino di costruire una mente culturale e diventare un membro attivo e partecipe della cultura di appartenenza. Una conferma neurofisiologica importante a questo modello deriva dalla scoperta e dallo studio dei neuroni specchio, che si trovano nella porzione rostrale della corteccia premotoria ventrale e che si attivano sia durante l’e74

secuzione di azioni nella manipolazione di oggetti, sia durante la semplice osservazione di azioni analoghe eseguite da parte di un altro (Rizzolatti, 2005; Rizzolatti, Fogassi e Gallese, 2001). In questo caso, tali neuroni si eccitano come se fosse l’organismo stesso a eseguire i movimenti. In altri termini, l’osservazione di un’azione implica la simulazione della medesima. Pertanto, la comprensione degli stati mentali degli altri si fonda sulla possibilità di stabilire un’equivalenza motoria fra ciò che fanno gli altri e ciò che fa l’osservatore e sul principio conseguente della somiglianza degli altri a sé. Questa forma di empatia vale anche per le emozioni e le sensazioni: l’altro è percepito come noi attraverso una relazione di somiglianza, e le sue reazioni attivano in noi la medesima configurazione di neuroni, come se noi stessimo provando di persona le medesime sue esperienze. Per tale ragione, sulla base di quest’architettura nervosa, è corretto parlare di un sistema multiplo di condivisione dell’intersoggettività e dei processi culturali che ci consente di riconoscere gli altri come simili a noi. La comparsa della ToM rappresenta una fase decisiva nella costruzione della mente culturale del bambino. Entrano in gioco i processi di «mentalizzazione» e condivisione dei significati che sono alla base dell’apprendimento culturale. La teoria della mente altrui consente non solo di trattare gli altri come soggetti mentali, ma soprattutto di appropriarsi dei modelli culturali che costituiscono la trama del vivere sociale in una data comunità. 5. In che modo si costruisce la mente culturale La specie umana è ultrasociale, in quanto i rapporti sociali sono particolarmente enfatizzati, complessi e variabili nelle vicende umane, assai più che presso le altre specie animali. Su questa base generale s’innestano i dispositivi che hanno consentito la comparsa e l’evoluzione della cultura nelle sue svariate forme. In particolare, un motore 75

fondamentale è costituito dall’apprendimento, inteso come una modificazione relativamente duratura e stabile del comportamento a seguito di un’esperienza, di solito ripetuta più volte nel tempo. L’apprendimento, pertanto, va tenuto distinto dalle modificazioni del comportamento dovute a programmi genetici e a circuiti nervosi sottesi ai riflessi, a condotte istintive e a processi maturativi. In generale, l’apprendimento – dispositivo molto comune nel regno animale – comporta un indubbio vantaggio evolutivo, anche se implica un costo (dispendio di risorse per passare dalla condizione del non conoscere a quella del conoscere). Fra le sue varie forme, è utile la distinzione fra apprendimento individuale (capacità di acquisire nuove informazioni a seguito di un’esperienza personale con l’ambiente fisico attraverso vari meccanismi) e apprendimento sociale (capacità di acquisire nuove conoscenze e pratiche grazie all’interazione con i propri consimili). Facendo ricorso a modelli matematici ed evoluzionisti, Boyd e Richerson (2005) hanno dimostrato che, in ambienti stabili, l’apprendimento sociale risulta più vantaggioso di quello individuale, in quanto il primo risulta più affidabile e il secondo più soggetto a errori. Per contro, in ambienti variabili, dove l’apprendimento sociale diventa meno attendibile, si ha una maggiore rilevanza dell’apprendimento individuale per trovare nuove soluzioni più adatte ai cambiamenti dell’ambiente. Tuttavia, a differenza dell’ipotesi di partenza, si è visto che le specie con un elevato livello di apprendimento sociale presentano anche un eguale elevato livello di apprendimento individuale (Boyd e Richerson, 2005). L’apprendimento sociale svolge la funzione di accelerare e rendere meno casuale quello individuale (Galef, 1996). In generale, l’incremento dell’encefalizzazione è strettamente connesso a forme rilevanti di attaccamento ai genitori, al ritardo della maturazione sessuale e a un arco di vita abbastanza prolungato: tutte condizioni che favoriscono l’apprendimento sociale (Eisenberg, 1981). Nonostante sia 76

abbastanza comune nelle scimmie (si può avere apprendimento sociale anche in base a predisposizioni genetiche, cfr. l’imprinting), resta il quesito sulla sua forte peculiarità nella specie umana. Ciò che rende specifico l’apprendimento sociale nella nostra specie si basa essenzialmente su due dispositivi: l’apprendimento imitativo e l’insegnamento attivo. 5.1. L’apprendimento imitativo Per apprendimento imitativo s’intende la riproduzione consapevole e intenzionale di una condotta dell’esperto da parte del novizio per raggiungere il medesimo scopo perseguito dall’esperto stesso. In quanto tale, l’imitazione richiede la capacità di comprendere lo scopo (intenzione) che l’esperto si propone di raggiungere, di capire il suo piano mentale distinguendo fra le azioni che fungono da mezzi e quelle che costituiscono lo scopo, nonché di ripetere la sequenza di azioni dell’esperto per raggiungere lo scopo perseguito da quest’ultimo. Di conseguenza, l’apprendimento imitativo consiste nel riprodurre ciò che l’esperto intende fare (e non semplicemente ciò che fa). L’imitazione implica due processi cognitivi strettamente interconnessi: a) la capacità di attribuire senso alle azioni degli altri; b) la capacità di riprodurre le loro azioni. L’imitazione si fonda, quindi, sull’atteggiamento mentale di «trattare gli altri come simili a sé» (Meltzoff e Moore, 1997). Di conseguenza, ogni attività imitativa comporta una maggiore comprensione del funzionamento mentale di sé e degli altri in base a un sistema di «analogia sé-altri». Nell’imitazione apprendiamo non solo dagli altri ma soprattutto con e attraverso gli altri. Nella specie umana l’apprendimento imitativo risulta efficiente e strutturato già attorno ai nove mesi, in modo concomitante con la comparsa dell’intenzionalità e della comprensione degli altri come agenti intenzionali (è la cosiddetta «svolta dei nove mesi»). 77

Sul piano qualitativo l’apprendimento imitativo è quindi diverso dall’apprendimento emulativo, che consiste nella semplice riproduzione (o emulazione) di una condotta dell’esperto da parte del novizio. Quest’ultimo si limita a ripetere l’azione (ciò che fa) del primo senza preoccuparsi del suo senso e senza comprendere la connessione fra mezzi e scopi (Whiten e Custance, 1996). La mancata distinzione fra questi due tipi di apprendimento ha generato, in passato, un certo livello di confusione fra gli studiosi, che per gli animali usano i termini «imitazione» e «apprendimento imitativo» al posto di «apprendimento emulativo» e «riproduzione» (Russon e Galdikas, 1993). Tuttavia, mentre l’apprendimento emulativo (o riproduttivo) è assai comune presso gli animali (dall’apprendimento del «dialetto» negli usignoli al lavare le patate presso i macachi giapponesi), l’apprendimento imitativo sembra riservato in modo elettivo alla specie umana (Boyd e Richerson, 2005; Tomasello, 1999). Esso implica una condizione di maggiore socialità ed è alla base della teoria della mente e dell’apprendimento simbolico, consentendo ai soggetti di apprendere in modo selettivo e di evitare errori. 5.2. L’insegnamento attivo Per insegnamento attivo s’intende l’offerta consapevole e intenzionale di conoscenze, pratiche e valori da parte di un esperto nei confronti di un novizio. Nei primati non umani è lasciato ai piccoli il compito di acquisire le informazioni necessarie per sopravvivere. Al contrario, nella specie umana gli adulti di tutte le culture, comprese quelle più permissive, sentono l’obbligo di prendersi cura dei piccoli e di offrire loro le conoscenze utili per vivere e diventare protagonisti della propria comunità. Senza tale tipo di insegnamento, difficilmente il bambino da solo riuscirebbe a diventare un adulto competente ed esperto. 78

L’insegnamento attivo è globale – in quanto tocca i diversi segmenti dell’esperienza umana –, partecipativo e progressivo. Già Vygotskij (1934) aveva parlato di «zona di sviluppo prossimale» per indicare la distanza fra il livello effettivo di sviluppo raggiunto dal bambino e il livello più elevato di sviluppo potenziale grazie alla guida di un adulto o in collaborazione con i pari più capaci. Siamo in presenza di un apprendimento collaborativo, in quanto avviene nell’interazione fra esperto e novizio e sviluppa le competenze comunicative. Il bambino impara da solo, ma grazie alla mediazione di qualcun altro. Questo apprendimento mediato e socializzato riguarda i concetti sia scientifici sia quotidiani. I primi sono appresi attraverso l’insegnamento formale (scolastico), mentre i secondi sono acquisiti durante gli scambi della vita di tutti i giorni. Tra questi due tipi di concetti esiste un’interdipendenza intrinseca, poiché quelli quotidiani costituiscono la base conoscitiva necessaria per l’insegnamento e apprendimento dei concetti scientifici. Le cure parentali e le attività d’insegnamento che in modo inevitabile generano differenze sistematiche nei processi di socializzazione dei piccoli, sono guidate da etnoteorie e dal dispositivo della prolessi. Essa consiste nel rappresentarsi situazioni o eventi futuri come se fossero attualmente presenti. I genitori si prefigurano nel presente il futuro del loro figlio, creandosi un sistema di aspettative che diventano effettive linee-guida per i loro interventi educativi. In tal modo il ricordo (puramente mentale) dei genitori della loro passata esperienza e la prefigurazione (puramente mentale) del futuro del figlio diventano un vincolo «materiale» per l’esperienza del bambino. Si tratta di una proprietà culturale esclusivamente umana. Infatti, soltanto gli esseri umani sono in grado di recuperare il loro passato culturale, di proiettarlo nel futuro e di riportare il futuro prefigurato nel presente, in modo da creare un dato ambiente socio-culturale per il bambino in quanto novizio. 79

Di conseguenza, una certa serie di azioni e uno stile d’interazione possono funzionare per una determinata coppia esperto-novizio, ma non per un’altra, pur appartenendo entrambe al medesimo orizzonte culturale, poiché si richiede il reciproco accordo (frequentemente implicito) su come usare le pratiche, su come regolare i turni della conversazione, su quali interpretazioni fornire, ecc. La cultura non è «là fuori», nell’ambiente. È sempre negoziata e inserita nei processi di comunicazione e nelle relazioni interpersonali, dalle quali emerge il sé del soggetto. In particolare, la famiglia prima e la scuola poi costituiscono gli ambienti elettivi dell’apprendimento culturale, caratterizzato da certi stili educativi, entro il quale il bambino ha modo di appropriarsi della sua cultura. Tale appropriazione avviene, quindi, all’interno di una nicchia di sviluppo, intesa come un sistema locale che collega lo sviluppo delle competenze del bambino con le caratteristiche dell’ambiente culturale, generate dalle condizioni fisiche e sociali, dai processi di socializzazione e dalle pratiche educative e dalla psicologia degli adulti di riferimento (Super e Harkness, 1997). Tale nicchia costituisce una premessa importante per assicurare la continuità di sviluppo del bambino nel corso del tempo, stabilendo un legame fra gli apprendimenti precedenti e quelli successivi. In tal modo è possibile costruire la propria autobiografia culturale che, pur avendo un rilevante numero di aspetti causali, imprevedibili ed erratici, per il soggetto assume una sostanziale coerenza e unitarietà garantita dalla continuità della propria esperienza. 6. La cultura come apprendimento Da quanto fin qui analizzato, emerge che la cultura è appresa dal piccolo dell’uomo in modo graduale e progressivo. Da organismo biologico il bambino diventa protagonista culturale non mediante meccanismi di maturazione attivati e regolati da informazioni genetiche, ma attraver80

so rilevanti e continui processi di apprendimento nel corso dell’interazione con gli adulti. Tale apprendimento non ha luogo in astratto né in modo logico e dizionariale, bensì avviene in maniera rapsodica e contingente, spesso occasionale, seguendo ritmi diversi. È un apprendimento enciclopedico che concerne tutti gli aspetti della realtà, e che si propone di fornire una risposta accettabile ai vari interrogativi e problemi della vita. In effetti, l’apprendimento della cultura ha luogo solo nella e attraverso l’esperienza, che abbiamo già menzionato più volte. È l’esperienza condivisa fra novizio ed esperto che consente al primo di appropriarsi di credenze, significati, pratiche, valori, emozioni, ecc. del secondo. Per questa ragione s’impara sempre. In ogni circostanza. In modo esplicito o implicito, diretto o indiretto, formale o informale. In quanto tale, l’apprendimento è una dimensione che ci accompagna lungo l’arco di tutta la nostra esistenza. In tale processo contano non solo i contenuti (le cose che si fanno) ma anche i modi con cui questi contenuti sono declinati ed elaborati (i processi e le procedure), e soprattutto il grado di accordo e di condivisione fra gli interagenti sui modi con cui i contenuti in oggetto sono trattati (le regole e le norme). Di solito, le norme e le regole di accordo sono assai più rilevanti dei modi e dei contenuti. E spesso i conflitti non concernono i contenuti ma le regole di scambio e di condivisione. L’apprendimento della cultura si fonda su dispositivi generali che hanno una radicazione neurofisiologica specie-specifica e che si esprimono in attività globali come l’imitazione, la simulazione e l’insegnamento (implicito ed esplicito). Di conseguenza, l’apprendimento è universale in quanto avviene in ogni cultura. All’interno di questa tendenza generale ciascuna cultura segue poi il proprio percorso specifico nella definizione e costruzione della sua nicchia ecologica. In tutti i casi l’apprendimento culturale costituisce una condizione essenziale, poiché consente agli esseri umani d’imparare nuovi modi di pensare, sentire e 81

agire per far fronte ai cambiamenti ambientali e sociali. Ne deriva che esso evolve in concomitanza con l’evoluzione biologica e culturale della nostra specie. Pur essendo rapsodico e contingente, l’apprendimento della cultura non rimane disperso e frammentato ma si organizza in modo gerarchico in schemi cognitivi più o meno coesi, in immagini mentali, in categorie concettuali. Dà luogo alla formazione di modelli culturali che consentono d’interpretare e spiegare gli avvenimenti (e che esamineremo nel prossimo capitolo). Grazie all’appropriazione di tali modelli culturali il bambino ha la possibilità di passare dalla condizione di novizio a quella di esperto, di assumere specifiche responsabilità e di contribuire personalmente all’evoluzione della cultura stessa.

Note 1 Tali cure sono influenzate ovviamente dalle condizioni climatiche dell’ambiente fisico. Per esempio, le madri quechua del Perù, che vivono su un altopiano di 4.000 metri con una temperatura sotto zero per 340 giorni all’anno e con un’umidità scarsissima, per tutto il tempo tengono i loro piccoli in uno speciale manta pouch che mantiene costante la temperatura e l’umidità, consentendo loro un forte risparmio energetico (Tronick et al., 1994). 2 Allevamento a vicinanza e allevamento a distanza producono esiti psicologici assai diversi sulla condotta futura dei bambini. In particolare, l’allevamento a vicinanza favorisce la costruzione di una personalità passiva e dipendente, anche nella vita adulta (Valsiner, 1989). Per contro, l’allevamento a distanza implica una forte attivazione da parte del bambino, e tale condizione facilita lo sviluppo di una personalità indipendente e intraprendente. 3 Fra le diverse capacità percettive (visiva, olfattiva, gustativa, ecc.) del neonato, quella acustica è stata oggetto di approfondite ricerche. Si è osservato che, indipendentemente dall’ambiente culturale di riferimento, al momento della nascita i neonati sono in grado di discriminare le diverse categorie di fonemi (occlusive sonore come /b/, /d/, /g/; occlusive sorde come /p/, /t/, /k/; fricative o costrittive o spiranti come /f/, /v/, /s/, /sc/; ecc.). Ma già a sei mesi l’ambiente linguistico e culturale produce un progressivo adattamento e affinamento nelle capacità discriminative degli infanti, che così diventano assai più sensibili e attenti a certi fonemi rispetto ad altri.

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4 A cinque settimane il neonato è capace di operare correttamente la discriminazione fra il volto della madre e quello di altre donne somiglianti anche sulla base di fotografie a colori. 5 Il sorriso sociale è di natura esogena e si distingue dal sorriso endogeno, che compare nelle prime settimane di vita, durante le fasi di sonno Rem, e che è una manifestazione automatica. 6 In particolare, se una madre depressa evita di contraccambiare lo sguardo, il piccolo entra ben presto in una condizione di disagio e sofferenza (rinuncia passiva, protesta attiva con il pianto). In queste condizioni diventa molto difficile (se non impossibile) creare una relazione armoniosa e reciprocamente soddisfacente fra loro due. 7 Secondo Dennett (1987) la specie umana è caratterizzata dall’atteggiamento intenzionale, inteso come predisposizione naturale a interpretare l’azione di qualsiasi entità (adulti, neonati, animali e persino artefatti) come se fosse pianificata in modo consapevole e dotata di un’intenzione, regolata da un sistema di credenze, desideri e scopi. 8 In questo ambito intendo come «intenzione» la proprietà di un’azione compiuta in modo consapevole, volontario e deliberato per soddisfare un desiderio o per raggiungere uno scopo. In quanto tale, questa azione ricade pienamente all’interno della responsabilità personale ed è soggetta a eventuali sanzioni. 9 Per esempio, si è accertato che infanti di dieci mesi sono capaci d’individuare e riconoscere singole unità complete di azione nella condotta dell’adulto, nonché di cogliere i confini fra un’azione e quella successiva. Essi dimostrano sorpresa e aumentano i tempi di osservazione di fronte a videoclip che fanno vedere azioni interrotte a metà rispetto a videoclip che raffigurano azioni complete sul piano intenzionale (Baird e Baldwin, 2001). 10 La categorizzazione implica la capacità d’includere nella stessa classe elementi valutati come simili in base a specifici criteri elaborati e accettati dalla cultura di appartenenza. 11 L’espressione olofrastica è un’espressione linguistica composta da una sola unità che ha il significato di un atto linguistico completo (per esempio, «ancora» per dire «voglio ancora da bere»). 12 Per esempio, il verbo «tirare» può combinarsi con diverse preposizioni come «tirare su», «tirare con», «tirare per» e così via. Il verbo fa da perno rispetto alle posizioni di altre unità linguistiche. 13 Nella relazione paradigmatica i vari elementi linguistici di un enunciato sono collegati fra loro da un’associazione per equivalenza e somiglianza. Per esempio, in «Luisa mangia molto yogurt» il termine «Luisa» può essere sostituito per equivalenza da «Eugenia», «Paola», «Beppe», ecc.; il termine «mangia» può essere sostituito da «divora», «gusta», ecc.; il termine «molto» può essere trasformato in «poco», «abbastanza», ecc.; il termine «yogurt» a sua volta può essere sostituito da «frutta», «formaggio», ecc.

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IV

I modelli culturali

Fra mente e cultura esiste un rapporto indissolubile e permanente di reciprocità. La cultura è prodotta dalle menti umane che, a loro volta, sono modellate dalla cultura. Quest’ultima, infatti, va intesa come una rete flessibile e mobile di modelli di vita che consente di agire, capire, interpretare e spiegare la realtà a 360 gradi (cfr. cap. 1). Gli esseri umani avvertono l’esigenza vitale di comprendere e spiegarsi le cose e gli accadimenti. Per questo motivo sono nate la filosofia e le religioni. Gli uomini sono portati a cercare spiegazioni anche per ciò che appare inspiegabile (come gli Ufo). Non riescono a vivere in un mondo incomprensibile e bizzarro. La cultura non è solo un fenomeno materiale: non consiste unicamente nell’insieme di strumenti e innovazioni tecnologiche, comportamenti e pratiche. Piuttosto, è l’organizzazione di queste realtà. È la forma delle cose che le persone hanno in mente, i loro modi di spiegarle e interpretarle. I modelli culturali sono in grado di soddisfare questo bisogno psicologico. Attraversano l’esistenza umana in ogni direzione e a qualunque livello. Sono i processi fondamentali che costituiscono, costruiscono e modificano nel tempo la mente culturale. Il concetto di «modello culturale», sviluppato nell’ambito dell’antropologia cognitiva 84

(in particolare da D’Andrade, 1995), è inteso come una rappresentazione del mondo che si manifesta in discorsi e conversazioni, in leggi e pratiche quotidiane di una certa comunità. In questo capitolo affronteremo la loro analisi con l’obiettivo di porre in evidenza come essi costituiscano gli ingredienti e il disegno per la costruzione di qualsiasi mente culturale. La condizione che un individuo disponga di una mente mono o multiculturale dipende dai modelli culturali che egli ha a sua disposizione. 1. Modelli culturali e mente umana Per sua natura, la cultura fornisce alle persone (e alla loro mente) un insieme di cornici interpretative per ordinare e dare senso alla realtà nei vari domini dell’esperienza umana. Non si tratta di soluzioni definitive e immodificabili, bensì di un repertorio di conoscenze e dispositivi mentali (cognitivi, affettivi e sociali) che consentono ai soggetti di orientarsi nella ricerca di risposte sempre più appropriate. I modelli culturali vanno intesi come l’integrazione più o meno coerente di un insieme di tratti e caratteristiche, operanti in una certa cultura, che consentono una rappresentazione appropriata della realtà, promuovono la comprensione dell’esperienza contingente e guidano l’azione nei vari contesti. Vi sono, per esempio, i modelli culturali corrispondenti a «fare la polenta», ad «andare al ristorante», a «come corteggiare una ragazza» e così via. Allo stesso tempo sono modelli interni alla mente (poiché possediamo una mappa mentale per interpretare un certo evento o agire in una data circostanza) ed esterni alla mente (in quanto sono pubblici e istituiti nella società, al punto che quando si crede che qualcuno abbia commesso un errore, altri individui si sentono in diritto – o dovere – d’intervenire per correggerlo). I modelli culturali sono allo stesso tempo dentro e fuori dalle menti (Anolli, 2004). La corrispondenza e l’integrazione fra modelli cul85

turali interni ed esterni costituiscono un valido segnale di un buon adattamento delle persone. 1.1. Modelli culturali ed esperienza Per definizione, i modelli culturali svolgono la funzione di mediazione fra i soggetti e la realtà (cfr. cap. 1), poiché corrispondono a matrici di significato. Essi, infatti, si fondano su script, ossia su forme schematiche di conoscenza degli eventi, organizzate in modo sequenziale sul piano temporale e psicologico (ma non su quello logico), in cui l’evento in esame è scomposto in una successione di sottoeventi (Abelson, 1981). In quanto script, i modelli culturali sono rappresentazioni generali e articolate di una sequenza di azioni, strutturate spesso (ma non sempre) attorno a un episodio centrale, derivate e applicate a contesti sociali interattivi. Sono degli schemi (o mappe) di rappresentazione della realtà, dati come presupposti e assunti come garantiti, condivisi – almeno in parte – dalle persone di una certa comunità, idonei a promuovere la comprensione di specifici settori dell’esperienza e a guidare l’azione in determinati contesti. Si tratta dunque di costrutti mentali astratti (applicabili a molti casi), dotati congiuntamente di un elevato grado di flessibilità (in quanto suscettibili di variazioni per diversi casi o situazioni) e di coesione interna (con una consistente integrazione delle informazioni), in grado di organizzare conoscenze e ricordi. In quanto tali, questi costrutti possono trovare fra loro dei punti di accordo ma anche di divergenza e di contrasto. I modelli culturali rimandano al concetto fondamentale di esperienza, intesa come la totalità degli eventi a cui l’attore prende parte in modo consapevole. Riprendendo James (1890), si può dire che, nel processo dell’esperienza, soggetto e oggetto, pensiero e cosa, mente e cultura costituiscono un’unità. È ciò che James definisce «la stoffa dell’esperienza in generale». Essa si sviluppa nella co86

scienza e consiste in stati e processi mentali (idee, credenze, emozioni, progetti, valori, ecc.) – provenienti sia dal mondo interno che da quello esterno – in grado di produrre cambiamenti osservabili. L’esperienza consiste quindi nell’integrazione funzionale fra mondo interno (i processi mentali con i loro correlati neuropsicologici) e mondo esterno (le condizioni e gli stimoli ambientali depositati in sedi extraindividuali come gli artefatti materiali, le istituzioni, ecc.). In quanto forme di organizzazione, conoscenza e comprensione dell’esperienza, i modelli culturali sono dominio-specifici, poiché si riferiscono di volta in volta, in modo contestualizzato, a particolari ambiti dell’esperienza. Più che costituire un sistema monolitico e omogeneo nei confronti della realtà, i modelli culturali possono presentare incoerenze, divergenze e anche contraddizioni al loro interno. Talvolta, per la medesima situazione, vi sono più modelli alternativi che possono entrare in competizione fra loro. In questo caso non possono essere tutti contemporaneamente operanti, poiché uno di essi prevarrà sugli altri nella mente dei soggetti. Tale condizione consente di superare la concezione della cultura intesa come sistema globale e monolitico, statico e coerente, formato da elementi affini e fra loro congruenti, tipico di un automa logico e razionale (Shore, 1996). I modelli culturali diventano operativi e sono in grado d’influenzare la condotta dei soggetti solo se sono disponibili nella loro mente, resi accessibili in una data situazione e applicabili a un certo contesto. In generale, quanto più un modello culturale è mentalmente accessibile, tanto più è probabile che sia attivato e che guidi l’interpretazione di un certo evento o situazione. Tale accessibilità mentale è favorita da una serie di stimoli facilitatori (priming) esterni, come le istituzioni, i discorsi o i mass media (cfr. cap. 6). Fra questi stimoli assumono particolare rilievo le icone, definite da Betsky (1997) come «ma87

gneti dei significati». In assenza di tali facilitatori i modelli culturali possono restare «latenti» e «dormienti». Inoltre, i modelli culturali hanno un valore prescrittivo, poiché non si limitano a fornire dispositivi di comprensione, ma fungono anche da motore motivazionale, offrendo indicazioni sui valori e sulle condotte conseguenti. Peraltro sono modelli trasparenti, poiché le persone non sono consapevoli di possederli. Gli individui vedono il mondo attraverso le lenti interpretative della cultura senza vedere le lenti medesime ed è in tal modo che le cose ci appaiono naturali. Infine i modelli culturali sono efficaci, poiché non servono solo a spiegare il comportamento prodotto, ma anche alla sua costruzione. Sono questi i dispositivi attraverso i quali cui le persone pensano, provano emozioni e agiscono, poiché essi danno forma alla loro esperienza. Organizzano la loro memoria, attribuiscono ordine al flusso degli eventi cui prendono parte, diventano categorie per raccontare la propria storia (autobiografia). 1.2. I modelli culturali non sono moduli mentali Secondo una concezione molto diffusa in psicologia – da quella evoluzionista (Tooby e Cosmides, 1992) a quella cognitivista (Fodor, 1983), agli studi di linguisti (Chomsky, 1988) – la mente umana è distinta e organizzata in moduli. Questi vanno intesi come dispositivi innati (già presenti alla nascita), dominio-specifici (specializzati nel trattare uno specifico problema di adattamento: per esempio, il riconoscimento del volto umano), fra loro isolati sul piano informativo (ognuno ha la propria autonomia di accesso alle informazioni) e dotati di veloci standard di funzionamento. Anche secondo Tooby e Cosmides (1995, XIII) l’architettura della mente umana è formata da «un assemblaggio di centinaia o migliaia di minicomputer (spesso chiamati moduli)», ciascuno dedicato a svolgere una specifica e limitata funzione. I modelli culturali, pur diventando mentali e pur es88

sendo dominio-specifici, non sono moduli né algoritmi mentali. Essi vanno piuttosto intesi come i nodi di una rete, in grado di combinare e «addensare» un conglomerato di conoscenze, valori e azioni. Per questo motivo i modelli culturali diventano rilevanti per una certa comunità e per i suoi membri, poiché forniscono loro regole specifiche di apprendimento rendendoli in grado di gestire e risolvere particolari problemi posti dall’ambiente. Tuttavia, essendo nodi di una rete, nel loro insieme i modelli culturali consentono di affrontare la globalità delle situazioni che attraversano l’esistenza umana: dall’alimentazione agli affetti, dal lavoro al divertimento, dal potere all’altruismo e così via. Pertanto, pongono la mente umana nella condizione di sapersi adattare in modo attivo e plastico a vincoli e opportunità ambientali in cui si trova, nonché alle esperienze contingenti. Più che semplici prodotti statici e fissi, i modelli culturali vanno quindi intesi e trattati come processi che in continuazione modificano valori e orientamenti morali, suscitano forme diverse del convivere sociale, generano simboli e significati, nuove conoscenze e pratiche. 2. I modelli culturali come prospettiva Ogni cultura è un punto di vista sulla realtà umana e fisica. In quanto tale, esso è parziale e limitato, anche se prende in considerazione la totalità dei fenomeni e si propone di fornirne una spiegazione soddisfacente e attendibile sulla base delle conoscenze in proprio possesso. Ma questa consapevolezza non è di tutti. Né è stata sempre presente negli esseri umani. 2.1. La cultura fra oggettivismo, costruzionismo e realismo critico In passato, a partire da Aristotele, prevaleva una concezione metafisica della conoscenza, sulla base della corrispon89

denza fra ciò che si conosce e i dati della realtà (adequatio rei et intellectus). Tale concezione, continuata anche con la Scolastica di San Tommaso, comporta una forma di oggettivismo, in quanto prevede che non solo sia possibile conoscere la realtà così come essa è, ma anche che tale conoscenza sia vera, completa e trasparente. Ciò implica che la conoscenza di un oggetto o di un evento sia indiscutibile e inalterabile, eguale per tutti, al di là dell’esperienza soggettiva, pronta a essere colta da chiunque lo desideri. La realtà è «là fuori», predefinita nella sua integrità, e gli esseri umani sarebbero in grado di conoscerla in modo diretto e oggettivo come essa è (realtà come dato). L’affermazione su una certa proprietà di un oggetto è ritenuta oggettiva in quanto tale proprietà è inerente l’oggetto in sé (senso forte dell’oggettività). Siamo di fronte a una posizione teorica nota come naturalismo o realismo ingenuo. Essa implica una concezione della conoscenza fondata su un insieme limitato di condizioni necessarie e sufficienti per stabilire una corrispondenza biunivoca fra rappresentazione mentale e realtà. Tale corrispondenza può essere assicurata però soltanto dall’adozione di un punto di vista assoluto, una sorta di «occhio di Dio» (Lakoff, 1987). Per l’oggettivismo quindi un punto di vista parziale sulla realtà diventa il punto di vista unico e totale. Questa trasformazione pone fine a ogni forma di confronto, di dialogo, di pluralismo, e comporta forme di dispotismo gnoseologico ed epistemologico. Per contro, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso si è fatta strada la concezione del costruttivismo per interpretare i processi di conoscenza della realtà. Secondo Kelly (1955) le persone conoscono e organizzano l’esperienza mediante l’elaborazione di costrutti mentali. Al pari degli scienziati, esse si servono di tali costrutti per anticipare le situazioni e sono pronte a modificarli se risultano inefficienti. Una versione sociologica di tale prospettiva fu fornita da Berger e Luckman (1966). In tempi più recenti, sul costruttivismo si è innestato il costruzionismo so90

cio-culturale, che pone in evidenza il primato delle pratiche sociali e conversazionali come fonte di conoscenza e motore dell’evoluzione culturale. La costruzione della conoscenza sarebbe così un processo corale e collettivo, condiviso dai partecipanti (Gergen, 2001; Maturana, 1998; Maturana e Varela, 1992; Potter, 1996; Shotter, 1993). Pertanto, il costruzionismo socio-culturale focalizza l’attenzione sulla molteplicità dei modi in cui il mondo è e può essere costruito (Sexton, 1997). Tale costruzione sarebbe il risultato di una scelta e di una presa di posizione. La realtà è costruita nel discorso, momento per momento, all’interno di azioni situate nel loro contesto1. Come conseguenza, il costruzionismo socio-culturale attribuisce grande importanza al linguaggio e alla conversazione, come dispositivi efficaci per cambiare e far evolvere il corso della cultura. Il modo in cui le persone parlano di se stesse e del proprio mondo determina la natura della loro esperienza. Non esistono dati oggettivi che non siano costruiti attraverso lo scambio sociale (Edwards, 1997; Mininni, 2000; Potter, 1996). Sono le pratiche discorsive a tracciare l’orizzonte di riferimento di ciò che le persone considerano come reale. Esse, inoltre, producono importanti effetti pragmatici nella gestione delle relazioni di potere: le persone impiegano parole e simboli non solo in modo descrittivo ma soprattutto per raggiungere i loro scopi. Per i teorici dell’analisi del discorso le situazioni della vita quotidiana sono sempre particolari, specifiche e uniche, in continuo divenire (Fairclough, 2003; van Dijk, 1998). La versione radicale del costruzionismo socio-culturale è stata oggetto di osservazioni critiche (Matthews, 1998; Parker, 1998). Innazitutto, il panculturalismo in esso implicito comporta il rischio di giungere a forme di determinismo culturale. La cultura si pone come spiegazione ultima (necessaria e sufficiente) per ogni comportamento umano (inclusi i comportamenti biologici). Gli esseri umani finirebbero per essere soltanto dei prodotti culturali, anziché dei produttori di cultura. Tale posizione, fra l’al91

tro, va contro la concezione dell’incompiutezza dell’uomo, avanzata da Sartre (1960). Gli esseri umani sono «esseri incompiuti in via di compimento», situati nel tempo e nello spazio, allo stesso tempo significati dalla cornice culturale ma anche significanti, cioè agenti di cultura. Parimenti, il costruzionismo socio-culturale, rendendo assoluto il singolo punto di vista di ogni cultura, rischia di sfociare in una sorta di relativismo radicale, opaco e solipsistico. Se ogni comportamento dipende solo dalle categorie e pratiche della propria cultura, non si comprende in che modo e con quali mezzi se ne possa uscire. Il costruzionismo socio-culturale, radicalizzando la costruzione locale del sistema culturale, porta con sé il pericolo della incomunicabilità e della chiusura, poiché ogni cultura rischia di diventare un sistema isolato e opaco rispetto alle altre culture. Una posizione che consente di superare i limiti sia dell’oggettivismo che del costruzionismo socio-culturale è data dal realismo critico, che intende la realtà accessibile non per se stessa ma in quanto mediata dal punto di vista di un osservatore (Agazzi e Pauri, 2003; Parker, 1998; Porter, 1995). Rispetto alla posizione dell’oggettivismo, secondo cui la conoscenza umana sarebbe in grado di conoscere la realtà così com’è in modo oggettivo e nella sua piena verità, il realismo critico sostiene che ogni conoscenza è mediata e filtrata dall’osservatore, che adotta un certo punto vista applicato a specifici fenomeni ed eventi. Nel primo caso si ha l’obiettivo di arrivare a possedere la verità; nel secondo quello di raggiungere conoscenze il meno possibile inficiate dall’errore e quindi dotate di un buon grado di attendibilità. Sono due traguardi molto diversi fra loro, poiché la verità attiene all’ambito della fede, la conoscenza attendibile a quello della scienza. L’oggettività va intesa non più in modo assoluto ma come intersoggettività (ossia come indipendenza dal singolo soggetto). L’intersoggettività, tuttavia, non è una soggettività allargata, ma implica la possibilità di ripetere le me92

desime operazioni e procedure conoscitive nei confronti degli stessi oggetti da parte di altri soggetti attraverso un controllo reciproco. In tal modo essa diventa garanzia dell’attendibilità e validità delle conoscenze. Parimenti, il punto di vista non è qualcosa di aleatorio e approssimativo, ma va precisato e definito attraverso l’assunzione di rigorosi e definiti criteri di protocollarità. In conformità a essi una certa affermazione diventa ammissibile se rappresenta l’esito di un processo di conoscenza compiuto attraverso procedure condivise e operazioni (da altri ripetibili) che consentano di verificare o meno la conformità delle conoscenze con i dati empirici forniti dall’osservazione dei fatti. Grazie a tali criteri diventa possibile anche «spacchettare» una data cultura: da realtà monolitica a gamma più o meno coerente di fenomeni e processi. La conoscenza di un oggetto (o evento) diventa, quindi, la sintesi fra un certo punto di vista (o prospettiva) e l’oggetto (o evento) medesimo. Poiché l’adozione di una prospettiva è essenziale per l’attività del conoscere, le cose appaiono in modo differente a seconda della prospettiva da cui sono osservate. Le persone gestiscono le loro conoscenze facendo riferimento alla posizione che occupano all’interno della struttura sociale. In ogni momento sono circondate da un flusso di significati e modelli interpretativi disponibili all’esterno e influenzati dalla cultura di riferimento. Quest’ultima orienta e dirige il loro modo di spiegare e organizzare le proprie informazioni sulla realtà. 2.2. Aristotele e Confucio Nell’ambito della psicologia culturale, fra le diverse prospettive macroscopiche che caratterizzano la grande famiglia delle culture, particolare attenzione ha ricevuto la distinzione fra la prospettiva olistica e quella analitica della conoscenza. La prima affonda le sue radici nell’antica Cina di Confucio, la seconda nella Grecia di Platone e Ari93

stotele. Entrambe le prospettive sono alla base di costellazioni assai diverse di modelli culturali. Secondo Nisbett la cultura cinese, fin dall’antichità, è stata caratterizzata dal senso di obbligazione reciproca e dalla concezione collettiva dell’azione in funzione delle aspettative altrui (Nisbett et al., 2001). L’individuo è considerato non a sé stante (in questo caso sarebbe qualcosa di «non conoscibile»), ma come una parte inscindibile dell’organismo sociale, e anche l’agire umano è comprensibile solo in quanto flusso convergente delle relazioni sociali. L’organizzazione gerarchica dello Stato cinese e il concetto di autorità sono così concepiti come fatti naturali e inevitabili che costituiscono il collante per mantenere in armonia il mondo sociale2. Nell’antichità la civiltà cinese era assai più avanzata di quella greca sul piano tecnologico (dal sistema d’irrigazione all’inchiostro, dalla porcellana al compasso magnetico, dal sismografo alla polvere da sparo). La conoscenza non era destinata alla costruzione di teorie scientifiche e modelli astratti, bensì alla sua applicazione pratica. Per Confucio non esiste alcun tipo di conoscenza che non possa essere tradotta in azione. Qualora esistesse una conoscenza siffatta, non sarebbe affatto conoscenza. La conoscenza è quindi l’avvio dell’azione e l’azione è il diretto completamento della conoscenza. Al contrario, nell’antica Grecia prevaleva una prospettiva analitica di pensiero. Il potere conoscitivo era attribuito all’individuo inteso come agente separato e distinto dall’organismo sociale. L’unità di analisi della società era l’individuo (e non il gruppo), e lo Stato ateniese si configurava come un insieme di cittadini, ciascuno dei quali aveva dei diritti inviolabili. I cittadini obbedivano alle leggi da loro stessi approvate (fenomeno unico nel mondo antico). Il concetto di base era la libertà dell’individuo inteso come cittadino (più che suddito), protagonista sociale, demiurgo della propria esistenza. In questo contesto, il confronto esplicito e il dibattito aperto nell’agorà costituivano la 94

norma della vita sociale degli ateniesi. In quanto artefice della propria vita, l’individuo si sente separato dalla natura, che rappresenta una realtà da governare, modificare e piegare ai propri scopi. Il mondo è una realtà da controllare mediante la propria azione. Da questa impostazione derivava l’esigenza di conoscere il mondo al di là dell’apparenza degli aspetti sensoriali, alla ricerca di leggi astratte e universali. I greci si proponevano, pertanto, di costruire paradigmi teorici in grado di analizzare i fenomeni e di spiegare gli eventi attraverso processi di categorizzazione, regole di generalizzazione e modelli predittivi. In questo modo nacque la scienza come conoscenza oltre i meri dati sensoriali. In effetti, i greci compirono grandi passi in avanti nella fisica, nell’astronomia, nella logica formale, nella geometria assiomatica e nella filosofia. Sulla scorta di queste premesse, i modelli culturali sviluppatisi in Cina e in Grecia hanno intrapreso strade diverse. Nella concezione olistica cinese l’attenzione è diretta al campo (contesto) inteso come totalità e alle relazioni fra un dato oggetto e il campo stesso. In tal modo è più facile comprendere le cause di un evento in quanto generate dalle forze del campo in gioco (come nel caso del magnetismo). La conoscenza si fonda allora sull’esperienza e sulla percezione sensoriale (più che sulla logica astratta). Essa ha una natura dialettica, poiché pone l’accento sul cambiamento, sull’accoglimento degli aspetti contraddittori della realtà e sull’esigenza di seguire molte prospettive diverse, alla ricerca del percorso di mezzo (middle way) per conciliare posizioni fra loro opposte3. Al contrario, nella concezione analitica greca si ha la distinzione fra l’oggetto e il contesto. Vi è la tendenza a studiare principalmente gli attributi dell’oggetto per assegnarlo a una categoria e la preferenza a usare regole astratte per spiegare e predire la condotta dell’oggetto. Le inferenze si fondano sulla logica formale, sul principio di non contraddizione e sulla costruzione di modelli governati da 95

leggi astratte e universali. Come conseguenza, tale concezione implica la segmentazione del flusso degli eventi e degli oggetti in categorie discrete, ognuna delle quali è caratterizzata da proprietà specifiche e distintive. L’attenzione precipua sulle proprietà dell’oggetto rende difficile capire le cause dei fenomeni cui va incontro, poiché tali cause sono identificate da proprietà intrinseche (per esempio, come indicava Aristotele, la «gravità» della pietra che va a fondo e la «levità» del legno che galleggia). La conoscenza deve andare oltre l’esperienza e i dati sensoriali. Deve spiegare le cose solo attraverso la ragione. Per questo motivo i greci non svilupparono mai il concetto di «zero», poiché il niente è intrinsecamente contraddittorio. Occorrerà attendere gli arabi per disporre dei concetti di zero e d’infinito e per avere l’algebra e il calcolo infinitesimale (Djebbar, 2001)4. 3. Modelli culturali e credenze I modelli culturali vivono delle credenze che individui e comunità producono, condividono e modificano. Far parte di una certa cultura significa condividere gli schemi mentali, i modelli comunicativi, le categorie interpretative e concettuali sottese alle conoscenze proposizionali (quelle che riguardano il «che cosa» si conosce) e a quelle procedurali (quelle riguardanti il «come» si conosce). Ogni cultura si configura, pertanto, come una costellazione di credenze, adeguatamente estesa per affrontare i vari aspetti della realtà fisica e sociale, relativamente stabile (anche se in evoluzione per novità o per imprevisti) e convenzionalmente condivisa dalla maggioranza degli attori di una data comunità. Tale costellazione costituisce una mappa in grado di spiegare le varie situazioni ambientali in cui il soggetto vive, in modo da fornirgli una chiave interpretativa per ogni fenomeno. Essa si presenta, tuttavia, come una griglia se96

lettiva, poiché, adottando una certa prospettiva, privilegia certi aspetti e ne ignora altri. Ogni costellazione di credenze, infatti, è costruita attorno ad alcuni nodi centrali, da cui partono gli altri fili della rete interpretativa. Su questa base s’innesta il processo di categorizzazione mentale per l’elaborazione dei significati, per il processo di valutazione e comparazione degli eventi, nonché per la messa a punto dei criteri sottesi alla decisione e all’azione. Qualsiasi costellazione di credenze non è omogenea al suo interno, ma è articolata fondamentalmente in due sottogruppi distinti, fra loro eterogenei: quello delle credenze positive e quello delle credenze negative (Rokeach, 1960). Il primo è l’insieme delle credenze che il soggetto adotta e ritiene vere, giuste ed efficaci; mentre il secondo è l’insieme delle credenze che il soggetto decide di non adottare, poiché non le valuta vere o perché le ritiene irrilevanti, anche se sa che altri soggetti potrebbero abbracciarle. I modelli culturali che guidano la mente delle persone sono fondati sulle credenze positive (modelli da seguire) e negative (modelli da evitare). Come sono organizzate le credenze all’interno della mente umana? Qui le varie credenze non godono del medesimo statuto epistemico, poiché in ogni sottosistema vi sono credenze centrali (o primarie) e credenze periferiche (o secondarie). Le prime sono ritenute indispensabili per definire e proteggere la propria identità culturale, conseguire una posizione di prestigio all’interno di un dato ordine sociale della propria società o evitare forme di emarginazione in caso di disimpegno. Queste credenze assurgono al valore di simbolo5 e, in quanto tali, sono al centro dell’attenzione da parte della maggioranza di una certa comunità, che le condivide, apprezza e, in caso di attacco, le difende con forza e convinzione. Parimenti, la loro infrazione è fortemente sanzionata e punita. Le credenze periferiche, invece, sono specifiche e aggiuntive, tendenzialmente idiosincratiche, più soggette a 97

eccezioni e più facilmente modificabili o sopprimibili. La loro infrazione, quindi, non suscita particolari reazioni. La costellazione di credenze seguita e fatta propria da una certa cultura si configura, quindi, come patrimonio di conoscenze e dottrina circa l’esistenza e il mondo. Essa, infatti, si propone di rispondere agli eterni quesiti che gli esseri umani si pongono circa la loro origine, il loro destino, ecc. Entra qui in azione il concetto di ortodossia, inteso come fondazione della verità, accettabilità, validità, percorribilità e efficacia delle credenze proposte da una certa comunità6. Al suo interno, di conseguenza, uno o più gruppi di persone si candidano a diventare il depositario delle credenze, poiché si assumono la responsabilità di farsene garanti. Basta pensare ai sacerdoti, ai bramani, ai giudici, agli ideologi di partito ecc. Tali gruppi svolgono diverse funzioni culturali di primaria importanza. Innanzitutto, si propongono di stabilire e rafforzare la consistenza e la robustezza dottrinale del sistema di credenze di riferimento, di giustificare in modo logico (razionale) o storico (documentale) la sua fondazione, nonché di difenderlo in caso di attacchi da parte di chi non vi aderisce. L’apologetica rappresenta, pertanto, una quota importante di qualsiasi sistema di credenze, in quanto si prefigge di dimostrare l’inattaccabilità della propria ideologia. In secondo luogo, i gruppi depositari del sistema di credenze svolgono la funzione culturale di regia e governo, poiché si prefiggono di rafforzare il grado di apprendimento, adesione e consenso dei partecipanti alla dottrina, vigilando sull’applicazione delle credenze nelle loro pratiche quotidiane, stabilendo e presiedendo i rituali di rinnovamento e ravvivamento delle credenze, ecc. In terzo luogo, tali gruppi assumono la funzione culturale di controllo e sanzione. Essi, infatti, procedono alla regolamentazione delle espressioni ideologiche dei partecipanti, intervengono e ammoniscono in caso di devianze 98

eterodosse, puniscono le infrazioni e le rotture (i cosiddetti scismi ideologici). Pur essendo composta da sottogruppi diversi, fra loro disposti in modo gerarchico, la costellazione delle credenze funziona quindi in modo solidale e globale secondo tre parametri distinti: a) grado di permeabilità vs impermeabilità fra credenze positive e credenze negative; b) accentuazione vs riduzione della distanza fra credenze positive e credenze negative; c) grado di connessione forte vs debole fra credenze centrali e credenze periferiche. In funzione di questi parametri si può osservare concretamente il livello di dogmatismo ideologico che caratterizza le persone in una data comunità. Si ha una condizione di forte dogmatismo, quando: a) il sistema delle credenze positive e quello delle credenze negative restano fra loro impermeabili e impenetrabili; b) vi è una grande distanza fra le credenze positive e quelle negative; c) le credenze periferiche dimostrano un’accentuata dipendenza dalle credenze centrali attraverso un processo di assimilazione e assorbimento delle prime nelle seconde. Il dogmatismo forte, presente soprattutto nelle religioni monoteistiche, è quindi caratterizzato da una concezione monolitica, granitica e assolutamente incontrovertibile della realtà (Martin, 2005). È inevitabile che un certo grado di dogmatismo sia fisiologico e quindi presente in ogni cultura e persona, in quanto si fonda sulla loro identità e sulla loro adesione a un certo sistema di credenze. Esso, peraltro, rimane compatibile con una condizione di tolleranza e pluralismo culturale. Al contrario, il dogmatismo forte, oltre a porre in evidenza un livello elevato di rigidità mentale, costituisce anche una premessa fondamentale per l’etnocentrismo, poiché implica l’assolutizzazione del proprio punto di vista con l’esclusione di quello degli altri (cfr. cap. 5).

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4. Modelli culturali ed emozioni I modelli culturali non si limitano ad attribuire forma a idee, credenze, significati e categorie mentali delle persone, ma partecipano in modo intrinseco alla definizione e manifestazione delle emozioni che, a prima vista, potrebbero sembrare processi psicologici determinati maggiormente da fattori fisiologici. In verità, le emozioni – poiché non sono riflessi7 –, implicano una valutazione degli antecedenti situazionali e un’attribuzione di significato agli stimoli emotigeni. Esse non compaiono in modo gratuito, all’improvviso, senza una ragion d’essere, come accadimenti imprevisti e casuali, in una sorta di vacuum psichico (Anolli, 2002c). E parimenti non sono attivate in modo automatico dall’evento in sé e per sé; piuttosto, sono generate dai significati e dai valori che un soggetto attribuisce a questo evento. Eventi che soddisfano i suoi scopi e desideri, attivano nel soggetto emozioni positive; eventi valutati come dannosi o minacciosi conducono invece a emozioni negative, mentre eventi inattesi suscitano sorpresa e stupore8. Di conseguenza, data la loro natura, le emozioni sono profondamente plasmate dai modelli culturali a più livelli. 4.1. Modelli culturali e semantica emotiva Occorre partire da questa evidenza: ogni cultura ha elaborato il proprio lessico emotivo, inteso come l’insieme dei termini dizionariali ed enciclopedici per comunicare le emozioni. Esistono, anzi tutto, variazioni culturali rilevanti per l’estensione quantitativa dei singoli repertori lessicali. Si va dal lessico emotivo inglese che contiene oltre 2.000 parole a quello olandese che ne ha circa 1.500, per giungere ai 750 del lessico cinese (di Taiwan) e ai 230 della lingua di Malay (Russell, 1991). Fra le culture non alfabetizzate, gli ifaluk della Micronesia hanno un repertorio emotivo di 58 termini, mentre i chewong della Malaysia 100

utilizzano soltanto una decina di parole per esprimere tutte le emozioni (Howell, 1981). Di per sé, l’estensione del lessico emotivo, infatti, consente di esprimere e discriminare i propri stati affettivi9. Tuttavia, il fatto che un’emozione non sia lessicalizzata non vuol dire che non sia provata. L’assenza di una parola non dimostra l’assenza di un’emozione, ma la presenza di una parola significa certamente la presenza di una certa esperienza emotiva. D’altra parte, il termine stesso «emozione» non è universale10. Anche nelle culture occidentali non vi è corrispondenza concettuale né lessicale per la parola «emozione». Il termine inglese emotion non trova un corrispettivo nella lingua tedesca comune, dove esiste la parola Gefühl per indicare i sentimenti a livello sia fisiologico sia psicologico (da fühlen come equivalente di to feel). Il russo cˇuvstvo corrisponde sia a sentimento che a emozione, ma il plurale cˇuvstva indica i sentimenti connotati in modo cognitivo. In francese, italiano e spagnolo i termini sentiment, sentimento, sentimiento, indicano uno stato d’animo prettamente cognitivo, mentre l’inglese feeling indica anche una condizione fisica. Al contrario, le parole émotion, emozione, emoción hanno un significato più ristretto rispetto all’inglese emotion e fanno riferimento a un preciso episodio emotivo, piuttosto intenso e improvviso. Queste diversità semantiche pongono in evidenza la specificità culturale delle emozioni. Vi sono culture che hanno emozioni che altre non hanno. È il caso di amae per i giapponesi (l’emozione di una dipendenza totale e passiva in una relazione di benevola indulgenza da parte di un altro), di iklas per i giavanesi (l’emozione per una frustrazione piacevole) o di awumbuk per i baining della Nuova Guinea (l’insieme di tristezza, apatia, stanchezza e noia per la partenza di un visitatore). Vi sono culture che distinguono emozioni che altre indicano con un unico concetto. Per esempio, per i gidjingali il termine gurakadj corrisponde sia alla vergogna sia alla paura (Hiatt, 1978). Al 101

contrario, gli ifaluk distinguono nettamente due diverse emozioni come la paura per gli eventi futuri (metagu) e la paura per gli eventi presenti (rus) (Lutz, 1982). Parimenti, per gli eschimesi la paura per danni fisici (iqhi) è un’emozione nettamente distinta dalla paura per ragioni sociali (ilira) (Briggs, 1970). Questa varietà culturale riguarda anche le categorie semantiche delle emozioni, governate da modelli culturali che indicano come interpretare e reagire a una certa situazione in termini emotivi. Questa condizione, ovviamente, concerne tutte le emozioni, dalla gioia alla tristezza, dalla vergogna alla colpa e alla collera11. 4.2. Modelli culturali e focalità emotiva I modelli culturali non solo attribuiscono forma alle categorie semantiche e lessicali delle emozioni ma definiscono anche la prospettiva emotiva con cui interpretare e reagire agli eventi. Non vi sono stimoli che producano in modo costante e universale una specifica emozione12. Persone provenienti da culture differenti, avendo diverse valutazioni di un analogo evento, proveranno anche emozioni differenti. Come avviene questo processo? Ogni cultura, in quanto prospettiva specifica e griglia selettiva di categorie mentali, attiva una determinata focalizzazione su certi eventi piuttosto che su altri. Siamo in presenza dei cosiddetti eventi focali, ossia eventi particolarmente importanti e che dunque non possono essere ignorati dai soggetti di quella cultura, in grado di attivare la loro attenzione e caratterizzati dalla presenza di norme chiare per la loro interpretazione e per le risposte emotive da fornire (Mesquita e Frijda, 1992; Mesquita ed Ellsworth, 2001). Gli eventi focali sono ben strutturati grazie alla presenza di norme culturali chiare e condivise su come interpretare questi eventi e su come rispondervi. Tale chiarezza normativa elimina le aree di ambiguità, offre al sogget102

to certezza di valutazione, rende le sue risposte emotive all’evento focale un qualcosa di ovvio e scontato, come se tali risposte fossero imposizioni dell’evento stesso piuttosto che il risultato del suo processo di valutazione (Anolli, 2004). Inoltre, gli eventi focali non passano inosservati e il soggetto non può esimersi dal rispondervi in modo appropriato, poiché tali eventi esigono una sua precisa presa di posizione. Il concetto di prospettiva emotiva sfocia, allora, in quello di focalità emotiva, intesa come disposizione culturale a rispondere in modo elettivo con certe condotte emotive a fronte di specifici eventi. Tale disposizione comporta una particolare sensibilità emotiva a certe situazioni piuttosto che ad altre, con l’attivazione più tempestiva dell’attenzione e la comparsa più immediata delle reazioni. Essa esprime, inoltre, il grado di elaborazione cognitiva di certe emozioni da parte di una data cultura. A questo riguardo, Levy (1984) ha distinto le emozioni ipercognitivizzate dalle emozioni ipocognitivizzate. Le prime sono privilegiate all’interno di una certa cultura e qualificate da un ampio repertorio di vocaboli ed espressioni linguistiche ed extralinguistiche per essere manifestate. Per esempio, nel tahitiano vi sono 46 termini distinti per indicare il concetto di «collera», per cui è possibile comunicarne ogni sfumatura, mentre in italiano abbiamo a disposizione circa una decina di termini per questa emozione. Le emozioni ipocognitivizzate, invece, sono trascurate all’interno di una data cultura e non vi sono a disposizione né termini né espressioni per comunicarle. Per esempio, nel tahitiano non esistono concetti né termini per indicare la tristezza. Quando compare, questa emozione è descritta come sentirsi malati, essere posseduti da uno spirito maligno o essere affaticati (p’ap’a). D’altro canto, nella cultura cinese la vergogna è un’emozione fortemente ipercognitivizzata, descritta da oltre una decina di termini rispetto a un lessico emotivo limitato (la vergogna, infatti, è un’efficace e diffusa modalità di controllo sociale); al 103

contrario, l’ansia è un’emozione ipocognitivizzata, poiché in cinese non esiste il corrispondente lessicale di questa esperienza (Russell e Yik, 1996). La focalità emotiva specifica lo stile emotivo di una cultura, in quanto genera la tendenza e la disposizione a privilegiare in modo elettivo nel tempo certe esperienze emotive e certe condotte affettive rispetto ad altre. Tale stile caratterizza in modo distintivo ogni cultura13. 4.3. Modelli culturali e manifestazione delle emozioni Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, grazie alla riscoperta di Darwin e alle origini della psicologia evoluzionista, era diventata quasi un dogma l’ipotesi circa l’universalità delle espressioni facciali delle emozioni. Esse erano considerate come Gestalt innate, unitarie e chiuse, universalmente condivise, sostanzialmente fisse, di natura discreta, specifiche per ogni emozione e controllate da definiti e distinti programmi neuromotori (Ekman, 1992). Poiché secondo questa concezione la loro insorgenza sarebbe immediata e spontanea, esiste un preciso isomorfismo fra emozione ed espressione facciale: a ogni emozione concepita come categoria discreta corrisponde una specifica espressione facciale definita come Gestalt unica, anche quando si è soli (Ekman, Davidson e Friesen, 1990; Izard, 1994). Da queste premesse derivano i corollari dell’invariabilità culturale delle espressioni facciali e della universalità della loro produzione e riconoscimento, senza bisogno di fare ricorso al contesto di uso. Impiegando il cosiddetto metodo standard14, alcune ricerche degli anni Settanta sembravano confermare l’ipotesi dell’universalità delle espressioni facciali delle emozioni. Tuttavia, un’analisi critica dei risultati di tali ricerche condotta da numerosi studiosi (fra cui Russell, 1994; Fernández-Dols, 1999) ha posto in evidenza rilevanti limiti sulla loro validità e attendibilità15. Da tale dibattito è emersa l’ipotesi della universalità minima, secondo cui è 104

prevedibile un certo grado di somiglianza fra varie culture nella produzione e interpretazione delle espressioni facciali, senza necessariamente postulare l’esistenza di un sistema universale e automatico. Tale ipotesi appare in linea con il concetto di «gradiente di riconoscimento»: certe manifestazioni emotive sono più riconoscibili di altre (come quelle della gioia e della felicità), mentre altre sarebbe uniche e idiosincratiche (come mordersi la lingua per la vergogna nella popolazione di Orissa, nell’India orientale). Oggi ha assunto maggiore peso la prospettiva situazionista, che attribuisce grande rilievo al contesto in cui si producono e s’interpretano le diverse espressioni (facciali, vocali, motorie, ecc.) delle emozioni. Accanto a dispositivi generali, tali espressioni sono soggette a una gestione locale e contingente rispetto a opportunità e vincoli situazionali (per esempio a seconda del contesto, che può essere ufficiale, informale o familiare). Tale gestione locale, di conseguenza, varia da cultura a cultura, poiché ogni cultura ha elaborato uno specifico repertorio di manifestazioni per comunicare le emozioni. In tal modo, i modelli culturali consentono di giungere a una soddisfacente calibrazione affettiva, in linea con i vincoli e le opportunità offerte dal contesto. È in gioco la capacità di produrre i segnali culturalmente più pertinenti e di misurarne l’intensità in funzione della situazione. Così il soggetto raggiunge un soddisfacente grado di efficacia emotiva, intesa come abilità nella regia delle proprie emozioni all’interno della rete delle relazioni interpersonali, accentuando – di volta in volta – in modo prominente certi aspetti, ignorandone altri e inibendone altri ancora. Le persone non solo provano emozioni ma le manipolano e gestiscono, poiché assumono una certa posizione verso il loro processo e le loro conseguenze. L’espressione delle emozioni, oltre che essere indotta da meccanismi biologici, è anche il risultato di opzioni: in ogni circostanza il soggetto si trova nella condizione di scegliere il livello di regolazione e di manifestazione della propria espe105

rienza emotiva in funzione dello stimolo, della situazione e dei modelli culturali di riferimento. 5. Modelli culturali e rapporti sociali A conclusione di questo capitolo farò solo un breve cenno all’incidenza dei modelli culturali sui rapporti sociali, non per irrilevanza del tema ma perché l’ambito d’indagine è troppo vasto. Tali modelli concernono tutte le attività quotidiane riferite sia ai contesti privati (familiari, amicali, ecc.) che pubblici (lavorativi, istituzionali, ecc.). Prendiamo come esempio la conversazione, considerata sistema comunicativo universale. In essa convergono aspetti relazionali, sociali, informativi, affettivi, ecc. Nella fase di apertura di ogni conversazione si hanno il riconoscimento degli interlocutori e i saluti di avvio. Mentre nelle culture occidentali l’impiego dei titoli è piuttosto raro e le distinzioni asimmetriche sono notevolmente attenuate, nelle comunità orientali le procedure di distribuzione dei turni, le forme di precedenza, le modalità d’interpellazione (con l’uso dei titoli) e il ricorso a espressioni di deferenza (facendo ricorso agli onorifici) caratterizzano profondamente l’andamento delle conversazioni. Le medesime differenze si osservano per i saluti iniziali16. Parimenti, il ritmo degli scambi17 e la sovrapposizione dei turni presentano variazioni sistematiche in funzione dei modelli culturali di riferimento. Altrettanto succede in occasione di un regalo o di un complimento. Mentre nelle culture occidentali sono previste forme di ringraziamento, in diverse società orientali (come in Giappone e in Corea) e africane (come nello Zaire) tali formule sono strettamente proibite fra i prossimi, in quanto sarebbero interpretate come un insulto. In particolare, in Giappone le espressioni di ringraziamento assumono valore di scusa, del tipo: «Sono desolato». Fenomeni analoghi sono presenti anche nei sistemi di 106

comunicazione non verbale. Vi sono culture della parola (come quelle africane, sudamericane e latine) e culture del silenzio (come quella giapponese, lappone, apache, paliyan, navajo, ecc.). Le prime sono caratterizzate da una rapida successione dei turni di parola e da pause brevi, in cui il silenzio è percepito come una minaccia e una mancanza di cooperazione nella gestione della conversazione. Le seconde, invece, sono contraddistinte da lunghe pause di silenzio fra un turno e l’altro, segnale di riflessione e di ponderatezza. In queste ultime il silenzio è inteso come segnale di fiducia, d’intesa profonda, di armonia e confidenza18. Parimenti, vi sono culture della distanza (come quella indiana, nordeuropea, ecc.) e culture della vicinanza (come quelle arabe, latine, sudamericane, ecc.). Le prime sono qualificate da una distanza interpersonale rilevante, mantenendo un’angolazione obliqua e riducendo le possibilità di contatto corporeo. Ogni contatto e riduzione dello spazio prossemico sono percepiti come forme d’intrusione e mancanza di rispetto. Nelle seconde, invece, la distanza interpersonale è ridotta e le occasioni di contatto fisico aumentano. Secondo questi modelli culturali la distanza è valutata in termini negativi come freddezza e ostilità. Sul posto di lavoro, i modelli culturali definiscono le organizzazioni produttive secondo linee diverse e fra loro molto distanti. Nelle culture occidentali la leadership è centrata prevalentemente sul dovere e spesso è di tipo partecipativo; al contrario, nelle culture orientali prevale una leadership paternalistica e autoritaria. Nelle aziende occidentali la fase decisionale avviene ai vertici dell’organizzazione e segue un canale gerarchico discendente. Nelle aziende giapponesi, invece, è abbastanza consueta la procedura ringi, che nella fase iniziale prevede di far circolare una proposta di decisione fra tutte le persone coinvolte, indipendentemente dal rango e dallo status. L’iniziativa di una proposta spesso arriva dal basso e dai livelli intermedi della gerarchia, ma talvolta anche dall’alto. Tale proposta, 107

di solito, è accompagnata da una serie di discussioni e di dibattiti. Tutti i pareri sono presi in considerazione e ogni aspetto positivo e negativo è approfondito in modo sistematico. La consultazione, quindi, è estesa il più possibile e si va alla ricerca del consenso prima che la proposta sia formalmente presentata. Questa consultazione allargata per il raggiungimento del consenso è chiamata nemawashi. Se la proposta non ottiene il consenso tramite questa procedura, è ritirata. Le proposte che invece superano questa consultazione, sono formalmente scritte e diventano immediatamente operative (Kondo, 1990; Misumi, 1985). Anche la gestione dei conflitti segue linee profondamente diverse in funzione dei modelli culturali di riferimento. Nelle culture occidentali la negoziazione avviene secondo modalità abbastanza dirette ed esplicite; per contro, nella cultura cinese prevalgono procedure indirette e implicite (Morris et al., 1998). I giapponesi in genere sono molto più pronti al compromesso rispetto agli americani, che puntano maggiormente alla vittoria. Per i giapponesi, invece, vale il principio «vincere è perdere», poiché la vittoria rischia di condurre alla disgregazione e alla diminuzione dell’armonia sociale (Gelfand et al., 2001). Nella cultura indiana, in caso di conflitto, si segue la tecnica nota come ahimsa, che attinge al buddismo, al giainismo e all’induismo e che è stata impiegata da Mahatma Gandhi contro il regime coloniale britannico (Sinha, 1986). L’ahimsa esalta il satyagraha, che è una forza nata dalla verità e dall’amore e che implica due principi fondamentali: il maha karuna (una grande compassione) e il maha prajna (una grande saggezza). Questa impostazione si fonda su un forte legame affettivo verso tutti gli esseri viventi e il rifiuto generale di recare danno agli altri. Date queste premesse, il primo passo per la risoluzione di un conflitto consiste nel cercare di persuadere l’altro discutendo e ragionando con lui. Se questa tattica fallisce, segue la manifestazione della propria sofferenza come dispositivo per indurre sensi di colpa nell’altro e per porlo in una condizione di svantag108

gio morale. Se anche questa fase fallisce, l’ahimsa prevede una forma di costrizione non violenta come la disobbedienza civile, il boicottaggio, la non cooperazione, ecc. L’ahimsa si fonda sul principio morale secondo cui solo la pace (e non la violenza) può frenare la violenza. Parimenti, per gestire i conflitti la cultura coreana prevede un ciclo di fasi che combina il mantenimento dell’armonia con il confronto. In particolare, sono previste le seguenti fasi: a) la costruzione del contesto – come base comune per condividere le informazioni e un certo clima affettivo; b) l’agevolazione – nella ricerca di una soluzione che non urti i sentimenti dei contendenti; c) la pressione – nell’impiego formale e informale di dispositivi di potere per forzare l’altra parte ad accondiscendere; d) la distensione – per ristabilire i legami fra le parti mediante forme conviviali (Cho e Park, 1998).

Note 1 A questo riguardo vale la battuta (attribuita a Tversky) dell’arbitro «costruzionista» di baseball che sostiene: «Non ci sono falli finché io non li fischio» (diversamente da un primo arbitro «realista» che dice: «Fischio i falli quando li vedo» e da un secondo arbitro «oggettivista» che afferma: «Fischio i falli perché ci sono»). Per il costruzionismo la personalità e la cultura sono idee socialmente costruite, e il concetto di identità diventa fluido, versatile e contingente, da declinarsi di volta in volta in funzione dei contesti di riferimento. 2 L’asimmetria delle relazioni, centrale nel pensiero di Confucio, prevede cinque forme cardinali (Wu Lun): imperatore e suddito, padre e figlio, marito e moglie, fratello maggiore e fratello minore, anziano e giovane. Tale asimmetria è premessa e garanzia per l’armonia sociale, poiché consente di evitare i conflitti, i confronti espliciti e i dibattiti aperti, valutati come una reale minaccia alla stabilità delle relazioni interpersonali. 3 All’interno di questa impostazione non si avverte l’esigenza di sviluppare un sistema formale di logica, né di rifiutare le contraddizioni: A e non A possono coesistere nello stesso tempo. Il pensiero olistico, come impegno ad armonizzare gli opposti, è quindi di natura associativa e

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conciliativa, e le sue procedure fanno riferimento soprattutto all’analogia e alla contiguità. 4 I modelli culturali sopra esposti assumono un valore metafisico (anche se ingenuo) e danno forma a tacite epistemologie, poiché influenzano le credenze sul come si acquisiscono le conoscenze. Parimenti, definiscono le cosmologie, le rappresentazioni sociali, le forme ingenue di psicologia, biologia, fisica e sociologia adottate dal mondo culturale cinese e da quello greco e condivise dunque da intere comunità di persone. 5 Di norma, in ogni cultura i nodi centrali di un sistema di credenze trovano espressione pubblica nella creazione di simboli (dal greco syn-ballein, ovvero mettere insieme, unire). Essi hanno la funzione di condensare in oggetti visibili i dogmi fondamentali su cui poggia tutto l’impianto delle credenze. In quanto tali, i simboli sono condivisi dalla maggioranza di una comunità e hanno un valore collettivo, poiché per essa costituiscono un punto di riferimento essenziale e vitale. Rappresentano altresì il cuore del credo soggettivo e forniscono le linee guida per la condotta personale nei vari contesti. I simboli esprimono in modo elettivo la doppia natura (esterna e interna) della cultura (cfr. cap. 1). Di conseguenza, sono segni forti di appartenenza e definiscono in modo evidente l’identità culturale di una certa comunità (cfr. cap. 5). Condividere certi simboli significa aderire a una certa visione del mondo, adottare un preciso insieme di pratiche, seguire una data gerarchia di valori e così via. Per queste ragioni, di solito i simboli assumono una connotazione sacra, diventano oggetti intoccabili, per cui si crea un’area di distanza rispettosa fra loro e le persone. Essi sono oggetto di venerazione e di profonda considerazione e il loro vilipendio è sancito dalle leggi con sanzioni spesso molto severe. L’accusa è quella di sacrilegio, talvolta punito con la morte. A motivo del loro status, di norma, i simboli possono essere trattati e maneggiati in modo esclusivo soltanto da gruppi selezionati di persone, quali gli stregoni, i sacerdoti e i bramani, che si pongono come intermediari fra i simboli e la comunità, come uno spazio di separazione e congiunzione allo stesso tempo fra il sacro e il profano, fra il puro e l’impuro. Questi gruppi diventano altresì i depositari dei significati profondi e «veri» racchiusi nei simboli, in quanto ne sono gli interpreti ufficiali, in grado di fornire una loro lettura ermeneutica autentica. La parola definitiva, in termini d’interpretazione dei simboli, tocca a loro. 6 Tale concetto, particolarmente sentito dai sistemi ideologici forti come la religione, le istituzioni totali o certi partiti politici, riguarda comunque ogni sistema di credenze. Infatti, ogni sistema si propone come vero e giusto, apprezzabile e attraente, degno di essere accolto e di ottenere il consenso da parte dei partecipanti. 7 I riflessi sono geneticamente determinati, con un decorso immediato (meno di 0,3 sec) e involontario (il riflesso patellare, il riflesso achilleo, ecc.). Al contrario, le emozioni, pur prevedendo meccanismi fi-

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siologici di risposta, costruiscono processi complessi, in parte controllabili e regolabili, attraverso i quali il soggetto si pone in connessione con l’ambiente. 8 Altrove (Anolli, 2002c) ho affrontato e approfondito il dominio delle emozioni umane. Pur non essendoci nessuna definizione soddisfacente di «emozione», tutti sappiamo di che cosa si tratta, in quanto oggetto della nostra esperienza quotidiana. A partire dall’articolo di James (1884), le emozioni sono state oggetto di diverse concezioni psicologiche. Oggi i principali orientamenti teorici sono sostanzialmente tre: a) prospettiva psicoevoluzionista (le emozioni sono un retaggio dell’evoluzione della nostra specie e sono associate alla realizzazione di scopi specie-specifici); b) prospettiva dell’appraisal (le emozioni sorgono in funzione della valutazione cognitiva degli antecedenti situazionali in riferimento alle loro implicazioni per il benessere del soggetto); c) prospettiva costruttivista (le emozioni sono costrutti sociali e ruoli transitori in quanto disposizioni momentanee a comportarsi in un certo modo ritenuto socialmente appropriato). In questo volume farò riferimento in modo prevalente alle teorie dell’appraisal. 9 In effetti, il ricco repertorio emotivo della lingua inglese consente alla cultura anglosassone di «parlare di» piuttosto che «sentire» le emozioni. Al contrario, nella cultura cinese il limitato lessico emotivo di questa lingua conduce i cinesi a somatizzare (cefalea, insonnia, inappetenza, ecc.) le esperienze emotive negative. In generale, nelle culture orientali, dove il lessico emotivo è meno esteso, le emozioni occupano una posizione meno centrale rispetto alle culture occidentali, almeno per quanto concerne le conversazioni quotidiane (Suh, 2000). 10 La parola «emozione» è assente presso i tahitiani, i bimin-kuskusmin della Papua Nuova Guinea, i gidjingali dell’Australia, gli ifaluk e i chewong (Russell, 1991). Per esempio, il termine niferash degli ifaluk (che letteralmente significa i nostri visceri) vale anche per emozione, come pure lagona per i samoani raggruppa sia le sensazioni fisiche che i sentimenti (Smith, 1994). Parimenti, in kayardild, la lingua di una popolazione dell’Australia centrale, si usa la parola bardaka (letteralmente stomaco) per designare i sentimenti positivi e negativi (Evans, 1994). Presso i chewong si usa il termine rus (letteralmente fegato) per indicare le emozioni e i sentimenti (Howell, 1981). 11 Per fare un esempio, mi soffermerò sull’emozione della «collera», intesa come risposta emotiva di difesa e di attacco a fronte di qualsiasi evento che impedisca di raggiungere o di mantenere la condizione desiderata. La categoria «collera» assume però significati assai diversi in riferimento alle culture non alfabetizzate. Gli ilongot (una tribù di cacciatori di teste nelle Filippine Centrali), per esempio, non hanno una categoria emotiva corrispondente a «collera». Quella più vicina è «liget», che raggruppa condotte emotive che vanno dal dolore per la morte di una persona cara alla collera vera e propria, dalla competizione alla fie-

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rezza, dalla baldanza durante una festa al desiderio di mettere se stessi alla prova (Rosaldo, 1984). Parimenti, gli ifaluk della Micronesia fanno riferimento alla categoria «song» per manifestare riprovazione e disappunto. Lutz (1987) parla di «collera giustificata» che si manifesta in rimproveri, nel broncio, nel rifiuto di mangiare e, in casi estremi, anche nel suicidio di fronte alle altrui infrazioni delle norme. Mentre il concetto di «collera» è caratterizzato da azioni di attacco contro altri, quello di «song» si manifesta con condotte di autopunizione affinché l’altro capisca e si ravveda. Il termine e il concetto di «collera» non trovano invece spazio nella cultura degli eschimesi utku, presso i quali anche i pensieri di collera sono rigettati in quanto pericolosi (Briggs, 1970). Anche nelle società occidentali la categoria «collera» non risulta eguale da una cultura a un’altra. La collera (come risposta a un’offesa) appare una condotta accettata e giustificata ma non vincolante in diverse culture occidentali (come quella italiana, francese o tedesca). È una risposta particolarmente controllata nella cultura anglosassone (dove vige l’ideale del to be cold). È un problema di dignità per i beduini e per le culture dell’onore (Abu-Lughod, 1986). È un’azione socialmente approvata e sostenuta presso le culture greca e albanese (Black-Michaud, 1975). Nella cultura polacca la categoria «z¢os´c´» è compatibile con le aggressioni degli animali e con i capricci dei bambini ma non con le reazioni degli adulti. Anche la categoria italiana «rabbia» (in inglese rage, fury) nella lingua parlata è assai più frequente dei termini collera o ira con espressioni del tipo «questo mi fa rabbia», «pieno di rabbia», «in un momento di rabbia». A sua volta, la categoria giapponese «ikari» solo in parte equivale a «collera», in quanto «ikari» implica una minore agitazione ed eccitazione interna, una tendenza più debole a rompere il contatto con l’offensore e ad attaccarlo, ma diversamente da «collera», comporta una tendenza più forte ad allontanarsi e a evitare il contrasto, maggiore apatia, impotenza, fragilità e inibizione (Markus e Kitayama, 1991, 1998). 12 È l’ipotesi delle contingenze universali (Ellsworth, 1994). Ma non così. Per esempio, la solitudine può essere percepita dalla classe media europea come un’opportunità per la propria privacy, ma può significare isolamento sociale e fonte di dispiacere per gli eschimesi utku (Briggs, 1970), causa di paura e di preoccupazione per i tahitiani (Levy, 1973) e di panico per i beduini (Abu-Lughod, 1986), per i quali la solitudine consente agli spiriti di disturbare e danneggiare una persona. 13 A titolo di esempio riporterò in modo sintetico lo stile emotivo della sincerità e della spontaneità per i polacchi. Tale cultura è caratterizzata dalla consuetudine di manifestare i propri sentimenti in modo sincero, cioè di esprimere sempre quello che si sente, che si tratti di emozioni positive o negative. In funzione di tale norma le emozioni non sono filtrate dalle convenzioni sociali. Per esempio, non esiste il «codice del sorriso» come per altre culture occidentali. Nella cultura polacca il sorriso di convenienza è ritenuto «artificiale» (sztuczny) e «falso»

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(fa¢szywy) e, pertanto, da rifiutare in quanto «sorriso dipinto». In questa cultura il valore della sincerità emotiva è associato a quello del rispetto e della stima, anche nel caso di emozioni negative. Vale il principio per cui è meglio urtare i sentimenti altrui ma far vedere ciò che uno prova che camuffare o modificare le proprie emozioni. In quest’ultimo caso vi sarebbe una mancanza di stima nei confronti dell’interlocutore, poiché non lo si riterrebbe in grado di sopportare le critiche e le emozioni negative. Per questa ragione i polacchi sono diffidenti verso i complimenti e dicono spesso: «To nie komplement» (Non è un complimento) (Klos Sokol, 1997). Al contrario, sono espliciti nelle loro critiche, in quanto premessa a una relazione sincera e leale. La «regola della sincerità» si associa a quella della spontaneità nel manifestare le emozioni. Questa manifestazione disinibita risponde al principio «desidero mostrare quello che provo, in modo tale che gli altri sappiano come mi sento e come comportarsi con me». Tale condotta implica la necessità di guardarsi apertamente e a lungo negli occhi, di essere espressivi (wyraziste) e mobili (ruchliwe) con il proprio volto, di prestare attenzione alla mimica emotiva reciproca. 14 Il metodo standard prevedeva, di norma, la partecipazione di studenti universitari come osservatori e giudici, il ricorso a fotografie preselezionate di espressioni in posa di sei emozioni di base (gioia, collera, paura, sorpresa, tristezza, disgusto), un disegno sperimentale «entro soggetti» per la misurazione della variabilità dei dati, un ordine randomizzato di presentazione degli stimoli (spesso eguale per tutti i partecipanti), nonché il vincolo di fornire la risposta scegliendo un termine da una lista limitata e prefissata di emozioni (scelta forzata). L’applicazione di tale metodo è risultata molto più impegnativa presso popolazioni non alfabetizzate del mondo maggioritario (non occidentale). In particolare, sono state condotte alcune ricerche da Ekman e collaboratori presso i sadong del Borneo, i fore, i bahinemo e i dani della Nuova Guinea, anche se non esiste un resoconto definitivo dell’intero programma di ricerca (Ekman, Sorenson e Friesen, 1969; Ekman e Friesen, 1971). Dalla sintesi di tali dati e dalla meta-analisi di Elfenbein e Ambady (2002) emerge che i punteggi del riconoscimento corretto per ogni emozione sono certamente superiori a quelli dovuti al caso, ma anche che essi, lungi dall’essere uniformi, variano in modo sistematico in funzione delle diverse culture. In particolare, nelle culture non alfabetizzate questi punteggi appaiono molto meno in linea con la tesi dell’universalità rispetto a quelli osservati nelle società alfabetizzate. 15 Per quanto concerne le ricerche nelle società alfabetizzate (occidentali e non), in quasi tutti i casi i partecipanti erano studenti universitari, dotati di un buon grado di istruzione e relativamente omogenei in termini di cultura giovanile. Quando si è fatto ricorso a studenti provenienti da regioni rurali dell’Etiopia si sono registrati risultati assai inferiori a quelli ottenuti con studenti urbani (Ducci et al., 1982). Parimen-

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ti, il disegno sperimentale «entro soggetti» per misurare la variabilità dei punteggi (ossia, il fatto che lo stesso soggetto giudichi le espressioni dell’intera gamma degli stimoli) incrementa sensibilmente (di almeno 10%) i valori osservati, poiché ogni partecipante ha la possibilità di fare un confronto diretto fra le diverse espressioni facciali con forme di apprendimento implicito grazie ai processi di assimilazione e di contrasto. Tale processo non sarebbe possibile con un disegno sperimentale «tra soggetti», in cui ogni partecipante giudica soltanto un’espressione facciale. In questo caso, per esempio, l’espressione «tristezza», che ha ottenuto un valore di riconoscimento pari a 58,3% quando è preceduta da un’espressione di «felicità» e pari a 72,1% se preceduta dall’espressione di «collera», scende a 44,2% in una condizione tra soggetti (cioè, valutata singolarmente in modo isolato) (Tanaka-Matsumi et al., 1995). In generale, il metodo standard prevede lo studio di volti a sé stanti e isolati, sulla base del presupposto che il significato a essi attribuito resti invariato. In realtà, i giudizi circa un dato volto non sono assoluti ma relativi ai volti che l’osservatore ha visto in precedenza. Un volto neutro appare triste dopo aver visto un volto felice, oppure felice dopo aver visto un volto triste. Questa influenza sistematica dell’antecedente sul susseguente non vale, ovviamente, solo per gli stimoli neutri (Tagiuri, 1969; Thayer, 1980). Anche gli stimoli facciali impiegati in queste ricerche non sono esenti da distorsioni. Anzi tutto, si tratta di fotografie accuratamente selezionate e vagliate fra migliaia di pose iniziali. Quando non si è fatto ricorso a questo procedimento, i valori di riconoscimento sono diminuiti in modo rilevante (Malatesta, Fiore e Messina, 1987). In particolar modo, gli stimoli usati nel metodo standard consistevano in espressioni deliberate e studiate, che accentuavano la mimica facciale, sottolineandone in modo stereotipato alcuni tratti. Se s’impiegano espressioni facciali prese da contesti quotidiani, più in linea con i criteri della validità ecologica, si registra una grande diminuzione nei valori di riconoscimento, spesso poco al di sopra del caso o anche al di sotto di esso (Wagner, Mac Donald e Manstead, 1986). La scelta forzata costituisce un altro limite del metodo standard, poiché orienta l’attenzione verso una certa risposta e crea inevitabilmente uniformità e consenso. Se invece si fa ricorso a una lista di termini liberamente scelta (free label), spesso i soggetti non fanno neppure riferimento alle emozioni bensì alla situazione (Frijda, 1953). In ogni caso si assiste a una rilevante diminuzione dei valori di riconoscimento corretto, a una più estesa gamma dei termini impiegati, nonché a una maggiore dispersione dei risultati (Russell, 1991). Per quanto concerne le ricerche condotte presso popolazioni non alfabetizzate, i limiti più consistenti derivano dalla possibilità di controllo delle situazioni sperimentali, nonché dalle difficoltà linguistiche. Come ricorda Sorenson (1976) a proposito delle ricerche realizzate presso i fore, la mancanza di conoscenza della lingua melanesiana pidgin da parte dei ricercatori, la necessità di servirsi d’interme-

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diari, la loro tendenza a suggerire ai partecipanti le risposte in modo simile agli occidentali e la discussione vivace fra i fore per l’avvenimento finirono per distorcere i protocolli dell’indagine. 16 In alcune culture, chi si trova in uno status sociale inferiore deve rivolgere per primo il saluto a chi è in una posizione superiore (come in certe comunità rurali e presso i wolof); in altre culture è il superiore che deve salutare per primo. Nella maggioranza delle attuali culture occidentali le forme di precedenza in materia si sono molto attenuate. I saluti sono spesso accompagnati da domande rituali circa «lo stato di salute» dell’interlocutore con interrogazioni del tipo: «Come va?», «How do you do?», «Comment ça va?», «Wie geht’s?», «¿Qué tal?». Questo tipo di domanda appare notevolmente indiscreta in Giappone, mentre in Vietnam è sostituito da domande sul «benessere gastronomico» (come «Ha mangiato riso?»). 17 Per esempio, negli Stati Uniti la pausa fra un turno e l’altro (gap) è pari in media a 0,5 secondi, mentre in Francia e in Italia è pari a 0,3. Di conseguenza, quando si trovano a parlare americani e italiani (o francesi), questi ultimi tendono ad anticipare i loro interlocutori americani. Questo fenomeno è particolarmente evidente fra gli athabascan dell’Alaska e i canadesi, poiché il gap minimo per i primi corrisponde al gap massimo per i secondi. 18 In particolare, i paliyan, una popolazione di raccoglitori e cacciatori del sud dell’India, parlano pochissimo e attorno ai quarant’anni diventano quasi silenti, considerando anormali e offensivi coloro che hanno una buona loquacità (Gardner, 2000). Similmente, i lapponi del nord della Svezia hanno conversazioni con un ritmo molto rallentato fra loro; per esempio, fra una semplice richiesta e la conseguente risposta possono passare anche diversi minuti di silenzio.

V

La mente monoculturale

La mente monoculturale è quella posseduta oggi dalla grande maggioranza degli umani che, infatti, al momento attuale, sono allevati in uno specifico habitat culturale di significati e pratiche. La loro mente è allenata a funzionare solo secondo un registro unico. La loro esistenza trascorre lungo i percorsi segnati dalla cultura di riferimento. Questi individui, quindi, dispongono in modo esclusivo dei modelli culturali di cui si sono appropriati nel corso della loro esperienza. Si può dire, senza timore di smentita, che la cultura è stata un vantaggio incommensurabile per la nostra specie. Grazie a essa gli esseri umani si sono moltiplicati a dismisura e sparsi su tutta la Terra. Hanno prolungato la loro esistenza e migliorato la qualità della vita. Hanno creato le religioni, i vari sistemi di pensiero e la tecnologia. Potremmo dire di essere una «specie felice». Eppure, da più parti emerge la consapevolezza che così non è. Si parla sempre più spesso di «guerre di civiltà», «guerre di religione», «scontri fra culture», «nuovo razzismo» e così via (Huntington, 1996). Gli attriti culturali, dagli attentati del fondamentalismo alle «guerre per la democrazia e la libertà», sono sotto gli occhi di tutti. La realtà è semplice e drammatica allo stesso tempo: la 116

mente monoculturale non è più sufficiente né è più in grado di gestire la complessità dei rapporti interculturali che oggi animano la scena mondiale. Questo tipo di mentalità poteva funzionare in passato, quando i flussi migratori e le occasioni di contatto fra culture diverse erano esigui, rallentati, diluiti nel tempo e riguardavano percentuali limitate di persone. Oggi i flussi migratori, da Sud a Nord, da Est a Ovest, hanno assunto dimensioni gigantesche e sono difficilmente controllabili. Mentre nel 1970 in Italia gli immigrati regolari erano 144.000, nel 2005 raggiungevano quota 2.786.000, di cui il 38% laureati o diplomati (Caritas/Migrantes, 2005). Si ritiene che nel 2015 gli immigrati in Italia saranno sei milioni. Sempre nel 2005, nei paesi dell’Unione Europea erano presenti circa 23 milioni d’immigrati. Si stima che nel mondo vi siano 175 milioni di migranti internazionali su sei miliardi di persone; in pratica, almeno un individuo su 35 è migrante, di cui la metà donne (Onu, 2005). Nelle società a tecnologia avanzata, il 10% della popolazione è costituito in media da immigrati. È un fenomeno che non ha precedenti nella storia umana. Nel 2030 saremo otto miliardi di abitanti sulla Terra e i flussi migratori saranno ancora più imponenti di quelli di oggi. Contemporaneamente, oggi si assiste a quello che è stato definito il revival etnico. Basta riflettere su questo dato: nel 1950 i paesi membri delle Nazioni Unite erano 58, in maggioranza occidentali; nel 2000 erano circa 200, per lo più appartenenti al mondo maggioritario (paesi non occidentali). Il quadro è ulteriormente complicato dalla sempre più forte presa di coscienza della propria appartenenza culturale da parte delle comunità molto numerose che oggi popolano la Terra. Tale rivitalizzazione culturale può essere interpretata come una reazione alla politica coloniale del mondo occidentale. Di fatto, essa ha condotto e continua a condurre alla riscoperta e rivalutazione delle cosiddette «identità perdute». Il catalogo delle identità disponibili cresce, mu117

ta e si sviluppa man mano che nel mondo s’infittisce la rete dei rapporti politici ed economici. Con la definizione di nuove frontiere e con la cancellazione delle vecchie, la complessità del catalogo delle comunità etniche e culturali aumenta ulteriormente. Si corre il rischio di un’eccessiva frammentazione e instabilità, ma anche che da vantaggio specie-specifico la cultura si trasformi in un dispositivo autodistruttivo, fuori dal controllo degli stessi esseri umani. Esattamente come succede per le malattie autoimmuni. In questo capitolo ci proponiamo di capire per quali ragioni la mente monoculturale funzioni in questo modo e quali siano i suoi limiti e rischi. 1. Perché siamo così diversi? Come si è già detto, la grande molteplicità dei modelli culturali genera in modo inevitabile profonde diversità culturali. Da un lato, la cultura consente l’organizzazione delle diversità; dall’altro, è un potente dispositivo di produzione di differenze. Inoltre abbiamo già considerato la natura relazionale e interattiva delle diversità culturali: non si è differenti per costituzione intrinseca ma solo grazie al confronto con gli altri. L’enorme famiglia delle culture umane costituisce una rete posizionale, nella quale ogni cultura viene a occupare una posizione nodale, data la sua configurazione complessiva e specifica. Il primo interrogativo riguarda proprio questo aspetto: perché noi esseri umani, che apparteniamo a un’unica specie e che non siamo distinti per razze, siamo tuttavia così diversi? In che modo si accendono e si moltiplicano le culture? Va premesso che le diversità culturali non sono generate dall’isolamento dei vari gruppi umani, bensì dalla loro interazione e dai loro scambi (Barth, 1969). Lo scambio, infatti, è un potente fattore di differenziazione poiché è alla base del confronto culturale. Tale confronto richiede 118

che le persone abbiano una rappresentazione mentale della mappa delle culture, almeno di quelle con cui si confrontano. Il raggiungimento di questo traguardo comporta la capacità e l’attività di categorizzare le varie comunità umane in termini culturali. La categorizzazione culturale, al pari di quella dei generi naturali e degli artefatti, serve a classificare e a mettere ordine nell’insieme indifferenziato delle culture. Il confronto diventa, quindi, il dispositivo fondamentale per operare le opportune distinzioni fra le culture, per attribuire valori positivi alla propria cultura di appartenenza e per differenziarsi dalle altre. Su questa base s’innesta anche il meccanismo della competizione culturale nella distribuzione e gestione delle risorse materiali e immateriali, nella capacità di creare adesione e appartenenza, d’influenzare gli altri in termini di scelte economiche, di valori, di pratiche sociali e così via. La logica comparativa e relazionale sottesa al confronto culturale comporta un processo di differenziazione culturale, ossia di definizione delle differenze fra le varie comunità culturali. Già Tajfel (1981) aveva osservato che le persone sono portate ad accentuare le somiglianze fra i membri della propria cultura (in-group) e a minimizzarne le differenze; nel medesimo tempo, tendono ad accentuare le differenze delle altre culture (out-group) e a minimizzarne le somiglianze. Questi fenomeni di accentuazione delle somiglianze intraculturali e delle differenze interculturali sono alla base della differenziazione culturale. Siamo in presenza di un dispositivo elementare ed efficace in grado di generare, perpetuare, rinnovare e modificare le diversità culturali. Tale dispositivo è anche centrale per la determinazione del concetto di «identità culturale». In secondo luogo, va sottolineato che la grandissima famiglia delle culture oggi esistenti è la testimonianza più viva, forte ed entusiasmante della enorme creatività umana, intesa come capacità di trovare soluzioni innovative per la propria esistenza. Qui «creatività» non significa tanto pen119

siero divergente quanto piuttosto la capacità di fare qualcosa di nuovo e d’imprevisto a partire da componenti già presenti e disponibili nell’ambiente. La creatività culturale non è mai qualcosa di scontato. È avviare il processo dal basso, da elementi semplici per combinarli in modo inatteso, attraverso un faticoso e tortuoso percorso d’induzione che alterna momenti di esplosione creativa a lunghi periodi di stasi. Pertanto, alla base della creatività culturale vi sono la curiosità, la voglia di esplorare l’inesplorato, l’esigenza di non accontentarsi dell’esistente e di non dare per definitive le soluzioni finora trovate. In particolare, la creatività culturale richiede la capacità di produrre nuove sintesi a partire da premesse che di per sé non sono fra loro consonanti. Creare vuol dire rendere possibile ciò che in apparenza, a prima vista, risulta impossibile. In questo senso la creatività culturale consiste nel generare e dominare il fuoco, nel far rotolare oggetti, nell’inserire informazioni in un pezzo di silice, nell’impiegare le onde per trasmettere immagini, ecc. In terzo luogo, le diversità culturali sono giustificate e spiegate dall’esigenza di conseguire forme elevate ed efficaci di adattamento all’ambiente. Questo fattore connesso all’ecologia contribuisce in modo rilevante a rendere intelligibili le nicchie culturali oggi esistenti, poiché ogni popolazione locale tende a elaborare forme culturali che ottimizzino le opportunità e i vincoli dell’ambiente (dal clima alla conformazione del territorio). Sotto questo profilo ogni cultura costituisce un repertorio unico di risposte al proprio habitat, e indica la sintesi degli apprendimenti e delle esperienze fatte a questo riguardo, nel rispetto dei vincoli ecologici. Per questo motivo certe forme di sfruttamento del territorio importate da culture del mondo occidentale stravolgono e rompono equilibri ambientali millenari se esportate presso popolazioni del mondo maggioritario. In quarto luogo, le diversità culturali servono a mitigare forme di dipendenza economica e politica. Svolgo120

no una funzione di resistenza culturale per bilanciare i fenomeni di asimmetria del potere da sempre esistenti nel mondo (Hannerz, 1996). Infatti, i flussi che vanno dal centro alla periferia sono assai più forti di quelli che vanno dalla periferia al centro. Sono in gioco risorse economiche, forze militari, potere politico, influenza religiosa, distribuzione del sapere scientifico. In questa prospettiva la molteplicità delle culture può fungere da luogo di compensazione e di protezione rispetto alle pressioni dell’imperialismo culturale provenienti dal centro. In particolare, la diversità culturale può essere considerata come la chiave per la sopravvivenza della specie umana, poiché assicura una varietà molto estesa di comprensione dei fenomeni, di gestione delle risorse e di tecniche di sopravvivenza (Marglin, 1990). Ogni cultura va così intesa come un archivio vivente che ha registrato forme di vita importanti e utili. Riconoscere l’evidenza empirica delle diversità culturali e affermarne il diritto non significa assolutizzare tali diversità. Oggi vi è piuttosto la necessità di preservarle, in un mondo che appare minacciato dalla globalizzazione e dall’uniformità. Le diversità culturali sono legittime: tuttavia non possono essere rese assolute. In sintesi, occorre «relativizzare le identità senza assolutizzare le differenze» (Fabietti, 1998, 171). 2. Identità e confronto culturale È giunto il momento di affrontare il concetto di identità culturale, tema che da anni è in evidenza, al centro di forti dibattiti politici, religiosi e scientifici. Innanzitutto, che cosa è l’identità? Per la logica e la matematica l’identità (dal tardo latino identitas, derivazione del classico idem, medesimo) è un rapporto di perfetta eguaglianza o coincidenza (A = A). Per le scienze umane è «il senso del proprio essere come entità distinguibile da tutte le altre» (De121

voto e Oli, 2002-2003). L’identità «è ciò che io sono» a vari livelli (individuale, sociale, istituzionale, ecc.). In passato l’identità culturale era definita facendo ricorso a due punti di vista: quello esterno (punto di vista etico) e quello interno (punto di vista emico; cfr. cap. 1). Per entrambi questi punti di vista il concetto d’identità culturale appariva come qualcosa di evidente, utile per spiegare molti fenomeni sociali. «Dall’esterno» l’identità culturale era definita come l’insieme di tratti e proprietà oggettivi (percepibili e riconoscibili), storicamente fondati (tradizioni, radici), con confini precisi, giustificati dalla presenza di evidenti differenze. Era l’esito di un processo di attribuzione e di riconoscimento da parte di altri. In questo ambito l’identità culturale era trattata come se fosse una categoria monolitica e discreta, chiusa e finita in se stessa. Il rischio era di concepirla come una «cosa naturale» (reificazione dell’identità), una essenza (come l’«italianità», essenzialismo), ascritta storicamente, discreta ed esclusiva (teoria del mosaico) e trattarla di conseguenza come una variabile indipendente. È la rivendicazione della propria identità intesa come contrapposizione. «Dall’interno» l’identità culturale era invece definita come soggettività e autopercezione, progetto e intenzione, aspettativa e proposta di sé. Coincideva con il punto di vista del nativo, ovvero con ciò che egli intendeva e si proponeva di essere. Il rischio era quello di chiudersi nella propria individualità inaccessibile e unica (monade opaca, solipsismo), di pensare di costruire la realtà in tutti i suoi aspetti (costruzionismo radicale), di confondere il desiderio con le evidenze empiriche (wishful thinking) e di relativizzare ogni forma dell’esperienza (relativismo culturale). Come prima considerazione, occorre dire che una definizione fornita dall’esterno o dall’interno appare poco soddisfacente. Che cosa è dunque l’identità culturale? Anzi tutto, è opportuno porre in evidenza che essa, pur pre122

sentando rilevanti aspetti di stabilità, è un processo (non uno stato) in continua evoluzione, generato dall’interdipendenza intrinseca fra aspetti esterni (provenienti da altri) e aspetti interni (attivati in proprio). I primi influenzano i secondi nello stesso momento in cui i secondi influenzano i primi. L’identità culturale rimanda contemporaneamente a diverse fonti (esterne e interne) ed è l’esito imprevedibile di un processo «co-costruttivo», non interattivo. Oggi, in un mondo caratterizzato da una costante attività di formazione, deformazione e riformazione, tale condizione risulta un vincolo. Siamo ciò che siamo in un divenire incessante. In particolare, l’identità culturale è lo spazio fra il progetto autonomo e la proposta di essere in un certo modo (dati i vincoli e le opportunità ambientali) e il riconoscimento di tale progetto da parte di altri. Questo riconoscimento dialettico, di stampo hegeliano, può essere positivo (accettazione della proposta proveniente dall’altro) o negativo (rifiuto di tale proposta). In ogni caso l’identità è il risultato del gioco fra chi penso e scelgo di essere e chi gli altri dicono che io sia. Di conseguenza, l’identità culturale ha un duplice fondamento: a) idiomorfo, ossia basato sull’insieme di significati e valori che in modo autonomo un gruppo umano ha elaborato e in cui crede; b) posizionale, ossia basato sul fatto che l’identità del proprio gruppo ha sempre una natura relazionale per confronto e in opposizione all’identità di altri gruppi umani. Il primo fondamento è autoriferito e concerne gli aspetti in positivo dell’identità culturale («ecco come sono e che cosa ho da dire»), mentre il secondo è eteroriferito e riguarda gli aspetti in negativo di tale identità («ecco come non sono e in che cosa non sono eguale agli altri»). L’identità personale e quella culturale, pertanto, hanno una natura discorsiva e dialogica. Si costruiscono nell’intreccio dei rapporti con gli altri come avviene in un dialogo tessuto solo grazie al contributo di più partecipanti. O 123

come avviene in un discorso che prevede l’interazione fra diversi attori sociali. Per dirla con Bachtin (1981), l’identità culturale così intesa è polifonica, poiché può assumere «voci diverse» nel corso del dialogo con altre culture. In funzione dell’interdipendenza fra progetto autonomo e riconoscimento altrui, l’identità culturale costituisce la sintesi dei modelli culturali attivi nella mente delle persone, nei processi sociali e nelle istituzioni di una certa comunità. Si va dal sistema di credenze ai sistemi di comunicazione, dai valori e dalla morale alle pratiche e agli artefatti materiali. Tali modelli sono in continuo movimento e s’intrecciano fra loro per costruire una rete avviluppante e nello stesso tempo flessibile ed elastica. Per questa ragione l’identità culturale può essere definita un «imbroglio», poiché è una matassa ingarbugliata di componenti e processi. Data questa enorme complessità, l’identità culturale presenta inevitabilmente aree di ambiguità ed equivocità. È una realtà mobile, dai confini sfumati, una «finzione» (per utilizzare un termine kantiano), poiché è invenzione. In quanto tale, l’identità culturale può avere solo un valore regolativo, ma non costitutivo. Essa non può avere una realtà assoluta ma unicamente relazionale, del tipo: «io sono quello che sono perché altri (gli altri) non sono ciò che io sono». Non vi è una identità culturale intrinseca, ma solo attraverso gli occhi di qualcun altro e rispetto a un preciso punto di vista. Essa non è un’entità ma una relazione grazie al confronto culturale di cui si è parlato prima. Di conseguenza, l’identità culturale è qualcosa che si costruisce nel corso delle interazioni con altre culture e in cui l’accordo sulle cose da fare è più importante delle cose stesse. In sintesi, l’identità culturale si vive e non ha bisogno di essere affermata. Si pratica e non richiede di essere proclamata. Non è solo una bandiera, un inno, un rito, una cerimonia e nemmeno un simbolo. Non vive di esteriorità né di segni. Nemmeno di confini. Sarebbe un’ipocrisia. L’i124

dentità culturale vive di scelte, di decisioni, di condotte in riferimento a un certo habitat di significati e di valori. 3. Il fondamentalismo culturale Eppure l’identità culturale diventa il concetto cardine di alcune prospettive preoccupanti, oggi in fase di rilancio. Per una serie di ragioni, in diverse parti del mondo si assiste alla tentazione di assolutizzare la propria identità culturale. Essa è assunta come il punto di vista unico ed esclusivo con cui guardare, capire e gestire la realtà. Diventa fonte di conoscenza oggettiva e sede della verità intesa come insieme di affermazioni incontrovertibili. Diventa un’entità tangibile, autonoma e reale. Questa reificazione dell’identità culturale è associata alla prospettiva del fondamentalismo culturale, che avverte in modo urgente l’esigenza di stabilire confini netti, robusti e precisi fra le culture, nonché di giungere a una loro discriminazione (Stolcke, 1995). Il fondamentalismo culturale, in quanto manifestazione massima della mente monoculturale, contiene in sé una dimensione sia difensiva che offensiva. Innanzitutto, avverte il bisogno di difendere il proprio spazio culturale (territorio) dalla presenza di persone e artefatti provenienti da altre culture. Per questo motivo si parla di confini, dazi, dogane, ecc. Si costruiscono muri. S’instaurano rigide forme di controllo alle frontiere. Si fanno leggi per regolare e controllare i flussi migratori. Si proclama «la dignità della propria cultura», come se per avere dignità fosse sufficiente una proclamazione. A livello offensivo, il fondamentalismo culturale sente dentro di sé la missione di convertire le altre culture al proprio sistema di idee e valori. Mette in atto un processo di evangelizzazione degli altri. Avverte l’esigenza di eliminare le barbarie presenti in altre culture e di sostituire forme incivili di esistenza con le proprie credenze e i propri stan125

dard. Il traguardo ideale è l’omogeneizzazione culturale in funzione dei propri parametri e modelli. L’assunto implicito consiste nella convinzione che la cultura sia un bene esportabile. I valori, le pratiche e gli ideali morali sono trattati alla stregua dei beni materiali, come il vino o il petrolio, soggetti alla legge della domanda-offerta. Su entrambe queste dimensioni il fondamentalismo culturale manifesta debolezze e limiti gravi. Nel momento in cui i membri di una comunità avvertono l’urgenza di affermare la propria dignità e di proclamare l’orgoglio di appartenenza a una certa cultura, essi ammettono in modo implicito una posizione di debolezza e insicurezza. Si trovano nella stessa condizione di un leader che deve gridare: «Qui comando io» per sottolineare che, di fatto, non è più in grado di comandare. Chi vive pienamente la propria cultura, non ha bisogno né di annunciarla né di proclamarla. Sa gestire il confronto aperto nel rispetto delle altre culture. Allo stesso modo, anche sul versante offensivo, il fondamentalismo culturale conduce inevitabilmente ad attacchi e aggressioni, a soprusi e sopraffazioni, spesso in pieno contrasto con i valori che vuole esportare. La missione di convertire gli altri rischia di trasformarsi in proselitismo, fanatismo e integralismo, che costringono e impongono più che proporre una certa visione delle cose. Talvolta, per convertire l’altro non si evita il ricorso alla violenza e al ricatto, alle «guerre preventive», persino a forme crudelmente raffinate di tortura. Paradossalmente, ma non così tanto, il fondamentalismo culturale diventa il fautore principale di quelle «guerre di civiltà» che paventa e che si propone di combattere. Dentro di sé, infatti, alimenta la competizione, l’atteggiamento di superiorità, l’arroganza e la gestione delle risorse solo a proprio vantaggio. Si tratta di aspetti che non possono non condurre allo scontro fra culture.

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3.1. Il vecchio e il nuovo razzismo Il fondamentalismo culturale conduce inevitabilmente alla xenofobia1 e al razzismo come rifiuto e ostilità nei confronti delle culture diverse dalla propria. È un atteggiamento mentale che attraversa l’epoca moderna spesso in modo tragico, divenendo fonte di guerre e odio, di soprusi e violenze. Per prima cosa occorre chiedersi: esistono le razze umane? Per «razza umana»2 s’intende un gruppo d’individui che può essere identificato come unità distinta per la presenza di caratteristiche biologiche secondarie. In effetti, le popolazioni umane differiscono fra loro sotto diversi aspetti, dal colore della pelle alla forma del naso, dall’altezza al tipo di capelli (lisci o crespi), dalla tolleranza per l’alcol o il latte al polimorfismo del gruppo sanguigno. Tuttavia, tali variazioni non sono strettamente correlate fra loro, poiché una popolazione può differire da altre, per esempio, per il gruppo sanguigno ma non per il colore della pelle (o viceversa). Si tratta di variazioni superficiali, poiché sono indipendenti l’una dall’altra e non covariano tutte insieme. Quando si applica un’analisi genetica a tali variazioni non emerge nulla di significativo (Cavalli-Sforza et al., 1994). Inoltre, a causa delle mescolanze dei geni per la continua mobilità umana non vi sono mai stati confini genetici netti fra i gruppi umani. Si stima, anzi, che la grande maggioranza delle differenze genetiche (attorno all’85%) non sia fra gruppi etnici ma tra individui entro il medesimo gruppo (Ehrlich, 2000)3. L’ipotesi più accreditata è che queste differenze siano la risposta degli organismi alle condizioni ambientali, dalla tolleranza al latte al colore della pelle, al gruppo sanguigno, ecc. (Jablonski e Chaplin, 2000). L’interpretazione di queste variazioni geografiche come prova dell’esistenza di gruppi (o «razze») geneticamente omogenei appare un non senso, infondata proprio sul piano genetico (Owens e King, 1999; Wilson e Brown, 1953). 127

Il concetto di razza oggi appare più come un costrutto ideologico e politico che genetico e biologico. È un «prodotto culturale» che può avere rilevanti risvolti sia teorici che pratici. Frequentemente, infatti, l’idea di razza sostiene la convinzione della verità della propria concezione del mondo e della certezza che la propria condotta esistenziale sia l’unica accettabile o, quanto meno, la migliore possibile. Da qui deriva l’etnocentrismo, che consiste nell’assolutizzare il proprio punto di vista, nel ritenerlo oggettivo, nel considerarlo come naturale punto di riferimento, unità di misura per valutare i vari fenomeni psicologici, nonché nel rapportare a esso qualsiasi altra prospettiva culturale. In quanto tale, l’etnocentrismo favorisce, da un lato, i sentimenti di coesione e devozione per il proprio gruppo e, dall’altro, il senso di superiorità rispetto agli altri gruppi. Inoltre, il concetto di razza è inevitabilmente coinvolto nel processo di confronto fra le diverse comunità umane e nella competizione che ne scaturisce per stabilire un rango e una graduatoria fra esse, al fine di capire quale sarebbe la migliore espressione della natura umana. Di qui discende l’erronea convinzione della pretesa superiorità della propria razza rispetto alle altre (sottolineata già da Linneo nel 1758 con il termine di Homo sapiens europaeus). Su questa base s’innesta il razzismo, inteso come atteggiamento di superiorità e autoriferimento esclusivo, associato al sentimento di xenofobia e di rifiuto di soggetti appartenenti ad altre razze, spesso tradotto in comportamenti volti alla loro discriminazione e al loro sfruttamento. Parimenti, l’idea di razza è alla base dell’eugenetica, che si pone l’obiettivo di raggiungere la cosiddetta «purezza di razza», intesa come omogeneità genetica4. Il concetto di «razza pura», avanzato a suo tempo da Gobineau (18531855) e poi ripreso da altri, appare oggi un’assurdità genetica, poiché «la purezza della razza è inesistente, impossibile e totalmente indesiderabile» (Cavalli-Sforza, 1996, 33). Infatti, esiste sempre una grande eterogeneità geneti128

ca fra gli individui, anche all’interno del medesimo villaggio. Come si suol dire, la natura ama la diversità. A questo riguardo si parla di «vigore dell’ibrido», per sottolineare che l’eterozigote ha un vantaggio selettivo in quanto più resistente alle malattie. La deriva genetica, le migrazioni e il conseguente flusso genetico, le mutazioni, la selezione sessuale e naturale sono altrettanti dispositivi che garantiscono una forte varietà e una continua mescolanza dei geni fra gli individui e fra le popolazioni. Per queste ragioni non vi sono né vi possono essere confini genetici precisi fra i gruppi umani. Oggi si sa con certezza che la nostra specie è unica e non presenta diversità di razze. Negli ultimi decenni il razzismo ha cambiato corso. Non si appoggia più su basi genetiche ma culturali. È un razzismo senza il concetto di «razza». Infatti, il fondamentalismo nutre in sé la premessa del razzismo facendo appello al diritto alla diversità, che diventa così il diritto primario alla difesa della propria unicità, storicamente fondata e omogenea. Di conseguenza, si ha l’esclusione ed espulsione di tutto ciò che è estraneo e diverso, in quanto fonte di contaminazione, ibridazione (meticciamento) e deterioramento. Per sua natura, il fondamentalismo è antitetico alla pluralità, alla tolleranza e alla differenza. Apparentemente, si pone sotto l’egida degli ideali e dei valori (come quelli di famiglia e patria), della tradizione e della dignità della propria cultura, da difendersi a oltranza. Nei fatti e nei comportamenti, implica il rifiuto dell’altro in quanto diverso e alieno, estraneo e usurpatore, spesso ritenuto a qualche titolo inferiore. 3.2. La psicologia del confine culturale L’esistenza di diverse culture rimanda allo studio del confine culturale come concetto chiave per comprendere il fondamentalismo e i rapporti fra le stesse culture. Già Bachtin aveva ricordato che la cultura non è un territorio, ma un confine, e che i confini sono dappertutto (cfr. cap. 1). Per 129

sua natura, il confine, al pari del simbolo, unisce e divide nello stesso tempo. In quanto tale, esso svolge la duplice funzione psicologica di racchiudere (ossia, di «de-finire») una certa cultura e di distinguerla dalle altre. Chi è oltre il confine, è un estraneo, un «barbaro» (che, nel senso etimologico del termine, farfuglia, balbetta e pronuncia parole e suoni privi di senso). È il diverso che adotta categorie mentali e sociali per noi inconcepibili e che rappresenta la distanza psicologica di un altro modo di vivere la vita. È lo straniero, ossia chi è al di là delle differenze consentite all’interno di una certa cultura. Tutte le culture, pertanto, sono straniere (La Cecla, 1997). Essendo al di fuori delle differenze previste da una data cultura, lo straniero può diventare oggetto di attrazione (xenofilia) o di rifiuto (xenofobia). Può scattare l’amore per il diverso fino a giungere a forme di esaltazione e idealizzazione. Come pure, può innescarsi l’odio che conduce a forme di rigetto e disprezzo dello straniero. A livello psicologico, si tratta di sentimenti totali e compatti che pervadono la complessità dei rapporti con gli altri, rendendoli tutti eguali allo stesso modo. In quest’ultimo caso, lo straniero diventa il nemico da combattere e cacciare via. La psicologia del confine culturale presenta vincoli importanti e aiuta a capire le dinamiche fondamentaliste. Per sua natura, il confine costituisce, innanzitutto, un luogo di tensione, poiché in bilico fra difensiva e offensiva. Vi può essere una continua oscillazione fra questi due atteggiamenti antitetici. Entrambi conducono a una condizione mentale di diffidenza e circospezione nei confronti delle mosse dell’altro in quanto straniero. Come se fosse un intruso, egli «sta qui» senza «essere di qui». Vi è l’esigenza di approfondire le sue richieste per coglierne il significato «vero». Vi è una sorta di prevenzione cognitiva e affettiva che impedisce una reale apertura nei riguardi dello straniero. In alternativa, il confine culturale rimanda all’atteggiamento psicologico dell’indifferenza. Sul piano etimologi130

co, il concetto di «in-differenza» è associato all’esperienza della separazione, secondo l’assioma «vivi e lascia vivere». È l’apartheid, inteso come attenzione difensiva a non mescolarsi con l’altro, come se questo fosse impuro e fonte di contaminazione. Tuttavia, l’indifferenza può generare anche una predisposizione positiva e favorevole verso gli estranei. In questo caso, essa è alla radice del desiderio di «essere lasciati in pace» più che di «mantenere la pace» (Illich, 1992). Questa diversità di prospettiva mentale corrisponde alla distinzione fatta nella lingua malese fra kami (il «noi esclusivo» di chi vuole mettere e mantenere la pace a ogni costo, inglobando gli altri) e kita (il «noi inclusivo» di chi vive in pace e lascia che gli altri vivano in pace). Infatti, la guerra è l’atteggiamento di chi vuole rendere simili le culture, mentre la pace è la condizione nella quale ogni cultura assume in pieno la propria configurazione. Di conseguenza, la pace, come la democrazia, non può essere esportata. Quando è esportata, equivale alla guerra. Il concetto psicologico di confine culturale implica, inoltre, il vincolo di fedeltà. Se un individuo è all’interno di un certo confine, non può non aderire alle credenze, ai valori e alla prassi della cultura praticata entro quei confini. È un patto di alleanza e appartenenza fra sé e la comunità di riferimento. Su questa base il confine persiste anche se si entra nello spazio di un’altra cultura (Barth, 1969). Le distinzioni culturali, essendo anche confini interiori, non dipendono dall’assenza di mobilità e di scambi interculturali. Nel fondamentalismo il confine si trasforma in barriera invalicabile e può essere impiegato per ribadire l’unicità e l’esclusività della propria cultura. Fra gli altri, il Giappone ha molto insistito in passato su questo aspetto di distintività esclusiva – nihonjinron –, dal modo di mangiare il riso al modo di dire «grazie» – arigatò: un misto di scuse e di aspettative – (Azuma e Imada, 1994). Gli altri, soprattutto gli occidentali, sono taijin, ossia «persone di fuori», incapaci di cogliere e di capire la specificità delle ca131

tegorie della cultura giapponese. In questo modo si può assumere una posizione d’intangibilità culturale per isolarsi e ottenere una sorta d’impenetrabilità e incomprensibilità culturale. 3.3. L’assolutismo morale Il fondamentalismo culturale corre il probabile rischio di condurre a forme di assolutismo morale, fondate sulla concezione statica della moralità, sostenuta con forza – fra gli altri – da Kant. Secondo tale concezione, la legge morale è universale (non può essere ricavata dall’esperienza e va applicata in modo imparziale e impersonale), è razionale (e quindi vale per l’uomo in quanto essere razionale) ed è un «imperativo categorico» (è una necessità oggettiva e prescrittiva poiché comanda l’azione in se stessa, del tipo «devi perché devi»). Per Kant la nostra moralità non dipende dalle cose che vogliamo ma dal principio per cui le vogliamo: quindi, il principio della moralità non è il contenuto ma la forma (da qui il formalismo kantiano). Di conseguenza, le leggi morali sono considerate eterne e assolute, immutabili nel tempo e immodificabili. Siamo in presenza della versione razionalista del giusnaturalismo, che sostiene l’esistenza e la superiorità del diritto naturale (basato sul concetto di «natura umana») rispetto al diritto positivo (fondato su leggi civili convenzionali). Il giusnaturalismo, che risale ad Aristotele e che è stato sostenuto con vigore dalla religione cristiana e in particolare dalla Scolastica5, racchiude dunque il rischio di condurre a forme di assolutismo morale (oggettivismo o universalismo morale). Secondo questa impostazione, la moralità è un ambito non negoziabile, basato sulla ragione umana e su una legge ritenuta naturale, su ideali assoluti e su principi espliciti noti a tutti (come, per esempio, «non uccidere»), dotato di una forza di coercizione valida per chiunque, in tutti i luoghi, in ogni tempo, indipendentemente dalle differenze reali presenti fra le persone o le culture. 132

Tale concezione indica ciò che è moralmente desiderabile (non ciò che è desiderato) alla luce della ragione o di una fonte divina, indipendentemente dal grado di consenso osservato in modo fattuale e storico (il consenso, infatti, non produce verità matematiche né morali). Pertanto, essa ha a che fare non con il grado di uniformità e diffusione dei principi morali, bensì con ciò che rende oggettivamente morale la condotta dell’essere umano. Di conseguenza, ha un carattere normativo e prescrittivo, non descrittivo. In tale prospettiva, l’assolutismo morale non può essere di per sé smentito dall’osservazione che, di fatto, esiste un livello molto basso di consenso sulle norme morali fra le diverse culture. Tuttavia, l’assolutismo morale non è esente dalla distorsione dell’etnocentrismo morale, che contiene in sé i germi dell’imperialismo morale. Esso presuppone, infatti, l’assolutizzazione di un certo punto di vista, sia pure quello dominante in un certo periodo storico in una data cultura. Sfocia quindi nella definizione etnocentrica di una presunta legge naturale che, in quanto tale e in quanto manifestazione di una «rivelazione naturale» (o divina), è imposta a tutti gli esseri umani, indipendentemente dal loro sistema culturale di credenze, valori e pratiche. Entra in gioco un atteggiamento di presunzione universalistica che può condurre a forme di fanatismo e dogmatismo etico, nonché alla forzata conversione delle persone di altre culture al proprio credo morale. A fronte di questa impostazione, occorre sottolineare che non può esistere un punto di vista metamorale, così come non esiste un punto di vista metaculturale (cfr. cap. 1). Non esiste un «occhio di Dio» assoluto neanche per la morale. Come ha posto bene in evidenza Bobbio (1965, 161), «il diritto naturale non è diritto nel senso proprio della parola, e non è naturale nel senso che non deriva dalla natura». È un controsenso, poiché, per definizione, la natura non ha morale. Il giusnaturalismo come teoria della morale risulta, quindi, insostenibile, poiché la pretesa 133

d’inferire una prescrizione da un’asserzione, una norma di condotta da una constatazione di fatto configura un vizio di ragionamento e un errore logico noto come «fallacia naturalistica» o violazione della legge di Hume, che per primo pose in evidenza il «salto logico» praticato dai giusnaturalisti nel tentativo d’inferire un valore da un fatto. Anche sul piano etico, oltre che su quello metafisico e gnoseologico, la mente umana non è in grado di raggiungere una conoscenza oggettiva e assoluta. I valori supremi non sono né teoremi dimostrati né assiomi autoevidenti e autofondantisi. La mente umana deve fermarsi agli aspetti fenomenici anche nel dominio morale, così come già procede nell’ambito della conoscenza della realtà. Né la filosofia né la religione né la scienza sono in grado di definire un sistema morale immutabile e valido per tutta l’umanità (Kendler, 2005). Affermare, per esempio, che i principi, gli ideali e i valori stabiliti nel Corano, nel Vangelo o nei libri sacri Veda costituiscono una rappresentazione piena, oggettiva e perfetta della legge morale naturale significa, di volta in volta, assolutizzare e fissare in modo definitivo una certa (parziale) prospettiva morale. Soprattutto le religioni con una forte impronta dogmatica contengono le premesse del fondamentalismo morale, poiché sono inclini a proclamare la loro superiorità e unicità e sono attive nell’azione di proselitismo e conversione degli altri (Hunsberger, 1995). Ovviamente, questa considerazione vale anche per chi asserisce, per esempio, che la Costituzione americana (o qualsiasi altra Costituzione) sia la tavola universale dei diritti, dei doveri e degli ideali morali per l’umanità. Per questo motivo, nel 1948, l’Associazione americana di antropologia ha rifiutato di aderire alla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Uomo, in quanto espressione etnocentrica dei valori del cosiddetto «primo mondo», fatti valere per tutti gli altri paesi aderenti all’Onu. È verosimile che l’assolutismo morale conduca a forme d’intolleranza, alimentate da un atteggiamento di superio134

rità per l’adozione di principi morali ritenuti in modo presuntuoso più nobili e giusti. Di conseguenza, l’assolutismo morale spesso favorisce la produzione di stereotipi e pregiudizi etnici negativi nei confronti di culture che non condividono il medesimo codice morale. Su questo terreno è facile che crescano forme di fanatismo e fondamentalismo, alimentate da una fede religiosa, da un’ideologia politica o da altri sistemi di credenze rigidi. A sua volta, il fondamentalismo morale favorisce la comparsa di condotte violente a livello fisico e psicologico (terrorismo, tortura e altre manifestazioni di sopruso), giustificate in nome del credo morale assoluto. Siamo di fronte al tentativo di sopraffazione di una cultura da parte di un’altra. A questo riguardo si ricordino gli esiti innovativi del Congresso Eucaristico di Medellin del 1977, quando missionari cattolici, in particolare salesiani, ammisero il danno inferto dalle missioni alle culture indie dell’America centrale e meridionale in nome di una evangelizzazione «a tutti i costi» (Arnalot, 1979). Parimenti, le culture del mondo maggioritario (in particolare quelle asiatiche) hanno sviluppato tradizioni etiche e giuridiche in cui la nozione dei diritti soggettivi umani è poco assimilabile (Bell, 2000). Infatti, ai principi libertari dell’individualismo occidentale sono contrapposti quelli della tradizione confuciana che s’ispirano ai valori dell’armonia, dell’autorità, del dovere e della disciplina (Bauer e Bell, 1999). 4. Il relativismo culturale Oltre che nel fondamentalismo, la mente monoculturale si esprime a livello individuale e istituzionale anche nel relativismo culturale. È una prospettiva assunta già da Boas (1911), padre dell’antropologia nordamericana. Con l’obiettivo di comprendere le diversità fra i gruppi umani, egli concepì ogni cultura come unica ed esclusiva nella sua configurazione totale. Secondo questa concezione parti135

colaristica, ogni cultura rappresenterebbe dunque una totalità originale da comprendersi nella sua singolarità. In tal modo Boas pone le premesse del relativismo culturale, rivendicando il «sapere idiografico» come comprensione focale di una certa cultura. A tal fine egli introduce il metodo induttivo e intensivo, che implica un’osservazione diretta, analitica e minuziosa di tutti i fenomeni culturali, per cui lo studioso, più che servirsi d’informatori nativi, dovrebbe imparare la lingua utilizzata all’interno di una determinata cultura. Particolare attenzione, inoltre, va riservata alla comprensione dei processi storici che hanno condotto a una certa configurazione culturale (particolarismo storico). Oltre che dagli allievi di Boas (come Benedict e Herskovits), il relativismo culturale è stato proseguito e approfondito, fra altri indirizzi, anche dal costruzionismo culturale (Gergen, 1999; Potter, 1996; Raskin, 2001; Shotter, 1993). In base a questa prospettiva, le persone costruiscono modelli cognitivi per conoscere il mondo e gli altri. La conoscenza è una costruzione sociale condivisa dai partecipanti di una comunità. Le differenze, quindi, sono generate sostanzialmente dalle culture, il cui confronto appare di scarso interesse e di modesta utilità alla comprensione. Per definizione, le varie culture non soltanto sono incommensurabili e incomparabili fra loro, ma anche intraducibili. Non vi è nessuna misura universale assoluta e uniforme. Ciò che conta è la comprensione della specificità e unicità della singola cultura, qualitativamente diversa da qualsiasi altra. Si tratta di capire in che modo e attraverso quali logiche gli esseri umani di una data comunità organizzano la loro esistenza. «I giudizi sono basati sull’esperienza, e l’esperienza è interpretata da ciascun soggetto secondo la propria cultura» (Herskovits, 1948, 63). In che cosa consiste effettivamente il relativismo culturale? Innanzitutto, occorre fare una distinzione fra relatività e relativismo culturale. Entrambi questi concetti han136

no a che fare con le differenze culturali. Mentre la relatività culturale consiste nella semplice esplorazione e constatazione della presenza di differenze culturali senza valutare il loro status, il relativismo attribuisce loro un valore normativo. Per la relatività la differenza costituisce un fatto, per il relativismo rappresenta una norma. Si passa in tal modo da un’asserzione descrittiva a una prescrittiva, secondo la quale le persone dovrebbero rispettare ogni tipo di differenza. Nessun essere umano può valutare un suo simile. Solo per il fatto che qualcosa è diverso merita rispetto, per cui ogni sistema culturale presenta una sua intrinseca validità. 4.1. Il relativismo morale Il relativismo così inteso si declina in differenti versioni: ideologico, percettivo, epistemologico, religioso e così via. In particolare, al centro dell’attenzione degli studiosi si è imposto il relativismo morale. La moralità è locale, storicamente inquadrata. Il bene e il male non hanno proprietà oggettive e universali, ma sono l’esito di un processo di convenzionalizzazione (un atto è morale se risponde agli standard dominanti nella cultura di riferimento; convenzionalismo). I giudizi morali non sono né veri né falsi, ma sono piuttosto il risultato di una scelta personale. È un problema di sensibilità personale, di gusto e di emozioni morali come la colpa e la vergogna (Posner, 1999). Le diversità culturali, infatti, evidenziano molte impostazioni morali fra loro divergenti, che si manifestano in usi e costumi quanto mai eterogenei e che si rifanno a principi etici disparati. Ciò che è proibito e considerato un’atrocità morale in una cultura è permesso in un’altra e viceversa. Sul piano descrittivo, in effetti, il consenso su quanto è bene o male, su quanto giusto o ingiusto è piuttosto scarso fra le diverse culture. A questo riguardo gli esempi potrebbero essere numerosi. Spesso si ricordano i casi di infanticidio di bambine 137

in alcune regioni dell’India (il cosiddetto kudi-maar) e della Cina o presso gli eschimesi. Parimenti, colpisce l’usanza dei dinka, una popolazione del Sudan meridionale, di seppellire vivi gli anziani dentro un mucchio di letame provocandone la morte per soffocamento, o quella degli eschimesi di abbandonare i vecchi in zone polari deserte (Kellenberger, 2001). Può sorprendere altresì la pratica della sat∞ (o suttee) seguita in India, dove le giovani vedove, vestite da sposa, si lanciavano sulla pira funeraria che inceneriva il corpo del marito defunto (Piretti Santangelo, 1991). Tale usanza, pur essendo stata proibita dal governo inglese nel 1835, nei villaggi rurali è stata rispettata – anche se in modo sporadico – fino a tempi recenti. Più note sono le pratiche di circoncisione maschile e femminile diffuse in vaste aree dell’Africa tropicale, considerate nelle regioni di origine come un’iniziazione e un miglioramento del proprio corpo, e presso altre culture come una mutilazione efferata e una violazione dei diritti umani. Ma la moralità riguarda anche aspetti minori della vita quotidiana. Per esempio, presso gli hindu nella regione dei templi è immorale il fatto che una vedova mangi pesce, che un uomo rivolga la parola alla cognata più giovane, o che i genitori rifiutino di dormire con i figli nello stesso letto (Shweder et al., 1997). Anche le altre religioni hanno formulato divieti morali precisi legati all’alimentazione (si pensi alla carne di maiale per gli islamici), all’attività sessuale (per esempio, il divieto della contraccezione da parte della religione cattolica) e alla regolazione dei rapporti sociali (come il matrimonio esogamico o endogamico). 4.2. Limiti del relativismo culturale In teoria, il relativismo culturale costituisce un fattore di tolleranza, poiché lascia che ognuno percorra la propria strada culturale. Tuttavia, anch’esso presenta dei limiti (Horton, 1982). Innanzitutto, nella ricerca e difesa del punto di vista del nativo si rischia di realizzare etnografie 138

opache, con la conseguente impossibilità di fare confronti fra diverse culture. Una data comunità diventa una realtà chiusa in se stessa, inaccessibile e impenetrabile, come una monade leibniziana, senza né porte né finestre, arroccata nella sua unicità opaca e incomprensibile, in quanto intraducibile. Siamo all’interno di una condizione di solipsismo e isolazionismo mentale e istituzionale. In secondo luogo, la versione radicale del relativismo culturale implica il rischio del panculturalismo, poiché ritiene che tutti gli aspetti della vita umana, compresi quelli biologici, siano culturalmente vincolati. Secondo questo determinismo culturale, gli esseri umani finirebbero per essere soltanto dei «prodotti culturali», anziché dei produttori e protagonisti di cultura. In terzo luogo, il relativismo conduce alla giustificazione di qualsiasi perversione e patologia culturale. Questa prospettiva giustificazionista prevede di regolare le relazioni umane unicamente in base a una sorta di «legge della giungla», in cui valgono solo i rapporti di forza e dove qualsiasi morale potrebbe essere accettata in quanto «culturale». Di conseguenza, in nome del relativismo sarebbe permessa e giustificata ogni aberrazione e ogni crudeltà, comprese le forme più spietate di schiavitù, tortura e dittatura. In quarto luogo, infine, implicando l’esaltazione delle differenze e delle identità culturali, il relativismo può diventare l’origine di nuove forme di razzismo. L’esaltazione delle diversità richiede la difesa della propria unicità, con la conseguente espulsione di tutti i diversi in quanto fonte di contaminazione e deterioramento. In conclusione, si comprende, dunque, come il relativismo sia di per sé un potenziale detonatore di fenomeni d’intolleranza e di emarginazione.

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5. Conseguenze della mente monoculturale Che sia fondamentalista o relativista, la mente monoculturale è una mente al singolare. È una mente fissa che corre il rischio di concepire il momento temporale e l’area geografica in cui vive come la totalità del tempo e dello spazio della specie umana. È una mente che rispecchia la chiusura di una società in cui si è nati e cresciuti e che si è assunta come l’orizzonte del mondo. Questo provincialismo temporale e geografico rischia di condurre la mente monoculturale – che così diventa atemporale e utopica (nel senso letterale di «utopia», cioè «fuori dallo spazio») – a forme globali di autoriferimento. In tal modo la cultura rischia di diventare una gabbia. La mente monoculturale tende a concepire ogni singola esperienza come la globalità dell’esperienza e diventa prigioniera della cultura in cui vive in termini difensivi e offensivi. È una mente divisa, separata dagli altri e dalla realtà. È la premessa a una concezione delle culture come «mosaico» nell’assolutizzazione delle differenze. I possibili esiti di questa impostazione, evidenti a tutti, nel loro insieme non sono favorevoli alla vita della nostra specie. Ciononostante, diversi modelli teorici si sono proposti di giustificare e valorizzare le potenziali oportunità della mente monoculturale. Possiamo elencarne alcuni, a partire dal comunitarismo. Fra altri studiosi, McIntyre (1995), Taylor (1991, 1995, 1999) e Walzer (1977, Miller e Walzer, 1985) hanno posto in evidenza il valore della comunità come realtà sociale integrata e omogenea per la costituzione dell’identità dei cittadini e per la definizione di una concezione di vita collettivamente condivisa. L’autorealizzazione personale si fonda sull’ethos dello Stato e il patriottismo è una qualità morale che si manifesta come lealtà alle istituzioni. Lo Stato, quindi, è fortemente presente nella vita dei cittadini, nelle loro pratiche e scelte etiche, e i cittadini – a loro volta – si riconoscono pienamente nelle istituzioni chiamate a rappresentarli. In questa prospet140

tiva la mente monoculturale del comunitarismo implica consenso e omogeneità, visione unica del mondo, adesione alla stessa gerarchia di valori (monismo etico-culturale). Eppure, le società contemporanee sono sempre più spesso pluraliste e multiculturali. A fronte di questa evidenza, Taylor (1994) propone l’idea di uno Stato che sia impegnato in modo attivo nella tutela e difesa delle varie identità collettive. Il traguardo è la salvaguardia e la conservazione delle diverse identità culturali6. Tuttavia, questa prospettiva comunitarista implica l’attuazione di politiche restrittive e coercitive per difendere le minoranze, che così rischiano di diventare riserve e territori culturali da proteggere e chiudere «sotto tutela»7. Nel comunitarismo, dunque, prevale una forte propensione alla discriminazione e segregazione culturale: si riconoscono le diversità culturali delle minoranze che, tuttavia, sono trattate in termini di ghettizzazione e separatismo, in nome della loro tutela e difesa. In altre situazioni il comunitarismo può condurre a rilevanti processi di omologazione e assimilazione. Tale impostazione deriva dall’esigenza di affermare la propria cultura come realtà organica e unificante, tendenzialmente omogenea, fondata su radici storiche solide e certe. Di conseguenza, il diverso è valutato come una minaccia alla propria identità e al consenso sociale: se vuole stare qui, deve diventare uno come noi. Deve «convertirsi» alla nostra cultura e assimilarsi a noi8. Deve diventare un cittadino consenziente, uniforme e standardizzato. Altrimenti, l’intolleranza del diverso si trasforma in esclusione, segregazione, marginalizzazione ed espulsione degli stranieri e dei soggetti di altre culture. Noi qui e loro là. Contrapposto al comunitarismo, il liberalismo sostiene che lo Stato dovrebbe rimanere neutrale rispetto ai diversi gruppi culturali, in ragione di una netta distinzione fra sfera pubblica e sfera privata (Larmore, 1990, 1996). La prima concerne il sistema politico, la seconda riguarda soprattutto l’ambito etico. La neutralità dello Stato è intesa 141

precipuamente nella rinuncia ad adottare come proprio un certo sistema di valori e principi morali. Nello specifico, una società va considerata come liberale quando non fa propria una certa visione sostantiva dei fini della vita, ma è solidale rispetto a un forte impegno procedurale volto a trattare tutti con eguale rispetto. In tal modo, ponendo in secondo piano le convinzioni morali sul bene e il male, lo Stato si configura come un contenitore vuoto e asettico, moralmente cieco, in grado di garantire la convivenza pacifica fra comunità culturali differenti. Larmore si propone altresì d’individuare una giustificazione neutrale alla neutralità politica, riferendosi al principio di attribuire eguale rispetto a ogni essere umano. In tal modo la neutralità politica dello Stato pretende di rispettare appieno il valore delle scelte autonome fatte dai diversi gruppi culturali. Ovviamente, anche il liberalismo possiede i suoi limiti9 e il concetto di neutralità dello Stato rimane interno alla mente monoculturale. In particolare, esso è stato ed è un’importante premessa alla comprensione delle differenti impostazioni adottate per la gestione dei rapporti interculturali. Si consideri, per esempio, l’apartheid. Questa soluzione, ispirata al principio del «vivi e lascia vivere», non si propone di distruggere ma neanche d’integrare le altre culture. La differenza diventa così «indifferenza». L’attenzione è quella a non mescolarsi e a non contaminarsi con l’altro e con il diverso, come se questo fosse impuro e fonte di contaminazione. È la premessa alla segregazione che, pur prendendo atto della presenza di altre culture, le tratta in termini d’isolamento. Non di rado l’isolamento si traduce nell’isolazionismo, che conduce alla ghettizzazione. Nell’apartheid agisce quindi in modo implicito e potente il presupposto di appartenere a una «cultura densa», di rango superiore rispetto alle altre. Oltre all’apartheid, il liberalismo rappresenta una premessa fondamentale anche per la prospettiva del melting pot. In funzione della sua neutralità politica, lo Stato assu142

me una posizione d’indifferenza rispetto alle varie culture presenti sul territorio, che vengono così a formare un grande miscuglio. L’ipotesi, particolarmente forte agli inizi del Novecento, prevedeva che dal crogiolo di culture diverse sarebbe nata una cultura nuova, mista ed eterogenea. Il principio ispiratore di questa impostazione egualitaristica auspicava un processo di unificazione casuale e imprevedibile: e pluribus unum. In realtà, come oggi sappiamo, questo processo di progressiva integrazione non è avvenuto. Nel melting pot delle culture, ognuna di esse ha mantenuto la propria distintività, specificità e singolarità. Si potrebbe dire: e pluribus multa. Si arriva in tal modo al separatismo culturale attraverso una via diversa rispetto a quella dell’apartheid. Anche la cosiddetta «globalizzazione commerciale», chiamata altresì «macdonaldizzazione», non ha colmato le differenze culturali. Tutt’al più, ha aggiunto usanze superficiali a quelle già esistenti a livello locale. In altri casi, in modo più velato il liberalismo può trasformarsi nel cosiddetto «liberalismo imperiale». Convinti della bontà e superiorità del proprio sistema di credenze e dei propri valori (libertà, democrazia, ecc.), studiosi, religiosi e politici – prigionieri della propria mente monoculturale – sono pronti a imporre (ovviamente, in modo non democratico) tali valori ad altri popoli. Ciò che è giusto, buono e desiderabile per noi deve essere giusto, buono e desiderabile anche per loro. In questo modo, attraverso i vari mass media (televisione, radio, giornali, ecc.), partono le più diverse campagne di opinione contro pratiche anche millenarie valutate come «barbarie»10. E iniziano così le «guerre preventive» (quelle che un tempo erano chiamate crociate) per esportare i valori della democrazia e della libertà. Qualunque percorso si scelga, esso risulta insoddisfacente e inadeguato per affrontare e gestire il dilemma che oggi attanaglia l’umanità: da una parte, l’esigenza della eguaglianza fondata sull’unicità della specie umana; dal143

l’altra, la necessità di riconoscere le differenze generate dalla cultura. La prima rimanda all’universalismo, all’assimilazionismo e al fondamentalismo (nelle sue varie forme); la seconda al particolarismo, all’isolazionismo e al relativismo. L’insoddisfazione generale che caratterizza l’epoca attuale, oltre a far evocare scontri di civiltà e di religione a livello planetario, rischia in ogni caso di abbassare la qualità globale della vita a causa delle frizioni e delle tensioni interculturali presenti ormai in molte società.

Note 1 Il termine «xenofobia» (letteralmente «paura dello straniero») esprime il sentimento di odio e ostilità verso lo straniero. Tale termine fu coniato nel 1901 da Anatole France, nel romanzo Monsieur Bergeret à Paris, in riferimento all’antisemitismo nel cosiddetto affaire Dreyfus. 2 Fino alla fine del XVIII secolo il termine «razza» era utilizzato per riferirsi ai discendenti di un antenato comune, sottolineando più la parentela che il colore della pelle o altre caratteristiche biologiche. Nel 1770 Kant usò l’espressione «razze del genere umano» per indicare gruppi umani distinti a livello biologico. Qualche tempo dopo l’anatomista Blumenbach stilò la «scala delle razze», ponendo al vertice i caucasici (termine che indicava gli europei), seguiti dai mongoli (asiatici), gli etiopi (africani), gli americani (gli americani nativi) e infine i malinesiani (polinesiani) (Hannaford, 1996). Si poneva in tal modo la frattura fra la «razza bianca» (superiore) e le altre razze (inferiori). 3 Come sostiene Lewontin (1982), è più probabile che vi sia maggiore eterogeneità genetica fra due soggetti del medesimo condominio che fra due comunità che vivono in continenti diversi. 4 A seguito della teoria ereditaria di Galton, l’eugenetica ebbe uno sviluppo particolarmente forte all’inizio del Novecento e diede origine allo studio dei gemelli, oltre che a movimenti eugenetici a favore dell’igiene razziale e della purificazione della razza da persone degeneri e inferiori (Luxemburger, 1931; Rüdin, 1932; Schulz, 1934). In modo simile, l’eugenetica fu alla base della legge per la sterilizzazione obbligatoria di tutte le persone che fossero ritenute «inadatte», come gli schizofrenici, gli omosessuali, i ritardati mentali, gli epilettici, i perversi, i delinquenti, ecc. Tale legge fu approvata, per esempio, nell’Indiana (1907), nell’Oregon (1917), in Danimarca (1929), in Germania (1933), in Svezia e Norvegia (1934), in Finlandia (1935). Si stima che essa fu applicata a centinaia di migliaia di persone. Fatta propria dal nazismo in nome

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della cosiddetta «razza ariana», l’eugenetica produsse effetti devastanti, in primo luogo l’olocausto della popolazione ebrea. 5 La concezione di un diritto naturale distinto da un diritto convenzionale (positivo) risale ad Aristotele, che nell’Etica Nicomachea (V, 1134b) sostiene: «Del giusto in senso politico, poi, vi sono due specie: quella naturale e quella legale. È naturale il giusto che ha dovunque la stessa validità […]; legale, invece, è quello che originariamente è indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito». La filosofia stoica riprende questa prospettiva e trasforma il «diritto naturale» (ius naturae) nel «diritto delle genti» (ius gentium): con tale universalizzazione gli Stoici giungono all’identificazione dello ius naturae con la lex aeterna. Nella Summa Teologica (I, 2, quaestio 91), Tommaso d’Aquino fa sua questa concezione sostenendo che «la legge naturale è partecipazione alla legge eterna dell’essere razionale». Questa posizione è rimasta inalterata nella religione cattolica. Ancora recentemente, in un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede a firma dell’allora cardinale Ratzinger si afferma, a proposito di omosessualità, che «ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto è conforme alla legge morale naturale, riconosciuta dalla retta ragione, e in quanto rispetta in particolare i diritti inalienabili di ogni persona» (Ratzinger, 2003). 6 Come caso emblematico, Taylor (1994) riporta la situazione del Québec, dove lo Stato canadese ha adottato una serie di provvedimenti per la sopravvivenza della comunità francofona. Fra di essi, per esempio, è fatto divieto alle famiglie francofone d’iscrivere i propri figli a una scuola di lingua inglese, al fine di garantire la conservazione dell’identità collettiva francese. 7 In particolare, il comunitarismo conduce alla ghettizzazione delle identità culturali minoritarie, confinate in enclavi e trattate in modo tutorio, come se fossero incapaci di difendersi da sole. In questa prospettiva rimane forte la tendenza assimilatoria della maggioranza e manca la concezione di uno Stato in grado di garantire pari opportunità e dignità a ogni comunità culturale. 8 È il caso della politica assimilazionista francese (Bromberger, 1993). Già nel 1789 Clermont-Tonnerre affermava all’Assemblea nazionale che «bisogna rifiutare tutto agli ebrei come nazione e concedere tutto agli ebrei come individui» (in Sartre, 1947, 16). Questa prospettiva, fondata sullo ius soli e sulla laicità dello Stato, è giunta fino ai nostri giorni con la legge (10 febbraio 2004) che vieta l’uso del velo tradizionale (hijab) alle ragazze musulmane come segno di appartenenza religiosa. In questo modo, come sostiene Sartre (1947), l’assimilazionismo laico francese «salva l’ebreo in quanto uomo e lo annienta come ebreo». 9 Il liberalismo non è esente da critiche. La neutralità politica dello Stato rischia di trasformarsi in neutralismo, in cui i cittadini, concepiti come individui anonimi, uniformi, standardizzati e impersonali, sono

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privati della loro storia e della loro identità personale e culturale. In uno Stato neutrale i cittadini diventano fra loro stranieri, automi che interagiscono in modo meccanico, intenti solo a regolare il loro traffico sulla base di un codice astratto. La neutralità diventa così indifferenza, anonimato e distacco. La concezione liberale dello Stato rischia di condurre a un trattamento eguale, ma non egualitaristico né equo dei cittadini: essi sono considerati tutti come segmenti identici, nonostante l’evidente presenza di diversità. Inoltre, la neutralità presuppone una posizione metaculturale, in quanto pretende di collocarsi al di sopra e al di fuori delle culture. Questa posizione risulta insostenibile (cfr. cap. 1). Parimenti, la netta distinzione fra pubblico e privato rischia di trasformarsi in una dicotomia impraticabile, soprattutto quando sono in gioco questioni etiche che coinvolgono in modo congiunto sia il privato sia il pubblico. Basti pensare ad ambiti quali l’aborto, l’eutanasia, la pena di morte, ecc. In definitiva, la concezione dello Stato come contenitore vuoto e asettico non sembra reggere alla prova dei fatti storici. 10 Come caso emblematico, ci si può riferire alla circoncisione femminile, conosciuta in Occidente anche come mutilazione genitale femminile (MGF). Essa riguarda oltre 120 milioni di donne in più di trenta paesi sia africani (Egitto, Somalia, Nigeria, Mali, Sierra Leone, Sudan, Kenya, ecc.) sia asiatici (Indonesia, Malesia, Yemen, ecc.). È una pratica proveniente dall’antico Egitto (come testimoniano i reperti di alcune mummie) che comprende tre gradi d’intervento: a) la circoncisione, che consiste nella recisione del prepuzio del clitoride, pratica chiamata sunna (che in arabo significa tradizione); b) la clitoridectomia, ovvero l’escissione del clitoride, pratica chiamata khafd (in arabo: riduzione) o tahara (in arabo: purificazione); c) l’infibulazione, o circoncisione faraonica, che consiste nell’asportazione del clitoride, delle piccole e grandi labbra e, infine, nella chiusura dell’orifizio vaginale con filo di seta in Sudan o spine di acacia in Somalia. L’età in cui questo intervento è praticato è assai variabile, di norma avviene fra i tre e gli otto anni. Tale pratica è stata oggetto di attacchi e di critiche da parte di movimenti ideologici anti-MGF, che hanno parlato di orrore e violenza, nonché di aperta violazione dei diritti umani. Anche nel 1920 missionari e coloni inglesi avevano condannato tale pratica come barbara, selvaggia e primitiva e avevano tentato in ogni modo di estirparla senza successo (Shweder, 2003). Come pongono in evidenza diversi studiosi, ciò che nelle culture occidentali è ritenuta una «mutilazione», nelle culture indigene è considerato un perfezionamento estetico e un miglioramento del corpo femminile di cui essere fiere e orgogliose (Edgerton, 1989). In queste culture chiamare «incirconcisa» una donna rappresenta per lei un grave insulto. Occorre allora comprendere in modo profondo i significati di tale pratica. Infatti, l’alterazione dei genitali è valutata come un miglioramento della femminilità, poiché definisce in modo chiaro la sua identità, consente il suo ingresso nella rete sociale delle donne e favorisce il ma-

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trimonio (Ahmadu, 2000). Essa è percepita come un potenziamento di sé, che rende la donna più civilizzata (poiché evidenzia la volontà di gestire e controllare la propria sessualità) e più onorevole (poiché implica l’impegno a continuare la stirpe) (Boddy, 1996). Dal punto di vista medico, i movimenti anti-MGF sostengono che gli interventi mutilanti sarebbero all’origine di un incremento di mortalità e di gravi problemi di salute, come infertilità, tumori vulvari, attività sessuale penosa, infezioni locali, incontinenza, ecc. In realtà, ricerche epidemiologiche, condotte sotto l’egida del Medical Research Council, hanno posto in evidenza che tali problemi non sussistono per le forme meno invalidanti d’intervento (Morison et al., 2001; Obermeyer, 1999). In sintesi, la pratica della circoncisione femminile potrebbe essere un test per valutare la connessione fra aspetti universali e locali della moralità, nonché il grado di tolleranza delle varie culture. Ciò che dall’esterno può essere considerato un’aggressione e una crudeltà, dall’interno è ritenuto un’azione morale rispondente al principio universale del rispetto della persona (Shweder, 2002).

VI

La mente multiculturale

Per gli esseri umani del XXI secolo non è più sufficiente una mente monoculturale, come l’Onu non è più un organo di governo sufficientemente funzionale per l’enorme famiglia delle culture. Se si continuerà a disporre soltanto della mente monoculturale e di dispositivi centrali di governo (dal centro alla periferia), il dialogo fra le culture rischierà di diventare un’utopia, poiché ogni individuo avrà elevate probabilità di rimanere chiuso nella sua cultura e di essere frainteso dagli altri. La vastità e la dinamicità degli attuali flussi migratori a livello mondiale pongono condizioni nuove alla convivenza sulla Terra. A questo riguardo si sono ipotizzate alcune possibili soluzioni. Fra le altre, si può menzionare l’intercultura come spazio di scambio e capacità di entrare in dialogo con l’altro mantenendo un atteggiamento di rispetto e disponibilità alla comprensione del diverso. L’applicazione di questa prospettiva conduce ai percorsi dell’ibridazione e della contaminazione culturale. Parimenti, è utile fare riferimento alla multiculturalità non solo come dato di fatto ma come processo di convivenza pacifica tra differenti comunità culturali. In questo capitolo, dopo aver accennato al multiculturalismo e all’ibridazione (o creolizzazione), si passerà all’analisi della costruzione di 148

una mente multiculturale come percorso potenzialmente più efficace per affrontare la densa rete di confronti e contatti culturali oggi esistenti. 1. Dal multiculturalismo al multiculturale In modo lucido e razionale, Rawls (1993) si chiede in che modo sia possibile che esista e duri nel tempo una società stabile e giusta, composta da cittadini eguali e liberi, divisi fra loro da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili, benché ragionevoli. Basandosi sulla teoria della giustizia come equità, Rawls (1972) propone l’alternativa del liberalismo politico come via intermedia per capire e governare una società pluralista anche sotto il profilo culturale. Questa prospettiva parte con l’assunto di una «posizione originaria», che consiste nel fare astrazione dalle preferenze personali e dagli aspetti connessi alla propria identità e peculiarità, al fine di pervenire a una scelta di principi di giustizia accettata da tutte le parti in causa. Si tratta dunque di porre tutti i diversi attori culturali al nastro di partenza, abolendo ogni forma di vantaggio competitivo. A livello teorico, secondo Rawls, questa posizione simmetrica ed equa implica l’adozione di un «velo d’ignoranza», ossia il fatto d’ignorare le informazioni concernenti le posizioni sociali e le concezioni del bene della propria comunità culturale, nonché la consapevolezza che sostenere una certa dottrina comprensiva (religiosa, morale o politica) non è una buona ragione per aspettarsi che altri l’accettino1. Tuttavia questo «velo» dovrebbe garantire una condizione d’imparzialità e di pari opportunità fra i vari attori culturali. In base a tali premesse, Rawls introduce il concetto di consenso per intersezione, che consiste nel sottoinsieme (non vuoto) d’intersezione fra gli insiemi delle dottrine comprensive sostenute dalle diverse comunità culturali. 149

La possibilità di giungere a tale consenso si fonda sulla virtù della ragionevolezza (più che sulla razionalità), in quanto i diversi cittadini possono diventare cooperativi fra loro facendo riferimento alla capacità di senso di giustizia come equità. In pratica, il consenso per intersezione è un modus vivendi contingente e transeunte, instabile per sua natura. Secondo Rawls, va potenziato dal cosiddetto «consenso costituzionale», che presuppone un accordo più profondo fra le persone riguardo l’idea di società come sistema equo di cooperazione e quella di cittadino come persona ragionevole, razionale, libera ed eguale. Di conseguenza, la cooperazione sociale e la convivenza multiculturale non possono essere fondate né su dottrine comprensive (spesso fondamentaliste) né su processi meccanicistici e atomistici d’integrazione, bensì su un consenso per sovrapposizione (o intersezione) intorno a una concezione politica (e non etica) della giustizia adatta a un regime costituzionale della società2. A sua volta, Habermas (1992, 1996, 1997) propone un modello di convivenza multiculturale che vada oltre un semplice modus vivendi e che preveda un dialogo paritetico fra le diverse comunità culturali in causa, senza coinvolgere direttamente i loro modelli culturali di riferimento. Il percorso individuato da Habermas consiste in un accordo procedurale che, per l’appunto, richiederebbe solo un consenso sulle procedure, non sui valori né sui sistemi delle credenze e dei significati. L’obiettivo è di rispettare congiuntamente le richieste di eguaglianza e pari dignità da un lato, e l’esigenza di conservare la propria diversità dall’altro. Rinunciando nello stesso tempo a soluzioni omogeneizzanti dettate da dottrine comprensive (comunitarismo) e a soluzioni separatiste fondate sulla neutralità dello Stato (liberalismo), Habermas sottolinea, per le società multiculturali, la necessità di aprire uno spazio di condivisione almeno a livello politico, sostenendo che il diritto rappresenta il dispositivo idoneo per creare tale spazio. Il 150

diritto sarebbe dunque l’unico medium capace di garantire una solidarietà fra estranei. Poiché la condivisione costituisce un fatto prettamente politico (e dunque, ripetiamo, non etico), Habermas individua nel discorso e nell’agire comunicativo gli strumenti per costruire un’intesa fra le diverse parti culturali. Il linguaggio rappresenta la fonte primaria dell’integrazione sociale e un dispositivo efficace per far fronte a situazioni conflittuali. L’accordo comunicativo sfocia nella negoziazione d’interpretazioni comuni della situazione e nel coordinamento dei loro piani di azione. Tutto ciò è possibile a condizione che i protagonisti appartenenti a diverse comunità culturali non siano orientati al successo ma all’intesa. Nel primo caso sarebbero indotti ad articolare i loro piani di azione solo in funzione dei loro interessi e vantaggi in base a un mero calcolo razionale; nel secondo caso, invece, sarebbero inclini a muoversi all’interno di una dimensione d’interdipendenza che, in modo ragionevole, conduca a una comprensione intersoggettiva della situazione. In questa cornice un punto chiave è rappresentato dall’esigenza di riconoscimento della propria specifica identità personale e culturale. Per Habermas il multiculturalismo implica il pluralismo identitario, associato alle richieste di pari trattamento e conservazione delle diversità all’interno di un processo di reciproco riconoscimento3. In questa prospettiva emerge con forza la funzione socio-integrativa del diritto, che consente la costruzione di uno spazio di cooperazione e di convivenza sociale a partire dalle modalità d’integrazione di attori differenti in una situazione di pluralismo culturale. Data questa condizione multiculturale, il consenso non può più essere ricercato nella condivisione di una dottrina comprensiva e di una concezione omogenea e unitaria della vita umana, ma può essere favorito da una prospettiva formale del diritto, che si limiti a definire alcune condizioni necessarie per permettere ai differenti soggetti culturali di trovare un accor151

do su quali siano i loro problemi e su come vadano affrontati. In questo quadro, la neutralità dello Stato diventa imparzialità, poiché ha la funzione di consentire alle diverse voci culturali di essere ascoltate in modo egualitario, senza parteggiare per una comunità rispetto a un’altra. Di conseguenza, per Habermas risultano legittime solo quelle applicazioni del diritto che soddisfino la compatibilità dei diritti di ognuno con gli eguali diritti di ogni altro. Queste applicazioni hanno una natura contingente, in quanto sono il prodotto dell’interazione fra i diversi attori sociali e culturali di una certa società in un dato periodo storico. Tuttavia, riconosciuta tale contingenza, le norme deliberate presentano una natura coercitiva e vincolante, al fine di garantire un’eguale tutela giuridica a tutti gli attori. Nello specifico, ognuno di essi ha pari opportunità di partecipare come autore alla costruzione di un sistema giuridico di cui diventa destinatario. Secondo Habermas, questo processo costituisce la premessa più rilevante per ottenere lealtà nei confronti del sistema giuridico stesso e delle istituzioni politiche a esso connesse. In questa prospettiva il diritto, quindi, ha una natura democratica, poiché è generato dall’interazione fra soggetti giuridici liberi ed eguali, sebbene culturalmente diversi, nella statuizione di norme definite attraverso il dialogo e il confronto paritetico, fondato sul riconoscimento reciproco. Pur propendendo verso una concezione statica delle culture, intese come entità chiuse e omogenee al loro interno, la prospettiva di Habermas risulta feconda sul piano euristico e applicativo. Altrettanto interessante è il punto di vista di Kymlicka (1995) per la comprensione della cittadinanza multiculturale. Questo studioso si propone di elaborare una teoria dei diritti delle minoranze culturali, ritenendo legittimo e inevitabile integrare i diritti umani tradizionali (come le libertà di parola, di associazione e di coscienza) con i diritti delle minoranze. L’obiettivo di Kymlicka è quello di una società multiculturale, capace sia 152

di evitare il separatismo (melting pot), sia di prevedere una società pluralizzante. Nei paesi occidentali la cittadinanza multiculturale costituisce una condizione necessaria per la convivenza, poiché appare efficace nel riconoscere i diritti differenziati secondo il gruppo culturale di appartenenza. È una premessa fondamentale per realizzare nuove forme di politica pubblica, in grado di salvaguardare i principi liberali dei diritti civili e politici degli individui, ma anche di garantire l’eguaglianza fra gruppi minoritari e gruppo maggioritario, nonché di sottrarre le minoranze ai rischi dell’omogeneizzazione e omologazione alla maggioranza. Le culture sono realtà preziose, in quanto consentono l’accesso a un ventaglio di opzioni dotate di senso. Su questa base si fonda il valore principale della cittadinanza multiculturale. Per Kymlicka la cittadinanza multiculturale è un dispositivo politico per lo smorzamento o, quanto meno, per l’attenuazione del rischio di conflitti fra culture, senza tuttavia pagare il prezzo della rinuncia al pluralismo sociale e alla conservazione della libertà e autonomia personale. Bisogna pensare non a un trattamento politico indifferenziato ed eguale per tutti i cittadini, bensì a un principio egualitario che sappia trattare in modo eguale i casi eguali e in modo diverso i casi diversi. Alla base di questa impostazione vi è una cultura della diversità che, lungi dall’appiattire ogni individuo su un livello omogeneo d’indifferenza, sa cogliere le peculiarità e attribuisce visibilità alle diversità culturali. Al trattamento identico e omologante previsto dal liberalismo si sostituisce così un trattamento differenziato in grado di rispondere a esigenze diverse. Di conseguenza, la cittadinanza multiculturale sarà possibile soltanto in una società aperta. Per raggiungere questo traguardo, Kymlicka propone una revisione dei meccanismi e dei processi istituzionali sottesi alla regolazione dei rapporti fra Stato e gruppi sociali. In pratica, si tratterà, per esempio, di associare alle tradizionali forme di rappresentanza 153

nuove forme più adatte a manifestare le esigenze e le aspettative delle varie minoranze culturali. Al pari di Habermas, anche Kymlicka fa riferimento a una concezione statica e chiusa della cultura e prevede un’articolazione tendenzialmente meccanicistica per la gestione della cittadinanza multiculturale. Occorre tenere presente che lo spazio politico e culturale di convivenza non è né della maggioranza né della minoranza, ma è un «terzo spazio» in transizione e in costruzione. Le prospettive multiculturaliste elaborate da Rawls, Habermas e Kymlicka costituiscono indubbiamente un grande passo in avanti rispetto alle posizioni del comunitarismo e del liberalismo tradizionale. Queste teorie hanno avuto il coraggio e la forza di affrontare sul piano della filosofia politica il problema della comprensione sia delle diversità culturali sia dell’eguaglianza di tutti gli attori civili all’interno di una data società. In questa direzione hanno approfondito lo studio teorico del passaggio da una società chiusa e monoculturale a una società aperta e multiculturale. Tuttavia, la loro analisi segue un percorso dall’alto verso il basso, dall’astratto al concreto. Per questa ragione Rawls, Habermas e Kymlicka non sono in grado di cogliere i fenomeni e i percorsi psicologici attraverso i quali le persone elaborano concretamente una mente multiculturale. Occorrerebbe integrare lo studio di questi filosofi con un’indagine empirica che, partendo dal basso verso l’alto, sia in grado di ricostruire i percorsi attraverso cui gli individui giungono a una mente multiculturale. Per avere una società multiculturale, infatti, è indispensabile che i soggetti di tale società siano multiculturali. Il multiculturalismo è un modello filosofico e sociologico che si propone di esaminare le modalità e i processi grazie ai quali far coabitare culture fra loro differenti, evitando fenomeni di sopraffazione e proselitismo. Lo scopo è la gestione di più culture diverse. Il multiculturale s’interessa ai dispositivi e percorsi mentali che consentono alla 154

medesima persona di vivere bene in culture diverse, adattandosi attivamente – di volta in volta – a una singola e specifica cultura. La mente multiculturale non è la somma né l’integrazione di culture differenti, ma è piuttosto l’appropriazione di modelli culturali situati e distribuiti presso comunità diverse, in funzione dei quali essa sa declinarsi in modo differenziato in riferimento ai vari contesti d’uso. Questo risultato può essere perseguito principalmente attraverso due strade: l’ibridazione (o creolizzazione) e la costruzione di una vera e propria mente multiculturale. Innanzitutto, affronteremo in modo sintetico il primo aspetto, per poi esaminare in maniera più estesa il secondo. 2. Creolizzazione e ibridazione Oggi è abbastanza frequente sentir parlare di «creolizzazione», «meticciamento» e «ibridazione». Si tratta di termini diversi che rinviano, sostanzialmente, a un concetto comune. Il fatto che nel corso del tempo le culture evolvano e vengano in contatto fra loro, costituisce una condizione rilevante per la loro contaminazione. In questo modo le culture tendono a ibridarsi e ad assumere nuove configurazioni attraverso un fenomeno che non riguarda solo la cosiddetta globalizzazione – che comporta una certa omogeneizzazione (peraltro superficiale ed epidermica) negli stili di vita –, ma più in profondità va a toccare la stessa identità culturale (cfr. cap. 5) (Gaertner, Dovidio e Bachman, 1996). Data la sua genesi relazionale, l’identità culturale ha una natura contestuale, poiché può essere definita ed espressa solo in modo contingente in una certa situazione, in funzione degli elementi presenti in un determinato contesto. Si tratta di un’identità consapevolmente provata a livello soggettivo e pubblicamente manifestata a livello sociale. L’identità culturale ha, quindi, una natura contaminata, poiché non è l’esito di un lineare processo di assimilazio155

ne di una forma culturale precisa e «pura», bensì è il risultato di processi di contaminazione con aspetti, tratti e qualità provenienti da altre culture (Remotti, 1996). È dunque in atto e prosegue da tempo ciò che si può chiamare la creolizzazione dell’identità culturale, ossia la condizione per cui la propria identità culturale è di fatto una mescolanza di elementi e proprietà provenienti da diverse culture (Amselle, 2001). Per creolizzazione culturale (o ibridazione) s’intende quindi questo processo di contaminazione di aspetti e forme di vita provenienti da culture diverse, a volte anche molto distanti fra loro. Da questo punto di vista non esiste una cultura pura e vergine, incontaminata e protetta da un isolamento totale. Anche presso popolazioni non alfabetizzate del mondo maggioritario sono assai probabili scambi fra gruppi umani limitrofi, poiché molti di loro, in quanto cacciatori e raccoglitori, sono nomadi. Per la psicologia della cultura la creolizzazione, tipicamente umana, più che sul contagio e sull’emulazione, si fonda sulla capacità d’imitazione degli esseri umani. Sfocia così in una teoria della mente degli altri, anche quando questi sono estranei e sconosciuti (cfr. cap. 3). Tale competenza consente d’inferire le intenzioni altrui, di coglierne gli scopi, di verificarne i rapporti fra mezzi e fini, di farsi un’idea dei modelli mentali degli altri e così via. In questo processo un ruolo fondamentale è svolto dall’azione delle cosiddette «cellule specchio», che consentono di stabilire una sintonia e di entrare in empatia con quanto sta facendo e comunicando l’interlocutore (cfr. cap. 3). Parimenti, la creolizzazione si basa sulla curiosità, sul desiderio di esplorazione, sulla capacità di sperimentazione e d’innovazione delle persone. È l’esigenza di provare percorsi diversi e alternativi, poiché la curiosità umana non teme la contaminazione e il sincretismo. La creolizzazione, quindi, è una sorta d’innesto culturale che favorisce la germinazione di nuove e diverse espressioni di cultura. Non si tratta di una traduzione da una lin156

gua o da una cultura a un’altra alla ricerca di corrispondenze ed equivalenze. Piuttosto, è una mescolanza combinata di forme che in parte mantengono la loro configurazione originaria anche dopo l’azione di fusione e combinazione. D’altro canto, s’innesca un processo di reinvenzione che favorisce l’emergere di nuovi segmenti, propaggini e tendenze culturali. Per questa ragione, la creolizzazione è un’importante manifestazione della creatività culturale, intesa come capacità di produrre e inventare nuove forme di cultura, ripescando alcuni elementi dal passato, attingendone altri da culture più o meno vicine. Alcuni studiosi (e politici) hanno sostenuto che la creolizzazione è un processo d’indebolimento, se non addirittura di perdita della propria identità culturale (Pera e Ratzinger, 2004; Searle, 1998). Qui entra in gioco il concetto statico e oggettualistico di cultura intesa come «patrimonio di conoscenze, di valori e di pratiche da tramandare ai posteri». Come «tradizione autentica da difendere» e «valorizzazione delle proprie radici». In realtà, la creolizzazione è inevitabile, poiché non si può imbalsamare la cultura e fissarla per sempre nel tempo (provincialismo temporale). L’evoluzione culturale rappresenta un processo inarrestabile che allo stesso tempo congiunge produzione e riproduzione di schemi di comportamento e scambio interpersonale (script, cfr. cap. 1). Occorre, quindi, ribadire il valore dell’ibridazione culturale e del meticciamento, poiché siamo tutti culturalmente contaminati e ibridi. Si può sostenere che quanto più una cultura è in grado di gestire differenze, tanto più è robusta e vitale, aperta alle sfide del presente e del futuro. Al contrario, una cultura «pura» (qualora esistesse) sarebbe molto debole e perdente, destinata a implodere e a morire, in quanto chiusa in se stessa e priva di stimoli. In linea di massima, la differenza è generatrice, mentre l’uniformità è sterilità e ripetitività. Semmai, il limite della creolizzazione culturale consiste nel fatto che si tratta di un processo lento e lungo, pur es157

sendo assai più rapido di quello biologico. Spesso sono necessarie generazioni per poter verificare i cambiamenti causati dagli scambi e innesti culturali. 3. In che modo si costruisce una mente multiculturale? Lo studio psicologico dei processi sottesi alla costruzione di una mente multiculturale è molto recente e si riferisce a un approccio noto come situazionismo dinamico, sostenuto dalle ricerche di un gruppo di studiosi cinesi e americani (fra gli altri, Hong, Benet-Martínez, Chiu e Morris, 2003; Hong e Chiu, 2001; Lau, Lee e Chiu, 2004; Morris e Fu, 2001). Questo approccio parte dall’assunto che, sul piano psicologico, la cultura non costituisce una forma mentale unitaria né una struttura pienamente inconsapevole e implicita, ma è una rete flessibile di conoscenze, categorie, valori e pratiche. A livello soggettivo, la cultura non è dunque un blocco monolitico e omogeneo, in grado d’influenzare e regolare in ogni istante e in modo uniforme i processi cognitivi, emotivi e sociali degli individui. Non è interiorizzata come un sistema compatto e universale, pronto a indicare in modo automatico la risposta adatta a ogni circostanza. Non si tratta di un circuito già codificato, capace di attivarsi in base agli indizi ambientali. Piuttosto, la cultura è una costellazione dinamica di schemi e modelli mentali (cognitivi, emotivi, morali, sociali) che sono prodotti, condivisi, riprodotti e modificati all’interno di una comunità di partecipanti. Questi modelli sono applicati in modo selettivo alle diverse situazioni, avendo a disposizione un certo numero di gradi di libertà che consentono la loro modulazione. In base a questa premessa generale, il situazionismo dinamico prevede che in qualsiasi circostanza la cultura sia appresa di continuo dai partecipanti. L’apprendimento culturale è intrinseco alla nostra esperienza, poiché da quanto facciamo e viviamo possiamo trarre informazioni utili 158

ad azioni successive assimilabili alla medesima classe. Diversamente dalle modifiche dovute a programmi genetici, l’apprendimento culturale va inteso come una modificazione relativamente duratura (sia pure soggetta al cambiamento nel tempo) del comportamento a seguito di un’esperienza, di solito ripetuta più volte nel tempo. Fra le varie forme di apprendimento, è utile distinguere quello individuale (capacità di acquisire nuove informazioni a seguito di un’esperienza personale con l’ambiente) da quello sociale (capacità di acquisire nuove conoscenze e pratiche grazie all’interazione con i consimili). In generale, si è visto che in fasi culturali stabili l’apprendimento sociale risulta più vantaggioso di quello individuale, poiché il primo risulta più affidabile e il secondo più soggetto a errori. Al contrario, in periodi e ambienti culturali variabili, dove l’apprendimento sociale perde attendibilità, si ha una maggiore rilevanza dell’apprendimento individuale per trovare soluzioni più adatte ai cambiamenti dell’ambiente. L’apprendimento sociale, che ha la funzione di accelerare e rendere più attendibile l’apprendimento individuale, presenta una forte rilevanza per favorire l’appropriazione della cultura di riferimento e l’appartenenza culturale. L’apprendimento culturale, quindi, ha una base esperienziale, poiché avviene nel corso delle esperienze più o meno formalizzate (come rituali) che attraversano la vita dei soggetti. Presenta diversi gradi di consapevolezza, per cui può essere un apprendimento esplicito (o consapevole), come succede in certi ambienti finalizzati all’educazione (per esempio la scuola), o implicito (latente) nello svolgimento delle diverse attività quotidiane. In qualunque circostanza, l’apprendimento culturale è dominio-specifico, in quanto è strettamente collegato al contesto: non avviene nel vuoto ma sempre all’interno di una rete di rapporti in cui sono inseriti i vari oggetti dell’apprendimento. Qualsiasi conoscenza appresa è collocata in ogni caso dentro una matrice contestuale che le attribuisce senso e ne 159

consente la comprensione. Viceversa, senza contesto non è possibile nessuna forma di apprendimento. Partendo da queste premesse, il situazionismo dinamico ha approfondito lo studio di soggetti che vivono in ambienti dove sono compresenti due culture fra loro anche molto distanti. Prendendo in considerazione studenti cinesi che frequentano università americane a Hong Kong, Hong e i suoi colleghi hanno verificato empiricamente che tali soggetti si sono appropriati dei modelli culturali sia cinesi (collettivisti) che americani (individualisti) (Hong, Chiu e Kung, 1997; Hong et al., 2000; Wong e Hong, 2005). Di conseguenza, quando si trovano in contesti cinesi, presentano una personalità interdipendente e assumono condotte peculiari della cultura cinese, all’insegna di armonia e cooperazione, pietà filiale e forte senso della famiglia, modestia e umiltà, conformità e dipendenza verso il gruppo di appartenenza, nonché una forte attenzione alle aspettative altrui. Tuttavia, allo stesso tempo, quando si trovano in contesti americani, questi medesimi studenti presentano anche una personalità indipendente e manifestano comportamenti tipici della cultura americana, seguendo standard di autonomia e indipendenza, consapevolezza della propria unicità e distintività, edonismo e ricerca del vantaggio soggettivo, distanza emotiva dagli altri, successo personale e affermazione di sé, autoefficacia e autostima, nonché della competizione con gli altri. Verrebbe da chiedersi se questi soggetti siano affetti da schizofrenia o da qualche altro disturbo mentale. La risposta è assolutamente negativa, poiché si tratta di individui pienamente adattati ai loro ambienti, in sintonia con le esperienze che, di volta in volta, vivono. Semplicemente, in funzione dei loro contesti di apprendimento, nel tempo costoro hanno elaborato una mente multiculturale, in grado di funzionare perfettamente da cinese quando si trovano con cinesi, e da americana quando hanno a che fare con americani. 160

Com’è possibile questo passaggio dai modelli di una cultura a quelli di un’altra così distante? Talvolta, si tratta persino di modelli culturali fra loro antitetici. Tale passaggio (cultural frame switching) è governato dalla presenza di indizi forniti dal contesto che, di volta in volta, costituisce la cornice di una data esperienza di vita. In base a questi indizi, i soggetti sono in grado di scegliere quale percorso culturale seguire, dimostrando così di adattarsi attivamente alle aspettative sociali e relazionali in corso. Essi si comportano come cinesi in presenza d’indizi contestuali cinesi, e come americani in presenza d’indizi contestuali americani. Tali indizi hanno una funzione di facilitazione (priming), poiché orientano le risorse psicologiche (attentive e cognitive, emotive e sociali) degli individui a muoversi secondo certi modelli culturali piuttosto che secondo altri4. La transizione dalle forme di una cultura a quelle di un’altra è governata, quindi, dall’accessibilità mentale degli schemi e modelli per capire e interpretare una certa situazione e per comportarsi di conseguenza in modo coerente e appropriato. In generale, quanto più una certa categoria (o concetto) è facilmente accessibile, tanto più essa serve a spiegare e a rendere intelligibile un evento. A sua volta, il grado di accessibilità è dato dalla frequenza di attivazione di un certo modello o schema mentale, dalla facilità del suo reperimento nei magazzini della memoria a lungo termine (semantica e autobiografica), nonché da fattori di facilitazione (priming effect). Occorre precisare che modelli e schemi culturali non sono moduli mentali autonomi, che si attivano automaticamente, una volta innescati da qualche indizio esterno o interno. Si tratta, piuttosto, di schemi che hanno la funzione di script, ossia copioni che indicano le linee guida per una certa condotta, ma che nello stesso tempo lasciano notevoli margini di discrezionalità alle opzioni dei soggetti. L’accessibilità mentale di specifici modelli culturali è seguita, di norma, dalla loro applicabilità alla situazione contingente. 161

Questo processo di costruzione di una mente multiculturale è stato osservato anche presso soggetti di altre culture. Per esempio, nei call center o nelle unità ospedaliere di pronto soccorso in Canada, l’operatore cambia immediatamente codice linguistico e comportamenti in funzione di chi chiama, se anglofono o francofono. Parimenti, adolescenti messicani americani che frequentano scuole pubbliche, nella vita familiare e domestica si comportano come messicani, parlando spagnolo e seguendo le norme di condotta messicane, mentre a scuola si comportano da americani, parlando inglese e usando standard americani per interagire e comunicare con gli altri (Padilla, 1994). Parimenti, bambini greci che vivono in Olanda e che parlano perfettamente il greco e l’olandese, manifestano una diversa attribuzione causale e un diverso livello di autostima in funzione degli indizi contestuali di facilitazione (Verkuyten e Pouliasi, 2002). È interessante osservare che i modelli della cultura A e della cultura B tendono a rimanere distinti nella mente dei soggetti. Nella mente multiculturale i sistemi delle credenze e dei significati, così come la focalità emotiva e la competenza comunicativa non sono necessariamente mescolati né integrati, ma tendono a essere separati fra loro. In particolare, l’appropriazione dei modelli di una seconda cultura non sostituisce quelli della cultura precedente (Phinney e Devich-Navarro, 1997). Di questa condizione sono pienamente consapevoli gli informatori multiculturali, che pensano se stessi non come soggetti culturalmente unitari ma come «comunione di differenti esseri culturali», in quanto hanno sviluppato diverse identità culturali che divergono e convergono secondo le esigenze della situazione (Sparrow, 2000). Di conseguenza, la mente umana può comprendere e appropriarsi di diversi sistemi culturali di credenze, valori e pratiche. È un habitat di significati attinti da varie fonti e matrici culturali, fra i quali non deve esserci necessariamente omogeneità. Tale habitat comporta la possibilità 162

di contenere modelli culturali diversi, al limite anche opposti. Questi modelli antitetici, pur essendo presenti contemporaneamente nella mente del soggetto, non possono tuttavia guidarne allo stesso tempo la condotta. Il principio è quello di applicare, di volta in volta, in modo pertinente e coerente, i modelli più consoni a un certo contesto culturale. Possiamo quindi fare distinzione fra una forma implicita di mente culturale e una esplicita. La prima consiste nel saper tradurre le categorie di un’altra cultura in quelle della propria. Anche se una traduzione perfetta non è possibile, tuttavia lo sforzo traduttivo implica inevitabilmente la comprensione del punto di vista con cui l’altro produce certe categorie e modelli culturali. La mente culturale esplicita prevede invece la capacità di appropriarsi e di disporre in modo immediato dei modelli culturali di due o più culture, per usare gli uni o gli altri in base agli indizi della situazione. Attualmente, si stima che la mente multiculturale sia una realtà attiva solo presso una minoranza della popolazione mondiale. È più probabile che essa sia diffusa in specifiche aree geografiche dove convivono culture diverse. In ogni caso, alla luce dei flussi migratori e del revival etnico, la mente multiculturale costituisce una sfida di primaria importanza per la specie umana del XXI secolo. Se si resta prigionieri della mentalità monoculturale, i vari rischi di cui si è detto potrebbero trasformarsi in tragiche realtà. 4. Vantaggi della mente multiculturale La mente multiculturale modifica profondamente la struttura, l’organizzazione e il funzionamento della mente stessa. Presenta enormi vantaggi e oggi appare come il più potente dispositivo a servizio della nostra specie per affrontare le complessità della convivenza fra esseri umani. 163

4.1. Mente multiculturale e apertura mentale La mente multiculturale non è una mente scissa, frammentata e dispersa nel labirinto dei modelli delle varie culture. Piuttosto, è una mente versatile, di volta in volta capace di declinarsi efficacemente in riferimento a uno specifico ambiente culturale. Ha in suo possesso una pluralità di codici grazie ai quali capire e interpretare le situazioni più disparate. Parallelamente, la mente multiculturale diventa una mente aperta e complessa, capace di far fronte alla gamma di stili e modelli di vita che le diverse culture hanno elaborato e continuano a elaborare. Rappresenta così una delle testimonianze più vive ed efficaci della creatività della specie umana, dimostrando che le persone sono in grado di appropriarsi non solo di schemi e percorsi esistenziali tipici della propria comunità, ma anche di quelli di altre culture. La mente multiculturale, quindi, è una mente al plurale. Sa parlare in molti modi e sa efficacemente interagire con persone provenienti da culture differenti. Sa che non vi è un unico modello per vivere ma che vi sono molti modi diversi a seconda di vincoli e opportunità dell’ambiente fisico e sociale. La mente multiculturale è una mente interculturale, poiché è in grado di stabilire le opportune connessioni fra culture differenti e dispone di un maggior numero di strumenti culturali per adattarsi attivamente alla realtà in diverse nicchie ecologiche. La mente multiculturale, tuttavia, non è globale, come non è appiattimento etnico, né omogeneizzazione, poiché è rispettosa dell’importanza delle varie culture. Per la mente multiculturale i flussi migratori non costituiscono, quindi, una minaccia ma un’opportunità per esplorare altre traiettorie di vita e aumentare i gradi di libertà, che permettano di declinare più ampiamente la propria esistenza. Si esce fuori dall’orizzonte chiuso e provinciale della propria cultura per scoprire che i problemi pos164

sono essere trattati in modo diverso. Ci si rende conto che il proprio punto di vista è parziale e limitato e che esistono altri punti di vista per spiegare e affrontare le medesime difficoltà. Avendo a disposizione differenti punti di vista, aumenta la comprensione dei fenomeni, grazie al confronto tra una prospettiva e l’altra. Di conseguenza, anche la qualità della vita migliora, poiché può riferirsi a diversi modi di vivere e far fronte all’ambiente. In questo modo, la mente ha a sua disposizione differenti registri e modelli per capire e gestire le emozioni (proprie e altrui), per regolare i rapporti interpersonali, per definire il bene e il male. Se una persona, per esempio, riesce a capire per quali ragioni gli eschimesi utku non si arrabbiano mai, ha l’opportunità di gestire meglio la propria collera e aggressività. Rawls ha ipotizzato una convivenza per intersezione sulla base di comuni denominatori fra le culture in gioco. Kymlicka ha parlato di cittadinanza multiculturale come forma di riconoscimento delle minoranze in condizioni di pari dignità. Ma in realtà, non vi è solo un problema d’integrazione fra maggioranza e minoranze. La coesistenza spesso consiste nella coabitazione e rimanda, implicitamente, all’idea di comunità separate: condividere lo stesso ambiente, ma ciascuno al proprio posto. Così si rischia di vivere «separati in casa». Se ribaltiamo la prospettiva, ci accorgiamo che anche la maggioranza ha modo di apprendere qualcosa dalle minoranze. Il confronto con l’altro non è necessariamente pericoloso. Può essere l’occasione per un arricchimento reciproco o, quanto meno, per migliorare la comprensione di sé. Questo confronto può diventare un moltiplicatore dei propri gradi di libertà nell’ottimizzare le potenzialità della propria esistenza. Per certi versi, non è paradossale sostenere che oggi le minoranze culturali sarebbero in una condizione più di vantaggio che di svantaggio, qualora avessero le possibilità di ottimizzare il valore intrinseco della loro posizione. Di per sé, possono acquisire una men165

te multiculturale più facilmente della maggioranza. Il fatto che tuttavia tale fenomeno oggi non si realizzi, può essere attribuito a diversi fattori (cfr. par. 6.2 di questo capitolo). L’apertura mentale generata dalla mente multiculturale conduce a una più potente ed efficace competenza comunicativa a livello sia verbale che non verbale. Appropriarsi di modelli di diverse culture implica anche l’appropriazione di diversi sistemi di significazione e segnalazione. Chi possiede una mente multiculturale, sa che vi sono differenti modi per elaborare i significati, per costruire i percorsi di senso da attribuire al flusso delle esperienze, per conversare e definire le relazioni interpersonali (Anolli, 2006). Parimenti, la mente multiculturale ha a sua disposizione diverse griglie per valutare le situazioni emotigene, etichettare emotivamente le varie esperienze interne, manifestare e affrontare le emozioni, nonché regolarle e gestirle. Essa dispone di una ricca molteplicità di fuochi e stili emotivi per rispondere in modo affettivo alle situazioni della vita quotidiana. Di conseguenza, la mente multiculturale è multiemotiva, poiché riesce a declinare la condotta emotiva appropriata ai differenti contesti. Le emozioni non esistono in senso assoluto ma costituiscono esperienze affettive che variano profondamente di cultura in cultura (Anolli, 2002c). Saper essere in sintonia emotiva significa essere capaci di mettere l’altro a proprio agio e accogliere la sua sensibilità emotiva come se si trattasse di un dato di fatto. Simili sono i risultati perseguiti dalla mente multiculturale anche per ciò che riguarda il sistema delle credenze, la gerarchia dei valori, il senso di giustizia, la concezione della leadership, la natura delle organizzazioni e dei gruppi umani e così via (Anolli, 2004). 4.2. Mente multiculturale e psicologia della frontiera Il concetto di mente multiculturale rinvia a quello di frontiera come luogo in cui due identità diverse si «fanno fron166

te». La frontiera è uno spazio neutro che, nel momento stesso in cui separa, unisce (Fabietti, 1998). È la soglia attraverso la quale, se si desidera, si può entrare in contatto con l’altro. Alla frontiera, infatti, termina l’identità di una cultura e al contempo inizia quella di un’altra cultura. Di conseguenza, si può dire che la frontiera è generata dalla contiguità psicologica fra due identità culturali diverse (Karahasan, 1995). La mente multiculturale è lo spazio psicologico della frontiera dove s’incontrano i modelli di due o più culture differenti, implicando la possibilità concreta di legittimità e coesistenza di due prospettive differenti d’intendere e spiegare il mondo. Significa, altresì, una situazione di scambio, dove diventano più probabili e facili i processi d’importazione ed esportazione di modelli culturali di vita. Per questo motivo, la mente multiculturale – in quanto frontiera – non è statica ma dinamica e mobile. È in continuo divenire, poiché le frontiere culturali hanno una natura contingente e sono in continuo movimento. Nel continuo gioco di scambi all’interno della grande famiglia delle culture, le frontiere costituiscono l’esito momentaneo di una doppia azione di pressione e resistenza. Questa condizione dinamica spiega perché in certi periodi storici alcune forme culturali sono in fase di espansione e affermazione, mentre in altri vanno incontro a fenomeni di riduzione e involuzione. Ma così si spiega anche perché si sono verificati il tramonto e il collasso di enormi imperi culturali (dall’impero romano a quello ottomano) che sembravano stabili e apparentemente eterni. Il successo del passato non è una garanzia per il presente, né tanto meno per il futuro. Come per ciascun soggetto, ogni forma culturale deve affermare tutti i giorni il proprio spazio di esistenza e la propria azione d’influenza. Su queste premesse si fonda il vigore della mente multiculturale, la risposta più efficace alle sfide culturali di cui si parla ogni giorno anche in televisione o sui giornali. Né l’economia, né la scienza, né la politica, né le religioni pos167

sono sottrarsi a tali sfide. I protagonisti del XXI secolo dovranno saper pensare, sentire e agire in termini multiculturali o finiranno per emarginarsi da soli. È un nuovo gradino dell’evoluzione della nostra specie, che ci permetterà di raggiungere un livello di maggiore benessere al fine di poter ottimizzare le risorse e far fronte alle difficoltà ambientali. La mente multiculturale vive nello scambio e nell’interazione, non in condizioni d’isolamento, presupponendo quindi il superamento del separatismo culturale. Nello stesso tempo, non impone l’omologazione né l’integrazione. Non genera confusione e sovrapposizioni culturali. Per la mente multiculturale vale il principio dell’universalità senza l’uniformità fra gli esseri umani. Come specie unica (e relativamente giovane) l’uomo ha a sua disposizione meccanismi e dispositivi di funzionamento generali (dalla percezione alle emozioni), ma i contenuti e i modi di funzionamento sono profondamente diversi da cultura a cultura. Fermarsi ai dispositivi generali rischia di limitare la comprensione della nostra specie e dei gruppi che la compongono ad aspetti generici e superficiali. Di conseguenza, la mente multiculturale assume il confronto e la partecipazione culturale come premesse per la propria definizione. È una prospettiva pluralista e critica (non relativista, né assolutista), capace di proporre e declinare il proprio punto di vista tenendo presenti i vincoli e le opportunità dell’ambiente fisico e sociale (concetto di nicchia). È la responsabilità d’intendere la propria identità culturale come partecipazione (essere parte di) in una prospettiva generale di pari dignità. Solo così è possibile creare uno spazio comune (interculturale) in cui ognuno può veder riconosciuta la propria identità culturale, in quanto realtà legittima anche se non assoluta. È allora possibile relativizzare l’identità senza assolutizzare le differenze culturali. La specie umana si configura come un’unica specie biologica con molte menti culturali. Questo è il binomio 168

che attribuisce sostanza e forza agli esseri umani. La specie umana, sfrangiandosi in molte menti diverse, ha evitato il rischio del determinismo biologico. Nello stesso tempo, coniugando le informazioni genetiche con le condizioni ambientali, ha moltiplicato i fattori di successo biologico e psicologico. La mente multiculturale rappresenta un nuovo passo in questa direzione evolutiva della nostra specie, per far fronte alle sfide di oggi e, soprattutto, a quelle di domani. 4.3. Mente multiculturale e tolleranza La mente multiculturale è una mente tollerante nelle relazioni con persone di culture diverse. Sa prendere le distanze dalla propria cultura di origine, non per diminuirne l’importanza né tanto meno per rinnegarla, bensì per cogliere gli inevitabili limiti che ogni cultura porta con sé. Tolleranza è un concetto dotato di diversi significati (Walzer, 1997). In primo luogo, può essere concepita come accettazione rassegnata della diversità per amor di pace, oppure come benevola noncuranza e indifferenza nei confronti del diverso. In secondo luogo, la tolleranza può essere intesa stoicamente come capacità di riconoscere che gli altri hanno diritti che esercitano in modi diversi da come noi li applichiamo. In terzo luogo, la tolleranza consiste nella predisposizione all’apertura verso gli altri, nel rispetto dei loro stili di vita e nella disponibilità a imparare da loro. La mente multiculturale è tollerante proprio nel senso di questo terzo significato, in quanto indica la disponibilità dei soggetti ad accettare la diversità come risorsa. Rappresenta così una premessa importante per il superamento della precarietà del modus vivendi, poiché si allinea in modo costante e dinamico alle esigenze e aspettative delle parti in causa. La mente multiculturale costituisce un fattore importante per la comprensione e gestione delle diversità all’in169

terno del principio della pari dignità e dell’eguaglianza. In quanto biologicamente incompleti, gli esseri umani hanno trovato nella cultura il mezzo per completarsi, riuscendo a valorizzare le condizioni del loro ambiente. Al di là di somiglianze generali, appaiono tutti differenti. Per la mente multiculturale la tolleranza si declina attraverso il principio della convivenza, la cui importanza è stata sottolineata da molti studiosi, fra cui anche Popper. Non siamo in presenza di una forma di convivenza coercitiva e costrittiva. Né tanto meno sono attivi processi di fanatismo e proselitismo. Piuttosto, siamo di fronte a una modalità pragmatica di convivenza, poiché mantiene dentro di sé aspetti contingenti e storici. Convivere significa rendere la vita reciprocamente accettabile, stabilire reali condizioni di comprensione e scambio fra soggetti di culture diverse. Seguendo il principio di convivenza, la mente multiculturale rispetta le differenze senza banalizzarle né assolutizzarle. Rispetta le identità senza esasperarle né negarle. La condizione della convivenza e tolleranza trova il suo fondamento ultimo nell’appartenenza alla medesima specie biologica. La consapevolezza di far parte dello stesso gruppo biologico costituisce un ancoraggio necessario, anche se non sufficiente, per individuare forme condivise di convivenza e tolleranza. Se si coartano i contribuiti dei consimili da cui si dipende, si finisce per coartare anche se stessi. Soltanto tale consapevolezza ci aiuta a monitorare il pianeta su cui viviamo, nella certezza che occorre salvaguardare la Terra per salvaguardare la nostra specie. Ma tale impostazione non implica la disposizione ad accettare ogni cosa in nome della tolleranza. Questa cessa di essere tale di fronte a chi è intollerante. Occorre far fronte al paradosso della tolleranza, quando il tollerante si trova dinanzi a un interlocutore intollerante. L’intolleranza consiste nella mancanza di rispetto e riconoscimento dell’altro, come se non esistesse. Tuttavia, già Gandhi ave170

va sottolineato che nessuna cultura può sopravvivere se pretende di escludere le altre. In questo caso varrà il principio della «intolleranza dell’intolleranza», alla base della convivenza civile e umanamente degna, poiché l’intolleranza va contenuta e circoscritta. Coloro che ragionano secondo una mente monoculturale tendono a ritenere intollerante il comportamento di chi cerca d’influenzare e dirigere il comportamento altrui. Si entra così in una spirale senza fine. Al contrario, se una persona ha una mente multiculturale, si rende conto della parzialità del punto di vista della cultura A e di quello della cultura B. Il rischio di una presunta superiorità di un punto di vista sull’altro si riduce, quindi, in modo sensibile, poiché il confronto smussa (o, addirittura, azzera) gli assolutismi e i dogmatismi. Il dialogo culturale, da più parti invocato (dall’intercultura alla politica, alle religioni), rischia di restare un auspicio e una velleità, se è fatto da soggetti chiusi nella loro mente monoculturale e propensi a difendere il valore del loro punto di vista. Oppure rischia di dover rinunciare alla propria posizione culturale che rimanda al senso di appartenenza. Per la mente multiculturale il dialogo costituisce un’esperienza percorribile ed efficace, senza rinunciare alla propria identità (cfr. cap. 5). L’esito del dialogo non è l’uniformità ma la capacità di reciproca prevedibilità. 5. Mente multiculturale e pluralismo morale Un ambito molto dibattuto, fonte di dispute e spesso di aspri conflitti, è quello morale, poiché va a toccare le radici di quello che siamo e che ci proponiamo di essere. Abbiamo già visto che, in riferimento alla morale, né il fondamentalismo né il relativismo culturale costituiscono soluzioni soddisfacenti. Il primo conduce all’assolutismo morale con forme più o meno imperiose di proselitismo e fanatismo; il secondo comporta l’indifferenza morale, la171

sciando aperta la strada alla «legge della giungla», basata su meri rapporti di forza. Shweder (2003) ha proposto la via del pluralismo, sotto l’egida del principio della «universalità senza uniformità», come terza via fra fondamentalismo e relativismo. Partendo dai suoi studi condotti a Bhubaneswar, la «città dei templi», attuale capitale di Orissa, in India, Shweder distingue tre grandi linee morali: a) l’etica dell’autonomia; b) l’etica dell’armonia; c) l’etica della divinità. Sono prospettive morali che possono coesistere nello stesso habitat culturale. L’etica dell’autonomia sottolinea l’importanza dei diritti personali e della giustizia, la realizzazione dei propri desideri e interessi, la rilevanza della responsabilità individuale basata sui concetti di libero agente e libero arbitrio. Gli obblighi morali derivano dal fatto di essere una persona indipendente. Nell’etica dell’autonomia il singolo individuo ha, quindi, un valore di figura prominente rispetto allo sfondo del gruppo e della comunità sociale. Egli assume così il valore di «sé sacro», ossia inviolabile e degno di ogni rispetto. L’etica dell’armonia riguarda l’insieme degli obblighi di una persona in quanto parte di una comunità. In questa prospettiva, particolare rilievo è assegnato ai valori della solidarietà, partecipazione, condivisione, collaborazione, capacità di rendersi utile e di prendersi cura degli altri. I doveri morali discendono dal fatto di far parte di una comunità. Vanno ricondotti a tale condizione lo spirito di sacrificio e di dedizione, l’interesse verso la comunità intesa nel suo insieme, la consapevolezza di appartenere alla comunità e di dipendere da essa. Gli obblighi morali, infatti, sono considerati reciproci: dal basso verso l’alto ma anche dall’alto verso il basso. Secondo l’etica dell’armonia, di conseguenza, predomina una concezione «feudale» della morale, fondata sulla gerarchia, la lealtà, l’obbedienza e l’interdipendenza, in base al principio: «tutti per uno e uno per tutti». È molto 172

forte la consapevolezza che, se le azioni di un singolo indeboliscono quelle degli altri da cui il singolo dipende, questi indebolisce anche se stesso, capo o servitore che egli sia. In particolare, il capo della comunità (re, signore, padre, ecc.) sa che il suo benessere è profondamente legato alla soddisfazione dei suoi sottoposti. E sa anche che, per ottenere obbedienza e fedeltà da parte dei subordinati, deve promuovere la loro soddisfazione esistenziale. A sua volta, l’etica della divinità si fonda sulla concezione di un ordine immanente nel mondo. La divinità permea l’ordine sociale e naturale nelle loro diverse forme e manifestazioni. La vita è un’espressione terrena di un disegno divino e non vi può essere una separazione netta fra ciò che è secolare e ciò che è sacro. Questa etica rimanda ai concetti di santità e virtù, alla focalizzazione sugli scopi ultimi dell’esistenza e, soprattutto, alla dignità di ogni singola persona. Secondo l’etica della divinità vi è un ordine sacro nelle cose che va intrinsecamente rispettato. Secondo Spero (1992), la divinità è un costrutto psicologico, anche se non può essere ridotto a una semplice manifestazione psicologica. L’esperienza della divinità può essere teistica o meno, può includere o no il concetto di un dio o di una dea personificata. Il punto essenziale è quello di riconoscere la presenza di un disegno divino nella realtà. Accanto a queste forme di moralità individuate da Shweder, si può menzionare la prospettiva morale dei diritti umani, proclamati in numerose circostanze e in diverse sedi (Martin, 2001, 2005). Già nel 1948, nella Universal Declaration of Human Rights (UDHR) fatta dall’Onu, si parla di diritti inalienabili, di dignità della persona, di «libertà, giustizia e pace nel mondo» (preambolo). Si afferma subito che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali per dignità e diritti» (art. 1). È altresì proposto il principio di riconoscimento delle diversità culturali, senza discriminazioni né forme di esclusione. Sia per le diverse prospettive morali sia per l’affermazione dei diritti umani, lo spazio d’azione, apparentemen173

te contraddittorio in quanto costretto fra le esigenze dell’eguaglianza e il rispetto delle diversità e libertà, può essere gestito al meglio da coloro che hanno una mente multiculturale. Questa non è neutra né indifferente, in quanto non esiste nessuna neutralità culturale. Piuttosto, è capace di seguire diversi percorsi morali in funzione della situazione contingente. In particolare, la mente multiculturale da un lato consente d’individuare gli aspetti comuni e condivisi, e dall’altro di cogliere e rispettare le specificità e distinzioni fra le differenti prospettive e gerarchie di valori. 6. Educare alla mente multiculturale La mente multiculturale non è un dono della natura, ma un lungo e complesso processo di formazione che va costruito seguendo modelli educativi più o meno espliciti. Occorrerebbe che questa consapevolezza fosse particolarmente presente e operante presso politici, amministratori pubblici, operatori scolastici, pedagogisti, psicologi e tutti coloro che lavorano con i bambini. Nello specifico, è opportuno evidenziare che oggi la missione della scuola nel preparare i cittadini di domani dovrebbe consistere nell’educare i bambini italiani anche ad altre culture, ovvero ad avere una mente multiculturale. Tutto ciò, certamente, non significa rinunciare alla cultura italiana, che anzi abbiamo il dovere di continuare a far crescere. Ma se vogliamo raggiungere questa meta, non possiamo pensare solo a difendere la nostra cultura con dazi e barriere d’ingresso, anche se i flussi migratori vanno in ogni caso regolati. Occorre pensare a italiani che domani sappiano dialogare in modo pieno ed efficace con soggetti di altre culture. In tal modo, da un lato difenderemo realmente la nostra cultura5, e dall’altro permetteremo ai bambini italiani di acquisire le premesse per diventare a pieno titolo protagonisti nella grande famiglia delle culture di domani. 174

Educare alla mente multiculturale significa saper uscire fuori dal provincialismo culturale del presente. Se è vero che, per certi aspetti, il tempo culturale è quello in cui si vive, e che non è il tempo dei nostri padri (quando non c’eravamo), e nemmeno quello dei nostri figli (quando non ci saremo), per altri aspetti questo ancoraggio al presente è opacizzante e mentalmente coercitivo. Rischia di condurre a forme di assolutizzazione di ciò che è contingente. La cultura è un flusso di accadimenti in cui passato (tradizioni) e futuro (progetti) convergono per formare un presente transeunte. La mente multiculturale, oltre a superare i limiti spaziali della propria comunità culturale, è in grado di superare anche i limiti temporali del presente. Per questa ragione la mentalità multiculturale offre gradi di libertà e flessibilità inimmaginabili da chi è chiuso in una mente monoculturale. 6.1. Processi psicologici sottesi alla costruzione della mente multiculturale La mente multiculturale è un progetto educativo che implica una completa attenzione alle condizioni della vita quotidiana, nella prospettiva formativa rivolta ai futuri cittadini del XXI secolo. Innanzitutto, è in gioco l’apprendimento di lingue di altre culture. Imparare una lingua significa disporre di un’elevata quota di significati con cui gli altri comunicano e interagiscono fra loro. Questo apprendimento simbolico consente di appropriarsi per l’appunto del mondo dei simboli, in base ai quali si costruiscono le reti semantiche e le teorie esplicative degli accadimenti e della realtà. Consideriamo che il bambino, a partire dai tre-quattro anni circa, è facilitato nell’imparare altre lingue accanto a quella materna che rimane, in ogni caso, fondamentale come sistema di riferimento. È altresì evidente che l’acquisizione di una seconda lingua è una condizione necessaria ma non sufficiente per 175

l’apprendimento simbolico. L’apprendimento della lingua va infatti completato con l’appropriazione del sistema dei simboli, che comprende gli aspetti della comunicazione non verbale, i simboli istituzionali (dalla bandiera all’inno nazionale, ai monumenti, ai codici legali, ecc.), i simboli religiosi, il sistema delle credenze, ecc. Possedere la rete simbolica di una cultura vuol dire riuscire a districarsi nel labirinto dei significati e delle categorie da essa costruito nel corso del tempo. In secondo luogo, educare una mente multiculturale implica la capacità di appropriarsi della costellazione di valori, principi morali, norme e standard di una certa cultura. Significa altresì acquisire le focalità e sensibilità emotive della seconda cultura, apprendere il lessico e la semantica emotiva, elaborare modalità espressive (vocali, mimiche, gestuali, ecc.) delle emozioni secondo i vari contesti di uso. Qui è in gioco l’apprendimento emotivo e morale, che consente al novizio di muoversi in aree sensibili, complesse e spesso implicite di una data comunità culturale. In terzo luogo, educare una mente multiculturale implica la necessità di appropriarsi delle pratiche della vita quotidiana in uso presso una certa cultura, dall’alzarsi il mattino all’andare a letto la sera, dai saluti ai giochi individuali o di gruppo, dal mangiare alle varie forme di competizione o collaborazione. È il cosiddetto apprendimento pragmatico, che consente di segmentare il flusso dell’esperienza, di disporre di schemi di riferimento in modo flessibile e fluente, di organizzare le varie attività e priorità. In questo apprendimento assumono particolare importanza gli indizi contestuali e le informazioni sulla situazione contingente. Queste diverse forme di apprendimento e appropriazione passano attraverso l’esperienza, intesa come matrice culturale, maestra di vita e fonte di conoscenze, credenze, emozioni e valori. L’esperienza, in cui non vi è nulla di 176

preordinato e prefissato, implica un apprendimento camaleontico, in quanto rapsodico e contingente. A posteriori siamo in grado di porvi ordine, costruendo opportune categorie di riferimento e operando sintesi nella nostra mente. A priori siamo di fronte a qualcosa di atteso e persino di desiderato, ma anche d’imprevisto, d’ignoto e casuale. Progettare un apprendimento attraverso l’esperienza vuol dire far riferimento alla prospettiva degli script, che consentono l’organizzazione spazio-temporale, semantica e relazionale degli eventi. Non siamo in presenza di un apprendimento astratto e teorico, bensì pratico, concreto e partecipato. In questa prospettiva possiamo parlare di esperienza multiculturale, definibile come l’appropriazione mentale di modelli culturali differenti a fronte dello stesso accadimento. L’apprendimento attraverso l’esperienza implica la partecipazione fra esperto e novizio. Per la costruzione della mente multiculturale l’esperto non è necessariamente un adulto ma può essere un coetaneo nativo in un’altra cultura. L’apprendimento di diversi modelli culturali tramite un coetaneo costituisce una grande facilitazione, poiché le interazioni fra pari spesso avvengono mediante modalità ludiche. Nel gioco s’impara senza rendersi conto d’imparare. Da questo punto di vista le scuole hanno oggi grandi responsabilità educative. Il problema non è solo di favorire l’inserimento dei bambini stranieri, bensì di valorizzare questa condizione per consentire ai bambini italiani di formarsi una mente multiculturale. Il progetto di mente multiculturale implica quindi la consapevolezza che si tratti di un processo, in cui anche i mass media – in particolare, la televisione – possono portare un contributo significativo. Anziché essere focalizzata sull’intrattenimento e sui numeri dell’audience, la televisione avrebbe le potenzialità per essere una «buona maestra», se contribuisse in modo autonomo ad aumentare la 177

consapevolezza dell’opportunità di costruire una mente multiculturale presso gli utenti italiani. Le sue risorse dovrebbero essere impiegate non solo per la realizzazione di programmi di evasione, ma anche (e soprattutto) per attuare un progetto formativo nell’incremento della coscienza multiculturale dei cittadini italiani. 6.2. La mente multiculturale e i figli dell’immigrazione I figli dei migranti costituiscono la cartina di tornasole per verificare la presa di coscienza in merito ai rapporti fra diverse comunità culturali, nel nostro caso fra la cultura maggioritaria (quella italiana) e le altre culture minoritarie. Se alcuni sociologi ritengono che gli immigrati di seconda generazione rappresentino «una bomba sociale a scoppio ritardato» (Barbagli, 2002, 31), occorre verificare l’insieme delle condizioni e opportunità offerte loro all’interno della prospettiva multiculturale qui adottata. È difficile definire il concetto di «seconda generazione», poiché vi rientrano elementi fra loro molto eterogenei6. Oggi si sta diffondendo l’espressione «soggetti di origine immigrata» come onnicomprensiva e focalizzata sui fenomeni in oggetto. Questi soggetti sono stati considerati come un potenziale serbatoio di esclusione sociale, devianza, opposizione alla società ricevente e alle sue istituzioni. Vivono così in una condizione dissonante, generata dal contrasto fra una socializzazione culturale riuscita e l’esclusione sociale (Touraine, 1991). Secondo una prospettiva separatista, i figli degli immigrati restano svantaggiati e destinati all’esclusione. Il loro insuccesso scolastico sanziona la discriminazione sociale. Da qui discende il cosiddetto «paradosso dell’integrazione»: mentre i genitori rimanevano poco visibili, i figli si proiettano verso un arco molto più esteso di opportunità, ma andrebbero egualmente incontro a forme di discriminazione. Ne consegue una condizione di etnicizzazione della povertà. In questa prospettiva rientra anche 178

il concetto della downward assimilation, che prefigura l’assimilazione dei giovani di seconda generazione in comunità marginali, soprattutto nei ghetti urbani (Portes, 1995). In contrapposizione alla concezione separatista, quella assimilazionista prevede che i soggetti di seconda generazione siano inclusi, resi simili e incorporati nella cultura della società ricevente (Brubaker, 2001). Alcuni studiosi hanno parlato di «transizioni trionfanti» per sottolineare la rilevanza e il successo del passaggio culturale da parte dei giovani di seconda generazione rispetto ai loro genitori (Boyd e Grieco, 1998). Siamo dinanzi a una concezione integrazionista con conseguente diffidenza verso le diversità. Una terza strada, proposta da Portes (2004), sottolinea l’importanza dell’acculturazione selettiva, che consiste nell’apprendere la cultura del paese d’immigrazione nei suoi vari aspetti (lingua, usanze, pratiche, ecc.) e, contemporaneamente, nel mantenere dimestichezza con la cultura dei propri genitori. Tale prospettiva è pienamente in sintonia con quella della mente multiculturale qui delineata. Lo scopo dell’acculturazione selettiva non consiste tanto nella mera perpetuazione della comunità immigrata, bensì nella valorizzazione delle opportunità per i figli d’immigrati in ordine al successo scolastico e professionale nella società ricevente. Come si è detto, in questo processo di costruzione di una mente multiculturale, la scuola può svolgere una funzione molto importante in collaborazione con la famiglia. Mentre il sistema scolastico tedesco tende più precocemente a discriminare i figli d’immigrati grazie alla presenza di un test d’ingresso di «idoneità scolastica», quello francese favorisce maggiormente la mobilità sociale delle seconde generazioni (per esempio, i figli di operai algerini sono usciti dalla classe operaia con più frequenza dei figli di operai francesi; Tribalat, 1995). 179

L’acquisizione di una mente multiculturale anche da parte dei figli d’immigrati è in grado sia di consentire il senso di appartenenza alla nuova comunità culturale, sia di evitare sensi di colpa per aver tradito la cultura di origine. Domani saranno costoro a poter dare origine a nuove forme culturali, più fluide e composite. In conclusione, nel momento stesso in cui si riconoscono i limiti intrinseci della mente monoculturale, occorre altresì porre in evidenza che oggi non vi è nessuna cultura in grado di fornire soluzioni valide per tutte le culture ai vari livelli considerati (materiale, simbolico, espressivo). D’altra parte, la costruzione di una mente multiculturale va intesa come un progetto e una sfida che deve superare numerosi e rilevanti ostacoli. Potrebbe essere la prossima tappa prevista dall’evoluzione culturale della nostra specie. Oppure potrà accadere che ci troveremo di fronte a situazioni impreviste che ci richiederanno soluzioni diverse. Se le prospettive future rimarranno simili a quelle di oggi e se i flussi migratori continueranno in modo imponente, l’appropriazione di una mente multiculturale rappresenterà un passaggio obbligato, rispetto al quale genitori, politici, esperti dei media, operatori scolastici e sociali, ecc. avranno un’evidente e forte responsabilità.

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Note 1 Il «velo d’ignoranza» consente di valutare in modo impersonale i principi di giustizia su cui si definiscono i termini equi per la cooperazione sociale. 2 La visione liberista di Rawls appare una concezione astratta, assai difficile da tradurre in applicazioni pratiche. I concetti sia di «posizione originaria» sia di «velo d’ignoranza» appaiono più artifici filosofici che strategie concretamente declinabili e riproducibili (Habermas, 1997). Inoltre, il consenso per intersezione conduce a una concezione etica (e non semplicemente politica) dello Stato, in quanto propone una teoria comprensiva particolare della giustizia come equità. Tale visione normativa sfocia in un modello costituzionalista che, per sua natura, appare perpetuo e immodificabile. 3 Già Hegel (1806) aveva sottolineato che il riconoscimento passa necessariamente attraverso il reciproco riconoscimento. La lotta per il riconoscimento non può terminare con la soppressione di uno dei contendenti, poiché è indispensabile che chi è sconfitto riconosca il vincitore: dunque resa e sottomissione, non morte. Di conseguenza, se qualcuno desidera essere riconosciuto, deve riconoscere – a sua volta – coloro che dovranno riconoscerlo. Altrimenti, otterrà un riconoscimento vuoto e privo di valore. 4 Si consideri come esempio la ricerca di Morris e Peng (1994), in cui si mostrava un’ambigua figura (un pesce seguito da un gruppo di altri pesci simili) a studenti cinesi di Hong Kong presso università inglesi. Quando questi ricevono indizi contestuali cinesi (prodotti anche in modo casuale), interpretano la situazione secondo i criteri cinesi di attribuzione causale (primato delle responsabilità al gruppo e attenzione ai fattori situazionali esterni) e ritengono che il pesce isolato sia stato cacciato via dal branco. Al contrario, quando gli studenti ricevono indizi contestuali americani, valutano la situazione secondo i parametri occidentali di attribuzione causale (primato delle responsabilità all’individuo e attenzione a fattori disposizionali interni) e sostengono che il pesce isolato abbia le qualità del leader e che faccia da guida al branco. Parimenti, anche in alcune ricerche di Wong e Hong (2005), gli studenti cinesi di Hong Kong collaborano di più quando sono in presenza di un contesto cinese, mentre si mostrano assai più competitivi quando ricevono indizi contestuali americani. 5 La difesa della cultura italiana, come quella di ogni altra cultura, non passa attraverso la chiusura, l’isolamento, la costruzione di barriere. Se la difesa di una cultura consistesse in questo tipo di operazioni, essa finirebbe per scomparire, così come in passato sono scomparse tutte le culture che si sono limitate a difendersi. La difesa della cultura italiana, fondandosi sulla consapevolezza della propria ricchezza e distintività, necessita di futuri cittadini che sappiano interagire e dialogare in

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modo competente ed efficace con i protagonisti di altre culture vicine e lontane, in modo da diventare loro stessi testimoni della vitalità culturale della loro nazione. 6 Nella categoria «seconda generazione» sono inclusi i bambini nati e cresciuti nella società ricevente, gli adolescenti ricongiunti dopo aver percorso parte dell’iter scolastico nel paese di origine, i figli di coppie miste e di nomadi. Un nodo problematico consiste nel momento dell’arrivo: fino a che età è lecito parlare di «seconda generazione»? Rumbaut (1997) ha proposto una concezione graduata («decimale») della seconda generazione, proponendo la «generazione 1,5» (quella che ha iniziato il processo di socializzazione con la scuola primaria nel paese di origine, ma che ha poi completato gli studi all’estero), la «generazione 1,25» (quella che emigra fra i 13 e i 17 anni) e la «generazione 1,75» (quella che emigra all’estero prima del compimento del quinto anno d’età).

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Indice

Introduzione

v

I.

3

Che cosa è la cultura? 1. La cultura «dall’esterno» e «dall’interno», p. 4 1.1. La cultura vista «dall’esterno», p. 4 - 1.2. La cultura vista «dall’interno», p. 7 - 2. La doppia natura della cultura, p. 9 - 3. La cultura come eredità e adattatività, p. 12 - 4. La cultura fra mediazione e partecipazione, p. 16 - 4.1. Cultura come mediazione, p. 16 4.2. Cultura come partecipazione, p. 19 - Note, p. 24

II. Come gli uomini sono diventati uomini

26

1. Cenni sull’evoluzione della specie umana, p. 27 2. Coevoluzione fra gene e ambiente, p. 28 - 3. Premesse remote della cultura, p. 31 - 4. Premesse recenti della cultura, p. 35 - 4.1. L’avvento dell’agricoltura, p. 36 - 4.2. La nascita del linguaggio, p. 37 - 4.3. Cooperazione e inibizione, p. 45 - 4.4. La teoria della mente, p. 47 - 5. Evoluzione della cultura, p. 48 - 5.1. L’evoluzione culturale fra meme e istruzione, p. 50 5.2. Accumulazione e innovazione, p. 53 - Note, p. 56

III. Il bambino: da organismo biologico a soggetto culturale 1. L’immaturità psicobiologica del neonato: uno svantaggio o una fortuna?, p. 60 - 2. La dotazione di partenza, p. 63 - 2.1. L’interdipendenza gene-ambiente, p. 63 2.2. La competenza sociale, p. 64 - 3. La svolta dei nove mesi e la comparsa dell’intenzionalità, p. 69 - 4. L’acqui-

205

60

sizione del linguaggio e della teoria della mente (altrui), p. 72 - 5. In che modo si costruisce la mente culturale, p. 75 - 5.1. L’apprendimento imitativo, p. 77 - 5.2. L’insegnamento attivo, p. 78 - 6. La cultura come apprendimento, p. 80 - Note, p. 82

IV. I modelli culturali

84

1. Modelli culturali e mente umana, p. 85 - 1.1. Modelli culturali ed esperienza, p. 86 - 1.2. I modelli culturali non sono moduli mentali, p. 88 - 2. I modelli culturali come prospettiva, p. 89 - 2.1. La cultura fra oggettivismo, costruzionismo e realismo critico, p. 89 - 2.2. Aristotele e Confucio, p. 93 - 3. Modelli culturali e credenze, p. 96 - 4. Modelli culturali ed emozioni, p. 100 4.1. Modelli culturali e semantica emotiva, p. 100 4.2. Modelli culturali e focalità emotiva, p. 102 4.3. Modelli culturali e manifestazione delle emozioni, p. 104 - 5. Modelli culturali e rapporti sociali, p. 106 Note, p. 109

V. La mente monoculturale

116

1. Perché siamo così diversi?, p. 118 - 2. Identità e confronto culturale, p. 121 - 3. Il fondamentalismo culturale, p. 125 - 3.1. Il vecchio e il nuovo razzismo, p. 127 3.2. La psicologia del confine culturale, p. 129 3.3. L’assolutismo morale, p. 132 - 4. Il relativismo culturale, p. 135 - 4.1. Il relativismo morale, p. 137 - 4.2. Limiti del relativismo culturale, p. 138 - 5. Conseguenze della mente monoculturale, p. 140 - Note, p. 144

VI. La mente multiculturale

148

1. Dal multiculturalismo al multiculturale, p. 149 2. Creolizzazione e ibridazione, p. 155 - 3. In che modo si costruisce una mente multiculturale?, p. 158 4. Vantaggi della mente multiculturale, p. 163 4.1. Mente multiculturale e apertura mentale, p. 164 4.2. Mente multiculturale e psicologia della frontiera, p. 166 - 4.3. Mente multiculturale e tolleranza, p. 169 5. Mente multiculturale e pluralismo morale, p. 171 6. Educare alla mente multiculturale, p. 174 - 6.1. Processi psicologici sottesi alla costruzione della mente multiculturale, p. 175 - 6.2. La mente multiculturale e i figli dell’immigrazione, p. 178 - Note, p. 181

Riferimenti bibliografici

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